matetrentino percorsi matematici a Trento e dintorni
matetrentino percorsi matematici a Trento e dintorni
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a cura di: Domenico Luminati Italo Tamanini
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› springer.com © Springer-Verlag Italia, Milano 2006 ISBN 88-470-0473-X ISBN 13 978-88-470-0473-3
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Introduzione Ci si può appassionare alla matematica? Chi fa ricerca in matematica vi dirà immancabilmente che la matematica è bella, affascinante, elegante e perfino… divertente, mentre spesso è percepita come ostica e distante dalla vita “normale”. matetrentino è nata proprio dal desiderio di comunicare a tutti quanto possa essere “bella” e interessante una disciplina come la matematica e dal desiderio di avvicinare ad essa il visitatore curioso, con una proposta di dialogo e di riflessione o di semplice incontro. Con questi obiettivi, la progettazione di una mostra di matematica può diventare un’avventura certamente impegnativa, ma per molti versi entusiasmante e, non lo nascondiamo, gratificante. Tanto più se si ha la fortuna di lavorare in stretto contatto con un gruppo di persone attente, esigenti e sempre disponibili a discutere idee, intuizioni, ragionamenti, nel continuo intento di valorizzarli al meglio. È precisamente quanto è successo con la mostra “raccontata” in questo libro. La mostra matemilano (Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia “Leonardo da Vinci” di Milano, 12 settembre 2003 – 30 maggio 2004) non aveva ancora chiuso i battenti e già si pensava alla realizzazione di mate-
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trentino, a conferma del fatto che Milano e Trento e ogni altra città sono solo un pretesto, e che questa mostra può essere declinata in ogni luogo che abbia conosciuto le vicende dell’arte, dell’architettura e, in generale, dell’attività creativa dell’uomo. In effetti, matetrentino. Percorsi matematici a Trento e dintorni conserva la struttura, l’impianto espositivo e le modalità di narrazione della precedente esperienza milanese, ma è stata completamente rivisitata e riambientata “in chiave trentina”: il visitatore è invitato ad affrontare questioni stimolanti e a “fare esperienza” di matematica attraverso installazioni interattive che prendono ora lo spunto dalla realtà di Trento e del suo territorio. L’esposizione si sviluppa intorno alle originarie quattro aree tematiche topologia, massimi e minimi, visualizzazione, simmetria, ma ospita anche una nuova sezione dedicata alla prima infanzia e ideata dal personale del Museo Tridentino di Scienze Naturali, sede dell’allestimento nel 2006. Il percorso fra i suoi exhibit è accompagnato da una serie di schede intese a sciogliere dubbi, a rispondere a curiosità e ad offrire approfondimenti al visitatore e che costituiscono, sul modello del catalogo milanese, anche la trama su cui è costruita la prima parte di questo libro. La seconda parte è dedicata alla descrizione delle scelte compiute nell’ambito della costruzione della comunicazione e dà conto delle tessere che, una dopo l’altra, dalle immagini al linguaggio alla grafica, hanno completato il mosaico. Questo libro è quindi il prodotto di una storia di collaborazioni e di amicizie che vengono da lontano, ma anche il risultato di un esperimento nuovo condotto assieme a nuove persone e nuove istituzioni, che ugualmente ci piace riconoscere e ringraziare.
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Domenico Luminati e Italo Tamanini
Davide Bassi Rettore dell’Università di Trento
Sperimentare la matematica, tutti i giorni. Molte volte la scienza può sembrare più lontana di quanto in realtà non sia dalla vita quotidiana delle persone. La divulgazione della scienza è senz’altro un aspetto fondamentale cui le università oggi sono chiamate a guardare e a rispondere: se è importante infatti fare ricerca scientifica, è altrettanto importante comunicarla e trasferirla alla portata di tutti. In questo senso si muove la mostra Matetrentino, promossa dal Centro interuniversitario Matematita (Università di Trento, Milano Statale, Milano Bicocca e Pisa), dal Dipartimento di Matematica dell’Università di Trento e dal Museo Tridentino di Scienze Naturali. Una mostra di matematica è certamente un evento particolare, ma è proprio questa dimensione innovativa a incuriosire di più: dimostrare a piccoli e grandi, addetti ai lavori e non, quanta matematica si sperimenti nella vita di tutti i giorni. Portare la ricerca scientifica, soprattutto in quelle aree che a prima vista possono sembrare le più complesse, impenetrabili e distanti dalla vita quotidiana, è certamente una sfida interessante che le università, che oggi sono sempre più chiamate a comunicare verso l’esterno, devono affrontare. Credo che una mostra, in parte anche interattiva, sia uno degli strumenti più adeguati per avvicinare il pubblico in maniera stimolante a problemi anche di grande complessità. Uno strumento che permette, a mio avviso, molto più di altri di “toccare con mano” la matematica, così come altre discipline, e vivere in prima persona la lettura in chiave matematica del mondo.
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Davide Bassi Rettore dell’Università di Trento
L’evento è inoltre un’occasione importante per consolidare, da un lato, la collaborazione con gli altri atenei che fanno parte del Centro interuniversitario e, dall’altro, per continuare un dialogo ormai aperto e forte con il territorio. Questo si concretizza nel rapporto con il Museo Tridentino di Scienze Naturali, una collaborazione proficua e di alto livello qualitativo che da tempo, mettendo insieme conoscenze e competenze diverse e condividendo obiettivi comuni, ha dato origine a esperienze di grande interesse che hanno portato a risultati molto soddisfacenti. Al contempo la mostra collega la matematica alla città di Trento, caratterizzandola quindi dal punto di vista territoriale, un’occasione per sottolineare il legame tra le due istituzioni e la città e tra la città e la matematica che all’Università si studia e si indaga. Desidero davvero augurare all’iniziativa il massimo successo, ringraziando tutti coloro che in questo progetto hanno creduto, ancora prima di farne una mostra e di portare la mostra a Trento: le università partner, il Dipartimento di Matematica con tutti coloro che al suo interno hanno collaborato con grande entusiasmo e impegno alla realizzazione dell’evento e il Museo Tridentino di Scienze Naturali che ha accolto la proposta e vi ha creduto fin dall’inizio, nella persona del suo direttore ma anche di tutti i collaboratori che hanno investito in questa impresa.
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Michele Lanzinger Direttore del Museo Tridentino di Scienze Naturali di Trento
Il modo solito di guardare alla matematica è quello di percepire la sua importanza per via della sua manifesta universalità. Quasi a dire che la matematica viene prima delle cose, mette tutti d’accordo perché non c’è una matematica di questo o quel pensiero o pensatore. La matematica che è valida in sé senza dipendere dai casi in cui è utilizzata, che è indipendente dagli oggetti ai quali fa riferimento. La matematica, in somma, è un assoluto, ci fa vedere le cose nella loro essenzialità, trasfigurate in formule, in astrazione pura. Il modo solito di guardare al museo è quello di percepire il suo valore per via della serialità degli oggetti che conserva. Quasi a dire che il museo viene dopo le cose che contiene. È una macchina che trasferisce un sapere generato a partire dal particolare o dalla singolarità del reperto alla dimensione generale della definizione: specie, genere, famiglia,… Quando sono impegnati a descrivere il “cosa” delle loro rispettive discipline questi due saperi convergono e adottano per certi versi un linguaggio simile: la formula nel primo caso, la definizione nel secondo. Ma questo, forse non è il modo più naturale d’apprendere. A ben vedere la costruzione del sapere, il come e il perché delle cose, non adotta la formula o la definizione, ma usa come strumento privilegiato la storia e la narrazione. È attraverso le storie attorno ad un oggetto che vengono a generarsi le connessioni, le relazioni di causa ed effetto. Sono le storie che alimentano la curiosità dell’età evolutiva. Si ricordano più facilmente le storie, non le formule o le definizioni. Ciò è noto da tempo. Madri e maestri, usano storie per spiegare, per costruire un contesto, per inserire questo o quello in una trama di significato. Non è un principio esclusivo, naturalmente. C’è l’interazione diretta con gli oggetti, la manipolazione. Ma non c’è dubbio che sarebbe ben limitato il nostro sapere se esso fosse interamente confinato negli angusti spazi della sperimentazione diretta con l’oggetto. Tutto ciò che è immateriale, inevitabilmente, sfuggirebbe. Insomma, contare e raccontare, questo è il punto. Pertanto piace molto questo progetto espositivo in cui va a segno la convergenza tra la dimensione astratta della matematica con la materialità dell’installazione museale. Siano essi frammenti di architettura, azioni di composizione o scioglimento di nodi, viaggi in misteriosi regni d’incanto aritmetico. Così, come il bello della scienza è l’infinita rete delle sue connessioni, così, il bello della interpretazione e dell’azione educativa sono gli infiniti modi di raccontare queste storie.
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Ecco una bella maniera per festeggiare un anniversario: matetrentino viene inaugurata esattamente un anno dopo la costituzione di matematita - il Centro Interuniversitario per la Comunicazione e l’Apprendimento Informale della Matematica che coinvolge le Università di Milano, Milano Bicocca, Pisa e Trento – e costituisce una delle prime realizzazioni che possono a pieno diritto essere riconosciute come prodotto del Centro. Parlare di apprendimento informale relativamente alla matematica può sembrare a prima vista una contraddizione in termini; e in effetti spesso non è facile convincere colleghi e/o pubblica opinione del fatto che è possibile avvicinarsi con serenità ed efficacia alla astrazione tipica della matematica solo se prima ci si è accostati in maniera informale ai suoi risultati e ai suoi metodi. Ora invece matetrentino, per la sua stessa esistenza e per il successo che sicuramente avrà nei prossimi mesi, può rappresentare un elemento forte per convincere gli scettici che è possibile raccontare e spiegare alcuni fatti matematici significativi in maniera informale, senza rinunciare al rigore tipico della disciplina e senza appiattire i contenuti di ciò che si trasmette, richiedendo una continua partecipazione attiva da parte dell’interlocutore, che viene portato in maniera naturale a fare personalmente “esperienza di matematica”. I colleghi dell’unità di Trento hanno costruito una bella occasione per condurre il pubblico a riconoscere che basta guardarsi in giro, dovunque si sia, e si possono trovare intorno a noi degli spunti e delle opportunità per parlare di matematica: la matematica è talmente presente, in modo esplicito o implicito, che non c’è che l’imbarazzo della scelta. Le colonnine annodate del Duomo di Trento o il nodo di piazzale Cadorna a Milano, il profilo del monte Chegul o il coro di Bramante nella chiesa di S. Satiro, lo stemma dei Lodron o quello degli anelli Borromei, le piste da sci oppure le vie di Milano, o anche i canali di Venezia, o le linee della metropolitana di Parigi … diventano tutte occasioni per porsi delle domande e per illustrare idee, metodi e risultati matematicamente significativi. E così ora ci auguriamo che anche altri ricercatori raccolgano la sfida e rendano possibili in futuro altre mostre matexxx.
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Maria Dedò Direttore di matematita Centro Interuniversitario per la Comunicazione e l’Apprendimento Informale della Matematica
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Prima parte: i contenuti
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Topologia
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Catturare un nodo Nido di nodi Quanto è annodato un nodo? Nodi caudini Nodi allo specchio Due numeri per un nodo Percorso senza ritorni Percorsi senza incroci
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Massimi e minimi
40 44 48 52 56 60
Il massimo per un rettangolo Arrotondando... Problemi di rete Verso la sfera Lievi, minime superfici Se una notte d’inverno una cicloide...
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Visualizzazione
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Il punto di vista Punti di vista In volo in un dipinto La camera di Ames
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Simmetria
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Ogni rosone al suo posto Dal piano allo spazio Come si trova l’intruso Ogni fregio al suo posto
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Seconda parte: l’allestimento
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Il percorso espositivo Nel Regno di Matelandia Una mostra, un progetto di S. Colombo Nella matematica... dell’arte di S. Comunello Titoli di P. Gallo Galleria dei poster Ringraziamenti Bibliografia Referenze iconografiche I curatori - Gli autori
Prima parte i contenuti
Topologia
Catturare un nodo
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Catturare un nodo
Prendete una corda con i capi liberi e provate ad annodarla come preferite. Potete fare un nodo semplice o uno più complicato , come quello raffigurato nello stemma clesiano sulle mura del Castello del Buonconsiglio , oppure un nodo scorsoio o qualunque altro nodo vi suggerisca la vostra fantasia o la vostra esperienza di alpinisti, marinai, sarti,… Finché lasciate liberi i capi della corda, per quanto abbiate stretto il vostro nodo potrete sempre scioglierlo, pur di avere un po’ di pazienza, semplicemente facendo scorrere uno dei capi liberi a ritroso lungo il nodo stesso. Provate però, dopo aver fatto un nodo a piacere (o anche senza avere annodato nulla!), a unire in qualche maniera i capi della corda incollandoli, oppure attaccando una calamita a ciascuno di essi e accostando le calamite. In questo modo avrete in un certo senso “fissato” il nodo indissolubilmente: ad esempio, se avete annodato la corda con un nodo semplice, unendo i capi trovate un nodo che in matematica viene chiamato nodo trifoglio . Potrete anche ridisporlo sul tavolo in molti modi diversi da quello rappresentato nella fotografia ma, se non tagliate la corda, si tratterà sempre di questo nodo. Se invece avete annodato la corda con un nodo come quello dello stemma clesiano, quando unite i capi troverete che la corda, una volta adagiata sul
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tavolo, potrà assumere l’aspetto del nodo che in matematica si chiama nodo a otto e che forse conoscete già come “nodo Savoia”. Se poi non annodate per nulla la corda, dopo averne unito i capi potrete disporla sul tavolo in una forma più o meno circolare : si tratta di un “finto nodo”, che in matematica si chiama nodo banale. Ora provate a manipolare questi nodi, senza mai staccare i capi che avete unito: • qualunque cosa ne facciate, rigirandoli, sbrogliandoli o ingarbugliandoli ulteriormente, non potrete mai ottenere dal nodo trifoglio il finto nodo, né dal finto nodo il nodo trifoglio; • analogamente non potrete mai ottenere dal nodo trifoglio il nodo a otto, né viceversa; • qualunque “groviglio” facciate al finto nodo, potrete poi riportarlo nella forma di una circonferenza, sempre senza tagliare la corda, cosa che per i nodi “veri” non è possibile; • se invece avete annodato la corda con un nodo scorsoio e poi ne avete unito i capi , potrete scioglierlo e disporlo come il finto nodo; potrete anche partire dal finto nodo per ottenere lo stesso nodo scorsoio. Quindi il nodo scorsoio è in realtà un finto nodo. E l’elenco potrebbe continuare… Unire i capi della corda dopo averla annodata significa in qualche modo “catturare” l’essenza del nodo. Una volta uniti i capi, non importa più quali altre manipolazioni vengano fatte, a patto di non tagliare la corda: il nodo in realtà sarà sempre quello iniziale.
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Potete ora cercare di ricostruire i vari nodi del pannello Una questione nodale riprodotto in fondo al volume; prestate solo attenzione a non confondere, nei vari incroci, i due rami della corda che passano rispettivamente sotto oppure sopra: basta invertirne uno perché il tipo di nodo possa diventare completamente diverso! Potrete così accorgervi che ci sono alcuni diagrammi che a pri-
Catturare un nodo
Catturare un nodo
ma vista sembrano di nodi diversi, mentre in realtà rappresentano lo stesso nodo: ad esempio, fra i diagrammi sul pannello, ce ne sono tre che rappresentano il nodo trifoglio , tre che rappresentano il nodo a otto e altri tre, oltre alla circonferenza, che rappresentano un finto nodo. Viceversa, alcuni diagrammi che a prima vista possono sembrare uguali rappresentano invece nodi diversi; ad esempio, tre fra queste figure ( ) hanno la stessa “ombra”: eppure una volta si tratta di un nodo a otto, una volta di un trifoglio, e un’altra di un finto nodo. Appena il nodo diventa un po’ più complicato, non è per nulla facile accorgersi “a occhio” se due nodi sono o non sono la stessa cosa, e nemmeno se un nodo è un nodo vero o è in realtà un finto nodo. A molti sarà successo di perdere la pazienza nel districare un gomitolo di lana caduto a terra e con cui magari ha giocato un gatto: se immaginate, in un caso di quel genere, che per qualche motivo i due capi del gomitolo siano stati uniti uno con l’altro, potete avere un’idea delle difficoltà che si possono incontrare nel distinguere un nodo effettivo da un finto nodo. In realtà la questione è assai più complicata di così: non solo non è facile accorgersi “a occhio” se due nodi sono o non sono la stessa cosa, ma finora nessuno ha trovato un algoritmo che permetta di risolvere il problema in generale! La classificazione dei nodi è tuttora un problema aperto in matematica.
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Nido di nodi
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Nido di nodi
Le colonne ofitiche del Duomo di Trento Il Duomo di Trento, uno dei più significativi monumenti architettonici sacri della zona alpina, è il risultato di vari interventi architettonici, differiti nel tempo ma attuati a partire dal 1212, quando il vescovo Federico Vanga ne affidò la costruzione a maestranze lombarde dirette dall’architetto Adamo d’Arogno della diocesi di Como. Il corpo absidale della cattedrale, investito quasi di dignità di prospetto, è forse l’intervento architettonico che meglio di altri conserva le tracce delle finezze formali attuate dai lapicidi lombardi. L’occhio dell’osservatore viene catturato dall’estremo rigore plastico degli elementi architettonici, ma soprattutto dal dettaglio della finestra centrale fiancheggiata dalle colonne ofitiche (dal greco antico òphis = serpente) sostenute da due grifoni alati che tengono fra le zampe un drago. Il dettaglio della colonna annodata viene poi replicato nel protiro del transetto sud e, isolatamente, poco sopra, nella loggetta. Nel contesto romanico, in cui l’arte sacra si avvaleva costantemente di un linguaggio allusivo popolato di mostri e bestie fantastiche, anche la colonna annodata si riveste di significati reconditi, andando quindi a richiamare sia la simbologia biblica del serpente, allegoria di Cristo ma anche in negativo simbolo di Satana, sia la funzione apotropaica, di difesa dal maligno, che la credenza popolare aveva attribuito al nodo. I lacci e i nodi, simboli da porsi in relazione al gesto di sciogliere o del legare, nel complesso delle credenze magico-religiose che hanno sempre goduto nel corso dei secoli di massima credibilità, possono assumere una doppia valenza semantica, intesa sia in senso benefico che malefico, dove malattie e sofferenze in generale venivano considerate “lacci”, impedimenti, che solo la morte, vincolo supremo, poteva sciogliere. Le colonne ofitiche, che la tradizione biblica vuole ornassero anche il tempio di Salomone eretto in Gerusalemme, potrebbero infine essere interpretate come allusive al mitico modello biblico cui la Chiesa idealmente si richiamava. s.c. 9
Nido di nodi
Come si può “catturare” il nodo delle colonnine del Duomo di Trento? Immaginiamo di avere a disposizione un modellino del nodo, come quello riprodotto in figura , e dei “ponti” – alcuni più corti, che permettono di collegare tra loro due basi adiacenti delle colonnine, altri più lunghi per i collegamenti in diagonale. Cominciamo a fare qualche esperimento. Possiamo ad esempio usare quattro ponti corti e congiungere fra di loro i capi di ciascuno dei quattro fili che compongono il nodo. In altri termini, pensando di aver colorato diversamente ogni filo (per fissare le idee: di giallo, rosso, verde e blu), attacchiamo un ponte che chiude il filo giallo, uno che chiude quello rosso, uno quello verde e l’ultimo quello blu. In questo modo non restano più “capi liberi” e abbiamo quindi “catturato un nodo” . Chiaramente, dato che si congiungono fra loro soltanto gli estremi di uno stesso filo, il nodo ottenuto ha quattro componenti e non è difficile rendersi conto che sono allacciate fra di loro come in una catenella. Con una semplice manipolazione, si può far assumere al nodo questa configurazione. Ma gli stessi quattro ponti possono essere attaccati anche in altri modi, ad esempio collegando ogni capo giallo con il capo rosso adiacente e, analogamente, ogni capo verde con l’adiacente capo blu. Questa volta, i due fi-
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Nido di nodi
li giallo e rosso si fondono in un’unica componente arancio e, allo stesso modo, i fili verde e blu formano insieme una componente azzurra. Abbiamo dunque catturato un nuovo nodo, con due componenti anziché quattro. Si tratta di un finto nodo a due componenti, dato che, come si può vedere, queste possono essere “sfilate” l’una dall’altra. Se invece, sempre con gli stessi quattro ponti, colleghiamo tra di loro i due capi del filo giallo (ottenendo una prima componente, gialla), i due capi del filo rosso (ottenendo una seconda componente, rossa) e ogni capo del filo verde con l’adiacente capo del filo blu (per formare una terza componente, azzurra), si cattura un nodo ancora diverso: un finto nodo a tre componenti. C’è evidentemente un ulteriore ed ultimo modo di chiudere le colonnine utilizzando solo i ponti corti: verde con verde, blu con blu e rosso con giallo. Quello che ora si ottiene non è diverso, a parte i colori introdotti artificio-
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Nido di nodi
samente, da quanto ottenuto nell’ultimo caso preso in considerazione. Per rendersene conto è sufficiente, avendolo a disposizione, rigirarsi il modellino tra le mani o, equivalentemente, ragionare sulla sua simmetria. In definitiva, anche questo è un finto nodo a tre componenti. Sostituiamo ora una coppia di ponti corti con due ponti lunghi (uno basso e uno più alto, per poterli incrociare in diagonale). Ci sono sostanzialmente tre modi diversi di realizzare i collegamenti. Possiamo ad esempio usare i ponti corti per congiungere i fili verde e blu (formando una componente azzurra) e i due ponti lunghi per congiungere in diagonale i fili giallo e rosso (formandone una arancio). Siamo nuovamente in presenza di un finto nodo a due componenti, come si può vedere sfilandole l’una dall’altra. Se invece con uno dei due ponti corti chiudiamo il filo verde e con l’altro quello blu, si ottengono due nodi a tre componenti (verde, blu e arancio), a seconda di come si utilizzano i ponti lunghi per fondere insieme i fili giallo e rosso. Manipolandoli, non è difficile far assumere ai due nodi queste forme.
