STEVE MARTINI PUNTO DI FUSIONE (Critical Mass, 1998) Questo libro è dedicato a quei generosi scienziati, uomini e donne,...
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STEVE MARTINI PUNTO DI FUSIONE (Critical Mass, 1998) Questo libro è dedicato a quei generosi scienziati, uomini e donne, che lavorano per combattere il pericolo della proliferazione delle armi nucleari, e in particolare a coloro che operano nella Federazione Russa e che sono riusciti, lottando contro l'impossibile, a tenere chiuso nella sua lampada il genio mortale. Ci sono state persone, a Hiroshima, le cui ombre furono impresse dall'esplosione sui muri di cemento degli edifici e sul selciato. Queste ombre si possono vedere ancora oggi. Alcuni dei corpi che le hanno generate non sono stati mai ritrovati. È come se non fossero mai esistiti. Ci sono individui che hanno visto quelle ombre calcinate sul terreno e che le considerano semplici curiosità storiche, immagini di un tempo passato. Se è veramente questo ciò che significano oggi, allora quelle ombre sono davvero gli angeli dell'indifferenza. PROLOGO A ovest di capo Flattery e dello stretto di Juan de Fuca La Dancing Lady non era certo una bellezza. Ventun metri di lamiere d'acciaio saldato, con le fiancate striate di ruggine simile a sangue secco. La prua col suo castello rialzato fendeva le acque scure a ovest dell'isola di Vancouver alla velocità di sette nodi. L'imbarcazione risaliva le creste delle onde e si tuffava nei cavi susseguenti che si facevano sempre più profondi, cercando disperatamente di mantenere l'andatura in condizioni atmosferiche che stavano rapidamente diventando proibitive. Il normale equipaggio di cinque persone era ridotto a tre: il comandante Nordquist, suo figlio, e un altro marinaio che era come di famiglia e, visto che era come di
famiglia, lavorava gratis. La barca era un robusto peschereccio per la pesca a strascico, con due motori diesel accoppiati, progettato per la navigazione in mare aperto. Sul ponte di poppa si trovava un solido aspo su cui era avvolto quasi un chilometro di rete a maglia aperta, l'armamento di copertura per questa uscita. La Lady era un peschereccio d'alto mare, un'imbarcazione da lavoro che da quelle parti era comune come i chiodi da otto centimetri. Per questo l'avevano scelta. Sarebbe passata inosservata anche a una sorveglianza aerea. Rollava sulle creste per poi sprofondare nel cavo tra un'onda e l'altra. Dai tubi flessibili che facevano funzionare il pesante braccio di carico gocciolava fluido idraulico, e uno dei due motori aveva bisogno di una revisione ormai da più di mille ore, ma Nordquist non aveva i soldi per le riparazioni. Pur lavorando diciotto ore al giorno in un mare che gelava le ossa e con un'attrezzatura incrostata di ghiaccio, Nordquist stava andando in rovina. Sua moglie faceva la spesa allo spaccio dei poveri, e le ipoteche sull'imbarcazione erano scadute da tempo. Tuttavia il governo federale non faceva nulla per impedire ai canadesi di depauperare il tratto di mare a ovest dell'isola di Vancouver. Avevano distrutto i banchi di salmoni nel nord-ovest e ora erano impegnati a tirare su dal fondo tutto quello che riuscivano a trovare. Nordquist e i suoi concittadini non si potevano permettere le elargizioni necessarie a convincere i loro rappresentanti al governo a fare qualcosa. Guardò oltre la prua dalla timoneria. L'imbarcazione continuava a perdere giri dal motore di dritta. Nordquist doveva lottare per tenerla in rotta nelle onde che crescevano. Si sollevavano di fronte a lui come montagne minacciose, un attimo prima erano lì davanti e l'attimo dopo non c'erano più. La Lady cominciava a infilare la prua nelle onde. Il tempo stava peggiorando. Con lo sguardo fisso verso ovest, suo figlio cercava di trovare l'orizzonte attraverso i binocoli da cinquanta ingrandimenti. «Oh, merda.» Non c'era bisogno che il ragazzo dicesse altro. Nordquist guardò oltre il giovane e la vide: un muro d'acqua di dieci metri che precipitava su di loro, contro la murata di dritta. Fece roteare il timone verso destra, e trent'anni di esperienza sul mare guidarono la prua dell'imbarcazione attraverso il colossale muro d'acqua come un coltello. La cresta si rovesciò tutt'intorno alla timoneria e squassò l'acciaio della Lady fino alla chiglia. Lo scafo s'infilò dentro l'onda e usci beccheggiando dal versante opposto. L'onda aveva scaraventato il ragazzo sul ponte. Se ne stava lì, sopraffat-
to dallo stupore, e fissava suo padre, meravigliandosi per la sua capacità di concentrazione anche di fronte alla morte. L'Isvania era una carcassa arrugginita, un residuato di quella che una volta era stata la potente flotta da pesca sovietica. Era stata condannata alla demolizione l'anno precedente, ma anche questo programma, come tutto il resto nella nuova Russia, segnava il passo. Era arrivata all'ultimo viaggio: si stava dirigendo verso il suo cimitero. Aveva attraversato il mare di Bering, infilandosi tra le Aleutine e il golfo di Alaska, dirigendosi poi a sud lungo la costa del Canada. Le sue stive, a prua e a poppa, erano vuote a eccezione di un leggero carico di rottami. Nella cassaforte del comandante c'erano i documenti che trasferivano la proprietà della nave a un cantiere di demolizione appena fuori Bangkok. Navigava con un equipaggio ridotto di sette uomini e aveva fatto solo una breve sosta a Prince Rupert, sulla costa canadese, per imbarcare un piccolo quantitativo di legname, che ora giaceva accatastato sui ponti. Si trattava di una copertura nel caso la nave fosse stata fermata e abbordata dalle autorità costiere, la giustificazione per aver attraversato il mare di Bering e aver navigato così vicino alle coste americane. Le polizze di carico indicavano che il legname doveva essere consegnato a Oakland, in California, ma il comandante non aveva alcuna intenzione di andare fin laggiù. Una volta che l'Isvania si fosse liberata del suo vero carico, il legname sarebbe stato gettato fuori bordo. A quel punto la nave si sarebbe diretta a ovest e poi a sud, verso l'oceano Indiano e al luogo del suo eterno riposo. Il timoniere accostò cinque gradi a sinistra, mentre il comandante, Jurij Valentok, si sforzava di vedere qualcosa all'orizzonte attraverso il binocolo. L'Isvania stava imbarcando acqua nella stiva di prua e rispondeva con crescente lentezza ai comandi dentro i cavi delle onde che si facevano sempre più profondi. Per il momento le pompe di sentina riuscivano a tenere il problema sotto controllo, ma Valentok non era sicuro di quanto avrebbero potuto reggere. Attraverso il binocolo non riusciva a vedere un accidente. Le gocce di pioggia portate dal vento colpivano la finestratura del ponte come proiettili. Solo uno dei tergicristalli funzionava, ed era inutile. La bruma sollevata dal vento e la schiuma delle onde creavano una foschia impenetrabile. Il comandante riusciva a malapena a vedere la prua della sua nave. E, come se non bastasse, il radar era fuori servizio. Aveva smesso di funzionare da quando la nave aveva lasciato Vladivostok. Per due volte erano stati costretti a fermarsi completamente all'interno dei cor-
ridoi di navigazione per paura di andare a sbattere contro le altre navi. Si erano affidati alla sirena da nebbia e avevano sperato che le altre navi li individuassero sui loro radar. L'Isvania era come tutto il resto nel loro Paese in rovina: cadeva a pezzi e non c'erano i soldi per le riparazioni. Valentok aveva a bordo un'altra polizza, per il suo vero carico, ma doveva essere usata solo in caso d'emergenza, se la sua nave fosse stata costretta a entrare in porto. La polizza era falsificata. Se quel carico fosse stato scoperto, il comandante avrebbe sostenuto che non ne conosceva la natura. Dubitava che questo avrebbe funzionato con le autorità americane; specialmente visto di che cosa si trattava. Avrebbe passato parecchio tempo a rispondere alle loro domande, e forse parecchio tempo in prigione. Si chiedeva se le prigioni americane fossero meglio di quelle russe. Andò alle sue carte di navigazione e si puntellò contro una delle gambe di metallo del tavolo. Controllò ancora una volta la posizione della nave. Se i suoi calcoli erano giusti, si trovavano esattamente 112 miglia a ovest dello stretto di Juan de Fuca, il passaggio per il Puget Sound e per la città americana di Seattle. Il comandante non era mai stato negli Stati Uniti, ma alcuni suoi amici, di recente, li avevano raggiunti via mare, a bordo di una nave simile all'Isvania, una bagnarola divorata dalla ruggine e pronta per essere demolita. Stava diventando un'abitudine per le navi da pesca russe. Passati i controlli della dogana e dell'ufficio immigrazione, non appena i funzionari americani lasciavano la nave, l'intero equipaggio, compreso il comandante, saltava fuori bordo per iniziare una nuova vita in una nuova terra. Lasciavano che fossero gli americani a occuparsi dei rottami. Valentok pensò che sarebbe piaciuto anche a lui andare laggiù un giorno o l'altro, quando tutto quello fosse finito, magari proprio a Seattle. Quattro miglia più a est, sotto una pioggia battente, su un mare impetuoso, Jon Nordquist stringeva la ruota del timone della Dancing Lady con mano salda. Usò tutto il peso del corpo per contrastare la forza di un gigantesco frangente che, dopo essere scivolato sotto lo scafo, aveva colpito in pieno la pala del timone. L'imbarcazione sbandò violentemente a dritta. Per un istante pensò che avrebbe potuto non tornare indietro. Ma poi cominciò a rispondere al timone, lentamente. «Là fuori sta diventando un casino. Non riesco a vedere un accidente.» Ben teneva la faccia premuta contro la campana che copriva lo schermo del vecchio radar Furano. «Come diavolo si aspettano che facciamo a tro-
varlo?» «Tu continua a guardare.» Nordquist lanciò un'occhiata veloce al figlio e poi tornò a rivolgere la propria attenzione alle onde grandi come montagne che incombevano davanti a loro, facendo apparire microscopico lo scafo di ventun metri. La loro barca era come un fuscello in un torrente. Le onde gigantesche creavano immagini verdi e fantastiche sullo schermo, come isole che s'innalzavano dal fondo del mare. Alla seguente passata del fascio del radar erano sparite. «Potrebbe anche passarci sopra e noi non ce ne accorgeremmo neppure.» Ben era spaventato, e si vedeva. Aveva già navigato col mare in burrasca, ma niente di quel genere. Il pensiero della collisione era passato per la mente di Nordquist, ma era toccato al figlio parlarne. Per il momento era più preoccupato di straorzare e capovolgersi sotto il fronte di un'onda, di andare giù di naso e di non tornare più su. «Niente.» Ben spinse la testa più vicina allo schermo del radar, fintanto che la pressione sulla fronte non gli fece realmente male. «E poi, anche se lo troviamo, come diavolo facciamo a issarlo a bordo in questo casino?» «Un problema alla volta», rispose il padre. Diede un'occhiata all'orologio. Tirò fuori della tasca un piccolo oggetto nero di plastica, poco più grande di un calcolatore. Coi denti estrasse una minuscola antenna di dieci centimetri, pigiò un paio di bottoni, e poi attese, un occhio fisso sul mare e l'altro sul ricevitore GPS portatile che teneva in mano. Comparvero due set di numeri, uno sopra l'altro, a indicare longitudine e latitudine. Il ricevitore portatile non era affidabile e preciso come i suoi cugini maggiori operati da computer fissi sulle navi più grandi, ma, nonostante tutto, era improbabile che si sbagliasse di più di un centinaio di metri. In quella posizione, la nave russa non avrebbe dovuto trovarsi più di un quarto di miglio a dritta, sempre che fosse in orario e non si fosse persa. Non c'era modo di comunicare via radio. Le altre navi avrebbero sicuramente raccolto il segnale, e forse anche la Guardia costiera. Pattugliava quelle acque anche a duecento miglia dalla costa, il limite della sua giurisdizione. Aveva a disposizione satelliti e aerei, e li usava per contrastare il traffico di droga e intercettare le navi che trasportavano carichi umani, cercando di scaricarli sul suolo americano. Era improbabile che due navi riuscissero a incontrarsi in mare aperto e passare inosservate. Per questo motivo era stata messa a punto un'accurata procedura di abbandono e recupero del carico. Ma avrebbe funzionato con quel tempo? Nordquist non lo
sapeva. Nessuno aveva previsto la peggior tempesta del secolo. Mise la nave con la prua al vento. «Pari avanti adagio.» Valentok non poteva aspettare. E poi il carico che trasportava non era qualcosa che volesse tenere a bordo un istante più del necessario. Lasciamo che siano gli americani a trovarlo, pensò. Era stato pagato profumatamente per trasportarlo, ma ora esso era un loro problema. Diede ordine di aprire i portelloni della stiva di poppa e di posizionare l'albero di carico sopra il boccaporto. Mandò il suo secondo a poppa per controllare le operazioni e rimase fuori a guardare dall'aletta di plancia di dritta, mentre il gancio di carico scivolava dentro la stiva e scompariva. Attese un paio di minuti carichi di ansia. Parvero un'eternità. Il gancio risalì attaccato al cavo d'acciaio. Valentok lo vide. Era infilato in un pesante anello di metallo. All'anello era collegata una rete circondata da tre grosse boe galleggianti. L'insieme dava l'idea di una borsa chiusa alla sommità da una stringa. Dentro la rete c'era un oggetto avvolto in un telone di canapa. Non era grosso - più o meno come una lavatrice - ma pesante per le sue dimensioni, anche se questo non costituiva certo un problema per il robusto paranco della nave. Venne sollevato facilmente sopra il ponte e fatto ruotare verso la poppa dell'Isvania. Lentamente scivolò in mare, appeso al cavo che scendeva. Valentok osservava le operazioni con la schiena rivolta a prua, quando sentì un urlo provenire dalla plancia. Si voltò e lo vide, illuminato dal bagliore di un lampo. Un peschereccio d'alto mare stava venendo verso di loro, scendendo a rotta di collo dal versante di un'onda in arrivo, con gli oblò del castello di prua che brillavano alla luce del lampo. «Tutta la barra a sinistra.» Senza riflettere Valentok diede l'ordine di virare. La nave si trovava ancora nel cavo dell'onda. Il timoniere non fece obiezioni e girò veloce la ruota del timone. L'Isvania cominciò a sbandare a dritta. Mentre s'inclinava, il luminoso muro d'acqua bianco-verde la investì sulla sinistra della prua come un'onda di marea. L'onda spazzò il ponte di prua e si abbatté contro la finestratura della plancia, sette metri più in alto, mandando in frantumi i vetri come un colpo di artiglieria. Un muro d'acqua alto una decina di metri si rovesciò giù per la scala di boccaporto di dritta mandando a sbattere uomini e attrezzature contro la paratia e trascinandoli poi fuori bordo. Come il Niagara, avanzò verso l'enorme boccaporto spalancato della stiva di poppa. Migliaia di tonnellate di
acqua verde si rovesciarono oltre i battenti dentro le viscere della nave. Fu solo la presa sul parapetto a impedire a Valentok di essere trascinato fuori bordo dalla forza dell'acqua. Mentre le sue dita si serravano come una morsa d'acciaio, si trovò a contemplare la strana sensazione di venire completamente sommerso dal mare mentre si trovava ancora sul ponte di comando della propria nave. Aspettò che l'onda passasse, aspettò un'eternità. Trattenne il fiato finché non sentì i polmoni in fiamme, finché non si rese conto che né lui né la sua nave sarebbero tornati a galla. Si capovolse davanti ai suoi occhi. Nordquist ebbe la fugace visione di una chiglia incrostata di denti di cane e di due gigantesche eliche di bronzo che continuavano a girare mentre la nave si rovesciava. Poi, prima di riuscire a sbattere le palpebre, la nave russa venne inghiottita dal mare. Rimase immobile al timone, stordito, le ginocchia paralizzate, mentre un sudore gelido gli scendeva sul viso. Ma presto fu riportato alla realtà dal sobbalzo della Lady che si tuffava verso il fondo del cavo dell'onda. Trattenne il fiato, chiedendosi se il muro d'acqua che si alzava di fronte a lui avesse in serbo una sorpresa mortale: un centinaio di tonnellate di acciaio russo contorto che rotolavano appena sotto la superficie. Si aggrappò al timone, con le nocche bianche per lo sforzo, e attese lo stridore del metallo che squarciava il metallo. I diesel scesero di giri mentre la Lady si arrampicava sul versante dell'onda e sembrava superarla, incolume. Schizzò a galla come un proiettile proprio di fronte a lui, e Nordquist lo vide soltanto di sfuggita prima di sentirlo sbattere contro lo scafo: un grosso fascio di legname, ancora legato dalla sua banda metallica. Rotolò sotto la chiglia della Lady come un gigantesco ceppo squadrato. Nordquist mise i motori in folle, cercando disperatamente di salvare le eliche. Sentì il fascio che rimbalzava lungo lo scafo e lo vide tornare in superficie alle loro spalle. Era voltato di schiena, così ne ebbe solo una fugace visione quando si girò. Lassù, in mezzo alla schiuma biancastra della cresta dell'onda successiva c'erano tre grosse boe arancioni. Sparirono dietro l'onda. «Le hai viste?» chiese Nordquist, indicando il punto al figlio. L'attenzione di Ben era concentrata verso poppa, nel punto in cui la nave russa era stata inghiottita dal mare. «Non dovremmo tornare indietro?» Ora era voltato verso il padre. «E perché?»
«Forse qualcuno di loro è ancora vivo.» «Nessuno di loro è vivo», disse Nordquist. «Come fai a esserne sicuro?» «Pensi che riusciresti a sopravvivere a una cosa del genere?» La risposta era ovvia per entrambi. Eppure il ragazzo voleva fare la cosa giusta. «Potremmo dare un'occhiata», insisté. «A che scopo? Per farci sentire meglio?» «Se si trattasse di noi...» «Non si tratta di noi. Conoscevano i rischi.» Nordquist non provava molto amore per i russi. Nell'ultimo anno, il suo peschereccio era stato urtato per ben due volte da imbarcazioni russe più grandi della sua che cercavano d'intrufolarsi nelle zone di pesca migliori. Arrivavano con le loro navi e prendevano quello che volevano. Se ti mettevi in mezzo, ti tagliavano in due. «Non discutere con me. Accendi quell'arnese.» Continuando a lottare col timone, il vecchio fece un cenno con la testa verso una scatola metallica di colore grigioverde montata sul banco di comando. Col mare sempre più grosso, il ragazzo dovette faticare parecchio per tornare indietro dall'altra parte della timoneria, verso lo schermo radar e la scatola metallica montata accanto. Fece scattare l'interruttore e l'urlo del segnale a momenti gli perforò i timpani. Allungò la mano verso una manopola sul lato e smorzò il volume. Il ricetrasmettitore subsonico era un residuato militare russo e faceva parte dell'accordo. Riusciva a captare un segnale a più di cento miglia. Ma questo arrivava da un trasmettitore molto vicino. Non lo si poteva ascoltare sulle normali bande radio marittime. Era un'attrezzatura d'emergenza nel caso le due imbarcazioni non si fossero incontrate in mare aperto. Le boe erano progettate per rimanere a galla quattro giorni e poi affondare col loro carico se nessuno le avesse raccolte. Il trasmettitore subsonico avrebbe emesso il suo segnale per tutto questo tempo, finché non fosse andato a fondo. A quel punto la pressione dell'acqua lo avrebbe distrutto. Il segnale era la conferma. In qualche modo i russi erano riusciti a calare il carico prima di affondare. «Come...?» Il ragazzo guardò verso il padre. Nordquist scosse la testa. Non sapeva che cosa dire. La Lady risalì l'onda seguente e Nordquist le vide nuovamente. Si stava rapidamente avvicinando alle boe arancioni. Se non fosse stato attento, ci
sarebbe passato sopra, restando impigliato con le eliche nella rete o nelle funi. Senza propulsione, nel mare in burrasca, avrebbero velocemente raggiunto i russi sul fondo. «Vai al verricello. Di' a Carlos di venire su.» «E le pompe?» «Lascia perdere le pompe. Adesso dobbiamo tirare a bordo quell'affare.» Il figlio di Nordquist uscì dalla porta della cabina, diretto verso il ponte scoperto di poppa. Il vecchio mise la Lady con la prua al vento e ridusse la potenza a quel tanto che bastava per governare nel mare in burrasca. Questo gli dava la possibilità di manovrare lateralmente con un avanzamento quasi nullo. Attese: sarebbe stato il mare a portare le boe verso di lui. Potevano contare su un unico tentativo per effettuare il recupero. Se fallivano, prima che fossero riusciti a virare di bordo con quel mare, avrebbero perso il contatto visivo. Sarebbero stati obbligati a ricorrere al segnale subsonico per rintracciarle. Nordquist era stato avvisato di recuperare il carico il più presto possibile e di spegnere o distruggere l'apparecchiatura. La Guardia costiera poteva anche non raccogliere il segnale, ma i sottomarini americani, i cosiddetti «sub killer», che davano la caccia ai loro equivalenti russi, erano in ascolto su queste frequenze. Se si fossero incuriositi, avrebbero anche potuto venire a dare un'occhiata. Nordquist le vide ballonzolare sulla cresta dell'onda come barili arancioni. Legato sotto di esse, probabilmente a una profondità di cinque metri, c'era il carico, avvolto in una rete. Non aveva idea del suo peso o delle dimensioni, ma il fatto che i russi si fossero rovesciati gli fece venire il dubbio che fosse pesante. Forse, a farli capovolgere, era stato questo nonché l'onda che li aveva investiti sul fianco con un carico così pesante sospeso fuori bordo. Se i russi non erano riusciti a governarlo, come poteva riuscirci lui? Nordquist manovrò, usando insieme il timone e i comandi dei due motori. Allineò la Lady in modo che il carico le passasse a dritta. Allertò i due uomini a poppa usando l'altoparlante, poi si voltò e scorse il figlio che si sporgeva fuori bordo per guardare meglio. Gli uomini fecero girare il braccio di carico al di sopra della fiancata e, con l'aiuto di un lungo rampone, guidarono il gancio verso le boe, mentre la corrente le spingeva lungo il fianco dell'imbarcazione. Nordquist sentì il cavo della rete raschiare il fondo della barca mentre il carico passava sotto di loro. All'improvviso la Lady sbandò violentemente a dritta. Il gancio aveva
catturato le boe. La resistenza dell'acqua fece sì che l'imbarcazione iniziasse una lenta, esitante virata nel cavo dell'onda, una sbandata di dieci, quindici gradi. Era questo che temeva il vecchio: venir bloccato nel cavo di un'onda ed essere investito da un'altra di poppa. La classica straorzata. La Lady avrebbe cominciato a inclinarsi e si sarebbe capovolta. Diede un colpetto ai comandi del motore di dritta, fornendo all'imbarcazione più spinta da quella parte, poi portò la barra di pochi gradi a sinistra. Questo condusse la prua della Lady dentro l'onda con un'angolazione di quarantacinque gradi. I motori sforzarono mentre l'imbarcazione risaliva il muro d'acqua, trascinandosi il carico lungo il bordo. I due marinai lottarono coi comandi del verricello e finalmente riuscirono a far girare il braccio di carico intorno allo specchio di poppa. Tennero il carico a mezza nave e nell'acqua, neutralizzandone il peso, aspettando un momento di tregua per tentare di issarlo a bordo. Mentre guardava da uno degli oblò di poppa della timoneria, Nordquist provò a stabilizzare l'imbarcazione. Vide che dall'aspo del verricello si alzavano fumo e vapore. Il carico era troppo pesante. Nonostante l'ululare del vento riusciva a sentire il fischio della frizione che cercava d'ingranare per tirare il carico fuori dell'acqua. Vide i cavi legati sotto le boe risalire lentamente dalle profondità. Un'altra onda e Nordquist non sapeva più che fare. Poteva soltanto sperare che il peso del carico non fosse ancora fuori dell'acqua. Guardando fisso in avanti, manovrò abilmente usando timone e motori per tenere dritta l'imbarcazione. Il carico che arava nell'acqua agiva come un'ancora galleggiante e in effetti gli stava dando una mano. Per adesso era dalla sua parte. Il momento in cui l'avessero tirato fuori dell'acqua, sarebbe stato un altro paio di maniche. Se un'ondata li avesse investiti, il carico avrebbe cominciato a ondeggiare come un pendolo. Il suo peso avrebbe potuto farli capovolgere. L'imbarcazione parve affondare nell'acqua. Il verricello era ripartito, del fumo si alzava dall'aspo che girava adagio. Nordquist vide per la prima volta la rete. Si stava sollevando lentamente, gocciolando acqua sulla poppa. Il telone avvolto intorno al carico si era aperto e riempito d'acqua, aumentando il peso. Si sollevò lentamente, fintanto che non uscì dall'acqua e rimase appeso sopra il ponte. Un'altra onda investì la prua della Lady, e il carico cominciò a oscillare seguendo il movimento delle onde. Il ragazzo non attese. In preda al panico, spinse in avanti la leva del verricello e l'intero carico piombò sul ponte di poppa. Ci fu uno scroscio fragoroso quando
il carico precipitò sul ponte, deformando una delle lamiere. Frammenti di legno e tonnellate d'acqua si rovesciarono fuori del telone, come questo si strappò lungo un lato. Una piccola sfera argentata grande quanto un pompelmo rotolò fuori dell'involucro distrutto e attraversò il ponte di acciaio. Andò a sbattere contro il parapetto con un colpo sordo e prese a rotolare all'indietro seguendo le oscillazioni dello scafo. I due uomini rimasero immobili, sbalorditi, lo sguardo incollato a quell'oggetto che ora correva libero sul ponte della Lady. Nordquist lo vedeva dall'alto della timoneria. I due si mossero, cercando di contenerlo in un angolo, ma erano troppo lenti. La Lady si sollevò sulla cresta di un'onda e la pesante sfera di metallo rotolò lungo il passaggio sotto il castello per sbucare poi sulla prua. Sul ponte di metallo faceva lo stesso rumore di una palla da bowling. Nordquist la sentiva sbattere contro attrezzature e paratie. L'unica cosa che la tratteneva a bordo erano gli alti parapetti. Rotolò per l'imbarcazione come una pallina da flipper, andando a sbattere contro il portello di un boccaporto. Nordquist si rese conto che la sfera era densa e molto pesante. Non sapeva con esattezza di che cosa si trattasse, ma lo immaginava. I tizi di Deming e di Sedro-Woolley non gli avevano spiegato tutto, però gli avevano dato indicazioni sufficienti a metterlo in guardia. Cercò di avvisare il figlio con gesti frenetici della mano. Alla fine afferrò il microfono e premette il pulsante dell'altoparlante. «Sta' lontano! Indietro!» Le sue parole echeggiarono dall'altoparlante montato sul tetto della timoneria. Il ragazzo alzò lo sguardo verso di lui con un'espressione ansiosa. Avevano navigato per giorni nel mare in burrasca, evitato per un pelo una collisione coi russi ed erano riusciti a strappare il carico dalle grinfie della tempesta. Non aveva intenzione di farselo sfuggire proprio adesso. Il ragazzo si tuffò sul ponte cercando di bloccarlo con le mani tese contro il parapetto di acciaio. Vi appoggiò sopra le dita e ve le tenne mentre Carlos arrivava a dargli man forte. «No!» urlò Nordquist dall'altoparlante. Riuscirono a fermare la sfera, spingendola contro il parapetto e trattenendola con le dita nude. Pareva che avesse ricoperto le loro mani di qualcosa di simile a gesso scintillante. La sostanza polverosa riempì l'aria e fluttuò lentamente verso la paratia di acciaio sotto la finestratura della timoneria. La sfera era come una sostanza magica, molto pesante. Nessuno di loro aveva visto una cosa simile prima di allora.
Dall'alto, Nordquist osservava la scena a bocca aperta e con espressione preoccupata. Per qualche strano motivo aveva capito. Sapeva che suo figlio era un uomo morto. 1 Friday Harbor, Stato di Washington Scoppiata a trentadue anni. Ne aveva avuto abbastanza. Criticano Los Angeles, ma non è colpa del posto, è colpa della gente. Sono in troppi. Lincoln, nel suo discorso del 4 marzo 1861, parlò dei «migliori angeli della nostra natura», ma anche gli angeli hanno i loro limiti. Mettili in un dedalo congestionato, pompaci dentro caldo e aria inquinata e vedrai quanto ci mettono a strapparsi le ali a vicenda. Quelle di Joselyn Cole erano sparite da tempo. Due anni prima aveva detto basta. Venduti i mobili, messo in vendita l'appartamento a Marina del Rey, si era messa in cerca di una nuova vita. Si era diretta a nord, lungo la costa, e aveva proseguito, leggendo i cartelli che indicavano il numero degli abitanti strada facendo. Dopo tre settimane di viaggio su strade secondarie, prendendosela comoda, aveva scoperto di non poter andare oltre, a meno di passare il confine. Così aveva lasciato la strada e preso un traghetto. Al primo scalo era scesa, si era guardata intorno e aveva deciso che era arrivata a casa. Friday Harbor, nelle San Juan Islands, si trovava a un'ora e mezzo di navigazione da Anacortes, nello Stato di Washington, ma avrebbe anche potuto trovarsi sulla luna. L'isola era piccola, la città ancora di più. Alcuni affermavano che era una versione in miniatura di Martha's Vineyard. Joselyn ci credeva sulla parola, non essendoci mai stata. Scoprì che si trattava di un posto tranquillo e che la gente, pur badando ai fatti propri, era per la maggior parte cordiale. Una volta che gli isolani si furono resi conto che aveva intenzione di rimanere, lei diventò una di loro. L'accettarono immediatamente. Nel giro di una settimana, i commessi del piccolo negozio di commestibili la chiamavano per nome. Le ci volle qualche mese per superare l'esame di ammissione all'ordine degli avvocati dello Stato di Washington. Fatto questo, aprì uno studio e appese fuori la targa: JOSELYN COLE - PROCURATORE LEGALE. Quelli che la conoscevano da più di una settimana la chiamavano Joss. Il lavoro era scarso. Si era occupata di alcuni casi legati alla droga, princi-
palmente coltivazioni di marijuana in serre ricavate in case o vecchi granai, e riscaldate con generatori abbastanza grandi da illuminare una cittadina. I federali riuscivano a localizzarle con rilevatori termici, strumenti in grado di captare il calore emanato da una torcia elettrica attraverso un muro spesso quindici centimetri. L'arcipelago di San Juan conta più di quattrocento isole, alcune poco più di un grappolo di scogli che scompaiono con l'alta marea. Ma, con un confine internazionale a poche miglia di distanza in mare aperto, lo Stato di Victoria a ovest e Vancouver a nord-est, le isole erano un paradiso per i contrabbandieri. Joss ringraziava il cielo per questo. Coi processi ai piccoli coltivatori di droga, un caso di guida in stato di ubriachezza ogni tanto e qualche divorzio riusciva a sbarcare il lunario, adattandosi. Imparò che era possibile sopravvivere anche senza videoregistratore o, se per quello, pure senza televisore. Il venerdì sera si trovava ad ascoltare Jimmy Buffet su uno stereo che aveva comprato quand'era ragazzina. Stava a poco a poco leggendo tutti i libri della biblioteca locale. Talvolta, perdendo di vista la propria situazione finanziaria, faceva una follia e si concedeva un libro in edizione economica. In inverno faceva buio alle quattro e le strade di Friday Harbor di solito apparivano deserte. La maggior parte delle attività commerciali estive erano chiuse. Come gli orsi, i pescatori e gli altri lavoratori s'infilavano nella prima tana che riuscivano a trovare, in genere i pochi bar dimessi, ritrovo preferito della gente del posto. Era d'inverno che scoprivi chi era veramente un duro. Seduta alla scrivania, Joss fissò la faccia di uno di questi duri, segnata dalle intemperie al punto di sembrare di cuoio; l'unica nota delicata erano gli occhi marrone da bassotto che la fissavano. «Ci dev'essere qualcosa che lei può fare. Almeno costringerli a pagare le parcelle del dottore.» George Hummel sorrideva, ma lei capiva che era spaventato. Quell'uomo non era esattamente il ritratto della salute. Gli sanguinavano le gengive e i capelli gli cadevano come paglia secca. Hummel era un pescatore, almeno era questo che faceva per vivere se non stava troppo male. Era un suo cliente, uno dei cinque pescatori che stavano cercando di costringere lo Stato a pagar loro un assegno d'invalidità per quella che, affermavano, era una malattia provocata dall'inquinamento industriale. Tutti i cinque uomini presentavano gli stessi sintomi: macchie rosse sulla pelle, perdita dell'appetito, sanguinamento delle gengive, caduta dei ca-
pelli. George era diventato il loro portavoce. «Io so benissimo che è colpa delle industrie», disse. «Non deve convincere me, George.» «Bene, allora faccia qualcosa. Io sono quasi senza soldi.» I suoi risparmi si erano pressoché esauriti. La moglie e i figli dovevano pur mangiare. Ma dall'espressione del suo avvocato capì che le prospettive non erano buone. «Che dicono i medici?» Joselyn prendeva appunti su un blocco; il fascicolo di George era aperto sulla scrivania davanti a lei. Il contenuto era scarso: soltanto le lettere che lei aveva spedito, senza ricevere nessuna risposta, principalmente a medici ed enti statali. «I medici! Non capiscono nulla. Vogliono mandarmi a Seattle a fare gli esami.» «E lei li faccia», disse lei. «Costano. La mia assicurazione non vuole pagare. Dicono che è per portare avanti la causa, non per curarmi.» Il grande imbroglio del circolo delle assicurazioni. Quello che i politici, per ottenere sostanziosi finanziamenti elettorali, chiamavano «assistenza gestita»: un gruppo di medici alla mercé di una compagnia di assicurazione che diceva «no» a qualunque cosa che costava. Ed erano riusciti a far accettare il sistema ai cittadini. George le spiegò che la compagnia di assicurazione stava cercando di guadagnare tempo, nell'attesa che lui morisse. «Così non le costerà nulla.» «Ho bisogno di una documentazione medica», gli spiegò Joss. «Non posso fare nulla senza una diagnosi.» Perché lo Stato concedesse al suo cliente un assegno d'invalidità, lei doveva dimostrare che la malattia di George era stata causata dal suo lavoro e che esisteva un collegamento con le lavorazioni industriali. Per questo aveva bisogno di un esperto che si esponesse, spiegando in termini medici la probabile causa della malattia di George e la sua esatta natura. «Sappiamo tutti che cos'è. È colpa di quegli stronzi.» L'espressione poco gentile di George indicava i vicini su a nord, al di là del confine. «È una vita che su a Victoria scaricano in mare liquami non trattati. Si prendono il nostro pesce. Quello che resta ha tre occhi. L'altro giorno ne ho preso uno cui stavano cominciando a crescere le zampe davanti, come a un cane.» La disputa sulla diminuzione dei branchi di salmone aveva assunto i toni di una guerra. Alcuni traghetti per Sidney, su Vancouver Island, che facevano sosta a Friday Harbor, erano stati bloccati da flotte di barche da pesca e trattenuti per ore ai moli. I canadesi avevano contraccambiato bloccando
il traghetto per l'Alaska, su a nord. Le nazioni indiane avevano fatto causa per veder confermati i diritti di pesca, garantiti nei trattati da condizioni che, secondo loro, sarebbero dovute valere «finché cresce l'erba e soffia il vento». Sfortunatamente, i salmoni non riuscivano a riprodursi abbastanza in fretta per accontentare tutti. C'erano troppi pescherecci e troppo poco pesce. «È una buona teoria, George.» Joss si riferiva alle accuse d'inquinamento dal Canada. «Ma ho bisogno di prove, di una documentazione medica da presentare allo Stato.» «Gli porterò quel dannato pesce», assicurò George, «quello con le due gambe davanti.» Avevano già avuto questa discussione. Stava diventando senza via d'uscita. Gli tremavano le mani, appariva sconvolto. Dal loro ultimo incontro, due settimane prima, era visibilmente peggiorato. «Mi hanno fatto una trasfusione. Lo sapeva?» «No.» «Be', è così. Giovedì scorso. Hanno detto che sono anemico, che ho pochi globuli rossi.» Avrebbe potuto esserci qualcosa di nuovo nella sua documentazione medica. Joselyn prese un appunto. «Hanno detto che cosa potrebbe aver causato l'anemia?» «A me, no», rispose lui. «Mi hanno chiesto se sono stato vicino a sostanze chimiche.» «È un inizio.» «Mi fa pensare che sospettino qualcosa.» Solitamente ai medici non piacevano le cause, anche quelle non dirette contro di loro. Spesso ciò che sospettano non compare sui loro rapporti. Joss però non lo disse a George. Lo avrebbe soltanto fatto sentire ancor più disperato. Prese nota di richiedere la documentazione aggiornata. «Devo lasciare qualcosa alla mia famiglia», mormorò lui. Quando alzò gli occhi dal blocco, Joss capì che George pensava di avere il cancro. Aveva attraversato lo spartiacque. Sapeva che stava morendo. E aveva ragione. Gli disse di non abbandonare la speranza, cercò di tirarlo su di morale. «Potrebbe non essere così grave come crede.» Sapevano entrambi che stava mentendo. «Parlerò coi medici. Cercherò di convincerli a fare pressioni sulla compagnia d'assicurazione perché le passi gli esami. Minacceremo di far loro causa se si ostinano a non voler pagare. Potrebbe funzionare.»
«Potrebbe?» ripeté George. «Non ci sono risposte facili.» «Non so quanto resisterò ancora.» Gli raccomandò di tenere duro e di tornare dopo una settimana. «Potrei avere qualcosa.» Il loro colloquio era terminato. «Mi chiamerà?» La guardò con quel suo sguardo speranzoso da bassotto. «Non appena so qualcosa.» «Telefonerà ai medici?» chiese ancora lui, avvicinandosi con riluttanza alla porta. Anche Joselyn si era alzata e stava andando verso di lui. «Oggi pomeriggio. E dopo manderò anche una lettera.» Gli prese una mano. Tremava, come se fosse stata colpita da una paralisi. La moglie di George stava aspettando in anticamera. Lui non voleva che fosse presente a quei colloqui, per paura che diventasse ancora più depressa. Nella sala d'aspetto c'era anche un uomo, che guardò George mentre questi usciva: cercò di essere discreto, ma non poté fare a meno di fissarlo. George era uno di quegli uomini da cui, per quanto ti sforzassi, non riuscivi a distogliere lo sguardo, come il mendicante senza gambe che vende matite appoggiato contro il muro di un edificio. Ti faceva sentire a disagio, ma dovevi guardarlo. L'uomo era ben vestito: maglione di cachemire e mocassini. Aveva il volto magro, capelli biondo rossicci, occhi profondi. C'era qualcosa in lui che faceva pensare a una persona molto seria, efficiente. Sfoggiava un orologio costoso e un'abbronzatura dorata ottenibile solo ai tropici. Trasudava ricchezza. Di certo non era uno dei suoi tipici clienti. Joselyn sentì lo sguardo dell'uomo posarsi su di lei. A beneficio della moglie, George cercò di assumere un atteggiamento coraggioso. «La signorina Cole ci darà una mano e parlerà coi medici. Convincerà l'assicurazione a pagare gli esami.» Stava facendo promesse che forse lei non sarebbe stata in grado di mantenere. La donna sorrise. «Sapevo che ci avrebbe aiutato.» «Mi chiamerà?» chiese di nuovo George. «Non si preoccupi. Ho detto che la chiamerò e lo farò.» «Bene.» George le strinse la mano. La moglie lo prese a braccetto, più per aiutarlo che per essere accompagnata, e un attimo dopo erano già fuori, nel parcheggio.
Quando Joss si voltò, l'uomo si era alzato e le bloccava il passaggio. «Joselyn Cole?» «Sì.» «Sono Dean Belden», disse lui, porgendole la mano come se lei dovesse sapere chi era. «Ci conosciamo?» «Ho avuto il suo nome da Dick Norman, giù alla banca.» Joselyn frugò nella memoria. E poi le venne in mente. Aveva incontrato Norman una volta, a una riunione della Camera di Commercio. «Be', se mi manda un cliente forse dovrei offrirgli un pranzo.» «Sono sicuro che ne sarebbe felice. Il suo ufficio sembra piuttosto nuovo.» Il tizio si stava guardando intorno, valutando le pareti nude e il cubicolo della reception coi vetri smerigliati, chiuso e buio. «Non ho ancora avuto il tempo di trovare un'addetta alla reception.» «È difficile trovare collaboratori validi», osservò lui. La guardò e sorrise. Belden era un tipo sveglio. Aveva capito immediatamente che il problema non era il tempo bensì i soldi. «Il suo cliente mi sembra molto malato.» Fece un gesto in direzione della porta dalla quale George era appena uscito. «Sì.» «Sarà in grado di aiutarlo?» «Lo spero.» «È una faccenda seria?» Lei si strinse nelle spalle. «Mi scusi, non dovrei impicciarmi. A volte sono troppo curioso. Immagino che non me lo potrebbe dire anche se lo sapesse. Non sarebbe corretto.» «No, non sarebbe corretto.» «Però spero che non sia contagioso.» Il pensiero di prendere quello che aveva George non le aveva neppure sfiorato la mente sino a quel momento. «Credo che possiamo stare tranquilli. Come ha detto che si chiama?» «Belden. Dean Belden. Può chiamarmi Dean.» «Bene, Dean, che posso fare per lei?» «Occuparsi di una piccola faccenda.» «Andiamo nel mio ufficio.» Gli girò intorno e lui la seguì. «Sto cercando di aprire una piccola fabbrica sull'isola.» Parlava mentre
camminava. Non era uno che perdeva tempo. «Che genere di fabbrica?» «Di assemblaggio.» «Si accomodi.» «Componenti ad alto contenuto tecnologico.» Si sedette su una delle poltrone destinate ai clienti come se fosse stata sua intenzione farlo sin dall'inizio, senza perdere un momento. «Elettronica. Principalmente microinterruttori per computer industriali. Non è merce voluminosa, quindi il trasporto non costituisce un problema. Si starà chiedendo come mai ho scelto queste isole...» «A dire il vero no», rispose Joss. «Gradisce un caffè?» «No, grazie. Abbiamo un contratto di fornitura con un'altra ditta, su in Canada, quindi la posizione è ottimale. Ho bisogno di costituire e registrare la società qui nello Stato di Washington, chiedere la licenza per l'attività e il codice fiscale, ottemperare a tutti gli adempimenti fiscali... le solite cose, insomma.» Joss si stava versando un caffè dalla macchinetta nell'angolo e si chiedeva se quel tizio della banca non l'avesse confusa con un'altra. Il diritto amministrativo non era il suo pane quotidiano e, quando tornò a voltarsi verso la scrivania, quella sua perplessità le si leggeva in faccia. «Lei è in grado di fare queste cose, vero? Sono disposto a pagarle un anticipo sostanzioso.» Per la prima volta aveva tutta la sua attenzione. Ah, l'odore dei soldi! «Oh, potrei farlo. Voglio dire, la costituzione di una piccola società è una cosa piuttosto semplice. È soltanto che sono...» Stava cercando un modo per nascondere l'espressione vuota sul proprio viso. «... al momento sono piuttosto impegnata. Anche se probabilmente potrei trovare un po' di tempo per...» Prese l'agenda sulla scrivania e l'aprì, nascondendo le pagine vuote. «Potrei spostare questo e rimandare quest'altro fino alla prossima settimana...» Alzò lo sguardo su di lui. «Potrei farcela.» Sì, poteva rinunciare alle ore dedicate alla lettura in biblioteca e all'ora di Jimmy Buffet la sera. Lui le sorrise come se sapesse che erano tutte stronzate. «E qual è il suo onorario, di solito?» Prima che lei potesse dire una parola, lui aggiunse: «Sto pensando a un anticipo consistente più una tariffa oraria». Belden doveva essere carico di soldi. Quello che Joselyn sapeva di diritto amministrativo si poteva scrivere sulla pellicina di un'unghia e comprendeva il fatto che la tariffa per gli atti costitutivi di società di solito si
riduceva a un compenso forfettario, qualche migliaio di dollari al massimo, secondo la difficoltà. In alcuni luoghi era possibile addirittura farseli fare per posta. «Mi tolga una curiosità», disse lei. «La prego di non fraintendermi, non è che io non voglia aiutarla... Ma perché non si è rivolto a uno dei grossi studi giù a Seattle?» «Mi costerebbe di più», rispose lui. «Forse», osservò Joss. «Inoltre, se ho intenzione di vivere e lavorare qui, sull'isola, pensavo fosse meglio avere un legale in loco. Avrò bisogno di qualcuno per altre faccende.» Joselyn non voleva insistere sull'argomento e perdere un cliente. «Che genere di faccende?» chiese allora. Lui assunse un'espressione pensierosa. «Licenze straniere. Principalmente per transazioni al di là del confine. Cose semplici. Non le ha mai fatte?» «No.» Non aveva intenzione di mentirgli. Almeno non su quello. «Sono sicuro che imparerà presto. È molto semplice. È come pilotare un aereo, dopo che lo si è fatto una volta...» «Io non volo», precisò lei. «Io, sì.» «Chissà perché la cosa non mi sorprende.» Lui la guardò ed entrambi scoppiarono a ridere. Il ghiaccio era rotto. Belden non era brutto. Aveva i capelli tagliati corti, tendenti al grigio sulle tempie. Alto più di un metro e ottanta, fisico atletico. Indossava una polo, e la riempiva tutta nei punti giusti. «È interessata?» le chiese. Altroché, pensò Joselyn. «Credo di poter preparare i documenti di cui ha bisogno.» «No, no», fece Belden. «Io vorrei darle un anticipo e nominarla consulente legale della società.» Le sorrise mettendo in mostra denti così bianchi e regolari che avrebbero potuto benissimo figurare nella pubblicità dell'associazione nazionale dentisti. C'era anche uno scintillio nei suoi occhi, che erano di una sfumatura di verde del tutto inusuale. «Potrei anche finire col chiederle di dedicarci buona parte del suo tempo», aggiunse. «Sono una professionista, il mio tempo è in vendita.» «Ma lei no.» Suonava più come un'affermazione che una domanda. Lei rispose comunque. «Mi piace lavorare autonomamente.» «Bene. Una donna indipendente. Capisco. Naturalmente questo potrebbe
ridurre il tempo a disposizione per altri incarichi.» La guardò e sorrise come se sapesse che quello non era affatto un problema. «Me ne preoccuperò a tempo debito.» «Bene. Allora siamo d'accordo.» Mise una mano in tasca e tirò fuori un libretto d'assegni e una penna. «Che genere di anticipo chiede normalmente?» «Qui sull'isola di solito non prendo anticipi.» Lui alzò lo sguardo. «La maggior parte dei miei clienti è gente del posto», spiegò lei. «Io emetto una parcella e loro la pagano. Quando possono.» «Diecimila vanno bene?» Era una fortuna che lo schienale della sua poltrona non potesse reclinarsi oltre: sarebbe finita per terra. «E come tariffa oraria?» chiese lui, alzando nuovamente lo sguardo su di lei. Joss aveva qualche difficoltà a respirare, ma pensò in fretta. «Che ne dice di duecento all'ora?» Era più di quanto faceva pagare agli altri clienti, ma sembrava proprio che Belden potesse permetterselo. «Che ne dice di trecento?» ribatté lui. «Lei dovrebbe farmi da agente», fu la risposta di Joss. «Mi piace pensare che il mio avvocato risponda sempre alle mie telefonate se ho un problema.» Aveva portato con sé una leggera cartella di pelle che adesso era posata sul pavimento accanto alla poltrona. Allungò una mano e tirò fuori una busta gialla, poi cominciò a compilare l'assegno. «Credo che troverà tutte le informazioni necessarie lì dentro», disse, facendo un cenno con la testa in direzione della busta. «Se avesse qualche dubbio, c'è anche il mio biglietto da visita. Mi chiami.» «Nell'interesse dei rapporti tra cliente e avvocato, credo ci sia una cosa che lei deve sapere.» Lui non alzò lo sguardo. Era troppo impegnato a mettere tutti gli zeri nei posti giusti. «Lo so», disse tuttavia. «Lei non ha molta esperienza in diritto amministrativo.» «È così evidente?» «No.» «Allora come ha fatto a indovinarlo?» «Me l'ha detto il direttore della banca.» La stava osservando con quei suoi occhi verdi penetranti e un sorriso strafottente.
«Ma non ha detto che è stato lui a raccomandarmi?» «Oh, sì. Eccome. Gli ho chiesto se c'erano avvocati donna avvenenti in città.» Aveva un'espressione mortalmente seria, con un accenno di sorriso malizioso. «L'elenco era breve.» Lo disse con un tono così impertinente che lei non poté fare a meno di scoppiare a ridere. Stava ancora ridendo quando lui le passò l'assegno insieme con le informazioni sulla sua ditta. Lei rimase a fissarlo per un po'. «Come le ho detto, a Seattle mi sarebbe costato almeno altrettanto.» A giudicare dalle apparenze, Belden era abituato a ottenere sempre quello che voleva. C'era qualcosa di marziale in lui, come se fosse abituato a dare ordini e a vederli eseguiti. Non era sicura che le piacesse, ma di certo le piacevano i soldi. Forse era questo che la disturbava, la sensazione di essersi venduta, di aver venduto la propria indipendenza per un assegno. «Ora ha l'anticipo e tutte le informazioni che le servono. Allora siamo d'accordo.» Lei guardò nuovamente l'assegno. «Immagino di sì.» «Che cos'è quella faccia triste?» fece lui. «Non dovrebbe essere depressa perché ha un po' di denaro.» «Oh, non lo sono.» Cercò di cambiare espressione e sorrise. «Bene. E ora mi dica, che cos'è che l'ha portata qui sull'isola?» Lo disse come se avessero ormai finito di parlare di lavoro, e si fossero tolti un pensiero fastidioso. Sapeva bene ciò che voleva ed era fin troppo concentrato e diretto. «Che cosa le fa pensare che non sia nata qui?» chiese lei. «Non ne ha l'aria.» «Gli isolani hanno un'aria particolare?» «Una leggera crescita di muschio sul lato nord», rispose lui. «Lei sembra...» S'interruppe, riflettendo per un istante. «... della California.» «Si vede tanto? Immagino che il muschio non abbia ancora avuto il tempo di formarsi.» «Sì, quello, e la licenza appesa alla parete.» Fece un cenno col capo in direzione del certificato dell'ordine degli avvocati della California appeso accanto a quello dello Stato di Washington. «Ha gli occhi lunghi.» «Aspetti di vedere i denti», rispose lui. Era proprio quello che lei temeva. «Che fa per cena?» le chiese.
«Spiacente. Ho un impegno.» Una volta incassato l'assegno, una bella bistecca e Jimmy Buffet, pensò Joselyn. Quell'uomo stava correndo troppo. Avrebbe fatto qualche controllo in città per scoprire se qualcuno lo conosceva. «Magari un'altra volta.» «Magari. Quando vuole che cominci?» Joselyn diede un colpetto sulla busta posata sulla scrivania, cercando di tornare agli affari. «Oh, non saprei. Quanto tempo pensa che ci vorrà... senza correre?» «Una settimana, forse dieci giorni. Se non sorgono problemi.» «Allora ci vediamo tra una settimana.» Si era alzato. «Non c'è bisogno che mi accompagni alla porta. Trovo da solo la strada. Alla prossima settimana, allora.» «Alla prossima settimana.» 2 Santa Crista, California Gideon van Ry si dondolava pigramente sulla vecchia poltrona girevole da ufficio. Era sgraziato e magro per la sua altezza. Davanti a lui, la scrivania dismessa da qualche ufficio governativo era sommersa di carte: tre settimane di corrispondenza e di rapporti, tutti da leggere. Van Ry faceva parte di una squadra d'ispettori militari dell'ONU ed era appena tornato dal Medio Oriente. Figlio della Guerra Fredda, era nato in Olanda, ma cresciuto in Unione Sovietica. Sua madre era russa, suo padre olandese. Si erano conosciuti all'università dopo la guerra, ma il loro matrimonio non era destinato a durare. Aveva imparato l'inglese a scuola, come tutti i bambini olandesi, e il russo durante le vacanze estive passate con la madre a Mosca. Era lì che aveva frequentato l'università, dimostrando una notevole predisposizione per le materie scientifiche; stava rapidamente scalando la gerarchia del mondo accademico della fisica quando il vecchio impero sovietico era crollato. La sua specialità era la risonanza magnetica nucleare. Aveva passato due anni al Cal Tech, nella California del sud, dove, pur senza laurearsi, aveva imparato tutto quello che c'era da sapere sulla progettazione delle armi nucleari. Era sempre stato molto portato per la meccanica, anche da bambino. A
otto anni aveva smontato la pendola di famiglia. Da allora non era mai più stata precisa. Ma i suoi genitori non l'avevano fatta riparare. La madre la considerava un ricordo della sua infanzia. Chiunque lo avesse visto in quel momento avrebbe pensato che il corpo dinoccolato si sarebbe ribaltato all'indietro insieme con la poltrona, ma le gambe lunghissime fungevano da contrappeso. Si voltò verso la finestra, continuando a studiare il documento che teneva in mano, e si passò le dita affusolate tra i lunghi capelli biondi e ondulati. Aveva gli occhi azzurri, la carnagione chiara e le fossette alle guance. «Hai letto questo?» disse, rivolto alla ragazza ferma sulla porta del suo ufficio. Gideon parlava con un leggero accento britannico. «Sì.» Caroline Clark, una studentessa inglese che frequentava la Princeton University, dove aveva già conseguito il diploma in fisica, era uno dei quattro interni assegnati a lavorare con van Ry come analista. Attraverso l'Istituto passava una vera marea di giovani assistenti che restavano da sei mesi a due anni. Una volta tornati a casa, molti di loro sarebbero andati a ricoprire ruoli importanti nei programmi di controllo degli armamenti dei loro Paesi. Gettare quel seme nel fertile terreno multinazionale era uno degli scopi principali dell'Istituto. «Lo hai fatto vedere a qualcun altro?» chiese Gideon. «Non ancora. Lo avrei fatto se tu non fossi tornato oggi. Credevo non potesse aspettare.» «Hai ragione.» Le annotazioni erano criptiche, scritte frettolosamente su una vecchia macchina per scrivere. Si trattava di un messaggio di un vecchio amico di Gideon, un compagno di studi dai tempi di Mosca. Gideon si era mantenuto in contatto epistolare con lui per parecchi anni, durante gli studi alla Cal Tech, ma era da più di un anno che non aveva sue notizie. Anton Ziminov lavorava nel cuore amministrativo dell'industria nucleare russa: era uno dei tanti burocrati che generavano statistiche e rapporti su quello che stava diventando un fiorente commercio al di là della cortina di ferro: lo smantellamento degli arsenali nucleari. Lo IAMAD - acronimo di Institute Against Mass Destruction, «Istituto contro la distruzione di massa» - aveva fatto ogni sforzo possibile per mantenere contatti con le persone che lavoravano in quel campo. Promuoveva le comunicazioni attraverso i confini nazionali, tutte con un fine comune: la cultura della non-proliferazione, il rendere innocue le armi per la distruzione globale.
L'Istituto faceva l'impossibile per evitare di essere accusato di parteggiare per questo o quel governo. Le sue informazioni erano aperte al mondo intero. Chiunque nel giro poteva collegarsi con la sua banca dati, uno degli elenchi in assoluto più completi di armi nucleari, biologiche e chimiche. Lo scopo era di gettar luce su una pericolosa crepa che si stava aprendo: il micidiale e crescente commercio di armi di distruzione di massa. Fondato alla fine degli anni '80, l'Istituto era cresciuto come un campo di funghi selvatici fino a occupare un intero grande edificio coloniale spagnolo nel centro storico di Santa Crista. Era un'ubicazione tranquilla, a copertura di attività che portavano il personale al suo servizio nei punti più caldi della terra: il Medio Oriente, le instabili repubbliche dell'ex Unione Sovietica, l'ex Iugoslavia, il focolaio etnico dei Balcani. «Che ne pensi?» le chiese. Lei si strinse nelle spalle. «È possibile che si tratti solo di un caso di cattiva contabilità», osservò. Ma sembrava più un desiderio che un reale convincimento. «Conosci le grane che ci sono laggiù. Poco personale, niente soldi. Succede spesso che le cose vengano messe fuori posto.» «È vero», convenne Gideon. Ma sapeva che era necessario controllare. «Potrebbero essere stati smantellati?» chiese. Lei scosse la testa. «In quel caso il Plutonio-239 che contengono dovrebbe figurare nella riserva delle materie prime. E invece non c'è.» Era come la quadratura giornaliera delle casse di una banca. Se alla fine del mese mancavano quantità significative di plutonio o di uranio altamente arricchito, all'Istituto suonava l'allarme e l'informazione sarebbe stata passata a tutto il mondo attraverso la sua banca dati. Gideon guardò l'orologio: c'era una differenza di undici ore. «Non credo che possa aspettare. Se non abbiamo nessuno sul posto, dovrò chiamare il direttore e chiedere l'autorizzazione per il viaggio.» «Hai intenzione di andare a Sverdlovsk?» «Sono l'unico che possa entrare.» Era vero. Sverdlovsk era uno dei quattro siti per lo smantellamento delle armi nucleari in Russia. Tutti erano sorvegliatissimi. Nessuno consentiva l'ingresso a visitatori occidentali. Ma Gideon era russo. Era cresciuto in Russia, da adolescente, se non proprio da bambino, e aveva contatti nel governo russo, persone che, se avvicinate nel modo giusto, avrebbero anche potuto concedere a un concittadino l'accesso al sito. «Potrebbe trattarsi di un errore», osservò Caroline. «È possibile che qualcuno abbia trascritto male un numero. Sai che sono oberati di lavo-
ro...» Si riferiva ai tecnici nucleari, agli scienziati e ai militari russi, la maggior parte dei quali non veniva pagata da mesi. «Nel qual caso non ci metteremo in imbarazzo da soli divulgando alla comunità internazionale un rapporto inesatto.» Lei lo guardò come se non sapesse che cosa fare. «E se non si tratta di un errore?» Gideon sapeva che la situazione in Russia era sempre più disperata: il rischio che una guardia venisse pagata per guardare da un'altra parte, o un tecnico per trafugare qualche chilo di uranio da un deposito cresceva di mese in mese. «Quando l'hai ricevuto?» le chiese. «Due giorni fa.» «Dunque calcoliamo due settimane», disse Gideon. La domanda era: se i due ordigni erano stati rubati, quand'era accaduto? Dando per scontato lo scenario peggiore, Gideon stava già ragionando all'indietro per calcolare quanto tempo avessero avuto i ladri per trasportare il materiale fuori dei confini nazionali. «Sta di fatto che o ci troviamo di fronte a un errore», mormorò, «e di certo un errore grossolano...» Lei annuì. «... oppure a ordigni nucleari che sono scomparsi o forse a ordigni nucleari smantellati e al loro materiale fissile weapon-grade scomparso. In un caso o nell'altro, se ce ne siamo accorti noi, le autorità russe avranno avuto il tempo per rilevare la stessa discrepanza. Guarda se riesci a scoprire eventuali indagini in corso.» Gli analisti di lingua russa dell'Istituto stesso, o dell'Istituto linguistico della Difesa, avrebbero passato al setaccio giornali e trasmissioni radio della regione, controllando se venisse riportato qualcosa d'insolito. «Non vuoi che chieda direttamente alle autorità russe?» «Non ancora.» Ziminov gli aveva scritto in via confidenziale. Se l'Istituto si fosse rivolto direttamente alle autorità, queste avrebbero voluto conoscere la fonte dell'informazione. Gideon riteneva importante proteggere la sua fonte. Avrebbe dovuto compiere indagini discrete, usare tutti i suoi contatti per arrivare là dove voleva senza causare allarmismi nella comunità nucleare russa. Se non avesse usato la massima cautela, tutti gli avrebbero sbattuto la porta in faccia e sarebbe partita un'indagine interna. Lui era russo per metà, ma erano ormai anni che viveva in Occidente. La situazione richiedeva una certa abilità diplomatica. Caroline prese un appunto. Aveva conosciuto alcuni scienziati e tecnici russi durante una visita l'anno precedente. Erano persone fedeli al proprio
lavoro e trovava difficile credere che qualcuno di loro vendesse materiale nucleare sul mercato nero. Gideon si grattò il mento. «Quello che mi dà da pensare è che ne sono spariti due. Perché due?» osservò, guardandola. «Forse perché quando si è in ballo tanto vale ballare. Se si tratta di un furto, cioè.» Lui scosse la testa. «Sì, ma il rischio di essere scoperti aumenta.» C'erano già stati diversi casi documentati di traffici sul mercato nero, per la maggior parte materiale fissile non arricchito contrabbandato da ex Paesi satelliti in Afganistan e messo in vendita con tanta leggerezza che i responsabili erano stati presi quasi subito. Il metodo usato solitamente era quello dello stillicidio: pochi grammi per volta di uranio naturale, probabilmente non weapon-grade, rubati per un periodo di tempo abbastanza lungo finché i ladri non arrivavano a possederne un chilo. Era materiale che poteva essere usato per confezionare una dirty bomb, un ordigno che non avrebbe mai raggiunto la massa critica necessaria per una reazione a catena, ma che avrebbe potuto produrre effetti tossici e, insieme con una sufficiente quantità di potente esplosivo convenzionale, contaminare un'area di considerevole grandezza. Ma l'informazione che Gideon aveva davanti a sé era qualcosa di diverso: si trattava di due ordigni nucleari intatti completi di circuiti d'innesco. Era un'impresa così sfacciata da risultare incredibile. Ecco perché Caroline non ci credeva e Gideon sapeva che, se davvero si trattava di qualcosa di più di un errore, avrebbe avuto bisogno di maggiori chiarimenti per convincere gli altri. «Che cosa sappiamo di questi ordigni?» Caroline teneva il fascicolo in mano: appunti di lavoro che comprendevano informazioni di solito non inserite nella banca dati dell'Istituto. Erano notizie non destinate al pubblico. Per motivi di sicurezza, normalmente lo IAMAD non divulgava l'esatta ubicazione dei depositi delle armi, né il numero di armi in essi custodite: sarebbe servito soltanto a renderli facili obiettivi per i terroristi o la mafia russa. La giovane sfogliò rapidamente gli appunti scritti a mano contenuti nel fascicolo. «Gli ordigni mancanti provengono da Sverdlovsk-45. L'impianto ha cambiato nome circa un anno fa. Ora si chiama Lesnoj, ed è una delle maggiori strutture per lo smantellamento delle testate nucleari nella zona centro-meridionale del Paese.» Tirò fuori una mappa dal fascicolo, si avvicinò e la posò sulla scrivania davanti a Gideon. «Ecco», disse, indicando
un punto sulla cartina. «Vi sono conservati sia plutonio sia uranio weapongrade. Secondo le informazioni in nostro possesso, è uno dei più grandi impianti di trattamento di tutta la Russia. Circa millecinquecento testate l'anno.» «Se il piano è di far sparire qualcosa, allora sembra il posto adatto», disse Gideon. «Senza dubbio sono oberati di lavoro.» Caroline annuì. «Attrezzature di custodia inadeguate...» rifletté Gideon. «Potrebbero anche metterci un po' a scoprire che manca qualcosa. Abbiamo notizie sul loro livello di sicurezza?» Caroline consultò i fogli pinzati all'interno della cartellina. L'International Atomic Energy Agency classificava tutte le strutture al mondo in cui venivano trattati o custoditi materiali fissili. «Non è sorvegliato», rispose con un sospiro. «Me l'immaginavo.» I russi non avevano i soldi per rispettare gli standard internazionali di sicurezza. In certi posti c'erano addirittura buchi nelle reti di recinzione attraverso i quali i bambini s'infilavano per andare a giocare a pochi metri di distanza da bunker sotterranei pieni di contenitori di plutonio e chiusi soltanto da porte di ferro mangiate dalla ruggine. Era l'anticamera del disastro: una situazione che, invece di migliorare, stava degenerando. «Secondo le informazioni che ci ha passato Ziminov, pare che i due ordigni in questione fossero destinati allo smantellamento», disse Caroline. «Sappiamo che cos'erano?» «Pare che fossero relativamente piccoli, due testate balistiche complete di circuiti d'innesco per proiettili da artiglieria nucleare di campagna. Centocinquantatré millimetri. Costruiti negli anni '60.» «Quindi niente PAL?» Caroline scosse la testa. «No.» Nel gergo degli addetti ai lavori, PAL era l'acronimo di permissive action links e indicava i meccanismi di sicurezza per ordigni nucleari che ne avrebbero impedito l'esplosione senza l'approvazione da parte di vari livelli di controllo del governo. Molti degli ordigni assemblati nei primi anni '60, sia negli Stati Uniti sia in Unione Sovietica, mancavano di questi meccanismi di sicurezza. Questo li rendeva l'obiettivo primario dei terroristi, l'arma perfetta su cui mettere le mani. L'espressione sul volto di Gideon diceva tutto. Ordigni che potevano venir nascosti ovunque e fatti esplodere senza molta difficoltà. Il sogno di
ogni terrorista. La questione era se avrebbero funzionato. «Ne conosciamo la potenza?» Lei si strinse nelle spalle scuotendo la testa. «Secondo le informazioni ufficiali, otto decimi di kiloton. Ma si sa che questi dati sono sempre inferiori alla realtà.» Durante la Guerra Fredda, entrambe le parti avevano sistematicamente mentito sulla potenza delle loro armi per guadagnare vantaggio nei trattati sulla limitazione degli armamenti. «Se sono comparabili alle armi americane di pari potenza», borbottò Gideon, «probabilmente stanno tra i due e i cinque kiloton.» Questo significava che erano piccole, facilmente trasportabili e potenti quasi quanto le bombe che avevano devastato Hiroshima e Nagasaki. Uno di questi ordigni, da solo, avrebbe potuto polverizzare il centro di una grande città. Fatti esplodere insieme, avrebbero distrutto Manhattan e ucciso all'istante mezzo milione di persone, lasciando l'altro mezzo a morire per avvelenamento da radiazioni. Gideon sollevò il ricevitore e digitò un numero di due cifre sulla linea interna. «Sally», disse alla sua segretaria, «vedi se riesci a fissarmi un appuntamento col direttore questo pomeriggio sul presto. Digli che è molto importante. E cancella tutti i miei appuntamenti del pomeriggio. Se hai bisogno di me, mi trovi a casa.» Doveva fare le valigie. Non sapeva per quanto tempo sarebbe stato via. Rimise il ricevitore sulla forcella, prese la valigetta e controllò che dentro ci fosse il passaporto. «Cercami un volo, il più diretto possibile da San Francisco a Mosca», disse a Caroline. Sapeva che sarebbe dovuto arrivare a Mosca prima di trovare una coincidenza per la Siberia. Non era mai stato in quel luogo tremendo e il semplice pensiero lo fece rabbrividire. 3 Deer Harbor, Orcas Island Il pick-up Ford del 1979 procedeva come un granchio sulla strada polverosa, il retrotreno tutto sbandato di lato come un cane che ha preso un colpo nei quarti posteriori. Era talmente coperto di fango che lo sporco non gli si attaccava più addosso. Sul lunotto posteriore c'era un adesivo grande quanto una targa automobilistica che diceva: COME GUIDO? - CHIAMA L'l-800-E-VA-A-CAGARE. Il camioncino si fermò con una sbandata davanti alla costruzione di me-
tallo color grigio scuro, sollevando una nuvola di polvere. Oscar Chaney scese, sbattendo la portiera. Un altro uomo era fermo davanti all'edificio; ai suoi piedi, un mucchietto di mozziconi di sigaretta. «Sei in ritardo.» Chaney lo guardò male. «Mandami il conto per il tempo che hai perso.» «Perché tutti questi giochetti soltanto per un gruppo di contadini idioti? Io non capisco. Perché il colonnello usa nomi in codice? È come se stessimo trattando con un governo legittimo.» «Proprio perché sono idioti», ribatté Chaney. «Prima o poi faranno qualche errore e lui non vuole che quegli errori portino a noi. È il motivo per cui non devi assolutamente avere contatti con loro. Hai capito?» Il tizio annuì. «Per me non c'è problema. Dove hai preso il camioncino?» chiese poi con aria scettica, osservando le ammaccature e la sporcizia che facevano pensare a un veicolo proveniente da uno sfasciacarrozze. «È il mio contributo al colore locale», rispose Oscar Chaney. «Mi fa sembrare uno di loro, non trovi?» «Affanculo il colore locale. Voglio solo concludere 'sta faccenda e tornarmene a casa.» «Un po' di pazienza, Henry. Coi soldi che ci danno per questo lavoro potrai prenderti una bella vacanza.» Lavoravano insieme da quasi cinque anni. Il colonnello li aveva sempre tenuti uniti sin da quando si erano conosciuti nel Caucaso, dove operavano sotto gli auspici dell'ONU nel corpo di pace. Il corpo di pace! Che barzelletta! Erano soldati professionisti e non davano loro neppure i proiettili per la paura che creassero un incidente internazionale. In quattro avevano dato le dimissioni - Fritz, tedesco; Oscar, americano; Henry, inglese, e il colonnello che era stato addestrato in Sudafrica ma girava con passaporto inglese - e si erano messi in proprio. Negli ultimi due anni avevano guadagnato una piccola fortuna offrendo i propri servigi. «Com'è là dentro?» Chaney fece un gesto verso l'edificio. «Quattro pareti e un tetto.» Chaney fece qualche passo ed entrò attraverso la porta semiaperta. Lanciò un'occhiata veloce all'interno. Il pavimento di cemento era chiazzato qui e là di olio e grasso. In un angolo si scorgevano alcuni rottami e contro una parete era addossato un bancone da lavoro. Sopra, imbullonati al ripiano, c'erano un tornio elettrico e una morsa da banco. Abbandonati sul bancone, si scorgevano stracci sporchi e una manciata di attrezzi, qualche chiave inglese, un paio di pinze. Una spruzzata di luce filtrava dal tetto di
metallo nei punti in cui qualcuno aveva dimenticato d'inserire le viti e il sole aveva fatto saltare i fogli d'isolante. «C'è energia sufficiente per la saldatrice ad arco? Dovrò usarne una grossa.» «Sì. Abbiamo anche l'acqua corrente e le luci. Più una latrina sul retro.» Su una parete dell'edificio c'era una grossa porta scorrevole, appesa a una guida di metallo. Chaney vi si avvicinò, afferrò la porta e spinse con forza. Questa si aprì con fragore, scivolando lungo l'esterno e andando a fermarsi con un tonfo. L'apertura era larga circa tre metri e mezzo e alta tre, più che sufficiente per il lavoro che aveva in mente. «Chi è il proprietario?» «Una donna che sta in un posto che si chiama Kirkland. Sul continente. Suo marito lo usava per fare quello che lui chiamava 'raccolta differenziata dei ricambi'... In altre parole prendeva i pezzi da auto rubate e li vendeva separatamente.» «Ah.» «Finché un'auto non è caduta dal cric e gli ha spappolato la gamba», concluse Henry. «Che sfortuna...» osservò Chaney. «Comunque questo posto andrà benone. Appartato. Lontano. Ma il commercio di pezzi di ricambio... la polizia ne sa qualcosa?» «No. Ho controllato. L'uomo è stato portato in un altro posto prima di chiamare l'ambulanza. Hanno fatto cadere una macchina dal cric sulla strada principale e poi hanno chiamato i soccorsi. Quindi, con calma, si sono sbarazzati di quello che c'era qui. La polizia non ha mai visto questo posto.» «Bene. Molto bene. Che cosa sai dei proprietari?» «L'uomo zoppica, la donna ha un sacco di soldi.» «È possibile che vengano qui a dare un'occhiata?» Henry scosse la testa. «No. Ho seguito le indicazioni del colonnello. Ho detto loro che avremmo pagato in contanti ogni mese. È un affitto doppio rispetto a quanto avrebbero preso da chiunque altro. Ho aggiunto che abbiamo bisogno di molta elettricità. Penseranno che si tratti di droga, che installeremo un sacco di lampade per coltivare marijuana. Una grossa serra. Però non mi hanno fatto altre domande. Il vecchio avrà pensato che meno sa meglio è. Se il governo dovesse mai chiedergli qualcosa, lui può sempre dire che non ne sapeva niente. In questo modo non possono confiscargli la proprietà.»
«Bene. Chiudiamo l'accesso alla strada con una catena. Metti qualche grosso cartello con VIETATO L'ACCESSO e procurati un paio di cani feroci. Intendo dire cani che azzannino tutto quello che si muove. Legali con una catena all'esterno dell'edificio e assicurati che riescano ad arrivare a tutte e due le porte. E qui dev'esserci sempre qualcuno. Tu dormirai qui, la notte.» Henry annuì, prendendo mentalmente nota di tutto. «Quanto tempo abbiamo?» «Il tempo che serve», rispose Chaney. «Ma non di più. Stamattina il colonnello mi ha spiegato che il governo sta facendo indagini e ha emesso mandati. Stanno cercando un'organizzazione.» Fece una risatina. «Fortunatamente per noi, si sono infilati in una strada che sta per diventare un vicolo cieco.» Diede un'ultima occhiata all'edificio. «Direi che per essere tranquilli abbiamo dieci giorni.» «Ce la faremo?» chiese Henry. «Il camion lo posso preparare. Ho già il telaio e il pianale. Sull'altro lato dell'isola c'è un vecchio serbatoio di fertilizzante. L'ho visto la settimana scorsa e ho parlato col proprietario. Posso comprarlo e usarlo per costruire il contenitore da mettere dietro. Il problema è il resto. Come maneggiare quella roba ed essere sicuri di non finire a far luce di notte come le lucciole.» «Lo so», borbottò Henry. «Neanche a me piace maneggiare quella roba.» «Lasciamo che sia Thorn a preoccuparsene. E poi dovrebbe fare tutto il russo. È molto ben addestrato. Sa il fatto suo.» «Già. Così ben addestrato che ora se ne sta in galera.» «Il russo è un problema mio», ribatté Chaney. «Un problema tuo?» «Thorn ha un piano per farlo uscire.» «Sarà meglio che si dia una mossa. Io non ho intenzione neppure di toccarla, quella bomba.» «Tu ti preoccupi troppo.» «È quello che dicevano a Cernobyl. Ora nascono bambini con quattro gambe e un occhio solo in mezzo alla fronte. È solo che vorrei avere ancora almeno un figlio», disse Henry. «Non mi va di sparare a salve con mia moglie.» «Faresti un piacere ai posteri», ribatté Chaney. Scoppiarono a ridere entrambi. Henry avrebbe riso ancora più forte se
non fosse stato così preoccupato. «Nel frattempo, come dicono i nostri amici a Deming, 'procurami due cani feroci, hai capito'?» Chaney imitò la parlata pesante di quei bifolchi ignoranti che credevano di averlo assunto. Henry annuì. Il colloquio era finito. Chaney si diresse verso il camioncino. «Ah», esclamò, voltandosi. «A momenti me ne dimenticavo. Avremo bisogno di liquame. Ordina una di quelle latrine portatili, sai quali dico. Falla sistemare lì davanti e di' a tutti di usare solo quella. Anzi, meglio ancora, chiudi a chiave la latrina sul retro, così non avranno altra scelta.» «Perché?» «Tu non ti preoccupare. Fallo e basta.» Tukwila, Stato di Washington Oscar Chaney sapeva che in un modo o nell'altro l'avrebbero preso: o con una mazzetta esplosiva o col famigerato chip elettronico. Dopo che aveva percorso quindici isolati senza che dentro l'auto fosse scoppiato niente, pensò che doveva per forza trattarsi del chip. C'erano un sacco di reati stupidi, ma nessuno stupido quanto la rapina in banca, e lui lo sapeva. Ma non aveva altra scelta: era l'unico modo certo per farsi arrestare dai federali. La rapina in banca era un reato federale. Lo avrebbero rinchiuso a Kent. Il governo aveva un contratto con la contea perché ospitasse i suoi prigionieri nel carcere di Kent in attesa del processo. Il russo era chiuso là dentro, e lui doveva farlo uscire prima che l'FBI scoprisse su chi aveva messo le mani. Chaney aveva raccomandato a Čenko di non dare nell'occhio. E invece il russo si era messo a girare per il quartiere a luci rosse e, tre giorni prima, aveva cercato di pagare una puttana in rubli. Si era ubriacato, diventando violento. La donna aveva fatto una scenata e si era messo in mezzo il suo magnaccia. Čenko si era beccato un pugno in faccia, ma il magnaccia si era ritrovato dalla parte sbagliata di una Taurus 45 automatica. Fortunatamente erano volati solo insulti e niente spari, però, quand'era arrivata la polizia, il russo e il magnaccia erano stati arrestati. Un controllo con l'ufficio immigrazione aveva subito rivelato che Čenko era entrato nel Paese illegalmente. Questo, insieme col possesso della pistola, lo aveva fatto finire nel carcere di Kent. Oscar Chaney continuava a guardare il sacchetto di carta posato sul sedi-
le accanto. Aveva lasciato che la cassiera scegliesse le mazzette e sapeva che gli aveva dato una «mazzetta esca». Di solito erano pacchetti di banconote da cento, qualcosa che un rapinatore non poteva rifiutare. La vecchia tecnologia era la mazzetta con la vernice: un fascio di banconote esplosivo contenente una tintura indelebile, di solito di un colore vivace e fluorescente, arancione o verde, con l'aggiunta di un po' di gas lacrimogeno per buon peso. Se fosse esploso, avrebbe imbrattato Chaney e l'interno della vettura. Era il tipo di prova che i procuratori distrettuali adoravano. Di' un po' al tuo avvocato che lo spieghi lui alla giuria. Ma la mazzetta con la vernice aveva un inconveniente: se fosse esplosa troppo presto, all'interno della banca, un rapinatore nervoso e armato avrebbe potuto cadere in preda al panico e prendere ostaggi o, peggio ancora, mettersi a sparare. L'ultima moda fra i tutori dell'ordine era la mazzetta elettronica. Incollata tra due banconote da cento dollari, la trasmittente, grande quanto una carta di credito, veniva attivata dal meccanismo a molla del cassetto della cassa. Non appena l'impiegato la estraeva, la trasmittente incominciava a emettere un segnale silenzioso che la polizia era in grado di rintracciare. Chaney pensava di averli già alle calcagna, un corteo di macchine civetta che lo seguivano lentamente nel traffico. Perché lanciarsi in un inseguimento ad alta velocità quando potevi fregare l'indiziato e aspettarlo a casa sua? La polizia operava tramite una squadra anticrimine formata da agenzie locali, statali e federali, una specie di squadra di pronto intervento dotata di armi automatiche. Per questo motivo Chaney non aveva una pistola con sé. Pensava che, se si fosse messo le mani in tasca e l'avesse minacciata, la cassiera gli avrebbe creduto sulla parola. Il piano era di farsi prendere e mandare nel carcere di Kent, non di farsi sparare addosso. Aveva solo due giorni di tempo per trovare il russo e farlo uscire. Senza Čenko, l'intera operazione doveva essere annullata. Soltanto lui era in grado di assemblare l'ordigno e accertarsi che funzionasse. Chaney svoltò l'angolo e vide le luci blu, rosse e bianche che lampeggiavano su cinque volanti ferme in fondo alla strada, bloccata completamente. Pistole e fucili erano puntati contro di lui. Altre tre macchine arrivarono con uno stridore di gomme alle sue spalle, chiudendo l'incrocio. I poliziotti presero posizione con le armi spianate, riparandosi dietro le portiere aperte. Poi uscì l'altoparlante. «Scendi dall'auto con le mani alzate, in modo che possiamo vederle. Subito.»
Non avevano ancora finito di parlare che Chaney aveva già le mani fuori del finestrino aperto. 4 Friday Harbor, Stato di Washington Quella mattina, quando Joselyn arrivò in ufficio, notò che la macchina di Sam si trovava già in garage. Era arrivata presto. Samantha Hawthorne era la sua padrona di casa e la migliore amica che avesse sull'isola. Sam era una con le palle. Immune dalla flemma degli isolani, sapeva quello che voleva e all'occorrenza sarebbe riuscita a trovarsi un bel posticino anche all'inferno. Viveva a Friday Harbor da quindici anni e quindi era quasi come se fosse nativa del posto. Aveva quarantacinque anni ma ne dimostrava trenta; era una brunetta tutta curve, troppo in gamba per sposarsi, una persona da trattare coi guanti. Sulla porta del suo ufficio si scorgeva una targa di legno pitturato e intagliato. Sotto il nome c'era scritto: IPNOSI E PSICOTERAPIA. Quando Joselyn imboccò il corridoio che portava al suo ufficio, vide che la porta di Sam era aperta: lei stava seduta alla scrivania, dietro una pila di carte. «Mi fa piacere che tu sia arrivata», osservò Sam. «Hai dormito troppo?» Joss guardò l'orologio. «Sono solo le nove.» «Sì, e c'è chi lavora già da un pezzo. Appuntamento impegnativo, ieri sera?» «Già, con un manuale di diritto societario.» Aveva fatto le ore piccole preparando tutti i documenti per la società di Belden. «È tutta la mattina che squilla il tuo telefono», disse Sam. Le due donne dividevano un impianto telefonico che Sam aveva fatto installare quand'era entrata lì dentro. Sperava di trovare presto altri inquilini in modo da poter dividere con loro il costo di una centralinista. «Alla fine ho risposto per autodifesa», proseguì. «Non riuscivo a lavorare.» Spinse un foglietto rosa per appunti sul ripiano della scrivania verso di lei. Joselyn entrò e lo prese. «Una tazza di caffè?» chiese Sam. Il messaggio telefonico era di Dean Belden. «No. Ne ho bevuto uno venendo qui. Era urgente?» «Come?»
«Il messaggio...» La settimana di tempo che si era presa per preparare i documenti non era ancora passata, e lui la stava già chiamando. «Non lo definirei disperato», rispose Sam. «A giudicare dal tono di voce, direi che non è il tipo che si fa prendere dal panico.» Sam era molto pronta nel giudicare le persone, anche se l'unico elemento a disposizione era una voce al telefono. Si versò una tazza di caffè dalla caffettiera posata sulla credenza dietro la scrivania. «Sì. Ma ti ha detto che cosa voleva?» riprese Joselyn. «Non siamo entrati cosi in confidenza.» Sorseggiò il caffè e la guardò al di sopra della tazza. «Vuole che lo chiami. Di che cosa si tratta? Di violenze domestiche? Di qualcosa di penale?» «Niente che ti possa interessare.» «Come fai a saperlo? Al telefono mi è parso promettente.» «È un imprenditore. E paga in anticipo.» Rivolse a Sam un sorriso malizioso. «Allora m'interessa di sicuro. Gli affari sono sempre causa di stress.» Le fece l'occhiolino. «Chissà, forse potrebbe aver bisogno di un po' di terapia.» «Non illuderti. Dean Belden non mi sembra il tipo che si lascia assalire dallo stress. Che fai a pranzo?» «Chiamami», disse Sam. Joselyn si diresse nel suo ufficio, aprì la porta e mollò borsa e valigetta sulla sedia. Compose il numero di Belden. Lui rispose al primo squillo. «Sì?» Il tono era un poco più aspro, meno raffinato che al loro primo incontro. «Signor Belden, sono Joselyn Cole. So che mi ha chiamato.» «Ah, signorina Cole.» La sua voce si fece più morbida, più sofisticata. «Ho un problema», disse. «Devo vederla oggi.» Era più un ordine che una richiesta. Belden sembrava abituato a dire alla gente quello che doveva fare. «Al più presto possibile», aggiunse. Voleva indietro i suoi soldi, Joselyn se lo sentiva. Si era trovato un altro avvocato. «Ho cominciato a lavorare alla documentazione», gli spiegò. «Bene.» «Ho già presentato la richiesta d'identificativo di ragione sociale. Mi sono riservata di aggiungere il nome.» «Ottimo», annuì lui. «Pensavo ci vedessimo la settimana prossima. Dovrebbe essere tutto pronto per allora.»
«Si tratta di un'altra faccenda. È saltato fuori un nuovo problema.» «Capisco. Bene, quando vuole che ci vediamo?» «Subito. Sarò nel suo ufficio tra venti minuti.» Prima che lei potesse dire qualcosa, Belden riattaccò. Quindici minuti dopo, Joselyn udì rumore di passi sul ballatoio. La porta dell'anticamera si aprì e si richiuse. «Sono qui», gridò una voce attraverso la porta chiusa del suo ufficio. Un paio di secondi dopo Belden infilò dentro la testa. «Spero di non aver sconvolto troppo la sua giornata. Grazie per avermi ricevuto con un preavviso così breve.» «Non si preoccupi. Entri. Qual è il problema?» «Non so come spiegarglielo», rispose lui. «Sono un po' imbarazzato. Non mi è mai accaduto niente di simile prima d'ora. Neppure una multa per eccesso di velocità in dieci anni.» «Di che si tratta?» Si mise a sedere su una delle poltrone riservate ai clienti. «Ieri mi trovavo nel mio ufficio e stavo lavorando ad alcuni documenti quando entra quest'uomo, vestito con un abito blu e stivali neri da cow-boy. Un gran paio di baffi. Sembrava un po' trasandato. Mi ha chiesto se ero Dean Belden. A vederlo, non sapevo se dire di sì o di no. Capisce?» Lei annuì. «Era grosso. Non molto gentile, corpulento. La quintessenza del poliziotto. Gli ho detto che ero io. Che altro potevo fare?» «E...?» «E lui mi ha dato questa.» Infilò una mano nella tasca interna della giacca e tirò fuori una busta. «Poi, all'improvviso, si è voltato e se n'è andato.» Si sporse al di sopra della scrivania e le porse la busta. Era stata aperta nella parte superiore con uno strumento affilato. Joselyn tirò fuori il foglio di carta piegato all'interno e lo aprì sulla scrivania. Era tutto stropicciato e spiegazzato e aveva alcune macchie di caffè con l'impronta rotonda del fondo di una tazza nei punti in cui era stata posata sul foglio. Parte del testo battuto a macchina era imbrattato. «Che cos'è successo a questo documento?» «Mi ci è caduto sopra un po' di caffè», rispose Belden. «Un po'? Non si riesce neppure a leggere la data della comparizione», osservò Joselyn. «Mercoledì», disse lui. «Immagino che lei sia libera, vero?» Lei guardò l'agenda, ma non rispose alla domanda.
«Penso che quel tizio fosse un ufficiale giudiziario», concluse Belden. «Come facevo a saperlo?» «O un ufficiale giudiziario o un agente di polizia giudiziaria.» Joselyn cercò di leggere tra le righe di ciò che era scritto sul foglio, come pure sul volto di Belden e nei suoi occhi. Il documento era breve, l'espressione di lui enigmatica. «Di che si tratta?» «Proprio non lo so», sospirò lui.
«Dovrà pur avere un'idea del perché vogliono parlare con lei.» «Non ne ho la minima idea.» Joselyn non sapeva se credergli o no. Lui sollevò due dita in una specie di giuramento dello scout. «Lo giuro.»
Com'era tipico di un gran giurì federale, l'ordine di comparizione che intimava a Belden di presentarsi a Seattle non svelava nulla della natura dell'inchiesta governativa. Negli Stati Uniti un gran giurì federale è la cosa più vicina che esista a un tribunale dell'Inquisizione o a un tribunale speciale della Corona: pochissimi diritti, niente che somigli a un controinterrogatorio, nessuna concessione alla presenza di un avvocato dentro l'aula. Non ci sono vere regole riguardo all'ammissibilità delle prove. L'unica cosa che non possono fare è torturarti... almeno in teoria. Vatti a fidare della parola del governo. «C'era qualcos'altro dentro la busta?» «Tipo?» «Una lettera? Qualche comunicazione?» «No. Soltanto quel foglio che vede.» «Questa dovrebbe essere una buona notizia», gli disse. «Perché?» «Non c'è nessuna informazione di garanzia.» «Che cos'è?» «Se lei fosse l'oggetto della loro indagine, avrebbero dovuto comunicarglielo e mandarle quella che si chiama un'informazione di garanzia, in cui la si mette al corrente dei suoi diritti. Primo fra tutti quello di restare in silenzio. Il fatto che lei non l'abbia ricevuta significa probabilmente che stanno indagando su qualcun altro e lei è solo un testimone.» «Che devo fare?» «Anzitutto non parlare della citazione con nessun altro. Non l'ha fatto, vero?» «No.» «Bene. Se lei fosse oggetto della loro indagine, le consiglierei di appellarsi al Quinto Emendamento. Presentarsi, in modo da non poter essere accusato di disprezzo della corte, ma non dire nulla. Ovviamente, lo può fare in ogni caso, e potrebbe essere una mossa prudente.» «Non penseranno che sono colpevole di qualcosa se mi rifiuto di collaborare?» «Non è quello che pensano che può nuocerle, bensì quello che possono provare.» Il problema, con un gran giurì federale, erano i suoi poteri. La non ammissibilità era un concetto inesistente. Potevano rivoltare la tua vita come un calzino, chiamare tutti i tuoi vicini e soci d'affari a testimoniare, passare un anno a diffamarti con illazioni varie e non riuscire a far nulla, a parte
rovinarti la reputazione. «Mentre indagano sui crimini di qualcun altro potrebbero scoprirne uno suo», gli disse. «Io non ho mai fatto niente di male.» «San Belden», disse Joselyn. «Capisco.» Lo guardò, incrociando i suoi occhi color smeraldo. «E le sue dichiarazioni dei redditi? Immagino che anche quelle siano ineccepibili, vero? Mai inserite detrazioni che non possano essere documentate, vero?» Lui alzò gli occhi al soffitto con un'espressione quasi buffa. «Dunque, mi faccia pensare.» Rifletté qualche istante. Si portò un indice alle labbra. «Non credo. No. Ne sono sicuro. Il mio unico delitto è la lussuria e, sfortunatamente, quello è stato commesso solo con la mente.» Joss si sforzò di trattenere una risata. «La prego», disse. «È una faccenda seria.» «Lo so.» «Se decide di collaborare, va benissimo. Ma io chiederei qualcosa in cambio.» «Ci sto provando.» «La prego, signor Belden.» «Mi chiami Dean.» «Potrebbe trovarsi in guai seri, Dean. Un buon avvocato chiederebbe l'immunità, tanto per essere al sicuro.» «Se lei crede che è questo che debba fare...» «Se lei non è oggetto d'indagine, il governo non dovrebbe avere problemi a garantirle l'immunità. Magari l'immunità parziale.» «Che cos'è?» «Non è assoluta come quella totale e significa che il governo non può usare contro di lei ciò che lei rivela davanti al gran giurì, purché lei dica la verità.» «Ma tu guarda i guai in cui puoi trovarti facendo quello che dice il governo! Che cos'è questa faccenda?» esclamò Belden. «Insomma, che stanno cercando?» «Davvero non ne ha idea?» Lui scosse la testa. «Devono essere convinti che lei sia in possesso d'informazioni che a loro interessano.» «Quali informazioni?» «Ci pensi», ribatté lei. «Qualcosa che riguarda gli affari?»
Lui scosse la testa lentamente, come se stesse frugando nella memoria alla ricerca di un'indicazione. «In quale campo faceva affari prima di venire qui?» «Elettronica. Ho sempre lavorato nel campo dell'elettronica. Non ho mai fatto altro. È il mio lavoro, l'unico che so fare.» «Forse qualcuno con cui ha fatto affari?» All'improvviso nei suoi occhi verdi comparve un lampo. Si batté il palmo della mano sulla fronte. «Ma certo! Perché non ci ho pensato prima?» «Pensato a che cosa?» «A Max Sperling. Ecco che cos'è. Non può essere altro.» «Chi è Max Sperling?» «Ho concluso qualche affare con lui due anni fa. O erano tre?» Rifletté per un secondo. «Sì, è più facile tre. Era un fornitore di componenti elettronici, giù nella Silicon Valley. Ho saputo che aveva avuto qualche guaio con la giustizia, un anno fa. Aveva smerciato microchip rubati o qualcosa del genere. Non vi ho prestato molta attenzione perché ormai non eravamo più in rapporti d'affari.» «Che cosa comprava da lui?» «Microchip.» Nella testa di Joselyn si misero a squillare vari campanelli. «Quanti?» «Oh, non lo so. Un duecentomila dollari di merce. Si trattava di un ordine di poco conto. Lui era un piccolo fornitore indipendente. Si spostava su e giù per la costa.» Joselyn s'immaginava quel tizio che apriva il baule della macchina e si metteva a vendere per strada, e si chiese che cosa sapesse realmente Belden. «Lui era sempre in movimento, però il magazzino era nella Bay Area. Almeno, a me aveva detto così. All'epoca quei componenti erano difficili da trovare, specialmente quelli che vendeva lui.» «Che cosa li rendeva così speciali?» «Erano fatti apposta per i microinterruttori, progettati espressamente per certi tipi di articoli.» La domanda seguente doveva essere formulata con estrema delicatezza. «All'epoca, quando acquistava questi microchip dal signor Sperling, lei non aveva motivo di sospettare che fossero rubati?» Gli suggerì la risposta con un cenno della testa e strizzando l'occhio. Un avvocato non vuole mai sapere con assoluta certezza che il suo cliente ha commesso un crimine, specialmente un crimine che offre tante vie di fuga
come l'acquisto di merce rubata. Lui scosse la testa con espressione solenne. «No. Mai. Neppure il minimo dubbio.» «Parliamo del prezzo che lei pagò per quei microchip», gli disse. Quello che Belden pensava era una cosa, quello che poteva pensare una giuria era un'altra. «Pagò un prezzo normale?» «Era un affare», ammise lui, col tono da vecchia volpe. «Non lo definirei straordinario. Da quanto ricordo era un prezzo concorrenziale tendente al basso.» «Quanto basso?» «Ragionevole.» Joselyn sospirò. Dopotutto, la richiesta d'immunità poteva non essere un'azione inutile. «All'epoca il signor Sperling vendeva microchip anche ad altri?» riprese. «Oh, certo. A tutti.» «Che lei sappia, lei era uno dei suoi maggiori clienti?» «Non lo so, ma non credo. C'erano anche altri.» «Chi?» «Così su due piedi non me lo ricordo.» «Dunque è possibile che lei fosse uno dei suoi principali clienti?» «È possibile.» «Però lei sostiene che non aveva motivo di sospettare che ci fosse qualcosa di poco chiaro in queste transazioni, vero? Non ha mai supposto che potesse trattarsi di merce rubata?» «Assolutamente no. Era un normalissimo affare. Lui vendeva, io compravo.» «È quanto accade di solito con la merce rubata», gli fece notare lei. «Quello che conta davvero è ciò che lei credeva.» «Credevo che si trattasse di un affare lecito.» «Ha qualche documentazione di queste transazioni? Ricevute? Ordini?» «È possibile. Dovrei guardarci.» Seguì un momento di silenzio, durante il quale Joselyn studiò ancora una volta la citazione. «Che c'è?» fece lui. «C'è scritto qualcosa?» «No. È quello che non c'è scritto che mi preoccupa.» «Cioè?» «Be', se il problema stesse davvero nei suoi affari con questo Sperling, il governo chiederebbe di vedere i suoi registri. Qualsiasi prova dei suoi rap-
porti d'affari con lui.» Lui la guardò e si strinse nelle spalle. «Immagino di sì.» «E invece no.» Dean Belden scosse la testa. «Non so. I miei affari con Sperling sono l'unica cosa che mi è venuta in mente.» «Be', se si tratta davvero di questo, direi che forse non ha troppo di cui preoccuparsi. Probabilmente vogliono soltanto sapere che cosa sa lei. Ma, per essere tranquilli, io chiederei comunque l'immunità.» Dall'altra parte della scrivania venne un sospiro di sollievo chiaramente udibile. «Io mi presenterei e risponderei alle loro domande con sincerità», riprese Joss, «però soltanto se le garantiscono l'immunità, altrimenti resterei in silenzio e mi appellerei al Quinto Emendamento.» «Che intende dire? Lei non viene con me?» «Non credo sia necessario.» «Be', io penso di sì.» «Le costerà un bel po' di soldi.» «Non m'interessa. Lei è il mio avvocato.» «Probabilmente stanno sparando a casaccio e il suo nome è comparso su un documento o è stato fatto da un altro teste.» «Già, probabilmente è così. Comunque io voglio che lei sia presente.» «Se insiste.» «Insisto. Mi dica quant'è la sua parcella.» Prese il libretto degli assegni. «Dovrò farle pagare le ore di viaggio.» «Non c'è problema.» Prese a scrivere prima che Joselyn potesse obiettare qualcosa. «Lo ha già fatto?» le chiese. «Non davanti a un gran giurì federale. Tuttavia ho avuto clienti messi sotto accusa dallo Stato.» «Non so se si possa considerare una raccomandazione.» Alzò lo sguardo verso di lei ed entrambi scoppiarono a ridere. «Non c'è bisogno che mi paghi ora.» «Sciocchezze», borbottò lui, continuando a scrivere. «Chiamerò l'ufficio del procuratore. Temo che non mi diranno nulla per telefono, ma posso provare.» «Certo.» «Davvero, non c'è bisogno di un anticipo. Le manderò la parcella.» Lui sorrise e continuò a scrivere. «Lei è stata troppo buona con me. Non voglio tirarle un bidone.»
