VARGO STATTEN NOTTE SUL MONDO (The G-Bomb, 1952) presentazione all'edizione italiana Molti appassionati di fantascienza ...
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VARGO STATTEN NOTTE SUL MONDO (The G-Bomb, 1952) presentazione all'edizione italiana Molti appassionati di fantascienza indicano negli anni '40 la cosiddetta Epoca d'Oro delle riviste di science fiction. In questo decennio, infatti, si poté assistere a uno straordinario florilegio di nuovi concetti, nuovi schemi narrativi, e un approfondimento del 'senso del meraviglioso' evocato agli albori della fantascienza. All'avanguardia degli scrittori di fantascienza, negli anni '30 e '40, si trovava John Russell Fearn, uno scrittore inglese che scrisse non solo con il proprio nome, ma anche sotto una miriade di pseudonimi. Negli anni '50, poi, Fearn scrisse più di settanta romanzi per il mercato inglese di fantascienza. Molti di questi romanzi vennero tradotti in tutta l'Europa, e alcuni vennero pubblicati anche in Italia nella collana I romanzi di Urania, ricordata con enorme affetto dagli appassionati italiani. Fearn riuscì a ispirarsi alle sue cose migliori uscite a suo tempo nelle riviste, nella cosiddetta Epoca d'Oro, affinando il suo talento e offrendo così a una nuova generazione di lettori l'intero spettro della grande tradizione della fantascienza avventurosa. Nell'aprile 1941, su Marvel Stories, Fearn aveva pubblicato, sotto lo pseudonimo di 'Polton Cross', il romanzo breve The Last Secret Weapon (L'ultima arma segreta) che parlava di una bomba atomica autoaffondantesi. Una diabolica scoperta scientifica permetteva di distorcere il campo degli atomi della bomba, in modo che essa poteva affondare attraverso gli spazi intramolecolari della Terra, ed era possibile farla esplodere alla profondità desiderata, con risultati apocalittici. Scrivendo come 'Vargo Statten' - il più famoso dei suoi pseudonimi - Fearn riprese il racconto, ampliandolo e migliorandolo, e chiamandolo The G Bomb (La bomba 'G'): all'idea originaria Fearn diede un più ampio respiro, una prospettiva più vasta, nuovi personaggi e un'azione continua, cosmica, nella migliore tradizione statteniana. Nella mia qualità di studioso dell'opera di Fearn, alla quale ho dedicato buona parte della mia vita, come critico e biografo - e incondizionato ammiratore fin da ragazzo - mi sento onorato di avere il compito di presentare
Vargo Statten a una nuova generazione di lettori italiani. La Libra Editrice pubblicherà le migliori opere di Vargo Statten in nuove ed eleganti edizioni, che diventeranno certamente, come è accaduto per ogni opera di Statten uscita nel mondo, 'pezzi rari' contesi dai collezionisti... a cominciare da questo Notte sul mondo! PHILIP HARBOTTLE Capitolo 1 Gli anziani di Marte erano in conferenza. Erano in tutto una ventina, esseri dalle grosse teste e dai toraci ampi, abituati all'atmosfera rarefatta ed alla gravità leggera. Rappresentavano il fior fiore della loro razza, i governatori dei diecimila marziani che ancora rimanevano, i superstiti di un popolo che aveva risolto quasi tutti i misteri della scienza. «Amici,» disse quietamente il Sovrano, scrutando i suoi compagni, «è venuto il momento dell'esperimento supremo. Ne abbiamo tentati altri, alla luce delle conoscenze scientifiche predominanti a quei tempi, ed i risultati sono stati tutt'altro che soddisfacenti. Questa volta dobbiamo riuscire, o perire.» «D'accordo,» mormorarono i dignitari. «Per due volte,» proseguì il Sovrano, «abbiamo cercato di fare in modo che i popoli della Terra si annientassero reciprocamente: prima nell'anno che essi chiamano millenovecentoquattordici, e poi di nuovo nel millenovecentotrentanove. In entrambi i tentativi, le nostre speranze non si sono realizzate. La specie terrestre non si è autodistrutta. Proprio quando sembrava che le nostre aspirazioni stessero per realizzarsi, quando avevamo instillato nei cervelli di alcuni dei loro scienziati il segreto terrificante dell'energia atomica, grazie alla quale avevano prodotto - per propria iniziativa, essi credevano - la bomba atomica, hanno cessato di combattere! E nel momento supremo in cui pareva logico che si annientassero l'un l'altro, sono diventati pacifici, e per il momento la nostra causa è perduta.» «D'accordo,» mormorarono i dignitari. Il Sovrano contrasse la mano tentacolata sull'ampio tavolo. «La nostra necessità, amici miei, diventa sempre più disperata con il passare degli anni. Questo nostro pianeta non serve più a nulla. La superficie è divenuta troppo arida, l'atmosfera troppo rarefatta perché noi possiamo allontanarci di molto dalle città sotterranee... e tali città richiedono un consumo enorme d'energia per continuare ad esistere, assai superiore a quel che possiamo
permetterci. La nostra razza viene ostacolata nella sua espansione perché abbiamo volutamente posto un limite al numero degli accoppiamenti e alla progenie che possiamo consentire. Questa riduzione non potrà venire arrestata, a meno che possiamo avere di nuovo un mondo su cui possiamo vivere in libertà, un mondo dalla superficie fertile, dall'atmosfera respirabile. Un mondo soltanto possiede questi requisiti, ed è quello chiamato Terra da coloro che lo popolano.» Questa volta i dignitari si limitarono ad annuire cerimoniosamente e si scambiarono occhiate. Non osavano rivelare che si annoiavano, sebbene fosse certamente così. Quel riepilogo dei fatti noti era tedioso. La loro preoccupazione principale era sapere cosa si proponeva di fare il Sovrano. Non c'era nulla da guadagnare, elencando le sconfitte passate. «Il nostro numero non ci consente di invadere la Terra e conquistarla,» riprese dopo un attimo il Sovrano. «La nostra scienza è superiore, certamente, ma se ci avventurassimo in una guerra senza riserve contro la Terra e tentassimo d'invaderla, apriremmo vuoti terribili nelle nostre file. I popoli della Terra non sono affatto primitivi, e possiedono armi che certamente potrebbero infliggerci gravi perdite. Nella nostra attuale situazione non possiamo correre tale rischio, perciò ci siamo sforzati di spingere i terrestri ad annientarsi l'un l'altro, lasciandoci un pianeta deserto o almeno così devastato che la nostra vittoria sarebbe stata relativamente facile. Per due volte, come ho detto, abbiamo usato le macchine mentali per instillare la concezione della guerra e della distruzione nei cervelli di certi esseri terrestri, e per due volte abbiamo fallito. Questa volta dobbiamo riuscire, e credo che lo potremo, poiché dopo l'ultima guerra mondiale della Terra, dal millenovecentotrentanove al millenovecentoquarantasei, abbiamo perfezionato un'arma che, prodotta sulla Terra, dovrebbe spingere indubbiamente certe fazioni a provocare il cataclisma sperato.» I dignitari, finalmente, cominciarono a mostrarsi interessati. A quanto pareva, si stava arrivando finalmente a ciò che volevano: un metodo nuovo per indurre l'ostinata razza terrestre ad autodistruggersi. «Mi riferisco alla nostra più nuova, più grande creazione,» spiegò il Sovrano. «La Bomba a Gravità. Potete immaginare la reazione di certe fazioni terrestri ad una simile arma? Sono convinto che tale ordigno, unito alla conoscenza dell'energia atomica che abbiamo dato loro, li spingerà a distruggersi, e la nostra missione sarà finalmente compiuta.» «Splendida concezione,» commentò uno dei dignitari. «Ma sarà necessaria una considerevole selezione, per scegliere gli individui adatti, sulla Ter-
ra. Nessuno deve mai sospettare dell'altro, o tutto sarà perduto prima ancora di incominciare. Finora i terrestri non immaginano che le loro guerre e le loro ondate di criminalità sono state causate da noi.» «E se anche si insospettissero, cosa potrebbero fare?» chiese il Sovrano, scrollando le spalle. «Sono scientifici, fino ad un certo punto, ma non hanno idea che questo nostro mondo sia popolato, e dominato da una razza di esperti scienziati che hanno appreso quanto c'è da sapere dei segreti delle radiazioni e delle forze mentali. Non possono veramente viaggiare nello spazio; non possono realizzare una barriera contro le emanazioni mentali da noi irradiate. Non possono certamente sapere, inoltre, che quanto credono di conoscere sullo spazio non è altro che un cumulo di errate concezioni indotte da noi. Insomma, non possono sapere che questo nostro mondo, da loro chiamato Marte, governa le passioni più basse delle loro vite.» «Infatti, se non fosse per noi,» continuò uno dei dignitari, «la specie terrestre sarebbe una comunità mite e pacifica.» «Lo riconosco, amico mio, ma è necessario fomentare al massimo la violenza, tra loro. Altrimenti non riusciremo mai a perpetuare la nostra razza per portarla al massimo splendore. Tuttavia, seguitemi ora, e vi mostrerò coloro che ho prescelto per il nostro sforzo finale.» Il Sovrano si alzò e senza fretta, dignitosamente, precedette fuori dalla sala gigantesca i suoi dignitari. Percorsero i corridoi levigati ed immacolati, dove l'aria era purificata automaticamente, alla profondità di dieci miglia sotto la superficie del pianeta rosso, e giunsero nel primo dei trenta colossali laboratori che ospitavano tutto il genio creativo dei marziani. Ogni laboratorio era dedicato ad una particolare branca scientifica, biologia, matematica, fisica intra-atomica, e così via, e gli esperti dei vari campi, uomini e donne, trascorrevano tutte le loro ore di veglia esplorando i pochi misteri scientifici che ancora rimanevano tali. Concentravano soprattutto i loro sforzi sui nuovi mezzi per realizzare l'annessione della Terra senza pericoli per loro. Avevano scoperto di non poter utilizzare l'ipnosi di massa. L'istinto dell'autoconservazione, estremamente sviluppato nei terrestri, aveva impedito loro di assorbire l'ordine ipnotico di uccidersi. Perciò i popoli della Terra continuavano a prosperare; ma non avevano difesa contro le suggestioni mentali che li spingevano a farsi guerra, e gli implacabili signori di Marte lo sapevano. Il Sovrano di Marte proseguì fino a quando giunse nell'osservatorio astronomico. Sebbene fosse situato dieci miglia sotto la superficie del pianeta, gli enormi strumenti radioscopici incorporati nei riflettori penetrava-
no attraverso gli strati di roccia come se fossero di vetro. E gli specchi dei telescopi non somigliavano affatto a quelli terrestri. Funzionavano magneticamente, assorbendo i fotoni della luce e poi amplificandoli, con il risultato che le immagini distanti innumerevoli milioni di miglia venivano riprodotte, quasi nelle dimensioni originali, sullo schermo ricevente davanti al quale ora stavano i dignitari marziani. «Per prima cosa,» disse il Sovrano premendo un pulsante, «vorrei mostrarvi l'uomo che, spero, farà la prima mossa nella nostra cosmica partita a scacchi. È stato studiato intimamente; il suo cervello è stato analizzato, e le sue speranze e le sue ambizioni sono state esaminate. Eccolo.» Sotto l'azione di innumerevoli comandi, l'apparecchio telescopico inquadrò un punto sul pianeta Terra, a una distanza di 40 milioni di miglia, e sullo schermo apparve l'immagine nitidissima di un uomo anziano, sulla sessantina, che esaminava una massa di schizzi e di appunti scientifici. Aveva un aspetto scialbo, con i capelli grigi disordinati, il viso magro, il corpo minuto. Il suo aspetto e l'ambiente in cui lavorava davano l'impressione che non fosse troppo ricco di beni terreni. «Il suo nome,» disse il Sovrano, «è Jonas Glebe. Per noi è un nome bizzarro; per lui, in quanto terrestre, è del tutto normale. Vive in un paese chiamato Inghilterra, in un villaggio, o meglio in una città chiamata Londra. Ha un'unica figlia, Margaret, che pur non possedendo le sue tendenze scientifiche, è la sua compagnia prediletta, quando non è impegnata in un'attività che l'occupa ogni giorno. Apparentemente, come facevano i membri della nostra civiltà nel remoto passato, i terrestri lavorano quotidianamente svolgendo qualche compito particolare, per cui di solito non sono adatti mentalmente né fisicamente, ed in cambio ricevono danaro che, dopo i tributi pagati allo Stato e ad altre organizzazioni, possono tenere per sé, al fine di restare in vita. Un modo di esistere bizzarro ed arcaico, amici miei.» «D'accordo,» mormorarono i dignitari, guardando il vecchio indaffarato con le sue carte. Poco dopo lo videro gettarle da parte, irritato, e immergersi nei suoi pensieri. «Su questo quadrante,» disse il Sovrano, indicandolo con un cenno del capo, «vedete registrato il suo quoziente d'energia mentale. Non è molto elevato, ma splendidamente equilibrato. Osservate...» I dignitari osservarono e videro un delicato ago elettromagnetico ondeggiare intorno al punto 35. Al massimo, l'indicatore segnava 100, la più alta classificazione mentale possibile nota alla scienza marziana, raggiunta dif-
ficilmente anche dalle intelligenze migliori. «Sì, piuttosto elevato,» ripeté il Sovrano. «E poiché è ottimamente equilibrato, potrà ricevere le suggestioni mentali che noi proietteremo. Di professione, costui è un piccolo scienziato, e guadagna un po' di danaro per mezzo di quelle che i terrestri chiamano 'piccole invenzioni'; ma certamente gli farebbero comodo somme assai più consistenti. Ora, supponiamo di impiantare nel suo cervello il segreto della bomba a gravità. Affermerà che è un'idea sua, e si sforzerà di venderla. Poiché non saprà da dove cominciare, dovremo suggerirgli mentalmente di trattare con questa persona. Osservate...» In seguito alla manipolazione dei comandi telescopici, l'immagine di Jonas Glebe scomparve e venne gradualmente sostituita da quella di un uomo seduto in un ufficio lussuoso. C'erano sei telefoni sull'enorme scrivania, e dietro di lui un'enorme finestra mostrava una panoramica degli squallidi tetti di Londra. L'uomo aveva le spalle squadrate, i capelli grigioferro tagliati corti, labbra sensuali, ed occhi piuttosto sporgenti. Indossava un abito immacolato, e costosi anelli scintillavano sulle dita grasse, mentre sfogliava un fascio di documenti. «State guardando Miles Rutter,» spiegò il Sovrano. «Non sono certo che sia il suo vero nome, comunque è il secondo protagonista del nostro esperimento. È un uomo potente, immensamente ricco ed influente, e sotto vari nomi controlla molte aziende, quasi tutte connesse con le esigenze terrestri fondamentali, come metalli, generi alimentari, linee di trasporto e così via. Ha ambizioni gigantesche. Questo Rutter vuole il mondo, come molti altri prima di lui, e dispone di tutti i mezzi concepibili per realizzare le sue aspirazioni... eccetto uno. Non possiede un'arma scientifica abbastanza potente per appiccare il fuoco alla catasta. Con la Bomba G, amici miei, possiamo fornirgli il fattore mancante.» «D'accordo.» «Ecco,» disse il Sovrano, spegnendo l'apparecchio, «abbiamo i due personaggi principali. Uno con la Bomba G, e l'altro con l'ambizione spietata necessaria per distruggere la razza umana nel tentativo di dominarla. Niente potrebbe essere più semplice e, spero, di più sicura riuscita.» «Chi abbiamo, dall'altra parte?» chiese uno dei dignitari, mentre il Sovrano taceva, pensoso, tra gli apparecchi. «L'altra parte?» «Sì. Ho sempre pensato che, per quanto un uomo possa inventare armi distruttive, c'è sempre qualcuno abbastanza intelligente per ideare una di-
fesa. Non posso credere che su un mondo fittamente popolato come la Terra non vi sia uno scienziato capace di trovare un deterrente per la Bomba a Gravità.» Il Sovrano sorrise. «Tu sopravvaluti l'intelligenza di questi terrestri, amico mio, e non è affatto logico. Benché, naturalmente, non abbiamo provveduto al compito complesso di valutare individualmente ogni cervello terrestre, abbiamo almeno scoperto che la stragrande maggioranza ha un punteggio intorno al venti: estremamente basso. Qua e là c'è un'eccezione, che non raggiunge il trenta. Solo in Jonas Glebe abbiamo rilevato un punteggio di trentacinque.» «Il che significa che è l'uomo più intelligente della Terra?» «Potenzialmente sì; ma neppure l'uomo più intelligente può dimostrare il proprio valore, a meno che offra qualcosa di superbamente geniale... appunto come la Bomba G. Non aver paura. Non esiste nessuno, sulla Terra, capace di trovare qualcosa che neutralizzi la Bomba G. È sufficiente che ne trasmettiamo i dettagli, e poi potremo stare a guardare le popolazioni della Terra spinte gradualmente ad annientarsi a vicenda.» I dignitari annuirono, ma non fecero altre domande. A quanto potevano capire, non ce n'erano. Il fatto che due uomini della Terra stessero per diventare pedine del loro gioco non li turbava affatto. Da molto tempo avevano superato il punto in cui avevano provato qualche sentimento nei confronti degli esseri viventi. Tutti, persino il loro stesso popolo, erano solo unità da muovere secondo i dettami della scienza. Il Sovrano si avvicinò ad un massiccio apparecchio con una tastiera non dissimile da quella di un organo. Un interruttore accese un pallido raggio smeraldino, proiettato verso il basso, che avvolse gradualmente la testa del Sovrano. Con un'espressione sempre più sognante negli occhi, sedette, mentre i servomeccanismi facevano funzionare la tastiera. Si concentrò... e i dignitari osservavano, senza dir nulla. Fu lo scatto della serratura a indurre Jonas Glebe ad alzare gli occhi. Sbatté le palpebre, stupito, notando che era scesa l'oscurità del pomeriggio invernale. Il piccolo soggiorno era freddo, pieno d'ombre grige. Contro l'unica finestra, dalle tende sbiadite, la pioggia batteva implacabile. «Ma papà, cosa ti è venuto in mente?» Margaret Glebe entrò nella stanza buia ed accese la luce. Suo padre sbatté le palpebre in quel chiarore improvviso e Margaret, chiusa nel lucente impermeabile bagnato, l'osservò preoccupata.
«È successo qualcosa, papà?» Gli si avvicinò in fretta. «Non... stai male o qualcosa del genere?» «No, cara, no. Ero solo perduto nei miei pensieri. Avevo dimenticato tutto.» Margaret sospirò di sollievo. «Oh, bene, se è tutto qui! Sai, proprio non sei capace di badare a te stesso. Il fuoco è quasi spento, e tu te ne stai qui al buio. Poi magari ti prenderai una bronchite. Lo sai che sono quasi le sei? Questa sera sono tornata a casa un po' prima. Mi ha sostituita Mary.» «Oh... Le sei? Davvero?» Jonas Glebe si mosse, irrigidito, e socchiuse le palpebre per guardare la sveglia sulla mensola del camino. «Non me ne ero accorto. Suppongo che capiti, quando uno sta pensando.» «No, papà, io suppongo di no.» Margaret si era tolto l'impermeabile ed aveva messo il bricco sul fornello a gas nell'angolo. Poi si voltò e disse, sottovoce: «Vorrei solo che a furia di pensare potessi ricavarne qualcosa di buono, ecco tutto. Fai così da anni, da quando ero bambina, e non ricordo che beneficio ti abbia portato, a parte qualche assegno per piccole invenzioni.» Suo padre taceva, studiandola distrattamente. Era bella, a modo suo... bruna com'era stata sua madre, con i lineamenti regolari e il mento deciso. Non aveva la distrazione del padre, e certamente non ne possedeva il genio scientifico innato. Era impiegata come cassiera in un cinema: la sua ambizione era trovare un giovanotto che potesse toglierle un peso dalle spalle. «Credo proprio di essere una seccatura,» sospirò il padre, alzandosi e prendendo la pipa dalla mensola. «Forse avrei dovuto sposarmi prima, così non avresti un padre tanto vecchio. Ti sono di peso, cara, non è vero?» «Papà, come puoi dire una cosa simile?» Margaret lo baciò gentilmente, poi lo scrutò con aria seria. «Non mi sei di peso! Hai frainteso quello che volevo dire. Io penso che tu non ottenga quello che meriti. Sei uno dei migliori scienziati del paese, anzi del mondo intero... e cosa succede? Dicono che sei troppo vecchio per entrare a far parte d'una organizzazione scientifica... troppo vecchio a sessantadue anni! E dimentichi di brevettare le tue idee migliori, e qualcun altro ci guadagna una fortuna, mentre a te viene in tasca una miseria. Non è giusto, papà! Non voglio aver l'aria di farti la predica, ma dovresti svegliarti!» «E cosa dovrei fare, mia cara?» «Be',... qualcosa.» Margaret si guardò intorno, incerta. «Magari trovarti un lavoro tranquillo, e continuare le tue ricerche scientifiche nel tempo libero.»
Jonas Glebe accese la pipa e scosse il capo. «Credimi, Marg, se accettassi un impiego non farei un favore al mio principale, né a me stesso. Penserei ad altro, continuamente, e il lavoro per cui mi pagherebbero verrebbe a risentirne. No, quando si è scienziati non si può fare nient'altro: almeno, quando si arriva alla mia età. Mi rendo conto che un impiego potrebbe migliorare la nostra situazione: ma è poi così importante? Siamo felici, non è vero?» «Sì, siamo felici, ma...» Margaret tacque, girando lo sguardo sul piccolo soggiorno in disordine. Poi diede un'occhiata alle porte che davano nelle due modeste stanze da letto. «Un uomo non ha bisogno d'altro che di un tetto sulla testa, un posto per risolvere i suoi problemi,» disse Jonas Glebe. «Una persona giovane come te, naturalmente, ha bisogno di molto di più, ma tu l'hai già. Stai fuori tutto il giorno, e anche la sera, se vuoi. Non stai molto in questo appartamentino. Se credi che questo mi preoccupi, non è vero. Un uomo può avere pensieri che gli impediscono di vedere ciò che lo circonda.» La ragazza andò a prendere il bricco, mentre il vapore usciva sotto il coperchio. Immersa nei suoi pensieri, preparò il tè e poi apparecchiò il tavolo. Il suo sguardo si posava continuamente sulla piccola scrivania dove suo padre lavorava sempre. C'era un fascio di appunti. Aveva visto appunti come quelli da sempre, a quanto ricordava, e pensò che non ne usciva mai nulla di buono. «Che cosa ti ha indotto a restare seduto al buio, con il fuoco quasi spento?» chiese, quando lei e suo padre cominciarono a prendere il tè. «Eh? Oh, avevo un barlume vago di un'idea, ma non so proprio se debbo andare avanti. È un'idea così semplice, e tuttavia così diabolica, che ho quasi paura di continuare a pensarci.» «Semplice e diabolica?» Margaret aggrottò la fronte. «Com'è possibile?» «È una bomba,» spiegò semplicemente suo padre, imburrando una fetta di torta. «Oh! Non credi che il mondo ne abbia avuto abbastanza di bombe e di massacri? Comunque, che altre novità ci potrebbero essere, in questo campo? Abbiamo già la bomba atomica e quella all'idrogeno. Non dirmi che ne hai pensata una ancora più orribile.» «No. La mia bomba non ha niente a che fare con un particolare esplosivo: questo potrebbe essere lasciato all'organizzazione che l'acquistasse. È solo una scatola vuota, all'inizio, e dentro puoi metterci tutto quello che vuoi, dal plutonio alla comune polvere da sparo. Eppure è... diabolica.»