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Nido di nodi
Benché si assomiglino molto, in quanto si differenziano solo per lo “scavalcamento” centrale della componente arancio, si può dimostrare che si tratta proprio di due nodi diversi. Per quanti tentativi si facciano (rigirandoli, manipolandoli,…ma sempre senza romperli o tagliarli), non si riuscirà mai ad ottenere l’uno dall’altro. Si può anche pensare di chiudere le colonnine in diagonale da entrambe le parti, usando solo ponti lunghi. Si ottengono in questo modo tre nuovi nodi. E se potessimo anche congiungere le colonnine di sopra con quelle di sotto?...
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Quanto è annodato un nodo?
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Quanto è annodato un nodo?
Costruite un nodo con una cordicella, “fissatelo” unendo le estremità e poi lasciate cadere la cordicella sul tavolo: ottenete il “disegno” di una curva “quasi” piana. Non completamente piana perché (a meno che non si tratti di un “finto nodo”) ci sono alcuni punti dove la cordicella non appoggia direttamente sul piano del tavolo, ma incrocia se stessa. Potete rappresentare questa situazione con una figura in cui il tratto interrotto della curva sta a intendere il ramo che passa sotto nell’incrocio. Ciò corrisponde a considerare la proiezione del nodo su un piano, proiezione che risulta ora una curva effettivamente piana, con un certo numero di incroci . Essa da sola non basta a ricostruire il nodo tridimensionale, a meno che non specifichiate ogni volta, per i due rami che arrivano in ciascun incrocio, quale passa sopra e quale passa sotto. In tal modo il nodo, che sta nello spazio tridimensionale, è stato ridotto a un ambito bidimensionale (una curva piana, con incroci, e una specifica di sopra/sotto a ogni incrocio) ed è abbastanza naturale immaginare che il numero di incroci di questa curva possa dare in qualche senso una “misura” della complessità del nodo. Questo non è lontano dal vero, anche se occorre un po’ di cautela, perché il numero degli incroci può dipendere dalla proiezione che è stata scelta, ossia dalla maniera in cui la cordicella è stata appoggiata sul tavolo. Può accadere infatti che lo stesso nodo da una certa angolatura sembri avere tre incroci , ma da altre angolature sembri averne quattro.
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Non solo! Lo studio dei nodi è di natura topologica, e ciò significa fra l’altro che non dovete necessariamente pensare ai nodi come a oggetti rigidi. Potete immaginare che siano lunghi a piacimento ed estensibili e potete maneggiarli come volete ottenendo nodi indistinguibili da quello di partenza. L’importante è che queste operazioni mantengano il nodo chiuso: non è lecito tagliare la cordicella, fare operazioni a corda aperta e poi richiudere. E quindi potete avere anche legittime proiezioni dello stesso nodo , in cui il numero degli incroci è molto aumentato rispetto a quello di partenza. Questo accade ad esempio per il nodo rappresentato nell’exhibit riprodotto nella pagina di apertura di questa scheda , che è un nodo trifoglio, come vi potete accorgere maneggiandolo un po’. In effetti, per numero di incroci di un nodo non s’intende (e non si potrebbe intendere!) il numero di incroci di una sua qualsiasi proiezione, ma s’intende il minimo numero di incroci di una sua possibile proiezione, in una qualunque delle posizioni che il nodo stesso può assumere “maneggiandolo”. Non è affatto semplice determinare questo numero; se appoggiando la cordicella sul tavolo trovate una curva con sette incroci, prima di dire che il numero di incroci di quel nodo è sette dovete essere sicuri che non si può trovare alcun altro modo di appoggiarla in cui ci sia un numero inferiore di incroci.
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Il numero di incroci del finto nodo è 0, il numero di incroci del nodo trifoglio è 3, e non c’è alcun nodo con numero di incroci 1 oppure 2: in effetti, ogni nodo che si possa disegnare con uno o due incroci è in realtà un finto nodo, cioè può essere manipolato fino a “diventare” una circonferenza.
Quanto è annodato un nodo?
Quanto è annodato un nodo?
I due nodi trifoglio (trifoglio destro e trifoglio sinistro ) sono gli unici nodi con numero di incroci 3; il nodo a otto è l’unico con numero di incroci 4. Però il numero dei possibili nodi, diversi fra loro, con un dato numero di incroci, sale molto velocemente al crescere del numero degli incroci: già con solo nove incroci si arriva a un centinaio di possibilità! La storia dello studio dei nodi ha degli aspetti molto interessanti: alcuni precursori di questo studio (P. G. Tait e W. Thomson – più noto sotto il nome di lord Kelvin) hanno cominciato a interessarsi ai nodi alla fine del 1800, partendo da una teoria sulla struttura della materia che oggi appare abbastanza fantasiosa: secondo questa teoria, gli atomi (vortex atoms) non erano costituiti da oggetti puntuali, ma da piccoli nodi che si allacciavano fra di loro a costituire le molecole. Quindi, pensando agli atomi, Tait e Thomson si sono proposti di arrivare a una classificazione dei nodi, ma probabilmente hanno sottovalutato il problema, che in effetti a tutt’oggi non è completamente risolto. Risalgono così ai loro tentativi le prime “tabelle di nodi”, cioè le prime liste di nodi, ordinati rispetto al numero minimo di incroci. Nella compilazione di queste tabelle, che contemplavano nodi con numero di incroci non superiore a 10, Tait si era basato su alcune affermazioni che evidentemente riteneva così ovvie da non aver bisogno di una dimostrazione; queste negli anni hanno preso il nome di “congetture di Tait” e, nonostante lo studio dei nodi disponesse di strumenti sempre più raffinati, sono state dimostrate solo in anni molto recenti.
Un nodo con numero di incroci 10
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Nodi caudini Sedia in legno di noce, particolare, metà XVII sec. Museo Diocesano Tridentino, Sezione di Villa Lagarina
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Nodi caudini
Di rosso al leone d’argento, con la coda annodata in nodo d’amore Lo stemma appartiene ad uno dei più prestigiosi casati nobiliari trentini, i Lodron, originari delle valli Giudicarie. Entro lo scudo rosso vi è raffigurato un leone rampante - inizialmente di profilo, poi con Paride III in maestà - simbolo araldico di coraggio e nobiltà d’animo, con la coda intrecciata a foggia di nodo d’amore o nodo Savoia, così chiamato perché venne introdotto per la prima volta nello stemma di casa Savoia da Amedeo VII (1360-1391), in onore del padre Amedeo VI distintosi nelle imprese contro i turchi. Il nodo, oltre a simboleggiare lo stretto legame che unisce la natura con la divinità, il genere umano con il Creatore, nel caso particolare del nodo d’amore, i cui lacci possono essere facilmente sciolti, potrebbe alludere ad una unione, ad una amicizia sì leale e sincera, ma non troppo vincolante. Mentre negli stemmi più antichi del casato non si riconosce il particolare della coda intrecciata, quest’ultimo inizierà a comparire nella stilizzazione araldica a partire dal XV secolo. s.c.
Se si fa l’esercizio mentale di “catturare” il nodo della coda del leone che appare nello stemma della famiglia Lodron (riprodotto nella foto di apertura), si ottiene quello che i matematici chiamano un nodo a otto. Tuttavia, non sempre negli stemmi dei Lodron la coda del leone è stata rappresentata allo stesso modo: talvolta alcuni dei passaggi sopra/sotto che servono a ricostruire il nodo da un suo diagramma sono stati invertiti. Ad un primo sguardo, questi nodi hanno comunque lo stesso aspetto, la stessa “ombra”.
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Nodi caudini
Ad esempio ci si può accorgere che, per un probabile errore di esecuzione, in questo stucco in via Mazzini a Rovereto , la coda in realtà non è annodata: il nodo, una volta catturato, può essere manipolato fino ad assumere la forma di un anello ed è quindi un finto nodo. Un errore diverso è stato commesso nello stemma conservato a Villa Lagarina : questa volta il nodo corrispondente può essere deformato in un nodo trifoglio. Quanti sono i nodi diversi che condividono questa stessa ombra? Dato che nell’ombra gli incroci sono quattro e che in ognuno di essi si può specificare quale ramo passa sopra e quale passa sotto, a priori abbiamo 4 2 = 16 possibilità. Tuttavia, non è difficile accorgersi che in molti casi (precisamente in dodici casi) si ottiene un finto nodo. I quattro casi rimanenti conducono invece a tre ulteriori nodi, diversi tra loro e dal finto nodo: due casi portano al nodo a otto, gli altri due danno invece il nodo trifoglio visto prima e… un altro trifoglio . Ma questa è una nuova storia, che racconteremo in Nodi allo specchio. Tra il 1920 e il 1930 furono poste le basi della moderna teoria matematica dei nodi, con la dimostrazione che una qualsiasi deformazione di un nodo può essere descritta, su un diagramma che lo rappresenta, attraverso una
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Nodi caudini
sequenza di “mosse elementari”, chiamate in seguito mosse di Reidemeister dal nome di uno degli scopritori. Più precisamente, oltre agli aggiustamenti che non alterano la struttura dei sopra/sotto del diagramma (tipo quello usato all’inizio per riconoscere il nodo a otto), ci sono sostanzialmente tre soli modi di cambiarlo: lo “scioglimento o la formazione di un ricciolo” , lo “scivolamento di un ramo su un altro” e lo “scivolamento di un ramo su un incrocio”. Ad esempio, i quattro disegni della deformazione che ha permesso di riconoscere il finto nodo nella coda del leone dello stucco, si possono interpretare come la sequenza di una mossa del secondo tipo e di due mosse del primo tipo. Con un po’ d’attenzione, l’ultima deformazione, che ha rivelato un nodo trifoglio nello stemma di Villa Lagarina, può essere invece decomposta nella sequenza di una mossa del terzo tipo e di una del primo.
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Nodi allo specchio Confrontiamo un nodo con quello rappresentato dalla sua immagine speculare: sono lo stesso nodo? In generale non riusciamo con un movimento rigido a portare qualcosa a sovrapporsi con la sua immagine speculare (basta pensare per esempio a una scarpa destra e a una scarpa sinistra…) e quindi saremmo tentati di dire che anche i nodi sono diversi. Peraltro, in questa situazione, i movimenti che possiamo compiere per portare un nodo nella stessa posizione di un altro (e concludere che i due nodi sono lo stesso nodo) ci lasciano una libertà molto più ampia: possiamo avvolgere la corda, stiracchiarla supponendola lunga a nostro piacimento, possiamo spostarla come vogliamo, pur di non “aprirla”. E questo fatto può farci pensare che la risposta alla domanda iniziale sia sempre e comunque un sì: dopotutto i due nodi “si assomigliano” molto. In realtà né la prima né la seconda risposta “vanno bene” per tutti i nodi: ci sono alcuni nodi per i quali la risposta è sì e altri per i quali la risposta è no.
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Nodi allo specchio
Ad esempio il nodo a otto è la stessa cosa della sua immagine speculare, e questo è facile da verificare (basta giocare con la corda!) ; invece un nodo trifoglio destro non può essere manipolato fino a diventare la sua immagine speculare, che chiamiamo nodo trifoglio sinistro. Questa seconda affermazione, però, non è facile da giustificare. In effetti, se manipolando una corda riusciamo a portare un nodo nella posizione di un altro, siamo sicuri che i due nodi rappresentano in realtà lo stesso nodo, ma se non ci riusciamo, come facciamo a sapere che la cosa è davvero impossibile? Noi non ne siamo stati capaci, ma perché qualcun altro non potrebbe farcela? In matematica, per ottenere la certezza di tale impossibilità si può procedere in questa maniera: si associa a ogni nodo un qualche “oggetto matematico” (potrebbe essere un numero, o anche qualcosa di più complicato, come per esempio un polinomio) che sia direttamente e esplicitamente calcolabile a partire da una particolare posizione del nodo (possiamo pensare a un disegno, come uno di quelli di questa scheda, o anche al dato concreto di una corda nello spazio tridimensionale). A priori, il valore di questo oggetto matematico potrà cambiare se si parte da una diversa posizione del nodo; se però troviamo una maniera di compiere questa associazione in modo che il valore di tale oggetto non cambi rispetto alle operazioni che corrispondono alla effettiva “manipolazione della corda”, allora abbiamo a disposizione un invariante del nodo, ossia qualcosa che dipende solo dal nodo stesso e non da una sua particolare proiezione o da un suo particolare disegno. Se poi si trova un invariante che assume due valori diversi per due nodi, possiamo affermare con certezza che i nodi in questione sono effettivamente differenti, cioè che non esiste una manipolazione che porti l’uno nell’altro. E questo è per l’appunto ciò che si è trovato per i nodi trifoglio destro e sinistro … ma si tratta di una storia troppo lunga per una scheda.
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Due numeri per un nodo Trento, Villa di via Rosmini, particolare di mosaico pavimentale
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Due numeri per un nodo
Trento romana A partire dal I sec. a.C. il territorio trentino venne assorbito pacificamente nel dominio di Roma. Il sito urbano che andò a costituire il municipium, presumibilmente fondato fra l’età cesariana e quella augustea, sorse ex novo sul conoide del Fersina, a ridosso dell’ansa dell’Adige, in un’area libera da concentrazioni antropiche, secondo un’ormai consolidata tecnica di fondazione adottata in tutti i centri coloniali romano-imperiali. I reperti archeologici sebbene di entità modesta, a causa dei forti sconvolgimenti che il tessuto urbano subì nel passaggio al medioevo, hanno suggerito di individuare il forum, fulcro della città romana, in prossimità della chiesa di S. Maria Maggiore, mentre forme di edilizia privata si alternavano a zone destinate ad attività artigianale, ubicate in prossimità dell’ansa fluviale alla Portèla e dell’attuale Istituto Sacro Cuore. Rilevanti sono in particolare i ritrovamenti affiorati sotto il Teatro sociale appartenenti a due realtà edilizie distinte, fra cui risalta il pavimento musivo di cui si conservano alcuni brani relativi ad un tema marino con delfini e la testa del dio Oceano, seguito da un secondo mosaico con emblema circolare entro decorazione a motivi vegetali ascrivibili all’età cesariana-augustea appartenenti ad una domus signorile. A partire dalla fine del I sec. d.C., le ridotte dimensioni della superficie urbana suggerirono l’espansione del tessuto edilizio al di fuori delle mura, andando a qualificare nuovi spazi abitativi nell’intera fascia periurbana, con creazione di officine-botteghe verso sud, nelle vicinanze della Porta veronensis, ubicata in prossimità dell’attuale Palazzo Pretorio, e di un quartiere residenziale signorile sul lato occidentale della città, nell’attuale via Rosmini. Di una villa edificata proprio in questa zona si conservano alcuni pavimenti musivi databili alla seconda metà del II sec. d. C., fra cui risaltano soprattutto il motivo con il nodo di Salomone ed un ampio rosone composto da sette esagoni entro cui sono raffigurati alcuni animali incantati dal suono della lira suonata da Orfeo. s.c.
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I nodi torici (chiamati anche taurini) sono nodi che possono essere disegnati sulla superficie di una ciambella (ed è questa caratteristica che spiega il loro nome, dato che una ciambella in matematica si chiama toro). Questi nodi sono completamente determinati da una coppia di numeri interi e non è troppo complicato capire in che modo. Possiamo infatti pensare di generarli fissando, sulla superficie laterale di un cilindro, un certo numero di segmenti paralleli alla sua altezza ed “equamente disposti”: se sono tre, come in figura , l’uno si ottiene dall’altro con una rotazione di 120°, cioè di un terzo di giro, attorno all’asse del cilindro. Ora immaginiamo il cilindro flessibile e richiudiamolo a formare una ciambella. Su entrambe le basi che stiamo identificando per ottenere la ciambella troviamo tre punti, le estremità dei segmenti ; se incolliamo le basi senza dare torsioni, il punto che su di una proviene da un certo segmento si attacca al punto che sull’altra proviene dallo stesso segmento. In conclusione, i tre segmenti si uniscono a formare tre circonferenze “staccate” fra loro: una situazione non molto interessante… Ma se prima di incollare diamo una torsione, si apre una serie di interessanti possibilità. Naturalmente, per collegare i tre segmenti, non possiamo dare una torsione qualsiasi, ma dobbiamo fare in modo che ciascuno dei tre punti su una base si colleghi con uno sull’altra; quindi la torsione dovrà essere di un angolo multiplo di 120° . Ed è così che compare l’altro dei due numeri interi che caratterizzano un tale nodo: il nodo torico di tipo (p,q) è quello che si ottiene a partire da p segmenti sul cilindro, identificando le basi dopo una torsione di (q x 360/p)°. In alcuni casi si ottiene un nodo “singolo”, ma può capitare che si ottengano più nodi allacciati fra loro. Questa eventualità si può “leggere” facilmente a partire dai numeri interi p e q che caratterizzano il nodo: le componenti del nodo sono pari al Massimo Comun Divisore tra p e q. In particolare si ottiene un solo nodo quando questi due numeri sono primi fra loro. Ad esempio se fissiamo p=2, cioè partiamo da due segmenti sul cilindro, otterremo un nodo a una componente quando q è dispari e a due componenti quando q è pari. Il nodo torico di tipo (2,1) è un finto nodo ; il nodo (2,2)
Due numeri per un nodo
Due numeri per un nodo
è costituito da due circonferenze semplicemente allacciate ; il nodo (2,3) è il trifoglio ; il nodo (2,4) è il cosiddetto nodo di Salomone, di cui si trovano innumerevoli esempi in arte (a partire dalle incisioni rupestri!) ; il nodo (2,5) è un altro esempio spesso usato nelle decorazioni. Questi due interi rappresentano il numero di volte in cui la curva (o le curve, se si tratta di più nodi) “gira intorno al buco”: p dà il numero delle volte in cui la curva si avvolge longitudinalmente (quindi per ottenere p si può contare il numero dei punti in cui la curva interseca un meridiano); q dà il numero delle volte in cui la curva si avvolge trasversalmente (quindi per ottenere q si può contare il numero dei punti in cui la curva interseca un parallelo) . Si può allora facilmente verificare che la treccia del mosaico romano, riprodotto nella foto di apertura, è un nodo torico (2,52) che ha quindi due componenti. Il fatto che i nodi torici siano completamente individuati da due numeri interi li rende una classe di nodi abbastanza “comodi” da studiare. Essi forniscono una famiglia su cui, per esempio, è naturale cominciare a testare delle affermazioni generali riguardanti i nodi: la famiglia è abbastanza ricca perché gli esempi non siano banali e insieme è abbastanza agevole da studiare rispetto alle difficoltà poste da un nodo generico.
Trento, Villa di via Rosmini, particolare di mosaico con nodo di Salomone
p=2, q=5
Duomo di Trento, particolare del rosone del prospetto principale
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Percorso senza ritorni
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Percorso senza ritorni
Sulle piantine sono indicati, con vari colori, alcuni itinerari turistici per Trento. Il problema posto nei tre casi è lo stesso: è possibile, partendo da un punto qualsiasi di un itinerario, percorrerne tutti i tratti senza staccare la matita dal foglio e senza ripassare mai su strade già percorse?
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Percorso senza ritorni
Dopo qualche tentativo di soluzione, sembra naturale rispondere che alcune volte è possibile e altre no. Perché? È abbastanza evidente che i vincoli che possono portare all’impossibilità non sono legati alla lunghezza o alla disposizione dei tratti di strada, ma piuttosto a quanti sono, e di che tipo, i punti in cui si incontrano diverse strade . Ogni volta che arriviamo ad un incrocio, dobbiamo poi uscirne percorrendo un tratto di strada diverso da quello di entrata. Perciò, se vogliamo finire la passeggiata nello stesso punto da cui siamo partiti, in ogni incrocio devono confluire un numero pari di strade (nel seguito, chiameremo questi punti incroci pari). Se invece punto di arrivo e punto di partenza sono diversi, allora in questi due punti devono confluire un numero dispari di strade (incroci dispari): dal punto di partenza dovremo uscire una prima volta e poi entrare e uscire un certo numero di volte, e analogamente in quello di arrivo. Questi percorsi comprenderanno quindi due incroci dispari, ma tutti gli altri incroci saranno pari. Nell’itinerario rosso ci sono quattro incroci dispari, quindi non è possibile percorrerlo senza ripetere qualche tratto di strada, neanche finendo la passeggiata in un punto diverso da quello di partenza. In quello blu ci sono due incroci dispari: se veramente è possibile percorrerlo senza ripetizioni, dovremo necessariamente partire da uno di essi e arrivare nell’altro. Nell’itinerario verde invece tutti gli incroci sono pari: possiamo quindi sperare di riuscire a percorrerlo partendo da un punto qualsiasi. In effetti non si tratta solo di una speranza, ma si può dimostrare che per itinerari come quello blu o quello verde esiste sempre una passeggiata senza ripetizioni, ed esiste anche un semplice algoritmo per trovarne una.
