Alessandro Perissinotto L'Orchestra Del Titanic Anna Pavesi 3 (2008)
Risvolti La strada di Anna Pavesi continua a essere costellata di enigmi da sciogliere. Psicologa di mestiere e detective suo malgrado, la donna sempre fuori posto è ormai una professionista del mistero. Un altro caso da risolvere le viene incontro, e questa volta ha gli occhi disperati di una madre impotente, Rina Melzi. Sua figlia, ospite di un villaggio-vacanze tunisino con il fidanzato, si è messa nei guai. Mentre fuori la fabbrica del divertimento funzionava a pieno ritmo, qualcosa è sfuggito al suo controllo. E ora, inchiodata a un letto d’ospedale sotto sedativi, ricorda solo il corpo senza vita di quell’animatore. In Anna è riposta ogni speranza di far affiorare il movente dell’omicidio dalla fragile confusione della ragazza. Dove i metodi d’indagine della polizia si rivelano inefficaci possono invece i ferri del mestiere di psicologa, l’approccio caldo e personale di Anna al dolore della gente. Con in valigia qualche bikini e le insicurezze di sempre, la dottoressa Pavesi approda in una Djerba da canicola estiva. Nel mondo artefatto del villaggio-vacanze Calypso Anna dovrà indagare con discrezione; attorno a lei la stessa atmosfera di irreale serenità nella quale l’orchestra del Titanic continuò a suonare fino all’ultimo istante prima del naufragio. Per gli altri ignari turisti, infatti, lo spettacolo non può che continuare. Alessandro Perissinotto con questo romanzo toccante, tinto di una leggerezza che spinge verso l’alto le possibilità di raccontare la realtà, completa la trilogia delle inchieste di Anna Pavesi, tracciando un affresco con colori impastati di spezie e di sabbia del deserto, un affresco che svela la sottile trama con cui il destino tesse le nostre vite. *** Questo romanzo è un'opera di fantasia, ma prende spunto da alcune vicende reali che si sono svolte, per la maggior parte, in luoghi diversi da quelli qui citati. Anche i nomi dei personaggi coinvolti sono stati opportunamente trasformati e quello della giovane donna che qui chiamo Halima Baravati, resta scritto sull'elenco dei detenuti delle carceri tunisine, benché a sua carico non vi sia nulla.
Diario «Nessuno può capirmi, nessuno può aiutarmi. Per strada incontro sguardi che mi fanno paura. Si posano su di me e mi spogliano, mi scarnificano, mi lacerano la pelle come coltellate. lo che ho sempre amato gli sguardi, io che fin da bambina ho cercato l'esibizione, ora vorrei essere invisibile, nascosta da un velo, protetta da un burqa. Non sono più una donna, sono una bambola vecchia e sporca che qualcuno si deciderà a gettare nei rifiuti. Sempre che non Io faccia io stessa. Non sopporto più gli sguardi, soprattutto il tuo, così carico di comprensione, così innamorato e misericordioso. Picchiami, schiaffeggiami, sputami addosso, cacciami via, dammi un motivo per odiarti come odio me stessa. Ti ho implorato tante volte in questi giorni, te l'ho chiesto con gli occhi, con i miei silenzi. Disprezzami, fammi sentire che sei al mio livello, che sei squallido come me. E invece no, mi fai persino i regali. Ti odio, domani la faccio finita.»
Giovedì 26 luglio 2007 «E due pezzi di focaccia, quella con le olive.» «È tutto signora Anna?» «Sì, direi di sì... Ah, no aspetti, mi dia anche una polentina.» Le polentine del forno Tresoldi erano la materializzazione di un ricordo d'infanzia. Il loro gusto zuccheroso e il loro colore giallo intenso mi facevano tornare a quelle domeniche trascorse da bambina con la nonna Maria, Maria di Bergamo, per distinguerla dall'altra nonna Maria, quella paterna, che a Torino viveva nell'appartamento accanto al nostro. La polentina era un rituale, un tassello di un mosaico che si componeva sempre uguale, una domenica ogni quattro, mese dopo mese, anno dopo anno; il pranzo, poi mio padre sdraiato sul divano della cucina, a riposare prima di mettersi di nuovo alla guida, mentre io la nonna e la mamma facevamo una passeggiata, sempre uguale anche quella: le mura, il Colle Aperto, poi giù da via Colleoni, fino al forno Tresoldi. Una polentina piccola, che sennò veniva la carie, e da mangiare in due volte: tre morsi subito e il resto in macchina, durante il viaggio di ritorno, facendo attenzione a non riempire di briciole il sedile della 124. «Quale preferisce?» mi chiese la commessa aprendo la vetrinetta. Le indicai la più piccola, come se avessi avuto paura di voltarmi e di incrociare ancora lo sguardo severo di mia madre. Ma in fondo era meglio così, l'aver mantenuto quell'antica abitudine alla misura, alla morigeratezza, mi rendeva meno difficile il contenermi, ora che, finita la mia vita torinese, davanti al forno Tresoldi di Bergamo ci passavo ogni giorno e soprattutto ora che al problema della carie si aggiungeva quello di conservare la taglia 42. Uscii e puntai verso casa, accostata al muro per restare nella sottile striscia d'ombra dove il caldo dell'una concedeva una piccola tregua. Un passo, forse due. All'improvviso mi sentii chiamare: «Anna... signora Pavesi...». Mi girai e vidi la lattaia, sulla porta della sua bottega: con il braccio mi invitava a entrare. Nel negozio l'aria era quasi fresca e la luce giungeva filtrata dalle tende verdi. Non c'erano clienti, fatta eccezione per una signora dai capelli bianchi seduta su una vecchia sedia di fòrmica che lì non avevo mai visto. La lattaia entrò dopo di me e si chiuse la porta alle spalle con un doppio giro di chiave, poi rimase un attimo ferma, imbarazzata, asciugandosi il sudore delle mani sul grembiale, infine provò a parlare: «Mi scusi se l'ho fermata così, ma è una cosa urgente e un po' delicata...». Si avvicinò alla signora seduta. «... vede, a questa mia amica...» L'altra mi tese la mano: «Melzi Rina». Mi presentai anch'io, sottovoce, mentre la lattaia riprendeva. «... a questa mia amica ci è successa una cosa terribile e forse solo lei può aiutarla, lei che è psicologa, ma però adesso è più... come posso dire, una poliziotta? Neanche, una di quelle lì,
dei telefilm, una detective ecco.» «Non sono una detective, signora Carla. È che col mio mestiere di psicologa a volte mi tocca occuparmi di persone che hanno avuto degli shock per questioni legate a delitti o alla droga e allora, per aiutarle, devo provare a scoprire come sono andate le cose realmente.» Continuavo a raccontare agli altri e a me stessa quella bella fiaba: ero una psicologa, non un'investigatrice, una che si occupava di educativa territoriale, una che, al massimo, cercava di capire perché succedono certe cose, perché qualcuno scompare, perché qualcuno ammazza qualcun altro; di certo, non una che inseguiva i criminali. Eppure, sembravo essere rimasta l'unica a credere alla bella favola; gli altri, quelli che mi conoscevano e anche quelli che pensavo non mi conoscessero così bene, erano certi che il mio unico mestiere fosse ritrovare persone che si erano cacciate nei guai, guai grossi, guai dove c'era sempre qualcuno disposto a farti la pelle. Ma non era forse così? Nel giro di due anni, da quando ero andata a vivere a Bergamo, il mio lavoro di psicologa, inaspettatamente, si era intrecciato con storie di morte, di eroina, di delinquenza; avevo persino scoperto il finto sequestro inscenato dal figlio di un industriale, e queste erano cose che, in una piccola città tranquilla, non passavano sotto silenzio. Ormai, che lo volessi o no, la mia fama era quella di una che, con la forza della disperazione, sapeva trovare la verità, forse perché sapevo dove cercarla: nella testa della gente. Questo faceva di me una detective? Probabilmente no; niente licenza, niente pistola, niente arti marziali. Eppure, chi si rivolgeva a me non lo faceva più per caso. Proprio come la signora Carla. «Ecco» riprese la lattaia, «dice bene cara, scoprire come sono andate le cose, è di questo che ha bisogno la mia amica, e anche di qualcuno che sappia stare vicino a sua figlia.» A quella parola, «figlia», la donna seduta sembrò riscuotersi dal letargo in cui era stata fino a quel momento e io capii che ero in trappola, che lo ero stata fin dal momento in cui la porta del negozio si era chiusa a doppia mandata: non potevo più dire di no. La signora Carla scomparve per un istante nel retro del negozio e ritornò con un'altra sedia di fòrmica. «Tenga cara, si sieda anche lei; io vi lascio, così potete parlare in santa pace, intanto io mi mangio il mio pranzetto.» La vidi infilarsi nel vano che si apriva dietro il bancone dei formaggi e dopo qualche secondo sentii giungere gli applausi fasulli di un quiz televisivo. Non potevo più dire di no. Lo accettai come un dato di fatto e iniziai, nel solito modo: «Mi dica tutto, signora Melzi». Ma lei non parlò. Avrebbe potuto, forse avrebbe dovuto scoppiare in lacrime, ma non fece neanche quello. Semplicemente rimase immobile, con le mani raccolte in grembo, appoggiate sul tessuto blu scuro della gonna. E fu un attimo di immobilità assoluta, fuori dalla realtà. Io e lei, sedute l'una di fronte all'altra, nella penombra, isolate dal mondo esterno, con il ronzio del frigorifero come unico accompagnamento. «Non abbia paura.» Inspirò profondamente e cercò il fazzoletto che aveva infilato nella manica corta della sua maglia azzurra. Soffiò il naso e finalmente trovò la forza per cominciare: «Mia figlia ha combinato un pasticcio».
Un pasticcio. «Pasticcio», «marachella», «birbante», al massimo «porcaccione», parole invecchiate, incanutite, parole di chi, in vita propria, non aveva mai pensato di trovarsi obbligato a parlare di cose che richiedono appellativi più adeguati, più forti, più volgari. Un'esistenza intera trascorsa nella certezza che certe brutte robe che si leggono sui giornali sarebbero sempre scivolate accanto, senza neanche dover essere nominate. «Che genere di pasticcio?» la incalzai. «Ha... ha ucciso un uomo.» Due anni prima avrei risposto immediatamente qualcosa del tipo «e io cosa c'entro?», «perché non ne parla alla polizia?», ma la mia breve esperienza mi aveva insegnato che c'era più di una ragione per preferire me alla polizia. «Come è successo?» «Non lo so esattamente. Ieri sera mi hanno telefonato dall'ambasciata italiana di Tunisi e mi hanno detto che Aurora è in ospedale, piantonata, perché ha ucciso uno a coltellate e poi ha cercato di suicidarsi. Si è tagliata le vene.» «Tunisi?» «No, in quell'isola lì, in Tunisia, quella dove ci sono tutti i villaggi turistici...» «Djerba?» «Sì ecco, quella. Era lì in vacanza con Ermanno. Per tre settimane. Non so com'è potuto capitare. Sembrava così serena, finalmente, dopo tanto tempo. Prendeva ancora le medicine perché lo psichiatra aveva detto di non smetterle, però non aveva più avuto crisi da un bel po'.» A quel punto le domande esplosero tutte insieme nella mia testa. Psichiatra? Omicidio? Crisi? Medicine? Ermanno? Provai a fare ordine. «Le hanno detto chi è quello che Aurora avrebbe ucciso?» «Ha ucciso uno del villaggio, uno di quelli che fanno gli spettacoli, un... un animatore.» Nella sua risposta c'era un certo tono di rassegnazione, come se un evento temuto per lungo tempo fosse alla fine giunto: non voluto, non previsto, ma certo non inaspettato. Quasi con gioia mi accorsi che, in quel momento, ciò che mi era più utile era la mia esperienza nell'ascoltare, nel dare un senso profondo alle parole. «Non so come sia potuto capitare» aveva detto poco prima, ma quella frase significava il suo esatto contrario. Sapeva benissimo com'era potuto capitare. Forse per anni aveva desiderato con tutte le sue forze che non capitasse e si era inconsciamente convinta che questo suo desiderio sarebbe bastato a tenere lontana la tragedia. Aveva cercato di puntellare questa convinzione sottolineando ogni segno di miglioramento, dicendosi: «Se non è successo prima, quando stava peggio, figuriamoci se succede ora». Povera signora Melzi, lei sapeva «com'era potuto capitare», solo che non sapeva perché, perché lì, perché in quel momento. Quei perché erano compito mio. «Quanti anni ha sua figlia?» «Trenta. Ne ha compiuti trenta il mese scorso. Era così felice! Abbiamo fatto una bella festa: c'era Ermanno, due sue colleghe, sua cugina Marzia, la figlia di mia sorella, che sta a Curno...»
Ecco che qualcosa dentro di lei cercava di aggrapparsi a immagini rassicuranti per dirsi che non era vero, per contrastare quel lato razionale che prima le aveva fatto dire con sicurezza «ha ucciso». La strappai bruscamente dal suo rifugio: «Quali medicine prende Aurora?». La donna rovistò nella borsetta che aveva posato accanto alla gamba metallica della sedia e mi porse una ricetta medica: «L'avevo messa in borsa l'altro giorno per passare in farmacia, poi non sono andata». La lessi: Tegretol Cr 400 mg. Mi apparve chiara l'origine della sua assuefazione all'incombere di qualcosa di tragico. Il Tegretol era uno dei farmaci di base nel trattamento del disturbo bipolare: quella donna era ormai abituata a vedere la figlia passare da periodi di depressione profonda a periodi di scompenso maniacale. Giorni, magari mesi, passati a convincere Aurora ad alzarsi dal letto al mattino, a uscire, a mangiare, a parlare. E poi, d'improvviso, la figlia diventava allegra, euforica, faceva mille progetti, chiacchierava in continuazione, senza finire le frasi, senza ascoltare gli altri. D'improvviso non era più il malumore a preoccupare, ma, al contrario, una sorta di delirio di onnipotenza, talvolta ridicolo, talvolta violento, aggressivo. «Da quanti anni è malata sua figlia?» «Prende le medicine da cinque anni.» «E prima di arrivare a prendere le medicine?» «Aurora non è mai stata una bambina come le altre. È colpa mia, l'ho avuta troppo tardi: io avevo quarantun anni e mio marito dieci di più. È per quello che è sempre stata triste, fin da piccola. A scuola andava bene, studiava da ragioniera, ma in quarta ha dovuto abbandonare.» «Perché ha lasciato la scuola?» «C'è stata una discussione con il professore di italiano.» «Che tipo di discussione?» «Per un tema. Aurora era convinta di aver scritto un bellissimo tema. Me ne aveva parlato. Un tema su come, secondo lei, bisognava cambiare il mondo. Io non so se era bello, perché non ho studiato, ho fatto solo l'avviamento. Però quando il professore glielo ha riconsegnato il voto era 5. Aurora si è arrabbiata, ha detto al professore che non capiva niente, che gliel'avrebbe fatta pagare e poi...» Dovetti incoraggiarla, anche se credevo di intuire il seguito: «E poi?». «E poi ha preso un paio di forbici, è corsa alla cattedra e gliele ha piantate in un braccio, qui, in alto.» Con la mano si indicò il bicipite destro. «Per fortuna, il professore se l'è cavata con un paio di punti e non l'ha denunciata. Però lei non ha più voluto andare a scuola; né in quella, né in un'altra.» Il quadro clinico del disturbo bipolare si andava confermando: disturbo bipolare di tipo uno, con periodi di maniacalità molto marcati. «In seguito ha avuto episodi di aggressività?»
«Ogni tanto era un po' scontrosa, rispondeva sgarbatamente. Ma non ha più fatto male a nessuno. Almeno fino a ieri.» Già, era ora di tornare al presente. «Ha potuto parlare con sua figlia?» «No. Solo con l'ambasciata. E dopo con Ermanno.» «Ermanno è il fidanzato di Aurora?» «Sì, stanno insieme solo da tre mesi. Mi ha telefonato nella notte. Mi ha detto che i poliziotti lo hanno interrogato fino alle dieci di sera, ma che lui non sapeva niente: era via in barca e quando è tornato, Aurora la stavano già portando via.» «Le ha per caso detto se negli ultimi giorni gli era parsa particolarmente agitata?» «No, tutto normale.» «Ermanno sa della malattia di sua figlia?» «No, assolutamente no. Ormai Aurora sta bene, non c'era bisogno di dirglielo.» «Come si sono conosciuti?» «Lui è un collega di Marzia...» Mi ero già persa nella girandola di nomi. «Marzia chi?» «La figlia di mia sorella. É lei che glielo ha presentato. Almeno così mi ha raccontato Aurora.» E spesso lei mente. Non lo aveva detto, ma si capiva. Era come se nella testa della signora Melzi si combattesse una battaglia tra l'amore materno, insensibile al dubbio, e la consapevolezza della complessità di Aurora. «Che tipo è questo Ermanno?» «Io l'ho visto solo un paio di volte, ma mi è sembrato un bravo ragazzo. E un po' più vecchio di lei. Aurora non ne parla molto, però da quando c'è lui mi è sembrata allegra. È stato lui a prenotare il viaggio, glielo ha anche pagato.» «E prima di Ermanno?» «È stata fidanzata per quattro anni con un ragazzo di Carobbio degli Angeli, uno che andava sempre in Romania per lavoro. Poi un giorno lei ha scoperto che lui là, in quella città dove andava sempre, a Timisoara, aveva un'altra ragazza e l'aveva anche messa incinta. Aurora ne ha fatto una malattia, sapesse...» Sapevo, sapevo. Sapevo cosa voleva dire essere tradite e immaginavo il vortice che quell'umiliazione poteva creare in una donna depressa. «Quanto tempo fa è successo?» «Un anno, fa un anno a settembre.»
Avrei potuto continuare per ore a porle domande; avrei potuto chiederle se c'erano stati precedenti tentativi di suicidio, com'erano i rapporti col fidanzato, come trascorreva le sue giornate... C'erano centinaia di elementi da tenere in considerazione per provare a capire una persona depressa, ma in quel momento il mio compito era diverso, più difficile: dovevo incontrare un'assassina. Venni al dunque. «Vuole che l'accompagni in Tunisia da sua figlia?» «Io non posso venire: mio marito è paralizzato da cinque anni; non cammina, non parla.» «Non avete altri figli o qualche parente che possa prendersi cura di lui?» «Aurora è figlia unica e di parenti ho mia sorella, ma è come non averla. Come faccio a lasciarlo da solo? Se potesse andare giù e aiutarla... La signora Carla mi ha parlato tante volte di lei, di com'è in gamba...» «Ma non sarebbe meglio un avvocato?» «Ermanno mi ha detto che all'avvocato ci stanno pensando quelli del villaggio, ma quando le prendono le crisi, Aurora non parla, non riesce a farsi capire. C'è bisogno di qualcuno che l'aiuti. E poi...» Eccole finalmente le lacrime, ecco quel pianto che la signora Melzi si era negato fino ad allora, quei singhiozzi che sciolgono i muscoli. «E poi se cerca di nuovo di ammazzarsi? Cosa vuole che faccia l'avvocato? La prego...» Con un gesto scontato, presi le sue mani tra le mie e la rassicurai: «Ci andrò, non si preoccupi. La riporteremo a casa». «Sì, la prego, me la riporti qui. Che almeno possa andarla a trovare in prigione, in un posto da cristiani. Laggiù le galere devono essere... Se mia figlia finisce in galera là, non dura una settimana.» «Ci andrò.» «Grazie, grazie mille. Mi dica...» Sospese ancora una volta la frase, imbarazzata. «Mi dica quanto le devo. Noi non siamo ricchi ma qualcosa da parte ce l'abbiamo.» «Adesso non pensi ai soldi, basta il biglietto aereo, poi vedremo.» «Grazie, grazie di cuore.» Dalla manica della maglia prese nuovamente il fazzoletto appallottolato e si soffiò il naso, voltandosi un poco, con pudore. Poi guardò l'orologio, un piccolissimo orologio col cinturino sottile in pelle nera: «Santo cielo, com'è tardi: ho lasciato mio marito con la ragazza che ogni tanto viene a darci una mano, ma da lei non osa farsi accompagnare al gabinetto». Era scattata in piedi, anche se le cose da chiarire erano ancora tante, un'infinità.
L'immagine del marito con i pantaloni bagnati aveva prevalso all'improvviso su quella della figlia in ospedale, con le vene tagliate e un omicidio sulla coscienza. «Posso venire a casa sua verso le quattro? Così finiamo di parlare.» «Sì, certo, mi scusi, ma devo proprio andare. Però venga prima delle quattro, venga alle tre e mezza, che poi mio marito...» E, senza attendere la padrona del negozio, si avvicinò alla porta e la tirò con forza, due o tre volte, facendo vibrare i vetri e producendo un rumore di ferraglia. La scostai delicatamente, girai il pomello della serratura e la feci uscire. Lei ringraziò ancora, confusa più che mai, e la vidi camminare nella luce bianca della via verso un pomeriggio fatto d'angoscia e di mutande da lavare. Sollecitata dal rumore, la lattaia mi raggiunse e nel vedermi ormai sola scosse il capo: «Povera donna!». Annuii, senza parlare. «La può aiutare?». «Sì, ho accettato di andare a Djerba; oggi definiremo i dettagli.» «Lei è una santa.» In quarantun anni di vita, nessuno mi aveva mai dato della santa. Sorrisi. Chissà cosa avrebbe pensato la signora Carla della mia santità se avesse saputo che da due anni avevo una storia con un uomo sposato. O magari lo sapeva, perché qui in Città Alta si sa tutto, ma sapeva anche che la santità passa per altre vie. «Non sono una santa, ma, per fortuna, questo è un periodo abbastanza libero da impegni, quindi posso aiutarla.» Era vero. La cooperativa di educativa territoriale per la quale facevo consulenze aveva chiuso per ferie: niente relazioni da redigere, niente colloqui con i bambini autistici, niente incontri con le maestre. E niente incontri programmati con Marco, la nostra settimana di vacanza insieme era prevista per la fine di agosto, quando suo figlio sarebbe stato in viaggio con i nonni. «Lasci che la baci.» E senza attendere il mio consenso, la lattaia mi appioppò due baci sulle guance, in segno di riconoscenza. Salutai la signora Carla e, appena in strada, rimpiansi la fresca oscurità verdognola del negozio. «Anna... signora Pavesi...» Di nuovo la lattaia, sempre sulla porta; in mano aveva due borse della spesa, le mie. Tornai indietro e mi scusai per la sbadataggine. «Si vede che ha troppe cose da pensare» mi giustificò l'altra. Due passi, i soliti due, in discesa, come prima; poi l'arresto brusco, di scatto, la sensazione di essere imbecille, il voltarsi impacciato e pensoso del tenente Colombo:
«Mi scusi...». La porta della bottega si riaprì e il grembiale rosso scuro con la scritta Liebig ricomparve sulla soglia: «Mi sono dimenticata di chiederle l'indirizzo della sua amica». «Via Paglia 7, giù in città Bassa, vicino alla stazione.» «E il cognome? Ho scordato anche quello.» «Melzi.» «Grazie.» Ci sono luoghi che hanno il potere di farti sentire bene: le scale di casa mia erano uno di quelli. Quando le salivo, riuscivo a capire perché, dopo la mia separazione da Stefano, l'appartamento ormai vuoto di mia nonna mi era sembrato il rifugio ideale. Quello che mi rassicurava era la consuetudine, l'immutabilità degli eventi. A ogni pianerottolo, riconoscevo le voci, i rumori: la radio dei signori Mazzocchi, sempre sintonizzata sui programmi di liscio di Radio Zeta, l'odore di cipolla di casa Gotti, la porta socchiusa della signora Ghislandi. E naturalmente il miagolio di Morgana, che accompagnava i miei passi sulle ultime quattro rampe. Entrai e sistemai la spesa, lasciando che la gatta si infilasse nelle borse ormai vuote per giocare la sua consueta partita di nascondino. Di fame ne avevo poca. Non preparai neanche la tavola: mi sedetti sul divano e mi accontentai delle due fette di focaccia che avevo comprato poco prima. E intanto ripensai ad Aurora, al suo disturbo bipolare. Sua madre mi aveva detto che prendeva medicine da cinque anni, ma i primi episodi maniacali si erano manifestati durante la scuola superiore; questo significava quasi dieci anni di malattia non curata, di quel male che non si nomina, che si nasconde agli altri e a se stessi, per vergogna. Dieci anni di inferno, sia per Aurora, sia per chi le stava vicino. Poi un po' di purgatorio, con il Tegretol o magari con il litio. E poi di nuovo l'inferno. Cosa l'aveva fatta ripiombare nell'incubo? Il sole? D'inverno i bipolari vanno incontro alle peggiori crisi depressive e d'estate, con i raggi ultravioletti che attivavano il sistema endocrino, esplodono le fasi maniacali. Possibile che fosse bastato il sole della Tunisia per vanificare l'effetto delle cure? Me la figurai via via più irritabile, nervosa, aggressiva. Immaginai il disagio di Ermanno, la sua difficoltà ad affrontare una persona che cambiava ogni momento. O magari in lei era prevalso il timore di farsi scoprire e aveva smesso di prendere le pillole. Esaminai altri possibili fotogrammi: l'arrivo in aeroporto, il controllo bagagli, Aurora vede la fila di passeggeri, vede i beauty-case aperti, svuotati dal personale della sicurezza, pensa all'occhio di Ermanno che si ferma su un medicinale strano, pensa alle sue domande. Una persona tranquilla troverebbe una balla: il Tegretol serve per i dolori mestruali, direbbe. Ma Aurora non è una persona tranquilla. Si fa prendere dall'ansia. Prima di mettersi in coda dice di dover andare in bagno. Si avvicina al lavabo, posa il beauty sul piano, lo apre e ci caccia le mani dentro, forsennatamente: Aspirina, Nimesulide, supposte di glicerina, eccolo, Tegretol. Potrebbe gettare la scatola e tenere il blister, nasconderlo in una tasca, in una fodera, ma sa che se glielo trovano è peggio. Perché è nascosto? Nascosto come una droga, come qualcosa di sconveniente. Allora butta via tutto, scatola, blister, foglietto informativo. Cosa saranno mai tre settimane senza pillole. C'è stata dieci anni, potrà ben resistere tre settimane. E poi adesso sta
bene, si sente forte, specie quando Ermanno è con lei. E poi succede che, a un certo punto, Ermanno non è più con lei. Lui non sa che la donna che ha portato in vacanza si sta trasformando, se ne va pacifico in barca e in lei scatta qualcosa che l'aveva indotta a uccidere: cosa? Era quello che dovevo cercare. Avere un obiettivo da raggiungere era il solo modo per iniziare bene, per dare un senso alle mie azioni. Avrei scavato fino a trovare la causa scatenante, la spiegazione dell'omicidio. Contai fino a dieci e puntuale arrivò il dubbio: era meglio cercare una ragione, oppure bisognava puntare sull'idea di follia, sulla pazzia che basta a se stessa, sull'insanità che giustifica tutto? Uno, due, tre... dieci. Il dubbio non scomparve, anzi, la mia insicurezza peggiorò. Mi accorsi che di psichiatria forense non sapevo assolutamente nulla. Mi giravano in testa parole come «infermità», «seminfermità», «capacità di intendere e di volere», ma navigavano in un mare di confusione. Facevo la psicologa da quindici anni e non mi ero mai chiesta quali fossero, per la legge, i fattori che limitavano la responsabilità individuale in caso di reato. Mi ero accontentata dei talkshow televisivi, delle cronache sui giornali: «Chiesta la perizia psichiatrica per la madre assassina», «I periti dibattono sullo stato mentale del giovane che ha sterminato la sua famiglia». Quindici anni senza pormi il problema. Dovevo chiedere aiuto. Accarezzai il collo di Morgana, che da un po' si era sdraiata sulle mie ginocchia, ma lei non si mosse. Le grattai la pancia, le presi una zampina, le lisciai la coda: niente. Sapeva fingersi più che addormentata, morta. E tutto per non separarsi da me, dal mio contatto, dal mio calore. Avrei voluto assecondarla, ma non potevo. Allora la presi di peso e la appoggiai accanto a me sul divano. La sua messinscena terminò di colpo: inarcò la schiena, si stiracchiò e andò ad acciambellarsi nella sua cesta di vimini, non prima di avermi lanciato con lo sguardo un messaggio chiaro: chi non mi vuole non mi merita. Andai al telefono e, girando la rotella, composi un numero che conoscevo a memoria. «Buongiorno, sono Anna Pavesi, potrebbe per cortesia passarmi la dottoressa Santarelli del servizio di neuropsichiatria infantile?... Sì, grazie, attendo in linea.» Le note di Per Elisa, ridotte a squallidi trilli elettronici, cominciarono a risuonarmi nell'orecchio sinistro. Osservai Morgana: si era messa una zampa sugli occhi e cercava di dormire veramente. Ancora Per Elisa. Ne approfittai per prepararmi un discorso che dicesse senza svelare, perché Marina Santarelli era la persona meno adatta a mantenere i segreti, persino quelli professionali. La musica cedette il posto a una serie di rumori e infine: «Ciao Anna, come stai?». «Bene, molto bene.» «Che piacere sentirtelo dire, era ora!» Aveva ragione. Marina mi aveva conosciuto all'indomani della mia separazione e per almeno due anni, alla domanda «come stai?», mi aveva sentito rispondere: «Potrebbe andare meglio». Certo, poteva andar meglio anche in quel momento, ma l'importante era non dirlo, né a se stessi, né agli altri.
«Devo chiederti una consulenza.» «Dimmi tutto.» «Un depresso, o meglio, un bipolare, può essere ritenuto incapace di intendere e di volere?» «Conosci qualcuno che in fase maniacale ha ipotecato la casa di famiglia per comprare una Ferrari? Di solito, con i bipolari gravi, i parenti riescono a bloccare in vari modi le possibilità di spendere. Era questo che intendevi?» «No, è più grave.» «Un testamento impugnato?» «No, un omicidio.» Tacque, per qualche istante. E riprese: «Immagino che tu non possa dirmi di più». Ci aveva fatto l'abitudine alle reticenze; la sua patologica mancanza di riservatezza le aveva già causato non pochi problemi e ora non si stupiva più se la gente si teneva abbottonata con lei. Ciononostante mi sentivo in imbarazzo: «Riguarda una conoscente...». Mi tolse dall'impaccio: «Non ho nessuna esperienza diretta in questo campo, ma un po' di tempo fa ho visto la citazione di un libro che potrebbe fare al caso tuo; aspetta che cerco l'articolo...». Udii il colpo secco del ricevitore appoggiato sulla scrivania e il rumore di oggetti spostati. «Ecco, l'ho trovato. È curato da un certo Skodol e si intitola, Psicopatologia e crimini violenti. Citano anche una sentenza della Corte di Cassazione, una sentenza del 2005, magari quella la puoi leggere in internet.» «Farò così, senz'altro.» «Ti stai di nuovo cacciando in qualche guaio?» Lo chiese con quella sollecitudine materna che i suoi sessantacinque anni la autorizzavano ad avere nei miei confronti, con la sollecitudine che mia madre non avrebbe mai avuto. «Sto solo aiutando una persona, ma non ci sono rischi.» «Lo spero bene, perché a settembre dovremo fare un sacco di lavoro insieme: c'è Samuele che entra in prima elementare e bisogna spiegare alle maestre come insegnare a un dislessico, c'è Esmeralda da rivedere per quella storia dei presunti abusi dello zio, c'è Nicola...» E continuò per un po' l'elenco dei bambini di cui ci stavamo occupando insieme, di quei bambini che, ogni tanto, rischiavo di perdere di vista. La salutai, ringraziandola e promettendole che avrei fatto attenzione e soprattutto che sarei stata allegra, tanto, lei ormai ne era certa, qualcuno che mi teneva su il morale c'era ed era anche ora che glielo presentassi. Presentarglielo magari no, ma almeno una telefonata potevo farla. Provai a chiamare Marco, ma il suo cellulare squillò a vuoto: come al solito doveva averlo dimenticato da qualche parte. Più sbadato di me, pensai. Ed ebbi voglia di lui: non lo vedevo da
una settimana. Il mio stato di sospensione romantica da adolescente fuori tempo massimo venne interrotto dai rintocchi delle tre: a Bergamo, con tutte le campane che c'erano, perdere la nozione del tempo era impossibile. All'appuntamento con la signora Melzi mancava mezzora: praticamente ero in ritardo. Infilai le scarpe di tela bianche e corsi giù per le scale. Come al solito, vicolo Aquila Nera incanalava anche le più deboli correnti d'aria per trasformarle in un venticello gradevole che gonfiava in modo buffo la finta seta della mia gonna rossa. In via Gombito, mentre svoltavo per andare a prendere la funicolare, mi specchiai un attimo in una vetrina: la canotta chiara, senza reggiseno, la gonna corta e le scarpe da ginnastica; neanche da ragazza sarei andata in giro vestita così. Ma da ragazza non mi piacevo. Anni e anni di busto ortopedico mi avevano fatto detestare il mio corpo, mi avevano convinto a nasconderlo. Ora era diverso. La casa di via Paglia era un edificio in stile anni Settanta, cioè privo di qualsiasi stile. Un parallelepipedo senza storia, un contenitore di esistenze. Cercai sul citofono il pulsante giusto, lo trovai: l'etichetta diceva solo «Melzi p. 6», come se la signora non avesse mai avuto un cognome da nubile. Suonai. «Chi è?» «Sono Anna Pavesi.» Silenzio. «Sono Anna Pavesi, avevamo appuntamento...» Un ronzio, prolungato, accompagnato dallo scatto secco della serratura. Appena arrivata nell'androne, vidi aprirsi l'ascensore; ne uscì un vecchio, con la giacca e il cappello in testa, malgrado il caldo. Al guinzaglio portava un cane che si trascinava a fatica e tutta la sua figura emanava tristezza, la tristezza del vedovo. Mi infilai in quella porta che l'uomo mi aveva tenuta aperta e salii al sesto piano, contemplando le pareti azzurrine su cui generazioni di piccoli vandali avevano lasciato frammenti di discorsi amorosi e slogan per lotte di classe mai combattute. Sul pianerottolo, le quattro porte, in legno lucido, erano chiuse. Mi avvicinai alla prima per leggere il nome sul campanello: Bortoli-Fugnaga. Passai alla successiva: Maspero Rosina. La terza, nell'angolo, si aprì non appena misi il piede sullo zerbino; evidentemente la signora Melzi mi aveva sorvegliato dallo spioncino. Con gli occhi ancora pieni del sole che aveva accompagnato i miei passi dalla fermata dell'autobus a lì, l'appartamento mi parve sprofondato in un'oscurità tombale. «Buongiorno signora Pavesi. Grazie di essere venuta.» Sulla destra, il vetro ondulato di una porta bianca lasciava indovinare una stanza, probabilmente quella da letto, dove la luce filtrava solo attraverso le fessure degli avvolgibili abbassati. Malgrado il buio, non c'era niente della fresca penombra della latteria; l'aria era soffocante, impregnata di un odore aspro. Dallo stretto corridoio passammo in un salottino la cui parete più lunga era occupata da un arazzo dozzinale che rappresentava scene di caccia.
«Si accomodi.» Mi sedetti su una poltroncina in finto stile Luigi qualchecosa che, sotto il peso del mio corpo, produsse un rumore simile a quello dei sacchetti del supermercato: la plastica trasparente di protezione con cui era uscita dalla fabbrica era ancora lì, in attesa di essere tolta in un'occasione speciale che non sarebbe mai arrivata. Cominciai con le domande che la mattina erano rimaste in sospeso. «Che mestiere fa sua figlia?» «Lavora nello studio di un geometra che fa l'amministratore di condominio.» «Ha delle colleghe?» «Sì, una. Una signora sulla cinquantina, ma Aurora non ne parla mai.» Erano informazioni che mi servivano? Probabilmente no, ma presi nota ugualmente dell'indirizzo che la Melzi mi stava facendo copiare da una rubrica dalle pagine unte sul bordo destro. «Immagino che Aurora abiti qui con voi.» «Sicuro. Io speravo che si sarebbe sposata presto con Ermanno, ma con quello che è successo... Non è che volessi togliermela di casa, ma con suo padre in quello stato, non è allegro per una ragazza giovane.» «Posso vedere la sua stanza?» «Certo, venga.» La seguii e, nell'alzarmi, sentii la sensazione sgradevole delle cosce che rimanevano appiccicate alla plastica della poltrona. Aprì la porta in fondo al corridoio, mi fece entrare e andò a tirare su le persiane. «Ecco, è tutto come lo ha lasciato lei prima di partire. Aurora non vuole che si tocchi niente nella sua camera. Le pulizie se le fa da sé, quando torna dal lavoro. Al mattino no, perché dice che non ce la fa proprio.» Per una depressa, il mattino doveva essere il momento più difficile. Quando finalmente dalla finestra entrò la luce vidi una stanza dalla pareti bianche senza quadri, senza specchi; una stanza nuda e asettica come un obitorio. Il letto, a una piazza, era incastrato sotto un armadio a ponte e coperto da un lenzuolo bianco, con il risvolto perfetto, tirato impeccabilmente ai lati, senza una piega. Una cameretta da adolescente, che però dell'adolescenza non portava alcuno dei segni più tipici. D'altra parte, Aurora era una donna adulta. Però anche l'esistenza di una donna adulta avrebbe dovuto lasciare delle tracce. «Da quanto tempo è così la stanza?» «Da quando le abbiamo comprato i mobili nuovi. Lei aveva tredici anni.» Non so perché, ma indovinai Aurora che si aggirava tra quelle mura con gli occhi spalancati e lo sguardo fisso nel vuoto, come hanno certi bambini nei film dell'orrore.
Quell'immagine non aveva niente a che vedere con il quadro clinico della ragazza, ma ugualmente non potei impedirmi di pensarla come una sorta di aliena. E d'improvviso la vidi con lo stesso sguardo vacuo, mentre piantava le forbici nel braccio del professore, o mentre uccideva un uomo a coltellate. «Posso?» «Faccia pure.» Aprii un cassetto. Eccole le tracce di vita, della vita malata di Aurora: quattro scatole di Tegretol e due flaconi di Entumin. Ne presi uno e lo mostrai alla signora Melzi: «Sua figlia prende anche questo?». «Ogni tanto, per dormire.» «E quando lo prende, il giorno dopo come si sente?» «Si sveglia un po' intontita, tutto qui. Una volta è capitato anche che non sia riuscita ad andare in ufficio, ma forse ne aveva prese troppe gocce.» Richiusi il cassetto e ne aprii un altro. Nuove tracce di vita, nascoste. Una fotografia con un ragazzo e una ragazza, in spiaggia, abbracciati. «Ermanno e Aurora?» L'altra annuì. Mi spostai più vicino alla finestra per vedere meglio ed ebbi un moto di sorpresa. L'idea che mi ero fatta di Aurora non collimava affatto con quello che la foto mostrava. Malgrado le parole della madre, l'avevo creduta bruttina, curva, scheletrica, invece era di una bellezza da lasciare senza fiato. Bruna, capelli lunghi, alta, seni pieni, curve morbide, pelle dorata. Perché una ragazza così si era rovinata l'esistenza ammazzando qualcuno? «Gliel'ha scattata un fotografo a fine giugno, a Cesenatico.» Mi soffermai su Ermanno. Anche lui era bello; non quanto lei, ma comunque bello, affascinante, soprattutto per quel sorriso che gli illuminava il volto. Rimisi la foto al suo posto e curiosai ancora negli armadi, senza che niente mi colpisse in modo particolare. «Desidera un caffè?» mi domandò la signora Melzi. «Un caffè magari no, grazie. Però se avesse qualcosa di dissetante...» «Posso offrirle un'acqua e menta.» «Va benissimo.» Ci spostammo in cucina. Lei prese due bicchieri colorati, di quelli della Nutella, e versò dentro a ognuno un dito di sciroppo verdastro che allungò con acqua del rubinetto. Bevemmo in silenzio. Le domande preliminari io le avevo terminate, non certo perché sapessi tutto, ma semplicemente perché continuavo a non capire cosa fosse davvero importante. Quindi passai alle questioni pratiche: «Cosa ne dice se telefoniamo a Ermanno? Così sentiamo
le novità e gli chiedo indicazioni per il viaggio». «Va bene. Venga.» Mi accompagnò di nuovo in corridoio. Sopra una mensola c'era un telefono grigio, a rotella, come il mio, e accanto, attaccato con il nastro adesivo al marmo rosa della mensola, un biglietto con tre numeri di telefono: Aurora, Ermanno e villaggio. Composi il secondo e un messaggio registrato mi informò che l'utente non era raggiungibile. Con il terzo, ovviamente, ebbi più fortuna. Tre squilli, poi una voce dall'accento straniero mi rispose in italiano: «Villaggio Calypso buongiorno». «Buongiorno, vorrei parlare con Ermanno...» La madre di Aurora mi venne in aiuto: «Mastrangeli». «... con Ermanno Mastrangeli.» Dall'altra parte ci fu un attimo di esitazione: «Un momento, per favore». Passò qualche istante, poi, invece della voce maschile che mi attendevo, sentii nella cornetta, una tonalità femminile che lasciava trasparire imbarazzo a ogni sillaba: «Il signor Mastrangeli non è al villaggio, posso sapere il motivo della chiamata?». Si comportava come la segretaria di un manager molto occupato, ma probabilmente era il solo modo per superare il disagio, per non porre delle domande troppo difficili da formulare. «Sono un'amica della famiglia Melzi, volevo avere notizie di Aurora.» Pronunciò qualche monosillabo, qualche suono inarticolato, cercando le parole giuste per comunicare con me, che ero amica di una cliente, ma anche di quella che le aveva ucciso un collega. «Purtroppo non abbiamo notizie. Il signor Mastrangeli è all'ospedale, a Houmt Souk, ma non so se abbia potuto vederla. Lei sa per caso se i familiari hanno intenzione di venire qui?» «I genitori non possono muoversi, ma verrei io. Avrei bisogno di qualche informazione per il viaggio e per la permanenza.» «Immaginando la situazione abbiamo riservato due posti sul volo che parte sabato mattina da Orio al Serio e una camera doppia qui al villaggio. Le spese le sosteniamo noi, così come quelle dell'ospedale. Vorrei solo raccomandarle... se possibile... ecco, mi rendo conto che anche per voi è un dramma, ma... se poteste non parlare con nessuno dell'accaduto. Per ora siamo riusciti a non creare il panico tra i clienti. So che di fronte a un fatto del genere è quasi vergognoso parlare così, ma siamo in alta stagione, il villaggio è praticamente al completo.» «Non si preoccupi, capisco. Potrebbe solo dirmi come fare per il biglietto?» «Le mando il voucher via email, dovrà presentarlo al nostro banco accettazione all'aeroporto. Avrei solo bisogno del suo nome e del suo recapito di posta elettronica.» Glieli diedi.
«E il nome della persona che viaggia con lei?» C'era una persona che viaggiava con me? Era un'ipotesi che non avevo preso in considerazione. Però non sarebbe stato male. Non sarebbe stato male avere qualcuno che... Qualcuno. «L'altra persona si chiama Marco Callegari, però non è ancora sicuro che venga: glielo posso confermare domani?» «Non c'è problema. Anzi, facciamo così: se non cambia nulla non ci sentiamo più, altrimenti lei mi chiama.» Ringraziai e appoggiai la cornetta sull'apparecchio. «Di Aurora nessuna notizia, ma Ermanno probabilmente è con lei. Sono sicuro che questa sera la chiama.» «Speriamo.» «Già, speriamo.» All'improvviso sentii fortissimo il desiderio di andarmene da quella casa, dal caldo soffocante, dalla puzza di malattia. Annotai i numeri di telefono che si trovavano accanto all'apparecchio e salutai la signora Melzi: «Ci sentiamo domani, a meno che non venga fuori qualcosa di nuovo prima». «D'accordo. Buonasera.» E mi chiuse la porta alle spalle. Chiamai l'ascensore e, tardiva come al solito, mi balenò un'altra idea. Feci dietrofront e suonai il campanello. Udii i passi, il ciabattare, il tocco di qualcuno che si appoggiava alla porta per guardare dallo spioncino, la chiave nella serratura, quattro giri, e infine la maniglia. «Sì?» «Mi scusi signora, ho dimenticato di chiederle il nome dello psichiatra che ha in cura sua figlia.» «È il dottor Bedini. Le do la ricetta per le medicine, lì c'è scritto tutto.» Presi il foglietto e lo misi in borsa, salutando di nuovo. Malgrado il traffico delle vie intorno alla stazione, l'aria di fuori mi parve pulita, quasi fresca. Presi il cellulare e chiamai di nuovo Marco. Questa volta rispose: «Ciao piccola!». «Non hai visto che ti avevo cercato?» «Sì, ma c'è stato un sacco da fare in pronto soccorso: riesco a riprendere fiato solo ora. Sto bevendo un caffè alla macchinetta.» La macchinetta. Il distributore automatico davanti al quale avevo parlato con lui da sola per la prima volta, due anni prima, quando lo avevo soprannominato «L'abbronzato». Gli raccontai tutta la storia e terminai con la domanda cruciale.