«Perché dovrebbe tirarmi un bidone?» «Mi dia retta», disse lui. Finì di scrivere, staccò l'assegno e glielo porse. Joselyn stava fissando il «5000 dollari» scritto nello spazio riservato all'importo, quando lui disse: «Sa dove si trova Roche Harbor?» Su un'isola, si sa dove si trova più o meno tutto. Joss annuì. Lui stava già andando verso la porta. «Ci vediamo là, al molo, mercoledì mattina alle sette.» «Un momento. È sicuro che arriveremo a Seattle in tempo?» «Non si preoccupi. Ci vediamo là», rispose lui, ed era già uscito. 5 Ekaterinburg Erano sei ore d'aereo da Mosca, e Gideon van Ry aveva difficoltà a dormire. L'attraversamento degli Urali somigliava alla discesa con la slitta da un pendio tutto sassi. Su quella rotta, l'Aeroflot non usava gli airbus europei, riservati per salvaguardare l'orgoglio nazionale nei voli su Parigi e Londra o per i voli intercontinentali verso l'America. Sulle rotte siberiane veniva utilizzata la vecchia flotta di Tupelev: aeroplani pesanti e rumorosi che sembravano voler sfidare le leggi fisiche del volo. E a volte lo facevano. Non c'erano maschere a ossigeno sopra i sedili, e soltanto i temerari si chiedevano se i cuscini galleggiassero. Gideon era abituato a tutto questo. Aveva passato l'infanzia a saltare da una parte all'altra dell'Europa, a fare la spola tra il padre ad Amsterdam e la madre a Mosca. Però non era mai stato nella parte orientale della vecchia Unione Sovietica, oltre gli Urali. Lì c'erano pendii coperti di pini, milioni di chilometri quadrati di foreste impenetrabili: era, quella, una regione ricca di minerali dove Stalin aveva sistemato i suoi gulag e i leader sovietici che gli erano succeduti avevano nascosto il loro arsenale nucleare. Un'area che avrebbe potuto inghiottire l'Europa occidentale in un sol boccone senza neanche un rutto. Gli ci erano voluti tre giorni di peregrinazioni tra i vari uffici di Mosca, riscuotendo tutti i crediti accumulati e facendo visita a tutti gli amici che aveva per ottenere l'autorizzazione del governo a varcare i cancelli di Sverdlovsk. Una macchina del governo con autista lo aspettava all'aeroporto. Quando l'aereo iniziò la sua discesa attraverso le nuvole, Gideon scorse
un panorama strano e irreale, un tappeto verde di pini e betulle che si estendeva a perdita d'occhio verso est. Ogni tanto comparivano tratti di strada asfaltata simili a nastri serpeggianti che uscivano dalla foresta impervia per scomparire subito dopo nel verde mare di pini. Non si scorgeva neppure un veicolo, anche quando le strade erano visibili per lunghi tratti. Era come se l'aereo stesse scendendo su un pianeta disabitato. Ma Gideon non si lasciò ingannare dall'apparenza. Sapeva che Ekaterinburg era una città di due milioni di abitanti, in una delle zone più prospere e in più rapida crescita della Federazione Russa. Intitolata a Caterina la Grande, era un centro di commercio di pelli all'epoca in cui Jefferson stilò la Dichiarazione d'Indipendenza. Gideon aveva visto foto delle grandi dimore fatte costruire dagli zar delle pellicce, imponenti strutture georgiane che punteggiavano ancora il centro cittadino, seppur ingrigite dallo sporco dell'industria. Nel periodo bolscevico, alla città era stato dato un nuovo nome, Sverdlovsk, in onore di Jakov Sverdlov, primo segretario del Comitato Centrale del partito comunista. I bolscevichi erano ansiosi di cancellare il nome di Ekaterinburg dalle cartine per un unico motivo: nelle prime ore del mattino del 16 agosto 1918, nella cantina di una di quelle grandi case, era stato commesso un raccapricciante delitto che aveva macchiato per sempre la storia della Russia. Nicola e Alessandra, lo zar e la zarina, insieme con tutti i loro figli, gli ultimi Romanov, erano stati uccisi a colpi d'arma da fuoco. I loro corpi erano poi stati trasportati a bordo di un camion nella foresta e sepolti. Come se volesse continuare il filo della storia, circa settant'anni dopo, la città aveva mandato un altro dei suoi cittadini a guidare il Paese. Prima di diventare premier della Federazione Russa, Boris Eltsin era stato sindaco di Ekaterinburg. Uno dei primi atti durante il suo mandato era stato quello di demolire la casa dov'era avvenuta l'esecuzione della famiglia dello zar, un atto di cui in seguito si sarebbe pentito. All'inizio degli anni '90, con la caduta del comunismo, Sverdlovsk si era riappropriata delle proprie origini, diventando nuovamente la «Città di Caterina». In questa città si era svolta così tanta parte della storia russa che Gideon desiderava da tempo visitarla. Quando l'aereo si abbassò, vide all'orizzonte una distesa di tetri edifici bianchi, un complesso industriale che conosceva grazie alle fotografie scattate dai satelliti. Durante il suo periodo di massima attività gli era stato assegnato un numero ed era stato chiamato solo
Sverdlovsk-45. Tutta l'area circostante era considerata di massima sicurezza e i cittadini sovietici dovevano essere in possesso di uno speciale lasciapassare per spostarsi nella zona intorno alla città. L'aereo si tuffò sotto il livello del mare di pini e le sue ruote scivolarono sulla pista, i motori invertirono la spinta e il vecchio Tupelev si fermò, dapprima con uno scossone, poi procedendo più lentamente. Gideon ci mise più di un'ora a recuperare i bagagli e a trovare il suo autista e la macchina del governo davanti al terminal. Cinquanta minuti più tardi varcava i cancelli di Sverdlovsk-45. Si trattava di un immenso complesso di tetri edifici, come se ne possono trovare in qualsiasi nazione sviluppata in cui lo sfacelo dell'industria sta cominciando a erodere i margini della comunità. Lì la stava addirittura divorando. Tetti crollati e finestre rotte sembravano dominare, sebbene non ci fosse traccia dei graffiti che contraddistinguono luoghi simili in Occidente. Ovunque ferveva l'attività: pesanti veicoli che trainavano rimorchi, uomini in tuta da lavoro ed elmetti, guardie armate di kalashnikov. L'autista si fermò davanti a un edificio austero, subito dentro i cancelli. C'erano due macchine di fabbricazione russa, due Lada che avevano accumulato parecchi chilometri, polvere e ammaccature. Accanto a esse, una Mercedes SL decappottabile nuova fiammante, color azzurro polvere metallizzato. Il parcheggio era disseminato di rottami di container troppo grossi per essere portati via e di bande d'acciaio che probabilmente avevano avvolto casse di legno da tempo ridotte in cenere nel caminetto di qualche operaio intraprendente. Gideon immaginò che l'edificio adiacente al parcheggio ospitasse gli uffici amministrativi. Sapeva che l'oggetto della sua indagine erano i bunker nascosti nelle viscere delle dolci colline in lontananza. Era risaputo che, nella Federazione Russa, si contavano trentamila ordigni nucleari conservati in depositi o su rampe di lancio. Oltre a questi, nel Paese si trovavano più di mille tonnellate di uranio arricchito e cento tonnellate di plutonio: si trattava di materie prime per il confezionamento di ordigni nucleari e sulle quali convergevano le maggiori preoccupazioni degli esperti, sia occidentali sia russi. C'erano stati parecchi casi di contrabbando verso la Germania e l'Italia, come pure verso altri Paesi d'Europa e le nuove Repubbliche dell'Est. In tutto, fino a quel momento, si era a conoscenza di circa cinquanta casi documentati; quasi tutti si riferivano al furto di uranio naturale e solo alcuni riguardavano materiale fissile arricchito per usi militari, ma in piccolissime
quantità. Non era la prima volta che un ordigno nucleare o una certa quantità di materie prime risultavano mancanti in uno dei rapporti dell'Istituto. Quasi sempre si rivelavano errori di registrazione. In questo caso, però, era la natura degli ordigni mancanti a preoccupare: due piccole testate balistiche facilmente trasportabili, in cima alla lista della spesa di ogni gruppo terroristico. Gideon conosceva bene l'artiglieria nucleare da campagna. Era stata oggetto di discussioni e di trattativa in numerosi negoziati. All'inizio degli anni '50, gli Stati Uniti avevano realizzato un proiettile da artiglieria da otto pollici. Con gli anni lo avevano perfezionato e ne avevano aumentato il potere distruttivo, riducendo le dimensioni del meccanismo balistico d'innesco e il volume dello strato di confinamento, aggiungendo riflettori al berillio e ricorrendo a esplosivi convenzionali sempre più potenti per innescare la reazione a catena. Nella versione finale, questi proiettili non misuravano più di novanta centimetri di lunghezza e venti di diametro per un peso di centoquindici chili al massimo. Eppure, nonostante le dimensioni ridotte, erano in grado di liberare dieci kiloton di forza distruttiva. Ma queste erano statistiche prive di significato finché non venivano applicate al mondo reale. Se fosse stato fatto esplodere uno di questi proiettili anziché una miscela di fertilizzanti e carburanti, l'esplosione avvenuta a Oklahoma City, che aveva fatto 162 morti, avrebbe raso al suolo tre miglia quadrate di città e il numero dei morti sarebbe stato nell'ordine delle centinaia di migliaia. Se nell'attentato al World Trade Center, anziché un'auto bomba, fosse stata fatta detonare una bomba nucleare, la parte bassa di Manhattan sarebbe scomparsa e tutto quanto si trovava tra il Financial District e Gramercy Park sarebbe andato totalmente distrutto. Anche i sovietici avevano costruito proiettili di quel tipo. Ed era proprio questo che Gideon stava cercando, che sperava e pregava di trovare a Sverdlovsk: due piccole testate smarrite in una sconfinata palude contabile. Mostrò il lasciapassare alla guardia sulla porta, che lo porse a un agente all'interno. Due minuti dopo Gideon venne accompagnato in una piccola sala d'aspetto, dove si mise a sedere sulla dura panca di legno e si dispose ad attendere. Guardò l'orologio: erano passati dieci minuti. Finalmente la porta si aprì e ne uscì un uomo alto e magro, calvo e con gli occhiali. Teneva in mano il lasciapassare e si rivolse a Gideon in russo. «Sono van Ry», rispose Gideon.
L'altro lo squadrò da capo a piedi. «Di che si tratta?» Rispondendo in russo perfetto, Gideon gli porse il suo biglietto da visita con l'intestazione dell'Istituto e osservò l'uomo per capire se riusciva a leggere l'inglese. Gli occhi del russo si spostarono veloci dal biglietto al volto di Gideon. Le sue parole seguenti furono pronunciate in un inglese stentato ma chiaramente comprensibile. «Di che si tratta?» «Ho il permesso delle autorità di Mosca di parlare col vostro direttore. È disponibile?» «È molto occupato», rispose il russo. «Credo che accetterà di vedermi. Gli dica che sono qui, per favore.» Il russo guardò ancora una volta il biglietto da visita, poi la firma sul lasciapassare emesso a Mosca. Gideon gli leggeva nella mente. Si stava chiedendo che cosa ci faceva un cittadino russo negli Stati Uniti al servizio di un Istituto che si occupava di armamenti nucleari. «Aspetti qui.» Il russo si voltò e si chiuse la porta alle spalle. Gideon guardò l'orologio appeso al muro, si voltò, e tornò a sedersi e ad aspettare. Qualche minuto dopo, la porta si riaprì e il russo tornò. «Mi segua.» Gli fece strada per un lungo corridoio e attraverso un labirinto di piccoli uffici e cubicoli, molti dei quali erano vuoti: sembrava non fossero stati puliti da mesi. Un velo uniforme di polvere ricopriva i pavimenti. All'improvviso il pavimento di cemento nudo venne sostituito dalla moquette. Qualche metro più avanti si fermarono davanti a due porte di legno. Il russo ne aprì una, entrò e si fece da parte per lasciar passare Gideon. Non appena entrò nella stanza, Gideon vide un altro uomo seduto dietro un'imponente scrivania di legno. Alle pareti erano appesi parecchi quadri e pezzi africani, maschere e oggetti intagliati che sembravano fuori posto tra i pannelli acustici macchiati del soffitto e le pareti tetre dell'ufficio. L'uomo dietro la scrivania si alzò per accogliere Gideon. Indossava un completo con la cravatta, un abito di sartoria, non di fattura russa. «Dimitri mi ha detto che lei viene dall'Istituto di Santa Crista.» Sorrideva e teneva in mano il biglietto da visita. «Giusto.» Gideon sfoggiò il suo miglior sorriso, attraversò l'ufficio e gli tese la mano, che il russo strinse con calore. «Non siamo abituati a ricevere visitatori», proseguì l'uomo. «Si sieda, la prego. Dev'essere stanco. Dimitri mi ha detto che arriva da Mosca.»
Gideon annuì. «Com'è il tempo, laggiù?» Gideon si mise a sedere e Dimitri chiuse la porta, lasciandoli soli. «Il tempo era buono», rispose Gideon. «Vede che cosa abbiamo qui? Nuvole. Sempre nuvole», osservò il russo. «In California dovete avere un tempo magnifico, vero?» «Sì, è piuttosto gradevole.» «Sa, ho sempre desiderato visitare il vostro Istituto. Mi deve spiegare come ha fatto a ottenere un lavoro lì. È sulla costa, giusto?» «Sì.» «Si trova vicino a Hollywood?» L'uomo parlava un inglese perfetto. «No.» Il russo parve deluso. «Deve scusarmi», sospirò. «Non so proprio dove siano finite le mie buone maniere. Io sono Nikolaj Mirnov, direttore di Sverdlovsk-45. O meglio di quanto resta di esso.» Alzò gli occhi al soffitto. «Lei ha già incontrato il venti per cento del mio personale.» Si riferiva a Dimitri. «È al corrente delle nostre difficoltà?» «Le conosco molto bene», disse Gideon. «Dev'essere dura.» «Non se lo immagina neppure», ribatté Mirnov. «Solo due mesi che Dimitri non viene pagato. Io stesso ho ricevuto tre riduzioni di stipendio soltanto nell'ultimo anno. E il lavoro continua ad accumularsi.» Fece un gesto in direzione di alcune pile di documenti disseminate per l'ufficio. Gideon si stava chiedendo chi fosse, in tali condizioni di austerità, il proprietario della Mercedes parcheggiata fuori. Ma aveva abbastanza diplomazia per trattenersi dal domandarlo. La zona intorno a Sverdlovsk era simile a molte altre in Russia. Dopo la caduta del comunismo, c'era stata una grave ondata di crimini. Chi non conosceva la Russia la attribuiva a difficoltà politiche di una nazione che stava cercando la propria strada, ma in realtà il crimine prosperava già sotto il regime sovietico, soprattutto a partire dagli anni '60. Mancanze fittizie di ogni genere di merci, dallo zucchero alle noci, venivano orchestrate dal governo allo scopo di favorire un fiorente mercato nero, controllato, a sua volta, da burocrati e alti funzionari del partito. Questi si mischiavano liberamente a una malavita ben radicata nella cultura russa. Trecento anni di oppressione avevano reso i figli della grande madre Russia avvezzi ad aggirare le limitazioni poste dalla legge: all'ombra della statua di Lenin, sotto il vessillo del socialismo, avevano creato un capitalismo ombra per ovviare ai fallimenti della loro economia pianificata e quindi avevano proceduto a
riempirsi le tasche. E con la fine del comunismo erano ormai liberi di uscire allo scoperto: una nuova dinastia di signori predoni, applauditi dall'Occidente. Era un mondo senza regole, un po' come Tombstone negli anni intorno al 1880. C'erano una decina di sparatorie al giorno a Mosca, «uomini d'affari» che assassinavano i loro concorrenti. L'unico posto in cui le cose apparivano ancora più difficili era Sverdlovsk. Quella era una terra di opportunità infinite, posto di avere a disposizione un esercito privato ed essere disposti a guardare sotto l'auto con uno specchio ogni mattina prima di andare a lavorare. Ciò che rendeva la situazione ancor più pericolosa era il fatto che la regione possedeva migliaia di armi nucleari, chimiche e biologiche, un vero bazar della distruzione di massa. Mirnov si voltò con la poltroncina girevole verso una credenza alle sue spalle. «Posso offrirle un po' di acqua minerale?» chiese. Gideon era stanco e assetato dopo il lungo volo. «Sì, grazie.» Il russo prese due bicchieri di plastica trasparente da una pila posata sulla credenza e si chinò verso uno scomparto in basso, che Gideon non poteva vedere. Tirò fuori una bottiglia da litro: non un prodotto scadente di una qualche marca russa, bensì acqua minerale Monteforte, importata dall'Italia e col tappo ancora sigillato. Gideon parve sorpreso nel vedere che la bottiglia era già fredda e coperta da un velo di brina bianca e che Mirnov non aveva avuto difficoltà a trovare, insieme con la bottiglia, anche alcuni cubetti di ghiaccio. Il russo notò la sua espressione. «Abbiamo ancora qualche comodità», disse con un sorriso. Gideon sorrise a sua volta e prese il bicchiere. Il russo prese un'altra bottiglia contenente un liquido trasparente e la tenne alzata come se non ci fosse bisogno d'identificarne il contenuto, offrendola all'altro. «Per me no, grazie. Sono a posto così.» Allora Mirnov versò un po' di vodka nel proprio bicchiere e la mescolò all'acqua gassata con un bastoncino per miscelare i cocktail. «Che posso fare per lei?» chiese. «Come lei ben sa», attaccò Gideon, «l'Istituto raccoglie dati sul materiale nucleare. Impianti nucleari civili. Materiali fissili per uso militare, quand'è possibile.» «Ne sono al corrente», confermò il russo. «Ci risulta che dal vostro impianto potrebbe essere sparito del materiale.»
L'espressione di Mirnov si fece di colpo severa, lo sguardo cupo. «Potrebbe trattarsi di una notizia inesatta», precisò Gideon. «Tuttavia, proprio perché l'informazione è ben circostanziata, abbiamo pensato fosse meglio controllare con la massima discrezione possibile.» «Ha parlato con le autorità di Mosca di questa informazione?» «No. Non volevamo causare inutili allarmismi o preoccupazioni finché non avessimo avuto modo di verificare i fatti coi responsabili dell'impianto. Come le ho detto, è del tutto possibile che la nostra informazione sia sbagliata.» «Da dove vi arriva questa notizia?» «Preferirei non dirlo. Se non è accurata, non ha la minima importanza. D'altro canto...» «Capisco», tagliò corto Mirnov, bevendo un sorso dal bicchiere di plastica. «Un rapido controllo dei vostri registri dovrebbe chiarire la questione», disse Gideon. «Saremmo felici di accontentarla, ma purtroppo al momento siamo a corto di personale. Potrebbe darci qualche indicazione più specifica, restringere il campo delle ricerche?» Stava cercando di scoprire qualche particolare. «Due testate per artiglieria da campagna. Nucleari.» «Capisco.» Mirnov si mise a sedere eretto e posò il bicchiere. «È meglio che questa informazione errata non venga diffusa.» «Esattamente quello che pensavamo anche noi», annuì Gideon. «Apprezzo molto il vostro desiderio di accuratezza», disse Mirnov. «Immagino che questo errore non sia stato divulgato.» Inarcò un sopracciglio. Il russo si stava chiaramente riferendo ai servizi segreti stranieri, in particolare quelli americani. «L'informazione è stata mantenuta all'interno dell'Istituto», precisò Gideon. «Siamo ancora in tempo a rettificare.» «Bene.» Mirnov si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. «Ovviamente, saremo felici di collaborare in qualsiasi modo ci sia possibile. Da dove vuole cominciare?» «I vostri numeri d'inventario dovrebbero essere facili da controllare.» «È vero», confermò Mirnov. Premette il pulsante dell'interfono e sollevò il ricevitore. «Dimitri, ti spiacerebbe venire qui, per favore?» Un attimo dopo l'assistente entrò nell'ufficio. «Dimitri, vorrei che mi tirassi fuori questi fascicoli.» Mirnov scrisse un
appunto, indicando una voce evidenziata da un cerchio. L'assistente prese i fogli e uscì. «Non dovrebbe metterci molto a trovarli.» «Bene. Vorrei prendere l'aereo per Mosca.» «Quando parte?» «Fra tre ore.» «Dovremmo riuscire a riportarla in aeroporto più che in tempo. La farò accompagnare da uno dei miei», disse Mirnov. «Sono certo che Dimitri sarà felicissimo di farlo. Ha una Mercedes nuova di zecca», aggiunse. Gideon lo guardò, chiedendosi come facesse un uomo che non veniva pagato da due mesi a permettersi una macchina simile. Mirnov parve leggergli nel pensiero. «Dimitri è anche un imprenditore. Ha una piccola attività parallela.» In Russia l'espressione era diventata un eufemismo che poteva significare molte cose. «Che cosa fa?» Mirnov si strinse nelle spalle, come se non lo sapesse con certezza. «Ci sono molte opportunità imprenditoriali nella nuova Russia. Quando ne avrò il tempo vorrei esplorarne qualcuna anch'io.» Gideon sorrise, ma provò una sensazione di nausea. «La ringrazio per la sua offerta, però ho già una macchina, con l'autista.» Bevve un sorso d'acqua. «Spero che all'Istituto non siano troppo preoccupati per questo errore. Accade spesso», sospirò Mirnov. «È capitato anche a me di trovare documenti del nostro impianto in cui impiegati oberati di lavoro avevano inserito numeri sbagliati.» «Sono sicuro che all'Istituto si sentiranno sollevati quando glielo comunicherò», ribatté Gideon. «Se è un nostro errore, non ci facciamo una bella figura», proseguì il russo. «Come direttore di questo impianto, io sono il responsabile. Non vorremmo che l'Istituto si facesse una cattiva opinione di noi. Qui facciamo del nostro meglio.» Sembrava nervoso. Entrambi si erano accorti che i minuti passavano e che non si vedevano né Dimitri né i fascicoli. «Certo», disse Gideon. «In un modo o nell'altro», riprese Mirnov, «l'informazione verrà rettificata presto. Abbiamo concluso una nuova ispezione proprio ieri. Quindi i nostri registri sono accurati e aggiornatissimi.» Aspettarono ancora. Il russo si mise a tamburellare con le dita sulla scrivania. Gideon finì la sua acqua. Alla fine Mirnov si stancò.
«Lasci che chieda.» Prese il telefono e compose un numero sull'interfono. Nessuna risposta. Allora digitò un altro numero. Questa volta qualcuno rispose e Mirnov parlò in russo. «C'è Dimitri lì?... Come sarebbe a dire che se n'è andato?... Ho capito... Ho capito.» Posò il ricevitore. «Mi scusi un momento», disse. Si alzò e uscì dall'ufficio, chiudendosi la porta alle spalle. Gideon rimase in ascolto. Non riusciva a distinguere le parole, ma sentiva voci concitate fuori della porta. Un attimo dopo, Mirnov rientrò nella stanza. Era bianco come un morto e aveva la fronte imperlata di sudore. «Mi deve scusare», disse, «ma pare che abbiamo un piccolo problema.» «Un problema?» «Dimitri si è allontanato. Il mio staff lo sta cercando.» Si asciugò il labbro con un fazzoletto e bevve un lungo sorso di acqua e vodka dal bicchiere posato sulla scrivania. «Hanno trovato i fascicoli?» chiese Gideon. «No. Questa è soltanto una parte del problema. Pare che i fascicoli dei due ordigni in questione... siano scomparsi.» «E Dimitri è andato a cercarli?» Sul volto del russo comparve un'espressione vuota, seguita da una scrollata di spalle. Gideon si alzò e si diresse verso la porta. Ripercorse a ritroso il lungo corridoio, seguito da Mirnov, prima a passo svelto, poi più veloce, infine correndo a perdifiato verso il parcheggio. Gideon spalancò la porta. La Mercedes era sparita. 6 Padget Island, Stato di Washington Era basso, con capelli castano scuri che cominciavano a diradarsi sulla sommità della testa e miti occhi marrone. Figlio di un banchiere del Kansas, Scott Taggart aveva fatto molte cose nei suoi quarantadue anni di vita. Da giovane, dopo una discussione con suo padre, se n'era andato di casa e, per pagarsi l'università, si era messo a fare l'autista di camion per una locale ditta di trasporti. Per pagarsi la specializzazione, invece, la sera aveva lavorato come cameriere in un ristorante. La sua materia era la storia americana, e voleva insegnare. Non era faci-
le trovare lavoro, tuttavia alle credenziali lui aveva supplito con la perseveranza, trovando infine un impiego in una piccola università nella zona occidentale dello Stato di Washington, prima come assistente, poi come titolare di cattedra. E lì aveva conosciuto Kirsten. Avrebbe potuto essere la modella di una pubblicità sulle bellezze norvegesi. Quando era approdata a uno dei suoi corsi, Scott non era riuscito a toglierle gli occhi di dosso. Per quanto il sentimento sembrasse reciproco, per quasi un anno aveva resistito alla tentazione di chiederle di uscire con lui, perché l'università aveva regole molto severe riguardo ai professori che frequentavano gli allievi. Ma, all'inizio della primavera seguente, il dilemma si era risolto da solo: l'università, infatti, non gli aveva rinnovato l'incarico, probabilmente perché stava cercando qualcuno proveniente dalle prestigiose università del Nord-est. Durante l'estate, Scott aveva allacciato una relazione con Kirsten e, quando se n'era andato, non se n'era andato da solo. Si erano sposati il novembre successivo, dopo una convivenza di cinque mesi. E avevano ricominciato insieme, questa volta nella parte orientale dello Stato, dove Scott aveva trovato un altro incarico come insegnante. Si trattava di una posizione meno prestigiosa di quella precedente, in una minuscola università locale, ma a lui il lavoro piaceva e adorava stare con gli studenti, anche se la maggior parte di loro non era seria come lui avrebbe gradito. Per contribuire al bilancio familiare, Kirsten aveva avviato una piccola attività di contabile, forte dei suoi studi universitari di economia e commercio e nonostante il fatto che non si fosse mai laureata. Un anno dopo avevano avuto il primo figlio, un maschietto chiamato Adam, come il padre di lei. L'attività di Kirsten si era rapidamente sviluppata. Era una persona affabile ed estroversa, tanto portata per i contatti umani almeno quanto lo era per i numeri. E in meno di tre anni la sua attività si era ampliata al punto di obbligarla ad assumere due persone. Era stato più o meno allora che erano cominciati i guai. Erano arrivati per posta. Mittente: l'ufficio imposte di Ogden, nello Utah. Kirsten e la sua società sarebbero state sottoposte a una verifica fiscale. Lei non riusciva a immaginarne il motivo: sì, aveva guadagnato abbastanza, ma non così tanto. Guardando meglio la comunicazione, però, si era accorta di un errore. La notifica conteneva il suo nome e quello della sua azienda, ma il numero di posizione era sbagliato. Sembrava che avessero confuso la sua denuncia dei redditi con quella di qualcun altro. Aveva chiamato il numero di telefono indicato sulla notifica, ma nessu-
no era stato in grado di aiutarla. Le avevano detto di spiegarlo al revisore fiscale allorché questi fosse arrivato. Kirsten, incerta se radunare tutte le ricevute e preparare i registri per il controllo oppure no, si era convinta che, quando avessero scoperto il loro errore, l'avrebbero lasciata in pace e se ne sarebbero andati. Si sbagliava. Il primo incontro col revisore, avvenuto un mese più tardi, non era andato bene. Il revisore fiscale era una donna di mezza età, logorata da anni di servizio nell'amministrazione pubblica. Quando Kirsten aveva suggerito la possibilità di un errore, la risposta era stata: «Il fisco non sbaglia mai». Aveva allora cercato di mostrare alla donna il dato sbagliato sulla notifica, ma questa si era limitata ad arraffare il documento, dicendo che lo avrebbe controllato. Poi aveva chiesto di vedere i libri contabili e le ricevute. La verifica si era trascinata per mesi, con richieste sempre crescenti di altra documentazione, di altre ricevute. Kirsten aveva insistito nell'affermare che era stato commesso un errore, chiedendo di sapere perché la notifica riportasse il numero identificativo di un'altra azienda. Il revisore, a quel punto, aveva perso la pazienza: se Kirsten voleva fare la difficile, aveva sostenuto, allora la sua azienda non sarebbe stata controllata per un anno, bensì per due. E infatti, dopo qualche giorno, era arrivata la notifica formale di un'ulteriore verifica per un altro anno. Questo le avrebbe insegnato a non mettere in discussione l'autorità del revisore fiscale. Sembrava quasi che la donna fosse stata spinta ad agire così da un'avversione personale. Scott aveva cercato di consolare la moglie, ripetendole di non preoccuparsi. Prima o poi si sarebbe chiarito tutto. Avrebbero scoperto l'errore e rimediato. Ma per Kirsten non c'era pace. L'ufficio imposte le aveva dato trenta giorni per mettere insieme la documentazione per l'anno interessato dall'ulteriore verifica. Soddisfare le richieste esagerate e sempre diverse dell'ispettore era diventata per Kirsten un'occupazione a tempo pieno. Non aveva più tempo per il lavoro né per la famiglia. Costretta a licenziare un dipendente, il lavoro ne aveva sofferto e i guadagni erano diminuiti. La cosa andava avanti ormai da sette mesi senza che dal governo fosse arrivata la minima indicazione su una prossima conclusione della verifica. Kirsten non aveva ancora capito che cosa voleva l'ufficio imposte, né se le sarebbero state contestate tasse, interessi o more. Ogni volta che s'incontrava col revisore, la donna era sempre molto scortese. Niente di ciò che Kirsten fa-
ceva o diceva sembrava essere la cosa giusta. La donna non le spiegava nulla. Ogni volta che Kirsten le faceva una domanda, lei prendeva nota e diceva che le avrebbe dato una risposta, ma non lo faceva mai. Era come se ogni richiesta che Kirsten faceva venisse accolta con aperta ostilità oppure cadesse nel buco nero della burocrazia del governo. Ogni volta che il revisore chiamava, era sempre la stessa storia: una costante, incessante richiesta di nuova documentazione. Poi l'indagine del fisco si era spostata anche alle dichiarazioni dei redditi personali di Scott e Kirsten. Quest'ultima aveva l'impressione che il fatto di non aver trovato omissioni non facesse altro che aumentare l'ostilità del revisore. L'agente del fisco doveva giustificare un controllo che si trascinava ormai da quindici mesi. Il revisore aveva chiesto una proroga d'indagine in modo da poter risalire ancora più indietro, oltre il limite dei tre anni. Quando Kirsten si era opposta, il revisore le aveva spiegato che, se non avesse accettato la proroga, l'ufficio imposte avrebbe presentato una denuncia di omissione tributaria in tribunale e lei avrebbe dovuto cercarsi un avvocato. A un certo punto aveva persino lasciato intravedere la possibilità di un illecito penale. Kirsten voleva sapere che cosa aveva fatto di male, ma la donna si rifiutava di dirglielo. Kirsten aveva cominciato a dimagrire. Sembrava che non passasse giorno senza che il revisore chiamasse per chiedere qualcosa. Non dormiva più. Scott era preoccupato. Aveva chiamato il revisore, cercando di discuterne con lei, ma la donna si era nascosta dietro un espediente: gli aveva detto che, poiché la verifica originaria riguardava l'attività di sua moglie, non poteva discuterne con lui e aveva riattaccato. Ogni volta che squillava il telefono, Kirsten temeva che si trattasse del revisore con altre richieste di documentazione o, peggio, l'estensione della verifica fiscale a un altro anno. La vita si era fatta insopportabile. Quando Adam piangeva di notte, Kirsten diventava irritabile. Niente di quello che Scott diceva o faceva sembrava consolarla. Non c'era modo di alleviare la sua continua angoscia. E benché Scott avesse fatto del suo meglio, cercando di placare le ansie della moglie, un venerdì pomeriggio era tornato a casa prima dal lavoro e le aveva confessato che il suo incarico non era stato rinnovato per l'anno seguente. Senza notificarglielo, l'ufficio imposte aveva bloccato il suo stipendio, con l'accusa generica che non aveva pagato le tasse. L'università riceveva finanziamenti dal governo e i suoi studenti facevano richiesta di
prestiti sull'onore garantiti dal governo: non poteva permettersi di tenere un insegnante che avesse problemi col fisco. Il governo stava stritolando la vita di Scott e Kirsten Taggart. La sofferenza della verifica fiscale era proseguita per altri due mesi senza il minimo accenno a una conclusione. Scott e Kirsten avevano ricevuto una notifica di pignoramento della casa. Senza le entrate di Kirsten, non erano più in grado di pagare il mutuo. Un sabato mattina di giugno, poco dopo la fine dell'anno scolastico, Scott aveva portato Adam al parco a fare un giro sull'altalena, mentre Kirsten svuotava l'ufficio. La notizia dei suoi guai col fisco si era sparsa in città e tra i colleghi. Il suo ultimo cliente se n'era andato due settimane prima, temendo che i problemi di Kirsten potessero risultare «contagiosi». Scott era tornato a casa alle due e mezzo del pomeriggio e aveva chiamato la moglie in ufficio. Nessuna risposta. Pensando che avesse bisogno di aiuto per portare gli scatoloni in macchina o di conforto in un momento difficile, aveva lasciato Adam dai vicini e si era recato all'ufficio di Kirsten. L'aveva trovata seduta alla scrivania, la testa posata sul ripiano come se stesse schiacciando un sonnellino. Fu soltanto nel vedere la scia di bava bianca che le colava dalla bocca che si era reso conto che qualcosa non andava. Kirsten aveva ingerito un intero flacone di sonniferi. Era sopravvissuta, attaccata al respiratore automatico, per sedici giorni, finché i medici non avevano dichiarato che ormai non c'erano più speranze. Kirsten era clinicamente morta. Al suo funerale, Scott avrebbe voluto calarsi nella tomba con lei e farsi seppellire. Era distrutto dal dolore. Con Kirsten avrebbe potuto affrontare qualsiasi cosa, risolvere qualsiasi problema, sopportare qualsiasi indagine del fisco. Avrebbe potuto trovare un altro lavoro, ricominciare da capo. Senza di lei, non riusciva neppure a trovare la forza di alzarsi dal letto la mattina. Non sapeva che fare con Adam. Alla fine lo aveva portato dai genitori di Kirsten, a Seattle, mentre si riorganizzava e cercava una nuova ragione di vita. Stranamente, fu l'ufficio imposte a fornirgliela. Tre mesi dopo la morte di Kirsten, Scott aveva ricevuto una circolare. L'ufficio imposte informava Kirsten Taggart che l'ufficio aveva commesso un errore. Un operatore aveva digitato il codice identificativo sbagliato sui pagamenti trimestrali di Kirsten, accreditandoli così a un altro contribuente. Sui loro tabulati, Kirsten risultava morosa, però non era debitrice di altre imposte, né interessi o more. Il governo, invece di verificare le informazioni fornite da Kirsten sul suo errore, aveva dato per scontato che men-
tisse, che avesse percepito redditi per i quali aveva omesso di versare tributi trimestrali. Per questo Kirsten era stata vessata e perseguita finché non si era tolta la vita. Scott aveva perso la famiglia, la carriera e la casa, e suo figlio non aveva più una madre. Scott Taggart non si era preso la briga d'informare il governo del prezzo che lui e la sua famiglia avevano dovuto pagare per la sua arroganza burocratica. Avrebbe inviato quel messaggio a tempo debito... e a modo suo. Kent, Stato di Washington Il cannello ossiacetilenico portatile Victor era un vero gioiello. Oscar Chaney lo aveva acquistato in un negozio di ferramenta di Everett per cinquecento dollari, corredato della sua valigetta poco più grande di una ventiquattrore, e di due beccucci di ricambio. Aveva ordinato una bombola di acetilene in più perché non voleva rischiare di rimanere senza. Il cannello era progettato specificatamente per lavorare in spazi ridotti, là dove un cannello da taglio di dimensioni normali non sarebbe potuto arrivare. Poteva tagliare due centimetri e mezzo di acciaio cementato nel giro di pochi minuti. Aveva passato due giorni con una squadra di miliziani scelti a preparare la missione, a scoprire esattamente dove il russo, Grigorij Čenko, era detenuto a Kent e a farsi un'idea della prigione. Era una struttura a due piani in mattoni in una zona di piccole industrie alla periferia della città. L'edificio non sembrava un carcere. Gli architetti avevano fatto il possibile per mimetizzarlo, allo scopo di evitare le proteste dei cittadini sulla sua collocazione. Fortunatamente per Chaney, così facendo avevano anche compromesso la sua sicurezza. Intorno al complesso non c'erano alte recinzioni di griglia metallica sormontate da rotoli di filo spinato. L'ala dov'era rinchiuso Čenko aveva invece alle spalle una strada utilizzata, durante il giorno, soprattutto da camion che effettuavano consegne ai magazzini della zona. Di notte la strada era quasi sempre deserta. Il carcere era circondato da una fascia larga tre metri di prato molto curato, con cespugli piantati contro le pareti di mattoni. L'esterno del carcere era stato progettato per fondersi con l'ambiente circostante e sembrava uno dei tanti edifici commerciali del parco industriale. Era stato costruito da solo due anni e all'interno pareva un country club. Di solito i detenuti restavano lì per brevi periodi, in attesa del processo. Se condannati, venivano trasferiti in una delle altre prigioni statali o federali
dove scontare la pena. Al pianoterra c'era una grande sala di ricreazione con un televisore da trenta pollici fissato con sostegni alla balconata del primo piano. Un tavolo da ping-pong e sei tavoli di acciaio con panche, il tutto imbullonato al pavimento, servivano per consumare i pasti e giocare a carte. C'erano attrezzi per fare ginnastica, una macchina coi pesi e piccoli manubri da un chilo e mezzo per la corsa sul posto. Pochi minuti dopo essere stato registrato, perquisito, fornito di tuta arancione e ciabatte di gomma, Chaney ricevette in dotazione una coperta e venne accompagnato attraverso la sala di ricreazione fino a una cella al primo piano. Il russo lo vide passare al seguito della guardia. Čenko stava giocando a ping-pong. Chaney entrò a passo leggero nella cella. «Tu ti prendi la cuccetta superiore.» Un fallito coi capelli grigi e una pancia come un otre era sdraiato sulla cuccetta inferiore. I piedi nudi, luridi da far schifo, puntavano verso Chaney. «Non ti preoccupare, capo. Non mi fermerò a lungo.» «Certo. Tu sei dei servizi segreti. Ti hanno sbattuto qui dentro solo per addestramento.» Chaney lo ignorò. Gettò la coperta sulla cuccetta vuota e uscì dalla cella. Scese le scale diretto verso la sala di ricreazione e intercettò lo sguardo di Čenko. Il russo smise immediatamente di giocare a ping-pong e si allontanò dal tavolo. Lui e Chaney si trovarono un angolino tranquillo. «Chi ci sta in quella cella in fondo al corridoio?» Chaney la indicò con un cenno del capo. «Laggiù, sulla sinistra.» C'era un breve corridoio con celle sui due lati, tutte con una solida porta di acciaio dotata di una finestrella di vetro retinato attraverso la quale le guardie potevano guardare all'interno. «Ci stanno Tattoo e Homer», rispose Čenko. La cella del russo era al primo piano, come quella di Chaney. «Chiamameli.» «Chi?» «Homer e Tattoo.» «Perché li vuoi?» «Tu fallo e basta.» Il russo esitò. «Tattoo è un brutto ceffo,» «Bene. Digli che voglio prenderlo a calci in culo. Potrebbe considerarla
un'occasione di crescita sociale.» Il russo lo guardò, si strinse nelle spalle come per dire «te la sei voluta» e si avvicinò con l'andatura da carcere, sciolta e disinvolta, a due uomini che stavano faticando sull'attrezzatura da ginnastica. Uno dei due era a torso nudo e aveva più tatuaggi di un fenomeno da circo. Il russo gli sussurrò qualche parola all'orecchio; il tizio coi tatuaggi cominciò a lanciare occhiate assassine in direzione di Chaney. Si gettò un asciugamano intorno al collo e fletté i pettorali come Rocky Balboa, quindi si avvicinò a Chaney, seguito da un altro disperato che Chaney pensò dovesse essere Homer. «Il mio amico, qui, dice che vuoi prendermi a calci in culo.» «Non appena avrò capito da che parte è.» Ci volle qualche momento perché le sinapsi del suo cervello facessero il necessario collegamento. Allora l'espressione di Tattoo si fece letale. «Non mi frega un cazzo di te. Io so solo che vuoi morire», disse a Chaney. «Ma perché?» «La bruttezza mi offende», rispose l'altro. «Voglio distruggerla prima che possa riprodursi.» Il russo lo guardava come se fosse fuori di testa. «Dove?» Tattoo gli si avvicinò a pochi centimetri dalla faccia: una dimostrazione di virilità carceraria. Sul volto di Chaney non guizzò neppure un muscolo mentre il suo ginocchio partiva, scagliato come da una molla verso l'inguine del tizio. Gli occhi di Tattoo si dilatarono come due biglie di vetro mentre i suoi testicoli venivano polverizzati. La mano destra di Chaney si mosse così veloce che il russo non avrebbe saputo dire con certezza se l'aveva vista o no. Ciò che sapeva con certezza era che Tattoo non riusciva più a parlare e si tastava il pomo di Adamo con entrambe le mani, per accertarsi che non gli fosse stato sparato in gola. Poi scivolò in ginocchio, tossendo. Homer fissava la scena, pietrificato; non si capiva se in preda al terrore o alla meraviglia. Non aveva mai visto nessuno finire fuori combattimento così in fretta, specialmente qualcuno in forma come Tattoo. Chaney diede qualche colpo sulla schiena a Tattoo mentre questi tossiva, inginocchiato sul pavimento. «Che sta succedendo lì?» Una delle guardie lo aveva visto a terra e stava arrivando a controllare. «Gli è andato qualcosa di traverso», rispose Chaney. «Ma sta bene.» Gli diede qualche altra pacca sulla schiena, lo prese sotto le braccia e lo sollevò prima che la guardia potesse attraversare la sala. Così facendo, sussurrò
qualcosa all'orecchio dell'uomo, poi si ritrasse. Tattoo sollevò una mano e fece cenno alla guardia di allontanarsi. Chaney tornò a sussurrargli qualcosa e poi si scostò. «Capito?» L'altro non poteva parlare, ma poteva annuire, e lo fece con convinzione. «Bravo.» Chaney gli diede un'altra pacca sulla schiena. «E ora fallo.» La faccia di Tattoo era color rosso porpora. Aveva le guance rigate di lacrime, le mani incollate all'inguine. Si voltò e si allontanò con andatura rigida verso la sua cella in fondo al corridoio. Homer non sapeva se dovesse seguirlo o no. «Cambiamo cella», disse Chaney. «Hai qualche problema?» Homer doveva stare lì poco. Non sapeva perché volessero la sua cella e non gliene importava. Sarebbe stato rilasciato da lì a dieci giorni. Sorrise e sparì lungo il corridoio. «Non avresti potuto dargli una sigaretta, qualche dollaro?» chiese il russo. «Come dare pesci alle foche», rispose Chaney. «Non avrebbe fatto altro che bussare alla porta per averne ancora.» «Potrebbe denunciarci alle guardie.» «Prima che le palle gli tornino al loro posto noi ce ne saremo già andati. Va' a prendere la tua roba. La coperta e tutto il resto. Ci trasferiamo in fondo al corridoio. Laggiù.» Chaney indicò la cella di Tattoo. Le guardie non vi prestarono attenzione. Purché ci fossero due uomini per ogni cella quando si spegnevano le luci, i prigionieri potevano fare tutti gli accordi che volevano per quanto riguarda la sistemazione. Uno era riuscito addirittura a convincerle a lasciarlo dormire nella sala di ricreazione, una soluzione adottata dal carcere solo quando c'era sovraffollamento. Cinque minuti dopo Chaney e il russo, ognuno coi propri averi - spazzolino, sapone e coperta -, mettevano su casa nella cella a pianterreno in fondo al corridoio. Era fondamentale per il loro piano. Ogni cella aveva una finestra, non grande, ma sufficiente perché attraverso vi potesse scivolare un uomo, posto che non fosse troppo grasso. All'interno le finestre erano chiuse da uno schermo di plexiglas spesso un centimetro, assicurato al muro di cemento da sei grosse viti. Le teste delle viti avevano un taglio speciale che permetteva loro di essere strette, ma non allentate. Dietro lo schermo di plexiglas si trovava un condotto a bocca di flauto con una leggera angolazione verso l'alto, così che i prigionieri non potevano vedere fuori né sollevare abbastanza i loro sederi per
mostrarli alle macchine che passavano. Mezzo metro oltre la barriera trasparente, sufficientemente all'interno del condotto da non essere notate dall'esterno, c'erano quattro sbarre d'acciaio del diametro di due centimetri e mezzo. Erano fatte di acciaio cementato per utensili. Probabilmente le si poteva tagliare con un seghetto... se si aveva un mese di tempo e una scorta inesauribile di lame. Per Chaney il tempo era un fattore fondamentale, non soltanto perché avevano bisogno di Čenko per assemblare l'ordigno, ma anche perché più ci mettevano a realizzare la fuga, più aumentavano le possibilità di essere scoperti. Si mise immediatamente al lavoro. Čenko appese una coperta sopra la finestrella nella porta della cella e si accordò con un altro detenuto perché, in cambio di sigarette, si sedesse fuori della porta e bussasse se in corridoio arrivava qualcuno. L'ostacolo maggiore era lo schermo di plexiglas. Se non riuscivano a staccarlo, non avrebbero potuto mettersi a lavorare sulle sbarre. Chaney aveva pensato a tutto. Passò dieci minuti seduto sul water della cella e alla quarta spinta sentì uno splash sulla tazza d'acciaio. Si sollevò parzialmente e guardò dentro la tazza. Missione compiuta. Tirò su qualcosa con la massima attenzione. Il profilattico di gomma era ancora imbrattato di gelatina e sigillato nella parte aperta con un elastico. Lo aprì e scosse l'involucro finché sul pavimento non cadde un pezzo di metallo lungo circa dieci centimetri e delle dimensioni di una penna stilografica. L'oggetto rimbalzò e il russo lo prese al volo. I due trattennero il respiro e guardarono nervosamente in direzione della porta per parecchi secondi; alla fine fu chiaro che nessuno aveva sentito il rumore metallico. Čenko teneva in mano un piccolo scalpello al carburo di tungsteno, con un'estremità appiattita simile a un'accetta. «Ti ci sei infilato anche un martello?» chiese a Chaney. «No. Userò la tua testa», rispose l'altro. Non era per niente felice di trovarsi lì per colpa del russo. A quell'ora avrebbe dovuto già trovarsi sull'isola a dare il tocco finale al camion, a saldare il serbatoio d'acciaio sul pianale. Invece, stando così le cose, gli ci sarebbero volute tre notti per finire il lavoro. Sempre che fossero riusciti a evadere. Chaney disse al russo di restare lì. Uscì dalla cella per un minuto e, quando tornò, aveva con sé uno dei manubri da ginnastica da un chilo e mezzo. Lo avvolse in un pezzo di coperta e si mise al lavoro con lo scal-
pello. Si sbarazzò anzitutto delle teste delle sei viti che bloccavano lo schermo di plexiglas. Le teste si staccarono di netto e rimbalzarono sul pavimento. Poi, usando la parte tagliente dello scalpello, fece leva sotto lo schermo finché non riuscì a infilarvi sotto le dita. Lo sfilò dal gambo delle viti rotte che sporgevano dalla parete di cemento. Alzò le braccia e si appese alle sbarre di ferro nel condotto della finestra. Erano saldamente fissate alle pareti di cemento intorno alla finestra. Allora rimise con cura il pannello al suo posto, raccolse le teste delle viti dal pavimento e, usando piccole quantità di gomma da masticare, le riappiccicò al loro posto: se le guardie avessero controllato durante il giorno, non si sarebbero accorte che il pannello era stato rimosso. «E ora?» disse il russo. «Ora aspettiamo.» 7 Ekaterinburg Per Gideon c'era una certa ironia in tutto quello, come se la città, col suo terreno avvelenato dalle spoglie dello zar ucciso, stesse adesso giocando un'altra mano decisiva nella partita della Storia. Aveva passato tre giorni in una squallida stanza d'albergo, guardato a vista dai militari della sicurezza. Non gli permettevano di fare telefonate né di mandare e-mail all'Istituto a Santa Crista. Se Caroline non avesse avuto presto sue notizie, avrebbe chiamato il dipartimento di Stato. Come il panorama intorno a lui, il suo volto aveva assunto l'aspetto di una foresta in rapida crescita: una barba di due giorni sotto due occhi simili a pozze iniettate di sangue e annebbiate dalla mancanza di sonno. Per uno come lui, che lavorava da anni nel campo del controllo nucleare, lo scenario era deprimente. Gideon si sentiva come un profeta che predicava nel deserto. Finita la Guerra Fredda, il precario equilibrio di potere che aveva governato il globo per cinquant'anni era stato spazzato via. Le due grandi potenze erano sommerse da armi terribili che, con un'unica esplosione, potevano mietere milioni di vittime. E ora una di queste potenze non aveva più i mezzi per tenere sotto controllo quegli strumenti di morte. Alle otto del mattino, Gideon era stato portato via dall'albergo da due guardie dall'aria feroce armate di kalashnikov. Per un attimo, seduto sul
sedile posteriore dell'auto accanto a una delle guardie, gli passò per la mente che lo stavano portando nella foresta per sparargli. I boschi intorno a Ekaterinburg nascondevano molti segreti oscuri. Dieci minuti dopo, invece, si fermarono nel parcheggio fuori dell'ufficio di Mirnov e lo accompagnarono lungo il corridoio ormai familiare. Quando varcò la porta dell'ufficio, vide che il russo non aveva un aspetto migliore del suo. Mirnov era stato alzato tutta la notte. Solo quella mattina aveva informato i suoi superiori a Mosca della possibilità che fossero scomparsi due ordigni nucleari. Aveva aspettato finché era stato possibile, nella speranza che il suo staff riuscisse a trovarli. E invece aveva scoperto qualcosa di ancor più inquietante. Rapporti e denunce sulla scomparsa di ordigni nucleari erano già stati fatti prima di allora, ma mai da qualcuno nella posizione di Mirnov e con la sua possibilità di accesso alle informazioni. Le autorità avevano preso la faccenda molto sul serio. In quel preciso momento, il capo di Mirnov era in viaggio da Mosca insieme con una squadra di esperti, evidentemente per chiudere la stalla dopo che i buoi erano scappati. Avrebbero cercato un capro espiatorio, qualcuno che si accollasse la colpa nel caso che l'incidente avesse assunto proporzioni internazionali. Mirnov conosceva troppo bene la burocrazia e la politica dell'amministrazione statale russa per non sapere che quel qualcuno sarebbe stato lui. Aveva spesso chiesto e implorato un aumento di personale e una maggior sorveglianza, ma il governo di Mosca aveva sempre pianto miseria. «Ha un aspetto orribile», disse Mirnov. «Dovrebbe vedere il suo.» «Sì. Ma io ne ho motivo. Ho lavorato tutta la notte.» «Be', io non ho dormito molto bene. Gradirei avere un telefono. Sono ore che chiedo di poter fare una telefonata», ribatté Gideon. «Ogni cosa a suo tempo, amico mio. Si sieda, prego.» Mirnov indicò una delle poltrone davanti alla scrivania e Gideon si accomodò. «È ironico, vero?» «Che cosa?» «Il fatto che per cinquant'anni ci siamo scannati e l'unica cosa che ci ha impedito di distruggerci a vicenda è stata la minaccia del reciproco annientamento. Com'è che la chiamavano gli americani?» Si sfiorò il naso con un dito, come se la parola dovesse arrivargli attraverso la foschia alcolica. «MAD?»
«Già. Mutual assured destruction, cioè 'distruzione reciproca assicurata'», disse Gideon. «Faceva parte degli scenari strategici di reazione.» «Giusto», annuì Mirnov. «Sennonché MAD, in inglese, significa anche 'matto, folle'. Ah, gli americani sono insuperabili quando si tratta di trovare iniziali che fanno colpo... Acronimi, li chiamano. È per questo che la loro cultura è dominante. Non hanno conquistato il mondo con gli eserciti, ma con le parole, coi loro film e le stelle del cinema, i McDonald's e Disneyland. Però lei è russo.» «E olandese», aggiunse Gideon. «Ah, gli olandesi! Gente fantastica. Ci sono stato, in Olanda, sa. Sì. All'Aja.» «Se è stato all'Aja, allora saprà che siamo famosi per la nostra diplomazia», osservò Gideon. «Eccome.» «Suggerisco perciò che lei mi lasci fare una telefonata al mio ufficio.» «Non posso permetterglielo. Almeno per il momento.» «Sono prigioniero?» «Certo che no.» Mirnov gli rivolse un ampio sorriso. «Lei è nostro ospite. I miei superiori saranno qui tra poco e di certo saranno in grado di rispondere a tutte le sue domande.» Mirnov non voleva attirarsi l'ira delle nazioni occidentali. Se a van Ry fosse stato concesso di lasciare il Paese, poteva scoppiare un incidente internazionale che avrebbe soltanto aumentato la pubblicità negativa. E sarebbe stata tutta colpa sua. «La prego», continuò. «Si rilassi. Porti ancora un po' di pazienza. Ancora qualche domanda.» Gideon si appoggiò allo schienale della poltrona. Non aveva altra scelta. «Questo scenario strategico di reazione... Esiste una strategia per recuperare gli ordigni se dovessero cadere nelle mani di persone sbagliate?» «Dipende.» «Da che?» «Dai loro obiettivi. L'Occidente potrebbe essere in grado di acquistare gli ordigni dal mercato clandestino, sempre che l'obiettivo di chi li ha presi sia puramente economico, e cioè quello di ottenere il più alto prezzo possibile. Se invece fosse politico...» «L'Occidente sarebbe disposto a fare questo?» chiese Mirnov. «Ad acquistare le armi anche se non avesse la minima responsabilità nella loro sparizione?» «Non sto parlando di qualsiasi governo. Tuttavia credo che farebbero
tutto il necessario per toglierle dal mercato. Come farebbe il vostro governo, ne sono sicuro. È l'altra faccia del MAD», disse Gideon. «Ed è nell'interesse comune.» «E se chi le ha volesse semplicemente usarle? Che cosa dice in proposito questo scenario strategico di reazione?» «Le troviamo prima che loro possano usarle. A questo punto non stiamo più parlando in linea teorica.» Le parole di Gideon parvero tranquillizzare il russo, che lo guardò come se avessero raggiunto una specie di spartiacque verbale. Seguì un lungo periodo di silenzio, mentre Mirnov osservava l'olandese. «Posso dirle qualcosa», riprese infine. Gideon rizzò le orecchie. «Sappiamo che gli ordigni non compaiono nel nostro inventario aggiornato. La vostra informazione è esatta.» «Me lo immaginavo, quando sono venuto qui.» Mirnov inarcò appena le sopracciglia. «Dunque la sua gente in California ha motivo di credere che non si tratti di un errore... sulla carta?» «Se non li contatto al più presto, ci può giurare.» Questo spronò il russo a continuare. «I due ordigni in questione non si trovano nel bunker in cui dovrebbero essere.» Prese un altro sorso di caffè, come se ne avesse bisogno per prepararsi a ciò che stava per arrivare. «Posso avere un pezzo di carta e una penna?» chiese Gideon. Mirnov ci pensò su, poi decise che era meglio non ci fossero errori di memoria. Gli porse un foglio di carta e una matita, e Gideon si mise a prendere nota sull'angolo della scrivania. Se non altro, per il momento non pretendeva di andarsene. «Immagino sia possibile che siano stati spostati in un altro punto all'interno dell'impianto», disse Gideon. «Credo sia improbabile.» «Perché?» «Nel nostro caso lo spostamento non sembra avvenuto inavvertitamente.» «Che intende?» «Primo, c'è la questione della scomparsa dall'inventario.» «Potrebbe essere stato un errore di conteggio.» L'esperienza aveva insegnato a Gideon che il sistema di registrazione dei russi per gli ordigni era primitivo. Non c'erano i codici a barre e i sistemi di lettura computerizzati presenti nei depositi degli Stati Uniti, e quindi non potevano essere rintrac-
ciati su una banca dati centrale, come in Occidente. Lì lo facevano all'antica, contandoli col dito, sempre ammesso che lo facessero. Per più di due anni gli esperti della sicurezza nazionale degli Stati Uniti avevano temuto il peggio. La contabilità del materiale nucleare in Russia era pessima. I russi non avevano un'idea precisa della quantità di materiale fissile in loro possesso. Come potevano sapere se ne era scomparso un po'? Gideon si stava rendendo conto che il loro conteggio delle armi tattiche era altrettanto approssimativo. Dal punto di vista dei terroristi, perché procurasi le materie prime quando ci si poteva procurare direttamente la bomba? «Se si trattasse soltanto degli inventari, lei potrebbe avere ragione», disse Mirnov, «ma c'è la questione ancor più preoccupante delle finte testate.» «Quali finte testate?» «Abbiamo trovato due ordigni finti nel bunker, testate vuote fatte in modo da sembrare vere. Non sappiamo da quanto tempo siano lì. Sembrerebbe che questo sia il motivo per cui non ci siamo resi conto dell'errore durante la registrazione delle armi.» Il russo fece un profondo sospiro. «Non capisco», borbottò Gideon. «Perché qualcuno dovrebbe darsi la pena di sostituire le armi vere con quelle finte e poi toglierle dall'inventario?» «Io riesco a pensare a un'unica spiegazione. Non c'era motivo di continuare con l'inganno perché gli ordigni erano stati portati via e si trovavano ormai fuori della nostra portata.» Il freddo ragionamento del russo fece correre un brivido lungo la schiena di Gideon. «Partiamo da questo presupposto... Qualcuno si è preso la briga di continuare a falsificare gli inventari almeno finché non era più necessario coprirsi le spalle.» «Sembra proprio che sia andata così», disse Mirnov. «Chi ha accesso a questi registri?» «Questo è il problema. Solo due persone: Dimitri e io.» «E basta?» «Sì.» «Dov'è Dimitri?» «Lo stiamo cercando da quando ha lasciato l'impianto. Abbiamo controllato al suo appartamento e nei posti che frequenta di solito. Non l'abbiamo trovato, ma lo stiamo ancora cercando. Sfortunatamente, sembra che Dimitri sia coinvolto.» «Ovviamente.» «Ho chiamato mia sorella per chiederle se almeno lei l'avesse visto.»
«Perché sua sorella?» «Dimitri è mio cognato.» Mirnov lo disse come se Gideon avesse dovuto saperlo. Non c'era da meravigliarsi che avesse raddoppiato le dosi di vodka. Una cosa era chiara: Gideon doveva ottenere tutte le informazioni possibili da Mirnov prima che arrivassero i suoi superiori. Una volta arrivati loro, il russo sarebbe stato rimosso dall'incarico, portato da qualche parte per essere interrogato e Gideon non l'avrebbe mai più rivisto. «Non abbiamo molto tempo. Ne è consapevole, vero?» «Sì.» «Allora deve dirmi tutto quello che sa.» Mirnov lo guardò per un momento, riflettendo. Erano quasi cinque anni che lavorava per uno stipendio che bastava a malapena a dar da mangiare a lui e alla sua famiglia. Da mesi non veniva pagato. Ma, oltre al senso del dovere nei confronti del suo Paese, fino ad allora Mirnov era stato sorretto dalla convinzione che la Russia fosse l'unica responsabile del controllo delle proprie armi. Certo, lui avrebbe potuto fare come Dimitri e prendere del denaro. Erano molti i criminali russi pronti a pagare cifre esorbitanti per materiale nucleare e chimico trafugato da Sverdlovsk. Invece lui non aveva mai preso neppure un rublo. Guardò Gideon e si chiese se i governi dell'Occidente fossero meglio del suo. Aveva sentito parlare alla CNN della politica di Washington, di un governo gestito da e per il popolo «entro l'anello della tangenziale di Washington», d'innumerevoli scandali finanziari. Eppure, nell'animo, sentiva una certa affinità con l'uomo che aveva di fronte. Gideon non faceva parte di un governo. Non era stato costretto a partire dalla California per venire fino a Mosca e poi a Sverdlovsk per controllare un errore su un documento. L'Istituto avrebbe potuto semplicemente pubblicare l'informazione, guadagnandosi titoli a lettere cubitali sulla stampa internazionale, ma non l'aveva fatto. C'era qualcosa in quel gesto di cautela, un rispetto per la verità, che aveva colpito il russo. «Se dovessi raccontarle quello che sappiamo, resterebbe tra noi?» chiese Mirnov. «Dovrei riferirlo ai miei superiori all'Istituto», rispose Gideon. «Ovviamente. Però andrebbe... oltre?» «Dipende. Se ci fosse una minaccia reale, le autorità dovrebbero esserne informate.» «Capisco», annuì Mirnov. «Ma lei non si rivolgerebbe alla stampa? Non farebbe il mio nome in quanto fonte di una simile informazione?»
«No.» «Non verrebbe divulgata? I governi occidentali tratterebbero l'informazione come confidenziale?» «Credo di poterle assicurare che questa informazione sarà trattata come confidenziale purché non metta in pericolo la sicurezza pubblica. Nessuno vuole generare inutilmente uno stato di panico. E, in ogni caso, lei non sarebbe nominato come fonte.» Gideon non aveva il minimo controllo su ciò che sarebbe accaduto se l'informazione fosse arrivata alle autorità, tuttavia poteva proteggere la sua fonte. «Abbiamo scoperto due bolle di carico falsificate», mormorò Mirnov. «Le ha preparate entrambe un uomo di nome Grigorij Čenko, un tecnico che lavorava qui a Sverdlovsk. La prima risale a circa quattro settimane fa. La seconda a due settimane dopo. Entrambi i documenti elencavano parti di macchinari imballate e spedite al porto di Vladivostok.» «Come fate a sapere che erano proprio quelle le bombe?» «Non lo sappiamo», rispose Mirnov. «Almeno non con certezza. Comunque, prima di essere spedite, le due casse sono state pesate. Tutte e due avevano lo stesso peso: poco più di centoquattro chili. Calcolando il peso della cassa di legno, è esattamente il peso delle due testate per artiglieria di campagna.» «Ha detto che la prima è stata spedita un mese fa?» «Sì.» Gideon corresse un appunto e guardò le note che aveva scarabocchiato in fretta man mano che Mirnov rivelava le sue informazioni. «E Čenko... dov'è?» «È questo che ci preoccupa. Non lo sappiamo. Poco dopo che è stata effettuata la spedizione, è scomparso. Semplicemente ha smesso di venire al lavoro.» «E voi non avete mai fatto controlli?» «Abbiamo dato per scontato che si fosse trovato un lavoro migliore. Non è insolito. Nell'ultimo anno ho perso più di metà del mio personale. Se non paghi le persone, queste smettono di lavorare. Se io non le controllassi a una a una, non riuscirei a fare nulla. Sa quanti mesi passano senza che l'esercito venga pagato? Soldati, marinai, un tempo considerati dei, adesso vengono trattati come spazzatura. Quando un governo si comporta così va in cerca di guaì.» Aveva ragione. Quel che era peggio, Gideon sapeva che i russi non erano gli unici ad avere quel problema. Entrambe le parti erano colpevoli del
peccato di omissione. Il pericolo stava nel fatto che era diventato politicamente fuori moda preoccuparsi della bomba. Gli inverni nucleari e gli olocausti atomici, fobie indiscusse degli anni '60 e '70, non erano più chic nell'era di Internet e dell'economia globale. Perché mai i politici avrebbero dovuto mettere in guardia i cittadini sul fatto che l'annichilimento nucleare era ancora possibile? Perché turbarli con pensieri negativi? In fondo, la Guerra Fredda era finita. In Occidente si chiudevano le basi militari, tutti sguazzavano nei dividendi della pace, esplorando con rinnovato vigore capitalista nuovi mercati in espansione. Il presidente degli Stati Uniti e il premier russo erano amici. A quale scopo preoccupare la gente con rapporti secondo i quali le città potevano essere incenerite da una bomba nucleare vagante? E tutto ciò nonostante i rapporti quotidiani dei servizi segreti informassero i leader mondiali che la Russia stava perdendo il controllo del demone nucleare. E se fosse accaduto l'inimmaginabile? Gideon non aveva dubbi. Il presidente americano avrebbe dichiarato un'emergenza nazionale, convocato l'Unità di Crisi del governo federale e detto ai sopravvissuti che condivideva il loro dolore. Ecco qual era l'arte di governare alla fine del millennio: una bella differenza rispetto a Roosevelt e Churchill. «Che genere di lavoro svolgeva il signor Čenko?» chiese Gideon. «Come le ho detto, era un tecnico. Lavorava allo smontaggio degli ordigni.» «Alle testate?» «Sì.» «Dunque sarebbe anche in grado di rimontarle?» «Certo.» Il russo rispose senza dar peso alla gravità della cosa, anche se aveva senza dubbio riflettuto sul suo significato. Un individuo con quelle capacità sarebbe stato molto richiesto dai governi al di fuori del club nucleare o dai governi «subnazionali», come venivano eufemisticamente definiti i terroristi nella comunità dei servizi segreti. Gideon guardò gli appunti che aveva preso, sottolineò alcune cose, li rilesse, memorizzando ogni dettaglio, poi chiese a Mirnov un fiammifero. Davanti agli occhi del russo, mise il foglio di carta con gli appunti nel grande posacenere sulla scrivania, accese il fiammifero e diede fuoco a un angolo del foglio, poi lo osservò bruciare finché non rimase altro che cenere fumante. «Un'ultima domanda», disse. «Qual era la destinazione finale delle due spedizioni?» Mirnov deglutì a fatica. I suoi superiori lo avrebbero squartato vivo. «Noi non abbiamo mai avuto questa conversazione», mormorò.
«D'accordo.» «Non possiamo essere sicuri per la seconda cassa. Sappiamo che non si trova più nel magazzino al porto di Vladivostok. Ma la prima spedizione ha lasciato una scia di carta. La documentazione di un trasbordo mi è stata inviata per fax stamattina.» Prese un foglio dalla tasca della camicia e lo aprì, lisciandolo sul ripiano della scrivania. «Nessuno, a parte me e l'amministratore del porto di Vladivostok ha visto questo documento, e lui non ne conosce il significato.» «Capisco», annuì Gideon. Il russo voltò il foglio di carta in modo che l'altro potesse leggerlo e memorizzarne i particolari. La spedizione aveva come destinazione, almeno sulla carta, gli Stati Uniti: una ditta che si chiamava Belden Electronics. 8 Roche Harbor, Stato di Washington Un velo di nebbia si alzava come vapore dalla superficie dell'acqua, così liscia da sembrare un pannello di vetro lavorato. Joselyn riusciva a vedere le volute di fumo che uscivano dai camini delle case di Henry Island, a quasi due chilometri di distanza. Guardò l'orologio. Mancavano cinque minuti alle sette. Sperava che avrebbero fatto in tempo. I giudici federali hanno la cattiva abitudine di emettere mandati di cattura per i testimoni che non si presentano, mandati che, talvolta, possono includere anche un avvocato o due. Era la sua firma, in calce alla lettera che portava l'intestazione col suo nome, faxata al tribunale a garantire la presenza di Belden. Si voltò a guardare il parcheggio. Non c'erano tracce né di Belden né di auto, sulla strada che scendeva lungo la collina sovrastante il complesso turistico. La facciata bianca dell'Hotel de Haro, col lungo terrazzo del primo piano coperto di rampicanti, ricordava una torta di nozze. Era stato costruito nell'Ottocento da un ricco uomo d'affari, proprietario di una cava di arenaria. La cava era ormai chiusa da quarant'anni, ma l'albergo aveva trovato una nuova giovinezza. Insieme col ristorante adiacente era uno dei luoghi più suggestivi dell'arcipelago. Lontano dalla mondanità di Saint Tropez e della Costa del Sol, il porticciolo e il ristorante avevano accolto persone ricche e famose, tra cui il sultano del Brunei e il re della Microsoft, Bill
Gates. Guardò di nuovo l'orologio e in quel mentre udì il monotono ronzio di un motore sopra la sua testa. Paventava che i suoi timori si sarebbero rivelati corretti. Si voltò e lo vide che si avvicinava da ovest, basso sull'orizzonte. Forse era l'idrovolante della mattina proveniente da Victoria. Faceva servizio tra le due isole due volte al giorno. L'aereo si abbassò di colpo puntando verso il canale tra Henry Island e il porto, scivolando sopra la nebbia, e poi si poggiò sull'acqua saltellando sulla superficie scintillante. Effettuò un ampio giro e si diresse verso il molo, con l'aria spinta dall'elica che sollevava alti spruzzi d'acqua. Avvicinandosi, il rombo del grosso motore a stella infranse il silenzio del porticciolo. Un piccolo stormo di oche si levò in volo, seguito da tre germani reali. Joselyn non si era mai trovata così vicina a un idrovolante prima di allora - non più di una trentina di metri -, quando il pilota spense i motori. Si vedeva solo il contorno della figura scura nell'abitacolo. L'aereo scivolò in silenzio come un mitologico uccello da preda, avvicinandosi al molo sullo slancio. All'ultimo momento, il portello si aprì e il pilota si abbassò con grazia, una mano sul montante dell'ala e un piede sul galleggiante. Con movimento fluido saltò sul molo e, come per magia, fermò l'aereo senza che il galleggiante sfiorasse il pontile. I timori di Joselyn si erano avverati. Era Belden. Lei non amava volare, neppure sugli aerei di linea. Quell'uomo era pieno di sorprese. «Mi stava aspettando?» La guardò e sorrise. «E noi dovremmo andare in volo fin laggiù con quello?» «A meno che lei non abbia le ali.» Aveva un sorriso impertinente, come quello di Robert Redford nel Grande Gatsby. Lei rimase lì impalata a guardarlo, i piedi come incollati al pontile. «Su, sono soltanto quaranta minuti di volo da qui a Seattle. Le piacerà moltissimo.» La vocina che sussurra dentro tutti noi in quel momento stava urlando nella testa di Joselyn, coprendola d'insulti perché non aveva il coraggio di dirgli di no. Io non salgo su aerei da turismo con uomini che non conosco. Anzi non ci salgo proprio. «Ha paura?» «No.» Perché aveva risposto in quel modo, proprio non lo sapeva. «Bene. Allora salti su.»
Tenendosi al montante dell'aereo, le prese la valigetta di mano e la posò sul pontile, quindi l'aiutò a salire sul galleggiante. «Usi il predellino.» Joselyn posò il piede su un gradino di metallo ricavato nel montante dell'ala. Visioni di lei che cadeva tra il galleggiante e il pontile. Edizione straordinaria! Donna muore cadendo da un aereo. Tra poco gli imbarazzanti dettagli. In qualche modo, nonostante i tacchi e il tailleur con la gonna stretta che le arrivava a metà coscia, riuscì a issarsi sul sedile del pilota. Quando guardò giù, vide che Belden le stava osservando le gambe e, dall'espressione del suo viso, capì che si stava godendo lo spettacolo. «Scambiamoci i vestiti e ci provi lei», gli sibilò. Lui scoppiò a ridere. «No, no. Sono sicuro che non sarei altrettanto sexy.» Joselyn si alzò, si mise a posto la gonna e girò intorno ai comandi della console centrale. C'erano sei sedili sul retro dell'aereo, tre per ogni lato, e una panca sul fondo. «Si metta pure sul sedile del copilota, sull'altro lato», le disse. «Ne è sicuro?» «Certo. Così può vedere dove andiamo.» «Potrebbe non essere una buona idea.» «Le piacerà.» Non le diede il tempo di ribattere e le lanciò la valigetta. Lei la prese al volo e crollò sul sedile anteriore. Belden si diede una spinta prima che lei avesse il tempo di cambiare idea e si allontanarono velocemente dal pontile. Salì sul sedile del pilota e chiuse il portello, fece scattare un paio d'interruttori sopra la sua testa e indossò una cuffia con un microfono incorporato. Fece scattare altri interruttori e girò una manopola. All'improvviso l'elica prese a girare e il motore si avviò. Belden guardò fuori del finestrino per assicurarsi che l'ala non urtasse contro qualche ostacolo sul pontile. «È già stata a bordo di un idrovolante?» «Mai.» «Però ha volato su aerei piccoli.» Lei scosse la testa, mentre lui la guardava con la coda dell'occhio, le mani in continuo movimento sui controlli sopra di loro. «Allora dovrebbe trovarlo eccitante.» Abbassò lo sguardo sulla sua gonna. «Ma forse è meglio che si allacci la cintura di sicurezza se non vuole
che diventi troppo eccitante.» Lei allacciò la cintura, bassa sull'addome, e armeggiò con la fibbia che si chiuse con uno scatto, quindi ne regolò la lunghezza finché non si sentì ben stretta contro il sedile. «Non c'è niente di cui preoccuparsi», le disse lui, voltandosi a guardarla. Sapeva riconoscere l'odore della paura. «Sono anni che piloto.» «Non ho paura.» Mentiva. «Bene. Beata lei.» Le rivolse un altro sorriso alla Robert Redford e, prima che lei potesse dire un'altra parola, spinse una leva in avanti e il motore letteralmente sobbalzò in uno scoppio di potenza. L'aereo fece un balzo in avanti e iniziò a girare lentamente allontanandosi dal molo e dirigendosi verso il canale aperto. Joselyn aveva le nocche bianche per la forza con cui stringeva il bordo del sedile. Si voltò verso di lui e vide che non sorrideva più: era tutto concentrato a guardare il canale davanti a loro. Le oscillazioni dell'aereo sull'acqua presero un certo ritmo e lei cominciò a rilassarsi. Il velivolo scivolava liscio, poi urtò un'onda, che probabilmente aveva causato arrivando, e sobbalzò appena. Belden virò, allineandosi al centro del canale. Senza esitazione allungò la mano verso una manetta che stava sulla console tra i due sedili. La spinse in avanti e l'aereo prese a correre più veloce sull'acqua, sobbalzando sulle piccole onde che increspavano la superficie. Il rumore e le scosse aumentarono finché Joselyn non udì altro che il vibrare del metallo e i colpi dei galleggianti sull'acqua. L'aereo prese velocità e la mano di Belden spinse la leva ancor più avanti; il rumore si trasformò in un rombo che s'impadronì di tutti i suoi sensi e la vibrazione le fece quasi sbattere i denti, penetrando fin dentro il suo corpo. Belden era profondamente concentrato, con gli occhi fissi sul canale, mentre saltavano sull'acqua; poi, con un unico, fluido movimento tirò indietro lentamente il volantino di comando e, come Pegaso, si staccarono dalla superficie scintillante del mare e si sollevarono verso l'alto. Era una sensazione nuova per Joselyn, che non aveva mai volato a bordo di un piccolo aereo. A differenza dei potenti jet passeggeri, l'idrovolante sobbalzava per i vuoti d'aria e veniva scosso dai venti di traverso. La sensazione di continua ascesa era strana, come se da un momento all'altro la forza di gravità potesse riaffermare il suo potere e tirarli giù. Joselyn guardò in basso, verso l'arcipelago di San Juan: centinaia d'isole sparpagliate sotto di loro e montagne verdeggianti che si levavano da un
tappeto di acqua blu scintillante nel sole del mattino. «È magnifico!» «È uno dei motivi per cui adoro pilotare. Da un jet non è possibile vedere tutto questo. E poi mi piace avere il controllo della situazione, quando vado da qualche parte; mi piace avere le mani sul volante.» Lei annuì come se capisse. Continuarono a salire per parecchi minuti, girando sopra le isole per dirigersi verso sud, lungo il tratto di mare. Quando si misero in assetto orizzontale, il motore cessò di forzare e il suo rombo si stabilizzò in un ronzio regolare e monotono. «Perché non li prende lei per un secondo?» «Come?» «Sì, prenda i controlli.» Prima che Joselyn potesse dire qualcosa, lui aveva già staccato le mani dal volantino. Lei afferrò l'identico volantino che aveva davanti e l'ala destra incominciò ad abbassarsi. «Metta i piedi sui pedali.» Le indicò due pedali sul pavimento. «Li tenga piani. Mantenga il naso dell'aereo in linea con l'orizzonte ed è fatta.» Con un brivido lungo la schiena, Joselyn si trovò a pilotare l'aereo, incapace di dire una sola parola. Era come vivere un'esperienza extracorporea. La fronte le s'imperlò di sudore. Terrore puro. «Le piace?» «Fantastico. Lo riprenda subito.» «Se la sta cavando benissimo.» Prese a esaminare alcune carte che aveva estratto da una tasca portaoggetti sul portello, ignorando totalmente quello che lei stava facendo coi comandi. «Non ha paura che andiamo a sbattere contro una montagna?» «No», rispose lui senza alzare lo sguardo. «L'unica montagna di cui devo preoccuparmi ce la siamo lasciata alle spalle.» «Mi fa piacere sapere che ha fiducia in me.» «Potrei persino schiacciare un pisolino.» «Non ci pensi nemmeno.» Stava di nuovo sorridendo. Gli occhi di lei si spostavano dai quadranti e gli interruttori del pannello davanti a sé all'orizzonte e viceversa. Il terrore si trasformò in disagio a mano a mano che cominciò ad acquistare familiarità coi comandi. «È in rotta perfetta. Ancora venti minuti e dovremmo essere sopra Seattle.» «Non è questo il modo di trattare il proprio legale», gli disse. «Non si sta divertendo?»
Non l'avrebbe mai ammesso, ma effettivamente stava cominciando a divertirsi. «È come andare in bicicletta», disse lui. «Sì, ma se cado dalla bicicletta il terreno è molto più vicino.» «L'obiettivo è non cadere. Sta andando un pochino giù di naso.» «Che devo fare?» «Vede l'indicatore di velocità?» Le indicò uno dei quadranti. «Tiri appena indietro il volantino, molto dolcemente. Ecco, così. Alzi un po' il naso.» Joselyn smise di parlare e si concentrò sui comandi. Lentamente l'orizzonte si riallineò con la parte bassa del parabrezza e la velocità scese di trenta miglia orarie. «Bene. Ora parliamo: che cosa mi aspetta in aula oggi?» Aveva varie carte sparpagliate in grembo, come se volesse prendere appunti. «Non avrà tutta la mia attenzione a meno che non riprenda i comandi.» Lui rise e prese il volantino, posando i piedi sui pedali. «Si rilassi. Ce l'ho.» Joselyn fece un gran sospiro e si appoggiò allo schienale del sedile, sentendo sciogliersi i muscoli delle braccia e delle spalle. Fece un paio di respiri profondi e poi si voltò per prendere la valigetta e un blocco sul quale aveva preso alcuni appunti. Sfogliò le pagine e, quando alzò lo sguardo, vide che le mani di lui erano staccate dal volantino. «Chi sta pilotando?» chiese, allarmata. «Il pilota automatico. Io sto attento che non ci siano altri aerei. Lei mi dica che cosa devo fare quando sarò là.» «Se lo dice lei.» Joselyn consultò gli appunti. «Anzitutto possiamo farci un'idea di quello che stanno cercando se ci sono altri testimoni che aspettano quando arriviamo in tribunale. Potrebbe riconoscerne qualcuno e, in tal caso, questo potrebbe fornirci indizi preziosi. Siamo ancora in tempo ad appellarci al Quinto Emendamento e rifiutarci di testimoniare, ma soltanto se abbiamo un valido motivo.» «Capisco.» «Una volta entrato, il rappresentante del giurì la farà giurare. Il pubblico ministero titolare dell'inchiesta, probabilmente un sostituto procuratore, la informerà dei suoi diritti. Il diritto ad avere un avvocato, il diritto di restare in silenzio, e così via. Probabilmente la avviseranno che, essendo sotto giuramento, se non dice la verità potrebbe essere accusato di spergiuro.» «Capisco.» «A questo punto, il pubblico ministero probabilmente le dirà qualcosa
sulla natura dell'inchiesta. Questo è un momento critico. Se ci fossero sorprese, se in effetti non stessero facendo indagini su quel Max Sperling di cui mi ha parlato, chieda una pausa. Dica che vuole conferire col suo legale. Devono concedergliela. Non risponda a nessuna domanda se prima non è uscito e non abbiamo avuto modo di parlare. Ha capito?» «Un gioco da ragazzi», rispose Belden. «Speriamo.» «E poi che succede?» «Una volta stabilite le regole, il pubblico ministero comincerà a farle domande. Rifletta prima di parlare e si limiti a rispondere alle domande. Non dica niente di più. Se si mette a dare risposte lunghe e si addentra in argomenti che non sono stati affrontati, renderà le cose più complicate. Servirebbe soltanto a metterla in difficoltà, ad aprire filoni d'indagini cui il pubblico ministero non aveva pensato. Quindi: risposte chiare e concise.» «Chiarissimo.» «Una volta che incomincia a testimoniare dica la verità. Non nasconda nulla.» «Ma se mi ha appena detto che non devo fornire informazioni!» «Intendevo dire che lei deve rispondere direttamente e completamente alle loro domande specifiche. Ma non affronti altri argomenti. È compito loro. Meno dice, più in fretta uscirà di là. Se può rispondere a una domanda con un semplice sì o no, lo faccia.» «Capito. Aspetti un secondo.» Fece scattare un interruttore e armeggiò con una manopola su qualcosa che somigliava a una radio, posta sopra la loro testa, quindi parlò nel microfono fissato alla cuffia. «Torre di controllo di I.L.S. Qui J-N otto-due-quattro-sei. Sono in avvicinamento sul vettore...» Guardò la bussola e comunicò la rotta. La torre di controllo rispose; Joselyn udì la scarica statica, ma non capì le parole. «Lake Union.» Ci fu un'altra pausa. «Grazie», disse Belden e poi girò un'altra manopola della radio. «Scusi, dovevo chiedere l'autorizzazione all'avvicinamento.» Fece scattare un'altra levetta e prese i comandi. Joselyn pensò che avesse spento il pilota automatico. «Okay, dunque non devo dar loro informazioni non richieste.» «Giusto.» «E devo parlare con lei se ci sono sorprese.» «Giusto.»
«Che altro?» «Non saprei. Le procedure variano da un distretto all'altro. Alcuni pubblici ministeri permettono ai membri del gran giurì d'interrogare direttamente il teste, una volta che loro hanno terminato. Non so se qui venga seguita questa procedura. Cercherò di scoprirlo prima che lei entri. Comunque, se permettono ai giurati d'interrogarla, stia attento.» «Perché?» «Perché i giurati sembrano gente comune. E lo sono. La maggior parte di loro è cordiale, sorridente. Non le parleranno in... legalese. Si rivolgeranno a lei come se fossero i suoi vicini di casa. C'è la tendenza ad abbassare la guardia, a mettersi a far conversazione con loro. Non lo faccia. Il pubblico ministero ascolterà ogni parola e s'infilerà in ogni spiraglio che lei apre. Quelli non sono suoi amici. Non l'hanno invitata laggiù per fare due chiacchiere.» «Capisco. Sono il nemico», osservò Belden, «Non si dimostri ostile, ma stia in guardia.» «Bene. È tutto?» «Praticamente sì. Se non capisce una domanda, chieda spiegazioni. Non esiti a chiedere che venga riformulata. E se si sente di dover parlare con me, dica loro che vuole una pausa per conferire col suo legale.» «D'accordo.» Quando iniziarono la discesa sulla periferia nord, Joselyn vide le case sparpagliate sotto di loro come un tappeto su un prato verde. Poi comparve il distretto universitario insieme con la riva occidentale del lago Washington. «Mi dica qualcosa di più sulla sua attività», disse lei di punto in bianco. Belden sembrò colto di sorpresa. «Che cosa c'è da dire?» «Che cos'è che produce esattamente?» «Interruttori.» «Questo lo so, me l'ha detto. Ma quale genere d'interruttori?» «Il genere che accende e spegne le cose.» Lei gli lanciò un'occhiata come per dire «ma fammi il piacere!» «Al momento stiamo progettando chip per sistemi a riconoscimento vocale. Si usano nei sistemi di sicurezza», spiegò Belden. «È come un'impronta digitale, soltanto che in questo caso si usa la voce. Qualcuno parla in un telefono, o in un microfono, e il computer confronta la voce con l'impronta vocale in archivio. Se combinano, la porta si apre, la luce si accende, l'allarme s'inserisce. Si può accendere il sistema d'irrigazione auto-
matica o le luci di casa a distanza. Se l'impronta vocale non corrisponde, la persona non ha accesso al sistema.» «Affascinante», esclamò Joselyn. «Davvero si può fare una cosa del genere?» «Accurato al novantacinque per cento o più. Quasi impossibile da ingannare.» «E se avessi una registrazione della voce di qualcuno?» chiese Joselyn. «Anche con una registrazione della voce giusta, il chip coglierebbe il rumore di fondo, il leggerissimo disturbo del microfono, e la chiuderebbe fuori. I sistemi migliori usano parole in codice. Con le parole giuste si potrebbe controllare il mondo.» Condusse l'aereo in un ampio cerchio verso est e cominciò l'avvicinamento sopra l'università, togliendo gas e facendo uscire i flap. S'inclinò con decisione sulla destra e scese rapidamente. A Joselyn parve che lo stomaco le schizzasse fin sul soffitto. Ripresero velocità col motore quasi al minimo e puntarono verso Lake Union, sopra il ponte della I-5 dove il traffico era completamente bloccato. Mentre si avvicinavano a Lake Union, Belden tirò indietro lentamente il volantino e spinse la leva del gas in avanti dando un po' più di potenza. Il motore fece sollevare il naso dell'aereo per un attimo. L'ammaraggio fu dolce e quasi impercettibile se non fosse stato per gli spruzzi che si levarono dai galleggianti ai lati e dietro il velivolo e qualche scossone mentre scivolavano sull'acqua. «Ecco. L'ho portata qui tutta d'un pezzo», disse lui, voltandosi a guardarla. «Non ne ho mai dubitato.» «Già.» Guidò l'aereo verso uno dei pontili. Una grossa insegna su un edificio verde diceva: SEATTLE - IDROVOLANTI. C'erano parecchi fiori, una raffica di colore, nelle cassette di legno lungo tutto il molo, e molti piccoli idrovolanti ormeggiati; uno era issato su un pontile galleggiante che spuntava appena dall'acqua, quasi sommerso dal peso dell'aereo. «Ho preso accordi per ormeggiare qui per qualche ora. Non vengo quaggiù abbastanza spesso da avere un attracco fisso. Possiamo chiamare un taxi da dentro.» Joselyn guardò l'orologio. Aveva ragione. Avevano tempo. Dieci minuti più tardi erano a bordo di un taxi che attraversava il centro cittadino per risalire la collina verso la Madison e la Sesta, dove aveva se-
de il tribunale di Seattle. 9 Culver City, California Era una truffa fantastica, molto meglio che rapinare una banca o sradicare dal muro uno sportello di cassa automatica con una catena fissata al semiasse di un pick-up. Così non si correva il rischio di farsi sparare addosso, e inoltre la maggior parte delle banche non aveva tanti contanti a disposizione. E poi Buck aveva davvero un sedere molto sexy con quei calzoncini aderenti color kaki. La piccola centralinista continuava a guardarlo mentre lui se ne stava in piedi davanti al bancone, aspettando che lei finisse di telefonare. Se avesse immaginato che quella vista sarebbe costata al suo datore di lavoro mille dollarozzi o anche più, forse avrebbe guardato un po' più a lungo. Buck Thompson viveva nella piccola cittadina di Sedro-Woolley nell'estremità nordoccidentale dello Stato di Washington. Di mestiere faceva il taglialegna, ma da tre anni non lavorava. Non c'era lavoro. Lui e la maggior parte dei suoi amici facevano quello che potevano per mantenere le famiglie. Ogni tanto Buck accettava lavori saltuari in altri Stati per mettere insieme qualche dollaro. Era così che si era trovato l'occupazione attuale. Per dieci anni se l'era cavata discretamente, ma poi l'ultimo accordo tra gli ambientalisti e la Casa Bianca sul taglio della legna nei terreni di proprietà del governo aveva fatto chiudere le segherie. Da allora Buck e quasi tutti i suoi amici erano rimasti senza lavoro. L'anno prima uno dei suoi figli aveva smesso di andare a scuola, a quattordici anni, per mettersi a lavorare. Sua moglie aveva un doppio lavoro: alla sera faceva le pulizie negli uffici, di giorno rispondeva al telefono in una piccola officina. Quello che lo mandava in bestia più di ogni altra cosa era il sentir ripetere in continuazione sulla CNN che l'economia andava molto bene. I media, o come diavolo si chiamavano, non erano diventati altro che portavoce del governo e ripetevano a pappagallo i comunicati della Casa Bianca. Se il presidente avesse fatto i suoi bisogni in pubblico, avrebbero riferito che aveva deposto uova d'oro. Se Buck e i suoi amici volevano veramente sapere che cosa stava succedendo in politica, l'unico posto dove potevano trovare la verità era su
Internet. Almeno lì trovavano chi la pensava come loro, senza che i magnati dell'informazione raccontassero quello che volevano. Buck navigava la notte, quand'era a casa, e visitava tutti i siti conosciuti: la Nazione Ariana, la Fratellanza, qualche sito di protesta fiscale, tutti posti frequentati da gente con tendenze miliziane. Comunicavano on-line, usando parole in codice e nomi fittizi. I federali erano sempre in ascolto e controllavano tutte le chat room. Buck sapeva che i lavori venivano dirottati all'estero. L'industria americana dei trasporti lungo il confine col Messico era stata decimata. C'erano moltissimi camionisti disoccupati in rete. Società che avevano prosperato per generazioni erano fallite nel giro di pochi mesi dopo che gli Stati Uniti erano entrati nel NAFTA. Era un'alleanza scellerata tra i partiti politici, democratici e repubblicani e le grosse compagnie per metterla nel culo ai lavoratori. Per come la pensava Buck, i politici formavano un branco di magnaccia e non aspettavano altro che vendere il loro Paese a chiunque in cambio di contributi per le loro campagne, e il più delle volte a personaggi o governi stranieri. Buck pensava che il dipartimento della Giustizia fosse un teatrino di marionette. La sua unica preoccupazione era coprire quell'andazzo. L'FBI era interessato soltanto a dare la caccia a gente come lui, a gente che non rientrava nella loro definizione di «politicamente corretto». Chiunque si opponesse alle tasse, criticasse il fisco o il presidente si trovava immediatamente sotto inchiesta. Il cerchio si era chiuso. L'America aveva distrutto l'Unione Sovietica solo per sostituirsi a essa come il più grande Paese totalitario del mondo, governato da politici disonesti e dai loro amici magnati dell'informazione, e amministrato da burocrati corrotti. Ecco qual era il lascito dell'America per il nuovo millennio. Ed ecco perché Buck provava tanto gusto a portare avanti quella truffa, a spremere la compagnia dei telefoni, a fare telefonate in cambio di dollari. Avrebbe tirato su un sacco di soldi in pochissimo tempo, garantito al limone. In più immaginava che ci fosse in ballo qualcosa di grosso. Si chiedeva chi l'avesse ideata, quella truffa. Gli avevano detto che era stato un russo, un mafioso di Mosca immigrato negli Stati Uniti. I russi non rapinavano banche o negozi di liquori. Loro preferivano fare i soldi in maniera moderna, allungando una mano e alleggerendo qualcuno. Dopo essere sopravvissuta all'ombra del Cremlino per settant'anni, la mafia russa dava filo da torcere alle forze dell'ordine americane. Tempo cinque anni, il governo a-
vrebbe rimpianto la cortina di ferro e il muro di Berlino. L'America voleva liberare le popolazioni dell'Europa orientale. Attenti a quello che chiedete, potreste ottenerlo! Il piano era brillante. Quel pomeriggio erano in quattordici a operare, tutti uomini della milizia. Ognuno indossava l'uniforme di una diversa ditta di consegne. Ognuno aveva un pacco sotto il braccio e una tavoletta di metallo con sopra pinzate finte bolle di spedizione. Venivano tutti dal Nord, ma quel giorno operavano nella zona intorno a Culver City, nel sud della California, in gran parte industrie leggere, qualche deposito, un paio di grandi spacci al dettaglio. Sceglievano aziende che sembravano grosse, il genere di società che non fa caso se ci sono mille o duemila dollari in più sulla bolletta del telefono a fine mese. La piccola centralinista bionda era graziosa. A Buck ricordava una delle sue nipoti. Portava una cuffia simile a quella dei piloti d'aereo e premeva pulsanti sulla tastiera del telefono come una vera professionista. Era contento che i soldi non venissero dalle sue tasche. La ragazza premette un bottone sul telefono, alzò lo sguardo verso di lui e gli sorrise. «Posso esserle utile?» «Ho un pacco per il signor Zinsky.» La ragazza lo guardò, perplessa, come se non conoscesse quel nome. E infatti non poteva conoscerlo. Zinsky non esisteva. «È sicuro di avere l'indirizzo giusto?» domandò la ragazza. Buck lesse il nome della società e l'indirizzo sull'etichetta infilata nella busta di plastica trasparente appiccicata al pacco. «Forse è uno nuovo», disse lei. Sfogliò l'elenco degli impiegati posato sul bancone. «Hmm...» Niente. «Perché non me lo lascia? Se non riesco a trovarlo vi avverto.» «Non posso», rispose Buck. «Deve firmare.» «Posso firmare io.» «È un plico speciale», ribatté Buck. «Ho bisogno della firma del signor Zinsky.» «Vediamo...» La ragazza era incerta sul da farsi. «Potrei chiamare il mio capo.» Sfogliò un'altra volta l'elenco dei nomi in caso le fosse sfuggito in precedenza. Niente. «È una consegna prioritaria», osservò Buck. «Deve trattarsi di qualcosa d'importante.» Lei gli rivolse un'espressione afflitta. Non voleva finire nei guai, ma non sapeva che cosa fare. «Mi potrebbe ripetere il nome lettera per lettera?»