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Problemi di questo tipo vengono schematizzati con dei grafi, che sono formati da punti (i vertici del grafo) uniti da linee (gli spigoli del grafo): nei nostri esempi, i vertici corrispondono agli incroci e gli spigoli ai tratti di strada. In un grafo ciò che conta è solo il tipo di connessione (cioè quali verti-
Percorso senza ritorni
ci sono collegati da quali spigoli), mentre non hanno alcuna importanza la posizione dei vertici e la lunghezza degli spigoli, o se questi sono diritti o curvi. I problemi proposti all’inizio, che equivalgono a stabilire se è possibile disegnare il grafo corrispondente senza mai sollevare la matita dal foglio e segnando ogni linea una sola volta, sono pertanto di carattere topologico; in effetti, spesso si fa risalire l’origine della topologia proprio a un celebre problema, quello dei ponti di Königsberg, di cui quelle presentate qui sono delle versioni “trentine”. Königsberg è l’antico nome di una città prussiana attraversata da un fiume nel quale ci sono due isole, collegate tra loro e alla terraferma da alcuni ponti . All’inizio del 1700 i suoi abitanti si chiedevano se fosse possibile fare una passeggiata partendo da un punto qualsiasi della città, percorrendo una sola volta tutti i sette ponti allora esistenti. Il matematico Eulero schematizzò il problema con un grafo , in cui i quattro vertici corrispondono alle zone della città (le due isole e le due rive del fiume) e i sette spigoli ai ponti che le congiungono. Fare un giro per la città attraversando una sola volta ciascuno dei sette ponti equivale proprio a percorrere tale grafo senza mai passare due volte sullo stesso spigolo; ma siccome ci sono quattro vertici dispari, ciò non è possibile. Lo stesso grafo rappresenta anche il percorso illustrato nell’immagine di apertura di questa scheda. La teoria dei grafi, di cui Eulero pose le basi, si è sviluppata soprattutto dalla metà del secolo scorso ed ha numerose applicazioni in ricerca operativa, una branca della matematica che si occupa di problemi quali razionalizzare processi industriali, ottimizzare reti di distribuzione, gestire efficacemente un’impresa,… Spesso risolvere questi problemi è molto difficile. Talvolta si conoscono degli algoritmi che costruiscono possibili soluzioni, delle quali però non si può garantire che siano le migliori in assoluto: la complessità computazionale di questo genere di problemi è così elevata che ci vorrebbe un numero enorme di anni affinché un calcolatore possa trovare la risposta.
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Percorsi senza incroci
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Percorsi senza incroci
Supponiamo di voler costruire delle piste da sci che colleghino tre rifugi in montagna (Rifugio Genziana, Negritella e Stella Alpina) con tre alberghi a valle (Hotel Scoiattolo, Orso Bruno e Capriolo), in modo che da ciascun rifugio si possano raggiungere tutti gli alberghi. Per evitare il rischio di collisioni tra gli sciatori, vogliamo che le piste non s’incrocino. È possibile? Questa è una versione “in contesto alpino” di un classico problema topologico, che si può schematizzare così: si fissano tre punti del piano, corrispondenti ai tre rifugi (indicati in figura con pallini neri) e altri tre punti, i tre alberghi (pallini colorati). Si cerca quindi di collegare con delle linee ciascuno dei pallini neri con ciascuno dei pallini colorati, in modo che i percorsi non s’incrocino. Si tratta di un problema topologico perché, ad esempio, non hanno importanza né le distanze tra i pallini né la loro disposizione, e nemmeno la “geografia del paesaggio”. Lo schema astratto che abbiamo descritto potrebbe rappresentare situazioni diverse, ambientate in montagna come in pianura: la mappa sulla quale si elabora il progetto è pur sempre piana! Si può cominciare tracciando i possibili percorsi che escono da un pallino nero ; si può anche arrivare a tracciarli tutti tranne uno ; ma poi non si può fare altro. Ad esempio, nel caso illustrato, non si può collegare il Rifugio Negritella con l’Hotel Capriolo senza incrociare gli altri percorsi. E que-
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Percorsi senza incroci
sto non dipende dal fatto che abbiamo sbagliato a tracciare i primi; comunque si provi non si riesce: il problema è proprio impossibile!... a meno di non disporre di un “ponte” che permetta di “scavalcare” uno dei percorsi già tracciati – ad esempio il tratto RS HO che collega il Rifugio Scoiattolo con l’Hotel Orso Bruno. Per rendersi conto che senza ponti il problema non è risolubile, si può pensare al circuito (schematizzato in figura) formato dai sei percorsi: RS HO RN HS RG HC RS. Comunque siano stati tracciati i percorsi, questo tragitto costituisce una curva chiusa e senza incroci (perché i percorsi non possono attraversarsi tra loro) e una tale curva divide il piano in due parti: una parte “interna” e una “esterna” . Quindi, ciascuno dei tre ulteriori percorsi che dobbiamo aggiungere, per evitare di incrociare i primi sei, dovrà stare o tutto all’interno o tutto all’esterno di questa curva. È facile vedere allora che non è possibile portare a termine il compito: se per esempio uno dei tre percorsi da aggiungere viene disegnato all’interno del circuito, il secondo dovrà necessariamente passare per l’esterno e il terzo si troverà bloccato sia all’esterno che all’interno. Il punto cruciale che “blocca” la soluzione è quindi il fatto che ogni curva chiusa e senza incroci divide il piano in due regioni, un “dentro” e un “fuori”. Questa affermazione, che a livello intuitivo non stupisce nessuno, è stata formalizzata e provata per la prima volta dal matematico francese C. Jordan, a cavallo tra Ottocento e Novecento. Le dimostrazioni conosciute di questo fondamentale risultato, noto come teorema della curva di Jordan, richiedono strumenti molto sofisticati oppure, volendo rinunciare ad essi, argomentazioni assai laboriose. 34
Percorsi senza incroci
Per rendersi conto della profondità di questo enunciato, è utile riflettere sul fatto che non sempre una curva chiusa senza incroci divide in due una superficie. Ci sono infatti superfici diverse dal piano, come ad esempio il toro (che ha la forma di una ciambella), su cui si possono tracciare curve chiuse senza incroci che non le dividono in due regioni! Ci aspettiamo allora che su di esse il problema si possa risolvere. Questo accade appunto sul toro, come si vede nell’immagine d’apertura. Ritorniamo al problema iniziale ambientato nel piano e ricordiamo che lo si può risolvere se si dispone di un ponte. Un modo, forse inusuale, di schematizzare la costruzione di un ponte potrebbe essere il seguente: si prende una superficie, vi si fanno due buchi e vi si salda un tubo che li collega, come una maniglia. Questo procedimento, che opportunamente formalizzato ha un preciso significato matematico, permette di costruire superfici sempre nuove. Dal punto di vista topologico, se si attacca una maniglia ad un piano si ottiene proprio... un toro bucato! In altri termini, per un matematico il problema ambientato nel piano, ma con un ponte a disposizione, e quello ambientato sul toro sono in sostanza lo stesso problema.
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Percorsi senza incroci
Un’ulteriore variante del problema, proposta nella sezione virtuale, prevede che per unire i tre pallini neri con i tre colorati, disegnati ad esempio su un foglio di carta, sia possibile uscire da un lato del foglio rettangolare e rientrare dal lato opposto, rispettando però delle “norme di circolazione” opportunamente specificate. Questa nuova situazione corrisponde a porsi il problema su una superficie diversa dal rettangolo, precisamente sulla superficie ottenuta incollando insieme i lati del rettangolo sulla base delle norme stabilite in precedenza. Si potrà in qualche caso risolvere il problema? La risposta è affermativa se, ad esempio, si conviene di poter uscire da un qualsiasi lato e rientrare dal lato opposto “alla stessa altezza”, come specificato dai colori della figura. D’altra parte, la superficie che si ottiene identificando i lati del rettangolo secondo queste regole è ancora il toro. Cambiamo adesso le regole: conveniamo di poter uscire solo dai lati verticali, rientrando dal lato opposto sempre alla stessa altezza. La superficie che ora si ottiene è un cilindro e su di essa il teorema di Jordan è ancora valido: ogni curva chiusa non intrecciata divide il cilindro in due parti. Il problema non è quindi risolubile.
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Percorsi senza incroci
Il problema ha invece soluzione se, continuando ad uscire solo dai lati verticali, si rientra dal lato opposto ad “altezza opposta”, come indicano i colori della figura . La superficie che si ottiene in questo modo si chiama nastro di Möbius. Per costruirne un modello basta prendere una striscia di carta abbastanza lunga e stretta e incollarne le estremità più corte, dopo aver dato al rettangolo una torsione di mezzo giro . L’immagine d’apertura di questa scheda illustra una soluzione del nostro problema anche su tale superficie. Sul nastro di Möbius, come sul toro, non vale il teorema della curva di Jordan. Infatti, ci si può disegnare una curva chiusa senza incroci che non lo divide in due parti.
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Massimi e minimi
Il massimo per un rettangolo
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Il massimo per un rettangolo
Immaginiamo di descrivere su una scacchiera dei rettangoli diversi, ma tutti dello stesso perimetro, come si potrebbe fare disponendo una cordicella chiusa attorno ai pioli di un geopiano oppure con carta e matita, seguendo la quadrettatura del foglio. In che modo si può racchiudere il maggior numero di caselle? In altri termini, quale di questi rettangoli avrà la massima area? Supponiamo ad esempio che la corda, misurata con il lato delle caselle della scacchiera, sia lunga 24. Se a e b sono le lunghezze dei lati del rettangolo, si hanno solo queste possibilità: a b perimetro = 2a + 2b area = ab
1 11 24 11
2 10 24 20
3 9 24 27
4 8 24 32
5 7 24 35
6 6 24 36
Pertanto l’area massima si ottiene quando a = b = 6, e quindi la soluzione è il quadrato di lato 6. Un risultato analogo si ha quando la corda è lunga 28: la soluzione del problema è il quadrato di lato 7. Diversa è la situazione con una corda lunga 26. a b perimetro = 2a + 2b area = ab Soluzione con perimetro 28 Area = 49
1 12 26 12
2 11 26 22
3 10 26 30
4 9 26 36
5 8 26 40
6 7 26 42
In questo caso il rettangolo di area massima ha i lati diversi, di lunghezza 6 e 7. Soluzione con perimetro 24 Area = 36
Soluzione con perimetro 26 Area = 42
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G D
A
E se la corda fosse lunga 728 oppure 3122?
F C
E
B
Non è pensabile fare una tabella per ogni singola situazione che si può presentare: bisogna trovare un ragionamento che comprenda tutti i casi possibili e conviene quindi considerare il problema da un punto di vista astratto.
Il massimo per un rettangolo
In generale, fra tutti i rettangoli che hanno lo stesso perimetro, qual è quello di area massima? Se il rettangolo ABCD ha lo stesso perimetro del quadrato AEFG, allora i segmenti EB e DG hanno la stessa lunghezza, in quanto AE + AD + DG è uguale a AD + AE + EB, ossia alla metà del perimetro dato. La parte rossa del rettangolo ABCD può quindi essere riportata all’interno del quadrato, come in figura. Pertanto l’area del quadrato è la somma di quelle del rettangolo e del quadratino blu. Di conseguenza il quadrato è la soluzione del problema. Si nota che più il rettangolo è “schiacciato”, più grande è il quadratino blu e che quest’ultimo è tanto più piccolo quanto meno schiacciato è il rettangolo. Dunque, minore è la differenza tra i lati del rettangolo, maggiore è la sua area. Perché allora le soluzioni dei problemi sulla scacchiera non sono sempre dei quadrati? È chiaro che il perimetro di un rettangolo costruito sulla scacchiera è un numero pari, e che quello di un quadrato è anche divisibile per 4. Quindi se la lunghezza della corda non è divisibile per 4 (ad esempio, se è 26 o 3122) il quadrato non è costruibile. La soluzione del problema è allora il rettangolo “più quadrato possibile”, per il quale la differenza tra i lati è minima. In questo caso essa vale precisamente 1. Ad esempio, se il perimetro è 26 i lati della soluzione misurano 7 e 6, se il perimetro è 3122 misurano 781 e 780.
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Se il rettangolo ha un lato sul bordo della scacchiera o sul margine del foglio a quadretti, per descriverlo basta una cordicella aperta ovvero disegnarne tre lati con la matita.
Rettangoli con un lato sul bordo 2a + b = 12
a
b b
a
a
a
Il massimo per un rettangolo
Qual è il maggior numero di caselle che si possono racchiudere in questo modo, con una cordicella lunga 12 quadretti? a b 2a + b area = ab
1 10 12 10
2 8 12 16
3 6 12 18
4 4 12 16
5 2 12 10
Soluzione con un lato sul bordo 2a + b = 12 Area = 18
Procedendo come prima ad un’analisi dei casi possibili, si trova che la soluzione è “la metà di un quadrato”. Soluzione con due lati sul bordo Semiperimetro = 12 Area = 36
Una doppia riflessione risolve il problema d’angolo
In generale, fra tutti i rettangoli che hanno la somma di tre lati fissata, qual è quello di area massima? Se si riflettono tali rettangoli attorno al loro quarto lato, come si potrebbe fare appoggiando uno specchio al bordo della scacchiera, si ottengono rettangoli di area doppia e tutti dello stesso perimetro; esso è infatti il doppio della somma fissata in partenza. Allora, per quanto si è visto prima, tra tutti questi “rettangoli raddoppiati” quello di area massima è il quadrato; dunque la soluzione del problema è data da quel particolare rettangolo che, raddoppiato, diventa un quadrato. Una terza possibilità è che il rettangolo abbia due lati sul margine del foglio a quadretti; in tal caso, per descriverlo basterà tracciare i due lati rimanenti. Su una scacchiera si può ancora usare una cordicella aperta, fissandone i capi su due lati consecutivi del bordo. Fissata la lunghezza della corda, questi rettangoli hanno tutti lo stesso semiperimetro, quindi quello di area massima è sempre il quadrato. Questo fatto appare chiaro anche se si ragiona come nel caso precedente, dopo aver effettuato una riflessione attorno a ciascun lato sul bordo, come se si fossero appoggiati due specchi ad un angolo della scacchiera. È doveroso osservare che il “mezzo quadrato” e il “quarto di quadrato” risolvono gli ultimi due problemi nel caso generale, ossia se non ci sono restrizioni sulle lunghezze dei lati. Nel caso dei rettangoli costruiti sulla scacchiera o disegnati sul foglio a quadretti, le lunghezze dei lati non sono arbitrarie, ma sono espresse da numeri interi. Cosa succede in questo caso, se ad esempio la corda è lunga 10 o 11? Si riesce a dare una regola generale?
a
b a
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Arrotondando...
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Arrotondando...
Se si accostano, lato contro lato, alcune tessere a forma di triangolo equilatero, si possono ottenere varie figure, il cui perimetro si calcola semplicemente contando il numero di lati sul contorno. Qual è la figura di perimetro minore che si riesce a costruire con 6 tessere?
Alcune figure costruite con 6 tessere
Perimetro = 8 Perimetro = 8
L’analisi dei casi possibili fa scoprire che tutte queste figure hanno perimetro otto, tranne l’esagono regolare che ha perimetro sei e quindi il contorno più breve. E con 8 oppure 10 o 24 tessere?
Soluzione con 10 tessere
Per ottenere le figure di perimetro minimo composte da otto tessere basterà accostare altre due tessere all’esagono. Si può osservare che in questo caso si trovano quattro soluzioni, una delle quali è completamente priva di simmetrie . Con dieci tessere la soluzione è unica e simmetrica, con ventiquattro è di nuovo un esagono regolare.
Soluzione con 24 tessere
Perimetro = 8
Perimetro = 12
Perimetro = 8
Soluzione Perimetro = 6
Soluzioni con 8 tessere
Perimetro = 8
Perimetro = 8
Perimetro = 8
Perimetro = 8
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Con sedici tessere si può costruire un triangolo equilatero:
Arrotondando...
Sarà questa la configurazione di minimo perimetro? Con qualche tentativo si può vedere che non è così. Non è facile descrivere con una regola generale le soluzioni del problema per un qualsiasi numero di tessere. Si intuisce che, quando è possibile, conviene raggrupparle formando esagoni, e che spesso le soluzioni hanno proprietà di simmetria e di regolarità. È invece molto semplice descrivere la soluzione dello stesso problema in un contesto più generale, precisamente ampliando l’insieme delle forme ammissibili. Evidentemente, le figure costruite con un numero fissato di tessere hanno la stessa area: si possono allora considerare figure diverse dalle precedenti, non più costituite da tessere triangolari, ma aventi sempre la stessa area. Fra tutte le figure piane che hanno la stessa area, quale ha il minimo perimetro? Si può dimostrare che, se ci si limita a considerare solo figure triangolari, la soluzione è data dal triangolo equilatero; tra i quadrilateri, la soluzione è il quadrato, tra i pentagoni è il pentagono regolare... In generale, tra tutti i poligoni con un fissato numero di lati e con area assegnata, quello regolare ha il perimetro minore. A=1 P ≈ 4,559
A=1 P ≈ 3,812
A=1 P=4
A=1 P ≈ 3,672
A=1 P ≈ 3,722
A=1 P ≈ 3,545
A=1 P ≈ 3,641
Si osserva che, con l’aumentare del numero dei lati, il poligono regolare che risolve il problema assume una forma sempre più arrotondata. Il perimetro del poligono regolare con n lati e area A è dato da
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2
n A tan( π ) n
Arrotondando...
e quindi diminuisce all’aumentare di n e tende, al limite per n che tende all’infinito, al valore 2 π A che rappresenta proprio la lunghezza della circonferenza di area A. Si può effettivamente provare che il cerchio è la figura di perimetro minore fra tutte quelle di area fissata. Non è difficile convincersi che esso risolve anche il problema duale: fra tutte le figure di perimetro fissato, il cerchio ha la massima area. A volte la cinta muraria delle antiche città ha una forma approssimativamente circolare, come dovrebbe teoricamente essere al fine di racchiudere il massimo spazio per lo sviluppo urbano nel modo meglio difendibile, ossia rendendo minima la parte esposta a possibili aggressioni esterne.
Tridentum/Trient Braun Hogenberg Colonia 1581 (per gentile concessione della Biblioteca Comunale di Trento)
E se la città avesse un lato difeso naturalmente? Ad esempio, se fosse costruita sulla sponda di un fiume o sulla riva del mare? Supponiamo che la parte di piano su cui costruire la città, di area fissata, debba essere racchiusa tra una retta – il fiume – e una linea curva – le mura. Se si riflette una tale curva attorno alla retta si ottiene una linea chiusa di lunghezza doppia della linea data e che racchiude un’area doppia. Per quanto detto prima, la più corta di queste linee chiuse è una circonferenza e di conseguenza la forma più conveniente per la cinta muraria è ora una semicirconferenza. Alla risoluzione di quest’ultimo problema fa riferimento anche la leggenda della regina Didone, riportata da Virgilio nel libro I dell’Eneide. Didone, in fuga con il suo popolo dalla città di Tiro, si rifugiò sulle coste settentrionali dell’Africa e chiese della terra per costruirvi una città. In segno di scherno, il re del luogo le concesse tanta terra quanta ne potesse circondare la pelle di un toro. La regina, astutamente, fece tagliare la pelle in strisce molto sottili, che vennero annodate a formare una lunga fune. Con questa delimitò un ampio territorio semicircolare sulle rive del Mediterraneo. Nacque così Cartagine.
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Problemi di rete
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Problemi di rete
Reti elettriche, telefoniche, reti stradali e ferroviarie, reti di calcolatori... Da un punto di vista astratto si può descrivere una rete con un insieme di linee, che si incrociano in vari modi collegando tra loro dei punti. Dato un certo numero di punti, può essere interessante trovare una rete che li congiunge e che sia la più breve possibile. Se i punti fissati sono due, un segmento di retta risolve il problema.
L =3
E se i punti sono 3 oppure 4?