«Allora, ci vieni con me a Djerba?» Sapevo che non sarebbe stato facile, che c'era la questione dei turni in ospedale, del bambino, sapevo di tutti i problemi, ma avevo voglia che lui li risolvesse. «Ci provo» fu la sua risposta. «Ho parecchie ferie arretrate e di recente ho accettato delle sostituzioni, magari un cambio riesco a concordarlo.» «E con tuo figlio?» «Mattia ha ricevuto proprio ieri sera un invito a passare una settimana sulle Dolomiti da un suo compagno di classe, quindi salta il weekend con me. Su quel fronte, nessun problema.» Già, era un uomo libero, anche se avevo una certa tendenza a dimenticarlo. Dopo il lungo periodo di comproprietà in cui lui aveva regolato i suoi conti con un amore finito forse prima del mio, ora Marco avrebbe potuto essere «tutto per me». Eppure era difficile abituarsi, difficile pensare alla naturale evoluzione di quello stato di cose. Aveva preso in affitto un appartamento a Milano, nella zona di Porta Genova e quando non era di turno al mattino, la notte la passava da me. Capitava spesso, fin troppo: questo almeno era quello che pensava Morgana. «In ogni caso» riprese, «io un tentativo di venire con te lo faccio, anzi, se quell'effimera presenza che è il nostro primario non è ancora sparita, glielo chiedo subito. Ti chiamo dopo. Baci.» «Baci.» Ero contenta. Inquieta e contenta. Come una ragazzina. Un ultimo sussulto di senso del dovere mi fece comporre il numero dello psichiatra di Aurora, ma la segreteria telefonica fu esplicita: «Il dottor Bedini sarà nuovamente reperibile a partire dal 20 agosto. In caso di urgenza contattare il dottor...». Ripiegai il cellulare e quello si mise immediatamente a trillare; sul display comparve la scritta «Marco». «È fatta! Non mi resta che preparare la valigia.» «Ti hanno già dato il cambio?» «Mi sostituisce Carloni: doveva partire domenica, ma gli si è rotta la frizione del camper e i ricambi non arrivano prima di giovedì prossimo, così è stato ben felice di prendere il mio posto, almeno non spreca una settimana di vacanza.» «E le tue infermierine?» motteggiai con una gelosia neanche tanto simulata. «Sono dispiaciute.» «Lo credo.» «Dispiaciute di dover aspettare fino a domani sera per vedermi lasciare il Paese.» «Stupido. E poi perché dici domani sera? Il volo è sabato.» «Sì, ma se ci imbarchiamo a Orio vorrai ben ospitarmi a casa tua, o intendi farmi partire alle quattro del mattino da Milano?»
Ci mettemmo d'accordo sui dettagli e ci salutammo, con insolita allegria. Mi vergognai. Aurora era in ospedale con le vene tagliate, un uomo era morto accoltellato e io mi sentivo leggera come se stessi iniziando una vacanza qualsiasi. Era così, e non potevo farci nulla. Alla terza volta che premevo il tasto snooze ebbi la tentazione di lanciare la sveglia in cucina, di mettere la testa sotto il cuscino e di continuare a dormire. Le cifre rosse proiettate sul soffitto indicavano le 7.51, ma io avevo ancora sonno, tanto sonno. Per fortuna, Morgana risalì dal fondo del letto per venirmi a leccare la guancia: era il suo modo di darmi il buongiorno e di far valere i diritti del suo stomaco. Mi alzai. Ero inebetita, ma non ne capivo la ragione: niente alcool la sera prima, né, tantomeno, pastiglie per dormire; solo un sonno leggero, disturbato da sogni troppo vividi. Avevo sognato mio padre: mi portava con sé alle officine Grandi Riparazioni e tutti i colleghi lo salutavano, gli facevano festa, poi lo facevano salire su una carrozza dell'Orient Express, che però, invece di essere blu, era tutta rossa, e gli dicevano che era il vagone del Granduca del Lussemburgo, l'avevano appena restaurata e il primo giro toccava a lui, perché era guarito dal tumore. In realtà, di quel tumore mio padre era morto e ogni volta che tornavo a sognare di lui, mi svegliavo nel cuore della notte in preda alle palpitazioni. Versai nella ciotola i bocconcini per Morgana e misi sul fuoco una grossa moka. Sul tavolo della cucina, ancora coperto dalla cerata a scacchi, mi attendeva la lista degli impegni della giornata: cercare la sentenza in internet, fare valigie, comprare costumi da bagno, collocare Morgana. Partii dall'inizio e, nell'attesa di sentir gorgogliare il caffè, accesi il computer. Trovare la sentenza fu questione di pochi attimi: CASSAZIONE — SEZIONI UNITE PENALI SENTENZA 25 GENNAIO — 8 marzo 2005, n.9163/2005 Cominciai a leggere, e fin, dalle prime righe, ebbi difficoltà a comprendere il senso del testo. Si parlava di disturbi e malattie che conoscevo bene, ma il tono, la forma, tutto quel paludamento tipicamente giuridico, mi facevano sentire una specie di straniera alle prese con il modulo per il visto d'ingresso in un Paese remoto. Con l'aiuto di una presina bruciacchiata in più punti, mi versai il caffè e con la tazzina in mano e il gusto amaro in bocca, la decifrazione di quel codice mi sembrò un po' meno ardua. Individuai il punto che mi interessava di più: Per quanto riguarda, quindi, i disturbi del a personalità, essi – che innanzitutto si caratterizzano, secondo il predetto manuale diagnostico, per essere «inflessibili e maladattativi» – possono acquisire rilevanza solo ove siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere. Vuole, cioè, dirsi che i disturbi della personalità, come in genere quelli da nevrosi e psicopatie, quand'anche non inquadrabili nelle figure tipiche del a nosografia clinica iscrivibili al più ristretto novero delle «malattie» mentali, possono costituire anch'essi «infermità», anche transeunte, rilevante ai fini degli artt. 88 e 89 c.p., ove determinino lo stesso risultato di pregiudicare, totalmente o grandemente, le capacità intellettive e volitive...
«Morgana! Porca miseria! Giù dal tavolo. Forza.» La spinsi giù e lei mi guardò avvilita. «Possibile che tu debba sbattere per terra tutto quello che trovi?» A dire il vero, la tazzina, ormai quasi vuota, non era finita sul pavimento ma mi si era rovesciata in grembo. «Guarda qua! Come se non mi macchiassi abbastanza da sola.» Mi tolsi la lunga Tshirt che mi faceva da pigiama e la appallottolai, poi continuai la lettura, senza neanche alzarmi per chiudere la finestra: se qualcuno voleva sbirciare che sbirciasse pure. Deve, perciò, trattarsi di un disturbo idoneo a determinare (e che abbia, in effetti, determinato) una situazione di assetto psichico incontrol abile e ingestibile (totalmente o in grave misura), che, incolpevolmente, rende l'agente incapace di esercitare il dovuto control o dei propri atti, di conseguentemente indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto, di autonomamente, liberamente, autodeterminarsi: e a tale accertamento il giudice deve procedere avvalendosi degli strumenti tutti a sua disposizione, l'indispensabile apporto e contributo tecnico, ogni altro elemento di valutazione e di giudizio desumibile dal e acquisizioni processuali. Dunque, anche il disturbo bipolare poteva rendere «incolpevole». Certo bisognava attendere il processo e di sicuro non sarei stata io a fare la perizia, però, per il momento, potevo raccogliere tracce di quell'«assetto psichico incontrollabile e ingestibile» che forse sarebbe valso l'assoluzione di Aurora, o qualcosa del genere. Il mio compito mi parve per un attimo perfettamente chiaro, ma bastarono i soliti dieci secondi perché mi dessi della cretina. Aurora sarebbe stata giudicata da un tribunale tunisino, e io delle loro leggi non ne sapevo nulla: cosa me ne facevo di una sentenza della Corte di Cassazione italiana? Cercai qualcosa di analogo sui siti tunisini di lingua francese, ma non trovai nulla. Provai un po' di sconforto, ma mi dissi che quegli aspetti erano di competenza dell'avvocato. Rividi gli occhi imploranti della signora Melzi, risentii le sue parole: «E poi se cerca di nuovo di ammazzarsi? Cosa vuole che faccia l'avvocato? La prego...». Una psicologa: ero innanzitutto una psicologa. Me lo ripetei con forza. Alla Upim c'era una folla da primo giorno di saldi, ma purtroppo di saldi neanche l'ombra e non erano troppe neanche le cose semplicemente alla portata delle mie finanze. Seguii le indicazioni «Abbigliamento donna» e cercai un golfino di cotone per la signora Ghislandi. Santa donna la signora Ghislandi, avrebbero dovuto farle un monumento. «Ma certo che le tengo Morgana, si figuri, così mi fa un po' di compagnia; sa com'è, d'estate noi vecchi ci sentiamo ancora più soli. Mia figlia parte per le vacanze con quel suo nuovo moroso, quello che fa il rappresentante di mobili. Speriamo che sia la volta buona. Da quando si è separata, me ne ha dati di dispiaceri!» Come previsto, mi aveva attaccato un bottone di una buona mezzora, ma ascoltarla era il minimo che potessi fare, con tutti i favori che le dovevo. Finita l'operazione regalo, mi diressi verso il settore dei costumi da bagno. Avevo realizzato il giorno prima che, a parte un olimpionico da nuotatrice sovietica degli anni Ottanta, non ne possedevo nessuno: non era certo il mare la mia meta abituale. Scartai a priori qualunque cosa portasse la griffe di qualche stilista, non per cieca obbedienza alla dottrina «no logo», ma per puro istinto di sopravvivenza economica. Con gesto meccanico spostavo la gruccia, isolavo il capo, guardavo il cartellino del prezzo e di nuovo facevo scorrere la gruccia sulla barra, verso destra. A un certo punto, un due pezzi nero con un sottilissimo bordo grigio perla sembrò
chiamarmi. Costava; non esageratamente, ma costava. Però... Mi appoggiai in vita lo slip: troppo sgambato? Dubbio. Con la gruccia in mano puntai verso i camerini. «Signora» mi intercettò una commessa, «i costumi e l'intimo non si possono misurare.» Preferii non fare discussioni. «Non lo indosso, è solo una... una verifica.» Non so se l'altra capì cosa intendessi, forse lo immaginò, e per solidarietà femminile mi sorrise e tirò diritto. Una volta nella cabina, alzai la gonna e appoggiai di nuovo lo slip alla vita, tentando di individuare esattamente il punto in cui sarebbe iniziata la zona scoperta. Descrissi con un dito una specie di arco nel punto in cui l'elastico del costume si sarebbe chiuso sulla gamba e sul gluteo, poi consultai lo specchio delle mie brame: niente cellulite in bella vista, acquisto deciso. Per il secondo bikini andai su un genere decisamente più economico e non persi troppo tempo in prove. Nel reparto profumeria comprai ancora una confezione di rasoi usa e getta dal manico ostentatamente rosa poi uscii e, sulla pelle ancora fresca di aria condizionata siberiana, si appiccicò il calore umido della strada. Una doccia. Quello che mi serviva, dopo il bagno turco dell'autobus, era una doccia. Prima di buttarmi sotto il getto d'acqua tiepida provai però i costumi. Che shock! Su quello nero, niente da dire: negli anni Sessanta sarebbe stato da oltraggio al pudore, ma oggi era più che casto. Il problema era l'altro, quello arancione. Mi guardai ancora nello specchio, voltandomi di tre quarti: la mutandina mi lasciava fuori quasi tutto il sedere, neanche un lembo di tessuto a mascherare la dura intersezione tra la natica e la coscia. Non era un perizoma, ma poco ci mancava e per giunta arancione. Forse mi stava addirittura bene: a sentire Marco, il mio fondoschiena era tutt'altro che da buttare, solo che a quarantun anni mi sembrava un po' fuori luogo. Pazienza, lo avrei tenuto di scorta, oppure lo avrei indossato con un pareo annodato in vita. Misi i due costumi in lavatrice per un lavaggio delicato e finalmente mi infilai sotto la doccia, rasoio rosa alla mano. La telefonata della signora Melzi arrivò verso le due. «Mi ha chiamato Ermanno. L'ha vista.» «Come sta?» «Non ricorda nulla.» «Neanche il tentativo di suicidio?» «Quello sì. È del resto che non ricorda niente. Non sa come quello là è entrato in stanza, non sa perché lo ha ucciso.» Dunque, l'omicidio era avvenuto nella camera di Aurora. Era un dato che prima non possedevo,
o che avevo dimenticato. Aurora e l'animatore, in una stanza: avevano appuntamento? O lui si era intrufolato con una scusa e aveva cercato di violentarla? Illazioni, pensieri in libertà. Tornai alla domanda di prima: «Come sta di salute?». «Ha perso molto sangue, ma Ermanno dice che non è in pericolo di vita.» «E l'avvocato è arrivato?» «No, dicono lunedì.» Spesi ancora qualche parola per provare a tranquillizzarla, ma sentivo in quelle stesse parole il sapore dell'inutilità, della vacuità: fino a che non fossi arrivata a Djerba non avrei potuto fare nulla. Chiesi solo se Ermanno fosse stato avvertito del mio arrivo: la signora Melzi me lo confermò. Mi salutò con una voce colma di una fiducia che io non ero certa di meritare. Passai il pomeriggio a fare le valigie e a elucubrare. Il fatto che Aurora non ricordasse l'aggressione poteva essere indice della gravità del suo disturbo; se non ricordava, probabilmente non era responsabile dei propri atti in quel momento. Non ricordo. Dicevano così anche gli assassini più feroci, quelli che avevano rimosso dalla memoria l'omicidio, ma che poi, con lucidità sorprendente, erano stati capaci di nascondere il cadavere e di crearsi un alibi per l'ora del delitto. Non ricordo. Era molto comodo, ma difficile da dimostrare. Per la prima volta ebbi il sospetto che la malattia di Aurora non avesse alcun ruolo in quello che era successo. Eppure c'erano stati gli episodi precedenti. Chissà se, a distanza di tanti anni, sarei riuscita a rintracciare quel professore che si era ritrovato con una forbice conficcata nel bicipite? E sarebbe stata la strada migliore? Immaginai il difensore in aula: «Sì, Vostro Onore, la mia cliente non può essere considerata colpevole perché lei abitualmente va in giro a dare coltellate e forbiciate alla gente, non è colpa sua, è più forte di lei...». Paradossale. Consultai la posta elettronica. Pochi messaggi: anche lo spamming stava andando in ferie. Trovai il voucher del villaggio Calypso, con gli orari di imbarco e tutte le indicazioni. Lo mandai in stampa. Come prevedevo, appena la stampante si mise in moto, con quel sibilo leggero di testine che si spostavano, Morgana balzò sul tavolo per non perdersi lo spettacolo del foglio che veniva lentamente risucchiato dalla macchina. Con la zampa cercò inutilmente di fermarlo, fino a che non fu scomparso del tutto, allora cambiò posizione e si mise ad aspettarlo dall'altra parte, all'uscita. Il voucher era lungo quattro pagine e la battaglia con la stampante la lasciò spossata. La attirai a me e lei si sedette sulle mie ginocchia, con le zampe anteriori e il musetto appoggiati al mio braccio sinistro. All'idea di lasciarla provai un po' di dispiacere: in fondo era quella che da più tempo divideva la vita con me. A proposito di vita condivisa! Forse potevo informare Stefano della mia partenza. Era più di un mese che non lo sentivo; il tempo ci stava facendo diventare come tutti i separati che si rispettino: estranei. Chiamai l'estraneo sul cellulare.
« Bonjour» rispose. «Hai ancora il mio numero memorizzato o rispondi " Bonjour" a tutti?» «Certo che ho ancora il tuo numero. Perché, non dovrei?» Non aveva colto l'ironia riferita a quel suo lungo silenzio, lungo quanto il mio, del resto. «Come va la vita a Torino?» «Non male, se escludiamo il lavoro. E a Bergamo?» Ci mancava soltanto qualche commento sul caldo estivo, e poi l'atmosfera da condomini che si ritrovano sull'ascensore sarebbe stata perfetta. «A Bergamo tutto bene, ma sono in partenza per Djerba.» «Vacanza?» «No, la figlia di una conoscente ha pensato bene di uccidere un animatore e di tagliarsi le vene. Vado a vedere quello che posso fare per lei.» «Già, dimenticavo che sono l'ex marito della "signora in giallo". Cerca di fare attenzione.» Lo aveva detto, ma il suo tono non era più allarmato come un tempo. «Viene anche Marco, non ti preoccupare.» «Salutamelo.» «Ma se non vi siete mai visti!» «Cosa importa? È uno di famiglia.» Restituii la gentilezza e gli chiesi della sua fidanzata e della loro nuova casa. Come vecchi compagni di scuola che si scambiano notizie un paio di volte l'anno. Gli augurai buone vacanze e feci per salutarlo, lui mi interruppe: «Lo hai detto a tua madre che parti?». No, non glielo avevo detto e lui lo sapeva, perché, malgrado tutto, mi conosceva meglio di chiunque altro: non eravamo vecchi compagni di scuola, non lo saremmo mai stati. La conversazione con mia madre fu la stessa di sempre, a denti stretti, con accuse velate, piccole recriminazioni e tanta voglia di chiudere, da una parte e dall'altra. Alle sei trasportai Morgana, con tutto il suo corredo di cassettina, lettiera e scatolette, al piano di sotto, dalla signora Ghislandi. Appena liberata dalla mia presa, la gatta fiutò un po' in giro, poi andò a nascondersi sotto la credenza della cucina e non ci fu verso di farla uscire: era il suo modo di rimproverarmi, e di farmi sentire che mi voleva bene.
Sabato 28 luglio 2007 Quello che ci colpì, appena usciti dall'aeroporto, fu la luce, l'incredibile bianchezza di ogni cosa. Non che il sole fosse più caldo che a Bergamo, semplicemente era ovunque, la nozione stessa di ombra sembrava estranea a quel posto. Sul piazzale, davanti agli autobus col motore acceso, una schiera di animatori attendeva i turisti con aria annoiata. Sul volto di ognuno di loro c'era stampato un sorriso, una gioia preconfezionata che sapeva più che altro di commiserazione. Quello che per noi era eccezionale, unico, per loro era una logora routine: ogni settimana qualcuno di nuovo da accompagnare, da far divertire, con le stesse battute, con gli stessi spettacoli e poi da riaccompagnare. «Ciao ragazzi, villaggio Calypso?» Io e Marco ci guardammo, tentati di voltarci indietro per vedere dove si nascondessero i «ragazzi» che la signorina bruna aveva salutato, poi annuimmo con il capo. «Mi dite i vostri nomi per favore?» Non aveva più di vent'anni, ma mostrava una spigliatezza costruita, da donna matura. «Pavesi e Callegari» rispose Marco. «Benissimo, siete nel pullman numero dodici, quello bianco giù in fondo. Benvenuti.» Nell'ascoltare i nostri cognomi non aveva battuto ciglio: chissà chi di loro sapeva che noi eravamo lì per Aurora? Forse nessuno. D'altro canto, non un gesto, non un atteggiamento che lasciasse trasparire lutto o dolore: the show must go on. Dormii per quasi tutto il tragitto, con la testa appoggiata alla spalla di Marco e la mano nella sua; quando aprii gli occhi, ormai in prossimità del villaggio, incrociai lo sguardo di una signora sulla sessantina: «Viaggio di nozze?» ci chiese. Mi venne da chiederle se ci vedeva bene, ma Marco mi precedette: «Sì, sposini novelli» le fece, e le mostrò la fede che brillava come se fosse stata nuova. «Potevi almeno lasciarla a casa» gli sussurrai in un orecchio. «Non esce più.» La signora ci guardò di nuovo, con tenerezza, ignara di tutto: «Auguri di cuore». «Grazie.» L'autobus percorse ancora un tratto di strada in mezzo a un nulla sabbioso e arido, poi si fermò di fronte a un edificio bianchissimo, una sorta di anfiteatro a tre piani, con un ingresso pretenziosamente ornato di colonne doriche. Nell'aria, gli altoparlanti diffondevano una melodia semplice, da canzonetta, spezzata, a intervalli regolari, da una voce femminile che intonava un refrain insopportabile già al terzo
passaggio: Giorni felici, con tanti amici, è sempre allegro, chi passa i suoi giorni con noi. Dopo il «noi» entrava un coretto urlante: Al Calypso club. E di nuovo la voce femminile: Notti di sogno, ne avevo bisogno, se cerchi l'amore lo trovi da noi. Coro: Al Calypso club. «Sogno-bisogno», peggio di «amore-cuore»! Sentii poderoso il desiderio di tornare indietro e lo repressi a stento. Prendemmo i nostri bagagli e ci mettemmo ordinatamente in coda davanti al banco della reception. Una dopo l'altra, le persone consegnavano i documenti e venivano indirizzate alla loro camera dopo un frettoloso benvenuto. Quando venne il nostro turno, l'impiegato lesse i nomi sui passaporti e si bloccò: «Un attimo per cortesia». Sparì nel retro e ne uscì dopo qualche secondo accompagnato da una giovane donna in tailleur blu. «Buongiorno» disse aggirando il banco e raggiungendoci, «io sono Elisabetta, la responsabile del villaggio. Penso che sia meglio accomodarci un attimo nel mio ufficio.» Entrammo in una stanza completamente vetrata in un angolo della hall e ci sedemmo davanti a una scrivania di cristallo. «La situazione è davvero incresciosa» cominciò la responsabile. «Immagino che capiate come mi sento dopo aver perso un collega in questo modo orribile, ma penso anche di sapere come vi sentiate voi...» La interruppi: «Preferirei sgomberare subito il campo dagli equivoci. Io non sono una parente della signorina Melzi, sono una psicologa incaricata dalla famiglia e...». Feci una pausa per trovare il coraggio: «E sono anche un'investigatrice privata». Marco mi osservò perplesso: era la prima volta che me lo sentiva dire. Elisabetta invece mi parve sollevata: la questione si metteva su un piano molto più professionale. Sul suo viso si cancellò la smorfia di tensione che lo aveva marcato fin dal primo momento e la sua pelle scura divenne a un tratto liscia, senza rughe. «Qual è esattamente il suo compito?» «Capire come sono andate le cose e stare vicino ad Aurora: come avrà intuito, è una persona estremamente instabile.» Fuori, nella hall, passavano schiere felici, imbottite di vacanza, che mai avrebbero sospettato il tema della conversazione che si stava svolgendo al di là di quella parete trasparente. Presi di nuovo la parola: «Di quello che è successo, la famiglia non ha saputo praticamente niente: siamo solo al corrente del fatto che Aurora ha ucciso un animatore». «Si chiamava Johnny, Jonathan Caputo per l'esattezza, trentacinque anni. Padre italiano, madre americana, nazionalità statunitense. Era istruttore di windsurf e poi, come tutti, la sera dava una mano nell'animazione.» Snocciolava i dati senza tradire una particolare emozione, come se stesse rispondendo a un sondaggio. «Come hanno scoperto il delitto?» « È stata una donna delle pulizie. Ha bussato per rifare la camera e ha sentito un lamento provenire da dentro. Allora ha cercato di aprire con il passepartout, ma c'era la catena di
sicurezza, così ha chiamato la vigilanza. Hanno tranciato la catena con una tenaglia. Quando sono entrati il corpo di Jonathan era a terra e la ragazza inginocchiata sul letto, con il coltello in mano, tutta insanguinata.» La sua voce si incrinò. «La scena l'ha vista anche lei?» «Purtroppo sì. Non è frequente che si debba forzare una stanza e in quei casi il direttore deve essere presente.» «Aurora come ha reagito quando siete entrati?» «Non ha reagito affatto. Era in stato confusionale. Oscillava avanti e indietro col busto e gemeva; un attimo dopo è svenuta. Si era tagliata le vene, ma solo del polso sinistro. C'era sangue dappertutto.» «E voi cosa avete fatto?» «Ovviamente abbiamo chiamato subito un'ambulanza. E poi la polizia.» «Il suo collega era già morto?» «Sì. Per lui non c'è stato niente da fare. Aveva la gola squarciata. Carotide recisa, ha detto il medico. Anche la ragazza ha rischiato di morire. Adesso è ricoverata alla clinica El Yasmine di Houmt Souk, il capoluogo dell'isola, piantonata dalla polizia.» «È possibile parlarle?» «Diciamo che, come cittadina italiana, gode di un trattamento di riguardo.» «E la polizia è convinta che sia lei l'assassina?» Elisabetta allargò le braccia: «La porta chiusa dall'interno con la catena di sicurezza, il cadavere, il coltello in mano, il suicidio...». Sì, la mia domanda era stata ingenua, un tentativo disperato, ma non mi diedi per vinta: «Immagino che la stanza abbia un balcone: da quella parte non può essere entrato nessuno?». «C'è un piccolo giardinetto perché la camera è al pianterreno, ma anche quella porta era chiusa dall'interno.» Mi stavo arrampicando sui vetri. Invece di inseguire ipotesi fantasiose, dovevo capire quale molla avesse fatto sprofondare Aurora nel gorgo in cui si trovava adesso, senza memoria e senza futuro. Cosa chiedere ancora in quel primo colloquio? Ero stanca del viaggio, confusa, incapace di ordinare i miei pensieri. Tentai di mettere fine alla conversazione: «Lei sa per caso se posso parlare con il signor Mastrangeli?». «È andato all'ospedale dalla signorina Melzi. Appena torna la faccio chiamare.» «La ringrazio molto.» «Si figuri. Da parte nostra c'è il desiderio di fare la massima chiarezza su quanto è accaduto, quindi, per qualsiasi cosa si rivolga pure a me. Come le ho già detto al telefono, ho solo una
preghiera: discrezione. Siamo riusciti a far portar via il corpo di nascosto e la polizia ci ha molto aiutato. È chiaro che quelli dello staff sanno della morte di Jonathan, ma con loro siamo stati tassativi: non una parola con i clienti.» Scacciò una mosca che le si era posata sull'orecchio. «A chi ci ha domandato di lui abbiamo risposto che è dovuto partire improvvisamente per un lutto familiare. Naturalmente, se deve parlare con qualche mio collega può farlo, ma le chiedo sempre di avvertirmi prima, specie se si tratta di personale tunisino. L'ideale sarebbe che voi vi comportaste come normali turisti. Avevo qualche remora nel chiedervelo, ma sapendo che non siete parenti della signorina tutto diventa più semplice.» Il suo tono sulle sue ultime battute era diventato più asciutto, perentorio. E non mi piacque. Tuttavia la rassicurai con cortesia: «Saremo dei vacanzieri perfetti». «Tenete.» Mi porse due nastrini di plastica viola con sopra lo stemma del villaggio. «Cosa sono?» «I braccialetti dell' all inclusive. Nel villaggio è tutto incluso: pasti, spuntini, bibite, aperitivi. Anche nel bar sulla spiaggia. Solo che ogni tanto c'è qualcuno da fuori che cerca di intrufolarsi, ragazzini, in particolare. Non possiamo controllare tutti quelli che accedono dalla spiaggia, allora usiamo il braccialetto per distinguere i clienti.» Strinsi il nastrino intorno al polso e altrettanto fece Marco: adesso eravamo due turisti certificati. Elisabetta mi mostrò la chiave di una stanza, la 312, e mi disse: «È del tutto simile a quella dove... Sì, insomma, è lì a fianco... Siete alloggiati in una delle isole dell'atollo. Adesso vi faccio accompagnare». La frase mi suonò sibillina, ma non obiettai. Ci alzammo, le porgemmo la mano e seguimmo il cameriere che lei aveva chiamato con un cenno e al quale aveva affidato la chiave della nostra stanza. Uscimmo dalla parte opposta a quella dove eravamo entrati e appena fuori cominciai a comprendere il riferimento alle isole. Quello che prima mi era parso un anfiteatro era in realtà il corpo centrale del villaggio che, a semicerchio, abbracciava la piscina ovale. Al di là, si vedevano costruzioni più piccole, sparse sul verde di un prato innaturale proprio come isole di un arcipelago di cemento. La prima impressione fu quella di trovarmi in uno di quei film dove gli esploratori scoprono, nel bel mezzo di una landa desolata, la valle incantata piena di sorgenti e di laghetti. L'edificio principale segnava un confine netto tra due mondi e quello che stava all'interno, nella valle incantata, era fatto di gente festante, svestita, gioiosamente impegnata a ungersi di crema solare a ciabattare da una parte all'altra o a ingurgitare enormi beveroni colorati. Era un mondo estraneo, ma visto così, con lo scetticismo della mia età, non era poi male. Le nostre valigie, tirate dal cameriere tunisino, ci precedevano di una decina di metri lungo il
vialetto e le loro rotelle producevano un rumore fastidioso che però nessuno sembrava notare. Alla congiunzione con un secondo vialetto, incrociammo un ragazzo che indossava una maglietta gialla e un paio di pantaloncini blu a fiorelloni: «Ciao, io sono Lollo». «Anna e Marco» gli feci di rimando. «Ah, come i due della canzone. Benvenuti.» E se ne andò, in fretta, con l'aria di chi deve correre a salvare il mondo. «Dobbiamo imparare il nome di tutti?» mi chiese Marco con finta preoccupazione. «Sì, è come nei gruppi di auto-mutuo aiuto: tutti quelli che incontri devono sapere chi sei e qual è la tua storia.» Anche la mia, ovviamente, era una boutade, ma un attimo dopo incrociammo un secondo ragazzo con la maglietta gialla e i pantaloncini blu: «Ciao, io sono Angelo». Ci presentammo, educatamente e, nell'accomiatarci, a me scappò il «buongiorno» di chi, cresciuto tra Torino e Bergamo, riserva il «ciao» e il «tu» agli amici di lunga data. Marco invece sembrava a suo agio, disinvolto, come sempre, o forse, come sempre, estraniato, distante. Feci una prova: «Come si chiama quello che ci ha appena parlato?». Non ci pensò neanche un istante: «Alfredo. Ha detto che si chiama Alfredo». Appunto. Nei cento metri del nostro percorso facemmo ancora in tempo a incontrare una terza persona vestita di quella che capimmo essere la divisa degli animatori: una ragazza, piuttosto massiccia. Quando fu a distanza di stretta di mano, Marco decise di giocare d'anticipo e tese il braccio: «Ciao io sono Marco». «Viviana, animazione bimbi, avete bambini?» «No» risposi secca. «Peccato. Sarà per l'anno prossimo. Datevi da fare.» Sorrise ebete, prima di andare anche lei a salvare il mondo. La mandai mentalmente a farsi benedire. Davanti alla porta della nostra camera, il disinvolto infilò con disinvoltura una banconota tra le mani del cameriere, recuperò i bagagli e chiuse la porta alle nostre spalle: «Buona vacanza». Avrei dovuto rispondergli che non si trattava affatto di una vacanza, avrei dovuto ricordargli il lago di sangue che si era formato in una camera del tutto simile alla nostra, ma nel suo cuore quella era la nostra prima vera vacanza, per questo, invece di rinfrescargli la memoria, preferii accarezzargli la schiena infilandogli le mani sotto la maglia: se dovevamo giocare ai turisti felici, che il gioco iniziasse subito. Un attimo dopo però concessi un piccolo spazio al lavoro e collocai il mio notebook sulla scrivania in fondo alla stanza verificando che il collegamento senza fili a internet funzionasse. Funzionava, anche se non sapevo bene a cosa mi sarebbe servito. Svuotammo le valigie e sistemammo i vestiti nell'armadio, ognuno i suoi, ognuno il suo spazio.
L'idea di mettere le mani tra la sua roba, di appendere le sue camicie sulle grucce o di infilare le sue mutande nei cassetti non mi sfiorò neppure per un secondo. Con Stefano mi capitava di farlo, mi capitava di comportarmi da brava moglie, ma con Marco non avevamo ancora conquistato la giusta intimità. È una strana sensazione l'intimità, specie dopo i quaranta, specie dopo una separazione: puoi abbandonarti, puoi andare a letto con qualcuno, puoi persino accettare di trovartelo accanto al mattino, con gli occhi impastati e l'alito pesante, ma le sue mutande nel cassetto no, quello è troppo, almeno per me. «Dai, mettiti il costume che partiamo per una ricognizione!» Maglietta bianca, calzoncini kaki, i teli da spiaggia forniti dal villaggio piegati in uno zainetto: era già pronto. Mi spogliai e, nuda, cominciai a mettere scompiglio là dove avevo appena fatto ordine: i bikini erano già scomparsi. Marco mi seguì con attenzione. Sapevo che gli piaceva guardarmi e io esaminai senza fretta i vari ripiani fino a che, sotto un maglione sicuramente troppo pesante per quel luogo, trovai i miei due recenti acquisti. «Bello il due pezzi arancione.» «Sì, ma preferisco mettere l'altro.» «Perché?» «L'arancione sta meglio sulla pelle abbronzata. Tra qualche giorno, magari...» Mentivo. Lo avrei nuovamente nascosto sotto il maglione e quella specie di perizoma non sarebbe più uscito dall'armadio: la mia decisione era fermissima. Uscendo dalla nostra «isola» fatta di stanze raccolte intorno a una sorta di chiostro, mi colpì nuovamente l'immagine della valle incantata: l'ombra proiettata dal grande edificio mitigava un po' la crudezza di quella luce che, dall'altra parte, verso il deserto, rendeva tutto uniformemente bianco. Marco mi prese la mano e camminammo lungo il bordo della piscina. Giovani, qualche coppia più anziana, ma soprattutto famiglie, tante famiglie e bambini di tutte le età. Le voci si levavano chiassose, ma senza eccessi: ovunque si parlava italiano e non si vedevano che italiani; fatta eccezione, naturalmente, per i camerieri che, senza sosta, passavano da un tavolino all'altro a ritirare bicchieri sporchi e piattini con resti di dolci consumati a metà. C'era un che di coloniale in tutto ciò, un ricordo di vecchi circoli per ufficiali del Regio Esercito nell'Africa Orientale Italiana. Verso il fondo della vasca, nel punto marcato da una coppia di palme in plastica arancione, un gruppetto di ragazzini, maschi, si esibiva in una sequenza di tuffi spericolati e goffi per impressionare senza successo le coetanee. Lì vicino, una mamma cambiava il pannolino a una bimbetta di poco più di un anno; una mamma della mia età e con l'aria da single. Con un piede tastai l'acqua: era tiepida. «Facciamo il bagno?» domandai a Marco. «E se lo facessimo in mare?» La sua obiezione era più che lecita: in fondo eravamo al mare; dovevo adeguarmi. Lo feci, malvolentieri.
Percorremmo un vialetto, affiancato da cespugli bassi e un po' rinsecchiti: la valle incantata finiva lì. Un muretto, uno steccato e poi le schiere di ombrelloni di paglia. Sabbia fine, bollente. «Ci sistemiamo qui?» Quinta fila, un po' distante, ma inutile sperare di trovare qualcosa più avanti: borsoni multicolori, pinne, copie stropicciate di «Novella 2000», delfini gonfiabili e cavallucci marini di dimensioni spropositate, ogni oggetto era buono per presidiare a tempo indeterminato i posti migliori. «Va bene, qui è perfetto.» Distendemmo sui lettini i teli di spugna con la scritta Calypso e andammo verso la battigia, correndo, per non bruciarci i piedi. «Dai, entra, cosa aspetti?» E io lì, ferma, impietrita. «Vieni a fare il bagno. L'acqua è caldissima, perché non ti butti?» Non mi mossi, né diedi una risposta a Marco che, una decina di metri più avanti, mi faceva ampi segni. Non sapevo cosa mi fosse preso. O meglio, lo sapevo benissimo, ma credevo che fosse una cosa superata. E invece no. Invece gli anni di lavoro profondo su me stessa non erano serviti a nulla. «Non stai bene?» «Sì, tutto bene. Solo che il mare è troppo agitato.» «Non c'è nessun pericolo. Il fondale è basso, si tocca ovunque. C'è solo qualche onda, cosa vuoi che sia!» Qualche onda? Erano cavalloni immensi, erano montagne d'acqua coperte di schiuma. O almeno era così nella mia mente, dove tutte le onde assomigliavano a quelle che, all'età di dodici anni, mi avevano sbattuto sugli scogli e mi avevano costretto a un'adolescenza ingabbiata in un busto ortopedico. Mossi qualche passo in direzione di Marco. L'acqua mi arrivava alla caviglia, ma l'onda riusciva a schiaffeggiarmi il ventre. Mi feci forza, mi feci violenza, ma alla fine mi fermai. Ogni volta era lo stessa cosa, ecco perché non trascorrevo le mie vacanze al mare. Ogni onda era «quell'onda», quella che mi aveva sollevato, trascinato e lanciato sulle rocce. Ogni schiaffo d'acqua sul ventre scatenava fitte immaginarie lungo la schiena, fantasmi di quei dolori che mi avevano accompagnato per tutta la giovinezza e che, di tanto in tanto, tornavano a farmi visita, come ospiti importuni. «Preferisco restare in spiaggia. Ti aspetto sotto l'ombrellone.» «Come vuoi.» Mi mandò un bacio e poi, come recitavano le canzoni di una volta, scomparve tra i flutti del mar.
Camminai un po' lungo il bagnasciuga, cercando di calmare il batticuore. Ancora ombrelloni, poi un bar, sotto una tettoia di canne. Altra tettoia: la scuola di vela, con le sue barche tirate a riva e allineate contro l'orizzonte azzurro. Più in là iniziava la spiaggia di un altro villaggio: erano tutte in fila, una dietro l'altra, come a Rimini. Sì, quel tratto dell'isola di Djerba sembrava una Rimini dilatata, con spazi più ampi, una Rimini dove il mare non era ancora completamente sommerso dalle sdraio e dai turisti. Tornai indietro. A metà della spiaggia, le persone avevano formato un cerchio, al centro del quale un paio di animatori stavano mettendo in scena la parodia di un quiz televisivo. Uno di loro portava un paio di enormi occhiali senza lenti e teneva in mano la cartelletta con le domande, l'altro, con una parrucca boccolosa in testa, il rossetto e i seni finti, gli faceva da valletta: i concorrenti, ovviamente, venivano scelti tra il pubblico. La sola idea di essere coinvolta in quella scenetta da oratorio mi fece cambiare direzione: con un largo giro arrivai all'ombrellone e mi distesi sul lettino. Un attimo dopo, Marco mi raggiunse, accostò il suo lettino al mio e rimanemmo lì, sdraiati, nel sole, quasi felici.
Il telefono nella stanza squillò mentre io ero sotto la doccia. Fu Marco a prendere la chiamata. «Il fidanzato di Aurora ti aspetta al bar della piscina alle sette» mi comunicò entrando in bagno. «Che ore sono adesso?» «Le sei e trentacinque, c'è ancora tempo.» E senza aspettare l'invito, si tolse il costume e si infilò sotto la doccia con me: era il nostro gioco, il nostro rito. Mezzora dopo ero all'appuntamento. Nel breve percorso dalla camera al bar mi ero chiesta come avrei fatto a riconoscere Ermanno. Lo avevo visto nella fotografia a casa Melzi, ma non sapevo se sarebbe bastato. Una volta là però non ebbi dubbi: coppie, gruppi di amici, famigliole, un unico tavolo era occupato da una persona sola e su quella persona sembrava pesare una cappa di disperazione. Mi avvicinai: «Ermanno?». Mi guardò e accennò a un sorriso che non aveva nessuna parentela con quello luminoso che mi aveva colpito sulla sua fotografia, era uno di quei sorrisi che si esibiscono ai funerali: sicuramente il più appropriato. «Ciao, io sono Anna Pavesi. Mi manda la famiglia di Aurora.» Mi sedetti e come prima cosa chiesi notizie della ragazza: «Sta meglio, ma è sempre debolissima. Per fortuna non è in pericolo di vita». «Cosa ricorda dell'accaduto?» «Nulla, assolutamente nulla.» «Neppure del tentativo di suicidio?» «Quello lo ricorda, confusamente. Dice di essersi svegliata e di avere visto il corpo di Johnny a terra, tutto insanguinato. Lo ha scosso e quando ha capito che era morto dice che è come impazzita. Ha preso il coltello che c'era accanto al cadavere e si è tagliata le vene. Poi di nuovo il nulla.» La perdita di memoria del «dopo» poteva essere dovuta a uno svenimento. Per quanto affilata, la lama di un coltello provocava un taglio molto più largo di quello di una lametta da barba.
Aurora poteva essere svenuta per il dolore, tanto più che, da quanto mi aveva detto la direttrice, le vene recise erano solo quelle del polso sinistro: aveva afferrato il coltello con la destra e, prima di poter cambiare mano per ripetere l'operazione sull'altro braccio, aveva perso i sensi, poi magari si era svegliata ed era svenuta di nuovo. Naturalmente, questo non spiegava l'amnesia sul «prima», sull'omicidio. «Di chi era il coltello?» «È il mio coltellino svizzero. Quando viaggio lo porto sempre con me: a volte capita che ti si rompe la maniglia della valigia o che ti si svita qualcosa nella macchina fotografica, con quello riesci sempre a cavartela.» «Questa volta però sarebbe stato meglio non averlo!» «Già, e pensare che non volevo neanche portarlo, per via del viaggio aereo. Poi mi hanno detto che se lo chiudevo nel bagaglio registrato non c'erano problemi, così l'ho messo in valigia. Maledizione!» Tornai alla questione dell'amnesia e alla sua causa più probabile. «Tu sai che Aurora soffriva di disturbi della personalità?» «In che senso?» Evidentemente non lo sapeva. «Alternava periodi di depressione a periodi maniacali.» Ermanno si afflosciò. Appoggiò i gomiti sulle gambe e si prese la testa tra le mani. «Era pazza?» mi chiese alzando leggermente il capo. «No. In passato aveva avuto comportamenti aggressivi, ma ormai si teneva sotto controllo con i farmaci. Tu l'hai vista prendere delle pastiglie?» «No, mai.» «Neanche nelle scorse settimane?» «Non l'ho mai vista prendere neppure un'aspirina.» La mia supposizione sui medicinali gettati via prima dell'imbarco sembrava prendere corpo. O magari li aveva tenuti con sé, ma per paura di essere scoperta da Ermanno, non li aveva assunti e l'aggressività era tornata a reclamare i suoi diritti alla prima occasione. Già, ma qual era stata l'occasione? «Aurora conosceva l'uomo che ha ucciso?» «Johnny lo conoscevano un po' tutti. Era uno degli animatori che notavi di più: il windsurf di giorno, gli spettacoli la sera, e poi al bar o in sala da pranzo si sedeva spesso con i clienti a chiacchierare.» «Lo aveva fatto anche con voi?» «Ogni tanto. All'inizio avevo persino l'impressione che ci provasse con Aurora, ma poi ho visto
che faceva così con tutte: era un piacione, ma di quelli che poi non concludono.» «Il fatto che fosse chiuso dentro la stanza con Aurora però...» Non mi lasciò concludere la frase: «Sono certo che lei non ci stava. Io e Aurora ci amiamo davvero. Forse lui questa volta si è spinto un po' troppo in là e lei... Però proprio non riesco a immaginarla mentre lo uccide. Tu la conosci, no? Sai che non è possibile!». La voce era incrinata. Qualcuno si voltò a guardarci. «Purtroppo non la conosco, ho solo esaminato qualche dato che sua madre mi ha fornito. Cosa ne dici se facciamo quattro passi. Così stiamo più tranquilli.» Ci alzammo e attraversammo la distesa dei tavolini, senza parlare. Il suo volto, se possibile, mi sembrava ancora più disperato. Mi dispiaceva aver insinuato il dubbio sulla fedeltà di Aurora, ma era inevitabile. Era chiaro che lui la amava, altrimenti avrebbe pensato al tradimento ancora prima di me e probabilmente anche lei amava lui, ma a modo suo, con quella particolare mancanza di inibizioni che hanno i bipolari in fase ipomaniacale. Prendemmo a camminare lungo il perimetro della piscina, che a quell'ora era vuota e silenziosa. «Quando sei uscito dalla stanza l'altro giorno lei ti è parsa normale?» «Sì. Nel senso che dormiva, come gli altri giorni. Non le piace alzarsi presto, mentre io alle sette sono sveglio; così per il corso di vela ho scelto il primo turno. Facevo la mia lezione e poi tornavo in camera con il caffè per Aurora.» Marco non me lo portava mai il caffè a letto. D'altro canto eravamo due ghiri e quando stavamo insieme ci capitava di dormire fino alle dieci o alle undici, e appena svegli facevamo l'amore: meglio del caffè. Abbandonai le mie riflessioni e tornai a lui: «Aurora non è mai venuta con te in barca a vela?». «No. Anche perché io sono un principiante assoluto. Il corso l'ho fatto con uno che mi hanno abbinato gli istruttori, uno come me che non era mai salito su una barca. Però ero d'accordo con Aurora che se avessi imparato l'avrei portata a fare un giro e infatti mercoledì, tornato dalla regata, volevo dirle che ormai mi sentivo abbastanza sicuro. E invece...» Sogni, progetti, programmi: tutto distrutto. Ermanno aveva l'aria di uno che in Aurora credeva di aver trovato la sua seconda occasione, di uno beffato per due volte dal destino. «So che è stata la cugina di Aurora a farvi conoscere.» «Sì, Marzia è una mia collega. Un sabato sera ha organizzato una cena a casa sua con un po' di amici e ha invitato anche me e Aurora. A tavola eravamo seduti uno vicino all'altra e credo che non fosse un caso: aveva tutta l'aria di uno di quegli incontri combinati. Ha funzionato fin da subito. È cominciata così.»