«Harold Zinsky. Z-I-N-S-K-Y.» Controllò un'altra volta. Non c'era nessuno con quel nome. A questo punto le linee telefoniche davanti a lei lampeggiavano tutte, e le suonerie squillavano. «Aspetti un secondo.» Rispose a una telefonata. «Può attendere in linea, prego?» Proseguì lungo la fila e fece lo stesso con altre sei telefonate finché tutte le linee non tacquero, pur continuando a lampeggiare. «L'indirizzo è giusto e il nome della ditta anche», sospirò lei. «Però qui non c'è nessun signor Zinsky.» «Hmm...» Ora toccava a Buck mostrarsi perplesso. «Potrei usare il vostro telefono per chiedere al responsabile? È un numero verde.» «Certo. Ce n'è uno in fondo al bancone, laggiù. Schiacci il nove per la linea esterna.» La ragazza tornò alle sue telefonate, sollevata di non dover prendere, almeno per il momento, una decisione. Sarebbe stato un gioco da ragazzi. Buck si trasferì in fondo al bancone, a un metro e mezzo di distanza. Sollevò il ricevitore, digitò il nove e poi il numero. Però non compose un numero verde, bensì uno che corrispondeva a un servizio definito pay per call e cioè uno di quei numeri utilizzati, sì, da alcune società lecite, eppure meglio noti come l'equivalente telefonico del quartiere a luci rosse. «Telefonami. Mi chiamo Sherie. Ti titillerò lo zufolo in teleselezione con una piuma per tre dollari al minuto.» L'utente medio tuttavia ignora che alcune compagnie telefoniche permettono a queste società di addebitare fino a duecentocinquanta dollari per chiamata, quando qualcuno compone il loro numero a pagamento. Chi fornisce il servizio, di solito una delle grandi compagnie telefoniche, prende una piccola percentuale o una quota fissa per telefonata e gira il resto della cifra guadagnata durante il mese al cliente intestatario di quel particolare numero. Nel caso di Buck, si trattava della Western States Militia, un consorzio di patrioti ben armati e organizzati. Solo che con la compagnia dei telefoni non usavano il nome della milizia, ma uno più accattivante e rispettabile: Rock Island Finance and Investment. L'avrebbero cambiato la settimana seguente, quando si fossero spostati in un'altra zona del Paese, e avessero ripetuto la truffa con un numero diverso e sotto un diverso nome. Buck rimase in ascolto e attese la fine del messaggio registrato. Era molto breve, un annuncio innocuo a proposito della pianificazione finanziaria, non più di dieci parole in tutto. Riattaccò senza dire una parola. La ragazza lo guardò. Stava parlando con qualcuno al telefono.
«Era occupato», sussurrò Buck. Lei lesse le sue labbra, annuì e sorrise come se capisse. Continuò a parlare, passò una telefonata e ne prese un'altra. Lui compose un'altra volta il numero e fece come la prima volta. Quando ebbe finito, aveva composto il numero cinque volte: 1250 dollari sulla bolletta telefonica della società. L'addebito sarebbe arrivato al datore di lavoro della ragazza alla fine del mese e, a meno che il contabile della società non fosse Ebenezer Scrooge, sarebbe stato pagato senza far troppe questioni. La compagnia telefonica, a sua volta, avrebbe passato il ricavato alla milizia sotto il suo nome fittizio. Buck avrebbe potuto fare quel giochetto altre quattro volte, ma ebbe pietà. E poi non conveniva mai essere avidi con un solo pollo. L'America era la terra delle opportunità. C'erano almeno una decina di altre grosse aziende sulla stessa strada che non avrebbero notato gli addebiti sulla bolletta per almeno due o tre mesi, se mai se ne fossero accorte. Le avrebbe visitate tutte nelle prossime due ore. Poi si sarebbe spostato di qualche chilometro e avrebbe ricominciato. L'indomani avrebbero tolto le tende, si sarebbero trasferiti nella contea di Orange e da lì giù a San Diego. Benvenuti nel mondo della comunicazione globale. Buck si avvicinò alla centralinista. Lei alzò lo sguardo verso di lui, continuando a parlare al telefono. «Può attendere un secondo?» disse lei e premette il pulsante dell'attesa. «La linea è sempre occupata», spiegò Buck. «Non riesco a contattarli. Senta, facciamo così: io chiamo il mio ufficio dal telefono cellulare sul furgone. Dico loro di fare ricerche e di chiamare il mittente. È probabile che abbiano sbagliato o il nome o l'indirizzo. Chiariremo la questione, e, se dev'essere consegnato qua, tornerò questo pomeriggio.» «Perfetto.» La ragazza gli lanciò un sorriso radioso come se lui le avesse appena risolto una questione insormontabile. Sempre felice di essere d'aiuto, pensò Buck. In fondo non avrebbe dovuto indossare quell'uniforme se non fosse stato più che disposto a svolgere il servizio. Si voltò e si diresse verso la porta. Un istante prima di aprirla, vide la ragazza riflessa nel vetro affumicato della porta: gli stava osservando il didietro. Quella mattina, prima di mettersi in azione, aveva fatto un rapido calcolo mentale. Se ognuno dei quattordici uomini impegnati nella truffa quel giorno avesse totalizzato una media di mille dollari a colpo, calcolando di
visitare cinque aziende in un'ora, avrebbero tirato in casa settantamila dollari l'ora. Con otto ore di lavoro, sarebbero stati 560.000 dollari al giorno. La milizia si sarebbe presa il novanta per cento. L'altro dieci per cento sarebbe stato diviso tra i quattordici uomini. Buck non faceva domande. Comunque la mettesse, era sempre meglio che arrampicarsi sugli alberi per tagliar via i rami. Kent, Stato di Washington Pasta dentifricia e carta igienica furono sufficienti a neutralizzare il rilevatore di fumo della cella. Erano stati installati perché i carcerati non si mettessero a fumare di notte e dessero fuoco alla prigione. Chaney preparò una specie di compressa con una decina di foglietti di carta igienica tenuti insieme con acqua e dentifricio. La appoggiò con precisione sul rilevatore di fumo e la sigillò con altro dentifricio. Poi andò velocemente alla finestra, tolse le teste delle viti e lo schermo di plexiglas, e posò delicatamente quest'ultimo in terra, appoggiandolo alla parete. Accese un fiammifero e lo tenne più in alto che poté dentro il condotto della finestra, lasciandolo bruciare, proprio come se fosse una candela, per parecchi secondi. «Che stai facendo?» chiese Čenko. «Sta' zitto.» Attesero circa due minuti. Parvero una vita. Chaney stava per accendere un altro fiammifero quando udì un fruscio tra i cespugli e un rumore. Alzò lo sguardo e vide la faccia di un uomo che lo guardava dall'altra parte delle sbarre. «Perché diavolo ci hai messo tanto?» chiese Chaney. «Stava passando una macchina. Tieni, prendi questa.» L'uomo era senza fiato. Passò all'altro un piccolo walkie-talkie collegato con un cavo a una cuffia. «Abbiamo due macchine, qui, alle due estremità della strada. Entrambe sul canale sette. Se vedono qualche movimento, una macchina che si avvicina o guardie che curiosano, ti avvertono. Copri la fiamma, hai capito?» «Capito», disse Chaney. «Tieni. Non farlo cadere.» Il tizio all'esterno fece passare con cura la valigetta contenente il cannello da taglio attraverso le sbarre. Aveva legato una corda al manico della valigetta così da poterla recuperare se quella sera non fossero riusciti a evadere. «Se hai bisogno di qualcosa, lancia un fi-
schio nella cuffia. Sarò sull'auto all'angolo.» Prima che Chaney potesse dire una parola, il tizio era già sparito, lasciando l'estremità della corda arrotolata sul terreno all'esterno della cella. Tornò velocemente dal collega che lo aspettava in auto, seguendo un percorso attentamente studiato durante la settimana. L'esterno del carcere era controllato da un sistema di sorveglianza video. Sotto gli spioventi dell'edificio erano fissate delle telecamere montate su motori girevoli, monitorate dalle guardie all'interno. Il sistema aveva un unico difetto: un evidente punto cieco nella zona prospiciente alla cella che Chaney si era fatto consegnare con le cattive da Tattoo e Homer. Sarà anche stato un carcere di contea piuttosto nuovo, ma non era né Pelican Bay né il carcere federale di Atlanta. Chaney tirò fuori l'accenditore, regolò ossigeno e acetilene per avere la giusta proporzione e accese il cannello e armeggiò col beccuccio fino a ottenere una fiamma azzurra e il sibilo regolare del gas. Dentro la valigetta c'era un paio di occhiali da saldatore. Chaney li indossò e si mise all'opera. Doveva lavorare in una posizione scomoda e difficile, mezzo metro dentro il condotto della finestra. Si mise in piedi sul bordo del water che si trovava proprio sotto e più di una volta rischiò di scivolare e caderci dentro. Čenko teneva una coperta contro la finestrella della porta della cella, così che le scintille del cannello che tagliava il metallo non si riflettessero nel corridoio semibuio. Di quando in quando dava una sbirciatina dietro la coperta per assicurarsi che la guardia non stesse facendo un giro d'ispezione. Il fumo cominciò a spandersi nella cella e salire verso il soffitto. Čenko lanciò uno sguardo preoccupato al rilevatore di fumo protetto dalla carta igienica e pregò che la schermatura tenesse. «Ce n'hai ancora per tanto?» «Sta' zitto e sorveglia la porta», rispose Chaney. Aveva già tagliato una delle sbarre ed era quasi a metà di un'altra quando gli uomini a bordo dell'auto sussurrarono qualcosa nella cuffia del walkie-talkie. «Fermati. Qualcuno si sta avvicinando a piedi lungo la strada.» Tirò via il cannello dalla finestra e lo tenne basso, puntato verso il pavimento in modo che da fuori non si vedesse. Aspettò un paio di minuti, fino a che non gli diedero il via libera. Sperava che gli uomini si fossero ricordati di portargli il palanchino. Il piano prevedeva che lui tagliasse tutte le sbarre vicino alla base. Poi, con l'aiuto del palanchino, loro le avrebbero piegate verso l'alto quel tanto da permettere a lui e al russo d'issarsi fuori della finestra usandole come appiglio.
Non aveva ancora finito la seconda sbarra quando il cannello iniziò a scoppiettare e a produrre una fiamma giallastra. La prima bombola di acetilene era finita. Chaney cominciò a preoccuparsi di non averne portato a sufficienza. Se non fossero riusciti a tagliare le altre sbarre, avrebbe dovuto passare di nuovo tutti gli attrezzi all'esterno, farli recuperare dagli uomini sulle auto, rimettere a posto lo schermo di plexiglas e aspettare l'indomani per portare a termine l'operazione. Se le guardie avessero ispezionato la finestra e visto le sbarre annerite o controllato lo schermo, sarebbe stata la fine. Sganciò la prima bombola di acetilene, innestò la seconda, accese il cannello e si rimise al lavoro. Aveva quasi finito con la terza sbarra, quando Čenko fece schioccare le dita due volte. «Guardia.» Chaney spense la fiamma e fece sparire il cannello. Lo gettò nella valigetta e, con un calcio, spedì il tutto sotto la cuccetta. Il russo tolse la coperta dalla finestrella e si lanciò nella cuccetta superiore, mentre Chaney rimetteva a posto lo schermo. Non aveva tempo per risistemare le teste delle viti. Si tuffò nella cuccetta appena in tempo, mentre il raggio della torcia si rifletteva sul vetro della finestrella nella porta. Rimase immobile come un morto sulla sua cuccetta, in mutande, mentre la luce della guardia perlustrava la cella e si rifletteva sul pannello di plexiglas. Pregò che la guardia non si accorgesse che mancavano le teste delle viti. Avendo la faccia voltata verso la porta, si accorse che un pezzo del tubo di gomma rosso del cannello spuntava da sotto la cuccetta. Il fascio della torcia danzava sulle pareti della cella come Campanellino. Chaney si voltò sul letto come se si stesse rigirando nel sonno, fece ciondolare un braccio oltre il bordo e con la mano sfiorò il pavimento, afferrando il tubo di gomma e gettandolo sotto la cuccetta con un unico, fluido gesto. La torcia elettrica seguì i suoi movimenti con un mezzo secondo di ritardo e non intercettò il tubo di gomma che a quel punto era già sparito sotto la coperta che pendeva dal materasso. Chaney trattenne il fiato, mentre la luce esplorava lo spazio sopra le cuccette. Passò velocemente sopra la compressa di carta igienica che copriva il rilevatore di fumo. La guardia non notò nulla. Non si accorse neppure della nuvola di fumo che galleggiava pigra sotto il soffitto della cella come nebbia sopra le Blue Ridge Mountains. O il tizio era cieco oppure stava solo facendo finta di fare il suo giro d'ispezione mentre pensava ad altro, magari a scoparsi sua moglie o la sua ragazza o la moglie di qualcun altro.
La luce scomparve dalla finestrella. Chaney e il russo attesero parecchi secondi finché non udirono i passi che si allontanavano lungo il corridoio. Allora Chaney si alzò e guardò dalla finestrella. «Via.» Il russo afferrò la coperta, saltò giù dalla cuccetta e tornò a coprire la finestrella. Questa volta continuò anche a guardar fuori. Chaney tornò al lavoro col cannello. «Ancora una.» Maneggiava l'attrezzo con pazienza e delicatezza, cercando di non sprecare l'acetilene. Continuava a guardare l'orologio. Diciotto minuti più tardi aveva finito di tagliare anche l'ultima sbarra. «Fatto», sussurrò nel microfono della cuffia. Un istante dopo udì il tonfo di una portiera che si chiudeva un po' più in là e un fruscio tra i cespugli. Infine scorse la testa di un lungo palanchino d'acciaio spuntare dalla finestra. Facendo leva sulla cornice in muratura intorno alla finestra, l'uomo all'esterno usò tutto il proprio peso per curvare una sbarra alla volta finché tutte non furono piegate quasi a novanta gradi contro la parete del condotto della finestra. «È ora di andare», disse Chaney. Čenko uscì per primo. Era in mutande, ma non si preoccupò di vestirsi. Mise un piede sul bordo del water, quindi si issò, aggrappandosi alle sbarre. Scivolò senza difficoltà attraverso il condotto e scomparve tra i cespugli. Chaney stava per andare quando si voltò. Scese dal water, sganciò i due tubi di gomma dalle bombole di ossigeno e acetilene e le lanciò all'esterno. Quindi rimise il cannello nella sua valigetta e lo appoggiò sopra il water. Solo allora si tirò su e uscì dalla finestra. Una volta all'esterno, servendosi della corda, recuperò la valigetta. Non aveva senso lasciare tracce per la polizia. Un cannello portatile Victor era un articolo che qualsiasi ferramenta si sarebbe ricordato di aver venduto. E avrebbe potuto ricordare anche il suo volto. Perché avere un brutto identikit appeso negli uffici postali quando se ne poteva fare a meno? 10 Ekaterinburg «Pare che il guaio sia doppio rispetto a quello che pensavamo in origine.» Gideon van Ry si trovò a urlare nel ricevitore del telefono. «No, ho detto doppio.» Temeva che il suo accento, oltre alla pessima qualità della
comunicazione, rendesse ancora più difficile la comprensione a Santa Crista, dove Caroline stava prendendo appunti. Inoltre parlava in maniera criptica. Era sicuro che da qualche parte loro stessero ascoltando, probabilmente all'altro lato del corridoio rispetto all'ufficio di Mirnov. «Sì. Sì, hai capito bene.» Sperava che Caroline recepisse il messaggio senza che lui dovesse enunciarlo esplicitamente. Chiunque avesse rubato l'ordigno ne aveva rubato due. Se fosse sceso troppo nello specifico, era quasi certo che i russi avrebbero interrotto la comunicazione. La linea era già caduta due volte. Gideon attese il clic fatale, ma esso non ci fu. Mirnov lo guardava dall'altra parte della scrivania. Gli rivolse un sorriso innocuo e si strinse nelle spalle come per dire «la linea non è buona», poi riprese: «Oh, sono molto disponibili. Il governo russo sta collaborando». Sperava che questo servisse a prolungare la telefonata. E, in gran parte, era la verità. Il problema era che nella nuova Russia nessuno sapeva con esattezza dove tracciare i confini della sicurezza. «L'impianto qui è proprio come pensavamo.» Quella frase aveva un doppio significato. Prima di partire da Santa Crista, aveva discusso con Caroline ciò che si sapeva a proposito di Sverdlovsk, e non erano buone notizie. «Sì, puoi scriverlo sul rapporto», le disse. Mirnov gli sorrise e Gideon ricambiò. L'avrebbe chiamata una volta lasciata la Russia e avrebbe rivisto il rapporto prima che venisse reso pubblico; diversamente non lo avrebbero mai lasciato rientrare. La diplomazia era sempre molto importante se si voleva continuare ad avere accesso alle informazioni. L'Istituto voleva conoscere la verità, però non aveva intenzione di mettere in imbarazzo il governo russo. Lo scopo principale dell'Istituto era puntare il raggio di luce della consapevolezza pubblica nei meandri oscuri dove si custodivano gli arsenali di armi per la distruzione di massa. Non c'era nulla di ciò che i russi avrebbero potuto udire o leggere che già non sapessero. Intere sezioni del loro sistema di custodia e smaltimento si trovavano in guai seri. Il problema era che né il governo russo né quello americano lo spiegavano ai loro cittadini. «Un'altra cosa», disse Gideon. «Gli oggetti in questione non sono stati presi contemporaneamente.» Rimase in ascolto. Non gli tolsero la linea. «Giusto. Entrambi spediti da Vladivostok. Giusto... Come? No. No. Due diverse polizze di carico. Entrambe indicanti parti di macchinari. Sì, con la destinazione finale.» Caroline lo stava interrogando, cercando di ottenere la maggior quantità
d'informazioni possibile. Nel giro di un'ora, i punti principali della vicenda sarebbero stati immessi nella loro banca dati; per i particolari divulgabili, invece, bisognava attendere qualche giorno. I clienti di tutto il mondo sarebbero stati messi in allerta, principalmente i servizi di sicurezza governativi. Senza dubbio avrebbero richiesto ulteriori chiarimenti per telefono, fax, e-mail. Era una storia molto importante per il pubblico degli addetti ai lavori. «Te lo ripeto: Belden Electronics. Un indirizzo nello Stato di Washington. Chiedi all'ufficio informazioni», disse Gideon. «Sembrerebbe una società, se l'intestazione significa qualcosa. È una casella postale. Un posto che si chiama Friday Harbor. Probabilmente un recapito di comodo. Puoi stare certa che non li hanno spediti là. Giusto.» Si mise una mano sopra l'altro orecchio per sentire meglio, giacché la linea telefonica andava e veniva. «Come? Ripeti... Se so quand'è stato preso l'ultimo ordigno?» Gideon guardò Mirnov. I suoi superiori gli avevano dato ordine di collaborare il più possibile. Il russo si strinse nelle spalle. Non ne era sicuro. O forse era semplicemente sotto shock. Senza dubbio, prima di sera, sarebbe stato a bordo di un aereo diretto a Mosca per rispondere a un sacco di domande. «Non sappiamo con sicurezza quand'è stato preso l'ultimo... Caratteristiche, hai detto?» Caroline voleva sapere con esattezza di quale tipo fossero gli ordigni spariti. «Testate per proiettili d'artiglieria. Proiettili da 152 mm. Pronto? Caroline, ci sei?» Rimase in ascolto per qualche secondo. «Pronto? Pronto?» Evidentemente si era spinto troppo oltre. Sentì il clic sulla linea. Avevano interrotto la comunicazione. Allontanò il ricevitore dal viso per un istante e lo guardò come se Caroline potesse uscire dai forellini. Poi lo rimise a posto sulla forcella. «Ah, il servizio telefonico! Che posso dire?» osservò Mirnov. «È come tutto il resto, qui nella nuova Russia. Soltanto i nuovi imprenditori hanno telefoni che funzionano.» Gideon alzò lo sguardo al soffitto, in preda alla frustrazione, e si passò le mani tra i capelli. Di solito erano ben pettinati, con la riga nel mezzo, ma quel pomeriggio erano un disastro. Da più di due giorni Gideon non si lavava né si radeva. Lui e Mirnov si erano accampati nell'ufficio del russo, cercando di raccogliere informazioni. Mirnov veniva chiamato in continuazione a conferire coi suoi superiori. Gideon si domandò se gli stavano dicendo proprio tutto. Aveva paura che i russi lo trattenessero... se non lì, al suo ritorno a Mosca. Ma il governo russo poteva forse essere l'ultimo dei
suoi problemi. C'erano forze più oscure all'opera nella grande madre Russia. La mafija, come si autodefiniva, lì era più violenta che in qualsiasi altra parte del mondo e non si faceva scrupolo di assassinare gli stranieri, specialmente se minacciavano i suoi interessi. Gideon scese dall'angolo della scrivania sul quale si era appoggiato mentre telefonava a Caroline. «Dovremo aspettare per vedere se i nostri riescono a passare di nuovo la telefonata», disse Mirnov. «Due testate», osservò Gideon. «Sì.» Mirnov si accese un grosso sigaro cubano e ne offrì uno a Gideon, il quale scosse la testa. «Tutte e due per proiettili da artiglieria», disse l'olandese. «Capisco perché ne hanno presi due. Potrebbero venderli entrambi sul mercato nero, in Libia, Iran, Iraq. Ci sono un sacco di potenziali acquirenti. Ma perché spedirli entrambi alla stessa destinazione? Non ha senso.» Ammesso che ci fossero stati due obiettivi nel Nordamerica, era convinto che non avrebbero spedito il secondo ordigno seguendo la stessa strada del primo. Il rischio era troppo alto. «Sarebbe meglio spedirli a destinazioni diverse, così, se anche uno viene scoperto, l'altro può passare.» «A meno che...» fece Mirnov. «Che cosa?» Gideon guardò il russo. «Non stiamo parlando di armi nuove. Alcuni di questi ordigni risalgono agli anni '60. I nuclei stanno invecchiando e l'esplosivo che circonda il nucleo di plutonio è già vecchio. I detonatori, che sono importantissimi, potrebbero non essere stati controllati da anni. Sono rimasti nei depositi per vent'anni, forse trenta. Noi non abbiamo registri di manutenzione. Ho controllato. E temo che anche Dimitri lo abbia fatto.» «Che vuol dire?» «Mi sto riferendo a quella che voi chiamate 'vita attiva'», rispose Mirnov. «Se lei acquistasse un ordigno nucleare sul mercato nero e lo pagasse fior di quattrini, non pretenderebbe qualche garanzia sul suo funzionamento?» «Sì.» «E quale garanzia è migliore di un secondo ordigno?» esclamò Mirnov. «Si ricordi che hanno Čenko a disposizione.» Grigorij Čenko era il tecnico russo scomparso più o meno contemporaneamente alla prima testata. «Lui sarebbe in grado di capire se il primo ordigno è difettoso. Forse hanno
scoperto un problema dopo che era stato spedito. Questo spiegherebbe perché non li hanno rubati insieme... Grazie alla seconda testata, dispongono di pezzi di ricambio. Se anche tutte e due fossero in qualche modo difettose, probabilmente Čenko riuscirebbe a ricavarne comunque una bomba buona. E forse ad aumentarne anche la potenza.» Esistevano due tipi fondamentali di armi nucleari. Il primo tipo era quello a innesco balistico che usava esplosivi ad alto potenziale per sparare un proiettile di uranio altamente arricchito dentro un bersaglio cavo di dimensioni maggiori, costituito da un nucleo dello stesso materiale. Il contatto delle due parti, ammesso che il proiettile avesse velocità sufficiente, faceva raggiungere al nucleo la necessaria massa critica e innescava la reazione di fissione, rilasciando enormi quantità di energia e dando il via a una reazione a catena. Il secondo tipo era più sofisticato. Il cosiddetto ordigno a implosione era costituito da una sfera di plutonio - divisa in trentadue sezioni separate a forma di settori sferici - che circondava un nucleo centrale in berilliopolonio. L'intera sfera era avvolta da esplosivo convenzionale ad alto potenziale - tipo il plastico - che veniva fatto esplodere da una serie di detonatori azionati simultaneamente. L'onda di pressione uniforme generata dalle detonazioni, provocate con la precisione di un decimilionesimo di secondo tutt'intorno alla sfera, comprimeva il plutonio contro il nucleo di berillio, innescando la reazione a catena. L'ordigno a implosione era più potente e liberava un maggior quantitativo di energia. Le due testate in questione rientravano in quest'ultimo tipo. La natura complessa dell'ordigno a implosione presentava tuttavia un problema: richiedeva una manutenzione più accurata. La tempistica delle singole detonazioni intorno alla sfera esterna richiedeva altresì un'estrema precisione, senza la quale si otteneva una dirty bomb, cioè una serie di scorie radioattive lanciata in aria da un'esplosione. Già questo poteva uccidere qualche migliaio di persone, nel caso avessero inalato la polvere. Ma se si fosse raggiunta la massa critica, se ci fosse stato plutonio sufficiente per una reazione a catena e se l'ordigno avesse funzionato a dovere, un'intera grande città - centinaia di migliaia, forse milioni di persone - sarebbe stata ridotta in cenere nel giro di pochi secondi. «Ho ragione di credere che non ci siano sistemi di sicurezza per queste testate?» chiese Gideon. «Quelli che voi chiamate PAL?» «Esattamente.»
«No. Sono troppo primitive per questo.» Gli ordigni in questione erano piccoli e vecchi, con una vita attiva ben definita. Uno staterello con velleità nucleari non le avrebbe mai richieste per il suo arsenale, a meno che non avesse altra scelta. Sarebbe stato più facile e più sicuro acquistare materiale fissile e costruire la bomba da solo. Le testate in questione erano ideali soltanto per un atto terroristico. Erano facili da armare e da trasportare. Chiunque le aveva trafugate si era preso il disturbo di tornare a prenderne un'altra, dimostrando l'esistenza di un piano preciso. Tutto ciò che Mirnov gli stava dicendo portava a un'unica conclusione: chi aveva acquistato quelle armi si prefiggeva di colpire un obiettivo ben definito. Guardò il foglietto di carta che aveva in mano, gli appunti che si era scritto per riferire a Caroline. Poteva prendere un volo che lo portasse oltre il mare di Bering, e trovare una coincidenza a Fairbanks. In dieci ore, forse dodici, sarebbe potuto arrivare a Seattle. Si chiese quanto ci volesse per arrivare da lì a quel posto scritto sul foglietto: Friday Harbor. 11 Seattle, Stato di Washington Un cartello sul muro con una freccia rivolta verso sinistra diceva: AULA GRAN GIURÌ. Joselyn e Belden si avviarono in silenzio lungo il corridoio di moquette. Il luogo era pervaso da un'atmosfera ovattata, che comunicava l'idea di un potere libero, senza costrizioni. Joselyn non aveva mai avuto un debole per i tribunali federali, dove pareva dominare la fredda formalità. Il semplice fatto di trovarsi lì le faceva venire i brividi lungo la schiena, il tipo di reazione che provano quasi tutti i cittadini quando sentono nominare la parola «fisco». Gli edifici federali erano templi al potere, dove i giudici detenevano una carica a vita e i procuratori avevano a disposizione il potere persecutorio di giudici dell'Inquisizione. Joselyn trovava preoccupante il campo d'azione delle leggi penali federali. Era diventato così ampio da duplicare praticamente qualsiasi reato statale. Il divieto di una seconda incriminazione per lo stesso reato era una barzelletta. Se un imputato veniva assolto a livello statale, ma il reato contestatogli violava articoli con connotazione politica, allora veniva riprocessato a livello federale. E negli ultimi tempi ciò acca-
deva assai di frequente nei casi di grande risonanza e coi quali il presidente, o il suo ministro della Giustizia, poteva guadagnare punti a livello politico. Belden poteva anche non essere preoccupato, ma Joselyn lo era. Sapeva che un pubblico ministero federale determinato poteva incriminare praticamente chiunque per qualsiasi crimine. Che poi riuscisse a ottenere un verdetto di colpevolezza da dodici cittadini equanimi in seguito a un processo dove questi ultimi potevano valutare tutte le prove e non soltanto quelle che il governo decideva di mettere sotto il loro naso, quella era un'altra questione. Anche se eri innocente, rischiavi di buttar via mezzo milione di dollari e due anni della tua vita per dimostrarlo. In fondo al corridoio vide una guardia del servizio di sicurezza, in divisa blu, seduta dietro una scrivania, al di là di una porta che aveva una sezione laterale di vetro zigrinato. Sul vetro erano incise in nero le parole AULA GRAN GIURÌ. Appoggiata contro la parete del corridoio c'era una fila di scomode sedie di legno, che trasmettevano cattivi presentimenti. Joselyn aveva sperato di scorgere altri testimoni, qualcuno che Belden potesse riconoscere, e di vedere così confermata la sua supposizione, cioè che Belden e lei si trovavano lì a causa di Max Sperling e dei suoi furti. Ma rimase delusa. Le sedie contro il muro erano tutte vuote. Joselyn entrò per prima e si rivolse alla guardia. Con un sorriso accattivante gli porse il suo biglietto da visita. «Sono Joselyn Cole. Mi trovo qui col mio cliente, il signor Belden, che deve testimoniare oggi.» La guardia ricambiò la sua cortesia, ma i gesti e i movimenti erano automatici come quelli di un robot. Guardò il biglietto, aprì il cassetto della scrivania e tirò fuori una tavoletta su cui erano pinzati alcuni fogli. La tenne in modo che la donna non potesse vedere che cosa c'era scritto sulle pagine fissate sotto la molla, e fece un segno su un foglio con una matita. Joselyn pensò che si trattasse di un elenco dei testimoni e sperò che ci fossero altri nomi per quanto riguardava quel caso. Sapeva che i gran giurì federali si occupavano di un'ampia varietà di casi. La giuria poteva ascoltare frammenti di prove testimoniali relative anche a dieci casi diversi e non collegati tra loro, per lo più testimonianze fondate su dichiarazioni anche non suffragate da prove e presentate da organismi governativi tipo l'FBI, la DEA e l'AFT, cioè l'Alcohol, Tobacco and Firearms, l'ente deputato al controllo di alcool, tabacco e armi da fuoco. Alcuni di questi casi potevano trasformarsi in lunghissime inchieste, riguardanti complesse questioni penali, che si protraevano per mesi o addirittura anni senza talvolta portare
neppure a un'incriminazione, dato che la pubblica accusa si rendeva conto che le affermazioni erano basate unicamente su dicerie. Troppo spesso però si giungeva a questa conclusione soltanto dopo aver spremuto ben bene davanti al gran giurì quasi tutti gli amici e i soci d'affari della persona sotto inchiesta. E la persona in questione poteva anche non essere incriminata, però ne usciva con la reputazione distrutta. La maggioranza dei casi, tuttavia, era molto chiara: una rapina in banca con una decina di testimoni, per esempio. Casi del genere si chiudevano di solito con un'incriminazione dopo mezz'ora di testimonianze rese da due soli testi. Joselyn non sapeva quale dei due estremi avrebbe potuto riguardare il caso Sperling. «Vorrei parlare col sostituto procuratore prima che il mio cliente entri a testimoniare», disse. L'uomo guardò di nuovo la tavoletta. «È il signor McCally. Farò in modo che riceva il suo messaggio», replicò, prendendo un appunto sul retro del biglietto da visita di Joselyn. Belden e lei si sedettero nelle rigide sedie di legno e ammazzarono il tempo contando le crepe nella parete intonacata di fronte a loro. Videro passare un certo numero di persone che, dopo aver rivolto loro uno sguardo, varcavano la porta in fondo, salutavano la guardia e scomparivano dentro l'aula del gran giurì. Dopo che ne furono passati alcuni, Belden rivolse a Joselyn un'occhiata interrogativa. «Giurati», gli spiegò lei. Passarono altri dieci minuti e arrivarono altri giurati. Poi, dietro il pannello di vetro in fondo al corridoio, una porta si aprì e comparve una sagoma scura. Una voce maschile si rivolse all'agente seduto alla scrivania. Infine si udì pronunciare il nome di Belden. Lui si alzò. «Si sieda», disse lei. Joselyn varcò la porta a vetri e si trovò faccia a faccia con un uomo alto, vestito con un abito gessato a righe. Aveva capelli castano scuri con qualche filo grigio alle tempie e occhi profondi dietro un paio di occhiali dalla montatura squadrata di metallo. La sua carnagione era pallida come quella di chi è stato troppo a lungo al chiuso sotto la luce di lampade al neon. «Signor McCally?» chiese. «Sì.» In lui non c'era niente di cordiale. Era la quintessenza del procuratore. Aveva un volto di pietra, un'espressione glaciale. «Mi chiamo Joselyn Cole e sono l'avvocato del signor Belden.» Sorrise e gli porse la mano nella speranza d'infrangere la superficie gelida.
Non funzionò. Lui le strinse la mano. «Piacere.» «Possiamo parlare prima che il mio cliente entri in aula?» «Certo.» Non si spostò di un passo dalla scrivania della guardia. L'agente di polizia giudiziaria rimase a guardarli, aspettandosi di udire tutta la conversazione. «Intendevo dire in privato», aggiunse Joselyn. «Se preferisce.» McCally teneva sotto il braccio un fascicolo piuttosto voluminoso da cui spuntavano alcuni fogli, ma niente che lei riuscisse a leggere. Lui fece strada lungo un breve corridoio che partiva da dietro la scrivania della guardia e la fece entrare in una stanza dopo aver fatto scattare l'interruttore della luce accanto alla porta. I tubi al neon del soffitto si accesero ronzando. Dentro la stanza c'erano un tavolo di metallo con quattro sedie, due su ogni lato, e un telefono posato su un angolo del tavolo. Le pareti, dipinte di verde pisello, erano nude. Un'atmosfera tipicamente carceraria. McCally richiuse la porta. «Di che cosa voleva parlarmi?» Evidentemente non aveva la minima intenzione di sedersi. Joselyn cominciava a preoccuparsi. Se Belden era soltanto un testimone, il comportamento del procuratore di certo non lo dava a vedere. Forse voleva darle una dimostrazione di forza da parte della giustizia inflessibile... O forse intendeva farle semplicemente capire chi era il capo lì dentro; comunque lei rizzò le antenne. «Il mio cliente ha ricevuto un ordine di comparizione. Ma non ha idea del motivo.» «Davvero?» McCally sembrava quasi divertito. «Davvero. Mi sarebbe utile se lei potesse darmi qualche indicazione.» «Non ne dubito», rispose McCally. «È la prima volta che accompagna un teste davanti al gran giurì?» Joselyn si sentì in imbarazzo. Quell'uomo stava vagliando le sue credenziali. «Ho rappresentato alcuni clienti a livello statale...» «Come pensavo», borbottò McCally. «Lasci che le dia un consiglio. Non ho la facoltà di discutere né del soggetto né del contenuto di un'inchiesta del gran giurì.» «Dunque, al momento, si tratta di un'indagine, non di un'incriminazione?» «Al momento, sì.» «Il mio cliente è il soggetto o l'obiettivo dell'inchiesta?» «Ha ricevuto un'informazione di garanzia?» «No. Che io sappia, no.»
«E quindi lei ha già la risposta.» «Non mi dice granché.» «Mi spiace, ma è tutto ciò che posso rivelarle.» «Può dirmi almeno quanti testimoni verranno ascoltati oltre al mio cliente?» «No.» «Sono state mosse accuse contro qualcuno in relazione a questa inchiesta?» «A quanto pare, lei non capisce che...» «Rappresento un cliente che è costretto a testimoniare senza la minima indicazione dell'argomento in questione. Si aspetta davvero che io gli permetta di entrare in un'aula senza un legale per farsi torchiare da chissà quanti procuratori e un esercito di giurati, senza che lei mi dia la minima indicazione?» «Benvenuta nel mondo reale», disse McCally. «Il mio cliente non è costretto a testimoniare. Può sempre appellarsi al Quinto Emendamento.» Stava saggiando il terreno per vedere se poteva avventurarsi oltre. Quanto tenevano alla testimonianza di Belden? Forse poteva indurre il procuratore a discutere dell'immunità. «Già, può appellarsi al Quinto Emendamento», convenne McCally, «è un suo diritto. Ma vorrei farle notare che, nelle indagini a lungo termine, spesso è meglio che un cliente fornisca la sua versione prima che gli altri diano la loro. Il signor Belden potrebbe trovarsi in difficoltà.» «Che cosa significa? Che è un soggetto d'indagine?» «Non ho detto questo.» «Ma se lo ha appena minacciato!» «Io non ho minacciato nessuno. Le ho semplicemente chiarito come funziona il sistema.» «In altre parole, se davanti al gran giurì arriva un altro teste e racconta un sacco di menzogne, punterete i sospetti sul mio cliente perché ha esercitato il suo diritto costituzionale di restare in silenzio?» «Ha la possibilità di dissipare qualsiasi sospetto: basta che testimoni.» «E se non lo fa?» «Be', la decisione spetta a lui, no?» Joselyn sentì il sangue ribollirle nelle vene, surriscaldato dalla mano pesante della giustizia federale. «Lei ha già puntato i suoi sospetti su di lui.» «No.» Le sorrise come per dire: «Dimostralo». «Se lei vuole che testimoni, noi vogliamo l'immunità.»
«Se la può scordare.» Si voltò verso la porta, come per andarsene, poi ci ripensò e tornò a fronteggiarla. «Dica al suo cliente che gli arriverà altra posta.» Stava chiaramente alludendo a un'informazione di garanzia. «Aspetti... Mi sta dicendo che, se non testimonierà, avvierete indagini su di lui?» «Le sto dicendo che può aiutare se stesso o farsi del male. Sta a lui decidere.» «Che razza di governo è questo? Non ci volete dire di che cosa diavolo si tratta e ora lei sta insinuando che, se il mio cliente non rinuncia al suo diritto di restare in silenzio, lei lo incrimina.» «Non ho altro da aggiungere. Dica al suo cliente di decidersi.» «Aspetti un momento. Non possiamo parlarne?» «È così che funziona. Prendere o lasciare.» McCally si avviò di nuovo verso la porta. «Lasci che gli parli.» L'uomo si voltò verso di lei. «Credevo lo avesse fatto prima di venire qui.» Il procuratore era convinto che Joselyn fosse al corrente di ciò che Belden aveva fatto, qualunque cosa fosse. Lei si morse la lingua: parlando, correva il rischio di causare altri guai al suo cliente. Anzi sembrava che fosse già nei guai. Gli avrebbe consigliato di appellarsi al Quinto Emendamento, ma voleva tenere aperto il dialogo col procuratore. «Dovrò parlare col mio cliente», disse lei. «Faccia pure.» McCally guardò l'orologio. «Quanto tempo le serve?» «Non lo so... Mi dia dieci minuti.» Il procuratore uscì, lasciando la porta aperta, e Joselyn rimase sola nella stanza. Capiva che Belden era nei guai, tuttavia non sapeva il perché. Non sarebbe stata la prima volta che un cliente le aveva mentito. Aspettò un istante, in modo che McCally non si trovasse ancora nel corridoio mentre lei parlava a Belden. Udì la porta dell'aula aprirsi e richiudersi. Allora uscì, passò davanti alla guardia e aprì la porta di vetro smerigliato che dava sul corridoio con le sedie di legno. Erano vuote. Non c'era traccia di Belden. Guardò lungo il corridoio. Niente. Rimase lì, impietrita, e per un attimo si chiese se il procuratore non le avesse giocato un tiro mancino, facendo accompagnare Belden dentro l'aula del gran giurì nel lasso di tempo della loro conversazione. No, neanche i federali farebbero una cosa simile! pensò. Ma devo verificare. Si voltò verso la guardia seduta alla scrivania. «Il signor Belden è entrato nell'aula
del gran giurì?» «No.» «Sa dov'è andato?» «Non è là fuori?» Perplesso, l'agente si alzò e andò alla porta per controllare di persona. «Forse è andato in bagno», concluse. Joselyn guardò nella direzione indicata dall'agente. Scorse un lungo corridoio che terminava con la porta a doppio battente di quercia massiccia di una delle aule. «Peccato che io non possa andare a controllare», osservò. Lui le lanciò un'occhiata come per spiegarle che non poteva abbandonare il suo posto, ma lo fece. Si avviò a passo veloce per il corridoio, con Joselyn alle calcagna, ed entrò nel bagno degli uomini, chiudendosi la porta alle spalle. Joselyn aspettò fuori, camminando avanti e indietro e passandosi nervosamente una mano tra i capelli. Guardò l'orologio. I secondi le parvero minuti. Finalmente la porta si aprì. Si voltò di scatto, aspettandosi di vedere Belden. Invece era la guardia. Scuoteva la testa. «Là dentro non c'è nessuno.» «Dove può essere andato?» «Non lo so.» «È sicuro che non sia entrato nell'aula?» «Sì. È entrato il signor McCally e nessun altro. Vuole che chieda a lui?» «No.» Era proprio ciò che Joselyn non voleva. Come prima cosa avrebbe emesso un mandato contro di lei. McCally era già caricato a molla e pronto ad agire. Se scopriva che Belden aveva avuto paura e se l'era data a gambe, questo non avrebbe fatto altro che confermare i suoi sospetti. «Sarà uscito a prendere una boccata d'aria», disse lei. «Vado a vedere.» Stava cominciando a provare quella spiacevole sensazione tipica di quando ti rendi conto che il cliente ti ha mentito. Si chiese se esistesse davvero un Max Sperling o se Belden se lo fosse inventato. Ma perché venire fino a Seattle con un legale per poi scappare? Non aveva senso. «È sicura di non volere che chiami il signor McCally?» La guardia la distolse dai suoi pensieri. «No. È tutto a posto.» Joselyn si diresse a passo svelto verso gli ascensori, lasciando il tizio davanti alla porta dei servizi. E intanto si chiedeva che cosa fare. Avrebbe potuto ritirarsi. In fondo, non aveva ancora fatto azioni ufficiali. Non era come in un processo. Avrebbe restituito a Belden i suoi soldi, almeno la parte che non si era ancora guadagnata. Se non le aveva detto la verità, lei non poteva rappresentarlo.
Poteva sempre guadagnare tempo e dire al procuratore che il suo cliente aveva cambiato idea. Che aveva deciso di appellarsi al Quinto Emendamento. Magari McCally non avrebbe preteso di vederlo. Se l'avesse fatto, lei poteva sempre dirgli che aveva già lasciato l'edificio. Ma questo rischiava di far infuriare il procuratore. McCally dava l'idea di essere un tipo che perdeva facilmente la pazienza. Poteva chiedere alla corte di emettere un mandato di arresto per mancata comparizione. Nel frattempo, lei avrebbe mentito a un procuratore federale. Poteva essere considerata ostruzione alla giustizia? Mentre l'ascensore sembrava fermarsi a ogni piano per prendere e depositare passeggeri, nella mente di Joselyn passarono mille pensieri. Finalmente arrivò al pianterreno, uscì e perlustrò l'atrio con lo sguardo. Nessuna traccia di Belden. Erano entrati dall'ingresso di Fifth Street, così si diresse istintivamente a quella porta. Forse era uscito a fumarsi una sigaretta. Fumava? Non riusciva a ricordarlo. Masticava gomma. Gliene aveva offerto una, fuori dell'aula. Cominciò a rendersi conto che sapeva incredibilmente poco di quell'uomo. Le aveva dato quindicimila dollari di anticipo, ma lei aveva solo una casella postale come indirizzo e un numero di telefono di qualche posto a Kent. Erano strane le cose che i soldi ti portavano a fare... smettere di pensare, per esempio. Joselyn non aveva dubitato di lui neppure un attimo. Perché? Perché aveva tirato fuori tutti quei soldi? Qualunque spacciatore avrebbe potuto fare lo stesso. La sua mente cominciò a esaminare febbrilmente tutte le possibilità. E se fosse scomparso? In quel caso a lei sarebbero rimasti i soldi. Poteva scrivere al tribunale e dire che non riusciva più a trovare il suo cliente. Già. E McCally se la sarebbe bevuta! Guardò l'orologio. Gli aveva detto dieci minuti, e ce ne aveva messo quasi cinque per arrivare all'ingresso di Fifth Street. Uscì in strada e venne assalita dall'odore acre delle sigarette. Sembrava un incontro di peccatori dei Fumatori Anonimi: una decina di persone che andavano su e giù con le mani infilate in tasca, guardando i mozziconi spiaccicati per terra, proseguendo imperterriti la carneficina dei loro polmoni. Ma nessuno di loro era Belden. Joselyn corse giù per le strade verso Fifth Street, guardando a destra e a sinistra. Di lui non c'era traccia. Ci mise cinque minuti per fermare un taxi. Mentre saliva sul sedile posteriore, guardò l'ora e diede istruzioni all'autista. «Ci sono cinquanta dollari extra per lei se riesce a portarmi là in dieci minuti», gli disse. A questo punto McCally la stava di sicuro cercando,
chiedendo alla guardia dov'era andata. L'accelerazione del taxi le procurò quasi un colpo di frusta. La mandò a sbattere contro lo schienale e lei annaspò alla ricerca della cintura di sicurezza. Cinquanta dollari erano una follia, ma era arrabbiata perché Belden l'aveva presa in giro. Avrebbe speso volentieri un po' dei suoi soldi pur di mettergli le mani addosso. Perché si fosse dato la pena di venire fin laggiù era davvero incomprensibile, tuttavia c'era un unico posto in cui poteva essere. Se si era spaventato, di certo era tornato al lago e all'aereo. Joselyn sperava di arrivare là prima che lui se ne andasse. Il taxista zigzagò tra le auto e prese una strada che non somigliava affatto a quella che Belden e lei avevano percorso quella mattina. Passò sotto la I-5 e salì la collina sul lato est. Svoltò a sinistra per una stretta via residenziale e poi accelerò. Doveva fare almeno i centodieci all'ora, rallentando a ottanta solo per lanciare una rapida occhiata alle viuzze laterali che incrociavano. Joselyn aveva paura di guardare. Se qualcuno avesse aperto la portiera di un'auto parcheggiata, questa sarebbe finita nella contea confinante, insieme con quel qualcuno o col suo braccio. Stava per scendere a più miti consigli e dire al taxista di rallentare quando l'uomo fece un'altra curva su due ruote, mandandola a sbattere nell'angolo contro la portiera. E allora lo vide... Lake Union. Si trovava a meno di dieci isolati da lì, sull'altro lato dell'autostrada. Si precipitarono giù dalla collina. Joselyn frugò nella borsa alla ricerca dei soldi e tirò fuori tre banconote da venti dollari, poi guardò il tassametro e ne aggiunse una quarta. Avrebbe fatto felice il taxista. Non aveva tempo da perdere col resto. Si chiese quanto tempo ci volesse per preparare un idrovolante al decollo. Doveva fare rifornimento? In quel caso avrebbe avuto il tempo di raggiungerlo. Non era stata a parlare a lungo con McCally. Anche se Belden avesse lasciato il tribunale immediatamente dopo che lei era entrata nella stanza col procuratore, non poteva avere più di dieci minuti di vantaggio. A meno che il suo taxista non avesse una sua superstrada personale, non poteva essere arrivato al lago più in fretta di lei. Bruciarono un semaforo rosso e proseguirono veloci lungo la riva orientale del lago. «È circa un chilometro e mezzo più in su. Sulla sinistra.» Joselyn si slacciò la cintura di sicurezza e si sporse in avanti, aggrappandosi al sedile anteriore. Vide il ristorante, cinese o giapponese che fosse, e le parole KAMON ON THE LAKE scritte col neon su una grossa insegna. Il molo
degli idrovolanti si trovava subito dietro il ristorante. Se lo ricordava. «Laggiù.» Vide l'aereo di Belden. Era ancorato al molo, ma voltato nell'altro senso, e col motore acceso: si scorgevano le piccole increspature sull'acqua causate dall'elica. Non vide Belden, però doveva essere poco lontano. «Si fermi qui. Mi faccia scendere», ordinò al taxista e gli lanciò le banconote. La macchina si stava ancora muovendo quando lei spalancò la portiera. Il veicolo si fermò, sbandando sulla ghiaia del parcheggio, e Joselyn saltò giù. Cercando di afferrare meglio la valigetta e la borsa, inciampò e quasi cadde. «Signora, vuole la ricevuta?» Joselyn lo ignorò. I suoi pensieri erano tutti per l'aereo, ancorato al molo un centinaio di metri più in là, col motore acceso. Dovette girare intorno a una fioriera di legno e varcare un cancelletto bianco coperto di tuja. Aveva appena attraversato il cancello quando lo vide. Belden si stava infilando il portafogli in tasca. Aveva pensato giusto: doveva fare rifornimento. Stava andando verso l'aereo come se non avesse neppure una preoccupazione al mondo. Le aveva tirato il bidone, l'aveva lasciata sola in tribunale a parlare con un procuratore ringhioso e ora se ne tornava a casa come se niente fosse. La rabbia dentro di lei montò come lava fusa. «Ehi!» urlò con quanta voce aveva in corpo, ma l'urlo venne inghiottito dal rombo del motore. Belden salì su un galleggiante. Urlò di nuovo, ma Belden, con la schiena rivolta verso di lei, non diede segno di averla sentita. Joselyn mollò borsa e valigetta sul pontile e si mise a correre, le mani intorno alla bocca mentre gli urlava di fermarsi. Il tacco di una scarpa s'infilò nella fessura tra due assi del pontile e si spezzò. «Accidenti!» Le scarpe migliori che aveva. Si tolse la scarpa rotta, proseguì zoppicando e poco mancò che cadesse. Allora si tolse anche la scarpa buona, lanciandola davanti a sé sul molo, e prese a correre coi piedi protetti solo dalle calze di nylon, urlando il nome di Belden accompagnato da epiteti irripetibili. Il rombo costante del motore si fece più forte a mano a mano che lei si avvicinava. Non era sicura che potesse udirla. Belden mollò una delle cime che tenevano l'aereo ormeggiato al molo e poi, per qualche insondabile motivo, si voltò e il suo sguardo si posò su di lei. Joselyn si fermò di colpo, senza fiato, le calze a brandelli. In piedi sul
galleggiante, sotto il portello dell'aereo, Belden guardò dritto verso di lei, con un'espressione perplessa sul viso come se lì per lì non fosse sicuro che si trattasse veramente di Joselyn. Poi la riconobbe e le fece un cenno con la mano. Quello stronzo la stava salutando... e sorrideva pure! Non riusciva a crederci. Nessun rimorso, neppure la minima espressione di dispiacere per averla piantata nei guai in tribunale con un procuratore inferocito. Si chinò, le mani sulle ginocchia, cercando di riprendere fiato. Era furibonda. Avrebbe voluto ucciderlo. Abbassò lo sguardo e, in quel momento, sentì il ruggito del motore che accelerava. Alzò la testa, sorpresa. Belden aveva mollato la cima a poppa, era salito sull'aereo e si stava allontanando dal molo. Dopo tutto quello che aveva combinato, aveva intenzione di lasciarla lì. Neanche morta. Afferrò la prima cosa che le capitò sott'occhio - la scarpa buona che aveva lanciato sul molo - e si lanciò a testa bassa verso l'aereo. Giunse in cima al molo e scagliò la scarpa con quanta forza aveva. La scarpa colpì l'alettone di metallo sulla coda dell'aereo e finì in acqua. Joselyn rimase lì impalata sul molo, il viso grondante di sudore, la rabbia che montava. Le si era conficcata una scheggia di legno nella pianta di un piede: le faceva male e sanguinava. Guardò l'aereo compiere un'ampia virata e scomparire alla vista dietro la rimessa in fondo al molo. Il rombo del motore era attutito dalla facciata di legno della costruzione, ma lo sentì ugualmente andare su di giri, mentre si dirigeva verso il canale e si preparava al decollo. E lei non poteva farci nulla. Proseguì lentamente verso la punta del molo, furibonda. Quando arrivò all'angolo della rimessa, sentì il rumore del motore crescere di un'ottava e di almeno cento decibel. All'improvviso, l'aereo sbucò da dietro l'angolo più lontano della costruzione. Con la coda bassa, il motore a manetta, schizzò rombando sull'acqua. Lei lo fissò, affascinata come se stesse guardando le mutevoli forme geometriche generate da un caleidoscopio, mentre l'elica partiva di colpo in avanti e cominciava a saltellare sull'acqua come una pietra. Le ali parvero staccarsi verso l'alto in un unico pezzo, divise dalla fusoliera da una luminosa palla arancione che diventava sempre più grande. L'esplosione accecante le ferì il nervo ottico, causandole un dolore insopportabile agli occhi. Un attimo dopo, lo spostamento d'aria la investì, scagliandola all'indietro sul molo. Il suo ultimo ricordo fu un calore intenso quando l'onda d'urto le passò sopra. La fiammata provocata dall'esplosione del carburante si alzò nel cielo per una trentina di metri, mentre piccoli frammenti dell'aereo flut-
tuavano nell'aria come foglie portate da un tempestoso vento autunnale. 12 Washington, D.C. Il gruppo di lavoro della Casa Bianca aveva tentacoli nel Consiglio per la sicurezza nazionale, occhi e orecchie nella CIA, nell'FBI, nel dipartimento della Giustizia e in almeno una decina di altri organismi governativi. Centro di smistamento di tutte le informazioni sul terrorismo interno, era stato formato dopo l'attentato all'edificio federale di Oklahoma City e, da allora, si riuniva una volta la settimana nell'Old Executive Office Building. Però, se c'era qualche questione urgente, poteva essere convocato nel giro di mezz'ora. E quello non era uno dei soliti incontri settimanali. «Di che si tratta?» chiese Stuart Bowlyn, il presidente del gruppo, che in realtà ufficialmente era chiamato «sottogruppo di coordinamento per il controterrorismo» ed era stato istituito con lo scopo di limitare i conflitti d'interesse che scoppiavano ogni volta che il Congresso destinava nuovi fondi alla lotta contro il terrorismo. Il ministro della Giustizia voleva essere certo che il dipartimento di Stato non ficcasse il naso in casa degli avvocati per dettar legge in materia di procedure penali. Il dipartimento di Stato era perennemente in disaccordo col Consiglio per la sicurezza nazionale perché influenzava la politica estera. L'FBI e la CIA erano sempre in guerra tra loro, mentre il dipartimento della Difesa aveva un'unica preoccupazione: che nessuno, compresi il presidente e il Congresso, facesse saltare il suo budget. Gettare denaro in questo calderone era come pasturare col sangue in una vasca di pescecani. Bowlyn aveva il suo bel da fare. Assistente del consigliere per la sicurezza nazionale, era più vicino al presidente di chiunque altro nel gruppo. Seduti con lui intorno al tavolo c'erano un vicedirettore della CIA, un alto funzionario dell'FBI e un sostituto procuratore generale. Gli altri membri provenivano dai servizi militari, dall'AFT e dalla sezione controterrorismo dei servizi segreti. Tutti avevano libero accesso alle informazioni più riservate. Il vicedirettore della CIA porse a Bowlyn un rapporto contenuto in una cartellina contrassegnata Top Secret. Bowlyn la aprì e lesse il documento all'interno, quindi la richiuse e alzò lo sguardo. «Chi se ne sta occupando?» Il rappresentante della CIA fece un cenno col capo in direzione di un mi-
litare con la divisa della marina, che portava i gradi di capitano di vascello sulle spalline della camicia bianca. Bowlyn annuì. L'ufficiale si alzò e girò intorno al tavolo, dirigendosi verso una grossa mappa del mondo che era stata abbassata sopra una lavagna. Prese la bacchetta e cominciò: «Circa una settimana fa, i servizi della marina hanno cominciato a raccogliere un gran numero di messaggi concitati tra un'installazione militare russa in Siberia, un luogo che si chiama Sverdlovsk, qui» - indicò una località sulla mappa nella Russia centrale «e il loro Comando della flotta del Pacifico, qui, al porto di Vladivostok». Indicò un altro punto. «Non vi abbiamo dato grande importanza, tuttavia abbiamo continuato a tenere sotto controllo le comunicazioni. La maggior parte dei messaggi era in codice, ma alcuni no e questi ultimi sono passati per linee telefoniche non sicure.» «Parlavano liberamente?» Bowlyn sembrava sorpreso. «Sì. La cosa ha stupito anche noi. Pareva volessero lasciarci ascoltare i loro messaggi.» Bowlyn annuì, come per invitarlo a continuare. «Nelle loro comunicazioni continuava a uscir fuori una parola: Isvania. Non sapevamo che cosa pensare. L'abbiamo inserita in una delle banche dati dei servizi militari e due giorni fa abbiamo avuto successo. L'Isvania era una nave-fattoria russa. Secondo le informazioni in nostro possesso, è affondata nel Pacifico orientale all'inizio di questo mese.» L'ufficiale spostò di nuovo la bacchetta sulla mappa, questa volta sulla costa americana del Pacifico. «È affondata qui, circa sessanta miglia a ovest dello stretto di Juan de Fuca, davanti alla costa dello Stato di Washington. Un C-130 della Guardia costiera ha avvistato una chiazza di olio circa dieci giorni fa. Un elicottero Dolphin decollato dal cutter Regal della Guardia costiera ha recuperato piccoli frammenti del relitto. Una boa di segnalazione, un involucro galleggiante e una zattera di salvataggio parzialmente gonfia.» «Nessun superstite?» «No.» L'ufficiale sfogliò un fascicolo posato sul tavolo finché non trovò le fotografie che stava cercando, quindi le fece passare tra i presenti. «Stampigliato sul fianco della zattera», proseguì, «c'era il nome Isvania. A sentire i russi, era destinata alla demolizione e per questo diretta a Bangkok.» «E che ci faceva al largo della costa ovest?» chiese Bowlyn. «Non lo sappiamo», rispose l'ufficiale. «E neanche i russi lo sanno.» «Questo è ciò che dicono a noi.» Evidentemente il vicedirettore della
CIA nutriva dubbi sulla sincerità dei russi. Il capitano di vascello lo ignorò. «Nella zona era in corso una tempesta, ma non ci sono state richieste di soccorso. I russi ammettono la possibilità che la nave fosse coinvolta in qualche attività di contrabbando.» «Contrabbando di che?» disse Bowlyn. «Questo è ciò che non ci vogliono dire.» «E noi ne conosciamo il motivo», intervenne il rappresentante della CIA. «Perché sanno più di quanto vogliano ammettere.» «I rottami che abbiamo recuperato non sono molti», proseguì l'ufficiale, «tuttavia sufficienti a farci capire che, di qualsiasi cosa si trattasse, l'equipaggio dell'Isvania non voleva che lo trovassimo. La boa di segnalazione conteneva un trasmettitore navale. Emetteva un segnale che poteva essere captato su una frequenza militare russa. È un sistema vecchio, con una portata massima di cento miglia. L'involucro galleggiante invece è stato una sorpresa: era stato riempito con quattrocento litri di olio combustibile.» «A che scopo?» chiese Bowlyn. «Una spinta di galleggiamento in aiuto alle boe. Le boe dovevano restare in superficie ed emettere il segnale. Il carico, quale che fosse, era appeso con una cima sotto l'involucro galleggiante. Dalla superficie non era possibile vedere né l'involucro né il carico. Il sistema era molto ingegnoso: il tutto era progettato per andare a fondo se chi doveva raccoglierlo non l'avesse trovato entro pochi giorni. L'involucro galleggiante aveva una piccola valvola e un timer programmato per aprirla. Una volta che l'olio combustibile si fosse disperso in mare, il peso del carico avrebbe trascinato le boe verso il fondo. L'unico motivo per cui lo abbiamo trovato è che il carico era stato rimosso e le boe hanno tenuto a galla l'involucro vuoto.» «Abbiamo qualche idea sulla natura del carico?» s'informò Bowlyn. «Pesava all'incirca un centinaio di chili.» Adesso toccava all'FBI riferire. «Il nostro laboratorio ha analizzato l'involucro e la boa di segnalazione. Ipotizzando che ci fossero altre due boe, perché abbiamo trovato tre cime tagliate, ammesso che fossero delle stesse dimensioni, e considerata la spinta di galleggiamento fornita dall'involucro pieno di olio combustibile, siamo risaliti al peso del carico. C'è qualcos'altro che dovreste vedere.» Passò una copia del rapporto del laboratorio a Bowlyn, che la scorse velocemente, andò alla seconda pagina e lì, a metà, si fermò. «Ne siete sicuri?» «Abbiamo ripetuto il test due volte.» «Che cos'altro sappiamo?» Bowlyn guardò gli uomini seduti intorno al
tavolo. «Abbiamo continuato a tenere sotto controllo le trasmissioni russe provenienti da Sverdlovsk», disse il vicedirettore della CIA. «Non siamo stati in grado di decifrarle tutte, ma quello che abbiamo indica un notevole stato di allarme a livelli piuttosto elevati nel governo.» «Questo potrebbe venire da Sver...» «Sverdlovsk», completò il rappresentante della CIA. «Sì. Ci sono bunker sotterranei. Abbiamo foto scattate dai satelliti, se vuole vederle.» Bowlyn scosse la testa. «Pensa che si siano lasciati sfuggire qualcosa?» «Sembrerebbe proprio così», rispose l'ufficiale. «Mi dica qualcosa di questo posto.» «La città più vicina è Ekaterinburg. Ha una sottocultura criminale molto sviluppata. Negli ultimi anni c'è stata molta violenza, soprattutto a opera del crimine organizzato. Parecchi funzionari locali sono stati assassinati. Pensiamo che una delle prede più ambite tra le fazioni in lotta sia il deposito di armamenti di Sverdlovsk. I vari gruppi criminali che si contendono il potere considerano irrinunciabile il suo controllo.» «A ciò va aggiunto il fatto che quel luogo ha un servizio di sicurezza assolutamente inesistente», intervenne il rappresentante della CIA. «Da quello che abbiamo saputo, le gang della zona si considerano i protagonisti del mercato internazionale degli armamenti. Dal loro punto di vista, il governo russo si occupa semplicemente di custodire le armi finché loro non trovano gli acquirenti.» «Sappiamo che iraniani e iracheni sono andati là cercando di fare acquisti», disse l'ufficiale. «E forse li hanno fatti», aggiunse il vicedirettore della CIA. «C'è qualche prova di un coinvolgimento dello Stato in questa spedizione a bordo dell'Isvania?» chiese Bowlyn. «Per il momento no», rispose l'ufficiale. «Però stiamo ancora indagando.» Bowlyn trasse un sospiro profondo. «E non è finita qua», proseguì il vicedirettore, «Che intende dire?» Bowlyn lo guardò. «Alcune delle trasmissioni in codice tra Sverdlovsk e Vladivostok sono state decodificate ed è uscito fuori un nome.» «Vale a dire?» «Una polizza di carico falsificata per una spedizione di componenti
meccanici da Vladivostok, effettuata da una compagnia russa che si chiama Blue Star Enterprises. L'Isvania ha lasciato Vladivostok quattro giorni prima che cominciassero i messaggi.» «Magnifico», fece Bowlyn. «L'amministratore delegato della Blue Star Enterprises è Viktor Kolikov.» Di colpo lo sguardo di Bowlyn divenne freddo come l'acciaio. Non disse una parola e restò immobile a fissare il vicedirettore della CIA. Quel fatto andava oltre i normali livelli di sicurezza. Avrebbero dovuto sgomberare la stanza prima di approfondire l'argomento. 13 Lake Union, Seattle, Stato di Washington Joselyn trasalì appena, mentre l'infermiere le toglieva l'ennesima scheggia di legno dall'avambraccio col quale, d'istinto, si era riparata il viso dall'esplosione dell'aereo che aveva mandato in frantumi un pezzo del cancelletto in legno, scagliandole addosso una pioggia di schegge. Fortunatamente lo spostamento d'aria l'aveva spinta a faccia in giù sul molo, cosicché il grosso dei frammenti e dei rottami dell'aereo di Belden le erano passati sopra, andando a conficcarsi nella parete di legno della rimessa dietro di lei. «Spero che si renda conto che è stata molto fortunata», osservò l'infermiere, senza alzare gli occhi dal proprio lavoro. «Già, davvero fortunata.» «Tenga duro. Ce ne sono ancora un paio, qua.» Afferrò un'altra scheggia con le pinzette e la strappò via, come se stesse spiumando un pollo. «Ahi!» «Si rilassi. È quasi finito.» L'infermiere tenne alzata la scheggia. Era grande come un mezzo stuzzicadenti. «Non posso lasciarle dentro a marcire. Non le piacerebbe affatto.» Sembrava che il braccio di Joselyn fosse stato bersagliato da un istrice. «Faccia pure. Però stia un po' più attento.» «Magari possiamo parlare mentre lui continua il suo lavoro.» McCally aveva un'aria abbattuta. Era arrivato al molo quarantacinque minuti dopo l'esplosione e adesso se ne stava appoggiato di fianco al portellone spalancato dell'ambulanza in compagnia di un agente dell'FBI in giacca a vento
blu con la sigla stampigliata in bianco sulla schiena, e di un altro tizio in jeans, scarpe da ginnastica e una felpa scura col cappuccio. «Mi dica», gli chiese Joselyn, «come avete fatto ad arrivare qui così in fretta?» «Tenevamo il suo cliente sotto sorveglianza.» Il tizio con la giacca a vento rispose prima che McCally potesse impedirglielo. «Grazie, signor Larkin», disse il procuratore. «Perché non se ne va laggiù a cercare i pezzi del signor Belden prima che i gabbiani se li mangino tutti?» Il tizio incassò il rimprovero e guardò verso il molo, ma non si mosse. Joselyn immaginò che quello con la felpa fosse pure lui un agente federale. Era quasi completamente calvo e prestante come un atleta, con occhi che non restavano mai fissi a lungo su uno stesso punto. Aveva lo stesso atteggiamento guardingo di alcuni criminali che aveva avuto come clienti, in California. «Davvero avete tenuto il mio cliente sotto sorveglianza per tutto il tempo dopo che ha ricevuto il mandato di comparizione?» «Lasci perdere», ribatté McCally. «Lei lo ha visto salire a bordo dell'aereo, giusto?» «Ho già detto alla polizia ciò che ho visto. Può farsi dare tutte le informazioni di cui ha bisogno da loro.» Joselyn aveva dichiarato di aver visto Belden a bordo dell'aereo. Per quanto ne sapeva, era solo. «Preferiremmo averle da lei. Abbiamo già parlato con la polizia», disse McCally. «A sentire loro, lei è venuta qui in aereo con lui. Come mai non era a bordo per il viaggio di ritorno?» «A sentirla si direbbe quasi che le dispiaccia...» Il procuratore non disse nulla. La guardava, in attesa di una risposta. «Si dà il caso che non mi abbia avvertito quando si è allontanato dal tribunale. Dopo aver scoperto che se n'era andato, ho immaginato che fosse diretto qui. Così ho preso un taxi e sono arrivata proprio mentre lui si stava staccando dal molo. Se non mi crede, può sempre cercare il taxista.» «Lo faremo», annuì lui. «Ma perché mai il suo cliente sarebbe venuto fin quaggiù, e in tribunale, per poi scappare senza dirle una parola, senza darle la minima spiegazione?» «Forse si è spaventato», rispose lei. «Hmm...» L'espressione di McCally indicava una forte perplessità. «Dove ha preso l'aereo?» «E io come faccio a saperlo?»
«Era il suo legale.» «Immagino che l'abbia comprato.» «No», borbottò McCally. «Non lo ha comprato. Abbiamo fatto un elenco dei suoi beni. Non c'è nessun aereo.» «Pare che sul suo conto ne sappiate molto più voi di me. Se lo stavate controllando così da vicino, come mai è saltato in aria?» McCally guardò il tizio con la giacca a vento. Pareva che nessuno dei due sapesse che cosa rispondere. «E se eravate così interessati al mio cliente, perché non gli avete inviato un'informazione di garanzia?» «Lei non è qui per fare domande», disse il procuratore, «ma per dare risposte.» «Ah, sì? Credevo di essere qui per ricevere cure mediche. Se lo tenevate sotto sorveglianza, avevamo diritto a un'informazione di garanzia.» «Forse sì, forse no.» «Che vorrebbe dire?» «Vuol dire forse sì, forse no», ripeté l'agente con la felpa. «Il nome Harold McAvoy le dice nulla?» McCally cambiò argomento. Lei ci pensò per qualche istante. «No.» «E James Regal?» «No.» «E Liam Walker?» Questa volta fu l'agente con la felpa a chiederglielo. «Che cos'è, il gioco degli indovinelli?» «Lei si limiti a rispondere.» «Non ho mai sentito questi nomi.» L'agente e McCally si scambiarono un'occhiata, poi si allontanarono di qualche passo e si misero a parlare tra loro a voce bassissima, in modo che Joselyn non potesse sentire. «Spiegatemi che cosa sta succedendo», disse lei. McCally la guardò come se sapesse che se ne sarebbe pentito. «È improbabile che riusciremo a ottenere risposte dal suo cliente», disse l'agente, rivolto a McCally. «Lei è la nostra carta migliore.» Il procuratore ci rifletté un secondo, poi cedette. «Sono tre nomi falsi», le disse. «Come il nome Dean Belden.» «Ma che cosa...» «Questi sono i nomi usati dal suo cliente nei vari Paesi stranieri in cui ha lavorato negli ultimi due anni. Possedeva un passaporto con ognuno di quei nomi.»
«Belden non era il suo vero nome?» «No.» «E non lavorava nel campo dell'elettronica», aggiunse l'uomo con la felpa. «Che lavoro faceva?» «Era una specie di consulente», disse McCally. «Si potrebbe dire che lavorava nel campo dei trasporti speciali», spiegò l'agente. «Ma ha fatto anche altre cose nel corso della sua carriera. Di solito, quando entrava in scena lui, la gente cominciava a morire.» Joselyn ascoltava senza dire una parola. «I clienti che lo ingaggiavano erano diversi: multinazionali, talvolta governi o gruppi di potere che volevano tornare a comandare. Per quanto ne sappiamo, questa era la prima volta che lavorava nel nostro Paese.» «Mi state dicendo che era un sicario?» «È un termine riduttivo», rispose l'agente. «Il signor Belden, o quale che fosse il nome scelto per l'occasione, faceva sconti per comitive. Perché uccidere una persona sola quando se ne possono far fuori un centinaio, magari un migliaio?» «Ma che volete...» «Mi riferisco ai curdi, nell'Iraq del nord. Il suo cliente ha prestato alcuni servizi, laggiù.» «E in alcuni villaggi in Croazia», aggiunse McCally. «Non usava proiettili, né armi. Niente esplosioni. Era tutto molto pulito, tranne che per i corpi gonfi dei morti nelle strade.» «Insomma, era specializzato nella movimentazione di carichi pericolosi», disse l'agente. «Per quanto ne sappiamo, fino a oggi si era limitato alle armi chimiche. Quello che ci preoccupa è che possa aver allargato il proprio campo di attività.» «Basta così», borbottò McCally. Joselyn pensò che si stessero avvicinando ad argomenti che potevano compromettere l'inchiesta del gran giurì. «Vuole ancora sapere perché non gli abbiamo mandato un'informazione di garanzia?» le chiese il procuratore. «Visto com'è andata a finire, pare che abbiamo risparmiato ai contribuenti il costo di una raccomandata», osservò l'agente. «Immagino che anch'io fossi sotto sorveglianza, vero?» chiese Joselyn. McCally non rispose ma, vista l'espressione dell'altro tizio, non ce n'era
bisogno. «Non mi avete ancora spiegato come mai, se lo sorvegliavate così da vicino, qualcuno è riuscito a mettere l'esplosivo sul suo aereo.» «Lei dice?» «Dico.» Joselyn spostò lo sguardo in direzione dei rottami che galleggiavano sull'acqua. «E chi potrebbe essere questa persona che è riuscita ad arrivare al suo aereo?» fece McCally. «Come posso saperlo, io?» «Lavorava con lui.» «Ero il suo avvocato.» «Bene», disse l'agente. «E ora che è morto, le dispiacerebbe riferirci tutto quello che sa sulle sue attività?» «Non so nulla, a parte quello che lui stesso mi ha detto. E, a sentire voi, probabilmente sono tutte fandonie.» «Sia gentile», disse McCally. Joselyn li guardò, ma non disse una parola. «Desidera forse la presenza di un legale?» chiese l'agente. «Vuole che le leggiamo i suoi diritti, che le chiamiamo un avvocato?» «Fatemi capire. Sono in arresto?» «No», rispose McCally, «per il momento no.» «Bene. Allora ho ben poco da dire. Non so nulla delle attività di cui mi avete parlato. Non so se Belden fosse il suo vero nome, né che lavoro facesse. Io so soltanto quello che lui mi ha detto, e se voi due mi state dicendo la verità...» Joselyn li guardò come se avesse qualche dubbio in proposito, «allora lui mi ha raccontato soltanto fandonie.» «E cioè?» insistette McCally. «Che voleva aprire un'attività sull'isola. Qualcosa che ha a che fare con computer e microinterruttori. Voleva che gli preparassi la documentazione per costituire la società. È tutto quello che so.» «E lei non gli ha chiesto altro?» «Che cos'altro c'era da sapere?» «Come l'ha pagata?» «Con un assegno. Emesso su un conto personale.» «Gli ha chiesto da dove veniva?» «Mi ha detto che era di qualche posto vicino a Seattle. Kent, mi pare. Ma probabilmente ha mentito anche su questo.» I due uomini si guardarono; dalla loro espressione Joselyn capì che non
li aveva aiutati granché. «Perché ha scelto lei per questo compito?» chiese McCally. «Mi ha detto che gli ero stata raccomandata dal direttore di una banca del posto.» «Come si chiama questo direttore?» «Non lo ricordo. Ma devo avere il suo nome annotato da qualche parte.» «Ne avremo bisogno.» «Lo cercherò non appena arrivata in ufficio.» «Quanto l'ha pagata?» Joselyn non aveva voglia di rispondere a quella domanda, ma sapeva che, con un mandato, sarebbero arrivati al suo conto in banca. «Un anticipo di diecimila dollari per la pratica riguardante la società. Altri cinquemila per accompagnarlo quaggiù all'udienza del gran giurì.» L'agente alzò gli occhi al cielo. «È normale?» «Sì, e poi ti svegli», rispose McCally per lei. «E questo non le ha fatto venire il dubbio che Belden potesse avere qualcosa da nascondere? Quando le ha detto dell'ordine di comparizione davanti al gran giurì?» Le fece un'altra domanda prima ancora che lei potesse rispondere alla prima. «Verso la fine della scorsa settimana.» «E che cosa le ha detto?» Raccontò loro di Max Sperling, anche se era ormai convinta che pure quella storia fosse inventata. «E lei ci ha creduto?» chiese McCally. «E perché no? Un cliente viene da me, mi dice che ha bisogno di un aiuto legale...» «E la paga quindicimila dollari», aggiunse l'agente. «Non lo dimentichi.» «Quali altri documenti ha?» chiese il procuratore. «Un momento», obiettò Joselyn. «Crede davvero che io vi voglia consegnare tutte le carte di un cliente come se niente fosse?» «Il suo cliente è morto», osservò McCally, «Non sono certa che i suoi diritti siano morti insieme con lui.» «Possiamo parlarne davanti a un giudice federale», suggerì il procuratore. «O magari davanti a un gran giurì.» «Non sono in arresto. Mi state semplicemente interrogando, no?» «Potrebbe collaborare», disse l'agente. «L'ho fatto. Vi ho detto tutto quello che sapevo.» «Forse a Belden piacevano gli avvocati in minigonna», osservò l'agente.
«Per la maggior parte degli uomini è meglio che l'altra alternativa», rispose Joselyn. «Senza offesa.» «Si figuri», rispose l'agente. «Voi due ve la intendevate?» «Lo chieda ai suoi, a quelli coi binocoli», rispose lei. «Dicono di no.» «Ecco.» Ora si stava arrabbiando davvero. «Lei è consapevole del fatto che il segreto professionale viene a cadere nel caso che lei sia in qualche modo coinvolta nel favoreggiamento delle attività criminose del suo cliente?» «Perché dovrei preoccuparmi? Ho il miglior alibi del mondo. Lo chieda al guardone, laggiù.» «Ehi, io non posso garantire per ogni singolo minuto.» L'agente era il classico dipendente statale arrogante che getta discredito sul governo. «Capisco. Soltanto il bagno e la camera da letto.» «Ora basta», esclamò McCally. Lanciò un'occhiata severa all'agente che si zittì. «Allora non c'è altro che ci voglia dire?» «Non c'è altro che vi posso dire», ribatté Joselyn. «Io rappresentavo la società Belden Electronics. Anche se il signor Belden o come si chiama è morto, la società che lui ha fondato non lo è. Come legale, io ho obblighi verso quella società.» «Abbiamo controllato l'elenco dei dirigenti», ribatté McCally. Sapevano già della società. «Riporta il nome di Belden, il suo, e quello di una certa Samantha Hawthorne. Chi è?» «È una procedura di routine», disse Joselyn. Per la costituzione di una società, spesso i legali inseriscono il proprio nome e quello dei loro dipendenti come dirigenti. Samantha, la sua padrona di casa, aveva accettato di comparire nell'elenco. «Lei e io avremmo dovuto essere sostituite da altri dirigenti alla prima riunione degli azionisti.» «Mi pare di capire che non sia mai accaduto, vero?» «No.» «C'erano altri soci a parte Belden?» Questa era un'informazione che McCally non poteva ricavare dai documenti a disposizione del pubblico, però poteva chiedere un mandato per esaminare i suoi fascicoli. «No, che io sappia.» Prima che le potessero porre la domanda successiva, un altro agente in giacca a vento blu scura, con le lettere ATF stampigliate sul davanti e sulla schiena, arrivò alle spalle di McCally, gli sussurrò qualcosa all'orecchio e
gli porse un oggetto. Joselyn non riuscì a vedere di che cosa si trattava poiché era abbastanza piccolo da poter essere nascosto nella mano chiusa. Il procuratore parlò con l'agente in borghese. I tre uomini si allontanarono di qualche passo in modo da poter conferire senza essere uditi. L'infermiere si rimise a lavorare di pinzetta sull'avambraccio di Joselyn. «Credo che me le terrò come souvenir», disse lei. Prima che il tizio capisse, si tirò giù la manica della camicetta lacera e macchiata di sangue. L'agente dell'FBI con la giacca a vento era l'unico abbastanza vicino con cui scambiare due chiacchiere. I suoi due colleghi erano impegnati in un'accesa discussione. Vedeva quello con la felpa che agitava le braccia. Stava avendo la peggio con McCally. Joselyn immaginava che l'agente volesse arrestarla. «Mi dica, da quanto tempo seguivate Belden?» L'agente con la giacca a vento si limitò a guardarla, sorrise e disse: «Eh, già, perché io lo vengo a dire a lei». McCally ritornò verso di loro. «Avete finito con me?» chiese Joselyn. «Un'ultima domanda», rispose lui. «Che ne sa di questo?» Aprì il palmo della mano. Conteneva un piccolo pezzo di plastica bianca grande circa tre centimetri per due. Sembrava una piccola cornice portaritratti con al centro un foglio di carta grigia un po' sbiadita. «Che cos'è?» chiese lei. «Gli agenti l'hanno trovato che galleggiava laggiù. Non l'ha mai visto prima?» «No.» Joselyn non capì che cosa fosse finché McCally non se l'appoggiò al bavero della giacca, come un distintivo. E allora, all'improvviso, lo riconobbe. Ne aveva visti di simili sui camici bianchi dei tecnici di laboratorio in ospedale, persone che lavoravano in radiologia. «Si chiama dosimetro», spiegò il procuratore. «Misura le dosi di radiazioni e serve per assicurarsi che le persone esposte a esse non ne assorbano troppe. Perché il suo cliente ne possedeva uno?» «Non lo so.» McCally la guardò come se non le credesse. «Non si è mai troppo prudenti, a questo mondo», osservò. «Ha qualche idea del perché il suo cliente sia stato assassinato?» «Assolutamente nessuna.» «Se io dovessi avanzare un'ipotesi», rifletté McCally, «è perché stavamo raccogliendo informazioni sul suo conto. Questa è gente che vive nell'om-
bra. Il suo cliente, Belden, o come si chiamava, e i suoi soci sono individui che vivono sotto le pietre e strisciano fuori col buio. Quando gli abbiamo inviato la citazione, all'improvviso lui si è trovato sotto i riflettori. I suoi amici lo hanno visto come una minaccia, l'anello debole della catena.» «E questo che c'entra con me?» «Forse più di quanto lei pensi. Magari ci sta dicendo la verità e davvero ignora tutto delle attività del suo cliente. D'altro canto, non è quello che lei sa, ma quello che loro credono che lei sappia che potrebbe mettere in pericolo la sua vita.» «Come?» «Sto dicendo che, se avessero messo la bomba su quell'aereo per il viaggio di andata, ora lei non sarebbe qui a parlare con noi.» Era una cosa cui Joselyn non aveva pensato. «In altri termini, le sto dicendo che, se sa qualcosa, non è il momento di tenerlo per sé.» 14 Padget Island, Stato di Washington Fermo sul molo, Scott Taggart osservava la piccola imbarcazione tracciare una scia di schiuma bianca attraverso il San Juan Channel e dirigersi verso l'isola. Nessuno veniva lì senza essere invitato. Non c'erano collegamenti pubblici, non veniva consegnata la posta. La corrispondenza era indirizzata presso l'ufficio postale di Friday Harbor, raggiungibile dopo una traversata di quattro miglia su un mare agitato da forti correnti. L'isola era lunga meno di un chilometro e mezzo da un capo all'altro e nel punto più largo superava di poco i duecento metri. Tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento era stata di proprietà di un allevatore di pecore, che vi teneva le sue greggi senza doversi preoccupare degli animali da preda. Nel 1927, però, l'unico pozzo dell'isola era diventato salato e, tranne che per pochi ruscelli stagionali, non vi era altra acqua dolce. L'allevatore aveva abbandonato l'impresa. Per i proprietari che gli erano subentrati l'acqua non costituiva un problema. Avevano fatto fortuna trasportando whisky canadese al di là del confine durante il Proibizionismo e si facevano arrivare via mare tutto quello che serviva. Le coste canadesi dello stretto di Georgia erano a meno di venti miglia. Era stato proprio quest'ultimo fattore a far scegliere l'isola
a Scott e al suo gruppo. Si erano sistemati nella rustica costruzione fatta edificare da un magnate del contrabbando all'inizio degli anni '30. La casa dominava il molo dalla cresta della collina, e aveva il pianterreno di pietra e grosse travi di legno. La proprietà era sorvegliata da uomini armati di fucili semiautomatici Barret calibro 50; il loro possesso era legale, purché non venissero trasformati in armi automatiche. I fucili, messi a punto con cura, dotati di mirino telescopico per la massima precisione di tiro e alcuni addirittura montati su treppiedi, sparavano proiettili che superavano la barriera del suono producendo una detonazione tipica e il cui impatto era paragonabile a quello di un piccolo proiettile da cannone. Erano in grado di trapassare le blindature leggere come pure le più moderne protezioni in ceramica adottate dall'esercito per le imbarcazioni veloci destinate al pattugliamento. I caricatori di questi fucili, che contenevano undici colpi, erano stipati a centinaia in numerose postazioni fortificate disposte tutt'intorno all'isola. Ogni postazione era sistemata in posizione strategica in modo da poter tenere sotto fuoco incrociato chiunque tentasse di sbarcare. Il comitato era lì da quasi un mese. Era una delle condizioni poste dall'uomo che si faceva chiamare Thorn. Il cibo arrivava sull'isola a bordo della loro barca, l'acqua era fornita da un grosso serbatoio di raccolta fatto costruire negli anni '80 dall'attuale proprietario dell'isola, un ricco cittadino del Belize che Scott immaginava fosse pesantemente coinvolto nel traffico di stupefacenti. Era stato Thorn a prendere tutti gli accordi. Sembrava avere ottimi agganci a livello internazionale. Scott vide la barca rallentare e compiere una grande J nelle acque tranquille della baia. Venne a fermarsi accanto al pontile galleggiante: soltanto uno degli occupanti scese. L'uomo afferrò un borsone che un altro individuo a bordo della barca gli aveva porto e si avviò lungo il molo. Si erano incontrati tre volte, due in una baita sulle montagne dell'Idaho, circa sei mesi prima. Scott riconobbe la camminata: pareva che Thorn avesse un bastone infilato su per il culo. Quel portamento militare era inconfondibile. «Il signor Scott Taggart, vero?» Aveva la vista di un'aquila, persino nella mezza luce del crepuscolo. Attraverso la foschia, Scott intravide le larghe fattezze del suo volto, una specie di ghigno autoritario sotto i capelli biondo rossicci. L'addestramento militare di Thorn aveva radici in Sudafrica. Era una delle poche cose che Scott sapeva di lui.
Thorn indossava una muta di neoprene, col cappuccio ripiegato dietro la testa. Mentre veniva verso di lui, Scott individuò la caratteristica più evidente di quello che era, indubbiamente, un bel volto: un paio di occhi verdi, profondi e penetranti. Nel corso della sua carriera, Thorn aveva utilizzato molti nomi falsi. Il più recente era Dean Belden. «Non mi aspettavo che fosse nel comitato d'accoglienza. Avrebbe potuto mandare uno dei suoi uomini.» Thorn salì la rampa dal pontile galleggiante, resa ancor più ripida dalla bassa marea, trascinandosi dietro il pesante borsone. «Se ci fossero state cattive notizie, volevo essere il primo a saperle», disse Scott. «Nessuna cattiva notizia. Lei si preoccupa troppo. Deve imparare a pensare positivo, a vedere il lato buono delle cose. Quante persone avrebbero scommesso che saremmo arrivati fin qui? Lei crede che il suo governo abbia qualche sospetto?» «Me lo dica lei.» «Neppure il minimo indizio», rispose Thorn. «In questo momento stanno dragando il fondo di quel lago alla ricerca di frammenti di metallo non più grandi di così.» Gli mostrò l'indice e il pollice tenuti a una distanza di cinque centimetri, come fossero un calibro. Ecco che cosa riusciva a fare mezzo chilo di C-4 sistemato a dovere vicino a un serbatoio di benzina avio ad alto numero di ottani. «Per quanto riguarda il corpo, tanto varrebbe che cercassero i resti di Nostro Signore, visto il successo che avranno.» «Bene.» «Deve imparare a stare calmo», proseguì Thorn. «Lei si fa coinvolgere troppo, e questo può far male al cuore. Impari ad assaporare il momento.» «Assaporerò il momento quando avremo finito», replicò Scott. «Oh, no. Deve imparare a trarre piacere da ogni passo. Provi a vederla così: l'unica cosa peggiore di essere ricercati dal governo è lavorare per il governo.» «Cioè?» Si avviarono verso la casa. «In questo preciso istante, tutti quegli agenti se ne stanno col naso nell'acqua gelida a cercare cose che i pesci hanno finito di mangiare due ore fa.» Scott Taggart non poté fare a meno di sorridere. In Thorn c'era qualcosa di singolare, un barlume di affabilità sotto l'aspetto implacabile. «Mi racconti della sistemazione. Spero che ci siano buone docce. Ne fa-
rei volentieri una.» «Le docce vanno bene», annuì Scott. «Per quanto riguarda il posto, comunque, spero che non dovremo restare qui ancora per molto.» «Porti pazienza, gliel'ho già detto.» Thorn si stiracchiò e gemette. «Sto diventando troppo vecchio per queste cose. La traversata è stata un po' movimentata. Non è il massimo per le reni.» «Avremmo mandato un'imbarcazione più grande, ma non volevamo attirare l'attenzione.» «Giustissimo.» Thorn si fermò, tirò fuori un pacchetto di sigarette e ne offrì una a Scott. «No, grazie.» La accese e tirò una lunga boccata, guardandosi intorno. «Quanti uomini ha?» «Ventotto. Abbastanza per coprire tutti i turni di guardia sulle ventiquattro ore. Acqua e cibo per diciotto giorni. È questo che ha detto, vero? Diciotto giorni, no?» «È quello che ho detto.» Fece cadere un po' di cenere incandescente sul molo. «I suoi uomini... Lei non ha detto niente, giusto?» «Sanno che si sta preparando qualcosa, ma non sanno che cosa.» «Lasciamo le cose come stanno.» «Si tratta di uomini scelti», disse Scott. «Sono stati tenuti all'oscuro sulla loro destinazione finché non sono arrivati sull'isola. Le loro famiglie non sanno dove si trovano. Soltanto a due di loro è permesso allontanarsi dall'isola. E rispondo io per entrambi.» «Sì, lo farà.» Thorn lo guardò. «Con la sua vita, se si è sbagliato.» Scott non replicò. Dopo qualche istante, riprese: «Abbiamo fatto tutto esattamente come lei ci ha detto. Li abbiamo presi da gruppi diversi sparsi per il Paese. Sono il meglio. Tutti con addestramento militare. Metà di loro ha combattuto nella guerra del Golfo, quattro a Panama. Uno è un ex SEAL. Abbiamo controllato. Nessuno è stato nella propria unità per meno di due anni. Sono tutti motivati. Combatteranno. Se necessario, daranno la vita». «Be', speriamo che non si debba arrivare a questo.» Scott immaginava che Thorn considerasse con sufficienza quegli uomini. In fondo era un soldato professionista e la sua esperienza era stata pagata, se non si sbagliava, da chi offriva di più. Un mercenario, insomma. Era stato imposto dalla controparte russa. Se Scott e il suo gruppo volevano l'ordigno, c'era una condizione: Thorn. I fornitori non potevano correre il
rischio che qualche governo straniero risalisse a loro: il costo della rappresaglia sarebbe stato troppo alto. Scott si aspettava qualcuno con un forte accento russo, ma non era il caso di Thorn: il suo inglese era perfetto, secco e preciso. Aveva una serie di nomi falsi e ci si poteva mettere in contatto con lui unicamente attraverso un fermo posta in Canada, nell'Ontario. Ma anche quello non era che un recapito di comodo. Nessuno sapeva con esattezza dove vivesse, ma evidentemente viveva bene, a giudicare da quanto si faceva pagare. «Combatteranno», ripeté Scott. «Hmm...» Thorn lo guardò. «Oh, sono sicuro che lo faranno, in caso di necessità.» Non sembrava del tutto convinto. Non era del loro coraggio che dubitava, bensì della loro esperienza, e della convinzione di Scott Taggart che il suo gruppo non fosse ancora stato infiltrato dal governo. L'FBI era insuperabile nelle operazioni sotto copertura. Si era infiltrato persino nella mafia, nonostante la sua cultura di omertà: o silenzio o morte. Un'istituzione antica quanto i Borgia, nella quale la parentela di sangue costituiva il lasciapassare per essere accettati, era stata sforacchiata come formaggio svizzero in meno di dieci anni. E ci avrebbero messo anche di meno se J. Edgar Hoover non fosse stato così amico di alcuni boss. Thorn dava per scontato che il gruppo di Taggart fosse già compromesso e avrebbe agito partendo da quel presupposto. Nessuno di loro avrebbe saputo che cosa lui stava facendo. «Non ha detto nulla ai suoi?» chiese. «Non una parola.» «Ha messo qualcosa per iscritto?» «No.» «Bene. Non è necessario che sappiano che cosa stiamo facendo. Il loro compito è mantenere la sicurezza sull'isola, punto. Il suo inviare le somme di denaro stabilite alle scadenze fissate sui conti di cui ha i numeri. Se ciò avviene, tutto andrà liscio. Il resto del piano è compito mio. Se in qualsiasi momento lei venisse arrestato, io mi riservo il diritto di considerare nullo il nostro accordo. Se il denaro non viene versato nelle date stabilite, il nostro accordo salta, le somme pagate sino a quel momento saranno trattenute e l'ordigno scompare con me. È chiaro?» «Abbiamo già discusso di tutto questo.» «Sì. Ne abbiamo già discusso.» Thorn lanciò un veloce sguardo di perlustrazione nella zona intorno al molo, per quanto glielo concedesse la debole luce del crepuscolo. «Sembra che abbiate tutto sotto controllo.»
«Ci siamo organizzati.» «Io tirerei su qualche ramo di pino come copertura. Quell'uomo, lassù, sulla punta...» Thorn fece un cenno in direzione del promontorio che si protendeva sul canale, formando un'insenatura protetta per il molo. «Il cannone che imbraccia il suo uomo laggiù si vede a un chilometro di distanza. Non c'è davvero bisogno di tanta pubblicità. Non vorrete che qualche stronzo della protezione animali chiami la Guardia costiera perché venga a dare un'occhiata. Con la storia delle aquile calve e tutto il resto...» «Darò ordine che sia fatto immediatamente.» «Bene.» Thorn sorrideva di nuovo. Circondò con un braccio le spalle di Scott. Era lui che comandava, ora, e questo era chiaro a tutti e due. Scott era l'ideologo, l'uomo che gli altri fedeli patrioti avrebbero seguito. Dopo la morte di Kirsten aveva passato tre anni sui monti dell'Idaho, vivendo da solo in una baita e prendendo contatti con quelle persone che condividevano un interesse comune: l'odio viscerale per il governo. Molti degli uomini che aveva conosciuto erano razzisti. Scott non li incoraggiava né si univa alle loro farneticazioni sull'argomento. C'erano state occasioni in cui si era vergognato di starli ad ascoltare senza intervenire, mentre incidevano quella pustola purulenta e spargevano il loro veleno. A mano a mano che i mesi diventavano anni, però, Scott si era scoperto a parlare di più e ad ascoltare di meno. Aveva assimilato in profondità la storia del suo Paese, ed era molto più colto di tutti gli altri uomini che frequentava. Girava per le campagne e parlava nei fienili e nelle rimesse a uomini in tute da lavoro sudicie e camicie di flanella coi polsi consumati. Quelli più fortunati portavano sul viso lo sporco del loro lavoro, gli altri erano perennemente alla ricerca di un posto nell'industria del legno, ora decimata dalla politica economica del governo. Ascoltavano con gli occhi spalancati mentre Scott raccontava loro di Jefferson e dei diritti dell'uomo, del privilegio dato da Dio d'inseguire i propri sogni liberi dalla tirannia di un governo dispotico. Era stato Jefferson ad ammonire che «l'albero della libertà dev'essere alimentato di quando in quando col sangue dei patrioti e dei tiranni». C'era una forza morale nei discorsi di Scott, e nel modo in cui lui li pronunciava, che cancellava ogni dubbio sulla giustezza della loro causa. Col tempo, gli uomini avevano cominciato a fidarsi di lui. Poi la fiducia si era ulteriormente trasformata: Scott era diventato un leader, non perché sapesse tenere un'arma in mano, ma perché parlava dei loro interessi e dei loro timori per il futuro. Si consideravano vittime di un'aristocrazia politi-
ca, di una classe governante che aveva dimenticato il proprio popolo. Burocrati con cariche a vita gestivano i loro organismi come signori della guerra, senza dover rendere conto a nessuno, neppure ai funzionari eletti dai cittadini. Vedevano il governo come un genitore che divora i propri figli. Il suo unico vero collegio elettorale erano i governi esteri o le multinazionali disposte a pagare per quello che veniva definito con un eufemismo «accesso politico». Si tendeva a dirottare i lavori ben pagati in Messico o in Asia, dove potevano essere retribuiti con paghe da fame mentre il presidente fingeva di occuparsi di formazione e propagandava l'economia globale. Non aveva importanza che fossero repubblicani o democratici: cantavano tutti la stessa canzone. E Scott Taggart ne conosceva bene parole e musica. I due uomini, Taggart e Thorn, erano ormai indissolubilmente legati. Thorn gettò a terra la sigaretta e la spense col piede. I due si voltarono e presero a risalire la collina in direzione della casa. Le finestre erano state oscurate con pesanti tendaggi per impedire a occhi indiscreti forniti di potenti teleobiettivi di osservarne gli occupanti o scattare fotografie. «Dov'è l'ordigno?» chiese Scott. «In un luogo sicuro.» «Credevo fossimo insieme in questa faccenda.» «Ci siamo.» «Allora perché tira su una muraglia cinese?» «Perché il nostro successo non dipende dal fatto che lei sappia dov'è l'ordigno. È sufficiente che lo sappia io. E che esso venga consegnato alla sua destinazione finale al momento stabilito. Non c'è bisogno che conosca altro.» «E l'esplosione? Come riuscirà a farla avvenire esattamente nel momento stabilito?» «È un altro di quei fastidiosi dettagli di cui lei non deve preoccuparsi.» «Io mi preoccupo sempre delle faccende in sospeso.» «Lo vedo», osservò Thorn. «Come la Belden Electronics.» «Possono frugare fin che vogliono negli affari del signor Belden, ma non troveranno niente.» «E la donna? L'avvocato?» «Non sa nulla. Ma per maggior tranquillità ci occuperemo anche di lei.» Scott lo guardò. «E cioè?» «Non ha senso correre rischi», fu la risposta di Thorn.