L =4
L = 2+ 2 ≈ 3, 41
L = 2+ 2 ≈ 3, 41
L=1+ 5 ª3,24
L =3
L =3
3 L = + 2 ≈ 2, 91 2
L = 2 2 ≈ 2, 83
È chiaro che per costruire una rete di lunghezza minima conviene utilizzare dei tratti rettilinei. Talvolta è vantaggioso far incontrare alcuni di tali segmenti in punti diversi da quelli assegnati. Questo fatto può sorprendere, ma risulta evidente già nel caso dei vertici di un triangolo equilatero: una misurazione diretta o un’applicazione del teorema di Pitagora mostrano infatti che la configurazione a forma di Y rovesciata è la più breve delle quattro reti raffigurate . Con un po’ di lavoro in più si può provare che la Y è proprio la rete di lunghezza minima, ovvero che è più breve di ogni altra rete congiungente i tre punti. Per arrivare a questa conclusione sono però necessarie ulteriori tecniche matematiche, in quanto si deve confrontare una particolare rete con le infinite altre che è possibile immaginare (e non soltanto con un numero finito).
L =2
L =1 +
3 2
≈ 1, 87
L = 3 ≈ 1, 73
Lunghezza di alcune reti nel triangolo equilatero di lato unitario
Anche i vertici di un quadrato possono essere collegati in tanti modi, alcuni dei quali sono rappresentati in figura . Come prima, le lunghezze possono essere determinate usando il teorema di Pitagora o mediante misurazioni dirette.
Lunghezza di alcune reti nel quadrato di lato unitario
49
A
In realtà, per riordinare queste otto reti, dalla più lunga alla più corta, non sarebbe necessario calcolare tutte le lunghezze. Ad esempio, riflettendo un lato obliquo attorno al lato orizzontale, si può vedere che la quarta rete è più corta della terza . In questo modo infatti, il confronto tra le due configurazioni si riduce a quello tra le due linee evidenziate in blu; si può allora concludere osservando che, per andare da A a B, la strada più breve è diritta. Per determinare la posizione reciproca delle reti a forma di H e di X è invece conveniente calcolarne le lunghezze. La K, composta da “mezza H e mezza X”, si collocherà tra di esse.
A
B
B
Problemi di rete
La X è quindi la più breve di queste otto reti e sembra corrispondere in tutto e per tutto alla soluzione descritta sopra per il triangolo equilatero: i segmenti partono dai vertici e concorrono in un punto centrale, formando angoli uguali. Sarà dunque la X la rete di lunghezza minima? La risposta è no! Confrontando la X con delle configurazioni a forma di doppia Y, ci si accorge che si può risparmiare fino al 3,4 % sulla lunghezza. Il risparmio maggiore si ottiene quando gli angoli nei due incroci sono tutti di 120°. Si può in realtà dimostrare che questa particolare doppia Y è in assoluto la più breve tra tutte le reti che congiungono i vertici del quadrato. Non è un caso che sia per i vertici del triangolo, sia per quelli del quadrato, la soluzione presenti angoli di 120°. Anche prendendo tre punti in posizione arbitraria, il più delle volte la rete di lunghezza minima che li congiunge è costituita da tre segmenti, che si diramano da un unico punto formando angoli di 120°. In alcuni casi, precisamente quando uno degli angoli interni del triangolo supera i 120°, un punto così speciale non esiste. La soluzione è allora formata dai due lati più corti del triangolo.
50
-2,4%
120° 120°
120°
120°
120° 120°
-3,4% L=1+ 3 ª2,73
Problemi di rete
Che cosa succede con 4, 5 o più punti? Le reti di lunghezza minima hanno tutte la stessa proprietà: i segmenti che le compongono si incontrano formando angoli uguali o maggiori di 120° e da ogni nodo, diverso dai punti assegnati, si diramano esattamente tre segmenti. In particolare, questa proprietà è verificata da ciascuna delle tre reti che congiungono i vertici dell’esagono regolare e che sono rappresentate in figura. Se si calcolano le loro lunghezze si scopre che la rete formata da cinque lati dell’esagono è più breve delle altre due; in effetti è stato dimostrato che questa è la rete di lunghezza minima possibile. Quindi, se da un lato è vero che ogni rete minima verifica la proprietà “dei 120°”, dall’altro non è detto che una rete avente tale proprietà sia di lunghezza minima in assoluto. Infatti, come si è appena visto, due reti tra i vertici dell’esagono verificano la proprietà senza essere per questo le più brevi. Tuttavia si può dire che sono minime in senso relativo: ciascuna di esse è infatti più breve di ogni altra rete che le si trova “abbastanza vicina”. Questa espressione, piuttosto vaga e indefinita, acquista un significato matematico ben preciso se si specifica l’opportuna nozione di “vicinanza” tra reti. La condizione di minimo relativo si traduce in una proprietà di stabilità delle configurazioni, che può spiegare ad esempio la formazione di particolari sistemi di lamine di sapone, osservabili sperimentalmente.
L = 2 7 ≈ 5, 29
L = 3 3 ≈ 5, 20
L =5
Reti minime realizzate con lamine di sapone
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Verso la sfera
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Verso la sfera
Se si accostano, faccia contro faccia, otto cubetti uguali si possono ottenere varie “costruzioni”, alcune delle quali sono rappresentate in figura con l’indicazione dell’area della superficie esterna. Il calcolo dell’area di tale superficie può essere eseguito semplicemente contando il numero di facce quadrate che la compongono. A questo scopo bisogna innanzitutto comprendere come sono fatte le costruzioni raffigurate. In alcuni casi gli otto cubetti che formano l’oggetto sono tutti visibili, quindi le usuali convenzioni della rappresentazione grafica bastano per ricostruire il modello tridimensionale. In altri casi uno o due cubetti sono nascosti. Per capire dove si trovano bisogna usare l’ulteriore informazione deducibile dalla “regola di costruzione”: ogni cubetto ha una faccia in comune con un altro. Ad esempio, nella costruzione rosa il cubetto mancante deve stare sotto a quello più in alto. I valori dell’area che si trovano negli esempi proposti sono, come si può notare, sempre numeri pari. Questo è vero in generale per tutte le costruzioni di questo tipo. Infatti, se si parte con gli otto cubi staccati l’uno dall’altro si contano 6×8=48 facce. Ogni volta che due cubi vengono a contatto, il numero totale delle facce sulla superficie esterna diminuisce di due, rimanendo comunque pari.
Area = 34
Area = 30
Area = 34
Area = 32
Area = 34
Area = 32
Area = 28
Area = 24
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Se si vuole che la costruzione sia “tutta d’un pezzo” (un matematico direbbe connessa) allora il minimo numero di contatti che si devono introdurre è 7, come capita, ad esempio, disponendo i cubetti tutti in fila. In questo caso l’area esterna è 34, visto che 48–7×2=34. Se si richiede invece di rendere minima l’estensione della superficie esterna, si devono assemblare gli otto cubetti in modo da formare un unico cubo di area 24.
Verso la sfera
È evidente che le costruzioni realizzate con gli otto cubetti hanno tutte lo stesso volume mentre, come si è visto, le aree delle superfici esterne possono essere diverse. In generale, fra tutti i solidi dello stesso volume, quale ha la superficie esterna di area minima? Se cominciamo a considerare il problema soltanto fra i parallelepipedi, la risposta è ancora il cubo. Per rendersi conto di questo fatto, si consideri un arbitrario parallelepipedo e, per prima cosa, lo si confronti con un altro parallelepipedo di uguale altezza e volume, ma con base quadrata. Le basi blu dei due solidi hanno quindi la stessa area, e allora quella quadrata ha perimetro minore, dato che fra tutti i rettangoli di area fissata il quadrato ha il minimo perimetro. Di conseguenza, l’area della superficie laterale (rossa) del secondo solido è minore di quella del primo: in definitiva, l’area esterna totale del parallelepipedo con base quadrata è la più piccola delle due.
volume: V=hl2 area esterna: A=2l2+4hl area esterna espressa in funzione del lato di base (con volume fissato): A(l)=2l2+ 4V — l
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Si può poi vedere che tra tutti i parallelepipedi con base quadrata e volume fissato, quello avente area esterna minore è proprio il cubo. Basta allora concatenare i due risultati ottenuti per concludere che, tra tutti i parallelepipedi di volume fissato, il cubo ha la superficie esterna di area minima.
A (l)
h l
l
3
V
l
Verso la sfera
Se invece si prende in esame una classe più ampia di figure, non è detto che il cubo sia ancora la soluzione del problema di area minima. Ad esempio, un dodecaedro regolare di volume uguale a quello di un cubo ha area esterna inferiore di circa l’11%, una sfera addirittura di quasi il 20%. Questo è il massimo miglioramento possibile: si può infatti dimostrare, con tecniche matematiche non elementari, che la sfera è il solido di area esterna minore tra tutti quelli che hanno volume fissato.
Cubo Volume = 1 Area = 6
Dodecaedro regolare Volume = 1 Area 5 5,312
Se si dovesse costruire un serbatoio di una fissata capacità volendo risparmiare sulla quantità di materiale impiegato, ossia sull’estensione della sua superficie esterna, la forma da preferire sarebbe quindi sferica. Anche le bolle di sapone si comportano in questo modo: a causa della tensione superficiale cercano di racchiudere l’aria soffiata in un involucro della più piccola estensione possibile. È ragionevole porsi anche il problema duale: Qual è il solido che, a parità di area della superficie esterna, contiene il massimo volume? Come si può immaginare la risposta è ancora la sfera: in un certo senso questi due problemi sono le facce di una stessa medaglia. Una questione collegata è quella di determinare la forma di una tenda da campeggio che racchiuda il maggior spazio con una data quantità di tessuto. Questa volta si suppone che lo spazio sia delimitato da un piano – il terreno su cui è piantata la tenda – e da una superficie di area assegnata – il tessuto – che ha il bordo su questo piano. Si può immaginare di riflettere una di tali superfici al di là del piano su cui poggia (un po’ come se la tenda fosse “piantata su uno specchio”); in questo modo essa e la sua simmetrica formano una nuova superficie, che ha area doppia del valore assegnato e che delimita uno spazio di volume doppio di quello prima delimitato assieme al piano. Per quanto detto sopra, il volume è massimo quando la forma della nuova superficie è sferica, dunque la soluzione di quest’ultimo problema è la semisfera.
Sfera Volume = 1 Area 5 4,836
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Lievi, minime superfici Michele Ciribifera Elicoide, 2003
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Lievi, minime superfici
L’Elicoide di Michele Ciribifera Tre cavetti d’acciaio tengono insieme delle aste di legno in modo che uno le vincoli a un estremo individuando un asse di rotazione e gli altri, quelli esterni, rendano stabile la struttura grazie agli attriti determinati dalla compressione. Questi ultimi, tesi, esercitano forze e momenti torcenti che flettono l’asse centrale, che assume esso stesso la forma a elica, avvitandosi come l’intera struttura, più o meno a seconda dell’inclinazione delle piccole aste esterne, ossia a seconda della distanza dei due cavetti esterni. Nasce nel 1969 a Perugia Michele Ciribifera, e realizza le idee in piccoli modelli in legno con cui prova le tensioni e le flessioni della forma, quasi senza calcoli se non semplici misure di ingombri. Quindi al passaggio di scala, ingrandendo, l’opera costruisce lo spazio. L’occhio si muove lungo le linee che curvano, cercando nuovi punti di vista, e chi guarda è spinto ad entrare – dove possibile – per sentirsi accolto da forme che paiono organiche: ali, spirali, cavità. g.p.
Basta immergere un telaio metallico in acqua saponata ed estrarlo per osservare la formazione di una pellicola trasparente tesa sul telaio. A seconda della forma del contorno metallico o del modo di estrarlo dall’acqua, si possono ottenere superfici molto diverse l’una dall’altra. C’è qualche caratteristica geometrica che le accomuna? Il modello fisico-matematico usato abitualmente in questo contesto descrive il fenomeno in termini di tensione superficiale e porta ad assumere che l’energia del sistema sia proporzionale all’area della superficie. Se ne conclude che le lamine di sapone sono delle particolari superfici minime. Ma che cos’è una superficie minima? Si possono immaginare innumerevoli superfici che hanno lo stesso telaio come bordo, ad esempio un anello circolare. Tra tutte le superfici il cui bordo è una circonferenza, quella di area minima è il cerchio.
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Lievi, minime superfici
Anche se il contorno è un anello leggermente deformato si può dimostrare che tra tutte le superfici con tale bordo ce n’è una di area minima. Chiaramente, se il contorno non sta su un piano, tale superficie non sarà una parte di piano. Due superfici topologicamente equivalenti
In generale, una superficie è minima se, ogni volta che se ne ritaglia un pezzo abbastanza piccolo e si richiude il foro con un altro pezzo di forma diversa, l’area aumenta. In realtà, le superfici che descrivono le lamine di sapone ottenibili sperimentalmente, oltre che minime, sono anche stabili, ossia corrispondono a posizioni di minimo relativo dell’energia del sistema. Questa è l’interpretazione teorica di un fenomeno fisicamente osservabile: una lamina di sapone, leggermente perturbata, tende a riacquistare la forma originaria. In effetti, la teoria matematica che studia le superfici minime dimostra che esiste una grande varietà di superfici minime instabili. Per questa ragione, nessuna di esse potrà essere realizzata da una lamina di sapone; con l’ausilio del calcolatore si possono però condurre “esperimenti virtuali”, che ne permettono la visualizzazione. Talvolta capita che le lamine ottenute con telai diversi abbiano la stessa topologia; in altre parole, è possibile immaginare di deformare una superficie nell’altra, stirandola a piacimento ma senza “provocare strappi”.
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In altre situazioni invece, anche con lo stesso telaio, si possono avere superfici minime topologicamente diverse, ad esempio un nastro di Möbius e un cerchio deformato.
Due superfici topologicamente diverse
Lievi, minime superfici
Le superfici minime, non appena il contorno non sia piano, hanno localmente – ossia prendendone in esame porzioni sufficientemente piccole – una caratteristica forma “a sella”: sono incurvate in un senso lungo una direzione e in senso opposto nella direzione perpendicolare. Un esempio molto importante di superficie minima è la catenoide, scoperta da Eulero attorno alla metà del 1700. Se come bordo si considerano due circonferenze parallele sufficientemente vicine tra loro, si scopre che la superficie laterale del cilindro non è quella di minor estensione: per risparmiare area, conviene incurvare la superficie verso l’interno fino ad ottenere la catenoide. Un altro esempio notevole è l’elicoide, che si ottiene facendo ruotare una semiretta attorno ad un asse perpendicolare lungo il quale viene contemporaneamente fatta scorrere, come se fosse il gradino di una scala a chiocciola. In questo modo, un punto fissato sulla semiretta generatrice descrive, durante il movimento, una particolare curva chiamata elica cilindrica. Una doppia elica è la forma che descrive la struttura del DNA. All’elicoide si ispira anche l’opera di Michele Ciribifera, raffigurata nella pagina d’apertura.
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Se una notte d’inverno una cicloide...
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Se una notte d’inverno una cicloide...
La linea più breve che congiunge due punti A e B è il segmento di retta: ogni altra linea che ha gli stessi estremi è certamente più lunga . Ma se volessimo andare da A a B nel più breve tempo possibile, converrebbe ancora muoversi lungo una retta? È chiaro che si dovrà tener conto delle condizioni che determinano il moto e che in particolare influenzano la velocità di spostamento. Supponiamo ad esempio di voler costruire il tracciato di un “otto volante” per un ipotetico parco di divertimenti, in modo che dal punto più alto A al punto più basso B si scenda nel minor tempo possibile. La situazione può essere schematizzata fissando due assi di riferimento nel piano vericale passante per i due punti A e B, come mostrato in figura . Ad ogni curva che congiunge A con B su tale piano corrisponderà allora un certo tempo di percorrenza; siamo interessati a determinare quella a cui corrisponde il tempo minore. Dalle leggi della dinamica di Newton si deduce che la velocità di un punto materiale P, costretto a stare su una certa curva e che scende senza attrito da A a B sotto l’azione della forza di gravità, è proporzionale alla radice quadrata della sua distanza y dalla retta orizzontale passante per A. Sulla base di questo modello fisico-matematico del problema è possibile esprimere, per ogni curva, il corrispondente tempo di percorrenza. Si può in questo modo provare che, scendendo lungo l’arco di circonferenza che parte da A con tangente verticale e arriva in B, si impiega un tempo minore rispetto alla discesa lungo il segmento AB . In effetti, conviene partire
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Se una notte d’inverno una cicloide...
da A in direzione verticale in modo da acquistare subito velocità, anche a scapito di allungare il percorso. Già Galileo Galilei, intorno al 1638, si era accorto di questo fenomeno. Sarà forse quest’arco di circonferenza la curva di tempo minimo? In realtà non è così: usando lo stesso modello fisico-matematico si può determinare, anche se non in maniera elementare, la vera soluzione del problema della brachistocrona, ossia della curva lungo la quale un grave scende impiegando il tempo minore (così chiamata dal greco ˯´Á˛Ô˘˙ı˝ = il più corto, ˛¯‰Ùı˝= tempo). La soluzione è data da un arco di cicloide. Anche se in un contesto diverso, questa particolare curva era già stata descritta in termini “meccanici” dallo stesso Galileo: si può infatti ottenere come traiettoria di un punto fissato su una circonferenza che rotola, senza strisciare, lungo una retta . Per averne una rappresentazione intuitiva, si può immaginare un punto luminoso solidale alla ruota di una bicicletta. Se la bicicletta procede nella notte, quello che si osserva è un punto che traccia proprio una cicloide. La “macchina” in mostra, di cui si vede un’immagine nella pagina d’apertura di questa scheda, consente di far partire simultaneamente due palline lungo una retta e lungo un arco di cicloide con gli stessi estremi. Si possono co-
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Se una notte d’inverno una cicloide...
sì confrontare sperimentalmente i tempi di percorrenza corrispondenti alle due curve e rendersi conto di quanto tempo si risparmi scendendo lungo la cicloide. Se invece le palline vengono fatte partire contemporaneamente da punti diversi della curva, si osserva che si scontrano esattamente nel punto più basso V . In altri termini, un punto materiale, lasciato scivolare lungo una cicloide, impiega sempre lo stesso tempo per arrivare in V, qualunque sia la posizione di partenza. Questa interessante proprietà di isocronia (dal greco „˘ı˝ = uguale, ˛¯‰Ùı˝ = tempo) della cicloide fu scoperta nel 1659 da C. Huygens, che la utilizzò per la realizzazione di orologi a pendolo. Più di trent’anni dopo, nel 1696, Johann Bernoulli, che aveva appena individuato nella cicloide la soluzione del problema della brachistocrona, sottopose tale questione all’attenzione della comunità scientifica. La sfida fu raccolta da alcune fra le più grandi personalità del tempo: anche Leibniz, Newton, il marchese de l’Hôpital e il fratello Jacob Bernoulli riuscirono a sciogliere l’intricata questione e inviarono le loro soluzioni. La conquista di questo risultato segna un momento particolarmente importante nella storia della matematica, che viene considerato come l’inizio di una nuova teoria: il calcolo delle variazioni.
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Visualizzazione
Il punto di vista Stella e Gianni Miglietta, Bozzetto della scena prospettica per il cortile di Palazzo Sardagna, 2005
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Il punto di vista
Passeggiando per via Calepina a Trento, lo sguardo è catturato dall’imponente portale barocco che incornicia l’ingresso di Palazzo Sardagna, sede del Museo Tridentino di Scienze Naturali. L’acquerello riprodotto nella pagina a fianco mostra invece come esso si presentava nel periodo in cui il museo ha ospitato matetrentino: la prospettiva dell’androne appare prolungata da nuovi archi che inquadrano una statua sullo sfondo. Ma bastava entrare nel museo perché l’illusione venisse svelata. Nel cortile interno era infatti allestita una scenografia: le strisce di pietra per il passaggio delle carrozze, prolungate artificialmente sul selciato, continuavano sul fondale insieme alla sequenza degli archi della rappresentazione prospettica. Ma che cos’è la prospettiva? È una tecnica il cui scopo è quello di rappresentare in maniera verosimile gli oggetti tridimensionali. Essa si sviluppa soprattutto nel Rinascimento, ma le sue origini risalgono agli studi sull’ottica geometrica dei matematici della Grecia ellenistica, esposti in un trattato di Euclide, l’Ottica appunto, e applicati ad esempio nella costruzione dei templi: per evitare la deformazione apparente delle colonne parallele della facciata, molti edifici sono costruiti con opportune deformazioni. A partire dal Brunelleschi (13771446) la ricerca empirica diventa matematica: egli realizza due celebri tavolette rappresentanti vedute di Firenze, ottenute applicando rigorose regole geometriche. Le sue idee, riprese e diffuse da Leon Battista Alberti (1404-1472), sono sviluppate dal pittore-matematico Piero della Francesca (1420 circa-1492), autore del primo trattato organico rinascimentale sulla prospettiva, e da Leonardo da Vinci (1452-1519), che definisce lineare la prospettiva geometrica. In seguito, se ne oc-
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cupano diversi artisti e trattatisti italiani ed europei, fino a quando, dalla seconda metà del ’500, lo studio squisitamente matematico della prospettiva prende il sopravvento.