Alle mie domande avrebbe potuto rispondere con un monosillabo o con qualche frase sbrigativa, invece le sue parole si distendevano in periodi lunghi, articolati; sembrava che il fatto di parlare lo sollevasse un poco dall'angoscia. Aveva un accento particolare, di qualche regione del centro Italia che però non riuscivo a individuare. «È da molto che abiti a Bergamo?» «Mi sono trasferito a gennaio di quest'anno. Oramai l'aeroporto di Orio al Serio è diventato il centro del traffico merci e per chi, come me, si occupa di spedizioni, le offerte di lavoro migliori sono a Bergamo: mi hanno fatto una buona proposta e ho accettato di spostarmi. D'altra parte, non avevo niente che mi trattenesse dove stavo.» Ci fermammo là dove iniziava il vialetto per la spiaggia. La luce adesso era dorata e i muri bianchi delle «isole» più vicine al mare si erano colorati d'arancio. Cos'altro chiedergli? Quali altri indizi poteva darmi per risolvere l'enigma di Aurora? «Li hai mai visti parlare insieme?» «Aurora e Johnny?» «Sì. Non dico con atteggiamenti strani, semplicemente un po' appartati.» «Te l'ho detto. Johnny faceva il simpaticone con tutte le donne. Forse, con il senno di poi, noto che con Aurora ci metteva più impegno, ma proprio soli non li ho mai visti.» «Al mattino, mentre tu facevi il corso, lui era lì al centro velico?» Ci pensò un attimo. «Direi di no. Mi pare che le attività del windsurf inizino verso le undici.» Pensò ancora ed ero certa che stesse passando in rassegna tutte le sue ingenuità, tutti quei piccoli segni che, volendo, avrebbero potuto permettergli di afferrare la verità, forse persino di evitare il peggio. Ma quei piccoli segni si vedono sempre dopo. «Domani ho intenzione di incontrare Aurora» gli dissi, «se vuoi possiamo andarci assieme, però è meglio se le parlo da sola; tu puoi entrare dopo.» «Se vai tu, io rimango qui. Più di una visita al giorno non può ricevere e, a questo punto, tu che sei una psicologa puoi fare molto più di me.» Quasi all'improvviso, lo spazio che durante la mia conversazione con Ermanno era stato praticamente deserto, cominciò a essere attraversato da persone che da tutti gli angoli dell'arcipelago convergevano verso un punto ben preciso: il ristorante. «Credo che sia ora di cena. Io sono qui con il mio compagno, vuoi cenare con noi?» «Ti ringrazio, ma non ho proprio fame. Sono rimasto tutto il giorno in clinica per aspettare che mi facessero entrare nella sua stanza. Alla fine ho mangiato un panino alle cinque e adesso ho solo voglia di andare a dormire. Sperando di riuscirci: sono tre notti che praticamente non chiudo occhio. A Houmt Souk ho trovato una farmacia e li ho convinti a vendermi qualcosa che credo sia un sonnifero. Me ne hanno date solo tre pastiglie, ma, per me che non prendo mai nulla, una dovrebbe bastare.» «Che stanza ti hanno dato adesso?»
«La 576, nel corpo centrale. Se hai bisogno mi trovi lì.» Gli tesi la mano: «Cerca di dormire, ci vediamo domani». «Ci proverò. Buona cena.» Lo guardai allontanarsi. Nella foto che lo ritraeva abbracciato ad Aurora, mi era parso robusto, solido; adesso mi sembrava che il suo corpo avesse perso ogni vigore, che le sue spalle si fossero curvate sotto un peso che gli occhi non vedevano, ma che non era difficile immaginare. Trovai Marco che mi aspettava al bar, seduto a un tavolino ai margini della grande pagoda che, di giorno, ombreggiava il locale. «Com'è andata?» «Nessuna novità. Non sapeva nemmeno che Aurora fosse bipolare.» «E come l'ha presa?» «È stato un colpo. Un altro.» Mi mostrò il suo bicchiere ormai vuoto. «Gradisci un aperitivo maison? Io faccio volentieri il bis». «Ti stai godendo l'all inclusive vero?» «Non capita tutti i giorni di mangiare, bere e non pagare.» «Comunque niente aperitivo: ho una fame da lupi.» Entrammo nell'edificio principale e percorremmo un lungo corridoio sul quale si aprivano dei negozietti tenuti da commercianti locali: souvenir, artigianato, gioielli d'argento, fotografo, parrucchiere... Al fondo, la sala era brulicante di persone: tante piccole formiche laboriose che portavano incessantemente cibo dai grandi banchi del buffet, collocati al centro, fino ai tavoli che facevano da corona. Pasta, pizza, lasagne, insalate, carne, pesce, frutti di mare, dolci. Era la festa, era il paese di Bengodi. Un cameriere altissimo con una vaga aria frankensteiniana ci guidò a un tavolo libero accanto a una vetrata dalla quale si poteva scorgere un frammento di mare: «Andate pure a servirvi, questo adesso è il vostro tavolo: controllo io». Lo ringraziammo e ci gettammo nella mischia, ognuno per conto proprio, ognuno a scrutare, a esplorare i grandi vassoi d'acciaio, scaldati a bagnomaria, ricolmi di primi ammonticchiati, di cosce di pollo, di pesci fritti, di timballi malamente sezionati dalla frettolosa bramosia dei clienti. Una gioia per gli ingordi, un tormento per gli esteti della cucina; un'esibizione di abbondanza che non si poneva troppi problemi di forma: una mensa aziendale in versione quattro stelle. Quando tornammo a sederci eravamo esausti: il buffet non era vacanza, era una lotta senza quartiere. Gli altri però sembravano divertirsi, soprattutto i ragazzini, per i quali probabilmente era caduto ogni divieto alimentare. Un gruppetto di loro era seduto a poca distanza da noi ed esibiva tutta la sua allegria sfiorando spesso i limiti della buona educazione. Marco rimase un
po' a osservarli, poi mi chiese: «Cosa ne diresti di tornare qui l'anno prossimo con Mattia?». Non ero preparata e non potei fare altro che rispondere con un'altra domanda: «Gli hai detto di noi?». «Prima o poi lo capirà, così come capirà che la sua mamma, con quel collega norvegese che ogni tanto viene a trovarla, non discute solo di bioingegneria. Tanto vale dirglielo. Appena torniamo ne parlo con Bianca.» Il collega norvegese si chiamava Gunnar e nessuno aveva avuto voglia di stabilire se la sua storia con Bianca, fosse iniziata prima della mia con Marco. Di colpo fui presa dall'ansia. E se?... Ero pronta? Dove?... A Bergamo o a Milano? «Naturalmente non ti chiedo ancora di andare a vivere insieme...» In un bel dramma sentimentale, a quel punto io avrei dovuto gettargli in faccia il bicchiere del vino, poi avrei dovuto alzarmi e mandarlo a quel paese. Invece gli presi la mano e non solo perché non eravamo dentro a un dramma sentimentale, ma soprattutto perché andava bene così, perché né io né lui eravamo pronti per una vita insieme, perché nei miei cassetti non c'era posto per le sue mutande. Fine dell'ansia. Marco si chiese ancora se Mattia si sarebbe divertito, se avrebbe fatto amicizia con gli altri. Gettammo un'occhiata verso il tavolo dei ragazzini, proprio mentre questi si alzavano e si allontanavano rincorrendosi per la sala. «Magari affittiamo un camper: è meglio.» «Hai paura che tuo figlio ti diventi come quelli?» «Sì. E non oso neppure pensarci. Hai visto in che stato è il tavolo?» Sembrava un campo di battaglia: posate a terra, larghe macchie di Coca-Cola sulla tovaglia bianca e patatine sparse ovunque. «Mi pare che gli adulti non siano meglio» e gli indicai il carrello sul quale un cameriere stava accatastando piatti ancora pieni di dessert appena assaggiati, di bistecche abbandonate a metà, di gusci di cozze non svuotati. «È l'altra faccia dell'all inclusive.» Osservammo il cameriere che continuava a sbarazzare tavoli che sembravano appena stati imbanditi: «Ti chiedi mai cosa pensa di noi il personale di questi posti?». «Sì, e preferisco non darmi una risposta.» Terminammo la nostra cena e ci alzammo. La gente che prima era nella sala, adesso si era riversata nei negozietti del corridoio e davanti al banco del fotografo c'era una vera e propria ressa. Approfittando della mia statura sbirciai da dietro le spalle delle signore che si accalcavano di fronte a quello che, da lontano, mi era sembrato uno strano Bancomat. Sul monitor passavano fotografie di turisti ripresi in spiaggia, o in piscina, o al bar. Lo scorrere delle immagini si arrestò sul ritratto di una donna non più giovane, non bella, ma in posa da diva, seduta sul bagnasciuga come la Sirenetta di Copenaghen. Le signore davanti a me fecero
commenti ammirati e capii che la stagionata starlette della foto era proprio la signora che stava manovrando l'apparecchiatura. «Dai, fattela stampare» la incitarono le amiche. «Sì, anche l'altra, quella dove abbassi la spallina del reggiseno.» Mi allontanai, trascinando con me anche Marco che mi aveva raggiunto: «Se un giorno, superati i cinquanta, tu dovessi scoprire che io mi faccio fotografare sulla spiaggia in stile Marilyn Monroe, ti prego, abbattimi come si fa con i cavalli zoppi». «Non mancherò.» Pochi passi più in là, vidi la responsabile del villaggio. «Vado a fare ancora due chiacchiere con lei, ti dispiace?» «No, figurati. Ti aspetto al bar.» Affiancai Elisabetta mentre stava aprendo la porta del suo ufficio: «Posso parlarle un attimo?» le chiesi. Lei si voltò e la sua cortesia professionale le fece fare un cenno di assenso, pur senza riuscire a cancellare il disappunto dal suo viso. Ci sedemmo alla scrivania, come avevamo fatto nel pomeriggio. «È riuscita a parlare con il signor Mastrangeli?» «Sì, e domani vorrei incontrare Aurora.» «Credo che dovrà prima passare alla stazione di polizia per ottenere il permesso.» «Pensa che ci saranno delle difficoltà?» «In linea di principio le difficoltà ci sono e sono insormontabili. In pratica però... Questo è un Paese con più eccezioni che regole, specie per quanto riguarda la polizia. Non credo che avrà problemi. Abbiamo già provveduto e domani mattina farò una telefonata per annunciare la sua visita.» Al di là delle formule diplomatiche, quell'«abbiamo provveduto» significava che il tour operator aveva oliato adeguatamente gli ingranaggi del sistema. Chissà se le organizzazioni turistiche avevano una specie di fondo nero per la corruzione dei funzionari locali in casi come questi? «Naturalmente» continuò Elisabetta, «sarebbe meglio non accennare affatto al suo mestiere di detective. Lei è semplicemente lo psichiatra di Aurora.» «Ma io non sono un medico» protestai. «E io non sono James Bond, però sono qui con lei a giocare all'agente segreto. Se vuole che ne veniamo fuori dobbiamo fare così. In Tunisia c'è molto rispetto per i medici. Molto meno per gli investigatori privati, specie se sono donne.» «Sembra conoscere molto bene la Tunisia.» «In passato, mio padre è stato direttore dell'Istituto italiano di Cultura a Tunisi. Ho vissuto qui fino ai diciotto anni e da cinque dirigo questo villaggio. Sì, credo proprio di conoscerla bene.»
La voce era sempre decisa, a tratti severa, come quando aveva pronunciato quella frase a proposito degli investigatori donne. Nondimeno cercai di mostrarmi affabile, amichevole. «Può dirmi qualcosa di più a proposito di Johnny?» «Non molto. Era una di quelle persone che non sembrano avere segreti. Disponibile, gioviale. A prima vista pareva un po' spaccone, ma era solo per via dei suoi modi da ragazzone americano.» «E con le turiste come si comportava?» Non avrei saputo dire se era smorfia o sorriso quello che le si disegnò sul volto. «Farebbe meglio a chiedermi come si comportavano le turiste con lui.» La presi come una risposta retorica, ma poiché lei non proseguiva le posi davvero la domanda: «Le turiste gli facevano la corte?». «A lui e alla maggior parte degli animatori. Non è un mito, è la pura verità: l'animatore di villaggio solletica l'immaginario erotico femminile. Come il maestro di sci o l'istruttore della palestra.» Passai mentalmente in rivista gli animatori che avevo incontrato nel pomeriggio e mi accorsi che l'idea di andare a letto con uno di loro non mi aveva neppure sfiorato. Lei continuò: «Ci sono quelle che vengono qui da sole, o con un'amica, e fanno a gara a chi ne colleziona di più. Ma non creda che quelle accompagnate dal marito se ne stiano con le mani in mano». L'animatore in funzione di diversivo, di salvezza temporanea dal gorgo della quotidianità. Donne convinte che per la noia avvilente dell'abitudine non ci fossero rimedi, ma solo palliativi: donne sull'orlo della verità. Approfittai del fatto che Elisabetta si fosse lasciata andare e insistetti: «E con Johnny le turiste si accanivano in maniera particolare?». Tornò immediatamente rigida, come se avessi toccato un nervo scoperto: «Alcune. Altre abbandonavano le speranze subito: lui dava confidenza, ma solo quella. A parte casi particolari». E dal tono intuii una specie di rammarico per non essere mai stata inclusa in quei casi particolari. A meno che con quel «particolari» non intendesse un'altra cosa. Per stemperare la tensione passai a un argomento più neutro: «Dove viveva?». «Praticamente abitava qui al villaggio; anche d'inverno, solo un mese di vacanza all'anno, o poco più. Tornava a casa a fine novembre, per celebrare il Giorno del Ringraziamento con la famiglia e lo rivedevamo qui ai primi di gennaio.» «I genitori sono già arrivati?» «Non verranno. Su pressione dell'ambasciata americana, il corpo è già stato traslato negli Stati Uniti.» Quanta fretta!
«Immagino che sia stata fatta un'autopsia.» «Sì, ma la pregherei di parlarne domani con il commissario Zaalani.» La parola «autopsia» doveva averle riportato alla mente la scena di tre giorni prima e gli occhi le si riempirono di lacrime. Presi dalla scrivania un foglietto e una biro: «Può ripetermi per cortesia il nome del commissario?». «Zaalani. Commissario Jamel Zaalani.» La voce le tremava. «Grazie di tutto e mi scusi se l'ho fatta pensare a cose spiacevoli.» «A ciascuno il suo lavoro. Buonanotte.» Marco era seduto allo stesso tavolo al quale aveva preso l'aperitivo: era già diventato il «solito tavolo». Una volta, durante un convegno, avevo sentito un relatore che parlava delle cause profonde dell'abitudinarietà, dei motivi per cui tendiamo a occupare sempre gli stessi posti e ricordavo di aver sorriso pensando a Stefano e ai suoi compagni: in dodici anni di partite a calcetto, nessuno di loro aveva mai cambiato postazione nello spogliatoio, roba da automi. «Cosa stai bevendo?» gli chiesi additando il bicchierino che stringeva tra le mani. «Si chiama Cedratine, ma non ha niente a che vedere con la nostra cedrata: è un digestivo.» Presi il suo bicchiere e assaggiai. Era buono, molto buono. Al banco me ne feci servire un bicchierino e, nel momento stesso in cui mi sedetti accanto a Marco, sul piccolo palco in fondo alla pagoda si accesero le luci e un animatore, rigorosamente in divisa, prese a cantare: « Ebony and Ivory live together in perfect harmony... ». Anche il pianobar. Tutti i più logori riti vacanzieri erano celebrati in quell'angolo di Tunisia che avrebbe potuto essere ovunque nel mondo. Avrei dovuto provare fastidio, repulsione, avrei dovuto ricordarmi di quando, non troppo tempo prima, mi ero ripetuta che mai avrei messo piede in un posto così. Eppure avevo Marco vicino, l'aria era fresca, la musica piacevolmente banale. E io stavo bene, e quasi non mi turbava l'idea che di lì a poche ore, sarei stata faccia a faccia con un'assassina. Di nuovo.
Domenica 29 luglio 2007 Appena entrato in città, il taxi aveva imboccato una via larga, costeggiata da case basse, da villette con piccoli giardini chiusi da cancellate di ferro battuto. Un'idea di ordine, di borghesia locale, di quiete assoluta. Poi, l'ordine si era scomposto, frammentato. Era spuntata qualche auto, un carro carico di verdura, altre macchine, tante, rumorose, strombazzanti e infine un viale alberato dove non c'erano altro che uomini: uomini seduti fuori dai caffè, uomini che sorseggiavano il tè sotto le piante, uomini accovacciati nell'ombra di un muro, uomini, uomini, uomini ovunque, e donne rare, nascoste negli abiti, quasi in fuga. Il guidatore fermò l'auto al fondo del viale, dove le file di alberi terminavano in uno spiazzo di terra battuta e la strada si biforcava. Durante il tragitto aveva detto non più di dieci frasi, in un francese stentato e anche le sue indicazioni finali furono estremamente stringate: «A sinistra la polizia, a destra policlinico El Yasmine. Sono sette dinari». Pagammo quella cifra ridicola, che in Italia non avrebbe coperto neanche il diritto fisso di chiamata, e attraversammo lo spiazzo piegando verso sinistra. «Sono curioso di vederti in azione» mi disse Marco cingendomi il fianco col braccio in un gesto un po' démodé. «Non mi è mai successo di vederti interrogare qualcuno.» «Stai scherzando vero?» «No» mi replicò con l'aria smarrita. «Ma se la prima persona che ho interrogato da investigatrice sei stato proprio tu!» «Hai ragione. Che stupido! Però allora non stavamo insieme. Adesso è diverso.» Marco era come me, era uno di quelli che suddividono la vita in una serie di «prima» e d i«dopo», prima del matrimonio, dopo il matrimonio; prima di stare insieme e dopo. Attraversammo la strada, rischiando di essere arrotati da una vecchia furgonetta Renault, e ci trovammo di fronte a una casetta bianca a un solo piano, con un piccolo patio sul quale si aprivano un paio di porte dagli infissi turchese: sulla facciata, un'insegna bianca con scritte nere annunciava, in arabo e in francese, che quella era la stazione di polizia. Salimmo i pochi scalini che conducevano al patio e, avvertito dal rumore dei nostri passi, da una delle due porte sbucò un giovane poliziotto grassoccio. Il suo camiciotto azzurro era macchiato da due grossi aloni di sudore sotto le ascelle e il suo alito, mentre ci intimava l'alt, sapeva di aglio anche a distanza di sicurezza. «Il commissario Zaalani ci sta aspettando» gli dissi con finta sicurezza. In realtà ero intimorita, come sempre davanti alle divise, e ancor più davanti a quella divisa sudicia che mi rimandava a immagini di dittature tropicali, di Stati di polizia, di torture, di scomparse. L'altro non capì, o finse di non capire, e io, con un piccolo tremolio in più nella voce, gli ripetei: «Dobbiamo vedere il commissario Zaalani». Da dentro giunse una raffica di parole incomprensibili che colpì il grassoccio in pieno volto e lo costrinse a irrigidirsi in un atteggiamento che pretendeva di essere marziale: «Entrate, il
commissario vi riceve». Ci indicò la seconda porta del patio e da quella accedemmo a una stanza piuttosto buia, dai muri spogli, tinteggiati fino a mezza altezza di un verdino pallido e lucido e con il ritratto del presidente della Repubblica come unico ornamento. Fisicamente, Jamel Zaalani era l'opposto del suo agente: magro, i tratti tirati, nervosi, le orecchie a sventola a malapena coperte dai capelli neri, mossi e arricciati malgrado il gel che li rendeva spessi e unti. Quando alzò gli occhi dalle carte che stava esaminando per ostentare disinteresse nei nostri confronti, ciò che mi colpì di lui fu il naso importante, sproporzionato; sotto di esso, i baffi, per quanto folti, sembravano sparire e lo stesso pareva fare il labbro: solo i suoi incisivi superiori, grandi e distanziati, reggevano il confronto con l'imponenza delle narici. Era un uomo sui quarantacinque, d'una bruttezza interessante, dai lineamenti pronunciati che avevano poco di tunisino e che rimandavano a regioni più remote dell'impero ottomano. «Sedetevi» ci fece senza troppa cortesia, e bevette una sorsata di qualcosa che, dal profumo, sembrava tè alla menta. Prendemmo posto su due sedie di legno, uguali a quelle che avevo visto nei caffè all'aperto del viale. «Qual è la vostra richiesta?» domandò a Marco. Cos'è l'intuito? É capacità di capire le situazioni da un gesto, da una sfumatura, da un tono di voce. Marco l'intuito lo possedeva, a piene mani; aveva capito in un istante il motivo per cui il commissario si era rivolto a lui e non a me e la sua risposta fu un capolavoro di psicologia spicciola: «Sono il dottor Callegari, il medico curante di Aurora Melzi, però preferirei far parlare la mia assistente che conosce meglio il francese». Zaalani non avrebbe mai tollerato di colloquiare con una donna che usava il suo uomo come semplice accompagnatore; così invece la situazione era perfetta: il maschio era il capo e io ero relegata al ruolo di interprete, di assistente con il solo dono della parola. Fortuna che dopo la scuola media mi ero iscritta al liceo linguistico. «Buongiorno, mi chiamo Anna Pavesi» improvvisai, «seguo l'ambulatorio del dottor Callegari a Bergamo e per questo...» «Bergamo? Lei è di Bergamo?» «Sì, perché?» «Mio fratello minore vive a Bergamo. Mi dice sempre di andarlo a trovare, ma per noi tunisini non è facile viaggiare: costa troppo. E poi ho sette fratelli, tutti più giovani e tutti in Italia, al Nord: due a Milano, due a Varese e poi Pavia e Carugate. Quello che sta a Bergamo è il più giovane di tutti, ha un piccolo ristorante, fa kebab. É in via Borgo... Borgo...» «Borgo Santa Caterina?» «No, è diverso.» «Via Borgo Palazzo?» «Sì, quella. Lo conosce?»
«Un ragazzo sui venticinque anni, abbastanza alto, magro...» «Sì è lui, Amir.» «Fa un kebab buonissimo. Tutte le volte che passo da quelle parti mi fermo da lui a mangiare.» «È magnifico, ma mi dica...» Si sporse un po' in avanti e la sua voce si fece più bassa, più confidenziale. «... è vero, come mi scrive, che gli affari gli vanno bene?» «Il locale è sempre pieno, quindi credo che stia facendo una discreta fortuna.» «Bene. Molto bene. Allora, come posso aiutarla?» «Certamente lo avrà capito, Aurora Melzi è una persona psichicamente disturbata. Prima di poterla aiutare, io e il dottor Callegari abbiamo bisogno di sapere come si sono svolti i fatti.» Il commissario appoggiò le due mani al bordo della scrivania di metallo e si spinse all'indietro facendo scricchiolare lo schienale della sua poltroncina imbottita, poi inspirò profondamente e abbozzò un sorriso sbilenco che scopriva solo uno dei suoi formidabili incisivi. «Vede signora, la ragazza è stata trovata accanto al cadavere, con le mani insanguinate, il coltello era lì vicino; c'è una sola spiegazione possibile: Aurora Melzi ha ucciso l'animatore del villaggio.» «Credo che su questo non ci fossero dubbi. Quello che volevo capire era il perché.» «In un caso come questo, che è chiarissimo, i moventi non riguardano la polizia, semmai interesseranno il giudice, quando sarà il momento.» «Cioè quando?» «Per il processo bisogna contare non meno di un anno; diciamo un anno e mezzo.» Sentii un brivido lungo la schiena. Un anno e mezzo di attesa prima di poter tentare la strada dell'infermità mentale e se quella strada non avesse funzionato, all'anno e mezzo se ne sarebbero aggiunti chissà quanti altri di carcere tunisino, forse tutta la vita. Ancora il brivido. «Però se proprio vuole il mio avviso» continuò lui, «la dinamica dei fatti è chiara.» Abbassò di nuovo la voce, con aria ruffiana: «La ragazza ha invitato l'americano in camera, poi lui deve averle proposto qualche giochetto un po' esagerato e lei si è tirata indietro; lui ormai era eccitato, ha cercato di forzarla e lei lo ha accoltellato». Aveva detto «forzarla», non «violentarla», come se in fondo si trattasse solo di convincerla a fare qualcosa che Aurora sotto sotto voleva. Certo, perché naturalmente era stata lei a invitarlo, lei a provocarlo! Cercai di mantenere la calma, ma non potei impedirmi di chiedergli: «Come fa a dire che è stata lei a invitarlo?». Il suo sorriso questa volta fu ampio, tutt'altro che sbilenco, con gli incisivi bene in vista e il buco in mezzo pure. Aprì un cassetto della scrivania e ne tirò fuori un telefonino. In silenzio lo accese e, preparando il colpo a effetto, aspettò che tutte le memorie si fossero attivate, poi armeggiò
un po' con i tasti e me lo porse. Io esitai. «Lo prenda pure, tanto le impronte digitali sono già state rilevate: c'erano solo quelle dell'indiziata. È il portatile di Aurora Melzi, ce l'ho io in custodia fino a che non verranno a ritirarlo dal tribunale, ma chissà quando verranno: Insha'Allah.» Afferrai l'apparecchio e lessi il testo sul display: «Ermanno è uscito adesso. Ti aspetto in camera subito. Aurora». Guardai il commissario con aria interrogativa «È registrato nella cartella "SMS inviati". Ne abbiamo trovato uno identico nel cellulare della vittima, solo che lì si trovava tra gli SMS ricevuti. Ecco come faccio a dire che è stata la ragazza ad attirarlo in camera.» Pronunciò le ultime parole guardando Marco, cercando una complicità maschile che lui, per diplomazia, gli offrì con lo sguardo. Osservai di nuovo il display e lessi l'ora di invio: 9.30. Tutto coincideva; in quel momento, mentre Ermanno, assieme al suo compagno di equipaggio, stava lottando con il vento per non sfigurare alla regata per principianti, Aurora dava spazio a tutta la disinibizione del suo stato ipomaniacale invitando Johnny per una sana scopata. Aveva ragione Zaalani, tutto era straordinariamente chiaro e lo era ancora di più per me che conoscevo i sintomi della sua malattia. Non c'erano dubbi da sciogliere, solo approfondimenti. «Per me e per il dottor Callegari sarebbe molto importante sapere se Aurora è stata violentata.» «Non sembrerebbe.» «Non avete potuto accertarlo?» «I medici dell'ospedale dicono che non ci sono segni di violenza e io mi fido di loro, anche perché non posso fare diversamente, qui di ufficiali medici della polizia non ce ne sono. Ho passato tutte le carte al giudice istruttore e se lui lo ritiene necessario manda qualcuno da Tunisi. Noi quello che potevamo fare lo abbiamo fatto, abbiamo rilevato le impronte...» «Anche sul coltello?» L'ovvietà della mia domanda dovette indignarlo, perché rispose rivolgendosi nuovamente a Marco: «Ci sono le impronte digitali del signor Mastrangeli...». Segnò una piccola pausa e, alzando le sopracciglia, ammiccò e fece con le dita della mano destra il segno delle corna. «... e questo è normale, visto che è lui il proprietario del coltello. Sopra però ci sono quelle dell'indiziata, e sono impronte di sangue, capite cosa significa questo?» «Che Aurora ha utilizzato il coltello per ultima e lo ha fatto anche con le mani sporche di sangue.» «Esatto.»
«Avete effettuato la prova del dna per capire se il sangue trovato sulle mani di Aurora apparteneva alla vittima?» Il suo sguardo fu di commiserazione autentica e di disprezzo profondo: «Guardi che CSI lo vediamo anche noi in Tunisia, lo trasmettono via satellite. Solo che qui non abbiamo soldi da buttar via per delle prove inutili. Naturalmente c'è la possibilità che la signorina Melzi si sia sporcata sgozzando il montone per la festa di Id alkabir l'anno scorso e che da allora non si sia più lavata, ma ci sembra più probabile che le tracce ematiche siano dell'americano e della stessa signorina Melzi, visto che con quel coltellino svizzero si è tagliata il polso sinistro». Avevo invaso il suo campo e lui si era difeso, ma quello era anche il campo di Marco: «Immagino che di tracce ematiche ce ne fossero un po' ovunque se è vero che alla vittima è stata recisa la carotide». La sua pronuncia del francese era un po' scolastica, ma non aveva difficoltà a farsi capire. «La parete dietro al letto sembrava dipinta col sangue e per terra c'era un vero e proprio lago. Senza contare le lenzuola!» «L'autopsia ha confermato la morte per dissanguamento?» «Sì, alla morgue mi hanno parlato di una sola coltellata alla gola.» Marco proseguì: «Hanno per caso precisato se il colpo è stato inferto con particolare violenza?». «La lama era affilatissima, ho potuto constatarlo io stesso. Il referto dice che è penetrata di punta e che ha tagliato senza difficoltà tutto ciò che ha trovato sul suo cammino. Non c'è voluta una grande forza per ammazzarlo e la mano che reggeva il coltello poteva essere benissimo quella di una donna, se è questo che le premeva sapere.» «Sì, grazie.» Ritornai alla carica: «Nella camera sono stati ritrovati dei farmaci?». «I soliti: aspirina, pastiglie per il mal d'aereo e medicine per le infezioni intestinali. Voi europei non vi fidate proprio della nostra igiene!» «No, è che...» «E poi, nascoste dentro una borsa, abbiamo trovato queste.» Frugò nel solito cassetto e appoggiò sulla scrivania due scatole: Entumin e Tegretol; Aurora non aveva gettato via all'aeroporto le ancore che la tenevano aggrappata alla normalità. «Posso?» chiesi indicando le due confezioni. «Faccia pure.» Esaminai la boccetta dell'Entumin, era vuota per metà, mentre il blister del Tegretol era intonso: non aveva cestinato le pillole, ma neppure aveva avuto il coraggio di prenderle regolarmente. Concentrandomi su Aurora, mi era sfuggita una questione fondamentale: «Quando lo avete
ritrovato, il corpo dell'animatore era vestito?». Il commissario rispose come chi non vedeva l'ora di affrontare proprio quell'argomento: «Indossava solo la maglietta. Il costume da bagno era a terra nella pozza di sangue». La sua tesi della scopata finita male non faceva una piega. «Ci sono altre cose che volete sapere?» No, non trovavo altre domande che non rischiassero di urtare la sua sensibilità di investigatore e, in quella fase, era molto importante non indispettirlo. «Vorremmo solo chiederle il permesso di vedere la signorina Melzi.» «In teoria le visite sono riservate ai parenti e agli avvocati.» Era chiaro che il permesso era già accordato e già abbondantemente pagato dal tour operator, ma il suo prestigio di commissario richiedeva ulteriori preghiere. «Aurora ha bisogno di medici, non di avvocati. Quello che ha fatto è abbastanza chiaro, dobbiamo però evitare che cerchi di nuovo di uccidersi.» «Mi ha convinto, in primo luogo perché gli avvocati non mi piacciono e in secondo luogo perché lei vive a Bergamo.» «Anche Aurora è di Bergamo.» «Ma forse non mangia il kebab.» Prese un foglio di carta intestata, ci scrisse sopra qualcosa di incomprensibile e lo porse a Marco: «Portatelo con voi e presentatelo al piantone in ospedale, ma non posso concedere più di mezzora e non più di una visita al giorno, mettetevi d'accordo con il signor Mastrangeli» e nel pronunciare il suo nome abbozzò con le dita il gesto delle corna. «Alì» gridò, e poi di nuovo: «Alì». L'agente grasso e sudato comparve sulla soglia e Zaalani gli impartì qualche ordine che, stando al segno che aveva fatto con la tazza, comprendeva un rifornimento di tè alla menta. «Alì vi accompagnerà alla clinica: è qui a due passi. Mi raccomando, fate in modo che la signorina Melzi non faccia stupidaggini, altrimenti in Europa danno subito la colpa ai metodi violenti della polizia tunisina. Arrivederci.» Salutò Marco con una stretta di mano e me con un baciamano ostentato che, seppure sotto la parvenza di un gesto cortese, sottolineava il fatto che io ero donna. Guidati da Ali, attraversammo al contrario lo spiazzo terroso al termine del viale. Marco rallentò leggermente l'andatura per mettere spazio tra noi e il poliziotto poi mi disse: «Ti sei guadagnata la simpatia del commissario e, quando torni, anche un sacco di kebab gratis». «Io non mangio kebab, non mi piace.» «E naturalmente non conosci il fratello di Zaalani.»
«Naturalmente.» Mi sorrise: niente a che vedere con la smorfia sarcastica del commissario. Ali si infilò in una viuzza stretta, caotica e anche un po' maleodorante. Da un lato, il marciapiede era ingombro di oggetti di ogni tipo: casse di bottiglie, poltrone, una scala, alcuni scatoloni, biciclette, carriole. Sull'altro lato invece, il marciapiede non esisteva nemmeno e le case aprivano le loro porte azzurre a pochi centimetri dalle auto. Non riuscivo a capire se quella che mi circondava fosse povertà o semplicemente l'immagine di uno spazio «altro». Una farmacia che assomigliava a un bazar, più in là un negozio di telefonia in perfetto stile occidentale, la Patisserie Hannibal e, a fianco, in una vetrina, una gamma completa di parabole e ricevitori satellitari. In alto, issate come bandiere, insegne luminose a forma di telefono o di pizza si alternavano a vecchi pannelli di latta: Restaurant populaire, Café de la Paix. «Cosa ne pensi?» chiesi a Marco. «Di quello che ci ha detto Zaalani?» «Sì.» «Non mi aspettavo niente di diverso. Mi sarei stupito se il referto avesse parlato di una ferita da taglio, perché richiede più perizia nell'uso della lama, invece la coltellata di punta è tipica del gesto d'impeto.» «Spiegati meglio.» Si fermò e mi si parò davanti: «Fai finta di darmi una coltellata». «Dove?» «Dove vuoi.» Mirai al ventre e, sbagliando la misura, gli affibbiai una specie di pugno in pancia. Un uomo al volante di una vecchia Mercedes osservò la scena sorpreso e accelerò. «Vedi? Non hai cercato di tagliare, ma di trafiggere. È il riflesso normale di chi non è abituato ai duelli rusticani. D'altra parte mi hai detto che Aurora aveva già pugnalato un suo professore con delle forbici: per lei è quasi un movimento istintivo.» Riprendemmo a camminare, cercando di non perdere di vista Ali, che aveva svoltato a sinistra. Girammo anche noi e ci trovammo di fronte al Policlinique El Yasmine. Difficile distinguerlo dagli altri edifici: stessi muri bianchi e scrostati, stessi infissi turchesi; solo la mole ricordava lontanamente quella di un ospedale. Il poliziotto entrò in un ingresso sormontato dalla scritta «Urgence» e protetto solo da una tenda di plastica a strisce, di quelle che si usavano nelle panetterie. Lo seguimmo. Ancora una volta il passaggio da fuori a dentro fu violento, destabilizzante. Al di là della tenda finiva la luce e iniziava un pavimento di piastrelle di graniglia, altre piastrelle alle pareti, bianche, rilevate. Nel pronto soccorso, la sala d'aspetto e quella di visita si fondevano l'una nell'altra; i medici auscultavano pazienti seduti sulle panche lungo i muri, somministravano farmaci a persone in piedi, mettevano flebo, effettuavano prelievi, muovendosi con difficoltà
tra malati e accompagnatori. Era chiaro che l'ospedale aveva anche un'entrata ufficiale, ma la nostra guida doveva aver scelto la via più breve e nessuno si stupì nel vederci attraversare il reparto d'urgenza facendoci largo tra le lettighe, in uno spesso odore di disinfettante e di malattia. Una scala stretta e dalla ringhiera traballante ci portò al piano superiore, in un corridoio. Stessa graniglia per terra, stesse piastrelle bianche sui muri e anche qui tanta gente, un brusio confuso e fastidioso. Poi una porta a vetri. Quando si fu richiusa alle nostre spalle, le voci si spensero di colpo e si sentirono solo i passi pesanti di Ali che puntava deciso verso il fondo, verso la camera piantonata dal suo collega. «Qui ci mettono quelli che possono spendere» mi sussurrò Marco, «gli altri crepano di sotto.» Porte numerate, di legno smaltato: 19, 18, 17, 16. I due agenti parlarono un po' tra loro, poi quello di guardia chiese il foglio, lo lesse e fece segno di entrare. «È meglio che io resti qui» mi disse Marco, «conviene che la prima chiacchierata la facciate tra donne.» «Va bene.» La stanza era minuscola, ed era, naturalmente, piastrellata di bianco. Un letto di metallo, un comodino e una sedia. Immaginai le altre. Aurora dormiva; io mi sedetti sulla sedia e rimasi un attimo a guardarla. I capelli scuri, lunghi, incollati alla fronte dal sudore; la bocca leggermente aperta, le palpebre gonfie. Eppure continuava a essere bella, bella da fare invidia, bella che ti veniva voglia di dirle: «Se avessi io il tuo viso, altro che depressione!». Ma la depressione, la mania, la malattia non fanno distinzioni. Pensai all'ultima volta in cui avevo visitato qualcuno in ospedale: era stato un anno prima, a Torino, si chiamava Jennifer. Realizzai in quel momento che di lei non avevo più avuto alcuna notizia, che non sapevo se fosse poi entrata davvero in comunità, se avesse smesso di farsi e di battere. Chissà... Sfiorai il braccio di Aurora, prima piano, poi con più decisione. Lei girò il capo, ma non si svegliò se non per un breve istante. Era sotto sedativi, non volevo essere brusca. Le accarezzai una guancia: niente. Allora presi dalla tasca un fazzoletto pulito, lo inumidii al lavabo che c'era nell'angolo e presi a detergerle la fronte. A poco a poco gli occhi si aprirono, non del tutto, ma abbastanza per guardarmi senza capire. «Ciao, mi chiamo Anna Pavesi, mi manda la tua famiglia.» «Come sta la mamma?» La voce usciva a fatica, strascicata. «Sta bene, anche se, logicamente, è preoccupata.» «Dille che io sto bene» e si voltò dall'altra parte. «No Aurora, devi cercare di restare sveglia per un po'.» «Ma io ho sonno...»
Le passai di nuovo il fazzoletto bagnato sulla pelle. «Come ti chiami?» «Mi chiamo Anna, Anna Pavesi.» «Perché sei qui?» «Per capire cosa è successo con Jonathan.» «Vuoi dire con Johnny? Non ricordo.» «Partiamo dalla sera prima. Cosa hai fatto la sera prima?» «Mi aiuti a sedermi?» Le tirai su il cuscino contro la testiera in ferro e lei ci appoggiò la schiena. Man mano riacquistava lucidità. «C'era stata la festa berbera. C'erano danzatori, cavalli, bancarelle... Mi dai un po' d'acqua per cortesia?» Mi indicò una bottiglia di plastica con l'etichetta Sabrine. «Ah, buona» disse restituendomi il bicchiere, «è un po' calda, ma quando hai sete... Io quando dormo ho sempre sete; mi capita di svegliarmi anche tre o quattro volte nella notte per bere.» Cercai di aiutarla a concentrarsi: «E dopo la festa berbera?». «Siamo andati a dormire. L'ultima cosa che ricordo è Ermanno che chiude il libro e spegne la luce.» «E del mattino dopo cosa ricordi?» Lacrime, singhiozzi, convulsioni, grida: no, niente del genere; il tono rimase neutro, come avevo previsto. «È tutto confuso. Mi sono svegliata e Johnny era lì, per terra, e io ero tutta sporca di sangue: in faccia, sul corpo, sulle mani, sulla pancia, sul seno.» «Non avevi il pigiama?» «No, io dormo nuda.» «E dopo?» «E dopo mi sono svegliata qui. Ricordo i medici, i poliziotti, gli infermieri.» «Quando hanno aperto la stanza tu però eri sveglia e piangevi.» «Non ricordo.» «Non ricordi neanche di esserti tagliata le vene?» Alzò il braccio sinistro e mi mostrò la fasciatura: «Fa male. Però non so come ho fatto a tagliarmi. L'ho detto anche alla polizia: è come una nebbia». «Ti hanno interrogata?» «Sì. C'era uno col naso grosso che mi faceva delle domande in francese e un altro che me le
traduceva in italiano.» «Quello che traduceva lo conoscevi?» «Mai visto.» «Che domande ti hanno posto?» «Le stesse che mi stai facendo tu adesso.» «Nient'altro?» «E poi mi hanno chiesto se avevo invitato io Johnny in camera, ma io ho risposto di no: né quel giorno né prima. Johnny era carino, con me faceva sempre il gentile, ma io ho Ermanno.» «Eppure gli hai mandato un messaggino dicendogli che Ermanno era uscito e che lui poteva venire da te.» «Lo so, me lo hanno detto, ma io non ricordo. Ogni tanto mi capita di fare delle cose che poi scompaiono dalla mia mente.» Non ricordo. Non ricordo. Era una litania fastidiosa, ma sapevo che nelle sue condizioni poteva essere tragicamente vero. «Negli ultimi tempi non hai più preso le tue medicine o sbaglio?» «No, non le ho più prese. Stavo bene, lo giuro. Ma tu come fai a sapere delle medicine?» «Me lo ha detto tua madre.» «Da quanto tempo conosci mia madre? Io non ti ricordo, non ti ho mai vista.» La voce stava tornando a essere pastosa, l'eloquio difficile. «L'ho incontrata l'altro giorno. Mi ha incaricato di starti vicino perché sono una psicologa. Ti faccio ancora una domanda e poi ti lascio dormire: è possibile che Johnny ti abbia violentata?» «Non saprei, non mi pare...» «Non hai dolore o bruciore alla vagina, sanguinamento...» «Non sento male da nessuna parte, solo al polso.» «Ti lasceresti visitare da un medico italiano? È un mio amico.» «Sì, però adesso ho sonno.» «Torno domani allora.» Non mi rispose, forse non sentì neppure le mie ultime parole. Richiusi la porta e uscii nel corridoio. Marco stava parlando con la guardia, di calcio, stavano dicendo qualche cosa a proposito della finale dei Mondiali dell'anno prima. Feci segno che ce ne potevamo andare e i due si salutarono come vecchi amici. Due uomini che non si erano mai visti, due mestieri diversi, due nazionalità diverse, ma una lingua condivisa quel tanto che bastava per evocare un pallone: il gioco era fatto. Misteri insondabili del mondo maschile. Fermammo un taxi per strada, in stile americano. «Al villaggio Calypso per cortesia.»