«È davvero necessario?» «Nel suo ufficio ci sono documenti che sarebbe meglio distruggere. Se li prendiamo, lei se ne accorgerà. Allora comincerà a pensare, a fare due più due.» Thorn si fermò, voltandosi a guardare Scott dritto in faccia. «Me lo dica lei. È necessario?» L'altro esitò un istante, poi disse: «Sì. Immagino di sì». «Non mi sembra convinto.» «Non mi piace uccidere persone innocenti. È per questo che ho scelto quel posto e quel momento.» «Una virtù che manca al suo governo», osservò Thorn. Scott lo guardò, colto da un dubbio. Non aveva mai raccontato a Thorn di Kirsten, né di come era morta. Possibile che lo sapesse? Thorn non era il tipo di persona con cui desideravi condividere i tuoi segreti più intimi, le cose che ti spingevano ad andare avanti e motivavano le tue azioni. Qualsiasi cosa abitasse lo spazio oscuro dietro quegli occhi freddi non lasciava dubbi sul fatto che avrebbe usato ogni informazione per il suo tornaconto. Si chiese se Thorn sapesse di Adam e dei genitori di Kirsten a Seattle. Per la prima volta da quando aveva imboccato quella strada tortuosa, Scott Taggart cominciò a nutrire dubbi su ciò che stava facendo. «Non si preoccupi», mormorò Thorn. «La donna non è un problema suo. Qualcuno si occuperà di lei.» «Quando?» Thorn guardò l'orologio. «Presto.» Proseguirono in silenzio verso la casa. Il fatto che un'innocente dovesse morire turbava Scott. Però non c'era altra scelta. Lui non era un soldato, però conosceva le regole del combattimento. Che il governo lo sapesse o no, adesso era in guerra. 15 Stretto di Rosario Anche se Joselyn avesse voluto collaborare con McCally e la sua indagine federale, aveva comunque un problema: era stata sincera, non sapeva niente. Frugò nella memoria alla ricerca di frammenti d'informazioni, di qualsiasi cosa che Belden le avesse detto, in ufficio o sull'aereo. Non era una sprovveduta. Nel corso degli anni, aveva incontrato troppi clienti che le avevano mentito per non sapere che, talvolta, in mezzo alle menzogne,
c'era un fondo di verità. E forse anche tra le menzogne di Belden c'era qualche notizia da cui partire. Lavorava nel campo dell'elettronica... almeno così le aveva detto. Magari Max Sperling esisteva davvero, anche se forse la storia su di lui era inventata. Avrebbe controllato il fascicolo, una volta tornata in ufficio. Magari c'era qualcosa di utile tra i suoi appunti. Quando McCally e il suo agente ebbero finito con lei era quasi sera. Si sentiva stanca e sporca. Era rimasta lì sul molo, in piedi, al freddo, per ore. Il braccio le doleva nei punti in cui l'infermiere aveva estratto le schegge di legno, medicandola poi con una grossa garza. A quell'ora non c'erano traghetti da Seattle per l'arcipelago di San Juan. L'unico collegamento regolare partiva da Anacortes, che si trovava novanta minuti di macchina più a nord. Chiamò un taxi e si fece portare al supermercato più vicino, dove acquistò un paio di scarpe di tela e calzini per sostituire i collant a brandelli e la scarpa rotta. Poi andò a un'agenzia di noleggio auto. Non c'era scelta: avrebbe pagato l'esoso supplemento per la riconsegna dell'auto sull'isola e lo avrebbe addebitato sulla parcella di Belden. Mentre guidava, si chiese che cosa fare col resto del suo anticipo. Come avrebbe fatto a restituire la parte in eccesso? Era il genere di quesito che soltanto un avvocato poteva porsi. Ma era il suo lavoro. Doveva trovare un modo per chiudere la società di Belden e togliere il proprio nome dai documenti societari. Pensò di far pubblicare un avviso per rispettare almeno le formalità di ricerca degli eredi. Se McCally aveva ragione a proposito del passato di Belden, era assai improbabile che si facesse avanti qualcuno. Presumibilmente, dopo un po', il denaro eccedente la sua parcella per il lavoro svolto sarebbe stato incamerato dallo Stato. Il fragore dell'esplosione le aveva lasciato un ronzio incessante nelle orecchie; il suo corpo, inoltre, stava cominciando a protestare per essere stato scagliato dall'onda d'urto sul duro tavolato del molo. Le facevano male i muscoli e le giunture, proprio come quella volta che era stata coinvolta in un piccolo incidente stradale. Quindici minuti dopo essere uscita dall'autostrada, imboccò la strada principale di Anacortes; giunta al semaforo, svoltò a sinistra e si diresse verso il promontorio. Cominciava ad avere sonno. Attraversò la zona residenziale della città e guidò lungo la costa rocciosa. Dall'altra parte dello stretto braccio di mare, si vedevano le luci di Guemes. Ogni tanto, attraverso un varco tra le chiome degli alberi, scorgeva il chiarore delle forti
luci del terminal traghetti riflettersi sui brandelli di nuvole basse che parevano galleggiare sopra di lei. Un traghetto col cavernoso ponte di carico aperto e illuminato a giorno, dotato di oblò e vetrate inondate di luce stava compiendo un'ampia virata per avvicinarsi al molo: pareva un albero di Natale galleggiante. Joselyn pregò che fosse il traghetto per Friday Harbor. Affrontò la discesa ripida e tortuosa che portava al terminal e vide che il parcheggio era quasi vuoto. Due camion a rimorchio e una manciata di auto aspettavano in coda. Ammesso che ci fosse stata un'ora di punta per gli imbarchi per le isole, per quel giorno era passata, e mancavano ancora mesi alla stagione turistica. Pagò il biglietto alla barriera. «A che ora è il prossimo traghetto per l'isola di San Juan?» «È quello che sta arrivando.» Un pick-up con una roulotte al traino si fermò dietro di lei e i fari del veicolo illuminarono il lunotto posteriore della sua auto. Dietro, c'era un grosso camion. La corsa dell'ultimo minuto. Gli isolani vivevano e morivano in base all'orario dei traghetti. Spesso i camion facevano le consegne di notte per evitare l'affollamento sui traghetti durante le ore diurne. La donna al casello porse a Joselyn la ricevuta e il resto e si voltò a guardare in direzione del parcheggio. «Si metta nella corsia quattro. Imbarcheranno tra un paio di minuti.» Di solito, a quell'ora, i traghetti avevano accumulato i ritardi di tutta la giornata. Joselyn sapeva che non avrebbero perso tempo al molo. Imboccò la corsia quattro e proseguì fino in cima, poi spense luci e motore e aspettò. Nella corsia accanto c'erano cinque o sei auto in tutto. Il traghetto sarebbe stato quasi vuoto. Osservò i veicoli scendere dalla nave appena arrivata, coi fari che brillavano, e passare accanto a lei, diretti verso la strada che s'inerpicava su per la collina. Il traffico con le isole era quasi tutto in un senso; per lo più ritardatari che tornavano a casa. Cinque minuti dopo vennero fatti imbarcare. Joselyn salì con la piccola vettura nel compartimento principale e andò direttamente a prua. Sentiva il vento fischiare attraverso il ponte di carico aperto. All'arrivo sull'isola sarebbe stata la prima a sbarcare. Non vedeva l'ora d'infilarsi tra le lenzuola di flanella e mettere fine a quella giornata da incubo. Il sonno si stava velocemente impadronendo di lei. I pochi passeggeri scesero dalle auto e si diressero ai ponti superiori, do-
ve si trovavano la caffetteria e il salone. Joselyn premette il tasto di bloccaggio sulla portiera ed entrambe le sicure scattarono. Poi tirò la leva di lato al sedile del guidatore e lo reclinò finché non andò a toccare contro il sedile posteriore. Chiuse gli occhi e desiderò tanto avere una coperta. Scivolò in un altro mondo, solo vagamente consapevole dei movimenti della nave. La vibrazione dei grossi motori diesel la disturbava appena, ma il dolce dondolio della nave che si allontanava dal molo fungeva da sedativo. Quando il traghetto virò ed entrò nel Guemes Channel, diretto verso lo stretto di Rosario, il vento si fece più forte e prese a fischiare dietro i finestrini chiusi, scuotendo la piccola vettura. Quattro miglia di mare aperto prima di arrivare allo stretto di Thatcher Pass. Il vento alzava la schiuma dalla cresta delle piccole onde. Di quando in quando un'onda più grossa delle altre andava a infrangersi contro la prua d'acciaio del traghetto, spruzzando goccioline d'acqua salata sul parabrezza dell'auto di Joselyn. Il rumore le fece socchiudere appena gli occhi e guardare in alto, attraverso il parabrezza di vetro atermico. Era una notte serena e luminosa, il genere di notte che accende il cielo di mille stelle scintillanti, puntini di luce contro il fondale nero dello spazio. Joselyn fluttuava nel limbo tra sonno e veglia. Guardò ancora in alto, attraverso l'apertura fra le alette del ponte passeggeri. Quella sera erano deserte. Faceva troppo freddo. I pochi passeggeri a bordo erano tutti al coperto, a scaldarsi le mani intorno a tazze di caffè bollente o sdraiati a dormire sulle panche sotto le finestre. A un certo punto dello stretto di Rosario, Joselyn scivolò in un sonno profondo, cullata dal dolce rollio della nave e dai colpi di vento che spazzavano il ponte di carico come un gigantesco spettro, facendo oscillare l'auto. La donna era come persa nel rombo dei motori e stava sognando Belden, il piccolo aereo, il lampo di luce accecante seguito un attimo dopo dalla violenta esplosione. Una luce abbagliante, rovente, che trapassava la protezione delle palpebre chiuse. Cominciò a sentire un dolore agli occhi e lentamente li aprì, rendendosi conto che non stava affatto sognando. Qualcuno a bordo del veicolo dietro di lei aveva acceso i fari: una luce accecante inondava il lunotto posteriore della sua auto con un bagliore quasi doloroso, simile a quello del sole. Il riflesso sullo specchietto retrovisore la abbagliava. Joselyn si coprì gli occhi. «E spegnili!» mormorò tra sé, mezza addormentata. Poi udì il ruggito del motore, profondo e gutturale, un grosso diesel che si metteva in moto. Forse aveva bisogno di caricare la batteria op-
pure di refrigerare il carico. Accecata dalla luce, non riusciva a vedere nulla attraverso lo specchietto retrovisore. Avrebbe atteso qualche istante e poi, se il guidatore non avesse spento i fari, sarebbe salita al ponte superiore per sfuggire alla luce e al rumore. Ma poi udì innestare una marcia e un attimo dopo il sibilo dell'aria compressa. L'autista aveva mollato i freni. Nello specchietto retrovisore, Joselyn vide con terrore che le luci dietro di lei avevano cominciato a muoversi, avvicinandosi alla sua macchina. Gli abbaglianti non colpivano più lo specchietto, però inondavano di luce il tetto della sua auto, e lei riusciva a vedere soltanto la grossa calandra e l'enorme paraurti di acciaio coi suoi rostri verticali. Il camion si appoggiò contro la vettura all'altezza del bagagliaio e immediatamente si avvertì il suono stridulo di metallo che schiaccia altro metallo. Il cofano posteriore si accartocciò come se fosse di carta. Prima che Joselyn potesse pensare, l'autista accelerò bruscamente. La macchina cominciò ad accartocciarsi come una lattina di birra schiacciata. Joselyn si lanciò sulla maniglia della portiera, ma questa non voleva saperne di aprirsi. Il telaio si era deformato. La portiera era bloccata. Si gettò verso la portiera sull'altro lato. Stessa storia. Sentì uno scricchiolio di vetri mentre il lunotto posteriore andava in frantumi, sparandole tra i capelli e sul sedile anteriore minuscole schegge di vetro temperato. La piccola vettura cominciò a muoversi inesorabilmente in avanti, coi pneumatici che scivolavano sulla superficie liscia del ponte in metallo del traghetto. La rete di sicurezza, che si apriva davanti a lei per tutta la larghezza della nave, cominciò a tendersi e poi a lacerarsi: il camion spingeva l'auto come il pistone di una pressa. Sentì che l'autista inseriva una marcia ridotta. Non si trattava di un incidente. Chiunque si trovasse a bordo del camion stava cercando di ucciderla. Disperata, Joselyn guardò verso il finestrino del guidatore, alla ricerca di aiuto, le dita premute contro il vetro. Le due alette del ponte superiore erano ormai quasi alle sue spalle, entrambe deserte. Nessuno poteva vederla. Schiacciò il pulsante dell'alzacristalli elettrico. Non funzionava. Cominciò a battere sul vetro, ma invano. Sempre più disperata, gettò le gambe sopra il volante e premette i piedi contro il parabrezza. Facendo leva con la schiena contro il sedile, spinse con tutte le forze, cercando di scalzare il vetro. Ma non ci riuscì. Era intrappolata in un sarcofago di metallo e vetro, stritolato e spinto verso una tomba d'acqua. Anche col freno a mano tirato e la marcia innestata, l'auto di Joselyn non poteva resistere alla spinta del grosso camion. La piccola Chevrolet si
mosse verso la prua aperta e le acque verdi, profonde e tumultuose sotto di lei. La donna spinse a fondo il pedale del freno, ma inutilmente. Le ruote continuarono a scivolare. Pestò sul clacson. Finalmente, qualcosa che funzionava. Se non altro, faceva rumore. Qualcuno lo avrebbe sentito. La rete di sicurezza si lacerò e il cavo d'acciaio che la irrobustiva nella parte alta salì sul cofano dell'auto, scivolò sul vetro del parabrezza e passò sopra il tetto. Ormai non c'era più nulla tra lei e le acque gelide e profonde dello stretto. Afferrò ancora una volta la maniglia della portiera e spinse con la spalla: niente. Provò ancora una volta ad azionare l'alzacristalli elettrico e poi, all'improvviso, capì. Girò la chiavetta dell'accensione, schiacciò il pulsante e il finestrino cominciò ad abbassarsi. Il vento entrò rabbioso attraverso l'apertura. Joselyn afferrò con entrambe le mani il tetto dell'auto e si girò di lato per tirarsi fuori. Le ruote anteriori superarono il bordo della rampa di prua. Il veicolo s'inclinò in avanti, puntando il muso all'ingiù: la forza di gravità stava prendendo il sopravvento. La vettura penzolava verso l'acqua tumultuosa e la schiuma bianca delle onde che ribollivano contro l'enorme prua d'acciaio del traghetto. «Fermate le macchine.» Il comandante del Tillicum mise la mano sul pulsante rosso nella console davanti a lui e premette vigorosamente. L'urlo dell'enorme sirena collocata sopra il ponte di comando lacerò l'aria fredda della notte come un coltello. L'attività in plancia divenne frenetica. Il comandante in seconda afferrò quattro leve sulla console e le alzò finché non vennero a trovarsi perfettamente verticali, in posizione neutra. Le vibrazioni dei motori cessarono, ma la nave proseguì la sua corsa, fendendo le acque, spinta dallo slancio. «Barra a dritta!» Il marinaio fece ruotare con violenza la barra del timone, però, senza la spinta dei motori che forzava l'acqua sulla superficie, la nave virò con estrema lentezza. Il comandante osservò impotente il gigantesco camion spingere la piccola vettura fuori bordo. «Macchine indietro tutta.» Con le ultime forze a sua disposizione, Joselyn si allungò, il corpo per metà fuori del finestrino. Una mano strinse un brandello della rete di sicu-
rezza in nylon. La macchina s'inclinò in avanti. Tonnellate di acqua bianca ghermirono il cofano, trascinando la piccola auto nel mare. La violenza della caduta strappò Joselyn fuori del finestrino, lasciandola penzoloni nel vuoto, i piedi che scalciavano a pochi centimetri dall'onda di prua. Senti l'urlo della sirena del traghetto. Joselyn ruotava su se stessa, appesa con una mano ai brandelli sfilacciati della rete. Provava un dolore tremendo all'articolazione della spalla. Non poteva resistere ancora per molto. Allungò l'altro braccio nel disperato tentativo di fermare la rotazione del corpo. Menando colpi alla cieca, trovò finalmente la rete con la mano, la afferrò e la strinse con tutte le forze. Guardando in basso, vide l'acqua bianca sotto la prua e sentì l'inerzia della nave mentre questa cominciava a rallentare. Le parve che ci volesse un'eternità. Riuscì a infilare un piede nella rete e rimase lì, sbattuta dal vento, con l'acqua gelida che le lambiva i piedi. In condizioni normali, avrebbe ordinato subito il macchine indietro per fermare la nave, ma non in quel momento. Il comandante del Tillicum sapeva che, se l'avesse fatto, la piccola vettura sarebbe passata sotto lo scafo, finendo così polverizzata dalle enormi eliche di bronzo. Pregò che a bordo del veicolo non ci fosse nessuno. Lo sentì rimbalzare sotto lo scafo, metallo contro metallo, mentre la nave gli passava sopra. L'aria intrappolata all'interno l'avrebbe tenuto vicino alla superficie almeno per qualche istante. Insieme col secondo corse sull'aletta e i due cominciarono a scrutare l'acqua verde scuro che scivolava accanto alla nave. Il comandante afferrò il riflettore orientabile montato sul parapetto, lo puntò verso l'acqua e lo accese. Un potente raggio di luce penetrò l'oscurità, rimbalzando sulla superficie increspata del mare. Il secondo corse dentro e afferrò il microfono del sistema di allarme. «Uomo in mare. Tutto l'equipaggio in coperta. Uomo in mare.» Sentì i potenti altoparlanti sopra di lui trasmettere la sua voce. Ripeté il messaggio due, tre volte, quindi riagganciò il microfono. Era appena tornato sull'aletta quando un uomo dell'equipaggio urlò da sotto: «Laggiù, oltre lo specchio di poppa!» Il comandante girò il riflettore, perlustrando l'acqua. Qualcuno lanciò una ciambella di salvataggio legata a una cima e il comandante la seguì col fascio di luce finché non colpì le onde, continuando poi a muovere il raggio sulla superficie scintillante del mare. «Laggiù.» Il comandante cercò di puntare la luce, ma il movimento con-
tinuo dell'imbarcazione rendeva difficile l'operazione. Quello che restava del veicolo dondolava ora a pelo d'acqua, appena riconoscibile. Il tetto contorto e sfasciato della vettura, tenuto a galla da una bolla d'aria intrappolata nell'abitacolo, danzava, sporgendo di pochi centimetri sopra la superficie del mare, mentre l'acqua lambiva i suoi contorni. Una piccola onda, portata da una folata di vento, si alzò e improvvisamente, dal finestrino aperto del guidatore, ci fu un'eruzione di bolle: un istante dopo, l'auto era sparita. Continuarono a esplorare l'acqua coi riflettori, tre potenti fotocellule azionate dall'equipaggio. Ma non si vedeva nessuno. La rete di nylon lacerata e sfilacciata penzolava dalla prua del traghetto come una ragnatela a brandelli, con Joselyn appesa. Guardò in alto, chiedendosi se la rete avrebbe finito per scivolare in mare, trascinandola con sé. La nave aveva rallentato, però si muoveva ancora abbastanza veloce da risucchiarla sotto lo scafo, caso mai fosse caduta. Erano tonnellate d'acqua e acciaio che le davano poche possibilità di essere ritrovata viva nelle acque scure. Il vento le soffiava attraverso gli abiti, facendola rabbrividire. Non si sentiva più le mani, la sua presa sulla rete stava cominciando a cedere, ma lei restava lì, aggrappata, sotto shock, come una bambola di pezza. Cercò di schiarirsi la testa, di concentrarsi. Aiutandosi con le gambe, provò a girarsi in modo da avere la faccia rivolta verso la prua e puntare i piedi sulle lamiere di acciaio dello scafo, ma era come cercare di scalare una cornice di roccia sporgente da una parete piatta. Con un gesto disperato, tentò di afferrare un altro pezzo di rete con la mano destra e ci riuscì. Era appesa come se fosse in croce, con le braccia allargate. In qualche modo riuscì a infilare anche l'altro piede in una maglia della rete. Restò lì, aggrappata, in attesa di aiuto, ma non venne nessuno. E poi si rese conto che non potevano vederla. L'attenzione dell'equipaggio e dei passeggeri era tutta concentrata a poppa per localizzare l'auto. Nessuno si curava della rete strappata. Stavano cercando i superstiti. Joselyn vedeva riflessi sul mare i fasci di luce che descrivevano ampi archi sull'acqua per poi scomparire verso poppa. Sentiva voci che gridavano. L'impeto dell'acqua contro la prua cominciò a diminuire a mano a mano che lo slancio della nave si riduceva. L'onda di prua scomparve e il ribollire di acqua bianca contro le lamiere lentamente si placò. Anche il vento contro la sua schiena si fece meno forte.
Col piede saldamente infilato nelle maglie, Joselyn fece forza su una gamba e si tirò su, una mano dopo l'altra, scalando la rete. I pochi passeggeri erano tutti fuori, sull'aletta che sovrastava il ponte di carico. Sentiva le loro voci, mentre si chiedevano l'uno con l'altro se riuscivano a vedere qualcosa. Ma nessuno guardava nella sua direzione. Quando riuscì a issarsi sul ponte vide che tutti erano affacciati al parapetto e guardavano verso la poppa del traghetto. Rimase immobile, esausta, a qualche metro dal bordo di prua, il volto girato di lato, la guancia appoggiata contro l'acciaio freddo del ponte. Le ci volle qualche istante per rendersene conto, ma poi i suoi occhi misero a fuoco l'oggetto che stava fissando. Quello che le riempiva il campo visivo era un oggetto di gomma nera, il gigantesco pneumatico anteriore del camion a rimorchio che l'aveva spinta in mare. Si trovava a meno di due metri. Joselyn si mise in ginocchio e sollevò lo sguardo verso la portiera del guidatore che incombeva, spalancata, sopra di lei. Lentamente si alzò, gli occhi fissi sulla cabina del camion due metri più su. Non c'era nessuno all'interno, né al volante né sul sedile del passeggero. Chiunque avesse cercato di ucciderla era scomparso, mescolandosi poi agli altri passeggeri. Mentre se ne stava lì a fissare la portiera aperta, Joselyn udì un rumore di passi che si avvicinavano sul ponte. Si spostò velocemente sull'altro lato del camion e si nascose tra due auto nella corsia accanto. Due uomini dell'equipaggio cominciarono a esaminare quanto restava della rete di sicurezza. Un terzo salì sul sedile del camion. «Niente chiave.» Guardò sotto il cruscotto e tirò fuori alcuni cavi staccati. L'accensione era stata manomessa. «Non toccare nulla. Chiamiamo l'autista e vediamo se può fare marcia indietro per bilanciare il carico. Qualcuno ha avvertito la Guardia costiera?» «Hanno chiamato dal ponte.» Erano ormai arrivati parecchi membri dell'equipaggio: parlavano tra loro e sembravano aver preso in mano la situazione. Nessuno parve accorgersi di Joselyn. In silenzio, lei risalì la rampa di accesso fino alla scaletta che portava al ponte passeggeri. La superficie di cemento era ghiacciata. Guardò in basso e scoprì di aver perso il secondo paio di scarpe della giornata mentre scalava la rete di sicurezza. La sua borsa e la valigetta erano rimaste in macchina, e stavano affondando con essa. Aveva gli abiti strappati dove si erano conficcate le schegge proiettate dall'esplosione. Aprì la porta in cima alla scaletta e vide l'ingresso della toilette delle si-
gnore proprio di fronte a sé, sull'altro lato del corridoio. Entrò in un cubicolo e si chiuse dentro. Chi aveva spinto in mare la sua auto, chiunque fosse, la credeva morta. Joselyn si sentiva confusa, ancora sotto shock, ma il buonsenso le diceva che, per il momento, era molto più sicuro continuare a fingere di essere morta. 16 Washington, D.C. Era mezzanotte passata. La cupola del Campidoglio era tutta illuminata. Bowlyn la vedeva dalla finestra dell'ufficio di Sy Hirshberg, nell'ala ovest della Casa Bianca. Hirshberg, il consigliere del presidente per la sicurezza nazionale, indossava uno smoking col farfallino e aveva profonde borse sotto gli occhi. Sedeva scomposto sulla sua poltrona dietro la grande scrivania in legno di ciliegio. Bowlyn lo aveva intercettato mentre stava tornando a casa da una festa al Kennedy Center, dopo uno spettacolo. Aveva creduto più opportuno avvertire il suo capo, prima di discutere con gli altri membri del gruppo di lavoro. Senza dubbio ciò che stava per dirgli gli avrebbe rovinato la giornata. «Possiamo fare una cosa veloce? Domani mattina ho un appuntamento alle sette e mezzo e un volo per New York alle dieci.» Hirshberg doveva incontrarsi con alcuni dei suoi omologhi europei all'ONU per discutere della Bosnia e del Medio Oriente. Bowlyn fece un sospiro lungo e profondo, e poi parlò. «Siamo stati informati che mercanti d'armi russi potrebbero avere spedito un ordigno nucleare a loro clienti negli Stati Uniti.» Hirshberg rimase immobile a fissare il suo assistente, come se fosse in trance. L'unica indicazione che era attento veniva dalle profonde rughe della fronte, che sembravano incise nel cemento. Bowlyn anticipò la domanda del suo capo prima che questi potesse parlare. «L'ordigno potrebbe essere già stato consegnato.» Si era conquistato l'attenzione di Hirshberg. «Pensiamo che l'ordigno sia stato trasportato via nave attraverso il Pacifico. La nave è affondata, forse a causa di una tempesta. La Guardia costiera ce l'ha confermato.»
«Se la nave è affondata, come sappiamo che l'ordigno non è andato a fondo con lei?» Bowlyn aprì la valigetta, tirò fuori una copia del rapporto del laboratorio dell'FBI, e lo porse al suo capo. Hirshberg lo aprì e lo lesse. Gli ci vollero parecchi minuti per assorbire i punti salienti del rapporto. Tra questi, due erano d'importanza critica. In primo luogo, le logore funi che tenevano legato il carico all'involucro galleggiante erano state tagliate di netto, forse con un coltello, secondo il rapporto del laboratorio. Ciò indicava che qualcuno aveva liberato il carico dall'attrezzatura di galleggiamento, probabilmente dopo averlo issato a bordo di un'imbarcazione, e poi aveva gettato in mare involucro e boe. La seconda conclusione del rapporto era di gran lunga la più preoccupante. «Rinfrescami le mie nozioni di fisica. È passato tanto tempo...» mormorò Hirshberg. «Un rad, se non ricordo male, è l'unità base di radiazioni assorbita dal corpo umano.» «Giusto.» «E la superficie esterna di questo involucro aveva un livello di contaminazione radioattiva sufficiente a causare il cancro a mille persone?» «Secondo gli esperti, sì», rispose Bowlyn. «Non appena se ne sono accorti hanno mandato tutti gli oggetti recuperati dall'Isvania a Oak Ridge per l'analisi finale e la distruzione. Si è reso necessario decontaminare il laboratorio di Quantico. L'ordigno in questione, secondo gli esperti, contiene plutonio; il materiale fissile, essendo rimasto esposto all'aria per un certo tempo, ha cominciato a ossidarsi. Ma i fisici ci dicono che il plutonio da solo non è in grado di emettere simili livelli di radiazioni gamma. Ci dev'essere qualcos'altro... però non sappiamo che cosa. La Guardia costiera ha cercato di decontaminare l'elicottero che ha recuperato la roba, però, quando hanno visto che non ci riuscivano, lo hanno gettato in mare, dandolo in pasto ai pesci. L'equipaggio e chiunque altro sia venuto in contatto con questi oggetti è stato messo in quarantena. Sono tutti sotto osservazione.» Hirshberg tornò al rapporto. Gli esperti sospettavano che il trafugatore dell'ordigno dal deposito russo avesse poi provveduto a smantellare l'ordigno stesso prima di spedirlo - esponendo così il nucleo di plutonio all'aria e forse ad avvolgerlo nell'involucro galleggiante prima d'imballarlo per la spedizione. Sull'involucro erano stati registrati livelli altissimi di radioattività.
«Hanno qualche idea delle dimensioni della bomba?» chiese Hirshberg, posando il rapporto sulla scrivania. «Qualche indicazione sulla sua potenza?» «No. Sanno soltanto che c'è pericolo di contaminazione. Chiunque l'abbia spedita evidentemente non sapeva ciò che stava facendo.» «Speriamo che siano altrettanto sprovveduti per quanto riguarda il farla esplodere», osservò Hirshberg. «Che dicono i russi?» «Dan Murphy, del dipartimento di Stato, ha dato ordine ad alcuni dei suoi di controllare col ministero della Difesa russo. Quel poco che sappiamo, tuttavia, proviene da intercettazioni, alcune effettuate su linee telefoniche civili. Non possiamo dire ai russi che abbiamo intercettato le conversazioni sul loro sistema di telecomunicazioni interno. Ignoriamo che cosa siano disposti a dirci in forma ufficiale, ma speriamo che collaborino. La CIA ha inviato un agente nell'arsenale in Siberia per vedere se riesce a scoprire qualcosa. Stiamo cercando di decifrare alcuni messaggi intercettati, ma finora senza risultato.» «Allora, che cosa posso dire al presidente?» chiese Hirshberg. «È questo il guaio.» «Cioè?» Bowlyn sospirò. «Abbiamo motivo di credere che l'ordigno in questione sia stato fornito da un gruppo della mafija che opera a Ekaterinburg, in Siberia. È stato trafugato da un arsenale militare di quella zona. Sono stati emessi documenti per una spedizione di parti meccaniche a nome di una società russa. Questa società è di proprietà di Viktor Kolikov.» Hirshberg rivolse il viso al soffitto e rimase immobile a lungo. Poi esplose: «Brutto figlio di puttana! Lo sapevo». Scosse la testa, si alzò di scatto e andò verso la grande finestra dalla quale si godeva un'ampia vista sul Campidoglio. «Lo avevamo avvertito. Gliel'abbiamo detto di non immischiarsi con quel tizio. E lui che fa? Lo invita nello Studio Ovale e si fa fotografare mentre gli stringe la mano. Lo invita a cena, siede accanto a lui ai ricevimenti. Manca soltanto che gli dia la chiave del portone della Casa Bianca.» «Ma i soldi li ha restituiti», osservò Bowlyn, cercando di vedere il lato buono della vicenda. «Già, dopo che il Post lo ha sputtanato in prima pagina.» Il problema era che il presidente aveva preso 240.000 dollari per le ultime elezioni, denaro riciclato attraverso finanziatori prestanome, ma che era stato fatto risalire a Kolikov. Quando i pezzi grossi del partito erano stati
scoperti, avevano restituito i fondi. Kolikov era uno straniero: accettare consapevolmente contributi elettorali da lui costituiva un reato. Comunque nessuno era riuscito a dimostrare che il presidente o i suoi uomini fossero a conoscenza del fatto che il denaro veniva da Kolikov. «Nessuno lo incriminerà», disse Bowlyn. «Di certo non quello zoticone del procuratore generale», osservò Hirshberg. «E poi il presidente ha convinto l'opinione pubblica del principio che, se non è reato, va bene così, e se anche lo fosse potrebbe andar bene lo stesso.» Lanciò un'occhiata all'altro. «Ma non capisci? Gli elettori hanno dato al presidente assoluta via libera sulle questioni di etica, politica e no. E ora, come ricompensa per il favore, potrebbero ritrovarsi con un braciere nucleare sotto il letto.» Bowlyn si guardò intorno, nervoso, chiedendosi se la stanza fosse controllata da microfoni e telecamere nascosti. Sapeva che la sala operativa della Casa Bianca lo era. Hirshberg era un uomo di forte temperamento: quando perdeva le staffe la prudenza andava a farsi friggere. «L'opinione pubblica si è fatta comprare. Ecco la verità», proseguì Hirshberg. «Questo Paese ha davanti a sé un futuro d'inferno.» «Non è colpa del presidente, ma dei suoi consiglieri politici», obiettò Bowlyn. Hirshberg inarcò le sopracciglia. «Se vuoi il mio posto devi parlare un po' più forte nel portapenne sulla mia scrivania», disse. Bowlyn arrossì violentemente. «Deve ammettere che Williams è una serpe. Farsi beccare con una puttana mentre sta parlando al telefono col presidente e avere la faccia tosta di continuare a offrire i propri servigi come se fossero indispensabili...» «E va bene, Williams e gli altri sono serpenti.» Hirshberg prese un bicchiere d'acqua posato sulla scrivania e bevve un sorso, sollevandolo come se volesse brindare. «Ma rispondimi: chi è che suona il flauto per farli danzare?» Lo guardò attraverso il bicchiere d'acqua. Bowlyn non aveva una risposta. «Era stato messo in guardia sia dalla CIA sia dal dipartimento di Stato. Tutti e due, prima che s'incontrasse con Kolikov, gli avevano detto che quell'uomo aveva legami col crimine organizzato in Russia e col traffico d'armi. Li ha ascoltati? No.» Kolikov aveva ottenuto più della solita foto con stretta di mano e sorriso, coi cerimonieri presidenziali che gli dicevano dove mettersi, neanche fosse una sagoma di cartone. Aveva passato giornate intere alla Casa Bianca,
riempiendo l'agenda del presidente con numeri di telefono e indirizzi di finanziatori forti e volenterosi. Il dipartimento di Stato e persino la CIA si erano trovati in difficoltà, ma il presidente non aveva fatto una piega. Lui mirava soltanto ai soldi per la campagna elettorale ed era disposto a fare qualsiasi cosa per averli. «Ora, se c'è un ordigno di distruzione di massa sul territorio americano e Kolikov è coinvolto, ti garantisco che il nostro comandante supremo non vorrà sentirne neppure parlare.» «Dovrà pur fare qualcosa», borbottò Bowlyn. «Ti ricordo che questa è l'amministrazione che ha guidato la campagna contro il possesso di armi da parte di privati cittadini, e che ha reso la National Rifle Association una parola immonda. O te lo sei già dimenticato? Il nostro presidente è per i bambini, l'educazione e l'ambiente, i bambini e il servizio sociale, i bambini e l'assistenza sanitaria, e ancora i bambini... Come può un uomo con questo mantra politico dire ai suoi cittadini che domani potrebbero svegliarsi e scoprire che una delle loro città non c'è più, e che i loro bambini moriranno per avvelenamento da radiazioni, sempre che non siano rimasti inceneriti nei loro letti? E che lui ha preso soldi e stretto la mano dell'uomo che gli ha recapitato l'ordigno direttamente a domicilio?» 17 Friday Harbor Un traghetto su cui è avvenuto un incidente è come un piccolo Paese. La voce si sparse velocemente tra i passeggeri. Non si riusciva a trovare la persona cui apparteneva la macchina affondata. Erano quasi tutti convinti che potesse esserci una vittima. Joselyn avrebbe voluto dire la verità al comandante, ma non aveva idea di chi avesse cercato di ucciderla. Chiunque fosse, comunque, si trovava ancora a bordo. Avrebbe affidato la propria vita nelle mani di un equipaggio disarmato, forse mettendo in pericolo pure loro. Per il momento le sembrava molto più sicuro «fare il morto». Pareva che l'autista del camion che aveva spinto la sua auto fuori bordo si stesse bevendo una tazza di caffè nella caffetteria quando qualcuno aveva preso a prestito il suo veicolo. C'erano cinque testimoni che affermavano di averlo visto.
L'equipaggio perlustrò le acque coi riflettori per una ventina di minuti, finché non arrivò un'imbarcazione della Guardia costiera a dare il cambio. Due ufficiali salirono a bordo del traghetto per interrogare equipaggio e passeggeri. Il Tillicum riprese lentamente velocità e si diresse verso Friday Harbor. Ci vollero quasi quaranta minuti. Chiusa nella toilette, Joselyn attese finché non sentì il traghetto che attraccava. I passeggeri senza auto erano sempre i primi a scendere, mentre l'equipaggio si preparava a far sbarcare le macchine. Quando usci dalla toilette, vide che il ponte passeggeri era deserto. Scese velocemente la scaletta che portava al ponte di carico e, avviandosi verso terra, scorse gli uomini dell'equipaggio impegnati a rimuovere i cunei da sotto i pneumatici delle auto. Trattenne il respiro, aspettando che qualcuno la chiamasse o cercasse di fermarla. Ma nessuno si accorse di lei. Con un sospiro di sollievo, s'incamminò lungo il molo in direzione di Front Street. Sperava che la Guardia costiera non perdesse troppo tempo a cercare un corpo nelle acque gelide, ma quella sera non aveva davvero intenzione di venir bloccata dalle autorità. Si sentiva esausta, fisicamente e mentalmente. La mattina seguente avrebbe fatto un salto nell'ufficio dello sceriffo per raccontare ciò che era accaduto. Ci sarebbe stato tutto il tempo per avviare un'indagine. Arrivò velocemente in fondo al molo e svoltò a destra, verso l'attracco di Spring Street. I veicoli che scendevano dal traghetto dovevano fare una brusca svolta a destra lungo Front Street e proseguire per un isolato prima di girare a sinistra in Spring Street e attraversare la città. La strada che correva lungo il porto era a senso unico. Le auto dovevano passare sotto le forti luci dei lampioni prima di dirigersi su per la collina; lei avrebbe avuto modo di dare un'occhiata a guidatori e passeggeri. Si rammaricò di non avere con sé una matita e qualcosa su cui scrivere. Al momento, l'unica cosa in suo possesso erano gli abiti che indossava. Infilò una mano in tasca, alla ricerca di qualche spicciolo per fare una telefonata. Niente. Avrebbe dovuto scroccarla a qualcuno, magari in uno dei ristoranti lungo la strada. Avrebbe chiamato Samantha perché venisse a prenderla. Guardò l'orologio: le nove e mezzo. Probabilmente Sam era ancora in ufficio. Spesso lavorava fino a tardi. Joselyn si nascose nell'ombra, sotto un albero, e si mise a sedere sull'angolo di una panchina davanti agli uffici della Western Princess Cruises.
Tutto, in città, era chiuso, tranne qualche locale. Udì una musica smorzata proveniente da una bettola in fondo alla strada. Lentamente i veicoli cominciarono a emergere dal traghetto, passando attraverso il posto di blocco istituito dalla Guardia costiera. Questo rendeva più facile per Joselyn osservare le macchine e i loro occupanti. Non sapeva esattamente che cosa cercare, forse qualcosa fuori del comune, qualcuno che potesse distinguersi per un particolare, o che non fosse del posto, anche se era difficile dirlo. Aveva un unico vantaggio: non c'erano molte auto sul traghetto. Chiunque avesse cercato di ucciderla doveva essere ancora a bordo. Di questo era certa. I primi due veicoli portavano la targa dello Stato di Washington. Uno era occupato da una famiglia con bambini piccoli, l'altro era un pick-up col nome e il numero di telefono di un'azienda locale - un'impresa edile - scritti sulla portiera. Li escluse entrambi. Il terzo veicolo invece attirò la sua attenzione. Si trattava di una berlina bianca, un modello recente, con due uomini a bordo. Entrambi indossavano giacca e cravatta e quello seduto accanto al guidatore stava parlando a un telefono cellulare. Nel momento in cui svoltarono in Spring Street, Joselyn vide che l'auto aveva una targa governativa. Guardò attentamente il veicolo finché questo non scomparve lungo la strada e poi accantonò il pensiero. Se McCally l'avesse fatta seguire, l'FBI non avrebbe utilizzato un'auto con targa governativa. Oppure sì? Probabilmente quei due erano ispettori agricoli venuti sull'isola per passare al setaccio qualche azienda. La sua attenzione venne attratta dalla macchina seguente, anch'essa una berlina, ma un modello più vecchio, con un sacco di ammaccature e chiazze di ruggine. L'auto aveva visto tempi migliori. Sotto la luce accecante dei lampioni, Joselyn strizzò gli occhi per vedere meglio la persona al volante. Era una donna anziana, con una gran massa di capelli grigi trattenuti da una bandana. Passò all'auto seguente e scorse alcuni bambini sul sedile posteriore. In tutto contò diciotto auto e il camion. Vide l'autista e lo guardò bene. Forse mentiva quando affermava di essere rimasto nella caffetteria. Però, se quello che aveva sentito a bordo del traghetto era vero, c'erano testimoni che lo avevano visto. Il suo pensiero tornò all'auto con la targa governativa. Se McCally l'aveva fatta pedinare, perché gli agenti non l'avevano aiutata? Avrebbero dovuto tenerla sotto sorveglianza... Forse però si erano detti che su un traghetto
non si poteva andare da nessuna parte e quindi erano saliti a prendersi un caffè come tutti gli altri passeggeri. Tante domande e nessuna risposta. Si avviò verso il suo ufficio, vicino al tribunale: pochi isolati da percorrere dal molo di attracco del traghetto. Sentì la musica di una chitarra provenire dalla Herb's Tavern in Spring Street, e qualche brandello di conversazione a voce alta tra i clienti all'interno. Mentre camminava, nella sua mente si affollarono almeno dieci pensieri diversi, tutti scollegati tra loro. Belden era morto. I pochi appunti e documenti che lei possedeva riguardo alla sua comparizione davanti al gran giurì ora si trovavano in fondo al mare. Probabilmente lì non c'era nulla di utile, ma in quel momento lei avrebbe ucciso per poter dar loro un'ultima occhiata. Doveva richiedere un duplicato della patente, chiamare le compagnie delle carte di credito e farsene mandare delle nuove. Che altro c'era nel portafogli? La tessera dell'ordine degli avvocati. Prese un appunto mentale di chiamare anche loro. Sperava che Sam fosse ancora in ufficio. Se non altro poteva farsi accompagnare a casa in macchina. Svoltò in First Street, passò davanti a Christy's e al Clay Café, poi girò a sinistra in Court Street e attraversò velocemente la strada, passando davanti al tribunale. Girato l'angolo vide le luci accese al primo piano sotto il corridoio esterno coperto davanti all'ufficio di Sam. Era stata fortunata. Accelerò il passo e guardò le luci. Era arrivata in mezzo alla strada, proprio davanti all'ingresso, quando si rese conto che le luci accese non erano quelle dell'ufficio di Sam, ma del suo. Era sicurissima di averle spente. Forse il custode stava facendo le pulizie. Dati gli avvenimenti della giornata, però, non aveva intenzione di correre rischi. Passò davanti all'edificio, fece il giro sul retro ed entrò nel piccolo garage al pianterreno. Deserto. La macchina di Sam non c'era. Lentamente e senza fare rumore, imboccò il corridoio che portava al ballatoio e alle scale di legno e cominciò a salire le due mezze rampe che portavano al corridoio esterno, davanti alle porte degli uffici del primo piano. Al pianterreno, sul davanti della palazzina, c'era un istituto di bellezza. Joselyn vedeva sull'erba e sui pochi cespugli vicino al marciapiede il riflesso di una réclame luminosa che lampeggiava, intermittente. Si fermò sull'ultimo gradino, si appiattì con la schiena contro la parete intonacata a stucco, fece un bel respiro profondo, e mise la testa dietro
l'angolo, dando una sbirciatina lungo il corridoio. Le luci a soffitto erano spente. Di solito restavano accese tutta la notte. Allora si rese conto che era il corridoio esterno buio a rendere così visibili dalla strada le luci all'interno del suo ufficio. Perché mai qualcuno si sarebbe preso il disturbo di spegnere le luci esterne per introdursi illegalmente nel suo ufficio e poi accendere quelle all'interno? Doveva per forza trattarsi del custode. Ebbe un attimo di esitazione. Pensò di correre all'ufficio dello sceriffo vicino al tribunale. Ci doveva essere qualcuno di guardia. Avrebbe potuto aspettare lì finché un agente non fosse andato a controllare l'ufficio. E se si fosse trattato del custode? Avrebbe fatto la figura della scema. Peggio: sarebbe stata costretta a riferire ciò che era successo sul traghetto, altrimenti si sarebbe trovata nei guai a raccontare la verità soltanto la mattina seguente. L'avrebbero riportata al molo a parlare con la Guardia costiera e lì le avrebbero rivolto altre mille domande. Avrebbe passato la nottata sotto interrogatorio. L'ufficio del procuratore lo sarebbe venuto a sapere e McCally l'avrebbe incastrata, questa volta con la certezza che lei stava mentendo. Fu quell'ultimo pensiero a indurla a salire l'ultimo gradino, girare l'angolo e avanzare lungo il corridoio. Si tenne a ridosso della parete: se ci fosse stato qualcuno all'interno, lei lo avrebbe visto per prima. Passò davanti a due porte chiuse, arrivò a quella dell'ufficio di Sam e provò ad aprirla. Era chiusa a chiave. Non era affatto probabile che lei fosse lì dentro con le luci spente, ma Joss ci aveva sperato. Si fermò e rimase in ascolto. Non riusciva a sentire nulla, ma la porta del suo ufficio era parzialmente aperta e la luce filtrava sul corridoio esterno. Fece un altro passo e sentì qualcosa sotto il piede nudo. Allora guardò in basso e capì che si trattava di vetri rotti. Le luci del soffitto non erano state spente, ma fracassate. Un attimo dopo, alzò gli occhi e vide lo stipite della porta: il legno era scheggiato e si vedevano i segni lasciati da un piede di porco sulla vernice nel punto in cui era stato inserito. Joselyn cominciò ad allontanarsi dalla porta socchiusa e dalla luce. Arretrò di tre o quattro passi, ma improvvisamente sentì uno scricchiolio di vetri rotti e subito dopo un dolore lancinante al tallone del piede destro. Fece un saltello, cercando di riacquistare l'equilibrio, e alla fine si appoggiò contro il muro. Una scheggia sottilissima di vetro proveniente da una delle lampadine rotte era penetrata attraverso il calzino, conficcandosi nel tallone. La raspò delicatamente con un'unghia, cercando di estrarla, e sentì un rivoletto caldo di sangue scorrerle sulle dita.
La sagoma di una persona che si muoveva velocemente ruppe la lama di luce dietro di lei. Joss cercò di mettersi a correre, però, non appena posò il piede a terra, la scheggia di vetro entrò in profondità e il ginocchio le cedette per il dolore. Crollò sul pavimento di legno, si voltò e scorse la silhouette di un uomo illuminato da dietro nella cornice della porta aperta che incombeva su di lei. «Non mi tocchi o mi metto a urlare.» «Non abbia paura, la prego. Non ho intenzione di farle del male.» «Stia lontano da me.» «Si sente bene?» «Benissimo.» «Lasci che l'aiuti.» «Mi lasci stare.» Lui ignorò le sue parole e si mosse verso di lei ma, invece di afferrarla, si chinò e le prese delicatamente il piede tra le mani. «Sembra una cosa seria. Sta sanguinando. Ecco, lasci che l'aiuti.» Il tono gentile di quelle parole calmò un poco Joselyn, anche se era ancora molto scossa. L'uomo era altissimo, almeno un metro e novantacinque, forse di più. Con un unico, fluido movimento infilò le braccia sotto di lei, prendendola dietro la schiena e sotto la piega delle ginocchia, e la sollevò come se non pesasse nulla. Poi, dopo essersi girato verso la porta, la spalancò con un calcio ed entrò nell'ufficio. Depose delicatamente Joselyn sul divano appoggiato contro la parete nella sala d'aspetto, quindi andò verso la porta e fece per chiuderla. «La lasci aperta», disse lei. Lui girò appena la testa per guardarla. «Pensavo che avesse freddo. Se vuole, la lascio aperta.» In tre passi attraversò la stanza e arrivò al divano su cui lei era sdraiata. «Non mi piace», disse, guardando il piede. Era straniero, si capiva dall'accento. Lei non avrebbe saputo dire di quale nazionalità fosse. Il sangue le inzuppava il calzino che stava diventando rosso brillante. «Dovrò toglierglielo per rimuovere la scheggia.» Mentre lo sfilava, la punta della scheggia rimase impigliata nel tessuto e Joselyn trasalì per il dolore. «Scusi. Se resta ferma, credo che potrei riuscire a togliergliela.» Mentre l'uomo le esaminava il piede, Joselyn poté osservarlo bene: aveva la carnagione chiara, i capelli biondi e ondulati, le spalle larghe. I lineamenti del volto sembravano scolpiti nella pietra: naso affilato, zigomi alti, una bocca determinata.
L'uomo infilò una mano in tasca e tirò fuori un coltello a serramanico lungo una decina di centimetri. Lei spalancò gli occhi, ma, prima che potesse dire qualcosa, l'uomo estrasse un paio di minuscole pinzette dall'impugnatura e le posò sul tavolino accanto al divano. «Un piccolo oggetto davvero molto utile», disse lui, guardandola. Joselyn gli rivolse un sorriso nervoso e annuì. «Pensi a qualcosa di piacevole e non guardi il piede.» Non sarebbe stato facile. Appoggiò la schiena al divano e guardò in alto, verso il soffitto. Sentì le pinzette al lavoro, ma le grandi mani dell'uomo erano sorprendentemente delicate. E poi avvertì un dolore acuto. La sua gamba si ritrasse senza che lei potesse controllarla. «Piano. Ho tolto quasi tutto. Mi faccia vedere.» Lei lo guardò mentre studiava attentamente la pianta del piede. «Si è ferita al ginocchio quand'è caduta?» «Come?» Joselyn abbassò lo sguardo. C'era del sangue che le correva dal ginocchio lungo la gamba. Le scariche di adrenalina prodotte dagli avvenimenti di quella sera avevano fatto sì che lei non se ne accorgesse fino a quel momento. «Un infortunio precedente», gli disse. Si era ferita al ginocchio cercando si risalire sul ponte del traghetto. «Lei conduce una vita pericolosa», osservò l'uomo. «Non sa quanto», ribatté lei. Stava cominciando a rilassarsi. Se lui avesse voluto ucciderla, a quell'ora lo avrebbe già fatto. «Che ci fa qui, nel mio ufficio?» «Questo è il suo ufficio?» «Già.» «Dunque lei è Joselyn Cole?» «E lei chi è?» L'uomo non le rispose. Orientò meglio la luce della lampada posata sul tavolino in fondo al divano. «Una cosa alla volta», disse. «Sarà meglio che mi concentri, altrimenti le schegge di vetro nel suo piede potrebbero richiedere una visita all'ospedale.» Ne estrasse ancora qualcuna con le pinzette, mentre lei trasaliva per il dolore, dimenticando, almeno per il momento, gli interrogativi sull'identità dell'uomo. «Ecco. Credo di averle tolte tutte. Quelle che si vedono, almeno. Tra un giorno o due capirà se me n'è sfuggita qualcuna. Comincerà a fare infezio-
ne. Molto doloroso», concluse lui. «Incoraggiante.» «Non sono io che vado in giro a correre sul vetro con solo i calzini addosso.» «Torniamo indietro», esclamò Joselyn. «Chi è lei, e che cosa ci fa nel mio ufficio?» «Ah, sì.» L'uomo infilò una mano nella tasca interna della giacca ed estrasse un biglietto da visita. «Mi chiamo Gideon van Ry.» Joselyn prese il biglietto. «Che cos'è lo IAMAD?» «Lo si potrebbe definire una centrale logistica che si occupa di relazioni internazionali. In particolare, l'Istituto tiene sotto sorveglianza i materiali fissili, i sistemi missilistici e le armi di distruzione di massa. Pubblichiamo rapporti e abbiamo una banca dati.» Lei lo guardò, ascoltando e annuendo come se fosse in trance. «Perché si è introdotto nel mio ufficio?» chiese poi. «Oh, no.» Alzò lo sguardo e vide che lei stava fissando la porta con lo stipite danneggiato. «Io l'ho trovato così.» Alzò una mano come se volesse fare un giuramento. «Io stavo cercando lei. Ho trovato il suo ufficio e la porta come la vede.» «Ed è entrato.» «Era aperto. Pensavo che potesse esserci qualcuno dentro.» «E c'era?» «No. Se n'erano già andati.» «Costerà un bel po' di soldi farla riparare.» Joselyn stava guardando la porta. «Sfortunatamente, quali che fossero, non si sono fermati lì.» «Che vuol dire?» «L'ufficio», spiegò Gideon. Joselyn cercò di alzarsi. «Calma.» Lui la costrinse delicatamente a sdraiarsi e tamponò ancora una volta il sangue dalla pianta del piede col suo fazzoletto, quindi glielo legò intorno alla ferita. Lei gettò le gambe giù dal divano e si alzò. Fece un passo e cominciò a zoppicare, come se stesse per cadere. Lui la afferrò per un braccio e l'aiutò a ritrovare l'equilibrio, sorreggendola mentre saltellava su un unico piede, diretta verso l'ufficio. Quando arrivò sulla soglia, si fermò a guardare. La scrivania era capovolta. I due schedari erano stati rovesciati, i cassetti completamente estratti
e il contenuto sparpagliato per terra. Il vetro delle cornici in cui erano inquadrati diplomi e attestati era in frantumi, anche se due restavano appese alla parete con le schegge di vetro ancora attaccate. Chiunque avesse messo sottosopra il suo ufficio aveva fatto un lavoro di classe. La luce proveniente dalla sala d'attesa attraverso la porta aperta offriva una visione chiara anche dalla strada, dietro il finestrino alzato. Con un fucile avrebbe potuto farli fuori entrambi. Ma Thorn aveva insistito: doveva sembrare un incidente. La macchina era un ammasso di ruggine, il motore andava al minimo. L'uomo al volante alzò una mano e afferrò la bandana. La parrucca grigia da donna venne via insieme con essa. I suoi occhi non si staccarono un attimo dalle due figure al centro della porta dell'ufficio al primo piano. Doveva ammettere che da dietro aveva un bel corpo. E aveva pure sette vite. Era sicuro di averla fatta fuori sul traghetto. Si chiese chi fosse il gigante biondo con lei. Tremava al pensiero di ciò che lo aspettava: dire a Thorn che la donna era ancora viva. 18 Washington, D.C. Hirshberg fece rapporto al presidente per iscritto, con un promemoria contenuto in una busta su cui era scritto: RISERVATO - PER IL PRESIDENTE. Il testo era conciso, discreto e circostanziato. Riportava semplicemente i fatti confermati sino a quel momento: una nave russa, che probabilmente stava trasportando materiale fissile, forse un ordigno nucleare, era affondata al largo della costa dello Stato di Washington; l'ordigno o il materiale erano scomparsi. Ridusse l'informazione sul coinvolgimento di Kolikov a un'unica riga in fondo al promemoria. La busta venne poi sigillata e consegnata a mano al presidente da uno degli assistenti di Hirshberg. Tre minuti dopo aver aperto la busta e letto il contenuto, il presidente era al telefono col suo consigliere per la sicurezza nazionale. «Sy, chi altri ne è al corrente?» «Si riferisce alla nave russa, signor presidente?» «E al coinvolgimento di Kolikov.» Il presidente andò dritto al punto. «La CIA, l'FBI e i servizi militari sanno della nave, e che trasportava materiale fissile.»
«E di Kolikov?» «Solo il vicedirettore della CIA e io.» Hirshberg udì un sospiro di sollievo dall'altra parte della linea. «Chi è?» «Malcolm Sloan.» «Ah, sì. Sloan. È un bravo cristo.» Leggi: Sloan era ambizioso e la Casa Bianca poteva arrivare a lui per dare la giusta piega agli eventi, se fosse stato necessario. «Venga nel mio ufficio tra dieci minuti per discutere della faccenda.» «Vuole che chiami anche Sloan o il direttore Gentry?» Kurt Gentry era il direttore della CIA, il capo di Sloan. «No. Non credo ci sia bisogno che Gentry sappia altro, a questo punto. Sa della nave russa, ne sono certo. Chiamerò io stesso Sloan», disse il presidente. Il suo scopo era restringere la cerchia delle persone informate. In politica l'informazione era potere, e le voci compromettenti sul presidente ne erano la forma più elevata. «Non parli con nessuno di questo. Ha capito?» «Sì, signore.» Quaranta minuti più tardi, Hirshberg e Sloan ricevettero la prima ricompensa per il silenzio e la discrezione da loro dimostrati. Furono incaricati di dirigere la speciale squadra creata dal presidente per indagare sulla nave Isvania, sul suo carico e sul fatto che l'incidente costituisse una minaccia immediata alla sicurezza nazionale oppure no. Tutti i componenti del gruppo di lavoro di Hirshberg rientravano nella squadra speciale, ma i responsabili delle agenzie che loro rappresentavano erano stati tagliati fuori della questione. Hirshberg e Sloan dovevano rispondere direttamente al presidente. Se i loro capi, i direttori della CIA, dell'FBI o lo stato maggiore dell'esercito avessero interferito, Hirshberg e Sloan dovevano informarne subito il presidente. Ai due vennero consegnati speciali lasciapassare, emessi dal presidente in persona, coi quali lui li autorizzava a interrompere le sue attività in qualsiasi momento, qualora se ne fosse presentato il bisogno. Era un privilegio che avrebbe certamente causato rancori all'interno della gerarchia della Casa Bianca. Il capo di gabinetto del presidente, il sommo sacerdote, difendeva gelosamente le proprie prerogative, prima fra tutte quella di concedere l'accesso allo Studio Ovale. Adesso, invece, avrebbe dovuto accontentarsi di guardare la firma del presidente su quei lasciapassare e chie-
dersi che cosa sapessero di così importante Hirshberg e Sloan che lui ignorava. Per identificare il gruppo, presero a prestito un acronimo dall'FBI: ANSIR, che stava per Awareness of National Security Issues and Response, letteralmente: «Consapevolezza delle istanze di sicurezza nazionale e risposta». L'ANSIR tenne la sua prima riunione meno di due ore dopo che Hirshberg e Sloan erano usciti dallo Studio Ovale. Ognuno dei membri venne temporaneamente assegnato alla squadra a tempo pieno. Qualsiasi quesito a proposito di quell'incarico doveva essere rivolto direttamente alla Casa Bianca: altro carburante che andava ad alimentare l'invidia politica. «Avremo qualche problema strutturale e di supporto», annunciò Hirshberg al gruppo. «Nessuno dei segretari di gabinetto è stato informato di tutto questo.» I presenti si guardarono. Alla fine uno di loro si decise a parlare: «Perché no?» «Questi sono gli ordini», rispose Hirshberg. «Non ha senso causare il panico.» Sloan, che veniva dalla CIA, la presentò meglio. «Più persone ne sono a conoscenza, più possibilità ci sono che arrivi alle orecchie della stampa. Se sui media dovesse uscir fuori che sospettiamo che un ordigno nucleare sia finito nelle mani di terroristi, in questo Paese, scoppierebbe il finimondo. Non c'è bisogno che lo sappiano, per il momento.» Una volta che i funzionari di gabinetto fossero stati coinvolti, la burocrazia avrebbe preso il sopravvento. La notizia sarebbe filtrata attraverso i vari organismi e, in breve, i burocrati di medio livello avrebbero discusso durante la pausa del caffè di come il presidente si fosse compromesso con Kolikov. Da lì, sarebbe bastato un sussurro perché la cosa giungesse alle orecchie del New York Times e del Washington Post. Per questo i limiti imposti al gruppo ANSIR erano severissimi. Hirshberg sedeva a capotavola. Al suo fianco c'era Sloan, che vedeva l'intera vicenda come un ascensore diretto per l'ultimo piano del potere. La stanza stessa in cui si trovavano era una conferma di quel presentimento: la sala operativa della Casa Bianca, con la sua contiguità alle stanze presidenziali. «Queste sono le regole», disse Hirshberg e lesse alcuni appunti presi frettolosamente durante il suo incontro col presidente. «Qualsiasi discussione sull'ordigno, sul suo presunto ingresso illegale nel Paese e sui passi
necessari a localizzarlo o a recuperarlo e disarmarlo nel caso si trovasse effettivamente nel Paese deve restare confinata all'interno di questo gruppo, salvo contrordini.» Guardò le persone sedute intorno al tavolo per accertarsi che questo punto fosse chiaro e proseguì: «Attività di supporto alle indagini potranno venire solo dai servizi militari...» «Mi scusi.» Era il rappresentante dell'FBI che lo aveva interrotto. «L'FBI è il principale responsabile per il terrorismo interno. Io non posso agire all'insaputa del mio direttore. Dovrei chiedere l'autorizzazione. Discuterne con lui.» «Me ne occuperò io», disse Hirshberg. «Parlerò col presidente. Ma per il momento lei non deve dire nulla. Intesi?» «Sì.» «Per ora, il presidente, in quanto comandante supremo delle forze armate, desidera affrontare la questione attraverso la catena militare di comando. Quindi dobbiamo appoggiarci principalmente ai servizi della marina.» Il capitano di vascello seduto in fondo al tavolo si lasciò sfuggire un sorriso, subito represso. In realtà la questione si riduceva al fatto che tutti coloro che erano a conoscenza della nave russa, e di Kolikov, erano stati cooptati dal presidente. Il funzionario dell'FBI mosse un'altra obiezione. «Il problema è che noi abbiamo piani d'emergenza per queste situazioni. Ma questo li rende praticamente inutili.» «Spiacente, ma è così», disse Hirshberg. «Almeno per ora.» Era d'accordo con lui, ma purtroppo il presidente la pensava diversamente. «Quello che possiamo fare per migliorare la situazione è agire in fretta», proseguì. «Se riusciamo ad appurare che non c'è nessun ordigno nel Paese, e che è affondato con la nave, non ci sarà bisogno che questo gruppo si riunisca ancora, né saranno necessarie altre azioni, tranne forse recuperare quello che c'è in fondo al mare. Per il momento non possiamo neppure dire con certezza se ci fosse un ordigno o no... D'altro canto, se una bomba è effettivamente entrata nel Paese, consiglierò al presidente d'impegnare tutte le nostre risorse. Sono sicuro che a quel punto anche lui riterrà opportuno interessare il gabinetto e gli altri organismi del caso.» Veramente Hirshberg non ne era affatto sicuro, ma avrebbe fatto tutto il possibile per convincerlo. «Da dove partiamo?» chiese poi, guardando Sloan. «Credo sia meglio iniziare da un'analisi di ciò che già sappiamo. Nelle ultime ventiquattro ore abbiamo raccolto altre informazioni, secondo le quali l'ordigno o gli ordigni in questione...»
«Sono più di uno?» Il funzionario dell'FBI continuava a fare domande. «Non lo sappiamo per certo», rispose Sloan, «ma è possibile.» Il suo interlocutore si guardò intorno alla ricerca di sostegno, tuttavia nessuno dei presenti glielo offrì. «Come stavo dicendo, nuove informazioni rivelano che gli ordigni in questione possono essere stati pagati, almeno in parte, da uno Stato nemico, forse dall'Iraq. Secondo i nostri rapporti, stanno mantenendo le distanze. È probabile che le persone coinvolte qui da noi non siano neppure a conoscenza dell'appoggio esterno, e che vengano semplicemente usate per raggiungere uno scopo comune. Se i rapporti sono corretti, queste persone possono aver sborsato una somma considerevole per ricevere l'ordigno e probabilmente stanno anche pagando un intermediario per facilitarne l'assemblaggio e il trasporto.» «Questo intermediario... Sappiamo chi è?» chiese il funzionario dell'FBI. «No. Purtroppo non abbiamo informazioni al riguardo, ma stiamo indagando. Sappiamo con certezza, però, che qualunque fosse la merce spedita a bordo della nave in questione, è stata ottenuta tramite la mafija, e in particolare una società finanziata coi soldi del KGB dopo il crollo dell'Unione Sovietica. È gestita da ex agenti e il suo amministratore delegato è Viktor Kolikov.» Sloan lanciò un'occhiata di traverso a Hirshberg. Non aveva intenzione di addentrarsi nei dettagli della questione Kolikov, anche se la maggior parte dei presenti aveva letto i giornali ed era in grado di fare i necessari collegamenti da sola. La difficile posizione politica del presidente avrebbe reso il loro compito molto più arduo. «Sappiamo se esiste un coinvolgimento verificabile di qualche Stato in queste attività?» Fu il funzionario del dipartimento di Stato a porre la domanda. «Intende dire l'Iraq?» chiese Hirshberg. «Sì.» «Perché?» «Se così fosse, gli Stati Uniti hanno già espresso pubblicamente la propria opinione. Non hanno escluso un attacco nucleare in risposta a un simile atto di terrorismo.» «E con ciò?» chiese Sloan. «È importante che qualsiasi nazione straniera attivamente collegata col terrorismo interno comprenda i rischi che corre.» «Sta suggerendo di contattare gli iracheni?» disse Hirshberg.
«Se avessimo prove incontrovertibili del loro coinvolgimento, potremmo riuscire a separarli dalle organizzazioni con cui stanno operando nel nostro Paese, presentando loro con chiarezza il rischio che corrono... un attacco nucleare di annientamento.» Sloan guardò verso Hirshberg e inarcò un sopracciglio. Non era una cattiva idea. «Chissà, se gli iracheni capissero di correre seri rischi, potrebbero anche mollare i complici che operano sul nostro territorio», osservò Hirshberg. «Già. Vedremo se è possibile confermare la pista irachena.» Sloan prese un appunto. La questione ora era ben chiara tra le carte da giocare, tra quelle che lui avrebbe servilmente sottoposto all'attenzione del presidente. Sloan non avrebbe tolto neppure un pelucco dalla giacca di un amico a meno di guadagnarci qualcosa. «C'è un altro aspetto della vicenda.» Questa volta fu il capitano di vascello a parlare. «Che succede se l'ordigno viene fatto esplodere in una grossa città americana? Come possiamo essere sicuri che qualche altra potenza non si faccia prendere dal panico e lanci un attacco di annientamento preventivo sulla scorta della paura?» «E perché dovrebbe farlo?» obiettò Sloan. «Hmm... Non è improbabile», osservò il funzionario del dipartimento di Stato. «Un'altra potenza nucleare: la Russia o la Cina. Anche se non sono coinvolte, potrebbero pensare che sospettiamo di loro e lanciare quindi l'attacco prima che noi avessimo il tempo di placare i loro timori.» «Intende dire un attacco di annientamento preventivo?» chiese Hirshberg. L'uomo del dipartimento di Stato annuì. Sapevano tutti che la Guerra Fredda era finita, ma il rischio di un annientamento nucleare no. «Il problema coi russi», disse il capitano di vascello, «è che il loro sistema di allarme a lungo raggio è a pezzi. Non hanno soldi per la manutenzione, e le loro stazioni in Lettonia sono andate. La Russia è un gigante nucleare che barcolla alla cieca. Se dovesse verificarsi un'esplosione nucleare in una grande città del nostro Paese, i russi potrebbero non starsene lì a guardare se riusciamo a risolvere le cose, decidendo invece di effettuare un lancio.» «Questo non dovrebbe essere un problema», rifletté il funzionario dell'FBI. «Il presidente, sei mesi fa, ha dichiarato che i missili russi non sono più puntati contro le città americane.» «E infatti non lo sono», confermò Sloan.
«Quindi dovremmo avere il tempo sufficiente a contattarli e a rassicurarli.» «Lei non capisce», disse Hirshberg. «Anche se i russi avessero tolto gli obiettivi dal sistema di guida computerizzato dei missili, questi ultimi, una volta lanciati, sono programmati per riacquisire immediatamente l'ultimo obiettivo inserito. Ecco come sono costruiti i missili nucleari russi.» Assicurazioni presidenziali a parte, vivevano in un mondo di pazzi incoscienti. 19 Friday Harbor, Stato di Washington Joss fissava la confusione nel suo ufficio alla fredda luce del mattino. Se possibile, sembrava addirittura peggiore della notte precedente. Di natura, non era una persona organizzata. Generalmente, le pratiche su cui lavorava erano ammonticchiate in cataste che, a un qualsiasi osservatore, sarebbero apparse perlomeno disordinate. Ma si trattava del suo personale sistema di archiviazione. Di solito, le pile stazionavano sulla sua scrivania e su ogni altra superficie piana disponibile, però lei sapeva dove si trovava ogni cosa ed era in grado d'infilare la mano in ognuno di quei mucchi e tirar fuori esattamente ciò di cui aveva bisogno. Il problema era che le pile erano state tutte sparpagliate sul pavimento e alcuni documenti persino strappati. «Joss, ma che diavolo...» Joselyn si voltò e vide Samantha ferma sulla soglia. Stava esaminando lo stipite della porta d'ingresso danneggiato tutt'intorno alla serratura. «Ho avuto visite, ieri notte», sospirò Joselyn. «Lo vedo.» Sam entrò a passi lenti, osservando il tizio alto e biondo nella sala d'attesa che teneva in mano alcune carte appena raccolte da terra. Joss fece le presentazioni. «Samantha Hawthorne, Gideon van Ry.» Si strinsero la mano. Sam lo squadrò da capo a piedi, facendo una lenta e accurata valutazione, quindi tornò a osservare l'ufficio. «Lo hanno proprio devastato.» «Sam è la padrona di casa», spiegò Joselyn a Gideon. «Le mie condoglianze», disse lui. «Spero che l'assicurazione copra i danni. Che cos'è successo?» «Ieri sera, tornando da Seattle, l'ho trovato come lo vedi. Qualcuno ha
forzato la porta, ha messo tutto a soqquadro e se n'è andato.» «Ragazzi, pensi?» disse Samantha. «Ne dubito.» «Sembrerebbe quasi che tu sappia chi è stato.» «Non esattamente», borbottò Joselyn. «Hai chiamato lo sceriffo?» «Se n'è appena andato un agente. Ha steso un rapporto. Ovviamente faranno indagini.» «Se non altro ci serviranno per l'assicurazione», osservò Sam. Stava ancora esaminando i danni. «Hanno preso qualcosa?» Joselyn si strinse nelle spalle, come per dire che non ne era sicura. Aveva approfittato dell'occasione per denunciare al vicesceriffo l'incidente avvenuto sul traghetto la sera precedente. Quando gliel'aveva raccontato, il poliziotto l'aveva guardata in maniera strana, come a dire che quella non era davvero stata la sua giornata. Ma la coincidenza non parve spingerlo a collegare i due eventi né a farle altre domande. Joselyn era sicura che non sarebbe finita lì, ma, almeno per il momento, l'agente sembrava soddisfatto. Gideon aveva passato la notte in un piccolo motel vicino all'aeroporto, subito fuori città. Considerati gli avvenimenti della giornata, avevano convenuto che non era saggio che lei andasse a casa. Così aveva preso una stanza vicina alla sua. Van Ry sembrava un tipo assolutamente a posto. Quella mattina, Joselyn si era allontanata da lui il tempo necessario per fare una telefonata al numero della California scritto sul suo biglietto da visita. Avevano confermato la sua identità, fornendole anche informazioni sull'Istituto; tutto sembrava corrispondere a ciò che lui le aveva detto la sera precedente. Adesso van Ry si trovava nell'ufficio e stava sollevando da terra i due archivi per rimetterli al loro posto contro la parete. «Chi è quello?» sussurrò Samantha all'orecchio di Joselyn. «È qui per la faccenda di Belden.» Sam la guardò come se il nome non le dicesse nulla. «Quel tizio delle telefonate... disperate», spiegò Joss. «Ah, quello.» Samantha allungò il collo per veder meglio il giovanotto. «Niente male», mormorò. «Quando ha finito qui, puoi mandarlo a dare una pulitina anche al mio ufficio.» «È qui per lavoro. Belden è morto.» Quelle parole distolsero l'attenzione di Samantha dalla porta e dal bion-
do. Guardò Joselyn con gli occhi spalancati. «Com'è successo?» Invece di risponderle, l'altra aprì una copia del quotidiano di Seattle con l'articolo in una pagina interna. Era piuttosto stringato e attribuiva la morte di Belden a un incidente su cui le autorità stavano ancora indagando. «E tu sei andata in aereo con lui fino a Seattle?» Joselyn annuì. Sam si lasciò cadere sul divano nell'angolo. «Avresti potuto morire.» «E non è finita.» Sam la guardò. «La sua morte non è stata un incidente. Non posso dirti altro. Per ora.» «È stato assassinato?» «Così pare.» All'improvviso, lo sguardo di Sam s'illuminò. «Pensi che le due cose siano collegate?» «Non lo so.» «Dovresti andare a parlare con lo sceriffo. Gliel'hai detto che lui è stato ucciso, vero?» «No. Non ho prove.» «Comincia con quanto è accaduto al tuo ufficio, col fatto che il tuo cliente è morto, e che tu eri a bordo dell'aereo con lui. Io credo che saranno in grado di fare i necessari collegamenti.» «Non voglio affrontare la questione, adesso. Possiamo parlarne più tardi?» «Certo, come vuoi. Ma lascia che te lo dica: io non aspetterei. Posso aiutarti a mettere in ordine?» «No, devo farlo io. E poi c'è...» Joselyn fece un gesto in direzione della porta del suo ufficio. Si sentiva il rumore metallico dei cassetti che venivano infilati nelle guide. «Chiamami, se hai bisogno. Sono nel mio ufficio.» Sam le lanciò un'ultima occhiata, quindi si diresse nell'ufficio accanto. Joss tornò da Gideon. «Io mi limito a impilare tutti i fascicoli quassù», annunciò lui, alzando lo sguardo. Era inginocchiato a quattro zampe dietro la scrivania. «Non è il caso che lo faccia.» «Visto che sono qui, tanto vale che le dia una mano.» «Davvero...» Joselyn fece il giro intorno alla scrivania e cominciò a prendergli i fogli e le cartelline di mano. «Lo posso fare io. La prego.» Lui si alzò.
«Mi dica», fece Joselyn, «come ha avuto il mio nome?» Lui sollevò la poltroncina girevole che giaceva rovesciata dietro la scrivania. «Era indicato tra quelli dei dirigenti della Belden Electronics... sulla licenza.» «Ma certo! La costituzione della società.» Di colpo, lei si mise a riflettere. Se van Ry era riuscito a risalire a lei grazie ai documenti societari, avrebbe potuto farlo chiunque, compresi i soci di Belden su cui McCally l'aveva messa in guardia. Forse era così che l'avevano scovata sul traghetto e avevano individuato il suo ufficio. «Immagino stesse semplicemente agendo per conto del suo cliente, vero?» proseguì Gideon. «Hmm... Come?» «Nel costituire la società.» «Già. Certo.» «Quindi lei non aveva nessuna reale carica direttiva?» «No.» «Secondo lei, che cosa stavano cercando, qui, nel suo ufficio?» «Non lo so. E forse non lo sapevano neppure loro.» «Stavano andando... com'è che dite voi?» Gideon rifletté per un istante. «Ah, sì. Per tentativi.» Lei annuì, ma non sembrava troppo convinta. «Io direi che lei si trova in un mare di guai», osservò Gideon. «Perché?» «Perché le persone che hanno fatto questo sono molto pericolose», rispose lui. «Non credo che stessero cercando a casaccio.» «Tutta la documentazione relativa a Belden e alla sua attività è finita in fondo al mare con l'auto.» Gli aveva raccontato dell'incidente. «Forse è quella che stavano cercando.» «È possibile, ma ne dubito.» «Perché?» «Si metta nei loro panni. Lei va a Seattle per rappresentare il suo cliente, il signor Belden, davanti al gran giurì. Ovvio che porti con sé il suo fascicolo, no?» Lei annuì. «L'avranno ben immaginato. Tentano di ucciderla sul traghetto. Per quanto ne sappiamo, sono convinti di esserci riusciti, di averle tappato la bocca. I fascicoli erano con lei in macchina. Questo lo potevano immaginare. Eppure vengono qui e combinano... questo.» Inarcò le sopracciglia.
«Perché?» Joselyn scosse la testa. Non ne aveva la minima idea. «Cominciamo con l'attività di Belden», la spronò Gideon. Lei non era più dell'umore adatto a proteggere la privacy del suo cliente. Si chiedeva anzi se non avesse fatto un grosso errore a rifiutarsi di collaborare con McCally. Di certo non lo avrebbe ripetuto, quell'errore. «Ha detto che lavorava nel campo dell'elettronica. Programmi per sistemi di sicurezza o qualcosa del genere. Non ricordo tutti i dettagli.» «L'ha mai portata nella sua azienda?» «No.» «Le ha dato un indirizzo?» «Ha affermato che si stava ancora organizzando. Non sono sicura che avesse trovato un posto.» Joselyn si lasciò cadere sulla poltroncina girevole dietro la scrivania, mentre Gideon prendeva una delle poltroncine riservate ai clienti e si sedeva di fronte a lei. «In altre parole, lei non è sicura che fosse davvero in affari.» Lei scosse la testa. «Perché mai avrebbe dovuto venire da me per mettere su un'attività se non ne aveva bisogno?» «Già, perché?» ripeté Gideon. «Che aspetto aveva?» Joselyn gli fornì una veloce descrizione e gli disse dell'inchiesta della procura generale, del fatto che McCally l'aveva informata che Belden aveva usato molti nomi falsi e che il governo pensava fosse coinvolto nel trasporto di pericolosi materiali bellici. Gideon ascoltò con attenzione, continuando a prendere appunti. Quando lei menzionò il piccolo oggetto di plastica che le autorità avevano recuperato tra i rottami galleggianti sul luogo dell'incidente aereo, lui alzò lo sguardo. «Com'era?» «Piccolo, bianco, grande più o meno come il quadrante di un orologio.» «E hanno detto che serviva a misurare le radiazioni?» Lei annuì. «È un dosimetro», mormorò Gideon. «Giusto.» «Ha potuto vederlo bene?» «Me l'hanno mostrato.» «La carta all'interno del quadrato... era scolorita?» «Non lo so. Non me lo ricordo. Non l'ho visto così da vicino. E poi, l'avevano tirato fuori dell'acqua.» «Già. Questo avrebbe potuto influire. E anche il calore generato dall'e-
splosione. Ha detto che l'aereo è esploso?» «La sfera di fuoco più grossa che si sia mai vista», rispose Joselyn. «Mi si sono persino fusi i collant.» «Dunque siamo tornati al punto di partenza.» Lei gli lanciò un'occhiata interrogativa. «Che cosa stavano cercando le persone che hanno fatto questo?» Gideon si guardava intorno come se volesse scoprire la tessera mancante di un puzzle. «Come le ho già detto, qui non c'era niente d'interessante.» «La mia idea è questa: se lei non sapeva che quella cosa era importante, non l'avrebbe nascosta. Poteva essere negli schedari o nella scrivania.» Ignorò le proteste di Joselyn e proseguì come se stesse ragionando a voce alta. «Questo significa che, di qualunque cosa si tratti, probabilmente loro l'hanno trovata. Dunque non ci resta che andare per eliminazione.» «Di che cosa sta parlando?» «Riordiniamo tutti i fascicoli e tutto il materiale. E quello che manca...» La guardò, inarcando le sopracciglia. «Cerchi di capirmi bene: qui non c'era niente. E poi, passare al setaccio tutti i fascicoli richiederebbe una giornata intera.» «Ha altri programmi per oggi?» A giudicare dalla confusione che regnava nell'ufficio, la risposta era ovvia. «Quindi, prima cominciamo...» Gideon era già in ginocchio sul pavimento, raccogliendo fascicoli e fogli sparsi e cercando di capire dove andavano messi. Joselyn gli prese dalle mani le carte e le posò sulla scrivania. «Facciamo così: lei li raccoglie, io li divido.» 20 Deer Harbor, Stato di Washington Il nucleo era costituito da meno di quindici chili di plutonio puro, circondato da un guscio protettivo. Grigorij Čenko lavorava sotto una tenda coperta da un pesante telo di plastica militare. Nel tetto della tenda era inserita una cappa di aspirazione, dotata di un filtro assoluto che doveva creare una leggera depressione all'interno. Quel sistema avrebbe impedito alle particelle di plutonio di sfuggire all'esterno, intrappolandole, se tutto fun-
zionava a dovere, nel filtro. Per ripararsi, il russo indossava una tuta protettiva di neoprene giallo fornita di respiratore con filtri ad alta efficienza. Čenko sudava copiosamente dentro la tuta, e la visiera di plastica gli si appannava in continuazione. Non era il tipo di respiratore ad aria forzata che usavano ai Sandia National Laboratories o in altre strutture analoghe di ricerca avanzata, ma un'attrezzatura che Chaney aveva acquistato sul mercato libero. Fece una pausa, uscì dalla tenda e si tolse il cappuccio, così da poterlo pulire per vedere meglio. Aveva le mani sudate dentro i guanti di neoprene e gli doleva la schiena per essere stato chinato per ore sul piccolo tavolo che aveva sistemato all'interno. Il lavoro era lungo e noioso, punteggiato da momenti di forte tensione, come quando aveva tolto l'esplosivo al plastico intorno al nucleo. Il garage era stato evacuato e i suoi passi sul pavimento di cemento risuonavano spettrali contro le pareti nude di metallo, mentre passeggiava avanti e indietro stiracchiandosi per rilassare i muscoli. Gli altri erano fuori, ad aspettare che lui finisse e il nucleo fosse al sicuro nel suo nuovo involucro di metallo. Chaney l'aveva fabbricato con pezzi di due vecchi serbatoi eiettabili di caccia militari che aveva trovato in un cimitero di aerei sul continente. Basandosi su fotografie dell'ordigno originale, Chaney aveva dimostrato la propria abilità con la saldatrice, plasmando le lamiere e aggiungendo qualche tocco per maggior realismo, tipo i rivetti. Il russo non sarebbe stato in grado di distinguere la riproduzione dall'originale esposto al museo. Era identico a quello nella grande fotografia scattata un mese prima e portata sull'isola da Thorn. Il piano era estremamente ingegnoso. Si rimise il cappuccio e s'infilò di nuovo nell'apertura della tenda. A un occhio inesperto, l'oggetto sul tavolo sarebbe potuto sembrare un pallone da football. Era composto da trentadue settori sferici di plutonio, con un angolo al centro di quarantacinque gradi, assemblati sino a formare una sfera che circondava un nucleo di berillio-polonio. Il tutto era poi avvolto da esplosivo convenzionale al plastico, armato con una serie di detonatori. Ecco che cosa preoccupava Čenko: l'esplosivo al plastico e i detonatori. Erano vecchi e presentavano il maggior rischio di fallimento. L'attivazione simultanea dei detonatori era fondamentale. La reazione di fissione era un dato di fatto, un evento immutabile della fisica, ma soltanto se la deflagrazione dell'esplosivo al plastico che la innescava fosse stata precisa fino al milionesimo di secondo. L'onda di pressione che
dava origine all'implosione del plutonio doveva risultare assolutamente uniforme sulla superficie esterna della sfera. Soltanto così si sarebbe raggiunta la massa critica che avrebbe dato il via alla reazione a catena. Per essere un ordigno nucleare, era una bomba piccola, ma, al momento dell'innesco, il suo nucleo avrebbe raggiunto la temperatura di un milione di gradi, ancora più di quella della superficie del sole. Le elevatissime temperature avrebbero provocato il rilascio di enormi quantità di radiazioni elettromagnetiche. Quanto si trovava nelle immediate vicinanze sarebbe stato vaporizzato all'istante. Tutt'intorno alla bomba, le radiazioni sarebbero state assorbite dall'aria. Questa, di conseguenza, si sarebbe scaldata fino all'incandescenza, creando una palla di fuoco che si sarebbe espansa a una velocità vicina a quella della luce finché la sua temperatura non fosse scesa sui 300.000 gradi. Allora avrebbe iniziato progressivamente a rallentare la sua corsa: a un certo punto, la gigantesca onda d'urto generata dalla compressione dell'aria nell'atmosfera l'avrebbe sorpassata, radendo al suolo ogni struttura. Nel giro di un secondo, sarebbe sopraggiunta la palla di fuoco, incendiando ogni superficie infiammabile, fondendo il metallo e trasformando i corpi umani in vapore. L'onda d'urto avrebbe proseguito la sua corsa a una velocità di tre chilometri e mezzo ogni dieci secondi, causando la devastazione totale della zona attraversata. Poi la luminosità della palla di fuoco sarebbe andata via via scemando, come la violenza dell'onda d'urto. Dalla palla di fuoco, la minacciosa nube a fungo avrebbe sollevato la testa micidiale verso l'atmosfera, raffreddandosi a mano a mano che saliva e creando violenti moti convettivi. Dal suo interno si sarebbero sprigionati fulmini e, se le condizioni fossero state «favorevoli», avrebbe cominciato a cadere una pioggia mortale di particelle altamente radioattive, una pioggia di sofferenza e morte. Gli ci vollero più di due ore a controllare e sostituire i detonatori difettosi. Cannibalizzò le parti che gli servivano prendendole dall'altro ordigno, il primo portato dai pescatori, quello che mancava del suo mortale nucleo di plutonio. Quindi prese il nucleo riassemblato e lo imbullonò nella metà aperta dell'involucro esterno preparato da Chaney. Uscì dalla tenda di plastica e sollevò il cappuccio della tuta. Il sudore gli colò dalla fronte sugli occhi, scendendo poi in rivoletti lungo il collo e dentro la muta. Andò alla grande porta scorrevole in fondo al garage e la aprì. Gli uomi-
ni all'esterno smisero di chiacchierare e si voltarono a guardarlo. Alcuni gettarono a terra la sigaretta che stavano fumando e la spensero col piede. Chaney e Thorn erano da una parte, accanto al vecchio pick-up malandato usato da Thorn. Il russo si unì a loro, aprendo la cerniera della tuta. «Ho finito.» «Bene», disse Thorn. «E i terminali per il meccanismo d'innesco?» «Come mi ha chiesto lei. Li ho lasciati liberi attraverso la piccola apertura vicino agli stabilizzatori di coda. Quando ha finito, può rimettere a posto lo sportellino. Un ritocco con la vernice ed è pronto.» «Eccellente. Ha fatto un ottimo lavoro.» Il russo sorrise. Entrarono, e Thorn si mise al lavoro. Si sistemò davanti a un bancone addossato alla parete in fondo al garage, aprì una valigetta e tirò fuori un piccolo computer. Vi collegò un microfono che avvicinò alla bocca, e cominciò a parlare, pronunciando solo due parole: «Massa critica». La sua voce venne visualizzata sullo schermo del computer con un susseguirsi di picchi simili a un grafico. Ripeté l'operazione parecchie volte finché non ebbe il campione vocale desiderato. Allora lo salvò su un dischetto che poi estrasse e inserì in un altro piccolo strumento simile a un computer, chiamato blue-box. Aveva una tastiera come quella di un notebook ed era dotato di porte d'ingresso. Thorn batté alcuni tasti e inviò l'informazione su dischetto alla destinazione prestabilita. Quindi prese il blue-box e si avvicinò all'ordigno. A quel punto, Chaney aveva terminato di fissare assieme le due metà dell'involucro esterno della bomba. Con l'aiuto degli altri uomini, l'aveva caricata su un sollevatore idraulico a carrello e la stava trasportando verso il camion. Si fermarono a qualche metro dal veicolo e Thorn fece gli ultimi preparativi. Collegò i terminali a un interruttore in grado di comandare l'invio di una potente carica elettrica ai detonatori inseriti nell'esplosivo plastico all'interno della bomba. A quel punto il blue-box e i suoi cavi vennero alloggiati con cura vicino ai grossi stabilizzatori di coda della bomba, dove avrebbe trovato posto anche la batteria prima che l'ordigno venisse spedito alla sua destinazione finale. Gli stabilizzatori erano stati costruiti da Oscar Chaney seguendo i dettagli ricavati da fotografie dell'originale. Persino la vernice opaca verde oliva era stata riprodotta con cura. I quindici micidiali cilindri che avrebbero circondato il nucleo dell'ordigno riposavano col loro letale contenuto liquido, sigillati in uno speciale
compartimento piombato ricavato all'interno del serbatoio montato sul camion. Sarebbero stati inseriti solo in un secondo tempo, quando l'ordigno fosse giunto a destinazione. Dovevano essere maneggiati con la massima attenzione e richiedevano l'uso di un indumento protettivo e di un apparecchio respiratore, tutte cose che Thorn aveva già sistemato in speciali scomparti nel serbatoio. «Fatto.» Thorn si pulì le mani con uno straccio e si voltò verso Čenko. «È sicuro che tutto sia montato come si deve?» «Assolutamente.» «Non saranno necessarie modifiche all'ultimo minuto?» «No. Colleghi i terminali seguendo lo schema che le ho fornito, installi la batteria... ed è armata.» «Bene», fece Thorn. «Andiamoci a bere una birra.» Il russo sorrise. «Oscar! Caricalo sul camion!» gridò Thorn e Chaney gli rispose da dentro il garage alzando il pollice. Thorn e il russo si avvicinarono al vecchio pick-up. Thorn si allungò verso il sedile posteriore, aprì un piccolo contenitore frigo e tirò fuori due bottigliette di birra ghiacciate. Tolse il tappo a una e la porse a Čenko, quindi ne aprì una per sé. All'interno del garage, Chaney era impegnato con altri due uomini a spostare la bomba col sollevatore idraulico. La trasportarono fin sotto il serbatoio che Chaney aveva saldato sul pianale del camion. Quindi Chaney si mise a pompare col lungo manico del sollevatore, issando l'ordigno fin dentro l'apertura sotto la pancia del serbatoio. Fu imbullonato nel suo alloggiamento e quindi venne rimesso a posto il finto pannello d'acciaio sotto il serbatoio. Dieci minuti dopo avevano già finito e Chaney cominciò a pompare i liquami dalla latrina portatile nel comparto superiore del serbatoio, nel caso qualcuno li fermasse. Aveva saldato una lamiera d'acciaio rivestita di piombo a metà serbatoio, separandolo in due parti: quella inferiore per la bomba, quella superiore per i liquami. La normale sorveglianza da satellite sarebbe servita a poco, con quel camion. Il plutonio emetteva solo radiazioni gamma molto deboli, che potevano essere schermate da un foglio di carta. Il rilevamento termico ai posti di blocco, sempre ammesso che i federali avessero il tempo d'istituirli, poteva invece creare qualche grattacapo. Thorn aveva preso alcune precauzioni, ordinando tra l'altro a Chaney di rivestire il comparto della bomba con uno strato di piombo alto mezzo
centimetro. L'assenza di qualsiasi emissione da parte dell'ordigno, insieme con la presenza di liquami sul camion, avrebbe molto probabilmente spinto le autorità a farli passare senza troppi controlli. Contavano sulla normale reazione umana di disgusto nell'ispezionare a fondo un simile carico. E poi, chi poteva immaginare che un camion con un serbatoio pieno di liquami potesse trasportare un ordigno nucleare? Fuori, accanto al pick-up, Thorn osservava Grigorij Čenko che si contorceva a terra. Il suo corpo era percorso dagli ultimi fremiti dell'agonia. Gli occhi gli si arrovesciarono all'indietro come due ciliegie in una slotmachine. Il cianuro di potassio agiva molto velocemente, specie in dosi alte come quella che Thorn aveva aggiunto alla birra destinata al russo. Il lavoro di Čenko era terminato. Un'altra faccenda in sospeso risolta. 21 Friday Harbor, Stato di Washington La quattro del pomeriggio passate: erano tutti e due stanchi. Gideon osservava con la coda dell'occhio Joselyn Cole che riordinava i fascicoli sulla scrivania. Era una donna attraente: occhi azzurri, capelli biondi che le arrivavano alle spalle, un corpo ben proporzionato e formoso e una carnagione abbronzata che lui trovava molto gradevole. Aveva anche una tempra d'acciaio. Dopo gli avvenimenti del giorno precedente, molte persone si sarebbero infilate a letto e ci sarebbero restate per una settimana intera. Joselyn, invece, era rimasta concentrata sul da farsi. Alzò lo sguardo verso di lui. «Grazie per avermi aiutata.» «Devo ammettere che si trattava di un aiuto interessato», ribatté lui. «Perché?» «Lei è l'ultima traccia che mi rimane per arrivare alle due polizze di carico contraffatte.» Le aveva raccontato delle spedizioni dal porto di Vladivostok. La sua voce assunse una nota seria. «Non so spiegarle quanto sia importante il motivo della mia presenza qui.» «Forse se mi dicesse qualcosa di più...» obiettò Joselyn. «Se le mie supposizioni sono giuste, il suo cliente, il signor Belden, era coinvolto in una faccenda molto pericolosa, qualcosa che potrebbe avere conseguenze devastanti per il suo Paese, se non addirittura per il mondo.» «Quali conseguenze?»
Quello che aveva scoperto a Sverdlovsk poteva provocare un'ondata di panico generale, se fosse stato reso pubblico. Il timore che un ordigno nucleare potesse trovarsi nel Paese, nelle mani di terroristi, poteva scatenare una ridda d'ipotesi riguardo al suo obiettivo nonché la fuga in massa di centinaia di migliaia di persone, che avrebbero paralizzato autostrade e aeroporti. «Finché non saprò qualcosa di più», mormorò Gideon, «non posso essere certo delle informazioni in mio possesso. Tuttavia posso dirle questo: ciò che ho scoperto sembrerebbe concordare con quanto le ha riferito il procuratore a Seattle. È possibile che l'uomo che si faceva chiamare Dean Belden fosse coinvolto nel contrabbando di armi di distruzione di massa.» «E lei pensa che queste armi si trovino qui, in questo Paese?» «Non lo so. Forse ce lo dirà quello che stavano cercando nel suo ufficio.» Joselyn tornò ai documenti posati sulla scrivania, esaminandoli con maggior attenzione, cercando d'immaginare che cosa, in quei fascicoli, potesse confermare i sospetti di van Ry. «Sono curioso di sapere perché non ha rivelato alle autorità locali che l'incidente sul traghetto è stato in realtà un attentato contro di lei», riprese Gideon. «Lei ha detto che si è trattato di un incidente. Perché?» «Perché non ho prove del contrario.» Dall'altro lato della stanza, lui la fissò. Poi chiuse uno degli schedari e lo riaccostò alla parete. «Pensa davvero che sia una coincidenza? Il suo cliente viene ucciso nel pomeriggio e la sera stessa qualcuno spinge la sua auto giù dal traghetto...» «Potrebbe essere.» «Capisco», borbottò Gideon. «Dunque, a suo parere, si tratta soltanto di un insolito periodo di karma sfavorevole?» Lei lo guardò, seccata, ma non rispose. «Fossi in lei controllerei l'allineamento dei pianeti prima di avventurarmi in strada», concluse Gideon. «Visto che lei ha tutte le risposte, mi dica: che dovrei fare?» «Avrebbe potuto riferire alle autorità della sua conversazione col procuratore a Seattle, della morte di Belden e dei due incidenti, vale a dire dell'esplosione dell'aereo e del fatto che, qualche ora dopo, lei è stata spinta giù dal traghetto. Forse loro avrebbero trovato un nesso.» «Già. E poi che sarebbe accaduto?» «Immagino che le avrebbero fornito qualche forma di protezione.»
«Fantastico», esclamò Joselyn. «Così mi piazzano un vicesceriffo davanti alla porta dell'ufficio. È proprio quello che ci vuole per la mia professione. 'Signor Jones, le presento l'agente Smith. Ci terrà d'occhio mentre parliamo, caso mai nel frattempo qualcuno cercasse di farmi fuori.' Per non parlare dell'effetto che potrebbe avere sui miei clienti che hanno problemi con la giustizia.» «Capirebbero che lei ha amici importanti nell'ufficio dello sceriffo», replicò Gideon. Joselyn soffocò una risata. «Inoltre, se McCally venisse a sapere dell'incidente a bordo del traghetto, mi trascinerebbe davanti al gran giurì. Probabilmente mi farebbe mettere sotto custodia cautelare.» «Perché no? Se non altro sarebbe al sicuro.» «Proprio quello che mi ci vuole: poliziotti davanti alla porta oppure ospite del governo in una comoda cella. Per quanto tempo?» «Sinché non è finita.» «E quanto ci vorrà?» Dall'espressione di Gideon si capiva chiaramente che non sapeva che cosa rispondere. «Appunto», proseguì Joselyn. «E nel frattempo anche quei pochi clienti che ho scompariranno.» «Ma sarebbe viva.» «E lei la chiama vita?» «Potrebbe essere sempre meglio dell'alternativa», obiettò Gideon. Joselyn non lo contraddisse. «Ma perché vogliono uccidermi?» «Perché lei sa qualcosa.» «Io non so un accidente di niente.» «Loro sono convinti di sì, e per il momento è la stessa cosa», ribatté Gideon. «Io ho idea che la risposta sia qui, in questa stanza, davanti a lei.» Fece un gesto in direzione delle carte posate sulla scrivania. Joselyn si rimise al lavoro, questa volta con più energia e attenzione. «Quel Belden... Le ha detto qualcosa?» «Ne ho già discusso ampiamente con McCally e l'FBI.» «Sì, ma la loro capacità di percezione potrebbe non essere buona come la mia.» Joselyn lo guardò, abbozzando un sorriso, ed entrambi scoppiarono a ridere. «E va bene, Sherlock. Che vuole sapere?» chiese lei. «Quando si è presentato da lei per la prima volta?»