Margaret rifletté, mentre suo padre taceva, perduto di nuovo nei suoi pensieri; poi si scosse, accorgendosi che la ragazza lo fissava. «È così tremendamente semplice,» disse. «Non so proprio come non mi sia venuto in mente prima... e se non a me a qualche inventore d'armamenti.» «Non sei troppo esplicito, papà!» Jonas Glebe sorrise. «Scusami, cara. È perché non ho ancora chiarito i dettagli. È inutile che io affermi di avere qualcosa di meraviglioso e cominci a spiegarlo prima di esserne sicuro, non ti pare?» «Allora tu intendi andare avanti con questa cosa, diabolica o no?» «Non so, penso che dovrei farlo.» Jonas Glebe guardò distrattamente nel vuoto. «Non chiedermi perché: è solo un impulso. Dopotutto, anche se la nozione è diabolica, questo non significa che la bomba verrà mai usata, vero? Potrebbe diventare un tale deterrente che nessuno penserebbe più a provocare una guerra. Sarebbe una cosa magnifica, se io, Jonas Glebe, diventassi l'uomo che ha posto fine alle guerre.» Margaret scosse lentamente il capo. «Sei un sognatore, papà, ecco tutto. Né tu né nessun altro potrete mai mettere fine alla guerra, finché esisteranno gli esseri umani. Ci sarà sempre qualcuno che aspira alla supremazia. Se fossi in te dimenticherei questa idea, e inventerei qualcosa di semplice... una teiera automatica che versa il tè da sola, per esempio.» Jonas Glebe si limitò a sorridere, senza fare commenti. Nei suoi occhi era ricomparsa un'espressione remota, e Margaret sapeva cosa significava. Rinunciò a discutere e finì il suo tè. Poi sparecchiò e andò in camera sua. Dopo mezz'ora ricomparve e trovò il padre seduto accanto al fuoco, intento a far calcoli. «Ti dispiace se esco, papà?» chiese. «Ho un appuntamento con Ted Jackson.» «Ma certo!» Suo padre non alzò neppure gli occhi. Agitò una mano in segno di assenso e continuò a seguire i suoi calcoli. Perciò Margaret uscì e, con il passare della serata, dimenticò gli interessi scientifici del padre ed i suoi oscuri problemi. Quando tornò a casa verso le undici, le parve che non avesse neppure cambiato posizione. «Ted non si è fatto vedere!» annunciò irritata, sfilandosi i guanti. «È l'ultimo appuntamento che otterrà da me!» «Ci sono, Margaret,» l'interruppe il padre. «Ho impiegato quasi tutta la sera per fare i calcoli, ma non ci sono dubbi: funzionerà. Credo che la chiamerò Bomba G, un po' per onorare l'iniziale del nostro cognome e un po'
perché l'energia motrice è la gravità.» «Uh-uh,» fece Margaret, mettendo di nuovo il bricco sul fornello, e poi si tolse il soprabito. Le era difficile pensare alle bombe, dopo che Ted Jackson non era venuto all'appuntamento. «È veramente unica,» aggiunse suo padre, alzando gli occhi dal fascio di schizzi e di appunti. «Vuoi sentire?» «Sì. Ma credi che lo capirei? Non ho il bernoccolo della scienza, lo dici sempre anche tu!» «Questo lo capirai, in un linguaggio non scientifico. Ti rendi conto, tanto per cominciare, che un solido ne blocca un altro? Cioè, ti rendi conto che non precipiti attraverso il pavimento perché il pavimento è un solido più forte di te?» «È abbastanza evidente.» Margaret sedette sulla poltrona malconcia accanto al fuoco e guardò distrattamente le fiamme. Vi vedeva l'immagine di Ted Jackson. Quando l'immagine si fu trasformata in fumo e braci, si ricordò del bricco che bolliva e delle parole di suo padre. «... quindi, ovviamente, con i poli elettronici alterati, la bomba passa attraverso i corpi solidi, ed è tutto.» «Sì.» Margaret lo guardò con espressione un po' vacua. «Sì, papà, capisco... credo. Scusami, il bricco...» «Non hai ascoltato una parola di quello che stavo dicendo,» disse il padre; poi sorrise. «Non importa: non lo pretendevo. Alla tua età, la scienza non conta nulla per una ragazza, e al primo posto viene l'amore, ma per il tuo bene cercherei qualcosa di meglio di Ted Jackson. In quanto a me,» proseguì pensieroso, mentre Margaret riempiva la teiera, «mi chiedo quanto danaro potremo rimediare.» «Danaro!» Per poco Margaret non lasciò cadere il bricco. «Per cosa?» «La Bomba G, naturalmente. Non servirebbe a nulla mostrare solo uno schizzo a chi potrebbe essere interessato. Vorrà vedere cosa può fare un modello, perciò dovrò prepararne uno. Mi costerà circa quattrocento sterline.» Margaret aveva finito di preparare la cena, prima che si decidesse a fare commenti; nel frattempo, il padre aveva aggiunto i tocchi finali ad uno dei tanti disegni bizzarri che aveva eseguito. «Tanto varrebbe che cercassimo di rimediare quattro milioni, papà,» disse seccamente. «Non è possibile.» «Ma è necessario!» Suo padre alzò gli occhi, sorpreso che il suo desiderio non si realizzasse immediatamente. «Devo completare il mio progetto.»
«Sì, papà... tu sei un tesoro. Ma debbo dirti che fino ad ora le tue invenzioni ci sono costate quasi mille sterline, con un introito netto di circa quattrocento! È un pessimo affare, comunque lo consideri. Quelle mille sterline ci farebbero comodo, adesso. Se le avessimo, non saremmo in questa topaia.» «Quindi vorresti avere una bella casa e bei vestiti?» chiese il padre con un sorriso. «Non posso fare a meno di pensare che con le tue capacità dovremmo averli, sicuro. Forse Ted Jackson mi ha piantata perché non abbiamo molto.» «Allora, se la pensa così è meglio lasciarlo perdere. Ora, per quelle quattrocento sterline. Dobbiamo riuscire a trovarle. Hai qualche idea?» «Nessuna.» Margaret accostò la sedia al tavolo. «La gente disposta a darti quattrocento sterline per una ricerca scientifica esiste solo nelle favole. Io certamente non ho amici che possano darteli.» «Allora dovrò rivolgermi a qualcuno che presta danaro,» decise Jonas Glebe, sedendosi a tavola. «Quando avrò mostrato il modello alla persona giusta, non solo recupererò le quattrocento sterline e gli interessi, ma ne guadagnerò migliaia e migliaia! Questa idea, mia cara, ci arricchirà!» Margaret non sembrava molto convinta. Aveva già sentito quella promessa a proposito di piccole invenzioni che non avevano mai reso più di qualche sterlina. «Papà,» disse in tono serio, prendendogli la mano, «perché non sei capace di scendere sulla terra, per un momento? Se hai una bomba meravigliosa, basta che sottoponga il progetto al Ministero della Guerra, in modo che gli esperti l'esaminino. Non te lo ruberanno. Se vale qualcosa, avrai tutto il danaro che ti occorre per le ricerche.» «No.» Il padre scosse il capo. «Non sono affatto convinto che il Ministero della Guerra se ne interesserebbe. La mia bomba ha altre utilizzazioni, oltre quelle belliche. Può essere preziosa nei lavori di demolizione, nelle attività minerarie e così via. Può essere persino adattata come sirena antinebbia! Comunque, ho già deciso con chi debbo mettermi in contatto.» «Allora?» «Miles Rutter. È uno dei nostri più grandi industriali, e controlla aziende e organizzazioni d'ogni genere. Se posso venderla a lui, avrò tutto il danaro che mi occorre.» Margaret sospirò. «Benissimo: ma vorrei che non parlassi con tanta disinvoltura di rivolgerti a uno strozzino. Il cielo sa dove andremmo a finire,
se lo facessi.» «La spunteremo,» disse il padre sorridendo, ossessionato, come sempre quando era al culmine d'una crisi inventiva, dal più completo ottimismo. «Sistemerò tutto domattina.» Evidentemente lo fece, perché quando Margaret arrivò a casa la sera dopo, trovò che il piccolo soggiorno si era trasformato in qualcosa di molto simile a un laboratorio. C'erano apparecchi dovunque, e il tavolo era coperto di pezzi di metallo, molle, fili, e una raccolta di utensili chiaramente nuovi di zecca. Suo padre era indaffarato alla scrivania che usava come un banco, non troppo soddisfacente. A giudicare dal luccichio dei suoi occhi stanchi, era immensamente felice. «Ciao, cara.» Alzò appena la testa. «Prepara il tè, ti spiace? Io non ne ho avuto il tempo.» Margaret obbedì, e nel frattempo fece una domanda: «Hai avuto il danaro, allora?» «Sì... da un prestatore. Ho dato come garanzia certe polizze assicurative, che tanto non avevano importanza. Il modello deve essere completato... e impiegherò circa un mese. Dovrei avere un'ottima occasione di venderlo, dato che la situazione internazionale attuale è così instabile...» Capitolo 2 In una mattina fredda e ventosa di metà marzo, Jonas Glebe percorreva un corridoio di finto marmo e di cromo lucente, reggendo in mano una piccola valigia. Poco dopo, in quel deserto sontuoso, adocchiò una ragazza in uniforme che passava in distanza, portando un messaggio su un vassoio. Chiamò, timidamente: «Ehi, signorina! Ha un momento?» La ragazza si avvicinò, sorridendo gentilmente. «In cosa posso esserle utile?» «Certo che può essermi utile! Non avevo mai pensato che il palazzo Rutter fosse così grande e mi confondesse tanto. Vorrei vedere il signor Rutter, se è possibile. È molto urgente.» «Ha un appuntamento?» «No, purtroppo, ma senza dubbio lei potrà aiutarmi. Sono Jonas Glebe, uno scienziato. È molto importante che io veda il signor Rutter, personalmente. Non c'è tempo per prendere un appuntamento.» La ragazza aveva l'aria sconcertata; poi, notando l'evidente stanchezza di
Jonas Glebe, parve decidersi. «Farò quello che posso, signore. Una questione scientifica, ha detto?» «Sì, sì. Riguarda una... una bomba. Ce l'ho qui dentro.» La ragazza fissò inorridita la valigetta e poi si scusò e si allontanò in fretta. Quando tornò, era senza il vassoio e aveva un'aria apprensiva. Tenendosi a distanza disse: «Se vuole accomodarsi da questa parte, dottor Glebe, il signor Rutter la riceverà.» Jonas Glebe si alzò dal divanetto su cui s'era lasciato cadere esausto. «Grazie, grazie. Le sono così obbligato... Oh, non deve aver paura,» aggiunse sorridendo, poiché la ragazza continuava a stargli lontana. «Quando ho parlato di una bomba, alludevo a un modello senza esplosivo. Non sono così sciocco da andare in giro per Londra con una bomba vera nella borsa.» «Sapesse, signore, con che tipi eccentrici abbiamo a che fare, qualche volta,» disse la ragazza, precedendolo in un ascensore. In pochi minuti, Jonas Glebe si trovò trascinato vertiginosamente all'ultimo piano del palazzo. La ragazza lo guidò per un corridoio, fino a una porta nera con la scritta PRIVATO, e lo lasciò lì, anche stavolta con una fretta disdicevole. Glebe sorrise tra sé e bussò alla porta. «Avanti, avanti!» tuonò una voce, e Glebe entrò, chiudendosi l'uscio alle spalle. Per qualche istante restò immobile, sbattendo le palpebre, nel vedere l'ufficio immenso. Si sentiva insignificante tra le poltrone di pelle, le scrivanie e gli armadi di noce. Dalla scrivania più grande la voce si levò di nuovo, tonante. «Ehilà, dottor Glebe! Venga dentro!» La voce era possente, quasi amichevole, e tuttavia aveva un suono artificiale. Glebe avanzò verso la grande scrivania e strinse la mano carnosa che gli veniva tesa. Per qualche secondo rimase a studiare l'uomo che quasi tutti conoscevano, e che faceva paura a molti. Miles Rutter, con i suoi capelli grigi e l'abito impeccabile, era il padrone del Rutter Investment Trust, che non si limitava a quell'enorme palazzo. «Si accomodi, dottor Glebe... ha l'aria stanca. Prenda un sigaro...» Rutter spinse avanti una scatola d'argento, con una mano balenante di gemme. «No, no, grazie, signor Rutter. Non fumo molto, e solo la pipa.» Glebe sedette pesantemente e continuò a scrutare l'uomo cui sperava di vendere la sua «merce». Quell'espansività non lo ingannava. Miles Rutter non era un filantropo. I freddi occhi grigi e la bocca che pareva una trappola per
topi ne erano una prova sufficiente. Insieme alla fronte intelligente, davano l'idea di un uomo dall'energia instancabile e dalle ambizioni enormi. Da parte sua, Miles Rutter aveva già deciso che il visitatore era uno sciocco, come gli altri scienziati pazzoidi che gli facevano perdere tempo; ma c'era sempre la possibilità che qualcuno di loro avesse qualcosa d'interessante, perciò non li respingeva mai. «L'impiegata che l'ha annunciata mi ha detto che lei accennava ad una bomba,» disse Rutter, esaminando l'estremità del sigaro. Glebe trasalì lievemente. «Ehm... sì. Mi perdoni, stavo fantasticando. Sì, una bomba di tipo nuovo. Finora non ho cercato di proporla a nessuno. Mi sono rivolto direttamente a lei.» «Davvero?» Rutter sogghignò, mettendo in mostra i forti denti naturali. «Perché? Le sembro Babbo Natale?» «No. È che ho provato un... una specie di impulso. È difficile spiegarlo.» «Capisco. Dunque, questa bomba? Non che io abbia legami con il Ministero della Guerra, ricordi!» «Lo so, ma lei ha fabbriche d'armamenti pesanti. Mi sono informato. Vede, ho paura che se offrissi la mia bomba al Ministero della Guerra direbbero che è troppo barbara, troppo orrenda e insidiosa.» «E lei crede che io non abbia simili scrupoli?» «Precisamente.» Rutter ridacchiò. «Forse ha ragione. Non sono un tipo sentimentale, dottor Glebe.» «È appunto per questo, nella convinzione che lei possa utilizzare la mia invenzione, che sono venuto qui. Ho un bisogno disperato di danaro. Mia figlia ed io abbiamo molto poco. Pensavo che forse...» «Forse... sì, sì. Vedrà che non è difficile mettersi d'accordo con me, caro signore. Però non posso far niente se lei prima non spiega, non dimostra. Dunque?» «Posso darle una dimostrazione anche subito, se lo desidera.» «Splendido! Venga da questa parte.» Rutter si alzò - era veramente piccolo, in piedi - e si avviò alla carica, come un torello, verso una porta, l'aprì e fece passare Glebe. Un tecnico in camice bianco, dagli acuti occhi azzurri e dai capelli castani, si fece avanti. «Dottor Glebe, le presento il mio consulente scientifico, il dottor Standish. Standish, mio caro, ecco una bomba. Dottor Glebe, io mi affido implicitamente al giudizio del mio consulente. Con i suoi giudizi, ha creato o distrutto più uomini di quanti io riesca a ricordarne.»
Standish strinse la mano a Glebe e sorrise freddamente, poi, evidentemente convinto di dover spiegare l'affermazione di Rutter, disse: «Ogni mese visiono qualche centinaio di cosiddette invenzioni scientifiche, pochissime delle quali hanno qualche utilità. Per fortuna, al momento l'atmosfera mondiale è piuttosto turbolenta, e una bomba di nuovo tipo potrebbe meritare una certa considerazione.» «È quello che spero,» rispose Glebe, pasticciando con i fermagli della valigetta. «Vede, la mia bomba scivola attraverso il terreno come una pietra affonda nell'acqua. Esploderà quando lei vuole e dove vuole. Abbastanza devastante, non le sembra?» Rutter e Standish si scambiarono un'occhiata, senza che Glebe se ne avvedesse neppure: era ancora occupato con i fermagli ostinati della valigetta. «Interessante,» rispose guardingo Rutter, traendo uno sbuffo di fumo dal sigaro. «A me sembra impossibile,» commentò Standish, e Rutter ridacchiò, quando Glebe alzò gli occhi. «Non gli badi, dottor Glebe! È inacidito dalle troppe delusioni. Su, cominci, e ci mostri cosa sa fare. Si accomodi.» Rutter sedette, accavallò le gambe grasse, e continuò ad aspirare boccate di fumo dal sigaro. Standish aspettava, con un sopracciglio dubbiosamente inarcato, mentre, con l'attenzione meticolosa di un uomo abituato a maneggiare oggetti pericolosi, Glebe estraeva dalla valigia una piccola sfera metallica. Si guardò intorno per qualche attimo, con la sfera in mano, e finalmente optò per un tavolo metallico sgombro, sorretto da un'unica colonna centrale fissata al pavimento. «La colonna è massiccia o cava?» chiese Glebe. «Massiccia,» disse Standish, incrociando le braccia. «Grazie. Ora stia bene attento, prego. Forse il tavolo si rovinerà, ma la dimostrazione ne vale la pena. Il resto non va bene.» Glebe tirò una minuscola sicura dalla sfera, e l'aprì; poi, togliendosi dal taschino del panciotto un batuffolo di ovatta, estrasse una minuscola compressa nera e l'inserì nella bomba. «Solo due grani di glebenite... un esplosivo di mia invenzione, signori,» spiegò con calma, mentre posava delicatamente la sfera richiusa sul piano del tavolo, assicurandosi che non rotolasse. Quasi subito la sfera si illuminò lievemente e cominciò a sprofondare. Il foro che aprì si richiuse con un lieve schiocco d'aria, e il piano del tavolo ridiventò liscio. Passarono circa tre minuti, poi si sentì uno scoppio
soffocato. La colonna del tavolo esplose con limitata violenza, rovesciandosi sul pavimento. Immediatamente Rutter balzò in piedi, spalancando gli occhi. Standish sbatté le palpebre. Glebe si limitò a sorridere e guardò il disastro che aveva combinato. «Che cosa ha fatto?» chiese finalmente Standish, incredulo. «Il modello della bomba è affondato attraverso il metallo solido ed è esploso al punto predeterminato, alla base della colonna,» spiegò Glebe. «Se avessi voluto, avrei potuto farla scendere fin nelle fondamenta del palazzo.» «Una... una bomba autoaffondante!» esclamò Rutter, facendosi avanti. «Esattamente. L'ho chiamata Bomba G. G come Glebe e come la gravità, che costituisce il fattore principale, naturalmente. La si può fare affondare fino a qualunque profondità voluta, regolando il meccanismo. È tutto perfettamente semplice; eppure, purtroppo, è abbastanza diabolico.» Rutter trasse un profondo respiro e diede un'altra occhiata al consulente scientifico. Standish annuì in silenzio, ma aveva l'aria sconcertata. Se non avesse saputo che la colonna del tavolo era d'acciaio massiccio, avrebbe liquidato la dimostrazione come un abile trucco da prestigiatore. «Come la spiega, dottor Glebe?» domandò. «È molto semplice,» rispose Glebe, scrollando le spalle. «Tanto che mi domando come mai gli scienziati non l'abbiano già scoperto da tempo. Gliene farò un cenno, con piacere, ma deve perdonarmi se non rivelerò i dettagli esatti dei meccanismi e così via fino a quando ci metteremo d'accordo... se ci metteremo d'accordo.» «Oh, su, andiamo, sono sicuro che non ci saranno difficoltà!» esclamò Rutter in tono magniloquente, passando paternamente il grosso braccio intorno alle spalle esili di Glebe. «Si riservi pure i dettagli; la giudicherei uno sciocco se non lo facesse. Ci dica solo, in termini semplici, qual è il segreto.» «Ecco, prima di tutto, ogni cosa deve scendere verso il centro della Terra, a causa della legge di gravità. Quest'idea particolare mi è venuta, un giorno, mentre immaginavo una pietra che affondava in un acquitrino. Non mi chieda che cosa ha dato l'avvio alla concatenazione di pensieri...» «Non glielo chiederemo,» lo rassicurò prontamente Rutter. «Continui, la prego.» «Supponiamo, mi sono detto, supponiamo che si possa inventare qualcosa capace di affondare attraverso i solidi. Supponiamo che esista un esplo-
sivo capace di scoppiare a qualunque profondità, senza bisogno di perforazioni. Mi sembrava che potesse essere immensamente utile per scavare fondamenta, aprire miniere, e così via...» «Sì, sì,» l'interruppe impaziente Standish. «Ma la spiegazione?» «Ah, sì. Ecco, ho ideato un piccolo meccanismo.» Glebe aprì gli emisferi di un modellino di bomba, estraendolo dalla valigetta, e indicò i complessi congegni interni. «Lei, dottor Standish, potrà seguire la mia idea. I solidi sono composti da atomi, e gli atomi sono sistemi solari in miniatura. In altre parole, se li rappresenta di sbieco, sono piatti, ma questo schiacciamento punta in tutte le direzioni. Non c'è organizzazione. Perciò nessun solido può cadere attraverso un altro; due solidi non possono occupare lo stesso spazio nello stesso tempo. Gli atomi hanno poli, ma sono rivolti in tutte le direzioni. Ho scoperto che, per mezzo del magnetismo, potevo orientarli tutti in una direzione. Come può vedere, in questa bomba vi sono dei magneti...» Standish rifletté per un momento, poi disse: «In questo caso, lei renderebbe piatti... paralleli... tutti gli atomi, in modo che vengano ad occupare all'incirca il quindici per cento dello spazio che occupavano nella forma disordinata?» «Appunto,» riconobbe Glebe, con il suo sorrisetto stanco. «Questa leggera resistenza fa sì che la mia bomba affondi lentamente, non immediatamente. La forza di gravità, che agisce in tutte le condizioni, attira la bomba verso il basso, e il magnetismo della bomba raddrizza le formazioni atomiche lungo il percorso. Quindi nulla può fermarla: sprofonda e basta. Insomma, un solido passa attraverso l'altro, e nel momento in cui la bomba è passata e il magnetismo non c'è più, gli atomi tornano in disordine, lasciando la solidità preesistente, senza la minima traccia. È per questo che non sono rimasti fori sul piano del tavolo attraversato dalla bomba: gli atomi dell'acciaio si sono ridisposti coprendo ogni traccia del suo passaggio.» «Sbalorditivo!» sussurrò Rutter, quasi parlando a se stesso. «Decisamente sbalorditivo!» Sembrava affascinato dall'idea; poi, con improvvisa decisione, prese Glebe per un braccio. «Venga nel mio ufficio, dottor Glebe. Dobbiamo accordarci sui dettagli. I dettagli finanziari,» disse, facendo le fusa, espansivo come una tigre sazia. Glebe annuì e riprese la valigetta. Metodicamente, vi ripose la bomba non usata, poi fece scattare i fermagli, incontrando una certa resistenza. «Me ne occorre una nuova,» spiegò timidamente. «Forse, se la mia in-
venzione le piace, potrei...» «Se mi piace!» esclamò Rutter. «Ma è colossale! Venga, venga...» Lo precedette nell'ufficio. «Si accomodi, prego. Ora...» Sedette alla scrivania, respirò pesantemente, poi premette un pulsante. «In un caso del genere, può chiedere quello che vuole, dottor Glebe... purché sia una cifra ragionevole, naturalmente.» «Io... io pensavo che forse... un milione per i diritti esclusivi sulla bomba.» Glebe era quasi spaventato dalla propria proposta, ma Rutter non esitò un istante. «Vada per un milione! E le farò avere l'assegno prima che esca di qui...» Rutter alzò la testa, mentre Valentine Turner, il giovane segretario particolare, entrava nell'ufficio. Sembrava più un campione di lotta libera che un segretario: biondo, con gli occhi castani e le spalle massicce. C'erano stati momenti in cui i suoi compiti di segretario erano stati integrati da quelli di guardia del corpo. «Turner, prepari un contratto e un assegno di un milione di sterline,» ordinò Rutter. «Solita fraseologia... tutti i diritti. Si sbrighi al più presto; firmerò tutti e due.» «Sì, signore.» Val Turner diede un'occhiata allo scienziato, poi rientrò nell'ufficio adiacente. «Immagino,» disse Rutter, quando la porta si fu richiusa, «che lei abbia brevettato la Bomba G. I diritti del brevetto diventano automaticamente miei in forza del contratto.» «Il brevetto!» Glebe sussultò. «Ma certo! Sapevo che dovevo fare qualcosa. Mia figlia me lo diceva sempre... Be', non ha molta importanza, ormai, non è vero?» «No, affatto,» rispose cordialmente Rutter. «Anzi, semplifica le cose... le semplifica di molto.» Glebe ricominciò a pasticciare con la valigetta, riuscì finalmente ad aprirla e disse: «Ho qui tutti i dettagli, i disegni, i campioni delle barre magnetiche... tutto. Potrà vedere lei stesso.» «Li prenda, Standish,» ordinò Rutter, mentre lo scienziato entrava dal laboratorio. «Lei capisce perché è una cosa tanto diabolica?» chiese ansiosamente Glebe. «Immagini una bomba del genere usata in guerra! Potrebbe venire sganciata dovunque, senza lasciar tracce fino al momento in cui scoppiasse. Naturalmente, non ho inventato la bomba per questo scopo, ma in caso di una crisi mondiale...»
Val Turner ritornò con i documenti e l'assegno. Dopo un attimo, Rutter li aveva firmati entrambi. Poi rimase a guardare, mentre la mano esile di Glebe stringeva la penna. «Non mi capita spesso di incontrare un vero scienziato, dottor Glebe,» disse finalmente, porgendogli l'assegno. «Venga pure a trovarmi quando vuole. Turner, accompagni il dottor Glebe.» Lo scienziato prese il cappello e la valigetta vuota. «Grazie, signor Rutter... ancora grazie di tutto. Lei non sa cosa significherà questo danaro per Margaret e per me. Abbiamo sempre vissuto in ristrettezze e...» «Certo, certo.» Con un sorriso, Rutter congedò lo scienziato e il segretario, e attese che la porta tornasse a chiudersi. Quando si voltò di nuovo, il sorriso era scomparso e la sua bocca era una linea dura. «Allora, Standish? È autentica, naturalmente?» «Certo! L'invenzione più semplice e tuttavia più geniale del suo genere. Valeva veramente quel milione di sterline.» «Lo creda o no,» disse Rutter, «quel vecchio sciocco ha dimenticato di brevettare l'invenzione!» «Quindi niente prova che l'abbia fatta lui?» «La situazione è questa.» Rutter guardò pensoso i progetti e il materiale lasciatogli da Glebe. «È una manna dal cielo!» esclamò, fregandosi le mani ingioiellate. «Ci pensi! Bombe che non lasciano traccia! Finalmente abbiamo il mezzo ideale per realizzare la nostra campagna! Possiamo fare a pezzi questo o qualunque altro paese! Abbiamo gli agenti, la rete organizzativa, le società, tutti pronti ad agire nel momento stesso in cui darò l'ordine. Fino ad ora siamo stati frenati dalla mancanza di qualcosa di veramente efficace, e adesso l'abbiamo in mano. Sì! Potremo disseminare in tutto il paese questi invisibili ordigni di morte. Migliaia e migliaia, fabbricati nelle mie aziende, e con la quantità enorme di danaro della Causa. Abbiamo sperato e atteso un giorno come questo, Standish, e finalmente è arrivato!» «Purtroppo non mi interessano le ideologie, signor Rutter,» rispose Standish, con una scrollata di spalle. «Sono uno scienziato e sono pronto a lavorare per la Causa; ma come uomo, deploro l'ingegnosità inumana di questa invenzione. Non capisco come possa averla concepita un uomo semplice come Glebe.» «Ha detto di aver visto, o immaginato, una pietra che affondava in un acquitrino. È strano, come certe cose di poco conto possano ispirare la mente.»