L'autista, un ragazzo con gli occhiali e il volto ben rasato, mise in moto e accese la radio. Un suono di antichi strumenti a corda invase l'auto saturando completamente l'abitacolo, sembrava che, nascosti dietro i sedili e nella tappezzeria delle portiere, vi fossero decine di altoparlanti. Dopo qualche sequenza di note metalliche, si aggiunse un ritmico battere di mani e sopra quello una voce femminile prese a cantare un'armonia aspra, fatta di lunghe vocali e di suoni aspirati. Nella mia testa, la cantante divenne subito una danzatrice del ventre: che immagine scontata! No, c'era di più; il vibrare delle corde era prolungato da riverberi elettronici: pensai a un rave party in qualche devastata periferia francese, centinaia di immigrati di seconda generazione che ballavano sui piazzali di stabilimenti abbandonati. «Questa è musica rai, vero?» Il taxista si voltò scandalizzato: «No, questo è chaabi. Il rai viene dall'Algeria, il chaabi invece è marocchino». Pigiò il pulsante di espulsione del cd e le orecchie parvero tapparsi all'istante. Marco mi guardò con gratitudine. «Questo è rai.» Inserì un altro disco nella fessura e sul display dell'autoradio vidi passare la scritta: «Cheti Abbes – Ketrou Hmoumi». La musica si fece più dolce, quasi melodica. Non erano più le periferie a passarmi davanti agli occhi, ma le mani di un attore con i baffi che abbozzavano improbabili movimenti di danza araba: come si intitolava quel film... Il marito della parrucchiera, sì, era quello. Ora la macchina correva lungo la strada costiera. Nel riquadro del finestrino alla mia sinistra, apparve per un attimo il profilo di una fortezza di pietra chiara. E poi spiagge inspiegabilmente deserte. Il volume della radio era stato abbassato ed era di nuovo possibile parlare. «Ma secondo te è credibile che non ricordi nulla?» mi chiese Marco. «Hai dei dubbi?» «Faccio il medico da più di vent'anni, ma un'amnesia circoscritta come quelle che denunciano gli assassini non l'ho mai riscontrata. È vero che non sono uno psichiatra, però quando uno dice di aver cancellato dalla mente proprio gli istanti in cui ha ammazzato qualcuno e poi magari ha anche fatto a pezzi il cadavere o roba del genere, be', quando sento cose così divento diffidente.» «Quasi sempre sono trucchi per cercare di ottenere l'infermità mentale, infatti gli psichiatri che fanno le perizie sono molto cauti. Però ci sono stati casi in cui l'omicida non ricordava davvero. Prendi per esempio la vicenda di Louis Althusser...» Intervenne il taxista: «Althusser il filosofo?». Ovviamente non aveva compreso niente della nostra conversazione in italiano, ma quel nome lo aveva colpito. «Secondo me» proseguì il ragazzo, «Althusser è l'unico che sia riuscito a dare una spiegazione accettabile di tutti i fraintendimenti relativi al marxismo. Voglio dire, Marx non va considerato
in una prospettiva umanista, altrimenti tutto diventa marxismo, anche il cristianesimo, anche l'islam. Se prescindi dal materialismo scientifico sei destinato al fallimento e le varie esperienze politiche lo hanno dimostrato bene, non credete?» Io e Marco ci guardammo interdetti. Cosa rispondergli? Decisi di ammettere la mia ignoranza: «Veramente non ne so molto». «Peccato, non mi capita spesso di poter parlare di queste cose. lo sono laureato in filosofia, ma la filosofia è come la poesia: carmina non dant panem.» «Mi dispiace di non poter sostenere la conversazione con te, io stavo parlando di Althusser per via di quel fatto di cronaca...» «L'omicidio della moglie? Che brutta storia. Ha letto come racconta il fatto in L'avenir Dure Longtemps? Davvero spaventoso.» Non lo avevo letto, ma mi scocciava ammetterlo. Maledetta precarietà: una volta con i taxisti si parlava del traffico, dei vigili, del prezzo della benzina, adesso mi toccava fare i conti con una specie di professore della Sorbona. «Sì, spaventoso davvero.» E non aggiunsi altro: la reticenza era il modo migliore per non mostrare i miei limiti. «Ha ucciso la moglie perché lo tradiva con un norvegese?» mi chiese Marco. All'inizio non capii: «Perché un norvegese?». Poi realizzai. «Sì, un norvegese che si chiamava Gunnar. Ma smettila! È una vicenda tremenda. Una mattina, mi pare che fosse nel 1980, lui era lì con la moglie in camera da letto e le stava massaggiando il collo, poi dice di aver avuto un momento di buio totale, quando si è ripreso, la moglie aveva lo sguardo fisso al soffitto: l'aveva strangolata». «E gli hanno riconosciuto l'infermità mentale?» «Naturalmente. Si è scoperto che per tutta la sua vita era entrato e uscito dalle cliniche psichiatriche e indovina qual era la sua patologia?» «Disturbo bipolare.» «Esatto. Qualcuno ha parlato di psicosi atipica, ma c'erano tutti i sintomi del disturbo bipolare: malinconia, euforia maniacale, delirio. Proprio come Aurora.» «Quindi le credi?» «Io sì, ma l'importante è che le credano i giudici. Per Althusser c'è stato il "non luogo a procedere", ma lui era un intellettuale famoso, aveva amicizie potenti. Aurora non ha nessuno.» «E cosa intendi fare?» «Sempre la stessa cosa: capire come si sono svolti i fatti. Se mai dovesse venir fuori che Aurora
aveva un motivo razionale per uccidere Johnny diventerebbe difficilissimo sostenere che era incapace di intendere e di volere. Prima di arrivare al processo bisogna escludere che si possa profilare la volontarietà: altrimenti è meglio puntare da subito sulle attenuanti.» «Per esempio dicendo che lo ha ammazzato perché lui ha tentato di violentarla?» «Per esempio, ma solo se mi dirai che i segni della violenza sono inequivocabili, se no è ancora peggio: hai visto come ammiccava il commissario leggendo l'SMS?» «E se invece scoprissi che non c'è stato stupro, ma che lei ha ucciso lucidamente per qualche altro motivo? Fai finta di niente e cerchi di nascondere la cosa?» Mi era già capitato una volta di dover scegliere e, a distanza di un anno e più, mi domandavo ancora se avevo preso la decisione giusta. Probabilmente me lo sarei chiesto per tutta la vita, ma ora che i dubbi cominciavano a darmi un po' di tregua, ecco che si affacciava una nuova occasione per sbagliare. Pregai il dio che non avevo perché mi concedesse di non scoprire nulla all'infuori della follia.
Il cameriere alto con l'aria da Frankenstein era ormai diventato il «nostro» cameriere. Ci accompagnò al «nostro» tavolo e ci portò la «solita» caraffa di vino bianco. «Oggi cucina tunisina, consiglio l'agnello, la chakchouka e i formaggi. Trovate tutto sui tavoli a destra.» «Grazie.» Ci preparammo al «solito» arrembaggio, ma constatammo con sorpresa che al buffet tunisino c'erano solo un paio di persone. La folla era disordinatamente in coda davanti ai due grandi banconi al centro della sala, quelli su cui la genialità dello staff aveva appeso due cartelli a mo' di insegna: «Salvatore il pizzaiolo» e «Pasta in festa». «Cos'è che ci ha consigliato?» Il cervello di Marco massimizzava l'economia: le informazioni non richieste lo attraversavano senza lasciare traccia, e il sistema funzionava a meraviglia, a patto che ci fosse qualcuno che recuperasse i dati dispersi nell'ambiente. Quel qualcuno ero io. «Ci ha detto di puntare sull'agnello, sui formaggi e sulla chacucia o qualcosa del genere.» «Chakchouka» mi corresse il ragazzo del buffet indicandomi un vassoio fumante, «sono verdure cotte a fuoco lento con sopra l'uovo, è un po' come la ratatouille.» Me ne servii una discreta razione, mentre Marco attingeva dal piatto delle carni: «Non prendi l'agnello?». «No, hai presente gli occhi di un agnellino? Non ce la faccio proprio a mangiarlo.» «Anche un vitello ha gli occhi grandi, anche un maialino. E un giovane merluzzo? Pensa a Nemo.» «Se intendi il Nemo del cartone animato, quello è un pesce pagliaccio e non è un merluzzo.»
«Però le mamme dei merluzzi piangono quando passa il peschereccio Findus. Ci pensi mai quando mangi i bastoncini di pesce?» Due cretini; due cretini di mezza età, patetici e felici, malgrado tutto. Concludemmo il pranzo con la bocca paralizzata dall'insopportabile zuccherosità dei dolci tunisini e lasciammo il ristorante con l'unico desiderio di correre a lavarci i denti. A quell'ora, con il sole allo zenit, la valle incantata era una fornace. Le orme bagnate dei pochi che già si erano tuffati in piscina evaporavano nel giro di un istante. Qualche maniaco dell'abbronzatura sfidava la cancerogenicità degli ultravioletti abbrustolendosi sul lettino, mentre altri, più prudenti, pisolavano sotto gli ombrelloni. «Come si sta bene qui» esclamò Marco entrando in stanza. Avevamo spento l'aria condizionata, e avevamo chiuso tutte le persiane lasciando aperte le finestre. Filtrava l'aria, filtravano i suoni, filtrava anche un po' di luce, ma il caldo restava fuori. Dopo il benefico effetto del dentifricio alla menta, mi avvicinai alla finestra e cominciai a guardare fuori attraverso le stecche della persiana. Marco mi si avvicinò da dietro e posò le mani sulle mie spalle, all'altezza del collo. «Vuoi imitare Althusser?» «No, voglio fare questo.» E mi sciolse il nodo che fermava il pareo. «Continua.» Abbassò le spalline del costume e sentii ancora le sue mani. Non mi voltai. Non mi voltai neanche quando il costume scomparve del tutto e neanche quando udii il fruscio del suo pantaloncino che cadeva a terra. Distesi solo le braccia, spingendomi un po' all'indietro, e aspettai.
Non è vero che solo agli uomini piace il sonno dopo l'amore. Anche a me. Forse il mio lato maschile. Quando mi svegliai, osservai la parete sopra la testiera del letto. Era quella che ci divideva dalla stanza vicina: l'intonaco sull'altra faccia di quello stesso muro era impregnato del sangue dell'americano. Provai ribrezzo. Con un gesto insensato che non potei impedirmi, toccai la superficie imbiancata per sentire se trasudava umidità: ovviamente era asciutta, ma il mio movimento svegliò Marco: «Cosa fai?». «Scacciavo una mosca.» «Che ore sono?» «Le quattro: è ora di andare in spiaggia. Altrimenti la signorina Elisabetta dice che non sembriamo abbastanza vacanzieri.» L'aria non era più bollente, ma il sole era ancora alto e una piccola folla aveva trovato riparo sotto la pagoda del bar dove si serviva quella che, senza timore del ridicolo, veniva chiamata «merenda»: si tornava tutti un po' bambini al villaggio.
Nella parte dove la piscina era meno profonda, una quindicina di donne dai quaranta in su, con l'aggiunta di un signore canuto e abbronzatissimo, ci dava dentro con l'acquagym seguendo un martellante ritmo techno. «... e uno, e due, e tre, e quattro... voltarsi...» L'animatrice, giovanissima, sbraitava a bordo vasca mostrando i movimenti da effettuare. «... uno, due e opp, uno e due e opp, su le braccia...» E tutta quella gente, che probabilmente era più abituata a dare ordini che a eseguirne, obbediva allegra alla ragazzina. «... forza con quei saltelli, più veloci. E adesso per i glutei...» Ci fermammo un minuto di troppo a osservare. «Venite anche voi ragazzi, non è faticoso.» La complice della ragazzina urlante ci aveva sorpreso alle spalle. «Verrei proprio volentieri» rispose Marco, «ma ho una fastidiosa blenorragia spongiforme che mi impedisce i movimenti con l'adduttore sinistro. Appena guarisco, mi compro un walkman e mi esercito da solo, così mi metto in pari.» L'animatrice se ne andò frastornata. «Ma sei matto? La blenorragia? Lo scolo? Ma che figura ci faccio!» «Non ti preoccupare, è così giovane che lo scolo non l'ha mai sentito neppure nominare. È che detto in questo modo sembra una diagnosi del dottor House e fa sempre un certo effetto.» A scanso di equivoci, ci muovemmo rapidamente verso la spiaggia. Come il giorno precedente, le prime file di ombrelloni erano completamente occupate, ma via via che ci si allontanava dal mare, i posti aumentavano e nell'ultima fila, oltre a una coppietta in cerca di intimità, non c'era che un uomo: Ermanno. Ci avvicinammo e lui parve non notarci: sembrava scrutare l'orizzonte oltre la spiaggia, oltre il mare, sembrava che potesse vedere la Sicilia. In realtà non vedeva nulla: se accanto a lui ci fosse stato un cane o un bastone bianco lo si sarebbe detto un cieco. Appoggiato sul lettino a fianco c'era uno zainetto; forse conteneva un libro, ma lui non l'aveva tirato fuori, non ne aveva bisogno, si accontentava del film dell'orrore che passava nella sua mente. Gli posai una mano sulla spalla e lui si girò senza trasalire: «Avete visto Aurora?». «Sì, era molto intontita dai farmaci, però abbiamo potuto parlare un po'.» «Ricorda qualche cosa?» «Niente.» «Domani mattina vado a trovarla.» «Veramente vorremmo tornare noi.» Gli indicai Marco. «Il mio compagno è un medico, potrebbe verificarèse c'è stata violenza sessuale.» «Giusto. Io allora andrò nel pomeriggio.»
«Il commissario ha detto che avrebbe autorizzato solo una visita al giorno, quindi...» «Io ci provo ugualmente.» Lo lasciammo con gli occhi fissi al suo orizzonte e ci sistemammo parecchio più in là, per la vergogna di non riuscire a condividere il suo dolore. «Una passeggiata lungo il bagnasciuga?» «Va bene, però non verso la scuola di vela, perché lì iniziano subito le spiagge di altri hotel e c'è un sacco di gente. Ci sono stata ieri, mentre tu facevi il bagno.» «E allora andiamo verso la parte opposta.» Mi cinse di nuovo il fianco e mi ritrovai a pensare che ormai nessuna coppia camminava allacciata in quel modo, solo quelle fotografate sulle scatole dei preservativi. La spiaggia del nostro villaggio terminava con una barriera di canne che celava i preziosi ospiti dagli sguardi indiscreti di chissà chi. Superato lo steccato, la striscia di sabbia si faceva più sottile, una cinquantina di metri al massimo, racchiusi tra il mare e lo scheletro di un edificio dall'aria abbandonata. «Andiamo a vederlo da vicino» mi propose Marco. Lo assecondai, anche se non condividevo il suo interesse per quel rudere che deturpava la costa. «Era un albergo.» Le porte e le finestre, ormai senza infissi, mostravano l'interno spoglio di camere che, neanche troppi anni prima, dovevano essere state quasi lussuose. Al pianterreno si vedevano ancora i decori delle sale da pranzo e gli archi fintamente moreschi della hall. Aveva un che di spettrale, e se invece del sole e del mare ci fosse stata la neve, mi avrebbe ricordato Shining. A guardarlo bene era enorme e la spiaggia che in passato aveva ospitato i suoi clienti lo era ancora di più: stretta, ma lunghissima. Tornammo alla battigia e camminammo per un buon quarto d'ora senza incontrare nessuno, poi, gradualmente, sulle piccole dune disseminate di cespugli, cominciò a rifiorire la presenza umana. Tende canadesi, teli di plastica tesi tra quattro pali di legno, gazebo smontabili, ombrelloni della Fanta e della Coca-Cola, sedie da giardino, tavoli pieghevoli, barbecue, radio: era domenica, la domenica della brava gente. Non una donna che scoprisse le caviglie, o le braccia, o il collo. Le più anziane sedute in cerchio, all'ombra, a parlare e sparlare, le più giovani in acqua, a ridere e a spiare i ragazzi, ma le une e le altre rigorosamente vestite e incappucciate, nascoste nelle tuniche, nei caftani, nei pantaloni di seta, nei foulard. Mi dicevo che dovevo liberarmi dai pregiudizi occidentali, che dovevo rispettare la loro cultura, che in fondo anche noi eravamo prigionieri delle nostre convenzioni, ma non mi riusciva. Non mi riusciva di accettare che una ragazza di vent'anni dovesse fare il bagno vestita, che la pelle di una donna fosse più scandalosa di quella del suo uomo che se ne stava con la pancia al sole. Io che avevo trascorso le mie estati ingabbiata nel busto, patendo il caldo, soffrendo di non potermi godere il vento sulla schiena e di non poter dimostrare che finalmente mi erano sbocciate le tette, io non riuscivo a sopportare l'ombra di quel dio geloso che imponeva a ragazze sane e allegre quello che io avevo subito per malattia; non riuscivo a sopportare quel dio così ostinatamente
maschio. La spiaggia libera continuava per un paio di chilometri e noi la percorremmo tutta, fino al promontorio che segnava la punta dell'isola. Da lì in poi la costa cambiava direzione e sapevamo che si punteggiava di nuovi alberghi e nuovi villaggi che non vedevamo, nascosti com'erano dalle rocce del capo. Parlammo per tutto il tragitto di ritorno. Non di sogni, non di grandi progetti, solo di noi. Era proprio quello che ci distingueva dai ventenni: noi non avevamo bisogno di amarci per quello che saremmo diventati in futuro, per quello che avremmo fatto insieme un giorno; noi ci bastavamo così, adesso. Giunti all'albergo abbandonato ci fermammo ancora a osservare la sua mole inquietante. «Guarda» mi fece notare Marco, «il muro di cinta arriva proprio alle spalle della nostra stanza.» «Ne sei sicuro?» «Certo, quella è la nostra isola e quello è il giardinetto della camera di Ermanno e Aurora, dietro c'è la nostra.» L'hotel di Shining a pochi passi, e in mezzo, tra noi e lui, la stanza del delitto. Fortuna che non ero impressionabile. Ancora qualche passo sul bagnasciuga. L'acqua che ci lambiva le caviglie era tiepida, il mare piatto. «Vieni» mi disse Marco tirandomi per un braccio. L'acqua arrivò alle cosce, poi alla pancia: era fatta, un bagno in mare, dopo chissà quanti anni.
Doccia, aperitivo, cena. Stessi percorsi, stesse facce, stesse consumazioni. Era la rassicurante routine del villaggio: tutto era scritto, codificato, non c'era da pensare a niente e, se si aveva l'accortezza di lasciare il cervello alla reception e di ritirarlo il giorno della partenza, il tutto poteva essere decisamente gradevole. Giorni felici, con tanti amici, è sempre allegro, chi passa i suoi giorni con noi. Al Calypso club. Notti di sogno, ne avevo bisogno, se cerchi l'amore lo trovi da noi. Al Calypso club. La sigla del villaggio apriva la kermesse serale e la gente non si accontentava di ascoltarla, la cantava urlando il refrain, addirittura la ballava, imitando i gesti degli animatori che, come automi, scattavano in piedi non appena udivano le prime note sputate fuori dagli altoparlanti. Per noi venne l'ora delle telefonate. Seduta su un lettino prendisole, chiamai la signora Melzi e le raccontai dell'incontro con la polizia e con sua figlia. Non tutto, solo quello che aveva bisogno di sentirsi dire. Non aveva senso parlarle di quegli occhi che faticavano ad aprirsi, né tormentarla col pensiero di un possibile stupro. L'indomani avrei saputo la verità e forse gliela avrei detta, o forse no. Per il momento, la camera d'ospedale rimaneva confortevole e graziosa, il commissario ben disposto nei confronti di Aurora, la giustizia tunisina celere ed equanime. Per le brutte notizie ci sarebbe stato tempo in seguito. Ripiegai il telefonino sugli ultimi ringraziamenti della donna e lo riaprii un attimo dopo. Trafficai
un po' con i tasti ed ebbi un moto di indignazione: «Non è possibile!» esclamai mostrando il display a Marco. «Porca miseria. Costo dell'ultima chiamata: sette euro.» «Volevo chiedere come stava Morgana, ma credo che rinuncerò.» «Forse ci costa meno dal telefono fisso della stanza.» «Non credo, però ho un'altra idea. Aspettami qui.» Tornai dopo pochi minuti, col notebook sotto il braccio, lo accesi e verificai che la connessione senza fili funzionasse anche lì. Segnale eccellente. «Hai mai usato Skype?» chiesi a Marco. «Lo usa Mattia per parlare con i suoi amici, ma io non ci ho mai provato.» «Puoi parlare gratis attraverso il computer e puoi chiamare i telefoni pagando un'inezia. Basta avere una connessione sufficientemente veloce.» Lanciai il programma e composi il numero della signora Ghislandi. Negli altoparlanti del computer risuonò il segnale di libero che al terzo squillo fu sostituito dalla voce metallica della mia vicina di casa. «Buonasera signora Ghislandi, sono Anna.» «Come va cara? Ha fatto un buo.. … gio?» «Qui ogni tanto perdo qualche parola: lei mi sente bene?» «Sì, bene come se fos …iano di sopra. Allora come è ...bergo?» «Tutto bellissimo grazie. Come sta Morgana? Le ha già distrutto qualche cosa?» «È bravis... e mi fa tanta ...gnia.» «Lei è un tesoro signora. Non so come sdebitarmi.» «Ma non lo dic... sc lo ...ri.» «Signora Ghislandi?... Signora Ghislandi?... Non la sento più. Spero che lei mi senta. La abbraccio forte e grazie ancora.» Fine della comunicazione. Costo totale: due centesimi di euro. «È economico, ma non si capiva niente.» «Di solito funziona perfettamente. Si vede che qui la linea non è tanto veloce, oppure siamo in tanti a usare internet nello stesso momento. Vuoi provare a chiamare Mattia?» «Grazie. Come si fa?» «Innanzitutto vediamo se è connesso così ci parliamo da computer a computer e dovrebbe essere più semplice.» Avviai la funzione di ricerca degli utenti e trovai rapidamente il recapito Skype di Mattia.
«Vedi? È in linea». «C'era da aspettarselo, è sempre attaccato al computer, dice che "scarica" con eMule, non so bene cosa sia...» «È un programma che ti consente di scambiare dei file con altri utenti. Se tu hai un film o un brano musicale registrato sul tuo computer puoi condividerlo con altri e farlo copiare a distanza e gli altri faranno così con te.» «Ma non è vietato?» «Diciamo che la questione è dibattuta.» «Comunque, meno male che domani parte per le Dolomiti e sta un po' all'aria aperta.» Posai il notebook sulle ginocchia di Marco: «Adesso premi il pulsante verde sotto il suo nome». Segnale di libero. Uno squillo soltanto. «Pronto?» «Ciao Mattia, sono papà.» «Perché su Skype mi compare Anna Pavesi come nome?» Leggero imbarazzo. «È l'amica che mi ha imprestato il computer.» «Sei al mare con un'amica?» Nuovo imbarazzo. Più forte. «Sì...» «Beato te. Noi dovevamo partire per la montagna anche con Carlotta e Martina e invece loro hanno deciso di non venire, così ci siamo solo io e Luca, come due finocchi.» «A tredici anni si può ancora pensare di divertirsi anche senza le ragazze.» Nessuno può stabilire esattamente quando arriva l'adolescenza. L'adolescenza di tuo figlio arriva quando una mattina ti svegli, lo vedi nel corridoio di casa tua e ti chiedi chi sia quello sconosciuto con i peli sotto le ascelle e la voce roca. «Sai che divertimento! Camminate in montagna, partite di calcio e menate del genere.» Nel giro di un decennio l'avrebbe rimpianta la libertà di giocare a pallone con gli amici e di farsi una gita, ma adesso era troppo presto, adesso aveva in circolo ormoni grandi come conigli che gli rimescolavano il sangue. D'un tratto gli altoparlanti del computer presero a gracchiare e sullo schermo si accese un'icona gialla: difficoltà di comunicazione. «Mattia? Mattia? È caduta la linea... aspetta, adesso si è aperta una finestra, con la foto di Mattia... È lui che mi scrive: "Ti diverti?". Cosa faccio?» «Ha iniziato una chat. Di solito i messaggi funzionano anche quando il collegamento è debole.
Portati con il mouse nella zona bassa della finestra e scrivigli la risposta, poi premi "invio" e quella parte.» Lo lasciai all'esperienza della sua prima chat e feci un giretto con il naso in su, a guardare le stelle. Di tanto in tanto ripassavo accanto al lettino e lo vedevo impegnato a digitare o a leggere e a ridere da solo. Il «passo e chiudo» arrivò dopo una buona mezzora. «Che scoperta la chat! Saranno stati sei mesi che non parlavo così tanto con mio figlio.» «Cosa ti ha detto?» «Di mandargli una tua foto.»
Lunedì 30 luglio 2007 «Allez Zidane.» «Viva Materazzi.» Fu questo lo scambio di saluti tra Marco e il piantone all'ingresso della stanza di Aurora: nomi di calciatori avversari, buttati lì a consolidare un'amicizia. Aurora era sveglia, pienamente. Il suo volto sembrava persino fresco, da convalescente ormai guarita. Dovevano aver ridotto le dosi di sedativi. «Ciao, sono di nuovo qui. Ti ricordi che sono già venuta ieri?» «Sì. Ti chiami Anna vero?» «Esatto. Io sono Anna e lui è Marco, il mio compagno.» «E lui che deve visitarmi per vedere se sono stata violentata?» La memoria aveva ripreso a funzionare a pieno ritmo. «Sì. É un medico. Lavora all'ospedale di Magenta. Preferisci che io esca, mentre ti visita?» «No, rimani.» Mentre Marco si infilava i guanti in lattice comprati nella farmacia lì sotto, la aiutai a sdraiarsi sopra il lenzuolo e lei alzò il camicione dell'ospedale fino a scoprire il ventre. «Allarga un po' le gambe per cortesia, se senti male dimmelo e io mi fermo.» Marco prese a controllarle l'interno delle cosce e l'inguine: «Non ci sono ecchimosi, né abrasioni». Ispezionò ancora il pube, quasi glabro: «Niente, per fortuna. E adesso scusa, ma viene la parte più difficile». Aurora emise un piccolo gemito di fastidio, afferrò la mia mano e la tenne stretta fino a che Marco non finì la sua visita. «Non sono un ginecologo, ma mi pare di poter dire che non c'è stato stupro, e neppure un tentativo di violenza.» Non sapevo se essere sollevata o afflitta. La violenza sessuale, conclusa o anche solo iniziata, avrebbe giustificato la reazione di Aurora: uccidere Jonathan sarebbe stata una legittima difesa. Un paio d'anni e poi libera. Tuttavia, il peso di quell'episodio avrebbe potuto schiacciarla per tutta la vita. In ogni caso il problema non si poneva: Aurora non era stata violentata e l'unica tesi su cui si poteva far leva era quella del raptus di follia. Marco si tolse i guanti e li gettò nel cestino sotto il lavabo: «Io adesso esco, così voi potete chiacchierare con calma».
Aurora lo ringraziò, educatamente, come se ci fosse stata lì sua madre a dirle: «Ringrazia il signore che è stato tanto gentile». Quando fummo sole, presi l'unica sedia della stanza e la accostai al letto. «Hai voglia di parlarmi un po' di te e Ermanno?» «Ermanno è tenerissimo, mi dà sicurezza.» «Perché non gli hai mai fatto presente i tuoi disturbi?» «Non ero ancora pronta. Ogni volta mi ripetevo che era ora di dirglielo, ma poi non trovavo il coraggio. Non è come avere i calcoli ai reni. Una prova vergogna a dire che è in cura dallo psichiatra.» Lo sapevo. E benché quasi metà degli abitanti dei Paesi occidentali avesse assunto, almeno una volta, degli antidepressivi, nei telefilm americani la scoperta di una confezione di Prozac nella borsetta di una donna dava sempre origine a un mistero, alla ricerca di una verità nascosta e potenzialmente sordida. «Ieri mi hai fatto capire che non avresti mai tradito Ermanno, me lo confermi anche oggi che sei più lucida?» «Da quando ci siamo fidanzati non sono mai stata con un altro uomo e non lo farò mai.» Con la prospettiva di una vita di galera, quella promessa diveniva grottesca. «E prima di metterti con Ermanno quanti fidanzati hai avuto?» «Pochi. La storia più lunga è stata quella con Fabio. Quel bastardo. Te lo faccio vedere, così mi dici anche tu se non ha la faccia da bastardo.» Si voltò verso il comodino e prese un taccuino piuttosto grande, nero, in stile Moleskine. Lo aprì spostando l'elastico, cercò la pagina giusta e me lo porse: «Vero che si vede subito che è un bastardo? E io, scema, non me ne sono accorta per quattro anni». La fotografia appiccata sulla pagina mostrava tre ragazzi in moto, con la tuta di pelle e il casco in mano. Il fedifrago era quello al centro e non era difficile capirlo, visto che Aurora, con il pennarello, gli aveva disegnato sul petto un teschio con le due tibie incrociate. «È il tuo diario?» «Sì, me lo ha portato Ermanno la prima volta che è venuto qui a trovarmi. Ha allungato una mancia al poliziotto e lui me lo ha lasciato tenere. Però Ermanno mi ha giurato di non averlo letto.» «E io posso dare un'occhiata?» «Ti può servire per capire perché ho ucciso Jonathan?» «Mi serve per conoscerti meglio. Se ti conosco meglio posso provare a capire.» Il diario era una delle terapie che alcuni psicologi consigliavano ai loro pazienti, ma quello che mi trovavo tra le mani non aveva nulla che ricordasse una scrittura terapeutica. C'erano pensieri, impressioni, ritagli di giornale, fotografie di attori, disegni, cuori spezzati e, da
una certa data in poi, cuori trafitti accompagnati dalle lettere A&E. Anche ammettendo che fosse stato iniziato con finalità di cura, quel diario era diventato il confidente muto di una donna che, di tanto in tanto, tornava a essere una ragazzina. A suo modo, anche così svolgeva una funzione diagnostica. «Allora: ce l'ha la faccia da bastardo?» insistette Aurora. «Fai vedere meglio.» «Se vai verso l'inizio ci sono delle foto più grandi.» Girai a ritroso le pagine e trovai un paio di ritratti di Fabio: biondino, pelle chiara, camicia azzurra, pullover arancione annodato al collo, un'aria da figlio di papà, anche un po' imbecille, però, per farle piacere, convenni: «Sì, è una gran faccia da schiaffi». «Jonathan gli assomigliava come se fosse stato il suo gemello.» «Come carattere intendi?» «Intendo proprio fisicamente. Come carattere erano diversissimi. Johnny era solo un po' invadente.» «Ti piaceva?» «Non era un brutto ragazzo, ma non gli davo molta importanza. Era piuttosto Ermanno che lo trovava simpatico: tutte le volte che lo incrociava al bar lo invitava a prendere l'aperitivo con noi.» A me non era parso che Ermanno provasse tutto quell'interesse per Jonathan, ma era normale che le ricostruzioni di Aurora tendessero a distorcere un po' la realtà. Bussarono alla porta e io risposi di entrare. Era la guardia: la mezzora era terminata. «Domani io non vengo, così può passare Ermanno.» «Ho voglia di vederlo, mi fa stare bene anche in queste condizioni. Però anche parlare con te mi piace.» «D'accordo. Allora la prossima volta parliamo di più.» Nel corridoio, Marco non c'era. «Il dottore ha detto che la aspettava fuori, Café de la Paix.» «Grazie.» Vieni a prendere un tè, al Café de la Paix. Su vieni con me. Rispetto ai locali del viale, il Café de la Paix era in una posizione sacrificata, infelice. Il suo unico tavolino all'aperto occupava quasi per intero la larghezza del marciapiede e chi si fosse seduto lì avrebbe mescolato il sapore del tè con quello dei gas di scarico delle automobili e dei motorini vetusti che spernacchiavano lasciandosi dietro l'odore di miscela bruciata. Ma, ovviamente, le
due sedie erano vuote. Entrai e provai quella strana sensazione che ti prende quando il dentro e il fuori sembrano non corrispondersi, quando entri in un portoncino angusto e ti ritrovi di colpo sotto la volta vetrata di una stazione o di un mercato coperto. Il Café de la Paix iniziava con una piccola sala buia con divanetti rossi addossati alle pareti più lunghe. Seduti, un paio di uomini tiravano da un narghilè. Non c'erano camerieri e non c'era il bancone, quindi il locale doveva estendersi altrove, per esempio oltre l'arco moresco che chiudeva la sala all'estremità opposta a quella dov'ero entrata. L'antro di Alì Babà e i quaranta ladroni, ecco cosa mi ricordava. Si vede che, ormai anestetizzata dall'opulenta falsità del villaggio, tutto ciò che era autenticamente arabo riusciva solo a rimandarmi ai più vieti luoghi comuni; come il giorno prima con la danza del ventre. Al di là del primo arco, il caffè assumeva una struttura labirintica, con altri archi, altre sale, senza finestre, altri divanetti e altri fumatori di narghilè. Mi sentivo come un clandestino appena arrivato e finito per caso in Galleria a Milano: straniamento totale. Destra o sinistra? Sinistra e poi ancora diritto. Il «dottore» era rintanato nell'ultimo tavolino dell'ultima stanza. «Potevi metterti un po' più in vista. Una donna sola qui si sente un po' a disagio e "disagio" è un eufemismo.» «Scusa. Stavo per venire fuori ad aspettarti.» «Be', adesso che siamo qui puoi anche offrimi un tè alla menta.» Si alzò per ordinare, canterellando: «Vieni a prendere un tè, al Café de la Paix...». Ascoltavamo la stessa musica e avevamo gli stessi pensieri. Tornò con un bicchiere di tè e un piattino pieno di mandorle sgusciate, spelate, bianche. «Sono come le patatine con l'aperitivo?» «No, le devi mettere dentro al tè, e poi se vuoi le mangi.» Erano bastati dieci in minuti da solo in un caffè tunisino per fare di lui un autentico berbero: eccolo il disinvolto. Arrivammo al villaggio a mezzogiorno e un quarto: troppo tardi per mettersi il costume e fare un bagno, troppo presto per andare a mangiare. O forse no. In fondo, quando ero bambina, a casa mia si pranzava a mezzogiorno e si cenava alle sette. Marco e io ascoltammo i nostri stomaci e concludemmo che il pranzo in orario da ospedale non era poi una cattiva idea. Per la prima volta trovammo il ristorante vuoto e il buffet ancora abbondantemente guarnito e libero dalle folle. Persino il banco di «Salvatore il pizzaiolo» era accessibile, anzi, praticamente deserto. «Signo', che vvulite? 'Nu bello trancio di pizza margherita?» «Benissimo.»
Lo guardai mentre ricavava un grosso quadrato fumante dalla teglia appena sfornata: «Lei è Salvatore?». «Salvatore ò Pizzaiolo, comme sta scritto qua sopra.» Dal cappello bianco e alto uscivano alcuni ricci neri, serratissimi. Lo osservai ancora, diffidente e divertita: «Lei però non è napoletano, vero?». «D'adozione signo', d'adozione.» Gli feci un cenno di saluto. Ero già lontana qualche passo quando udii alle mie spalle il rumore assordante d'un vassoio che cadeva. «Ma va' in mona» fu il commento di Salvatore. Mi voltai verso di lui con un sorriso interrogativo. «Napoletano d'adozione, ma, prima, quindici anni passati a Padova a fare le pizze. De vero nome me ciamo Mohamed.» Terminammo il pranzo quando la maggior parte delle persone lo stava iniziando. Nella galleria commerciale, il fotografo si stava preparando all'assalto, ma al momento i monitor per la visione dei provini erano liberi e io dovevo controllare un particolare. Le foto erano suddivise per categorie: spiaggia, piscina, anfiteatro, vela, ristorante. Selezionando le varie opzioni direttamente sullo schermo, visualizzai le foto scattate al centro velico: erano centinaia, ordinate cronologicamente. Andai indietro, al lunedì precedente. Ignorai quelle dei catamarani e concentrai la mia attenzione sui windsurf: cercavo l'immagine di un animatore biondo, ma dopo un po' di tentativi capii che dovevo cambiare soggetto. Scelsi di individuare l'animatore più fotografato: era un bel ragazzo, capelli corvini raccolti in una lunga coda di cavallo, pelle olivastra, dentatura da pubblicità. Interpellai il fotografo: «Scusi, è questo Jonathan?». Girò intorno al suo tavolo e venne a osservare il monitor. «Sì, è lui.» Per nulla espansivo. Forse non conosceva bene l'italiano. Mentre tornava alla sua postazione, a gingillarsi con un'immensa e complicatissima fotocamera digitale, io chiamai accanto a me Marco: «Questo è Jonathan» gli dissi. «Aurora sostiene che assomiglia molto al suo ex fidanzato, quello che l'ha lasciata dopo aver messo incinta una rumena, ma a me non pare proprio. Quello là era biondino, slavato; questo sembra quasi creolo.» «Forse Aurora non si è ancora pienamente ripresa dallo shock e fa confusione.» «Oppure la situazione è più complessa. Sei mai statti lasciato di colpo da una fidanzata?» Si mise a contare ironicamente sulle dita della mano sinistra; arrivò al mignolo e ricominciò con il pollice per un paio di volte: «Sì, direi che mi è capitato». «Nei giorni immediatamente successivi ti è sembrato che anche le cose più insignificanti ti parlassero di lei, che le altre ragazze indossassero i suoi stessi vestiti, che portassero il suo profumo o lo stesso taglio di capelli, vero?» «Sì, poi uno elabora il lutto.»
«Di solito capita così, ma se l'abbandono da parte della persona amata si innesta su una situazione d'instabilità emotiva, questo comportamento può protrarsi nel tempo e diventare ossessivo. Secondo me, Aurora non riesce più a separare la figura di quel Fabio da quella di tutte le altre persone che la feriscono emotivamente.» «Vuoi dire che in quel momento lei non ha accoltellato Jonathan, ma il suo ex fidanzato?» Il fotografo alzò gli occhi dal suo apparecchio e guardò verso di noi, ma non appena i nostri sguardi si incrociarono tornò a occuparsi del suo obiettivo. Ripresi, abbassando la voce: «È solo un'ipotesi, per confermarla avrei bisogno di parlare molto a lungo con lei, però potrebbe essere andata davvero così». Appoggiai il dito sullo schermo e continuai la ricerca avanzando fino a mercoledì 25 luglio. Ore 8.30: la regata ha inizio. I dilettanti allo sbaraglio prendono posto sui catamarani e la scheda elettronica del tunisino di poche parole fissa l'attimo, immortala le facce che tradiscono la tensione della gara. Un signore calvo, un tizio con la bandana, madre e figlia, un giovane con l'aria da seminarista. Finalmente Ermanno col suo occasionale compagno di equipaggio, stanno prendendo il largo: 25/07/2007 — 8.33, la scritta è impressa nell'angolo destro in basso. «Cosa stai cercando?» «Faccio solo una verifica.» Tamburellai con l'indice sullo schermo interattivo. Ripetutamente. Le fotografie inquadrano le barche di poppa, sempre più lontane; poi cambia la luce, diviene più intensa, il cielo è quasi bianco e i catamarani sono ora di prua, sempre lontani, ma in avvicinamento: è il ritorno. La barca numero 7 appoggia le due chiglie sulla sabbia: click. Barca numero 12: click. Barca numero 4: click. Barca 14: click per Ermanno e click per il suo compagno, sorridono all'obiettivo. L'angolo in basso a destra dice: 25/07/2007 — 10.47. Avevo visto quanto mi serviva. Ringraziai il fotografo e lui, per risposta, mi diede un bigliettino da visita: Chadi Mejri — Fotografo. Sul retro c'era il modulo con il quale avrei dovuto richiedere le stampe delle immagini che mi interessavano. Fuori si era alzata un po' di brezza che agitava le foglie delle palme. «Cosa volevi verificare?» «Che gli orari della regata fossero compatibili con la ricostruzione dei fatti.» «Dubitavi che Ermanno avesse mentito?» «No, mi chiedevo se, ricevendo 1'SMS alle nove e mezza, Jonathan potesse prevedere di riuscire a farsi una sveltina prima del rientro dei velisti. Evidentemente sì.» «Questo rafforza l'idea del commissario su...» e fece anche lui il gesto delle corna che tanto
aveva divertito Zaalani. «Temo che non ci sia altra spiegazione. Senti se la mia ricostruzione ti pare sensata.» «Vai, ricostruisci!» «Aurora non prende farmaci da giorni, è in fase ipomaniacale e il suo sistema allenta i freni inibitori. Le piace Jonathan e decide di farselo. Lo invita con un messaggino. I due fanno sesso, poi lei gli chiede qualcosa del tipo: "Mi ami?". O qualche assurdità del genere. L'altro non sa cosa dire; per lui è una scopata come tante. E allora dice una cretinata qualsiasi, o fa una battuta. Magari ride. In quel momento, anche se lui non lo sa, il suo volto sta mutando. La pelle si schiarisce, i capelli diventano biondi. Adesso lei, davanti a sé vede Fabio, e lo uccide.» «Affascinante. Credi che convincerai la giuria?» «Non sono mica l'avvocato io, e neanche mi chiameranno a fare la perizia, visto che non sono neppure uno psichiatra. Però posso provare a dare l'imbeccata al difensore.» «Ho solo un'obiezione.» «Da medico?» «No, da boyscout. Un coltellino svizzero non è un coltello a serramanico che scatta premendo un pulsante. Per aprirlo ci vuole un po' di tempo. Possibile che lui non sia riuscito a fermarla?» «Hai presente la Bibbia? Giuditta e Oloferne? Lei lo ha decapitato senza troppi problemi e lui non si è accorto di nulla.» «Sì, ma Oloferne era completamente ubriaco ed era disteso sul letto.» «Appunto. Aurora e Johnny avevano appena fatto sesso, poi c'è stato lo scambio di battute, lui si è appisolato un attimo e lei lo ha pugnalato nel sonno.» «Bisognerebbe avere il riscontro della scientifica riguardo le macchie di sangue, ma, come hai sentito, qui non hanno soldi per esami inutili.» «Questo non è inutile.» «Cambia qualcosa sapere se lei lo ha ucciso in piedi o sul letto?» No, non cambiava nulla e abbandonai il discorso. «Proviamo ad andare in spiaggia adesso? Magari è la volta buona che troviamo posto in prima fila.» Da parte di Marco non ci furono obiezioni, né proposte alternative: forse il discorso su Giuditta e Oloferne lo aveva impressionato. Sdraiata sul lettino, il libro a fianco e neanche la voglia di aprirlo, gli occhi ridotti a fessura per catturare il riverbero del sole sull'acqua: nient'altro, avevo tutto quello che mi serviva. Me lo avessero detto a vent'anni non ci avrei creduto. Se mi avessero detto che di lì a poco avrei smesso di girare l'Europa in treno e che a quarantun anni avrei provato la felicità di distendermi in spiaggia senza fare niente, avrei risposto che si sbagliavano, che a me non sarebbe mai capitato. È curioso come da giovani si tenda a rifiutare l'idea del cambiamento: pensi che continuerai ad amare le stesse situazioni, a vedere gli stessi amici, a votare per lo stesso partito.
Invece, l'unica cosa che non era cambiata era il partito; anzi, per meglio dire, il partito era cambiato, anche troppo, solo che io non avevo smesso di votarlo, pentendomene. Ma poi, perché mai dovevo sentirmi in colpa: di vacanze intelligenti ne avevo fatte fin troppe, avevo maturato il diritto alla stupidità. Sempre ammesso che quella si potesse considerare una vacanza. Era ora di prendere un po' di sole dall'altra parte: faceva bene al morale e per la mia schiena era meglio di una scatola di antidolorifici. Non so quanto rimasi con gli occhi chiusi, ma quando li riaprii lo vidi. Seduto nello stesso posto del giorno prima, così immobile che lo si sarebbe detto fisso in quel punto da sempre, lo sguardo ancora puntato sull'invisibile costa siciliana. «Mi riallacci il reggiseno per cortesia?» Marco posò per un attimo il libro, agganciò la fibbia con la stessa passione con cui avrebbe legato un bagaglio sul portapacchi dell'auto e tornò a leggere. «Vado a parlare con Ermanno.» Grugnì un segnale di «ricevuto». Era colpa mia, glielo avevo consigliato io Follia e ora non potevo lamentarmi: era uno di quei romanzi dai quali è difficile uscire a spettacolo iniziato. Malgrado le infradito, per arrivare all'ultima fila mi scottai per bene i piedi. «Come stai?» «Non me l'hanno fatta vedere.» «Te lo avevo detto: solo una visita al giorno. E stamattina siamo andati io e Marco per...» «È stata violentata?» «No, niente segni di violenza.» Fece un lungo sospiro, ma non era sollievo, era solo una sofferenza diversa. «Stamattina» disse quasi parlando tra sé, «ho navigato un po' in internet e ho letto di una ragazza tunisina, un'animatrice turistica, che è stata arrestata per contrabbando e che rischia quindici anni di galera. Quanto rischia Aurora?» «Sicuramente più di quindici anni, ma non devi pensarci adesso. Vedrai che appena si chiariscono i fatti, interviene l'ambasciata italiana e...» «Non serve a niente. Il marito di quella ragazza tunisina è francese; ha fatto persino appello a Sarkozy, ma non è servito.» Aveva la voce strozzata. Provai a consolarlo con lo stesso sogno assurdo che avevo coltivato io nei primi momenti: «E se non fosse stata lei a ucciderlo?». Qualcosa nel suo sguardo si riaccese: «È possibile?». Feci miei i dubbi di Marco: «Quello che appare un po' strano è che Aurora abbia avuto il tempo di cercare il tuo coltellino e di aprirlo per difendersi. Dove lo tenevi?». «Nel cassetto del comodino.» Tentativo inutile: il coltello era a portata di mano, pronto come la scimitarra di Giuditta.