«Belden? Meno di due settimane fa.» «E come mai è venuto proprio da lei?» «Gli sono stata raccomandata da un tizio di una banca qui in città. Almeno, così mi ha detto. Ma probabilmente non è vero.» «Sospetto che lei abbia ragione», convenne Gideon. «Ha qualche particolare specializzazione che poteva interessare a Belden?» «Abbiamo parlato di questo», rispose Joselyn. «In realtà, era proprio il contrario. Lui avrebbe potuto trovarsi un centinaio di avvocati giù a Seattle che ne sanno più di me in fatto di diritto amministrativo e pagarli non un centesimo di più.» «Quindi sappiamo che era alla ricerca di qualcos'altro», disse Gideon. La guardò con intenzione, in modo che lei potesse afferrare il sottinteso. «Di solito non parlo della mia vita sessuale con gli estranei, ma, se proprio lo vuole sapere, la risposta è no. Assolutamente no.» «Infatti non lo pensavo.» Joselyn finse un'ostilità che non provava. «E perché no?» «È solo che... eh... giacché Belden era un cliente...» «E questo che c'entra?» Gli rivolse uno sguardo implacabile, decisa a non lasciargliela passare liscia. «Volevo solo dire che non sarebbe stato molto professionale.» «E secondo lei io sono la quintessenza della professionalità, giusto?» «Assolutamente.» «Gid... Posso chiamarla Gid?» «In qualsiasi modo mi voglia chiamare per me va benissimo.» «Allora, se è così, per il momento la chiamerei contaballe.» Gideon cercò di mantenere il proprio aplomb, ma non ci riuscì. Divenne paonazzo, le vene del collo gli si gonfiarono e poi scoppiò a ridere. «Com'è che dicono? Tra simili ci s'intende.» «Sì, dicono così», annuì Joselyn. Lui si accomodò su una delle poltroncine destinate ai clienti. «Una cosa comunque la sappiamo.» «E cioè?» «C'è un evidente collegamento tra quanto è accaduto a Sverdlovsk e l'inchiesta del gran giurì a Seattle.» «Mi spieghi.» «Secondo il procuratore, il suo cliente, il signor Belden o quale che fosse l'ultimo nome da lui usato, era un esperto nel maneggiare certe armi di distruzione di massa. Non può essere tutta una coincidenza: prima da un de-
posito russo sparisce del materiale fissile, poi si scopre che questo materiale è transitato dal porto di Vladivostok; polizze di carico false indicano che è stato spedito alla Belden Electronics. Sospetto che il procuratore sappia qualcosa.» «Forse è così, ma può stare certo che non ci dirà nulla.» «A noi forse no», ammise Gideon, «ma potrebbe dirlo a qualcun altro.» «A chi?» «Al suo governo.» Joselyn lo guardò con espressione perplessa. «Abbiamo contatti nell'ambiente dei servizi segreti. Chiamerò il mio direttore al centro e vedrò se è possibile effettuare qualche controllo, spargere in giro la voce. Se è una questione di sicurezza nazionale, il dipartimento della Giustizia potrebbe contattare l'Agenzia per la sicurezza nazionale.» «E quale vantaggio ci darebbe?» «Se non altro sapremmo che i servizi segreti sono, come si dice, in pista. E poi, in fondo, noi abbiamo informazioni da scambiare.» Lei gli rivolse uno sguardo interrogativo. «Quello che ho scoperto a Sverdlovsk», spiegò lui. Evidentemente aveva più fiducia nel governo di quanta ne avesse lei. Mentre Gideon parlava, Joselyn teneva in mano un foglio e perlustrava con lo sguardo il ripiano della scrivania alla ricerca del fascicolo cui il documento apparteneva. Era già un po' che ci pensava. Di colpo si rese conto che il fascicolo non si trovava sulla scrivania. Attraversò la stanza e andò allo schedario che Gideon aveva sistemato contro la parete. Aprì il secondo cassetto e scorse i fascicoli. Poi si voltò, guardando Gideon con un'espressione turbata. «Che c'è?» chiese lui. «Tutti i fascicoli sono nello schedario?» «Tranne quelli che si trovano ancora sulla scrivania.» Lei tornò alla scrivania e controllò ancora una volta i documenti posati sul ripiano. Non c'era. «Insomma, che c'è?» insistette Gideon. «Non ha senso», mormorò Joselyn. Seattle, Stato di Washington Thomas McCally sfogliò il rapporto. Tre pagine in tutto, povero di dettagli. L'FBI stava ancora indagando, ma due detenuti in attesa di giudizio
erano evasi dal carcere di Kent. Uno dei due interessava particolarmente McCally: Oscar Chaney, un rapinatore di banca senza precedenti, ma con un nutrito curriculum militare. Era stato addestrato nelle forze speciali dell'esercito per quelle che venivano definite con un eufemismo «operazioni speciali» e aveva partecipato a quelle che il rapporto definiva «azioni non belliche». McCally non era un esperto di cose militari, però sapeva che cosa significava tutto ciò. Si trattava d'incursioni in altri Paesi - in Paesi ostili del Terzo Mondo o sul territorio di nazioni alleate - che non venivano rese pubbliche. Il loro scopo poteva essere la raccolta d'informazioni sul campo, la consegna di armi a un movimento politico ribelle o la distruzione di qualche obiettivo d'importanza strategica, tipo una stazione radio o un deposito di carburante. Gli uomini utilizzati per simili operazioni erano molto ben addestrati. Oscar Chaney aveva partecipato ad azioni di quel tipo e anche alla guerra del Golfo. Poi aveva lasciato l'esercito e gli ultimi cinque anni li aveva passati in giro per il mondo. Secondo il dipartimento di Stato, aveva viaggiato in Europa, Africa e America Latina. E, cosa ancora più importante, informazioni ottenute dall'FBI da fonti europee indicavano che Chaney aveva avuto rapporti con Harold McAvoy, alias James Regal, alias Liam Walker, alias Dean Belden. Il rapporto forniva prove evidenti che l'evasione di Chaney si era avvalsa di un'attenta pianificazione e di un supporto dall'esterno. L'FBI aveva già preso uno degli uomini che avevano fornito questo aiuto. L'uomo arrestato aveva stretti legami con un locale gruppo paramilitare. «Pare che volessero proprio tirarlo fuori, questo Chaney, e sono andati ben preparati.» Mentre McCally leggeva il rapporto, l'agente dell'FBI che glielo aveva consegnato continuava a camminare avanti e indietro nell'ufficio. «Hanno tagliato le sbarre con un cannello ossiacetilenico», proseguì l'agente. «Non l'abbiamo trovato, ma i segni prodotti dal calore sull'acciaio sono inconfondibili. Abbiamo rinvenuto anche una piccola ricetrasmittente portatile. Secondo quanto afferma l'uomo arrestato, c'erano altre tre persone che assistevano da fuori.» «Quello che avete preso vi ha dato qualche indicazione su dove si trova Chaney ora?» «Non credo che lo sappia. Dice di essere stato assegnato a questa missione da pezzi grossi della sua cellula. Non conosce i nomi delle altre persone coinvolte. La mia idea è che venissero tutti da cellule diverse e che, se risaliamo verso i vertici, scopriremo che quelli che li hanno precettati per questo lavoro non ne sanno molto più di loro.»
«Come siamo arrivati ad arrestare questo tizio?» chiese McCally. «Si stava vantando in un bar di quanto era stato semplice farlo evadere», rispose l'agente. «Quasi stesse cercando altri clienti.» «Se le informazioni riportate qui sono accurate, non è il tipo di persona che Chaney frequenterebbe o di cui si fiderebbe», osservò McCally. «Il che ci porta alla domanda: perché Chaney stava rapinando banche?» «E in quel modo da dilettante, poi...» «Che cosa sappiamo dei gruppi paramilitari della zona?» chiese McCally. L'agente lo guardò come per dire «non molto». «Per la maggior parte si trovano su a nord, sull'altro versante del Cascades National Park, nelle contee rurali. Operano in cellule senza un vero leader, unità piccole e disorganizzate. Tra le diverse cellule non ci sono molti contatti, niente che si possa definire un controllo o un comando organizzato. Si tratta principalmente di un'accozzaglia di svitati, alcuni con motivazioni razziste, altri che odiano il governo, più un sacco di aspiranti soldati. Quasi tutti uomini, compresi nella fascia d'età tra i trenta e i quarant'anni.» «Siamo riusciti a infiltrarci in qualcuna delle cellule?» «Non è difficile. Basta andare a uno di quei fine settimana di wargames e portare il proprio fucile. L'unico problema è che, viste le piccole dimensioni delle cellule e la mancanza di coesione tra i gruppi, ci vorrebbero mille agenti in tuta mimetica e pittura sulla faccia per scoprirli tutti. Per la maggior parte, quelli nello Stato di Washington si accontentano di odiare il mondo e sparare alle sagome di cartone. Non sono poi così violenti.» A McCally sembrava quasi che l'agente volesse entrare a farne parte pure lui. «Fino a dove si spingono, con la violenza?» «La cosa più grave sono i giochetti con gli esplosivi. Rubare un fucile dall'armeria della Guardia nazionale equivale a farsi le ossa nella mafia. La considerano una cosa grossa. Di solito li becchiamo mentre se ne vantano al bar. Non sono certo cospiratori ben organizzati.» Dopo la tragedia di Oklahoma City, il governo aveva imparato che il lavoro d'intelligence contro questi gruppi era praticamente inutile. I personaggi più pericolosi spesso agivano da soli o con un paio di complici. Il primo sentore di qualche attività arrivava insieme con l'onda d'urto di un'esplosione. McCally rifletté per qualche istante, poi disse: «Non mi sembra il tipo di organizzazione che potrebbe mettersi a maneggiare armi di distruzione di massa».
«Stai pensando ad armi chimiche o biologiche?» chiese l'agente. «Lo escludo, a meno che non sia possibile produrle in un garage.» «Quello cui sto pensando non si può produrre in un garage», ribatté McCally. «Mi riferisco alle armi nucleari. Ricordi quel piccolo oggetto di plastica bianca... il dosimetro che abbiamo trovato in acqua dopo l'esplosione dell'aereo di Belden?» «Ho sentito dire che la Russia è diventata un grosso supermercato per armi nucleari. Ma dove potrebbero trovare i soldi? Costano una fortuna. Neppure l'Iran e l'Iraq sono stati in grado di...» «Per quanto ne sappiamo noi», tagliò corto il procuratore. «Ammettiamo che abbiano trovato un canale per procurarsi questo tipo di armi. A questo punto avrebbero bisogno di aiuto, di professionisti che sappiano come armarle e trasportarle.» «Questo spiegherebbe la presenza di Belden e Chaney», borbottò l'agente. «Ma dove troverebbero i soldi per una bomba e per pagare gente come Chaney e Belden?» «Una colletta. Hanno una rete. Truffe a base di assegni falsi, qualche piccola frode qui e là, vendita di obbligazioni inesistenti agli anziani delle campagne.» «Potrebbero arrivare a mettere insieme qualche centinaio di migliaia di dollari... un milione, a farla grossa. Qui stiamo parlando di parecchi milioni.» «Potrebbero avere un finanziatore occulto», osservò McCally. «Che vuoi dire?» «Se tu fossi Saddam Hussein e volessi prenderti una piccola rivincita, senza essere coinvolto in un tirassegno nucleare, che cosa faresti?» «Pensi a uno Stato nemico?» «Che opera nell'ombra. Mi vengono in mente almeno cinque o sei regimi che morirebbero dalla voglia di far saltare in aria una grossa città americana, specialmente potendo far ricadere la colpa su un gruppo di terroristi interni, e che potrebbero dare un piccolo contributo finanziario per rendere disponibile l'ordigno.» L'agente rifletté sulla cosa. «Potrebbero anche mettere a disposizione un piccolo aiuto tecnico», aggiunse McCally. «E all'improvviso il signor Belden e i suoi colleghi bussano alla tua porta, omaggio di Saddam o Muammar.» «Tu pensi che...?» «Non lo so», rispose il procuratore, «ma individui come Belden e Cha-
ney sono qui per un motivo preciso. È possibile che facciano parte del pacchetto, che siano 'inclusi' con un certo tipo di ordigno.» Per un attimo si limitarono a guardarsi, pensando alla domanda seguente, ma rifiutandosi di esprimerla a parole: l'ordigno era già arrivato? «I gruppi paramilitari su al nord sono collegati in qualche modo al gruppo sull'isola?» mormorò McCally. L'FBI e l'ATF avevano intercettato un nutrito contingente di uomini ben armati su una piccola isola privata nell'arcipelago di San Juan, a sud del confine col Canada. «Per quanto ne sappiamo noi, no», disse l'agente. «Il gruppo sull'isola viene dall'Idaho e dal Montana.» «Che ci fanno là?» «Non lo sappiamo, però sono armati fino ai denti. L'AFT ha individuato una gran quantità di armi e munizioni.» «C'è niente cui possiamo appigliarci per ottenere un mandato di perquisizione?» chiese McCally. «Non senza i marine.» L'agente inarcò le sopracciglia come per enfatizzare il suo ragionamento. «Non sappiamo se le armi siano legali. Abbiamo scattato qualche foto da lontano, ma non si riesce a vedere bene.» «Niente armi automatiche?» «Non abbiamo visto né udito raffiche.» Il possesso di armi automatiche era illegale senza una speciale licenza rilasciata dal governo federale. La presenza di quel tipo di armi poteva essere sufficiente già di per sé a ottenere un mandato di perquisizione. «Sono tenuti sotto sorveglianza ventiquattr'ore su ventiquattro?» L'agente annuì. McCally fece un sospiro profondo. Sapeva che quella gente si stava preparando a qualcosa, ma che cosa? Senza un mandato non poteva perquisire l'isola e senza Chaney non aveva nessuno da torchiare per ottenere informazioni. Non aveva intenzione di fare la figura dello stupido rivolgendosi ai servizi segreti, ma aveva preso una decisione: era ora di passare le informazioni ai suoi superiori del dipartimento della Giustizia. Che decidessero loro. «Ammettiamo che Chaney sia collegato a quei tipi sull'isola», disse McCally. «I gruppi paramilitari locali potrebbero aver fornito il supporto logistico, dando una mano a liberarlo.» «Questo dimostrerebbe molta più organizzazione di quanta ne abbiamo vista finora», obiettò l'agente.
«Supponiamo che si stiano preparando a qualcosa di molto, molto grosso», proseguì il procuratore. «I capi si sono ritirati sull'isola.» «Perché?» «Per starsene fuori della nostra portata, per evitare che noi c'infiltriamo e scopriamo qualcosa prima che quello che hanno in programma sia pronto.» «Perché volevano Chaney libero?» chiese l'agente. «Forse è fondamentale per il loro piano.» «E chi ha ucciso Belden?» «Non lo so», ammise McCally. «Forse Chaney. Ha fatto molta esperienza con gli esplosivi quand'era nell'esercito.» «Ma perché?» insistette l'agente. «Credi che abbia una sfera di cristallo?» L'agente, seduto su una delle poltroncine davanti alla scrivania di McCally, gettò la testa all'indietro e si mise a contare i pannelli del soffitto, in attesa che il procuratore terminasse di leggere il rapporto sull'evasione dal carcere. «E questo?» «Come?» L'agente abbassò lo sguardo su di lui. «Qui dice che quella non era la cella cui Chaney era stato assegnato.» «Già. Non è il colmo? Il personale della prigione lascia che si spostino dove vogliono all'interno del braccio. È come un albergo a cinque stelle, e il conto lo paghiamo noi.» «Chi è questo Čenko?» «È quell'altro, quello che è evaso con Chaney. Siamo stati fortunati che non permettono le ammucchiate, altrimenti ora ne staremmo cercando cinquanta, non due», osservò l'agente. «Neanche Čenko era nella propria cella», proseguì McCally. «Qui dice che era stato arrestato per ingresso illegale nel Paese.» L'agente si strinse nelle spalle come per dire: «E allora?» «Che sappiamo di lui?» McCally si tirò su a sedere di colpo sulla poltrona. «Niente più di quanto sta scritto sul rapporto.» L'altro lo guardò. «Ma non capisci?» «Che cosa?» «Perché mai Chaney dovrebbe rapinare una banca e accettare dall'impiegata una mazzetta-esca normalmente destinata agli handicappati mentali e poi, neanche un giorno dopo essere stato arrestato, fare amicizia in galera con un tizio che neppure parla inglese e che è entrato nel Paese illegalmen-
te?» L'agente si strinse nelle spalle. «Non lo so.» «Non era Chaney quello che volevano far uscire», disse McCally. «Portami tutto quello che riesci a trovare su questo Čenko. Se necessario, contatta le autorità di Mosca. Subito. Vedi se ha qualche precedente. E scopri che lavoro fa.» Friday Harbor, Stato di Washington Il fascicolo di George Hummel era scomparso. Joselyn, davanti al cassetto dello schedario aperto, stava passando in rassegna i documenti riguardanti gli altri pescatori. «Chi è George Hummel?» Gideon era dietro di lei e guardava da sopra la spalla. «È uno dei miei clienti. Sono cinque in tutto», rispose Joss. «Tutti pescatori locali con problemi di salute simili. Ero alla ricerca di qualche causa di origine industriale, qualcosa che spiegasse questi sintomi e fornisse le basi per una richiesta d'indennizzo.» Teneva in mano un referto medico. Era arrivato nel suo ufficio alla fine della settimana precedente, ma lei non aveva avuto il tempo di metterlo nel fascicolo né di chiamare Hummel. Lo aveva gettato in una vaschetta per la corrispondenza sulla scrivania. Evidentemente chi aveva messo sottosopra il suo ufficio non lo aveva visto. Ma il fascicolo di Hummel non c'era più. Come pure i fascicoli degli altri quattro pescatori. «Posso vederlo?» Gideon fece un cenno in direzione del foglio che lei teneva in mano e Joselyn glielo porse. Non era il momento di farsi scrupoli per il rispetto della privacy del suo cliente. L'uomo lo lesse velocemente e poi alzò lo sguardo. «Quand'è stata la prima volta che questi clienti sono venuti da lei?» Joselyn ci pensò per un attimo. «Non lo so. Forse due mesi fa.» Gideon guardò il referto, e lesse la breve descrizione sotto la dicitura SINTOMI: Iniziale nausea e vomito, anemia, rapida perdita dei capelli, sanguinamento intermittente e ripetuto delle gengive e delle mucose, periodi di forte sete. «Dove lavora questa gente?» «Sono pescatori. Alcuni hanno una barca di proprietà, altri lavorano come skipper su barche a noleggio.» «E lavorano tutti qui sull'isola?»
«Sì, che io sappia.» «Le barche dove vengono tenute?» «Sono ormeggiate in porto», rispose Joselyn. «Perché?» «I suoi clienti soffrono di avvelenamento da radiazioni», disse Gideon. «Com'è possibile?» «Non lo so. Non ha detto che questo Belden è spuntato dal nulla e che lei si chiedeva come mai avesse assunto proprio lei, come mai l'avesse scelta quando avrebbe potuto trovare un legale più esperto in diritto societario giù a Seattle?» «Già.» «Forse non voleva affatto un legale esperto in diritto societario», borbottò Gideon. «Forse era altro quello che lui cercava... informazioni su questi clienti. Forse voleva sapere se lei aveva scoperto la causa della loro malattia.» Joselyn rifletté. Le tornò in mente che, il giorno in cui si erano incontrati, Belden le aveva rivolto alcune domande. George Hummel si trovava lì nel suo ufficio e Belden lo aveva visto. Le aveva chiesto di lui, voleva sapere i dettagli. Un attimo dopo, i loro sguardi s'incrociarono. «Prendiamo il mio furgone», disse Gideon. «Ho l'attrezzatura a bordo.» Non aveva ancora finito di parlare che già stava correndo verso la porta, con Joselyn alle calcagna. 22 Washington, D.C. Il presidente avvicinò la penna al foglio e appose la propria sigla. Gli scatti ripetuti di un centinaio di macchine fotografiche echeggiarono come grilli all'interno dello Studio Ovale. Con un sorriso, porse la penna a uno dei delegati del Congresso dietro di lui, ne prese un'altra e ripeté l'operazione. L'ultima penna venne consegnata al ministro della Giustizia, che ringraziò educatamente il presidente e fece un passo indietro; a questo punto scoppiò l'applauso che spinse il presidente ad alzarsi con un gran sorriso e a stringere mani tutt'intorno. «Signore... Se ha un momento, quando abbiamo finito...» sussurrò Abe Charness, il ministro della Giustizia, all'orecchio del presidente. Questi gli rivolse un sorriso e un cenno di assenso. La piccola cerimonia era l'atto finale di un provvedimento legislativo
che in pratica non cambiava nulla, ma era stato presentato all'opinione pubblica come il punto nodale della riforma del finanziamento delle campagne elettorali. Avrebbe dato ai cittadini la gradevole sensazione che a Washington stava accadendo qualcosa di buono. In quel momento, i rilevamenti indicavano che il presidente era in vetta ai sondaggi, riscuotendo consensi per un'economia sulla quale non aveva praticamente controllo. Come politico, seguiva la prima regola della medicina, «non nuocere», accompagnandola con un sacco di sorrisi e vaghe promesse di nuovi programmi. Due dei suoi assistenti e un paio di uscieri della Casa Bianca radunarono la stampa verso la porta. Usciti i giornalisti, il presidente rimase un paio di minuti a scambiare due chiacchiere con alcuni membri del Congresso. Vennero scattate altre foto, mentre questi stringevano la mano al presidente davanti alla scrivania in legno di ciliegio intagliato a mano. Le avrebbero utilizzate nelle loro imminenti campagne elettorali. Poi l'ultimo membro del Congresso sorrise e se ne andò. Finalmente erano soli. «Siediti, Abe.» Il presidente si allentò la cravatta e si sbottonò il primo bottone della camicia. Era di nuovo nella «fase bombolone»: dalle ultime elezioni aveva messo su dieci chili. «Un giorno o l'altro mi piacerebbe avere uno schermo dorato», disse, «così da potermene stare sdraiato in pigiama come l'imperatrice madre e sussurrare gli ordini all'eunuco dall'altra parte.» «Lo schermo glielo posso anche far costruire, signor presidente, ma farmi tagliare l'uccello, quello proprio no.» Il presidente scoppiò a ridere. Ecco che cosa gli piaceva di Charness: quel poco di cerimonioso che c'era in lui aveva profonde radici nel rozzo terreno argilloso della Georgia. Erano entrambi figli del Sud, cresciuti in famiglie che tiravano avanti al limite della povertà. «Siediti, siediti», ripeté il presidente. Si accomodarono uno di fronte all'altro su due divani sistemati davanti al caminetto dove scoppiettava un bel fuoco. «Come stanno Jenny e i ragazzi?» chiese poi. I due non si vedevano da tre settimane. Charness era stato all'Aja per una conferenza, quindi aveva visitato parecchi Paesi europei per incontrare alcuni dei suoi colleghi d'oltreoceano. «Oh, stanno bene.» «Immagino che i ragazzi siano cresciuti.» «John è più alto di me», rispose Charness. «Ti fa capire quanto stiamo diventando vecchi.»
«Già.» «Allora, che cosa c'è che non va?» Il presidente aveva intuito che Charness era preoccupato per qualcosa. «Si tratta di uno dei miei assistenti... Jim Reed. Credo che lei lo conosca.» Il presidente inarcò un sopracciglio e rifletté per un secondo. «Un uomo alto, magro. Pochi capelli», disse Charness. «Ah, sì. Certo. L'hai portato a una riunione di gabinetto qualche mese fa.» «Già.» «C'è qualche problema?» «Non lo so. Pare che, mentre ero via, Jim sia stato assegnato a una squadra speciale. Nessuno in ufficio pare saperne granché e, quando ne ho parlato con lui, mi ha fatto capire che non poteva discutere della cosa.» «Che genere di squadra?» «Da quel che ho capito è stata autorizzata da lei», rispose Charness. Il presidente lo guardò con un'espressione sorpresa. Scosse la testa come se non sapesse che cosa pensare. «Credo che operi sotto la sigla ANSIR, ma non so che cosa significhi.» «Ah, quella!» esclamò il presidente. Di colpo si animò, sfoggiando un gran sorriso. «Non capivo di che cosa stessi parlando. Me n'ero totalmente dimenticato.» Charness lo guardò con espressione incuriosita. «Supponevo che ci dovesse essere qualche spiegazione, signore. Può immaginare la mia sorpresa quando Jim mi ha risposto che non era autorizzato a discuterne con me.» «Oh, non è nulla. Nulla», affermò il presidente. «Probabilmente la questione si risolverà nel giro di una settimana.» «Posso chiederle di che si tratta?» «Oh, uno dei tizi della sicurezza nazionale ha sottoposto un problema all'attenzione del suo capo. La cosa richiedeva un certo numero di verifiche, alcune di carattere legale. Ho pensato che i tuoi uomini sarebbero stati i più indicati per questo lavoro e così ho detto loro di scegliere chi volevano... e immagino che abbiano precettato Reed.» «Mi avrebbe fatto piacere ricevere una comunicazione in proposito, qualcosa», insistette Charness. Era preoccupato di difendere le sue posizioni, l'eterna battaglia di ogni burocrate. «Sì», ammise il presidente, «tuttavia ho preso persone da una decina di organismi e, se avessi dovuto informare tutti, la squadra avrebbe finito il
lavoro prima che le comunicazioni fossero arrivate a destinazione. Se Reed è troppo impegnato con questo incarico, dirò a quelli della sicurezza di lasciarlo libero e di cercarsi qualcun altro.» Fece per alzarsi dal divano. «No, no. Non è affatto necessario, signor presidente. Voglio dire, se lei ne ha bisogno, va benissimo. Non c'è problema. Possiamo arrangiarci.» Ciò che Charness realmente voleva era sapere che cosa stava succedendo. «Molto bene, allora.» Il presidente non aveva la minima intenzione di rivelarglielo. «Senti, dobbiamo vederci una sera, a cena, con le famiglie», propose. «Ci farebbe molto piacere», rispose Charness. Il presidente aveva cambiato argomento, e questo non faceva che aumentare la sua curiosità. Avrebbe dovuto spremere gli altri membri di gabinetto per avere chiarimenti e capire chi, del loro staff, era stato assegnato a questa ANSIR. «C'è altro?» chiese il presidente con un sorriso. Il ministro della Giustizia era proprio l'ultima persona che doveva ficcare il naso nella questione: già era a conoscenza del suo passo falso con Kolikov, dei soldi che aveva accettato da lui per la campagna elettorale e delle foto scattate davanti alla scrivania nello Studio Ovale. Conoscendo Kolikov, c'era da scommettere che quelle foto erano già state stampate su etichette per pubblicizzare vodka da quattro soldi in Russia. Charness guardò il pavimento e poi le mani, che teneva posate sulle ginocchia. Sperava che, se fosse rimasto lì abbastanza a lungo, il presidente avrebbe finito per dirgli perché stava utilizzando uno dei suoi assistenti. L'altro guardò l'orologio. «Tra mezz'ora devo essere a un ricevimento. Dio, come vorrei avere quello schermo. Sei proprio sicuro di non volerci ripensare?» Charness rise e si alzò dal divano. I due uomini andarono verso la porta, il presidente con una mano posata sulla spalla del ministro, per accertarsi che continuasse a muoversi in quella direzione. «Ah, un'altra cosa», aggiunse Charness, come se se ne fosse ricordato solo in quel momento. «Quale?» «Probabilmente non è niente d'importante, ma stamattina ho trovato sulla scrivania un rapporto dall'ufficio di Seattle. Pare che stiano svolgendo indagini su alcuni gruppi paramilitari nel Nord-ovest.» «Non è una novità.» Il presidente proseguì verso la porta, cercando di liberarsi di lui. «Questa volta potrebbe essere un po' diverso», borbottò Charness. «A
quanto pare, c'è motivo di credere che questa gente stia cercando di mettere le mani su alcune armi... Roba grossa, forse proveniente dalla ex Unione Sovietica.» L'accenno all'ex Unione Sovietica fece fermare di colpo il presidente, come se avesse davanti un semaforo rosso. Charness capì di avere tutta l'attenzione del suo capo. Finalmente c'era qualcosa che lui voleva sapere. «Come le ho detto, probabilmente non è niente d'importante.» «No, no. Dimmi.» «Non c'è molto da dire. Era un rapporto molto breve.» «E che cosa diceva?» L'altro fece una smorfia, come se stesse cercando di ricordare. «C'è un gruppo che si è ritirato su un'isola. Pare che sia armato fino ai denti come se stesse aspettando il secondo avvento di Cristo. Probabilmente è solo uno dei tanti gruppi di svitati. Purché non precipitiamo le cose e lo aspettiamo al varco, sono sicuro che non ci saranno problemi.» «C'è qualche pista russa?» chiese il presidente. «Non a livello governativo.» «No, non volevo dire quello. Hai detto che questo gruppo potrebbe cercare di ottenere armi dall'ex Unione Sovietica?» «Si, be'... Dalle nostre informazioni pare che alcuni individui coinvolti potrebbero essere professionisti.» «Di che armi stiamo parlando?» «Uno di questi, una specie di mercenario, è rimasto ucciso in un incidente avvenuto a bordo di un piccolo aereo. Tra i rottami hanno trovato un piccolo oggetto, un dosimetro.» Il presidente fece un'espressione come se quello non gli dicesse nulla. «È quella cosa che portano i radiologi, quell'affanno di plastica con dentro un pezzetto di carta che tengono appuntato sul bavero del camice per misurare le dosi di radiazioni», spiegò Charness. Il presidente annuì. «Come le ho detto, probabilmente non significa assolutamente nulla, ma, visto che la cosa è arrivata fino a me, ho pensato di riferirgliela.» «Forse sarebbe meglio che vedessi quel rapporto», disse il presidente. «Posso mandarlo all'Agenzia per la sicurezza nazionale», ribatté Charness. «Non voglio disturbarla oltre, signore.» «Potrebbe essere una buona idea. Ma perché non lo mandi qui per fax non appena arrivi nel tuo ufficio? Vorrei dargli un'occhiata prima di pas-
sarlo a loro.» «Certo. Se ritiene che sia importante...» Charness aprì la porta e proseguì, passando davanti al cubicolo occupato dalla segretaria del presidente. «Ah... Abe?» Il ministro si voltò. Il presidente, fermo sulla soglia, disse: «Fammi sapere se ci sono altre notizie al riguardo». Friday Harbor, Stato di Washington Era ormai buio. L'unica luce proveniva dai pochi lampioni che gettavano un alone giallo sulla foschia che si levava dalle acque immobili di Friday Harbor. Il molo d'attracco del traghetto era vuoto. L'ultima corsa non sarebbe arrivata prima di un'ora. Negli ultimi dieci anni, i pescatori professionisti erano stati decimati dalla scarsità dei banchi di salmoni e dalle grosse navi fattoria che incrociavano al largo della costa. Le poche barche da pesca rimaste erano attraccate ai moli più esterni, oltre le imbarcazioni da diporto coi loro paraonde di tela a colori vivaci e gli scafi in lucida vetroresina. Gideon parcheggiò il furgone in fondo a Front Street, sull'altro lato della strada rispetto a un piccolo edificio con un'insegna che diceva: PORTO DI FRIDAY HARBOR. L'edificio era al buio, tranne che per una luce accesa sopra l'ingresso. «Queste barche da pesca che appartengono ai suoi clienti... Ha idea di dove siano ormeggiate?» «Più o meno», rispose Joselyn e fece per aprire la portiera. «Lasci che vada io.» «Perché lei?» chiese Joselyn. «Perché potrebbe essere pericoloso.» Gideon scese velocemente dal veicolo e gli girò intorno. «Che cosa pensa di trovare laggiù?» chiese Joselyn. «Non lo so. Non posso esserne certo.» «Però un'idea ce l'ha.» «È basata solo sulle informazioni che ho raccolto in Russia.» Joselyn lo guardò, sempre in attesa di una risposta. «Potrebbe trattarsi di vecchi ordigni nucleari», chiarì lui. «Se ho visto giusto, risalgono agli inizi degli anni '60. Queste armi possono essere molto pericolose.» «Intende dire che possono esplodere?»
«Non è questo che mi preoccupa...» Gideon sapeva che se un gruppo determinato a compiere un atto di terrorismo si fosse preso la briga di far entrare illegalmente negli Stati Uniti ordigni nucleari non li avrebbe di certo sprecati su un'isola sperduta del Puget Sound. Dovevano avere in mente un obiettivo più importante. La domanda era: quale? «Quello che mi preoccupa», riprese, «è l'ossidazione. Quando viene a contatto con l'aria, la superficie esposta del plutonio diventa una polvere finissima altamente radioattiva. Può essere molto pericolosa.» «E lei ha intenzione di andare laggiù.» «So che cosa cercare. Inoltre prenderò le opportune precauzioni.» Aprì il portellone scorrevole del furgone. Se l'era fatto prestare da un amico che lavorava nel laboratorio radiologico dell'università di Washington, un tizio che aveva conosciuto parecchi anni prima. Con le informazioni raccolte a Sverdlovsk, sapeva che avrebbe potuto aver bisogno di quell'attrezzatura e lui era l'unico nella zona che potesse fornirgliela. All'interno si trovavano grandi scatole di metallo; appesa a un gancio, c'erano una tuta gialla con un cappuccio e quello che sembrava un respiratore attaccato alla visiera trasparente. «Ne ho solo una, di queste», spiegò, indicando la tuta. «Inoltre, se dovessi trovarmi nei guai, ho bisogno di qualcuno qui sul molo che chiami aiuto.» Joselyn guardò le scatole e la tuta dentro il furgone. Non era entusiasta, ma quello che lui diceva aveva un senso. «La accompagnerò fino al cancello del molo», disse infine. «Voglio avvicinarmi il più possibile.» «Io voglio che lei resti al sicuro.» «Non posso aiutarla, se non la vedo.» Gideon acconsentì. Aprì una delle scatole, tirandone fuori una torcia elettrica e un altro piccolo strumento. Istintivamente Joselyn capì di che cosa si trattava, anche se non ne aveva mai visto uno da vicino: un contatore Geiger. Lui se lo mise a tracolla, afferrò la tuta dal gancio e richiuse il portellone, quindi si avviò verso il molo. «E la tuta?» chiese lei. «Non se la mette?» «Non ancora», rispose Gideon, mentre attraversava la strada. Washington, D.C. Era quasi l'una del mattino quando Sy Hirshberg arrivò alla guardiola della sicurezza che sorvegliava l'accesso all'ala ovest della Casa Bianca.
L'agente in uniforme del servizio segreto gli fece segno di passare. Hirshberg parcheggiò e si diresse a passi veloci verso l'ingresso. Anche a notte fonda c'erano alcune luci accese. L'ala ovest non chiudeva mai completamente. Hirshberg non si fermò al suo ufficio, ma proseguì verso l'angolo sudorientale del pianoterra. Un agente del servizio segreto uscì dall'ombra di una stanza proprio davanti allo Studio Ovale. Riconobbe Hirshberg, lo salutò, ma non si mosse finché non ebbe controllato un foglio che riportava tutti gli appuntamenti del presidente: il presidente in persona aveva autorizzato la visita un'ora prima. L'agente bussò alla porta dello Studio Ovale. «Sì.» Il tono di voce del presidente non faceva presagire niente di buono. Hirshberg aveva capito che tirava aria di crisi quando il presidente in persona lo aveva chiamato a casa dopo mezzanotte. Di qualsiasi cosa si trattasse, era una faccenda importante e probabilmente spinosa. «Signor presidente...» «Sy! Sono felice che lei sia qui.» L'agente si ritirò e richiuse la porta. Hirshberg si aspettava di trovare nello Studio Ovale almeno una decina di persone, consiglieri ad alto livello, tutti sintonizzati sulla lunghezza d'onda di una crisi. Invece il presidente era solo, seduto davanti al fuoco, intento a leggere documenti e a prendere appunti su piccoli Post-it. «Che succede, signor presidente?» «È sorto un problema. Un grosso problema.» Senza alzare lo sguardo, il presidente prese un foglio dalla pila di documenti posata sull'altra estremità del divano. Hirshberg attraversò la stanza, lo prese e lo lesse. Non ci mise molto. «Quello che voglio sapere», proseguì il presidente, «è perché devo scoprirlo da solo. Avete una squadra di persone, tutte le risorse dei servizi segreti, dell'esercito e delle forze dell'ordine, e io devo scoprire da solo che c'è un gruppo di pazzi barricato su un'isola nello Stato di Washington che sta cercando di procurarsi delle bombe atomiche.» «Da chi l'ha avuto?» chiese Hirshberg. «Dal ministro della Giustizia. Pare che avessero un'indagine in corso a Seattle da qualche settimana: era partita dall'informazione che un locale gruppo paramilitare stava cercando di ottenere un'arma di distruzione di massa e che elementi criminali in Russia stavano cercando di esaudire la loro richiesta.»
Il presidente aveva una pila di documenti posata in grembo. «Trascrizioni del gran giurì», spiegò a Hirshberg. «Una lettura davvero interessante. Peccato che i vari organismi esecutivi non si scambino informazioni. Ed è stata una fortuna che per caso oggi io mi sia incontrato col ministro della Giustizia.» Hirshberg si morse il labbro. Avrebbe voluto difendersi, dire al suo capo che se lui non fosse stato così impegnato a far sparire le tracce dell'imbarazzante coinvolgimento con Kolikov, il gabinetto sarebbe stato allertato. Il dipartimento della Giustizia, attraverso il ministro, sarebbe venuto a conoscenza dell'affondamento della nave russa al largo delle coste dello Stato di Washington, del sospetto che questa potesse trasportare una o più armi, e senza dubbio avrebbero collegato tutto questo alle informazioni raccolte dall'inchiesta del gran giurì. Hirshberg guardò la data del rapporto. Avevano perso tempo prezioso. «Voglio che metta al lavoro i suoi uomini su queste», disse il presidente. Sollevò le voluminose trascrizioni in modo che Hirshberg potesse prenderle, e alcuni fogli finirono a terra. «Significa che possiamo uscire allo scoperto e coinvolgere altri organismi a livello statale?» «Assolutamente no», rispose il presidente. «Voglio che lei legga questa roba prima di domani mattina. Chiami tutti i membri della Squadra anticrimine di cui ha bisogno. Voglio essere informato, qui, domani mattina alle otto. Voglio sapere se il nome di Kolikov compare su queste trascrizioni. Intesi?» Hirshberg era allibito. Si trovavano davanti alla possibilità che un ordigno nucleare fosse a spasso per gli Stati Uniti e la prima preoccupazione del presidente era se questo fatto potesse condurre a uno scandalo politico all'interno della Casa Bianca. «Signor presidente, credo che si debbano coinvolgere le autorità civili del caso. C'è un protocollo stabilito proprio per questo tipo di situazione.» «No.» Il presidente lanciò a Hirshberg un'occhiata intensa attraverso gli occhi socchiusi. «Ma, signor presidente, sapendo quello che sappiamo, ci sono buone possibilità che queste gente sia in possesso di...» «Ho detto di no. Non voglio che questa cosa venga sbattuta su tutte le prime pagine dei giornali e trasmessa ogni mezz'ora dalla CNN. Non sappiamo niente di certo, se non che il dipartimento della Giustizia ha in corso un'indagine sulla costa ovest che può portare a qualcosa. È ancora tutto da
verificare.» «Signor presidente, sappiamo che i rottami recuperati della nave russa erano altamente radioattivi, sappiamo che la nave è affondata al largo dello Stato di Washington. Sappiamo da fonti russe che c'è stato un enorme scambio di messaggi radio tra questo deposito in Siberia e Mosca. E ora questo.» Hirshberg lanciò un'occhiata alle risme di carta che lo appesantivano. «Possiamo ragionevolmente affermare che esiste motivo di grave preoccupazione. È indispensabile fare qualcosa, almeno scoprire che cosa sta facendo questo gruppo paramilitare sull'isola.» «Crede che l'ordigno possa trovarsi lì?» «È una possibilità.» «Abbiamo bisogno di una mappa.» Il presidente si alzò dal divano, afferrò il telefono e compose il numero della sala operativa. «Chi è l'ufficiale di turno stanotte?» disse nel ricevitore e attese qualche istante. Poi: «Monagan, parla il presidente. Portami una cartina. Sono nello Studio Ovale. Mi serve la zona intorno al North Puget Sound nello Stato di Washington. C'è un'isola». Fece schioccare le dita due volte e indicò le carte che Hirshberg teneva tra le braccia, le trascrizioni del gran giurì, poi coprì il ricevitore con la mano e chiese: «Qual è il nome dell'isola? È sulle trascrizioni. L'ho segnato con una striscetta autoadesiva viola sul margine della pagina». Hirshberg sfogliò la pila di carta finché non trovò il segno. «Padget», annunciò. «Un posto che si chiama Padget Island», disse il presidente. «Trovami tutto quello che puoi e portamelo qui entro cinque minuti.» Riattaccò e tornò al divano. «Dobbiamo stare molto attenti, Sy», borbottò. «Non voglio farmi cogliere alla sprovvista. Non siamo neppure sicuri che ci sia un ordigno.» Il presidente era nella fase di negazione. «Secondo il laboratorio di Oak Ridge, il livello di contaminazione rilevato sui rottami della nave russa era così alto da illuminare il naso di Boris Eltsin per i prossimi mille anni», osservò Hirshberg. Era un fatto difficile da ignorare. Il presidente abbassò lo sguardo e trasse un sospiro lungo e profondo. «Va bene. Metteremo l'isola sotto sorveglianza.» «Osservarla coi binocoli non basterà a rivelarci che cosa sta succedendo», obiettò Hirshberg. «Che cosa suggerisce?» «Dobbiamo far arrivare qualcuno sull'isola. Farci arrivare occhi e orec-
chie.» «Non voglio sparatorie... Un'altra Waco o un altro massacro come quello di Ruby Ridge...» «Capisco», lo interruppe Hirshberg, «ma, se non ci muoviamo adesso e loro hanno un ordigno e lo spostano altrove...» Non c'era bisogno che terminasse la frase. Per anni avevano temuto che individui come Saddam Hussein o il colonnello Gheddafi riuscissero a mettere le mani su armi di distruzione di massa. Sarebbe bastato far arrivare un ordigno nucleare su una nave da carico a Seattle o, ancora meglio, su per l'East River e attraccarla davanti al palazzo dell'ONU per distruggere mezza città e allo stesso tempo decapitare le Nazioni Unite. Un messaggio del genere avrebbe avuto un impatto incalcolabile sulla politica mondiale e sulla volontà delle nazioni di formare un fronte compatto. Arrivarono le mappe e un giovane marine le distese sulla scrivania. Il presidente lo ringraziò e il soldato uscì dalla stanza. Poi Hirshberg e lui esaminarono la cartina e alla fine trovarono Padget Island. «Non è molto grande», commentò il presidente. La mappa non riportava né edifici né strade. «Potremmo organizzare una sorveglianza aerea, scattare foto coi satelliti.» «Non ci servirebbe a niente. Se l'ordigno si trova sull'isola, probabilmente è molto piccolo. È improbabile che riusciamo a vedere qualcosa. E poi ci vorrebbe del tempo, cosa che non abbiamo. Se davvero la bomba è lì, dobbiamo avere una conferma al più presto e isolare la zona il più velocemente possibile.» «E allora che facciamo?» «Io suggerirei d'inviare un piccolo contingente, magari una squadra di SEAL», rispose Hirshberg. «Le facciamo installare dispositivi d'ascolto e telecamere e poi la portiamo via. Un'incursione veloce, dentro e fuori. Fatto nella maniera giusta, quelli sull'isola non si accorgeranno mai che siamo stati là. E noi sapremo che cosa diavolo sta succedendo.» Il presidente aveva un'espressione cupa. Se fosse scoppiata una sparatoria sull'isola, già vedeva le troupe televisive a bordo degli yacht, armate di telecamere e intente a riprendere dal vivo per la CNN e le altre reti. La situazione poteva sfuggirgli rapidamente di mano. Il Congresso avrebbe cominciato a fare domande e in men che non si dica sarebbe saltato fuori il nome di Kolikov in relazione a una bomba atomica. Vista la mancanza di alternative, però, non aveva scelta.
«Non voglio passare attraverso lo stato maggiore», disse il presidente. «Ci manca solo una storia di ordigni nucleari a spasso per il Paese e il Pentagono la sfrutterà subito col Congresso per far cancellare i tagli al budget.» L'amministrazione aveva passato gli ultimi quattro anni a ridurre i fondi per la difesa e a chiudere le basi in giro per il mondo. Dopo il collasso dell'Unione Sovietica, i militari erano stati costretti a starsene in panchina e sopportare in silenzio, ma c'erano alcuni pezzi grossi dello stato maggiore che non si sarebbero lasciati sfuggire l'occasione di criticare l'amministrazione per la mancanza di prontezza nell'agire. Se ne avessero avuto l'opportunità, avrebbero servito il presidente in pasto alla stampa su un piatto d'argento. «Questa incursione sull'isola.... Puoi organizzarla attraverso il tuo rappresentante della marina nella squadra ANSIR?» A Hirshberg la cosa non piaceva. I timori del presidente per uno scandalo politico stavano influenzando la politica militare. E se ci fosse stata una sparatoria? E se le cose si fossero messe male e qualche SEAL fosse stato ucciso? I vertici militari del Pentagono si sarebbero indignati, e con ragione. «Quell'uomo è soltanto un capitano di vascello», gli fece notare. «Non c'è problema. Gli conferirò tutta l'autorità che gli serve.» «Avremo bisogno della collaborazione dei SEAL giù a Coronado. La squadra uno.» «Si può organizzare.» Il presidente lo aveva messo con le spalle al muro. Hirshberg sapeva che era una follia, ma o si saltava la normale catena di comando o non se ne faceva nulla. Doveva scoprire in fretta se gli ordigni si trovavano nel Paese e, in caso affermativo, dove. «Se vogliamo farlo, è necessario infiltrarsi sull'isola e installare un sistema di sorveglianza entro ventiquattr'ore», disse Hirshberg. «E non so se saranno pronti.» «Lasci che me ne occupi io», ribatté il presidente. Avevano pochissimo tempo. Se davvero c'era un ordigno e il gruppo paramilitare avesse avuto il tempo di spostarlo, le probabilità di ritrovarlo erano davvero scarse. Il presidente lo guardò con espressione riluttante, trasse un altro sospiro profondo e annuì. «Allora siamo d'accordo. Ventiquattr'ore.» 23
Friday Harbor, Stato di Washington L'aria umida della notte s'insinuava attraverso i vestiti di Joselyn e la gelava fino alle ossa, mentre Gideon e lei procedevano in direzione del cancello da cui si accedeva ai pontili galleggianti del porto di Friday Harbor. Gideon teneva d'occhio l'indicatore del contatore Geiger, in attesa di udire il ticchettio che avrebbe segnalato il pericolo. Fino a quel momento, l'apparecchio rilevava solo deboli radiazioni di fondo, niente che indicasse la presenza di materiale fissile. Giunti al cancello, Gideon la trattenne. «Voglio che lei resti qui.» «Le barche sono laggiù», disse Joselyn, indicando un punto lontano nel buio. «Lei non sa che cosa cercare.» Gli aveva dato i nomi delle imbarcazioni e un'indicazione sommaria di dov'erano ormeggiate. Le avrebbe trovate insieme con le barche da pesca commerciali e quelle da diporto, verso il fondo. «È troppo pericoloso», replicò Gideon, irremovibile. «Questo è compito mio. Sul furgone c'è un telefono cellulare. Se non sono di ritorno entro dieci minuti, chiami questo numero.» Prese un biglietto da visita dalla tasca e fece un cerchio con la penna intorno a un numero telefonico. «È una linea speciale, attiva ventiquattr'ore su ventiquattro. Faccia il mio nome. Spieghi quello che sappiamo dei pescatori malati e delle loro barche. Sapranno che cosa fare. Poi chiami la polizia e faccia isolare il porto. Dica di non far passare nessuno e di aspettare gli aiuti.» «Ma per allora lei sarà di ritorno», disse Joselyn. «Forse.» Il modo in cui lo disse le fece pensare che avrebbe anche potuto non rivederlo più. Il pericolo era maggiore di quanto lui volesse ammettere. «Se bisogna aspettare che la gente dell'Istituto arrivi quassù dalla California potrebbero volerci ore», obiettò Joselyn. «Si fidi. Loro sapranno chi contattare qui, in zona.» «Non sarebbe meglio che venisse lo sceriffo a prenderla?» «No. Faccia come le dico. Per favore.» «Lo farò.» «Se non torno subito indietro potrebbe essere perché non voglio diffondere ulteriormente la contaminazione. Non si preoccupi. Mi allontanerò dalla sorgente radioattiva e aspetterò gli aiuti. Nessuno dovrà entrare nel molo né uscirne finché non arriva la squadra di decontaminazione. Intesi?»
«Sì.» «Bene.» Accese la torcia e la controllò, poi si voltò verso la donna. «Se non ci sono guai, tornerò il prima possibile.» Scese la rampa che portava agli ormeggi, inoltrandosi nel porto. Teneva in mano l'elenco coi nomi delle barche che Joselyn aveva scritto a matita su un pezzetto di carta trovato a bordo del furgone mentre stavano andando lì: Martha's Desire, Skip Jack e Float Me a Loan. Joselyn rimase a guardare Gideon mentre scompariva nell'oscurità, oltre il raggio del lampione al neon fissato al palo della luce elettrica. Quando non riuscì più a vederlo, cominciò a camminare avanti e indietro sul molo, stringendosi le braccia al petto per proteggersi dall'aria fredda e umida della notte. Ogni volta che tornava al punto di partenza, cercava di scorgere Gideon tra la foresta di alberi e la distesa di barche. Era passato meno di un minuto da quando lui si era allontanato dal cancello e già le sembrava un'eternità. Guardò il furgone parcheggiato accanto al marciapiede e cercò di ricordare se avevano lasciato la portiera aperta. In caso contrario, avrebbe dovuto cercare un telefono pubblico. Guardò di nuovo l'orologio. Temeva che lui si perdesse nel labirinto di pontili galleggianti. Si chiese perché mai non avesse indossato l'indumento protettivo prima di allontanarsi. Cercò di trarre conforto dalla certezza che Gideon sapeva che cosa stava facendo. Inoltre, se ci fosse stato qualcosa laggiù, il contatore Geiger ne avrebbe rivelato la presenza. A quel punto, se ci fossero state radiazioni, lo strumento avrebbe dovuto già avvertirle. Attese ancora qualche secondo, poi guardò verso il furgone. Controllò l'orologio. Erano passati tre minuti. Non si sentiva nulla, a parte lo scricchiolio dei pontili, il gemito delle funi di ormeggio e, di tanto in tanto, un rumore metallico o il rintocco di una piccola campana in lontananza mentre le barche dondolavano ai loro attracchi. I pontili formavano un labirinto di vicoli senza sbocco che si protendevano sull'acqua. Ancorati a vecchi piloni di legno, si alzavano e si abbassavano col movimento delle onde. Un debole chiarore proveniva dalle poche barche che fungevano da abitazione, sulle quali la gente viveva tutto l'anno, ma, per la maggior parte, i pontili galleggianti erano avvolti dall'oscurità. Il raggio della torcia elettrica di Gideon aveva cominciato a tremolare;
forse le batterie erano quasi esaurite. Si fermò a controllare il contatore Geiger: segnava ancora deboli valori di radiazione di fondo. Cercò di orientarsi e si chiese se non avesse sbagliato strada quando aveva svoltato a una delle intersezioni. Era perso in un mare di alberi altissimi di barche a vela e grandi, lussuose imbarcazioni, alcune lunghe quasi venti metri. La maggior parte delle barche era buia, però lui sentiva, in lontananza, la voce di qualche televisore e vedeva alcune fioche luci. Sapere di non trovarsi completamente solo gli dava un senso di sicurezza. Si voltò a guardare l'edificio delle autorità portuali. Dal punto in cui si trovava, dietro una fila di barche, non riusciva a scorgere il cancello dove aveva lasciato Joselyn, ma distingueva l'alone di luce proiettato dal lampione. Guardò l'orologio. Aveva sei minuti per trovare le barche o per tornare prima che lei chiamasse l'Istituto. Picchiò la torcia contro uno dei piloni e la luce parve stabilizzarsi. Si gettò la tuta di neoprene gialla sulla spalla libera. L'avrebbe indossata solo se costretto. La visiera del cappuccio limitava la visibilità e, sotto sforzo, si sarebbe velocemente appannata. Se fosse caduto dal pontile nel buio, inoltre, la tuta si sarebbe subito riempita d'acqua, trascinandolo a fondo. Gideon proseguì più in fretta che poté, contando le barche, sforzandosi di vedere in lontananza. Quando arrivò alla numero diciotto, il raggio della torcia improvvisamente colpì l'acqua. Era arrivato in fondo. Non c'erano barche da pesca ormeggiate su quel pontile, e comunque nessun nome delle barche corrispondeva a quelli della lista. Doveva tornare indietro. Guardò l'orologio. Ancora cinque minuti. Niente sul contatore Geiger. Gideon cominciò a correre, scavalcando i cavi di alimentazione elettrica che servivano a riscaldare le barche durante l'inverno. Correndo come un pazzo, e superando con un salto gli spazi tra le sezioni galleggianti, in meno di un minuto si trovò all'incrocio col pontile principale. Ora, voltandosi, riusciva a vedere Joselyn. Era ancora vicina al cancello, ma camminava su e giù senza guardare nella sua direzione. Cercò di attirare la sua attenzione con la torcia ma la luce era sempre più bassa: le batterie stavano velocemente rendendo l'anima. La spense per risparmiare energia, quindi guardò nella direzione opposta, verso l'oscurità. I pontili sembravano estendersi all'infinito e venivano inghiottiti dal buio. Le luci delle case di Brown Island, lontane, minuscole e ammiccanti nella notte fredda, parevano stelle in cielo.
Per un attimo esitò, chiedendosi se non fosse più saggio tornare da Joselyn. Poteva prendere altre pile per la torcia e dirle che aveva bisogno di più tempo. Ma questo pensiero morì nel momento in cui spostò la tracolla del contatore Geiger da una spalla all'altra. Nell'istante in cui non fu più schermato dal suo corpo, lo strumento cominciò improvvisamente a produrre un ticchettio lento e ritmico. Il segnale proveniva da qualche parte nel buio verso la testa del pontile. Ormai Joselyn era congelata. Continuava a guardare l'orologio. Se non fosse tornato entro quattro minuti, avrebbe fatto quella telefonata. Dava per scontato che Gideon controllasse l'orologio, che sapesse quanto tempo era trascorso e che, se non aveva trovato niente, tornasse prima dello scadere dei dieci minuti. Ma era solo un'ipotesi e lei lo sapeva. Si voltò verso il cancello che portava alla rampa e si mise a giocherellare col chiavistello. Doveva raggiungerlo? Esitò. Lui le aveva detto di aspettare. Quell'olandese allampanato sembrava sapere il fatto suo. Se fosse andata da lui, avrebbe finito col mettere in pericolo entrambi. Però era combattuta. Voleva aiutarlo, ma non poteva. Ogni minuto che passava era sempre più arrabbiata con se stessa. Perché non aveva capito che tipo fosse Belden? Rientrava in quel tipo d'uomo che ogni donna dovrebbe essere in grado di leggere come un libro aperto: pieno di malizie, pieno di sé, pieno di bugie. Dio solo sapeva quanti clienti come lui aveva avuto nel corso degli anni. Avrebbe dovuto accorgersene subito: Belden era troppo bello per essere vero. Di colpo, Joselyn si rese conto di che cosa le piaceva tanto in quell'olandese. Lo conosceva da poco più di ventiquattr'ore eppure la differenza tra lui e Belden era come tra il giorno e la notte. Gideon van Ry era l'antitesi di Dean Belden: sicuro di sé senza essere arrogante. Si prendeva la briga di spiegarle quello che stava facendo e perché. Non le diceva che cosa doveva fare e non cercava di manovrarla come molti uomini; al contrario, s'impegnava a farla ragionare con calma e persuasione, facendo ricorso a una logica irrefutabile. Non era tanto il suo aspetto a farle desiderare all'improvviso che lui fosse lì sul molo, accanto a lei, quanto il modo in cui la trattava. Si sforzò di vedere il raggio della torcia muoversi sui pontili. «Ma dov'è?» Senza riflettere pronunciò le parole a voce alta e udì l'eco della propria voce rimbalzare contro le pareti di legno dell'edificio dell'autorità portuale. Un attimo dopo, le giunse alle orecchie un altro rumore: ricorda-
va quello dei passi sulla ghiaia. Si voltò e guardò verso l'edificio, ma non riuscì a vedere nulla. Lei era immersa nella luce del lampione, mentre l'edificio era avvolto dall'oscurità. Si schermò gli occhi con una mano, ma anche così non vide niente. «Ehi?» gridò. Attese un istante. «C'è qualcuno laggiù?» Non rispose nessuno. Si sentiva una bambina al buio: l'immaginazione le giocava brutti scherzi. Si girò per l'ennesima volta verso il molo alla ricerca di Gideon. Lui era laggiù, da qualche parte. Guardò l'orologio: ancora due minuti e poi avrebbe fatto quella telefonata. L'indicatore d'intensità sul contatore Geiger produceva un ticchettio costante, che diventava sempre più forte e più rapido man mano che Gideon procedeva verso la testa del pontile. C'erano agili e scintillanti motoscafi da diporto, Grand Bank e Island Gypsy, e un grosso Ocean Alexander, che riposava attraccato al pontile come la Queen Mary. C'erano yacht privati che lui non avrebbe mai potuto neppure sognare di possedere. Più avanti, le barche da diporto lasciavano il posto a piccole imbarcazioni, barche da lavoro con scafi di legno macchiati dalla ruggine che colava dalle vecchie attrezzature di bordo. Lì la superficie del pontile non era più in cemento ma in legno, con tavole che in alcuni punti erano spaccate e macchiate d'olio. Non c'erano più cavi elettrici ordinatamente avvolti, perché quelle barche non venivano riscaldate elettricamente. La maggior parte delle imbarcazioni era piccola, al di sotto dei quindici metri, alcune avevano la timoneria all'aperto e grandi casse per l'esca viva fissate al centro della coperta verso poppa. Ora l'indicatore del contatore Geiger registrava un flusso praticamente costante di radiazioni ionizzanti. Gideon dovette abbassare il volume del segnalatore per riuscire a pensare. Non correva grossi pericoli, almeno per il momento. Erano tre gli elementi principali di difesa: il tempo, la distanza, la schermatura. Aveva la tuta protettiva che gli avrebbe fornito la schermatura necessaria in caso di bisogno, quindi adesso doveva quantificare gli altri due: tempo e distanza. Guardando l'indicatore del contatore Geiger, Gideon calcolò che non avrebbe potuto passare più di quattro, forse cinque minuti in quell'area. Le radiazioni sembravano farsi più intense a mano a mano che lui procedeva verso la testa del pontile. Anche al buio, ormai riusciva a vedere le ultime quattro barche, ciascuna saldamente ormeggiata al suo posto. Tra-
sversalmente alla testa del pontile, come a formare una T, era attraccato un grosso peschereccio, un'imbarcazione con lo scafo in acciaio che Gideon valutò intorno ai diciotto-venti metri di lunghezza. La sua attenzione venne attratta dalla prima imbarcazione alla sua destra. Era ormeggiata di poppa, ben fissata con una grossa cima. Sulla poppa c'era scritto a lettere nere: Float Me a Loan. Gideon si voltò e lanciò uno sguardo veloce alla barca nell'ormeggio di fronte: era la Martha's Desire. E, accanto a questa, una piccola imbarcazione lunga non più di sette metri, col nome Skip Jack scritto sulla prua. A quel punto il ticchettio del contatore Geiger si era fatto incessante, con l'indicatore che raggiungeva il fondo scala quando Gideon lo puntava verso le assi del pontile. C'erano tracce significative di contaminazione radioattiva sulla superficie di legno. Gideon sapeva che i livelli di radiazioni rilevati dal contatore non potevano venire soltanto dal plutonio. Ci doveva essere qualcos'altro, qualcosa che emetteva livelli letali di radiazioni e che aumentava la pericolosità dell'ordigno. Non aveva nessuna voglia di restare lì a lungo. Puntò lo strumento verso la poppa della Float Me a Loan. Rimase sorpreso quando lo strumento non indicò un aumento di livello. Poi si spostò lungo la passerella di fianco alla barca e il livello addirittura diminuì. Tornò verso il centro del pontile e batté la torcia per terra cercando di farla accendere per leggere l'indicatore. Riuscì a ottenere un debole raggio di luce e si spostò verso le altre due barche. Nessuna sembrava far registrare valori più alti, neanche quando lui si spostò sulla passerella tra le due. Ma poi l'ago dell'indicatore ebbe un picco quando, tornato sul pontile, Gideon mosse qualche passo verso la testa. Alzò lo sguardo. Davanti a lui si trovava il grosso peschereccio, con le lettere del nome sbiadite e scrostate sullo scafo di metallo: Dancing Lady. Joselyn stava morendo di freddo. Si era messo a piovigginare e lei aveva cercato riparo sotto lo spiovente dell'ufficio postale. Si sforzava di scorgere Gideon sul molo, ma non vedeva altro che una foresta di alberi di alluminio ondeggianti nella brezza che rinforzava, le sartie che sbattevano contro il metallo mentre le barche oscillavano. Aveva abitato lì abbastanza a lungo da conoscere l'isola: si stava avvicinando un fronte temporalesco. Guardò l'orologio. Erano passati dodici minuti. Gli aveva già dato due minuti in più. Pregò che tornasse, pregò di non dover fare quella telefonata. Avrebbe voluto gridare per richiamarlo indietro.
Joselyn stava cominciando a provare un incredibile senso di colpa. Non aveva avuto modo di accorgersi che Belden era coinvolto nel traffico di armi nucleari, però gli aveva permesso di usare il suo nome e l'indirizzo del suo studio e in questo modo Gideon era stato attirato nella ragnatela di Belden. Qualsiasi cosa si trovasse là su quel pontile era colpa sua: era stata lei, con la sua stupidità e la sua avidità, a portarlo a Friday Harbor. Guardò l'ora un'ultima volta, poi con riluttanza si diresse verso il furgone. Si voltò ancora una volta, nella speranza di vederlo arrivare. Avvertiva un profondo rammarico. Gli do ancora un minuto, pensò. E quando tornerà gli dirò quello che penso. Non aveva diritto di mettere in pericolo la propria vita in quel modo. C'erano persone pagate per fare queste cose, persone che lavoravano per il governo. Questo pensiero le era appena passato per la mente che subito si pentì di averlo formulato. Aveva pensato a quegli individui come se non avessero identità, e invece erano uomini e donne che facevano un lavoro pericoloso per proteggere il resto della nazione. Avevano una famiglia, amici che stavano in pena per loro e che li amavano. Sentiva il cuore batterle all'impazzata, rimbombando in gola e nelle orecchie. Le sue percezioni sensoriali erano attutite dai sentimenti che si agitavano dentro di lei. Fu così che non sì accorse del movimento nell'oscurità dietro di lei, a pochi centimetri dalle sue spalle, oltre l'angolo dell'edificio. Gideon scavalcò il parapetto e salì sul ponte della Dancing Lady. Un enorme rotolo di rete occupava la coperta di poppa e due grossi bracci di carico svettavano sopra di lui, aprendosi sui lati dell'imbarcazione. L'indicatore del contatore Geiger ebbe un picco quando Gideon avanzò verso la timoneria. Mosse altri due passi verso la zona del castello di prua, sempre tenendo d'occhio l'indicatore, che riportava valori di radioattività stabilmente elevati. Il ticchettio era rapido, continuo e molto forte, nonostante il volume abbassato. Su quella parte del ponte era accaduto qualcosa che l'aveva trasformato in una zona calda. Se l'ordigno aveva un nucleo di berillio-polonio, le radiazioni rilevate a bordo dell'imbarcazione dovevano provenire da qualcos'altro. In quella bomba doveva esserci anche dell'altro. Arretrò, spense la torcia e la posò sul ponte, quindi cominciò a indossare la tuta protettiva. Era tagliata in vita: Gideon infilò i pantaloni, poi tirò su la parte superiore e introdusse le braccia nelle maniche. Dopo essersela ben sistemata sulle spalle, tirò su la cerniera fino al collo, quindi indossò il
cappuccio, sigillandolo con le strisce di velcro intorno al collo. La tuta non era un modello dei più recenti, dotati di autorespiratore con bombole. Respirare divenne per lui un esercizio di resistenza. Ogni respiro doveva passare attraverso un sistema di filtraggio ad alta efficienza inserito nella visiera. Si doveva espellere l'anidride carbonica e inspirare l'ossigeno con forza per vincere la resistenza dei filtri. Gideon cominciò a sudare e la visiera si appannò. Sul ponte del castello di prua c'era un unico boccaporto, chiuso con un chiavistello. Qualsiasi cosa fosse, o fosse stata, contenuta lì dentro si trattava della fonte delle radiazioni, Gideon ne era certo. Guardò in basso, cercando la torcia che aveva posato sul ponte. La visibilità attraverso la visiera era un problema, giacché la visione periferica era completamente annullata. Si chinò in avanti e tastò il ponte finché non riuscì a trovarla. Premette il pulsante per accenderla, ma non successe niente. Nel tentativo di farla funzionare, Gideon la batté forte contro il parapetto d'acciaio. Fu in quel momento che lo udì: un colpo metallico in risposta al suo, come se qualcosa picchiasse contro lo scafo. S'immobilizzò, guardando verso la timoneria. Non avrebbe saputo dire da che parte veniva il rumore. Colpì nuovamente il parapetto con la torcia e nel giro di pochi secondi udì la risposta. Questa volta fu un rumore più netto, più pronunciato, di metallo contro metallo, proveniente da sottocoperta nella parte posteriore dell'imbarcazione. Sul retro della timoneria, rivolta verso il ponte di poppa, c'era una piccola porta. Immaginò che portasse alla sala macchine e alla zona che fungeva da alloggio per l'equipaggio. La raggiunse velocemente, la aprì e puntò il debole raggio della torcia sul contatore Geiger. Registrava solo la metà delle radiazioni rilevate sul ponte di prua. Questa zona era schermata dalla struttura in acciaio della timoneria. All'interno c'era una scaletta che conduceva nella stiva e in sala macchine. Gideon puntò la torcia in direzione della scaletta e scrutò quello che sembrava un pozzo senza fondo. Tra la torcia quasi scarica e la visiera appannata era pressoché cieco. Afferrò la ringhiera della scaletta, scavalcò la soglia e cominciò a scendere. Fece solo un gradino, poi si voltò a tastare l'interno della paratia tutt'intorno alla porta. Se c'era un interruttore della luce doveva trovarsi lì. Lo trovò e lo girò. Niente. O avevano spento il generatore o avevano finito il carburante. Senza generatore o elettricità da terra non c'era luce. Gideon conosceva abbastanza
le barche per capire che questo significava guai. Se non c'era luce, non c'era neppure corrente per le pompe di sentina. Le imbarcazioni fanno sempre acqua da qualche parte, piccole infiltrazioni attraverso le guarnizioni intorno all'albero dell'elica e dalle attrezzature montate sullo scafo. La sentina e le stive più basse potevano essere già invase dall'acqua. I limiti nella visione e nei movimenti provocati dalla tuta protettiva potevano costituire un problema. Guardò in basso, seguendo la scaletta buia, e proseguì lentamente, un gradino alla volta. Teneva la torcia puntata davanti a sé, per quanto potesse servire. Una nuvola densa di vapori azzurrini, trattenuta dal soffitto, danzava davanti al raggio della torcia. Gideon puntò il contatore Geiger verso l'alto. L'ago non si mosse. Era fisso su valori medio-bassi, ben lontano dai livelli misurati sul ponte del castello di prua e sopra il boccaporto chiuso. Con cautela, Gideon staccò le chiusure in velcro intorno al collo e sollevò il lembo del cappuccio. Non respirò esattamente aria fresca, ma era sempre meglio dell'anidride carbonica intrappolata dentro il cappuccio soffocante. L'aria era impregnata dai vapori di gasolio. Sollevò del tutto il cappuccio dalla testa e puntò la torcia verso il fondo della scaletta. Il raggio colpì la superficie oleosa dell'acqua. «Ehi, c'è qualcuno laggiù?» La voce di Gideon echeggiò contro le pareti metalliche. La risposta arrivò immediatamente: un altro colpo contro lo scafo. Proveniva da qualche parte dietro di lui, verso poppa. Mise un piede nell'acqua, sempre tenendosi saldamente alla scaletta, e si fermò. Con la torcia non riusciva a vedere più di un metro davanti a sé. Abbassò lo sguardo verso la superficie oleosa, ma non avrebbe saputo dire quanto fosse profonda. Rifletté: la tuta di neoprene rappresentava un rischio. Se fosse scivolato e caduto a testa in avanti, oppure avesse messo il piede dentro un boccaporto allagato, la tuta si sarebbe riempita d'acqua. Al buio, senza potersi orientare, appesantito dall'attrezzatura, sarebbe annegato rapidamente. Scese un altro gradino, poi un altro ancora. Al terzo, finalmente, trovò una superficie piana. L'acqua ormai gli arrivava sopra il ginocchio. Con una mano ancora stretta alla ringhiera, avanzò cautamente di un passo. Doveva trattarsi di uno stretto corridoio che attraversava il centro della nave da prua a poppa. Gideon decise di rischiare. Lasciò la scaletta e cominciò ad avanzare, sguazzando nell'acqua verso poppa, percorrendo la parte più breve del cor-
ridoio in direzione dell'ultimo colpo sentito sullo scafo. «Ehi?» chiamò e rimase in ascolto. Il segnale venne ripetuto più volte, con un ritmo disperato, irregolare e con sempre meno forza. «Qui.» Gideon sentì la voce, più debole del fascio di luce della sua pila, ma ancora avvertibile. «Dove sei?» chiese. «Qui.» Guardò l'indicatore. Il valore era ben al di sotto di quello riscontrato sul ponte del castello di prua, ma il tempo era quasi scaduto. A quell'ora Joselyn doveva aver già fatto la telefonata. Aveva fatto bene a lasciarla là. Gli aiuti stavano per arrivare. Sulla destra del corridoio si apriva la porta di una cabina. «Continua a parlare, così riesco a trovarti.» Gideon rimase in ascolto. Niente. Allora guardò lungo il corridoio fin dove la torcia glielo permetteva, ma il raggio venne inghiottito da un banco di vapori e dall'oscurità. «Qui.» La voce era appena percettibile ma vicina. Proveniva da un punto più avanti lungo il corridoio. Qualche passo più oltre c'era una porta aperta. Gideon infilò dentro la testa e perlustrò l'ambiente con la torcia. Si trattava di una cambusa, con un tavolo che spuntava appena dall'acqua e una stufa a gas con due fornelli. All'interno, l'acqua sciabordava contro le pareti, e sulla superficie galleggiavano resti di cibo e alcune fette di pane zuppe. Proseguì lungo il corridoio. Dopo un paio di metri s'imbatté in un'altra porta, chiusa. Provò ad abbassare la maniglia. La porta di legno si era gonfiata dentro il telaio, bloccandosi. Vi si appoggiò con la spalla e sentì che il pannello centrale cedeva. La colpì di nuovo, questa volta con tutto il suo peso. La porta si piegò e cedette. Gideon inciampò nella soglia e per poco non cadde dall'altra parte. In qualche modo riuscì a restare in piedi e illuminò l'interno con la torcia. In fondo al locale, contro la paratia, scorse due cuccette a castello. Quella inferiore era sommersa da parecchi centimetri d'acqua. Alla luce tremolante della torcia vide una figura muoversi sotto una coperta sulla cuccetta superiore. Gideon superò velocemente la soglia e attraversò la cabina. Tenendo alta la torcia, sollevò la coperta. Non era preparato alla visione che lo aspettava. La figura appariva solo vagamente umana. I capelli erano completamente caduti dalla testa e giacevano sul cuscino, simili a ciuffi di pelo di un animale. Dalla cuccetta si levava un fetore che sovrastava persi-
no la puzza dei vapori di combustibile. Gideon avrebbe voluto rimettersi il cappuccio, ma sapeva che, così facendo, non avrebbe visto più nulla. L'individuo sdraiato sulla cuccetta sanguinava dalla bocca e dal naso, un sangue scuro e schiumoso che, Gideon lo sapeva, proveniva dai polmoni, e che formava una pozza nerastra sul materasso. Gli occhi dell'uomo si alzarono, imploranti. «Acqua! Acqua!» Gideon non era un medico, ma non ci voleva una laurea per capire che quell'uomo non sarebbe arrivato vivo in ospedale. Stava morendo. Capì che gli restavano solo pochi minuti. «Chi sei?» chiese. «Acqua. Bere.» Si guardò velocemente intorno. In un angolo c'era un tavolo abbastanza alto da restare fuori dell'acqua, con sopra posata una brocca di acciaio inossidabile. La raggiunse, girando intorno a un cuscino e a uno sgabello che galleggiavano nell'acqua. All'improvviso, però, avvertì un sobbalzo e l'imbarcazione s'inclinò verso poppa, trascinata dal peso dei motori. Stava imbarcando altra acqua. La Dancing Lady stava lentamente affondando. La brocca era vuota. Gideon avanzò attraverso l'acqua che ora gli arrivava a metà coscia. Uscì dalla cabina e seguì il corridoio fino alla cambusa. Forse i serbatoi dell'acqua potabile erano ancora stagni. Ma come far uscire l'acqua se la pompa non funzionava? Aprì il rubinetto e la forza di gravità fece cadere nella brocca tanta acqua da riempire un piccolo bicchiere. Una quantità maggiore avrebbe comunque ucciso l'uomo. Gideon tornò alla cabina. Quando l'uomo vide la brocca con l'acqua, ritrovò l'ultima scintilla di energia: si allungò verso di essa, cercando di sollevarsi. «Piano, piano», disse Gideon. Sapeva che l'uomo sarebbe morto soffocato se avesse deglutito l'acqua troppo in fretta; inoltre, una volta finita quella, non ce ne sarebbe stata dell'altra. Trattenne le mani dell'uomo e gli fece bere qualche goccia dalla brocca. L'uomo cominciò a respirare velocemente e a tossire. Gideon riuscì a staccargli la brocca dalle labbra appena in tempo per evitare che si riempisse di un getto di sangue venoso scuro e schiumoso. Il sangue colò sul mento dell'uomo e Gideon lo pulì delicatamente con l'angolo della coperta. «Chi sei?» gli chiese. «Jon Nordquist. È la mia barca», rispose l'altro, ansimando. «Acqua.» «Tra un attimo. Dov'è l'ordigno? È su nella stiva di prua?» L'uomo usò la poca forza che gli restava per scuotere una sola volta la
testa. «Andato.» «Dove?» «Non lo so.» «Che cos'è successo?» «È...» Venne a mancargli la voce, ma poi si riprese. «Si è aperto. L'involucro.» «Il materiale fissile è stato esposto all'aria?» L'uomo abbassò il mento. «Sì.» «L'hanno preso in quelle condizioni?» «Acqua.» Gideon stava usando la brocca come incentivo, cercando di tenere in vita l'uomo abbastanza a lungo da scoprire che cos'era accaduto. Gli fece bere alcune gocce. L'uomo le mandò giù con difficoltà e tossì altro sangue. «Gli uomini che hanno preso l'ordigno hanno toccato il materiale fissile all'interno?» Se era andata così, Gideon sapeva che dovevano trovarsi nelle stesse condizioni di Nordquist, forse con qualche giorno di vita in più, ma prossimi alla morte. Con un po' di fortuna, qualsiasi progetto avessero avuto per la bomba sarebbe morto con loro. «L'hanno toccato?» insistette. «No. Fuori bordo», rispose Nordquist. «Mio figlio l'ha gettato fuori bordo.» «Dove?» «In mare. Si è rotto sul ponte», disse l'uomo. «Mio figlio è morto.» Era un'informazione criptica, ma Gideon capì. Per qualche ragione l'involucro della testata russa si era rotto. Il plutonio, insieme coi riflettori di berillio all'interno dell'ordigno, si era rovesciato sul ponte. Il berillio era un materiale magico, più leggero dell'alluminio, più forte dell'acciaio, molto costoso e ricercatissimo per il ruolo che svolgeva nell'innescare la reazione a catena in un'arma nucleare. Riflettori in berillio messi tutt'intorno al nucleo di plutonio respingevano i neutroni verso il centro del nucleo, amplificando la reazione a catena e di conseguenza la potenza della bomba. Quell'uomo e suo figlio erano soltanto pescatori, impreparati a maneggiare un'arma nucleare. La polvere di berillio nei polmoni era letale. Dava origine alla berillosi, una malattia per la quale i polmoni si ostruivano e la vittima moriva soffocata. Date le circostanze, i pescatori avevano avuto la presenza di spirito di fare l'unica cosa possibile: gettare fuori bordo il nucleo. «È per questo che il castello di prua è radioattivo?» chiese Gideon. «Rotolava», disse Nordquist.
Questo spiegava il fatto almeno in parte. Probabilmente l'ordigno aveva già cominciato a ossidarsi nel deposito di Sverdlovsk. Una volta libero di rotolare sul ponte, sfregando contro la superficie ruvida, aveva lasciato una traccia di polvere di plutonio simile alla scia di una lumaca. Nel tentativo di bloccare la sfera argentea che rotolava di qua e di là per il ponte, l'equipaggio l'aveva respirata insieme con la polvere di berillio. Ma lì c'era qualcosa di ancora più letale. Nessun quantitativo di acqua salata o di solvente avrebbe potuto decontaminare la barca, non coi livelli di radiazioni rilevati dal contatore Geiger. «Ancora acqua», implorò Nordquist. «C'era un secondo ordigno?» «Acqua.» Gideon gliene diede ancora un po' e Nordquist venne scosso da un altro attacco di tosse. Per un attimo Gideon pensò che sarebbe morto. Gli mise una mano dietro la schiena e lo sollevò in modo che la forza di gravità lo aiutasse a liberare i polmoni e il sangue potesse defluire nello stomaco. Ci vollero parecchi secondi, ma funzionò. «C'erano due bombe?» chiese Gideon. L'uomo era senza fiato e aveva lo sguardo vitreo. Gideon aveva visto un pallore come quello del volto di Nordquist soltanto una volta nella sua vita: su un cadavere in una lezione di biologia all'università. «Devi dirmelo. C'era un'altra bomba?» L'altro lottò per respirare, pronunciando, mentre il respiro gli usciva dalla bocca, attraverso le labbra riarse socchiuse, la parola che Gideon temeva: «Sì...» «Dov'è?» Dalle labbra di Nordquist non uscì più nessun suono. Gideon gli accostò la brocca alle labbra, ma l'acqua colò lungo il mento fino sul petto. Allora guardò gli occhi aperti dell'uomo e si accorse che stava fissando lo sguardo della morte. Gli aveva dato quasi venti minuti. Joselyn non poteva aspettare oltre. Gideon aveva un orologio e una torcia. Lei doveva dare per scontato che qualsiasi cosa avesse trovato su quelle barche non fosse buona, altrimenti le avrebbe fatto un segnale dal molo o sarebbe tornato. Temeva di aver aspettato già troppo a lungo. Si voltò e si mise a correre in direzione del furgone. Saltò il marciapiede e svoltò l'angolo dell'edificio delle autorità portuali. L'unica sensazione che
avvertì fu lo spostamento d'aria un attimo prima che il manganello in piombo e cuoio la colpisse alla base del cranio. Joselyn non sentì neppure l'impatto contro il cemento quando la sua testa picchiò sul marciapiede. 24 In volo verso l'arcipelago di San Juan Al capitano William Conners la cosa non piaceva neanche un po'. Gli ordini non provenivano dalla normale catena di comando attraverso il Comando operazioni speciali, ma erano stati trasmessi direttamente da Washington, da personaggi molto in alto del Pentagono. A Conners non era mai capitato niente di simile. A suo parere, non era soltanto insolito, ma anche pericoloso. Però nessuno chiedeva il suo parere. Si domandò chi, tra i suoi superiori, fosse a conoscenza di quanto stava accadendo. Lui e gli altri quattro uomini della sua squadra non avrebbero avuto supporti logistici. Non ci sarebbero state veloci motovedette per l'inserimento e il recupero. Sarebbero stati raccolti da un lento peschereccio, un'imbarcazione che poteva fare al massimo i nove nodi se si fosse trovata sotto tiro. Guardò l'orologio. L'Hercules C-130 della Lockeed, partito dalla base di San Diego, era in volo da cinque ore. Tre dei suoi uomini dormivano sui sedili reclinabili, lo stesso tipo usato sugli aerei commerciali, solo che questi erano imbullonati al pavimento sul davanti, nella stiva di carico, sotto la scaletta che portava alla cabina di pilotaggio. Ancora trenta minuti e sarebbero arrivati sulla zona di lancio. «Com'è il tempo?» urlò Conners, mettendosi le mani intorno alla bocca per farsi udire al di sopra del rombo dei quattro giganteschi turboelica Allison. Il motorista di bordo era appena sceso dalla scaletta. In quel viaggio aveva un doppio compito: era addetto al carico e al lancio. Fece un segno in direzione di Conners col pollice alzato. «Sereno. Leggeri venti in superficie. Non dovrebbero esserci problemi.» Facile dirlo, per l'equipaggio. Non erano loro a doversi lanciare in un cielo nero come l'inchiostro da un'altitudine di seimilacinquecento metri sopra un mare aperto le cui acque erano così fredde da portare all'ipotermia nel giro di pochissimi minuti. Se i suoi uomini non fossero riusciti a trova-
re subito i gommoni nelle acque scure sarebbero annegati, nonostante bombole, pinne e mute. Chiunque avesse pianificato quell'operazione, aveva la merda al posto del cervello e Conners se ne rendeva conto. Il cosiddetto lancio HALO - lancio da alta quota con apertura ritardata sarebbe stato di grande effetto in un film di James Bond. Ma i SEAL della marina che mettevano in gioco la loro vita in combattimento sapevano che si trattava di una follia, specialmente di notte. «Che intendi per venti leggeri?» chiese Conners. «Tra i cinque e i sette nodi», rispose il motorista. Era indaffarato a preparare l'attrezzatura, slegarla e portarla vicino alla rampa posteriore di carico. Conners lo seguì. «Sette nodi!» «Massimo», disse l'altro. Conners sapeva che sarebbero stati sufficienti a formare alte creste sulla superficie del mare. Controllò le carte delle maree. Il braccio settentrionale del Puget Sound poteva essere insidioso. Le correnti negli stretti canali tra le isole potevano risucchiare un uomo nel Pacifico con una velocità maggiore di quella di una nave da crociera. Tenendo conto delle maree, delle correnti e dello spostamento provocato dal vento durante la caduta libera, Conners calcolò che il punto di discesa potesse trovarsi circa quattrocento metri a ovest di Padget Island. Se fossero scesi con uno scarto di ottocento metri potevano dirsi fortunati. L'isola era un francobollo di terra, larga ottocento metri e lunga un chilometro e mezzo. C'era un'unica spiaggia di sassi sul versante occidentale. Gli altri tre lati presentavano scogliere a picco che avrebbero richiesto un'attrezzatura da scalata. E questo non rientrava né nel loro equipaggiamento né nel loro addestramento. Non potevano permettersi errori. Il piano prevedeva di usare la corrente della marea per raggiungere l'isola. L'uso dei motori era fuori discussione: troppo rumore. La corrente verso terra sarebbe continuata per altre due ore. Se l'avessero mancata e non fossero riusciti a raggiungere l'isola prima che s'invertisse il flusso, la marea li avrebbe trascinati verso lo stretto di Juan de Fuca. Non sarebbero mai riusciti a pagaiare abbastanza forte da contrastarla. Oltre lo stretto c'era il Pacifico settentrionale, uno dei mari più agitati del mondo. Di sicuro non si poteva pensare di attraversarlo a bordo di un gommone. «Qual è la quota di lancio?» chiese il motorista. «Seimila metri», rispose Conners. «E l'apertura?»
«Cento metri.» «Non lo farei per tutto l'oro del mondo», osservò il motorista. Regolò gli altimetri sui paracadute del carico, in modo che facessero scattare l'apertura a centosessanta metri, visto che le loro grandi dimensioni avrebbero richiesto altri sessanta metri di caduta per aprirsi totalmente. Se l'impatto del carico sull'acqua fosse stato troppo forte, l'attrezzatura di galleggiamento si sarebbe staccata e il carico sarebbe andato a fondo, col rischio di lasciare gli uomini a morire in acqua. Col buio, scendendo come proiettili attraverso le nuvole, nessuno di loro avrebbe saputo dove si trovava il resto della squadra. Sarebbero scesi in caduta libera per un minuto e mezzo a una velocità vicina ai duecento chilometri orari, respirando grazie alle bombole dell'equipaggiamento subacqueo. A cento metri avrebbero aperto i paracadute e sarebbero scesi in acqua. Avevano appena il tempo di rallentare la caduta prima di colpire l'acqua. Sarebbero stati visibili in aria per meno di dieci secondi. Il piano era inteso a minimizzare le possibilità di essere scoperti dalle sentinelle sull'isola. Però aumentava enormemente il fattore di rischio della squadra. Le operazioni che prevedevano lanci notturni in mare erano assai pericolose, e a causare vittime erano soprattutto gli incidenti. La cavernosa stiva di carico era quasi vuota, tranne che per i due piccoli pallet che contenevano i gommoni e l'attrezzatura elettronica da piazzare sull'isola. C'erano anche alcune armi automatiche leggere e munizioni, in caso nascessero problemi. Conners però era stato informato della situazione. Sapeva che, nel caso di uno scontro, avrebbero avuto meno potenza di fuoco: gli uomini sull'isola disponevano di armi calibro 50. Non si sapeva, tuttavia, se fossero armi automatiche. I pallet vennero trascinati in posizione davanti alla rampa posteriore. Gli uomini si sarebbero lanciati da uno dei due portelli che si aprivano sui fianchi dell'aereo dietro la carenatura del carrello. A otto minuti dall'inizio del conto alla rovescia, Conners svegliò gli uomini e iniziò il controllo finale dell'attrezzatura, dei regolatori delle bombole e della tenuta delle maschere. A sei minuti, la luce di allerta sul soffitto della stiva di carico si accese e il motorista indossò la maschera a ossigeno. La squadra avrebbe respirato dalle bombole di aria compressa dell'attrezzatura subacquea. Conners diede un colpetto all'altimetro sul suo orologio e controllò la bussola. A tre minuti si sentì il gemito di motori idraulici che si azionavano e sul
retro dell'aereo si aprì la rampa. A mano a mano che la forma e la superficie alare del gigantesco C-130 si modificavano, l'aereo cominciò a ballare, saltando come un delfino nell'aria rarefatta. Il motorista aprì uno dei portelli laterali e lo tolse. Raffiche di vento invasero la stiva. Conners fece allineare i suoi uomini vicino all'apertura. Poi si accese la luce verde. Uno dopo l'altro i SEAL saltarono, precipitando come pietre nell'aria gelida della notte. Conners fu l'ultimo a lanciarsi. Senti la lama tagliente dell'aria colpirgli la porzione di viso lasciata scoperta tra il cappuccio della muta e la maschera. Cercò di respirare normalmente dal boccaglio mentre il suo corpo sperimentava l'inebriante sensazione di assenza di peso della caduta libera. Al buio, senza un punto di riferimento, era facile rilassarsi, lasciarsi andare e aprire oltre il punto di sicurezza. Se fosse accaduto, il paracadutista non se ne sarebbe neppure accorto: un corpo umano che colpisce l'acqua a più di centosessanta chilometri orari esplode come un pallone pieno d'acqua che picchia sul cemento. Conners teneva lo sguardo fisso sull'altimetro. Sentì lo schiocco di un paracadute, simile a un colpo d'arma da fuoco, mentre lui continuava a cadere. Se il suo altimetro funzionava, si trovavano a seicentocinquanta metri. Non erano ancora ammarati e già c'era un problema. Si chiese se si trattasse di uno degli uomini o di uno dei grandi paracadute da carico. Oltrepassò il banco di nubi e all'improvviso vide alcune luci. In lontananza si scorgeva il luccichio di una piccola città. Guardò la bussola. Era rivolto verso est. Piegò le ginocchia e spinse in avanti il busto, facendo ruotare il corpo di un mezzo giro. Adesso guardava in direzione di Padget Island, ma sotto di sé vedeva solo l'oscurità del mare e, più oltre, individuò le luci di una grossa raffineria. Doveva trattarsi dell'ARCO. Era un punto di riferimento per il pilota. Duecento metri. Pose la mano sulla maniglia di apertura. Tre secondi dopo la tirò. Il nero Jedi Knight gli esplose sopra la testa, frenando il suo corpo con uno strattone come fosse una bambola di pezza. La velatura a delta con le funi di sospensione e manovra gli permise di governare, anche se solo per pochi secondi. Conners usò questi istanti per orientarsi verso l'isola. Stava guardando la bussola quando, all'improvviso, vide la fluorescenza del mare e un attimo dopo colpì l'acqua. Andò immediatamente sotto. Il punto era non restare impigliato nel paracadute o nelle funi, nel qual caso la corrente l'avrebbe trascinato a fondo. Anche con l'attrezzatura giusta, usando sistemi di sgancio particolari, era
possibile venir trascinati via dalle correnti discendenti di acqua fredda. Conners picchiò sul sistema di sgancio dell'imbragatura che si aprì con uno scatto. Si liberò in fretta, allontanandosi con poche bracciate dalle funi. Il paracadute aveva pesi tutt'intorno alle cuciture così da affondare lentamente. Risalì in superficie e si pulì la maschera. Sentì il sapore del sale quando sputò il boccaglio e rimase a dondolare nell'acqua. Si stavano formando alcune creste, gonfiate dal vento che soffiava da ovest. Sentì uno degli uomini che chiamava. Ognuno aveva una piccola lampada alogena, montata sulla spalla della muta, che emetteva un forte raggio luminoso. Conners vide due luci che brillavano in lontananza; pareva che Campanellino si dondolasse sulle onde. Si rimise maschera e boccaglio, quindi abbassò il viso in acqua e cominciò a pinneggiare. Nuotando controcorrente, gli ci vollero parecchi minuti prima di raggiungere gli altri due uomini. Stavano lottando con uno dei pallet flottanti. Era ancora attaccato al paracadute. Infine alzò la maschera e sputò il boccaglio. «Che c'è che non va?» «Non riusciamo a farlo sganciare.» Il paracadute si era riempito d'acqua e agiva da gigantesca ancora. Stava andando a fondo, trascinandosi dietro l'attrezzatura. Gli uomini gli stavano attaccati, nel tentativo di tenerlo a galla. Conners estrasse il coltello da sub dal fodero fissato alla caviglia, afferrò una manciata di funi e le tagliò. Il paracadute rilasciò immediatamente il suo carico d'acqua, come una vela lascata di colpo, e il pallet flottante tornò lentamente sulla superficie del mare. Uno dei SEAL aprì un contenitore metallico e tirò fuori i remi. Mentre Conners tagliava la fune che legava il gommone autogonfiabile, l'altro uomo tirava la linguetta del sistema di gonfiamento. In meno di un minuto il gommone fu pronto. A quel punto il mare era sferzato da un vento forte che faceva alzare grossi cavalloni. I due uomini rotolarono dentro il gommone, mentre Conners fissava il pallet flottante con l'attrezzatura a una cima e saliva a sua volta a bordo. Sistemarono le bombole sul fondo e si tolsero le pinne, continuando a scrutare il mare alla ricerca degli altri due uomini. Ma non si vedevano che il mare scuro e il cielo nero. Conners guardò l'orologio. «Quanto possiamo aspettare?» chiese uno degli uomini. «Neanche un minuto», rispose Conners. «Però sono qui intorno da qualche parte.»
«Lo so.» «Potrebbero essere in difficoltà.» «Me ne rendo conto», sibilò Conners. Guardò in direzione dell'isola. In lontananza riusciva a distinguere un vago contorno e sentiva il frangersi delle onde contro le rocce della spiaggia. Ben presto le prime luci dell'alba avrebbero disegnato la sagoma dell'isola e illuminato la superficie del mare. «Se sono dietro di noi, non possiamo raggiungerli. Se si trovano tra noi e l'isola non dovrebbero avere problemi.» Anche senza il gommone, Conners sperava che fossero ammarati vicino al punto prestabilito. Se necessario, avrebbero potuto raggiungere l'isola a nuoto. Continuarono a perlustrare la zona verso est alla ricerca delle luci alogene montate sulle mute. Ma senza risultato. «Non possiamo restare qui e non possiamo andare a cercarli.» Conners sapeva che si sarebbero inutilmente sfiancati a pagaiare controcorrente per cercare i compagni nel buio. Quando fosse sorto il sole, si sarebbero trovati ancora in mare aperto. Se gli uomini sull'isola erano pericolosi come lui aveva motivo di sospettare, tre subacquei a bordo di un gommone erano carne da macello. Il resto della squadra avrebbe dovuto comunque cercare il gommone e arrangiarsi da sola. I tre uomini su quel gommone erano una squadra di SEAL, e avevano una missione da compiere. «Li troveremo sulla spiaggia», concluse. «Su, mettiamoci a pagaiare.» San Juan Channel Joselyn perdeva sangue dal naso e aveva un bernoccolo grosso come un uovo alla base del cranio. Anche senza toccarlo, lo sentiva ogni volta che la testa picchiava contro qualcosa di duro. Quando riprese i sensi, si ritrovò a bordo di una piccola barca che correva a tutta velocità sul mare agitato. Aveva le mani legate dietro la schiena, gli occhi coperti da una benda di stoffa che non svolgeva del tutto la sua funzione. Riusciva a sbirciare da sotto gli angoli e lanciare qualche occhiata allo spazio buio in cui l'avevano incastrata, una specie di ripostiglio sottocoperta. La pressione del nodo della benda alla base del collo le causava ancora più dolore. Di quando in quando udiva delle voci maschili all'esterno che gridavano al di sopra del rombo del motore, mentre questo sforzava e gemeva lottando col mare lungo. Joselyn aveva perso la cognizione del tempo. Non aveva idea di quanto a
lungo fosse rimasta priva di sensi. Era sdraiata nell'acqua che allagava la sentina e respirava vapori di benzina. Tra il dolore pulsante alla nuca e il continuo movimento della barca, la nausea cominciò a impadronirsi di lei. Era sul punto di vomitare quando all'improvviso il motore rallentò e l'imbarcazione proseguì sul suo stesso slancio. Un paio di secondi dopo si sentì un colpo contro lo scafo. La barca si fermò, mossa solo dalle onde della sua scia, che la facevano dondolare e battere contro un pontile o un'imbarcazione più grande... Joselyn non ne era sicura. «Dov'è?» Questa volta le voci provenivano dall'esterno della barca. «Sotto.» «Portatela su alla casa. Non abbiamo molto tempo. Tra venti minuti Thorn e Taggart devono partire e, prima di andarsene, Thorn vuole sapere com'è andata.» Joselyn sentì un rumore dietro di sé, come l'anta di un ripostiglio che veniva aperta, e il mormorio delle voci diventò più forte. Si lasciò andare come se fosse ancora priva di coscienza. Qualcosa la colpì o la spinse. Sembrava un piede. «Su, avanti. Svegliati.» L'uomo le diede un colpo contro il braccio. Lei non si mosse. «È ancora svenuta. Sei sicuro di non averla uccisa?» «Non l'ho colpita così forte.» «Bene. Allora la porti tu.» Qualcuno l'afferrò per una caviglia e la trascinò per un breve tratto sul fondo di legno della barca. Joselyn non oppose resistenza benché la superficie irregolare le stesse graffiando il braccio. «Tu prendila per le braccia. Io prendo i piedi.» «E tirala su! Peserà sì e no sessanta chili.» L'altra voce aveva un tono esasperato. All'improvviso Joselyn sentì un paio di braccia forti che la afferravano sotto le ginocchia e dietro la schiena. Si lasciò andare tra le braccia dell'uomo e lui la sollevò con facilità. Lasciò penzolare la testa, anche se il dolore era molto forte. Teneva la bocca aperta e gli occhi socchiusi sotto la benda. Finché la credevano svenuta, si sentiva al sicuro. Probabilmente avevano bisogno di lei per le informazioni che credevano possedesse, altrimenti l'avrebbero gettata fuori bordo in mezzo allo stretto. L'uomo che la stava trasportando si muoveva in fretta. Con la testa rovesciata all'indietro, poggiata sul suo braccio, Joselyn era in grado di cogliere fugaci sprazzi di luce e veder passare alcune figure.