«Certo.» Rutter sorrise... ma Standish scrutava i suoi occhi. Erano di un grigio gelido, e non sorridevano. Standish aveva visto molte altre volte quel segnale di pericolo. Senza dire una parola, prese i progetti e il modello. «Sarà meglio che vada a vedere che cosa abbiamo ricevuto, per quel milione,» disse, e uscì dall'ufficio. Erano quasi le sette di sera, e quasi tutto il personale se n'era già andato, quando Standish uscì dal laboratorio, sorridendo soddisfatto. «Ha un momento, signor Rutter?» chiese, avanzando verso la scrivania. Rutter stava ancora lavorando su un mucchio di documenti. «Se è importante, sì. Se no, no.» «Ho esaminato la Bomba G.» «Be', e allora?» Rutter si appoggiò alla spalliera della sedia e accese un altro sigaro. «Solo questo. Possiamo fabbricare bombe di ogni grandezza ed usare ogni tipo d'esplosivo che vogliamo. La regolazione dei meccanismi stabilisce l'istante dell'esplosione e la durata della magnetizzazione. Ciò significa che possiamo mandare la bomba a una profondità di cinque piedi come di cinque miglia. Non ci sono limiti, fino al centro della Terra. Vi sono state molte armi mortali nella storia, ma nessuna che eguagli questa. Voglio conoscere le sue disposizioni. Adesso non dobbiamo fare altro che iniziare la produzione, quindi cosa debbo fare?» Rutter rifletté per qualche istante, poi disse: «Potremmo servirci di tutte le nostre fabbriche principali al nord, al sud, all'est e all'ovest. Può occuparsene la Consolidate Steels. Il Rutter Trust è la Consolidated Steels, quindi non abbiamo di che preoccuparci. Lei s'intende più di me di esplosivi e simili, quindi prepari tutto. Faccia passare le informazioni attraverso i soliti canali, in modo che la rete possa incominciare ad agire. Più tardi le darò altre istruzioni.» Lo scienziato annuì, poi lui e Rutter alzarono la testa, quando la porta si aprì per far entrare due individui massicci, con gli impermeabili ed i cappelli flosci. Quello più alto gettò sulla scrivania un rettangolino di carta. «Un milione di sterline, capo,» annunciò laconicamente. Rutter aggrottò la fronte, poi sogghignò. Prese l'assegno e lo fece lentamente a pezzi. «Vuol dire... Jonas Glebe?» chiese freddamente Standish. «Naturalmente.» Rutter guardò l'uomo che gli aveva riportato l'assegno. «Cos'è successo al nostro vecchio amico?»
«È stato investito da una macchina,» rispose l'uomo con un sospiro. «Naturalmente ci siamo precipitati ad aiutarlo... e dacché c'ero gli ho preso l'assegno. Siamo arrivati troppo tardi. Un pirata della strada l'ha investito ed è fuggito così in fretta che non abbiamo neppure potuto prendere il numero di targa.» «Per dirla più chiaramente, è stato assassinato!» scattò Standish. «Un pirata della strada, Standish,» mormorò in tono suadente Rutter. «Non ha sentito quel che ha detto Joe? Se trovano l'automobilista, abbasserò le saracinesche e impedirò che risalgano fino a noi. Se non lo troveranno... Ecco, purtroppo il dottor Glebe è stato uno sciocco a non brevettare l'invenzione. Nessuno potrà mai dimostrare che era sua.» «Tranne la figlia,» annunciò acido Joe. «Certo, la figlia! Mi ero dimenticato di lei. Che cosa ne sappiamo?» «Non lo so, capo. Non l'ho vista...» «Allora trovala, idiota!» urlò Rutter. «Voglio che si liquidi tutta la famiglia Glebe. Non deve restarne traccia! Troppo pericoloso. Fai come vuoi, ma sistemala. Penserò io a proteggerti.» I due uomini uscirono, e Standish li seguì con lo sguardo, a labbra strette. «Non sono molto sicuro di approvare queste eliminazioni indiscriminate, signor Rutter,» commentò. «No? Lei pensi alle cose scientifiche, dottore, e per il resto lasci fare a me.» «E se andiamo a sbattere contro le autorità? Non ci andremo di mezzo soltanto noi; sarà un disastro per la Causa...» «Oh, stia zitto!» sbuffò Rutter. «Non andremo a sbattere contro nessuno. È tutto organizzato alla perfezione. Quindi la smetta di belare e...» S'interruppe, sorpreso, quando un fascio di luce investì la parete di fronte. Val Turner uscì silenziosamente dal suo ufficio, con cappello e cappotto. Spense la luce della sua stanza e chiuse la porta. «Cosa diavolo vuole?» gridò Rutter. «Io, signore?» Turner lo guardò tranquillamente. «Niente. Volevo solo dirle che ho finito le relazioni. Sono sulla mia scrivania. È tutto, per questa sera?» Rutter restò a fissare per un attimo gli occhi fermi del giovane, poi annuì lentamente. «Sì, è tutto per questa sera.» «Buonanotte, signore. Buonanotte, dottor Standish.»
Turner uscì tranquillamente, e Rutter alzò fulmineamente gli occhi verso i ventilatori aperti, sopra la porta dell'ufficio del segretario. «Santo cielo, signor Rutter, non penserà che quello abbia sentito del...» «Può darsi. Credevo che fosse andato a casa. Se la porta fosse a vetri avremmo visto la luce accesa.» Rutter assunse un'espressione cupa. «Che si provi a cercare di dimostrare qualcosa, e gli darò una lezione che lo costringerà a star zitto per il resto della sua vita. E adesso, Standish, ho del lavoro da finire.» Nel frattempo, Val Turner stava attraversando i corridoi del Trust Building, immerso in bui pensieri. Aveva udito ogni parola di Rutter attraverso i ventilatori dell'ufficio, involontariamente. «Mi sembra che questo confermi tutto quello che ha detto Rita,» mormorò, mentre scendeva con l'ascensore del personale. Rita era sua moglie. «Diceva che Rutter era un delinquente, e io non volevo crederle. È un assassino al cento per cento, e io non me ne rendevo conto. Dovevo essere ammattito!» Uscì dall'ascensore, rivolse un cenno di saluto alla guardia notturna; poi uscì sulla strada illuminata. Il suo appartamento non era molto lontano. Perduto nei suoi pensieri continuò a camminare, fino a quando, a metà di una strada secondaria scarsamente illuminata, qualcosa gli premette contro la schiena. «Continui a camminare, e non si volti.» Turner si stupì, notando che era un voce di donna, sommessa e vendicativa. «Posso chiederle cosa vuole?» chiese, continuando a camminare. «Lasci parlare me. Sono Margaret Glebe, figlia di Jonas Glebe, l'inventore della Bomba G. Questo significa qualcosa, per lei?» Val Turner rimase in silenzio, aggrottando la fronte. La voce rabbiosa della ragazza proseguì: «Dovevo incontrarmi con mio padre tre ore fa, e l'ho visto travolto da un'automobile! Assassinato brutalmente! Ero dall'altra parte della strada, quando è accaduto. Eravamo d'accordo per trovarci al Grecian Cafe, dopo il suo colloquio con Rutter. L'incidente sembrava opera di una pirata della strada, ma non lo era. Era premeditato... organizzato da quella canaglia di Miles Rutter. Ho sentito dire molte cose di lui, ma non volevo crederlo; ora mi pento di non aver consigliato a mio padre di stargli alla larga.» «La capisco benissimo, signorina Glebe, ma debbo farle notare che io non c'entro affatto. Perché ha scelto proprio me?»
«Lei lavora per Rutter, e deve essere un suo stretto collaboratore, altrimenti non sarebbe uscito dal Trust Building a quest'ora. Non mi occorre altro. Altri due uomini sono usciti prima di lei, ma non me la sono sentita di affrontarli: erano troppo grandi e grossi. Perciò ho aspettato, sperando di sorprendere Rutter, invece è uscito lei, e sapevo che non sarebbe stato difficile...» «Cosa glielo fa pensare?» Val Turner si voltò di scatto, aspettandosi uno sparo rabbioso, ma il suo gesto fece schizzare via una piccola lampada tascabile. La ragazza abbassò gli occhi, poi li rialzò. Turner vide che era pallida e tremava di angoscia e di furia. «Era questa... la pistola?» chiese Turner, raccogliendo la lampada. «Sì,» mormorò la ragazza, quando lui gliela rese. «Non so più quello che faccio! Davvero! Sono fuori di me!» Infilò la torcia elettrica nella tasca dell'impermeabile e sospirò. «Be', è così. Mi denunci pure per aggressione e la faccia finita. È suo diritto.» «Penso che lei mi abbia giudicato male, signorina Glebe,» disse Val Turner, in tono serio. «So per puro caso che suo padre è stato assassinato, ma io non c'entro affatto. È stata opera di Rutter, esclusivamente sua. Lei dice di avere visto suo padre travolto da una macchina? Immagino abbia fatto sapere la sua identità alla polizia che è accorsa sul posto.» «No.» «Cosa? Ma perché...» «Non ho detto niente a nessuno. Mi è sembrato d'impazzire.» La ragazza parlava a singulti. «Mi è solo venuto in mente questo piano pazzesco di mettere le mani su qualcuno che appartenesse all'organizzazione di Rutter, per costringerlo a confessare la verità alla polizia. Se sapesse!» gridò, rauca. «La bomba che ha inventato mio padre è un'arma terribile. Lo diceva lui stesso, e se cadesse in mani sbagliate...» «Che sia caduta in mani sbagliate mi sembra indiscutibile,» l'interruppe Turner. «Suo padre l'ha venduta a Rutter per un milione di sterline. Ho preparato il contratto io stesso... ma Rutter si è ripreso l'assegno, dopo l'incidente. A quanto pare, suo padre non aveva brevettato l'invenzione, quindi nulla dimostra che la bomba era una sua creazione.» «Ma lo ha fatto! Giuro che lo ha fatto! Così, aveva dimenticato di brevettare l'invenzione! Avrei dovuto immaginarlo.» «Io so che la bomba l'aveva inventata lui, signorina Glebe, ed anche lei lo sa. Ma noi siamo le due sole persone in grado di provare che Rutter lo
ha fatto assassinare e derubare...» «Non ne sia troppo sicuro, Turner!» Turner e la ragazza si voltarono nello stesso istante. Due uomini con i cappelli flosci e gli impermeabili erano vagamente visibili nell'ombra di un portone. All'improvviso, lampeggiò una pistola. Margaret Glebe spalancò la bocca in un grido soffocato, poi, premendosi le mani sul seno sinistro, cadde bocconi e restò immobile sul marciapiede. «Adesso se la sbrogli lei, Turner,» disse una voce beffarda, e la pistola ancora fumante venne gettata verso di lui e gli cadde ai piedi. Prima che Turner riuscisse a scuotersi, porte e finestre cominciarono ad aprirsi tutto intorno. Apparvero uomini e donne, attirati dallo sparo. Videro lo sbigottito Turner, la pistola, la giovane donna per terra. Completamente frastornato, Turner captò qualche frase nel vocio. «Questa donna è morta.,. colpita al cuore.» «Venga, lei.» Turner si sentì afferrare. Intorno c'erano agenti di polizia dall'aria minacciosa... Miles Rutter stava per andarsene quando suonò il suo telefono privato. «Allora?» chiese concisamente: gli rispose la voce di Joe. «Abbiamo cercato la Glebe, come ci aveva detto lei, capo. L'abbiamo trovata non lontano dal Trust Building. Almeno, abbiamo immaginato che fosse lei, da come si comportava. L'abbiamo seguita, e caso mai non lo sapesse, Turner sa tutto dell'uccisione del vecchio Glebe. Lo ha detto alla figlia.» «E allora perché diavolo non avete...» «L'abbiamo fatto, capo. Abbiamo sparato alla ragazza e abbiamo lasciato a Turner il compito di spiegarlo. Adesso tocca a lei. Può affibbiargli un'imputazione di omicidio, se vuole. Io sono al Toni's Cafe, se ha bisogno di me.» Rutter sorrise. «Ricordami di darti un premio extra, Joe. Buonanotte.» Capitolo 3 Da quel momento, le macchinazioni di Miles Rutter si estesero. Val Turner, per ragioni che lui solo conosceva, rifiutò di difendersi. Il suo avvocato insistette fino a sgolarsi, servendosi di quei pochi indizi che era riuscito a trovare. Erano stati forniti quasi tutti dalla moglie di Val Turner... e la cosa più straordinaria fu che Rita Turner riuscì parzialmente vittoriosa nella sua lotta contro il Colosso. Riuscì a scovare almeno quanto bastava per fare apparire discutibili le accuse contro suo marito. Questi evitò la pe-
na capitale, e fu invece condannato all'ergastolo. Val Turner aveva la sensazione che il suo mondo fosse crollato. Ricordava il viso coraggioso, piangente di sua moglie, nell'aula del tribunale. Poi quel viso venne sostituito dalle facce inflessibili dei carcerieri. La prigione, grigia e inesorabile, riempiva il suo futuro. Rutter accolse la sentenza con una certa irritazione, e non si fece scrupolo di dirlo. «Turner è fuori dai piedi, dentro una prigione, d'accordo, e non può provare nulla,» disse rabbiosamente. «Ma non è morto! E finché vive c'è sempre la remota possibilità che possa evadere, e in tal caso...» «Non lascerà nulla d'intentato pur di darle il fatto suo, vero?» concluse seccamente Standish. «Vorrà vendicarsi!» lo corresse Rutter, lanciandogli un'occhiataccia. «E neppure sua moglie è una stupida. Ha trovato prove sufficienti per evitargli la condanna a morte, ed ho la spiacevole sensazione che non abbia ancora finito. Non mi piace.» Standish intuì quel che si andava preparando. «Se ha intenzione di eliminare anche lei, signor Rutter, non conti più sulla mia collaborazione! L'uccisione di Margaret Glebe è stata troppo rischiosa per i miei gusti. La prossima volta, potrebbe non essere altrettanto fortunato. E io al mio collo ci tengo, anche se non ci tiene lei.» Rutter cambiò argomento: «E le bombe, Standish? Quanto tempo ci vorrà ancora?» «Ormai sono pronto. Ho eseguito i suoi ordini e ne ho fatte fabbricare migliaia. Adesso vengono distribuite ai nostri agenti per i soliti canali clandestini.» «E le fabbriche di aerei? Là siamo pronti?» «Completamente. Quando lei darà il via, le fabbriche clandestine saranno pronte a sfornare la loro produzione. I nostri agenti, grazie alle Bombe G, possono sabotare tutti i punti difensivi, in Gran Bretagna. Possiamo avere l'intero paese ai nostri piedi quando vogliamo. L'armata aerea annienterà ogni opposizione con i bombardamenti terroristici.» «Uhm.» Rutter rifletté. «A che profondità ha intenzione di immettere le Bombe G sotto i centri industriali e militari?» «Circa un quarto di miglio. Dovrebbe essere sufficiente.» «Non credo! Non voglio normali esplosioni che devastino i centri vitali: voglio che i centri stessi precipitino a tali profondità da non poter venire recuperati mai più...»
«Non è possibile, signor Rutter.» Standish scosse il capo. «Dobbiamo ricordare le forze interne della Terra. Se facciamo scendere le bombe a profondità eccessive, potrebbero spaccare la crosta terrestre, e allora potrebbe accadere di tutto.» «Purché la Causa possa dominare il paese alla conclusione della campagna, non m'importa anche se dovrò scatenare l'inferno!» ribatté Rutter. «Faccia scendere quelle bombe alla profondità di cinque miglia. Quando esploderanno, voglio che si aprano squarci in cui precipiteranno uomini, unità militari ed edifici, è chiaro?» «È un rischio troppo grande!» protestò Standish. «Sono uno scienziato e la supplico di ascoltarmi...» «Non intendo discutere, Standish. Ho dato ordine ai nostri quartieri generali europei di affondare le loro bombe a cinque miglia, e qui faremo lo stesso.» Il volto di Standish divenne cinereo per la preoccupazione. Immaginò gli agenti della Causa sparsi a migliaia per tutta la Terra, intenti a far sprofondare furtivamente le bombe silenziose in ogni tipo d'installazione. Era uno scienziato, e Rutter non lo era. E quella era la sua tragedia. «Ha finito?» chiese freddamente Rutter. Standish fece un tentativo. «Mi scusi. Stavo solo pensando che se una di quelle bombe squarcia una faglia vulcanica, può facilmente far saltare in aria un intero continente! Noi combattiamo per la Causa e la dominazione del mondo, non per la distruzione totale di tutto ciò che contiene. Deve fermarsi alla profondità di un quarto di miglio, per sicurezza. Le esplosioni vanno bene, ma uno sprofondamento totale è tutta un'altra faccenda.» Rutter sorrideva, ma Standish gli guardava gli occhi. «So quello che dico, signor Rutter,» insistette lo scienziato, senza troppa veemenza. «Sì, certo,» fece suadente Rutter. «D'accordo, farò come dice lei... E adesso fuori!» urlò. «La Causa non sa che farsene di uomini che hanno paura dei rischi. Fuori!» Standish uscì, con il volto imperlato di sudore. Gli parve di vedere davanti a sé, nel corridoio, gli occhi di Rutter. Troppe volte Rutter sorrideva soltanto con le labbra... I giornali della sera portavano un articolo su una colonna: ANNEGATO UNO SCIENZIATO DEL RUTTER TRUST
Nessuno cercò di trovare una spiegazione, al di fuori del suicidio. Nessuno poteva farlo... tranne Rita Turner. Stanley Wade, del Servizio Indagini Speciali di Scotland Yard, rimase molto sorpreso quando Rita venne fatta entrare nel suo ufficio. Dopo un attimo comprese, dall'espressione degli occhi scuri e delle labbra tese, che qualcosa non andava. L'accolse abbastanza gentilmente e le offrì una sedia. La conosceva. Da quando Val Turner era stato mandato al penitenziario, Rita aveva continuamente cercato di indurre Wade a cercare le prove contro Miles Rutter... senza riuscirvi. «Ha saputo della morte del dottor Standish, lo scienziato del Rutter Trust?» chiese Rita, mentre Wade tornava a sedersi dietro la scrivania. «Sì, ho sentito. Si riferisce al suo suicidio?» «Non è stato un suicidio, ispettore. È stato un omicidio premeditato, a sangue freddo. Standish è stato assassinato, come il dottor Glebe e sua figlia Margaret. L'ho sempre sostenuto, e lo sostengo ancora, che mio marito è stato condannato innocente.» «Posso solo ripeterle quanto le ho già detto, signora Turner... sono stati il giudice e la giuria a decidere. Io non posso far nulla.» «Non le chiedo più di intervenire, perché sono convinta che Val sia più al sicuro in carcere che fuori. Consiglio soltanto che lei, e le autorità in generale, aprano un po' gli occhi. Tre morti, una dopo l'altra... tre! E tutte collegate al Rutter Trust. Durante il processo contro mio marito si è parlato di una relazione amorosa totalmente falsa, come della causa che lo avrebbe spinto a sparare contro Margaret Glebe. La corruzione e gli intrallazzi negli ambienti legali, fomentati da Rutter, e il silenzio di mio marito, hanno impedito che venisse fuori la verità. Margaret Glebe, ispettore, è stata assassinata dagli uomini di Rutter, come suo padre è stato assassinato da un pirata della strada al soldo di Rutter. Rutter ha eliminato Glebe per un'ottima ragione. Aveva paura di qualcosa che lui sapeva... E un altro motivo era che Rutter non voleva pagare un milione di sterline.» Wade si sporse un poco verso di lei. «In questa occasione lei ha detto molto di più di quanto avesse mai ammesso in precedenza, signora Turner. Posso chiedere come si è procurate queste informazioni sul conto di Rutter?» «Me l'ha detto Val. Sono andata a trovarlo in carcere. E lui mi ha riferito tutto questo.» «E perché diavolo non l'ha detto al processo?» «Oh, ma non capisce?» chiese disperata Rita. «Non osava! Se avesse ot-
tenuto la libertà facendo incriminare Rutter, sarebbe diventato il bersaglio dei killers dello stesso Rutter. E comunque, costui avrebbe potuto cavarsela, e da quel momento la vita di Val sarebbe stata in pericolo. Ha preferito fornire solo le prove sufficienti per evitarsi la condanna a morte, per poi lavorare in seguito in una relativa sicurezza, per mezzo mio, al fine di dimostrare la sua innocenza. «Vede, Val era il segretario particolare di Rutter... lei lo ricorderà. Era stato lui a preparare il contratto e l'assegno di un milione di sterline per Glebe. Il contratto riguardava una bomba di nuovo tipo: di questo finora nessuno ha mai parlato. Una bomba che può sprofondare attraverso il terreno o qualunque corpo solido. Nell'attuale situazione di tensione internazionale, non le sembra significativo?» «Sprofonda attraverso il terreno o qualunque corpo solido?» ripeté pensieroso Wade. «Non capisco.» Rita sorrise, turbata. «Purtroppo, ispettore, temo che anche lei, come le altre autorità, pensi che Miles Rutter si limiti alle attività finanziarie. Ma non è così, e Val lo sa bene. C'è tutta una rete di acciaierie e d'industrie controllate da Rutter, che coprono a loro volta attività molto più sinistre. Ciò che sta facendo Rutter è estremamente pericoloso. Rappresenta una minaccia per ognuno, nel nostro paese, e forse in tutto il mondo. Insisto: deve indagare su di lui e su tutte le sue attività. Lo faccia per la sicurezza comune, non in particolare per scagionare Val. Questo sarà una conseguenza logica, e per il momento lui è più sicuro dove si trova». Wade rifletté in silenzio per qualche istante, poi disse: «Mi sembra molto fantastico, signora Turner, e non posso fare a meno di pensare che, se ci fosse davvero qualcosa in atto, segretamente, il nostro Intelligence Service ne sarebbe al corrente. E anche il Ministero della Guerra.» «Anche se Rutter avesse agenti infiltrati nell'uno e nell'altro?» «Oh, suvvia, andiamo, signora Turner, non vorrà insinuare...» «Certamente!» scattò Rita. «Miles Rutter è un genio organizzativo, un uomo spietato, dalle ambizioni immani. Non è di nascita britannica, l'ho controllato. Tutto ciò che le ho detto è verità sacrosanta, ispettore. E del resto, non le farebbe alcun male accertarsene.» «Sta bene,» promise Wade. «Farò quello che posso. Ora che mi ha fornito queste nuove informazioni, ho almeno una base su cui lavorare.» «Nel frattempo,» concluse Rita, «chiedo la custodia protettiva. Ora che le ho detto tutto questo, non posso arrischiarmi di avventurarmi di nuovo nel mondo. So cosa mi trovo contro, e tra non molto lo scoprirà anche lei!»