Il punto di vista
Nel caso più semplice la rappresentazione avviene su un piano, quello del quadro. L’idea base della prospettiva consiste nell’immaginare il quadro come una finestra attraverso la quale si vede la scena posta al di là; in effetti la parola “prospettiva” viene dal latino perspicere, che significa “vedere attraverso”. Per determinare il punto del quadro che rappresenta un punto P della scena, bisogna considerare il raggio visivo che congiunge il punto stesso con l’occhio O dell’osservatore: esso “buca” il quadro in un punto P ı che è l’immagine di P. L’insieme dei raggi uscenti da un oggetto forma la piramide visiva (o cono visivo), la cui intersezione con il quadro dà la rappresentazione dell’oggetto stesso. Il vertice O del cono, cioè l’occhio dell’osservatore, è chiamato punto di vista. Uno stesso punto P ı rappresenta un qualsiasi punto del raggio visivo ; questa semplice osservazione serve a spiegare le varie illusioni prospettiche presenti nella mostra, come il già citato cortile e la camera di Ames. E ciò fa anche comprendere perché il problema della restituzione prospettica, cioè quello di ricostruire la scena a partire da una sua immagine prospettica, non abbia un’unica soluzione, come è mostrato anche nella scheda In volo in un dipinto.
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È facile, poi, convincersi che una retta a viene rappresentata dalla retta a ı, intersezione del quadro con il piano α individuato da O ed a. In particolare, α contiene la retta per O parallela ad a, che interseca il quadro in un particolare punto F, detto punto di fuga di a, corrispondente ad un punto all’infinito posto, in un certo senso, “in fondo” alla retta a. Questa idea un po’ vaga e all’apparenza incoerente acquista un significato preciso nell’ambito della geometria proiettiva. Si può in tal modo spiegare perché due rette parallele a e b, come ad esempio quelle individuate dai binari del treno o dai bordi di un lungo viale, ci
P
P’
O
Il punto di vista
appaiano convergenti: esse hanno infatti lo stesso punto di fuga. Siccome nel quadro i binari diventano convergenti, le traversine, che nella realtà sono lunghe uguali, nel quadro diventano sempre più corte. In effetti esse congiungono coppie di punti che nell’immagine prospettica sono sempre più vicini. Lo stesso accade per il viale, che sul quadro è sempre più stretto, e per gli alberi o i lampioni ai suoi lati, che diventano sempre più bassi. Non solo: le traversine, gli alberi e i lampioni, che nella realtà sono equidistanti, nel quadro sono sempre più vicini tra loro. In breve, nella rappresentazione prospettica le misure non si conservano.
b a
F
b a
b’
O
a’
Se non si cambia il punto di vista, le immagini prospettiche di un oggetto su due quadri paralleli si differenziano solo per la scala. È quello che accade anche per le ombre di uno stesso oggetto, proiettate da una sorgente luminosa puntiforme su due piani paralleli; ma anche per la rappresentazione prospettica e l’ombra di un oggetto, purché lo schermo di proiezione sia parallelo al quadro e la sorgente luminosa sia posta in O. Questo non stupisce se ci si rende conto che, in un certo senso, l’ombra di un oggetto e la sua immagine prospettica si ottengono nello stesso modo, ossia intersecando con un piano (lo schermo o il quadro) la retta passante per O (la sorgente o rispettivamente il punto di vista) e per il punto P che si vuole proiettare oppure rappresentare. Invece, se i quadri (o il quadro e lo schermo) non sono paralleli, si alterano le misure degli angoli e O anche i rapporti tra le lunghezze.
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Punti di vista
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Punti di vista
Immagini di uno stesso oggetto, prese da punti di vista differenti, possono risultare anche drasticamente diverse, come accade in modo particolare per le cime delle montagne. Ad esempio, questa foto e quella d’apertura, nella quale si può forse riconoscere il profilo di Dante, riprendono entrambe il monte Chegul, ad est di Trento, sia pure da due distinte angolazioni. D’altro canto, per esperienza quotidiana, siamo abituati a riconoscere uno stesso oggetto (una montagna, un edificio,…) anche se osservato da posizioni diverse… ma non troppo! Ad esempio, queste due immagini presentano molte differenze, ma hanno evidentemente anche molte caratteristiche in comune, che ci permettono di riconoscerle come fotografie di uno stesso oggetto: si tratta nel caso specifico di un modellino del Palazzo delle Albere di Trento. Che cosa hanno in comune (e cosa no) diverse foto di uno stesso oggetto? Per semplificare ulteriormente il discorso, limitiamoci al caso di un disegno come quello qui a lato , e delle due foto che lo ritraggono da punti di vista differenti. Le linee rosse, che nel disegno sono rette, restano tali anche nelle due fotografie, i segmenti verde e nero che si intersecano nel disegno continuano a intersecarsi in entrambe le immagini fotografiche, le linee si trasformano in altre linee, le porzioni di superficie in altre porzioni di superficie. Tuttavia le rette rosse, che nel disegno sono parallele, non lo sono più nelle
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foto; la superficie blu, che nel disegno è un cerchio, non lo è più nelle foto; i segmenti verde e nero che nel disegno hanno la stessa lunghezza e sono perpendicolari tra loro, nelle due foto hanno lunghezze diverse, con rapporti differenti, e formano angoli diversi. Allo stesso tipo di considerazioni si giungerebbe anche guardando un affresco e due sue riproduzioni fatte da pittori che lo ritraggano da punti di vista diversi. Tanto la fotografia, quanto il quadro, sono immagini prospettiche dell’originale. Che cosa hanno in comune (e cosa no) diverse immagini prospettiche dello stesso originale? Da un punto di vista geometrico la questione può essere schematizzata così: interpretando l’atto della vista come ottenuto da un “insieme di raggi uscenti dall’occhio” (cono visivo), tanto l’originale quanto la riproduzione risultano sezioni del cono con opportune superfici piane (la parete su cui è dipinto l’affresco e la tela della riproduzione). La domanda diviene quindi: che cosa hanno in comune diverse immagini ottenute l’una dall’altra con operazioni di proiezione (raggio visivo) e sezione (con un piano che non passi per il vertice del cono)? O, come direbbe un matematico, che cosa hanno in comune immagini ottenute l’una dall’altra tramite una proiettività?
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Ci sono assai poche proprietà che si conservano passando da una figura ad un’altra tramite una proiettività. Ad esempio, si conserva l’allineamento dei punti e si conserva pure un’altra fondamentale caratteristica che i matematici chiamano dimensione: gli oggetti unidimensionali rimangono tali così come quelli bidimensionali. In altre parole, linee non possono trasformarsi in superfici né viceversa. Le distanze tra i punti ed anche i rapporti tra le lunghezze invece si alterano; le ampiezze degli angoli mutano; circonferenze possono trasformarsi in ellissi (come si vede nella figura, in cui l’ellisse colorata di rosso appare come sezione di un cono proiettante una circonferenza azzurra) , ma anche in parabole o in iperboli.
Punti di vista
Punti di vista
La figura mostra come possa anche accadere che un segmento venga “spezzato” da una proiettività . Il segmento AB della retta r, quando viene proiettato dal punto P sulla retta r ı, si spezza: la parte verde del segmento si proietta nella semiretta verde, la parte blu nella semiretta blu, il punto che divide la parte verde da quella blu... “va all’infinito”!
A’
r
Si può dimostrare che, tramite una proiettività, è possibile trasformare un quadrilatero in un quadrato o in un qualunque altro quadrilatero e che pertanto, con una proiettività, quattro punti in posizione generica (ossia tre a tre non allineati) si possono trasformare in altri quattro punti, scelti a piacere, in posizione generica.
B
A
P
r’ B’
La stessa libertà non c’è più se i quattro punti stanno su una stessa retta: se si trasformano con una proiettività quattro punti allineati, i quattro corrispondenti non possono essere presi a caso, perché l’immagine dei primi tre determina l’immagine del quarto. Nonostante le distanze tra i punti, le ampiezze degli angoli e in generale tutte le proprietà metriche non siano conservate da una proiettività, c’è comunque un invariante numerico: il birapporto. Dati quattro punti allineati A, B, C, D, il loro birapporto (ABCD) è il rapporto tra i due rapporti AC/BC e AD/BD, ossia (ABCD) = (ACxBD)/(ADxBC). In una proiettività quattro punti allineati A, B, C e D si trasformano in altri punti Aı, B ı, C ı e D ı che sono ancora allineati e hanno lo stesso birapporto. L’invarianza del birapporto è uno dei classici risultati di geometria proiettiva che trovano frequenti applicazioni in questioni di fotogrammetria e ricostruzione dell’immagine, ogni volta che, a partire da una o più immagini fotografiche di un oggetto, si vogliano ricostruire la forma e la posizione dell’oggetto nello spazio, o il punto da cui è stata scattata la foto.
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In volo in un dipinto
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In volo in un dipinto
Giovanni Maria Falconetto, I Ss. Pietro e Paolo Le due grandi tele raffiguranti i Ss. Pietro e Paolo che oggi campeggiano in controfacciata all’interno della chiesa di Santa Maria Maggiore, provengono dal Duomo di Trento, luogo da cui furono asportate in epoca imprecisata tra il 1820 ed il 1863. Esse costituivano infatti le ante centrali dell’antico organo della cattedrale, innalzato su di un soppalco ricavato tra due pilastri della navata centrale, di fronte all’ingresso settentrionale verso la piazza. La realizzazione della decorazione dell’organo, che si componeva di quattro ante, di cui quelle interne visibili solo quando lo strumento era aperto, vennero commissionate nell’estate del 1507 dal Capitolo del Duomo al pittore veronese Giovanni Maria Falconetto. Trovandosi a lavorare al dipinto nel pieno della guerra tra Impero e Repubblica di Venezia, per non contravvenire all’editto imperiale di Massimiliano d’Asburgo che intimava a tutti i cittadini veneti di abbandonare i territori di pertinenza imperiale, sappiamo che Falconetto venne costretto a non intrattenere relazioni con cittadini trentini e a lasciare la propria abitazione solo per il tempo necessario a completare l’impresa pittorica che venne così consegnata nel luglio del 1509. A portelle chiuse l’organo mostra quindi in primo piano i Ss. Pietro e Paolo sulla soglia di un maestoso arco, finemente decorato, che immette, attraverso lo scorcio prospettico del pavimento a riquadri, in un secondo spazio architettonico in forma di edicola aperta sui lati, impreziosita da motivi decorativi a grottesche. Sullo sfondo, vi compare un’apertura paesaggistica con rocce, alberi e con un anfiteatro romano, identificabile con l’Arena di Verona. L’insolita personalità di Falconetto, pittore, architetto, erudito ed appassionato di antichità, emerge chiaramente attraverso il ricco repertorio figurativo, dove motivi desunti dall’antico si sposano con dettagli architettonici rinascimentali entro una complessa macchina prospettica non priva di qualche imperfezione, ma sicuramente di grande effetto suggestivo. s.c.
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PV B’ A’
C’ D’
B
A D
C
L’opera di Giovanni Maria Falconetto rappresenta i Santi Pietro e Paolo all’interno di una scena dipinta mediante la tecnica della prospettiva centrale. Tale tecnica è schematizzata nella figura , in cui PV denota il Punto di Vista, ABCD rappresenta l’oggetto “reale”, mentre Aı B ı C ı D ı è la sua immagine sullo schermo che funge da quadro. Il procedimento così schematizzato rappresenta quindi il passaggio concettuale da un oggetto nel mondo a tre dimensioni (3D) ad una rappresentazione a due dimensioni (2D).
Il problema inverso, ovvero la ricostruzione degli oggetti 3D a partire da una loro rappresentazione 2D, è tutt’altro che banale. Ma… è possibile ricostruire l’ambiente tridimensionale rappresentato nel quadro? È possibile cioè determinare le caratteristiche nello spazio di quell’edificio che, concepito dalla fantasia dell’artista, vive solo come insieme di linee e colori sul piano di una tavola di legno? In realtà il problema si divide in due parti. Anzitutto bisogna trovare il punto di vista, avendo a disposizione solo il quadro (ovvero lo “schermo” in cui sono individuati, nel nostro esempio, i punti Aı, B ı, C ı, D ı). Dove si trovava il punto di vista PV a partire dal quale è stata osservata la scena? In secondo luogo, bisogna stabilire dove si trovano e che forma hanno, nello spazio 3D, gli oggetti rappresentati. Ovvero, noto il punto di vista e noti i punti rappresentati nel quadro Aı, B ı, C ı, D ı, dove si trovano i corrispondenti punti A, B, C e D? Il problema è, in generale, insolubile. Infatti, a partire da una rappresentazione 2D e in mancanza di altre informazioni, esistono infinite possibili soluzioni al problema dato: ci sono infinite diverse combinazioni di particolari PV e particolari configurazioni di oggetti nello spazio che danno origine alla stessa rappresentazione 2D.
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Ma allora, come è stato possibile ricostruire la scena come appare nell’esperimento In volo in un dipinto della sezione virtuale della mostra? Innanzi tutto, non abbiamo davanti un quadro astratto, ma piuttosto la rappresentazione realistica di una scena. Ad esempio, si può ragionevolmen-
In volo in un dipinto
In volo in un dipinto
te ipotizzare che il pavimento sia orizzontale, i muri siano verticali, alcuni angoli siano retti, ci siano diverse simmetrie (per esempio destra-sinistra). Queste assunzioni, pur sembrando banali, sono in realtà fondamentali per ridurre drasticamente le alternative. Per comprendere gli ulteriori passaggi consideriamo l’esempio rappresentato nella figura . Lo stesso trapezio potrebbe corrispondere ad un rettangolo lungo e stretto (per esempio un’autostrada) oppure a un quadrato (per esempio il piano di un tavolino)… Se si sapesse che l’oggetto rappresentato è un’autostrada, si potrebbe allora per esempio dedurne che la posizione dell’osservatore dovrebbe essere molto lontana, mentre se si sapesse che l’oggetto rappresentato è il piano quadrato di un tavolino la posizione dell’osservatore dovrebbe essere molto più vicina. Utilizzando questo ragionamento, a partire – fra le altre cose – dall’ipotesi che i quadrilateri che decorano il pavimento siano approssimativamente dei quadrati, è stato possibile individuare la posizione relativa dell’osservatore, cioè il PV. Il problema successivo, ovvero la ricostruzione dell’intera scena dati il quadro e il PV, non presenta ostacoli concettualmente significativi, se non fosse per il fatto che Falconetto ha applicato in maniera a volte approssimativa le regole della prospettiva (per esempio nella dimensione reciproca delle colonne e dei capitelli o nella forma degli archi della volta a crociera dell’edicola alle spalle dei personaggi). È stato quindi necessario operare delle approssimazioni che permettessero una ricostruzione non sempre perfettamente fedele all’originale, ma mediamente il più coerente possibile con esso.
?
La fantasia ha avuto invece un ruolo più significativo, rispetto al rigore dell’analisi geometrica, quando si è trattato di ricostruire il paesaggio nello sfondo. D’altronde, come si sarebbe potuto resistere alla tentazione di un volo (seppure virtuale) nei cieli di uno di quei seducenti paesaggi che, complemento naturale del rigore delle prospettive degli edifici e dell’eleganza delle figure umane, hanno contribuito alla fama universale della pittura rinascimentale italiana? Fabrizio Lorito
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La camera di Ames
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La camera di Ames
La “camera di Ames” prende il nome dallo psicologo e oftalmologo statunitense Adelbert Ames Jr. (1880 - 1955) che si interessava di percezione visiva, in particolare di questioni relative alla valutazione di distanze e proporzioni, e aveva realizzato una serie di esperimenti volti a mostrare l’influenza dell’esperienza passata sulla percezione attuale. Sulla loro falsariga, proviamo anche noi a proporre alcune domande. Ecco alcune mele fotografate dallo spioncino della camera di Ames costruita per matetrentino. Nella prima foto la mela rossa appare assai più piccola della verde. Nella seconda foto la mela a sinistra appare più vicina all’osservatore, eppure sembra un po’ più piccola. Abbiamo fotografato mele nane e mele giganti? Oppure tutte queste mele sono della stessa misura? Ecco qui invece la foto di un triangolo rettangolo appoggiato sul pavimento della camera di Ames. Sapreste dire qual è l’angolo retto? Se avete qualche dubbio, potete verificare la correttezza delle vostre risposte nelle foto in fondo alla scheda.
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E ora spieghiamo il mistero. L’interno della camera di Ames è una stanza con il pavimento e il soffitto inclinati e con la parete di fondo trapezoidale, come è schematizzato in figura. All’osservatore, che guarda l’interno della camera da uno spioncino, la stanza appare come perfettamente normale e squadrata. Ad esempio, la parete di fondo trapezoidale appare come rettangolare, perché è disposta “di sbieco”, in modo da essere immagine prospettica (dallo spioncino) di un rettangolo: la base maggiore del trapezio è più lontana dall’osservatore, la minore più vicina. L’effetto è talmente convincente che quando vengono inserite nella stanza, vicino alla parete di fondo, due figure identiche, l’osservatore le percepisce come se fossero alla stessa distanza, ma di grandezza diversa: una più piccola, mentre in realtà è più lontana, e una più grande, mentre in realtà è più vicina. La camera ci appare regolare e funge da sistema di riferimento: le figure che entrano nella stanza si “adattano” ad esso. Le piastrelle del pavimento nella realtà sono trapezoidali come si vede dalla figura che rappresenta il pavimento esattamente com’è . Tuttavia esse ap-
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La camera di Ames
La camera di Ames
paiono quadrate, perché sono immagine prospettica (dallo spioncino) di un pavimento a piastrelle quadrate: cosicché anche la nostra percezione dell’ampiezza degli angoli risulta alterata. La camera in mostra ha pavimento e soffitto inclinati, ma almeno le pareti sono verticali, come in una stanza normale. In alcuni modelli di “stanza distorta” anche le pareti sono inclinate mentre in altri casi vengono proposte stanze distorte divise in due parti (destra e sinistra, guardando dallo spioncino) con pavimenti e soffitti diversamente inclinati e con profondità diverse che però, per illusione prospettica, appaiono “uguali”. Anche in questo caso si ottiene l’effetto del rimpicciolimento/ingrandimento delle figure. E per finire, ecco le risposte ai quesiti posti all’inizio di questa scheda.
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Simmetria
Ogni rosone al suo posto Particolare di arco da culla, Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina, San Michele all’Adige
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Ogni rosone al suo posto Collezione Pierino Navarini, Ravina
Un’attività tipica della matematica è quella di “mettere in ordine”, di classificare una determinata categoria di oggetti. Che cosa vuol dire questa affermazione quando si tratta della simmetria di un rosone? Balza all’occhio, guardando i pannelli della mostra riprodotti in fondo al volume, che alcuni rosoni “si assomigliano” più di altri. Ma esattamente, in che cosa si assomigliano? Come si fa a “mettere ogni rosone al suo posto”? Un primo elemento di diversità è messo in rilievo nei due pannelli Girandola di rosoni e Rosa di rosoni. Il primo mostra rosoni che non si possono “affettare in due con uno specchio”: non c’è alcun modo di disporre uno specchio, perpendicolarmente al piano su cui stanno, così che il mezzo rosone e la sua immagine riflessa nello specchio ricostruiscano insieme un rosone identico a quello originario. Sono rosoni che non hanno assi di simmetria. Il secondo pannello presenta invece rosoni che hanno almeno un asse di simmetria.
Collezione Pierino Navarini, Ravina
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Si usa dire che il primo illustra rosoni con una simmetria di tipo ciclico, mentre il secondo illustra rosoni con una simmetria di tipo diedrale.
C9, particolare di arco da culla, Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina, San Michele all’Adige
Questa classificazione può essere raffinata. Immaginiamo di avere due disegni perfettamente sovrapposti di uno stesso rosone. Si può allora misurare qual è la più piccola rotazione di uno dei due disegni che mantiene le figure ancora sovrapposte. Una rotazione siffatta esiste senz’altro, “alla peggio” c’è quella di 360°, che equivale all’identità, ossia al non aver mosso nulla. Ma naturalmente questo è un caso poco significativo e interessa vedere se ce ne sono di più piccole. Ad esempio, per entrambi i rosoni raffigurati nella pagina precedente, se qualcuno li ruotasse di 45° senza dircelo, noi non ce ne accorgeremmo; in un caso e nell’altro ognuno degli otto “petali” da cui è formata la figura andrebbe a finire nel successivo, sicché ogni punto del rosone si muoverebbe (eccetto il centro), ma l’immagine finale risulterebbe la medesima. Se si compie questa operazione due volte, è come se dalla posizione di partenza si ruotasse di 90°; e così via, se la si compie tre, quattro, cinque, sei, sette volte è come se si ruotasse di 135°, 180°, 225°, 270°, 315°. Se poi la si compie otto volte è come se non si facesse nulla e si restasse nella posizione di partenza. Questo numero 8 caratterizza la simmetria del rosone e indica quante volte occorre iterare la rotazione-base (cioè la più piccola rotazione che fissa il rosone) per tornare al punto di partenza.