«Stanno aspettando, su alla casa.» «Avranno bisogno di sali», osservò l'uomo che la stava trasportando. «Forse hanno l'ammoniaca.» «Staremo a vedere.» Cominciarono a salire una serie di gradini di pietra o di cemento, che a Joselyn parvero ripidi e interminabili. Il respiro dell'uomo si fece pesante. Ora lei sentiva altre voci. Da sotto un angolo della benda, colse l'immagine fugace di un porticato e di finestre illuminate... moltissime finestre. Qualcuno aprì la porta per farli entrare. Senza muovere la testa, lei non poteva vedere chi fosse, ma le voci si fecero molto più forti e concitate. «Senti, non venire a dirlo a me. Sono stato io a sostenere che dovevamo affondare il peschereccio con tutti i pescatori.» «E bravo, Charlie.» Una volta entrato nella stanza, l'uomo che la trasportava si stava accalorando. «E sei stato sempre tu a dire che avevi annegato la donna. Sul traghetto, ricordi?» «L'ho spinta in mare. Che cosa volevi che facessi di più?» «È il fantasma più pesante che abbia mai visto.» «La macchina l'ho distrutta», ribatté l'altro. «Cazzo, allora denunciamo il delitto.» «Senti, stronzo, non credo proprio che tu avresti potuto fare di meglio.» «Persino mia nipote che ha sei anni avrebbe potuto fare di meglio.» «E ora il porto è pieno di federali che si metteranno a parlare con Dio solo sa chi...» Gli altri uomini presenti nella stanza si erano uniti alla discussione, ma Joselyn non riusciva a vederli in faccia. «Non sappiamo se era un federale.» «E chi diavolo poteva essere, sennò?» «Dove vuoi che la metta?» Il tizio che la stava trasportando era senza fiato. «Mettila nella stanza da letto in fondo al corridoio.» Mentre lui la portava giù per il corridoio, Joselyn sentì che la discussione continuava. «Perché non hanno preso anche l'uomo?» «Era fuori, sui pontili.» «Che c'è, hai paura di andare là?» «Lo puoi ben dire. Quella merda ti fa brillare come una lampadina al neon. Tu non li hai visti i pescatori sputar fuori i polmoni, eh?» «Fa' vedere un po' di fegato!» «Non ho nessun problema a farlo vedere. È che non mi va di friggermelo
con quella roba.» «Te l'avevo detto che dovevamo procurarci qualcuna di quelle tute di gomma.» «Tu e le tue tute di gomma del cazzo!» «Guarda, secondo me dovremmo portar via i coglioni da quest'isola prima che arrivino i federali. Stai sicuro che loro lo sanno che cosa sta succedendo.» «E come mai dovrebbero saperlo?» Questa volta fu una voce diversa a ribattere. Di colpo nella stanza in fondo al corridoio scese il silenzio, come se qualcuno avesse gettato dell'acqua sul fuoco. «Volevo solo dire che dovremmo andarcene dall'isola finché siamo in tempo.» «Sembrerebbe quasi che tu sappia qualcosa in più di noi.» Di nuovo la voce che aveva sedato la discussione. In essa c'era qualcosa di stranamente familiare. Joselyn non poteva vedere la faccia dell'uomo senza muovere la testa, e aveva deciso di «fare il morto» finché le era possibile. «No. Io non so niente.» «Mi sembri molto preoccupato dei federali.» «E ce n'è motivo. Questa donna...» «La donna non è un federale.» «Già, ma quel tizio insieme con lei?» «Credo che neanche lui lo sia.» «E come fai a saperlo?» «Se i federali sospettassero che su quel molo c'è un'arma di distruzione di massa, pensi davvero che avrebbero mandato un solo uomo a controllare, lasciando la donna di vedetta davanti al cancello?» «Non lo so.» «Fidati. Ci sarebbero duecento uomini armati su quel molo e una ventina di uomini con tute protettive a controllare ogni singola barca ormeggiata. Abbiamo a che fare con due dilettanti.» Nella stanza qualcuno ridacchiò. «Tu ti preoccupi troppo. Dovresti imparare a rilassarti. Vivresti più a lungo.» «Già, Charlie. Rilassati.» Le voci si affievolirono, mentre lei veniva condotta lungo quello che sembrava un lunghissimo corridoio. L'uomo la appoggiò contro una parete, tenendola ferma col proprio corpo, mentre con la mano libera apriva una porta. Poi attraversò la stanza e la gettò su un letto come se fosse un sacco
di patate. Lei si lasciò cadere mollemente, rimbalzando sul materasso. Sentì i passi dell'uomo allontanarsi in direzione della porta. «Devi averle sfondato il cervello», disse un'altra voce. «Prega di non averla ammazzata. Thorn vuole parlarle.» «Affanculo anche Thorn. Mi sono rotto di essere trattato in 'sto modo.» «Perché non lo vai a dire a lui?» Chiusero la porta e Joselyn sentì la chiave girare nella toppa. Rimase immobile sul letto per quasi un minuto, cercando di sentire che cosa si dicevano le persone in corridoio. Riusciva a captare soltanto una parola ogni tanto. La stanza era buia. Dai piccoli spazi sotto la benda nel punto in cui la guancia e il naso s'incontravano riusciva a malapena a distinguere triangolini di tappezzeria alle pareti e parte del soffitto. Rimase immobile, in ascolto, per accertarsi di essere sola nella stanza prima di alzarsi. Alla fine si rigirò, gettò una gamba giù dal letto e si alzò con un certo sforzo. Rovesciando la testa all'indietro riuscì a osservare la stanza da sotto la benda. Si trattava di una grande camera da letto; chiunque fosse il padrone di quella casa, aveva un sacco di soldi. Intravide un bagno, collegato con la camera, e il pavimento, che sembrava di marmo. Joselyn si alzò. Per un attimo ondeggiò, ancora stordita per il colpo ricevuto sulla testa. Riacquistò l'equilibrio appoggiandosi con le gambe al bordo del letto. Lentamente mosse un passo, poi un altro. Attraversò la stanza, sempre con la testa gettata all'indietro, sbirciando da sotto la benda in modo da non andare a sbattere contro una parete o un mobile. Giunta sulla soglia del bagno si fermò. Scorse un interruttore: un grosso tasto di plastica con una lucina interna in modo da poterlo trovare anche al buio. Avrebbe potuto premerlo con una spalla, ma c'era il rischio che qualcuno vedesse la luce filtrare da sotto la porta o attraverso la finestra sotto il porticato esterno. Joselyn andò al lavandino e si voltò. Con le mani legate aprì il primo cassetto e frugò all'interno: un pettine, una spazzola, qualcosa che sembrava uno specchio. Si girò e sbirciò dentro il cassetto. Da qualche parte doveva pur esserci un paio di forbici, o qualcosa di affilato con cui tagliare la corda che le stringeva i polsi... ma nel buio non riusciva a vedere bene. Sentì un rumore lungo il corridoio. Chiuse il cassetto e con cinque lunghi passi tornò al letto, dove si lanciò a corpo morto, voltando la testa verso la parete un attimo prima che la chiave girasse nella toppa. La porta si
aprì e subito dopo si accese la luce. «Lasciami solo con lei.» La porta si chiuse. Joselyn attese per quella che le parve un'eternità. Non si mosse, restando immobile come se fosse ancora svenuta. Udì i passi avvicinarsi al letto e poi il peso di qualcuno sul materasso quando l'uomo le slegò le mani. Lei chiuse gli occhi appena in tempo; l'uomo sciolse il nodo della benda e gliela tolse. Fu solo quando le strappò il nastro adesivo dalla bocca che Joselyn si mosse. «Ora può aprire gli occhi.» Quella voce familiare. Lui sapeva che non era svenuta. Il gioco era finito. Joselyn girò la testa e aprì appena gli occhi, accecata dalla luce, alzando una mano per proteggerli. Scorse una silhouette; i lineamenti del volto erano persi nell'ombra proiettata dalla forte illuminazione a soffitto. Joselyn si sfregò gli occhi. Lui fece un passo indietro e lei cercò di trattenere l'espressione di stupore che le si dipinse sul volto. L'uomo la guardava con lo stesso sorriso arrogante che le aveva rivolto sul molo mentre saliva a bordo dell'aereo. «Sorpresa di vedermi?» chiese Belden. «Ma lei era...» «Morto?» Lei annuì. «Il cervello accetta quello che vedono gli occhi», osservò Belden. «Ma io ho visto l'aereo.» «Dovevo fare qualcosa. Il suo governo aveva troppe domande per le quali io non avevo risposte valide. Deve comprendere il mio imbarazzo. Sembrava il modo migliore per morire.» «E... l'aereo?» «Un semplice giochetto di elettronica e un po' di esplosivo. Ovviamente ho dovuto aspettare che lei arrivasse al molo. Ce ne ha messo, di tempo! Per un po' ho persino temuto che non venisse. Un'esplosione senza un testimone, senza qualcuno che mi vedesse realmente salire a bordo, che potesse identificare la vittima per la polizia, non serviva a niente. Chi meglio del mio avvocato?» «È per questo che mi ha assunta?» «No. No. Dovrebbe avere un po' più di stima per se stessa. Sono venuto da lei perché è un buon avvocato. Anzi, a dire il vero, troppo buono. Stava diventando un po' troppo tenace nella difesa di alcuni clienti.» Lei lo guardò con un'espressione perplessa.
«I pescatori. Sapevamo che stavano male. Non sapevamo se avessero informazioni sulla causa della malattia. Se sapevano della Dancing Lady.» «Della che?» «Già», fece Belden, «lei non sa niente. Ma senza dubbio a questo punto il suo amico sul molo l'avrà scoperto. A proposito, chi è?» «Qualcuno che vi farà passare un brutto guaio», rispose Joselyn. «Oh, ne sono sollevato. Temevo che fosse già lui di per sé un guaio. Immagino che avrà sentito la nostra discussione nell'altra stanza.» Lei scosse la testa. «Ah, già, dimenticavo. Lei stava dormendo.» Sorrise per la propria battuta. «Posso portarle qualcosa da bere?» Lei scosse di nuovo la testa, anche se stava morendo di sete. «Non c'è bisogno che rendiamo le cose spiacevoli. Alcuni degli uomini là fuori sono... come dire... di cattivo umore. Sono preoccupati per il suo amico, quel tizio alto e biondo sul molo. Credevo che lei potesse rassicurarli.» «Nessun problema», disse Joselyn. «È dei marine. Gli altri stavano preparando gli elicotteri al decollo.» Belden le rivolse un'espressione piena di rammarico. «Lavora per il governo?» «Sì.» Lui si sporse verso il letto e le diede uno schiaffo. «No.» Un altro schiaffo, questa volta col dorso della mano. «Forse.» Lui la colpì ancora, questa volta con maggior violenza. «Chi è?» Lei non rispose. Belden sedette sul bordo del letto, fece una smorfia di dolore, poi s'infilò una mano in tasca e ne tirò fuori una manciata di oggetti: un mazzo di chiavi, un coltello a serramanico, alcuni pezzetti di carta, un biglietto da visita. Li posò sul comodino. «Quegli uomini là fuori non sono gentili come me. Dovrebbe imparare a fidarsi.» «Capisco. Per loro non è un problema picchiare una donna.» «No, non lo è affatto.» «L'ultima volta che mi sono fidata di lei, mi ha piantato in asso in tribunale da sola, a parlare con un procuratore federale.» «Già... be', aveva tutte quelle domande circostanziate...» osservò Belden.
Poi guardò l'orologio. «Mi farebbe piacere discuterne con un po' più di calma, però non ho molto tempo.» «E immagino che se le dirò quello che so lei mi lascerà andare.» «No.» «In effetti non ci speravo.» «Ma ci sono molti modi di morire», disse Belden. «Alcuni sono del tutto indolori.» «Sono sicura che lei è un esperto», ribatté lei. «Che cosa mi sta dicendo? Che mi lascerà scegliere il modo che preferisco?» «Se vuole.» «Bene. Voglio morire in un incidente aereo telecomandato.» Belden scoppiò a ridere. «Ah, se solo ci fossimo incontrati in circostanze diverse! In un altro momento, in un altro luogo...» «Ma lei ha una vita così piena, è così occupato a trasportare tutte quelle bombe.» Lui la guardò. Per la prima volta il sorriso era scomparso. «Chi gliel'ha detto?» Joselyn non rispose. «Il suo amico alto e biondo?» Lei si limitò a fissarlo. «Oppure è stato il procuratore?» Si appoggiò al letto con una mano. «Risponda.» La sua voce si fece un poco più alta. Mentre lei lo guardava negli occhi, il dorso della mano di Belden la colpì sulla guancia con tutta la forza, facendole voltare la faccia verso sinistra. Il dolore esplose come un fuoco d'artificio. Per un attimo, Joselyn pensò che sarebbe svenuta. Sentì il sapore salato del sangue in bocca e cercò di mettere a fuoco gli occhi. Lui stava di nuovo sorridendo. «Può dirmelo. In fondo, lei è il mio avvocato... Non dovrebbero esserci segreti tra di noi.» Joselyn capì che stava cominciando ad andare su di giri. Nei suoi occhi era comparsa una specie di fuoco. Godeva a picchiare le donne. «In fondo le ho pagato una parcella», proseguì Belden. «Non era sufficiente?» La mano di lui la colpì e il dolore aumentò ancora. «Non esiste il diritto alla piena informazione? Forse dovrei presentare una protesta formale all'ordine degli avvocati: il mio avvocato non vuole dirmi che cosa sta succedendo.» Era chino in avanti, come se fosse pronto a colpirla di nuovo, quando la porta si aprì. Joselyn puntò lo sguardo annebbiato sull'uomo fermo sulla
soglia. Sentiva il sangue colarle sul mento dall'angolo della bocca. Il nuovo arrivato era piccolo, con occhi marrone e mansueti, e radi capelli scuri. Portava giacca e pantaloni sportivi e aveva con sé una valigia, come se fosse pronto a partire. Per un attimo il suo sguardo incrociò quello di Joselyn. C'era qualcosa nell'espressione di quell'uomo che trasmetteva un senso di calore, come se nella stanza fosse entrato qualcosa di umano. Era un'espressione di compassione, subito seguita da una di rammarico. Belden si bloccò con la mano a mezz'aria e abbassò il braccio. «Ah, signor...» Fu lì lì per dire il nome, ma si fermò in tempo. «Le presento il mio avvocato, la signorina Cole. Stavamo avendo un franco scambio di vedute.» «È ora di andare.» L'uomo non reagì, ma guardò altrove. In quel momento, Joselyn capì di essere morta. Belden prese gli oggetti dal tavolino, tutti tranne uno. Lasciò il biglietto da visita, stropicciato e con gli angoli arrotolati; il resto se lo rimise in tasca. «Avrei voluto che durasse di più», disse. «Purtroppo tutte le cose belle finiscono.» «Alla prossima volta», replicò lei. Il sangue le colava sulla guancia e aveva uno sguardo di fuoco. Se gliene avesse dato l'opportunità, Belden avrebbe riportato danni permanenti e parlato con voce più stridula. Lei ne avrebbe di certo pagato le conseguenze, però lui non se lo sarebbe scordato per un po'. «Sfortunatamente non ci sarà una prossima volta.» Belden le lanciò un'ultima occhiata, attraversò velocemente la stanza, chiuse la porta e sparì. 25 Padget Island, Stato di Washington Conners non si sentiva più la punta delle dita, ormai insensibili per la permanenza nell'acqua a dieci gradi. I tre uomini stavano lottando col gommone per tirarlo in secco sulla spiaggia disseminata di rocce. Al buio, senza punti di riferimento precisi, Conners non era neppure sicuro di essere arrivato su Padget Island. Cercò di orientarsi. Una scogliera di roccia frastagliata sulla sinistra sembrava corrispondere a quella che aveva individuato sulla cartina; gli pareva di rammentare anche la depressione attraversata da un piccolo ruscello che si esauriva sulla battigia.
La spiaggia era molto diversa dalle dune sabbiose intorno a San Diego dove si addestravano. I tre erano immersi fino al ginocchio nel pantano causato dalla marea, coi piedi che scivolavano sui massi coperti di muschio e sulle alghe viscide. Tirare il gommone col pallet flottante che conteneva il materiale oltre la linea dell'alta marea era un compito davvero arduo. Conners si rannicchiò con gli altri due al riparo di un grande masso e perlustrò la spiaggia col visore notturno alla ricerca d'immagini create da qualche traccia di calore. «Pensi che Scofield e Reams ce l'abbiano fatta?» chiese uno dei due a Conners. Si trattava di un ragazzo che non aveva più di diciannove anni; era la sua prima volta in una situazione che si avvicinava al combattimento ed era spaventato. «Non lo so.» «Non dovremmo cercarli?» «Tira fuori l'attrezzatura», replicò Conners. «Passami la radio.» Lacerarono con attenzione l'involucro di plastica nera che copriva la zattera, usando i coltelli da sub in acciaio brunito, e tolsero il coperchio di uno dei contenitori di metallo che si trovavano all'interno. Nel giro di pochi secondi, trovarono la piccola radio. Aveva una portata di solo un chilometro e mezzo, ma usava frequenze basse e difficilmente intercettabili. Conners la prese e controllò che fosse accesa, quindi premette il pulsante di trasmissione e lo tenne schiacciato. «Gopher, qui è Gopher One. Mi sentite?» Lasciò andare il pulsante. Sentì soltanto scariche statiche. Allora girò la manopola del volume per smorzare il rumore, in modo che non giungesse alle sentinelle nelle postazioni fortificate sulla scogliera. «Gopher. Qui è Gopher One. Rispondete. Mi sentite?» Altre scariche. «Forse dovremmo cercarli sulla spiaggia. Magari sono rimasti separati dal pallet e hanno perso la radio.» «Non abbiamo tempo», disse Conners. «Se sono sull'isola, ci troveranno.» «Se restiamo qui, quei tizi lassù ci troveranno molto presto.» Il terzo SEAL era più anziano e aveva più esperienza di Conners e dell'altro. Aveva partecipato ad azioni a Panama e nella guerra del Golfo. Sapeva quali erano i timori di Conners: un lancio notturno sull'acqua nera come la pece poteva finire con un cinquanta per cento di perdite.
«Per il momento dobbiamo trovare quel posto di guardia sulla scogliera», mormorò Conners. «Ma Richie e Jason...» «Richie e Jason sapevano quello che stavano facendo. Non possiamo aiutarli, e non li possiamo andare a cercare. Lo capisci?» Al ragazzo la cosa non piaceva, ma capiva. «Secondo la cartina, il gruppo ha un calibro 50 piazzato in una postazione fortificata lassù, tra quegli alberi.» I tre uomini cercarono riferimenti che fornissero loro qualche indizio sulla posizione. In condizioni normali i SEAL avrebbero neutralizzato tutte le sentinelle, o con una pistola munita di silenziatore o con un coltello. In quel caso, però, le regole di combattimento non lo permettevano. Dovevano sparare solo per difendersi. La loro missione era classificata come «operazione non bellica»: se tutto andava per il verso giusto, non sarebbe mai stata resa pubblica. I loro compiti erano infiltrarsi, piazzare la loro attrezzatura elettronica - telecamere miniaturizzate e microfoni dotati di un piccolo trasmettitore a microonde - e andarsene, il tutto senza farsi scoprire. Aprirono il contenitore ermetico delle armi e tolsero quelle individuali. Ogni pallet conteneva sei armi, due M-16, un M-14 - in caso fossero state necessarie una maggiore penetrazione e una distanza di tiro utile -, una mitraglietta MP-5 e due pistole - due Beretta 9 mm -, entrambe dotate di silenziatore. Se avessero dovuto sparare, gli ordini erano precisi: un colpo, un morto. Avrebbero puntato al torace o alla fronte. Contrariamente ai film, dove «azione» significava interi caricatori svuotati in un'unica raffica, i SEAL avevano dei limiti. Le munizioni pesavano. Trascinarne troppe in mare aperto a bordo di un pallet flottante era come tirarsi dietro un'ancora galleggiante. A meno che non venissero coinvolti in uno scontro a fuoco violentissimo, raffiche di tre colpi erano il limite massimo. Il loro equipaggiamento comprendeva anche una mitragliatrice leggera M-60. Conners scoprì che anche questa mancava all'appello insieme con gli altri due uomini. «Doveva essere sull'altro pallet», disse uno. «Controllate l'attrezzatura elettronica», ordinò. Uno dei SEAL sollevò il coperchio metallico dell'altro contenitore, mentre Conners e l'altro uomo controllavano le munizioni. In silenzio inserirono i caricatori nei loro alloggiamenti e arretrarono la leva d'armamento, mettendo il colpo in canna. Presero le armi. Conners scelse l'MP-5 e infilò una Beretta in uno zaino,
nel quale tutti misero anche cinque piccoli microfoni insieme con le microcamere, ognuna con un obiettivo che rendeva possibile riprese grandangolari a distanza ravvicinata. In un altro zaino caricarono una trasmittente-base, una piccola scatola di metallo che pesava sette chili, dotata di un'antenna parabolica pieghevole. Questa sarebbe stata piazzata in un punto alto e remoto dell'isola, rivolta a sud-ovest, e avrebbe trasmesso, su una speciale frequenza subsonica, i segnali video e audio a un satellite, il quale, a sua volta, avrebbe inviato i segnali alla base navale di Everett, una sessantina di chilometri più a sud, dove agenti dell'FBI e dei servizi segreti militari li avrebbero analizzati. «Controlla le batterie», disse Conners. Il SEAL fece scattare l'interruttore della trasmittente e osservò le minuscole lucine accendersi. «Sono a posto.» Tagliarono la cima che legava il pallet al gommone, quindi, coi coltelli, praticarono fori nei galleggianti laterali del pallet, li sganciarono e li nascosero nel pietrisco sotto una roccia. Chiunque avesse trovato il pallet avrebbe pensato a un relitto portato dal mare sulla spiaggia. I tre uomini trascinarono il gommone e l'attrezzatura subacquea più in su sulla spiaggia, li nascosero sotto alcuni cespugli e poi tagliarono qualche ramo basso dagli alberi per ricoprirli. Quindi si dipinsero il viso e il dorso delle mani con la pittura verde e nera per ripristinare la mimetizzazione cancellata dall'acqua. Conners guardò l'orologio. Avevano meno di due ore prima che i raggi del sole facessero capolino dietro le montagne a est. A cenni, ordinò all'uomo che aveva l'M-14 e l'altra pistola col silenziatore di prendere posizione. A questo punto i SEAL cominciarono a scalare l'alta scarpata verso la scogliera. Washington, D.C. Sy Hirshberg era accampato nella sala operativa nei sotterranei della Casa Bianca. Aveva passato tutta la notte in piedi, in attesa di notizie dalla base navale di Everett. Ormai erano le sette di mattino passate sulla costa est e lui era preoccupato. «Notizie?» Hirshberg si voltò e vide il presidente che entrava nella stanza. «Niente. Non una parola da quando l'aereo ha lasciato la zona di lancio la notte scorsa.»
«È ancora presto», osservò il presidente. Hirshberg guardò l'orologio. «A quest'ora avremmo dovuto ricevere informazioni via radio.» «Pensa che qualcosa sia andato storto?» «È possibile. Avremmo dovuto prevedere qualche piano d'emergenza. Se quegli uomini si trovano in difficoltà...» «Non accadrà. I SEAL sono i migliori», ribatté il presidente. «Non voglio reagire in modo sproporzionato. Ricorda che cos'è successo a Waco? Non voglio un bis.» Al consigliere per la sicurezza nazionale quella faccenda non piaceva. I SEAL erano in inferiorità numerica e di fuoco, senza rinforzi né un mezzo veloce per allontanarsi in caso si fossero trovati nei guai. «Io penso che abbiamo preso la decisione giusta», disse il presidente. Hirshberg strinse i denti davanti all'uso di quel plurale, «Mi scusi, signor presidente, ma devo contraddirla. Ritengo che avremmo dovuto mandare delle truppe.» «Più uomini avrebbero attirato maggiore attenzione. Avremmo avuto bisogno di una base di appoggio provvisoria.» L'altro conosceva a sufficienza il presidente per capire di che cosa aveva realmente paura: i media sarebbero venuti a saperlo. «No. Sono convinto che questo sia il modo giusto», insistette il presidente. «Però, se il piano fallisce, avremo perso l'elemento sorpresa», osservò Hirshberg. «Se davvero hanno un ordigno ed è pronto a esplodere, che cosa succederà?» Questa obiezione costrinse il presidente a riflettere sulle conseguenze. «Se proprio dovesse accadere, meglio lì che in un grosso centro abitato.» Hirshberg non riusciva a credere alle proprie orecchie: l'espressione del suo volto tradì i suoi pensieri. «Senta, Sy, non sono assolutamente convinto che ci sia un reale problema. Se vuole la mia opinione personale, credo che stiamo correndo in tondo e dando la caccia alla nostra coda. Non penso che ci sia un ordigno... o che ci sia mai stato.» «E i relitti recuperati della nave russa?» «Be'... chissà da dove veniva. Magari l'avranno usata per rifornire alcuni dei loro sottomarini in mare. Conosce i russi... Non si può certo dire che siano attenti al modo in cui maneggiano e trasportano quella roba. Hanno sistemi di sicurezza che risalgono all'età della pietra. Ricorda Cernobyl?»
«Possiamo permetterci di correre questo rischio, signor presidente?» «È per questo che abbiamo mandato i SEAL. Per controllare.» Hirshberg sapeva quali erano i timori del presidente. Se avesse mandato forze consistenti, avrebbe dovuto spiegare la natura della minaccia. Questo avrebbe dato origine a un sacco di domande da parte della stampa e del Congresso, domande che avrebbero inevitabilmente portato a Kolikov e alla sua ditta, domande cui il presidente non desiderava rispondere. Se qualcosa fosse andato storto, Hirshberg sospettava che la Casa Bianca avesse già pronta la solita sfilza di menzogne da dare in pasto all'opinione pubblica e alla stampa. Sull'isola si è verificato un tragico incidente mentre era in corso un'esercitazione. Il presidente non ne era al corrente, però stava raccogliendo informazioni. Avrebbe chiamato i parenti per esprimere le sue condoglianze. Lui e la first lady sarebbero volati a San Diego per incontrare le famiglie. Non sarebbe stata la prima volta che il fallimento di un'operazione segreta veniva fatto passare per un'esercitazione finita male. C'era però una domanda che lo assillava: che cosa avrebbe fatto il presidente a quel punto? Avrebbe accettato d'istituire un cordone sanitario di quindici chilometri tutt'intorno a Padget Island, mandando un contingente di truppe? Oppure avrebbe continuato a negare finché la nube a forma di fungo non si fosse levata sopra il cielo del Nord-ovest? «Signor presidente», disse, «dobbiamo dare per scontato che, se il gruppo su quell'isola è in possesso di una bomba, la userà. Potremmo avere soltanto un'occasione per fermarlo e cioè agendo ora, in fretta e con la massima forza. Solo così riusciremo a mettere le mani sull'ordigno prima che loro si rendano conto di che cosa sta succedendo.» «Se la gente su quell'isola ha una bomba, il mio primo obiettivo è quello d'isolarla. Tenerla dov'è. Bloccare lì i terroristi e prenderli per stanchezza», ribatté il presidente. «Vuole negoziare con loro?» «Non ho detto 'negoziare', ma 'prenderli per stanchezza'.» «E se non ci riusciamo? E se decidono di premere il bottone?» Ci fu un lungo, profondo sospiro da parte del presidente. «Non stiamo parlando di New York, né di Boston o di Los Angeles», disse. «Avremo confinato il danno a un'unica isoletta.» «Supponendo che l'ordigno si trovi lì sull'isola...» «È per questo che abbiamo mandato i SEAL: per scoprirlo. E ora basta, non discutiamone più. Ho già preso la mia decisione.» Il presidente si av-
vicinò a un tavolo sul quale erano posate alcune paste e una brocca di caffè. Se ne versò una tazza e prese una pasta. «Che cos'è questa roba... Non si può avere qualcosa di caldo?» Guardò in direzione del marine di servizio che prese subito la sua ordinazione: uova e pancetta con pane tostato. «Sy, lei prende qualcosa?» «No, signor presidente.» Hirshberg aveva perso l'appetito. «Sta arrivando qualcosa, signore», disse uno degli addetti alle comunicazioni rivolgendosi all'ufficiale di turno, un tenente dei marine. Hirshberg si alzò dalla poltrona e praticamente volò alle spalle del soldato, seduto davanti allo schermo di un computer. «Arriva da Everett?» Il presidente posò sul tavolo la pasta morsicata e deglutì ripetutamente per mandar giù il boccone. «No, signore.» Il presidente tornò alla sua pasta. «Credo sia meglio che lei veda questo, signor presidente.» Hirshberg stava leggendo sullo schermo. Il presidente afferrò la tazza di caffè e andò verso la zona dei computer. Sullo schermo era apparso un comunicato. Non veniva dalla base navale di Everett, ma dal dipartimento dell'Energia e portava l'intestazione Top Secret. TOP SECRET, DATI RISERVATI. URGENTE! FONTI CIVILI LEGATE ALL'ISTITUTO CONTRO LA DISTRUZIONE DI MASSA (SANTA CRISTA, CALIFORNIA) RIFERISCONO DELL'ESISTENZA DI SCORIE ALTAMENTE RADIOATTIVE SU UN'IMBARCAZIONE NEL PORTO DI FRIDAY HARBOR, ARCIPELAGO DI SAN JUAN. SI RITIENE CHE LA CONTAMINAZIONE POSSA ESSERE RICONDUCIBILE A UN ORDIGNO NUCLEARE. SI RICHIEDE L'INVIO DI UN NEST. L'acronimo si riferiva a uno dei quattro Nuclear Emergency Search Team, le Squadre di ricerca per emergenze nucleari. Non erano mai state chiamate a intervenire in un vero incidente, ma il loro ruolo era appunto quello di rispondere alle emergenze di origine nucleare, compresa l'eventualità che i terroristi facessero entrare un ordigno nel Paese. Le squadre avevano condotto una serie di esercitazioni agli inizi degli anni '90, però i risultati erano apparsi meno che soddisfacenti.
«Hanno trovato una bomba?» chiese il presidente. Il giovane tenente dei marine, al monitor, voltò la testa per rispondergli. «Qui non lo dice, signore. Dice solo che credono che la contaminazione sia riconducibile a un ordigno nucleare.» «Be', chiedete chiarimenti. Chiamate qualcuno al dipartimento dell'Energia.» Le parole del presidente fecero correre i militari per tutta la sala. «Signor presidente, non possiamo permetterci di aspettare.» «Come?» Il presidente guardò Hirshberg. «Non è una coincidenza, signore. Prima il gruppo paramilitare su quell'isola, ora la scoperta di scorie radioattive su un'imbarcazione...» Il presidente guardò una cartina del Puget Sound che era già pronta, proiettata su un grande schermo a parete. Padget Island era evidenziata con un anello di luce che lampeggiava lentamente, per indicare la zona delle operazioni della squadra di SEAL. Hirshberg afferrò un puntatore laser da un leggio sotto la mappa e colpì Friday Harbor con una freccia rossa. «Sono meno di venti chilometri.» Anche in fase di negazione, il presidente non poteva più fingere di non vedere ciò che era ovvio. «A Everett c'è un piccolo reparto di marine. Possono decollare con gli elicotteri in meno di un'ora.» Hirshberg aveva fatto i compiti a casa. Attraverso lo stato maggiore aveva messo i marine in allerta. «Isoliamo Friday Harbor», proseguì. «Colpiamo Padget Island con tutte le forze che abbiamo e preghiamo di trovare l'ordigno.» «Dovremmo attendere la conferma», obiettò il presidente. «Che ne sappiamo di questo Istituto in California?» «Hanno una banca dati con informazioni sulle armi di distruzione di massa. Parecchi dei nostri organismi la usano, per esempio la CIA. Alcuni dei loro esperti hanno fatto parte delle squadre d'ispettori dell'ONU.» «E di solito le loro informazioni sono accurate?» «Sì.» Nella stanza scese il silenzio; il presidente assunse un'espressione rassegnata. Il maggior timore di qualsiasi uomo al potere si era avverato: la sua opinione era stata all'improvviso screditata da eventi che non poteva prevedere. «Signore, più aspettiamo, maggiore è il rischio che riescano a spostare l'ordigno», disse Hirshberg. «E, se lo spostano, potrebbe essere molto difficile ritrovarlo.» Il presidente non parlò.
«Signore, i marine avranno bisogno di tempo per chiamare a raccolta gli uomini.» San Juan Channel, Stato di Washington Puntarono verso Iceberg Point e Thorn, alias Belden, diede gas ai due motori fuoribordo. La prua si sollevò e la barca cominciò a planare. Il porto di Cap Santé si trovava almeno a un'ora di navigazione in condizioni buone e alla massima velocità. Man mano che si avvicinava l'alba, il mare si fece più mosso. Scott Taggart si sistemò sul sedile di fronte a Thorn, chiuse la lampo della giacca e si tirò su il colletto per difendersi dall'aria fredda e umida. Teneva lo sguardo fisso su un'isola lontana, ma senza vederla davvero. In quel momento la sua mente era occupata da Kirsten. Negli ultimi giorni l'aveva pensata sempre più spesso, chiedendosi come sarebbe stata la loro vita se lei non fosse morta. Vedeva i lineamenti del suo volto come se fosse stata lì, davanti a lui, con la stessa chiarezza. A volte, quando era solo, le parlava, convinto che lei gli fosse vicina ovunque andasse. E poi era preoccupato per Adam, che ora aveva cinque anni. Si domandava che genere di mondo avrebbe lasciato a suo figlio. «A che ora è il suo volo?» Le parole di Thorn, urlate sopra il rombo del motore, interruppero le riflessioni di Scott. Guardò l'orologio. «Alle undici e quaranta.» «Avrà tempo per portare prima me», disse Thorn. «Ce l'ha il biglietto?» Scott annuì. «Quando cambia aereo a Denver, chiami per le istruzioni successive.» «Lo so.» «Usi il numero del cellulare.» «Ne abbiamo già parlato», annuì Scott. «Stavo solo controllando», ribatté Thorn. «Ce l'ha il numero del cellulare?» «Ce l'ho.» Quell'uomo era decisamente uno stronzo. Un nevrotico. Era convinto che se non urlavi non riuscivi a concludere nulla. «Non ha intenzione di mettersi in contatto con nessun altro, vero?» «E chi dovrei chiamare?» «Magari non una telefonata», rispose Thorn. «Pensavo, che so, a una lettera.» Scott infilò una mano nella tasca interna della giacca. La lettera che ave-
va scritto la notte precedente a suo figlio Adam - qualcosa che il ragazzo potesse leggere quando fosse diventato grande, una spiegazione da parte di suo padre - era sparita. Quando alzò lo sguardo, vide che Thorn teneva la busta con due dita. Era sigillata e affrancata. Se non altro, non l'aveva letta. «Me la dia.» «Mi sono preso la libertà di controllare la sua giacca prima di partire.» «Me la dia.» L'altro non disse una parola; si limitò a tener alzata la lettera nel vento mentre la barca saltava sull'acqua. «Immagino abbia frugato anche nella mia valigia.» Thorn fece una smorfia come per ammetterlo. «Comprendo il desiderio di spiegare le sue ragioni a suo figlio, ma non posso correre il rischio che lei faccia il mio nome.» «Io non conosco il suo nome.» «Bene. Almeno una cosa di cui siamo sicuri. È comprensibile... Lei vuole spiegargli perché l'ha fatto. Diamine, se uccidessi centinaia di migliaia di persone e il mio nome fosse ricordato per quello, anch'io vorrei che il mondo intero sapesse perché l'ho fatto.» «Mio figlio è l'unico di cui mi preoccupo.» «Non è il caso che questa viaggi tra la posta.» Con queste parole, Thorn lasciò andare la lettera. Scott si lanciò dal suo sedile e cercò di afferrarla, ma fu troppo lento. La busta venne ghermita dal vento come una foglia e poi finì nella scia dell'elica del motoscafo. Rimase a guardarla mentre scompariva in lontananza. «Non l'avrei imbucata oggi», urlò poi per farsi sentire al di sopra del rumore del vento e del motore. Thorn era chino dietro il parabrezza della barca. «Avrei aspettato fino all'ultimo minuto, quando avessimo finito», insistette Scott. «E cioè quando?» «Non lo so. Lei non me l'ha ancora detto.» «Appunto», disse Thorn. «E per un buon motivo. Meno sa, meglio è. Lei avrebbe spedito la lettera dalla città che è il nostro obiettivo. Se le autorità vi avessero messo le mani sopra prima dell'esplosione, sarebbero state in grado di mettere insieme i pezzi e concentrare le loro forze. Se si è furbi, non si dà un appiglio al nemico.» «Questo supponendo che fossero riuscite a intercettare la lettera.»
«Oh, l'avrebbero trovata. Suo figlio sta con qualcuno, giusto?» Non c'era bisogno che rispondesse: Thorn aveva visto l'indirizzo sulla busta. «Si tratta dei genitori di sua moglie?» Non attese la risposta. La conosceva già. «Non gli avrebbe fatto un piacere mandandogli una lettera dalla tomba. Quando tutto sarà finito, il governo piomberà addosso a loro e a qualunque persona con cui lei abbia parlato: i suoi amici, i familiari, le ex fidanzate che non vede da vent'anni. Tutti riceveranno la visita dell'FBI. Le loro case e le proprietà verranno perquisite, la loro vita sarà rivoltata come un guanto alla ricerca di qualche prova. Una lettera come quella avrebbe causato solo altri guai alla sua famiglia.» Scott non disse una parola. Era roso dalla rabbia e passò quasi un minuto in un silenzio teso. I due uomini guardavano fisso davanti a loro oltre il parabrezza. «Se vuole parlare col ragazzo, gli lasci un messaggio registrato.» Thorn mise una mano in tasca e tirò fuori un piccolo registratore. Allungò un braccio e lo porse a Scott che rimase immobile, in silenzio, a guardare l'uomo che aveva appena distrutto le ultime parole che suo figlio avrebbe mai ricevuto da lui. «Lo prenda», lo esortò Thorn. «Farò in modo che venga consegnato, senza che il governo lo scopra, quando tutto questo sarà finito. Può registrarlo in macchina quando arriviamo a Cap Santé.» «Perché dovrebbe importarle di mio figlio?» «La consideri una... vaccinazione contro il disastro. È nella natura umana.» Thorn fissava i cavalloni che sbattevano sotto la prua della piccola barca. «Se non le dessi un'alternativa, lei scriverebbe un'altra lettera.» «Come faccio a sapere che lei consegnerà il nastro?» chiese Scott. «Non lo può sapere. Ma di una cosa può stare sicuro: se il governo dovesse mettere le mani su qualcosa scritto da lei, suo figlio non lo vedrà mai. E probabilmente tutto ciò che lei dice verrà travisato e distorto per i loro scopi.» Non aveva tutti i torti. Probabilmente il governo aveva già il suo nome su un elenco, teneva sotto controllo il telefono dei suoi suoceri e aveva ottenuto mandati del tribunale per controllare tutta la posta in arrivo. Era per quello che gli uomini sull'isola avevano deciso di tagliarsi fuori dal resto del mondo. Scott prese il registratore. «Mi dica una cosa... C'è una domanda che vo-
glio farle da tanto tempo. Quanto ha guadagnato con tutto questo?» «Dovrebbe saperlo. È lei che paga», rispose Thorn. «Non insulti la mia intelligenza. Mi sta dicendo che c'era una svendita di ordigni nucleari? L'ha ottenuta con lo sconto a una fiera campionaria? Erano tre anni che cercavamo di prendere contatti, di farci dire un prezzo. Non ci siamo mai riusciti. E poi spunta fuori lei, dal nulla, come per magia. Per un bel po' abbiamo pensato che fosse del governo.» «Come fa a sapere che non lo sono?» «Perché le radiazioni a bordo di quelle imbarcazioni erano vere. Come pure i tizi che hanno sputato i polmoni.» «Diciamo che ho qualche amico», rispose Thorn. «Chi?» «Il suo governo è riuscito a far incazzare metà del nostro pianeta. Scelga lei.» «E quanto la pagano?» «Le stanno dando un bell'aiuto. Non mi dica che ciò la offende e che mina il suo orgoglio di anarchico. Può stare sicuro che si prenderà lei tutta la gloria.» «Ma che ci guadagnano?» «Una copertura. È molto semplice. Avete uno scopo comune. Lei vuole distruggere il suo governo, loro pure. Lei vuole che il mondo sappia che è stato lei, loro vogliono che il mondo ci creda. E per questo non lesineranno né spese né risorse. Testimoni, documenti. È tutto organizzato. Loro vogliono solo evitare rappresaglie. È risaputo che l'uso di armi di distruzione di massa da parte di un Paese contro gli interessi degli Stati Uniti verrebbe seguito da una rappresaglia nucleare. Se invece quello che resta del suo governo si convincesse che si tratta soltanto di una questione interna, che cosa potrebbe fare? Bombardare Seattle?» «Quindi lei si è limitato a fare da intermediario per l'accordo?». «Questi sono fatti miei. Però, devo ammetterlo, è l'affare più grosso che abbia mai concluso. Alla fine, il suo governo ci ringrazierà per aver dato la colpa a lei.» «Perché?» Thorn era allibito. Per quanto fosse determinato, Scott si dimostrava un ingenuo. «Crede davvero che i politici siano ansiosi di far scoppiare la terza guerra mondiale? Perché pensa che si siano concentrati così velocemente su Oswald dopo che hanno sparato a Kennedy, e perché hanno insistito nel
sostenere che aveva agito da solo? Morivano dalla paura che ci fosse dietro lo zampino dei russi e di dover fare qualcosa. Se lei riesce a portare a termine la sua parte, non cercheranno i responsabili molto lontano. Faranno di tutto per mantenere ben saldo il potere, per dimostrare che hanno la situazione in pugno. Vogliono solo qualche testa da far cadere in fretta. Non sono particolarmente interessato a offrire la mia e, se avremo successo, la sua non sarà più disponibile. Prenderanno quelli che riescono a trovare e diranno che giustizia è fatta.» «Se siamo fortunati, no», obiettò Scott. «E che cosa potrebbe impedirglielo?» «La gente.» «La gente?» Thorn scoppiò in una fragorosa risata. Il vento gli scompigliava i capelli. «Già, la gente. Dimenticavo.» «Se agiscono in fretta, avranno una possibilità», disse Scott. «Reagiranno.» «Questo supponendo che riescano a trovare il pulsante di spegnimento sui telecomandi. Nel giro di ventiquattr'ore le televisioni saranno invase da migliaia di esperti, tutti intenti ad analizzare la nube atomica e a offrire risposte fasulle. Nei talk show si potranno mostrare le immagini di politici fritti col lardo che si scioglie loro addosso, e tutti potranno dibattere se puzzano di più i democratici al sangue o i repubblicani bruciacchiati. Tempo quarantott'ore il pubblico si sarà già stancato di questa storia e avrà ripreso a saltare da un canale all'altro. Mi creda: l'unica conseguenza sarà alzare la posta nella guerra dell'audience.» Thorn non aveva molta fiducia nella «gente». Sapeva anche che, una volta esplosa la bomba, non ci sarebbero stati molti luoghi in cui nascondersi. Aveva lavorato per vent'anni per i dittatori delle varie «repubbliche delle banane» e per sovrani che barattavano cammelli con Mercedes blindate. Quel lavoro era il coronamento della sua carriera, l'ultima, poderosa scrollata all'albero dei soldi. Gli uomini coinvolti in quell'operazione non avrebbero mai più potuto lavorare: sarebbero diventati fuorilegge internazionali. Nessun Paese al mondo avrebbe osato dar loro asilo. Era per questo che, sotto le spoglie di Belden, si era dato un gran daffare per morire e per di più in maniera così plateale. Era per questo che la donna, Joselyn Cole, doveva morire: per mantenere il segreto. Lo sguardo di Thorn, perso oltre il parabrezza, si fece all'improvviso più attento. Socchiuse gli occhi per vedere meglio nella luce incerta dell'alba. Poi, senza dire una parola, girò il volantino e fece compiere alla barca una
virata verso destra. Il motoscafo tracciò un ampio semicerchio nelle acque del canale. Scott venne sballottato sul sedile. «Che c'è?» «Non lo so...» Thorn stava guardando in lontananza. Nella luce dell'alba, la superficie dell'acqua aveva assunto una sfumatura argentea che ricordava il colore del mercurio. Per un istante, Scott pensò che fosse soltanto la cresta di un'onda, ma poi, quando l'acqua si mosse, l'oggetto assunse contorni definiti, scuri e squadrati. Galleggiava sulla superficie, trascinato dalle correnti. In pochi secondi la barca lo superò. Afferrò un mezzo marinaio dal ripiano che correva sotto la falchetta. Cercò di agganciare l'oggetto, ma lo mancò. Thorn manovrò la barca per compiere un'altra passata. Questa volta si fermò accanto all'oggetto e spense completamente i motori. Mollò il volantino, prese il mezzo marinaio, si sporse fuori bordo e agganciò una corda. Era collegata mediante un gancio di metallo ad altre corde che galleggiavano per un tratto e poi scomparivano nell'acqua scura come inchiostro. Istintivamente Thorn capì che cosa si trovava sotto la superficie dell'acqua. Senza dire una parola, tirò fuori dalla tasca un coltello a serramanico e tagliò le funi del paracadute, quindi lacerò l'involucro protettivo di neoprene che copriva il pallet flottante. «Che cos'è?» chiese Scott. «Un guaio.» Thorn prese il telefono cellulare dalla tasca e premette il tasto su cui era memorizzato il numero di Padget Island, poi schiacciò il tasto di chiamata. Aveva programmato il numero dell'isola sul telefonino, ma non lo aveva mai usato per timore che il governo lo tenesse sotto controllo. Ora, però, non aveva scelta. Squillò una volta, poi un'altra. «Avanti, maledizione. Rispondi.» «Pronto?» Finalmente. «Sono Thorn. Abbiamo compagnia sull'isola.» Dall'altro capo giungevano fragorose risate e schiamazzi. Sicuramente erano tutti alzati, e si stavano preparando il caffè scaldandosi i piedi davanti al fuoco. «Fate silenzio», urlò l'uomo al telefono per far star zitti gli altri e riuscire a sentire. «Sistema tutti gli uomini nelle postazioni fortificate», ordinò Thorn, «e manda fuori le pattuglie.» «Militari?» chiese la voce all'altro capo. «Abbiamo un M-60 che galleggia in mare nel suo imballaggio», rispose
Thorn. «Tu che ne dici?» La voce ripeté l'informazione e i suoni provenienti dalla casa sull'isola si erano trasformati in esclamazioni di panico. «Manda tutti nelle postazioni», disse Thorn. «E, senti...» Non capiva se l'uomo all'altro capo avesse mollato il ricevitore. «Sei ancora lì?» «Sì, ci sono.» «La donna... Uccidila. Subito.» 26 Padget Island, Stato di Washington Joselyn udì squillare il telefono. Un attimo dopo, dall'altra stanza giunsero urla concitate. Era legata e imbavagliata, sdraiata su un fianco sopra il letto. Uno degli uomini incaricati di sorvegliarla le aveva legato anche i piedi e, per buona misura, le aveva fatto passare la corda attraverso quella che le serrava i polsi, tirandola al punto che il suo corpo si era teso come un arco. Non si era preso la briga di rimetterle la benda e Joselyn lo aveva considerato un brutto segno. Lottò per allentare il nodo che le stringeva i polsi, cercando disperatamente di liberare le mani. Non riusciva a capire che cosa stesse accadendo là fuori, ma qualcosa aveva causato una grande agitazione. Gli uomini correvano da tutte le parti, e si sentiva il rumore di scarponi sul pavimento di legno del porticato. Qualcuno stava urlando ordini davanti alla finestra della sua camera. «Chi ha il BAR?» «Tom, credo.» «Digli di muovere le chiappe e di andare giù alla spiaggia. Quanti Browning abbiamo?» «Due. Uno è fuori uso. Ha il percussore piegato. È una settimana che dico a Thorn di farlo aggiustare. Dov'è Oscar?» «Se n'è andato stamattina, poco dopo Thorn.» Sembrava che i due uomini si fossero avvicinati, perché ora le loro voci avevano assunto il tono di una conversazione normale. «Era Thorn, al telefono. Dice che abbiamo compagnia.» «Locali o federali?» «Ha trovato un pallet che galleggiava nello stretto. Con un M-60 e un sacco di altra roba. Fa' un po' tu.»
«Mi sorprende che abbiano aspettato tanto. Sappiamo quanti sono?» «No. Voglio che porti gli uomini sulla spiaggia. Tienili occupati. Tira fuori i due Browning che funzionano e assicurati che abbiano munizioni a volontà. Se i federali vogliono i fuochi d'artificio, gli prepareremo uno spettacolo calibro 50, seguito da un bel botto.» «Dov'è la barca?» «Ormeggiata nella caletta sul versante occidentale.» «Qualcuno lo sa?» «No. E sarà meglio che sia così, se non vuoi che sembri l'esodo dei cubani. Thorn è stato molto chiaro prima di andarsene. In caso di guai, dobbiamo lasciare l'isola, prendere il camion e spostarlo. Oscar è partito stamattina presto. Sta già andando là per prepararlo.» «E questi?» «I morti non parlano.» «Che stai dicendo?» «Ieri notte Thorn mi ha fatto minare le postazioni fortificate. Quei pazzi scatenati spareranno col culo sopra un mucchio di C-4. Un colpo in quei sacchetti di sabbia e le milizie celesti riceveranno pesanti rinforzi.» «E la donna?» Joselyn smise di lottare con le corde dei polsi e rimase immobile per sentire meglio. «Come ti ho detto, i morti non parlano. Ora muoviti. E se cominciano a sparare non cercare riparo nelle fortificazioni.» Joselyn lottò ancora più disperatamente per liberarsi. Sentì qualcuno rientrare in casa. La porta d'ingresso si chiuse con un colpo. Udì rumore di passi, di scarponi, sul tappeto che copriva il pavimento di legno. E poi lo sentì chiaramente: un fruscio metallico seguito da uno scatto secco. Non era un'esperta di armi, però sapeva riconoscere il rumore di quando s'inserisce un caricatore in una pistola e si mette il colpo in canna. Sentì gli scarponi scricchiolare mentre si avvicinavano lungo il corridoio verso la stanza. Rotolò sul letto verso la parete finché non la toccò con la schiena e cercò d'infilarsi tra il muro e il letto. Sentì una chiave girare nella toppa. La maniglia si mosse e la porta cominciò ad aprirsi. Joselyn dimenò le anche e spinse verso il basso con tutta la forza. Fissò a occhi spalancati la figura che entrava, ma non ne guardò il volto: la sua attenzione era tutta per la pistola che teneva in mano, una semiautomatica con la bocca grande come quella di un fucile da caccia grossa. L'uomo chinò la testa, allineandola col mirino per prendere la mira.
Lei prese a dibattersi sul letto, cercando disperatamente di non offrire un bersaglio facile. Infilò l'anca nello spazio tra la parete e il materasso. Qualcosa si mosse. Serrò gli occhi e pregò - un'esperienza extracorporea - in attesa che il proiettile la colpisse. La violenza dell'urto si liberò tutta dietro di lei, colpendo la parete con un tonfo sordo e una vibrazione che si trasmise al suo corpo. L'esplosione le rimbombò nella testa, quasi perforandole i timpani. Sembrava che la parete fosse stata colpita da una palla da bowling. Joselyn si preparò all'arrivo del dolore, e invece venne investita da una pioggia di calcinacci. Quando aprì gli occhi si rese conto di non essere più sul letto, bensì in terra. Le sue ultime, disperate contorsioni avevano spostato il materasso e lei era finita tra il letto e il muro. Il proiettile si era conficcato proprio sopra il bordo del materasso, producendo un buco nel muro grande quanto il suo pollice. Vide la faccia dell'uomo, tutta rossa per la rabbia. «Maledizione!» esclamò lui e prese nuovamente la mira. Joselyn vide i suoi occhi fissare il mirino mentre lui puntava con cura la canna sopra il bordo del materasso. Era in trappola, impossibilitata a muoversi, incastrata contro la parete. L'esplosione le giunse smorzata, quasi silenziosa. Sembrava che qualcuno avesse stappato una lattina di birra. Sulla fronte dell'uomo comparve un puntino rosso, che poi si allargò come inchiostro sulla carta assorbente e gli scese sul naso in un rivoletto. Sul volto dell'uomo si dipinse un'espressione vuota e perplessa. Con gli occhi spalancati, crollò sul letto, rimbalzando sul materasso. Joselyn lanciò un urlo soffocato sotto il bavaglio. Intrappolata sul pavimento tra il letto e la parete, osservava inorridita la mano dell'uomo che si contorceva a pochi centimetri dal suo naso. All'improvviso si udirono colpi di armi automatiche all'esterno. Il pannello inferiore di vetro della finestra esplose. Indossava una muta di neoprene nero. Entrò dalla finestra: prima una gamba seguita velocemente dalla testa e dalle spalle. Con un unico, fluido movimento cadde sul pavimento, si girò e cominciò a sparare attraverso la finestra; i colpi che partivano dalla piccola mitraglietta che stringeva con una mano parevano rapidi colpi di tosse. L'arma aveva un grosso cilindro nero montato sulla punta della canna. I colpi partirono in rapida successione. Una pioggia di proiettili sforacchiò la parete intorno a lui e sventrò l'in-
fisso di legno della finestra. Altri proiettili colpirono l'imposta. Il pannello superiore della finestra andò in frantumi con un'esplosione di schegge. L'uomo cadde ai piedi del letto e, per un attimo, Joselyn pensò che fosse morto. Invece lui voltò la testa e la guardò. «Sta bene?» Lei non poté fare altro che guardarlo con occhi spalancati e annuire. L'uomo si mise velocemente a quattro zampe e le tolse il bavaglio; poi, con un unico movimento, tirò fuori un coltello che teneva vicino alla caviglia e tagliò le corde che le legavano polsi e piedi, liberandola. «Sto bene.» Joselyn si sfregò la pelle segnata dei polsi. Un'altra scarica di proiettili colpì la finestra. Questa volta l'imposta cadde a terra e la luce del sole inondò la stanza. «Non possiamo restare qui. Tra un minuto lo Spectre raderà al suolo questo posto.» La afferrò per un braccio e la trascinò attraverso la stanza, a quattro zampe, più veloce che poté. I proiettili continuavano a colpire la parete sopra di loro e infransero uno specchio sopra il cassettone. Ci fu una cascata di schegge di vetro, che finirono sui capelli di Joselyn e la ferirono a una guancia. «Chi è lei?» «Adesso non c'è tempo.» D'istinto, Joselyn si asciugò il sangue dalla guancia col dorso della mano. Fu allora che lo vide. Partì verso la finestra, da dove piovevano i proiettili. «Non da quella parte!» urlò l'uomo. Lei lo ignorò, allungò una mano e prese il biglietto da visita che Belden aveva lasciato sul comodino. Quindi tornò in fretta verso di lui. «Signora, lei è fuori di testa. Si farà sparare addosso.» L'uomo strisciò verso la porta e lei lo seguì. Lui la socchiuse appena e infilò la canna della mitraglietta nella fessura, poi sbirciò fuori. Ma non sparò, e Joselyn capì che la strada era libera. Sempre strisciando, l'uomo spalancò la porta e la varcò. Lei lo seguì da vicino e si ritrovarono seduti l'uno accanto all'altra, con la schiena appoggiata alla parete del corridoio. Lì non c'erano altre finestre né aperture, tranne la porta in fondo al corridoio che dava sul soggiorno. Lui continuò a tenere l'arma puntata in quella direzione mentre, con l'altra mano, prendeva una sacca di tela che portava a tracolla sulla spalla e vi frugava all'interno. Tirò fuori una pistola, nera e compatta, con un cilindro sull'estremità della canna. «Ha mai sparato con una pistola?» le chiese.
Joselyn scosse la testa. «Se mi colpiscono, potrebbe essere costretta a farlo. Mi ascolti bene.» Svitò il cilindro. «Ora tolgo il silenziatore. Farà molto rumore. È meglio. È più facile che le stiano alla larga.» Era molto improbabile che lei riuscisse a colpire qualcosa e il rumore poteva costituire un buon deterrente. «Nel caricatore ci sono quindici colpi. Questi puntini rossi qui sui lati» - glieli indicò -, «quando sono scoperti, quando lei li vede, vuol dire che può sparare. Se non li vede, significa che c'è la sicura inserita.» Fece scattare la sicura più volte, così da farle vedere come funzionava. Poi gliela porse. «Ha capito?» Lei annuì. «Quando inserisce la sicura, il cane scende automaticamente. Per sparare lei toglie la sicura, arma il cane, e preme il grilletto. Punti prima di farlo. Dopo questa operazione, ogni volta che premerà il grilletto la pistola sparerà.» Joselyn annuiva a ogni parola ma, dal suo sguardo intontito, l'uomo intuì che non aveva capito niente. Tirò indietro il carrello e mise il primo colpo in canna, quindi gliela porse. «La tenga puntata lontano da me.» Fuori sparavano all'impazzata: i proiettili colpivano il metallo con tonfi sordi, e si sentiva il tintinnio delle finestre che andavano in mille pezzi. Le tende del soggiorno danzavano, neanche fossero mosse dagli spiriti. L'uomo guardò l'orologio. «Fra tre minuti arriverà un aereo da bombardamento e raderà al suolo questo posto. Dobbiamo assolutamente andarcene da qui.» «Chi è lei?» «Appartengo ai SEAL. Le presentazioni le facciamo più tardi.» Partì in quarta e riprese a strisciare a quattro zampe lungo il corridoio verso il soggiorno. Joselyn guardò la pistola che stringeva in pugno, si accertò che non si vedessero i puntini rossi, e lo seguì, gattonando. Il punto più alto dei loro corpi era il sedere; parevano due segugi che annusavano il tappeto. «Colonnello, la prego, vuol dirmi qual è il suo piano?» urlò Gideon per farsi sentire al di sopra del frastuono del rotore dell'elicottero che si avvicinava a Padget Island. «Dobbiamo aspettare finché non hanno ammorbidito il posto.» L'ufficiale dei marine al comando dell'operazione si stava destreggiando tra i messaggi che arrivavano dagli altri elicotteri della formazione, principalmente
vecchi UH-1 Huey della Guardia nazionale, momentaneamente messi a terra per controlli e poi richiamati velocemente in servizio per ordini superiori: si trattava degli unici mezzi di trasporto che avevano a portata di mano. Il gruppo d'attacco era tutto quello che avevano potuto mettere insieme con un così breve preavviso da Everett. Il colonnello era riuscito a scovare due elicotteri da combattimento Cobra - uno dei quali era un AH-1G residuato del Vietnam, praticamente un pezzo da museo - che dovevano fornire il fuoco di copertura una volta che i suoi uomini avessero toccato terra. «Non sappiamo che cosa troveremo laggiù. Non ho la minima intenzione di mandare i miei uomini a farsi ammazzare. Ho soltanto una manciata di sottufficiali con esperienza di combattimento; la maggior parte degli altri non sono mai stati in azione.» «Non poteva trovare uomini più esperti?» chiese Gideon. «Non ce n'è stato il tempo», ribatté il colonnello. «Lo capisco, ma sono preoccupato per la signorina Cole.» «Crede che sia su quell'isola?» «Sì. Lo sceriffo di Friday Harbor ha trovato il pezzo di carta col numero di telefono, quello che le avevo dato prima di andare sul pontile. Ha trovato anche minuscole tracce di sangue lì vicino.» «Probabilmente è morta», osservò il colonnello. «Io non credo.» Gideon doveva urlare per farsi sentire. «Perché portar via una donna morta? Se l'hanno rapita loro e quell'isola è il centro delle loro operazioni, sono quasi certo che si trovi là.» Il colonnello non si voltò verso di lui, ma anche di profilo a Gideon non sfuggì la sua espressione affranta. «Io ho i miei ordini, signor van Ry. Ci sono precisi protocolli per fronteggiare questo tipo di scenario NBC, cioè nucleare, biologico e chimico. Al momento quell'isola è off-limits per tutto ciò che si muove. Niente può entrare. Niente può uscire. E noi stiamo per scaricarle addosso l'inferno.» «Che tipo d'inferno?» chiese Gideon. «Come può vedere, non ho a disposizione molta potenza di fuoco. Qualche vecchio elicottero per trasportare i miei uomini. Niente artiglieria. Niente veicoli corazzati. Mi avrebbero fatto comodo un paio di Bradley, ma farli arrivare su quell'isola sotto il fuoco di mitragliatrici calibro 50 è un'altra storia. Prima di tutto dobbiamo assolutamente farle tacere.» Gideon scosse la testa e rivolse uno sguardo perplesso al marine, come se non capisse.
«Siamo stati fortunati», urlò il colonnello. «Avevamo un po' di attrezzature da collaudare qui sulla costa.» «Che tipo di attrezzature?» «Un AC-130 pesantemente armato. Quella gente laggiù sta per ricevere una lezione di moderna guerriglia urbana. Proiettili da obice da 105 mm, molto intelligenti ed estremamente letali. Devo far saltare quelle postazioni prima che tocchiamo terra.» «Io sono molto preoccupato per Joselyn Cole», insistette Gideon. «Faremo del nostro meglio per isolare gli obiettivi», rispose il colonnello. «Colonnello.» Il pilota dell'elicottero voltò la testa verso il comandante seduto sul seggiolino dietro di lui. «Abbiamo un contatto.» «Passami la cuffia.» Il colonnello afferrò l'auricolare e se lo avvicinò all'orecchio, parlando nel microfono. «Able, qui è Charlie. Dove vi trovate?» Rimase in ascolto per un secondo. «Bene. Provate l'artiglieria in mare e poi riferite. E state attenti a non affondare qualche peschereccio», concluse, restituendo la cuffia. «AC-130 Spectre», disse poi il colonnello a Gideon. «Sa che cos'è?» L'altro scosse la testa. «Io credo che lei dovrebbe aspettare, colonnello.» «Perché?» «Perché, se un solo proiettile colpisce l'ordigno, potremmo ritrovarci con una gran brutta esplosione.» L'ufficiale dei marine si voltò a guardarlo con un'espressione perplessa. «Di che sta parlando?» Era quello l'unico motivo per cui si era portato dietro l'olandese. La squadra NEST non aveva potuto arrivare in tempo. Ci sarebbero volute tre ore prima che giungesse a Friday Harbor con tutta l'attrezzatura. Gideon era l'unico esperto nucleare sul posto. Avevano bisogno di lui caso mai avessero trovato l'ordigno. «Quella testata russa è molto vecchia», spiegò Gideon. «È un tipo di munizione prodotto all'inizio degli anni '60. È costituito da un nucleo di plutonio circondato da esplosivo convenzionale molto potente. Non possiamo sapere quant'è vecchio quell'esplosivo. Potrebbe essere diventato instabile col passare degli anni. Se venisse colpito da un proiettile, da una scheggia o da qualcosa di rovente, potrebbe esplodere.» L'olandese descrisse lo scenario con tale accuratezza che il colonnello fu costretto a dedicargli tutta la sua attenzione. «Provocherà un'esplosione nucleare?»
«Probabilmente no», rispose Gideon. «E allora dove sta il problema?» «Un'esplosione come quella potrebbe disintegrare il nucleo di plutonio, polverizzandolo e spargendo le particelle nell'atmosfera. Non vorrei trovarmi sottovento se questo dovesse accadere.» «Radiazioni?» mormorò il colonnello. Gideon annuì. «A quale distanza potrebbero arrivare?» «Dipende dai venti prevalenti e dalla quota raggiunta dalla polvere. Sicuramente potrebbe arrivare alla terraferma, e contaminare Seattle, Victoria, Vancouver, a seconda della direzione dei venti.» Il colonnello rifletté: un possibile incidente internazionale. Poi diede un colpetto sulla spalla del pilota. «Passami quelle foto.» Il pilota prese un fascicolo dalla tasca sull'interno del portello e glielo porse. Il colonnello lo aprì e cominciò a esaminare le istantanee contenute all'interno, foto dell'isola scattate da un satellite. «Questo è l'unico edificio di una certa dimensione», disse, mostrando le foto a Gideon. «Se l'ordigno è sull'isola, ci sono buone probabilità che si trovi lì dentro. Non lo metterebbero mai in una delle postazioni fortificate, a meno che non siano del tutto pazzi.» «Forse», osservò Gideon. Il colonnello diede un altro colpetto sulla spalla, poi fece schioccare le dita per farsi passare la cuffia. «Able, parla Charlie. Cambiamento di programma. Lasciate stare la casa. Avete sentito?» Attese la risposta, che Gideon non poté sentire per via del rumore. «Non colpite la casa», ripeté. «Tutto il resto è bersaglio lecito. Avete sentito?» Restò di nuovo in attesa. «Affermativo. Potete entrare ma non colpite la casa.» Restituì la cuffia al pilota. «Quell'aereo è dotato di un obice da 105 mm. Spara proiettili a guida terminale. È in grado di colpire una scoreggia da tremila metri prima che il gas abbia avuto il tempo di uscirti dal culo.» Gideon aveva qualche dubbio sull'accuratezza della metafora e sulla saggezza delle decisioni dell'ufficiale. «Colonnello, se hanno preso loro la signorina Cole, lei è viva ed è su quell'isola.» «Può anche essere così, signor van Ry, ma io ho i miei ordini. Anch'io ho uomini su quell'isola. Non scenderemo sull'isola prima di aver polverizzato quelle postazioni. Lasceremo stare la casa e speriamo per il suo bene che lei si trovi lì dentro.»
San Juan Channel, Stato di Washington quota: 4500 metri Fece partire una lingua di fuoco simile a quella di un lanciafiamme. Quattro colpi scossero la struttura dell'aereo in meno di due secondi. Provarono l'obice in mare. Quattro pennacchi distinti si alzarono nell'aria per dieci metri come piume bianche in fila, mentre i proiettili colpivano la superficie dello stretto ed esplodevano. L'ufficiale di tiro controllò le coordinate sul GPS e il collegamento col computer che controllava la missione. «Siamo pronti. Gira intorno all'isola tenendola sulla sinistra e mantieni una quota di 4500.» Volando a quella quota, su una rotta che non sorvolava l'isola in nessun punto, gli uomini a terra non avrebbero neppure udito l'aereo. La prima indicazione della sua presenza sarebbe giunta sotto forma di proiettili dirompenti ad alto potenziale, che potevano essere diretti con precisione sul bersaglio, proiettili progettati per squarciare pareti rinforzate e penetrare nelle postazioni protette da sacchetti di sabbia. Non sapendo da dove provenivano e senza un nemico cui sparare, gli uomini sarebbero stati presi dal panico. La guerra del Golfo aveva dimostrato che anche i soldati meglio addestrati gettavano le armi e fuggivano di fronte a un nemico invisibile che li colpiva con estrema precisione. Una volta fatto questo, si sarebbe passati alla fase due. I proiettili dirompenti sarebbero stati seguiti dalle munizioni antiuomo. Quando colpivano il suolo, liberavano piccole bombe delle dimensioni di una palla da baseball che rimbalzavano per qualche metro prima di esplodere. Sparati in rapide raffiche di quattro colpi, avrebbero seminato un tappeto di morte, proiettando migliaia di sfere d'acciaio in grado di lacerare la carne e qualsiasi altra cosa avessero incontrato su un'area molto vasta. Il bombardamento avrebbe tolto il sorriso a chiunque non si trovasse al riparo di un bunker di cemento a tre metri di profondità. Quando gli Huey fossero arrivati sulla spiaggia per scaricare le truppe, avrebbero trovato la gente sull'isola in preda al panico che correva di qua e di là inciampando nelle proprie armi, alla ricerca di chiunque potesse accettare la loro resa. Era uno scontro impari, un tiro al piccione. Guemes Channel, Stato di Washington
La lancia a motore volava sulle acque del canale. Thorn seguiva una rotta defilata, lontano dall'attracco del traghetto di Anacortes. «Tenga, lo prenda lei.» Cambiarono di posto e Scott Taggart prese il volantino. «Continui dritto così per il canale.» Thorn prese il binocolo dal ripostiglio. Lo puntò sulla banchina e lo mise a fuoco. A una trentina di metri dalla banchina erano ormeggiate due motovedette della Guardia costiera. «Che cosa c'è?» chiese Scott, voltandosi verso di lui. Entrambi i traghetti erano all'attracco e c'era una coda di macchine che risaliva la collina, arrivando fino all'autostrada. «Che ne pensa?» disse Thorn. Scott strinse gli occhi per vedere meglio. Anche senza binocolo riusciva a vedere la coda di auto. «C'è parecchio traffico, anche per essere un weekend.» «Traffico un corno», ribatté Thorn. «Guardi meglio.» Porse il binocolo a Scott che lo tenne con una mano, mentre con l'altra reggeva il volantino. «Che cosa dovrei guardare?» «Il margine della strada che scende dalla collina verso il terminal dei traghetti.» Scott lasciò il volantino un attimo per mettere a fuoco il binocolo. Sulla destra della strada si scorgeva una fila di veicoli scuri, color verde oliva, tutti con una croce rossa dipinta sulla fiancata e sul tetto. «Veicoli militari», osservò. «Quelle sono ambulanze dell'esercito», spiegò l'altro. «Sembra che stiano aspettando dei pazienti. E hanno bloccato i traghetti.» «Che ne pensa?» «Io direi che è ovvio», rispose Thorn. «Non vogliono avere civili nello stretto di San Juan, almeno non per oggi. Scommetto che ci sono navi militari che lo pattugliano. Forse li abbiamo mancati per un pelo. Non vogliono bravi cittadini tra i piedi, col rischio che vedano qualcosa che non dovrebbero.» Guardò l'orologio. Era preoccupato per Oscar Chaney. Se era in orario, a quell'ora avrebbe dovuto essere già a bordo dell'Humping Goose insieme col camion cisterna. Un piccolo traghetto privato con un'autobotte per lo spurgo delle fosse biologiche a bordo, che faceva la spola tra le isole o, come in quel caso, tra l'isola e la terraferma, non avrebbe destato sospetti sulle acque dello stretto.
Thorn prese una piccola mappa plastificata delle isole e la srotolò. «Se è in orario, Oscar dovrebbe trovarsi più o meno qui, nello stretto di Rosario.» Segnò la rotta col dito sulla mappa. «In due ore dovrebbe arrivare oltre Whidbey, e in un'altra mezz'ora a Keystone.» «Se le navi militari pattugliano lo stretto, ci sono buone possibilità che non ce la faccia a passare.» Thorn sapeva che quella era la parte più problematica di tutto il piano. Finché non fosse uscito dallo stretto e avesse raggiunto la terraferma col camion e l'ordigno, lui e il progetto erano in pericolo. «Conto sul fatto che abbiano abbastanza da fare e che siano occupati sull'isola per le prossime ore. Sempre che i suoi non mollino.» «I miei non molleranno. Moriranno, piuttosto.» «E quando i federali capiranno che l'ordigno non è mai stato là, sarà troppo tardi. Oscar avrà già portato il camion sulla terraferma. Non sapranno che cosa cercare. Milioni di chilometri di strade da coprire e un ordigno nucleare la cui collocazione è ignota. Ogni ora che passa la zona da controllare si allargherà e, con ogni chilometro, le nostre possibilità di riuscita aumenteranno. Non hanno una descrizione del veicolo e, se anche fossero così fortunati da mettere Oscar alle corde, dovranno tenere in considerazione la possibilità che lui lo faccia esplodere.» «Ma lui non lo farà, giusto?» Scott era deciso. «Non finché non abbiamo raggiunto l'obiettivo. Questo non è un atto di rappresaglia. Noi abbiamo uno scopo, un fine ben preciso. Se non raggiungiamo l'obiettivo, non lo facciamo esplodere. Questi erano i patti fin dall'inizio.» «Certo», convenne Thorn. «Però loro non lo sanno.» Scott non sapeva se fidarsi. Il consiglio dei capi della milizia aveva stanziato un premio aggiuntivo di un milione di dollari se Thorn avesse rispettato la data stabilita. Ma era un'eventualità irrealizzabile, e quindi lui temeva che Thorn e i suoi facessero esplodere l'ordigno in qualche città lungo la strada e poi tagliassero la corda. La milizia aveva perso ogni potere contrattuale nell'istante in cui era stato effettuato il pagamento finale, la notte prima che lasciassero l'isola. La somma era passata attraverso conti cifrati in Europa e Thorn aveva confermato che era arrivata. Quelle erano le sue condizioni: non correva rischi, lui. Scott non aveva scelta. «Sono autorizzato a offrirle un incentivo per la consegna dell'ordigno nel luogo stabilito anche se lei non rispetta la data.» Thorn lo guardò senza dire una parola. La prospettiva di altri soldi? «Credevo che foste puliti. Finanziariamente, voglio dire.»
«Abbiamo ancora mezzo milione di dollari.» «Ah.» «Un fondo per le emergenze.» «E quale sarebbe esattamente l'emergenza, in questo caso? Non vi fidate di me?» chiese, sorridendo. Scott non rispose. «Mezzo milione potrebbe comprare un po' di fiducia, suppongo.» «Quanta?» «Tanta per mezzo milione.» Thorn sorrise e guardò dritto davanti a sé. «Una metà adesso, l'altra alla consegna», aggiunse. «Tutti dopo la consegna.» Era una discussione che avevano già affrontato. Thorn scoppiò a ridere forte, il tipo di risata beffarda di chi ti ha già fregato una volta. «Questo significa un premio di un milione e mezzo di dollari se rispetto tutti gli accordi.» «Già... E da questo bel sogno quando si sveglia?» «La data non è ancora passata», ribatté Thorn. «Bene. Un milione e mezzo. Sappiamo benissimo tutti e due che non potete attraversare il Paese in tre giorni con quel camion.» Thorn non rispose. Si limitò a inarcare le sopracciglia come se fosse una questione di punti di vista. «Segua il mio consiglio», disse. «Agisca come se tutto stesse andando come da copione.» «Già. Anche se non è così», osservò Scott. «Mi ha assunto perché sia io a occuparmi dei dettagli.» «Io non l'ho assunto. Lei faceva parte dell'accordo.» «E per un valido motivo», obiettò Thorn. «Impari ad avere un po' di fiducia.» La fiducia non era esattamente la prima cosa che veniva in mente a Scott quando pensava a Thorn. «Non butti via i soldi del premio», disse Thorn. «Mancano ancora tre giorni.» Padget Island Puntini di luce filtravano attraverso la parete del soggiorno a mano a mano che il sole illuminava il molo e la casa. Il rumore degli spari era lontano, ma Joselyn era in grado di sentire l'impatto distinto e ripetuto dei proiettili che perforavano la parete sul davanti della casa e andavano a
piantarsi nel muro di fronte. Sempre carponi, seguì l'uomo con la muta, poi lo imitò e si gettò pancia a terra. Strisciando sul pavimento, costeggiarono il retro del divano sotto una pioggia orizzontale di morte. Finestre e specchi andavano in frantumi. Una lampada da tavolo sopra di loro si disintegrò in una pioggia di frammenti di ceramica. I pannelli delle ante della cucina si polverizzavano come rami d'albero dentro una trinciatrice. Le pile di piatti sui ripiani esplodevano in mille pezzi. L'uomo era ormai giunto alla porta sul retro quando il proiettile lo colpì alla base della schiena, sollevandolo da terra e facendolo ruotare su se stesso. La muta s'impregnò di sangue. Joselyn era sotto shock. Lasciò cadere la pistola e strisciò verso di lui. «Che posso fare?» L'uomo non rispose. Dalle sue labbra uscì solo un lamento di dolore. Lei gli sollevò la testa e guardò verso la pancia di lui. Il proiettile lo aveva trapassato. Il sangue usciva a fiotti dalla ferita. D'istinto, prese a strisciare in direzione della cucina per prendere uno strofinaccio che stava appeso allo sportello del forno. Lo schiocco dei proiettili che superavano la barriera del suono a pochi centimetri dalla sua testa la fece tornare in sé. Si gettò a terra e proseguì strisciando sulla pancia. Afferrò lo strofinaccio e, pochi secondi dopo, era di nuovo accanto all'uomo. Lo premette contro la ferita aperta con tutta la forza che riuscì a esercitare da sdraiata. Guardò gli occhi dell'uomo: erano socchiusi e fissavano il vuoto. Joselyn non aveva mai visto lo sguardo vuoto della morte, ma lo riconobbe. Gli avvicinò un dito alle narici nella speranza di sentire il respiro. Niente. Aveva le mani coperte di sangue. Si guardò intorno. La pistola. La afferrò. L'uomo con la muta aveva detto qualcosa a proposito di uno Spectre che avrebbe fatto a pezzi la casa. Doveva andarsene. Joselyn si sollevò un poco, in modo da afferrare la maniglia della porta sul retro. La girò e socchiuse appena la porta. Fu come un invito per un congresso di calabroni: uno sciame di proiettili colpì la porta trasformandola in legna da ardere. Proteggendosi il viso con le mani, Joselyn guardò la mitraglietta sul pavimento accanto al SEAL morto. Non sapeva se sarebbe stata in grado di usarla. Però aveva visto come la usava lui. La prese e cercò la sicura. Su un lato si trovava una levetta: la fece scattare verso l'alto e vide un puntino rosso comparire sul metallo nero. Era carica?
Con delicatezza, come per non fargli male, spinse il cadavere dell'uomo, facendolo rotolare su se stesso, quindi gli prese la sacca di tela. Guardò dentro. C'erano alcuni caricatori di metallo nero come quello inserito nella mitraglietta. Joselyn ne tirò fuori uno. Era pesante. Scorse la punta di rame dei proiettili impilati all'interno. C'era qualcos'altro: appariva liscio e rotondo, una specie di grosso uovo metallico. Aveva visto foto di granate che somigliavano ad ananas. Quella era diversa, però aveva una linguetta di metallo da una parte e uno spillo con un occhiello all'estremità che la teneva a posto. La prese per sentire quanto fosse pesante, e si chiese come fosse possibile lanciare una cosa del genere. Pesava quanto una padella di ghisa. Con delicatezza la rimise dentro la sacca e continuò a frugare. Trovò una bussola, uno specchietto di metallo, una scatoletta color verde oliva che sembrava contenere del cibo. Nient'altro. Cercò di capire come estrarre il caricatore dalla mitraglietta. Lo tirò, ma quello non cedette. Poi vide un pulsante sul lato dell'arma, lo spinse, e il caricatore cadde a terra. Al suo interno c'erano alcuni proiettili, ma non avrebbe saputo dire quanti. Dando per scontato che quello nella sacca fosse pieno, lo inserì nell'arma e lo picchiò contro il pavimento per farlo andare a posto. Fece scattare la levetta di lato finché non comparve il puntino rosso, quindi puntò la canna tozza verso la parete di fronte. Si ritrasse e voltò la testa di lato mentre premeva piano il grilletto. Joselyn rimase sorpresa dalla vibrazione quasi impercettibile nelle sue mani, mentre una decina di proiettili crivellava la parete. Fine delle esercitazioni di tiro. Afferrò la sacca e partì strisciando verso la porta. Se la casa stava per diventare il bersaglio di qualcosa che si chiamava Spectre, doveva assolutamente andarsene. Si appiattì contro il pavimento e con una mano spalancò la porta. Partì un'altra raffica. I proiettili trapassarono la luce della porta aperta. Joselyn fece scivolare la canna della mitraglietta oltre lo stipite della porta e, senza guardare, premette il grilletto. Una, due, tre volte. Provò una quarta, ma l'arma non voleva più saperne di sparare. Joselyn ritirò la mitraglietta prima che gliela colpissero. Spinse il pulsante e il caricatore cadde a terra. Era vuoto. Frugò nella sacca, ne trovò un altro e lo inserì. Infilò velocemente la canna fuori della porta e premette il grilletto. Niente. Guardò la mitraglietta, la picchiò di lato sul pavimento, riprovò. Non sparava. Se si fossero resi conto che aveva un'arma inservibile, le sarebbe-
ro stati addosso in un attimo. Allora tirò fuori la pistola dalla sacca. Poi, di colpo, ricordò. Il SEAL aveva tirato qualcosa all'indietro nella parte superiore della pistola, quando l'aveva caricata. Guardò con attenzione. Sulla mitraglietta non c'era niente di simile. Poi vide un nottolino di lato. Lo agganciò con un dito e lo tirò con forza all'indietro. Quando arrivò in fondo, il nottolino le scivolò di mano e rimbalzò in avanti. Fece per tirarlo di nuovo e, senza accorgersene, premette il grilletto. I proiettili crivellarono la parete a due metri da lei. «Fatto», mormorò. Si era presa un bello spavento, ma se non altro adesso funzionava. Infilò di nuovo la canna fuori della porta e sparò. In pochi secondi il caricatore era vuoto. Non sarebbe mai riuscita a colpire alcunché e lo sapeva bene. Joselyn guardò nella sacca. Erano rimasti solo due caricatori e quello Spectre stava arrivando. Non aveva idea di che cosa fosse né di quanto tempo le restasse. Per quanto ne sapeva lei, entro un minuto poteva anche andare a raggiungere il SEAL. Frugò nella sacca e trovò lo specchietto di metallo. Inserì un caricatore nuovo nella mitraglietta, poi rotolò sulla schiena in modo da trovarsi sdraiata, con la testa a pochi centimetri dallo stipite. Con la sinistra prese lo specchietto e lentamente lo fece spuntare oltre la soglia. Finalmente riuscì a vedere chi le stava sparando. Quattro uomini dietro una barriera di sacchetti di sabbia, coi fucili appoggiati sopra. Erano a circa quindici metri da lei. Joselyn aveva sparato contro il terreno. Buck Thompson si era portato dietro il suo fucile, un calibro 270 Winchester con mirino telescopico e un rinculo come il calcio di un asino. Era un Remington semiautomatico e non sparava molto veloce, ma poteva colpire un ago a settanta metri di distanza. Thompson era arrivato dalla California solo il giorno prima, per portare a Scott una borsa piena di contanti che provenivano dalle loro attività di autofinanziamento. E adesso stava cominciando a prenderci gusto. «Secondo te in quanti sono là dentro?» chiese all'uomo accanto a lui dietro la barriera di sacchetti di sabbia. «Uno, credo.» Il tizio stava ricaricando un M-16, seduto a terra all'interno della postazione, con la schiena appoggiata alla barriera. «Ce n'era anche un altro, ma credo di averlo preso.» Thompson azzardò un'occhiata oltre la barriera. Vide il riflesso scintillante di un pezzo di metallo o di vetro. «Quel figlio di puttana ci sta osser-
vando con uno specchio.» L'altro uomo infilò il caricatore nel fucile e si avvicinò a lui. Ben presto furono quattro le teste che facevano capolino da dietro i sacchetti di sabbia. «È sdraiato a terra con la testa contro la parete, a destra della porta. Aspettate che ora sparo allo specchio», disse Thompson. «Lo costringerò a restare immobile sulla schiena. Contate fino a tre e poi concentrate il fuoco a livello del pavimento del porticato, appena a destra della porta. Se sparate abbastanza colpi, lo prendiamo alla testa.» Thompson armò l'otturatore del fucile e lo appoggiò sulla barriera. Guardò l'immagine riflessa nello specchietto per parecchi secondi prima di capire: i quattro uomini erano dentro una specie di fortificazione. Uno di loro prese la mira. Joselyn ritirò lo specchietto mezzo secondo prima che facesse fuoco. Il proiettile andò a colpire la soglia di legno e sul dorso della mano di Joselyn cadde una pioggia di schegge di legno. Con una smorfia di dolore, lei se l'avvicinò al petto. Trasse un respiro profondo e poi, senza aspettare o guardare, estrasse due schegge lunghe come aculei di porcospino. Un dolore lancinante le corse lungo il braccio, ma la scarica di adrenalina e la paura fungevano da anestetico. Rotolò su un fianco verso la porta. Si ricordò della conversazione che aveva sentito a proposito delle postazioni che erano state minate. Ripensando alla dislocazione dei sacchetti di sabbia, fece sporgere la canna oltre la porta, questa volta però tenendola più alta, e fece fuoco. Partirono una decina di colpi. Niente. Una salva di proiettili trapassò il muro a pochi centimetri dalla sua testa, mandando in frantumi la gamba di un tavolino di legno d'acero sotto la finestra e colpendo in pieno il cadavere del SEAL morto. La parte inferiore del suo corpo danzò sul pavimento come una marionetta azionata da fili invisibili. Joselyn alzò ulteriormente la canna e premette di nuovo il grilletto, senza lasciarlo andare. Non avrebbe saputo dire quanti colpi aveva sparato, ma la mitraglietta smise di fare fuoco un attimo prima che l'esplosione facesse volar via ciò che restava della finestra sul retro della casa. L'aria surriscaldata dalla deflagrazione si riversò attraverso la porta come una tempesta. Joselyn sentì la vampata di calore sul lato del viso. Uno dei sacchetti di sabbia sfondò il tetto del porticato, precipitando con un tonfo a mezzo metro dalla porta aperta. Lei vide il tessuto bruciacchiato del sacchetto che fumava ancora.
Nel silenzio rotto solo dallo scoppiettio delle fiamme all'esterno, fece capolino oltre la porta. La postazione fortificata era ridotta a un cumulo di macerie carbonizzate. Degli uomini non c'era traccia. Non avrebbe certo atteso l'arrivo dei loro amici. Infilò pistola e specchietto nella sacca e la afferrò. Quindi saltò in piedi. Lanciò un'ultima occhiata al morto steso sul pavimento, e si precipitò fuori più in fretta che poté, correndo verso la collina coperta di alberi dietro la casa. 27 Sala operativa della Casa Bianca Hirshberg chiuse la porta e si lasciò alle spalle l'odore acre del caffè tenuto in caldo sulla piastra troppo a lungo. I corridoi nei sotterranei della Casa Bianca erano sempre più affollati a mano a mano che la giornata lavorativa si avvicinava al mezzogiorno. Passò davanti alla mensa e si diresse verso la piccola rampa di scale che portava allo studio del presidente, al piano superiore. Avrebbe dato qualsiasi cosa per una tazza di caffè fresco, ma non ne aveva il tempo. Salì i gradini due alla volta e imboccò il lungo corridoio. Schiere di giovani stagisti e segretarie si scostarono per farlo passare: parevano le acque del mar Rosso che si dividevano. Nessuno di loro sapeva con esattezza che cosa stava succedendo, ma il presidente aveva cancellato tutti gli appuntamenti all'esterno della Casa Bianca e, per tutta la mattina, si erano visti entrare e uscire dallo Studio Ovale segretari di gabinetto ed esponenti dei massimi vertici militari. Era un periodo dell'anno molto impegnativo. Fervevano i preparativi per il Discorso sullo stato dell'Unione, al quale mancavano solo pochi giorni, ma il subbuglio nell'ala ovest faceva pensare a una crisi internazionale piuttosto che alle solite rosee previsioni di crescita economica e di tempi migliori. A Hirshberg erano venute doppie borse sotto gli occhi che facevano il paio col doppio mento per cui sua moglie lo criticava sempre. Non era più un ragazzo e restare alzato tutta la notte non gli dava più quel senso di eccitazione che provava in gioventù. Non si preoccupò delle formalità ed entrò sparato nello Studio Ovale, richiudendosi la porta alle spalle. Il presidente stava parlando col generale Richard Skzorn, il capo di stato maggiore, e con altri due ufficiali. Erano
seduti sui divani davanti al caminetto. Il presidente alzò lo sguardo. «Novità, Sy?» «Sì, signore. E neanche una buona.» «Ci dica.» «Unità della Guardia costiera a un miglio dall'isola riportano scontri a fuoco e una grossa esplosione.» «Grossa quanto?» «Convenzionale», rispose Hirshberg. Il presidente emise un sospiro chiaramente avvertibile. «Qualche comunicazione da parte dei SEAL? Sono i nostri occhi e le nostre orecchie. Dobbiamo aspettare informazioni da loro prima di decidere il da farsi.» «Non abbiamo ricevuto nulla da loro direttamente», riferì Hirshberg. «Questo significa o che la stazione satellitare non funziona a dovere o che l'hanno persa durante lo sbarco», disse il presidente. «Potrebbero essere stati coinvolti in un conflitto a fuoco prima di avere la possibilità d'installarla», gli fece notare il generale. «Sia come sia, siamo ciechi e sordi», concluse il presidente. «C'è dell'altro», riprese Hirshberg. «Abbiamo avuto perdite.» «Chi?» «I SEAL hanno preso contatto con una delle unità della Guardia costiera su una frequenza militare. È stata una comunicazione molto breve, poi il segnale si è interrotto. Stavano chiedendo che alcune barche andassero a prenderli. Si trovavano sotto tiro. Secondo le informazioni in nostro possesso, due dei cinque uomini non sono neppure arrivati sull'isola. Pensiamo che siano dispersi in mare dopo il lancio notturno.» «Oh, Cristo!» Il presidente si alzò dal divano e si diede un colpo con la mano sulla coscia, poi si voltò verso gli uomini seduti davanti al caminetto. «Come abbiamo fatto a cacciarci in questo casino? Non avremmo dovuto andarci di notte. Si è trattato di un errore. E avrebbero dovuto esserci una squadra molto più numerosa e più tempo per la pianificazione.» «Signore, se ben ricorda è esattamente ciò che noi avevamo suggerito», fece notare il generale. «Lo so, lo so», ammise il presidente. «Sono stato io a fare la telefonata. La responsabilità è mia. Ma questo non rende le cose meno dolorose.» Si voltò verso Hirshberg. «Abbiamo unità che cercano questi uomini?» «È piuttosto difficoltoso, al momento, signore, con altre truppe in arrivo e uno Spectre in volo. Inoltre, stiamo cercando d'intercettare tutte le imbarcazioni nello stretto. Natanti privati da diporto e barche da pesca, caso
mai fossero riusciti a portare l'ordigno fuori dell'isola.» Il presidente fece un sospiro lungo e profondo e rifletté per un istante. «La Guardia costiera ha visto qualche imbarcazione allontanarsi dall'isola, stamattina?» «Non dopo le cinque, quando è stato istituito il blocco totale.» «E allora lasciamo perdere il controllo delle imbarcazioni. Non possiamo passare al setaccio tutto il braccio di mare. Partiamo dal presupposto che l'ordigno sia ancora sull'isola», concluse il presidente. «Mettete tutte le unità disponibili alla ricerca di quegli uomini.» «Signor presidente, non credo che si possa correre il rischio che...» «Non mi contraddica, Sy.» Hirshberg sapeva che era inutile, ma ci provò lo stesso. «Non potrebbero sopravvivere nell'acqua per più di due ore, signor presidente. Neppure con le mute.» «Possono sopravvivere», ribatté il presidente, «sono SEAL, i soldati migliori del mondo. Non voglio che si dica che non ho dato loro ogni possibilità. Smettetela di controllare le imbarcazioni e ordinate a tutte le unità non necessarie per assicurare il blocco di attivare le procedure di soccorso... È chiaro?» «È molto probabile che avremo altre perdite prima della fine della giornata, signor presidente», proseguì Hirshberg. «Speriamo che siano tutte dall'altra parte», osservò il generale. «Sperare non basta per essere sicuri che accada», obiettò Hirshberg. «La maggior parte degli uomini che stanno andando sull'isola non ha esperienza. Solo l'ufficiale al comando e cinque dei suoi sottufficiali hanno pratica di combattimento.» «Noi abbiamo dalla nostra la potenza di fuoco e l'addestramento», ribatté il generale. «Lo spero proprio», disse Hirshberg, «perché ne avremo bisogno, oltre a un bel po' di fortuna, se vogliamo trovare quell'ordigno prima che lo facciano esplodere.» «Sy, veda se riesce a stabilire un contatto con quei SEAL sull'isola. Dica loro che stanno arrivando i rinforzi.» «Lo sanno, signor presidente. La Guardia costiera li ha avvisati di tenersi lontano dalle postazioni, perché saranno i primi obiettivi.» «Bene. È già qualcosa.» «Sarà meglio che scenda a vedere se c'è qualche altro messaggio.» «C'informi immediatamente non appena sa qualcosa», disse il presiden-
te. In navigazione verso Keystone, Whidbey Island, Stato di Washington La motovedetta della Guardia costiera aveva luci blu e rosse lampeggianti sul tetto della plancia. La sua prua tagliò la scia del lento mezzo da sbarco, convertito in traghetto, e gli si accodò colmando velocemente la distanza che li separava. L'Humping Goose non poteva certo competere con la veloce e agile motovedetta. Oscar Chaney, seduto al posto di guida, osservò la scena nello specchietto retrovisore del camion. Abbassò il finestrino dal lato del passeggero e si sporse sul sedile per guardare in alto verso la timoneria. Il comandante aprì il finestrino scorrevole. «Che cosa vogliono?» chiese Chaney. «Vogliono che ci fermiamo, così possono salire a bordo e ispezionare la barca», urlò Nat Hobbs, sporgendosi dal finestrino per rispondere a Chaney. Hobbs portava un berretto da comandante greco tutto infeltrito. Aveva il viso sporco di grasso e il maglione così sudicio e impregnato di sudore che sarebbe stato in piedi da solo. Chaney guardò verso il molo d'attracco per i traghetti a meno di cinquecento metri di distanza. Notò due volanti della polizia ferme vicino all'edificio del terminal e quello che sembrava un vecchio veicolo blu della dogana. «Spero che lei non abbia fretta», disse Hobbs. «Dovrò fermarmi.» «Faccia quello che deve», rispose Chaney. «Potrei cercare di dirigere verso il molo, ma, se faccio loro perdere tempo, finisce che non ci mollano più. Corro il rischio di restare bloccato per due ore per l'ispezione sanitaria mentre quelli mi riempiono di moduli.» Chaney era quasi sicuro che Hobbs potesse avere problemi con l'ispezione sanitaria. Non disse una parola e tirò su il finestrino come per dire che spettava a lui decidere. Poi infilò una mano sotto il sedile del passeggero e prese la 45 semiautomatica, che nascose nella cintura dei pantaloni. La coprì col maglione e fece correre la mano lungo il polpaccio fino al manico del grosso coltello Bowie nascosto dentro lo stivale. Aprì la portiera del camion e scese. Il kalashnikov si trovava sotto il sedile, con un caricatore da cinquanta colpi inserito. Poteva sparare totalmente in automatico, e c'erano altri sei caricatori pieni posati accanto, ma
non avrebbe potuto tenere testa alla mitragliatrice montata sulla prua della motovedetta della Guardia costiera. Chaney lanciò un'occhiata veloce dietro il sedile, verso l'anello di metallo rosso collegato al cavo elettrico. Il cavo passava dentro un buco nel retro della cabina di guida e s'infilava nel serbatoio saldato sul pianale. Era collegato a un detonatore a tempo e a quattro chili di esplosivo al plastico C-4 sistemati proprio sotto l'ordigno. In caso di fallimento, poteva tirare l'anello. Dopodiché aveva esattamente novanta secondi per gettarsi in acqua e nuotare controvento più veloce che poteva. Non si sarebbe trattato di un'esplosione nucleare, però avrebbe fatto saltare in aria il camion e squarciato il serbatoio, spargendo nell'aria polvere di plutonio altamente radioattiva. Se avesse atteso che l'imbarcazione della Guardia costiera fosse assicurata lungo bordo, il caos che ne sarebbe seguito gli avrebbe dato il tempo di scappare. Ora, però, aveva bisogno di guadagnare tempo per prendere il controllo dell'imbarcazione. Chaney accostò la portiera del camion senza chiuderla a chiave, quindi andò verso la poppa dell'Humping Goose e salì la breve scaletta che portava alla timoneria. Quando entrò, Hobbs stava parlando alla radio. «Mi avete già ispezionato il mese scorso.» Lasciò andare il pulsante del microfono e si voltò a guardare il suo passeggero. «Vediamo che avete un camion a bordo», disse la Guardia costiera. «Quanti passeggeri?» «Solo uno. E il camion», rispose Hobbs. «Che cosa c'è sul camion?» chiese la Guardia costiera. «È un'autobotte per lo spurgo delle fosse biologiche. Volete darci un'occhiata?» Passarono alcuni secondi, poi giunse la risposta. «Abbiamo ordine di salire a bordo e ispezionare tutte le imbarcazioni che incrociano in questa zona. Vi ordiniamo di fermarvi e di prepararvi a farci salire a bordo. È chiaro?» «Merda!» esclamò tra sé Hobbs, senza premere il pulsante del microfono. «Lasciate almeno che rientri nel canale ed esca dal corridoio di attracco dei traghetti», disse poi. «A meno che non vogliate provocare una collisione.» Un'altra pausa dall'altra parte. «Sarà meglio che torni al suo camion. Pare che vogliano vedere che cosa c'è dentro», suggerì Hobbs a Chaney durante l'attesa.