Dieci giorni dopo, Miles Rutter cominciò ad avere sentore di quanto stava accadendo. Accadde quando Angorstine, il suo agente più abile, tramite degli ordini e delle istruzioni più segrete tra i collegamenti segreti ed il grand'uomo, venne a conoscenza della cosa che aveva temuto da molto tempo. Immediatamente si recò nell'ufficio di Rutter, nella City, abbandonando il posto che occupava in un'ambasciata europea. «Perché si è arrischiato a venire qui?» chiese indignato Rutter. «Sa bene che è pericoloso!» Angorstine, un uomo dalla testa squadrata e dalle labbra carnose, aveva pronta la risposta, e la diede con voce impassibile: «Sì, signore, è pericoloso, ma ho pensato che fosse meglio correre il rischio di venire personalmente, piuttosto che servirmi del telefono. Scotland Yard si sta muovendo per spazzare via tutta la nostra organizzazione.» «Questo lo so da anni. Che cosa le ha preso? Le stanno saltando i nervi?» «Questa volta fanno sul serio. Ci stanno lavorando tutti, e la faccenda puzza di dinamite.» Rutter spalancò gli occhi, sbalordito. «Ma non sanno nulla...» «Sì, lo sanno. Mi hanno riferito che Turner, il suo ex segretario, ha detto parecchie cose alla moglie, quando è andata a trovarlo in carcere. E quella ha parlato con Wade, a Scotland Yard, e a quanto pare lo ha convinto. Adesso la macchina si è messa in moto troppo rapidamente, perché possiamo stare tranquilli.» Rutter batté il pugno sulla scrivania. «Liquiderò quella Turner, fosse l'ultima cosa che farò. Lo sapevo che era pericoloso lasciare vivo Turner. Farò in modo che sua moglie...» «Non può. Ha chiesto e ottenuto la custodia protettiva.» Rutter storse la bocca a quell'annuncio. Angorstine riprese a parlare, con rinnovata urgenza. «Se non agiamo subito, non potremo più far nulla, Rutter. Se veniamo scoperti, la nostra campagna verrà stroncata prima che possiamo reagire, ma se colpiamo ora che la faremo. Il dottor Standish aveva lasciato tutto pronto. I nostri agenti sono dovunque, e attendono di fare sprofondare le bombe a cinque miglia, come ha ordinato lei. Tutti i punti-chiave sono coperti. Anche in tutte le altre parti del mondo è tutto pronto. La Causa può schiantare qualunque nazione. La guerra che scateneremo si concluderà in pochi mesi, forse in poche settimane, e noi la vinceremo.» «Questo significa forzarmi la mano,» disse Rutter, fissando il volto
squadrato e brutale del suo interlocutore. «Se le autorità agiscono più rapidamente di lei, siamo finiti. Agisca! Mi dia l'ordine, e tra tre giorni saremo già a buon punto. Mi indichi il momento in cui gli aerei dovranno muoversi, le bombe esplodere, le unità difensive venire immobilizzate. La Gran Bretagna scoprirà troppo tardi che noi la stiamo facendo a pezzi. La Bomba G annienterà l'intero paese.» Rutter strinse bruscamente le labbra. «Benissimo, Angorstine, si dia da fare. Faccia regolare le bombe in modo che esplodano sei ore dopo essere sprofondate sotto la superficie. Sincronizzi l'intero movimento delle nostre forze per mezzanotte, fra tre giorni. Io mi trasferirò al quartier generale sotterraneo. È tutto.» Angorstine uscì, con un sorriso soddisfatto. Nel frattempo, Stanley Wade cominciava a ricevere i rapporti dei suoi uomini sparsi in tutta la Gran Bretagna, e stava scoprendo cose che confermavano completamente le veementi affermazioni di Rita Turner. Sembrava incredibile. «Agenti della potenza europea, dappertutto!» mormorò, sfogliando i documenti sulla sua scrivania. «Il paese intero ne è infestato! Spie! Spie di una causa mistica che, come molte altre in passato, crede di poter dominare il mondo.» Alzò gli occhi verso le facce preoccupate degli uomini del suo dipartimento, tutti collegati con l'uno o l'altro ramo della sicurezza. «La colpa è nostra, signori,» aggiunse Wade. «È proprio come diceva la signora Turner: abbiamo dato troppe cose per scontate, nei confronti di Rutter. Gli abbiamo permesso di continuare la sua attività, senza sospettare quale fosse la sua vera influenza nei posti più diversi. Non ci eravamo resi conto che la Consolidated Steel Corporation, la Blue Oil Combine, l'International Federation, e chissà quante altre grosse aziende, erano collegate a lui e da lui controllate. I suoi tentacoli diabolici si estendono su mezzo mondo.» «E allora cosa dobbiamo fare?» chiese uno degli uomini. «Che cosa? Dobbiamo rastrellare tutti gli agenti ed i circoli da loro controllati. Nel frattempo, riferirò al governo. È un problema internazionale, e la polizia non basta, da sola; il pericolo è troppo grande. E debbo ottenere anche la libertà sulla parola per Turner. Sa parecchie cose e probabilmente potrà aiutarci. In quanto a voi, mettetevi al lavoro come ritenete più opportuno, e non fate rapporto a meno che non abbiate risultati.» Da quel momento i telefoni cominciarono a squillare. Gli esperti di Scot-
land Yard salirono su aerei diretti verso varie destinazioni. La macchina legale britannica si mise all'opera con rabbiosa decisione, in collaborazione con le autorità di altri paesi, soprattutto europei. Nonostante l'istituzione di una censura elastica imposta alla stampa, qualche notizia arrivò all'opinione pubblica, che rimase completamente sconcertata. Il Clarion si chiedeva: LA GUERRA È IMMINENTE? Ma non poteva dare una risposta definitiva alla sua domanda perché non aveva dati, e siccome anche la radio e la televisione avevano ricevuto l'ordine di serbare il segreto, neppure da queste fonti si potevano avere informazioni. Miles Rutter, che ormai era al corrente della situazione, lavorava incessantemente. Ora per ora, attraverso i fili della sua ragnatela, arrivavano i rapporti ricevuti da Angorstine. I centri vitali erano già saldamente tenuti in pugno. Le bombe, accuratamente regolate, erano pronte ad esplodere a mezzanotte, nelle posizioni prestabilite. Lungo tutte le coste, in tutti i servizi pubblici, nelle fabbriche di armamenti, nei depositi e negli uffici governativi. In tutto l'Arcipelago Britannico erano all'opera gli agenti segreti. Il terzo giorno le ore fatidiche per gli sconcertati britannici trascorsero lentamente, e sulla pace le ombre si addensarono più fitte. Inevitabilmente, qualche notizia filtrò. C'erano allusioni ad una guerra lampo con l'Europa, ad invasioni da parte di bombardieri, ad attacchi di sommergibili... In pratica, si pensava a tutto, ma non ad un attacco dall'interno. Di certo, tranne Val Turner nessuno pensava alle bombe ad autosprofondamento. Gli era stata concessa la libertà sulla parola in una riunione straordinaria del Consiglio, e stava pensando alle Bombe G, mentre si trovava a bordo dell'aereo del governo che lo portava verso Londra. «È molto buio, là sotto... non si vede un filo di luce,» commentò, e la sua scorta annuì cupamente. «Sì. È stato ordinato l'oscuramento. Per pura precauzione. Sembra che qualcosa bolla in pentola.» «Immagino,» disse Val, «che lei non sappia perché Scotland Yard mi ha ottenuto la libertà sulla parola.» «Non lo so, e anche se lo sapessi non toccherebbe a me parlarne. Mi è stato ordinato di venirla a prendere. Il resto spetta all'ispettore Wade. Saprà tutto quando arriveremo a Londra.» Val tacque. Aveva intuito perché l'avevano mandato a prendere. Sapeva che solo un caso d'emergenza su scala nazionale e la sua conoscenza di Miles Rutter potevano avergli ottenuto così in fretta la libertà sulla parola. Continuò a considerare il problema, guardando il panorama buio.
Persino Londra era parzialmente oscurata. La gente, in generale, frastornata dalla piega chiaramente molto seria assunta dagli avvenimenti e dalla mancanza di notizie, si affollava nelle strade buie. La macchina della polizia dovette procedere a sirene spiegate per farsi strada e raggiungere Scotland Yard. Nel palazzo, l'ufficio di Wade era illuminato a giorno. L'ispettore aveva l'aria stanca e preoccupata. Si era tolto la giacca. C'erano vari funzionari e, in un angolo, anche Rita, che balzò in piedi, felice, quando Val entrò. Wade permise loro di scambiarsi un breve, commosso saluto, poi disse concisamente: «Turner, a quanto sembra, quello che abbiamo saputo da sua moglie è vero. Purtroppo, siamo in ritardo. Ho mandato a prenderla perché ci fornisca altri dettagli. Ammesso che ci resti il tempo di agire, s'intende.» «I dettagli? Con piacere! Cosa vuole sapere? Miles Rutter è un agente nemico, uno dei più grandi che siano mai esistiti; è di nascita continentale ed obbedisce, in un certo senso, a padroni continentali. È un...» «Sì, questo lo so. Conosce i nomi di qualcuno dei suoi agenti?» Val scosse il capo. «Purtroppo no, ispettore. Chiunque, uomo o donna, lavora segretamente per lui, ha un numero. Io credevo che i numeri indicassero semplicemente dei contratti, fino a quando, in carcere, ho cominciato a riflettere. E allora ho capito che dovevano essere agenti.» «Quanti sono?» «È difficile ricordarlo, ma mi pare che fossero più o meno novantaduemila.» Wade alzò le braccia sconsolato e si guardò intorno. «Ecco, signori! In base ai rapporti che ho qui, avevo calcolato che vi fossero circa novantamila persone sul libro paga di una potenza straniera. Alcuni, anzi molti, risultano ufficialmente onesti cittadini britannici, o almeno elementi che hanno cercato rifugio all'ombra della nostra bandiera. Sono dipendenti di Rutter... i suoi agenti fidati. Sabotatori... spie... traditori! Da più di due anni, Rutter trama la distruzione totale del nostro paese. Turner ha potuto capirci qualcosa per puro caso. In pochi giorni, abbiamo cercato di rimediare al più grande tentativo mai organizzato per distruggere una nazione. Non so come ci riusciremo. Non possiamo bloccare novantaduemila sospetti nel giro di pochi giorni, meno ancora in poche ore. E non so quanto tempo ancora ci rimane.» «Metta le mani su Rutter,» suggerì Turner. «Lui è il capo. Gli altri scompariranno.»
«Sapere che Rutter è colpevole è una cosa: dimostrarlo è tutta un'altra faccenda,» ribatté Wade. «È protetto da una muraglia di prevenzioni legali tale che per abbatterla occorrerebbero mesi di sforzi intensi. Ce ne stiamo occupando, sicuro. Abbiamo catturato alcuni agenti e abbiamo ottenuto le loro confessioni. Abbiamo in mano qualcosa, ma non basta. È qui che ci occorre lei, Turner. Voglio che si sforzi di ricordare ogni dettaglio del periodo in cui ha lavorato alle dipendenze di Rutter. Deve...» Wade si interruppe: il telefono squillava. Mentre ascoltava, il suo viso cambiò più volte espressione. Continuò ad annuire, e poi, con un grugnito di assenso, posò il ricevitore. «L'Intelligence,» spiegò. «Hanno appena ricevuto un rapporto. Duecento bombardieri pesanti sono stati ammassati in un aeroporto nei pressi della Manica, in Europa.» «Uno dei nostri aeroporti?» chiese bruscamente il rappresentante del Ministero dell'Aeronautica. «No... ed è questo il punto,» rispose Wade, pensieroso. «L'informazione che ho appena ricevuto è stata comunicata a tutte le postazioni difensive in Inghilterra: sono tutte in stato d'allerta. Quegli aerei non appartengono a nessuna potenza conosciuta. Sono grigi, senza segni d'identificazione. È possibile che siano arrivati da qualche fabbrica segreta europea. Poiché esistono quasi venti organizzazioni di Rutter sparse per l'Europa, sotto nomi diversi, è perfettamente possibile. E se una sola fabbrica può produrre duecento bombardieri, è facile calcolare il resto. Venti fabbriche... duecento aerei ciascuna... Quattromila aerei, e neppure uno di essi è nostro.» «Vuol dire,» chiese lentamente Turner, «che ormai è troppo tardi?» «Temo di sì.» Wade batté il pugno sulla scrivania. «Questa storia sta tirando avanti da troppo. Non l'abbiamo scoperta in tempo. Questa notte ci troveremo alle prese con un massacro!» «Crede che le nostre unità difensive si faranno sorprendere nel sonno?» domandò il rappresentante del Ministero dell'Aeronautica. «Crede che il nostro esercito e le nostre forze aeree resteranno paralizzate e che questo... questo invasore potrà fare una passeggiata?» Wade si avvicinò stancamente alla finestra e guardò la distesa buia della metropoli. «Non lo so,» rispose lentamente. «Non so fino a che punto il virus di Rutter è penetrato nell'organismo della nazione.» Guardò l'orologio e notò che era mezzanotte in punto. «Faremmo meglio a...» Improvvisamente le luci si spensero. Scese un buio pesto. «Che diavolo!» esclamò uno dei presenti. «Cosa succede? Ordine d'o-
scuramento dalla centrale elettrica? Oppure è solo saltata una valvola?» Aveva appena finito di parlare quando un boato tremendo, profondissimo e pesante, squassò la notte. Lontano, in direzione del porto, le fiamme squarciarono la tenebra, mentre masse di acciaio e di mattoni volavano verso il cielo in una colonna irregolare. Dopo un attimo vi fu una seconda esplosione altrettanto potente... poi altre due. Nel volgere di sei minuti, altrettanti incendi divamparono in diverse direzioni, profilando la metropoli in un livido bagliore cremisi. «Sabotaggio!» gridò con voce rauca il rappresentante dell'Aeronautica, guardando fuori. «Deve essere stato dato il segnale! Sono esplosivi!» «Bomba G,» scattò Turner, abbracciando la moglie. «Bombe G a profondità enormi, piene zeppe di esplosivi potentissimi.» «Non c'è modo di fermarle?» domandò Wade. «No, che io sappia. Sono un prodotto della tecnologia atomica, e i due soli uomini che avrebbero potuto controllarle, Standish e lo stesso Glebe, sono morti.» Nell'ufficio vi fu un movimento improvviso. I funzionari e gli ufficiali uscirono in tutta fretta. Fuori, si stava scatenando il pandemonio. La gente correva, urlava, le sirene ululavano. Nei porti, sibilavano anche le sirene delle navi. «Ascoltate!» esclamò all'improvviso Rita Turner. «Ascoltate!» Più forte del frastuono che saliva dalla strada, c'era un rombo che diventava sempre più forte... poi nel centro della City, in mezzo al cerchio degli incendi, una bomba esplose con spaventosa violenza. «Un'incursione aerea!» gridò Rita. «Bombardieri!» Wade e Val Turner guardarono dalla finestra e videro una flotta nera che passava lentamente sullo sfondo delle stelle. Un altro sibilo, un'altra esplosione tremenda, e in distanza un palazzo eruttò, svanì tra il fumo. «Perché le unità antiaeree non fanno qualcosa?» gridò Rita. «Perché? Niente riflettori... niente caccia? Dove sono finiti tutti quanti? Dobbiamo restare qui a farci uccidere?» «Giù!» esclamò all'improvviso Val, trascinando sul pavimento la moglie e Wade. Dopo un istante, una bomba scoppiò sull'edificio di fronte, scagliando nell'ufficio una cascata di frammenti di vetro. Le fiamme crepitanti salirono al cielo, aggiungendo il loro bagliore al caos. I bombardieri erano chiaramente visibili, ormai: grigioscuri, non avevano insegne né sulle ali né sulla fusoliera. In quel momento stavano virando, evidentemente alla ricerca degli obiettivi, e non c'era ancora traccia del
fuoco dell'antiaerea né dei caccia da intercettazione. «Non capisco,» mormorò Rita con un brivido. «Perché siamo rimasti indifesi?» «È evidente, no?» ribatté Val. «Rutter ha usato le Bombe G per far saltare gli obiettivi industriali e difensivi del paese. La distruzione delle centrali elettriche ha spento le luci. Le basi aeree, le caserme, i quartier generali mobili... tutto distrutto. Forse Rutter ha mandato i suoi uomini a impadronirsi delle unità contraeree, e certamente quelli non spareranno sui loro bombardieri. Il piano è un capolavoro diabolico d'organizzazione.» «La penso anch'io così,» esclamò Wade. «Questa sera, quando ho ricevuto quell'ultima telefonata, ho capito che eravamo battuti. Quegli aerei segnavano la nostra fine. Forse ce lo siamo meritato.» «Forse qualche unità difensiva è ancora in attività,» disse Val, dopo un momento. «Non è possibile mettere fuori combattimento ogni singolo settore, ogni soldato. Non è realizzabile. E le navi che si trovano a poca distanza dalle coste potranno fare parecchio.» «E cosa? Non sappiamo bene contro chi stiamo combattendo, quindi come possiamo aprire il fuoco contro possibili obiettivi nemici?» «Non mi riferivo agli obiettivi nemici. Parlavo del momento in cui cercheranno di prendere la Gran Bretagna con la forza delle armi, come dovrà avvenire prima o poi. I bombardamenti terroristici non bastano a decidere le sorti di una guerra, e quando le forze di terra del nemico si faranno avanti, avremo una possibilità di liquidarle.» «E Rutter avrà già pensato anche a questo,» sospirò Wade. «La sua tecnica è evidente. Prima, bombardamenti terroristici per distruggere il morale; poi i suoi agenti si impadroniranno di tutti i centri chiave che controllano la luce, l'acqua, l'elettricità, le comunicazioni telefoniche, la radio, i servizi aerei, i rifornimenti viveri. Uh! Si tolga dalla testa l'idea che sia necessario conquistare un paese con le forze di terra. Ci si può riuscire con la pianificazione, se si ha un cervello come quello di Rutter, e se si dispone di Bombe G.» Wade alzò gli occhi verso i bombardamenti che si dirigevano a est, sopra la città devastata dagli incendi. «Per il momento si stanno allontanando,» disse. «Adesso possiamo cercare di muoverci. Il posto più sicuro deve essere la metropolitana, all'angolo. Venite.» Spalancò la porta dell'ufficio, e Val e Rita lo seguirono per i corridoi deserti e pieni di fumo. In due minuti erano scesi in strada: era piena di gente
che urlava. Alcuni avevano il sangue che scorreva sul volto, altri frugavano freneticamente tra le macerie. «Di qui!» gridò Wade. I tre si mescolarono nella folla impazzita che scendeva precipitosamente le scale mobili bloccate. Capitolo 4 Lo spirito di Jonas Glebe dovette assistere con profonda amarezza ai risultati delle sue bombe. Sincronizzate alla perfezione e fatte esplodere alle profondità enormi stabilite da Rutter, compirono la loro spaventosa missione con schiacciante esattezza. A quaranta milioni di miglia di distanza, i marziani sorridevano, osservavano ed ascoltavano. I loro strumenti impeccabili portavano, per mezzo di complessi congegni radio, il frastuono di una civiltà gettata improvvisamente nel caos. In dozzine di punti chiave, i centri industriali e difensivi della Gran Bretagna sprofondarono, diventando miniere urlanti di fumo e di fiamma. In altre località, sparirono negli abissi campi d'addestramento dell'esercito e basi della Milizia Nazionale. In altre aree, getti di lava eruttarono dal profondo, uccidendo e menomando un maggior numero di persone che non l'esplosione delle bombe. Esattamente come aveva previsto Rutter, nessuno dei suoi agenti era stato scoperto: e certamente nessuno era stato catturato. Dopo aver fatto affondare nelle viscere della terra le loro bombe, si erano dileguati per prendere posto altrove, nel congegno spietato ormai in azione. Numerosi agenti raggiunsero le unità antiaeree per costringere i responsabili a non sparare. Rutter, per la sua prima mossa, contava sulla potenza aerea e sulla distruzione delle armi difensive, e poi sull'intervento dei suoi agenti per il colpo decisivo. Attraverso la radio, il mondo fu informato dell'improvvisa aggressione contro la Gran Bretagna, e l'accolse con sbalordimento o con satanica soddisfazione... a seconda degli ascoltatori. Negli Stati Uniti, circondati da rigorosi sistemi difensivi, la situazione era relativamente tranquilla: ma era molto sentita la necessità di tenersi pronti, nell'eventualità che accadesse la stessa cosa. Tuttavia, attraverso il Congresso, l'America espresse il suo orrore, mentre la distruzione della Gran Bretagna continuava incontrollata. In segno di solidarietà, una potente armata di bombardieri venne inviata in aiuto alla nazione amica aggredita.
Rutter aveva previsto proprio quella mossa. L'ordine venne trasmesso attraverso la sua rete organizzativa. Con quella mossa, l'America era entrata in guerra, e nel contempo aveva sguarnito uno dei suoi centri meglio armati. Era venuto il momento di sferrare un altro colpo devastante. Gli agenti cominciarono a muoversi in segreto, seminando le loro «uova» diaboliche. Il Canada, sconvolto dalla situazione disperata della Gran Bretagna, entrò nel conflitto, trasferendo oltre Atlantico le sue forze aeree, nel tentativo di aiutare gli inglesi a riprendersi dal primo colpo tremendo. Ma, basandosi sulla teoria che l'attacco fulmineo costituisce la chiave della vittoria, Rutter insistette. I suoi aerei continuarono il massacro. La distruzione pioveva su ogni città. Le Bombe G inflissero pesanti perdite a tutti i punti di resistenza. Il Canada, con l'attenzione momentaneamente rivolta altrove, non si accorse neppure degli agenti che stavano disseminando altre bombe entro i suoi stessi confini. I cannoni dell'antiaerea britannica entrarono finalmente in azione... ma erano caduti nelle mani degli agenti nemici. Non vennero abbattuti gli aerei invasori, ma quelli canadesi e americani che erano venuti in soccorso degli alleati. Ogni tanto veniva distrutto uno dei bombardieri di Rutter, ogni tanto qualche caccia otteneva un successo, ma ormai era tutto inutile. Di giorno, di notte, per lunghe ore che sembravano scaturite dall'inferno, la battaglia continuava ad infuriare. Rutter dirigeva le operazioni via radio dal suo rifugio sotterraneo, situato sotto il palazzo del Trust, ormai demolito. Poco a poco, i superstiti combattenti per la libertà si resero conto di trovarsi alle prese con un nemico che disponeva di un'arma onnipotente e di risorse illimitate. Ormai privi di flotta aerea, i britannici non erano in grado di tener testa a Rutter ed alle sue fabbriche segrete. Non appena uno dei suoi aerei veniva abbattuto, ne apparivano altri due per prenderne il posto. Degli aerei giunti da oltre Atlantico restava solo la metà. Gli altri erano stati intercettati dagli invasori o dalle corazzate nemiche. Trascorsero due settimane. L'intensità della battaglia cominciò ad affievolirsi leggermente. Migliaia di morti e di feriti giacevano tra le macerie fumanti delle città britanniche. Coloro che erano ancora vivi si aggiravano, impotenti, atterriti all'idea di ciò che poteva ancora accadere. Dovunque, adesso, c'erano uomini armati: la morte non cadeva più dal cielo. Solo quegli uomini, pesantemente armati, con le facce torve e decise. Molti erano britannici che obbedivano a nuovi ordini. Mandavano i feriti negli ospedali improvvisati e facevano caricare i morti sui camion, facendosi ob-
bedire con la forza, ed i civili, storditi, eseguivano perché non potevano fare altro. La cosa più significativa era che quegli uomini portavano bracciali... i bracciali della Causa del Potere Europeo... qualunque cosa potesse significare. Val Turner e sua moglie, affamati e sfiniti, si aggiravano insieme agli altri sopravvissuti nella metropoli devastata, quando furono catturati da agenti muniti di bracciale. Non si sapeva cosa fosse accaduto all'ispettore Wade. Senza dubbio era morto. La distruzione della metropolitana aveva costretto Val e Rita a fuggire per mettersi in salvo, in un inferno di fuoco, sotto una pioggia di mattoni e di acciaio. Wade era con loro, quando si erano mossi; ma non l'avevano più visto quando si erano soffermati per guardarsi intorno. Ricordavano confusamente di aver vissuto, poi, in un incubo di esplosioni, sfuggendo miracolosamente alla morte; poi il massacro era lentamente cessato. Quando vennero catturati erano troppo esausti, fisicamente e mentalmente, per avere la forza di dire una parola. Insieme a centinaia d'altri vennero spinti in un grande magazzino spietatamente saccheggiato che fungeva da prigione. Forse passarono giorni, forse settimane, durante i quali vennero tenuti in vita a pane ed acqua; poi uno ad uno i loro compagni di sventura furono portati via dagli uomini con i bracciali, verso destinazioni ignote. Infine venne il loro turno. «Nomi?» chiese laconico l'agente. Val li diede, con indifferenza, e l'uomo consultò un elenco. Poi i suoi occhi parvero illuminarsi un po'. «Il nostro Comandante deve vedervi immediatamente,» disse. «Miles Rutter?» Il sorriso di Val era cinico tra la folta barba bionda. «Naturalmente. Muovetevi!» «E lei dice di essere inglese,» mormorò Val stringendo i pugni. «Devo pur vivere. È meglio essere una guardia che combattere contro l'inevitabile. Muovetevi!» «Vieni, Val,» disse Rita, afferrandogli il braccio. «C'è poco da discutere.» Val esitò, poi scrollò le spalle. L'agente li pilotò attraverso file di uomini e di donne dall'aria stanca, verso le macerie di quella che era stata un tempo la City di Londra. Entrarono per uno stretto corridoio d'acciaio e di cemento, e giunsero in un'ampia sala sotterranea, dotata di generatore autogeno che alimentava le
lampade e la radio. Miles Rutter era alla scrivania, coperta di carte e di mappe. Dietro di lui stava ritto Angorstine, con le labbra imbronciate. L'orologio elettrico appeso alla parete dietro di lui formava un'aureola satanica intorno alla sua testa. «I Turner,» annunciò laconicamente la guardia, poi salutò militarmente e se ne andò. Rutter alzò i gelidi occhi grigi: solo le sue labbra sorridevano. «Dunque non siete morti, dopotutto,» mormorò. «Bene, straordinario! E provvidenziale, in un certo senso.» Val attese, con Rita al fianco. Nessuno dei due parlò, sebbene irradiassero il più profondo disprezzo. Rutter continuò a sorridere. «Avevo dato ordini speciali: se vi avessero trovati vivi dovevano portarvi subito da me. La... uhm... sincerità con cui avete dato i vostri veri nomi vi ha probabilmente salvati dal plotone d'esecuzione. Quasi tutti i nemici della Causa vengono rastrellati e fucilati.» «E noi perché siamo diversi?» chiese Val. «Non abbiamo nulla in comune con questo branco di tagliagole e di assassini. E parlo anche a nome di mia moglie.» Rita annuì lentamente. «La fucilazione,» disse Rutter, «è una fine rapida. Le spetta, Turner, perché è fuggito di prigione a causa del recente cambiamento. Tuttavia, io sono un uomo giusto, e ho deciso che lei ritornerà in carcere: ma con regolamenti nuovi. Sua moglie, che si è resa sua complice ottenendo che la giusta sentenza venisse commutata nel carcere a vita, finirà anch'ella in prigione. Non voglio uccidervi perché ritengo sia una punizione adeguata per entrambi vivere abbastanza a lungo per vedere i cambiamenti che verranno introdotti in Gran Bretagna.» «Avevo l'impressione che ci fossero già,» osservò acido Val. «Per nulla. In tutto il paese vengono organizzati campi di lavoro, e tutti coloro che sono in grado di lavorare vi verranno rinchiusi. C'è da costruire la nuova Gran Bretagna, e voi due potrete contribuire a farlo. Ogni volta che indugerete o vacillerete ci sarà la frusta a ricordarvi che può esservi un solo padrone. Allora capirete di appartenere alla massa... e forse vi ricorderete che avete cercato di ostacolarmi!» Val e Rita tacquero, sgomentati dalla visione che appariva davanti a loro, la visione di un paese prostrato sotto il tacco dell'invasore. «Dunque non avete niente da dire?» chiese sorpreso Rutter. Si alzò e in-
dicò l'enorme carta geografica del mondo appesa alla parete. «Vedete i nostri progressi?» chiese, con gli occhi accesi. «Grazie alla guerra abbiamo conquistato metà dell'Europa. La Francia e la Spagna vengono devastate dalle Bombe G. Altre bombe stanno scoppiando nell'Europa meridionale e in tutta la Russia. Abbiamo quasi domato l'America, e il Canada sta cedendo. Un tempo si diceva che per una singola potenza sarebbe stato impossibile conquistare il mondo... e forse era vero, allora. La Bomba G ha cambiato tutto. Uno scienziato ci ha dato il mondo... il mondo del potere, il dominio sull'umanità, come è giusto. La libertà di pensiero è un passatempo pericoloso per le masse. Non sanno come usarlo.» Se Rutter si aspettava uno scatto furioso da parte di Val o di Rita, rimase deluso. Val chiese invece, quietamente: «Pensa davvero che ci adatteremo a questa dominazione? È così idiota da credere di riuscire a schiavizzare il mondo, senza incontrare opposizione? Ci provi. Jonas Glebe le ha dato la Bomba G... ma forse non le ha dato solo quella.» «Come sarebbe?» scattò Rutter, mentre il ricordo del dottor Standish gli balenava nella mente. Val si limitò a sorridere enigmaticamente. Rutter lo fissò per un momento, poi schioccò le dita. «Portateli via,» ordinò. «Lavori pesanti al Campo Quattro.» Li guardò uscire, stretti fra le guardie. Angorstine disse: «Non si sarà lasciato spaventare da quello sciocco di Turner, vero? Se abbiamo avuto la possibilità di arrivare fin dove siamo arrivati, è chiaro che avevamo ragione. La forza crea il diritto, e lo abbiamo dimostrato. Guardi...» Con un sorriso soddisfatto, mostrò un foglio dattiloscritto. «Le Bombe G sono entrate in azione dovunque. Napoli è minata, e così pure molte zone del Canada. Le capitali dell'Oriente, dell'estremo nord e dell'estremo sud. L'India. Il giorno in cui la Causa regnerà sul mondo è molto vicino.» «E questo che cos'è?» chiese bruscamente Rutter. Sembrava che non avesse udito una parola delle farneticazioni del suo aiutante. Stava guardando un rapporto completamente diverso. «Quello?» Angorstine gli diede un'occhiata. «Oh, niente. Solo i particolari sull'eruzione di lava nei pressi di San Francisco. È stata causata da uno dei pozzi della Bomba G.» «Davvero, eh?» Rutter socchiuse gli occhi. «Abbiamo colpito una faglia vulcanica?» «Può darsi. Ce n'è una, in America, nei pressi di Frisco. Ha causato il terremoto del millenovecentosei, mi pare. E con questo?»