Che stupida ad aggrapparmi a quell'insignificante particolare della lama pieghevole e della difficoltà a trovare l'arma: come se le due porte chiuse dall'interno, le mani sporche di sangue, il precedente della forbiciata al professore d'improvviso non avessero più alcuna importanza. «Domani. Vai tu a trovarla. Io posso rimanere qui.» Nessuna risposta. Provare a parlare d'altro? «Ho visto le foto della regata.» «Maledetta regata. Non l'avessi fatta, adesso sarei qui con Aurora e ci goderemmo le nostre tre settimane.» Non era quello l'argomento giusto per distrarlo. Mi sentii impacciata. «... che poi non avevo neanche voglia di andarci. È stato solo perché se rinunciavo io doveva rinunciare anche l'altro.., quello là... vatti a ricordare come si chiamava... Lorenzo, no... Livia.. non ricordo.» «Coraggio.» Giorni felici, con tanti amici, è sempre allegro, chi passa i suoi giorni con noi. Al Calypso club. Notti di sogno, ne avevo bisogno, se cerchi l'amore lo trovi da noi. Al Calypso club. Verso le quattro e mezza del pomeriggio, l'allegra banda dei giochi, che fino ad allora doveva aver imperversato intorno alla piscina, si trasferì in spiaggia. La strana coppia, quello con gli occhiali giganti e quello travestito da donna formosa, proponeva ora una gara musicale in stile anni Cinquanta: due squadre disposte su altrettante file, un animatore che reggeva un foulard a una ventina di metri di distanza, partiva la musica e partivano i due concorrenti; il primo che afferrava il foulard poteva fornire il titolo della canzone. Originale. Più in là, un ragazzotto con i capelli tinti color pannocchia litigava con la sua fidanzatina, una che avevo già notato al ristorante assieme alle sue amiche esili di vita e probabilmente anche di cervello. Poco oltre, un gruppetto di cinquantenni del Nordest stava animando una discussione sul tema: tutti bravi e gentili i tunisini finché restano qui, a casa loro. È perché qui le leggi ci sono e le fanno rispettare, non come da noi. Da noi arrivano solo i delinquenti: chi ha davvero voglia di lavorare il lavoro lo trova anche qui. Difficilissimo continuare a discutere dandosi sempre ragione, ma loro ci stavano riuscendo alla grande. Marco chiuse il libro e io mi allarmai: «Vuoi partecipare al rubabandiera musicale?». Non capì, non si era neppure reso conto di quello che stava capitando. «No, è che sono arrivato al punto in cui la protagonista vede annegare il figlio e non riesce a reagire per via del suo stato catatonico.» «Ti ha ricordato Aurora?» «Sì, Aurora e Althusser. Solo che in Follia, l'alterazione mentale determina una mancanza di azione, mentre nei due che hanno ucciso, implica un'azione.» «Non c'è una sostanziale differenza: l'inazione di fronte a una situazione estrema è una sorta di
azione. È come se qualcosa dentro di lei desiderasse lasciar morire il figlio, e lasciar morire è un altro modo di uccidere.» «In ogni caso c'è affinità tra le varie storie.» «Direi proprio di si.» Si avvicinò una delle tante giovincelle in maglietta gialla e pantaloncini blu: «Volete venire a giocare a beachvolley? Abbiamo bisogno di due persone». Era in arrivo un'altra scusa, una nuova, fantomatica malattia. Invece... «Si gioca in due o in tre?» «No, facciamo squadre da sei, come nella pallavolo normale, solo che il campo è di sabbia.» «Per me va bene. E tu Anna?» Sbalorditivo. L'orso delle montagne era sceso a valle. «Perfetto.» Ci presentarono i nostri compagni di squadra: una coppia di quasi coetanei e due muscolosi abbronzati che avrebbero potuto essere nostri figli e che avevano dipinto in faccia il disappunto di dover giocare con delle schiappe evidenti come noi. Il riscaldamento iniziò non con la palla, ma con una serie di convenevoli d'uso: non contate troppo su di me, io sono arrugginito, ma sapete da quanti anni non gioco, io sono qui solo per fare numero. Passata una certa età, quel mettere le mani avanti era il corrispettivo della haka propiziatoria dei guerrieri maori e naturalmente i due giovani si guardarono bene dal partecipare alla danza della modestia. Fu forse per quello che ci mettemmo tanto impegno: era una lotta tra la nuova e la vecchia generazione. Su dodici battute in salto dei due ragazzini, sette andarono in rete e due fuori, mentre le battute a bilanciere di Marco, che all'inizio avevano suscitato l'ilarità degli under quaranta, arrivavano come fucilate nell'altro campo. Vincemmo, sugli avversari e sui compagni di squadra: sudati, ridicoli, sporchi, con la sabbia fin nelle orecchie, ma vittoriosi. «Mi ci vuole una doccia.» «Spiaggia o camera?» «Camera.» Raccolte le nostre cose ci dirigemmo verso la stanza. Marco sapeva perché avevo scelto la camera, non ci fu bisogno di dirglielo. Ripetemmo il nostro rito. L'acqua tiepida, la sabbia che si staccava e la consistenza del suo corpo da sentire non solo con le mani, ma con le natiche, con i seni, con la schiena, con il ventre. Il suo corpo proporzionato e asciutto, da guardare a occhi chiusi, da assorbire attraverso la pelle. Avevo ancora i capelli bagnati quando squillò il telefono. «Sì... glielo passo subito.» Poi rivolta a Marco: «È per te». Prese la cornetta con aria indispettita, senza sapere neppure chi fosse: gli bastava il presagio. «Ma no... Non sono gravi però... Non potete chiedere a Casiraghi?... Non siete riusciti a
trovarlo?... Non c'è altra soluzione... Ho capito, adesso vedo cosa posso fare... Ci sentiamo tra un paio d'ore.» Aveva quasi le lacrime agli occhi. «Devo rientrare in ospedale.» «Cos'è successo.» «Albino e Dalia, i due colleghi che sono di turno in questo periodo, hanno avuto un incidente d'auto e sono tutti e due ricoverati da noi in ortopedia. Serve un sostituto.» «E non c'è nessun altro?» «Hanno già provato a chiamare Casiraghi, ma quello se n'è andato a fare alpinismo in Cile e non è rintracciabile in nessun modo.» Non volevo crederci. «Due colleghi fuori combattimento in una volta sola. Ci vuole una bella sfiga.» «Pare che un camion non si sia fermato allo stop.» «E loro viaggiavano sulla stessa macchina?» «Sì; in realtà sono...» «Amanti?» «Qualcosa più che amanti.» «Non me lo hai mai detto.» «Non vogliono che si sappia in giro e così ne parlo il meno possibile per evitare di fare gaffe. Magari questa volta si decideranno a ufficializzare la cosa.» Una coppia clandestina, come me e Marco fino a poco tempo prima. Da quanti anni durava? Cinque? Dieci? In fondo, per noi il nascondersi era stato anche un gioco, ma per loro? Chissà che non avesse ragione Marco, chissà che quell'incidente non fosse capitato a proposito. Peccato che la fine della loro clandestinità dovesse coincidere anche con la fine della nostra prima vera vacanza. Marco mi strinse e rimanemmo a lungo abbracciati. Non eravamo più due ragazzini e nella vita avevamo affrontato avversità più grandi, ma la delusione bruciava comunque: non si è mai abbastanza adulti per non patire quando ci rubano qualcosa a cui abbiamo appena preso gusto. «Vado alla reception per vedere se mi trovano un volo su Milano.» «A dopo... aspetta... ti ho bagnato la polo, sulla spalla.» «Non importa, asciuga subito.» Chiamai la signora Melzi, per darle le notizie che non c'erano e per dirle quello che sapeva già: «Allora, è stata come quella volta a scuola con il suo professore?». «Più o meno. Un appannamento della ragione.»
Rientrando, Marco mi trovò nel giardinetto: ero lì a stendere i costumi e sentendo la porta che si chiudeva mi girai di scatto. Niente voli disponibili, alta stagione, tutto occupato, rientro possibile non prima di una settimana. Ma era solo la mia fantasia. «Parto domani mattina, alle undici. C'era posto su un charter di un altro tour operator. La tua amica Elisabetta mi ha detto che a volte si scambiano i favori così.» «Non è una mia amica, e adesso lo è ancora meno.» Mi lasciai cadere su una sedia. Sapevo che era ingiusto, sapevo che dovevo pensare ad Aurora, chiusa nella sua camera d'ospedale, imprigionata nelle trappole della sua mente. Ma quella sensazione di vuoto era un mio diritto.
Martedì 31 luglio 2007 Marco se n'era andato. Il taxi era partito e, come in un film, io lo avevo guardato fino a che non si era perso. Senza sentirmi ridicola. Colazione al «nostro» tavolo, che adesso era il «mio». Qualche parola con il «mio» cameriere e poi piscina, sdraiata sul lettino a chiedermi perché ero rimasta. La sera prima, con la signora Melzi avevamo stabilito che mi sarei fermata fino a che Aurora non fosse uscita dall'ospedale, ma quello della dimissione era un traguardo insignificante. Che senso aveva stabilire di andarsene proprio nel momento peggiore? Aurora avrebbe lasciato l'ospedale solo per entrare nel carcere femminile di Tunisi e lì sarebbe cominciato l'incubo; il suicidio che per ora sembrava scongiurato, sarebbe stato in agguato ogni giorno, ogni ora. Ma in fondo, per Aurora il suicidio era sempre in agguato, la calma del giorno prima era solo apparente. Il senso del mio restare era tutto lì, in quell'ondeggiare continuo dell'umore di Aurora. Quando lei fosse stata rinchiusa in galera non avrei più potuto fare nulla, ma finché era al policlinico El Yasmine, io dovevo essere a disposizione. Tutto qui. Nessuno mi chiedeva miracoli e io non dovevo pretenderli da me stessa. Due bracciate in piscina, giusto per rinfrescarmi. Feci un paio di vasche e provai a buttare lì una scommessa con me stessa: ero in grado di farmela tutta sott'acqua? Cacciai nei polmoni tutta l'aria che ci stava e partii per la mia stupida impresa. Sì, ero in grado. Però che fatica! Mi appesi al bordo, lasciando emergere solo la testa e rallentai gradualmente il ritmo del respiro. Lì sopra, a meno di mezzo metro da me, c'era il ragazzo dai capelli color pannocchia che il giorno prima litigava con la fidanzata. Era con altri della sua categoria, tutti maschi e tutti con gli occhi puntati verso la piscina dei bambini, dove sei o sette mamme stavano facendo sguazzare i più piccoli. «Ahò, ma nun te dice gnente quella cavallona cor costume bianco?» «A me no.» «Ma che, sei frocio? C'ha du' zinne che je se sfonna er reggiseno! Io, per me, me la ingropperei anche subito.» «E se vede che te piacciono le vecchie. Quella c'avrà armeno trentott'anni, pe' nun di' quaranta.» «Guarda che quella c'ha esperienza. E poi pò esse pure che a 'na certa età er marito nun ce la fa più a soddisfalla.» «C'hai ragione. Quella si te se pija in un angolo buio è capace che te dice: si te lo prenno nun te lo renno!» E giù una bella risata collettiva. «Che ve devo di', ragà: a me la quarantenne m'attizza.» «Son tutte belle le mamme del mondo...»
Erano penosi, ma mi faceva ridere il modo in cui osservavano le donne della mia età: come animali d'una specie diversa. Percorsi in diagonale metà della piscina e me ne tornai al mio posto. Adesso, come sempre era capitato nella mia vita, avevo un libro a farmi compagnia. Un vecchio libro, comprato su una bancarella, un acquisto casuale per un autore che non conoscevo: John Cheever, Addio, fratello mio. «Gradisce qualcosa da bere?» Il cameriere mi era arrivato alle spalle silenziosamente e la sua voce mi aveva strappato alle atmosfere newyorkesi dei miei racconti. «Sì, grazie. Un'aranciata per favore.» Strano, non avevo mai visto fare servizio ai tavoli in piscina. Di tanto in tanto passavano a ritirare i piattini e i bicchieri sporchi, niente di più. Seguii il cameriere mentre si allontanava e lo seguii ancora durante il percorso di ritorno dal bar. Non aveva raccolto ordinazioni da nessun altro e sul suo vassoio c'era soltanto il mio bicchiere. «Ecco signora.» «Grazie mille.» «Mi permette una domanda signora?» «Dica pure.» «È lei che si sta occupando della morte di Jonathan?» La notizia aveva fatto in fretta a diventare di pubblico dominio. «Io sono un'amica di famiglia della ragazza che era con lui. Sto solo cercando di capire perché lo ha fatto.» «Forse io so qualcosa che può interessarla, però adesso non posso parlare. A mezzogiorno faccio una pausa di mezzora. Se vuole ci vediamo alla spiaggia pubblica.» «Davanti all'albergo abbandonato?» «No. Meglio cento metri dopo.» «Alle dodici e quindici?» «Benissimo.» Lasciò il vassoio sul mio tavolino e se ne andò, non al bar, ma lungo il vialetto che aggirava l'edificio centrale e si inoltrava verso una zona che i cartelli definivano «di servizio». Mi guardai intorno. Camerieri che portassero le consumazioni ai tavoli non ce n'erano. Ma era davvero un cameriere l'uomo che mi aveva dato appuntamento sulla spiaggia? Di solito ti parlavano in italiano, lui invece si era rivolto a me in francese. All'inizio non lo avevo notato, ma ripensandoci dovevo ammettere c'era qualcosa di poco chiaro. Poteva essere un addetto alla manutenzione. Poteva essere chiunque: meglio non dimenticarlo. E naturalmente la sorte
aveva voluto che la prima situazione pericolosa si presentasse a neanche due ore dalla partenza di Marco. Dagli altoparlanti fissati su tutti i lampioni uscì una voce di donna che lacerò l'aria: «Sono le undici meno cinque. Alle undici esatte, tutti nell'area ginnica a fianco della piscina per il risveglio muscolare». Tentai di riprendere la lettura, ma non riuscivo a concentrarmi. Continuavo ad alzare gli occhi dal libro e a scrutare tutti quelli che passavano: i bagnini, gli animatori, gli inservienti, i turisti. Sentivo salire la tensione. La bimbetta e la mamma single mi passarono davanti e mi salutarono, entrambe. Ricambiai, un po' distrattamente. A mezzogiorno indossai il mio pareo rosso e cominciai ad avvicinarmi al luogo concordato. Come al solito, la brezza mitigava il caldo del sole e la temperatura era piacevole. Eppure mi muovevo con fatica. A ogni passo mi dicevo che non lo dovevo fare. A ogni passo ricordavo vecchie esperienze, situazioni in cui non avrei più voluto ritrovarmi. Controllai che il telefonino ricevesse un buon segnale e che il numero del villaggio fosse memorizzato e in testa alla lista. E per farmi coraggio ricordai a me stessa che finalmente ero armata, che nello zainetto avevo una bomboletta di gas urticante comprata in Francia qualche tempo prima. Non mi chiesi come avrei usato il mio spray se da una duna fossero spuntati quattro violentatori: l'utilità della bomboletta era puramente psicologica, a pensarci troppo svaniva. Mezzogiorno. L'ora in cui la gente cominciava a ritirarsi dalla spiaggia. L'aveva pensata bene il falso cameriere. In mare qualche windsurf incrociava al largo, troppo lontano per portare aiuto. Oltrepassai la staccionata e cercai di non prestare troppa attenzione allo scheletro dell'hotel. Anche lì avrebbe potuto nascondersi chiunque avesse voluto farmi del male. Neanche bisogno di seppellirlo il mio cadavere, bastava trascinarlo dentro quel sarcofago di cemento e chiuderlo in qualche stanzino. Senza incontrare anima viva, mi lasciai alle spalle anche l'hotel e continuai a camminare. In lontananza vedevo un ombrellone giallo e dei bambini che correvano: mi avrebbero sentita gridare? «Sono qui, signora.» La voce non era vicinissima e veniva da dietro. Mi voltai di scatto. Come poteva essere alle mie spalle? Era spuntato dal nulla, silenzioso come prima, vicino alla piscina. Controllai meglio e mi convinsi della presenza di un sentierino appena accennato sulla sabbia che portava verso la strada: sicuramente era passato di lì. Ero ferma a dieci metri da lui. Mi tolsi lo zainetto dalle spalle, lo aprii, lo strinsi al petto e ci infilai una mano dentro. Ero sicuramente goffa e ridicola, ma non m'importava. Provai a ridurre le distanze, acuendo i sensi per cercare di avvertire il pericolo. Due metri. Non di meno. «Grazie di essere venuta. Al villaggio non vogliono che parliamo con i clienti. Solo i camerieri possono farlo, ma noi della manutenzione no. Io mi chiamo Omar.» Sarebbe stato giusto porgergli la mano, ma non lo feci, mi limitai a dirgli il mio nome.
«Lei ha delle informazioni sulla morte di Johnny?» «No, però l'anno scorso un mio amico è stato licenziato perché aveva scoperto qualcosa su di lui. Lo ha detto alla direzione e loro l'hanno mandato via.» «Cosa aveva scoperto?» «Non lo so, non ha voluto rivelarmelo. Mi ha detto che se poi lo sapevo andava a finire che ne parlavo con qualcuno, che ne parlava con qualcun altro e alla fine licenziavano anche me. E per questo che le ho chiesto di incontrarci di nascosto: se mi vedono con lei mi buttano fuori.» «Ma basta così poco per essere licenziati qui?» «Basta niente. Ti sbattono fuori anche se non hai nessuna colpa. Come Karima: la sua sola colpa è stata quella di aprire la porta della camera dove c'era Jonathan.» «Vuoi dire che la donna che ha salvato la vita ad Aurora è stata licenziata?» «Prima le hanno detto di non parlarne con nessuno e poi di non venire più, almeno fino a ottobre.» C'era qualcosa di eccessivo in questo scrupolo per la riservatezza, qualcosa di sospetto. «Dove posso trovare Karima?» «È mia cugina, se vuole questa sera, quando finisco di lavorare, la accompagno: sta in un villaggio a metà strada tra qui e Midoun.» «Anche il suo amico abita lì?» «No, lui adesso sta lontano, quasi al confine con la Libia. Vende benzina. Io ho provato a telefonargli negli ultimi mesi, ma il numero di portatile che mi aveva lasciato non funziona più.» «Allora non c'è modo di mettersi in contatto con lui.» «Se gli vuole parlare può andare a cercarlo. Io so il nome del paese dove stava l'ultima volta che l'ho sentito. E un piccolo paese, se è ancora li lo trova sicuro.» Il confine libico: suonava minaccioso, misterioso. Echi di battaglie coloniali, voci di terrorismo, roba da servizi segreti. Non ero pronta a imbarcarmi per l'impresa di Libia: avrei cercato Karima, poi... «Come andiamo da sua cugina?» «Io esco alle quattro e mi faccio trovare davanti al casinò, lei può affittare uno scooter al noleggio che c'è sulla strada principale, prima della deviazione per il Club Med: da qui saranno cinque minuti a piedi.» «Non è meglio se prendo un taxi?» «No, la prego. I taxi appartengono tutti a una stessa compagnia e il padrone è amico di tutti i direttori di villaggio: gli autisti devono fare ogni sera una relazione dei viaggi effettuati. Se lei si fa portare da loro, il giorno dopo Karima è licenziata per sempre, e non troverà più lavoro in nessun albergo dell'isola.» Rimasi in sospeso. Se avesse voluto uccidermi, stuprarmi o rapirmi avrebbe potuto farlo in quel
momento, sulla spiaggia deserta: perché mettere in scena la commedia dello scooter? Forse per investirmi lungo la strada e farlo sembrare un incidente. Lo fissai: quel ragazzo occhialuto, magro, impacciato mi dava fiducia. «Allora alle quattro e un quarto davanti al casinò.» «Grazie, grazie infinite signora.» E sparì lungo il sentierino. Perché mi ringraziava? In fondo era lui che stava facendo un favore a me. Ora potevo togliere la mano dallo zainetto e caricarmelo sulle spalle: la bomboletta, che avevo stretto spasmodicamente per tutto il tempo, non era servita. Facendo i primi passi sentii sciogliersi i muscoli irrigiditi dalla tensione. Anche l'ansia andò via, ma il suo fu un viaggio di andata e ritorno, rapidissimo. Non avevo nessun motivo per stare tranquilla. La mia scelta di seguirlo si basava solo sulla fiducia immediata, su un'intuizione, su una fragile simpatia. Eppure non c'erano metodi più scientifici per dispensare fiducia: la fiducia è un azzardo di cui non possiamo fare a meno. Anche lui si era fidato di me. Perché? Perché non aveva altra scelta. Mi aveva ringraziato e il motivo c'era: voleva che scoperchiassi il pentolone. In quell'oasi per turisti c'era qualcosa che avvelenava l'acqua, c'era un clima pesante e lui si era affidato a me per far cambiare le cose. Pensieri positivi, da manuale di autostima, riflessioni per polli che vorrebbero diventare aquile. La cronaca era piena di polli che finivano sullo spiedo pur credendosi aquile. Già immaginavo i commenti alla notizia del mio omicidio: «Santa donna, ma come fai a fidarti di un tunisino mai visto né conosciuto... questo si chiama andarsele a cercare... e non era una bambina, intendiamoci, aveva i suoi bei quarant'anni... sì, bisogna ammettere che è stata un po' ingenua... cretina, signora mia, dica pure cretina che è la parola giusta...». Potevo rinunciare, ero ancora in tempo, ma tutto si sarebbe fermato: avrei salutato Aurora che veniva caricata sul furgone cellulare e sarei tornata dalla signora Melzi senza nulla da dirle. No, non rinunciavo: anche se il film si intitola Non aprite quella porta, ci vuole sempre qualcuno che giri la maniglia, altrimenti... Quando una coppia, una famiglia, un gruppo, una comitiva mangiano al ristorante, nessuno si interroga sul motivo: è semplicemente normale. Quando al tavolo c'è una persona sola, il fatto diviene sospetto, meritevole di approfondimenti, specie se la persona sola è una donna. No, certo non a pranzo in una tavola calda cittadina: il lavoro, l'orario continuato, tutto si spiega. È la sera che la donna sola al ristorante comincia a essere un problema. Sta aspettando qualcuno che non arriverà? È stata lasciata? Chi è? Un'impiegata fuori sede? Una docente impegnata in un concorso? Una professoressa agli esami di maturità? L'idea che la donna stia cenando per il gusto di farlo sfiora la mente di pochi. Se poi il ristorante è quello di un villaggio turistico che sul catalogo, alla voce «Attività per single» presenta una sola stella contro le cinque stelle delle «Attività per famiglie», anche il pranzo solitario diventa motivo di curiosità. Così, per non pranzare sola, portai con me John Cheever e cercai di alternare bocconi e pagine. Ma né le spezie della cucina araba, né le atmosfere americane del mio libro riuscivano a portarmi lontano da un pensiero costante: cosa conteneva il pentolone che dovevo scoperchiare? L'uomo del confine libico serbava un segreto che riguardava Johnny, dunque
l'ingrediente principale del miscuglio che ribolliva nel pentolone non poteva essere che lui, l'istruttore di surf. Mi risuonarono nella mente le parole di Elisabetta: «Se deve parlare con qualcuno faccia pure, ma le chiedo sempre di avvertirmi prima, specie se si tratta di personale tunisino». No, non l'avrei avvertita, non le avrei dato lo spunto per qualche altro licenziamento.
Il centro velico non chiudeva per pranzo. Mentre i vacanzieri si rimpinzavano al buffet, il «personale tunisino» riparava le barche, sistemava le boe e organizzava l'attività per il pomeriggio. Il «personale tunisino» si chiamava Fouad e, se non avessi avuto tutt'altro per la testa, mi avrebbe fatto venir voglia di seguire non uno, ma cento corsi di vela. Qualche presentazione, poi entrai nel vivo: «Eri amico di Johnny?». «Lo conoscevo bene.» Il suo italiano era praticamente senza accento e non usava le parole a caso. Per lui sarebbe stato più semplice rispondermi «Sì» oppure «No», invece aveva voluto rimarcare la differenza che intercorreva tra amicizia e conoscenza approfondita. È difficile che qualcuno si dichiari nemico di un morto ammazzato, anche quando, come in quel caso, il suo assassino è già stato individuato. Più facile fingere rammarico per la perdita; senza ostentazione, senza lacrime, solo con quel tanto di compunzione che è garanzia di dolore. Fouad però non scelse né la strada difficile, né quella facile, come se il morto fosse stata una di quelle persone di rispetto di cui non si può parlare male, ma a cui non è prudente tributare omaggio. «Lavoravate spesso insieme?» «No, lui si occupava solo dei windsurf e io bado solo ai catamarani: qui al villaggio sono due mondi separati.» «Tu lo avevi mai visto assieme alla ragazza che lo ha ucciso?» «Lui scherzava un po' con tutte, ma se mi chiedi se li ho visti da soli ti rispondo di no. La ragazza è venuta qui un paio di volte con il fidanzato, non si staccava mai da lui. La sola volta che non li ho visti insieme è stato lunedì scorso, quando lei si è fatta fare le foto da Chadi. Lui ha insistito perché si sdraiasse sulle barche a riva, così me le hanno sporcate tutte di sabbia e a me è toccato pulirle, proprio di lunedì che non c'è neanche il mio collega.» «Quindi anche Aurora ha posato davanti all'obiettivo come una diva hollywoodiana?» «Sì, ma almeno lei poteva permetterselo...» Nei suoi occhi si era acceso un lampo di ironia. Muscoli, ironia e intelligenza. Ma poi fu colto dal dubbio di essere stato indelicato: magari anch'io mi ero fatta ritrarre languidamente distesa sul bagnasciuga. «... e non è la sola!» Anche quel po' di goffaggine che non guastava.
«Il giorno in cui è stato ucciso, Jonathan si è fatto vedere qui al centro velico?» «Io non l'ho incontrato, ma quel giorno c'era la regata, quindi ero in mare.» «Già, la regata! Il fidanzato di Aurora non si dà pace, dice che lui non voleva neanche farla, che è stato il suo compagno di equipaggio a insistere.» «Sì, è proprio andata così.» «Che tipo era il compagno?» «Misterioso. Arrivava alla lezione teorica, si sedeva in fondo e non parlava con nessuno. E poi mi sembrava strano, perché in un paio di occasioni ha avuto una prontezza che non è da principiante.» «Cioè?» «Per esempio, il secondo giorno di corso era lui al timone, si è trovato davanti all'improvviso un bambino con la canoa e invece di andare nel pallone, o di orzare a casaccio ha strambato ed è tornato indietro.» Magnifico: una strambata. Non sapevo assolutamente cosa significasse, ma per la prima volta una strambata incrociava il cammino della mia esistenza. «Un altro giorno l'ho visto liberare una camma...» Sul mio volto doveva esserci una smorfia perché lui tagliò corto. «... insomma, non una manovra difficile, però fatta bene, senza indecisioni. Di solito i principianti si incasinano a ogni difficoltà.» Io mi incasinavo solo a sentirne parlare. L'unica cosa che mi venne in mente di domandare fu il nome di questo finto principiante. «Un attimo, vado a prendere il quaderno della scorsa settimana.» Sparì sotto la tettoia e tornò con l'informazione che gli avevo chiesto: «Si chiama Libero Liberati». Il nome non mi diceva nulla, se non il fatto che il sadismo onomastico dei genitori non conosceva limiti. Avevo esaurito gli argomenti. Lo salutai e tornai in camera per telefonare a Marco. Sullo scrittoio dove lo avevo lasciato, il mio telefonino messaggio: «Arrivato tutto bene telefono quasi scarico. Baci M.».
lampeggiava.
Lessi
il
Composi il suo numero. «... informazione gratuita, il cliente desiderato non è al momento raggiungibile, vi preghiamo di riprovare più tardi.» Si era scaricato del tutto. Lui era uno di quelli che sembrano ignorare che le batterie dopo un po' si esauriscono, di quelli che paiono sorprendersi se, dopo una settimana di mancate ricariche, il cellulare li abbandona.
Mi distesi sul letto: volevo calmarmi, magari dormire un po'. Puntai la sveglia alle quattro e venti. Le quattro e venti. Zittii la suoneria e premetti il tasto di ripetizione dell'ultima chiamata. «... informazione gratuita, il cliente desiderato non è al momento raggiungibile, vi preghiamo di riprovare più tardi.» E io non potevo riprovare più tardi: «più tardi» poteva voler dire «troppo tardi». L'unica risorsa era l'email. Da:
[email protected] A:
[email protected] Oggetto: ancora di salvezza. Ciao amore. Questa mattina un certo Omar mi ha avvicinata e mi ha detto che un suo amico ha delle informazioni su Jonathan. In più Omar è il cugino della donna delle pulizie che ha dato l'allarme. Secondo me c'è qualcosa sotto. Oggi pomeriggio noleggio uno scooter e vado con lui fino al paese dove vive la donna, vicino a Midoun. Questo è tutto quello che so dirti. Scusami la confusione, forse non si capirà niente, ma sono molto agitata. Chiamami appena puoi. Anna Infilai i miei vecchi jeans. Sopra ci misi una Tshirt blu, senza scritte, come piacevano a me. Scarpe da ginnastica bianche. Tentennai e risentii le chiacchiere in Piazza Vecchia: «Santa donna... un tunisino mai visto né conosciuto... andarsele a cercare... cretina, signora mia, dica pure cretina». Ma dovevo girare la maniglia.
Percorsa a piedi, la strada sembrava diversa. Non era strada per pedoni quella. Non aveva marciapiedi, né spazi protetti. E se non si era nel chiuso di un'auto con l'aria condizionata si respirava polvere e poi ancora polvere. Dieci minuti lunghissimi. All'incrocio con la deviazione per il Club Med c'era una costruzione bassa, con i ferri del cemento armato che spuntavano all'altezza del tetto in attesa di future soprelevazioni. Un negozio di alimentari, un telefono pubblico con quattro cabine e un ufficio angusto dall'aria chiusa; nient'altro. Entrai nel negozio e chiesi una lattina di CocaCola. «E vorrei anche un'informazione: io stavo cercando un posto dove noleggiano gli scooter.» «È qui a fianco. L'ufficio.»
«Mi sembra chiuso.» Uscì con me e provò ad aprire la porta. Chiusa a chiave. «Habib ! Habib !» Da un gabbiotto in mattoni forati un po' discosto dalla costruzione principale, l'interpellato Habib fece sentire la sua voce senza che potessi capire le sue parole. «Viene subito.» «Grazie.» Si sentì lo scroscio di uno sciacquone e la porta metallica del gabbiotto si aprì mostrando un uomo grasso che si allacciava la cintura. Mi salutò e mi fece accomodare nell'ufficio che, visto da dentro, sembrava ancora più stretto: un corridoio di un metro e mezzo di larghezza, con le pareti d'un bianco sporco sulle quali erano appesi calendari di provenienza occidentale. «Vorrei affittare uno scooter per tre o quattro ore.» Se gli avessi chiesto di darmi un rene la sua faccia sarebbe stata meno sofferente. «Mi dispiace. Uno scooter è in noleggio per tutto il giorno e l'altro ha avuto un incidente: adesso è dal meccanico.» Due scooter, era quella l'intera dotazione del noleggio. «Se vuole» proseguì sistemandosi la camicia nei pantaloni, «posso darle un ciclomotore: è un po' che non viene usato, ma ha sempre funzionato benissimo.» «Va bene.» Mi portò in un cortiletto sul retro e mi mostrò un vecchio Motobecane che, sotto la polvere, sembrava azzurro. Lo raddrizzò sul cavalletto e con uno straccio raccolto a terra gli tolse la sabbia dalla sella e tentò di avviarlo mulinando le gambe sui pedali. Nessun segno di vita al di fuori di qualche piccolo scoppio. Svitò il tappo del serbatoio e mise il naso dentro: «È vuoto, dovrà pedalare fino al distributore, sono duecento metri, dietro la curva, in direzione di Midoun». La situazione non era neanche più spaventosa, era grottesca, ma non potevo rinunciare. Gli consegnai la mia carta d'identità, dieci dinari e partii. Mi sembrava di essere tornata indietro alla mia adolescenza, a quando di notte rimanevo a secco con il Ciao e non avevo in tasca neanche mille lire per il distributore automatico. Solo che a Torino, di notte, non faceva così caldo. In duecento metri avevo inzuppato completamente la mia maglietta blu. Quando superai la curva, vidi un altro basso fabbricato, più piccolo di quello di prima, ma nulla che assomigliasse a un distributore di benzina. Entrai anche qui in un negozio che vendeva frutta, verdura, bibite e merendine di marche che in Europa non si erano mai viste. Un negozio buio, stipato di roba. Oltre agli alimentari c'erano vanghe, bacinelle, scope, utensili e altri oggetti strani di cui mi sfuggiva la funzione. «Dovrei fare rifornimento, saprebbe indicarmi il distributore?»
L'uomo dietro al banco non comprese. Era un vecchio con gli occhiali spessi dalla montatura nera, di quelle che un tempo, in Italia, distribuiva la mutua. In testa portava un berretto bianco e bianchissimo era anche il camicione che indossava sotto il caftano grigio. Provai a ripetere la mia richiesta con voce più forte. Lui scosse di nuovo il capo: ci sentiva benissimo, ma non capiva il francese. «Benzina» gli dissi, «benzina per il motorino» e gli indicai il Motobecane che si intravvedeva attraverso la porta. «Ah, benzina!» ripeté lui. Si voltò verso gli scaffali che gli stavano alle spalle, spostò una cesta di plastica piena di pani rotondi e prese una tanica, anch'essa di plastica. La bottiglia, che aveva ancora appiccicata l'etichetta dell'acqua minerale, la raccolse da terra e ci infilò un imbuto e lì, tra il pane e le verdure, versò la benzina e aggiunse l'olio per fare la miscela. Pagai, riempii il serbatoio e presi a pedalare, con forza. Uno scatto, due, al terzo partì e, asciugato dall'aria, il sudore mi gelò la pelle. Omar era già là, fermo davanti al cancello del casinò, con un motorino identico al mio. «Grazie di essere venuta. Grazie davvero. Ha avuto qualche problema?» Gli indicai il mezzo sul quale viaggiavo. «Era tutto ciò che avevano.» «Non importa: nel posto dove dobbiamo andare è meglio questo di uno scooter.» Mio dio, com'era questo posto dove stavamo andando? Si mise davanti a fare strada e notai che guidava in modo strano, con ambedue le gambe da un lato, all'amazzone. Una svolta, poi un'altra, in incroci privi di indicazioni. Le auto erano rare, ma ci sfrecciavano a fianco come se non ci vedessero neppure, sollevando nubi di sabbia. Ai lati del nastro d'asfalto, si stendevano piantagioni di palme da datteri, per la maggior parte piccole, forse erano giovani, o forse erano palme nane; quasi non producevano ombra e il terreno sottostante era asciutto, arido: un'estensione del Sahara. In mezzo ai campi, in lontananza, si vedeva qualche casa bassa, isolata. A un certo punto, la mia guida mise fuori il braccio sinistro e imboccò una stradina sterrata. Lo imitai. Due case: mattoni di fango e tetto di paglia anch'essa impastata col fango. Finestre piccolissime, porte aperte e davanti a ogni porta due o tre bambini. Di adulti non se ne vedevano. Le superammo e la strada cominciò ad assomigliare a una trincea o al greto di un torrente in secca. Le sponde erano rilevate e sopra ci crescevano cespugli, agavi e fichi d'india, o cose del genere. Dove stavamo andando? Avrei giurato che il cellulare aveva perso il segnale già da un po'. Sopra la trincea avrebbe potuto nascondersi non uno, ma un esercito di stupratori o di assassini. Mentre guidavo facendo attenzione alle buche, rividi vecchie illustrazioni da libri per ragazzi, predoni del deserto con turbanti in testa e pugnali tra i denti, soldati col fez e la baionetta. Me li immaginai tutti pronti a balzarmi addosso: i predoni del gran deserto. Salgari. Sì, mi sembrava di essere in un libro di Salgari, lui, l'inventore di terre lontane, lui
suicida in una famiglia di suicidi e di pazzi. Le tracce della depressione e della follia mi inseguivano ovunque. Di tanto in tanto si vedevano altre case, un poco discoste. Ancora muri di fango, ancora grida di bambini, ma, altrove, anche apparenze più composte, strutture più solide, cemento, mattoni, pietra chiara. Davanti a una di quelle case che cercava di essere villa vidi parcheggiata una lunga berlina con targa francese: era il ritorno degli emigranti, la rivincita di quelli che, senza esagerare, ce l'avevano fatta. Il fondo della strada, prima compatto e scavato da lunghi solchi in cui la ruota rischiava a ogni momento di restare prigioniera, divenne improvvisamente liscio, uniforme, chiaro. Per qualche metro fu come passare, a piedi nudi, dalla ghiaia a una moquette a pelo lungo. Poi realizzai e fu il panico. La strada si era trasformata in una pista di sabbia. Il manubrio non opponeva più alcuna resistenza e i suoi movimenti non suggerivano nessun cambio di direzione al motorino: seguiva traiettorie autonome. Ondeggiai, sbandai. Destra, sinistra: inutile. Le ruote sprofondavano. E caddi, rovinosamente, io sotto e il ciclomotore sopra di me. «Non mi sono fatta niente, almeno non mi sembra.» «Mi dispiace, è colpa mia che non l'ho avvisata che iniziava la sabbia. Noi ci siamo talmente abituati che non ci facciamo più caso.» Mi guardai le braccia un po' preoccupata, ma di ferite non ce n'erano. Neppure uno strappo nei jeans: la sabbia stessa aveva attutito il colpo. L'unico dolore era alla caviglia, quella su cui si era piantato il pedale. Omar rimise diritto il motorino e mi invitò a salirci: «Ci siamo quasi, meno di un chilometro». Appena afferrai la manopola dell'acceleratore, mi accorsi che le mie mani tremavano, che tutto tremava. Ruotai il polso e diedi gas: un istante dopo io ero in piedi, a gambe divaricate, con il Motobecane di nuovo a terra. «Deve accelerare piano e proseguire senza cambiare mai ritmo, altrimenti la ruota dietro scava la buca e la fa cadere.» Ci provai, tenendo i piedi larghi, a pochi centimetri dal suolo. Sembrava di galleggiare, però si andava avanti. Dove non sapevo. Omar, di tanto in tanto, svoltava, imboccava una strada diversa ma del tutto simile a quella appena lasciata. Io ero priva di ogni riferimento, avevo perduto la cognizione dello spazio, ma oramai non riuscivo neanche più a preoccuparmi, ero intontita dallo spernacchiare del motore e dalle sue vibrazioni che risuonavano lungo tutta la mia malconcia colonna vertebrale. Ancora una biforcazione, e un viottolo che dopo un centinaio di metri si arrestava in uno spiazzo circondato da case. Bambini e galline razzolavano, sorvegliati da un paio di gatti sonnacchiosi. Pensai a Morgana: mi mancava. Da una porta, aperta come tutte le altre, due marmocchi di cinque o sei anni corsero fuori ad abbracciare Omar. La fiducia tornò a prendere il sopravvento, con la solita irrazionalità: anche i peggiori assassini erano teneri con le loro creature. Comunque fosse, mi fidavo. «Venga, la prego.»
Entrai nella casa da cui erano usciti i due bimbi, scuotendomi la polvere dei vestiti prima di varcare la soglia. Mi tolsi gli occhiali da sole e cercai di spalancare al massimo gli occhi per compensare il solito passaggio da fuori a dentro, dalla luce al buio. Il pavimento era di terra battuta e gli infissi delle due piccole finestre parlavano di antico, ma i mobili che riempivano quella cucina creavano un contrasto fastidioso. Il fango, la paglia, la terra erano segni di una povertà così remota da diventare caratteristica, al contrario, il tavolo e la dispensa in laminato, recuperate chissà dove, erano poveri e basta, senza aggettivi, senza abbellimenti. Nel momento in cui quel pensiero si stava strutturando, un altro lo raggiunse e lo sovrastò: ero un'ipocrita; la povertà dei muri, dei tetti e del suolo mi piaceva perché era folcloristica, perché solleticava il mio immaginario, l'altra invece mi disturbava perché non si accordava con la mia estetica da rivista di viaggi. Ma, pittoresca o meno, per chi la vive la povertà è una sola. Sedute al tavolo, due donne, una giovane e una vecchia, preparavano qualcosa che la mia pigrizia mentale classificò come couscous. «Karima» disse Omar, e quella fu l'unica parola che compresi del lungo discorso che lui le fece. Poi Karima si rivolse a me: «Mi chieda pure signora, Omar mi ha detto che lei è dalla nostra parte». Fiducia data e fiducia ricevuta. «Vorrei che lei mi dicesse quello che ha visto e sentito la mattina dell'omicidio.» «Io comincio le pulizie alle otto. Prima pulisco le scale e i corridoi e poi dalle nove inizio con le camere. Quel giorno, verso le otto e un quarto ho visto il signore della 312 uscire. Ci incrociavamo tutte le mattine e lui mi salutava sempre, anche quel giorno. Non ho fatto subito la sua stanza perché sapevo che la signora dormiva fino a tardi. Intorno alle dieci ho bussato e non ho sentito risposta, così sono entrata, ma c'era la catena. Allora stavo per chiudere perché quando c'è la catena vuol dire che i clienti sono dentro e non vogliono essere disturbati.» Fece un sorrisetto timido, abbassando gli occhi e sperando che io avessi capito quello che lei non osava dire. Continuò: «Ma poi ho sentito un lamento, un lamento strano, non di quelli che si fanno a letto. Sembrava qualcuno che piangeva, ma piano. E piangendo ripeteva sempre: ah, ah, ah. Ho chiamato, ma la signora non mi ha risposto. Solo ah, ah, ah, però più forte. Ho chiamato di nuovo. Niente. Così ho avvertito la vigilanza. È arrivata la guardia che sta sempre al cancello, con la direttrice e con un ragazzo che non conoscevo...». «Era Tarek» la interruppe Omar, «un mio collega della manutenzione.» «Lui ha tagliato la catena e abbiamo visto la signora con il coltello in mano. Jonathan morto e sangue da tutte le parti, soprattutto sulla signora.» Il resoconto era finito e combaciava con quello di Elisabetta e con quello della polizia. La mia escursione in motorino era servita solo a procurarmi un livido sulla caviglia. Possibile che Karima fosse stata allontanata solo perché testimone della scena? «Dopo» le chiesi, «la direttrice vi ha chiesto di mantenere il segreto su quello che avevate visto?» «Sì, ci ha fatto andare nel suo ufficio, me e il ragazzo, e ci ha detto di non parlare per nessun motivo, di dimenticare tutto. Solo che io uscendo ho detto una cosa al ragazzo, in arabo, ma la direttrice ha sentito e mi richiamata indietro e mi ha detto che ero sospesa dal lavoro. Io non sapevo che lei conosceva l'arabo.»
«Cos'è che l'ha fatta arrabbiare?» Si vergognò di nuovo e abbassò non solo lo sguardo, ma tutta la testa. La vecchia, che doveva essere sua madre, le passò la mano sulla nuca e Omar la incoraggiò. «Ho detto che Johnny aveva finalmente trovato una che lo aveva sistemato.» Dopo giorni di mezze parole, di allusioni, di frasi diplomatiche, finalmente veniva fuori quello che al villaggio davvero pensavano dell'americano. «Ma lui non era adorato dalle donne?» «Sì, tutte lo volevano, però poi se ne pentivano. Lui le trattava male. Prima era gentile, simpatico, ma poi le trattava male. Così si dice in giro, però due volte ho visto io stessa delle signore che uscivano dalla sua stanza arrabbiate.» Non mi ero sbagliata: a scatenare la furia di Aurora era stata qualche cattiveria pronunciata stupidamente da Jonathan. Se fossi riuscita a raccogliere un po' di testimonianze, un buon avvocato avrebbe potuto dimostrare che quello di Aurora era stato un momento di follia provocato da un atteggiamento di disprezzo. Certo non sarebbe stato facile convincere delle signore per bene a confessare davanti a una corte le umiliazioni subite dall'animatore con il quale erano state a letto mentre il marito giocava a tennis o nuotava in piscina. E poi come si fa? Si telefona a tutte le clienti degli ultimi tre anni chiedendo: scusi signora, lei si è per caso scopata l'istruttore di surf? Tentai un'altra via, non molto più facile: «Scusi la domanda, ma ci provava anche con voi?». «Noi ci prendeva in giro perché abbiamo solo la faccia scoperta. Ci diceva che voleva vedere quello che c'era sotto. Con qualcuna ha anche allungato le mani. Non con me però.» Per la prima volta da quando ero entrata feci caso alle sue forme. Era in carne; non solo formosa secondo il gusto arabo, proprio abbondante, eccessiva. Malgrado non dovesse avere più di venticinque anni, non c'era alcuna bellezza in lei, neanche la bellezza della gioventù, quella che svanisce in fretta. Sicuramente non era a Karima che Johnny aveva rivolto i suoi apprezzamenti, ma era certo che lei non era stata la sola a gioire per la sua morte: mariti, fratelli e padri di altre donne delle pulizie non avevano pianto. Mi era bastato scavare un po' sotto la superficie protettiva creata da Elisabetta per scoprire come Jonathan si muovesse dentro una nuvola di odio. Detestato da tutti, in una situazione da giallo classico in cui ognuno ha un buon motivo per uccidere. Solo che, sfortunatamente per Aurora, era stata lei a fare ciò che gli altri avevano soltanto desiderato: la sua momentanea follia le aveva dato il coraggio che a tutti era mancato. E ora ne pagava le conseguenze. «Ancora una domanda e poi la lascio tranquilla. Le è capitato altre volte di trovare la camera 312 chiusa con la catena?» «Sì, una volta.» «E prima aveva visto il signore che usciva?»