C6, rosone della chiesa di S. Pietro a Trento
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Ora è facile “mettere in ordine” i rosoni e anche – se si vuole – attribuire un simbolo significativo al loro tipo di simmetria: una lettera C con un numero intero n indicherà che le rotazioni che fissano quel rosone sono la rotazione di un n-esimo di angolo giro (360°/n) e tutti i suoi multipli (fra i quali quelli distinti sono esattamente n); e, inoltre, dirà che il rosone non ha assi di simmetria. Una lettera D con un numero intero n indicherà che le rotazioni che fissano quel rosone sono, come prima, la rotazione di ampiezza un n-esimo di angolo giro e tutti i suoi multipli (per un totale di n rotazioni); ma indicherà anche che il rosone ha esattamente n assi di simmetria. La matematica ha preso in prestito dall’architettu-
Ogni rosone al suo posto
Ogni rosone al suo posto
ra la parola “rosone” per indicare una qualunque figura piana per la quale c’è solo un numero finito di isometrie (trasformazioni che mantengono inalterate le distanze) che fissano il disegno. In effetti, in questo caso le uniche possibilità che s’incontrano sono quelle appena descritte. Non è possibile, ad esempio, trovare un rosone che abbia più di un asse di simmetria e non abbia anche qualche rotazione (diversa dall’identità) e nemmeno un rosone con 8 rotazioni che lo fissano e soltanto 3 assi di simmetria: se ci sono 8 rotazioni e almeno un asse di simmetria, allora ci sono anche 8 assi di simmetria.
D8, Chiesa di S. Giuseppe, Trento
Per giustificare la prima di queste due affermazioni basta osservare che, se la figura ha due assi di simmetria, ci sono due riflessioni che fissano il disegno; allora il disegno viene fissato anche dalla trasformazione che si ottiene agendo prima con l’una e poi con l’altra di queste due riflessioni (cioè dalla loro composizione). Di quale trasformazione si tratta? In generale, questo dipende dalla posizione delle due rette rispetto alle quali avvengono le riflessioni: se le rette sono parallele, questa composizione è una traslazione , mentre se sono incidenti è una rotazione. Ma, per un rosone, il primo caso va escluso: se ci fosse una traslazione che fissa il disegno, ce ne sarebbero infinite (tutti i suoi multipli, che questa volta sono tutti fra loro distinti). Quindi le due rette sono necessariamente incidenti e si trova così una rotazione che fissa il disegno. Per giustificare la seconda affermazione (ossia che le riflessioni che fissano il disegno, se ce ne sono, sono tante quante le rotazioni) si può, ad esempio, prendere una particolare riflessione (chiamiamola s) e considerare la corrispondenza che associa ad ogni rotazione r la composizione ottenuta facendo agire prima r e poi s; questa trasformazione fissa ancora il disegno (dato che r e s lo fanno) e si può provare che si tratta di una riflessione. In tal modo viene definita una corrispondenza biunivoca fra le rotazioni e le riflessioni che fissano il disegno e ciò significa che le une e le altre sono in ugual numero. In conclusione, qualunque sottogruppo finito di isometrie del piano è un gruppo ciclico (contiene solo un certo numero di rotazioni) oppure un gruppo diedrale (contiene un certo numero di rotazioni e lo stesso numero di riflessioni).
D4, Zuclo, Valli Giudicarie
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Dal piano allo spazio La sezione simmetria della mostra matetrentino contiene vari oggetti che coinvolgono uno o più specchi e che vengono utilizzati indifferentemente per analizzare la simmetria sia di figure piane sia di modelli tridimensionali. Eppure in realtà c’è solo un caso dove si può osservare una situazione genuinamente tridimensionale, ed è quello illustrato dall’oggetto costituito da tre specchi, a due a due ortogonali fra loro. In tutti gli altri casi (specchio singolo, due specchi ortogonali, camera di specchi quadrata, camera di specchi a forma di triangolo equilatero) si tratta di strumenti utili per studiare la simmetria piana. Una tale affermazione può sembrare bizzarra, visto che anche in questi casi si ha la possibilità di usare modelli tridimensionali: il Duomo di Trento o la chiesa dell’Inviolata di Riva non sono certo oggetti bidimensionali! Ma non è difficile rendersi conto che sono modelli il cui tipo di simmetria è “essenzialmente” quello di una figura piana. Fissiamo infatti un punto sul modello che rappresenta 1/4 della chiesa, e indichiamolo con la punta del dito. Se il modello è accostato ai due specchi perpendicolari, vedremo quattro punti sul tetto, indicati da quattro dita . Ebbene, questi quattro punti stanno tutti su uno stesso piano! Anche se mettiamo una mano nella camera di specchi quadrata, tutti i punti corrispondenti alle punte del dito indice stanno su uno stesso piano, il piano orizzontale (cioè perpendicolare ai quattro specchi) passante per la punta del dito “vero”. 88
Dal piano allo spazio
Che cosa succede, invece, se mettiamo un dito fra i tre specchi a due a due ortogonali? Vediamo otto dita, ma gli otto punti corrispondenti non stanno più su un piano. Essi hanno tutti la stessa distanza dal punto in cui si uniscono i tre specchi e quindi stanno su una stessa sfera. Allora, come deve essere fatto un oggetto perché sia possibile costruirne un modello tridimensionale che ne rappresenti solo 1/8 e sia tale che, disposto fra i tre specchi, ne permetta una ricostruzione completa? Non può essere un oggetto qualsiasi, bisogna che sia possibile “affettarlo” in tre modi diversi in due parti speculari l’una dell’altra: la metà destra e la metà sinistra, la metà davanti e quella dietro, la metà sopra e quella sotto devono essere l’una speculare dell’altra. Per esempio, non cercheremo oggetti di tal fatta fra gli edifici: la presenza di porte, infatti, rompe questo tipo di simmetria, perché è certo assai improbabile che ogni porta abbia una sua corrispondente simmetricamente disposta sul soffitto! Invece la forma di alcune botti in cui viene fatto invecchiare il vino offre un esempio di simmetria di questo tipo , ed anche alcuni cristalli, come il granato, si ricostruiscono nello stesso modo. Anche un dado ha queste caratteristiche, se non badiamo alla numerazione delle facce. Anche una palla può essere ricostruita disponendone fra i tre specchi uno spicchio da 1/8, e questo è evidente. Un po’ meno evidente è l’osservazione che si può ricostruire anche il pallone da calcio, con l’usuale decorazione di pentagoni ed esagoni . Ciò dipende dal fatto che il gruppo di simmetria del pallone da calcio (ovvero del poliedro (5,6,6) formato da pentagoni ed esagoni, con un pentagono e due esagoni che arrivano in ogni vertice) contiene tre riflessioni in tre piani a due a due ortogonali fra loro.
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Come si trova l’intruso
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Come si trova l’intruso
In matematica la parola “mosaico” viene usata in un’accezione diversa dalla lingua comune e sta ad indicare un disegno piano che si ripete periodicamente in più di una direzione (un disegno per il quale ci sono due traslazioni del piano, in direzioni indipendenti, che lo lasciano fisso). Siamo circondati da mosaici: li troviamo fra i pavimenti e le facciate “importanti” come uno dei pavimenti del Castello del Buonconsiglio o il bugnato di Palazzo Galasso a Trento ; ma li troviamo anche in tante pavimentazioni e sui tetti o, addirittura, fra i tombini, le cancellate in ferro battuto, le piastrelle di casa nostra.
Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina, San Michele all’Adige
In realtà tutti questi offrono soltanto esempi “parziali” di un mosaico (inteso in senso matematico) perché, per pensarli come mosaici, dobbiamo immaginarli indefinitamente estesi al di là del foglio di carta, della parete o del pavimento. Ci sentiamo “autorizzati” a fare questo atto di immaginazione quando il “frammento” che c’è sul disegno suggerisce l’idea di come lo si possa continuare, usando delle traslazioni per ripetere un certo motivo indefinitamente. Se inseriamo una figura in una camera quadrata di specchi, si ha l’effetto di un disegno che si ripete indefinitamente e periodicamente, cioè proprio di un mosaico. Ma non tutti i mosaici si possono vedere così. Come si possono distinguere quelli per cui ciò è possibile? Innanzitutto è indispensabile che la figura abbia degli assi di riflessione (e questa condizione è sufficiente per riconoscere Qual è l’intruso nel pannello che reca questo titolo) e che questi assi “stacchino” un quadrato.
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Ma l’analisi può continuare: tutte le figure ottenute in una camera quadrata di specchi hanno lo stesso tipo di simmetria? Quanti tipi diversi di simmetria si possono ottenere? In matematica il “tipo di simmetria” di una figura piana è individuato dal cosiddetto gruppo di simmetria, cioè dall’insieme costituito da tutte quelle trasformazioni del piano in sé che mantengono inalterate le distanze (isometrie) e fissano quella figura. Se una figura si può ricostruire in una camera di specchi quadrata, il suo gruppo di simmetria contiene necessariamente le riflessioni nelle quattro rette che contengono i lati del quadrato, insieme a tutte le (infinite!) trasformazioni che si ottengono da queste per composizione: ad esempio le due traslazioni rispetto a vettori di direzione parallela ai lati del quadrato e di lunghezza doppia del lato (che corrispondono alla composizione delle due riflessioni in lati opposti del quadrato) e le rotazioni di 180° intorno ai vertici del quadrato (corrispondenti alla composizione delle due riflessioni in lati adiacenti). Ma a priori il gruppo di simmetria potrebbe contenere anche qualcos’altro, ossia qualche trasformazione che non si ottiene come composizione di queste quattro riflessioni. In effetti, ci sono quattro diversi casi possibili, che corrispondono a quattro diversi schemi di simmetria per il “modulo” inserito nella camera di specchi quadrata:
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• Ci possono essere delle rotazioni di 90° nel centro del modulo quadrato (il che comporta rotazioni di 90° nel centro di tutti i quadrati ottenuti per successive riflessioni); questo schema (p4g) è molto comune e s’incontra per esempio nella decorazione del pavimento di un ingresso in via Oriola a Trento ma anche su molti tombini delle nostre città. • Il modulo quadrato può essere simmetrico rispetto a una delle sue due diagonali (e questo comporterà, nel disegno globale, infiniti assi di simmetria nelle rette che contengono le diagonali di tutti i quadrati ottenuti per successive riflessioni); questo schema (p4m) è ad esempio lo schema della decorazione del tetto della chiesa di Mezzocorona nella foto di apertura, o quella del pavimento della Loggia del Romanino al Castello del Buonconsiglio ma anche della facciata di molte case come ad esempio quella in figura.
Come si trova l’intruso
Come si trova l’intruso
• Ci possono essere delle rotazioni di 180° nel centro del modulo quadrato (e quindi ci sono anche rotazioni di 180° nel centro di tutti i quadrati ottenuti per successive riflessioni); questo schema (cmm) s’incontra per esempio nel bugnato di Palazzo Galasso a Trento , ma anche in alcune inferriate . Va osservato che, mentre i due schemi precedenti possono essere realizzati solo con una camera quadrata, in questo caso lo stesso tipo di simmetria si può ottenere anche usando una camera rettangolare come nel motivo tradizionale delle sedie impagliate. • Infine, il modulo quadrato inserito nella camera di specchi può essere privo di simmetrie; ciò comporta che nel disegno globale non ci sono altre isometrie che lo fissano oltre a quelle “necessarie”, cioè quelle ottenute per successive composizioni delle riflessioni nei lati del quadrato. Lo schema che si ottiene (pmm) non è molto comune; in questo caso, come nel precedente, si può ottenere lo stesso gruppo di simmetria anche partendo da un rettangolo ed è più facile incontrare esempi di questo tipo. Ma ci sono altri mosaici oltre a quelli che si ottengono in una camera di specchi quadrata. Alcuni, come la pavimentazione ad esagoni della chiesetta di S. Rocco a Pergine , si ottengono in una camera di specchi di forma diversa dal quadrato, mentre altri, come lo stampo per tessuti conservato al Museo di S. Michele , con gli specchi non hanno proprio nulla a che fare. È spontaneo allora domandarsi quanti e quali diversi schemi di simmetria s’incontrano. A prima vista si potrebbe pensare di avere un’estrema libertà nell’inventarsi uno schema con cui ripetere il disegno, ma non è vero. I possibili schemi sono solo 17. Si tratta di un risultato dell’inizio del Novecento, che è stato ottenuto in un certo senso come un “sottoprodotto” dello studio dell’analoga situazione tridimensionale (situazione particolarmente interessante in cristallografia). Già prima di allora tutti i 17 schemi erano stati usati da artigiani e artisti in molte parti del mondo.
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Ogni fregio al suo posto
Quando camminiamo (in linea retta!) sulla neve, le nostre orme lasciano una traccia costituita da un disegno che si ripete periodicamente in una sola direzione. La matematica chiama “fregio” un disegno di questo tipo, ossia quando esiste una traslazione del piano che trasforma il fregio in se stesso (e tutte le altre traslazioni che fissano il disegno provengono semplicemente dall’iterazione di una traslazione-base). E quindi, a ben vedere, già il nostro esempio non è del tutto corretto: perché si possa dire che si tratta di un fregio, infatti, dobbiamo avere la fantasia necessaria per immaginare che le orme continuino a ripetersi indefinitamente nella direzione di traslazione. Non sono fregi le figure della scheda Ogni rosone al suo posto per le quali non c’è una traslazione che fissa il disegno (e non è un caso: non può esserci una tale traslazione per un qualsiasi disegno che rappresenti una figura limitata del piano); ma non sono fregi nemmeno le figure della scheda Come si trova l’intruso per le quali le traslazioni che fissano il disegno sono “troppe”: non sono tutte nella stessa direzione, ma anche in direzioni diverse, o più precisamente indipendenti. I fregi sono molto comuni in architettura e basta guardarsi intorno per osservarne una grande varietà. Come si possono “mettere in ordine” dal punto di vista della simmetria? Dato che per ognuno di essi c’è una traslazione che fissa il disegno, la diversità dei loro tipi di simmetria si basa sulle altre eventuali trasformazioni che, oltre alle traslazioni, fissano il disegno. Lo schema di simmetria del fregio delle orme è dato dalla ripetizione di una glissoriflessione, cioè della combinazione di una riflessione che manda l’or-
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ma destra nell’orma sinistra con uno spostamento che fa avanzare di un passo. Iterando due volte questa trasformazione si ottiene una traslazione (quella che fa avanzare di due passi): è la traslazione-base che fissa il disegno. È lo stesso schema di simmetria che si ritrova in questo portone a Rovereto , dove ogni ricciolo va nel successivo con una riflessione (che manda ogni ricciolo che si avvolge in un verso in uno che si avvolge nel verso opposto) seguita da una traslazione. Lo ritroviamo anche nella seconda fascia che decora questo pluteo conservato a Castel Stenico, nelle Valli Giudicarie. Il fregio che disegniamo sulla neve saltando su un piede solo, sempre nella stessa direzione, ha uno schema di simmetria diverso poiché si passa da ciascuna orma alla successiva compiendo sempre la stessa traslazione e, oltre alle traslazioni, non ci sono altre trasformazioni che fissano il disegno. Si tratta dello stesso schema di simmetria che troviamo, ad esempio, in questa immagine. Il fregio che otteniamo saltando a piè pari ha un tipo di simmetria ancora differente: c’è una traslazione (che fa passare dalle orme lasciate da un salto a quelle lasciate dal salto successivo), ma c’è anche una riflessione, rispetto a una retta parallela alla direzione di traslazione, che scambia le orme destre con le orme sinistre: è lo stesso schema che incontriamo nella fascia più in basso del pluteo di Castel Stenico.
Il fregio di Villa Sissi nel parco di Levico Terme è un esempio di un altro tipo di simmetria in cui, oltre alla traslazione, sono presenti delle riflessioni (non una sola, ma infinite!) rispetto a rette per96
Ogni fregio al suo posto
Ogni fregio al suo posto
pendicolari alla direzione di traslazione . Anche questo schema si potrebbe ottenere saltellando, ma con dei salti meno naturali: bisognerebbe saltare a piè pari e di traverso, ossia in direzione ortogonale alla direzione dei piedi. Nei restanti schemi di simmetria sono presenti, oltre alle traslazioni, anche rotazioni di 180°. Nella prima e terza fascia dello stesso pluteo vediamo l’esempio di un fregio che rappresenta uno schema molto comune, dove sono presenti oltre a rotazioni e traslazioni, anche riflessioni (sia una riflessione rispetto a un asse parallelo al vettore di traslazione, sia infinite riflessioni rispetto ad assi ortogonali a questo vettore). In quest’altro fregio , che orna un capitello della chiesa di S. Maria Maggiore a Trento, ci sono invece solo rotazioni e traslazioni che fissano il disegno. Infine in questo esempio sono presenti, oltre a traslazioni e rotazioni, infinite riflessioni rispetto ad assi ortogonali al vettore di traslazione e anche infinite glissoriflessioni. Abbiamo così descritto sette possibili schemi per il tipo di simmetria di un fregio: in realtà questi sono i soli casi possibili. Vale a dire, qualunque fregio rientra, dal punto di vista della simmetria, in uno ed uno solo di questi sette casi. Questo fatto può risultare sorprendente, ma non è difficile rendersi conto, se non di tutte, almeno di alcune delle sue motivazioni. Ad esempio, le rotazioni che fissano un fregio devono essere necessariamente di 180°, altrimenti si verrebbero a formare traslazioni in una direzione diversa dalla traslazione-base che fissa il disegno. Per lo stesso motivo, le riflessioni che fissano un fregio devono avere necessariamente l’asse parallelo oppure perpendicolare alla direzione di traslazione. Tali considerazioni non bastano a giustificare il fatto che i fregi sono solo sette, ma sono sufficienti a dare un’idea del tipo di vincoli che stanno alla base di questo risultato.
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Seconda parte l’allestimento
topologia massimi e minimi visualizzazione simmetria terminali nel regno di matelandia
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Il percorso espositivo La mostra matetrentino può essere letta come un percorso guidato in un terreno ricco di fatti matematici o anche come una serie di inviti a “fare esperienza” di matematica, affrontando questioni stimolanti. Queste pagine si propongono come guida a una lettura attenta del percorso espositivo del quale descrivono, sezione per sezione, gli exhibit e le immagini. Già all’ingresso del Museo Tridentino di Scienze Naturali, che ospita la mostra, si ha una prima esperienza di grande suggestione visiva: una scenografia, collocata nel cortile, riprende ed accentua l’effetto prospettico creato dal portale che introduce il visitatore all’interno. Un Grande cubo con il logo della mostra e delle Orme che tratteggiano i sette tipi di fregio arricchiscono la scena. I temi della visualizzazione prospettica e della simmetria saranno poi approfonditi al secondo piano del museo. Il piano terra è invece dedicato all’esplorazione di due modalità, in qualche senso complementari, utilizzate in matematica per costruire modelli e schemi per indagare la realtà. In alcuni casi si ha la necessità di una descrizione quantitativa dei fenomeni e quindi vengono privilegiati numeri e misure, nonché le relazioni che tra loro intercorrono: è questo il tema della sezione massimi e minimi. Ma ci sono situazioni in cui non hanno importanza né la forma né le dimensioni di un oggetto, e nemmeno la lunghezza di un itinerario, ma solo fattori in un certo senso più “di base”, proprietà degli oggetti che non cambierebbero anche se questi fossero fatti di gomma e li si potesse distorcere a piacere (senza romperli). La disciplina che se ne occupa è la topologia e gli esperimenti della prima sezione della mostra si propongono di dare un’idea di che cosa ciò significhi in due ambiti apparentemente molto lontani fra loro: uno relativo ai grafi e un altro ai nodi. La mappa di Trento è l’occasione per proporre il problema dei ponti di Königsberg. Si tratta di capire se e come sia possibile percorrere degli itinerari segnati su alcune cartine, senza mai staccare la matita dal foglio e sen-
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za passare due volte su un tratto già percorso (Percorso senza ritorni); e inoltre di capire perché alcune volte questo è possibile e altre no. Un’altra classica questione di topologia dei grafi, nota come “problema delle tre case”, viene proposta in un’ambientazione tipicamente montana. Su un plastico raffigurante un paesaggio di montagna sono rappresentati tre rifugi e tre alberghi e si chiede al visitatore di collegare, mediante delle piste da sci che non si incrociano (Percorsi senza incroci), i tre rifugi in vetta con i tre alberghi a valle. Al visitatore è data anche la possibilità di utilizzare un ponte con il quale si riesce a risolvere il problema, altrimenti irrisolubile. Alcuni modelli tridimensionali mostrano poi come l’aver utilizzato il ponte corrisponda ad aver risolto il problema non più sul piano, ma sulla superficie di una ciambella (un Toro) e come lo stesso problema sia risolubile anche su un Nastro di Möbius. Quanto al secondo ambito, se si fa un nodo con una corda e se ne uniscono i due capi, il nodo “viene fissato” (Catturare un nodo) in qualcosa che non si può più sciogliere, a meno di non aver fatto un “finto nodo” che, manipolato, può essere portato ad assumere la forma di una circonferenza. Il visitatore è invitato a confrontare alcuni modelli di nodi, appesi lungo il percorso, con i disegni del pannello Una questione nodale ed a riprodurre altri nodi, artistici e non, che si incontrano in Trentino (dalle colonnine annodate del Duomo di Trento alla coda del leone nello stemma della famiglia Lodron), illustrati nel poster Una gerla piena di nodi. In particolare, con un modellino delle colonne annodate si potrà riflettere sulla molteplicità di nodi che si possono “catturare” partendo da uno stesso intreccio (Nido di nodi). Si potrà anche osservare come i nodi negli stemmi non vengano disegnati sempre allo stesso modo e come mutamenti apparentemente molto “piccoli” nel disegno producano in realtà nodi completamente diversi (Nodi caudini). Un altro esperimento introduce all’idea del numero di incroci di un nodo (Quanto è annodato un nodo): si “fabbrica” un nodo con le corde a disposizione, partendo da un’assegnata proiezione piana apparentemente complicata; provando a maneggiarlo, si può constatare come lo stesso nodo possa assumere una forma più semplice e sia anzi uno dei nodi appesi. Due Nodi allo specchio permettono inoltre di rendersi conto di come i nodi possano essere a volte uguali alla propria immagine speculare e a volte diversi. Infine, alcuni modelli e rappresentazioni artistiche introducono ad una particolare famiglia di nodi che si possono descrivere completamente con due numeri interi (Due numeri per un nodo).