«Voglio un geologo,» disse bruscamente Rutter. «Non m'interessa che condanna sconti, chi sia, ma ne trovi uno! Ci sono certe cose che voglio sapere, subito. E dia l'ordine anche ai campi. Trovi qualcuno che abbia una conoscenza di prim'ordine in fatto di fisiografia.» «Ma non capisco...» «Lo trovi!» urlò Rutter, diventando paonazzo in viso. Angorstine aggrottò la fronte e uscì, grattandosi la testa. Rutter lo guardò uscire, mentre il ricordo dell'avvertimento di Standish gli echeggiava nel cervello. Trascorse una settimana nel Campo di Lavoro, prima che Val e Rita si rendessero conto della situazione. Sebbene fossero separati durante le ore di lavoro, avevano trovato il modo, come gli altri, di incontrarsi nelle ore di riposo. Le guardie non cercavano di impedire i loro incontri: tanto era impossibile fuggire dai recinti. Le barriere potevano venire elettrificate in qualunque momento. Il lavoro quotidiano significava dieci ore di incessanti, dure fatiche per ricostruire quello che le flotte aeree di Rutter avevano distrutto. Il vecchio stile degli edifici di Londra, a quanto pareva, veniva abbandonato in favore di edifici lunghi e tozzi, di un modello nuovo. In una settimana, Val scoprì molte cose. Quasi tutte le guardie del campo erano di nazionalità britannica, e c'erano alcuni stranieri. Pochi, tra gli inglesi, erano d'indole brutale, anche se ovviamente dovevano obbedire agli ordini. Il più trascurato di tutti era il capitano delle guardie, che era troppo vecchio per quel compito. Val si stupì nel constatare che si faceva poco uso delle fruste e dei fucili, sebbene le dieci ore di lavoro venissero imposte a tutti i maschi dai quattordici ai sessant'anni. Discutere i regolamenti significava andare in cerca di guai, ma Val sentiva crescere dentro di sé il furore contro la schiavitù, un furore che si riaccendeva ogni volta che scorgeva il volto stanco e tirato di sua moglie attraverso il filo spinato, all'estremità più tranquilla dei due campi. «Dove andremo a finire, Val?» gli chiese Rita una notte, disperatamente. «L'intero paese, e probabilmente tutto il mondo, tra non molto, falciati e sacrificati al potere! Non è logico! Non può continuare! Tanta gente contro così poca.» «Non è questo,» rispose gravemente Val. «I pochi hanno il potere, Rita, e i molti non l'hanno.»
Tacquero per un momento, guardandosi nella luce cruda dei riflettori. Intorno a loro, l'incessante propaganda veniva riversata nell'aria dagli altoparlanti. Come al solito, vomitavano resoconti di vittorie, alcuni veri, molti lontani dalla realtà che Val aveva captato qua e là... piccoli particolari sfuggiti dalle labbra dei prigionieri. «Può esserci ancora una rivolta,» mormorò poco dopo. «Il capitano è stupido, e dovrebbe esistere un modo per raggirarlo. E c'è un'altra cosa. Ricordi quando ho detto a Rutter che Glebe gli aveva probabilmente dato qualcosa di più delle bombe?» Rita annuì, scrutando intenta il volto del marito, completamente rasato, adesso, come la sua testa. Val sogghignò sardonicamente. «Non l'ho detto così per dire,» mormorò. «Più Rutter ed i suoi padroni continentali fanno sprofondare il mondo nella distruzione con l'uso indiscriminato delle Bombe G, e più si avvicina la fine.» «Perché? Come?» Val si guardò intorno, cautamente, poi si sporse attraverso il filo spinato. «Sappiamo che le bombe sono state fatte scendere alla profondità di cinque miglia. Secondo molti rapporti, in certi casi non si sono limitate ad aprire voragini enormi nel suolo. Hanno liberato le forze vulcaniche, persino in America, che non si trova in una zona vulcanica. Pensavo che sarebbe accaduto qualcosa del genere perché Standish vi aveva accennato, e quand'ero in carcere, ho passato molto tempo a leggere i testi di geologia, nella biblioteca della prigione. Uno diceva che le faglie vulcaniche incominciavano a un profondità di tre miglia, o anche meno. Leggevo quei libri pensando che forse avrei potuto fare qualcosa, se fossi stato liberato. Intendevo, se ne avessi avuto la possibilità, usare le Bombe G per ottenere gli stessi risultati che Rutter ha provocato per caso. Solo, io intendevo usarle per assicurarci la vittoria. Lui sta seminando la distruzione totale nel mondo... ma ancora non lo sa.» «Ma com'è possibile che poche faglie vulcaniche sovvertano il regime?» chiese Rita, perplessa. «Non si tratta solo di questo. Ciò che conta è per quanto tempo continueranno a farlo. Se cominci a scatenare le forze interne della Terra, ti trovi alle prese con conseguenze tremende. Rutter ha dato l'avvio a qualcosa che non potrà arrestare...» «Muovetevi, là!» Rita venne improvvisamente costretta a girarsi da una colossale carceriera. Nello stesso istante, Val venne spinto via da un guardiano. Si allontanò,
e poco dopo si trovò di fronte alla minuscola figura di Bilworthy. Bilworthy... il piccolo prigioniero dagli occhi di furetto, luccicanti e sinistri. Sogghignò, aspirando il fumo di un mozzicone di sigaretta. «Hai detto molte cose a tua moglie, vero?» chiese. «E anche se fosse?» Val lo guardò rabbiosamente. «Cosa diavolo facevi? Origliavi?» «Perché no? Non andiamo tutti in cerca di notizia?» Bilworthy sogghignò ancora, e il fumo gli sfuggì tra i denti sporchi. Si allontanò massaggiandosi il mento. Val lo seguì con lo sguardo, ad occhi socchiusi. Per tre volte aveva sorpreso il piccolo, viscido prigioniero a curiosare dove non avrebbe dovuto. C'era in lui qualcosa che faceva veder rosso a Val. Alla fine si voltò, e cominciò ad ascoltare la propaganda, per ricavarne qualche dato. Tra le righe, intuì che il Vesuvio eruttava violentemente e ostacolava l'attività bellica. La baia di Napoli era teatro della più grande colata lavica della storia. E persino in Gran Bretagna un vulcano estinto, nelle montagne del Cumberland, era tornato in vita ed eruttava fuoco e distruzione nel raggio di cinquanta miglia. Anche la Cina era scossa dai terremoti. In America l'ostinato fiume di lava che sgorgava dal cratere di Frisco era diventato anche peggio. Tutti questi fatti erano censurati, nella trasmissione; ma Val riusciva a capirli. Andò in un angolo del recinto, sorridendo tra sé. Il guardiano che l'aveva allontanato si chiese vagamente che cosa ci fosse di tanto spassoso nel Campo Quattro. I piani della rivolta vennero improvvisamente bloccati la mattina seguente, quando si scoprì che il Campo Quattro aveva un nuovo capitano delle guardie. Val e i suoi compagni di prigionia lo videro per la prima volta in occasione dell'appello per l'assegnazione del lavoro. A differenza del suo predecessore, costui insistette per effettuare un'ispezione preliminare. Passò lentamente lungo la fila degli uomini. Era grande e grosso, alto poco meno di due metri, con le spalle e il collo di un toro. L'uniforme era immacolata e gli stivali lucidi come specchi. Portava il berretto inclinato sulla testa rasata. La bocca si schiudeva continuamente, quando parlava, rivelando due file di magnifici denti bianchi. Gli occhi erano azzurri, di un azzurro duro e freddo. «A quel che ho sentito, qui c'è stato troppo sentimentalismo!» urlò, mentre continuava a camminare lentamente. «Troppo!» Guardò le facce spente, agitando il frustino. «D'ora innanzi, cambierà tutto. Io sono sempre sta-
to un militare, capito? So cosa ci vuole per far lavorare gli uomini: disciplina! Disciplina! Ve la farò provare io! Stiamo costruendo un Impero per la Causa, e voi cani lavorerete dieci ore al giorno, finché sarò io il responsabile. Dieci ore... né più, né meno. Conosco il mio dovere, e lo faccio. Mi chiamo Abel Granvort, e sono il vostro nuovo capitano delle guardie, meglio conosciuto come 'Ox', il Bue. Più tardi capirete perché! Sta bene, sergente Mead, assuma il comando.» La fila, circondata dalle guardie, si avviò lentamente; ma mentre Val gli passava davanti, Ox tese la mano e lo tirò da parte. «Tu no,» disse laconicamente. «Voglio scambiare una parola con te, Turner.» Val attese, fissandolo con fermezza. «Dunque tu pensi che il Capo Rutter si stia scavando la tomba con le sue mani, eh?» Gli occhi di Val seguirono la minuscola figura di Bilworthy che si allontanava insieme agli altri. «Ho parlato!» urlò Ox. «Sì, ho sentito,» rispose calmo Val, volgendosi di nuovo verso di lui. «Immagino che Bilworthy abbia fatto la spia, eh? È sorprendente, quello che sono capaci di fare certi individui. Per rispondere alla domanda, comunque: sì, credo che Rutter e la sua banda di assassini stiano andando incontro a una catastrofe. E con questo? Cos'ha intenzione di fare?» «Vieni con me, Turner! Marsc!» I lucidi stivali di Ox si avviarono sulla polvere. Val si accorse che lo stava portando al quartier generale del campo. Ox lo lasciò e si piantò sull'attenti. C'era Rutter, con l'inevitabile Angorstine. Rutter entrò subito in argomento: «Questa notte, Turner, mi risulta che ha avuto con sua moglie una conversazione pericolosamente prossima al tradimento. Per questo ho fatto rinforzare la guardia e ho nominato comandante il capitano Granvort. Lei ha avuto l'impudenza di dire a sua moglie che noi stiamo distruggendo il nostro regime. Che cos'ha da dire?» «Niente,» rispose con freddezza Val. «Si rende conto che posso farla frustare e poi fucilare? E anche sua moglie?» A queste parole Ox si fece avanti. «Chiedo scusa, signore, ma credo che la donna non c'entri. Ha solo ricevuto l'informazione, involontariamente... non l'ha data. Perciò, secondo i regolamenti militari...» «Silenzio!» ruggì infuriato Rutter. «Torni al suo posto e non parli finché
non le viene chiesto di farlo. In quanto a lei...» Si girò di scatto verso Val. «Potrei uccidere lei e sua moglie, ma se mi darà qualche informazione vi risparmierò entrambi, e darò ordine che vi assegnino lavori più leggeri.» «Non vogliamo favori,» ribatté Val; poi rifletté per un momento. «Almeno, io non li voglio. Ma debbo pensare a mia moglie. Cosa vuole sapere?» «Mi pare che lei sappia qualcosa di geologia...» «Non più della media. Certo, non possiedo la competenza del defunto dottor Standish.» «Almeno ne sa più di me: sono disposto ad ammetterlo. Quand'era mio segretario, ha dato molte prove della sua intelligenza. In questo momento è difficile trovare geologi e scienziati: ne sono stati eliminati tanti. Sembra che lei sappia qualcosa, a giudicare da quel che ha detto a sua moglie. Ormai, è di dominio pubblico che gravi eruzioni vulcaniche avvengono dovunque, e molti dei miei amici in Europa, persino alcuni miei superiori, hanno chiesto come è possibile far cessare questi inconvenienti. «Danno la colpa a me, perché ho usato la Bomba G. I terremoti e le frane intralciano seriamente le operazioni dell'esercito. Fitte nebbie cominciano a coprire i mari, a causa dell'intenso calore dei fondali oceanici. Questo ostacola l'attività aerea. I fiumi, pieni di lava, si prosciugano. Lei ha detto a sua moglie di avere letto che tutto questo era possibile, mentre si trovava in carcere. In tal caso, sa come si può arrestare il fenomeno?» «In altre parole, comincia ad avere paura?» «Risponda alla mia domanda!» «D'accordo. Non c'è modo di arrestarlo. E se ci fosse glielo direi... non perché abbia qualche riguardo per lei, ma nell'interesse dell'umanità. Ha fatto scendere le Bombe G a profondità troppo grandi, ecco tutto. In futuro, le faglie si apriranno nei fondali oceanici, e allora verrà davvero il bello. L'acqua si riverserà negli squarci. Nel sottosuolo si accumulerà un'immensa pressione che aprirà crepacci nella terra.» Val s'interruppe e sorrise amaramente. «Lei ha dato l'avvio alla fine del mondo! Avrà il mondo, sicuro, come voleva... ma perirà come tutti noi. E a noi non importerà molto, perché la morte è preferibile alla vita sotto il dominio suo e di quelli come lei.» Se anche Rutter era turbato, non lo mostrò. La sua voce era dura come l'acciaio, quando riprese a parlare: «Vuol dire che non ci aiuterà?» «Le ho detto la verità. Prendere o lasciare.» «Non le credo,» disse seccamente Rutter, e si girò verso Ox. «Lo riporti
al campo, capitano, e gli dia venticinque frustate al giorno per una settimana. Forse dopo si deciderà a parlare. Per il momento, sua moglie sfuggirà alla frusta; in futuro, forse non sarò tanto clemente. Sta a lei decidere, Turner.» «Mostro...» cominciò a gridare Val; poi Ox lo fece voltare di scatto. «Un momento!» gridò Val, svincolandosi. «Ho ancora molte altre cose da dire a quella iena! Io...» «Muoversi!» ordinò inesorabile Ox, estraendo la pistola. «Presto, marsc!» Disperato, Val si girò e ritornò fra i prigionieri intenti al lavoro di costruzione. Si aspettava che gli strappassero la camicia e cominciassero a frustarlo. «Be', cosa diavolo stai lì a fare?» gridò Ox, e Val si voltò stupito. «Rutter ha detto...» «Al lavoro!» intimò Ox, indicando con la pistola. «Rutter mi ha ordinato di frustarti. Il regolamento diciannove stabilisce che un capitano può dare ordini ma non eseguirli personalmente: questo spetta agli inferiori. Il Capo Rutter mi ha dato un ordine che non posso eseguire. Conosco il mio dovere e lo faccio, ma questo non ti risparmierà le tue dieci ore di lavoro,» finì con una smorfia. «Dieci ore... né più, né meno. E adesso via!» Val si girò, sbalordito dalla rigida adesione di quell'uomo alle leggi ed ai regolamenti. Sembrava una specie di bruto, con i regolamenti stampati nel cervello dall'A alla Z, eppure c'era qualcosa, in lui, che fece sorridere Val. Mentre lavorava continuò a studiarlo: stava immobile, a gambe larghe, con le mani sui fianchi, un sogghigno storto sulla faccia squadrata. Poi Val guardò qualcun altro. Bilworthy. Capitolo 5 Neppure la stretta soffocante della censura poteva nascondere completamente le notizie che filtrarono nei giorni seguenti. Un vapore nebbioso avvolse la Gran Bretagna, coprendo completamente i Campi di Lavoro. Le guardie vennero raddoppiate, e le recinzioni furono elettrificate per rendere impossibile la fuga. Il calore investì il paese. Arrivavano notizie: l'Etna, il Vesuvio, lo Stromboli, il Fujiyama ed altri vulcani famosi erano in piena attività. Il fumo e la polvere bruciante lanciati dai vigorosi crateri penetravano nell'atmosfera, dando alla luce solare la colorazione più straordinaria che mai si fosse vista. Il cielo sembrava dipinto di azzurro e di ma-
genta, tra gli alti strati di polvere. Dall'Italia arrivò l'annuncio della completa distruzione della Sardegna e della Corsica a causa di un'eruzione vulcanica. La lava fusa, riversandosi nel mare, aveva trasformato la baia di Napoli in un calderone mortale, paralizzando la navigazione, gettando a galla i pesci morti e gonfi e spingendo fumi velenosi sull'Italia e sull'Europa meridionale. L'intera estremità sud della penisola italiana sembrava sprofondare sotto il mare bollente. In due punti dell'Atlantico, sul fondale oceanico si erano aperte fessure, creando sconvolgimenti indescrivibili. Gonfiati dalla pressione del vapore, interi tratti del fondo oceanico erano esplosi scatenando masse furiose di vapore e d'acqua. I terremoti nell'Europa centrale e nell'Asia, i fiumi di lava che scorrevano nell'Himalaya minacciando l'India e vaste parti della Mongolia, avevano dato l'avvio a un esodo di profughi ancora più imponente di quello causato dalla guerra. I Campi di Lavoro dei territori occupati, già pieni, cominciarono a saturarsi via via che arrivavano fiumi incessanti di superstiti da ogni parte. Nel Campo Quattro, arrivarono in un sol giorno mille prigionieri: vi erano anche uomini e donne dalla pelle scura, provenienti dall'Oriente, che erano partiti con le ultime imbarcazioni dai territori condannati, cercando di rifugiarsi nell'apparente sicurezza della Gran Bretagna, ed erano finiti invece nelle mani di nemici umani. Intanto i marziani osservavano tutto, rallegrandosi. Continuamente, giorno e notte, il grande telescopio era puntato sulla Terra, e quando i marziani non erano presenti, perché anch'essi avevano bisogno di riposarsi e di nutrirsi, le telecamere automatiche registravano tutto ciò che appariva sullo schermo. La visione del caos era tale da far sorridere di soddisfazione persino l'impassibile Sovrano di Marte. «Credo, amici miei, che senza dubbio questa volta realizzeremo il nostro scopo,» commentò. «L'uomo Glebe ha reagito proprio come speravamo, e Miles Rutter spinge la sua ambizione oltre i limiti della prudenza, come avevamo previsto. Sì, tra poco la Terra sarà esattamente come vogliamo, un mondo in rovina, con pochi superstiti che non potranno resistere al nostro breve, ma decisivo attacco. Conquistare un mondo prima ancora di porvi piede è senza dubbio un importante risultato scientifico.» «Vorrei,» osservò uno degli Anziani, «poter provare la stessa sicurezza, sire. Ho ancora l'impressione, come all'inizio, che prima o poi qualche terrestre più intelligente degli altri entrerà in azione per risolvere questa situazione disperata, e in tal modo causerà la sconfitta del nostro piano.»
Il Sovrano aggrottò la fronte. «Deploro tanto pessimismo, amico mio, e l'ho sempre deplorato. In tutta la tua carriera scientifica, hai sempre cercato l'incognita capace di spargere tristezza anche sul trionfo più gioioso. A suo modo è lodevole, ma non bisogna esagerare.» «Chiedo umilmente perdono,» mormorò il dignitario. «Dico solo ciò che penso, e la logica non mi permette di accettare che ogni terrestre sia così stupido da non poter distruggere, o almeno neutralizzare, gli sconvolgimenti attuali. Con tutta la deferenza, sire, proporrei un'ulteriore lettura dei terrestri sopravvissuti, ora che sono molto meno numerosi, per scoprire se ce n'è qualcuno dotato di potenza mentale sufficiente per costituire una minaccia.» «E se troveremo tale persona, o tali persone?» chiese irritato il Sovrano. «Cosa faremo?» «Si potrebbe trovare un mezzo per eliminare quella persona. Non possiamo permetterci di correre rischi, ora che i nostri piani sono tanto avanzati.» Il Sovrano esitò, poi si volse verso l'enorme quadro degli strumenti, e i dignitari si radunarono intorno a lui. Protese la mano tentacolata verso lo strumento che serviva a determinare il quoziente d'intelligenza dei terrestri, ma poi la ritrasse. «No!» esclamò. «No, non perderò tempo in un compito tanto inutile, amici miei. Abbiamo troppo da fare per pianificare il nostro trasferimento sulla Terra, dopo la catastrofe finale; non intendo sprecare tempo prezioso alla ricerca di una mente geniale che, ne sono convinto, non esiste.» I dignitari si scambiarono occhiate; ma non potevano far nulla, perché il potere decisionale del Sovrano era assoluto. Perciò guardarono invece lo schermo e osservarono compiaciuti le convulsioni mortali del pianeta. Era una visione a distanza, che abbracciava gran parte dell'emisfero terrestre volto in quel momento verso Marte: e non inquadrava in particolare il Campo Quattro, in Gran Bretagna, altrimenti i marziani si sarebbero interessati a Val Turner, impegnato nel tentativo di pacificare gli spiriti più irrequieti che l'attorniavano. «Dobbiamo ribellarci!» gridò uno degli uomini, in piedi su una cassetta rovesciata in mezzo al dormitorio, dove gli uomini si erano radunati per passare la notte. «Giusto! Non c'è altro da fare!» «Ci hai detto che sono state le Bombe G a causare tutto questo, Val. Il mondo intero va a pezzi... i fiumi e i mari evaporano... e noi stiamo qui
senza far nulla! Se vogliamo salvarci la vita, dobbiamo distruggere il regime, una volta per tutte!» Val alzò la testa, pensosamente, poi disse: «Ribellarci, Hoyle, è il modo più sicuro per perdere la vita, non per salvarla.» «E allora cosa facciamo?» sibilò Hoyle. «Stiamo qui ad aspettare di finire arrosto? Il caldo peggiora ogni giorno. Sudiamo, e costruiamo, e sudiamo ancora di più, e quel maiale sogghignante di Ox sta a guardare e se la gode. Non può andare avanti così! E soprattutto non...» «Statemi a sentire, ragazzi.» Val, che era seduto sulla branda, si alzò e fronteggiò la folla esasperata. «Ascoltatemi un momento. Finora vi ho sempre detto la verità, non è vero? Avevo predetto che sarebbe accaduto questo, anche se voi ne dubitavate, no?» «Sì, è vero,» ammise uno degli uomini. «Comunque, sono d'accordo con Hoyle: è ora che facciamo qualcosa contro Rutter. La guerra è ormai finita, con questi cataclismi della natura, e Rutter e la sua banda sono rimasti padroni del mondo prima di quanto si aspettassero. E noi dovremo tollerarlo?» «Per il momento, sì,» rispose seccamente Val. «Ma perché?» fece implorante Hoyle. «Che senso ha?» «Te lo spiego subito. Credimi, tra un po' i grandi sconvolgimenti vulcanici cesseranno... dovranno trovare un nuovo livello. E allora accadrà qualcosa. I mari ed i fiumi evaporano rapidamente... ma qualcuno di voi ha pensato dove andrà a finire il vapore? Non tutto si è trasformato nelle nebbie che avvolgono il mondo.» «E questo cosa c'entra con la nostra rivolta?» gridò Hoyle. «Solo questo. Le condizioni ambientali che esistevano all'inizio del mondo ora si ripetono, a causa dell'errore di Rutter. Nei primi tempi della Terra, il calore enorme spinse nubi colossali di vapore oltre i limiti dell'atmosfera. Formarono un cerchio intorno alla Terra, a causa della forza centrifuga. Una titanica fascia di vapori che cingeva la Terra come oggi gli anelli cingono Saturno. Il vapore dei fiumi, dei mari e dei laghi farà lo stesso. La parte esterna dell'anello si congelerà, per il freddo dello spazio; quella interna continuerà a restare allo stato di vapore, a causa del calore terrestre, e dopo un po' la fascia verrà attirata di nuovo dal pianeta.» «E allora?» chiese Hoyle, con voce più smorzata. «E allora... il Diluvio!» rispose gravemente Val. «Un mondo spazzato via, su cui resteranno solo pochi superstiti. Ecco come finirà questa pazzesca scalata al potere. Forse quei pochi che resteranno potranno costruire
qualcosa di meglio.» Gli uomini si guardarono, storditi; poi presero a parlare tutti insieme. Si azzittirono di nuovo alla voce di un piccolo mongolo dalla faccia coriacea che era rimasto ad ascoltare passivamente. Ora parlò, in perfetto inglese. «Hai ragione, mio giovane amico, ma ti sei espresso male,» commentò. «Il mio nome, a proposito, è Kang. I cataclismi mi hanno costretto a fuggire dalla Mongolia, e sono finito qui. Molto tempo fa, avevo previsto che gli attuali avvenimenti avrebbero portato a un nuovo Diluvio.» Girò lo sguardo sugli ascoltatori: aveva il viso grinzoso, come un'antica pergamena. Negli occhi obliqui c'era una saggezza profonda, inconsueta. «La storia geologica,» continuò, «ci dice che i vapori ascesero quando la Terra era caldissima, e raffreddandosi causarono il Diluvio, quando si raffreddò anche la Terra... esattamente come avverrà anche stavolta. Su Giove, possiamo vedere ancora oggi un baldacchino d'acqua, sotto forma di fasce di nubi. Un tempo anche la Terra doveva apparire così. La prova del primo Diluvio è impressa per sempre nelle leggende e nelle storie dei popoli.» «Per esempio?» chiese Hoyle, in tono asciutto. Il mongolo scrollò le spalle. «Pensate alla Bibbia giapponese... il Kojiki, che parla di 'un ponte fluttuante in Cielo, dove vivono gli Dei'. D'altra parte, Varuna, che come tutti i filologi sanscriti sanno era il primitivo Paradiso Indiano dei Veda, significa 'Cielo d'Acqua'. Inoltre, la storia scandinava parla di 'un Ponte del Cielo che si spezzò', e la vostra Bibbia non parla spesso delle 'acque di sopra e acque di sotto'? Sì, amici miei, il Diluvio ci fu veramente.» «Sì,» ammise Hoyle, sbalordito dell'erudizione del suo compagno di prigionia. «Sì, credo che forse hai ragione tu, Kang.» «Ho ragione, altrimenti non avrei parlato.» Per un po' vi fu silenzio. Le affermazioni del vecchio intellettuale avevano sbalordito tutti. Val fu il primo a scuotersi. «A giudicare dal ritmo con cui procede l'evaporazione,» continuò «è possibile che il ritorno dell'acqua della Terra, all'inizio del raffreddamento, produca un'alluvione tale da coprire il mondo! Anche una pioggia di cinque metri, nello spazio di quaranta giorni e quaranta notti, come il primo Diluvio, produrrebbe un'inondazione superiore alla nostra immaginazione: e questo minaccia di essere anche peggio.» «'Io porto un Diluvio d'acque sulla Terra', Genesi, capitolo sesto, versetto diciassette,» mormorò Kang, chiudendo gli occhi e meditando.