«Sì, lo avevo visto e lo avevo salutato.» Eppure Aurora aveva giurato di non averlo mai tradito Ermanno. E io le credevo. Chissà cos'era rimasto nella sua memoria di quella mattina chiusa dentro la stanza con la catena di sicurezza agganciata, quella mattina che preludeva a un'altra, ben più drammatica. «Bene. Credo di aver saputo tutto quello che mi serviva. Grazie infinite Karima.» «Pensa che potrò riavere il mio posto?» Mi chiesi quale legame ci fosse tra lo scoperchiare il pentolone e restituire il lavoro a quella ragazza e promisi ciò che non ero in grado di promettere, tanto costava poco. «Vuole fermarsi da noi a cena? Non c'è molto ma...» Avrei desiderato davvero cenare con loro, in quella cucina dai mobili bianchi che, sui bordi delle antine, lasciavano scorgere il truciolato di cui erano fatti; con Karima, con sua madre e con i bambini. Avrei rinunciato volentieri a «Salvatore il pizzaiolo» e a «Pasta in festa», ma dovevo restituire il motorino e non potevo certo pensare di rientrare al buio. Mi scusai, cercando di mostrare col volto quanto le fossi grata per quell'invito, per quella nuova fiducia. Uscito sullo spiazzo, Omar si chinò a raccogliere il bacio dei bambini. Il più piccolo gli sussurrò qualcosa a un orecchio e mi indicò col dito. L'uomo gli appoggiò la mano sulla schiena e lo spinse verso di me. Il bimbo trotterellò, mi prese la mano e disse: «Bisou!». Mi chinai e lui mi baciò sulla guancia per poi correre via tutto soddisfatto. Pensai alla mamma quarantenne che avevo visto al villaggio e alla sua bambina di neanche due anni, concepita poco prima che l'orologio biologico battesse i rintocchi fatali, e non fu un pensiero di testa, ma di pancia, un piccolo dolore, come un vuoto, una mancanza. Congedati i bambini Omar mi si avvicinò: «Ha scoperto qualcosa di utile?». «Credo di aver capito perché Aurora lo ha ucciso. A dire il vero lo avevo già intuito, ma le parole di Karima me lo hanno confermato: non erano in molti ad amare Jonathan.» «E pensa che non le servirebbe sapere perché il mio amico è stato licenziato?» L'uomo del confine libico era stato sbattuto fuori un anno prima, di sicuro non poteva dirmi nulla di decisivo sulla vicenda di Aurora; avrebbe potuto solamente confermarmi le ragioni di quell'odio diffuso verso l'americano. D'altro canto, Omar si era dimostrato affidabile. Al massimo avrei visto un po' di Tunisia autentica, senza villaggi turistici, animatori e serate berbere. «Certo, lei mi può accompagnare?» «No, mi dispiace; in questa stagione lavoriamo tutti i giorni, non c'è riposo e il viaggio fino al confine è lungo.» «Allora dovrò prendere un taxi.» «Non importa, tanto il mio amico è ormai bruciato: non tornerà mai più a lavorare negli
alberghi.» «Come faccio a rintracciarlo?» «Domani qualcuno le porterà in camera un foglio con tutte le istruzioni per trovarlo.» Cos'era? Un film di spionaggio? Me lo dissi silenziosamente e, d'un tratto, i fatti mi si presentarono in una luce differente. Chi era il morto? Un animatore, certo. Un dongiovanni, anche. Un ragazzone pieno di sé, possibile. A seconda di quale categoria si usava per definire Jonathan, cambiavano le prospettive. E se la categoria più corretta fosse stata «americano»? Johnny era un americano e qualcuno che abitava a un passo dalla Libia aveva un segreto da rivelarmi a proposito di quell'americano. Già, la Libia. Muammar Gheddafi. Gli americani. Il DC9 abbattuto a Ustica. Aerei libici contro forze statunitensi. Il missile vagante. Gli attentati. Johnny al servizio della Cia e Aurora una terrorista. Giorni e giorni di congetture buttate al vento. La nuova luce dava agli eventi un senso ancora più inquietante. Omar mise in moto il suo ciclomotore e altrettanto feci col mio. Com'era già accaduto all'andata, la preoccupazione di non cadere mi salvò dal bombardamento dei pensieri più cupi e, quando arrivammo alla strada asfaltata, la Cia, il Mossad, le frange estreme dell'ex Kgb e tutti i terroristi islamici erano ormai tornati a far parte di quel mondo che le persone normali credono di non dover mai visitare. All'incrocio, la mia guida si fermò: «Ecco» disse indicandomi un agglomerato di catapecchie che si scorgeva in lontananza, «io abito là». Ma intanto aveva già messo il Motobecane in direzione del Calypso, cioè nella direzione opposta rispetto a quella di casa sua. Calcolai che, tra andata e ritorno, la gentilezza di riaccompagnarmi gli sarebbe costata almeno un'ora. Un'ora di vita, per un uomo che lavorava tutto il giorno e tutti i giorni mi parve un prezzo eccessivo, tanto più che un po' di strada da sola, sul mio rumoroso trabiccolo, mi avrebbe fatto tornare indietro di qualche anno. «Ho memorizzato il percorso, credo di non avere problemi per arrivare al villaggio. Vada pure a casa.» «No, è meglio che l'accompagni.» «Le assicuro che ce la posso fare» ribadii piccata. Se fossi stato un uomo non si sarebbe preoccupato così. Alla fine lo convinsi. L’aria in faccia e tra i capelli, sensazioni che riaffioravano da quel primo scorcio di anni Ottanta, quando il casco non era ancora obbligatorio: la prima vera cotta, in seconda liceo; seduta dietro di lui sulla Vespa, aggrappata ai suoi fianchi, con tutta la rigidità del mio busto ortopedico. Era durata poco. Il nastro d'asfalto, le coltivazioni intorno, le palme nane, l'impressione della terra straniera. Come quella volta che avevo guidato da sola, per le strade di Praga, qualche mese dopo la
Rivoluzione di velluto, con l'aria di chi esplorava mondi lontani. Guidare era più che visitare, era far parte del posto. Al primo incrocio non ebbi esitazioni: all'andata avevamo lasciato una strada più stretta per immetterci in una più ampia, quindi presi quella stretta. Palme nane. Casupole in lontananza. Facevo fatica a tenere gli occhi aperti nella luce arancione delle sette. Niente auto in direzione opposta, al più qualche motorino, montato all'amazzone, chissà poi perché. E biciclette, tutte con una cassetta della frutta legata dietro la sella, a mo' di portapacchi. Una curva che non ricordavo, una casa con una pubblicità sbiadita della CocaCola, anche quella non la ricordavo. Certamente non ci avevo fatto caso. E altre case, a ridosso della strada, in fila. Un paese che prima non avevo notato. Possibile? Eppure non c'erano dubbi: incrocio, via larga, via stretta, diritto, poi altro incrocio. O forse no. Prima un bivio a ipsilon, poi l'incrocio. La stessa ostinazione che mi aveva fatto rinunciare alla guida di Omar mi impedì per un bel po' di ammettere che mi ero persa. Fu solo quando mi trovai nel dedalo di vicoli del paesino che accettai l'idea di aver sbagliato. Vicoli deserti, porte chiuse. Un'aria di spopolamento, di abbandono. Condotta dal chiasso delle loro voci, individuai un gruppo di bambini che giocavano, senza genitori. Mi indirizzai a quello che mi sembrava più grandicello: «Dove devo passare per andare al villaggio Calypso?». Rise, e i suoi amichetti risero con lui, mostrando i loro incisivi grandi e gialli. Semplificai la sintassi, nell'ingenua illusione che bastasse parlare come gli indiani nei western: «Villaggio Calypso, mare». Continuarono a ridere, forse di me, donna vestita da uomo, forse della situazione, forse del mio accento. Continuarono a ridere: una scena già vista, in altri film. Feci a tutti un sorriso e un gesto di saluto e per qualche metro i più svelti corsero dietro al motorino, poi li persi, svoltando alla cieca in una viuzza che non potevo escludere di aver già attraversato almeno un paio di volte. La percorsi fino in fondo, fino allo slargo che ne segnava la fine. E là trovai gli adulti. Erano una quarantina, tutti uomini, seduti davanti a un caffè che, visto da fuori, si componeva di un solo locale, angusto, buio. I loro bicchieri erano pieni di tè e di mandorle e ognuno stava su una sedia diversa da tutte le altre, come se ogni cliente fosse partito da casa con la propria sedia. Quando udirono lo scoppiettare del Motobecane si voltarono tutti insieme e capii in un istante come si sarebbe sentito un extraterrestre che fosse precipitato sulla Terra di domenica mattina in Piazza Vecchia, a Bergamo, proprio durante l'uscita dal Duomo. «Qualcuno sa dirmi qual è la strada per arrivare al villaggio Calypso?» lanciai lì a beneficio del miglior offerente. Ne seguì una concertazione di massa il cui risultato fu un itinerario sicuro e un deputato alla spiegazione, scelto probabilmente sulla base di criteri linguistici e di opportunità sociale, un uomo anziano, molto anziano, con una chierica di capelli bianchi che gli incorniciava il capo scurissimo. Si fece avanti e, disegnando nell'aria curve, rettilinei, rotonde e incroci, mi indicò
l'itinerario. Lo ringraziai, ringraziai tutti, di cuore. Sprofondati nella loro lentezza senza tempo, nel loro mondo che non concepiva neppure l'idea di «pari opportunità», avevano però avuto il riflesso di una cortesia ancestrale: affinché io non temessi, affinché non ci fosse nessun malinteso, ad avvicinarsi a me era stato il più vecchio, una sorta di san Giuseppe che, ormai raggiunta la pace dei sensi, poteva accostarsi alla Madonna. Arrivai al villaggio nell'ora delle docce e dei preparativi per la cena e se c'era una che aveva bisogno di una doccia, quella ero io. Sentivo la sabbia appiccicata alla pelle, in bocca, nelle orecchie, la sentivo in testa a incanutirmi i capelli rossi. Appena entrata in camera mi guardai allo specchio: sembravo un motociclista dei tempi eroici, di quelli con la faccia sporca e il segno degli occhiali. Una doccia, presto una doccia. Ma prima dovevo tranquillizzare Marco. Diedi un'occhiata al credito residuo sul mio cellulare: non era rassicurante, ma qualche chiamata mi era ancora concessa. Il suo telefonino squillò, segno che finalmente aveva incontrato un caricabatterie sul suo cammino. «Ciao amore.» «Ciao, tutto bene?» Tono formale. Aveva passato il periodo delle telefonate clandestine, chiuso in bagno, ma l'imbarazzo di fronte a sua moglie restava. «Sì. II cameriere si è rivelato affidabile e parlando con la donna delle pulizie ho avuto qualche conferma.» «Meno male, ero disperatamente preoccupato.» Ok, era uscito sul balcone, fuori dal raggio d'ascolto di Bianca. «Sono solo volata dal motorino.» «Tutta intera?» «Qualche livido, ma ti racconto tutto via mail che ho poco credito.» «Se vuoi, adesso installo Skype sul mio computer, così dopo chattiamo.» «Benissimo. Appuntamento alle undici in rete?» «Alle undici. Baci.» E finalmente fu la doccia, con molto sollievo e un po' di rimpianto per quelle mani che fino al giorno prima mi avevano accarezzato la schiena sotto l'acqua tiepida.
Al ristorante scorsi Ermanno al tavolo da solo, in fondo alla sala. Mi avvicinai con il piatto riempito al buffet e chiesi se potevo cenare al suo tavolo. «Certo, mi fa piacere. Almeno parlo con qualcuno.»
Ma poi rimase in silenzio quasi tutto il tempo, rispondendo alle mie domande con una pena infinita, trascinando lentamente ogni parola. «No, per Aurora nessuna novità. L'ho vista stamattina, continua a non ricordare il momento dell'omicidio.» Anche Althusser non era mai riuscito a ricordare l'evento, sebbene nessuno avesse mai realmente escluso che quella sua amnesia selettiva fosse tutt'altro che involontaria. E quello era un pensiero che, a intervalli regolari, tornava a farmi visita: mi stavo ingannando circa la buona fede di Aurora? Ermanno non mangiava. Il suo piatto era quasi pieno, ma lui non mangiava; di tanto in tanto metteva in bocca un boccone e lo masticava all'infinito. Come sulla spiaggia, i suoi occhi guardavano cose che non erano lì, il suo sguardo mi attraversava, attraversava le pareti e finiva chissà dove. «Ti va se domani ci andiamo insieme da Aurora? Se entriamo nello stesso momento non dovrebbero farci difficoltà.» Gli andava, o forse no. Non disse altro che un «sì», appena sussurrato, un respiro leggero che usciva dalle sue labbra. «Allora ci vediamo alle nove davanti all'ingresso?» Niente sussurri, solo un oscillare del capo. La nostra conversazione finì così. «Vado a dormire.» Si alzò e lasciò la sala con l'andatura meccanica degli operai di Metropolis a fine turno. Il mio orologio segnava le 20.55. Mancavano due ore al mio appuntamento virtuale con Marco. I cartelli nella hall, scritti col pennarello grosso, annunciavano che nell'anfiteatro l'équipe di animazione avrebbe messo in scena Pinocchio in musical. Optai per il pianobar e scoprii di non aver avuto un'idea originale, perché i tavolini erano tutti occupati: non ero l'unica a non amare il musical. Due cubetti di ghiaccio in fondo al bicchiere e sopra il liquido rossastro, profumato; il ragazzo dietro al banco mi porse la mia Cedratine e io andai a sedermi sul muretto che delimitava lo spazio del bar. Il repertorio del pianista mi fece pensare a un vecchio film con Louis De Funes che avevo visto da bambina con mio padre, la storia di un uomo che viene trovato tra i ghiacci del Polo Nord e che, una volta scongelato, torna comicamente alla vita dopo quasi un secolo di ibernazione. Lui, il pianista, dovevano averlo messo sotto ghiaccio alla fine degli anni Sessanta e risvegliato da poco: Sapore di sale, Tintarella di luna, I Vatussi, A Saint Tropez, Stessa spiaggia stesso mare, Con le pinne fucile ed occhiali... E il pubblico applaudiva. C'era chi quelle canzoni le aveva ascoltate infilando il 45 giri nel mangiadischi e chi le aveva sentite solo nel lettore mp3, ma tutti sembravano trasfigurati, tutti diventavano autentici ragazzi yeye. Non mi sarei sorpresa se all'improvviso fossero spuntate le 500 e le 600 e ci fossimo risvegliati tutti in Versilia. L'Italia del boom si replicava, perpetuava all'infinito quella sua unica stagione spensierata e la esportava in ogni tempo, in ogni luogo. E non so perché, ma mi venne in mente
l'orchestra del Titanic. Dicevano che l'orchestra del Titanic avesse suonato fino all'ultimo, in un'atmosfera di irreale serenità, mentre tutto intorno il mondo galleggiante della nave cadeva a pezzi. Intorno a noi, oltre i muri del villaggio, oltre la guardiola della sicurezza, c'era un mondo che cadeva a pezzi. C'erano le case di fango, i bambini senza futuro, c'era la cucina di Karima con il truciolato dei mobili che si sbriciolava, c'erano le sedie scompagnate del bar all'aperto, c'era un negozio dove si vendeva benzina assieme al pane. E c'era una ragazza, chiusa in una stanza d'ospedale, segregata nel vuoto di un ricordo mancante, assillata per sempre dall'impossibilità di recuperare il solo momento che davvero le aveva cambiato la vita. Il mondo cadeva a pezzi, non galleggiava più, ma l'orchestra del Titanic suonava le canzoni dei favolosi anni Sessanta. Mi ero sbagliata a proposito del musical: a detestarlo ero la sola, o quasi. Alle dieci meno un quarto, appena gli altoparlanti diedero l'annuncio che lo spettacolo stava per iniziare, la gente si trasferì in massa dal bar all'anfiteatro. Davanti al pianista rimanemmo in cinque e lui ricambiò la nostra fedeltà facendo uscire dal suo corpo il demone della canzonetta. Quelle che nascevano ora sotto il tocco delle sue dita erano note più tristi, più studiate: Gian Maria Testa, Sergio Cammariere, gli Avion Travel e poi un Leonard Cohen d'annata: Famous blue raincoat. It's four in the morning, the end of December I'm writing you now just to see if you're better New York is cold, but I like where I'm living There's music on Clinton Street all through the evening I hear that you're building your little house deep in the desert La sua voce adesso era calda, partecipe, ma a me risuonava in testa quella della Vanoni, con le stesse parole, ma tradotte in italiano e adattate a una donna: Le quattro di sera di fine dicembre Ti scrivo e non so se ci servirà a niente Milano é un po' fredda ma qui vivo bene Si fa musica all'Angolo quasi tutte le sere Mi dicono stai arredando la tua piccola casa In qualche deserto E che per il momento stai vivendo di poco O soltanto di quello Si, e Lucio, sai, Parla ogni tanto di te Di quella notte in cui tu Gli hai detto che eri sincera... Sei mai stata sincera?
Sei mai stata sincera? L'orchestra del Titanic suonava e io pensavo al naufragio di Aurora: era stata sincera? Ah, the last time we saw you you looked so much older Your famous blue raincoat was torn at the shoulder You'd been to the station to meet every train And you came home without Lili Marlene Il pianista ora mi guardava fisso. Avevo cantato ad alta voce? Ero certa di no. Però quella musica mi assorbiva, la sentivo mia, fin troppo. Hai trattato il mio uomo come un fiocco di neve Che si scioglie da sé E un attimo dopo non era più un uomo Né per te né per me A scuola non ero mai riuscita a imparare le poesie a memoria, ma le canzoni mi rimanevano dentro. Un filo di malinconia, a suturare le ferite di vecchi tradimenti. And what can I tell you my brother, my killer What can I possibly say? I guess that I miss you, I guess I forgive you Nella versione italiana il perdono era più sicuro, sicuro come il mio, che avevo perdonato Stefano mille volte, fino a che avevo smesso. Che cosa altro dirti, sorella assassina Che cosa altro scriverti adesso non so Se non che mi manchi se non che ci manchi E certo alla fine ti perdonerò E se tornerai da 'ste parti Per lui o per noi Troverai una rivale che dorme E il suo uomo, se vuoi E grazie per la noia che gli hai tolto dagli occhi Io mi c'ero abituata e così Non mi ero neppure provata Tradire toglieva quel velo di noia che si depositava sulle storie di lunga durata? Ma tra Ermanno
e Aurora era iniziata da pochi mesi e lei già sentiva il bisogno di tradirlo. Per lei però la noia era qualcosa di diverso, era uno stato cronico, non un velo di polvere, ma un'incrostazione tenace che l'esaltazione sessuale dei momenti ipomaniacali rimuoveva solo in apparenza. Che cosa altro dirti, sorella assassina. Immaginai Bianca mentre, davanti a Marco, mi cantava queste parole. Chi avrebbe potuto cantarle ad Aurora? Jonathan apparteneva solo a se stesso, ma Elisabetta, la direttrice, esalava invidia da ogni poro mentre parlava delle avventure di Johnny: lo considerava il suo uomo? Era lei la rivale che dorme? And Jane came by with a lock of your hair She said that you gave it to her That night that you planned to go clear Sincerely, L. Cohen Applaudii, con entusiasmo, attirando l'attenzione degli ultimi due sopravvissuti a quell'onda anomala di tristezza canora, due quarantacinquenni, brizzolati e interessanti, incontestabilmente gay. L'animatore al pianoforte mi regalò ancora qualche pezzo, qualche frammento di emozione. Poi la serata si spense. Dall'anfiteatro giungevano musiche e risate; feci quattro passi intorno alla piscina. Le luci sul fondo coloravano l'acqua: forse sul Titanic non c'era la piscina, ma se ci fosse stata sarebbe stata come quella. Squillò il cellulare. Un trillo solo: è arrivato un messaggio. MARCO. «Computer capriccioso. Installazione non riuscita. Buonanotte amore mio.» Buonanotte al secchio.
Mercoledì 1° agosto 2007 La serata si era chiusa con un SMS di Marco e la mattina seguente si aprì con un altro messaggio di Marco, alle sette in punto: «Vorrei essere lì». Il numero uno nella hit parade degli amanti lontani. «E io avrei voluto continuare a dormire.» Sarebbe stata questa la mia risposta se avessi avuto voglia di prendere in mano il cellulare e di replicare. Ma non lo feci e tentai di riprendere sonno. Mi girai su un fianco, poi su un altro, occupai il letto in diagonale, mi rannicchiai, posizione fetale con le mani giunte e chiuse in mezzo alle cosce, supina... Niente. Tanto valeva alzarsi. Da giorni non leggevo una sola notizia; la massiccia importazione di italianità del villaggio non contemplava i giornali. Accesi il computer per vedere quello che era successo nel Belpaese durante la mia assenza, ma prima ancora di leggere i titoli, mi ricordai di una procedura che avevo seguito nel corso di ricerche precedenti e che in quel caso, chissà perché, avevo trascurato: cercare in internet i nomi delle persone coinvolte. Non so quanto ci sia di scientifico in quel procedimento; è come sparare nel mucchio e sperare di centrare il bersaglio: qualche volta funziona. In realtà c'è qualcosa di più, c'è la sicurezza che in rete esistono tracce della vita di ognuno: basta riuscire a trovarle. Naturalmente, se ti chiami Mario Rossi hai serie possibilità di confondere le tue tracce con quelle di tutti i tuoi omonimi, ma con Jonathan Caputo poteva essere più complicato. Andai su Google e digitai nome e cognome della vittima, racchiusi tra virgolette: in 0,27 secondi il sistema mi trovò 308.000 pagine che parlavano di qualcuno che si chiamava così. Aggiunsi qualche criterio di ricerca e individuai un paio di siti che parlavano proprio di lui e non di un Jonathan Caputo qualsiasi: uno di quelli era il sito del villaggio, l'altro un forum sul windsurf. Materiale di nessuna utilità. Con «Ermanno Mastrangeli», i risultati della ricerca furono più pertinenti: venni a sapere che effettivamente lavorava là dove mi aveva detto, che aveva sottoscritto una petizione per il rilascio di una donna nigeriana accusata di adulterio, che si era classificato al dodicesimo posto in una gara podistica non competitiva e un certo numero di altri particolari irrilevanti della sua vita tra cui il numero del suo telefono fisso. «Aurora Melzi» non mi diede risultati significativi. Puntai invece su «Libero Liberati», il compagno di regata di Ermanno, sperando che il cattivo gusto nell'abbinamento di nome e cognome non fosse poi così diffuso. Per restringere il campo della ricerca mi serviva qualche dato aggiuntivo, come un indirizzo o un incarico lavorativo. Verificai sul sito delle Pagine Bianche se fosse intestatario di un telefono. Lo era: strada dei Tornelli 9 a Giulianova, provincia di Teramo. Tornai a Google. «Libero Liberati» Giulianova Cerca
E fu una sorpresa. «Libero Liberati: abbonato alla vittoria. Il velista di Giulianova si aggiudica la quarta regata della stagione.» Così titolava in rete un paio d'anni prima «Il Tempo». Temei l'omonimia e cercai conferme altrove. Un paio di siti accompagnavano la notizia con una fotografia: non sono mai stata fisionomista, ma la somiglianza con le immagini che lo ritraevano accanto a Ermanno non mi lasciava dubbi. Cosa ci faceva un velista di primo piano a un corso per principianti assoluti? Fouad, l'istruttore di vela, aveva visto giusto: Libero Liberati era molto più esperto di quanto volesse far credere. Perché? Ancora l'azzardo del motore di ricerca per trovare una correlazione: «Libero Liberati» «Aurora Melzi» Cerca Pochi secondi e il sistema avrebbe dovuto trovarmi tutte le pagine che contenevano sia il nome e cognome di Aurora, sia quello del compagno di vela di Ermanno: non sarebbe stato come trovare le loro iniziali sulla corteccia di un albero, ma avrei potuto individuare quel punto misterioso in cui le loro vite si erano incrociate prima di ritrovarsi qui. Ammesso che quel punto ci fosse. I pochi secondi divennero un minuto. L'immagine sempre fissa. E di colpo la schermata grigia: INDIRIZZO NON TROVATO Firefox non riesce a contattare il server www.google.it. Verificare se l'indirizzo contiene errori di battitura del tipo: ww.example.com invece di www.example.com Se non è possibile caricare alcuna pagina, controllare la connessione di rete del computer. Seguii il suggerimento e guardai la lucina blu che indicava la presenza o meno di connessione: lampeggiava, il collegamento a internet era andato a farsi benedire. Non mi rimaneva che aspettare, magari il tempo di una passatina di rasoio sulle gambe. Vinta contro i peli superflui l'ennesima battaglia di una guerra persa in partenza, armeggiai di nuovo con tastiera e mouse alla ricerca della connessione smarrita: nulla da fare, la compagnia telefonica tunisina non era migliore di quelle italiane. Finii di vestirmi e andai a fare colazione. Alle nove esatte ero davanti all'ingresso del villaggio. Naturalmente Ermanno era arrivato prima di me, col suo zainetto a spalla, e aveva già contrattato con uno dei taxisti che d'abitudine attendevano lì. Partimmo alla volta di Houmt Souk e io resi subito Ermanno partecipe della mia scoperta: «Hai presente il tuo compagno di regata?». «Sì, perché?» «Non hai mai avuto l'impressione che non fosse un principiante?» «Di sicuro faceva le manovre meglio di me, ma ci vuole poco; io sono così imbranato!» Deformazione professionale: non potevo evitare di assegnare a certe parole i tratti specifici di un certo carattere e «imbranato», al posto di «negato» o di qualche altro termine più corrente, mi faceva pensare a una certa dolcezza, a quella tenerezza che Aurora trovava in lui.
«Non so se tu sia imbranato, ma Libero era a suo agio perché in realtà è un campione di vela, ammesso che si dica così.» Ermanno sgranò gli occhi. «E perché mai un campione dovrebbe iscriversi a un corso per principianti?» «Me lo sono chiesta, ma vedo che anche tu non riesci a spiegartelo.» Fece una smorfia, ripiegando le labbra all'interno, come se questo lo aiutasse a pensare. E in effetti, dopo qualche istante, se ne uscì con una congettura convincente: «Forse voleva solo stare in barca in compagnia senza mettere gli altri in imbarazzo. Magari, se si fosse saputo che lui era un velista affermato gli altri lo avrebbero evitato per paura che facesse tutto lui e non ci fosse spazio per imparare. Io almeno avrei pensato in quel modo». «Ma perché fare il corso?» «Per avere la barca al pomeriggio. A partire dalle tre puoi prenderti il catamarano per fare un po' di pratica, ma solo se al mattino hai seguito la lezione. Può darsi che fosse in crisi di astinenza.» Finalmente lo vidi sorridere; della sua stessa battuta, è vero, ma almeno aveva sorriso. E il quadro che aveva tracciato era perfettamente logico: conoscevo anch'io certe nostalgie, certe tentazioni cui è difficile resistere. Per Libero era la vela, per me lo sci. Fine del mistero. Seduta dietro al guidatore, vedevo scorrere al mio fianco distese brulle, intervallate da qualche scialbo edificio: alberghi economici non degni di stare sul mare, bazar, gruppi di case spoglie. Appoggiai la testa al finestrino e chiusi gli occhi: il sonno che se n'era andato con il messaggino di Marco tornò all'improvviso. Fu l'arrestarsi dell'auto che mi svegliò. Scrutai lo spazio intorno: eravamo davanti al commissariato di polizia. «Potrebbe portarci dall'altra parte del piazzale?» chiesi al taxista. «Dovremmo andare al policlinico El Yasmine.» «Mi dispiace signora, ma oggi sono iniziati dei lavori e la strada è bloccata. Per andare di là in macchina mi toccherebbe fare un lungo giro in mezzo al mercato; vi conviene andare a piedi.» E così facemmo. Lo spiazzo al fondo del viale, la via stretta, la Patisserie Hannibal, il Restaurant Populaire, la porta che immetteva nel Pronto, come lo chiamava Marco, come lo chiamavano tutti i medici ospedalieri, omettendo con noncuranza professionale la parola Soccorso. L'odore della malattia e dei suoi rimedi era più forte delle volte precedenti e ci investì in pieno volto provocandomi una specie di conato. Più gente del solito, più malati, più accompagnatori, più rumore. Forse c'era stato qualche grosso incidente. Ermanno aveva l'aria sconvolta: probabilmente era sempre passato per l'ingresso principale, accedendo direttamente alla zona privilegiata. Senza dire nulla, lo condussi lungo le scale e i corridoi piastrellati e quando fummo oltre la porta che divideva l'inferno dal purgatorio fu lui a parlare: «Come faccio a lasciare
Aurora in un posto simile? Già la sua camera mi pareva squallida, ma a vedere il resto ti viene l'angoscia». «In carcere starebbe peggio.» Che gaffe! Avevo sentenziato con una buona dose di realismo, ma non erano le parole che un fidanzato quasi in lacrime vorrebbe sentirsi dire. Per fortuna, se fortuna si poteva chiamare, era così preoccupato per ciò che aveva appena visto, da non badare al fatto che il carcere non era per nulla lontano nel destino di Aurora. «Qui va a finire che si prende un'infezione.» Gli passai il braccio intorno alle spalle e cercai di confortarlo: «Vedrai che non le capita niente». Davanti alla stanza numero i6, l'agente di guardia era sempre lo stesso e io mi domandai quanto costasse allo Stato tunisino la detenzione «morbida» della ragazza, e, naturalmente, quanto il tour operator avesse unto gli ingranaggi del sistema per ammorbidirlo. Non ci chiese il lasciapassare e, quasi come fosse una parola d'ordine, ripeté il suo «Allez Zidane», al quale replicai con un analogo «Forza Zidane» che parve deluderlo molto: veniva meno il gusto del confronto, ma cosa potevo farci, a me Zidane piaceva. «Come va?» «Mi annoio un po', però dormo parecchio e questo mi fa bene.» «E il polso?» «Ogni tanto la ferita brucia, ogni tanto prude.» «Oggi ti hanno già cambiato la medicazione?» «No, e neanche ieri.» I timori di un'infezione non erano così infondati. Aurora fece cenno a Ermanno di avvicinarsi, lui le si accostò e prese ad accarezzarle i capelli. L'imbarazzo prendeva una consistenza solida. Sia io sia lui, per ragioni diverse, avremmo desiderato rimanere soli con Aurora e io gli avrei ceduto volentieri il primo turno se fossi stata certa di poter rientrare. Feci una prova. Uscii e saggiai la disponibilità del piantone: «Dovrei ottenere qualche informazioni dai medici. Se adesso vado a cercarne uno poi posso tornare a parlare con la ragazza?». Rimase in silenzio, a pensare se la sola visita giornaliera che era concessa ad Aurora potesse essere spezzata in due semivisite distanziate di un quarto d'ora. Nei suoi occhi improvvisamente assenti si vedevano passare ordini, punizioni, promozioni, regolamenti... Alla fine acconsentì: «La sala medica è al fondo del corridoio». «Grazie infinite.» «E...» «E?»
«E allez Zidane.» «Toujours!» Il colloquio con il medico non era solo una scusa. Per essere una bipolare non compensata da giorni, che si era svegliata in un lago di sangue accanto a un cadavere e che aveva la prospettiva di un ergastolo, Aurora era straordinariamente tranquilla: dovevo finalmente sapere cosa le somministravano. La sala medici assomigliava a quella di un qualsiasi ospedale italiano, spoglia e triste come quelle che mi era capitato di vedere: un tavolo, una brandina per il riposo durante il turno di notte e per altri usi all'occorrenza, gli armadietti con i medicinali e una televisione vetusta per chi non voleva usufruire della brandina in un modo o nell'altro. Seduto a quel tavolo, un uomo, un bell'uomo, pressappoco della mia età, con indosso un camice immacolato. Gli spiegai brevemente chi ero e gli chiesi quali fossero le condizioni della paziente. «È praticamente guarita, almeno dai danni provocati dal tentativo di suicidio. Però, siccome non possiamo escludere che cerchi nuovamente di togliersi la vita, pensiamo di tenerla qui il più a lungo possibile.» Era chiaro che aveva ricevuto degli ordini e che la soluzione del ricovero appariva la più semplice in attesa che l'arrivo o la definitiva assenza di qualche intervento diplomatico decidessero la sorte di Aurora. «Con quali farmaci la curate?» «Largactil, venti gocce al giorno in tre somministrazioni.» Largactil? Ma non lo avevano ritirato? Forse mi sbagliavo. Comunque, a quelle dosi, la calma di Aurora si spiegava. Lo ringraziai e lui mi tese la mano con disinvoltura: «Se ha bisogno di me, io sono qui fino alle 16, tutta la settimana». Se, a qualche migliaio di chilometri da lì, in una stanza uguale a quella, non ci fosse stato Marco, avrei sicuramente cercato di aver bisogno di lui. L'intramontabile fascino del medico. Ma... Bussai, per avvertire i due fidanzati che stavo entrando. «Immagino che adesso tocchi a me lasciarvi sole.» Mi aveva tolto d'impaccio. «Te ne sono grata.» Si diedero ancora un bacio, sulle labbra, il solito bacio d'amore eterno e fedele. Sei mai stata sincera? E con me era stata sincera? Sapevo essere efficace nello scoprire le menzogne, ma gli antipsicotici che le somministravano rendevano il lavoro quasi impossibile. Tentai qualche domanda, senza nessuna pretesa di arrivare in profondità. «Avevi fatto amicizia con gli animatori del villaggio?» «No, io ed Ermanno volevamo stare per conto nostro. L'animazione non ci interessava.» «E non hai mai parlato con nessuno di loro?»
«Qualche parola. Hai visto come fanno: vengono lì, ti salutano, ti chiedono se ti stai divertendo. Ma oltre a quelle quattro stupidaggini non siamo mai andati. E poi non è che siano tanto simpatici.» «A me sono parsi tutti gentili. Ti riferisci a qualcuno in particolare?» «Io trovo odioso quello che fa sempre il protagonista degli spettacoli la sera.» Peccato non aver visto il musical, però potevo giocare un'altra carta: «Quello che assomiglia al tuo ex fidanzato?». «Sì, lui. Hai visto come gli somiglia?» Allora era vero! Nella sua mente, tutte le persone sgradevoli assumevano i connotati di quel Fabio che l'aveva tradita con una ragazza rumena. Johnny era Fabio, l'altro animatore era Fabio. Chissà quanti altri uomini erano Fabio. E chissà che trattamento avrebbe riservato al vero Fabio se si fosse trovata chiusa in camera con lui, con un coltello in mano. Ma, a dire il vero, bastava ciò che aveva fatto a Jonathan. «A me, quello che sta più antipatico è il fotografo.» «Davvero? Con me è stato bravissimo. Mi ha scattato un sacco di foto e vedessi come sono venute! Sembro una diva.» Difficile stabilire se a renderla così sciocca fossero i farmaci o il suo disturbo. Di sicuro non sentiva il peso di quello che aveva fatto e, senza quel peso, l'idea che lei potesse inconsciamente fornirmi indicazioni sulle ragioni che l'avevano spinta a uccidere era pura illusione. «Ti saluto, prima che entri la guardia a cacciarmi.» Mi alzai, ma, colpita nuovamente dalla sindrome del tenente Colombo, mi voltai ancora verso di lei e, con l'esitazione nella voce, le posi un'ultima domanda: «Hai mai incontrato Libero Liberati?». «Chi?» «Il compagno di equipaggio di Ermanno al corso di vela.» «No. Ermanno mi ha fatto un paio di accenni a lui, ma non l'ho mai visto: il villaggio è talmente grande...» In macchina fu il solito gioco del silenzio: Ermanno chiuso nella sua angoscia, io senza nulla da dire, nulla da aggiungere all'evidenza che avevamo davanti agli occhi. Riuscimmo soltanto a concordare la telefonata alla famiglia Melzi: l'avrebbe fatta lui. Quello dietro al conducente era ormai diventato il mio posto fisso, fisso come tutti gli altri di cui la mia abitudinarietà si era appropriata. Questa volta però potevo guardare il mare, almeno fino a che non cominciava la fila degli alberghi a quattro stelle, dei villaggi all'europea: uno a fianco dell'altro, per chilometri. La strada. che stavamo percorrendo divideva la Tunisia di Karima e Omar, dal Paese inventato che era cresciuto lungo la costa frullando insieme cupole arabe, pagode orientali, richiami caraibici e architetture del socialismo reale. Dalla siesta pomeridiana mi svegliai intorpidita: un bel bagno in piscina mi avrebbe fatto bene.
Cercai il costume. Maledizione dov'era? Sul suo ripiano non c'era. Primo cassetto, secondo cassetto, ex cassetto di Marco. Sparito. Volatilizzato. Esplorai la stanza palmo a palmo e in ultimo, senza molte speranze, aprii il bagno. Naturalmente era là, appallottolato, appoggiato sul ripiano del lavabo e nascosto dalla mia trousse: e per di più era fradicio. Tra un viaggio sul Motobecane e una strana scoperta in internet avevo dimenticato di stenderlo. Corsi ai ripari, anche se era tardi, e lo distesi sulla poltroncina in plastica del giardinetto: di indossarlo così, umido e freddo, non se ne parlava, anche se il proposito era quello di buttarsi in acqua il più presto possibile. Mi rimaneva il mio ridottissimo due pezzi arancione: anche con il sedere mezzo scoperto, non ero certo più sconcia delle signore in posa languida davanti all'obiettivo del fotografo. Annodai un pareo bianco alla vita e uscii. La valle incantata era insolitamente affollata e dalla vasca più piccola giungevano grida di bambini e di mamme arrabbiate. Dopotutto, in piscina potevo andarci anche a Bergamo. Dovevo rinnovare la mia sfida con il mare. Neanche a farlo apposta, nel mio breve tragitto incontrai proprio il fotografo, che, con un cenno del capo, mi propose i suoi servizi. Declinai l'invito e lui si allontanò in cerca di altre italiche bellezze da immortalare. Mi sistemai all'estremità destra della spiaggia, lontano dal campo di beach-volley, dai giochi e dall'animazione. Così lontano che mi trovai praticamente isolata; neppure Ermanno con il suo sguardo perso nell'orizzonte. In acqua però di gente ce n'era e anche parecchia. Il vento si era spento e il sole picchiava. Allora tutti in mare alla ricerca di un po' di refrigerio. Sguazzai un poco, con l'acqua che mi arrivava alla vita, ma quello non era nuotare e non era nemmeno un confronto con le mie paure. No, ci voleva più coraggio. Una ventina di metri a rana, tanto per allontanarmi dalla folla, poi delle bracciate a stile libero, determinata ad arrivare «dove non si tocca». Uno, due, tre: fuori la testa a sinistra. Uno, due, tre: fuori la testa a destra. Uno, due... Maledizione. Il sincronismo dei miei gesti durava sempre troppo poco; dopo un attimo perdevo il conto delle bracciate e non capivo più da che parte dovevo alzare la testa per respirare, con il risultato che ero costretta a fermarmi senza fiato. Inspirai profondamente, né a destra, né a sinistra, ma davanti, ormai ferma. Però ero arrivata «dove non si tocca». Non che fossi lontanissima dalla riva, solo quel tanto che bastava per poter abbracciare con uno sguardo gli ombrelloni del nostro club, la spiaggia deserta dell'hotel abbandonato e quello scorcio di mare dove le donne facevano il bagno vestite. Ora i piedi li muovevo appena e aprivo le braccia solo per tenermi a galla. La calma acquatica era assoluta; potevo persino fare «il morto», quello che in piscina mi era praticamente vietato perché arrivava sempre uno stacanovista del dorso a darti una manata in pancia. E invece a me piaceva così tanto sdraiarmi sull'acqua e rimanere immobile! Amavo in particolare il momento in cui immergevo la nuca e le orecchie e di colpo spariva ogni rumore. Ecco, lo avevo fatto: gli occhi chiusi e le orecchie tappate, i rumori scomparsi. A eccezione di un ronzio sordo, quello che senti quando l'acqua entra fino a toccarti il timpano. Però più forte. Decisamente più forte. E poi un dolore intenso, violentissimo. Un colpo secco alla spalla, l'acqua
salata in bocca, nel naso, gli occhi aperti a guardare nient'altro che acqua. Il «morto» non galleggiava più, stava affondando, come il Titanic. E magari qualcun altro, lì vicino, stava ascoltando la musica dell'orchestra senza accorgersi di cosa stava accadendo. Agitai le gambe scompostamente, seguendo quell'istinto di sopravvivenza che solitamente porta ad affogare. Ero «dove non si tocca». Ma di poco. Sotto i piedi sentii la sabbia. Allora raccolsi le forze per dimenticare il dolore alla spalla e mi diedi una spinta verso l'alto. Un respiro, accompagnato da una specie di verso. Di nuovo acqua salata, ma meno di prima: bere, ma senza annegare. La testa era ormai fuori, gli occhi aperti, così come le orecchie. E sentivo la gente che urlava, vedevo gesti di rabbia indirizzati verso un punto remoto alla fine di una scia. Ritrovai un poco di calma e mi distesi a pancia in su, battendo forte le gambe e dirigendomi verso riva. Due o tre persone vennero in mio soccorso, ma ormai ero salva, ero «dove si tocca». «Ti sei fatta male?» «Ho preso un colpo qui, alla spalla.» «Fortuna che non ti ha presa in testa.» «Se lo prendo io, lo riempio di botte» fece un ragazzo sopraggiunto dopo gli altri. «Cos'è stato?» chiesi stordita. «Un pirata su una di quelle moto d'acqua.» «Bisognerebbe vietarle... Basta che stiano negli spazi riservati a loro... E invece vengono a fare i furbi dove la gente fa il bagno... Due bei calci in faccia e la smettono.» «Avete visto chi la guidava?» «Uno di carnagione scura.» «Uno del posto?» «Poteva anche essere un italiano abbronzato.» Partì qualche commento, ma i primi cominciarono ad andarsene: lo spettacolo era finito. Affiancata più che aiutata dagli ultimi volonterosi, riguadagnai la spiaggia. Poi raccolsi le mie cose e tornai in stanza: pessima inaugurazione per il mio costume sexy. Mi distesi sul letto, ma la spalla mi faceva troppo male. Niente di rotto o di lussato; avevo eseguito un paio di rotazioni del braccio e il fatto che non avessi gridato come un animale scuoiato mi garantiva la sostanziale integrità del tutto. Però la posizione da sdraiata aumentava il dolore: niente bagno, niente abbronzatura. Che sfiga! Anni di vacanze in montagna, e poi per una volta che andavo al mare venivo investita da un pirata. Seduta in poltrona, l'aria condizionata ai minimo, accesi la televisione: un paio di emittenti in lingua araba e, naturalmente, tutta la gamma dei canali italiani. Peccato che, data l'ora, dovessi accontentarmi di cartoni animati o di penosi programmi di gossip. Mi rimaneva internet, posto che avesse ripreso a funzionare. Una volta acceso il computer, la luce blu della connessione lampeggiò per un attimo, poi si accese stabilmente: la linea c'era.