«Affermativo», rispose infine la Guardia costiera. «Vi seguiamo nel canale.» Hobbs riagganciò il microfono della radio come se volesse rompere il gancio che lo reggeva. «Figli di puttana. Pensano che non abbia nient'altro da fare.» Stava parlando da solo. «Spero tanto che indossino i guanti bianchi.» Spinse le due manette dei motori diesel dalla posizione di folle a quella di avanti tutta, riportando l'Humping Goose in mezzo al canale. Non prestò attenzione al fatto che Chaney era ancora dietro di lui. «Lo so che quei damerini non oseranno guardare dentro il camion. Una zaffata e se ne torneranno con le loro uniformi bianche inamidate a bordo della loro barca e scompariranno. Nel frattempo, io avrò perso un'ora a menarmelo.» La prua squadrata dell'Humping Goose era progettata per far scendere i veicoli come un mezzo da sbarco della seconda guerra mondiale. Il portellone di prua si apriva idraulicamente e formava una rampa che permetteva ad auto e camion di scendere a riva su una spiaggia o, più frequentemente, su una banchina privata. Il capitano della motovedetta della Guardia costiera la osservava fendere pesantemente le onde mentre tornava verso il centro del canale, in direzione delle acque più agitate dello stretto di Juan de Fuca. In cinque minuti avevano percorso più di un miglio. «Humping Goose, Humping Goose, qui è la Guardia costiera. Fin dove avete intenzione di andare?» Il capitano della motovedetta lasciò andare il pulsante del microfono e restò in attesa della risposta che non arrivò. «Traghetto privato, mi sentite? Qui è la Guardia costiera.» Il canale radio si aprì e l'ufficiale sentì soltanto una scarica statica. Stava per premere il pulsante per parlare ancora quando la frequenza all'improvviso si animò. «Guardia costiera. Qui è l'Humping Goose. Voglio uscire ben fuori del corridoio», disse la voce alla radio. «Ora siete in acque sicure», rispose l'ufficiale della Guardia costiera. «Spegnete i motori e preparatevi a riceverci a bordo.» All'improvviso uno dei marinai arrivò sul ponte. «Signore, comunicato da Everett.» Porse al capitano un foglio di carta con un messaggio battuto a macchina. L'ufficiale stava ancora guardando la poppa del vecchio mezzo da sbarco arrugginita, con la pittura verde scrostata e le parole Humping Goose scritte sul grande specchio di poppa. L'imbarcazione non dava segno di rallen-
tare. Il capitano abbassò lo sguardo e lesse il messaggio, poi imprecò a bassa voce e scosse la testa. Riaprì il canale radio. «Traghetto commerciale, Humping Goose, mi sentite? Abbiamo ricevuto nuovi ordini. Ci hanno dirottato verso la zona settentrionale per un'operazione di salvataggio. Grazie per la vostra collaborazione. Siete liberi di attraccare a Keystone. Ripeto: siete liberi di attraccare a Keystone.» «Grazie, signore. Grazie mille», fu la risposta. La motovedetta della Guardia costiera tagliò la scia dell'Humping Goose e la sorpassò a dritta riprendendo velocità. Gli ufficiali sul ponte non prestarono molta attenzione al comandante dell'imbarcazione, col volto macchiato di grasso e il berretto, che salutava con la mano e sorrideva dal finestrino aperto della timoneria. La motovedetta si allontanò a tutta velocità, tagliando la strada all'Humping Goose a una settantina di metri di distanza prima di virare verso nord. Oscar Chaney si tolse il berretto e lo gettò sul pavimento. Fece rotta a sud lungo il canale. Cambiamento di programma. Non aveva intenzione di dirigersi verso Keystone né verso altri attracchi pubblici. Stavano cercando qualcosa e lui sapeva di che cosa si trattava. Lanciò un'occhiata alle sue spalle, verso il fiume di sangue che stava cominciando a formare una pozza vicino alla soglia della timoneria. Il grosso coltello non aveva solamente reciso la vena giugulare e la carotide: aveva quasi decapitato Nat Hobbs. Le grandi conifere, alte anche trenta metri, sembravano gli alberi carbonizzati di una flotta distrutta. Erano stati spogliati dei loro rami, alcuni spezzati a metà dai colpi di obice sparati dal cielo. Un albero su tre era stato decapitato. Molti stavano ancora bruciando. Il bombardamento non era stato efficace come si era pensato in un primo tempo. La folta vegetazione aveva fatto sì che molti colpi esplodessero a livello della cima delle piante. Nonostante questo, però, si scorgevano cadaveri ovunque. Gideon contò almeno otto morti in un raggio di quindici metri dal punto di atterraggio dell'elicottero. Saltò giù dietro il colonnello e corse, accucciato, finché non si trovarono fuori del flusso d'aria del rotore. «Signor van Ry, voglio che lei resti qui.» Il colonnello si voltò a guardarlo. «Lascerò uno dei miei uomini con lei. Faccia tutto quello che lui le dice. Siamo intesi?»
«Colonnello, se l'ordigno è su quest'isola, io suggerirei di trovarlo alla svelta.» «Anche noi siamo ansiosi di trovarlo, ma non abbiamo ancora neutralizzato tutti i terroristi. C'è una sacca di resistenza giù alla spiaggia. Voglio che lei stia qui finché la zona non è del tutto sotto controllo.» «E che ne sarà della signorina Cole?» chiese Gideon. «Ho avvertito i miei uomini di cercarla. Non voglio che debbano preoccuparsi anche di lei, quindi resti qui.» Non era un suggerimento. Era un ordine. Gideon annuì. Sembrava che il colonnello non si fidasse di lui. «Caporale», disse, rivolgendosi a uno dei giovani marine dietro di lui, «voglio che lei tenga d'occhio il signor van Ry. Se gli dovesse succedere qualcosa, la riterrò personalmente responsabile. Intesi?» «Sì, signore.» «Bene. E ora andiamo a quella spiaggia.» Il colonnello fece per allontanarsi. «Dov'è il mio operatore radio?» Una manciata di uomini lo seguì mentre arrivava un altro elicottero. Un altro giovane marine, con una radio sulla schiena e un'antenna piegata a cerchio che gli spuntava da dietro una spalla come un'aureola d'angelo crollata, raggiunse il colonnello a grandi falcate. Questi prese la cornetta che il ragazzo gli porgeva e cominciò a parlare, ma Gideon non riuscì a sentire quello che diceva. Il frastuono dei rotori e della turbina che salivano di giri preparandosi al decollo copriva tutto il resto. Si alzò una nube di polvere e Gideon e il caporale voltarono la schiena coprendosi gli occhi. L'elicottero si alzò in volo e virò sopra gli alberi, dirigendosi verso il mare, ma subito dopo ne arrivò un altro. «Faremmo meglio a toglierci di qui», disse Gideon. Il caporale non parve fare obiezioni, e così lo scienziato si diresse verso un boschetto di alberi inceneriti su una collinetta che dominava il lato ovest dell'isola. Quando si fu allontanato a sufficienza dal rumore che lo assordava, trovò un masso piatto, si tolse dalle spalle lo zaino con l'attrezzatura, lo appoggiò a terra e si sedette sulla roccia. Guardò l'orologio. Era mezzogiorno passato e il suo stomaco vuoto stava brontolando. Non mangiava dalla sera precedente, quando aveva cenato in compagnia di Joselyn a casa di lei sull'isola di San Juan. Si chiese se fosse viva o morta. Il frastuono lontano degli elicotteri adesso era inframmezzato dal rumore di armi da fuoco, colpi singoli e brevi raffiche, gli echi di quelli che sem-
bravano raffiche di mitragliatrici, o di qualcosa di più grosso. Il caporale afferrò il suo M-16 e se lo portò al petto con un'espressione preoccupata. «Che c'è?» chiese Gideon. Il soldato era in piedi su una roccia che affiorava dal terreno vicino al ciglio della scogliera e guardava in basso, verso qualcosa che Gideon non poteva vedere. «Non mi piace qui. Siamo allo scoperto», disse il marine. «Se c'è qualcuno con un fucile, laggiù, siamo un bersaglio troppo facile.» Indicò qualcosa e Gideon si alzò per guardare. Più sotto, riparato dalla scogliera, sorgeva un grosso edificio, il cui retro stava ancora fumando. Non vide movimenti né segni di vita. Oltre la casa si trovava una caletta con quello che restava di un piccolo pontile: varie sezioni mancanti e alcuni piloni carbonizzati fino al pelo dell'acqua. «Quello è l'edificio principale?» chiese Gideon. «Credo di sì.» «Ha una mappa?» Il marine scosse la testa. Gideon si voltò a guardare in direzione degli spari. «Mi pare di capire che la spiaggia è sull'altro lato dell'isola.» «Già.» «Allora probabilmente qui siamo al sicuro.» Gideon tornò al suo masso e frugò nello zaino. Tirò fuori l'unico strumento utile che aveva pensato di portare con sé: un piccolo binocolo. Purtroppo non era abbastanza potente. Lo puntò sulla casa e mise a fuoco. Il posto sembrava deserto. Lo tenne il più fermo possibile e cercò un segno di vita, qualcosa che si muovesse, ma l'unico movimento era quello delle volute di fumo nero e denso che gli attraversavano la visuale. «Vede qualcosa?» chiese il caporale. «No. Vuole dare un'occhiata lei?» Il marine sorrise, si mise il fucile a tracolla, e lo prese. Cominciò la perlustrazione dall'angolo della casa più vicino al molo, cercando disperatamente, per quanto gli permetteva il binocolo poco potente, di esplorare le finestre alla ricerca di armi puntate. Lo fece lentamente, passando in rassegna la casa da un capo all'altro. «Vede qualcosa?» «No.» Il caporale aveva ancora quell'espressione preoccupata. «Perché non andiamo giù a dare un'occhiata?» suggerì Gideon.
Il marine fece una risata amara. «Non se ne parla.» «Dov'è il suo senso dell'avventura?» Gideon sorrise, come se volesse sfidare il coraggio dell'altro. «L'ho lasciato a casa», rispose il soldato. Può anche essere giovane, pensò Gideon, ma non è uno stupido. Il rumore calò di colpo non appena gli elicotteri si portarono verso il mare. L'improvvisa interruzione del frastuono assordante venne subito riempita dalle urla provenienti dalla radura. Il caporale si voltò per vedere che cosa stava succedendo, mentre Gideon dava un'altra occhiata col binocolo. Quando tornò a voltarsi, il marine sembrava totalmente distratto e dava la schiena alla scogliera. «Che c'è?» «Non lo so, ma c'è qualcosa.» Si sentirono altri spari in lontananza. Adesso sembravano colpi di mitragliatrice pesante. Gideon si voltò ancora una volta a guardare la casa. Si domandò se Joselyn potesse essere là dentro. Non sapeva quali altri edifici esistessero sull'isola, ma la casa era sicuramente il nascondiglio più probabile per l'ordigno. Quando si girò verso il caporale, vide che era totalmente assorbito dalla scena che si svolgeva nella zona d'atterraggio. C'era qualcosa che non andava e il ragazzo aveva rizzato le antenne. «Forse dovremmo andare a vedere», suggerì questi. Gideon afferrò lo zaino e lo seguì verso la radura. A questo punto i marine stavano risalendo dalla spiaggia a gruppi di quattro o cinque, tutti con espressioni diverse ma ugualmente sconvolte. Alcuni correvano, altri camminavano, ma tutti dimostravano un'unica emozione: la paura. «Che cos'è successo?» Il caporale cercò di fermarne uno, ma l'uomo gli sfuggì. «Che diavolo sta succedendo? Qualcuno me lo vuole dire?» Era accaduto qualcosa e una paura contagiosa si stava impadronendo dei giovani marine sulla collina. Ora arrivavano a gruppi più numerosi. Sembrava una ritirata in piena regola. Gideon capì che erano in preda al panico. Afferrò un soldato per il braccio. Il ragazzo lasciò andare il fucile e lo guardò con espressione vuota. «Tu!» gli disse col tono più severo che gli riuscì di assumere. «Dimmi che cos'è successo.» «La... la... la testa...» «La testa di chi?» «Del co... del co... colonnello Simmons.»
«Che è successo al colonnello Simmons?» «La sua testa... non c'è più.» «Che stai dicendo?» «Il colonnello è morto. Gli hanno sparato alla testa. È... esplosa.» «Chi comanda, adesso?» «Non lo so», rispose il marine. Gideon lo lasciò andare un attimo, il tempo di radunare le idee, ma, prima di poterlo afferrare di nuovo, il ragazzo se n'era andato, lasciandosi dietro il fucile e correndo giù per la collina nella direzione opposta. Gideon si chinò e raccolse l'arma. Il caporale che aveva avuto da Simmons l'incarico di tenerlo d'occhio era stato contagiato dal panico generale che si stava propagando come un'epidemia. Si trovavano nei guai e Gideon lo sapeva. Dalla spiaggia giungeva ancora rumore di spari di armi pesanti. «Dov'è la radio?» disse Gideon. Nessuno gli prestò attenzione. «Chi ha la radio?» 28 Denver International Airport Scott Taggart regolò l'orologio sull'ora della costa orientale, saltando quella del Colorado, visto che si sarebbe fermato lì per meno di un'ora. Cercò di calcolare quanto tempo era passato da quando aveva depositato Thorn nel piccolo aeroporto privato di Arlington, nella Skagit Valley. Moriva dalla curiosità di sapere che cosa ci facesse laggiù Thorn, ma si era guardato bene dal chiederglielo. Quell'uomo non era il tipo da spartire informazioni, a meno che non avesse uno scopo ben preciso. A quel punto, Scott doveva solo arrivare all'aeroporto di Seattle e salire sull'aereo per la costa est. Arrivato a Denver, andò a un telefono pubblico e fece la telefonata come Thorn gli aveva ordinato. Digitò il numero del telefono cellulare e lo sentì squillare due volte. «Sì?» Era Thorn. Pareva senza fiato, e la sua voce era coperta da un rumore di fondo che faceva pensare a un ambiente industriale: macchinari pesanti e il suono insistente dell'avvisatore acustico di qualche veicolo che stava facendo marcia indietro. «Parla Taggart.»
«Stavo cominciando a preoccuparmi», disse Thorn. «Sono arrivato in questo momento. Il volo aveva venti minuti di ritardo.» «Allora non ha molto tempo. Guardi dentro la valigetta. Troverà una chiave con sopra stampato in rosso un numero. Apre un armadietto che si trova nell'atrio. Vada all'armadietto. Tutto ciò che le serve e le istruzioni si trovano all'interno. Ha capito?» «Sì.» «Segua le istruzioni alla lettera», ordinò Thorn. «Come faccio a contattarla?» «Non ce n'è bisogno. Si limiti a seguire le istruzioni.» La comunicazione fu interrotta. Thorn aveva chiuso prima che Scott potesse dire un'altra parola. Riattaccò il ricevitore, sollevò la valigetta, la posò sulla superficie metallica sotto l'apparecchio telefonico, la aprì e guardò dentro. La valigetta era rimasta sempre con lui dalla notte prima, quando lui stesso l'aveva preparata. Eppure, sul fondo, c'era una chiavetta d'ottone con la sigla C-142 stampata in plastica rossa. Thorn doveva averla messa a bordo della barca quella mattina, quando si erano scambiati i posti e lui era passato al timone. Prese la chiavetta e cominciò a cercare gli armadietti. Il primo gruppo che trovò non corrispondeva al numero stampato sulla chiave. Il suo volo era atterrato con venti minuti di ritardo. Il tempo di sbarcare e gli restava solo mezz'ora prima della partenza dell'altro. C'era voluto un po' di tempo anche per la telefonata a Thorn. Guardò l'orologio: aveva meno di diciotto minuti per trovare l'armadietto e prendere la coincidenza. Padget Island, Stato di Washington Due elicotteri si stavano avvicinando alla zona d'atterraggio. Gideon li vide arrivare bassi sopra l'acqua. Solo che questa volta non si trattava dei goffi e pesanti Huey che avevano sbarcato Simmons e i suoi uomini. Questi erano più piccoli, con una sagoma agile e snella. Gideon riconobbe le silhouette scure grazie alle fotografie che aveva visto sul Jane's Defense Weekly. I due Cobra passarono bassi e velocissimi sulla zona d'atterraggio, costringendo i marine a terra a correre al riparo; poi si diressero verso la spiaggia, da dove provenivano gli spari. Evidentemente qualcuno che co-
mandava aveva trovato una radio. Gideon non restò a vedere che cosa sarebbe successo. Se voleva scoprire che cosa si trovava nella casa, doveva agire subito. Il caporale che Simmons gli aveva messo di guardia era impegnato ad ascoltare i commilitoni che descrivevano le scene del massacro sulla spiaggia. Raccolse da terra l'M-16 che il marine in preda al panico aveva lasciato cadere. Se lo mise a tracolla, afferrò lo zaino con l'attrezzatura e prese a correre lungo un sentiero che si snodava attraverso un boschetto di alberi carbonizzati e sembrava andare nella direzione giusta, verso la casa sulla baia. Gideon era soltanto una delle tante persone che scappavano dalla zona di atterraggio: in meno di un minuto si era allontanato dai soldati sulla collina. Era solo e si muoveva veloce lungo il sentiero polveroso. Dopo una curva vide la casa, questa volta da un'angolazione diversa. Si fermò dietro un albero e osservò il davanti dell'edificio col binocolo. La maggior parte delle finestre era fracassata. Quelli che sembravano escrementi di mosca sulla pittura bianca della facciata sotto il porticato si rivelarono, grazie al binocolo, fori di proiettili. Intorno alla casa si era svolta un'accesa battaglia e Gideon si chiese quale ne fosse il motivo. Simmons aveva dichiarato l'edificio off-limits per l'aereo da combattimento. Perlustrò l'area davanti alla casa. C'era una postazione protetta da sacchetti di sabbia che sembrava vuota, anche se poteva vederla solo in parte perché coperta dal tetto di lamiera di metallo. Lasciò cadere il binocolo nello zaino e riprese a scendere. Dieci metri più avanti attraversò un ruscello. Il sentiero divenne molto più ripido. Scivolò sul pietrisco e perse l'equilibrio. Allora afferrò il fucile e riuscì a tenerlo sollevato, ma finì di traverso e cominciò a rotolare giù per il dirupo. Precipitò senza riuscire a controllare la caduta. Il contenuto dello zaino si rovesciò. Il fucile gli sfuggì di mano: la tracolla gli si avvolse intorno al braccio e, a metà collina, il grilletto urtò contro qualcosa. Il fucile sparò senza colpirlo, ma lo scoppio così vicino alla testa lo assordò. Continuò a rotolare verso il basso e in qualche modo riuscì ad afferrare nuovamente il fucile. Lo tenne stretto come fosse un'ancora di salvezza. Fu solo quando smise improvvisamente di rotolare e si ritrovò all'interno di un piccolo burrone che Gideon si rese conto di non aver controllato se il fucile era carico e aveva la sicura inserita. Il fatto che non si fosse sparato
da solo era un miracolo, ma ora chiunque nell'arco di mezzo chilometro dalla casa sapeva della sua presenza. Rimase lì, stordito, per qualche momento, cercando di riprendersi. Sentì un bruciore alla gamba e guardò in basso. I pantaloni erano strappati e la pelle della coscia che s'intravedeva attraverso lo strappo ricordava il colore dei lamponi frullati. Il braccio destro appariva graffiato e spellato dal polso fino al gomito. Cercò di rimettersi in sesto. Guardò verso la cima della collina e vide tutta l'attrezzatura sparsa per il pendio. Aveva ancora lo zaino legato al braccio e la cinghia intorno al polso. Liberò il braccio e appoggiò lentamente lo zaino a terra per vedere che cos'era rimasto dentro. Il pesante contatore Geiger si trovava ancora in fondo a tutto, anche se dubitava che potesse funzionare dopo tutti i colpi che aveva preso. Il binocolo e la bussola, invece, non c'erano più. Guardò con aria afflitta il pendio. Non aveva tempo per andarli a recuperare. Facendo molta attenzione, cercò la sicura sul fucile e gli parve di averla trovata. Era un esperto in armamenti, ma aveva poca esperienza con le armi da fuoco. Fece scattare avanti e indietro più volte il blocco di metallo a forma di cuneo finché non fu certo di quale fosse la posizione giusta. Armeggiò ancora qualche istante col fucile e riuscì a sganciare il caricatore. Controllò che ci fossero dei proiettili. Sembrava pieno. Ne estrasse uno. Proiettili calibro 5.56 NATO. L'Olanda era uno dei membri della NATO, ma Gideon ne sapeva di più sull'organizzazione che sulle armi in dotazione. Quello era un proiettile piccolo, a forma di bottiglia, molto simile a un 22, ma più pesante e più lungo. Immaginò che fosse blindato e che pesasse cinquanta o sessanta grani. Il fucile sarebbe stato precisissimo fino a una distanza di circa duecento metri, nelle mani di un buon tiratore, cioè, cosa che lui non era affatto. Poteva dirsi fortunato se fosse riuscito a colpire un bersaglio grosso e fermo a un centinaio di metri. Sperò di non doverlo usare. Se vi fosse stato costretto, avrebbe sparato un colpo alla volta, sperando di riuscire ad avvicinarsi abbastanza da scoraggiare chiunque a interessarsi a lui. Non aveva voglia di ammazzare nessuno e ancora meno di farsi ammazzare. Rimise a posto il proiettile e inserì con cura il caricatore nel fucile. Controllò ancora una volta la sicura, si gettò il fucile a tracolla, prese lo zaino e si alzò.
Quando fece il primo passo con la gamba ferita si accorse di zoppicare pesantemente. Il sangue stava rapidamente impregnando il tessuto dei pantaloni, ma il dolore gli fece capire che non si trattava di una ferita grave. Ora non aveva tempo per occuparsene. Strinse i denti e mosse i primi passi, poi, man mano che le giunture si scioglievano e il bruciore alla gamba si faceva meno forte, allungò l'andatura. Ancora qualche passo e cominciò a muoversi con scioltezza. Si diresse verso la casa che si trovava a una cinquantina di metri da lui, oltre una piccola radura. Sentì lo spostamento d'aria del proiettile che passava un attimo prima di sentire il rumore dello sparo. Gideon cadde a terra come un sacco di patate. Denver International Airport Scott guardò in altre due sale laterali che si aprivano sul corridoio principale prima di trovare l'armadietto giusto. Infilò la chiave nella serratura e la girò. Con molta attenzione, facendo una certa pressione con una mano, mentre con l'altra tirava delicatamente, socchiuse lo sportellino di metallo, quel tanto da permettere a una lama di luce di penetrare all'interno. Poi si guardò intorno per vedere se qualcuno lo stava osservando. Il largo corridoio era pieno di viaggiatori, e quasi tutti andavano di corsa. Nessuno sembrava prestare particolare attenzione a quanto succedeva davanti alla fila di armadietti. Scott sbirciò all'interno. Sul fondo dell'armadietto c'era un foglio di carta, un foglio singolo piegato, pareva. Posato sopra questo scorse un contenitore di vetro, in apparenza una bottiglietta di dopobarba. Lì vicino c'era anche una cartina di fiammiferi nuova. Controllò che non ci fossero cavetti o cordini che collegassero la bottiglietta allo sportello, che tradissero una qualche trappola esplosiva. Non si era mai fidato di Thorn, fin dall'inizio. L'entrata in scena di quell'uomo era indissolubilmente legata all'ordigno nucleare, parte vincolante dell'accordo. Scott non aveva mai capito il perché: sapeva soltanto che quella era una condizione non negoziabile. Il loro gruppo aveva pagato a quell'uomo un sacco di denaro, procurato con truffe ingegnose e qualche rapina a mano armata, specialmente a banche con grossi giri di contanti. Per quanto ne sapeva lui, l'ordigno nucleare che avevano acquistato poteva anche trovarsi in fondo allo stretto, gettato in mare da Thorn al primo segnale di pericolo. Lui lo aveva visto solo una volta, e per un attimo, do-
po essere stato bendato e portato in una località sconosciuta. Era una condizione che lui stesso aveva posto per il pagamento. Se le cose si fossero messe male, il primo istinto di Thorn sarebbe stato quello di eliminarlo. Perché lasciarsi dietro qualcuno che avrebbe potuto identificarlo? In fondo, lui aveva fatto uccidere la donna per quel motivo. Continuò a fissare l'interno dell'armadietto. No, non c'erano cavetti né fili da pesca collegati allo sportello né tra il fondo dell'armadietto e la bottiglietta. Ma c'era un'altra possibilità. La bottiglietta era abbastanza grande da contenere un alto esplosivo, nitro, o qualcos'altro di altrettanto potente. Poteva essere preparato in modo da essere fatto esplodere da una fotocellula: quando lo sportello si fosse aperto e il flacone fosse stato colpito da luce sufficiente... bang! Scott richiuse delicatamente lo sportello e vi si appoggiò con una spalla per tenerlo chiuso. Prese un fazzoletto dalla tasca e si asciugò il sudore dalla fronte, poi guardò l'orologio. Gli restavano otto minuti, se voleva prendere l'aereo. Sollevò velocemente la valigetta e frugò all'interno. Prese un blocco formato protocollo rilegato a spirale e strappò un bel po' di fogli, in modo da avere un certo spessore di carta. Poi lasciò andare la valigetta e mise i fogli davanti allo spigolo dell'armadietto, a mo' di scudo; quindi aprì leggermente lo sportello con la massima attenzione, pochi millimetri alla volta. Aveva il labbro superiore imperlato di sudore. Finalmente, quando ebbe aperto lo sportello di qualche centimetro, v'infilò la mano di piatto, tenendo i fogli tra il pollice e il palmo. Poi richiuse lo sportello contro l'avambraccio e cercò di schermarlo alla luce il più possibile con la spalla. Tastò all'interno. Allungò lentamente la mano verso la bottiglietta, facendo attenzione e non urtarla e a non rovesciarla. La afferrò e vi avvolse intorno la carta. Cercò di sentire se il vetro presentava qualche protuberanza che potesse indicare l'esistenza di una fotocellula fissata all'esterno del contenitore, ma le sue dita rilevarono solo la forma simmetrica e liscia del flacone. Non voleva correre rischi. Lo sollevò con attenzione, sempre tenendolo avvolto nella carta. Poi afferrò il foglio di carta piegato sul fondo dell'armadietto. Aiutandosi con le labbra e la mano libera, lo aprì e lo lesse. Il messaggio, brevissimo, era battuto a macchina. Scott aggrottò la fronte e sulle sue
labbra comparve un sorriso mentre ne assimilava il contenuto. Era così semplice da risultare geniale. Provò per Thorn una rinnovata ammirazione. Non era più preoccupato che la bottiglietta potesse esplodere. La sfasciò con cura, poi controllò il tappo per accertarsi che fosse ben chiuso, quindi la posò sul fondo della valigetta e vi spinse contro alcuni oggetti per tenerla ferma, in modo che non si rompesse o si rovesciasse. Seguì alla lettera le ultime istruzioni sul biglietto. Rimise il foglio nell'armadietto, poi si voltò per accertarsi che nessuno lo stesse osservando. Senza togliere le mani dall'armadietto, prese la cartina di fiammiferi posata all'interno, ne accese uno e diede fuoco a un angolo del foglio. Chiuse lo sportello in modo da non far uscire il fumo e guardò dalla fessura superiore: la carta si trasformò lentamente in cenere mentre le fiamme compivano il loro lavoro. Quando aprì lo sportello, ne uscì una lieve spirale di fumo, però nessuno parve accorgersene. Scott mise dentro una mano e spazzò via la cenere, gettandola a terra. Poi guardò l'orologio: aveva meno di cinque minuti per prendere l'aereo. Afferrò la valigetta e corse verso il cancello. Sembrava proprio che Thorn si sarebbe guadagnato il premio extra. Padget Island, Stato di Washington Al rumore del primo sparo, Joselyn avanzò lentamente, con cautela, verso il limitare della macchia di alberi piegati dal vento. Era tutta la mattina che sentiva sparare in lontananza, ma questa volta era diverso: gli spari sembravano molto più vicini. Rimase in ascolto. Uscì dalla macchia, coi sensi in allerta come un cerbiatto spaventato, stringendo tra le mani la mitraglietta del SEAL morto. Le restava soltanto un caricatore. Aveva nascosto la sacca con la pistola e la granata nel cavo di un albero nel boschetto. Sarebbe stato il suo ultimo riparo se fosse stata costretta a battere in ritirata. Joselyn era appena uscita dal boschetto e stava guardando in direzione del sentiero quando lo vide, seduto a terra a un centinaio di metri da lei, che si osservava la gamba dei pantaloni, sollevandola con la punta delle dita. Erano gli stessi pantaloni beige e la stessa camicia bianca che indossava la notte precedente, quando l'aveva lasciata sulla banchina di Friday Harbor. La figura allampanata seduta a terra, intenta a ispezionarsi i pantaloni, era Gideon. Non aveva idea di come fosse arrivato sull'isola, e non le im-
portava. Sapeva solo che si trovava lì per lei e che non era più sola. Senza riflettere, lasciò andare la mitraglietta e si mise a correre. Gideon non la vide. Sembrava tutto concentrato sullo zaino posato a terra davanti a lui e sulla casa. Non guardò neppure una volta verso il boschetto sull'alta scarpata dietro la casa. Joselyn girò intorno ad alcuni massi di arenaria e s'infilò in un piccolo fossato nel quale scorreva un ruscello; quando arrivò in fondo, fece per arrampicarsi sull'altra sponda e lo perse di vista. Non riusciva a risalire, anzi continuava a scivolare all'indietro. Si aggrappò ad alcune piccole radici che sporgevano dal terreno, ma queste le rimasero in mano. Allora si voltò e seguì il corso del torrente, la strada più facile. Continuò a correre per quello che le parve almeno un minuto, anche se in realtà non furono che pochi secondi. La sua testa spuntò dal margine del fossato. Fu allora che rivide Gideon: stava avanzando con passo claudicante attraverso la radura ed era diretto alla casa. Joselyn alzò un braccio e stava per chiamarlo quando il colpo del calcio del fucile sulla tempia la fece cadere a terra e rotolare dentro il ruscello. Non aveva visto l'uomo nascosto tra le rocce sopra di lei. Mentre rotolava nell'acqua bassa del ruscello, Joselyn colse una fugace visione del suo volto, ustionato e ripugnante. L'unica cosa che le impedì di perdere conoscenza fu lo shock al contatto con l'acqua gelida e la scarica di adrenalina nelle vene. Intontita, guardò verso l'alto e lo vide prendere la mira. Buck Thompson era un ottimo tiratore, ma il suo fucile aveva subito danni nell'urto contro il terreno, quando la postazione era saltata in aria. Portò il reticolo di tiro del mirino telescopico sul petto dell'uomo e premette il grilletto. Incapace di scuotersi di dosso gli effetti del colpo e di rimettersi in piedi nell'acqua del ruscello, Joselyn udì lo scoppio secco del fucile, mentre lo sparo rimbombava contro le pareti del fossato. Un attimo dopo l'uomo le fu addosso, il fucile puntato contro il suo viso mentre lei si metteva in ginocchio, l'estremità affusolata della canna così vicina da sfiorarle la tempia. Acciaio freddo e duro. L'uomo aprì l'otturatore e fece uscire il bossolo, inserendone un altro. «Non urlare.» Joselyn aprì la bocca, ma non ne uscì nessun suono. «Non lo fare.» La voce uscì dalle labbra distorte, orribilmente bruciate e
annerite su un lato. Dal modo in cui aveva sparato e poi era saltato giù dalla spaccatura tra le rocce, Joselyn capì che aveva centrato il bersaglio. Gideon era morto. La sua mente registrò il pensiero senza realmente accettarlo. Cominciò a urlare. Non riusciva a distogliere lo sguardo dalla faccia dell'uomo, che le pareva una sintesi di tutto il grottesco degli avvenimenti delle ultime ventiquattr'ore. Urlò in preda al terrore e alla repulsione per la morte che l'attorniava. Sembrava che l'occhio destro dell'uomo fosse scomparso; un lato della faccia aveva la consistenza e il pallore della cera fusa, ma era anche bruciacchiato e annerito come carne lasciata troppo a lungo sullo spiedo. L'occhio buono continuava a guizzare tra lei e il ciglio del piccolo burrone. Eppure Joselyn lo riconobbe. Era l'uomo col fucile di precisione, quello che aveva visto nello specchietto mentre era sdraiata vicino alla porta aperta. Lei non aveva idea di come avesse fatto a sopravvivere all'esplosione. L'uomo la colpì sulla testa con la canna del fucile, non forte, ma con una violenza sufficiente a interrompere le urla che sembravano perforargli come un coltello la cavità nasale sfondata. Joselyn lo guardò inorridita, ma smise di urlare. Lui allora sollevò la canna del fucile e afferrò la donna per un braccio, costringendola ad alzarsi. Poi la spinse davanti a sé, verso l'avvallamento dove il piccolo fossato sfociava nella radura. Arrivarono così in piano, vicino al lato della casa: Joselyn era davanti, con la canna del fucile puntata contro la schiena. L'uomo continuava a sbirciare con l'occhio buono oltre la spalla di lei, cercando d'individuare il corpo dell'uomo che aveva freddato. Erba e fiori selvatici formavano un mare impenetrabile alto quasi mezzo metro, che si estendeva per un centinaio di metri. Avendo abbandonato la collinetta, l'uomo non riusciva più a localizzare il suo bersaglio. Voleva piantargli un altro proiettile in corpo, tanto per essere sicuro. Mentre costeggiavano la casa, attirò a sé Joselyn per farsene scudo. Lei sentì l'odore di carne bruciata e il fischio del respiro attraverso il tessuto edematoso delle vie respiratorie ustionate. «Rallenta.» Nella voce dell'uomo si avvertiva la paura. Joselyn sapeva che, da un momento all'altro, avrebbe potuto premere il grilletto e conficcarle un proiettile nella schiena. Lui la teneva sempre davanti a sé, strisciando con le spalle contro il muro della casa.
«Che c'era, dentro?» le sussurrò all'orecchio. «Di che sta parlando?» «Dei sacchetti di sabbia dietro la casa... Che c'era dentro?» «Non sono stata io», mormorò Joselyn. «Esplosivo?» Lei annuì. «Chi è stato?» «L'uomo che chiamate Thorn», rispose lei. «Li ha fatti minare.» «E perché?» «Non voleva testimoni. Non voleva che qualcuno di voi sopravvivesse.» «Non ti credo.» «Spara dentro quelli», lo invitò lei, muovendo la testa, per quanto le era possibile, verso la protezione di sacchetti di sabbia sul davanti della casa, che si trovavano a non più di dieci metri di distanza. Lui lanciò uno sguardo in quella direzione, ma continuò a tenerla saldamente per la spalla, il fucile sempre puntato contro la sua schiena. «Se non mi credi, fallo», insistette Joselyn. «Ho un'idea migliore», disse l'uomo. «Vai a metterti là.» La lasciò andare e le diede una spinta violenta con la canna del fucile. Joselyn barcollò in avanti per qualche passo, quindi si fermò. «Avanti.» L'uomo ansimava. Joselyn stava pensando che, se fosse riuscita a guadagnare un po' di tempo, forse lui sarebbe svenuto. Si voltò e lo guardò. «Se vuoi spararmi, fallo ora.» «No. Voglio che tu vada laggiù.» Indicò i sacchetti di sabbia con la canna del fucile. «Ti ho detto la verità. Non sono stata io.» «Tu ci hai sparato dentro.» «Soltanto perché voi mi stavate sparando addosso.» «Muoviti», sibilò l'uomo. C'era una pozza d'odio nell'unico occhio che la guardava dal volto sfigurato. Joselyn arretrò di qualche passo, tenendo le mani alzate come per ricordargli che era disarmata. Ma dall'espressione su ciò che restava di quel viso, capì che non aveva più importanza. L'uomo conosceva il dolore che lo aspettava e voleva vendetta. Lei arretrò di qualche altro passo. La canna del fucile cominciò a descrivere ampi cerchi mentre lui prendeva la mira. «Ancora.»
Joselyn fece altri due passi e si voltò a guardare alle proprie spalle. Si trovava a meno di due metri dall'angolo della postazione. «Avvicinati a quei sacchetti.» L'uomo portò il fucile contro la spalla e cercò d'inquadrarla attraverso il mirino. A distanze minori di dieci metri si vedevano soltanto sagome indistinte, ma non poteva mancarla. Si appoggiò col fianco al muro esterno della casa per trovare sostegno e potersi riparare dall'esplosione dietro l'angolo. Joselyn arretrò finché non arrivò a toccare i sacchetti con le natiche. Vi si appoggiò e si mise a pregare. «Oh, Signore, fa' che si sbrighi.» Una sottile scheggia di legno si staccò dalla modanatura sull'angolo della casa proprio all'altezza del suo occhio un istante prima che il rumore dello sparo echeggiasse contro la scarpata. L'uomo rimase immobile, come sospeso da qualche forza soprannaturale, mentre il fucile gli cadeva lentamente di mano. Le sue ginocchia cedettero. Joselyn osservò quel corpo rigido riacquistare fluidità e crollare a terra, accanto alla casa. Si voltò a guardare la radura alle sue spalle. Un gigante alto e magro se ne stava inginocchiato tra l'erba e i fiori, con un fucile in mano. Gideon alzò gli occhi al cielo e ringraziò Dio per il tiro fortunato. 29 Padget Island, Stato di Washington Un tiratore scelto dei marine esaminò il fucile di Buck Thompson che era stato rinvenuto accanto alla casa. Il mirino telescopico aveva preso un colpo, probabilmente quando la postazione era saltata in aria, e gli attacchi si erano leggermente spostati. Il proiettile aveva mancato Gideon per pochi centimetri. Per quasi tre ore i marine, con Gideon alle calcagna, perquisirono a una a una le strutture esistenti sull'isola. Il contatore Geiger ticchettò solo per segnalare di quando in quando sporadici aumenti delle radiazioni di fondo, ma niente di più. Dell'ordigno nucleare nessuna traccia. Poco dopo mezzogiorno arrivò la squadra NEST che proseguì nelle ricerche. Gideon e Joselyn furono fatti salire a bordo di un elicottero dei marine e trasportati alla base di Whidbey Island, dove vennero separati. Joselyn voleva sapere perché erano trattenuti, ma nessuno le rispose. Alla base le fu permesso di fare una doccia e darsi una ripulita, sotto la continua sorveglianza di un ufficiale donna dei marine, quindi venne visi-
tata da un dottore e medicata per le numerose abrasioni ed ecchimosi. Il medico temeva che potesse avere una commozione cerebrale. Il bernoccolo alla nuca, causato dalla manganellata che aveva ricevuto la notte in cui era stata rapita, come pure la guancia su cui Thompson l'aveva colpita col calcio del fucile erano molto gonfi e arrossati. «È in pericolo di vita?» chiese un agente dell'FBI dall'espressione fredda e dura. «Probabilmente no, ma io la responsabilità di farla viaggiare non me la prendo», rispose il medico. «Allora può farlo», decretò l'agente. Le diedero una tuta blu della marina per sostituire gli abiti sporchi e strappati e venne fatta salire in tutta fretta a bordo di un piccolo jet dell'aviazione in compagnia di due agenti. Un attimo dopo comparve Gideon, pure lui vestito con una tuta della marina. Dovette piegarsi quasi a metà per passare attraverso il portello del piccolo jet. Quando la vide, coperta di cerotti e vestita con una tuta di due taglie più grossa, sorrise. «Magnifico. Che fortuna che avessero una tuta del tuo colore preferito», disse. «Si sieda e allacci la cintura di sicurezza», gli ordinò l'agente. Gideon si sistemò sul sedile accanto a Joselyn. Chiacchierarono per un'oretta, poi il ronzio monotono dei motori li fece finalmente addormentare, Joselyn con la testa appoggiata sulla spalla di lui e Gideon con la testa sopra quella di lei. Gideon venne svegliato dalla graduale diminuzione di altitudine e di pressurizzazione. Istintivamente guardò l'orologio e soltanto allora si rese conto di non averlo. Lo aveva lasciato a Whidbey Island, insieme coi vestiti. Cambiò posizione sul sedile. Joselyn sbatté le palpebre e si svegliò, stiracchiandosi con uno sbadiglio. «Credo che stiamo per atterrare», le disse. «Sai che ora è?» Joselyn si guardò il polso nudo. «No.» Lanciò un'occhiata fuori del finestrino, ma non riuscì a vedere nulla. Stavano attraversando un banco di nuvole. Dieci minuti dopo, sentirono le ruote dell'aereo toccare la pista. L'aereo finì la sua corsa vicino a un grande hangar. Dai finestrini si vedevano solo aerei militari, da combattimento e da trasporto, allineati lungo la pista. Gideon allungò il collo per guardare fuori. C'era un altro grosso aereo, blu e bianco, con ali scintillanti color argento, parcheggiato dentro un enorme hangar a un centinaio di metri. Sulla coda era dipinta una grande
bandiera americana, proprio sopra il numero 28000. Le parole UNITED STATES OF AMERICA erano scritte a lettere scure sulla parte superiore della fusoliera. «Credo che ci troviamo nella base di Andrews», osservò. Un furgone governativo blu scuro venne a fermarsi sul piazzale accanto all'aereo. Gideon fu costretto letteralmente a disincastrare le gambe con le mani e, una volta uscito dal portello del piccolo aereo dell'Air Force, continuò a camminare tutto rigido. Si sentiva come se fosse uscito da una scatola di sardine. Joselyn scese la scaletta prima di lui. Riposata e coi piedi finalmente sulla terra, si sentì subito più combattiva. «Dove ci state portando?» chiese, rivolgendosi a uno degli agenti. «Adesso lo vedrà.» L'uomo aprì la portiera scorrevole del furgone e fece loro segno di salire. Joselyn non si mosse e, quando Gideon fece per obbedire, lei lo fermò. «Siamo in arresto?» Gli agenti la guardarono, poi si scambiarono un'occhiata. Dalla loro espressione era chiaro che non lo sapevano neppure loro. «Se siamo in arresto, voglio un avvocato e voglio sapere di che cosa siamo accusati.» «Più tardi», ribatté l'agente. «No. Adesso.» Le avevano sparato addosso, l'avevano presa a calci, minacciata con un fucile ed era quasi saltata per aria in un'esplosione. E adesso non aveva intenzione di muoversi finché qualcuno non le dava una risposta. Gideon colse l'espressione severa sul volto dell'agente. «Non credo che sia il momento d'impuntarsi su princìpi legali», osservò. La prese delicatamente per un braccio e le fece cenno di salire sul furgone. «Dove ci stanno portando?» «Non lo so.» «Be', io non vengo finché non ottengo delle risposte.» «Temo che, se non sali, ti caricheranno sul furgone con la forza.» «Dia ascolto al suo amico», disse l'agente. «Voglio parlare con qualcuno che comanda», insistette Joselyn. «È proprio lì che vi stiamo portando», replicò l'agente, «a parlare con chi comanda.» Joselyn guardò Gideon. Non era per niente soddisfatta. Incrociò le braccia e si mise a battere un piede per terra, ma non si mosse. «Potremmo sempre chiamare l'ambasciata olandese», osservò Gideon.
Joselyn non lo guardò, ma la sua espressione truce s'incrinò, poi scoppiò a ridere e tutta la sua determinazione svanì. Salirono sul furgone, mentre l'agente scuoteva la testa. Viaggiarono per un'ora in un traffico cittadino sempre più fitto prima di cominciare a vedere le sagome ben note: il Lincoln Memorial, quello di Jefferson in lontananza, sull'altro lato, e l'alto obelisco del Washington Monument... Joselyn non era mai stata a Washington prima di allora e restò col naso incollato ai finestrini atermici del furgone come una turista, mentre l'automezzo sfrecciava davanti ai monumenti. Gideon sembrava più apatico. Le scariche di adrenalina del giorno precedente lo avevano lasciato affaticato, nonostante la dormita sull'aereo. Venne riportato bruscamente alla realtà quando il furgone svoltò e andò a fermarsi davanti a una cancellata di ferro nero. L'espressione sul volto di Joselyn parlava da sé. «È davvero quello che penso?» Gideon non disse una parola, ma si sporse in avanti tra i sedili anteriori su cui c'erano i due agenti. In lontananza, attraverso la cancellata dell'ingresso sud-ovest, si scorgeva l'ovale scintillante del porticato della Casa Bianca con le sue colonne doriche. Uno degli agenti mostrò le credenziali a una guardia in uniforme dentro la garitta. Qualche attimo dopo la cancellata si aprì elettronicamente. Il furgone risalì la West Executive Avenue e svoltò a destra, andando a fermarsi davanti all'ingresso sotterraneo dell'ala ovest. Lo sportello scorrevole del furgone si aprì; due uomini in giacca e cravatta che sembravano agenti del servizio segreto aiutarono Joselyn e Gideon a scendere. Senza dire una parola, i due uomini li accompagnarono all'interno. Passarono davanti a una guardia, presero la prima porta a destra e scesero qualche gradino. Joselyn sentì odore di cibo. Quando arrivarono in fondo, vide la mensa della Casa Bianca, una specie di piccola caffetteria dalle pareti di un bianco lucido. «Aspettate qui.» Uno dei due agenti rimase con loro mentre l'altro si avvicinava a una grande porta chiusa. Un marine in uniforme con un'arma al fianco si trovava di guardia accanto alla porta. L'agente digitò un codice sulla tastiera vicino alla porta, la porta si aprì e lui scomparve all'interno. La caffetteria era piena di gente. Giovani in cravatta e maniche di camicia arrotolate e segretarie in minigonna salivano e scendevano le scale; apparivano così compresi nel loro ruolo che sembrava fossero impegnati in
una missione per conto dell'Altissimo. Nessuno pareva fare attenzione a Gideon e a Joselyn. Con quella tuta lei si sentiva come una vagabonda. Cercò di darsi una rassettata ai capelli con le mani, rimpiangendo di non avere un pettine, uno specchio e qualcosa per truccarsi. Qualche attimo dopo, la porta si aprì di nuovo e l'agente uscì. Era accompagnato da un uomo più anziano, con le maniche della camicia arrotolate fino al gomito e il nodo della cravatta allentato a metà petto. Teneva i piccoli occhiali a lunetta sollevati sulla fronte come una visiera. Poi si tolse gli occhiali dalla fronte e li tenne un attimo in mano prima di avviarsi verso di loro. «La signorina Cole e il signor van Ry, presumo.» Porse la mano presentandosi con un sorriso, il primo che vedevano in mezza giornata. «Sono Sy Hirshberg.» Gideon riconobbe il nome. «Sono il consigliere del presidente per la sicurezza nazionale. Desidero ringraziarvi per essere venuti.» «Non mi pare che ci sia stata data scelta», ribatté Joselyn. Lui ignorò quel commento. «Avete fame? Desiderate qualcosa da bere?» «Io sto morendo di sete», disse Joselyn. «Che cosa gradisce?» «Un'acqua tonica, se l'avete.» «Perfetto. E lei, signor van Ry?» «Sì, anche per me. Va benissimo.» Bastò un'occhiata di Hirshberg e il truce agente del servizio segreto si trasformò di colpo in un cameriere. «E, già che ci sei, vedi se riesci a farti preparare un paio di sandwich.» «Per me senza salumi», disse Joselyn, mentre l'agente si voltava, dirigendosi verso la mensa. «Se volete seguirmi da questa parte», riprese Hirshberg, «abbiamo un sacco di domande da farvi e pochissimo tempo.» Li accompagnò alla porta con l'apertura a combinazione, la aprì e li fece entrare. Si trattava di una sala riunioni circondata su tre lati da due piccoli uffici, postazioni di computer e cubicoli pieni di attrezzature elettroniche. La zona riunioni al centro era piccola e affollata: ogni centimetro veniva sfruttato per qualche funzione. Su uno schermo appeso a una parete era proiettata una mappa in grande scala che mostrava nel dettaglio grosse sezioni del North Puget Sound, la regione che circondava l'arcipelago di San Juan.
C'erano alcuni tavoli sistemati a formare un rettangolo con una zona aperta nel mezzo, ai quali sedevano vari uomini e due donne. Alcuni uomini portavano l'uniforme. Gideon riconobbe immediatamente una delle donne: era Sheila Johnstead, l'ambasciatore americano alle Nazioni Unite. Gli occhi di Joselyn erano invece puntati sull'uomo seduto in fondo alla sala. Non poté trattenersi dal fissarlo. Aveva davanti a sé il presidente degli Stati Uniti. Lui non sorrise e li degnò appena di uno sguardo. Era impegnato in una conversazione con un uomo seduto proprio davanti a Joselyn, con la schiena rivolta verso di lei. «Non so spiegarle quanto questo sia importante», disse il presidente. «Lo capisco, signore», annuì l'altro uomo. Non poteva vederlo in faccia, però la sua voce aveva un che di familiare. Joselyn pensò che forse era qualcuno che aveva sentito intervistare in televisione. Vennero fatti accomodare su due sedie sistemate contro la parete, accanto alla porta. La stanza era così affollata che sembrava quasi scoppiare. Giovani assistenti se ne stavano in piedi contro il muro, con taccuini e penna, prendendo appunti di quando in quando. Nella sala la tensione era palpabile, soffocante come fumo. «Mi rendo conto che è importante, signore, ma le prove raccolte davanti a un gran giurì, per avere importanza, devono essere mantenute segrete.» «Siamo in una situazione di crisi», ribatté il presidente. «Non lo capisce?» «Sì, certo», rispose la voce. Joselyn si sporse leggermente di lato per vedere almeno il profilo del volto, ma non ci riuscì. «E allora ci aiuti», riprese il presidente. «Lei è l'unico che ha esaminato tutte le prove riguardanti questo caso. Io le chiedo, nella mia veste ufficiale di presidente, di dirmi tutto quello che sa riguardo a questa faccenda.» «Con tutto il dovuto rispetto, signore», rispose l'uomo, «l'articolo sei del codice di procedura penale non prevede eccezioni per la divulgazione d'informazioni in possesso del gran giurì, anche se riguardanti la sicurezza nazionale.» La rivelazione colpì Joselyn come un fulmine. L'uomo seduto davanti a lei era Thomas McCally, il sostituto procuratore di Seattle, l'uomo che aveva lasciato ad attenderla in tribunale il giorno in cui Belden era fuggito. «Be', la legge non prevede eccezioni, ma dovrebbe farlo», ribatté il pre-
sidente. «Questa, signore, è una faccenda tra lei e il Congresso», gli fece notare McCally. Joselyn inarcò le sopracciglia. Il procuratore stava evidentemente nuotando in acque politiche molto insidiose. Il presidente fece saltare in aria una matita che atterrò nella terra di nessuno fra i tavoli. «È tuo. Pensaci tu», disse poi, rivolgendosi ad Abe Charness, il ministro della Giustizia, che era seduto poco distante da loro. Charness rivolse un sorriso imbarazzato a McCally e si passò una mano tra i radi capelli grigi spettinati, che sembravano diminuire sempre più in fretta ogni minuto che passava. Aveva la camicia segnata da profonde macchie di sudore sotto le ascelle, dove si era ammucchiata, spinta dalle spesse bretelle che gli giravano sulle spalle strette. Non era un pezzo d'uomo, ma fece appello a tutta la sua autorità. «Non abbiamo il tempo di leggerci tutte le trascrizioni del gran giurì. Diamo per scontato che, se lei avesse scoperto qualcosa a proposito dell'ingresso illegale di un ordigno nucleare nel nostro Paese, avrebbe allertato gli organismi interessati, il Consiglio di Sicurezza Nazionale e i servizi militari.» McCally annuì. «Quindi possiamo dire che lei non ha avuto tale informazione.» «Esatto.» «Bene. Il presidente ha una domanda molto semplice, dalla cui risposta dipende la politica dell'amministrazione. Abbiamo bisogno di sapere se, dalle deposizioni dei testi chiamati a testimoniare in relazione alla sua inchiesta, è mai saltato fuori il nome di Viktor Kolikov.» «Questo non glielo posso dire», rispose McCally. Charness alzò gli occhi al soffitto e imprecò tra sé. Non voleva entrare nei particolari, non davanti ai membri dello staff e ai pezzi grossi delle forze armate. I membri del gabinetto ormai avevano capito o immaginato quale fosse il problema. Il presidente non poteva essere sicuro che fosse stato fatto il nome di Kolikov, ma, se così era, e se si giungeva a formulare incriminazioni per le attività dei gruppi paramilitari nello Stato di Washington e se Kolikov era stato coinvolto nella vendita di un'arma di distruzione di massa, allora risultava impossibile far passare la cosa sotto silenzio. Se, d'altro canto, il nome di Kolikov non era uscito fuori nelle indagini, era necessario mantenere un basso profilo nelle ricerche della bomba. Se fossero riusciti a trovarla in fretta e senza rumore, il collegamento tra Kolikov e l'ordigno poteva non diventare di dominio pubblico. Il fatto che il
presidente avesse accettato da lui donazioni per la campagna elettorale si sarebbe risolto con un piccolo bip sullo schermo. «Ci sta dicendo che non lo sa?» riprese Charness. McCally non replicò. «Ci sta dicendo che non ricorda se ha mai sentito fare quel nome in relazione alle indagini, signor McCally?» «Io vi sto dicendo che non ho intenzione di addentrarmi nei contenuti di una testimonianza resa al gran giurì, in una stanza piena di persone non autorizzate a ricevere tale informazione.» «Dunque sarebbe libero di riferire al ministro della Giustizia, in privato, ciò che sa relativamente a tale questione?» disse il presidente. Il procuratore ci pensò un momento e poi fece un sospiro profondo. «Se mi venisse assicurato che l'informazione non sarebbe ulteriormente diffusa e che mi è richiesta per scopi legittimi connessi all'applicazione delle leggi, esclusivamente allo scopo d'investigare e perseguire un reato...» Il presidente lo guardò e sorrise. Finalmente stavano arrivando da qualche parte. Charness poteva chiudersi in una stanza con McCally, farsi dare l'informazione che lui voleva, poi uscire dalla stanza e spifferargli tutto in separata sede. Charness, però, non aveva un'espressione tanto felice. Il presidente sapeva bene che stava commettendo un grave reato e che si serviva del ministro della Giustizia per compierlo. Doveva assolutamente scoprire se Kolikov era implicato nella vicenda prima di scegliere quale strada intraprendere e decidere il livello d'impegno con cui condurre le ricerche dell'ordigno. «Le suggerirei, signor Charness, di conferire col signor McCally in privato», disse il presidente con un cenno del capo. «Può usare una delle sale riunioni secondarie.» Indicò la porta di quello che sembrava un ripostiglio adiacente alla sala operativa. McCally vide Joselyn quando si alzò in piedi. Deglutì ed ebbe difficoltà a sostenere il suo sguardo. Sapevano entrambi che l'inchiesta del governo sarebbe stata compromessa, e che, a meno che Charness non fosse un uomo di ferro, nel preciso istante in cui fosse uscito dalla sala riunioni, il presidente gli avrebbe tirato fuori tutte le informazioni. Joselyn provò un nuovo senso di rispetto per le persone come McCally, che lavoravano in trincea. «Chi è questo Kolikov?» chiese poi a Gideon, parlandogli nell'orecchio. Lui fece un sorriso enigmatico. «Un mercante d'armi», sussurrò. Il nome
di Kolikov era uscito fuori tante volte nei rapporti dell'Istituto di Santa Crista da renderlo ormai notissimo negli ambienti che si occupavano del controllo delle armi. Joselyn alzò lo sguardo verso di lui. «Di armi... nucleari?» Gideon alzò una mano e fece un ampio gesto come per dire che tutto era possibile. «E l'avvocato?» chiese il presidente. «Quella donna... Com'è che si chiama?» «Joselyn Cole», rispose Hirshberg. «Già, Cole. Qualcuno l'ha sentita?» «È qui, signor presidente.» «Ah.» Il presidente sollevò lo sguardo e lo fece girare per la stanza, alla ricerca di una signora in tailleur. «Dove?» Joselyn alzò timidamente una mano. Dopo aver visto che cos'era capitato a McCally non era più così sicura di voler collaborare. «Ah.» Il presidente esaminò il modo in cui era vestita e le contusioni sul volto, poi sussurrò qualcosa a un uomo che stava alla sua destra e che gli porse alcuni fogli e una piccola scatola. Il presidente ascoltava, continuando ad annuire e a guardare Joselyn. A un certo punto inarcò le sopracciglia e corrugò la fronte, leggermente sorpreso. Poi l'assistente si raddrizzò e il presidente tornò a sedersi davanti al tavolo. «Bene, signorina, ho sentito che lei ha avuto due giorni piuttosto tormentati. Si avvicini, la prego. Signori, fatele posto. Trovatele una sedia.» Le acque si aprirono. All'improvviso si trovò diretta verso la sedia lasciata libera da McCally. Esitò. Non voleva andare senza Gideon. «E quello è il suo amico?» chiese il presidente. «È Gideon van Ry», rispose Joselyn. «È merito suo se mi trovo qui. Senza di lui sarei morta.» «Prego, si avvicini anche lei, signor van Ry.» Uno degli uomini seduti al tavolo si alzò per lasciargli il posto. Joselyn e Gideon si avvicinarono e si misero a sedere. «Penso che comprendiate entrambi la gravità della situazione...» disse Hirshberg. «Credo di sì», annuì Joselyn, «anche se non sappiamo proprio tutto.» «Oserei dire che ne sapete molto più di noi», obiettò il presidente. Sorrise e dal tavolo si levò una risatina. «È per questo che siete qui. Abbiamo bisogno del vostro aiuto. Ci risulta, signorina Cole, che lei rappresentava quell'uomo, quel Dean Belden, davanti al gran giurì di Seattle.»
«Sempre che quello fosse il suo vero nome», ribatté Joselyn. «A quanto pare, molte delle cose che mi ha detto non erano vere.» «Mi dicono che lei credeva fosse morto, che fosse rimasto ucciso in un incidente aereo.» «Proprio così.» «Pare che sia lei sia il procuratore siate stati ingannati.» «Sì.» «Dunque lui non è morto?» incalzò il presidente. «No. In qualche modo è riuscito a inscenare la propria morte a mio beneficio, in modo che la riferissi alle autorità. Vede, mi ha usato perché lo identificassi. Voleva risultare ufficialmente morto cosicché il governo smettesse di dargli la caccia. Era l'unica strada per portare a termine ciò che stava facendo.» «E sarebbe?» chiese il presidente. «Non ne sono del tutto certa. Ha cercato di uccidermi due volte. La prima, la sera stessa dell'incidente aereo. Sono sicura che ha cercato di spingere la mia auto, con me dentro, giù dal traghetto nel Puget Sound.» «E la seconda?» chiese Hirshberg. «Sull'isola», rispose Joselyn. «Ha dato ordine di uccidermi. L'unico motivo per cui sono ancora viva è che un SEAL mi ha salvato la vita, pagando con la propria. Su quell'isola sono morti molti uomini. Ho visto i loro corpi.» «Sì, lo so.» Il presidente sembrava molto a disagio. «Quella gente, la gente sull'isola, intendo, potrebbe avere un ordigno nucleare. Lei lo ha capito?» Joselyn annuì. «Ha qualche idea di dove sia?» «No.» Il presidente guardò verso Gideon, il quale scosse la testa. «Lei, signore, lavora con l'Istituto contro la distruzione di massa, in California?» «Sì, signor presidente.» «Desidero ringraziarla per il vostro aiuto. Ci siamo messi in contatto col direttore dell'Istituto. È stato estremamente disponibile. Siamo a conoscenza del suo viaggio nell'ex Unione Sovietica e delle informazioni che ha raccolto. Ci sono state di grande aiuto e le siamo tutti molto grati per questo.» «Purtroppo non sono state sufficienti, signore.»
Il presidente lo guardò come se non capisse. «... a tenere l'ordigno fuori del vostro Paese», completò Gideon. «Ah, sì. Certo.» Hirshberg li interruppe. «Signorina Cole, lei si trovava su quell'isola con quegli uomini. L'hanno tenuta segregata, giusto?» «Sì.» «Mentre si trovava là, ha udito qualcosa?» «Ho visto Belden. È venuto nella camera dov'ero tenuta prigioniera. Credo che si facesse chiamare con un altro nome.» «Quale?» «Thorn. Gli uomini sull'isola lo chiamavano Thorn.» Le persone sedute intorno al tavolo presero appunti. «Sembrava fosse lui il capo», proseguì Joselyn. «Stiamo cercando d'identificare i corpi rinvenuti sull'isola per vedere se è tra i morti», spiegò Hirshberg. «State perdendo il vostro tempo», sbuffò Joselyn. «Non lo troverete. Ha lasciato l'isola in compagnia di un altro uomo prima che cominciasse il raid aereo.» Quelle parole suscitarono un frenetico scambio di occhiate intorno al tavolo. «Abbiamo una foto dell'uomo che crediamo sia Belden», le disse il presidente. «Le dispiacerebbe guardarla e darci una conferma?» Joselyn annuì. Un assistente le porse un fascicolo con dentro la foto. Lei lo aprì e la guardò. «Sì, è lui», disse infine. «Bene. Inviate quella foto a tutte le forze di polizia e ai federali», ordinò il presidente. «Dite che è ricercato per...» Guardò verso la sedia del ministro della Giustizia, ora vuota. Uno degli assistenti in piedi contro la parete fece qualche passo in avanti, guardò il presidente con aria perplessa e disse: «Rapimento, omicidio e aggressione di agenti federali». «Basta così», annuì il presidente. «Non mettiamo niente riguardo all'ordigno nucleare, almeno per ora. Non vogliamo seminare il panico.» «Assicuratevi che tutti vengano informati che è estremamente pericoloso», aggiunse Hirshberg. «E se le forze di polizia locali o statali dovessero identificarlo, che non cerchino di fermarlo. Dovranno avvisare immediatamente l'FBI.» «Bene», convenne il presidente, e poi si rivolse a Joselyn. «Ha detto che ha lasciato l'isola in compagnia di un altro uomo. Ce lo può descrivere?» Joselyn ci pensò per qualche istante. «Era basso, sul metro e sessanta-
cinque, non di più. Capelli castani, un'incipiente calvizie, occhi scuri, carnagione scura. Un viso un po' triste.» «Potrebbe aiutare i disegnatori dell'FBI a comporre un identikit al computer?» La domanda arrivò da un uomo dallo sguardo penetrante, seduto sul lato destro del tavolo. «Posso provarci.» «Ha detto che era scuro di carnagione», proseguì Hirshberg. «Potrebbe trattarsi di uno straniero?» «Non parlava con accento straniero.» «Lo ha sentito parlare?» chiese il presidente. «Solo poche parole. Avevano molta fretta. È arrivato sulla porta della camera in cui ero tenuta prigioniera e ha detto a Belden che era ora di partire. Non ho sentito altro.» «Era legata, imbavagliata?» chiese uno degli altri uomini. «Ero legata, sdraiata su un letto. Belden mi aveva strappato il nastro isolante dalla bocca. Mi stava interrogando.» «Che voleva sapere?» «Voleva sapere che cosa avevo detto alle autorità dopo l'incidente aereo. E chi era il signor van Ry. Lo avevano visto sul molo vicino alle barche, a Friday Harbor, la notte in cui mi avevano rapita. Pensavano lavorasse per il governo.» «E lei che cos'ha detto?» «Niente. Non c'era niente che potessi dire perché non sapevo niente. Belden era già al corrente dei miei clienti, dei pescatori che si erano ammalati. Si pensava che la loro malattia fosse legata agli scarichi di qualche industria.» «E che cos'era?» chiese Hirshberg. «Un avvelenamento da radiazioni», rispose per lei Gideon. «I militari hanno confermato che il molo e molte delle barche erano stati contaminati» «In che modo?» chiese il presidente. «Tramite l'ordigno. L'involucro esterno si è rotto. Il nucleo di plutonio è uscito dall'involucro sul ponte durante una tempesta e si è abraso.» «Sarebbe a dire?» fece Hirshberg. «Il plutonio è molto... tenero», spiegò Gideon. «Se sfrega contro una superficie ruvida si trasforma in polvere. Se la polvere entra nei polmoni, di solito è mortale. Ma non credo che sia stato questo il problema. Sulla barca che ho trovato c'erano livelli troppo alti di contaminazione. Sono convinto
che ci fosse anche qualcos'altro.» «Che cosa?» chiese il presidente. «Credo che chiunque abbia ideato quell'ordigno avesse in mente qualcosa di particolarmente letale. Temo che abbiano combinato l'ordigno nucleare con una certa quantità di cesio-137.» «Ci spieghi meglio», disse Hirshberg. «Il cesio è un materiale estremamente tossico. È un sottoprodotto del processo di raffinamento del plutonio. Emette radiazioni gamma molto forti. Dev'essere maneggiato con molta attenzione per evitare un'esposizione accidentale. A temperatura ambiente è liquido, ma reagisce violentemente al contatto con altri materiali. È solubile in acqua e crea molti problemi alle persone che devono smaltirlo.» «Perché avrebbero dovuto prendersi il disturbo di trasportare su quella imbarcazione qualcosa che è fondamentalmente uno scarto di produzione?» chiese uno dei militari. «Per essere più sicuri», rispose Gideon. «Nel caso l'ordigno non avesse raggiunto la massa critica e quindi non si fosse innescata alcuna reazione nucleare a catena, l'esplosivo convenzionale sistemato intorno al nucleo dell'ordigno avrebbe vaporizzato il cesio, rilasciandolo nell'atmosfera. In quantità sufficienti è decisamente letale. Trasportato dal vento, avrebbe potuto uccidere migliaia, forse decine di migliaia, di persone.» «In mancanza di meglio», osservò uno degli altri militari, «sarebbe stato già un gran bel messaggio da parte di Saddam o di Muammar.» «Sempre che ci siano davvero loro dietro questa cosa», puntualizzò Hirshberg. «Io credo che su quell'imbarcazione ci fosse una certa quantità di cesio e che se ne sia rovesciata una parte.» Gideon ignorò la loro ossessione di dare un nome al colpevole. Il demone nucleare si stava comunque rivoltando contro i suoi creatori. «Quindi, essenzialmente, ci troviamo davanti a una dirty bomb?» disse uno dei militari. «No», rispose Gideon. «Una dirty bomb basa la propria potenza distruttiva esclusivamente sul fall-out. Io credo che questo sia un ordigno nucleare cui è stato aggiunto il cesio per renderlo ancora più letale. Ovunque venga fatto esplodere, quel luogo si trasformerà in un deserto di morte, inabitabile per centinaia d'anni.» Intorno al tavolo scese il silenzio. Il viso del presidente era solcato da rughe profonde.
«Questa è l'unica cosa che possa spiegare livelli così alti di contaminazione su quella barca», proseguì Gideon. «E che area potrebbe coprire questo fall-out?» «Dipende dal vento», rispose Gideon. «E dall'eventuale presenza della pioggia.» «Dov'è quell'imbarcazione, adesso?» chiese il presidente. «L'imbarcazione che è stata contaminata, voglio dire.» «È stata rimorchiata in mare aperto, insieme con molte altre barche da pesca.» Fu uno dei militari a rispondere. «Stanno decontaminando i pontili. Potrebbe anche rendersi necessario rimuoverne una parte.» «Hanno analizzato quello che si trovava sulla barca?» chiese il presidente. «Non lo so», rispose l'uomo in uniforme. «Be', s'informi... Signorina Cole, gli uomini sull'isola le hanno fatto altre domande?» Lei scosse la testa lentamente. «No, che io ricordi.» «Sa con quale mezzo Belden e l'altro uomo hanno lasciato l'isola?» Lei scosse la testa, poi rifletté. «Una barca? Mi pare che l'altro uomo abbia detto qualcosa a proposito di una barca.» Non riusciva a ricordare se l'aveva realmente sentito dire o se l'aveva soltanto dedotto. «Ha udito una barca allontanarsi?» Joselyn fece segno di no con la testa. «Hanno detto qualcosa a proposito della loro destinazione?» chiese Hirshberg. «No. Solo che il tempo stringeva e che dovevano partire.» «Qualcos'altro? Altri nomi?» insistette Hirshberg. Joselyn si lambiccò il cervello cercando di ricordare. «No. Ma i due uomini sotto il porticato hanno fatto alcuni nomi.» «Quali nomi?» fece il presidente. «Non lo so. Quando la sparatoria è cominciata sentivo solo le loro voci. So però che hanno fatto un nome.» Ci pensò per un istante. «Oliver... Edgar...» Abbassò lo sguardo sul ripiano del tavolo. «Oscar!» Alzò gli occhi di colpo. «Ecco: Oscar. Me lo ricordo perché hanno detto che anche lui aveva già lasciato l'isola quella mattina.» «Insieme con Belden e l'altro uomo?» domandò il presidente. «Non credo.» All'improvviso il suo volto s'illuminò. «Oh, mio Dio!» «Che c'è?» fece il presidente. «Stavano parlando della bomba!» esclamò Joselyn.
«Che cosa? Dove?» incalzò il presidente. «I due uomini. Erano fuori, sotto il porticato. C'era moltissima confusione. Spari. Avevano una barca ormeggiata in una caletta da qualche parte. Stavano parlando di fuggire. È così che ho saputo che le postazioni erano state minate. Era stato Thorn a ordinarlo. Hanno menzionato questo Oscar, dicendo che se n'era andato quella mattina e che anche loro avrebbero dovuto lasciare l'isola se fosse accaduto qualcosa. Questi due uomini dovevano andare a recuperare un camion e spostarlo. Hanno detto proprio così.» «L'isola ha un servizio di traghetti per i veicoli?» chiese Hirshberg alle persone sedute intorno al tavolo. Ma tutti si limitarono a grattarsi la testa e a guardarsi l'un l'altro. «No.» Fu Gideon a rispondere. «Come fa a saperlo?» «Ho controllato prima di partire da Friday Harbor con l'elicottero dei marine. Avrei dovuto dare una mano nelle ricerche. Non volevo che l'ordigno venisse caricato su un traghetto insieme con altre macchine mentre noi arrivavamo. No, non c'è un servizio pubblico tra l'isola e la terraferma.» «Dunque l'ordigno non è mai stato là», concluse il presidente. «No», ammise Gideon. «La Guardia costiera ha istituito un cordone sanitario tutt'intorno all'isola», disse Hirshberg. «Non possono essere passati dopo l'inizio dell'attacco.» «A meno che questo Belden non se lo sia portato via con sé sulla barca.» «No. Non su una barca piccola», obiettò Hirshberg. «E alla sorveglianza satellitare non sarebbe sfuggita un'imbarcazione grande proveniente dall'isola. Specialmente se l'ordigno si trovava su un camion.» «Dunque ci resta soltanto un'altra questione da chiarire», disse il presidente. Prese la piccola scatola che l'assistente gli aveva consegnato quando lui aveva fatto il nome di Joselyn. Aprì il coperchio e rovesciò il contenuto sul tavolo. Gideon riconobbe immediatamente il proprio orologio. Accanto c'era quello di Joselyn. Tutto quanto era contenuto nelle tasche dei loro abiti, compresi pezzetti di carta e spiccioli, ora giaceva sul tavolo. Qualcuno aveva frugato anche nel portafogli di Gideon: la patente e le carte di credito caddero sul tavolo insieme col resto. «Abbiamo controllato ogni cosa», spiegò Hirshberg, rivolgendosi al presidente. «Ci sono solo alcuni articoli su cui abbiamo qualche domanda da
fare. Spero comprenderete.» Adesso si stava rivolgendo a Joselyn e Gideon. Joselyn era furibonda. Le autorità avevano perquisito i loro vestiti alla base aerea di Whidbey Island, frugando tra i loro effetti personali alla ricerca d'informazioni. «Sarebbe stato carino se mi aveste chiesto il permesso», osservò Joselyn. «Non c'era tempo», rispose Hirshberg. «Quanto ci abbiamo messo ad attraversare il Paese in aereo? Quattro ore?» ribatté lei. «E comunque, abbiamo qualche domanda da farvi», proseguì lui. «Questi appunti, col nome Grigorij Čenko, nel suo portafogli, signor van Ry. Di che si tratta?» «Sono appunti che ho preso a Sverdlovsk, in Russia.» «Ah, sì. È la stessa informazione che ci è giunta dall'Istituto, credo...» Hirshberg stava chiedendo conferma a uno dei suoi assistenti, che annuì. «Signorina Cole. Questi numeri di telefono su un biglietto trovato nelle sue tasche?» «Appartengono ad alcuni amici in California.» «Capisco. Controlleremo.» Porse il foglietto a uno dei suoi assistenti. Non le credeva. Joselyn era furibonda. «E questo?» Joselyn guardò quello che lui teneva in mano, ma non riusciva a capire che cosa fosse. «È un biglietto da visita», disse Hirshberg e lesse: «PORT-A-JOHN SANITATION SERVICE, OAK HARBOR, WASHINGTON.» Joselyn gli rivolse uno sguardo assente. E poi, di colpo, ricordò: era il biglietto da visita che Belden aveva lasciato sul tavolino accanto al letto. Quello che lei aveva preso mentre il SEAL cercava di portarla via da quella stanza. «Me n'ero completamente dimenticata!» esclamò. «L'ha lasciato Belden nella stanza, prima di partire.» 30 Oak Harbor, Stato di Washington Quando Joselyn era arrivata a Washington, l'FBI aveva trovato il bigliet-
to da visita nella tasca della sua camicetta ormai da quasi sette ore e non aveva perso tempo a controllare la possibile pista. Due agenti si recarono nella cittadina di Oak Harbor su Whidbey Island, a pochi chilometri dalla base. Trovarono il padrone della Port-a-John Sanitation Service. L'uomo fu in grado d'identificare Belden da una foto: lo riconobbe come una delle persone che si trovavano sul posto, vicino a Deer Harbor, su Orcas Island. Gli aveva noleggiato e consegnato una toilette portatile, il tipo che di solito viene utilizzato nei cantieri o nei raduni all'aperto. «Me li ricordo perché erano un po' strani», commentò. «Strani come?» chiese uno degli agenti. «C'era un edificio, sapete, uno di quei prefabbricati di metallo con sotto una gettata di cemento. Era tutto chiuso. Quando mi hanno sentito arrivare, uno di loro è uscito da una porta laterale e mi ha detto dove sistemare il gabinetto. Una volta finito, mi sono reso conto che avevo dimenticato di fargli firmare le carte. Così sono andato alla porta. Ho bussato, ma non mi ha risposto nessuno. Immagino che non mi avessero sentito. E così sono entrato. Credevo che mi ammazzassero.» «Perché?» «Non lo so, ma due di loro mi hanno afferrato e mi hanno costretto a uscire di nuovo. Mi hanno maltrattato. Sono stato lì lì per rimettere il gabinetto sul camion e portarmelo via.» «È riuscito a vedere che cosa c'era dentro l'edificio?» Il tizio fece una smorfia. «Alcuni attrezzi, un cannello da taglio. Ma mi hanno spinto fuori praticamente subito. Hanno firmato le carte e io me ne sono andato. Quei tizi erano molto nervosi, capisce che intendo? Perché v'interessate a loro?» L'agente ignorò la domanda. «Ha potuto vedere a cosa stavano lavorando?» «Oh, sì. Era un camion. Stavano saldando qualcosa sul dietro.» «Che tipo di camion?» «E chi lo sa? Un attimo e mi stavano già spingendo fuori. Sembrava una cisterna, tipo quelle che usano per trasportare roba chimica. Come le ho detto, stavo quasi per rimettere il gabinetto sul camion e portarmelo via. Non che gliene sarebbe fregato granché.» «Vale a dire?» «Nell'edificio c'era un gabinetto perfettamente funzionante. Subito vicino alla porta. Ho sentito tirare lo sciacquone mentre ero fuori.»
Deer Harbor, Orcas Island, Stato di Washington Una ventina di tiratori scelti armati di fucili di precisione della Squadra anticrimine di Skagit, insieme con agenti dell'FBI e uomini dello sceriffo dell'Island County, circondarono l'edificio. Si trattava di un prefabbricato di metallo proprio come lo aveva descritto il padrone della Port-a-John. Una volta che la squadra di copertura ebbe preso posizione, l'unità tattica si mosse. Abbatterono la porta laterale con un ariete. Ci vollero due colpi prima che cedesse, poi gli agenti armati di M-16 entrarono. Dopo neanche un minuto, uno di loro uscì e fece un segnale per indicare che la via era libera. Ricetrasmittenti sintonizzate su frequenze non intercettabili annunciarono che il posto era sicuro e che dentro non si trovava nessuno. A quel punto entrarono in azione quelli dell'FBI in giacca e cravatta. L'unità tattica cominciò a isolare l'edificio e il vialetto che correva tutt'intorno con un nastro di plastica giallo. L'edificio era deserto. Sparpagliati sul pavimento di cemento c'erano alcuni attrezzi: un costoso cannello da taglio e alcune chiavi inglesi. Più o meno a metà parete si allungava un bancone da lavoro di fortuna. Restarono dentro solo il tempo necessario per scattare qualche foto e fare un rapido giro con un contatore Geiger. I livelli di radiazione erano alti. «Tutti fuori», disse uno degli agenti. «Chiamate la squadra NEST. Dite loro che li voglio qui, adesso.» Gli uomini stavano uscendo quando uno di loro colpì qualcosa col piede, facendolo scivolare sulla superficie di cemento. Era una targa metallica, di quelle usate per attaccare il nome di un'impresa sulla portiera dei veicoli. L'agente si chinò e, aiutandosi con la lama di un coltellino, girò la targa, così che questa venne a trovarsi con la faccia all'insù. Sopra c'era scritto: A-ONE SEPTIC - DENVER, COLORADO LUCK - CZ 14869. Washington, D.C. Erano ospiti del dipartimento della Giustizia, almeno finché non venivano lasciati liberi di andarsene. Gideon e Joselyn furono accompagnati all'Hay-Adams Hotel sulla Sedicesima, poco lontano dalla Casa Bianca. Ricevettero tute pulite - questa volta con la scritta FBI sulla schiena -,
biancheria, spazzolino da denti, il necessario per la toilette personale. Vennero loro assegnate due camere comunicanti, con agenti piazzati di guardia alla porta. «Come arresto domiciliare non è affatto male», osservò Joselyn. Prese l'accappatoio appeso dietro la porta del bagno, continuando a parlare con Gideon attraverso la porta di comunicazione parzialmente aperta. «Io mi faccio una doccia. Mi tolgo la tuta da carcerato. Prima me ne andrò da qui, meglio sarà.» «Non ti piace la Casa Bianca?» chiese Gideon. «Il posto non è male, ma non posso dire lo stesso per la gente che c'è dentro», rispose lei. «È per questo che ho bisogno di una bella doccia.» Scomparve in bagno, fece scivolare a terra gli abiti, aprì il rubinetto dell'acqua calda e lasciò che le gocce le cadessero sul corpo come una cascata. Con gli occhi chiusi, il getto d'acqua che le picchiava sul volto ammaccato, gli avvenimenti delle ultime ventiquattr'ore le passarono nella mente come un brutto sogno. Non riusciva a togliersi dalla testa il SEAL morto. Dopo cinque minuti, cominciò a essere scossa da tremiti e singhiozzi incontrollabili. Di colpo la realtà di quanto era accaduto la investì in pieno, con una violenza e una chiarezza che non si sarebbe mai aspettata. Non era un film, né una finzione: un giovane con tutta la vita davanti a sé era morto davanti ai suoi occhi. La moglie, se era sposato, non avrebbe mai più sentito le braccia di lui stringerla. La madre e il padre non lo avrebbero mai più visto in questo mondo. Non voleva neppure pensare alla possibilità che quell'uomo avesse figli. In meno di un battito di ciglia, la sua vita era stata stroncata da un proiettile mentre cercava di salvare lei. Non piangeva solo per il dolore, ma anche per il senso di colpa. Lei era viva mentre lui era morto: se lei non si fosse trovata là, lui non sarebbe mai entrato da quella finestra e forse sarebbe stato ancora vivo. L'acqua corse lungo il suo corpo, mescolandosi alle lacrime, finché lei non si sentì prosciugata. Esausta, si appoggiò alla parete di mattonelle, cercando di riprendersi, e chiuse il rubinetto. Si asciugò in fretta, indossò biancheria pulita, una T-shirt al posto del reggiseno, e l'accappatoio di spugna. Si avvolse i capelli in un asciugamano, stile turbante, e tornò in camera da letto. «Com'era?» chiese Gideon. Era fermo sulla porta tra le due stanze. «Fantastica. Non mi ero resa conto di quanto fossi stanca.»
«Hai gli occhi molto rossi.» «Oh.» Joselyn afferrò un angolo dell'asciugamano che le scendeva dalla testa e se li tamponò. «Mi è entrato un po' di sapone.» «Ah.» Gideon capì che aveva pianto. «Hai fame?» «Non molta.» «Potremmo razziare il minibar», propose lui. «Che cosa c'è?» «Vediamo.» Prese la chiave posata sul ripiano del bar e lo aprì. «Abbiamo noccioline, M&M, una barretta di cioccolato.» «Orrendo.» «Che ne dici di qualcosa in cui annegare il tuo dolore?» Quando si rialzò, teneva tra le mani tre bottigliette col tappo sigillato. «Questo sì.» «Vodka, whisky o scotch?» «Scotch. Con un po' di acqua tonica, se c'è.» «Eccola qua.» Tirò fuori una lattina. «Se fossimo ad Amsterdam ti darei qualcosa di un po' più forte. Qualcosa da uno dei nostri brown café.» «Che cosa sono?» Lui ci pensò un istante, mentre apriva la lattina e la bottiglietta. «Suppongo li si potrebbe definire pub, o taverne, o forse caffè. Tutte e tre le cose assieme. Sono molto vecchi, alcuni sono aperti da quattrocento anni. Li si può trovare su ogni strada della città vecchia. E le pareti, all'interno, sono marrone. Non vengono mai pulite né pitturate. Servono fantastiche miscele di caffè... oltre a droghe che ti rinnovano la mente.» Lei lo guardò e scoppiò a ridere. «Che c'è, non mi credi?» «No, no, ti credo. È solo che non ti ci vedo a far uso di droghe.» «È il passatempo nazionale olandese», borbottò Gideon. «Per gli standard americani, siamo tutti peccatori. Troppo permissivi. Almeno ad Amsterdam. Da noi le droghe sono considerate una necessità ludica.» «Prova a venderne un po' a quel gruppetto che abbiamo incontrato oggi», disse Joselyn. «Però il sesso libero è considerato un diritto costituzionale.» «Siamo differenti», obiettò Joselyn. «Qui da noi è solo una delle gratifiche connesse alle cariche pubbliche.» «Oh, è vuoto.» Gideon prese il secchiello del ghiaccio, aprì la porta della camera e mise fuori la testa. «Scusate, signori...»
Uno degli agenti si avvicinò alla porta. «Credo che ci sia un distributore di ghiaccio all'altro piano. Noi avremmo intenzione di ubriacarci. Le dispiace?» Porse il secchiello all'agente e richiuse la porta. Si voltò, incrociò le braccia e si appoggiò alla porta. «Bene. Abbiamo un po' di tempo da ammazzare. Che si fa?» «Mi spiace, ma sono troppo stanca. Dovrai esercitare il tuo diritto costituzionale con qualcun'altra, stanotte.» Gideon scoppiò a ridere e arrossì un poco. «Potrei sondare i tuoi pensieri», mormorò. «Sarebbe un sondaggio davvero deludente, almeno stasera.» «Tu non sei convinta che Denver sia il vero obiettivo, giusto?» La telefonata dell'FBI da Deer Harbor era arrivata quando loro si trovavano ancora alla Casa Bianca. «Era così evidente?» chiese Joselyn. «Be', quando hai detto al presidente che aveva la testa ben infilata nel didietro...» «Non ho mai detto questo.» «No, ma l'implicazione era chiarissima.» «Be', se ci passa il cappello...» «Come puoi esserne così sicura?» «Perché il Belden che conosco io non è tipo da fare errori del genere. Una targa lasciata sul pavimento?» «Se non ricordo male, Denver è stata la sede di un grosso processo contro il terrorismo interno.» «Molto comodo», osservò Joselyn. «Sono sicura che anche Belden ci ha pensato. E, nel frattempo, l'FBI passa il suo tempo a setacciare le autostrade di metà Stati dell'Ovest alla ricerca di un camion che potrebbe anche non esistere.» «Ma il testimone con cui hanno parlato lo ha visto, il camion.» «Ha visto che cosa c'era dentro?» obiettò Joselyn. «Un'autobotte per lo spurgo delle fosse biologiche sarebbe una copertura perfetta. A chi mai verrebbe in mente di perquisirlo?» esclamò Gideon. «E il serbatoio può essere rivestito di piombo. Non si capterebbero emissioni dell'ordigno, neanche se venisse fatto passare attraverso una barriera di controllo.» «Può essere», borbottò Joselyn. «Ma vuoi sapere come la penso io?» «Avanti.»
«Io credo che Belden non sia così stupido. Non penso che sia il tipo di persona da commettere un tal numero di errori. Prima il biglietto da visita sul tavolino, poi la targa nel garage. Perché li ha lasciati lì?» «Forse non significano nulla. Forse aveva fretta.» «No. Si è tolto ogni cosa dalla tasca perché gli dava fastidio a star seduto sul letto mentre mi prendeva a schiaffi. Ha posato tutto sul tavolino da notte e, quando ha finito, si è ripreso tutto tranne il biglietto da visita. Quello lo ha lasciato lì.» «Non gli interessava più», disse Gideon. «Anch'io non gli interessavo più, ma lui non aveva la minima intenzione di lasciarmi in giro.» «Tu potevi identificarlo.» «Anche l'uomo che gli ha affittato la toilette portatile.» Gideon ci pensò su un momento. Joselyn non aveva tutti i torti. «Rifletti. Secondo gli agenti, non appena questo tizio si avvicina all'edificio, quelli escono immediatamente. Non stanno con lui per tenerlo d'occhio. Non gli chiedono se ha una ricevuta o qualcosa da firmare. Gli dicono dove mettere la toilette e se ne tornano dentro. Bussa, e loro non rispondono. Ma, quando apre la porta, lo lasciano entrare quel tanto che basta perché veda il camion, poi gli saltano addosso e lo cacciano fuori.» «Che vorresti dire?» «Secondo me, Belden voleva che lui vedesse il camion. Proprio come voleva che io vedessi il suo aereo esplodere. Ogni cosa ha una sua funzione ben precisa. Il nostro venditore di gabinetti ha appena assolto alla propria. Grazie a lui il governo sta cercando nel posto sbagliato.» «Hai una mente molto contorta», osservò Gideon. «Sei sempre così paranoica?» «Solo da quando mi hanno spinta giù da un traghetto, rapita, picchiata e presa a fucilate.» «Sei sicura che non è semplicemente perché il presidente ha respinto le tue idee a proposito di Belden e dei suoi piani?» «Ti garantisco che il presidente non ha un'opinione molto alta delle donne né delle loro idee.» Non volevano darle ascolto e lei era furibonda. Non erano interessati a conoscere la sua opinione: volevano soltanto le informazioni che lei poteva fornire. Ma era lei quella che aveva avuto a che fare con Belden, l'unica in quella sala che potesse vantare una simile esperienza. E Joselyn era convinta di aver ragione. Si sentì bussare alla porta. Gideon andò ad aprire. «Grazie», mormorò.
Prese il secchiello del ghiaccio che l'agente gli porgeva, chiuse la porta e andò a preparare i drink. Infine porse a Joselyn il suo. «Grazie», disse lei e prese un sorso dal bicchiere di plastica. «E comunque non ha più importanza», proseguì. «Domani me ne vado da qui. È un problema loro.» Gideon lo guardò con ironia. «C'è una bomba atomica in giro per il Paese e a te non importa?» «Non hai capito. In America l'indifferenza è di moda. Purché non me la facciano esplodere sotto il letto, non sono affari che mi riguardano.» «Lo pensi davvero?» «Perché no?» «Non ci credo.» «Che cosa te lo fa pensare?» «Perché ti ho visto quando parlavi di quel SEAL, stasera, quando hai raccontato com'è morto. Io credo che sia facile essere indifferenti quando si pensa alla morte in termini astratti. Ma un ordigno nucleare da due kiloton non è un'astrazione. Ucciderà migliaia di persone. Ciò che è accaduto sull'isola non è nulla al confronto. Intere famiglie cesseranno di esistere. Faranno una morte orribile.» Prese un sorso dal suo bicchiere, lo mandò giù, poi masticò un pezzettino di ghiaccio. «Sai», proseguì, «ci sono state persone, a Hiroshima, le cui ombre furono impresse dall'esplosione sui muri di cemento degli edifici e sul selciato. Queste ombre si possono vedere ancora oggi. Alcuni dei corpi che le hanno generate non sono mai stati ritrovati. È come se non fossero mai esistiti. Ci sono individui che hanno visto quelle ombre calcinate sul terreno e che le considerano semplici curiosità storiche, immagini di un tempo passato. Se è veramente questo ciò che significano oggi, allora quelle ombre sono davvero gli angeli dell'indifferenza.» 31 Seattle, Stato di Washington Oscar Chaney accostò al marciapiede in una zona destinata al carico e scarico di merci e spense luci e motore. Rimase seduto tranquillo al volante per quasi un minuto, controllando nello specchietto retrovisore che non ci fossero tiratardi o barboni in giro. Era mezzanotte passata. Una solitaria macchina spazzatrice, con le luci
d'emergenza che illuminavano le corsie deserte, disegnava cerchi sull'asfalto della Fifth Street, mentre agli incroci lampeggiavano i semafori. Chaney riusciva a vedere il tribunale federale, due isolati più in là. Il monolitico edificio di cinque piani era debolmente illuminato dalle luci di sicurezza, mentre i custodi portavano a termine i loro compiti serali. Con le mani protette da guanti, controllò la portiera del passeggero per accertarsi che fosse bloccata, quindi aprì la portiera dal suo lato, scese sul predellino e da lì sul marciapiede. Controllò la strada ancora una volta. Non doveva essere messo in relazione col camion. Guardò l'orologio. Gli addetti al controllo dei parchimetri avrebbero cominciato a pattugliare le strade solo poco prima dell'ora di punta. Un grosso camion parcheggiato su una via molto trafficata, anche se in zona di carico e scarico, avrebbe certamente attirato la loro attenzione. Chaney voleva essere sicuro che non si limitassero a trainarlo col carro attrezzi nel deposito che ospitava i veicoli rimossi dal comune. Infilò la mano dietro il sedile e prese le due targhe magnetiche. Erano identiche a quella che aveva lasciato sul pavimento del garage a Deer Harbor. L'unica differenza era che su queste la A-One Septic aveva sede a Bellevue, Washington. Abbassò la sicura della portiera e la chiuse, poi vi piazzò sopra una delle targhe magnetiche. Girò intorno al veicolo e mise l'altra targa sulla portiera del passeggero. Sapeva già che le autorità avevano perquisito il garage vuoto. Uno dei suoi uomini era restato laggiù di vedetta per informarlo sugli sviluppi dell'indagine. Era certo che, nell'attimo in cui gli addetti ai parchimetri avessero richiesto la rimozione del veicolo, i computer della polizia sarebbero impazziti. Avrebbero subito collegato il nome sulla portiera a quello sulla targa lasciata al garage. I federali avrebbero smesso immediatamente di sprecare tempo e uomini sulle autostrade tra lo Stato di Washington e il Colorado, e si sarebbero precipitati a Seattle. Avrebbero perso parecchie ore a evacuare la zona; poi sarebbero arrivati gli esperti per controllare il livello di radioattività, prima di fare qualsiasi tentativo di disattivare l'ordigno. Quando si fossero resi conto del loro errore, sulla costa ovest sarebbe stato metà pomeriggio. Chaney attraversò la strada e si diresse verso l'angolo. Proseguì per due isolati e attese che passassero almeno quattro taxi prima di chiamarne uno. Quando questo si fermò, lui aprì la portiera, scivolò sul sedile posteriore e disse all'autista: «All'aeroporto».