«Sì, e noi cosa facciamo?» gridò Hoyle. «È facile,» ringhiò un prigioniero, dal fondo. «Ce ne stiamo qui in questo campo e moriamo annegati.» «No,» disse lentamente Val. «Faremo quel che fece Noé... costruiremo un'Arca!» Provò un fuggevole senso di sorpresa, nell'udire la sua stessa proposta. Non ci aveva pensato, un momento prima; eppure adesso gli sembrava un'idea logica ed ovvia. «Non è il momento di scherzare!» protestò Hoyle. «Dico sul serio!» insistette Val. «Noi costruiamo edifici, no? E cosa ci impedisce di costruirne uno tipo Arca? Ecco!» proseguì, schioccando le dita. «Gli edifici sono tutti lunghi, e vuoti possono ospitare cinquecento persone. Continueremo a fare quel che abbiamo sempre fatto... ma sarà un edificio mobile, in grado di galleggiare, quando verranno le acque. Nessuno, neppure Ox, si accorgerà della differenza. Infatti, esternamente, non ci sarà niente di diverso.» Vi fu un brusio di voci. «Forse è un'idea...» «Dovrebbe andare...» «Voi avete un amico e capo molto saggio,» osservò Kang, riaprendo gli occhi. «Ascoltatelo. Ha lo spirito e l'energia di un liberatore.» Gli uomini annuirono risolutamente. Val li scrutò uno ad uno, e lesse la lealtà, nei loro volti... fino a quando arrivò a Bilworthy. Sotto lo sguardo acuto di Val, Bilworthy si avviò impacciato verso la sua rozza branda. Val gli posò la mano sulla spalla. «Un momento, Bilworthy!» Lo costrinse a girarsi. «L'ultima volta, mi hai fatto la spiata a Ox. Ho lasciato perdere perché non mi ha causato guai. Se ripeti una sola parola di quanto è stato detto qui stanotte, ti ammazzo. E se non potrò farlo io, lo farà qualcun altro. Intesi?» «Ma... ma perché dovrei...» «Intesi?» chiese minacciosamente Val. «Sì. Sì... capisco.» Bilworthy si girò dall'altra parte con una smorfia. Poi la porta si aprì e un guardiano entrò, vigorosamente. «Spegnete le luci, canaglie! Presto, laggiù!» Quando, dopo alcune settimane, le nebbie che avvolgevano il mondo cominciarono ad alzarsi e giunse notizia che le eruzioni vulcaniche si andavano placando, Rutter riprese a respirare, ma non per molto. Insieme ad Angorstine decise di controllare personalmente come mai non arrivavano altri ordini dal quartier generale continentale: il viaggio in aereo gli rivelò
la spaventosa verità. Il livello dell'Oceano Atlantico si era ridotto paurosamente. Qua e là, le navi avanzavano tra canali ignoti alla scienza marinara di un tempo. In altri punti, i battelli si erano arenati e arrugginivano. L'Arcipelago Britannico, ancora pieno di profughi disperati provenienti dalle città devastate dalla guerra, si innalzava come vette di montagne a circa trecento metri dal livello del mare. Erano emerse vette mai vedute in precedenza. L'Europa spiegava perché non arrivavano più ordini dal Quartier Generale della Causa. Metà della grande pianura europea, dalla Russia centrale alla Germania, non era altro che una distesa di lava ormai indurita, da cui emergevano le macerie devastate. La gente, a piccoli gruppi, si raccoglieva in accampamenti rudimentali, intorno ai fuochi. Era una visione dell'era trogloditica. La civiltà europea era finita. Sconvolto, troppo stordito per capire, Rutter ordinò al pilota di proseguire il volo. Poco a poco circumnavigarono il mondo intero, e videro la portata della tragedia. Dovunque c'erano campi di lava, fiumi inariditi, oceani prosciugati. La navigazione era chiaramente finita. Spesso l'aria era appesantita dalle tempeste o dai velenosi fumi vulcanici. Di tanto in tanto, s'intravvedeva una fascia grigia che cingeva il cielo. Molto depresso, Rutter tornò al suo quartier generale londinese. «Angorstine,» disse lentamente, «c'è una sola mente autorevole rimasta alla Causa, ed è la mia! Tutti gli altri sono molti. Evidentemente, è necessario pianificare di nuovo il mondo: io e lei lo guideremo.» «Sarò sempre al suo fianco, signore,» rispose prontamente Angorstine. «Esclusivamente per l'utile che può ricavarne, amico mio, e non mi faccio illusioni in proposito. Comunque, è chiaro che potremo battere facilmente i pochi sopravvissuti. Possiamo costringere i detenuti dei Campi di Lavoro a costruire come non hanno mai fatto fino ad ora. È ciò che faremo! Il caso ha annientato tutti coloro con i quali lavoravo, e mi ha reso unico padrone del mondo.» Questa volta Angorstine non fece commenti. Guardava la fascia grigia attraverso il cielo. «Chissà che cos'è?» chiese pensieroso. Rutter scrollò le spalle spazientito. «La smetta di sprecar tempo in inezie e chiami la guardia. Debbo fare attuare dei nuovi ordini. Bisogna affrettare il completamento degli edifici. È necessario rastrellare altri operai oltremare per cominciare i lavori anche là, e dobbiamo prendere provvedimenti per conservare l'acqua. Sta diventando un problema.» «Forse Turner potrebbe spiegare quella banda grigia,» mormorò Angor-
stine, voltandosi. «E perché diavolo continua a preoccuparsene?» chiese Rutter. «Non ha sentito quel che ho detto?» «Sì, signore, ho sentito... ma vorrei spiegarmi quel fenomeno. Non è naturale, e tutto ciò che non è naturale mi preoccupa sempre.» «Allora la smetta di preoccuparsi e pensi al suo lavoro. In quanto a Turner, se lo scordi.» «Perché, signore? Ha detto lei stesso che è un uomo intelligente, eppure non lo ha mai fatto più chiamare, dopo aver dato l'ordine di frustarlo.» «È inutile mandarlo a chiamare. È troppo ostinato. E poi vi sono problemi più importanti. Si muova!» Angorstine salutò ed uscì; soprattutto per suo tramite si diffuse la notizia che Rutter era diventato padrone incontrastato del mondo. La cosa non fece molta impressione sui prigionieri dei campi di lavoro. Tanto, per loro le cose non potevano andar peggio. L'acqua era razionata, e ce n'era pochissima. Il cibo era costituito di solito da pane secco e da brodaglie di verdure rastrellate nei campi morenti. Tutto ciò che restava di veramente commestibile finiva a Rutter, Angorstine e pochi altri gerarchi. Nonostante le privazioni, Val ed i suoi compagni lavoravano energicamente, tenendo gli occhi fissi sulla grande fascia grigia che ogni giorno ingrandiva. Per il resto, il cielo era limpido, azzurro e assolato. Solo quel grande arco di vapore indicava quanto stava per accadere. Val si chiedeva se anche Rita l'osservava. Era difficile comunicare con lei, in quei giorni. Almeno era ancora viva: questo Val lo sapeva, e Rita sapeva della costruzione dell'Arca. Realizzando il piano concordato, Val e i suoi compagni costruirono uno dei nuovi edifici secondo le loro esigenze, munendolo di una chiglia e di un pavimento impermeabile all'acqua: in apparenza, nessuno s'era accorto di nulla. Le guardie non avevano motivo di sospettare qualche trucco. Sì, sembrava che andasse tutto bene, a parte la scarsità d'acqua. Lavorare dieci ore al giorno sotto il sole feroce, nella polvere, con le labbra screpolate e i muscoli doloranti, pesava anche sulle costituzioni più robuste, ma Ox non dava tregua a nessuno. Concedeva a se stesso le stesse razioni dei prigionieri, come se considerasse il campo come una fortezza assediata. Era sempre al suo posto, ligio al dovere. Trascorse un mese tormentoso. Intanto la fascia grigia nel cielo si era fatta più vicina, attirata dal raffreddamento della terra. La campagna, indurita e incrostata di lava, era cotta dal sole. Sotto c'erano i campi ed i pascoli
sepolti, probabilmente per sempre. Persino Miles Rutter cominciava a chiedersi se sarebbe mai riuscito a creare un nuovo impero in quella desolazione creata da lui stesso, dove la pioggia sembrava bandita per sempre. I distaccamenti di prigionieri che aveva spedito oltremare stavano morendo, riferivano i rapporti: morivano di sete o di fame. Altri distaccamenti erano stati attaccati dai superstiti cannibali delle eruzioni dell'Europa centrale. Solo quelli del Campo Quattro sapevano ciò che stava per accadere, e questo permetteva loro di sorridere con le labbra screpolate. Acqua! Ce ne sarebbe stata più che a sufficienza, tra breve! Acqua senza fine, e l'Edificio Numero Sette era pronto per galleggiare. Ora bastava un attento esame, per accertarne l'impermeabilità, e poi l'approvvigionamento. Erano due grossi problemi. Di tanto in tanto, quando capitava l'occasione favorevole, Val passava notizie a sua moglie. Una notte, fu seguito dalla figura furtiva di Bilworthy; ma questi andò nella direzione opposta, leccandosi le labbra aride. Arrivò alla porta del corpo di guardia e bussò. Dopo un momento l'uscio si spalancò. «Be', cosa vuoi?» Ox lo guardava dall'alto in basso. La figura poderosa era profilata dalla lampada a petrolio. L'elettricità, prodotta grazie all'acqua, non c'era più. «Ho... ho qualcos'altro da dirle, signore. Vale una lattina d'acqua. Non chiedo altro.» Bilworthy si passò le mani sulla tuta. «Hai le tue razioni,» ribatté Ox. «Abbiamo tutti un quarto di litro al giorno... né più, né meno.» Parve riflettere, poi all'improvviso allungò il braccio e tirò su per i gradini il gracile prigioniero, lo trascinò all'interno, lo scaraventò sul pavimento. Bilworthy restò accovacciato, impaurito. «Non ti posso vedere, ma tanto vale che ti ascolti,» disse Ox, sedendosi sul bordo del rozzo tavolo. «Cos'hai da dire questa volta?» «È... è il prigioniero Turner,» ansimò Bilworthy, toccandosi nervosamente le labbra e rialzandosi in piedi. «Sta tramando un altro tradimento.» «Oh... davvero?» Ox socchiuse gli occhi. «Come?» «Sta costruendo un'Arca.» «Cosa sta costruendo?» «Un'Arca. Come quella di Noé... dice che sta per arrivare un Diluvio. La fascia grigia nel cielo è acqua, e sta per ricadere sulla Terra.» «Oh, dunque è questo, la fascia grigia? Be'... continua, e non dimenticare niente, o ti prendo a calci in faccia.»
Poco a poco, con la voce rauca per la sete e l'eccitazione, Bilworthy raccontò l'intera storia. Alla fine, Ox si alzò, infilò con calma i lucidi stivali, indossò la giacca e indicò la porta. «Fuori. Mostrami quest'Arca... e sarà meglio per te se non avrai mentito!» Bilworthy guardò con desiderio il serbatoio dell'acqua. «L'a...acqua, capitano... non... non posso quasi parlare.» «Non ne hai bisogno, dopo tutto quello che hai detto. Avrai l'acqua più tardi. Prima voglio esser sicuro. Andiamo.» Ox trascinò Bilworthy giù per i gradini, tenendolo per la collottola, attraversò il campo e raggiunse il luogo delle costruzioni. Quando arrivarono all'Edificio Numero Sette, Ox entrò e accese la torcia elettrica. Dieci minuti di attenta ispezione lo convinsero. Uscì di nuovo e si fermò a riflettere. «Avevo... avevo ragione, vero?» incalzò Bilworthy, aggrappandosi a lui. «C'è posto per quasi cinquecento persone. E galleggerà...» «Ho gli occhi anch'io,» l'interruppe Ox. «E toglimi quelle luride mani di dosso. Non ci tengo.» Con un guizzo del braccio poderoso scagliò lontano Bilworthy, poi estrasse un fischietto dalla tasca e soffiò. Dopo un po', le guardie, che si erano vestite in fretta, accorsero sotto la luce delle stelle. «Chiamate qui tutti i prigionieri del campo,» ordinò Ox. «Immediatamente!» Vi fu subito uno scalpiccio, altri fischietti suonarono. Ox attendeva a gambe larghe, le mani sui fianchi, mentre gli uomini arrivavano barcollando, a piedi nudi, nelle rozze camicie da notte, disponendosi in colonna. Val, con le labbra contratte, fissava Bilworthy, rannicchiato dietro Ox. «Uomini,» disse lentamente Ox, sganciando la frusta dalla cintura e flettendola tra le mani poderose, «mi faccio un vanto di avervi sempre trattati con la giustizia di un soldato, da quando sono qui. Giusto?» Molte teste annuirono, lentamente. «Sono un tipo duro...» Ox scese i gradini dell'Edificio Numero Sette e cominciò a camminare lungo la fila. «Sono un tipo duro, dico, ma perché obbedisco agli ordini, alla lettera. Esiste un codice d'onore tra i veri soldati, come esiste tra i prigionieri e i lavoratori. Qui c'è un uomo che cerca di vendervi tutti per una lattina d'acqua in più!» Ox si girò e sputò nella polvere, ai piedi di Bilworthy. Bilworthy l'aveva seguito, come per cercare protezione. Sbarrò gli occhi, sbigottito del voltafaccia di Ox.
«Ma... ma, capitano, mi aveva promesso...» «Sì, ti ho promesso l'acqua,» assentì Ox. «L'avrai, ma non ti servirà a nulla. Sei un fetente, Bilworthy. Hai fatto la spia una volta, e adesso ci hai riprovato, per avere più di quello che ti spetta! Hai cercato di avere più acqua dei prigionieri e delle guardie!» «Dunque le ha detto dell'Arca?» chiese cupo Val. «Dell'Arca e del Diluvio. Di questo mi occuperò più tardi. In quanto a te, Bilworthy, conosco una sola punizione per un prigioniero che vende i suoi compagni, e cerca di ottenere più di quello che gli spetta.» Ox smise di giocare con la frusta e la fece roteare, strappando la camicia lacera dalla schiena di Bilworthy che cadde sulla polvere, urlando. «Acqua!» gridò. «Non volevo altro! Solo una goccio d'acqua!» «Un barattolo pieno,» disse Ox, e la frusta ruppe di nuovo il silenzio. «Acqua salata e puzzolente... il sudore della tua lurida pelle, mentre strisci per sottrarti ai miei colpi. Avanti... striscia! Striscia!» La frusta cadde più e più volte, con schiocchi violenti. I prigionieri stavano immobili, sudando, rabbrividendo ad ogni scatto del braccio possente. Gemendo, trascinandosi nella polvere, Bilworthy strisciò in un angolo, accanto all'Arca. Ox si fermò e schiacciò sotto i piedi le gocce di sudore di Bilworthy. «Non farò rapporto perché è l'unica cosa che avete pensato per salvarci dall'imminente Diluvio,» annunciò bruscamente Ox. «Non farò rapporto.. per ora. Prima dovete finirla a dovere, e fare un buon lavoro. Dovrete installare il timone, approvvigionarla, darle la forza motrice... la potrete fornire tutti. Come facevano sulle antiche galere, ricordate? Poiché avete deciso voi di costruirla, potrete imbarcarvi, a un certo prezzo; ed avrete il merito di aver salvato il Capo di noi tutti, quando verrà il Diluvio.» «Vuol dire che anche Rutter s'imbarcherà sull'Arca?» gridò Val. «Lui è il Capo, e verrà... con Angorstine,» scattò Ox. «Voi avete trovato la soluzione, e navigheremo al comando di Rutter, quando i cieli si apriranno. Finirete l'Arca sotto i miei ordini. Dieci ore al giorno... né più, né meno. Ed ora, andatevene!» Val esitò, stringendo i pugni. Poi l'esile mano bruna di Kang gli afferrò il braccio. «Fai come dice, amico mio,» mormorò il mongolo. «Lui si limita a obbedire al suo senso del dovere. Nessun uomo, qualunque cosa creda, può fare di più.» «Ma Rutter...» Val era inorridito.
«Muovetevi!» urlò Ox. «Anche tu!» Raggiunse la figura tremante e seminuda di Bilworthy, la scaraventò in fila. «Avanti, marsc! Non fate caso ai sassi! Consideratevi fortunati di avere i piedi!» I suoi stivali lustri luccicavano, mentre segnava il passo. Capitolo 6 Il giorno dopo, il sole fu oscurato per la prima volta, dopo molte settimane; il cielo sembrava una grande conca capovolta di un grigio scuro. Un po' ristorati dall'assenza del sole, ma fisicamente sfiniti, Val e gli altri continuarono a lavorare esclusivamente sull'Arca. Gli uomini erano quasi tutti amareggiati e furiosi all'idea di dover accettare a bordo Rutter. Non ascoltavano di buona grazia i consigli del piccolo mongolo, che sembrava vedere chissà quali virtù nel gigante dagli stivali lucidi che li sorvegliava instancabile. Secondo i suoi ordini, venne ideato un sistema di remi, e nell'Arca furono fissati i sedili per gli sventurati che avrebbero dovuto remare. Furono costruiti anche rozzi letti, sedie e tavoli. C'erano supporti mobili per le lampade a petrolio, in modo che rimanessero ritte in ogni caso. Furono installati riflettori a batteria. L'interno dell'Arca venne diviso da paratie. Era evidente che Ox pensava alle donne superstiti e intendeva mantenere tutto in ordine. Trascorsero quattro giorni, durante i quali Miles Rutter tentò di trovare un modo per salvare il suo impero in sfacelo. Gli erano arrivati rapporti ufficiosi, portati da piloti venuti da lontano: in Europa pioveva. L'annuncio lo fece sorridere. Risolto il problema dell'acqua, presto avrebbe potuto stringere di nuovo la morsa. Dall'Europa giunsero altre nubi che si addensarono per giorni e notti, e in tutti i campi, i prigionieri lavoravano in un eterno crepuscolo. Poi, quando terminarono il turno, il quarto giorno, piccole gocce cominciarono a cadere sui loro dorsi scoperti e sulla polvere. «Piove!» urlò uno degli uomini. «Piove!» Si fermò, con il volto levato verso il cielo nero, con la bocca aperta per catturare le gocce d'acqua. Poi il pugno poderoso di Ox lo scaglio di nuovo in fila. «Continua a marciare, tu! Ti riempirai la pancia più tardi! Adesso, marsc!» Macchie di pioggia e spruzzi di fango deturparono gli stivali immacolati
di Ox, mentre riconduceva la colonna al campo. Poi si fermò a braccia conserte, scrutando il cielo nero. Poi si voltò e vide che anche Val guardava in alto. «Sembra che avessi ragione tu, Turner,» disse laconicamente. «Entra.» Nel lungo edificio, Val fu accolto immediatamente da un fuoco di fila di domande. Tutti ignoravano la presenza delle guardie, che comunque erano interessate quanto i prigionieri agli eventi imminenti. «Sta arrivando, Val?» chiese Hoyle. «È l'inizio del Diluvio?» «Sì, amici, il Diluvio,» rispose Kang dal suo angolo. «Le ultime ore di una fase di dominazione brutale. State certi che finiremo per trovare la salvezza.» «Vorrei esserne sicuro anch'io,» disse ansiosamente Val, mentre la pioggia prendeva a tambureggiare furiosamente sul tetto. «Si preparava da settimane... i mari e i fiumi ritornano...» «Ehi, uomini!» Ox era di nuovo sulla porta: l'acqua gli colava dal mento. «Fuori, a bere a volontà, tutti quanti! Alcune buche si sono riempite d'acqua! Sbrigatevi!» Fece schioccare la frusta per accelerare la corsa. Quando Bilworthy gli passò accanto correndo, Ox gli sferrò un calcio che mandò l'ometto lungo disteso con la faccia nel fango. Si rialzò, spostò a gomitate un vecchio prigioniero, si buttò sulla buca più vicina e immerse la faccia nella pozzanghera. Vi fu una vampata nel buio... lo sparo della pistola di Ox. Bilworthy si accasciò, con la testa affondata nell'acqua. Vi fu un momento di silenzio. Poi Ox scese i gradini sgocciolanti, sollevò dal fango il cadavere di Bilworthy e lo gettò da parte, come se fosse un sacco. Fece un cenno al vecchio tremante. «Avanti, nonno, bevi,» ordinò. Poi, guardando gli altri uomini, urlò: «Qui ciascuno berrà a sazietà... né più, né meno... E sparerò a chiunque cercherà di prendere più della sua parte. Adesso sbrigatevi,» aggiunse, mentre la pioggia aumentava d'intensità. Gli uomini, finalmente, si saziarono, e ritornarono al campo, sotto la pioggia torrenziale. Ox li seguì, osservò per un momento le loro figure sgocciolanti, poi disse seccamente: «Nessuno si trasferisce all'Arca fino a quando darò io l'ordine. Intesi?» Uscì e sbatté la porta. Sul lontano Marte, il Sovrano era turbato, tanto che aveva interrotto i preparativi per il viaggio alla Terra ed aveva ripreso ad esaminare i suoi
apparecchi. Come al solito, i dignitari lo attorniavano, senza comprendere il problema che evidentemente assillava la più grande intelligenza della loro razza. «Non capisco,» dichiarò alla fine il Sovrano, aggrottando la fronte. «Si direbbe che lo strumento sia guasto, perché registra tutti gli altri abitanti della Terra, quello eccettuato.» «A chi ti riferisci, sire?» chiese uno dei dignitari. «Non ve l'ho detto?» Il Sovrano parve stupito per un momento, poi scosse il capo. «Ma no, naturalmente. L'avevo dimenticato. Ora ve lo mostrerò.» Regolò l'apparecchio telescopico, e dopo un po' sullo schermo apparve l'immagine fiocamente illuminata di un ometto dal volto bruno e dagli occhi obliqui. Era accovacciato, e sembrava meditare. «Ecco l'essere che non riesco a sondare,» mormorò il Sovrano. «Come sapete, ha recentemente detto molte cose agli sciocchi raccolti intorno a lui, e senza dubbio è una creatura d'intelligenza non comune. Anzi, è più intelligente della maggioranza dei terrestri. Tuttavia non si registra il suo quoziente mentale! Tutti i miei tentativi per rilevarlo danno zero. Guardate voi stessi.» Il Sovrano accese il meccanismo sensibile, ma l'ago non si mosse... eppure, quando l'apparecchio veniva puntato su uno qualunque degli altri uomini, reagiva normalmente. «Strano,» mormorò il Sovrano. «Stranissimo!» «Io non direi solo strano, sire,» commentò il dignitario che era stato accusato di pessimismo. «Sarei più incline a considerarlo un portento.» «Un portento? E in che senso?» «Un presagio di catastrofe, per quanto ci riguarda. Quel terrestre è così intelligente da metterci fuori pista, quando cerchiamo di leggere la sua energia mentale. Questo sembra indicare che sappia della nostra esistenza, e forse dei nostri piani.» «Assurdo! Non è possibile.» Il dignitario taceva, fissando lo schermo. I suoi colleghi si scambiarono occhiate. Poi uno parlò. «Possiamo ascoltare una registrazione di ciò che ha detto in passato, signore? Forse si potrà ricavarne qualcosa.» «Se volete,» rispose il Sovrano, girandosi verso l'apparecchio del sonoro. «Ma non credo che scopriremo molto. Quel terrestre è imperscrutabile. Dice di chiamarsi Kang, di essere mongolo, e per qualche ragione sembra
in grado di prevedere esattamente ciò che accadrà sulla Terra. Non mi rallegra affatto che non abbia previsto il nostro avvento.» «Forse,» disse il pessimista, «perché non ci sarà. Non possiamo permetterci di affrontare un fattore incognito in un progetto importante come il nostro, sire.» Il Sovrano regolò l'apparecchio e poi si voltò, con gli occhi scintillanti. «Ti avevo avvertito in altre occasioni, amico mio, per il tuo pessimismo nei confronti delle incognite! Non voglio più sentirne parlare. Anche se c'è un'incognita, dovremo affrontarla, perché l'emigrazione sulla Terra è la nostra unica speranza di sopravvivenza... Ah, e adesso sentiamo che cosa ha detto questo Kang.» I dignitari tacquero, riascoltando le osservazioni del mongolo. La registrazione riguardava soprattutto le sue osservazioni a proposito del Diluvio e le varie prove storiche del cataclisma avvenuto agli albori della vita della Terra. Quando la registrazione terminò, i marziani si scambiarono occhiate interrogative. «Non se ne ricava nulla,» disse deciso uno di essi. «Quell'essere è solo uno dei tanti esistenti sulla Terra è dà l'impressione di una grande intelligenza, addirittura di prescienza, perché ha letto molto. Io non vedo certamente motivo di turbarci, sire.» «Allora puoi spiegare perché non riusciamo a recepire il suo quoziente d'energia mentale?» chiese il Sovrano. «Posso pensare ad una sola causa possibile,» disse un altro. «Se ha subito in passato un'operazione alla testa, un intervento chirurgico, può darsi che sopra il cervello, sul cranio, abbia una lamina metallica. Questo impedirebbe che i pensieri venissero irradiati con energia sufficiente a venire captati dai nostri rilevatori.» Il Sovrano rifletté, sorpreso, poi annuì lentamente. «Sì, è una possibilità. L'altra è quella cui ho già accennato... che sappia quanto stiamo cercando di fare.» «È molto improbabile, sire. La presenza della nostra civiltà è insospettabile, nascosti come siamo nel sottosuolo. Sono sicuro che nessun terrestre possiede strumenti abbastanza potenti per scoprire la nostra presenza. Anzi, sappiamo con certezza che è vero, perché gli studi condotti su quegli esseri nel corso degli anni hanno rivelato che credono il nostro mondo desertico e completamente disabitato.» «Sì... per quanto riguarda i terrestri,» ammise il Sovrano. «Ma mi domando se... se altri mondi...»