Google aveva memorizzato le mie ultime ricerche: «Libero Liberati» «Aurora Melzi» Tanto per completare il lavoro iniziato la mattina, cliccai sul pulsante «Cerca». Nessun risultato: Libero e Aurora non comparivano insieme in nessuna pagina web. Stranamente, lei non aveva mentito quando aveva detto di non conoscerlo. Ripetei a ritroso le ricerche della mattinata. «Libero Liberati» Giulianova Cerca Avevo già visitato molti dei siti indicati, quindi partii dal fondo, da quelle pagine che il sistema riteneva meno pertinenti perché magari le parole chiave vi ricorrevano solo una volta. C'erano due o tre elenchi di persone che includevano anche Libero: un club velico, ovviamente, la classifica di una vecchia regata in cui non si era piazzato tra i primi e una lista di invitati a una serata di beneficenza. Poi toccò di nuovo a una pagina del «Tempo», del 5 novembre 2006, e questa volta la notizia, o meglio, il trafiletto, mi colpì: INCIDENTE MORTALE. Serena Liberati (34 anni), di Giulianova, sorella del velista Libero Liberati e nota al pubblico abruzzese per aver presentato, una decina di anni fa, alcune trasmissioni sportive sulle televisioni locali, è morta ieri in un tragico incidente, travolta da un treno mentre attraversava i binari. Nessun testimone in quel momento al passaggio a livello di via Saffi. Il macchinista, che ha detto di aver visto la giovane donna passare sotto le sbarre senza avvedersi dell'arrivo del convoglio, ha effettuato un disperato tentativo di arresto, ma la tragedia è stata inevitabile. Deformazione professionale, anzi deformazioni professionali, perché ormai ne avevo due, quella della psicologa e quella della detective. Ed era la seconda che mi faceva guardare con diffidenza agli incidenti, senza una ragione specifica, solo sulla base di ciò che l'esperienza mi aveva insegnato e cioè che spesso l'incidente non è altro che l'involucro più esterno, quello che bisogna aprire per capire cosa vi sia dentro. Sempre aiutata da Google, cedetti alla deformazione: «Serena Liberati» Cerca Una settantina di pagine: era ricca la storia web della sorella di Libero. Tre di quelle pagine parlavano della sua morte, mentre sulle altre il suo nome era solo parte di una frase standard, che si ripeteva uguale in tutti i siti: «Vero sesso amatoriale – Serena Liberati, l'ex presentatrice di Sportmania Abruzzo, ripresa con telecamera nascosta. Scarica il video da eMule». Era questo ciò che rimaneva di lei dopo che il treno aveva massacrato il suo corpo; rimaneva il suo corpo, appunto. Il suo corpo esposto, offerto al voyeurismo telematico, suo malgrado. La telecamera nascosta e la memoria di internet non avevano pietà neanche della morte. Sol chi non lascia eredità d'affetti poca gioia ha dell'urna. Era quella l'eredità d'affetti della nostra
epoca: una scena di sesso rubata chissà dove e data in pasto a chiunque. C'era anche chi, per invitare i visitatori a scaricare il video, aveva arricchito la presentazione del prodotto con un fotogramma preso da una vecchia registrazione di Sportmania Abruzzo: Serena vi compariva giovanissima, con i capelli lunghi, neri, due occhi da cerbiatta e il seno bene in vista, per fornire ai telespettatori qualche motivo di interesse che andasse oltre il calcio dilettantistico e lo sport chiacchierato. Un rumore metallico mi fece trasalire; era la persiana d'alluminio che sbatteva per il vento. Si era alzato all'improvviso e in un attimo era diventato fortissimo. I costumi stesi fuori! Uscii di corsa dalla portafinestra e riuscii ad agguantare il reggiseno nero che svolazzava verso il muro di cinta. Gli altri pezzi erano rimasti più o meno al loro posto; li raccolsi e feci per rientrare, ma mi accorsi che il vento aveva richiuso alle mie spalle la portafinestra. Cercai la maniglia, ma esternamente non c'era: era una di quelle classiche porte che, nelle commedie, lasciano il protagonista chiuso fuori in accappatoio. Io, per fortuna, indossavo una delle mie magliette extra lunghe e confidavo nel fatto che, non dovendo salire le scale, nessuno avrebbe notato se portavo o meno la biancheria intima. Raggiunsi la reception e domandai una copia delle chiavi della stanza. Mentre aspettavo il ritorno dell'impiegato riflettei ancora sul meccanismo di quella serratura; non solo sull'ottusità o la perfidia di chi l'aveva ideata, ma anche su una verità che fino ad allora era sfuggita, a me e agli altri: nella stanza di Aurora non si poteva entrare, ma se qualcuno fosse stato già dentro avrebbe potuto uscirne lasciando la camera perfettamente sigillata, chiusa dall'interno. Il commissario Zaalani, pur con tutta la sua sicumera, quell'ipotesi non l'aveva presa in considerazione o semplicemente non aveva idea di chi avrebbe dovuto utilizzare la portafinestra per scappare. E io neppure. Più che un'ipotesi era una possibilità. Ottenuta la chiave di riserva, feci il percorso al contrario, tenendo ferma la maglietta con le mani perché il vento non la sollevasse trasformandomi in una via di mezzo tra la Marilyn di Quando la moglie è in vacanza e la Sharon Stone di Basic Instinct, senza però il fascino dell'una o dell'altra. Giunta al vialetto che dava accesso alla «mia isola» sentii un trambusto piuttosto strano per quella zona del villaggio: due ragazzini stavano correndo inseguiti da un uomo con i pantaloni neri, il camiciotto bianco e la cravatta, un uomo della sicurezza. I ragazzini superarono le costruzioni e, in un tempo infinitesimo, si arrampicarono sul muro di cinta per sparire nel giardino misterioso dell'albergo abbandonato. L'uomo rinunciò all'inseguimento; d'altra parte, il suo scopo era raggiunto: allontanare gli abusivi non dotati di braccialetto dalle meraviglie dell' all inclusive. Quando mi sedetti di nuovo davanti al computer, notai che qualcosa lampeggiava sullo schermo: avevo ricevuto un messaggio di Marco nella chat di Skype. marco.callegari2 scrive: 17.22.34 ciao. Hai visto che sono riuscito a instal are Skype? (Per la verità mi ha aiutato il tecnico del laboratorio) annapavesi.bergamo scrive: 17.31.29
ci sei ancora? marco.callegari2 scrive: 17.31.58 sono qui. Tu piuttosto dov'eri sparita? annapavesi.bergamo scrive: 17.32.12 sono andata a recuperare una chiave di riserva perché mi sono chiusa fuori dal a stanza. Oggi è una giornata no. Mi hanno anche investito con una moto d'acqua. marco.callegari2 scrive: 17.32.32 ti sei fatta male? annapavesi.bergamo scrive: 17.32.48 solo una botta al a spalla, ma mi è già passato. marco.callegari2 scrive: 17.33.01 quello che guidava si è fermato? annapavesi.bergamo scrive: 17.33.18 no, si è dileguato, lui, la moto d'acqua e quella ... della sua mamma. marco.callegari2 scrive: 17.33.40 sei sicura che non era voluto? annapavesi.bergamo scrive: 17.33.54 non ci avevo pensato. Vuoi dire che qualcuno ha cercato di farmi fuori? marco.callegari2 scrive: 17.34.10 o anche solo di spaventarti. annapavesi.bergamo scrive: 17.34.21 no, non credo, pare che sia pieno di pazzi che si avvicinano troppo ai bagnanti. marco.callegari2 scrive: 17.34.36 mi sembri troppo sicura. Ricordati che sei lì per un omicidio. annapavesi.bergamo scrive: 17.34.50 si, ma la colpevole è chiusa in ospedale, non mi sembra ci siano pericoli. Non temere :) marco.callegari2 scrive: 17.35.02 cos'è quel segno che hai messo al a fine? annapavesi.bergamo scrive: 17.35.19 se lo chiedi a Mattia lo sa senz'altro. È una emoticon, se pieghi la testa sul a spalla sinistra la
vedi come una faccina che sorride. Andammo avanti un po' su quel tono melenso: la scoperta della chat ci stava facendo scordare che non eravamo più dei quindicenni. Solo in chiusura recuperai un po' di pragmatismo: annapavesi.bergamo scrive: 17.50.27 per cortesia, potresti telefonare alla signora Ghislandi e chiederle notizie di Morgana? marco.callegari2 scrive: 17.50.36 sarà fatto. Ci sentiamo stasera. Dal e nove in poi io accendo il computer e rimango in linea. annapavesi.bergamo scrive: 17.50.48 a stasera e non mi fare bidoni come ieri. Doveva essere capitato mentre ero in bagno, perché io non avevo sentito assolutamente nulla. Qualcuno aveva infilato una busta sotto la porta della stanza. Omar era stato di parola e le istruzioni erano arrivate. Tutto come previsto, molto romanzesco, anche nella forma: il messaggio sotto la porta, la mappa, il segreto. Dentro la busta c'era un foglio e sul foglio un itinerario: Ajim, Medenine, Tataouine, Remada, ultimo villaggio prima di Dehiba. Nomi che sapevano di deserto, di un Vicino Oriente che continuava a essere lontano, fiabesco. Pensai ancora a Salgari: ero partita per stare vicino a una depressa con comportamenti suicidi e mi ritrovavo in un'avventura per ragazzi, ma senza lieto fine garantito. Il messaggio si concludeva con una raccomandazione, partenza alle ore 5, e con il nome della persona che dovevo cercare, scritto in caratteri occidentali e arabi: Munir Karoui E poi c'era un secondo foglio, tutto scritto in arabo con una sola nota in francese: «Pour Munir». Dopo un pomeriggio come quello, un aperitivo ci stava bene. Al bar mi servirono un vermouth di marca sconosciuta e, malgrado il suo gusto un po' dolciastro, assaporai la calma di quel tramonto sospeso sul ponte del Titanic. La assaporai a tal punto da dimenticare quasi che la mia uscita anticipata, rispetto all'ora di cena, aveva anche un secondo obiettivo: parlare con Elisabetta. La cercai nel suo ufficio, ma le pareti trasparenti mi mostrarono la stanza vuota; sulla porta un avviso: la direzione riapre alle 19.30. Lì a fianco, i monitor del fotografo erano liberi: attendendo Elisabetta potevo cercare quelle immagini di cui Aurora era tanto fiera. Il ragazzo del centro velico ricordava con precisione che erano state scattate il lunedì precedente, quindi selezionai la categoria spiaggia e poi scelsi la data del 23 luglio. Passai in rassegna tutta una collezione di sederi flosci, di tette cascanti, di normali segni dell'età che non avrebbero avuto nulla di indecente se solo non fossero stati esposti davanti all'obiettivo con lo stesso esibizionismo delle attricette sulla Croisette durante il festival di Cannes. Io quelle donne le avevo viste in riva al mare e non erano affatto brutte; le avevo viste nei loro costumi, ancora più succinti del mio, e anche fossero state completamente nude, le loro imperfezioni, al naturale, avrebbero avuto il fascino della maturità: ciò che faceva sorridere era la perenne imitazione delle ragazzine. Quanto alle ragazzine vere, il risultato dei servizi fotografici del signor Chadi Mejri non era migliore. Certo, i loro fondoschiena erano perfetti, i loro piccoli seni armoniosi, ma quegli stessi
artificiosi sguardi di seduzione che alle signore di mezza età conferivano un'aria ridicola, alle adolescenti davano inevitabilmente un'espressione volgare. In ogni caso, tra madri di famiglia, lolite e qualche trentenne dal fisico notevole, esaminai almeno un centinaio di fotografie: quelle di Aurora non c'erano. «I provini del 23 luglio in spiaggia sono tutti qui?» domandai al fotografo. «Sì» rispose brusco. Avevo quasi dimenticato quanto fosse sgarbato, ma quel monosillabo bastò a ricordarmelo. Riguardai le foto una per una e per tutto il tempo lui contemplò me, con uno sguardo che mi fece venir voglia di chiedergli se per caso quel pomeriggio non avesse fatto un giretto su una moto d'acqua. Odioso nelle relazioni, mediocre nelle sue inquadrature, l'unico difetto che non si poteva attribuirgli era la pigrizia: gli orari impressi su ciascuna immagine parlavano di un lavoro senza sosta, uno scatto dopo l'altro, una donna dopo l'altra. Mi concentrai su quei dati sovrimpressi: oltre al giorno e all'ora era indicato un numero progressivo. Partii dalla foto numero 1 e procedetti rapidamente fino alla 73. Da quella si passava subito alla 84. Un buco di dieci fotografie e di quindici minuti: era in quel quarto d'ora che Aurora aveva posato per lui sulle barche? E se sì, perché le sue foto erano sparite? Inutile chiederglielo. Alzai gli occhi dal monitor e Elisabetta arrivò con il suo passo spedito, ma senza avere l'aria di dirigersi verso l'ufficio. La intercettai: «Posso parlarle un istante?». «Sto andando da un cliente per un problema, possiamo vederci verso le dieci?» «Faccio in un attimo, perché alle dieci potrebbe essere tardi.» «Mi dica.» «Avrei bisogno di un taxi per le cinque di domani mattina. Se fosse un fuoristrada sarebbe meglio. Può prenotarlo lei?» «Dove deve andare?» «Effettivamente devo fare un tragitto un po' lungo.» «Non glielo chiedevo per mia curiosità. Devo sapere la destinazione per comunicarla al noleggio: qui i tragitti delle auto con autista sono registrati prima della partenza.» Non volevo mostrarle il biglietto per paura che il nome dell'uomo del confine libico potesse in qualche modo ricondurla a Omar. «Devo raggiungere Dehiba.» «Dehiba?» ripeté ad alta voce. «È un posto strano?» «Diciamo che non ci va tanta gente. In ogni caso, se non la vedo tornare domani sera io chiamo l'ambasciata, ma di sicuro non la vengo a cercare. E non si avventuri per nessun motivo a sud di Dehiba.» «Perché?»
«Primo perché è pieno Sahara, secondo perché è zona riservata all'esercito, terzo perché ci passa il gasdotto e sparano con una certa facilità, quarto perché il suo autista si rifiuterebbe di portarcela anche se lei lo coprisse d'oro.» C'erano motivi sufficienti non solo per indurmi a non sconfinare, ma anche per farmi desistere dal partire. Altro che Tunisia autentica! Ma, come al solito, ero in ballo. Salutai Elisabetta e, con atteggiamento sarcastico, rivolsi un cenno del capo al fotografo che non ci aveva tolto gli occhi di dosso. Nel negozio di souvenir accanto al ristorante comprai una cartina del Paese, poi presi possesso del mio tavolo e iniziai il giro del buffet. Pollo freddo, taboulet, un filetto di pesce alla provenzale e tre pagnottelle di un pane arabo che, servito caldo, era veramente irresistibile. «Mai che mi prenda un pezzo di pizza» motteggiò Salvatore Mohamed quando gli passai davanti. «Le fa male o è proprio della Lega?» Per farlo contento me ne feci servire un bel trancio. E dovetti di nuovo ammettere che ò pizzaiolo tunisino, naturalizzato padovano e napoletano d'adozione sapeva il fatto suo. «Possiamo sederci qui con te?» A parlare era stato uno dei due quarantacinquenni brizzolati che la sera prima avevano assistito al mio rapimento mistico al pianobar durante la canzone di Cohen. «Certo, mi fa piacere.» Ed era vero; un po' di conversazione mi avrebbe distratto dal pensiero di Dehiba, del gasdotto, delle guardie armate e della possibilità di non tornare. Ci presentammo e io, forse contagiata a distanza da Marco, dimenticai all'istante i loro nomi, per cui continuai a rappresentarmeli mentalmente come «il barbuto» e «l'occhialuto» e a chiedermi se fosse giusta quella prima impressione che me li aveva fatti qualificare come omosessuali. Cominciammo con la solita sequenza di domande convenzionali, ma rapidamente passammo a un tono meno banale e trovammo una di quelle sintonie speciali che a volte si stabiliscono tra persone che non si conoscono. Erano ironici, arguti, divertenti e la rotondità del loro accento bolognese li rendeva ancora più simpatici. «Lo sai Anna perché ti abbiamo chiesto di cenare con te?» «Perché avete avuto pietà di una povera donna sola e abbandonata?» «No, perché volevamo chiederti se anche tu sei stata fregata dall'agenzia di viaggio.» «Voi siete stati fregati?» «Certo. Sono anni che andiamo nella stessa agenzia, abbiamo girato mezzo mondo, questa volta volevamo un posto da spendere poco e dove ci manda quell'imbecille che ci conosce da una vita? Al villaggio Calypso di Djerba.
Ma ti pare che una coppia gay possa venire in un posto come questo?» Non mi ero sbagliata. L'occhialuto rincarò la dose: «Guardati intorno: famiglie, famiglie, nient'altro che famiglie. Tu sei la sola single che abbiamo adocchiato». «Sì, finalmente una "diversa"» scherzò l'altro. «Ma io non sono single.» «In ogni caso, la corte te la facciamo lo stesso.» Non c'era affettazione nella loro voce, né forzatura: era pura, ingenua, allegria. «Ma non potete!» «Il fatto di avere altri gusti non ci impedisce di tenere compagnia a una bella donna che per di più è sola.» Pronunciata da un altro, quella frase avrebbe puzzato di marpioneria lontano un chilometro, ma in bocca al barbuto assumeva una leggerezza che non infastidiva, anzi: mi sentivo coccolata e sapevo che non c'erano secondi fini, che non volevano portarmi a letto. Una situazione ideale. In quel momento mi attraversò il cervello un pensiero che cacciai subito: com'era andare a letto con due uomini? Ma intanto l'occhialuto aveva cambiato discorso: «Hai visto la banda dei delinquenti?». Si riferiva al tavolo del Junior club che era accanto al nostro. «Da come trattano i camerieri diresti che 'sti ragazzini credono di essere in Virginia nell'Ottocento.» «Sì, invece di "Junior club" facevano meglio a chiamarlo "Ku Klux Klan".» «Ci vuole un po' di metodo Montessori» ironizzò il barbuto. «Faggio o Castagno?» «Che cosa?» «Il bastone.» «Io sono per il battipanni» intervenni, «è più casereccio.» Naturalmente scherzavamo, tutti quanti, anche se una passata di battipanni ai genitori gliel'avremmo data volentieri. Continuammo a parlare, a scambiarci opinioni, a ridere, mentre tutto intorno i tavoli si andavano svuotando di persone e di piatti. Quando si spensero le prime luci capimmo che era ora di andare e guardando il nostro tavolo che nessuno aveva osato sparecchiare ci sentimmo complici dei piccoli mostri che avevamo criticato. «Pianobar o spettacolo?» mi chiesero. «Nessuno dei due. Domani ho la sveglia alle quattro.» «Escursione all'oasi di Douz?»
«Avete indovinato. Buonanotte.» «Buonanotte.» E diedi un bacio a ciascuno. Marco aveva mantenuto la promessa: era in linea. annapavesi.bergamo scrive: 21.02.12 come stai? marco.callegari2 scrive: 21.02.15 tutto bene e tu? annapavesi.bergamo scrive: 21.02.38 benissimo. Ho cenato con due uomini. marco.callegari2 scrive: 21.03.22 devo essere geloso? In ogni caso, io ho telefonato a una donna dalla voce suadente. annapavesi.bergamo scrive: 21.03.27 la signora Ghislandi? marco.callegari2 scrive: 21.03.50 esatto. Non so se ti restituirà Morgana, dice che è la gatta più dolce del mondo. annapavesi.bergamo scrive: 21.03.59 scommetto che tu non sei dello stesso avviso. marco.callegari2 scrive: 21.04.05 i primi tempi che stavamo insieme non faceva altro che graffiarmil! annapavesi.bergamo scrive: 21.05.32 passiamo alle cose serie. Domani parto alle cinque per il confine libico. L'itinerario è questo: Ajim, Medenine, Tataouine, Remada, Dehiba. II cellulare non prende. Nei pressi di Dehiba devo incontrare un certo Munir Karoui che vende benzina di contrabbando. Se non ti chiamo la sera mettiti in contatto con Elisabetta e verifica che abbia allertato l'ambasciata. marco.callegari2 scrive: 21.05.56 stai scherzando vero? Purtroppo non stavo scherzando. Glielo spiegai, cercando di non spaventarlo troppo e di dimenticare che, malgrado l'allegria a cena, malgrado l'apparente sicurezza, la prima a essere spaventata ero io. Poi andai a letto e nel dormiveglia cercai Morgana con la mano. E lei non c'era.
Giovedì 2 agosto 2007 Vedendo il suo cliente comparire all'ingresso del villaggio, l'autista ebbe, ne fui certa, un moto di sorpresa e di disapprovazione. «Signora, è proprio sicura che è a Dehiba che vuole andare?» «Sì, ne sono sicura.» Impiegai il tono più deciso che avevo, ma non riuscii a convincerlo: per come lui vedeva le cose, il passeggero e la destinazione non combaciavano. Si era atteso un commerciante d'armi? Un tecnico di qualche società petrolifera? Un medico in missione umanitaria? Certo non una donna. Sola, senza la divisa da suora o da soldatessa americana, con indosso il solito paio di jeans, una delle tante magliette a tinta unita e le scarpe da ginnastica. Ma che posto era Dehiba? Attraversammo una Houmt Souk già in piena attività e raggiungemmo Ajim passando per una serie di paesini che nella loro struttura portavano i segni della dominazione europea: un ufficio postale, la gendarmeria, un edificio pubblico, un caffè; il tutto intorno all'unica piazza alberata. Si poteva pensare di essere capitati in una versione povera e decaduta della provincia francese. Appena fuori Ajim, la strada divenne una specie di molo e su quel molo ci fermammo, in coda assieme a un centinaio di altri veicoli. «Se vuole può scendere» mi disse l'autista, «tanto, prima di riuscire a imbarcarci sul traghetto ne abbiamo per una buona mezzora.» La strada-molo divideva quel braccio di mare in due lagune nelle quali erano ancorate decine di barche da pesca. Barche di legno, lunghe non più di cinque o sei metri. La tolda dipinta d'azzurro e la chiglia bianca ornata di bande rosse e verdi. A bordo, in piedi, uomini in caftano sistemavano le reti e gettavano in acqua, ormai morti, i pesci più piccoli, quelli che troppo tardi erano passati attraverso le maglie. Più lontano, altre barche e altri pescatori, ma di loro non si vedeva che la silhouette, perché il cielo alle loro spalle si stava incendiando di sole. Camminai risalendo la fila di auto: macchine di emigranti con targa francese, furgoncini scassati e parecchi minibus carichi di europei in escursione. Sul marciapiede, tre ragazzi intorno ai quindici anni avevano montato una curiosa impresa di intrattenimento e spettacolo: il primo faceva arrampicare un paio di camaleonti sulle maglie dei turisti, il secondo scattava le foto e il terzo raccoglieva i soldi. A un certo punto, i motori si accesero tutti insieme e la colonna avanzò speditamente. Vidi il mio fuoristrada superarmi e cominciai a correre, ma il guidatore mi fece cenno di stare tranquilla: non era ancora il nostro turno e me ne rallegrai, perché avevo adocchiato un banchetto che vendeva vestiti davvero graziosi. La presentazione della merce era invero un po' lugubre, con i manichini impiccati a una barra di ferro sostenuta da due montanti, gli abiti però avevano un'aria delicata, fatti com'erano di seta leggerissima. Ero indecisa tra una casacca lilla abbinata a un paio di pantaloni molto larghi e un vestito rosso scuro con ricami dorati sui fianchi e lungo l'ampia scollatura. Il venditore comprese a pieno i miei dubbi e mi indicò la via più sicura per non sbagliare: prenderli tutti e due.
Come in un autentico suk, iniziò una contrattazione feroce dalla quale uscii sconfitta, ma con l'illusione di aver fatto un affare. L'uomo piegò un po' sommariamente i miei acquisti e li infilò in un sacchetto di carta delle Galeries Lafayette, giusto in tempo perché potessi salire sull'auto che si stava imbarcando. Quando l'autista, nello specchietto, mi vide accarezzare la seta rossa del mio vestito nuovo scosse il capo sempre più convinto che a Dehiba mi sarei trovata male, molto male. Durante il tragitto in battello, anch'io lo osservai attraverso il retrovisore. Era sulla cinquantina, forse poco di più. I capelli grigi, tagliati a spazzola, e i baffi corti, grigi anch'essi. E ripensai alla questione della fiducia: stavo per avventurarmi nel deserto con un uomo che non avevo mai visto, reclutato da una donna che non mi amava, eppure avevo meno timore di quando avevo seguito Omar in motorino. Sbagliavo. Il primo tratto di strada in terraferma scivolò via veloce, dentro un paesaggio non troppo diverso da quello di Djerba: palme, coltivazioni, arbusti, qualche casa. Tutto uguale, fino alla periferia di Medenine. Lì, come a Houmnt Souk, tornò a prevalere il gioco del bianco e dell'azzurro. Bianchi i muri, anche sotto le scrostature, e azzurra ogni altra cosa che su quei muri si collocava: imposte, porte in legno, portoni in lamiera, finestre, inferriate, saracinesche, sportelli dei contatori; azzurro su bianco. E anche qui, le case erano state costruite con una speranza di crescita: i muri al pianterreno lasciavano spuntare i ferri del cemento armato per primi piani ancora a venire o sorreggevano altri muri, in mattoni grezzi, privi di intonaco e di bellezza. Ma l'incanto di quegli edifici non risiedeva nella facciata, quanto nel mistero dei loro interni, di quelle officine, di quelle botteghe di fabbro, di quei negozi scuri. Era affascinante il loro disordine, l'apparente trascuratezza con cui si accatastavano gli oggetti, l'atmosfera da film d'anteguerra. Man mano che però si procedeva verso il centro, i casermoni grigi prendevano il posto delle case basse e i camioncini sostituivano i carri della periferia: due mondi nella stessa città, come in qualsiasi città. «Vuole che ci fermiamo, signora?» «Quanto manca ancora?» «Circa duecento chilometri. Più o meno tre ore.» «No, possiamo proseguire.» Passata Medenine, l'autista, forse per non addormentarsi, divenne più loquace: una guida perfetta. Mi parlò di Matmata e delle case scavate nella roccia; delle poche famiglie che ancora le abitavano e delle molte che, su invito del governo, avevano lasciato la vecchia città per andare a rinchiudersi negli alveari di Matmata la Nouvelle. E mi parlò di Toujane, aggrappata al versante della montagna, e di quell'anno in cui le abitazioni crollarono dopo due settimane di piogge continue. Io lo ascoltavo, chiedendo qualche precisazione di tanto in tanto, ma soprattutto osservando le montagne alla mia destra. Montagne brulle, coperte di pietre ed erbe basse, a cespuglio. Non altissime, ma comunque inaspettate: nell'immagine preconfezionata che avevo in mente, la Tunisia non era altro che mare e dune. «Le capita spesso di accompagnare i turisti?» «Sì, ma verso Douz o Tozeur, mai a Dehiba.»
Insisteva. «Credo che in questa zona il turismo sia una delle risorse principali.» «È una risorsa per pochi. Per tutti gli altri è quasi un danno.» Dopo il taxista filosofo, mi era capitato il guidatore economista. «Prenda la macchina su cui stiamo viaggiando per esempio. Appartiene a una ditta che ha più di mille tra auto e pullman in tutta la Tunisia, e la ditta appartiene a un signore che era amico del vostro Craxi.» Ecco, era finalmente venuto il momento di ricordare l'esiliato di Hammamet. Per fortuna il discorso proseguì in un'altra direzione. «Crede che la ricchezza che viene da tutti i noleggi e i trasporti rimanga in Tunisia? No, parte per la Svizzera, o per la Francia.» «Però qualche posto di lavoro gli alberghi lo procurano.» «Sì, ma per ogni cameriere che viene assunto ci sono tre contadini che non raccolgono più nulla. Piscine, giardini, campi da golf. E l'acqua? Viene dai nostri campi. Così la frutta e la verdura aumentano. Gli hotel delle società estere possono pagare, noi no. Il nostro governo ha svenduto il Paese agli stranieri e i soldi se li sono intascati i politici.» Conversammo a lungo. A Tataouine insisté per farmi visitare la città vecchia, ma io preferii andare dritta verso la meta che mi sembrava ancora lontanissima. Il tratto tra Tataouine e Remada poi mi parve interminabile. Non era deserto, o almeno non era deserto di sabbia con oasi e cammelli, era solo vuoto. Sassi e cespugli a perdita d'occhio. E, in mezzo, la strada; che pareva non portare da nessuna parte, che sembrava priva di senso. Passammo anche Remada ed ebbi l'impressione che un fuoristrada bianco, del tutto simile al nostro, ci stesse seguendo. «Da parecchio tempo c'è una macchina dietro di noi.» «È sempre la stessa?» «Credo.» «Bisogna guardarla con attenzione perché qui i quattro per quattro sono tutti uguali: Toyota Land Cruiser bianchi. Ce ne sono migliaia.» Qualche chilometro dopo la città, vidi che il vuoto di pietre e cespugli si punteggiava, di tanto in tanto, di baracche circondate di bidoni arrugginiti e di taniche di plastica e che qua e là queste baracche formavano agglomerati che potevano essere definiti villaggi. «È ancora distante il confine con la Libia?» «Una trentina di chilometri.» C'eravamo quasi. Sentii crescere l'agitazione. Il confine libico mi sembrava la cortina di ferro. Sulla mappa che avevo comprato, il valico di
frontiera era affiancato dall'indicazione «Passage avec restriction» e quelle restrizioni al transito mi facevano pensare a una zona di guerra, a una terra di spie e di avventurieri. Cosa ci facevo io? Cosa ci facevo lì con il mio vestitino rosso e la mia casacca lilla? L'americano ucciso, il Mig libico, l'aereo Itavia. Ero in un gioco troppo grande? Me lo domandai di nuovo. Le baracche e i bidoni andavano moltiplicandosi. Era lì che dovevo cercare Munir. Chiesi conferma facendo l'ingenua: «Questi posti dove ci sono i fusti e le taniche vendono benzina?». «Benzina di contrabbando. Arriva dalla Libia e costa quasi la metà di quella dei distributori ufficiali.» «Ma la polizia non controlla?» «In certi posti la polizia non passa e se passa viene solo a ritirare la propria percentuale.» Non accadeva solo lì. «Dobbiamo fermarci all'ultimo paesino prima di Dehiba.» «Cinque minuti e ci siamo.» Il fuoristrada bianco ci superò. Il cowboy solitario arriva all'ultimo avamposto. Oltre quel villaggio fatto di case di legno allineate ai due lati della strada c'è la terra di nessuno, la terra degli indiani. Il caldo è opprimente, il sole a picco. Non si vedono donne, solo uomini con cinturone e pistola, seduti nell'ombra di una tettoia, davanti al saloon o all'ufficio dello sceriffo, immobili, coperti della polvere stessa della strada. Il cowboy solitario avanza, in una calma apparente che in realtà è carica di tensione: non amano gli stranieri in quel posto. Sulla porta dell'ufficio dello sceriffo è affisso un cartello che ritrae il volto di un ricercato e il ricercato è dentro, che gioca a carte con lo sceriffo: non amano la legge in quel posto, non amano che la loro legge. Non è gente dall'aria cordiale, d'altra parte bisogna capirli, tra loro c'è chi ha passato una vita in miniera e chi, per procurarsi qualche pepita più velocemente, non ha esitato a uccidere. Non è il posto dove vorresti trovarti, ma se vuoi comprare dell'oro a un prezzo conveniente per poi rivenderlo in città, quello è il posto giusto. Fu quello il film che mi proiettai scendendo dal fuoristrada e avvicinandomi alla baracca che svolgeva la funzione di bar, di negozio e di molte altre cose. E devo dire che le persone intorno a me erano delle comparse più che credibili. Diffidenti, minacciosi, pericolosi: così li vedeva la solitaria cowgirl. Il cowboy solitario entra nel saloon e ordina una birra. Non che abbia sete, ma prima di far domande vuole presentarsi come cliente: uno che paga, non uno che rompe le scatole e basta. «Avete una Coca-Cola?» Silenzioso come il cameriere del saloon di fronte allo straniero, l'uomo sulla porta entrò, raccolse una lattina da una bacinella nella quale galleggiava ciò che rimaneva di un pane di ghiaccio e me la porse: niente frigorifero, niente luce, niente elettricità. L'unica cosa elettrica era una radio a pile che diffondeva musica rai, o chaabi, chissà.
Dispiegai il foglietto sotto il naso dell'uomo e gli indicai il nome di Munir scritto in arabo. Nella stessa lingua, l'uomo chiamò a sé un ragazzo e gli disse qualcosa, poi mi fece segno di seguirlo. L'unica fortuna di essere donna in quella situazione stava nel fatto che difficilmente mi avrebbero scambiato per un agente di polizia. Il ragazzo si incamminò lungo la strada, io lo seguii a piedi e la macchina seguì tutti e due, lentamente. Rispetto al ciglio della strada, la baracca era arretrata di una cinquantina di metri e i bidoni erano allineati lungo il viottolo d'accesso. All'inizio di quel viottolo il ragazzo mi lasciò, indicandomi col mento un giovane intento a riempire delle taniche. Anche il fuoristrada si arrestò: andai avanti. «Sei Munir? Mi manda Omar. Omar del villaggio Calypso.» Si pulì la mano sulla tela blu dei pantaloni e me la porse: «Munir Karoui». «Anna Pavesi. Italiana.» Cosa voleva da lui una donna, per di più italiana? La domanda gliela si leggeva negli occhi. Era il caso di dargli subito la lettera del suo amico. «Venga» mi disse dopo averla terminata e me lo disse nella mia lingua, «andiamo a parlare all'ombra.» Entrammo nella baracca di legno. C'era un tavolo, due sedie, un pagliericcio e un fornellino a gas. Dal soffitto, fatto di assi, pendeva una lampada, a gas anche quella; accanto, un geco ci guardava. Ci sedemmo al tavolo. «Lo vuole un tè?» Con una temperatura esterna di almeno quaranta gradi, mi sembrava la cosa meno indicata, ma decisi di dar credito alla leggenda secondo la quale le bevande calde dissetano più di quelle fredde; tanto più che la CocaCola di prima aveva lasciato dietro di sé un'arsura profonda. Pose il bollitore sul fornello e mentre premeva il pollice sulla rotella dell'accendino, pensai alle migliaia di litri di benzina che c'erano lì fuori, sotto il sole: una scintilla di troppo e... Si mise di nuovo seduto. Avrà avuto una trentina d'anni e in quella baracca ai confini del deserto sembrava davvero fuori posto. «Così qualcuno ha ucciso Jonathan vero?» «È stata una donna, un'italiana come me.» «Prima o poi doveva capitare. Il mondo continuerà anche senza di lui.» «So da Omar che ti hanno licenziato per colpa di Johnny, ma che non gli hai mai raccontato tutta la storia. Io però devo capire se c'entra qualcosa con quello che ha fatto la ragazza italiana: lei non ricorda nulla.» «È capitato l'anno scorso. Io facevo le pulizie nelle stanze degli animatori. In quella di Johnny c'erano sempre tanti cd e tanti dvd. Lui scaricava i film da internet, con eMule, e poi li masterizzava. Film in italiano e in inglese e io volevo imparare le lingue, specie l'italiano. Volevo
iscrivermi a una scuola per barman e poi trovare un posto migliore nel villaggio. Non volevo rifare letti e pulire le stanze per tutta la vita.» «Così gli hai rubato dei film?» «No, non glieli rubavo. Li prendevo in prestito e poi li restituivo.» «A casa avevi il lettore dvd?» «No, ma dove abitavo c'era un centro per la gioventù che lo aveva. Era lì che andavo a vedere i film, con due miei amici che volevano imparare le lingue come me.» Il bollitore fischiò e lui spese qualche secondo ad armeggiare con cucchiaini e foglie di tè. «Sovente lui non scriveva i titoli sui dischi, così una volta io ne ho preso uno e quando siamo andati a vederlo abbiamo scoperto che non era un film, cioè era un film, ma...» Anche se il suo italiano era quasi privo di difetti, gli mancarono le parole: come faceva un giovane ben educato, ancorché contrabbandiere, a dire certe cose davanti a una donna? Lo aiutai: «Era un film pornografico?». «Sì... Però non c'erano gli attori. Cioè sì, c'erano un uomo e una donna, e l'uomo era Johnny e la donna una signora che avevo notato nel villaggio. Una che avevo sempre visto col marito.» Un flash nella mente: «Vero sesso amatoriale – Serena Liberati, l'ex presentatrice di Sportmania Abruzzo, ripresa con telecamera nascosta. Scarica il video da eMule». «Secondo te, la donna sapeva di essere ripresa?» «No, nel film si vedeva Johnny che nascondeva la telecamera in uno zainetto, poi c'erano un po' di riprese traballanti che diventavano ferme quando lui appoggiava lo zaino su un ripiano.» «Era stato ripreso in una stanza del Calypso?» «Sì, in una junior suite.» Il tè era pronto. Prese due bicchieri inopinatamente puliti e lo versò. Non era il solito tè alla menta. Era più profumato: il suo gusto, che scaturiva dalle foglioline disperse nel bicchiere, foderava la bocca. Sì, era davvero rinfrescante. «E poi cos'è successo?» «Abbiamo mandato avanti il disco saltando le scene e abbiamo visto che c'era un altro filmato, uguale al primo, ma con un'altra donna.» Un collezionista, il nostro Johnny. Quanto all'avanti veloce avevo i miei dubbi, ma non potevo escludere che, almeno su quel versante, Munir fosse integerrimo. «Così sei andato a parlarne a Elisabetta?» «Sì, alla direttrice. Se si sapeva in giro che al villaggio le donne venivano riprese mentre tradivano i mariti si rischiava uno scandalo e potevano licenziarci tutti.» «E invece hanno licenziato solo te.» «La direttrice ha detto che erano cose di cui non mi dovevo impicciare e che ero un ladro
perché avevo rubato i cd nella stanza di Johnny. Ma io li restituivo sempre, erano solo in prestito.» Povero ragazzo. La storia del cittadino modello che denuncia un crimine e finisce lui stesso in galera era vecchia come il mondo, ma ogni volta che tornava d'attualità sembrava più crudele. Se solo avesse avuto un po' d'intuito femminile, di sicuro non sarebbe andato ad accusare Johnny proprio davanti a Elisabetta, se solo avesse avuto un po' d'intuito femminile avrebbe capito che per la direttrice, l'istruttore di windsurf era intoccabile, e anche di più. Ma per vendere carburanti di contrabbando in un avamposto sperduto non erano richieste doti femminili, anzi. «Grazie Munir, non sai quanto mi sia stato utile quello che mi hai detto. Se vuoi provo a parlare con qualcuno del tour operator per farti di nuovo assumere al villaggio.» Con le informazioni che mi aveva dato mi sentivo in mano un potere ricattatorio incredibile e, come una brava fatina, non vedevo l'ora di usarlo a fin di bene. «No, grazie. Qui si guadagna di più. È una vita dura, ma per qualche anno posso farla. Metto via un po' di soldi, poi si vedrà.» Difficile far concorrenza al Gatto e alla Volpe. Metà accompagnatore turistico e metà, o forse molto meno, guardia del corpo, il mio autista mi attendeva appoggiato alla macchina con gli occhi fissi alla baracca nella quale ero sparita. Invertimmo la rotta, senza aver neppure visto quel confine libico irto di spie e saturo di avventurieri. La monotonia del paesaggio mi aiutava a concentrarmi, a ricostruire gli eventi. Aurora invita Johnny nella sua camera: si sono già messi d'accordo e lui aspetta solo 1'SMS di conferma. Nella sua infantile ingenuità, lei pensa a un'avventura romantica. Il grande amore ce l'ha già, adesso cerca il brivido, vuole sentirsi seduttrice. Fanno sesso, alla grande. Poi, da quello zainetto appena un po' aperto filtra una luce rossa. Aurora si incuriosisce e scopre la telecamera, magari mentre Johnny è in bagno per le abluzioni di rito. Quando lui torna nella stanza, lei ha il coltello in mano, e lo usa. Perfetto. Finalmente avevo qualcosa di concreto e di utile. In un Paese musulmano, l'onta di aver prodotto film pornografici avrebbe pesato sulla reputazione della vittima forse più di un tentativo di stupro, e quel peso avrebbe alleggerito la bilancia dalla parte di Aurora. Peccato che nella stanza non vi fosse alcuna traccia della telecamera, dunque... A meno che... A meno che qualcuno non l'avesse fatta sparire prima dell'arrivo della polizia, qualcuno che conosceva le abitudini di Johnny e che era andato a colpo sicuro; qualcuno o qualcuna. Adesso che possedevo la verità, mi bastava dimostrarla. E non era facile. Elisabetta era un osso duro e certamente aveva già ripulito la camera di Johnny da tutto il materiale compromettente. Quanto a confessare, neanche a parlarne: il suo onore e quello del suo pupillo andavano salvaguardati a ogni costo, anche se lui era morto, defunto e magari riposava in pace in un'urna appoggiata sul camino di qualche bella casa americana. Sol chi non lascia eredità d'affetti poca gioia ha dell'urna. Di nuovo il flash: «Vero sesso amatoriale – Serena Liberati, l'ex presentatrice di Sportmania Abruzzo, ripresa con telecamera nascosta. Scarica il video da eMule».
Quante erano le possibilità che il video di Serena Liberati fosse stato girato proprio da Jonathan? Una su un milione, se si considerava solo la quantità di materiale pornografico che girava in rete, molte di più se si contemplava l'ipotesi che la presenza di Libero Liberati al villaggio non fosse affatto casuale. Non rimaneva che un modo per verificarlo: scaricare il video. «Quanto manca a Remada?» «Circa mezzora.» «E là troviamo un bar?» Avrei voluto aggiungere «pulito» o «decente», ma mi sembrava offensivo. «Se vuole possiamo fermarci prima.» Non mi pareva di aver visto qualcosa che assomigliasse a un bar, ma non feci obiezioni perché, il guidatore l'aveva capito, mi scappava la pipì. Un paio di chilometri più in là, si fermò in un villaggio che all'andata avevo notato appena. Non c'erano baracche e non c'erano bidoni. Solo povere case, povera gente. Non pensai più al Far West, ma a carovane e carovanieri, a una stazione di sosta lungo le invisibili vie del deserto. Dromedari carichi di spezie d'oriente fermi a riposare e i loro conduttori fermi anch'essi, davanti a un montone arrostito dalle donne del posto. Di dromedari non se ne vedevano e neanche di Touareg col turbante blu e gli occhi profondi. Al loro posto, qualche camion, qualche auto e una decina di autisti sotto il porticato di un bar. Da immaginario centro carovaniero, il paese era stato declassato a stazione di servizio. Sul lato destro della strada, un bugigattolo adattato a officina serviva da ultima spiaggia per quelli con il radiatore rotto o le gomme da vulcanizzare dopo una foratura; il vicino cimitero di motori, copertoni, batterie e pezzi vari, testimoniava l'importanza di quella last hope. Il bar era un parallelepipedo con muri di pietra chiara e una tettoia in cemento sostenuta da esili pilastri. La facciata era intonacata, dipinta di bianco e rivestita fino a mezza altezza di mattonelle decorate sui toni dell'oro e del blu. Davanti, i mezzi posteggiati formavano una fila compatta e fummo costretti a fermare il fuoristrada un po' più in là: i problemi di parcheggio di Bergamo Alta li portavo con me fin nel deserto, come una condanna. Scesi dall'auto e guardai la strada: sabbia e asfalto si confondevano, al punto che non era più possibile capire dove finiva l'uno e dove iniziava l'altra. Su quel confine incerto tra le due materie, un bambino stava seduto con le spalle addossate al muro di cinta di una casa. Indossava un paio di calzoncini corti, una canottiera bianca ed era a piedi nudi. Il suo sguardo si posava curioso sulle macchine e sulle persone, come se ciò che accadeva nello spazio infinitesimale delimitato da quelle due strisce di case fosse sufficiente a spegnere ogni sua sete di sapere. La mia camminata, il mio essere donna vestita da uomo lo interessarono per un po', fino a che non giunsi al bar, poi, voltandomi, scoprii che i suoi occhi avevano già trovato altro. Lo stupore ingenuo del bambino lasciò il posto a una curiosità più profonda, morbosa, e gli sguardi si moltiplicarono: taglienti come bisturi intorno al tavolo settorio. Affiancata dal mio accompagnatore, attraversai il porticato, in mezzo a un silenzio che avevo rapidamente
imparato a conoscere, e giunsi al bancone. Non avevo fame, e anche l'avessi avuta il bar non offriva nulla da mangiare. Ormai convinta del potere dissetante delle bevande calde, bevvi di nuovo un tè, fingendo di non vedere che i bicchieri non venivano lavati, ma semplicemente sciacquati in una bacinella e che le mandorle venivano pescate nel barattolo dalle mani dell'anziano barista. Sorseggiai il mio tè, mentre tutto intorno, a poco a poco, le voci riprendevano vigore: anche per i clienti, il mio passaggio era stato soltanto la distrazione di un momento, per fortuna. E finalmente feci al cameriere la domanda che più mi stava a cuore in quel momento: «La toilette?». Lui, piegando il gomito e il polso fino a formare degli angoli retti, mi fece capire che dovevo uscire e girare intorno alla casupola. Seguii le istruzioni e uscendo notai che, di fronte a quella versione berbera dell'autogrill, i veicoli erano aumentati e che addirittura, come nelle strade chic delle metropoli europee, un fuoristrada bianco era stato abbandonato in doppia fila dalla superbia del suo proprietario. Sul fianco sinistro della costruzione, un'apertura protetta da una porta metallica, inevitabilmente azzurra, immetteva nella latrina, ché chiamarla bagno sarebbe stata una forzatura semantica. Non mi sfiorava quasi mai il desiderio di essere uomo, ma in quei momenti, l'invidia per chi poteva urinare in piedi, contro un muro, incurante della decenza e della buona educazione, si faceva sentire. Il puzzo e la sporcizia mi fecero riservare un po' d'invidia persino per le vecchie matrone d'un tempo, che con le loro gonne ampie e lunghe potevano accucciarsi in un prato e svuotarsi la vescica. Varcai la soglia, attraversai un breve corridoio dove il sifone gocciolante di un lavabo aveva creato una pozza sul pavimento e mi infilai nel vano occupato per intero da una turca arrugginita e protetto da una porta senza serratura alla quale bisognava aggrapparsi per garantire un minimo di privacy. Sollievo, liberazione, malgrado tutto. L'operazione di richiudere i pantaloni e allacciarsi la cintura richiedeva l'uso delle due mani. Fu per quello che mollai la maniglia e non appena la mollai la porta si spalancò, di botto, con violenza. Tra me e il corridoio si era inserito un uomo. «Un attimo, esco subito.» Non so se lo dissi in italiano o in francese, ma comunque non servì a nulla. Non era la turca ciò che lo interessava, non era lì per liberarsi. Credo che a noi donne nessuno lo abbia mai insegnato, tecnicamente intendo. Nessuno ci ha mai fatto vedere come si fa, qual è il movimento. Se ne parla, certo, come un'ipotesi, si scherza perfino, ma le madri, i padri, i fratelli, le amiche, nessuno ti ha mai preparata per quello. Tuttavia, quando viene il momento, quasi fosse una reazione istintiva o un'eredità genetica, tu sai quello che c'è da fare e lo fai. Sai che quella è la tua unica risorsa; può non bastare, può persino metterti in guai peggiori, ma non c'è altra via. L'importante è la velocità, la sorpresa; anche quello non te lo hanno mai spiegato, ma anche quello lo sai in quanto donna, sai che il tuo pensiero può essere più veloce del suo e sai che pensiero e azione devono essere una cosa sola, prima che lui muova anche solo un muscolo, dopo è troppo tardi. Quella volta funzionò. Si piegò in due, credo per una ragione di statura: ero più alta di lui e il mio ginocchio lo aveva raggiunto all'inguine con il massimo della violenza. Lo spinsi indietro e
scappai fuori, senza urlare: non ne avevo la forza. L'autista attendeva sotto il portico. Lo presi per un braccio e lo trascinai verso la macchina: non mi interessava che capisse, doveva sbrigarsi, tutto lì. Accese il motore e partì. Io, attraverso il lunotto, osservai il fuoristrada bianco parcheggiato in doppia fila. Un Toyota come tanti, come quello che, secondo me, ci aveva seguito. Fu un'unica, lunga, interminabile cavalcata. Non sentivo la fame, né la sete, né il caldo. E soprattutto non volevo fermarmi. Offrii persino il cambio all'autista. Lui rifiutò, malgrado la stanchezza. Era un continuo voltarsi indietro per sorprendere l'attimo in cui il fuoristrada bianco si sarebbe materializzato, come l'autobotte di Duel, come le auto che mi avevano già inseguito nella mia breve carriera di detective per forza. E quando non guardavo indietro, cercavo di concatenare gli eventi: l'incidente in mare, l'aggressione. L'uomo della latrina era solo un infoiato desideroso di mostrarmi le sue capacità amatorie o era lo stesso che guidava la moto d'acqua? Erano complici o non c'era nessun rapporto? Guardavo, scrutavo: il fuoristrada bianco era scomparso, la mia paura andava e veniva.