Capita a tutti di cercare la via più breve per andare da un posto a un altro o di voler spendere il meno possibile per gli acquisti: la vita quotidiana è una continua ricerca del minimo sforzo per ottenere il massimo risultato. Questa ricerca assume particolare rilevanza in ambito scientifico e tecnologico, dove spesso i modelli usati per descrivere fenomeni e progettare strutture si basano su principi di minimo o di massimo. Nella sezione massimi e minimi si possono sperimentare e risolvere alcuni di questi problemi riguardanti le misure di lunghezza, area e volume di semplici figure geometriche. Per esempio, si può trovare un’interpretazione del fatto che certe città hanno una forma approssimativamente circolare: in effetti, fra tutte le figure piane aventi perimetro dato, il cerchio è quella che racchiude l'area maggiore o, equivalentemente, tra tutte le figure piane aventi un’area assegnata è quella che ha il perimetro minore. Ciò si vede già nelle piante antiche di Trento e di Arco, nelle quali si può apprezzare la forma arrotondata e quasi circolare delle mura (Cerchi nel tempo), ma pure se ne può avere evidenza sperimentale nel primo exhibit: dando una forma arbitraria a un nastro flessibile e riempiendolo di palline, si osserva che esso tende ad assumere una forma circolare. Se invece di considerare tutte le figure del piano, ci si limita a considerare soltanto rettangoli, qual è Il massimo per un rettangolo? La risposta si può trovare con l'ausilio di alcune cordicelle chiuse di lunghezza fissata, che si possono tendere sulle maglie di una scacchiera: è quanto viene proposto da un secondo tavolo di esperimenti. Una variante di questo problema prevede di costruire ancora un rettangolo di area massima, ma utilizzando una cordicella aperta e parte del bordo della scacchiera: la simmetria rispetto a uno specchio posto sul bordo permette di interpretare le nuove soluzioni per mezzo di quelle del problema precedente. Nel terzo exhibit, utilizzando tessere a forma di triangolo equilatero, si può provare a risolvere la versione “simmetrica” dello stesso problema: tra tutte le figure che hanno una determinata area, qual è quella di perimetro minore? Se ci fosse assoluta libertà nella costruzione, la soluzione sarebbe il cerchio, ma in queste condizioni ciò non è possibile; tuttavia le soluzioni sembrano rispondere ad un ipotetico “principio della maggior circolarità possibile” (Arrotondando…). Se alle figure piane si sostituiscono oggetti tridimensionali, ci si può chiedere quale sia la figura che a parità di volume ha la minore superficie esterna, o anche quale sia la figura che a parità di area esterna racchiude il maggior volume. Se ad esempio si accostano tra loro (faccia contro fac-
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cia) otto cubi della stessa grandezza, si ottengono figure dello stesso volume. Quale ha l’area minima? Su un tavolo sono a disposizione del visitatore alcuni cubi che possono essere accostati ad incastro per ricostruire i modelli tridimensionali raffigurati nel poster Costruzioni. A suggerire che in questo contesto cerchi e sfere giocano un ruolo fondamentale, nella mostra è presente la Scultura G (nove cerchi) di Fausto Melotti. Rotondo e quadrato sono quindi le forme caratteristiche nell’ambito di queste problematiche, ed è interessante scoprirle nei contesti più svariati. In questa sezione vengono affrontate anche altre questioni, del tipo: qual è la rete stradale più breve che collega un certo numero di città? Questi Problemi di rete hanno una formulazione unitaria: dati alcuni punti nel piano, quali sono le reti di lunghezza minima che li collegano? Già quando i punti assegnati sono i vertici di un triangolo equilatero o di un quadrato, la soluzione non è affatto immediata. Su un tavolo vengono proposte alcune reti da misurare e confrontare e tra le quali cercare la migliore. Se dal piano passiamo di nuovo allo spazio, si può riformulare il problema precedente chiedendo quale sia la superficie di area minima che ha come contorno una fissata curva dello spazio. Le lamine di sapone (Lievi, minime superfici), vincolate ad appositi telai metallici, tendono a formare configurazioni di area minima, a una delle quali si ispira anche l’Elicoide dello scultore Michele Ciribifera. Chiude questa sezione una grande installazione (Curva precipitosa, realizzata dall’Istituto Statale d’Arte “A. Vittoria” di Trento), con la quale si può sperimentare una notevole proprietà di minimo della cicloide.
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È possibile, data soltanto una rappresentazione piana e in mancanza di altre informazioni, ricostruire con sicurezza l’ambiente tridimensionale di cui si tratta? Quali difficoltà sorgono quando ci si propone di ricostruire un oggetto reale a partire da una sua immagine? La sezione visualizzazione, che per prima s’incontra al secondo piano del museo, è dedicata a rispondere a queste domande e a mostrare con vari esperimenti come la sola visione non sia sufficiente per ricostruire gli oggetti di partenza. Si inizia con esperienze visive che, da particolari Punti di vista, fanno emergere Illusioni profonde, così come il dio dei mari sembra emergere dai flutti che lo nascondono, quando ci si avvicina dal giusto lato alla scultura anamorfica Poseidone, di Stella e Gianni Miglietta. Perfino il sommo Dante sembra stagliarsi contro il cielo, nel profilo di una montagna osservato dalla giusta angolazione (Ed eran due in uno e uno in due…).
Il visitatore ha certamente già sperimentato la distorsione subita dall’immagine di un oggetto riflessa da specchi non piani, esperienza che qui viene “ribaltata”: davanti a uno specchio semisferico sono ora gli oggetti ad essere “distorti” e senza senso, ma si ricompongono in una scena coerente, nell’immagine riflessa che ci fa apparire affacciati Alla finestra. Altre illusioni vengono percepite osservando dallo spioncino l’interno della Camera di Ames, così chiamata dal nome dell’oftalmologo americano che la utilizzò per mostrare come il sistema percettivo umano possa essere tratto in inganno. Il nostro cervello “riconosce” infatti sulla base di esperienze pregresse e influenze culturali. A prima vista si ha una visione del tutto normale ma, non appena il visitatore introduce dei pupazzi, ecco che questi si trasformano a volte in nani e a volte in giganti. A guardar bene poi, il pavimento della stanza, che sembrava in piano, è... in salita, una finestra si rivela essere una porta... Per spiegare il fenomeno, alcune Piramidi visive mostrano come, ad un primo sguardo, cose uguali possano apparirci diverse e cose diverse possano sembrarci uguali. Ogni piramide ha un foro al vertice, attraverso il quale il visitatore può “spiare”. Alcune fessure sulle pareti permettono di inserire vari profili aiutando a capire come mai la camera di Ames induca quel tipo di impressione. Anche Matetrento, il gioco d’ombre che conclude la sezione, si basa sul principio della piramide visiva: alcuni simboli matematici illuminati da una sorgente di luce puntiforme proiettano un’ombra in cui si legge “Trento”. Una camera oscura ed un periscopio, puntato sulle colonne annodate del Duomo, completano la sezione. Una chiave di lettura fondamentale che si usa continuamente, in maniera più o meno consapevole, per interpretare i messaggi più disparati che provengono dal mondo circostante è quella della simmetria. La quarta sezione si propone di mettere in luce la simmetria e la rottura di simmetria che si osservano ad esempio negli edifici e nelle opere d’arte, così come nei prodotti dell’artigianato. Gli esperimenti proposti aiutano a riconoscere i diversi tipi di simmetria. Un primo esperimento permette di farsi un’idea di come classificare i rosoni (Ogni rosone al suo posto): mediante uno specchio è possibile distinguere fra rosoni ciclici (Girandola di rosoni) e rosoni diedrali (Rosa di rosoni), mentre un altro exhibit permette di individuare le rotazioni che fissano un disegno. Lo stesso specchio, o anche due specchi ortogonali, possono servire per riconoscere la presenza (o la rottura) di simmetria in alcuni edifici (Dal-
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la parte all’intero): il visitatore ha a disposizione alcuni modelli tridimensionali che rappresentano “la metà” oppure “un quarto” di un edificio e può, appoggiandone uno agli specchi, ricostruire l’intero edificio, in forma identica, o quasi identica, all’originale. Un’altra esperienza di ricostruzione per riflessione di immagini s’incontra con l’exhibit costituito da una camera le cui pareti sono quattro specchi; inserendo un disegno nell’apposita fessura si può osservare il risultato: un pavimento che si estende… “all’infinito”. Sono tante le pavimentazioni che hanno questo schema di simmetria e possono essere ricostruite in questo modo, a cominciare dal pavimento della loggia del Romanino al Castello del Buonconsiglio. Non tutte le decorazioni però sono fatte così, e il visitatore è invitato a riconoscere Qual è l’intruso, cioè qual è il disegno che non si può ricostruire in una camera di specchi quadrata. Un Enigma agli specchi propone anche altre pavimentazioni, che non si possono ricostruire con specchi o per le quali una ricostruzione attraverso gli specchi richiede una camera di forma diversa dal quadrato. Entrando in una camera di specchi triangolare di grandi dimensioni si può vivere la singolare esperienza di ritrovarsi immerso fra infinite copie di se stesso. Nonostante alcune esperienze comportino l’uso dei modelli tridimensionali, le simmetrie fin qui incontrate sono di natura essenzialmente bidimensionale. Per arrivare ad una situazione genuinamente tridimensionale (Dal piano allo spazio) occorre utilizzare (per esempio) tre specchi a due a due ortogonali e un ottavo dell’oggetto che si vuole ricostruire. Una diversa decorazione ampiamente diffusa è il fregio, un disegno che si ripete periodicamente in una sola direzione. Sette pannelli (I fregi: uno, I fregi: due…) propongono una raccolta di esempi “raggruppati” a seconda dei possibili schemi, che sono appunto Sette, e solo 7! Un altro pannello chiede di classificare una serie di fregi invitando a riconoscere, caso per caso, Quale dei sette schemi è quello giusto. Un’interpretazione su legno dei sette fregi, realizzata dall’Istituto Statale d’Arte “G. Soraperra” di Pozza di Fassa, completa e arricchisce quest’ultima sezione. Infine, tutte le sezioni della mostra comprendono esperimenti virtuali, che sono raccolti nel CD-rom interattivo matetrentino, percorsi matematici a Trento e dintorni, edito da Kangourou Italia.
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C’era una volta nel Regno di Matelandia… Una sfida per la scienza dei numeri: affrontare argomenti matematici con bambini dai 3 ai 6 anni. Il Museo Tridentino di Scienze Naturali, in occasione della mostra Matetrentino: percorsi matematici a Trento e dintorni, ha promosso, ideato e realizzato in collaborazione con il Servizio Scuola dell’Infanzia della Provincia Autonoma di Trento una sezione interattiva di matematica dedicata ai più piccoli (3 - 6 anni): Nel Regno di Matelandia. Ambientazioni immersive e divertenti giochi di ruolo permettono di riconoscere quanto del vissuto quotidiano è strettamente collegato alla matematica: ogni bimbo si calerà nei panni di un grazioso animale, di una forma geometrica o di un personaggio della famiglia reale del Regno di Matelandia. I piccoli cittadini potranno vestirsi secondo “mode matematiche”, vivere l’avventura di entrare in un favo delle api, creare decorazioni fantastiche e muoversi “a passo di simmetria”. Una narrazione studiata appositamente per loro accompagna i bambini all’interno del percorso espositivo coinvolgendoli in prima persona e rendendoli protagonisti di una visita speciale:
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… si narra infatti che tanto, tanto tempo fa il Regno di Matelandia fosse considerato un paese governato da leggi severe e complicate, che rendevano difficile e complessa la vita ai loro abitanti. Per questo i Matelandiani, totalmente in disaccordo con questa leggenda, tentavano in ogni occasione di smentire questo luogo comune. Una delle azioni realizzate dagli abitanti per sconfessare questa voce è quella per cui ogni piccolo esploratore all’ingresso di Matelandia viene accolto da una speciale cerimonia di benvenuto, che si conclude con l’assegnazione della carica di cittadino onorario. Per meglio identificarsi con la popo-
lazione locale, inoltre, i neo-cittadini sono invitati ad indossare gli abiti del luogo e così vestiti a cominciare il viaggio alla scoperta dell’architettura e dei monumenti locali. Un suggestivo e simbolico ingresso a forma esagonale accoglie i piccoli visitatori; oltre il portale, uno scenario ricco e colorato mostra una realtà viva, che si propone di legare l’ambiente naturale alla matematica e alla società. Nella Stanza delle forme si affronta il tema delle figure geometriche in natura, con particolare riferimento al mondo delle api. In questo contesto i bambini giocando imparano a classificare, conoscere e rappresentare le forme geometriche fondamentali. Il Grande alveare è il primo scenario che si incontra: i piccoli esploratori possono entrare e visitare da vicino la casa delle api. L’osservazione diretta e l’immersione all’interno di uno spazio tridimensionale legato al mondo naturale stimola la curiosità dei bambini: che forma ha la cella di un’ape? Quali sono le sue caratteristiche? Che significato possiamo dare al temine “figura piana”? Alcuni curiosi giochi ad incastro consentono di trattare due importanti tematiche didattiche: • classificazione di quattro figure piane note anche fra i più piccoli (quadrato, triangolo, rettangolo, cerchio) e riconoscimento dell’esagono • figure piane e figure tridimensionali. L’osservazione di un vero Favo di api posizionato vicino al grande alveare ci permette di parlare di modello matematico e di condurre i bambini verso l’idea di astrazione elementare slegando il concetto di forma dal concetto
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di dimensione e di colore: due figure hanno la stessa forma senza necessariamente avere la stessa dimensione e lo stesso colore. Poco distante il gioco tattile Caccia alla forma consente ai giovani esploratori di divertirsi osservando le caratteristiche delle figure geometriche piane, che se classificate in modo corretto permettono di conquistare la Chiave numerica indispensabile per affrontare le tappe successive. Proseguendo nel viaggio si incontra la Stanza dei mosaici dedicata alle tassellazioni, ossia allo studio di forme geometriche che coprono il piano senza lacune o sovrapposizioni; le pavimentazioni qui proposte sono essenzialmente quelle ottenibili tramite l’utilizzo di poligoni regolari dello stesso tipo, poiché più frequenti nei pavimenti e nelle decorazioni conosciute ai più piccoli. Interessante riflettere sul fatto che le api, nella costruzione delle loro celle, scelgano proprio la forma “matematicamente” migliore per occupare tutto lo spazio a disposizione, senza lasciare superficie inutilizzata. L’esperienza del Fiore esagonale si propone come gioco formativo, teso a dare informazioni geometriche soprattutto in relazione all’esplorazione di regolarità spaziali e al concetto di misura di una superficie piana limitata. È possibile tassellare con i cerchi? Domanda che trova presto risposta attraverso l’esperienza della Parete a pallini e del Tavolo birichino, in cui i piccoli investigatori sperimentano che non tutte le figure si prestano per realizzare una tassellazione. Conclude la stanza dei mosaici la costruzione del Tappeto magico a tassellazione quadrata che attraverso un intrigante gioco di specchi consente di “camminare all’infinito senza mai stancarsi”. 110
Il Regno di Matelandia si conclude con la Stanza dell’armonia dedicata alle regole della simmetria, con particolare riferimento alla simmetria bilaterale. L’obiettivo è quello di trasmettere nei bambini l’idea intuitiva di simmetria attraverso alcuni stimoli sensoriali e di movimento. Un’inattesa Festa da ballo in onore della Signora Simmetria anima la stanza e sposta l’attenzione sui personaggi della fiaba interpretati di volta in volta dai piccoli esploratori, che imparano a ballare in gruppo “a passo di simmetria”. L’esperienza dell’Immagine riflessa consente ai bambini di sperimentare su se stessi la simmetria bilaterale e suggerisce le regole per disegnare in modo corretto sulla Lavagna a creatività doppia. Conclude l’immersione nel Regno di Matelandia il Teatrino bi-verso proponendo racconti di eroi e di maghi che, a seconda del punto di osservazione, sembra possano vivere due storie antitetiche. La mostra-gioco Nel Regno di Matelandia si sviluppa nella convinzione che nei primi anni di vita il bambino viva l'esperienza più importante, dal punto di vista cognitivo, sociale e affettivo, di tutta la sua vita. Il percorso espositivo appartiene all’insieme delle iniziative che preludono alla costituzione di un nuovo Museo delle Scienze del Trentino. Questo museo, di “nuova generazione”, coniugherà le modalità espositive dei Centri della Scienza con le nuove tendenze della museologia di cui il Museo Tridentino di Scienze Naturali si farà negli anni a venire interprete privilegiato (www.mtsn.tn.it). 111
Samuela Caliari e Silvia Rensi
Una mostra, un progetto Chi l’avrebbe mai detto che oggi, ogni volta che ammiro un paesaggio, un’architettura, una qualsiasi forma d’arte, la mia immaginazione corre e mi porta a cercare e vedere la matematica. Una matematica nuova per me. La disciplina “ostica” che conoscevo era quella legata alla scuola, alle espressioni, ai logaritmi, e al ricordo, magari remoto, di insegnanti “duri”, forse un po’ “quadrati”. Invece la matematica è anche creatività! Collaboro da tanti anni con docenti che si occupano di divulgazione scientifica al Dipartimento di Matematica di Milano, con loro ho progettato la grafica di riviste, libri ed esposizioni che si proponevano di comunicare scienza, coniugando i canoni della teoria della comunicazione in senso tecnico con quelli di una divulgazione rispettosa dei contenuti e “senza imbrogli”. Quando ho progettato la grafica di matemilano, pochi anni fa, ero convinta che questo bel progetto avrebbe avuto un seguito e così, quando mi hanno chiamato per dirmi che erano pronti con matetrentino, mi sono messa subito all’opera con molto entusiasmo. La grafica ovviamente doveva essere coordinata, questo per dare seguito e continuità alla mostra. Il primo passo è stato progettare un nuovo marchio, un simbolo che identificasse la mostra, un segno pulito e lineare, dove si possono leggere le due lettere, M di Matematica e T di Trentino, con
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una voluta allusione alla terza dimensione, richiamando alcuni degli spigoli di due cubi. E proprio il cubo, e di conseguenza il quadrato, vengono utilizzati come elementi di base per la costruzione di tutti gli elementi identificativi della mostra. Quadrati sono i poster e la loro gabbia è costituita da un modulo quadrato, quadrati sono i tavoli, i cartellini, le schede… quadrata è la gabbia delle pagine di questo catalogo. Il modulo mi ha permesso di ordinare e organizzare gli spazi, senza mai abbandonare alla casualità né gli oggetti né le immagini. Nel mio modo di progettare, la pulizia dei segni, il vuoto e il pieno che creano le immagini e i testi, devono sempre trovare il giusto equilibrio. La struttura della mostra richiedeva poi che si identificassero aree tematiche diverse e che la loro riconoscibilità fosse immediata, così ho deciso di utilizzare come codice il colore, nonostante mi sia più congeniale il bianco e nero. Questa scelta è stata determinata, da una parte, dalla complessità della comunicazione che richiedeva una maggiore diversificazione, dall’altra dalla necessità di contrastare, con l’immediatezza dell’impatto visivo, l’immagine grigia che il pubblico ha in generale della matematica. Partecipare a questa esperienza è stato, come sempre, molto stimolante e una grossa occasione di crescita professionale. Simona Colombo
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Nella matematica... dell’arte È trascorso un anno da quando mi venne offerta l’opportunità di partecipare a questo progetto culturale, nuovo, ambizioso ma anche estremamente disarmante per coloro che avendo più in confidenza le lettere dei numeri, si trovano a rapportarsi con un mondo di cui rimangono frammentari ricordi legati al periodo liceale. Se la matematica è un modo di scoprire ed indagare la realtà attraverso un processo di astrazione dell’ordine immanente nella natura, per poi giungere ad una sua rappresentazione razionale, mi sembrava quasi impossibile, all’inizio, riuscire a conciliare discipline scientifiche con il linguaggio artistico che almeno in prima battuta potrebbe sembrare estremamente emozionale ed empatico. Mi si chiedeva di osservare le opere d’arte che avevo sempre considerato come risultato di particolari contingenze storico-culturali succedutesi nei secoli, come esperimenti più o meno riusciti di applicazioni di regole di simmetria, di prospettiva, nel tentativo di ricercare quell’ordine al di sopra del “caos fenomenologico”. Bisognava affrontare una ricerca iconografica di ampio respiro, in grado di indagare con la stessa attenzione sia forme di arte sacra e profana, che espressioni di arte popolare, senza alcun pregiudizio classista e senza nulla lasciare di intentato. Ricercare simmetrie nell’arte rinascimentale piuttosto che in quella barocca, più incline a seguire percorsi irrazionali in grado di meravigliare e sorprendere il fruitore ultimo dell’opera d’arte attra-
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verso ardite soluzioni compositive; confrontare architetture, soffermarsi sui dettagli quasi nascosti di un fregio, guardare la mia città con occhi nuovi, ricercare ciò che talvolta sfugge ad un semplice sguardo. Prendevo quindi coscienza di come le regole matematiche ed i numeri fossero in realtà presupposto necessario ed imprescindibile per dominare l’espressione passionale del linguaggio artistico e per contenere quasi entro una maglia ciò che è ispirato da libertà creatrice e fantasia. L’approccio incuriosito e costantemente attento dei miei diretti referenti, è stato stimolo per approfondire e riconsiderare il patrimonio artistico del Trentino: le opere d’arte si rivestivano così di nuova semantica, nella quale tutto si fondeva, meravigliosamente, in un’armonia superiore di numeri e forme. Verificare la simmetria, le proporzioni, l’esattezza delle leggi prospettiche è stato un modo di riconoscere l’appartenenza dell’arte al mondo della razionalità, un modo per esorcizzare scelte compositive talvolta arbitrarie, ritenute a torto semplici forme di improvvisazione. Un cammino parallelo allora quello di scienza ed arte, perpetuato nel corso dei secoli, inteso ad avvalersi di medesimi codici rappresentativi, numeri, nodi e forme geometriche, nel tentativo di rendere visibile e credibile ciò che per sua natura è pura astrazione o dogma teologico. Parafrasando Albert Einstein verrebbe quindi da affermare che “là dove il mondo cessa di essere il palcoscenico delle nostre speranze e dei nostri desideri per divenire l’oggetto della libera curiosità e della contemplazione, lì iniziano l’arte e la scienza…ciò che accomuna i due mondi è l’aspirazione a qualcosa di non arbitrario, di universale”. Sara Comunello
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Titoli
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Nell’ideare i titoli di poster e schede esplicative per una mostra di matematica, ci si trova davanti, innanzitutto, a un problema generale, che è quello della sintesi “ultima”. Infatti il titolo di qualunque testo (romanzo, racconto, articolo di giornale, film, saggio, ricetta di cucina, guida turistica…) è un riassunto estremo del contenuto; così riassunto, a volte, da risultare comprensibile solo a posteriori. Il processo di Kafka è un titolo criptico, il cui significato appare evidente solo dopo la lettura del romanzo. Lo stesso discorso vale, per fare altri esempi, per Guerra e pace o per il film Arancia meccanica. In passati più o meno remoti non era così: i titoli spesso erano stereotipi da cui il lettore accorto poteva desumere facilmente almeno il tipo di testo: dalle Satire di Orazio si sapeva cosa aspettarsi. Anche il titolo di una guida turistica può nascondere qualche piccolo mistero: Trento e dintorni, per esempio, alluderà soprattutto alle opere artistiche della città, ai paesi circostanti, ai sentieri per cui salire sulle montagne circonvicine? Il problema particolare, rispetto a una mostra come matetrentino e, prima, alla capostipite mostra matemilano, è quello del linguaggio della buona divulgazione scientifica, che non fa sconti al fruitore (che può sapere molto o quasi nulla di matematica) ma vuole metterlo comunque nelle condizioni di affrontare con serenità, spirito critico e rigore, problemi e soluzioni. C’è, in questo senso, una vigorosa tradizione di testi divulgativi “alti”, che utilizza, dove occorre, il linguaggio più strettamente specialistico, ma non disdegna affatto contaminazioni col linguaggio comune o col linguaggio di altre specialità, in un crescendo, per così dire, dall’informale al formale, dal linguaggio comune a quello specifico. Tradizione, per lo più, anglosassone, ma che da vari anni, ad opera, in origine di pochi “pionieri”, si va diffondendo sempre di più anche in Italia. Per i titoli, e non solo, basta pensare ai saggi di S. J. Gould (paleontologo, biologo e, soprattutto, acuto interprete della teoria dell’evoluzione di Darwin ) o al Linguaggio della matematica di K. Devlin.