Gli Anziani trasalirono. Era vero che, troppo presi dal progetto di annientare i popoli della Terra, per potersi impadronire facilmente del pianeta, non avevano mai pensato agli altri mondi del Sistema... almeno, non in tempi recenti. Naturalmente, li avevano studiati tutti, in epoche diverse, ed avevano registrato tutto ciò che avevano scoperto. «Non c'è vita, sugli altri mondi,» osservò il pessimista. «Almeno noi non l'abbiamo scoperta. Il più vicino al sole è un sepolcro di fuoco e di ghiaccio; il secondo è vuoto... un mondo di fitta vegetazione e di nubi dense, che per fortuna i nostri apparecchi possono penetrare. Poi viene la Terra, e successivamente questo nostro pianeta. In quanto ai mondi esterni...» «Sì, i mondi esterni,» l'interruppe il Sovrano, riflettendo. «Nel corso delle nostre osservazioni abbiamo prestato scarsa attenzione a quei pianeti lontani, credendoli troppo remoti per meritare uno studio approfondito. Eppure, forse è stato un errore; pensate, infatti, che su ognuno di quei mondi esterni, ad eccezione del più piccolo e più remoto, troviamo condizioni molto simili a quelle ora esistenti sulla Terra. Densi banchi di nubi, strati di vapore.» S'interruppe, immerso nei suoi pensieri. «Non riesco a vedere il nesso, sire,» osservò finalmente uno degli Anziani, e il Sovrano alzò bruscamente gli occhi. «Il nesso è questo: sui pianeti lontani, un Diluvio è una cosa comune. Si inquadra nel particolare stato di sviluppo di tali mondi, il che significa che i loro abitanti sono abituati alle condizioni del diluvio, e sanno come affrontarli. Bene, dunque, presumiamo che uno di costoro si sia messo in mente di aiutare il popolo della Terra. Dovrebbe essere una creatura che non viene rilevata, mentalmente, dai nostri strumenti... perché questi sono regolati esclusivamente sui terrestri.» «È una teoria interessante, sire, ma non riesco a immaginare perché un abitante di un altro pianeta tenga tanto ad aiutare i terrestri nell'attuale situazione. Perché dovrebbe farlo?» «Per puro sentimentalismo. Noi di questo mondo abbiamo superato da tempo tutte le emozioni, incluso il sentimentalismo, ma sono sicuro che un essere guidato dalle emozioni potrebbe tentare di aiutare i terrestri a sopravvivere.» «E distruggere le nostre speranze!» «Procrastinarne la realizzazione, certo. Considererò distrutta la speranza solo se i superstiti saranno numerosi e capaci di ricostruire la loro civiltà. Abbiamo bisogno che ne restino solo poche migliaia... meglio ancora che non ne resti nessuno. E quei pochi dovranno essere ridotti allo stato di
schiavi pronti ad obbedire ai nostri comandi. Questo sarà semplice.» «Quindi,» disse il pessimista, «ci troviamo di fronte a un essere di un altro pianeta, che se ha attraversato lo spazio deve possedere una notevole intelligenza... oppure è un terrestre inaspettatamente intellettuale, capace di impedirci di leggere il suo quoziente mentale, per caso o di proposito. Qual è la soluzione, signore?» «Eliminarlo,» suggerì prontamente un altro Anziano. Il Sovrano gli lanciò un'occhiata indispettita. «Eliminarlo? Come? Come, se la sua mente è una muraglia solida che non possiamo abbattere? Non possiamo dagli ordini mentali, ed a questa distanza non possiamo produrre effetti fisici tali da portare alla sua eliminazione. È al sicuro da noi. Abbiamo due alternative: possiamo partire immediatamente per la Terra e, nella confusione dell'imminente Diluvio, trovare l'Arca ed annientarla; oppure esaminare il primo dei pianeti esterni, il più grande di tutti, e vedere se vi esistono esseri simili a questo Kang. Credo che potremo sondare le loro radiazioni mentali e determinare l'esatta lunghezza d'onda per influire sul loro tipo di cervello. Evidentemente, la prima cosa da fare è uno studio del pianeta gigante.» «Non sono d'accordo,» disse l'Anziano. «Sarebbe più semplice raggiungere la Terra e localizzare l'Arca. A quanto abbiamo saputo, è l'unica del suo genere, e raccoglie i soli superstiti di tutta la Terra... o almeno sarà così quando verrà il Diluvio. Tutti gli altri esseri viventi, umani ed animali, verranno sommersi. Non abbiamo nulla da temere da un'unica Arca, senza dubbio.» «È vero,» disse un altro. «È la nostra grande occasione per distruggere ciò che resta della razza umana, ed è meravigliosamente facile.» «Troppo facile,» rispose pensieroso il Sovrano. «Potremmo cadere in una trappola. Riflettete: se questo Kang viene da un altro mondo, la sua conoscenza scientifica deve essere notevole, e deve esserlo anche quella dei suoi simili, sul suo pianeta patrio. Debbono sorvegliare la Terra, e sicuramente vedranno arrivare la nostra flotta. Pensate che resteranno passivi, nel vedere navi spaziali sconosciute scendere sul pianeta che uno di loro sta cercando di salvare? No. Potremmo trovarci di fronte a facoltà scientifiche superiori, ad un'armata intera che ci decimerebbe. La cosa migliore è studiare prima gli altri pianeti.» I dignitari annuirono, sicuri che il loro Sovrano fosse più lungimirante di loro. Rimasero in silenzio, e poco dopo sullo schermo apparve il colossale Giove, cinto dalle fasce di nubi. Poi, con un rapido ingrandimento, l'inqua-
dratura penetrò attraverso le turbinanti nuvole verdi, fino a quando si scorse il paesaggio gioviano, grigio come un crepuscolo di dicembre. Quello che si offriva agli occhi degli scienziati marziani era un panorama inospitale e brutale. Altipiani colossali, montagne basse e massicce, oceani foschi coperti di vapori verdi... e non c'era traccia di vita. Non un cespuglio, né un albero, né un essere vivente. Un mondo con un'atmosfera d'idrogeno e di ammoniaca, incredibilmente desolato ed ostile. Dopo un'ora di meticolose ricerche con il potentissimo telescopio, il Sovrano emise un sospiro di sollievo. «A quanto pare, abbiamo poco da temere, amici miei,» disse. «La mia intuizione era errata. Non vi sono neppure città sotto la superficie, se possiamo credere alla radioscopia.» «In ogni caso,» osservò il pessimista, «un essere di quel mondo, dall'atmosfera d'idrogeno ed ammoniaca, non potrebbe respirare l'aria terrestre.» «Questo problema si potrebbe risolvere facilmente con un intervento chirurgico sui polmoni,» ribatté il Sovrano. «Tuttavia, non dobbiamo preoccuparci. Quel mondo, senza dubbio, è completamente morto. Forse... uno degli altri pianeti più lontani?» Regolò ancora i meccanismi, e l'inconcepibile potenza del telescopio inquadrò prima Saturno, poi Urano, e infine Nettuno. Plutone venne trascurato, poiché si sapeva già che era di roccia sterile. Sugli altri mondi, comunque, le scene differivano ben poco dal panorama di Giove. Erano mondi spogli, fumanti, rocciosi, ancora troppo giovani, in termini d'evoluzione planetaria, per ospitare forme di vita intelligenti. «Il che significa,» disse alla fine il Sovrano, «che questo Kang è un terrestre. Ma vorrei conoscere le sue capacità, vorrei poterlo eliminare.» Spense il telescopio e rifletté in silenzio. Il pessimista intervenne: «Ormai non c'è nulla che ci impedisca di raggiungere la Terra e di distruggere l'Arca. Nessuno tenterà di fermarci.» «È vero. Eppure...» Il Sovrano si agitò, irrequieto. «Per qualche ragione, mi sento insicuro,» mormorò. «Per esempio, questo Kang non è un personaggio eccezionale, tra gli uomini, altrimenti coloro che lo attorniano non lo avrebbero accettato tanto facilmente. Forse ve ne sono altri come lui. Se è davvero un mongolo, come ha detto, allora vi sono decine di migliaia di individui come lui, tanti che non abbiamo neppure mai tentato di rilevare il loro quoziente mentale. Può darsi che sulla Terra vi sia una razza di esseri supremamente intelligenti, e Kang ne fa parte. Dice di essere un mongolo solo perché somiglia agli abitanti di quella regione, ma questo, forse, può essere solo un espediente per nascondere la sua vera identità. Se vi è una
razza di esseri intelligentissimi, che i nostri strumenti non hanno scoperto è meglio che non li incontriamo... e li incontreremmo se distruggessimo l'Arca.» «E allora cosa facciamo?» chiese uno degli Anziani, chiaramente spazientito. «Non facciamo altro che discutere e teorizzare, senza trovare un piano preciso, sire...» «C'è un solo piano preciso,» l'interruppe il Sovrano. «Quello che ho deciso ora. Dobbiamo aspettare che il Diluvio copra la Terra, e vedere che cosa accade. Può darsi che dalla superficie delle acque emerga una superrazza, e vedremo cosa ci troveremo di fronte. Sì, è giusto. Attendiamo il Diluvio: poi decideremo. Nel frattempo, possiamo continuare a costruire la flotta spaziale. Non dobbiamo partire per la Terra se prima non sappiamo che cosa ci aspetta.» «D'accordo,» risposero i dignitari: come al solito, questo indicava che erano pronti a inchinarsi alla volontà del Sovrano. Sulla Terra, la porta del dormitorio dei prigionieri si era appena chiusa alle spalle di Ox. Sebbene le guardie dessero il solito ordine di spegnere le luci gli uomini lasciarono subito dopo le brande, raccogliendosi in cerchio ad ascoltare il martellare insistente della pioggia sul tetto. Pareva crescere d'intensità ad ogni secondo. Si era alzato anche un vento leggero, che portava scrosci d'acqua contro le finestre, e turbinava sul terreno, fiocamente illuminato in vari punti dai lampioni a batteria. «Piove parecchio,» disse Hoyle, guardando fuori. «Immagino che in poche settimane, se continua così, allagherà il mondo.» «Allora hai un'immaginazione straordinaria,» commentò secco Val. «Eh? Cosa vorresti dire?» «Santo cielo!» esclamò Val Turner. «Non penserai che questo sia il Diluvio, per caso? Sono solo le prime gocce d'acqua, in confronto a quello che verrà! Questo è il maltempo normale di una brutta giornata d'inverno! No... aspetta che arrivi il vero Diluvio, e capirai la differenza. Non ce ne staremo qui seduti tranquilli, allora, credimi. Avremo una paura tremenda!» «Quel che vorrei sapere,» scattò uno dei prigionieri, «è perché dobbiamo aspettare gli ordini di Ox! Io direi che dovremmo andare nell'Arca e farla finita.» «Ha ragione lui, Val!» «Che cosa aspettiamo?»
«Un minuto, ragazzi...» cominciò Val. Poi s'interruppe e alzò la testa di scatto, quando un nuovo suono superò il tambureggiare della pioggia. Era un rombo ancora lontano, come l'avvicinarsi di un tremendo uragano. Il terreno cominciò a tremare. I rovesci crebbero, in un frastuono assordante. «Il Diluvio!» urlò Hoyle. «Sta arrivando!» Val si guardò intorno. «Fuori!» ordinò seccamente. «Non c'è tempo di aspettare Ox.» Gli uomini più vicini alla porta la spalancarono e scesero di corsa i gradini di legno. All'aperto, c'era un frastuono simile a quello delle onde di un oceano infuriato che si infrangessero contro gli scogli. Poi, all'improvviso, venne il Diluvio! Venne dalla tenebra urlante, una colossale marea ruggente d'acqua vomitata dal cielo. Di colpo, un immane Niagara piombò sul campo, travolgendo gli uomini, abbattendo le recinzioni, schiacciando le baracche come se fossero di carta. Val, trascinato dall'ondata furiosa, venne scagliato di nuovo nel campo. L'acqua, fredda e schiumosa, gli passò sopra la testa. Risalì ansimando e si trovò a lottare tra il legname sfasciato. Una pioggia d'incredibile violenza gli batteva sulla testa, e quasi tornava a sommergerlo. «Aiuto... aiuto!» gli giunse un grido desolato, da poco lontano. «Aiutatemi!» Val, lottando con le acque, arrivò appena in tempo per strappare via una figura che si dibatteva freneticamente sotto una pesante trave. Era Kang. Ne riconobbe la voce: non si vedeva quasi nulla. «Va meglio adesso?» ansimò Val, tenendo la testa dell'ometto sopra la superficie dell'acqua. «Grazie, amico mio,» disse il mongolo, semisoffocato. «Sei... sei molto forte. Non sai che cos'hai fatto... salvandomi.» «Cos'ho fatto? Ti ho salvato la vita, ecco tutto.» Val si guardò intorno ansiosamente, nell'oscurità urlante. Più forte del gorgogliare delle acque e del sibilo della pioggia c'era un altro suono... le urla degli uomini e delle donne. Rita! L'aveva dimenticata completamente, nell'eccitazione del momento. «Mia moglie!» esclamò inorridito. «Debbo trovarla. Kang, aggrappati qui e...» «L'Arca!» l'interruppe Kang. «Guarda! Le luci dell'Arca! Accetta il mio consiglio, dirigiti verso l'Arca, prima di cercare tua moglie. Sarà più semplice. L'Arca ha i riflettori, ricordalo. Non troverai mai tua moglie, altrimenti, in questo buio e in questa confusione.»
Solo la fiducia che provava per lo strano mongolo spinse Val ad accettare il consiglio... Cominciò a nuotare energicamente verso le luci sobbalzanti dell'Arca enorme, che galleggiava sulle acque rombanti. Aiutò Kang, trascinandoselo dietro. Val pensò che alcuni degli uomini dovevano aver raggiunto l'Arca con straordinaria rapidità, per averla messa in movimento con tanta prontezza. I fari frugavano le acque e inquadravano i superstiti. Dovunque si scorgevano teste che affioravano, braccia che si dibattevano. Uomini e donne lottavano disperatamente per raggiungere il rifugio galleggiante. L'Arca si avvicinò, e la luce dei riflettori, riflessa dalle acque, mostrò uno spettacolo sorprendente. Una figura gigantesca stava ritta sulla porta principale, a gambe larghe, con la pistola in pugno, mentre l'acqua gli scorreva dai capelli irti. «Ho detto prima le donne!» urlò, colpendo con un pugno la mascella di un uomo che cercava di aggrapparsi alla soglia. «Tornate indietro e aiutate le donne. Trascinatele a bordo! Muovetevi!» Stando in piedi con difficoltà, osservava con occhi d'aquila, mentre gli uomini si davano disperatamente da fare per issare a bordo le donne che galleggiavano nei pressi. «Ox,» ansimò Val. «È arrivato qui per primo. Non avevo mai capito se era un uomo o un mostro; ora so che c'è una scintilla d'umanità sotto la sua corazza. Ehi, Ox! Ehi!» Capitolo 7 A quel grido, Ox si girò di scatto e scrutò nella luce dei riflettori. Poi la sua voce proruppe come un ruggito nel frastuono della pioggia. «Prova a salire prima delle donne, e ti sparo!» «Non voglio salire,» gridò di rimando Val. «Ma c'è qui il piccolo Kang! Sta per annegare, ed è abbastanza intelligente perché valga la pena di salvarlo.» «D'accordo!» Ox si chinò e issò di peso il piccolo mongolo. Questi mormorò un ringraziamento e si buttò barcollando nell'interno caldo e illuminato dell'Arca. «Questo non vale per te, Turner!» gridò Ox. «Tu i muscoli ce li hai. Dai una mano a mettere in salvo le donne.» «Ma tu ti sei messo al sicuro, Ox!» gridò uno degli uomini in acqua. «Silenzio, tu. Sono venuto qui prima per assicurare la disciplina. Devo
fare il mio dovere. Ho visto che stava per arrivare il Diluvio e ho preparato tutto, mentre voi idioti vi chiedevate cosa dovevate fare. E poi ho le donne da proteggere, con voi mascalzoni in giro. Non tollererò scherzi su quest'Arca, credetemi! Bene, fate salire altre donne! Non c'è tempo da perdere!» concluse con un muggito, mentre un'altra enorme ondata piombava tonando nel caos. Val riaffiorò, con i polmoni in fiamme. Questa volta, del campo non era rimasta traccia. Il mondo era un inferno ruggente di pioggia, uragano, corpi che si dibattevano. L'Arca resisteva indisturbata, e i suoi oblò illuminati sembravano occhi attenti. Più volte, Val afferrò una donna che si dibatteva e la issò verso la porta, mentre Ox l'abbrancava saldamente e la tirava a bordo. Finalmente Val afferrò la donna cui più teneva al mondo... Rita, che era sul punto di soccombere allo sfinimento. Con cura anche più grande, la issò a bordo. «Vacci piano con lei, Ox,» gridò ansiosamente. Ox la raccolse. «Cos'è una donna più delle altre?» chiese acido. «Se anche è tua moglie, non è speciale... almeno per me. Continua a lavorare!» Val sorrise amaramente. Riprese la sua fatica, fino a quando parve che tutte le donne sopravvissute al Diluvio fossero ormai al sicuro. «Bene, uomini!» gridò finalmente Ox. «Salite... prima i vecchi.» Si spostò, senza far nulla per aiutare, mentre gli uomini si issavano sul pavimento d'acciaio, nella luce e nel tepore. Val salì per ultimo. Si raddrizzò, ansimante e bagnato fradicio. Ox, con l'uniforme bagnata appiccicata al corpo, passò la pistola a Kang che gli stava accanto in silenzio. «Kang, ti nomino temporaneamente mio vice,» disse. «Hai più buon senso di tutti questi maiali messi insieme. Fai in modo che nessuno muova l'Arca fino al mio ritorno.» Si piantò le mani sui fianchi e si guardò intorno. «Voglio un uomo con i muscoli forti e che non abbia paura di venire con me,» esclamò. «Chiedo un volontario.» «Perché?» chiese Val. Ox indicò qualcosa, attraverso la pioggia. «Vedi quella luce laggiù? È il quartier generale, su un'altura. Là ci sono Rutter e Angorstine, i miei superiori. Ho il dovere di portarli sull'Arca, ma l'Arca non può avvicinarsi tanto. C'è bisogno di me e di un altro uomo robusto.» Ox s'interruppe, con un sogghigno. «Io conosco solo un uomo robusto, qui,» aggiunse. Val scosse il capo. «Ti riferisci a me, suppongo. Niente da fare, Ox! So-
no stati Rutter ed Angorstine a causare questo disastro, e possono perirci in mezzo.» Val si voltò, e gli occhi freddi di Ox lo seguirono. «Quali che siano le cause, Turner, ho il mio dovere da compiere. Personalmente, non apprezzo più di te questo inferno... ma ho giurato di essere fedele alla Causa fino alla fine. Chiedo ancora un uomo,» finì rabbiosamente. «Oppure due uomini, là fuori, qualunque cosa rappresentino, dovranno annegare?» «Lascia che affoghino,» rispose Val, sedendo su una cassa e strizzandosi i calzoni. «Non puoi, Val,» disse Rita, avvicinandosi. «Se puoi salvare due vite devi farlo, anche se sono i tuoi peggiori nemici.» «Tua moglie ha ragione, amico mio,» mormorò Kang, annuendo lentamente. Val si guardò intorno cupamente, poi si alzò. «Sta bene,» ringhiò. «Ma non capisco perché diavolo sono così sentimentale. Se portiamo quei due a bordo dell'Arca, non ci sarà mai più pace.» Si strappò di dosso la camicia lacera, e si tuffò nelle acque turbolente. Dopo un attimo, Ox lo seguì. Nuotarono energicamente, senza parlare, e coprirono quel miglio d'acque ruggenti e di pioggia battente in un buon tempo; alla fine, incespicando, salirono il pendio dell'isola su cui era situato il quartier generale. Avevano appena varcato la soglia, quando Rutter si precipitò loro incontro, seguito da Angorstine. Erano entrambi pallidi e visibilmente sconvolti. «È il Diluvio, vero?» chiese Rutter. «Che tu hai scatenato,» commentò acido Val. «L'unica cosa che mi dispiace è che le acque non ti abbiano travolto.» «È il Diluvio, sissignore,» rispose Ox, salutando militarmente. «Se riesce ad arrivarci a nuoto, a un miglio di qui c'è la salvezza; e se non sa nuotare, l'aiuterò io.» «Perché diavolo non ha portato una barca?» comandò Rutter. «Impossibile, signore... mi dispiace. Le condizioni sono pessime. Il prigioniero Turner ed io daremo una mano.» «Davvero?» Rutter guardò Val. «Tutto quello che tu vuoi, Turner, è un pretesto per annegarmi.» «È vero,» riconobbe Val. «Ma il buon senso, nel mio caso, non può avere la meglio. Uccidere a sangue freddo si addice più a te che a me.» «Razza di impudente...»