Hay-Adams Hotel, Washington, D.C. Joselyn sentì bussare piano alla porta. Il rumore sembrava provenire da lontano e non la svegliò del tutto, cosicché le voci degli uomini che parlavano tra di loro le parvero un sogno che si sovrapponeva al sonno. Si girò nel letto nella stanza buia e guardò il quadrante illuminato dell'orologio digitale sul comodino. Le dieci passate. Pensò che fosse mattina, anche se coi pesanti tendoni tirati non poteva esserne certa. Si tirò su a sedere di scatto, temendo all'improvviso di aver dormito tutto il giorno. Avvolta nella trapunta del letto, andò alla finestra e tirò le tende. La luce abbagliante del sole la accecò, costringendola a voltarsi e a coprirsi gli occhi. Aveva un tremendo mal di testa e si chiese se ci fosse un analgesico nel piccolo nécessaire che gli agenti le avevano consegnato la sera precedente. Joselyn aveva fatto fuori tutte e quattro le bottigliette di scotch contenute nei minibar delle due stanze. Si era fermata lì, lasciando la vodka per Gideon. Frugò nella borsettina in bagno, ma non trovò nulla per placare il mal di testa. Stava andando verso il minibar per vedere se c'era qualcosa lì dentro, quando dalla stanza comunicante arrivò Gideon. «Mi pareva di averti sentito muovere. Ti hanno svegliata?» «Chi?» «Gli agenti alla porta.» «Ah, erano loro?» «Sì. Stanno andando via. Ho il mio portafogli, i soldi, le carte di credito e le chiavi che avevi in tasca.» «Allora siamo liberi di andarcene?» «No. Ci hanno chiesto di restare in città fino a nuovo ordine, in caso avessero altre domande da farci. Ma pare che credano a quanto hai detto. E, cosa più importante, hanno trovato il camion.» Joselyn era inginocchiata davanti al minibar e stava frugando all'interno, avvolta nella pesante trapunta come se fosse una pelle d'orso. Si voltò e alzò lo sguardo su di lui, con un'ovvia domanda dipinta sul volto. «L'hanno trovato a Seattle», disse Gideon. «A Seattle?» Joselyn era sorpresa. «E la bomba?» «Stanno controllando. Gli agenti non conoscevano i particolari o forse non volevano dirmeli. Pare che le autorità abbiano rilevato radiazioni intorno al veicolo. Livelli elevati di radiazioni gamma. A parte questo, non
sanno altro. Pare proprio che tu ti sia sbagliata.» «Hai un analgesico?» chiese Joselyn, ignorando il suo commento. «No. Ma posso fare una corsa giù nella farmacia dell'albergo e comprarlo.» Joselyn si tirò su la trapunta, aggiustandosela intorno al corpo. «Già che ci sei, comprami anche qualche vestito, un reggiseno e qualcosa per truccarmi.» «Andiamo dopo a fare spese», rispose lui. Aveva capito che Joselyn aveva altro in mente. «Ma perché si sono presi tanto disturbo per portare l'ordigno a Seattle?» Lei lo guardò e annuì con espressione assonnata. «Spero soltanto che quei tizi dall'altra parte della strada si stiano chiedendo la stessa cosa.» Sala operativa della Casa Bianca Quando il presidente comparve sulla soglia, nella sala operativa tirava aria di festeggiamenti; ci fu persino un breve applauso. «Non facciamoci prendere dall'entusiasmo», ammonì il presidente. «Abbiamo ancora un sacco di lavoro da fare. Che cosa dice la squadra d'emergenza sul posto?» «Hanno rilevato valori di radiazioni gamma relativamente alti, ma niente che superi il livello di sicurezza, fatto che potrebbe costituire un pericolo per i passanti e per le persone che sono venute a contatto col camion. Pensano che l'ordigno sia schermato, probabilmente all'interno di un contenitore di piombo dentro il serbatoio.» «Qualche previsione sul tempo che ci vorrà a disinnescarlo?» «Non sono ancora arrivati alla bomba vera e propria. Al momento stanno cercando di evacuare la zona.» «Non hanno fatto un annuncio pubblico, vero?» chiese il presidente. «No, no. Stiamo dicendo che c'è una fuga di gas in una delle condotte principali della zona. Evacueremo dodici isolati. Ci vorrà un po' di tempo. Abbiamo chiuso lo svincolo della I-5 e dato ordine a tutti gli aerei civili di stare lontani dalla zona.» «Bene», osservò il presidente. «L'ultima cosa che vogliamo sono elicotteri delle reti televisive a volteggiare su quel camion.» Il presidente non si allontanò dalla soglia. Rimase lì, in piedi, appoggiato alla porta chiusa, segno che non aveva intenzione di restare a lungo. «Signore, gradirei parlarle in privato, se è possibile.» Era tutta la mattina
che Sy Hirshberg cercava di entrare nello Studio Ovale. Il presidente aveva ricevuto gli assistenti che gli avevano portato i comunicati da Seattle, ma, a parte questo, non aveva voluto parlare con nessuno. Era stato tutta la mattina chiuso là dentro a prepararsi per il Discorso sullo stato dell'Unione di quella sera. Per tutta la mattinata, nello Studio Ovale c'era stato un andirivieni di segretari di gabinetto, che cercavano d'infilare dati dell'ultimo minuto nel discorso del presidente o si assicuravano che nessuno dei punti prioritari per le loro carriere fosse stato tolto. «Non può aspettare, Sy?» «Ritengo sia importante, signor presidente.» «È qualcosa che ha a che fare con l'attuale situazione e di cui io non sono al corrente?» «No», rispose Hirshberg. «Ma è una cosa di cui dovremmo parlare.» Il presidente guardò l'orologio. «Mi spiace, ma dovrà aspettare. Ho ancora due appuntamenti. Questi fanatici con la loro bomba avrebbero potuto aspettare qualche giorno! Per noi sarebbe stato molto più facile occuparcene. Il ministro dell'Istruzione arriverà nel mio ufficio da un momento all'altro. Il mio staff sta aspettando per dare gli ultimi ritocchi al discorso e io ho bisogno di almeno due ore per rivedere la stesura finale.» Guardò di nuovo l'orologio. «Potrei avere un po' di tempo verso le quattro e mezzo.» Hirshberg sapeva che, nella migliore delle ipotesi, il presidente avrebbe soltanto fatto finta di ascoltarlo. «Potrò dedicarle solo cinque minuti.» Hirshberg annuì. Aveva il sospetto che, vista la piega che stavano prendendo gli avvenimenti, quello che aveva da dire al presidente sarebbe rimasto inascoltato. 32 The Mall, Washington, D.C. Seduto su una panchina, Scott Taggart osservava i giovani che correvano sul largo viale di ghiaia che girava intorno al Mall. Alle sue spalle sorgeva l'Hirshhorn Museum e più oltre, sull'altro lato della strada che in quel punto faceva una curva, c'era il castello di arenaria rossa sede dello Smithsonian. La sua miriade di musei, simili a copie dell'Acropoli, si estendeva in ogni direzione. In fondo, a chiudere il Mall, c'era il Campidoglio con la sua cupola imponente. Circa un chilometro e mezzo verso ovest, di fronte all'Ellipse, c'era la
Casa Bianca. Scott posò il giornale e guardò l'orologio. Il museo aveva aperto da poco più di un'ora. Si alzò dalla panchina, tirò fuori di tasca un paio di spessi guanti di pelle e li indossò, poi infilò le mani nelle tasche del pesante giubbotto da marinaio e si avviò in direzione del Campidoglio. Attraversò Jefferson Drive all'altezza della Seventh e proseguì per un isolato fino a Independence Avenue, dove svoltò a sinistra. Giunto a metà dell'isolato, salì i gradini dell'imponente edificio con la grande vetrata che occupava due piani e seguì all'interno una fila di scolari in gita scolastica al National Air and Space Museum. Si trovò davanti un grande banco per le informazioni e, più oltre, scorse la sezione intitolata PIETRE MILIARI DEL VOLO. Per essere un giorno lavorativo d'inverno, il museo era affollato. I soliti gruppi guidati di bambini si mescolavano a pensionati e al numero sempre crescente di persone che andavano in vacanza durante la bassa stagione. Alla sua destra, il padiglione dedicato alla conquista dello spazio era stato chiuso al pubblico per i preparativi del ricevimento di quella sera. Erano già stati sistemati i tavoli e si stava preparando il palco rialzato. Alle sue spalle si trovava l'aereo dei fratelli Wright - quello del loro storico volo, avvenuto il 17 dicembre 1903 a Kitty Hawk, nella Carolina del Nord - e subito dietro, appeso con alcuni cavi al soffitto, lo Spirit of St. Louis. Quel giorno, però, Scott non era interessato alla storia. Il pensiero che occupava la sua mente in quel momento era l'enorme edificio trecento metri più a nord, un poco verso ovest, ben all'interno dell'area di massima distruzione. Gli uffici delle Imposte dirette si trovavano sull'altro lato del Mall, incuneati tra il Museum of Natural History e il dipartimento della Giustizia. Entro poche ore, tutta la zona avrebbe assunto lo stesso aspetto delle rovine carbonizzate di Hiroshima e Nagasaki. Scott si era convinto di non nutrire odio nei confronti delle persone che lavoravano in quegli edifici, ma piuttosto contro le istituzioni stesse. Era per questo che il cesio era così importante. Le banche dati e i documenti di tutti gli enti governativi sarebbero stati istantaneamente trasformati in un cumulo di rifiuti radioattivi. Non c'era modo più efficace per uccidere la bestia che quello di distruggere le informazioni di cui si nutriva. Il governo si trincerava dietro una costituzione che non poteva essere modificata dal popolo e che i politici sfruttavano per accrescere il proprio potere. Poteva essere interpretata e applicata solo da giudici che partecipa-
vano al sistema, sempre più diffuso, della lottizzazione degli incarichi. Il governo cresceva come un tumore, divorando tutto quanto incontrava sul proprio cammino. Secondo Scott, l'America era arrivata al capolinea. Aveva ucciso Kirsten e dato origine a una classe politica immortale, arrogante coi cittadini e sfacciatamente corrotta, un'aristocrazia politica che dimostrava un'indifferenza e un disprezzo sconcertanti nei confronti dell'opinione pubblica, e che adesso avrebbe pagato per questo. Nel corridoio principale, dietro il banco delle informazioni, Scott si fermò un istante e prese una fialetta dalla tasca interna del giubbotto. Con movimenti un po' impacciati per colpa dei grossi guanti, tolse una piccola capsula dalla fialetta e se la mise in bocca, infilandola tra la guancia e la gengiva. Gettò la fialetta in un cestino per i rifiuti, svoltò a sinistra e passò davanti alle sezioni PIONIERI DEL VOLO e JET. Attraversò a passo deciso la galleria affollata, passando davanti ai fantasmi di un'altra era, ai velivoli che avevano portato l'America alla conquista del potere mondiale. Ormai erano obsoleti, come gli uomini che li avevano creati e pilotati, simboli di una gloria e di un onore per i quali in America non c'era più posto. Di tutto ciò non importava nulla ai politici corrotti che prendevano denaro dai Paesi stranieri nemici della nazione. Mentre Scott avanzava con le mani infilate nelle tasche, la sua mente volava. Camminava deciso, guardando avanti, oltre la folla di visitatori come se neanche esistesse. Il suo sguardo era concentrato sull'oggetto esposto nell'angolo in fondo, nel lato nord dell'edificio, verso il Mall. C'era solo una manciata di turisti radunati intorno alle lamiere di metallo scintillante, punteggiate di rivetti, e col numero 82 scritto subito sotto l'ampia finestratura della cabina. L'attenzione di Scott era puntata come un raggio laser sull'oggetto verde e cilindrico sotto la lunga fusoliera, vicino alla stiva aperta. Frugò in tasca attraverso i guanti spessi alla ricerca della bottiglietta di vetro che Thorn gli aveva lasciato nell'armadietto all'aeroporto di Denver. La bottiglietta conteneva acido cloridrico combinato con una tintura, una miscela in grado d'incidere il metallo e di macchiarlo di un color rosso sangue. Scott si fece largo, diretto verso i pannelli di plexiglas, bordati di metallo, che delimitavano l'area intorno all'aereo. Si fermò e si guardò intorno per accertarsi che nessuno potesse ostacolarlo. Poi, senza un attimo di esitazione, scavalcò i pannelli.
Uno dei custodi, a una decina di metri da lui, lo vide e fece per bloccarlo, ma ormai era troppo tardi. Scott coprì i pochi metri che lo separavano dall'oggetto sotto la fusoliera, poi estrasse la mano dalla tasca e scagliò la bottiglietta contro il cilindro color verde oliva. La bottiglietta andò in frantumi contro la superficie di metallo, esplodendo in uno spruzzo di tintura rosso sangue che coprì tutto un lato del cilindro e colò fin sul pavimento. Scott si coprì il volto per difendersi dalle esalazioni che cominciarono subito a svilupparsi mentre l'acido corrodeva il metallo. «L'America è un assassino nucleare!» urlò Scott con quanta voce aveva in corpo, mentre i turisti si allontanavano dall'aereo e sopraggiungevano le guardie della sicurezza, che tuttavia si resero conto all'istante che quel pazzo urlante non aveva armi. L'acido stava aprendo un piccolo foro sulla superficie del cilindro di metallo. «L'America è un assassino nucleare!» continuava a gridare Scott. Mollò un calcio al cilindro e sparse ulteriormente la tintura con le mani protette dai guanti. Nonostante l'apparenza isterica, ebbe la presenza di spirito di togliersi i guanti prima che l'acido potesse penetrare e li lasciò cadere a terra. Due guardie gli furono addosso. Lo portarono con la forza al di qua dei pannelli e in pochi secondi riuscirono ad ammanettarlo con le mani dietro la schiena. Non lo avevano ancora portato via che già erano arrivati i tecnici del museo a valutare i danni. La scintillante fusoliera, forse il simbolo più significativo di quell'era di potere, era intatta. Ma l'acido continuava a mangiare il metallo del cilindro sotto di essa, emanando esalazioni tossiche. Due uomini della manutenzione si chinarono immediatamente sotto la fusoliera per allontanare il cilindro. Cominciarono a spingere, facendo forza sugli stabilizzatori di coda, ma, sebbene fosse appoggiato su un carrellino, i due dovettero ricorrere a tutte le loro energie per rimuoverlo da sotto la fusoliera dell'Enola Gay. Spinsero il carrello verso la porta aperta dell'ingresso di servizio sul retro dell'edificio e restarono a osservare l'acido che mangiava e incideva il metallo della copia fedele di «Little Boy», la bomba atomica sganciata su Hiroshima. Casa Bianca, Studio Ovale
Il presidente alzò lo sguardo dai fogli sparpagliati sulla scrivania. Era intento a cancellare parole e frasi intere per sostituirle con altre, a matita. Sy Hirshberg aspettava, fermo sulla porta dello Studio Ovale. Erano quasi le cinque del pomeriggio. «Di che si tratta, Sy? Non ho molto tempo.» Mancavano solo quattro ore al Discorso sullo stato dell'Unione e il presidente cominciava a risentire dell'importanza del momento. «Qualche novità da Seattle?» chiese. «No. Stanno ancora cercando di capire come entrare nel serbatoio senza usare il calore per tagliare il metallo. Hanno provato a passarlo ai raggi X per vedere all'interno, ma è rivestito da uno strato di piombo.» «Non possono spostarlo, quel maledetto affare? Trainarlo su una nave e portarlo in mare aperto?» «Temono che possa trattarsi di una trappola esplosiva.» Il presidente trasse un respiro profondo e alzò gli occhi al cielo. «Come diavolo faccio a presentarmi davanti a duecento milioni di persone e parlare dello stato della nazione mentre sull'altra costa i nostri uomini stanno cercando di disattivare una bomba nucleare?» «È proprio di questo che volevo parlarle, signore.» Il presidente lo guardò. «Io credo che dovrebbe cancellare il discorso.» «Come?» «Dovrebbe rimandarlo, signor presidente,» «Che diamine, non posso farlo. Non adesso. È troppo tardi. Abbiamo già consegnato copie secretate del discorso alla stampa. Ha idea di che cosa direbbero se dovessi annullarlo? Vorrebbero conoscere il motivo di...» «Forse dovremmo rivelarlo, questo motivo.» «No!» Il presidente era deciso. Si voltò dall'altra parte con la poltroncina girevole, voltando le spalle a Hirshberg. «Non c'è ragione di cancellarlo. Se quella bomba verrà disattivata con successo, perché mettere in allarme l'opinione pubblica? Nel caso contrario, cancellare il discorso non servirà a nulla.» «E se esplode durante il discorso? Che cosa succederebbe?» «Se non altro tutti vedranno che il presidente si occupa della gestione del Paese anche in un momento di crisi.» «C'è un'altra possibilità», mormorò Hirshberg. «Molto più seria.» «E sarebbe?» «Che l'ordigno non si trovi a Seattle.»
Il presidente si voltò di nuovo per guardarlo in faccia. «Ma che sta dicendo? Hanno trovato il camion.» «Sì. Però non sono riusciti a guardarci dentro.» «Hanno rilevato una certa radioattività.» «È vero. Però questo non significa necessariamente che l'ordigno si trovi lì dentro. Le ricordo, signor presidente, che c'erano livelli di radiazione molto più alti su quei pescherecci, quelli che la marina ha trainato via da Friday Harbor e affondato nel Nord Pacifico. Potrebbe significare che il camion è stato utilizzato per trasportare la bomba. È possibile che l'ordigno sia stato rimosso prima che il camion venisse portato a Seattle.» «Ma che cosa significa?» «Che il camion potrebbe essere un'esca, signore.» «Stronzate», sbottò il presidente. «Abbiamo trovato l'ordigno e lei lo sa bene. E se i suoi fossero abbastanza furbi, porterebbero via il camion da quella città prima che accadesse un incidente.» «Un incidente?» sibilò Hirshberg. «Questo non è un incidente! Quella gente vuole una carneficina. Se s'innescasse una reazione a catena, potrebbero perdere la vita cinquantamila persone. Forse di più.» «Credevo aveste fatto evacuare la zona.» «Dodici isolati, signor presidente. Se quell'ordigno dovesse esplodere, la palla di fuoco cancellerebbe tutto il centro di Seattle. L'onda d'urto attraverserebbe il Sound in meno di tre secondi e colpirebbe la costa orientale di Bainbridge Island, una grossa comunità residenziale. Sarebbe terribile... Ma se la bomba non fosse là?» «Se non è là, dove dovrebbe essere?» «Non c'è bisogno che le ricordi, signor presidente, che fra quattro ore lei si troverà nello stesso edificio con tutti i membri del Congresso e del gabinetto - tranne uno - della Corte Suprema, dello stato maggiore, e di tutto il governo federale. Tutti sotto lo stesso tetto.» «Lei ha parlato con quella donna», lo interruppe il presidente. «Com'è che si chiama?» «Joselyn Cole. No. Non l'ho più vista da quando ha lasciato la sala operativa, ieri. Ma le confesso che ho continuato a pensare a ciò che ha detto a proposito di quel Belden. Perché hanno fatto in modo che quel camion fosse così facile da trovare?» «Può essere stato facile da trovare», obiettò il presidente, «ma di certo non è facile entrarci dentro.» «No. E forse non è un caso», disse Hirshberg. «Potrebbe servire a tener-
ci lì, a guardare nel posto sbagliato, abbastanza a lungo.» Il presidente rifletté. «Crede che dovrei annullare il discorso?» «Sì.» «E che cosa dico al Congresso?» «Dica che lo pronuncerà la settimana prossima.» «E che faccio, lascio la città?» «Sarebbe auspicabile. Potrebbe andare a Camp David, o in qualche altra base militare sicura.» «Non ha parlato di queste sue preoccupazioni coi servizi segreti, vero?» «No.» «Grazie al cielo. Mi trascinerebbero via con la forza.» Il presidente prese la matita tra due dita e cominciò a tamburellare sui fogli che aveva davanti. Era una situazione spinosa. Se lasciava la capitale senza rivelare al Congresso il motivo e questo si fosse venuto a sapere in seguito, persino i membri del suo partito gli avrebbero «tagliato le gambe». Sarebbe diventato famoso come il presidente che aveva lasciato il governo seduto sotto la cupola del Campidoglio a fronteggiare un olocausto nucleare mentre lui se ne andava a Camp David per salvarsi il culo. «Cristo, Sy, se davvero pensava che ci fosse questa possibilità, sarebbe stato gentile a parlarmene un po' prima.» «Signor presidente, fino a ieri eravamo convinti che l'ordigno, ammesso che esistesse, si trovasse su quell'isola. Adesso pare che non sia mai stato lì e non sappiamo da quanto tempo è sparito. Potrebbero averlo portato ovunque. Il tempo c'è stato.» «Forse non esiste», disse il presidente. «Ci ha mai pensato? In fondo, non l'ha mai visto nessuno, no?» «No.» «Né la donna né il suo amico... Com'è che si chiama, quell'olandese?» «Van Ry. Gideon van Ry.» «Perché non parla di nuovo con loro e vede se ci è sfuggito qualcosa?» Hirshberg capiva benissimo che quella era una manovra diversiva per evitare di prendere una decisione. «C'è un'altra possibile via di uscita. Lei potrebbe ammalarsi all'ultimo minuto», suggerì allora. «No!» esplose il presidente. Lasciò cadere la matita sulla scrivania e scattò in piedi. «Proprio quello di cui ho bisogno. Penseranno che abbia avuto un colpo. Un infarto. Se fossi il presidente della Russia potrei dire che mi sono preso una sbronza o, ancora meglio, lasciare che fosse la stampa a scoprirlo.»
«Non è necessario che si tratti di un infarto», borbottò Hirshberg. «Non si annulla il Discorso sullo stato dell'Unione per un raffreddore. No. È troppo tardi», concluse il presidente. «Ma...» «No. Ho preso la mia decisione ed è irrevocabile.» Guardò l'orologio. «C'è altro?» «No, signore.» «Allora, se non le dispiace...» Hirshberg si voltò e uscì dallo studio. Gli occhi del presidente tornarono a concentrarsi sui documenti posati sulla scrivania. Ma non la sua mente. Nei pressi di Silver Hill, Maryland Tra voli e scali, si trovava in viaggio da quattordici ore. Il vecchio DC-3 era lento e volava a bassa quota, però sembrava totalmente affidabile. Thorn rullò lungo la pista, passando davanti a parecchi piccoli hangar. Nessuno prestò particolare attenzione al vecchio aereo, che pure era in condizioni perfette. Gli aerei d'epoca lì erano più comuni che in ogni altra parte del Paese, tranne, forse, che all'annuale Oshkosh Air Show. L'aeroporto si trovava a pochi chilometri da Silver Hill, la sede del Paul E. Garber Restoration, Preservation and Storage Facility. Era il centro riparazioni e il principale deposito del National Air and Space Museum. La struttura occupava ventuno acri e comprendeva più di quarantamila velivoli. Poteva contare su uno staff che lavorava lì a tempo pieno, più un esercito di volontari appassionati del volo, gente che conosceva a fondo ogni aspetto della costruzione e manutenzione di qualsiasi tipo di velivolo, dallo Shuttle agli aerei dell'epoca dei fratelli Wright. Thorn contava su questo spirito amatoriale e sul tipo di accordi molto elastici che esistevano tra il museo e le persone che prestavano gratuitamente la loro opera, alcune delle quali lavoravano proprio al Garber. Prima ancora che le ruote dell'aereo avessero smesso di girare, da uno degli hangar uscì un camion. Era lungo una decina di metri e aveva un cassone chiuso sul retro, il genere di veicolo che usano le ditte di traslochi. Si avvicinò e venne a fermarsi accanto al portellone di carico del DC-3. Thorn spense i motori. Oscar Chaney saltò giù dal posto di guida e gettò due cunei di legno davanti alle ruote dell'aereo. Arrivò davanti al portellone posteriore di carico proprio mentre Thorn lo apriva.
Chaney guardò l'orologio. «In perfetto orario.» «Sbrighiamoci», disse Thorn. «Abbiamo un sacco di cose da fare.» Prima di decollare dal piccolo aeroporto di Arlington, nello Stato di Washington, Thorn aveva sbrigato il «lavoro sporco». Aveva indossato la tuta protettiva e il respiratore presi dal camion e, con la massima cura, aveva inserito i piccoli cilindri di materiale altamente radioattivo nei loro alloggiamenti intorno al nucleo di plutonio dell'ordigno. Questo non avrebbe trasformato la testata da due kiloton in una bomba termonucleare, ma si sarebbe rivelata una brutta sorpresa per chiunque avesse cercato di ripulire la zona dopo l'esplosione. Il contenuto di quei cilindri, una volta vaporizzato dall'energia liberata dalla reazione a catena, avrebbe trasformato in una landa radioattiva tutto ciò che si trovava in un raggio di un chilometro e mezzo dal punto dell'esplosione. E tale radioattività sarebbe rimasta per più di trent'anni. Banche dati e computer, archivi e documenti, l'essenza vitale del centro nevralgico burocratico degli Stati Uniti, sarebbero diventati intoccabili. Chaney si avvicinò in retromarcia col camion finché la parte posteriore non venne a trovarsi perfettamente allineata col portellone di carico dell'aereo. Abbassò il piano elevatore idraulico del camion facendolo scivolare senza problemi sotto la fusoliera. Salì a bordo del DC-3 e, insieme con Thorn, sistemò una pesante passerella di legno progettata per livellare e colmare il breve spazio vuoto tra la struttura curva dell'aereo e il pianale del camion. In meno di cinque minuti, sfruttando la forza di gravità e il principio della leva, trasferirono il carico sul suo carrellino, dotato di ruote metalliche, sulla passerella e da lì a bordo del camion. Thorn indossò una tuta blu e un berretto da baseball con una scritta sopra la visiera che diceva: PREFERISCO VOLARE. Saltò a terra e chiuse il portellone dell'aereo dall'esterno. Qualche attimo dopo si trovava sul sedile del passeggero del camion che si dirigeva verso l'uscita dell'aeroporto. Si fermarono al cancello. Thorn scese e attraversò la strada di corsa per andare al telefono pubblico della stazione di servizio di fronte. Rimase dentro la cabina meno di un minuto. Quando tornò a bordo, Chaney aveva acceso la radio. Era sintonizzato sulla NPR, che stava trasmettendo un programma intitolato Tutto considerato. Al microfono, c'era un tizio che diceva: «Fra meno di tre ore il presidente si rivolgerà al Congresso e alla nazione. Tra gli argomenti che verranno trattati anche quello di una grossa spinta al livello nazionale d'istruzione...»
Thorn e Chaney guardavano dritto davanti a loro attraverso la patina di sporco sul parabrezza mentre il sole si abbassava lentamente nel cielo. Seguirono le indicazioni per la Interstate e imboccarono poi lo svincolo in direzione nord-ovest sotto il grosso cartellone verde che diceva: WASHINGTON, D.C. Chaney sporse il braccio fuori del finestrino per segnalare alle macchine dietro di lui che si sarebbe immesso, quindi lo lasciò penzolare lungo la portiera. Le sue dita si trovavano a pochi centimetri dalla targa di metallo magnetica su cui era scritto: PAUL E. GARBER FACILITY - SILVER HILL, MARYLAND. Il direttore voleva che i resti fumanti di «Little Boy» venissero portati via dal museo prima che cominciassero ad arrivare gli ospiti del ricevimento di quella sera. Si trattava degli ospiti in soprannumero, quelli che non erano riusciti ad avere un posto nella galleria della Camera dei Rappresentanti, però erano comunque VIP, molti dei quali autori di generose donazioni allo Smithsonian. Alcuni comparivano sugli elenchi delle persone più importanti di Washington: erano insomma persone di successo e di potere, ma non abbastanza, almeno in quell'anno, per ottenere uno degli ambitissimi posti sotto la cupola. Avrebbero seguito il discorso del presidente su un megaschermo nella Space Hall, poi avrebbero bevuto e mangiato. In seguito il capo di gabinetto del presidente e altre personalità sarebbero giunti a salutarli, però non il presidente, che aveva altri impegni. «Voglio che quell'affare venga portato fuori del parcheggio, immediatamente. Non m'interessa che cosa ne fate. Chiamate l'esercito e fatelo portare via.» Il direttore del museo aveva già i suoi bei problemi, e ora se ne era aggiunto un altro. C'erano mille ospiti da ricevere e meno di tre ore per prepararsi. Si trovava dietro i pannelli di plexiglas e guardava le macchie color ruggine sul pavimento. «Queste verranno via?» «Non lo sappiamo», rispose uno dei responsabili della manutenzione. «Be', non peggiorate la situazione. Procuratevi qualcosa per coprirle, almeno per stasera. E toglietemi quell'affare dal parcheggio.» «Che ne dobbiamo fare?» «Non m'interessa. Toglietelo di qua. Non voglio che la gente lo veda.» «Non possiamo portarlo nel laboratorio. Continua a emanare una puzza bestiale.»
«Si tratta di gas tossici?» chiese il direttore. Uno degli operai guardò l'altro e assunse un'espressione scettica. «No, se non ci si avvicina troppo.» «C'è qualche danno alla fusoliera?» chiese il direttore. «No. Solo queste macchie sul pavimento.» «Copritele e rimettete tutto a posto. Gli ospiti vorranno visitare il museo, dopo il discorso. Vorranno vedere l'Enola.» Il direttore girò sui tacchi e tornò nel suo ufficio. Aveva mille cose da fare. C'erano vari problemi nel collegamento audio del grosso schermo. «Con che cosa dovremmo coprirle, 'ste macchie?» chiese uno degli operai. «E che ne so», borbottò il responsabile della manutenzione. «Continuate a pulire e vediamo che riusciamo a trovare.» Detto questo, si allontanò in direzione del laboratorio. Gli uomini continuarono a passare spazzoloni bagnati sul pavimento, ma la tinta rosso ruggine non voleva saperne di venir via. Non sembrava così grave come la macchia color rosso sangue sull'involucro di «Little Boy», comunque era visibile. «Secondo te, che cos'aveva per la testa?» «Chi? Il direttore?» «No. Quel pazzo che ha combinato 'sto casino.» «Non lo so. Ma è stato fortunato a non versarsi addosso questa robaccia.» «Già. Come il Fantasma dell'Opera», osservò l'altro tizio. «Ehi! Ehi, ragazzi!» Si voltarono, appoggiati ai manici degli spazzoloni, e videro il responsabile della manutenzione che tornava dal laboratorio. «Che succede?» «Siamo fortunati. Qualcuno ha avvertito il centro di Garber. E sapete una cosa? Pare che ce ne sia un altro, lassù.» «Di che? Di pazzo?» «No. Un altro esemplare di 'Little Boy'.» I due si guardarono. «E che se ne fanno di due?» «Non lo so e non m'interessa. Io so soltanto che sta arrivando un camion. A sentire Robbie, che ha preso la telefonata, i tizi del restauro lassù avevano sbagliato il verde del primo 'Little Boy', che avevano fatto. Lo posso capire, visto che l'originale non esisteva più. E così l'hanno rifatto e poi hanno gettato la prima riproduzione in un magazzino.»
«Magari è verde pisello», osservò uno dei due operai. «Senti, non me ne frega niente anche se è verde vomito. Coprirà quella macchia sul pavimento.» «Non dovremmo avvertire il direttore?» chiese uno dei due. «Perché? Ci ha detto di coprire il pavimento con qualcosa. E noi lo facciamo. E poi adesso ha un sacco di cose da fare. Glielo diremo più tardi. Al momento dobbiamo togliere di mezzo quell'affare nel parcheggio per far spazio al camion che sta per arrivare. Se siamo fortunati, potremmo convincerli a portarsi via quella schifezza fumante là fuori prima che l'Ente per la sicurezza sul lavoro dichiari questo posto un deposito di materiale tossico.» Il camion si fermò davanti all'ingresso posteriore dell'Air and Space Museum a tre metri da un qualcosa che fumava sotto un telone di plastica nero. In piedi, accanto a esso, c'erano due operai che sorridevano. Thorn guardò Chaney. «Pare proprio che Scott abbia fatto un bel lavoro», osservò Chaney. «Chissà dov'è, adesso?» «Non c'è da preoccuparsi», rispose Thorn. «Quell'uomo era un vero patriota.» Scese dal camion e sorrise ai due uomini vicini all'oggetto coperto dal telone. «Come va, ragazzi? Mi sa che abbiamo una cosa che vi serve.» Thorn fece un cenno con la testa in direzione del cassone del camion, fingendo di masticare un chewing-gum. «Come volete portarlo dentro?» chiese. «Potete avvicinarvi in retromarcia alla piattaforma di carico», rispose uno dei due. L'altro si allontanò per andare ad aprire il grande portone rialzato. Chaney si avvicinò in retromarcia. «Per caso non potreste portarvi via questo, intanto che ve ne andate? Riportarlo a Garber, cioè?» chiese il responsabile. Thorn e Chaney si scambiarono uno sguardo. Thorn sorrise. «Certo. Perché no?» Dovettero faticare in quattro per tirar fuori il modello dal camion, grugnendo e imprecando a ogni centimetro, sebbene il piano elevatore idraulico fornisse una rampa liscia per arrivare alla piattaforma di carico. «Gesù! Quest'affare pesa una tonnellata», disse il responsabile. «Come mai è così pesante?» «Devono aver usato una lamiera più spessa», rispose Thorn.
«Sì, e poi l'hanno riempito di cemento», aggiunse Chaney. I quattro scoppiarono a ridere. Una volta raggiunto il pavimento, le ruote di metallo del carrello presero a scorrere con facilità. «Senta», disse Thorn, rivolgendosi al responsabile, «perché non va a dare una mano al mio amico George? Lui sposta il camion e poi, insieme, potete usare il piano elevatore per caricare l'altro modello sul camion. Così ce ne andiamo prima.» L'uomo fu ben felice di acconsentire. Nel frattempo, Thorn e l'altro dipendente del museo trasportarono la nuova replica di «Little Boy», attraverso il museo. A quel punto, l'Air and Space Museum stava chiudendo, e i visitatori si avviavano verso le uscite. Alcuni si fermarono per osservare la bomba che avanzava lungo il corridoio centrale verso lo scintillante B-29. «Che peccato», osservò Thorn. «Spendiamo un sacco di soldi per fare tutto questo, e poi arriva un idiota cui manca qualche rotella e cerca di rovinare la festa. Ne capitano proprio di tutti i colori.» «Lo puoi ben dire», replicò l'altro. «Avresti dovuto vedere il direttore. Aveva un diavolo per capello. Se gli metteva le mani addosso, lo ammazzava.» «Hmm.» Thorn si limitò a guardare diritto davanti a sé e sorrise, mentre spingevano il carrello verso la fusoliera dell'Enola Gay. Da lì riusciva a vedere le vetrate alte due piani che davano sul Mall, l'unico ostacolo tra il punto dell'esplosione e il Campidoglio. La palla di fuoco avrebbe percorso il Mall alla velocità della luce, vaporizzando ogni essere vivente nel raggio di duecento metri, e sciogliendo la statua di bronzo sulla cupola del Campidoglio. Un attimo dopo, l'onda di pressione avrebbe divelto il rivestimento di rame del tetto e incendiato ogni superficie infiammabile all'interno. Nel giro di pochi secondi, la temperatura sarebbe arrivata ai duemila gradi. La Casa Bianca sarebbe stata strappata dalle sue fondamenta, mentre i bunker sotterranei avrebbero raggiunto temperature vicine a quelle dell'incenerimento. Thorn si chiese se Scott Taggart avrebbe sperimentato tutto questo oppure se avesse già scoperto l'altro oggetto che gli aveva lasciato cadere nella valigetta insieme con la chiave: la fialetta di vetro con dentro una capsula di cianuro. 33
Hay-Adams Hotel, Washington, D.C. Gideon e Joselyn passarono il pomeriggio a comprare qualche vestito, il minimo indispensabile per tornare a casa. Verso sera, entrarono in un cinema e finalmente riuscirono a rilassarsi nella sala fresca e scura, dove non dovevano rispondere alle domande di nessuno o guardarsi alle spalle per vedere se erano seguiti dall'FBI. Joselyn si chiedeva se il governo le avrebbe pagato il biglietto di ritorno per Seattle. Le sembrava il minimo che potesse fare, considerato che non aveva chiesto lei di essere portata lì. Quando tornarono in albergo erano quasi le otto. Joselyn mollò pacchi e pacchetti sul letto in camera sua e scalciò via le scarpe che si era appena comprata. Le stavano massacrando i piedi. Gideon bussò alla porta di comunicazione. Lei andò ad aprire. «Io vado a farmi una doccia», disse lui. «Quando ho finito andiamo a cena?» «Sono esausta. Preferirei cenare in camera. Stasera ho solo voglia di rilassarmi, di andare a letto presto.» «Perché non prendi qualcosa dal servizio in camera? Ordina anche per me: una bistecca, al sangue, con un po' d'insalata.» «Dove faccio preparare? In camera mia o nella tua?» «Dove vuoi», rispose lui, e sparì a farsi la doccia. Joselyn studiò il menu e poi chiamò per ordinare la cena. Gideon aveva lasciato la porta di comunicazione aperta, caso mai Joselyn avesse chiesto al cameriere di portare la cena da lui, così lei avrebbe sentito bussare alla porta. Si chiese se sarebbe riuscita a prendere un aereo per Seattle in mattinata. Ne aveva parlato con Gideon. Uno degli agenti gli aveva detto che la Federal Aviation Administration limitava i voli diretti a Seattle, dirottandone alcuni su altri aeroporti, finché non fossero riusciti a disinnescare l'ordigno nel centro della città. La scusa era un problema di manutenzione su una pista. Sentiva l'acqua scorrere nella doccia e Gideon che cantava. Aveva una bella voce, anche se non era molto intonato sulle note più alte. Sorrise tra sé e si buttò sul letto, prese il telecomando dal comodino e accese la televisione. Fece un giro tra i programmi a pagamento. Un disastro. Saltellò tra i canali: la CNN, le previsioni del tempo. Trovò un notiziario locale: sparatorie nei quartieri e le disastrose condizioni dei conti
pubblici. Stavano cercando di corrompere il sindaco, offrendogli un incarico a sei zeri come professore emerito in una delle università, purché non si presentasse un'altra volta alle elezioni. Joselyn era sempre più contenta di vivere su un'isola. Stava per spegnere l'apparecchio quando iniziò un nuovo servizio. «C'è stata grande agitazione, oggi, all'Air and Space Museum. Ci riferisce Charlene Williams.» Sullo schermo comparve una donna attraente, col microfono in una mano e un notes nell'altra. Era inquadrata su una scalinata davanti a un muro su cui spiccava una grande scritta a lettere metalliche: NATIONAL AIR AND SPACE MUSEUM. «Sì, Charlie. C'è stata davvero una grande agitazione qui, oggi. La polizia ha arrestato un uomo all'interno del museo, dopo che aveva lanciato un barattolo di acido contro uno degli oggetti esposti. Non ci sono stati feriti, ma la riproduzione della prima bomba atomica sganciata sul Giappone ha riportato danni non ancora quantificati. Il modello in scala reale della bomba atomica nota col nome di 'Little Boy', collocato sotto la fusoliera del famoso bombardiere B-29 Enola Gay, è stato cosparso d'acido e ha dovuto essere rimosso a causa dei danni subiti e dei vapori altamente tossici che continuavano a sprigionarsi da esso. Una visitatrice presente al momento dell'incidente ha girato queste immagini con la sua videocamera, dopo che l'uomo era stato ammanettato dai poliziotti per essere condotto via.» L'immagine sullo schermo fu sostituita per pochi attimi da un fascio di righe trasversali, mentre il nastro iniziava a scorrere. Joselyn era sdraiata sul letto, la testa poggiata sui cuscini, con la mente che cominciava a divagare, pensando già alla cena, quando vide quel volto sullo schermo. Spalancò gli occhi, incredula, e saltò a sedere sul letto. Lo vide soltanto per un secondo, prima che l'uomo venisse trascinato via dalla polizia, ma quel volto lo portava inciso nella mente. Era la stessa persona che aveva visto nella casa di Padget Island, l'uomo che quella mattina si era fermato sulla soglia per dire a Belden che era ora di andare. Lo aveva descritto al presidente e all'FBI, che aveva preparato un identikit. Si allungò verso il telecomando e alzò il volume. «E stasera il mistero si è fatto ancora più fitto. La polizia ha riferito che, poco dopo essere stato messo in stato di fermo, l'uomo...» - e qui la donna consultò i suoi appunti -, «Scott Evan Taggart, è morto in seguito a quello che al momento sembra un attacco di cuore. Le autorità non rilasciano altre dichiarazioni in merito all'incidente, e si sa solo che le indagini continua-
no.» La linea passò allo studio. «Charlene, le autorità hanno avanzato qualche ipotesi sui motivi del gesto?» «Finora no, Charlie. La polizia cittadina considera l'accaduto un atto di vandalismo. Ricorderai che tre mesi fa al National Museum of Art è avvenuto un episodio simile. Si sta cercando di scoprire se l'uomo avesse una storia clinica in grado di spiegare la sua morte improvvisa. A parte questo, si sa solo che le indagini proseguono.» Era come se Joselyn fosse stata colpita da shock post-traumatico. Seduta sul letto, respirava affannosamente, col cervello che girava all'impazzata. «Oh, merda!» Parlava da sola. «Oh, mio Dio!» Si alzò e prese a camminare avanti e indietro, fissando le pareti, terrorizzata, cercando di pensare al da farsi. L'unico suono rassicurante che filtrava attraverso il vociare della televisione era il picchiettare continuo dell'acqua nella doccia di Gideon, e la voce di lui che, di tanto in tanto, si faceva sentire sopra lo scroscio. Joselyn corse alla porta di comunicazione, attraversò la stanza e andò dritta verso il bagno. Senza preoccuparsi di bussare spalancò la porta. In due passi attraversò la stanza satura di vapore e aprì la tenda della doccia. Gideon smise di cantare di botto. Rimase a guardarla allibito, con una saponetta in mano e la testa coperta di schiuma. «Esci subito dalla doccia!» «Come?» «Esci dalla doccia, subito!» Joselyn afferrò un asciugamano e glielo tirò. Lui lo prese al volo, ma non si preoccupò di coprirsi. Era un po' tardi per questo. Joselyn tornò nella stanza di lui e riprese a camminare nervosamente su e giù. Gideon socchiuse la porta del bagno. «Ti spiacerebbe buttarmi un paio di mutande?» Lei trovò una confezione nuova di slip sul letto e gliela portò, infilandola attraverso la fessura della porta. «Che succede?» chiese Gideon. «L'uomo, quello, quello... nella stanza, a Padget Island. L'ho appena visto in televisione.» «Lo hanno preso?» «Sì», rispose Joselyn, «qui a Washington.» La porta si spalancò di colpo. Gideon, in mutande, continuava ad asciu-
garsi. «Che stai dicendo?» «L'ho appena visto in televisione. Lo hanno arrestato da qualche parte... all'Air and Space Museum», rispose lei. «E che ci faceva là?» «Ha tirato dell'acido sulla riproduzione di una bomba atomica.» Gideon smise di asciugarsi e la guardò con espressione molto seria. «Sei sicura che fosse lui?» «Assolutamente.» Lui entrò nella stanza e afferrò i pantaloni. S'infilò le scarpe senza calze. Rivoletti di acqua gli scendevano dai capelli sulle tempie per poi correre lungo il collo fino alla rada peluria che gli copriva il petto. «E c'è dell'altro», riprese Joselyn. «È morto. Dicono che ha avuto un attacco di cuore. Col cavolo! Dov'è questo Air and Space Museum?» «Sul Mall, vicino al Campidoglio...» Gideon non terminò la frase. Si guardarono negli occhi per una frazione di secondo e poi lui si tuffò verso il telefono. Afferrò la cornetta e si voltò a guardare la donna. «Chi chiamo?» «Nove-uno-uno. No. Quella è la polizia. Ci vorrebbe un'ora per spiegare tutto», disse Joselyn. Guardò l'orologio sul comodino. Mancavano meno di quaranta minuti al discorso del presidente. «Non abbiamo molto tempo», mormorò. Per tutto il giorno i notiziari avevano continuato a diffondere flash e anticipazioni politiche sul discorso del presidente sullo stato dell'Unione. Joselyn si precipitò in camera sua e lacerò uno dei sacchetti. Dentro c'era la tuta dell'FBI che si era tolta quando aveva indossato i vestiti nuovi. Frugò in una tasca, ma non lo trovò. Allora provò nell'altra, e tirò fuori un biglietto da visita. Era quello di Sy Hirshberg. Lui gliel'aveva dato quando aveva lasciato la sala operativa, in caso le fosse venuto in mente qualcos'altro. Gideon era fermo sulla soglia della porta di comunicazione, con una polo in una mano e un asciugamano nell'altra. Joselyn compose il numero di Hirshberg alla Casa Bianca. Squillò due volte e poi una voce di donna rispose: «Consiglio per la sicurezza nazionale». «Il signor Hirshberg, per favore.» «Chi lo desidera?» «Sono Joselyn Cole. Ero lì ieri per una riunione col presidente e il signor Hirshberg. È un'emergenza.»
«Un momento, prego.» Il telefono diventò muto. L'avevano messa in attesa. Joselyn guardò l'orologio. «C'è?» chiese Gideon. «Non lo so.» «Digli che la bomba è qui a Washington. Che pensiamo si trovi all'Air and Space Museum.» La donna tornò in linea. «Mi spiace, ma il signor Hirshberg ha già lasciato l'ufficio.» «Devo mettermi immediatamente in contatto con lui. È un'emergenza», ripeté Joselyn. «Come ha detto che si chiama?» «Joselyn Cole. C'è qualcun altro con cui posso parlare?» «Un attimo, prego.» La linea diventò nuovamente muta. «Merda!» imprecò lei. Aveva voglia di sbattere la cornetta contro la superficie di vetro del comodino. «Passami il telefono», disse Gideon. Lei gli porse la cornetta e cominciò a cercare le scarpe, poi sedette sul bordo del letto e se le infilò. Qualcuno tornò in linea. Questa volta si trattava di un uomo. «Pronto?» «Chi parla?» disse Gideon. «Chi è lei?» «Mi chiamo Gideon van Ry. Sono dell'Istituto contro la distruzione di massa. Ieri ero nella sala operativa della Casa Bianca col signor Hirshberg e il presidente. Voglio informarlo che c'è una bomba atomica qui a Washington, nelle vicinanze del Campidoglio.» «Con chi parlo?» «Dov'è Hirshberg?» chiese Gideon. «È col presidente. Sta andando al Campidoglio.» Era troppo tardi. Quando Gideon e Joselyn fossero riusciti a parlare con qualche responsabile e gli avessero spiegato quello che sapevano, Washington sarebbe già stata ridotta a un cumulo di ceneri fumanti. «Mi ascolti. Ha una matita e un pezzo di carta?» «Sì.» «Prenda nota», disse Gideon. «Non m'interessa come lo fa, ma si metta immediatamente in contatto col signor Hirshberg. Mi ha capito?» Dall'altra parte della linea ci fu silenzio. «Gli dica che hanno chiamato Joselyn Cole e Gideon van Ry.»
«Mi ripeta i nomi, lentamente», disse l'uomo. Gideon glieli ripeté, lettera per lettera. «Gli spieghi che stiamo andando all'Air and Space Museum. Mi ascolti e cerchi di capire bene. Lui sa chi siamo. Gli dica che l'ordigno nucleare non è a Seattle. Gli dica che siamo convinti che si trovi all'Air and Space Museum, e che il presidente stasera non dovrebbe tenere il suo discorso. Ha capito bene?» «Credo di sì», disse l'uomo. Joselyn stava guardando la televisione. Le interviste introduttive stavano già iniziando, gli esperti di politica si stavano godendo il loro momento di gloria su tutte le reti, e i giornalisti televisivi erano tutti impegnati a intervistare membri del Congresso sotto le luci abbaglianti dei fari. Tutto in diretta. «Ha capito ogni cosa?» insistette Gideon. «Sì.» «Allora si muova.» Riattaccò il telefono e afferrò Joselyn, quasi sollevandola da terra. Aprì la porta della stanza proprio mentre stava arrivando il cameriere con la loro cena su un carrello. «Largo!» fece Gideon, spingendo cameriere e carrello contro il muro. «Un attimo», disse il cameriere. S'infilarono tra carrello e porta mentre questa si richiudeva alle loro spalle. «Lo lasci davanti alla porta», gli ordinò Gideon. «Ehi! E chi paga?» «Il governo», gridò Joselyn, voltandosi, mentre Gideon la trascinava lungo il corridoio. Gideon riuscì a infilare una mano nella porta di un ascensore che si stava chiudendo. I battenti si riaprirono lentamente. Una coppia di signori anziani in abito da sera li guardò con occhi spalancati e qualcosa di più di semplice disapprovazione. I capelli di Gideon sembravano volute di fumo al vento; Joselyn ansimava e aveva un'espressione spiritata negli occhi. «È un buon sistema per perdere una mano», osservò l'uomo. «Mi considererò fortunato se sarà l'unica cosa che perdo stasera», replicò Gideon. Chiusi nell'ascensore non potevano fare altro che aspettare. Gideon si passò una mano tra i capelli nell'inutile tentativo di rendersi più presentabile. Si frugò in tasca e trovò il portafogli. Aveva trenta dollari in contanti. Abbastanza per un taxi.
Quando la porta si aprì, ci mancò poco che travolgessero un uomo e una donna fermi davanti all'ascensore. Si precipitarono a rotta di collo attraverso l'atrio dell'albergo. Gideon addirittura superò con un salto una piccola panca. Un centinaio di teste si voltarono a guardarli, come un radar che segue un oggetto in rapido movimento. Quella sera erano in programma ricevimenti in tutta la città, e l'HayAdams Hotel non faceva eccezione. Gideon e Joselyn si aprirono la strada a fatica attraverso la folla all'ingresso. Quando arrivarono al marciapiede c'era già una piccola folla in coda per i taxi. Gideon passò davanti a tutti. «Signore, deve aspettare il suo turno.» Il portiere allungò un braccio verso di lui cercando di spingerlo verso la coda. «Non abbiamo tempo», disse Gideon. «Che succede?» Gideon rifletté un attimo. «Mia moglie sta molto male.» Passò un braccio intorno a Joselyn e le strinse una spalla. «Temo che abbia un avvelenamento da cibo. Qualcosa dal menu del servizio in camera.» Sul volto del portiere comparve un'espressione angosciata. Le persone in coda cominciarono a fissare Joselyn. Lei finse di star male, tenendosi la pancia. Il portiere non era dell'umore adatto per mettersi a fare una diagnosi, non davanti a tutta quella gente. Soffiò nel fischietto e si piazzò in mezzo alla strada. Pochi attimi dopo arrivò un taxi. Aiutò Joselyn e Gideon a salire sul sedile posteriore e chiuse la portiera. «All'Air and Space Museum», disse Gideon. «E ci sono venti dollari extra se riesci a portarci là in meno di tre minuti.» «In tre non ce la faccio, ma in cinque sì», rispose l'autista. «Non stiamo a contrattare. Sono tuoi», disse Joselyn. L'accelerazione li mandò a sbattere contro lo schienale. Seguì una corsa sfrenata attraverso le strade del centro di Washington, molte delle quali erano a senso unico. Gideon fece per guardare l'orologio che gli avevano restituito insieme col portafogli, ma sfortunatamente l'aveva lasciato in albergo. «Che ore sono?» chiese allora. Joselyn guardò l'orologio. «Le otto e quaranta. Arriveremo in tempo?» «Non lo so.» «Che facciamo quando siamo là?» «Dovremo trovare il modo per entrare nell'edificio. Se sarà necessario romperemo una finestra.»
«Ma questo attirerà l'attenzione della polizia», obiettò Joselyn. «Speriamo di riuscire a entrare prima che arrivino loro. Almeno potremo portarli alla bomba. Forse, se la vedono, chiederanno aiuto. Se non sarà troppo tardi.» Il taxi sfrecciò lungo H Street, passò di fianco all'Old Executive Office Building e all'Ellipse, diretto verso il Tidal Basin, Joselyn vide il Washington Monument alla sua sinistra, col faro rosso che lampeggiava nel cielo della notte. Il taxi compì un'ampia curva intorno al monumento, passò a tutta velocità di fronte al Sylvan Theatre e imboccò Independence Avenue. Sfrecciò davanti a gallerie d'arte e musei, passando dietro lo Smithsonian Castle. Si stavano avvicinando al Transportation Building quando il traffico si fece improvvisamente molto intenso: un mare di luci rosse dei freni si estendeva a perdita d'occhio davanti a loro. «E questo che cos'è?» chiese Gideon. «Non lo so proprio, amico. Dev'essere successo qualcosa.» Dopo cento metri, il taxi rimase imbottigliato nel traffico completamente fermo. Joselyn vide lunghe limousine ed eleganti berline, signore in abito da sera e pelliccia, uomini in smoking: tutti che andavano nella stessa direzione. «Quanto è lontano il museo?» chiese Gideon. «Soltanto un isolato.» Gideon diede un'occhiata al tassametro. Segnava otto dollari. Prese i trenta dollari dal portafogli e li buttò sul sedile anteriore, verso l'autista, aprì la portiera e si lanciò fuori. Joselyn lo seguì. Si fecero largo tra donne, con tacchi da dieci centimetri e guanti da sera, a braccetto di uomini in completo scuro. Alcuni indossavano uniformi di gala. Tutti andavano verso l'ampia gradinata che portava all'Air and Space Museum. «Se non altro non saremo costretti a rompere una finestra», osservò Gideon. «E come faremo a entrare?» «Non lo so.» L'edificio era illuminato come una chiesa per la veglia di Natale. Posizionata sulla strada davanti all'edificio c'era una vecchia fotocellula della contraerea, il cui raggio di luce perlustrava il cielo della notte. Una targa diceva: RESIDUATO DEL BOMBARDAMENTO DI LONDRA. Alcune guide distribuivano programmi con piantine del museo stampate all'interno. Gideon vide un uomo prenderne una e un attimo dopo buttarla
in un cestino per i rifiuti. Si mise a rovistare nel cestino mentre una guida lo guardava con espressione disgustata. «Che stai facendo?» gli chiese Joselyn. «Una volta entrati, non avremo il tempo di cercare dove dobbiamo andare. La... cosa che quell'uomo ha danneggiato con l'acido, ti ricordi come si chiamava?» Joselyn alzò gli occhi al cielo e rifletté. «Non stavo ascoltando con attenzione.» «Cerca di ricordare», disse Gideon. «Boy. Boy. Qualcosa con boy.» «'Little Boy'», mormorò Gideon. «Bravo.» Come un radar, gli occhi di Gideon trovarono le parole ENOLA GAY sulla piantina del museo. Si trovava un po' in disparte, nell'angolo nordovest dell'edificio, al pianoterra. Si orientò con la piantina davanti all'edificio, mentre una folla di persone in abito da sera saliva i gradini verso la scintillante facciata. «E adesso, che facciamo?» mormorò. «Andiamo da quello lassù sulla porta e gli diciamo che c'è una bomba atomica all'interno?» «No, a meno che tu non voglia passare il resto dei tuoi giorni in manicomio», rispose Joselyn. Poi, all'improvviso, lo vide. «Seguimi», ordinò a Gideon, afferrandogli la mano e trascinandolo su per le scale. S'infilarono tra la folla, con Gideon che cercava di passare inosservato, per quanto possibile per un uomo alto due metri, mal vestito e coi capelli scompigliati. Parecchie persone si voltarono a guardarli, ma Joselyn non se ne curò. La sua attenzione era tutta concentrata sull'uomo col soprabito di lana davanti a loro, quello che aveva una grande busta quadrata che gli spuntava dalla tasca. Una donna con una lunga pelliccia di visone e orecchini di diamanti rivolse loro un'occhiata condiscendente. Gideon sorrise. «Vedo che lei appoggia il movimento per i diritti degli animali.» La donna distolse lo sguardo e sussurrò qualcosa all'orecchio dell'uomo che teneva a braccetto. Arrivarono al terrapieno che portava al museo e la coda si fermò: le persone si ammassavano davanti alla porta cercando di entrare. Sembrava che tutti avessero inviti contenuti in grandi buste, che consegnavano a due uscieri piazzati ai lati della porta, sotto gli occhi di una guardia della sicu-
rezza. Joselyn si sporse in avanti a guardare attraverso un varco momentaneo tra la folla. Avanzarono lentamente. Giunto a qualche metro dalla porta, l'uomo davanti a loro si fermò di colpo e cominciò a tastarsi, frugando la tasca interna del soprabito e poi sbottonandoselo, sotto lo sguardo incuriosito della donna che era con lui. «Ti giuro che li ho messi nel soprabito», borbottava. Joselyn gli girò intorno abilmente, tirandosi dietro Gideon. Dieci secondi più tardi raggiunsero la porta, dove un usciere coi guanti bianchi li squadrò da capo a piedi e poi allungò la mano per prendere l'invito dalla mano di Joselyn. «Sapete che è una serata di gala?» disse l'usciere. «Ci sediamo in fondo», ribatté prontamente Joselyn. Prima che l'usciere potesse dire qualcosa, varcarono la soglia ed entrarono a passo svelto. Gideon lanciò un'occhiata veloce all'indietro e vide l'usciere parlare con la guardia, che ora li fissava come se volesse incenerirli con lo sguardo. «Ti chiederei come ci sei riuscita», disse, rivolto a Joselyn, «ma non abbiamo tempo.» L'uomo che aveva perso gli inviti si trovava ancora sulla porta, e continuava a tastarsi le tasche, parlando con l'usciere. Gideon e Joselyn attraversarono l'atrio quasi di corsa, scartando invitati con bicchieri di champagne in mano. Gideon cercava di stare un po' chino, in modo da non essere visto al di sopra della folla. Con le sue lunghe gambe divorò i venti metri dell'atrio, passando davanti al banco delle informazioni, ma non senza che un'impiegata del museo li vedesse. La donna sollevò la cornetta del telefono e premette un pulsante. Joselyn cercava di stargli dietro, ma le suole di cuoio delle scarpe nuove scivolavano sul pavimento liscio come se fosse ghiaccio. Allungarono il passo e si diressero a sinistra, oltre la zona dedicata alle «Pietre miliari del volo», imboccando il grande corridoio centrale e passando davanti alle scale mobili che portavano al secondo livello. Quando Gideon si voltò, le vide. Tre guardie armate sbucarono dalla folla come cacciatorpediniere lanciati a tutto vapore e vennero subito raggiunte da una quarta. Una di loro aveva già la mano sul calcio della pistola. Non appena si furono lasciati alle spalle l'ultimo gruppetto d'invitati, Gideon e Joselyn si trovarono in piena vista, come fanti in terra di nessuno.
Gideon cominciò a correre. Joselyn lo seguì. Sfrecciarono dietro un'esposizione temporanea al centro del largo corridoio e svoltarono verso la zona nord dell'edificio. Per un attimo, Gideon perse di vista le guardie. Quando spuntarono all'altezza delle scale mobili, una di loro stava parlando col mento piegato verso il basso, contro il microfono fissato al colletto della camicia dell'uniforme. Gideon vide la guardia aprire la linguetta di sicurezza della fondina, liberando il cane della pistola e, sempre correndo, estrarre l'arma e puntarla verso il suolo, tenendola con due mani. Afferrò Joselyn e la spinse davanti a sé, facendole scudo col proprio corpo e sospingendola lungo il corridoio verso l'Enola Gay. Passarono in piena corsa in mezzo alle scalinate al centro dell'edificio e davanti all'ultima paratia di separazione tra le esposizioni. Laggiù in fondo, nella galleria sulla destra, spuntava la lucente fusoliera del B-29. Senza le ali, che non potevano essere montate all'interno dell'edificio, somigliava a un gigantesco sigaro d'argento. Le ruote del carrello di prua erano leggermente girate, come se l'aereo si fosse appena fermato sulla pista di volo. Le forti luci che illuminavano lo stand dall'alto si riflettevano sulla bolla di plexiglas del puntatore all'estremità del muso. Sotto la fusoliera dell'Enola Gay, a metà strada verso la mitragliera di coda, si trovava il sinistro cilindro verde, con la sua punta tozza e gli stabilizzatori di coda squadrati, il simbolo dell'era atomica, il modello in scala reale di «Little Boy». Per un attimo, Joselyn e Gideon rimasero paralizzati, sapendo che quello che avevano davanti non era un semplice modello. Incapaci di parlare, rimasero a fissare la bomba per quello che era in realtà: due kiloton di distruzione radioattiva, in grado di far innalzare un fungo mortale a quindici chilometri, nella stratosfera sopra la capitale del Paese. Il rumore di passi frettolosi sul pavimento li riportò alla realtà. «Che facciamo?» chiese Joselyn. Gideon si voltò verso il corridoio alle loro spalle: i passi si avvicinavano. «Presto. Scavalchiamo i pannelli. Sotto l'aereo», le disse. Attraversarono la galleria deserta e superarono i pannelli con un salto, poi s'infilarono sotto la fusoliera, facendo attenzione a non urtare la bomba o il carrello rettangolare in acciaio su cui era posata. Gideon esaminò l'involucro esterno della bomba, alla ricerca di un piccolo pannello di chiusura con qualche vite o di una zona delimitata da rivetti... qualsiasi cosa che potesse fornire accesso all'ordigno che si trovava all'interno. Anche se l'avesse trovato, però, non aveva idea di come fare ad
aprirlo. Non aveva con sé neanche un attrezzo. Le guardie raggiunsero l'angolo della paratia delimitante la galleria che ospitava l'Enola Gay. Joselyn vide un uomo far capolino oltre lo spigolo. Un'altra guardia attraversò di corsa la luce della galleria e prese posizione dalla parte opposta. Entrambe avevano le pistole spianate. «Adesso venite fuori, con le mani alzate», intimò una guardia. «Non siamo armati», replicò Gideon. Ansimava. La corsa lungo il corridoio l'aveva lasciato senza fiato. «Tenete le mani bene in vista e venite fuori», ordinò la guardia. Gideon sentiva alcuni movimenti provenire dall'ombra, dal punto in cui la sezione di coda del gigantesco bombardiere scompariva dietro i pannelli dello stand. Sapeva che la polizia o le guardie sarebbero arrivate da quella parte. Nel giro di pochi secondi, gli sarebbero state addosso. Qualsiasi cosa avesse detto sarebbe andato perso nella confusione di una zuffa persa in partenza. Si senti l'audio del gigantesco schermo televisivo improvvisamente deviato sull'impianto acustico del museo: «Da un momento all'altro il cerimoniere della Camera dei Rappresentanti annuncerà l'ingresso del presidente. Ecco, vediamo arrivare il segretario di Stato, Knowland, seguito dal ministro della Giustizia...» «Ascoltatemi», disse Gideon, «l'uomo che stamattina ha gettato l'acido contro il modello di 'Little Boy' faceva parte di un gruppo terroristico. Questo involucro, questo qui, sotto l'aereo, contiene un ordigno nucleare. È stato sostituito durante il giorno. Chiamate il signor Hirshberg, il consigliere del presidente per la sicurezza nazionale. Ditegli che Gideon van Ry si trova nel museo. Lui garantirà per me.» «Tenete le mani in modo che possiamo vederle e venite fuori, subito.» Altri rumori, di movimenti e di passi, e ora anche sussurri, dalla zona buia in cui scompariva la coda dell'aereo. L'audio televisivo riprese: «Sì, Tom, vediamo il segretario di Stato. Però non vediamo Sy Hirshberg, il consigliere del presidente per la sicurezza nazionale. Se non lo vedremo qui stasera, questo indubbiamente alimenterà le voci secondo le quali Hirshberg potrebbe trovarsi in disaccordo con questa amministrazione. Circolano notizie non controllate che...» Due guardie in uniforme sbucarono dall'ombra alle loro spalle. Si buttarono con tutto il loro peso addosso a Gideon, uno placcandolo alle gambe, l'altro bloccandogli il tronco. Lo spedirono lungo disteso sul pavimento sotto l'aereo.
Una terza guardia sbucò dall'oscurità e afferrò Joselyn prima che lei potesse muovere un passo e la gettò a terra, bloccandola con un ginocchio in mezzo alle scapole. A lei parve che l'uomo le stesse spezzando la schiena, e il dolore quasi la fece svenire. Mentre Gideon si divincolava, disteso a terra, le due guardie lo fecero girare con la faccia contro il pavimento. Mentre lo tenevano in quella posizione, arrivarono altri due uomini a dare manforte. Col volto premuto di lato contro il pavimento, Gideon lo vide: nella parte inferiore dell'involucro della bomba c'era uno sportelletto di dieci centimetri per venti. Era fissato con sei piccole viti. Guardando dall'alto, con la bomba appoggiata sul carrello, il pannello era invisibile. Si divincolò per liberarsi, ma le guardie aumentarono la pressione sulle braccia, spingendogliele in alto, dietro la schiena. Gideon era grande e forte eppure, quando una guardia gli torse con violenza un polso, chiuse gli occhi per il dolore. Cercò di concentrarsi sul pannello metallico nella parte inferiore della bomba, come se fosse possibile farlo aprire con la sola forza del pensiero. «Lasciateli andare.» La voce proveniva dalla galleria, forte e autoritaria. «Mi avete sentito? Lasciateli andare, subito.» Gideon sollevò la testa e vide la sagoma alta e magra di Sy Hirshberg subito dietro i pannelli. Per essere anziano, Hirshberg era molto agile. Appoggiandosi su una sola mano, lanciò le gambe oltre la barriera di plexiglas e, nel giro di pochi secondi, aveva messo la mano sulla spalla di una delle guardie. Queste non guardavano verso di lui, bensì verso l'uomo alto ed elegante che si trovava al suo fianco. Il direttore del museo annuì e le guardie mollarono la presa. L'uomo che teneva il ginocchio premuto contro la schiena di Joselyn si tirò su immediatamente. La prese per un braccio e cercò di aiutarla ad alzarsi, ma lei era senza fiato. Gideon si alzò da terra, tastandosi il polso per accertarsi che non fosse rotto. «Ho bisogno di un cacciavite», disse poi. Si chinò sotto la bomba e ne esaminò la parte inferiore. «A stella», aggiunse. Quindi si sdraiò sulla schiena, come se intendesse infilarsi sotto una macchina. Le guardie esitarono. «Che state aspettando?» gridò Hirshberg. «Sbrigatevi.» Due guardie sparirono di corsa nell'oscurità. Joselyn era riuscita a mettersi in ginocchio. Premendosi lo stomaco con una mano e cercando di riprendere fiato, strisciò verso Gideon e la bomba.
Hirshberg si avvicinò e s'inginocchiò al loro fianco. «Quanto tempo abbiamo?» «Dov'è il presidente?» chiese Gideon. «Si sta preparando a parlare», rispose Hirshberg. «Ecco la chiave», disse Gideon. «Se ho ragione, la bomba verrà fatta esplodere con un impulso radio non appena il presidente entrerà nell'aula del Congresso.» Hirshberg si girò verso un assistente che era rimasto oltre i pannelli. «Riusciamo a raggiungere gli agenti del servizio segreto di scorta al presidente sulla loro frequenza radio?» «No», rispose il giovane. «Non credo proprio.» Ormai alcuni degli ospiti erano arrivati fino a loro, attirati dalla confusione. Se ne stavano lì, impalati, guardando quell'uomo alto e magro sdraiato a terra che esaminava la bomba. «Se non riusciamo a raggiungerli via radio», riprese Hirshberg, «allora chiama il distaccamento della Casa Bianca. Di' loro di tenere il presidente lontano dall'aula del Congresso, a qualsiasi costo. Di' che c'è una bomba che sta per esplodere vicino al Campidoglio.» Queste parole provocarono un fremito di paura tra la folla ferma sull'ingresso della galleria. «Che ha detto?» «Ha detto che c'è una bomba!» La gente cominciò a scappare verso l'atrio. La notizia si propagò tra la folla come un'onda di piena. In meno di un minuto, aveva già raggiunto l'ingresso principale e la gente cominciò a riversarsi in strada. L'assistente digitò un numero sulla tastiera di un cellulare. Una delle guardie sbucò dall'ombra con una piccola scatola di attrezzi. Hirshberg e Joselyn frugarono all'interno finché non trovarono un cacciavite a stella. Nonostante il trauma al polso, Gideon lavorava alacremente per allentare le sei viti sullo sportello di metallo. Non c'era tempo per le finezze. Poteva solo sperare che Belden e i suoi non si fossero presi il disturbo d'installare un meccanismo di esplosione sullo sportello. Ma l'intuito e l'esperienza gli dicevano che era improbabile. Un meccanismo di quel tipo avrebbe reso molto più difficile il trasporto dell'ordigno, a meno che non avessero avuto il tempo di armarlo dopo averlo posizionato. Ma in un museo aperto al pubblico, col personale di sorveglianza intorno, era un'eventualità remota. Trattenne il fiato mentre estraeva l'ultima vite dal suo alloggiamento, poi
infilò lentamente un'unghia sotto il bordo del pannello. Era più pesante di quanto sembrasse. Liberato dall'ultima vite, gli cadde tra le mani. Lui si ritrasse, stringendo gli occhi. Quando li riaprì, era ancora tutto intero. Joselyn sentiva il cuore che pompava come una locomotiva a vapore. Gideon lasciò cadere il pannello di metallo sul pavimento e guardò dentro. Era un intrico di cavi di colori diversi che andavano in tutte le direzioni. Qualcuno gli passò una piccola torcia elettrica. Diresse il fascio all'interno della bomba e cominciò a perlustrarlo, alla ricerca di qualcosa. «Accidenti.» «Che c'è?» chiese Joselyn. «Non vedo nessun ricevitore. Dovrebbe esserci una scatoletta... Le batterie...» Con lo sguardo seguì il tragitto dei cavi. «Non vedo nessun timer.» Era senza fiato. «Deve per forza trattarsi di un'esplosione radiocomandata», riprese. «Hanno bisogno di stare abbastanza lontani, in modo da non essere travolti dallo scoppio. Ma per questo ci vorrebbe un ricevitore piuttosto ingombrante...» Respirava a fatica e il sudore gli colava dalla fronte, mentre dirigeva il raggio della torcia dentro la piccola apertura, alla ricerca disperata di qualcosa che non c'era. Vedeva il nucleo sferico dell'ordigno nucleare più avanti, verso il naso della bomba. Occupava solo una frazione del diametro dell'involucro che lo racchiudeva, sinistra testimonianza del progresso compiuto dall'uomo nei vent'anni trascorsi dalla fine della guerra. Il nucleo poggiava su quella che sembrava una culla di polistirolo, progettata per proteggerlo dagli urti durante il trasporto. Però c'era qualcosa di strano. Tutt'intorno al nucleo, fissati alla parete interna dell'involucro, scorse diversi piccoli cilindri di metallo, delle dimensioni di un estintore, di quelli che si usano per le piccole barche. Ne contò nove. Il sudore gli colava copioso dalla fronte negli occhi. Se lo asciugò col dorso della mano mentre continuava a sciabolare il raggio della torcia attraverso l'apertura. Per un istante temette che si trattasse di un ordigno termonucleare. Invece di due kiloton, Gideon si chiese se non si trovava di fronte a cinque megaton. Se fosse stato così, l'ordigno era in grado di radere al suolo l'intero territorio del Distretto di Columbia, parte del Maryland, e le propaggini settentrionali della Virginia. Tuttavia, mentre esaminava i cablaggi, all'improvviso capì. Non si trat-
tava di una bomba termonucleare: i cilindri metallici erano pieni di cesio radioattivo. «Faccia uscire tutti da qui», ordinò. «Se sta per esplodere è troppo tardi», rispose Hirshberg. «Potrebbe essere troppo tardi anche se non esplode», sibilò Gideon. «Faccia uscire tutti, subito.» Hirshberg saltò in piedi. «Fuori! Tutti fuori!» Le guardie cominciarono a guidare verso il corridoio centrale e l'uscita le poche persone rimaste. «Anche lei», disse Hirshberg, rivolto a Joselyn. «Io non vado da nessuna parte», ribatté lei. «Portatela fuori di qui», ordinò Gideon. Joselyn lottò con Hirshberg e con le guardie. La trascinarono via dalla fusoliera dell'Enola Gay verso i pannelli, e alla fine Hirshberg riuscì a calmarla. Lei guardò verso Gideon, sdraiato sulla schiena, col viso quasi sotto la bomba, che puntava la piccola torcia verso l'interno dell'involucro. «Non voglio andarmene», disse. «Devi», le disse lui. «No.» Le lacrime le rigarono il viso. «Signor Hirshberg.» Era il suo assistente. «Non riesco a prendere il numero. Le linee della Casa Bianca sono intasate.» «Intasate? Che significa?» «Che sono tutte occupate.» «Ma ci sono duecento linee a disposizione!» sbottò Hirshberg. «Le centraline sono in tilt.» L'idea si fece strada in lei come etere, mentre guardava Gideon disteso sul pavimento. Il telefono cellulare. L'assistente. Le linee intasate. «Non è un ricevitore radio!» gli gridò, cercando di tornare da lui, ma le guardie la fermarono. «È un telefono cellulare!» In due la sollevarono al di sopra dei pannelli di plexiglas mentre lei si divincolava e lottava, usando entrambe le mani. Gideon, disteso sulla schiena, lanciò un'occhiata verso Joselyn. La stavano portando via. Era isterica. «È un telefono cellulare!» ripeté lei. «Era la specializzazione di Belden. L'identificazione vocale. Cerca un telefono cellulare!» Continuò a battere coi pugni sulla schiena della guardia, ma inutilmente. L'uomo se la caricò di traverso sulle spalle e si diresse verso il corridoio principale. Nell'attimo in cui lei pronunciava quelle parole, lui lo vide: non un telefono, bensì un semplice cavo, grigio e di sezione ovale, più grosso degli al-
tri. Era un normale cavo telefonico. Attraversava l'involucro e scompariva sotto il nucleo, nel punto in cui questo poggiava sulla culla di polistirolo. Dall'altra parte, il cavo s'infilava sotto quello che sembrava uno schermo di tessuto bianco che sigillava la coda della bomba, verso gli stabilizzatori di coda. Gideon diede un'occhiata allo sportello di metallo appoggiato a terra. Era rivestito di piombo. Puntò il fascio di luce della torcia appena dentro l'apertura e raschiò con l'unghia la superficie interna dell'involucro. Piombo. L'intero involucro di «Little Boy» era rivestito di piombo per proteggere chiunque lo trasportasse dalle radiazioni mortali del cesio. Adesso era solo sotto la fusoliera silenziosa e incombente del B-29; gli unici rumori erano le urla lontane di Joselyn che veniva trascinata verso l'uscita e la telecronaca in diretta diffusa dallo schermo gigante. Gideon fece un respiro profondo, poi infilò una mano e il braccio nudo dentro l'apertura nell'involucro di «Little Boy». Dentro fino alla spalla. Tastò lo schermo di tessuto che isolava la sezione di coda e il cavo telefonico che lo attraversava. Lo spinse con le dita: oppose una certa resistenza, ma non era rigido. Lo schermo era costituito da un disco di piombo rivestito di un tessuto pesante. Lo colpì col pugno chiuso e il nastro adesivo, che lo teneva fissato all'interno dell'involucro si staccò. Lo colpì nuovamente, con più forza, e questa volta lo schermo cedette, infilandosi nella sezione di coda della bomba. Quando tirò fuori il braccio e illuminò nuovamente l'interno con la torcia, lo vide. Fissato all'interno di «Little Boy», con un tratto di nastro isolante nero, si trovava un piccolo telefono cellulare. Il tutto era completato dal cavo telefonico collegato nella parte inferiore dell'apparecchio. Era stato necessario sistemare il telefono all'esterno della schermatura di piombo per permettergli di ricevere il segnale. Gideon immaginò che all'estremità opposta del cavo, sotto il nucleo, ci fosse un microprocessore programmato con un codice vocale e collegato al detonatore principale. Da lì l'impulso si sarebbe distribuito ai detonatori inseriti nell'esplosivo ad alto potenziale che circondava il nucleo di plutonio. Lanciò un'occhiata ai contenitori del cesio, quindi, senza esitazione, infilò nuovamente il braccio dentro l'involucro della bomba, fino alla spalla. Arrivò al telefono fissato alla parete interna, ma non riuscì a liberarlo dal nastro isolante. Aveva bisogno di un coltello. Con la mano libera, attirò a sé la scatola degli attrezzi e cercò a tastoni al
suo interno. Sentì qualcosa di tagliente. Era la lama piatta di un cacciavite: non si trattava di un coltello, ma doveva andar bene lo stesso. Lo infilò velocemente all'interno dell'involucro e cercò di tagliare il nastro con la lama. Belden lo aveva fissato molto bene. Improvvisamente sentì alcuni passi di corsa verso di lui. Era Joselyn. In qualche modo era riuscita a sfuggire alla guardia. Superò con un salto i pannelli e corse verso Gideon, si buttò in ginocchio, e continuò a scivolare fino a che la sua testa e il torace non si appoggiarono delicatamente sul petto di lui. «Devi andartene da qui. Ti prego», l'implorò Gideon. «Non vado via. Non ti lascio.» «Tu non capisci», disse Gideon. «Non m'interessa, non me ne vado», rispose lei. Non avevano tempo per discutere. Gideon lottò col nastro che tratteneva il telefono e finalmente riuscì a liberarne un'estremità. Afferrò il telefono che penzolava dai residui di nastro e lo tirò finché non si staccò completamente. «Per favore, non ti avvicinare a me», le disse. «Spostati dall'altra parte della bomba.» Se non riusciva a convincerla ad andarsene, almeno poteva mettere tra loro lo schermo costituito dall'involucro della bomba. Il suo corpo era ormai gravemente contaminato dalle radiazioni, e lui lo sapeva. Joselyn lo guardò con un'espressione che diceva che gli avrebbe obbedito, ma non sarebbe andata un centimetro più in là. Lentamente, Gideon ritirò il braccio finché la mano, che ancora stringeva il telefono, non si trovò all'esterno dell'apertura. L'apparecchio era ancora attaccato al cavo telefonico collegato al detonatore. Prese in considerazione la possibilità di tagliare il cavo, ma non sapeva se questo avrebbe fatto esplodere l'ordigno. Anche se Belden aveva utilizzato un codice vocale per armare la bomba, Gideon temeva che avesse minato il cesio con altro esplosivo, nel caso qualcuno avesse tentato d'interrompere il circuito. Joselyn guardava il telefonino come ipnotizzata. «Signore e signori, il presidente degli Stati Uniti!» Il sistema audio del museo esplose in un applauso, mentre lo schermo gigante diffondeva le immagini a una sala deserta. La folla d'invitati, più di un migliaio di persone, vestite con smoking e abiti da sera, si stava riversando in strada: donne che cadevano dalle scale, altre che lasciavano cadere a terra borsette tempestate di paillette, uomini che le calpestavano, correndo, tutti con le immagini del massacro di Oklahoma City ancora davanti
agli occhi. Non sapevano che si trattava di una bomba atomica. Sotto la fusoliera dell'Enola Gay, il telefono prese vita in mano a Gideon. Squillò, e il piccolo schermo a cristalli liquidi s'illuminò. Gideon non esitò. Non c'era tempo. Con le dita premette le mollette sui due lati della spina inserita alla base del cellulare e il cavo si staccò. Il telefono squillò di nuovo. Gideon guardò Joselyn, che lo osservava dall'altro lato di «Little Boy», e nelle loro menti si fece strada la stessa domanda: col telefono chiuso all'interno dell'involucro, chi avrebbe risposto? La soluzione arrivò al terzo squillo. Improvvisamente si udì il ronzio di una linea telefonica aperta. Dall'altra parte si sentiva il respiro di qualcuno. Belden aveva programmato il telefono perché rispondesse automaticamente. Disse solo due parole, con voce chiara e cristallina: «Massa critica». Gideon guardò il telefono per un attimo, poi si avvicinò il microfono alle labbra. «Mi spiace. Ha sbagliato numero.» Poi chiuse la comunicazione. 34 Bethesda, Maryland Il reparto del Bethesda Naval Hospital era tranquillo, quasi deserto. Quella sezione del piano era off-limits per chiunque, tranne una manciata di medici e d'infermieri superspecializzati. Erano tre giorni che Joselyn si recava là e vi restava accampata per tutta la giornata. Ma loro non glielo avevano ancora lasciato vedere. «Perché no?» chiese lei. Il medico scosse la testa. «Perché non posso vederlo?» «Perché sta molto male», rispose Hirshberg. Fu lo sguardo che si scambiarono i due uomini a farle capire che la situazione era molto più grave di quanto l'avessero indotta a credere. Aveva pensato che fosse per motivi di sicurezza, che lo stessero interrogando. «Ma non morirà, vero?» Hirshberg e il medico si scambiarono un'altra occhiata, ma nessuno dei due rispose.
Alla fine Hirshberg le posò le mani sulle spalle e le disse: «Ha assorbito una tremenda quantità di radiazioni». «Ma c'eravamo anche noi, là», obiettò Joselyn. «Le sue braccia, all'interno dell'involucro, sono rimaste esposte troppo a lungo», spiegò il medico. «Deve pur esserci qualcosa che si può fare.» Joselyn gli rivolse uno sguardo implorante. Il dottore scosse la testa e Hirshberg si allontanò da lei, voltandole le spalle. «Voglio vederlo. Adesso.» «Non è una buona idea», rispose Hirshberg. «Io voglio entrare.» Si diresse verso la camera e uno degli agenti di guardia mosse un passo nella sua direzione. «È tutto a posto.» Hirshberg gli lanciò un'occhiata e l'agente tornò al suo posto. Poi Hirshberg guardò il medico. «Solo dopo che abbiamo sistemato uno schermo», disse quest'ultimo. «E solo per un paio di minuti.» Joselyn attese in corridoio davanti alla camera fino a che non portarono un aggeggio simile a un piccolo paravento e non ebbero finito di sistemarlo nella stanza. Pochi attimi dopo il tecnico, che indossava un pesante indumento rivestito di piombo, uscì in corridoio e annuì. «Può restare solo due minuti», la avvertì il medico. «Io la osserverò dalla cabina. Deve restare sempre dietro lo schermo. E non deve toccarlo per nessun motivo.» L'agente aprì la porta e Joselyn guardò dentro. Era buio. Non c'erano finestre. Si trattava di una grande sala raggi. Vide che il medico si avviava a passo veloce verso una cabina alla quale si accedeva da un'altra porta sul corridoio. Scorse la sua ombra muoversi all'interno attraverso una finestrella di vetro molto spesso grande quanto una cartolina. Entrò nella stanza e l'agente chiuse la porta alle sue spalle. Per un attimo restò a guardare il letto sistemato lontano dalla parete, dietro il lettino per i raggi. Sentì il suo respiro stridulo e vide l'alta figura sotto il lenzuolo che la copriva. «Vada dietro lo schermo, per favore.» La voce del medico le arrivò da dentro la cabina schermata. Joselyn andò a mettersi dietro lo schermo sistemato ai piedi del letto. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Avvicinandosi a lui, vide le sue braccia,
sanguinanti e piene di vesciche, posate sul lenzuolo. Sembravano coperte da una specie di gel. Joselyn si voltò verso il medico. «Non potete fargli niente per le braccia?» «Cerchiamo di farlo soffrire il meno possibile.» Ora che il suono della sua voce era più vicino, Gideon ruotò lentamente la testa e le guardò il viso, incorniciato dal vetro della finestrella che si apriva nello schermo. «Ciao.» Joselyn cercò di sorridere, «Ciao.» Gideon aveva il volto coperto di lesioni, le labbra sanguinanti e piagate. Joselyn avrebbe voluto prendergli la mano, portarlo via da quella caverna, portarlo fuori, alla luce del sole, dove la vita continuava. Si sporse in avanti e la sua mano urtò contro lo schermo. Non riusciva a fare altro che guardarlo. «Come ti senti?» «Oh.» Era senza fiato. Cercò di sorridere, ma venne colto da un accesso di tosse. Respirava con molta fatica. Joselyn vide il suo petto sollevarsi sotto il lenzuolo mentre lui lottava per prendere fiato. All'angolo della bocca comparve una traccia di sangue schiumoso. I capelli color oro erano diventati come stoppa e sulla fronte erano comparse varie lesioni. Joselyn si sforzò di non mettersi a piangere. Non voleva che lui la vedesse così. Alzò una mano e si asciugò velocemente gli occhi col dorso. «Dovevo vederti», gli disse. Lui sorrise. «Hai fatto la cosa giusta», mormorò. «Se non mi avessi detto del cellulare, non lo avrei mai cercato, e saremmo morti tutti.» «Oh, Dio.» Joselyn alzò gli occhi al soffitto, mentre le lacrime le scendevano lungo le guance. «Non è colpa tua. Non potevamo fare altrimenti.» «Avremmo potuto fuggire», protestò Joselyn. «Avremmo potuto andarcene da questo posto.» «No», replicò lui. «No, non potevamo.» Le sorrise e i suoi dolci occhi azzurri, l'unica parte di lui che ancora sembrava intatta, le sciolsero l'anima. «Ti amo», disse lei. Joselyn non sapeva da dove venissero quelle parole, ma non aveva potuto fermarle. Lui poté solo sorridere. «Oh, Dio. Non ce la faccio», mormorò lei. Si voltò in modo che lui non
potesse vederla in viso. Avrebbe tanto voluto prendergli la mano, tenerlo tra le braccia e confortarlo. Si trovava a mezzo metro da lui, ma era come se fosse solo al mondo. «No.» Era affannato. «No. Ti prego. Non fare così.» Il suo respiro era sempre più veloce, e lui lottava disperatamente per respirare. Sapeva che gli restava poco tempo. «Non devi sentirti così. Abbiamo fatto la cosa giusta.» Joselyn tornò a voltarsi verso Gideon. Il suo volto piagato era l'immagine della serena accettazione. Si rese conto di colpo che non erano state le sue azioni o le sue parole di quella sera a portarlo lì, ma ciò in cui lui credeva. «Sì. Abbiamo fatto la cosa giusta.» «Sai», disse lui, «non abbiamo mai esercitato i nostri diritti costituzionali.» Lei sorrise, poi scoppiò a ridere, con le lacrime che le rigavano il volto. Furono le sue ultime parole: il monitor sopra il suo letto cominciò a urlare e il grafico sullo schermo si trasformò in una linea retta. Medici e infermieri protetti da indumenti rivestiti di piombo si precipitarono nella stanza, portandosi dietro un carrello per la rianimazione. Ma il medico nella cabina li fermò prima che potessero collegarlo. Scosse la testa e loro se ne andarono a uno a uno, lasciando sola Joselyn dietro lo schermo a fissare il sorriso di Gideon e i suoi occhi azzurri senza vita. 35 Base di Andrews, Maryland Sy Hirshberg diede disposizione che il corpo di Gideon fosse riportato a casa, ad Amsterdam, a bordo di un jet dell'Air Force, con tutti gli onori. Quando arrivò il carro funebre, Joselyn era presente. Il governo degli Stati Uniti si era fatto carico dello speciale rivestimento di piombo e aveva preso accordi col governo olandese per la sepoltura. Ma il feretro era una semplicissima bara di legno, come richiesto dai genitori di Gideon. Joselyn non li aveva conosciuti, ma aveva intenzione di farlo. Si erano parlati per telefono il giorno successivo alla morte di Gideon e si erano accordati per incontrarsi l'estate seguente. Lei aveva molte cose da raccontare sugli ultimi giorni di vita di lui; loro avevano le storie di una vita intera. Hirshberg aveva dato ordine che Joselyn venisse riportata a Seattle a
bordo di un altro aereo. S'incontrarono sulla pista e guardarono la bara che veniva scaricata dal carro funebre con precisione militare. Le bandiere, olandese e americana, vennero piegate. Quella americana venne offerta a Joselyn, che sulle prime la accettò, ma poi la porse a Hirshberg con la preghiera che venisse consegnata alla madre di Gideon. Le ultime lacrime le scesero sulle guance quando la bara venne lentamente sollevata e scomparve nel compartimento di carico del grosso jet. Hirshberg fece un sospiro profondo e gli si chiuse la gola. Quando si rivolse a Joselyn, aveva la voce rotta. «Mi spiace che sia dovuto accadere questo.» Lei lo guardò, impassibile. «Non doveva succedere.» «Lo so. Lei è furente, amareggiata. E ha tutte le ragioni per esserlo.» «No. Lui le aveva.» Indicò il jet. «Lo vada a dire a lui che le dispiace.» Hirshberg non sapeva che cosa rispondere. «Sa, sul giornale ho letto che c'è stato un 'incidente' all'Air and Space Museum.» Lo fissò per qualche istante, lasciando che assorbisse il senso di quelle parole. «Sui notiziari non si è parlato di una bomba nucleare. Neppure una parola su Belden o su Taggart. È morto d'infarto», proseguì. «Sappiamo che si è trattato di cianuro», disse Hirshberg. «Bene. È già qualcosa. Avete trovato Belden?» «No.» Prima di rendersi conto di quanto era accaduto, Belden aveva chiamato altre due volte il telefono cellulare al museo, ripetendo ogni volta lo stesso messaggio. La NSC era riuscita a rintracciare l'ultima telefonata: proveniva da un telefono pubblico di Augusta, in Georgia. Ma, quando le autorità erano arrivate sul posto, di Belden non c'era più traccia. «Lei non capisce», disse Hirshberg. «Qui sono in gioco importanti questioni politiche. Questioni d'immensa importanza strategica.» «Lo spero bene», ribatté Joselyn. «Quell'uomo ha cercato di uccidere migliaia di persone. Ha cercato di distruggere l'intero governo. Ha ucciso persone innocenti su quell'isola, e...» Guardò l'aereo dell'Air Force col portellone ancora aperto. «Non riesco a capire come possiate lasciarlo andare», concluse. «Non lo stiamo lasciando andare», puntualizzò Hirshberg. «È come se fosse già morto.» «Davvero?» Joselyn lo guardò, incredula. «E di che cosa dovrebbe morire? Di vecchiaia?»
Una ventata gelida spazzò la pista quando i motori del jet urlarono in lontananza. «Perché non ho visto il suo nome sui giornali? La sua foto? Ne avete una. Oppure il presidente l'ha persa?» Hirshberg sospirò e guardò in un'altra direzione. Lei stava ancora aspettando una risposta. «Tempo fa è esistito un uomo che si chiamava Dean Belden, o Thorn, o una decina di altri nomi. Ma è morto in un incidente aereo nelle vicinanze di Seattle.» Mentre pronunciava quelle parole non riusciva a guardarla. Era sbalorditivo. Joselyn osservò il suo profilo mentre lui fissava un punto lontano, e poi pronunciò le uniche parole che le vennero in mente. «Non ci posso credere. Siete davvero incredibili.» «Joselyn, lei deve capire ciò che sta succedendo. Gli uomini su quell'isola possono anche aver pagato Belden per i suoi servigi, ma non sono stati loro a ingaggiarlo.» Lei lo guardò. «Non è possibile che abbiano messo insieme il denaro necessario per un ordigno nucleare funzionante», spiegò Hirshberg. «Potevano forse procurarsi il materiale fissile, una bomba chimica, ma non un ordigno nucleare. Non con gli esperti necessari ad accertarsi che funzioni a dovere. Gideon lo sapeva.» «E allora chi è stato?» «Questa è la domanda cui nessuno ha voglia di rispondere.» «Non capisco.» «Il governo degli Stati Uniti ha adottato da qualche tempo una politica di massima ritorsione. Qualsiasi nazione straniera che impieghi o tenti d'impiegare un'arma di distruzione di massa sul territorio statunitense deve aspettarsi una ritorsione dello stesso tipo. Ancora non capisce? Non siamo affatto ansiosi di trovare il signor Belden, almeno non attraverso i canali tradizionali. Se lo facessimo, correremmo il rischio di scoprire il legame tra Belden e chiunque abbia sponsorizzato le sue attività. Se il governo dovesse mai dichiarare pubblicamente di sapere chi c'era dietro quell'ordigno, chi l'ha pagato e chi ha ingaggiato l'uomo che lei conosce come Dean Belden, l'onore e la credibilità nazionale richiederebbero una rappresaglia adeguata.» «E se la bomba fosse esplosa?» chiese Joselyn. «Continuereste a infilare la testa sotto la sabbia?» «Se la bomba fosse esplosa, il problema adesso sarebbe di qualcun al-
tro.» «Dunque il nostro Paese abbraccia una politica che ha paura di portare avanti», osservò Joselyn. «Le conseguenze per la nazione colpevole e per il mondo sarebbero troppo terribili», ribatté Hirshberg. «In casi come questi, non sapere è la cosa migliore.» «E nel frattempo, il signor Belden se ne va in giro indisturbato», concluse lei. «Non vorrei essere nei suoi panni», ribatté Hirshberg. «Chiunque l'abbia ingaggiato, Belden s'è preso i soldi e ha fallito nella missione. E, quel che è peggio, adesso il signor Belden è un problema aperto, troppo pericoloso per rientrare in una strategia politica di rischio calcolato nello scenario nucleare internazionale. Se cadesse in mani sbagliate, e la sua storia fosse resa pubblica in maniera inconfutabile...» Inarcò le sopracciglia lasciando intuire l'ovvia conclusione. «I suoi committenti non saranno tanto felici che lui se ne vada in giro indisturbato. No, se fossi i Lloyd's di Londra, non sarei disposto a emettere una polizza sulla vita del signor Belden.» EPILOGO Chiapas, Messico Era un piccolo caffè con tre tavolini in pieno sole vicino alla strada. In lontananza si sentivano accordi di musica dei mariachi, segno che nella chiesa cattolica poco distante si era appena concluso un matrimonio. L'uomo aveva la barba lunga e i capelli in disordine, una vecchia coperta messicana tagliata al centro e indossata a mo' di poncho. Negli ultimi mesi aveva subito tre attentati, uccidendo tutti gli aggressori: il primo con un coltello, il secondo con le mani nude. Il terzo aveva piazzato una bomba che però era esplosa soltanto quando lui stesso se l'era ritrovata sotto il sedile dell'auto. Portava una pistola infilata nella cintura sotto il serape e il suo sguardo non fissava mai lo stesso punto troppo a lungo. Aveva amici, ma di notte non dormivano più vicino a lui né viaggiavano sul suo stesso veicolo. Gli americani non gli davano tregua. Avevano occhi e orecchi ovunque. Potevano anche non aver mantenuto relazioni diplomatiche con alcuni Paesi mediorientali, ma una soffiata in cui si spiegavano in dettaglio i suoi
movimenti l'avrebbero fatta volentieri. Entro breve avrebbe dovuto lasciare il Messico, e lo sapeva. I suoi fondi si stavano esaurendo e i guerriglieri locali non lo avrebbero nascosto ancora per molto. I conti cifrati in Europa erano stati congelati. In questo c'era chiaramente l'abile zampino del dipartimento di Stato americano. In quel momento avrebbe dovuto trovarsi su una spiaggia privata di Bali, a bere latte di cocco e rum, intascando interessi del trenta per cento sul denaro investito. E invece gli stavano dando la caccia e il suo sogno di ritirarsi, se proprio non era stato distrutto, doveva certamente essere rimandato. Aprì il giornale americano. Era una copia del Santa Crista Herald, ingiallita dal tempo. Risaliva a tre mesi prima e aveva assorbito l'olio di almeno cento tortillas. Alcune delle pagine mancavano, altre erano strappate, ma lui lo portava con sé come una reliquia. Lo sbatté sul tavolino mentre mangiava e guardò la foto sotto la piegatura a pagina tre. Non era un grande articolo, solo una trentina di righe su due colonne, accompagnate da una foto. Ritraeva un gruppo di persone davanti a una targa di bronzo applicata sulla parete di un piccolo edificio coloniale. Era un monumento intitolato da un'organizzazione nota come Istituto contro la distruzione di massa a un olandese che si chiamava Gideon van Ry. A lui non interessavano né il monumento né l'articolo, peraltro scarno di dettagli, ma la donna in piedi sulla sedia, colta nel gesto di sollevare il telo che copriva la targa di bronzo. L'immagine del suo volto era sgranata e più piccola dell'unghia del suo dito mignolo. I capelli biondi le danzavano sulle spalle, mossi dal vento, mentre lanciava un'occhiata verso il fotografo, come se l'avesse colta di sorpresa. Non era una gran fotografia, ma Thorn non aveva dubbio che si trattasse di Joselyn Cole. Era riuscita a fuggire dalla casa su Padget Island, anche se lui non capiva proprio come. In ben due occasioni l'aveva data per morta e tutt'e due le volte lei era tornata a ossessionarlo. Fissò la fotografia ingiallita come se volesse incenerirla con lo sguardo. Quella donna gli era costata venti milioni di dollari e una vita di agi. Per colpa sua avrebbe dovuto continuare a lavorare e a guardarsi le spalle. Continuò a masticare con determinazione, sempre fissando la foto, e
cercò d'immaginarsi l'espressione di Joselyn Cole se mai loro due si fossero nuovamente incontrati. RINGRAZIAMENTI Moltissime persone mi hanno incoraggiato durante la stesura di questo manoscritto, compresa la mia famiglia e parecchi amici. Tra questi la mia casa editrice, la G.P. Putnam's Sons, che ha mostrato grande tolleranza e pazienza nell'attendere che il manoscritto fosse pronto; il mio editor, Stacy Creamer, e il mio agente, Robert Gottlieb. Li ringrazio tutti per l'incoraggiamento e il sostegno. In particolare ringrazio mia moglie, Leah, sempre pronta ad ascoltarmi e a leggere attentamente le prime versioni del manoscritto. Ma sarei un ingrato se non rivolgessi un grazie al personale del Monterey Institute of International Studies e del Center for Nonproliferation Studies di Monterey, California. In particolare, desidero ringraziare il dottor Adam Bernstein, che ora si è trasferito ai Sandia National Laboratories. Né il dottor Bernstein né il centro sono responsabili del materiale che compare in questo libro, poiché non hanno preso parte alla sua stesura. L'autore è l'unico responsabile di qualsiasi errore a questo riguardo. Il dottor Bernstein mi è stato di grandissimo aiuto nel guidarmi attraverso alcuni dei tranelli tecnici relativi al rilevamento delle radiazioni e ai loro effetti sul corpo umano. Sono grato anche ad alcune persone del centro per i loro consigli sulla spinosa questione della sicurezza nucleare globale e in particolare per le loro osservazioni sulla dedizione degli scienziati e dei leader della Federazione Russa che, nonostante le difficoltà, sono riusciti a fare in modo che la vicenda di Punto di fusione resti confinata nel regno della fiction. STEVE MARTINI aprile 1998 FINE