L’alternativa alla contaminazione è il linguaggio matematico inteso in senso stretto, anche nei titoli. Per matetrentino si è scelta la via della contaminazione: sintesi rigorosa del contenuto dei testi o delle immagini, senza rinunciare alle suggestioni derivanti da altri linguaggi. Scelta basata non solo sulla considerazione del pubblico eterogeneo che presumibilmente parteciperà alla mostra, ma anche sulla natura stessa della matematica. Perché, o si pensa che la matematica viaggi per sentieri tutti suoi, e dunque con linguaggio tutto suo, rivolto a pochi, a pochissimi, in luoghi poco meno che fantascientifici, o si pensa che la matematica studi e rappresenti strutture, profonde e astratte quanto si vuole, della realtà del mondo e della mente umana. Nella seconda interpretazione, che è alla base della possibilità di fare divulgazione ed è condivisa dalla quasi totalità degli scienziati, è naturale e quasi necessario usare un linguaggio che connetta matematica e vita comune, arte e storia, musica e, perfino, giochi… Così, per esemplificare, la simmetria dei rosoni può essere “ciclica” o “diedrale”, ma ciclica è anche la simmetria dell’azzurra pervinca o della girandola e diedrale è anche la simmetria della lanosa stella alpina o del giglio martagone. Nelle schede, poi, il ragionamento si articola in una lingua rigorosa ed esplicativa, seppure mai pedante, ma l’idea che la matematica tratti di forme, movimenti, posizioni, strutture… è rafforzata da un modo di esprimersi, almeno nei titoli, che connette esperienze umane di varia natura alla non ambigua semplicità (assai ostica spesso per il profano) delle indispensabili astrazioni del linguaggio specifico. La matematica è grande cultura e sarebbe un peccato privarsene per ripulsa di un linguaggio cui tutti possono accedere, ancorché per gradi, soprattutto perché la lingua della matematica è davvero universale. Paola Gallo
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Galleria dei poster
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Ringraziamenti Molti sono gli amici, i colleghi e le persone con cui abbiamo collaborato o che ci hanno consigliato e aiutato a raccogliere documentazione e materiali utili per la realizzazione di questa mostra e di questo libro. Ringraziarli tutti per aver costruito con noi anche un solo tassello di matetrentino è un dovere, ma soprattutto una gioia. Ci scusiamo per le eventuali ed involontarie dimenticanze che possiamo aver commesso. La nostra gratitudine va innanzitutto a quanti insieme a noi hanno curato matemilano, senza i quali questo progetto non sarebbe nemmeno iniziato: Marina Bertolini, Marina Cazzola, Maria Dedò, Simonetta Di Sieno, Emma Frigerio, Gianluca Poldi, Marta Rampichini, Gian Marco Todesco, Cristina Turrini. Da tutti loro abbiamo ricevuto molto anche in occasione di questo nuovo progetto, sia come amici preziosi, sia come collaboratori competenti e partecipi. Il Museo Tridentino di Scienze Naturali ha accolto con interesse la nostra proposta e ne ha reso possibile la realizzazione. Ringraziamo il direttore Michele Lanzinger ed il personale del museo che ha lavorato insieme a noi a questo progetto. Lara Monfredini e Chiara Tomaselli hanno collaborato con noi fin dall’inizio, in tutte le fasi della progettazione e della realizzazione. La consulenza storico-artistica di Sara Comunello è stata di prezioso aiuto per l’individuazione delle fonti iconografiche e la raccolta delle immagini, che Roberto Bernardinatti ha realizzato in gran numero e con la consueta professionalità. A loro, per la passione profusa e la disponibilità dimostrata, va tutta la nostra riconoscenza.
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Numerose sono state le persone coinvolte nel progetto e delle quali abbia-
mo potuto apprezzare le diverse competenze: innanzitutto Claudio Dellai, nostro punto di riferimento costante per la ricerca di soluzioni progettuali ed esecutive di numerosi exhibit, che insieme a Nikolas Valletta ha anche pensato l’allestimento della mostra, innestando nuove idee sull’impianto originario di Roberto Degiorgi, e che insieme a Gianluca Pasquali ha inoltre coordinato il lavoro delle classi dell’Istituto d’Arte di Trento; Claudio Valentini che ha coordinato il lavoro presso l’Istituto d’Arte di Pozza di Fassa; Simona Colombo che ha curato l’intero progetto grafico; Paola Gallo per i titoli delle schede e dei pannelli; Valter Cavecchia per il coordinamento tecnico della sezione virtuale; Gianni Miglietta e Stella Battaglia per aver arricchito con le loro opere la sezione visualizzazione; l’artista Michele Ciribifera per averci concesso di esporre la sua Elicoide. Grazie inoltre a tutti coloro che a vario titolo hanno collaborato alla costruzione degli oggetti, delle immagini, dei testi, delle animazioni virtuali: Giovanna Angelucci, Massimiliano Bernabè, Gianfranco Bernardinatti, Claudia Bertolini, Gilberto Bini, Irene Campregher, Paola Cereda, Giulietto Chini, Raffaella Colombo, Maurizio Cont, Marco Costanzi, Antonia Creazzi, Luciano Dellai, Alessandra Enrici, Amerigo Falagiarda, Francesco Falcioni, Mauro Gelardi, Pierino Gennara, Julia Griner, Giorgio Leonardelli, Marco Leonardelli, Fabrizio Lorito, Marco Lunz, Albino Mirandola, Massimo Monopoli, Pierino Navarini, Luciano Palombi, Paola Patrizi, Ivan Pelz, Giuseppe Picara, Matteo Poletti, Sara Pozzani, Sabrina Provenzi, Valentina Ramus, Paola Rigotti, Carla Romanò, Alessandro Santuari, Antonio Sartori, Matteo Sebben, Stefano Schivo, Paola Simoni, gli insegnanti e gli studenti degli Istituti d’Arte di Trento e di Pozza di Fassa, Paola Testi Saltini, Lucio Tonina, Gianni Zotta. Un sentito ringraziamento al Rettore, al Preside della Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali e al Direttore del Dipartimento di Matematica dell’Università di Trento, così come ai colleghi e a tutto il personale della nostra Università che ha condiviso con noi questa esperienza. Grazie in particolare a Sisto Baldo, Stefano Baratella, Stefano Bernini, Silvano Delladio, Antonio Frattari, Mario Fedrizzi, Sandro Innocenti, Enrico Pagani e grazie anche agli insegnanti che hanno lavorato all’individuazione dei percorsi didattici all’interno della mostra: Virginia Andelmi, Gabriella Armani, Enrico Dandrea, Ninni De Simone, Lucio Gerlin, Nicoletta Lociuro, Corrado Perini, Antonia Romano, Giuliana Scarpa.
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Durante il lavoro di ricerca abbiamo potuto contare sulla collaborazione efficiente e cortese della direzione e del personale di numerosi enti pubblici e privati, archivi e musei: Archivio di Stato di Trento, Archivio fotografico del Castello del Buonconsiglio di Trento – Monumenti e collezioni provinciali, Archivio Melotti di Milano, Archivio Provinciale di Trento, Associazione Arte Sella di Borgo Valsugana, Associazione portoghese Atractor, Associazione volo aerostatico Trentino, Azienda per il Turismo Trento e Monte Bondone, Biblioteca Comunale di Trento, Biblioteca Provinciale dei Cappuccini di Trento, Casa natale di Antonio Rosmini di Rovereto, Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Trento, Comune di Pergine, Consiglio della Provincia Autonoma di Trento, Gruppo Assicurazioni ITAS di Trento, Istituto di Fotonica e Nanotecnologie del CNR – sezione ITC di Trento, IPRASE Trentino, MART – Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, Museo Civico di Rovereto, Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina di San Michele all’Adige, Museo della Civiltà Solandra di Malè, Museo Diocesano di Trento, Soprintendenza per i Beni Archeologici di Trento, Soprintendenza per i Beni Architettonici di Trento, Soprintendenza per i Beni Librari e Archivistici di Trento, Soprintendenza per i Beni Storico Artistici di Trento, Ufficio del Catasto di Trento, Ufficio Diocesano Arte Sacra dell’Arcidiocesi di Trento. Ringraziamo in particolare: Fiammetta Baldo, Attilio Begher, Gabriella Belli, Eleonora Bressa, Edo Benedetti, Mario Bergamo, Nicoletta Boschiero, Lia Camerlengo, Sergio Chini, Gianni Ciurletti, Pietro Contegiacomo, Livio Cristofolini, Laura Dal Prà, Morena Dallemule, Pietro Dalprà, Marino Degasperi, la famiglia Del Rio-Pazzi, Nadia Emanuelli, Franco Finotti, Sandro Flaim, Dora Giovannini, Paolo Giovannini, Adriana Gottardi, Carlo Guardini, Salvatore Iannotta, Arnaldo Iob, don Ambrogio Malacarne, Franco Marzatico, padre Lino Mocatti, Walter Pancin, Roberto Paoli, Gigino Paris, Ernesto Passante, Danilo Pedri, Cinzia Picerini, Nicoletta Pisu, Domenica Primerano, Francesco Rigobello, Renato Scartezzini, Luisa Sforzellini, Laura Tomaselli, Adriano Zanotelli, i padri rosminiani ed i parroci che hanno favorito le riprese fotografiche all’interno delle chiese. Vogliamo infine ringraziare Marina Forlizzi della Springer-Verlag Italia, per la fiducia e la professionalità con la quale ha sostenuto il progetto di questo libro. 148
Bibliografia Testi che possono essere di riferimento per tutte le sezioni F. Conti, E. Giusti (a cura di), Oltre il compasso. La geometria delle curve, ed. Carte Segrete, 1996 C. Corrales Rodrigañez, Contando el espacio, ediciones despacio, mobcoop ediciones, 2000 R. Courant, H. Robbins, Che cos’è la matematica, Boringhieri, 1971 K. Devlin, Dove va la matematica, Bollati Boringhieri, 1994 K. Devlin, Il linguaggio della matematica, Bollati Boringhieri, 2002 M. Emmer (a cura di), Matematica e cultura 2002, Springer-Verlag Italia, 2002 H. Steinhaus, Matematica per istantanee, Zanichelli, 1994 M. Bertolini, M. Cazzola, M. Dedò, S. Di Sieno, E. Frigerio, D. Luminati, G. Poldi, M. Rampichini, I. Tamanini, G. M. Todesco, C. Turrini, Matemilano. Percorsi matematici in città, Springer-Verlag Italia, 2005 Topologia C. C. Adams, The knot book, Freeman, 1994 E. Beltrami, P. Cromwell, M. Rampichini, The Borromean rings, Mathematical Intelligencer 20 n.1(1998) pp.53-62 Bibliothèque Scientifique, La science des noeuds, Belin pour la science, 2001 M. Dedò, Forme, Decibel-Zanichelli, 1999 J. R. Weeks, The shape of space, Dekker, 1985
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Massimi e minimi M. Cazzanelli, K. Soraruf, I. Tamanini, Matematica e bolle di sapone. Un viaggio alla scoperta di strutture geometriche e principi variazionali, Laboratorio LRM3D2, Dipartimento di Matematica, Università di Trento, fascicolo n° 9, dicembre 2001 S. Hildebrandt, A. Tromba, The parsimonious universe. Shape and form in the natural world, Springer-Verlag, 1996 N. D. Kazarinoff, Disuguaglianze geometriche, Zanichelli, 1972 Visualizzazione R. Bruman et al., Exploratorium Cookbook I. A Construction Manual for Exploratorium Exhibits, Revised Edition, The Exploratorium, San Francisco, 1991 F. Camerota (a cura di), Nel segno di Masaccio. L’invenzione della prospettiva, Giunti, 2001 P. Comar, La perspective en jeu. Les dessous de l’image, Gallimard,1992 Simmetria P. Bellingeri, M. Dedò, S. Di Sieno, C. Turrini, Il ritmo delle forme, Mimesis 2001 E. Matos, Mesmo por baixo dos meus pés. Uma Viagem pela Calçada Portuguesa, Grafilinha, 1999 I. Stewart, M. Golubitsky, Terribili simmetrie, Bollati Boringhieri, 1995 H. Weyl, La simmetria, Feltrinelli, 1962
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Testi di riferimento per le informazioni storico-artistiche G. Tosi, Mosaico romano di Trento con figura di Orfeo, in “Rivista dell’Istituto nazionale d’archeologia e storia dell’arte”, III, I, 1978, pp. 65-87 G. M. Rauzi, Araldica trentina, Artigianelli, Trento 1987 R. Bocchi, C. Oradini (a cura di), Immagine e struttura della città. Materiali per la storia urbana di Trento, Laterza, Roma-Bari 1983 Il duomo di Trento, TEMI, Trento 1992-1993 M. Eliade, Immagini e simboli: saggi sul simbolismo magico-religioso, Jaca Book, Milano 1998 C. Bassi, I pavimenti musivi e in opus sectile di Tridentum: nuovi frammenti, in Aiscom Atti del VI colloquio dell’associazione italiana per lo studio e la conservazione del mosaico, Venezia 20-23 gennaio 1999, Ravenna 2000, pp. 121-130
Referenze iconografiche È stato fatto ogni sforzo per rintracciare i detentori dei copyright e ci scusiamo in anticipo per eventuali omissioni involontarie. Saremo felici di inserire le indicazioni del caso in ogni successiva edizione di questa pubblicazione. Sigle indicanti la posizione delle immagini Ciascuna pagina di questo volume si basa su una griglia di 5x5 quadretti. Un’indicazione del tipo 57B3 sta a segnalare l’immagine ubicata a pagina 57 nel quadrato alla seconda riga e terza colonna. Quando l’immagine occupa più di un quadrato, la segnalazione si riferisce al quadrato in alto a sinistra dell’immagine. Fotografie di AgF Bernardinatti Foto, Trento: 3B2, 5C1, 5D1, 8B2, 18B2, 20A4, 20B5, 27D1, 28B2, 51C1, 51D1, 51D2, 51D4, 51E3, 65B2, 66B2, 70B2, 71A4, 84B2, 85B4, 85E2, 86D1, 86D2, 87B5, 89C1, 91C5, 91E1, 91E2, 93B1, 93E1, 94B2, 96A1, 96D4, 97E1, E4 di copertina. Fotografie di Sabrina Provenzi: 4B2, 37D1, 37E1, 78B2, 79B4, 79C4, 79E1, 81A4, 81A5, 81D2, 81D3, 88E5, 89A5. Immagini di proprietà dell’archivio della Soprintendenza per i Beni Archeologici - Provincia Autonoma di Trento: 24B2, 27B5.
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Immagini di proprietà dell’Azienda per il Turismo Trento e Monte Bondone: 29B4, 29C1, 29D3. Immagine di proprietà dell’Associazione Arte Sella, Foto di Aldo Fedele: 39B2. Immagine di proprietà dell’Associazione Atractor: 81C5. Fotografia di Luciano Palombi - Biblioteca comunale di Trento: 47D1. Immagine tratta dal libro Il lavoro perduto di Aldo Bernardi, Arti Grafiche Saturnia, Trento, 1984: 93B5. phototonina.com: 107B2, 108D5, 109B4, 110B1, 111B4. Per alcuni disegni dei nodi (7A2, 7A3, 7A4, 7B5, 7C1, 7C5, 7D1, 7D5, 7E1, 10C1, 10D5, 11A3, 11A4, 11B5, 11C5, 11D1, 11D2, 11D5, 11E3, 11E4, 12B5, 12C1, 12C2, 12D1, 12D2, 12D5, 12E4, 13B4, 13D3, 13D5, 16C1, 16C2, 16D2, 16E2, 17A5, 17B1,17B5, 17D1, 19B5, 19C5, 19D1, 19D5, 20A1, 20B1, 20C1, 20C5, 20D1, 20D5, 20E2, 20E3, 20E5, 21B1, 21B4, 21C1, 21C4, 21E1, 21E2, 21E3, 23A2, 23A3, 23A4, 23A5, 23B5, 23C1, 23C5, 23D1) è stato usato il programma KnotPlot (http://www.pims.math.ca/knotplot/).
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I curatori Domenico Luminati Dipartimento di Matematica, Università degli Studi di Trento, via Sommarive 14, 38050 Povo (TN) e-mail:
[email protected] Italo Tamanini Dipartimento di Matematica, Università degli Studi di Trento, via Sommarive 14, 38050 Povo (TN) e-mail:
[email protected] Gli autori Samuela Caliari Museo Tridentino di Scienze Naturali, via Calepina 14, Trento Simona Colombo Progetti grafici per la comunicazione, via Tito Vignoli 9, 20146 Milano Sara Comunello Cooperativa Athena - Trento Paola Gallo via Rismondo 19, 56100 Pisa Fabrizio Lorito via Ampère 115, 20131 Milano Gianluca Poldi Istituto di Fisica Generale Applicata, Università degli Studi di Milano, via Celoria 16, 20133 Milano Silvia Rensi Museo Tridentino di Scienze Naturali, via Calepina 14, Trento
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