«Non c'è tempo da perdere, signore,» interruppe Ox. «Le acque salgono in fretta.» «Vado immediatamente,» disse Angorstine, togliendosi la giacca. «Io so nuotare.» Balzò verso la porta e si preparò a tuffarsi, ma Ox lo trattenne per un braccio. Con un pugno violento fece barcollare Angorstine, che perse l'equilibrio, piombò nella marea ruggente e sparì. «È stato un assassinio!» urlò Rutter. «L'ha affogato apposta!» «Proprio tu parli di assassinio,» commentò cinicamente Val. «Non è stato un assassinio,» dichiarò Ox. «Ha cercato di mettersi in salvo per primo, senza permesso del suo superiore. Questo è tradimento. Il tradimento è punibile con la morte. Ho fatto solo il mio dovere.» Rutter lo guardò un momento ad occhi sbarrati, sbalordito da quell'implacabile dedizione al dovere. Val tacque, ammirando l'incrollabile fedeltà ai principi. Poi Rutter si decise. Si tolse la giacca e si immerse nervosamente nell'acqua. Subito, Ox si portò accanto a lui, da una parte, Val dall'altra. Sorreggendolo, trascinarono il dittatore terrorizzato attraverso quel miglio di tempesta tonante, e alla fine lo issarono nell'Arca, dove giacque ansimante sul pavimento. Ox si voltò, richiuse la porta, riprese la pistola, poi affrontò i superstiti. «Adesso ricordate questo!» abbaiò. «Anche tu, Turner! Rutter è ancora il nostro padrone. Adesso io sono il suo aiutante, poiché Angorstine è disperso, ed io eseguirò gli ordini alla lettera. Quando le acque si abbasseranno, il regime continuerà, e finché Miles Rutter vivrà, io gli obbedirò. Intesi?» «Con quello lì chiuso qui dentro insieme a noi?» ruggì Hoyle. «Un accidente! Non vivrà abbastanza per vedere abbassarsi le acque, Ox. Lo liquideremo, in un modo o nell'altro... e anche te!» Ox socchiuse gli occhi. «Adesso ascoltatemi, tutti quanti! Il minimo attentato contro Miles Rutter o contro di me, da parte di un uomo o di una donna, sarà punito con la morte. Mettetevelo bene in testa. Adesso, uomini, prendete i remi e cominciate a remare! Tu, Hoyle, vai al timone. Voi, dividetevi. Gli uomini da una parte, le donne dall'altra parte dei divisori. Sbrigatevi! Dopo vi asciugherete. Tu tienili tranquilli, Turner. Ti riterrò responsabile.» Val annuì lentamente. «Farò del mio meglio, Ox, perché sono sicuro che sei un essere umano.» Guardò cupamente Rutter e poi si voltò e cominciò a mettere ordine. Grazie alla preveggenza di Ox, che aveva costretto i prigionieri ad equi-
paggiare l'Arca, il necessario non mancava. Tuttavia stabilì un razionamento per tutto; e per la prima volta in vita sua, Rutter fu costretto ad accettare le razioni. Era cambiato anche lui. Era in pericolo di vita ad ogni istante e lo sapeva, nonostante la vigilanza instancabile di Ox. Val era sicuro che dopo un po', tutti avrebbero lasciato in pace Rutter, purché se ne stesse tranquillo; ma era da vedersi se si sarebbero inchinati ai suoi ordini. Anzi, non c'erano dubbi. Non ci sarebbe stato nulla da fare. I marziani osservavano ansiosamente la Terra che, con il Diluvio, era divenuta poco più di un'idrosfera. Nello schermo telescopico, si scorgeva un mondo completamente avvolto da fasce di nubi, e quando i raggi X penetravano oltre quella coltre, inquadravano infinite acque ondeggianti, su cui galleggiava solo l'Arca. «È stato un bene che non siamo partiti troppo presto per la Terra,» commentò il Sovrano, quando quelle scene si protrassero per giorni e giorni. «Non possiamo far nulla con un mondo d'acqua, dove sembra siano rimaste solo le vette delle montagne. Dobbiamo attendere almeno che le acque si abbassino.» «E l'Arca?» chiese sottovoce uno dei dignitari. «A quanto sembra, contiene tutti gli esseri viventi superstiti del pianeta. Pensi ancora che dovremmo astenerci dal distruggerla?» «Attacchiamola,» insistette un altro. «Possiamo raggiungere la Terra in poche ore e distruggere quell'oggetto, e poi la Terra sarà veramente deserta... e noi potremo prenderne possesso appena le acque si abbasseranno.» Il Sovrano non rispose. Guardava fissamente lo strumento che registrava le frequenze mentali. Era ancora puntato sul lontanissimo Kang, come la volta che il Sovrano non era riuscito a leggere l'energia mentale del mongolo; ma adesso l'ago, misteriosamente, aveva reagito, e indicava 52, un punteggio di gran lunga superiore a quello di ogni altro terrestre. «Guardate!» esclamò sbalordito il Sovrano, tendendo la mano. «Finalmente il nostro misterioso Kang viene percepito! Perché? Che cosa ci ha schiuso la sua mente?» «Che c'importa?» commentò un dignitario. «Ora possiamo leggere la sua mente... Oppure possiamo ascoltare ciò che sta dicendo?» «È meglio leggergli nella mente,» rispose pronto il Sovrano. Si accostò agli strumenti e si mise al lavoro. Immediatamente i raggi sensibili attraversarono l'abisso dello spazio, e inquadrarono Kang. Intanto, altri Anziani manovravano il telescopio, e alla fine inquadrarono Kang. Non stava par-
lando. Non faceva nulla, anzi. Era seduto in un angolo dell'Arca, circondato da uomini e donne, e teneva gli occhi chiusi, in una profonda concentrazione. «Un'eccellente occasione per scoprire qualcosa,» disse il Sovrano, con un'occhiata allo schermo. Poi rivolse l'attenzione sul complesso altoparlante che, per mezzo di trasformatori, convertiva i pensieri di Kang in vibrazioni. Tradotti in suono, non avevano senso: erano solo una serie di note dai vari toni; ma per i cervelli sensibilissimi dei marziani, ogni vibrazione appariva chiara come un pensiero, ed essi erano in grado di leggerli, come una radioricevente capta le onde radio e le trasforma in suoni intelligibili. Per loro, era come osservare una serie di immagini mentali, nitide e luminose. In silenzio, i marziani stavano ad occhi chiusi, impegnati nel compito di «leggere» la mente dell'uomo misterioso tanto lontano: e più guardavano nei suoi pensieri, e più si sentivano turbati. C'erano visioni di una città titanica, apparentemente sotterranea, illuminata artificialmente, popolata da esseri industriosi, uomini e donne, esattamente simili a Kang. Le inquadrature della città, da angolazioni diverse, spesso si dissolvevano e venivano sostituite da sale enormi, tali da far sfigurare per grandezza ed attrezzatura tutto ciò che possedevano i marziani. C'erano enormi proiettori atomici, evidentemente destinati a scopi difensivi; c'erano rimesse in cui stavano almeno mille astronavi, tutte pesantemente armate. Dozzine di laboratori, centrali elettriche, intere sezioni della città piene di armamenti così diversi che era impossibile valutarli. C'erano robot, a centinaia di migliaia, che marciavano agli ordini di un Ignoto. Il pensiero dominante di quelle visioni era che Kang era il Padrone di tutto questo, il capo di una città sotterranea. Poteva trovarsi sulla Terra; poteva essere su un mondo lontano. Le immagini mentali di Kang non rivelavano quei particolari. Poi, improvvisamente, quelle scene incredibili svanirono, e furono sostituite dall'immagine mentale dello stesso Kang... piccolo, bruno, con un sorriso imperscrutabile. Sembrava che parlasse, ma in realtà potevano essere i suoi pensieri, che prendevano forme di parole, interpretate dai marziani nella loro lingua. «Voi, abitanti di Marte, avete appena osservato qualche aspetto della potenza scientifica che io, Kang, controllo in un angolo remoto di questo mondo, la Terra. Immaginate che un cataclisma come il Diluvio possa distruggere la nostra scienza, o il popolo che l'ha creata? No. State certi, abi-
tanti di Marte, che se giungerete su questo nostro mondo verrete immediatamente annientati da forze infinitamente più grandi delle vostre. Da molti anni, secondo il tempo terrestre, io ed i miei contemporanei siamo al corrente delle vostre attività e delle vostre intenzioni di annientare i popoli della Terra, per impadronirvi di questo mondo. Perciò vi avverto! State lontani, o vi disintegreremo. Sta a voi scegliere. «Fino ad ora, ho attivato uno schermo neutro intorno al mio cervello, in modo che non poteste penetrare i miei pensieri, ma ora l'ho temporaneamente abbassato, per inviare questa comunicazione. Come scienziati, avete almeno il diritto di conoscere la risposta del problema che vi sconcertava. Ripeto il mio avvertimento... state lontani! Se dovete morire, morite con onore sul vostro mondo decadente.» La comunicazione cessò, e sebbene l'immagine di Kang rimanesse sullo schermo telescopico, i suoi pensieri furono di nuovo neutralizzati; l'indicatore dell'energia mentale era ricaduto sullo zero. Il Sovrano si voltò, spense gli strumenti e il telescopio, poi guardò i suoi compagni. «Avete ricevuto la comunicazione?» chiese. «Sì, sire, la comunicazione ci è pervenuta abbastanza chiaramente, e benché tu mi abbia rimproverato spesso perché tenevo conto delle incognite, mi sento in dovere di dire, a mia difesa, che l'abbiamo effettivamente trovata in Kang.» «Chiedo scusa, amico mio,» disse francamente il Sovrano. «Avevi ragione. Kang rappresenta la fine delle nostre ambizioni. Ora sappiamo che può vederci, forse anche udirci. Non potremo mai trasferirci sulla Terra, in simili condizioni. Non potremmo affrontare le macchine mostruose mostrateci dalla sua mente. Abbiamo visto una scienza applicata infinitamente superiore alla nostra.» «C'è una cosa che mi sconcerta,» osservò pensoso un Anziano. «Abbiamo esaminato meticolosamente la Terra, e non abbiamo mai visto una città simile a quella rispecchiata nelle immagini mentali. Dove si trova? Dove può essere nascosta? Abbiamo studiato la superficie terrestre, e il sottosuolo, ma non abbiamo mai scoperto nulla d'interessante.» «Non potevamo farlo, se gli abitanti della città sapevano di noi,» rispose il Sovrano. «Avrebbero impedito che le onde luminose la lasciassero: quindi non l'avremmo vista. Gli scienziati di Kang avrebbero certamente difeso i loro segreti dagli occhi extraterrestri.» «E se Kang non avesse detto la verità? Se le immagini mentali mostrateci da lui fossero solo il frutto della sua immaginazione?»
Il Sovrano rifletté a lungo, poi scosse il capo. «È una situazione difficile, amico mio. Lo ammetto, Kang può avere proiettato immagini mentali inventate, e in tal caso sulla Terra c'è soltanto l'Arca e coloro che la occupano; ma d'altra parte, può darsi che abbia proiettato la verità. Non possiamo correre il rischio. Immaginazione o no, siamo sconfitti.» Vi fu un silenzio, mentre tutti riflettevano. Poi il Sovrano fece un gesto di rassegnazione. «Così sia, amici miei. Noi e la nostra razza siamo orgogliosi e geniali. Abbiamo compiuto il nostro terzo ed ultimo sforzo per conquistare l'unico mondo adatto a noi, e abbiamo fallito. Dobbiamo inchinarci all'intelligenza superiore, o all'immaginazione dell'essere conosciuto come Kang.» «E adesso?» chiese il pessimista. «Adesso? Che altro possiamo fare, se non informare il nostro popolo che abbiamo perduto?» Il Sovrano chinò il capo. «Amici miei, dobbiamo prepararci... alla fine.» Val trascorreva con Rita tutto il tempo libero. Attraverso gli oblò dell'Arca che avanzava, giorno per giorno, spinta dai rematori, non si vedeva altro che un deserto d'acqua, nella luce fioca filtrata dalle nubi tenebrose. Sarebbe stato necessario circumnavigare il mondo per comprendere pienamente la portata della catastrofe causata dalle Bombe G. I cieli, rovesciando torrenti d'acqua, avevano riempito i letti degli oceani, martellando con tutto il loro peso inimmaginabile sulla terraferma. Le coste si erano erose, le colline erano franate, e si aprivano crateri sotto la spinta di violente cateratte. E il Diluvio non era finito. Le nubi erano così basse che quasi sfioravano la superficie delle acque. E c'era anche il vento, un incessante uragano ululante che spazzava le distese grige. «Chissà,» disse pensierosa Rita, verso la fine del quinto giorno, «dove andremo a finire, andando così alla deriva?» Fu Ox a risponderle, «Dove siamo partiti! Ho dato ordine di muoverci continuamente in cerchio, per trovarci ancora nella regione della Gran Bretagna o dell'Europa, quando le acque si abbasseranno.» Guardò il timoniere e i rematori, cupamente. «È quello che avete fatto, vero?» scattò. Il timoniere, soprattutto, aveva l'aria inquieta, e taceva. «Rispondete!» ruggì Ox. Con grande sorpresa di tutti, fu Kang a parlare. Come al solito, era rannicchiato sul suo sgabello, in un angolo: sembrava uno gnomo dal sorriso mistico.
«Posso rispondere per il timoniere, amico mio. Ha obbedito ai miei ordini circa la rotta, non ai tuoi.» Ox divenne paonazzo. «Cosa! Gli ordini mi erano stati dati dal Capo Rutter! Con quale diritto...» «Lo lasci parlare,» l'interruppe bruscamente lo stesso Rutter. «Ma, Capo, è tradimento...» «Non è tradimento, poiché pensavo alla salvezza di quanti si trovano a bordo dell'Arca,» l'interruppe Kang. Si guardò intorno. «Forse è venuto il momento di spiegare due o tre cose.» «Che cosa?» scattò Ox. «Pazienza, capitano, prego. Innanzi tutto, credo che tu debba sapere che il cataclisma non è stato interamente d'origine naturale. È stato causato volutamente dagli abitanti di Marte.» Tutti attesero: molti erano rimasti a bocca aperta. Kang proseguì, imperturbabile. «Io provengo da una razza che ha scoperto i segreti supremi della mente. Vi spiegherò tra un momento di che razza si tratta. Prima permettetemi di dirvi che, con la sola forza mentale, scoprimmo una congiura marziana per conquistare questo monto senza porvi piede. I processi di pensiero dei marziani ci apparvero chiaramente, nelle nostre Sale di Contemplazione. Vedemmo come intendevano instillare un importante segreto nella mente di un certo Jonas Glebe ed usarlo come una pedina su una scacchiera cosmica. L'altra pedina eri tu... Miles Rutter.» «Io?» Rutter trasalì, poi sporse il mento. «Nessuno può usarmi come pedina!» ribatté. «Tu deliri!» «Davvero?» Kang sorrise lievemente. «Credimi, sei stato solo uno strumento. Hai ottenuto il dominio mondiale, non per tua iniziativa, neppure per ambizione tua, ma per il desiderio ispirato da esperti scienziati lontani quaranta milioni di miglia. Tuttavia, essi non sono esperti al punto di saper manipolare le proiezioni mentali come io posso fare. E non sono neppure unico. Molti, nella mia razza sono maestri del...» «Chi sei?» interruppe Val. «Dove esiste su questo pianeta una razza di esperti mentali? Non ne ho mai sentito parlare.» «Allora non hai mai sentito parlare del Tibet.» Quando tutti sussultarono, stupiti, Kang continuò: «Il Tibet è famoso per i suoi mistici, capaci di dominare le leggi fisiche. Io fui prescelto per avventurarmi nel mondo... insieme ad altri quarantanove della mia razza, per radunare i superstiti del Diluvio. Noi del Tibet abbiamo condotto per molte generazioni una vita
isolata, conseguendo grandi successi mentali. Sapevano delle guerre del mondo esterno, ma non ce ne occupavamo. Ci siamo mossi solo quando abbiamo capito che la dominazione marziana stava per abbattersi sul mondo, e che avrebbe costituito un pericolo per noi. Dal punto di vista scientifico, eravamo al corrente dell'effetto delle Bombe G e della conseguente evaporazione delle acque della Terra, che avrebbe potuto produrre solo un secondo Diluvio. I nostri previsori geografici dimostrarono che tutto il Tibet, e anche il nostro regno isolato, sarebbero stati completamente inondati.» Ormai tutti i segni di opposizione a quanto diceva il piccolo mongolo erano cessati. Girò intorno gli occhi obliqui e continuò: «Per noi era chiaro che quasi tutti gli abitanti della Terra sarebbero annegati nel Diluvio; ma era possibile salvarne alcuni, che con il nostro aiuto avrebbero costruito una civiltà migliore. Non volevamo vivere soli nel mondo: sarebbe una catastrofe, poiché la razza umana si estinguerebbe completamente. Era necessario salvare un gruppo, e portarlo al sicuro, in attesa che il Diluvio si placasse. La minaccia dei marziani incombeva su tutti: stavano in attesa di balzarci addosso.» Kang sorrise, imperscrutabilmente. «I marziani, così ci disse la nostra lettura mentale, sapevano tutto ciò che stavamo facendo, e potevano addirittura vedere i pensieri di molta gente. Tuttavia, non potevano leggere nella mia mente né in quelle dei miei simili, poiché se si conosce bene quest'arte, si può oscurare la propria mente e impedire che venga letta. Ho continuato così fino a poco tempo fa, quando ho deciso di compiere la mossa suprema, nella cosmica partita a scacchi. Per qualche istante, ho lasciato che la mia mente venisse letta, sapendo che i marziani non attendevano altro; e ho permesso che assorbissero la più sconvolgente visione scientifica mai creata. Ora essi credono che su questo mondo esistano armi terribili e non oseranno tentare di venire qui per annientare i superstiti.» «E questa potenza non esiste?» chiese Val, che aveva ascoltato attentamente. «No. Solo nell'immaginazione. Noi tibetani siamo esperti mentali, non scienziati fisici; ma i marziani si sono convinti che verrebbero decimati, se tentassero di attaccarci o di sopraffarci. È stato lo scaccomatto, amici miei. Forse intuiranno che ho bluffato, ma non potranno mai dimostrarlo. Quindi, trattenuti dalla minaccia di un disastro, se ne staranno lontani. Tra l'altro, Turner, tu pensavi che l'idea dell'Arca ti fosse venuta spontaneamente. Non è così. Sono stato io a instillare l'idea nella tua mente. Hai scoperto il
modo per costruire l'Arca in modo così facile che sei rimasto sbalordito. In altre parti del mondo, i miei compagni hanno dato ordini mentali per far costruire altre Arche. Forse non saranno molte, ma certamente ce ne saranno, ognuna carica di superstiti. In quelle Arche c'è il nucleo di una civiltà nuova... migliore delle precedenti.» «Eppure il Tibet, a quanto ho capito, è sott'acqua?» sbuffò Ox. «Non siete molto efficienti, vero, amico mio?» Kang si girò verso di lui. «Il Tibet è sott'acqua, sì, ma non sono state sommerse le sette intellettuali che prima l'abitavano. Il Tibet è molto vicino all'Everest, il punto più alto della Terra. Sappiamo come scalare quella montagna, e la conosciamo palmo e palmo. Appena abbiamo saputo che ci sarebbe stato il Diluvio, abbiamo trasportato nelle grotte più alte della montagna tutto ciò che vi era di importante. Là, al riparo dai venti e dall'acqua, c'è la scienza più nuova e più antica del mondo... la scienza metafisica, di cui noi siamo maestri. Insegneremo l'arte a tutti i superstiti. Un giorno, questa Terra sarà popolata solo da esseri della mente.» La voce di Kang si spense: nei suoi strani occhi c'era una luce visionaria. La voce possente di Ox esplose come uno scoppio di tuono. «Quindi hai ordinato al timoniere di dirigersi verso l'Everest? Verso l'India?» «Verso il secondo Ararat,» ammise Kang. «No!» gridò Rutter, balzando in piedi. «Sono io che comando, qui! Non credo una parola di questa storia della partita a scacchi con i marziani. Non credo una parola di questa razza di scienziati mentali. Non può esservi un nuovo regime, finché comando io... e comanderò fino alla fine. Farò a pezzi te, Kang, e la tua scienza... come ho fatto a pezzi tutto ciò che mi sbarrava la strada.» «Eccettuato te stesso,» ringhiò Val. Kang restò imperturbabile. Non si mosse neppure. La sua voce lenta e assonnata risuonò di nuovo. «La mosca non fa male all'elefante, per quanto lo prenda a calci,» commentò. «Tu sei l'ultimo d'una razza di materialisti egomaniaci che presto marcirà sotto le acque.» «Hai dimenticato me,» osservò Ox. «Ho giurato fedeltà, e rispetto il mio impegno.» «E meriti un elogio,» rispose Kang. «Però ti commisero per la Causa cui ti sei votato... ti commisero profondamente. Cosa ne rimane, oltre questo essere delirante? Tu, Rutter, non resisteresti un secondo, contro i poteri metafisici del Tibet. Sei predestinato all'annientamento.»
Rutter tornò a sedersi, lentamente. Kang aveva un'aria di calma granitica, l'incrollabile convinzione del potere supremo. Senza precipitazione, senza neppure alzare la voce, aveva detto tutto ciò che c'era da dire. «In altre parole,» fece finalmente Rutter, «io vengo considerato un capo solo finché siamo sull'Arca, e verrò annientato dalla scienza mentale quando arriveremo all'Everest?» «Noi non togliamo la vita, Rutter. Sarebbe contrario alle leggi del progresso mentale. Non siamo assassini e non siamo vendicatori. Verrai con noi e vivrai tranquillamente finché la tua coscienza te lo permetterà, ma non dominerai più: stanne certo. Avrai tempo... forse molti anni, per lottare con te stesso, se vorrai.» Ox aprì la bocca, poi la richiuse. Rutter guardava fissamente nel vuoto, mentre le parole di Kang gli si imprimevano nella mente. Poco a poco tutti, incluso Rutter, cominciarono a capire quale sarebbe stata la punizione destinata all'aspirante dominatore del mondo. Kang gli dava la libertà... la libertà di frugare nella propria coscienza, la libertà di ricordare, ma sempre senza potere. Un serpente senza denti veleniferi. Era una punizione serena e inesorabile, con un riflesso ineluttabile di inumanità orientale. Per altri cinque giorni, l'Arca avanzò, spinta dai remi, trascinata dalla tremenda forza dei venti. La pioggia continuava. Quasi nessuno riusciva a dormire. Erano tutti agli oblò, a guardare l'immensa distesa d'acqua o a parlare tra loro. Di tanto in tanto scorgevano luci lontane che danzavano sulle acque... luci che potevano appartenere solo alle altre Arche, dirette verso la meta comune, le Arche che i marziani non avevano avvistato. Dopo molti giorni, qualcosa apparve nel grigiore sferzato dalla pioggia, a circa tre miglia di distanza. Era una titanica guglia di roccia, una montagna che emergeva tra le nubi. Tutti accorsero agli oblò per guardarla. «L'Everest!» gridò qualcuno. «No,» lo corresse tranquillamente Kang. «È una montagna più bassa. L'Everest è... là!» In quel momento l'Arca girò leggermente e tutti videro la sbalorditiva visione. Per un momento la pioggia furiosa si attenuò un poco, e la massa maestosa del monte Everest giganteggiò, spiccando nell'oscurità, mentre le acque turbinavano intorno alla sua massa invincibile. Qua e là ondeggiavano le luci delle altre Arche. «No!» urlò all'improvviso Rutter. «Non mi porterai là, Kang! Non mi porterai dove tutti mi guarderebbero e mi additerebbero come una bestia rara!»
S'interruppe, afferrò una sedia, e l'avventò verso il piccolo mongolo. A metà del volo, la sedia ricadde, quando gli occhi sereni di Kang incontrarono quelli brucianti del dittatore. Rutter arretrò lentamente verso la parete, tormentandosi le labbra. Lo sguardo fermo e inesorabile lo seguì. «No...» sussurrò Rutter, sbavando. «No...» «Capo, che succede?» Ox lo afferrò, lo sorresse. «Capo, cosa c'è? Mi comandi! Sono ancora qui per obbedire! Costringerò queste canaglie a...» Rutter guardò Ox, con occhi vacui. «Bombe... Fate entrare il dottor Glebe... Le manderemo a grande profondità, Standish! Grande profondità! Dov'è Standish? Standish?» «Calma, Capo... calma,» ansimò Ox, fissando il filo di saliva che scendeva dalle labbra tremanti di Rutter. Rita voltò le spalle, nauseata. Val la strinse a sé, e continuò ad osservare, intento. All'improvviso si girò verso Kang. «Kang, cos'hai...?» Lo sbalordimento lo fece tacere. Il mongolo si limitò a sorridere... imperscrutabilmente. Val si convinse che lo scienziato mentale aveva usato il suo superiore potere intellettuale per annientare una volta per tutte la ragione del dittatore. «Dov'è Standish?» ripeté Rutter, guardandosi intorno ciecamente. «Dove... dov'è? È così buio qui dentro...» «Dategli una botta in testa!» gridò Hoyle. «È impazzito!» Ox si scosse, come se si liberasse di un'immensa incredulità. Lentamente estrasse la pistola, la spianò e sparò. Restò immobile, mentre il corpo di Rutter si accasciava lentamente sul pavimento. Il silenzio era assoluto. C'era solo il suono del vento ululante e della pioggia. Tutti rimasero a guardare, senza muoversi, quando Ox si caricò il cadavere sulla spalla e lo portò verso l'oblò in fondo. Aprì il finestrino, spinse fuori il corpo e lo lasciò cadere in acqua. Poi si voltò e salutò militarmente. Sparò un colpo in aria e depose scrupolosamente l'arma su un tavolo. Poi si girò, con aria decisa. «Il regime cui obbedivo è finito,» annunciò. «Avevo giurato fedeltà fino alla morte. Il buon soldato sa quando è suo dovere arrendersi.» Prima che qualcuno potesse intuire le sue intenzioni, si girò verso la finestra, la varcò e sparì. Il vetro si richiuse sbattendo, ma quando tutti si precipitarono a guardare, l'immenso oceano era buio e deserto. «Si è ucciso,» mormorò Val. «Quel pazzo, ubriaco di un malinteso senso del dovere!» «No... era un buon soldato,» lo corresse Kang. Poi guardò i bastioni del-
la montagna, che ormai erano vicini. «Ecco la fondamenta di un mondo nuovo, amici miei,» aggiunse, «dove le fragilità e le bramosie dell'Umanità cesseranno per sempre.» FINE