Aprire la porta della mia camera e gettarmi sul letto fu un gesto solo. Ero distrutta, avrei voluto dormire fino al giorno dopo, ma erano solo le cinque del pomeriggio e mi rimanevano ancora parecchie cose da fare. Mi concessi quindici minuti: distesa, con gli occhi chiusi, senza pensieri, ne avevo bisogno. Via la maglietta, via i jeans: dalla tasca rotolò sul pavimento la bomboletta di spray irritante, utile come un impacco su una gamba di legno. Un bip bip del telefonino mi segnalò che il quarto d'ora di ricreazione era finito. Accesi il computer e come prima cosa avvertii Marco del mio ritorno: annapavesi.bergamo scrive: 17.22.22 sono tornata. Tutto bene. Mentii fin dall'inizio, ma allarmarlo retroattivamente non aveva alcun senso. marco.callegari2 scrive: 17.22.29 il viaggio è stato fruttuoso? annapavesi.bergamo scrive: 17.23.01 credo proprio di sì, ma adesso me ne accerto. marco.callegari2 scrive: 17.23.39 quando torni? annapavesi.bergamo scrive: 17.23.51 non so. Aurora migliora, ma non ricorda. Prima o poi la dimetteranno. A quel punto aspetto di vedere come reagisce ai primi giorni di carcere e poi torno in Italia.
marco.callegari2 scrive: 17.24.18 l'avvocato si è visto? annapavesi.bergamo scrive: 17.24.27 no, e neanche qualcuno dal 'ambasciata. A meno che non sia successo oggi. Stasera chiedo a Ermanno. marco.callegari2 scrive: 17.24.46 ti manco? Ricominciò la serie di tenerezze, anche se dentro di me fremevo: avevo fretta di verificare l'ipotesi che riguardava Serena Liberati, Johnny e il video pornografico. «Vero sesso amatoriale – Serena Liberati, l'ex presentatrice di Sportmania Abruzzo, ripresa con telecamera nascosta. Scarica il video da eMule.» Aprii il software per lo scambio di file e digitai le parole chiave per la ricerca: trovare il video non fu difficile. Chiesi al sistema di scaricarlo sul mio computer e il procedimento prese avvio. Tempo previsto per l'operazione: 1 giorno, 2 ore e 37 minuti. Il passaggio dei filmati in rete rimaneva molto lento, e quella non era che una stima ottimistica: se la connessione si fosse interrotta, per vedere le performance di Serena avrei dovuto aspettare anche due o tre giorni, per poi magari scoprire che il suo compagno di acrobazie non era affatto Johnny. Mentre c'ero, pensai di estendere la ricerca in modo da comprendere altri capolavori della settima arte nei quali il nostro istruttore di windsurf avesse dato il meglio di sé. Avevo già verificato che non c'era nessun video associato al suo nome, quindi fui costretta a digitare parole generiche come «amatoriale», «sesso» e «telecamera nascosta». Non ho mai amato le frasi fatte, ma dovetti ammettere che era come cercare un ago in un pagliaio. Ogni ricerca produceva centinaia di titoli, centinaia di video pornografici girati, presumibilmente, all'insaputa di qualcuno. Era folle l'idea di visionarne anche solo una minima parte, eppure dovevo provare. Dicevano che per catturare i serial killer bisognasse analizzare il loro modus operandi, chissà che per i pornografi non valesse lo stesso principio. Se era stato Jonathan a mettere in rete il filmato di Serena, poteva averne messi altri seguendo il medesimo criterio di denominazione del file. Osservai attentamente il nome del documento elettronico che stavo scaricando: «Vero sesso amatoriale TC nascosta – Serena». Nell'elenco sterminato dei file disponibili isolai quelli che riprendevano, nel titolo, la stessa struttura: Vero sesso amatoriale TC nascosta – Antonella Bari Vero sesso amatoriale TC nascosta – Marina Vero sesso amatoriale TC nascosta – Giorgia Vero sesso amatoriale TC nascosta – Susanna porca Vero sesso amatoriale TC nascosta – ragazza Verona Dovevano essercene altre decine, ma decisi di limitarmi a quei cinque filmati: se anche uno solo di quelli avesse fatto al caso mio avrei potuto dirmi straordinariamente fortunata. Il loro tempo di download variava da poche ore a un giorno, a seconda di quanto fossero grandi i file e di quanti utenti li mettessero in condivisione.
Scorrendo per un ulteriore approfondimento la lista dei titoli disponibili, mi accorsi della presenza di un'altra denominazione ricorrente: Sex TC nascosta 3X3 – MMF Sex TC nascosta 3X3 – MFF Sex TC nascosta 3X3 – MFF Sex TC nascosta 3X3 – MMF Ci impiegai un attimo a capire il significato di quelle abbreviazioni, ma quando ci arrivai, per l'ennesima volta si aprì davanti a me un nuovo scenario. «3x3» stava per rapporto a tre, e le varie combinazioni di M e di F indicavano il numero di maschi e di femmine. Dopo il colloquio con Munir, avevo valutato la possibilità che la furia omicida di Aurora fosse esplosa alla scoperta della telecamera, ma non avevo pensato che di fronte a quell'obiettivo potessero esserci non due ma tre persone. Questo cambiava tutto, cambiava persino la posizione della stessa Aurora: da vittima a semplice testimone dello sgozzamento di Johnny. L'amnesia poteva essere dovuta allo shock e la telecamera poteva averla fatta sparire il terzo componente del trio, uomo o donna che fosse. Già, uomo o donna? Elisabetta? Insospettabile direttrice nel suo ufficio di cristallo, complice scatenata del suo amichetto nelle camere delle clienti. Ecco perché aveva licenziato il povero cameriere tunisino! Lui aveva scoperto un video normale, un semplice «MF», ma lei sapeva che c'era dell'altro, c'erano gli «MFF» e magari gli «MMF». Ma allora perché avrebbe ucciso il suo complice proprio stavolta? No, la mia ricostruzione non reggeva. Per di più c'era la questione del coltello nel comodino: come faceva Elisabetta a sapere che l'arma si trovava nel cassetto? Nel cassetto del tavolino da notte uno ci tiene i preservativi, i tappi per le orecchie, magari un fazzoletto, ma immaginare di trovarci un coltellino svizzero, proprio no. Niente da fare, la colpevole rimaneva Aurora. Questo non escludeva però che Elisabetta si trovasse lì, che fosse la seconda F. Ma poi, perché mi ero messa in testa che dovesse essere proprio una F? Forse perché un maschio avrebbe saputo difendere Johnny da Aurora? O perché, in fondo, Elisabetta mi era antipatica? O ancora perché quel fuoristrada bianco che a un certo punto aveva preso a seguirci e si era materializzato un attimo prima che mi aggredissero doveva conoscere la nostra destinazione, conoscerla come la conosceva Elisabetta. Ma chiunque fosse fuggito dalla camera di Aurora dopo l'omicidio avrebbe dovuto lasciare impronte insanguinate. Se la direttrice fosse stata nuda su quel letto, sarebbe stata investita dagli schizzi e prima di uscire dalla portafinestra avrebbe dovuto rivestirsi, disseminando la stanza di tracce. A meno che non si fosse pulita con qualcosa che già si trovava sul letto, che so, un asciugamano: quando si fa sesso, un asciugamano sul letto non è improbabile. Si pulisce, si veste e scappa portando con sé la telecamera, cioè la prova della sua presenza lì, e l'asciugamano imbrattato di sangue, il tutto mentre Aurora è svenuta. Certo però che, anche se si fosse detersa sommariamente, attraversare il villaggio tra le nove e le dieci, in quelle condizioni, con un fardello insanguinato, non sarebbe stata un'impresa facile. Immaginai lo sconcerto degli addetti alla sicurezza nel vedere la loro direttrice conciata come un cannibale dopo il pasto. Cosa avrebbero fatto?
Le immagini si richiamano, si concatenano, procedono per analogie, come le intuizioni. Addetti alla sicurezza uguale controllo, controllo di chi?, dei ladri, dei malfattori, dei clandestini, clandestini tunisini, in Italia, ma anche in Tunisia, i bambini tunisini si infilavano clandestinamente nel villaggio per scroccare una Coca o una Fanta, la sicurezza li inseguiva e loro scappavano, ma dove scappavano?, oltre il muro, nell'albergo abbandonato, il muro è a pochi passi dalla stanza di Aurora, l'albergo è un buon rifugio, per il bambino, e per l'assassino, ma non è un assassino, e neanche un'assassina, è solo una testimone, che non testimonierà, è solo la F di troppo, che scappa oltre il muro, col suo fagotto, col suo fardello. Quante congetture, tutte insieme! Il trio, il video, la scoperta della telecamera, tutto finisce male, Aurora uccide, Elisabetta fugge. E a sostegno di quelle congetture nessun elemento serio, solo un riferimento web a Serena Liberati e il soggiorno di suo fratello al villaggio. Però non un soggiorno qualsiasi, un soggiorno accanto a Ermanno, sotto le mentite spoglie di un velista debuttante. Stavo per andare in confusione. Cliccai ripetutamente per scaricare anche i video che annunciavano sesso a tre e mi domandai se Aurora, nella sua fase ipomaniacale, si sarebbe potuta spingere fino a concedersi un incontro così «particolare». Sapevo che la cena con Ermanno mi sarebbe rimasta sullo stomaco e ne avrei fatto volentieri a meno, ma volevo notizie fresche di Aurora e dell'arrivo del fantomatico avvocato. «Non mangi nient'altro?» «Ho già mangiato una porzione di riso.» «Non era una porzione, erano quattro cucchiaiate. Non è che digiunando tu aiuti Aurora.» Ero certa di essere insopportabile nella mia versione materna, ma quello che avevo davanti non era più un uomo, era una larva. Mi alzai e andai a riempirgli il piatto con una fetta di carne e qualche patata. «Tieni, le patate fritte non le rifiutano neanche i bambini inappetenti.» Lui prese a infilzarle con la forchetta, una a una, svogliatamente. «Come hai trovato Aurora questa mattina?» «Come al solito. Stessa amnesia, stessa incoscienza: non ha ancora capito che se non riesce a dare una spiegazione accettabile finisce in galera per sempre.» «Guarda che è meglio così. Se comprendesse di colpo la sua reale situazione, i rischi di suicidio salirebbero di nuovo in maniera esponenziale: noi possiamo stare con lei mezzora, il resto della giornata è abbandonata a se stessa. Hai presente cosa succederebbe se ripiombasse in stato di depressione? Meno male che non realizza: è un effetto dei farmaci.» «Ogni tanto ho l'impressione che non tornerà più quella di prima, che non sarà mai più l'Aurora che avevo conosciuto.» «L'Aurora che hai conosciuto non è mai esistita. Devi rassegnarti. Dimmi piuttosto dell'avvocato: quando arriva?»
«Nessuna notizia. Ho telefonato di nuovo all'ambasciata. Dicono che l'avvocato interverrà quando il giudice andrà a interrogare Aurora; fino a quel punto non serve.» «E il giudice può metterci anche un mese prima di interrogarla, vero?» «Qualcosa del genere. Mi hanno anche detto che più agitiamo le acque peggio è, e che chiamare qualcuno dall'Italia sarebbe solo controproducente.» «Si riferivano a me?» «Non credo. No. Forse non sanno neanche che tu sei qui.» «Hai sentito la madre?» «Mi sembra rassegnata.» «Ti ha chiesto se avevo scoperto qualcosa su come erano andate le cose?» «No. Non mi sembra che le importi molto. Mi sono fatto l'idea che in fondo lei si aspettasse prima o poi una cosa del genere.» Si era fatto l'idea giusta. Non aggiungemmo troppe parole, ché già quelle ci erano costate una fatica enorme. Mi chiese soltanto se anche il giorno dopo avrebbe potuto vedere la sua fidanzata da solo e io gli diedi il mio assenso. Mi ero ripromessa di passare un'oretta al pianobar per allentare un poco la tensione, ma alzandomi da tavola sentii cadere su di me tutta la stanchezza della giornata. Avevo le gambe molli e, per la prima volta da quando ero in Tunisia, la schiena mi faceva veramente male. Colpa di centinaia di chilometri in auto e di tutto il resto. Tornai in camera con passi corti e misurati, strascicati, con la stessa lentezza con cui i video che avevo richiesto stavano gocciolando, byte dopo byte, nel mio computer. Osservai lo schermo con occhi ormai annebbiati: accanto al file «Vero sesso amatoriale TC nascosta – Giorgia», la linea verde che indicava la progressione del download era poco oltre la metà del suo percorso, le altre erano molto più indietro. A tavola, Ermanno mi aveva di nuovo chiesto se il destino di Aurora sarebbe stato simile a quello della ragazza tunisina arrestata per contrabbando, quella di cui aveva letto qualcosa in rete: la mia risposta era stata evasiva, perché altrimenti avrei potuto solo ribadire che ciò che attendeva Aurora era ben più drammatico di una condanna per contrabbando. Però ero rimasta incuriosita dalla vicenda, soprattutto dopo le decine di contrabbandieri che avevo visto verso la Libia. Cercai notizie più approfondite. Sul sito http://halima.onlc.fr/ trovai la foto di una bella ragazza, sorridente, ricciolina, i capelli tinti di biondo, le spalle nude e il petto coperto solo da una canottiera grigia della Adidas. Un ritratto allegro, che produceva un contrasto straziante con quello che era scritto sotto: La vostra vita può essere sconvolta da un momento all'altro in Tunisia. Domani, questa storia potrebbe essere la vostra, in un Paese dove la parola di un delinquente recidivo pesa di più di quella di una persona onesta. La testimonianza menzognera di qualcuno può condurvi in
prigione per un tempo indeterminato. Allora la libertà non resta che un ricordo, l'incubo comincia e l'attesa di un'eventuale liberazione rimane nel 'ombra. E pensare che Halima Baravati è un'animatrice turistica senza storia, con la fedina penale pulita, sposa novella, che non chiede altro se non di poter aiutare il prossimo. Perché permettono una tale ingiustizia in Tunisia? Quella pagina rimandava ad altre. Su http://halima.bloguez.com/ c'era un'intervista al marito dell'animatrice. La data era quella del 6 luglio 2007, neanche un mese prima. INTERVISTA A NABIL SELLAMI Aveva diciannove anni, lavorava, si era appena sposata ed era incinta. Il 7 novembre 2006, Halima Baravati è stata arrestata e rinchiusa nel a prigione femminile di Mannouba, in attesa del processo. Quest'ultimo è già stato rinviato a più riprese e dovrebbe tenersi nei prossimi mesi. Halima ha vissuto un fermo di polizia spaventoso (al termine del quale ha avuto un aborto spontaneo) al quale è seguita una detenzione preventiva particolarmente lunga se si tiene conto della giovane età, dell'assenza di precedenti e della fragilità delle accuse contro di lei. Suo marito, di nazionalità francese, torna con noi su questi otto mesi di lotta combattuta per salvare sua moglie, il loro matrimonio e la loro dignità. D. Signor Sellami, lei sta conducendo una lotta instancabile per la libertà di sua moglie e per provare la sua innocenza, innocenza della quale lei è profondamente convinto. Può spiegarci quali sono state le sensazioni che ha provato quando, poche settimane dopo il vostro matrimonio, ha saputo del suo arresto? R. Subito sono rimasto scioccato, mi sono detto che doveva esserci un errore, che mia moglie sarebbe stata presto liberata. Ero fiero di aver sposato la mia perla rara, la mia Halima. Ai miei occhi era impossibile che la donna che avevo sposato e che conoscevo bene avesse potuto nuocere a qualcuno. Mia moglie ha il cuore troppo grande per nuocere a chicchessia. Pian piano ho cominciato a odiare l'uomo che con la sua falsa testimonianza l'ha trascinata in prigione. Oggi ho una visione completamente diversa della Tunisia, anche se in fondo al mio cuore coltivo la speranza che la giustizia non condanni una innocente. Non abbiamo neppure avuto il tempo di partire per la luna di miele. D. Lei vive e lavora in Francia, ha potuto farle visita in carcere? R. Mi sono precipitato in Tunisia appena ho saputo. Ci sono due tipi di visite; la visita normale, di circa quindici minuti, con un vetro che ci separa e con un telefono per comunicare, e poi la visita «eccezionale», consentita con un permesso speciale del tribunale, durante la quale posso stare mezzora seduto vicino a mia moglie, posso tenerle la mano e posso anche darle un bacio quando lei arriva e quando torna in cella. L'intervista continuava e leggendola mi persuadevo che il trattamento riservato ad Aurora era molto più che eccezionale. Difficile dire quanto sarebbe durato, per quanto tempo il tour operator avrebbe unto gli ingranaggi del sistema. Aveva ragione Ermanno a disperarsi.
L'orchestra del Titanic suonava, anche se a qualche centinaio di chilometri, una ragazza di diciannove anni marciva innocente in carcere, anche se suo marito non poteva fare altro che tenerle la mano, in un parlatorio squallido dove la speranza diminuiva a ogni visita. Al dolore alla schiena si associò un dolore più profondo, nell'animo. Ingurgitai un Brufen e andai a dormire, lasciando acceso il notebook.
Venerdì 3 agosto 2007 Il primo pensiero del mattino fu per i video che stavo scaricando; mi ero convinta che le spiegazioni al gesto di Aurora non potessero che venire da lì e non sapevo se la mia convinzione fosse fondata, ma era l'unica che avevo: in una settimana di permanenza al villaggio non ero riuscita a trovare di meglio. Schiacciai un tasto a caso per riattivare lo schermo del computer e osservai gli indicatori di download: erano quasi tutti di colore nero con alcune fasce blu e una lineetta verde in alto; significava che il trasferimento dei file non era ancora stato completato. Uno solo era passato dal nero al verde pieno: il filmato di tale Giorgia era ormai memorizzato sul mio elaboratore. Feci doppio click sul nome del file. Sullo schermo partirono le immagini e con sorpresa notai che non erano in movimento: si trattava di fotografie messe in sequenza. Nella prima si vedeva una coppia vestitissima e abbracciata, il mare sullo sfondo e un'agave di lato. Lei, la presunta Giorgia, era una ragazza sui venticinque anni, insignificante, se non fosse stato per un paio di occhi azzurri che sembravano implorare tenerezza. Lui, era un po' più vecchio: capelli radi, color cenere, mento troppo affilato e occhiali da sole giganti che lo facevano assomigliare a una mosca. L'inquadratura stessa aggiungeva bruttezza là dove non ce n'era bisogno: scattata con il braccio teso e l'apparecchio rivolto verso l'operatore, la foto restituiva due figure deformate, come quelle negli specchi del luna park. Dieci secondi dopo, l'immagine cambiava, la ragazza era ripresa da sola, seduta su un muretto, in un paese di mare che mi parve di poter riconoscere come Vernazza, alle Cinque Terre. Altri dieci secondi, altra foto. I due sono in piedi, lui sorride, lei lo bacia sulla guancia abbracciandolo; nessuna distorsione delle sagome, nessuna bombatura, un passante gentile ha sicuramente risposto di sì alla richiesta dei due innamorati: «Scusi, ci fa una foto?». Dieci secondi. Ancora agavi, ancora mare, sentiero, cespugli, Giorgia sempre insignificante ma felice di percorrere a piedi la Via dell'Amore. Dieci secondi dopo, Giorgia ha in bocca il membro del fidanzato. Il tono delle immagini è mutato di colpo, così come lo sfondo: una camera d'albergo. Dieci secondi: ancora fellatio. Dieci secondi: primo piano sulla penetrazione. Dieci secondi: da dietro. Alta definizione, oggettività ginecologica. Dieci secondi: il volto della ragazza è affiancato da una scritta: «Questa è Giorgia, la mia ex. Mi ha lasciato per un altro perché vedete quanto è troia. Non durerà, quindi fatevi pure sotto, il suo numero di cellulare è...». Lurido. Il fidanzato abbandonato aveva messo in rete le foto per vendicarsi. Sapevo che accadeva, ma non mi era mai capitato di vedere con i miei occhi queste nuove gogne. Il fallo così ben ritratto era il suo, ma la vergogna doveva ricadere solo su di lei: perché? Avevano fatto l'amore: questo non trasformava lei in una puttana. Lui aveva scattato delle foto per aggiungere un po' di pepe e l'altra aveva acconsentito: pepe per entrambi. E invece, nella volgarità di quella sequenza, lei diventava una squallida prostituta e lui un nuovo Rocco Siffredi, una star. Maledetto. Ancora più maledetto per quell'accostamento tra immagini romantiche e immagini erotiche. Un accostamento che, se confinato nel loro album segreto, sarebbe stato solo il ricordo di quanto, un tempo, fosse stato esile il confine tra amore e passione. Invece, sbattuto in faccia a milioni di persone, sbandierato di qua e di là, significava disprezzo, intimità violata, violenza. Ecco, Giorgia era stata violentata. Come un violentatore, aveva fatto del suo corpo ciò
che aveva voluto, senza chiedere nulla, prendendosi con rabbia ciò che voleva prendersi. Il fidanzato aveva voluto ribadire che, anche se ormai relegato tra gli ex, lui, di quel corpo che gli si era offerto, rimaneva il vero padrone. Il possesso del maschio si esprimeva attraverso mezzi più tecnologici, ma rimaneva lo stesso. Maledetto. Povera Giorgia, era stata trattata come Pamela Anderson, ma sicuramente, per lei che non portava la sesta di reggiseno e non si esibiva in televisione con le grazie al vento, quella pubblicità era stata più devastante. Cercai in rete altre immagini ascrivibili alla categoria «ex girlfriend»: centinaia di migliaia di foto. Ne guardai qualcuna. Non mancavano quelle puramente pornografiche spacciate come amatoriali per accrescerne forse l'appeal, ma la maggior parte ritraevano ragazze normali, che avevano avuto come unica colpa quella di fidarsi del loro compagno, di prestarsi a un atto di complicità che si era trasformato in un'ignobile umiliazione. C'erano addirittura siti dedicati alla raccolta di questo materiale e uno di questi, per colmo di eleganza, sulla pagina inalberava il motto: « For every hot girl, there is a guy tired of fucking her»; ‘per ogni ragazza sexy, c'è un ragazzo stanco di scoparsela'. E allora, per cancellare quella stanchezza, per cacciar via la noia, il ragazzo stanco non trovava niente di meglio che distribuire a tutto il mondo gli attimi che aveva condiviso con la sua bella. Ne ero disgustata. L'ex marito di una giornalista di Fox News aveva fatto un bel collage affiancando l'immagine della moglie con il microfono in mano a quella della stessa moglie, distesa sul letto nuziale con le gambe aperte, per ribadire che poco importava il successo professionale, lei sarebbe rimasta sempre sotto di lui. Come puro esercizio accademico, ripetei la ricerca digitando «ex boyfriend». Trovai foto di gossip, foto di attrici e modelle incluse in articoli che narravano la loro vita privata, ma niente di paragonabile al sadismo che avevo riscontrato prima. Le donne non si vendicavano in quel modo, non esponevano al pubblico ludibrio i corpi che avevano accarezzato, non si trasformavano in aguzzine della rete. In tutto quello però, niente che avesse a che vedere con Johnny o con il villaggio. Controllai se per caso eMule avesse scaricato il video di Serena. Figuriamoci! La barra di avanzamento non aveva ancora superato la metà. Tanto valeva andare a fare colazione. Misi su un paio di pantaloncini blu e una canotta bianca e poiché non avevo voglia di indossare il reggiseno verificai bene le trasparenze: nulla di indecente, specie se confrontato a quanto avevo appena visto. Mi accontentai di un croissant e di un caffè, consumati in fretta al bar della piscina. Non volevo perdere tempo, sentivo che dovevo raccogliere altri dati da usare al momento giusto; quale fosse questo momento, naturalmente non lo sapevo. Andai nella hall e, fingendo di osservare i programmi delle escursioni, attesi che il banco della reception si svuotasse di turisti in cerca delle informazioni più disparate. Quando l'impiegato fu solo, mi avvicinai: «Qualche anno fa, una mia conoscente, Serena Liberati, è stata qui a Djerba; lei saprebbe per caso dirmi se era venuta proprio in questo villaggio? È solo per poterle scrivere qualche frase spiritosa sulla cartolina». Scusa pessima, ma le bugie non erano mai state il mio forte. «Mi dispiace signora, ma non sono autorizzato a fornire informazioni sui nostri ospiti. Le chiamo la direttrice.»
«No, non è il ca...» Ma prima che potessi finire la frase, nella sua parossistica efficienza, lui era già sparito nel retro. Un attimo dopo ricomparve accompagnato da Elisabetta, l'ultima persona che avrei voluto mettere al corrente delle mie ricerche. Inventare un'altra balla o puntare ostinatamente su quella di prima? Non riuscii a fare né l'una, né l'altra cosa: «Avrei bisogno di sapere se Serena Liberati è stata in passato vostra ospite». «La prima cosa che insegnano alla scuola alberghiera è il riserbo: senza quello, un albergo è destinato a fallire. Conosco il caso di un hotel di Como che ha mandato ai suoi clienti gli auguri di Natale. A febbraio l'albergo era già chiuso, sommerso dalle proteste di quelli che non avevano saputo spiegare alla moglie cosa ci fossero andati a fare lì.» «Immagino che assicurarle la mia massima discrezione non servirebbe a molto.» «A nulla, direi. Se crede può parlarne con il commissario Zaalani, o magari può chiedere al fratello che vende kebab a Bergamo di intercedere per lei. Altrimenti chiudiamo qui il discorso.» Che ingenua che ero stata. Il tempo passava senza che io riuscissi a farmi furba. Me ne andai avvilita, ma al tempo stesso scossa da una rabbia sorda. Odiavo quella donna, la sua sicurezza, la sua supponenza, e quell'odio non mi permetteva di stare tranquilla, di oziare in piscina con il mio Cheever, con la mia nuova, casuale scoperta tra le mani. Tornai in camera a controllare i download, ben sapendo che la situazione non poteva essere cambiata. E infatti la lista era sempre quella: Sex TC nascosta 3X3 – MMF Sex TC nascosta 3X3 – MFF Sex TC nascosta 3X3 – MFF Sex TC nascosta 3X3 – MMF Vero sesso amatoriale TC nascosta – Antonella Bari Vero sesso amatoriale TC nascosta – Marina Vero sesso amatoriale TC nascosta – Susanna porca Vero sesso amatoriale TC nascosta – ragazza di Verona Tutti in attesa di completamento. Ripensai a Elisabetta e mi accorsi che la rabbia non mi aveva lasciato. Avrei voluto aprire il primo video dell'elenco e scoprire che era proprio lei la F, avrei voluto vederla ridicolizzata, lei e la sua aria professionale, avrei voluto vederla sputtanata per sempre a sua insaputa, con il suo Jonathan e un altro stallone che la montavano ed esponevano le sue parti più intime come a un corso di anatomia. Accidenti, bastava poco per farmi ragionare come un uomo, come il peggiore degli uomini! Però, immaginarla mentre scappava dalla stanza di Aurora dopo il triangolo finito male non era cattiveria, era solo desiderio di verità, di chiarezza. Scappava dalla stanza, saltava il muro, spariva nell'albergo abbandonato e ricompariva presentabile all'ingresso. Ma era in grado di
saltare quel muro? Avevo visto i ragazzini scavalcarlo senza difficoltà. Li avrei imitati, se ce la facevo io, poteva riuscirci anche lei. Abbandonai le infradito e calzai le mie All Staff, penosa imitazione da bancarella delle All Star, che però presentava il vantaggio di non regalare soldi alla Nike. Allacciai bene le stringhe, preparandomi al gesto atletico, ma proprio in quel momento sentii una morsa nel ventre. Era colpa dei bicchieri sciacquati malamente nel bar lungo la strada? Colpa delle mandorle e delle mani che le avevano toccate o un effetto tardivo delle altre mani, quelle che avevano cercato di afferrami nella latrina? Troppo tardi per interrogarsi sulle cause. Finalmente fui pronta. Mi calai mentalmente in quella che battezzai «Situazione Elisabetta»: nuda, sporca di sangue, testimone di un'orgia finita male, presente nel posto sbagliato al momento sbagliato. Parlando da sola, commentai ogni mio gesto: ecco, adesso mi sono pulita come ho potuto con l'asciugamano, mi vesto, prendo la telecamera, la infilo nella mia borsa assieme all'asciugamano insanguinato, controllo di non aver lasciato niente che possa denunciare la mia presenza qui, l'angoscia cresce ma la controllo, sono una donna razionale, io, sono padrona di me stessa, per questo non esco dalla porta, ma dalla portafinestra, perché di lì, dal giardinetto non passa mai nessuno, e poi così posso chiudermi alle spalle l'anta a vetro in modo che sembri chiusa dall'interno. Rispettando i tempi e l'ansia della «Situazione Elisabetta», tentai di compiere quei gesti in modo concitato: borsa, porta, giardinetto, muro, di slancio, come i ragazzini, due mani appoggiate sul colmo, forza di braccia, su una gamba, la pancia appoggiata, l'altra gamba, salto. Ero di là, nell'altro mondo, in un giardino di sterpaglie seccate dal sole, tanto aggrovigliate da far pensare all'opera di un intrecciatore di cestini. Con una prepotenza che non credevo possibile in quella terra arida, invadevano quello che era stato il cortile d'onore dell'albergo e si arrampicavano su per la scala d'ingresso. Quanto tempo era trascorso da quando un umano si era avventurato su quei gradini? Sicuramente i ragazzini avevano subito voltato a sinistra e avevano preso la direzione del mare senza entrare nell'edificio. Elisabetta, al contrario, avrebbe dovuto scegliere la destra, camminare lungo il muro fino alla recinzione che dava sulla strada, oltrepassarla e rientrare al villaggio. Però avrebbe anche potuto chiedere di più alla struttura abbandonata; non solo una via di fuga, ma un nascondiglio, un posto dove occultare la telecamera e, perché no, dove lavar via le macchie di sangue che l'asciugamano non aveva portato via completamente. Un posto dove rassettare abiti e idee. Nella stanza era stata abile a non lasciare tracce, almeno per gli standard investigativi del suo amico Zaalani, chissà se lì lo era stata altrettanto? Salii le scale invase dalle erbacce ed entrai nella hall con la meraviglia di chi penetra nel relitto sommerso di un transatlantico. Vastità, silenzio, solitudine; era questo che colpiva. A non più di cento metri c'era il chiasso del Calypso, ma lì non si udiva un rumore. Al centro della sala vuota, girai su me stessa, lentamente: polvere, sabbia, finte colonne di stucco attraversate da crepe come rughe, fili elettrici che pendevano dal soffitto, ma nessuna traccia recente. Ancora un giro su me stessa. Non mi accorsi di niente, se non del fatto che il silenzio era solo un'illusione. Come sempre, il silenzio non era silenzio, era un concerto di rumorini isolati, una partitura cacofonica per oggetti, animali e forse anche uomini. Qualcosa, forse un'anta superstite, sbatteva ai piani superiori; qualcos'altro scricchiolava. E poi gocce, ticchettio di gocce. Dove? Cercai la cucina.
Piastrelle grandi, bianche, ma con vastissime incrostazioni di grasso, staccate in diversi punti, a mostrare i serpenti di colla che non erano riusciti a farle aderire al muro. Avrei voluto trovare un lavandino, una vasca, dei rubinetti: ma tutto era stato portato via: alle estremità dei tubi erano stati avvitati tappi di ferro grigio. Non era in cucina che qualcosa gocciolava e non era in cucina che Elisabetta s'era tolta dalla pelle il sangue del suo amante. Perlustrai altre zone al pianterreno, ma ebbi l'impressione che il rumore d'acqua venisse da sopra. Uno scalone elicoidale portava ai piani. Le lastre di marmo che un tempo rivestivano i gradini erano per la maggior parte scomparse: qualcuno aveva usato l'hotel come cava, esattamente come i papi avevano fatto con il Colosseo. Anche la balaustra era stata asportata e ora la scala aggettava pericolosamente sul vuoto. La salii addossandomi al muro. Tanto i saloni in basso erano invasi dal sole che penetrava attraverso le aperture prive di infissi, tanto il corridoio del primo piano era buio, chiuso com'era tra due file di stanze che, pur non essendo più dotate di porta, impedivano, in virtù della loro disposizione interna, il passaggio della luce. Mi costrinsi a non immaginare un bambino impaurito che pedalava sul suo triciclo lungo il corridoio, ma lo spettro inquietante di quell'evocazione cinematografica aleggiava comunque. Vastità e solitudine. Rimanevano quelle. Il silenzio era scomparso del tutto non appena i miei sensi si erano fatti più acuti. Come un rabdomante cercavo l'acqua, ma venivo investita e confusa da tutti gli altri suoni: vento, mare, uccelli. Entrai nelle stanze, una dopo l'altra. In ricordo della loro vecchia vita rimanevano solo i segni dei quadri sui muri. Nei bagni, gli arredi e i sanitari avevano fatto la stessa fine di tutto il resto: solo tubi tappati. Ragionevolmente mi dicevo che lo sgocciolio non era che una mia illusione: in un Paese dove l'acqua valeva oro, la prima cosa da fare era chiudere l'alimentazione generale. Ma rimaneva sempre la questione delle regole e delle eccezioni, della teoria e della pratica. Ancora lo sbattere di qualcosa. Ancora altri rumori. Lì vicino, o al piano di sopra, o soltanto nella mia testa. Dov'era quell'acqua maledetta? Dov'è che Elisabetta si era lavata? Stanze sull'altro lato, vista mare. Niente gocce, solo fantasmi di coppie a letto, di vacanze passate, di tutto quello con cui la mia mente riempiva gli spazi per non farsi sopraffare dal vuoto. Dopo il primo, rimanevano atri due piani da controllare. Una tortura inutile. O la direttrice sapeva esattamente dove trovare l'acqua per lavarsi, ma allora c'era stata una premeditazione e un accordo preventivo con Aurora, oppure non aveva certo perso tempo a fare quello che stavo facendo io, a cercare stanza per stanza: se di lei c'erano tracce, quelle dovevano trovarsi al pianoterra. Tornai da basso, un po' per logica, un po' per paura, per togliermi dagli occhi la corsa in triciclo del bambino di Shining. «Situazione Elisabetta»: devo nascondere qualche cosa. Ma non ci sono mobili, o casse, o scatole. Lasciarlo qui nel ristorante o di là nella hall non è nasconderlo, non abbastanza.
Ci deve pur essere uno stanzino, un ripostiglio non troppo in vista, eppure non così lontano, non così difficile da scovare. Ho frequentato la scuola alberghiera e so come sono fatte queste strutture: da qualche parte ci saranno i servizi del personale. Li scovai, ma al di là delle solite piastrelle bianche e di una turca che nessuno aveva voluto portare via, non c'era nulla. Semplice: mi ero sbagliata. Bastava ammetterlo e in un attimo potevo essere fuori, lontano dagli spettri, dai rumori sinistri, dai gocciolii inesistenti, dalla paura che fingevo di ignorare. Elisabetta non era passata di là, forse non era neppure mai stata nella stanza con Aurora e Johnny. Fine della pista, inutile seguire l'ipotetico percorso della testimone verso la cancellata che dava sulla strada. Per il mio rientro, la via della spiaggia era la più diretta, la meno irta di ostacoli. Attraversai di nuovo la sala da pranzo in direzione delle grandi vetrate scomparse, verso le orbite vuote di un ristorante che una volta guardava il mare. Quattro scalini, le vestigia di un vialetto e la spiaggia poco lontana. A lato di quei quattro scalini, celato dal groviglio di sterpi, un telo spugna del villaggio Calypso: bianco, la scritta blu in mezzo e ovunque il rosso bruno del sangue rappreso. La traccia, quella che Zaalani non aveva trovato, o non aveva voluto trovare. Provai ribrezzo e, pur di non toccare quell'asciugamano, mi convinsi che toglierlo da lì era inutile, anzi, dannoso, che anche tra gli sterpi avrebbe rilasciato la sua muta confessione: nella stanza c'era un terzo, o una terza. A meno che qualcuno non vi si fosse pulito le mani dopo aver sgozzato il montone per la festa di Id alkabir l'anno scorso, ma questo, anche il commissario ne conveniva, era molto improbabile. Niente spiaggia, tornai in camera saltando di nuovo il muro: nessuno mi aveva visto prima, nessuno mi aveva visto adesso, anche quel mattino poteva essere andata così, nella massima discrezione. Sulla soglia della stanza mi tolsi le All Staff per non portare dentro il sudiciume che sentivo appiccicato alle suole, ma che era più che altro un'impressione, un'idea di morte che si era attaccata lì sotto nel momento in cui avevo visto il sangue. Poi mi precipitai a controllare il computer: due barre completamente verdi. «Sex TC nascosta 3X3 – MMF» e «Sex TC nascosta 3X3 – MFF» erano finalmente stati scaricati. Avviai il primo filmato. Sconvolgente, perverso, tristissimo e... Mi mancavano gli aggettivi. Trovavo impossibile definire un video in cui una ragazzina, che forse aveva compiuto i diciotto anni da un giorno, armeggiava come una donna navigata intorno a due suoi coetanei. Malgrado il titolo, la telecamera non era per nulla nascosta; a turno i tre protagonisti guardavano verso la macchina che, a giudicare dalla fissità delle riprese, doveva essere stata sistemata su un cavalletto. Dietro al letto a una piazza che ospitava le performance, si scorgevano libri di scuola: latino, antologia della letteratura italiana, storia... La stanzetta di una studentessa modello. Cosa aveva spinto tre adolescenti a buttarsi nell'arena insanguinata del porno amatoriale? Noia? O un modo per farsi notare da registi hard in cerca di nuovi talenti? Se era quello l'obiettivo, l'unica che aveva qualche chance era la ragazza, perché i due maschietti erano davvero impacciati: facevano persino fatica a penetrarla ed era lei che doveva guidarli con la mano. Le due o tre scene che vidi avrebbero anche potuto suscitarmi la tenerezza che si prova per l'inesperienza, la tenerezza dei ricordi lontani, ma a prevalere era l'obbrobrio per la crudezza dell'esibizione. Anch'io ero
stata alle prime armi e anch'io avevo avuto fidanzatini maldestri, anche se mai più di uno per volta, ma quello che era successo, le difficoltà, le gioie, gli imbarazzi, i brividi, erano rimasti dentro di noi e non erano diventati merce per guardoni. Provavo pena per quella ragazzina che appena maggiorenne, ammesso che lo fosse, aveva pensato di monetizzare il suo tesoro. C'è chi l'amore lo fa per noia, chi se lo sceglie per professione, io né uno né l'altro, io lo facevo per passione; ma lei? Mi guardai bene dal giungere fino alla fine di quello spettacolo, osceno in tutti i sensi, e cominciai con il secondo video. Una finestra aperta sullo schermo mi avvertì che la visione non era gratuita: dovevo collegarmi a un sito e versare il mio obolo a chi deteneva i diritti. L'idea mi disturbava, ma, se per caso stava lì la risposta ai miei dubbi, non potevo sottrarmi. Diedi l'assenso all'addebito di quindici dollari sulla mia carta di credito ricaricabile e dopo dieci secondi ebbi la piena consapevolezza di aver sprecato i miei soldi: nessun legame con Johnny, né con Elisabetta, né con il villaggio. Due pornodive, siliconate anche nei lobi delle orecchie, simulavano orgasmi prefabbricati alla sola vista di un ragazzo di colore che, bisognava ammetterlo, era decisamente ben dotato. Il mercato del sesso virtuale fioriva in internet, ma occorreva essere cretini per spendere quindici dollari in quel modo; presenti esclusi, ovviamente. Gli altri download languivano; avrei potuto andare finalmente a prendere un po' di sole, se solo il giorno prima avessi avuto l'accortezza di non bere il tè alla menta in quel bicchiere lercio; invece l'avevo bevuto e così fui costretta a passare il mio tempo diversamente. Verso l'ora di cena, il numero di video scaricati era salito a sei e nessuno di questi aveva rivelato alcunché, se non una certa predisposizione degli italiani all'esibizionismo. Per fortuna, le immagini che mi trovai a osservare dopo non mi suscitarono più quel senso di fastidio che mi avevano provocato le prime. Mostravano donne mature, più o meno della mia età, donne consapevoli che offrivano il loro corpo all'occhio di una telecamera per nulla segreta. Non professioniste, ma neppure vittime di un tranello; non attrici, ma neppure ragazzine sprovvedute. Il desiderio di farsi guardare non mi apparteneva, eppure lo comprendevo, coglievo in esso la voglia di condividere il piacere, l'eccitazione, il brivido. E un poco mi lasciai contagiare, pensando a Marco, ma anche ai miei due ammiratori e persino, come in un lampo incontrollato, ai muscoli di Fouad. Naturalmente, il solo filmato cui tenevo davvero, l'unico che presentasse un legame concreto con le vicende del villaggio, era anche quello più lento: mancavano ancora una trentina di megabyte, quanto questo significasse in termini di tempo... Insha'Allah avrebbero detto da quelle parti. L'agguato me lo tesero all'uscita del ristorante. Avevo cenato in compagnia del mio Cheever e, assieme al dolce, avevo consumato anche l'ultimo racconto che, combinazione, aveva un'ambientazione italiana. Non so da dove fossero sbucati, ma si erano appostati ai lati della porta che dalla sala immetteva nel corridoio. Il primo a bloccarmi fu il barbuto, che poi, più che una barba aveva un pizzetto da alpino: «Questa volta non ci scappi. Stasera, al posto del pianobar c'è un'imperdibile serata disco anni Settanta e Ottanta, non puoi lasciarci soli».
La serata disco avrei potuto perdermela senza difficoltà e credo che anche loro avrebbero fatto volentieri altrettanto, ma, in fondo, eravamo tutti al villaggio, loro per errore, io per dovere, ma l'imperativo morale era uno solo: divertirsi o almeno impegnarsi nel tentativo di. E poi, quattro salti e un po' di musica mi avrebbero aiutato a ingannare il tempo nell'attesa che quel maledetto filmato venisse finalmente registrato sull'hard disk del mio computer. Accettai, con una serie di premesse e di scuse non richieste simili a quelle che avevo accampato prima di giocare a beachvolley: «Dire che sono arrugginita è dir poco: il mio ex marito non amava ballare e il mio attuale compagno ancora meno. Quindi...». «Figurati, per me l'ultima volta è stata alla festa della maturità, e all'epoca ballavo con le ragazze.» Effettivamente non avevano l'aria di quelli che passano la loro vita nei locali notturni. Me li vedevo meglio a casa loro: cena con amici e amiche, home cinema, whisky da intenditori, e un sacco di ironia nell'aria. Che invidia! Sotto la grande pagoda del bar, la musica non era ancora iniziata e la gente latitava. Ci procurammo da bere: anche loro si erano affezionati alla Cedratine, l'unico liquore di qualità all'interno di un'ampia scelta di cognac «tre stelle» e di whisky «tre galline». Come l'altra volta, iniziammo a chiacchierare con la naturalezza di chi si conosce dagli anni della scuola. Partì finalmente la musica. L'inizio con Plastic Bertrand e Gazebo non ci entusiasmò, ma quando il dj mandò Karma Chameleon fu assolutamente impossibile resistere. Davvero non ballavano da tempo? Difficile da credere. Gesti armoniosi, ben ritmati, senza nessun eccesso o esibizionismo. Niente a che vedere con gli altri lì attorno, con quelli che azzardavano passi alla John Travolta e poi si fermavano a ridere con gli amici della loro stessa idiozia. Era bello ballare con il barbuto e l'occhialuto, era bello stare con loro. Video killed the radio star, Enola Gay, Walk like an Egyptian. Continuammo instancabili, quasi volessimo recuperare gli anni passati lontano dalle discoteche o cercassimo di percorrere al contrario la linea del tempo fino a ritrovare la festa del nostro sedicesimo compleanno. Al tavolino tornammo solo quando dalle casse uscirono le prime note di YMCA. «Perché non volete ballare i Village People?» domandai un po' stupita. «Perché detestiamo l'ovvietà e odiamo gli inni nazionali.» Bella risposta; se l'occhialuto non me l'avesse data con la sua solita gentilezza, mi sarei persino vergognata della domanda. Secondo giro di Cedratine, poi, di nuovo in pista. Alphaville, Bee Gees, Abba. Fino a che qualcuno, davvero regredito all'età adolescenziale, se ne uscì con la frase più temuta nelle feste anni Settanta: «mettete un lento». E il dj, che negli anni Settanta non era ancora nato, assecondò l'insano desiderio nel modo peggiore: Reality, colonna sonora del Tempo delle mele. E fu subito imbarazzo, almeno per me. Loro invece la buttarono sul ridere e un attimo dopo erano lì a giocarsi a pari e dispari il primo: «Pensavamo di sfidarci a duello, ma siamo pacifisti, quindi dovrai accontentarti». Vinse il barbuto.
Gli passai le braccia intorno al collo e lui mi appoggiò le mani sui fianchi. Avrei anche dovuto avvicinare la fronte al suo petto? No, troppo confidenziale. Dalla loro sepoltura sotto il cumulo degli anni, i ricordi non morti dei miei pochi ballerini si ripresentarono all'appello: quelli che ti stringevano troppo per far sentire che erano loro gli uomini e che loro erano uomini, quelli che ballavano con le braccia tese, con il fastidio stampato sul viso, quelli a cui puzzava l'alito, quelli che ti facevano stare bene, come lui in quel momento. Finì anche il tempo delle mele, ma l'animatore alla consolle, non pago, sfumò il primo lento per concatenarne un secondo: cambio di cavaliere, come avrebbero detto una volta. Che strana sensazione essere contesa, sia pure per gioco, tra due uomini. Ci allacciammo, sui primi accordi di un organo Hammond. La sua stretta rimaneva discreta, ma era più forte, più appassionata di quella del suo amico. Dopo un attimo, a quella musica che già mi era familiare, si aggiunsero parole che conoscevo: « We skipped the light Fandango». Sentita mille volte, ma cos'era? «Conosci per caso il titolo di questa canzone?» chiesi all'occhialuto. «È A whiter shade of pale dei Procol Harum: non è proprio anni Settanta, ma possiamo perdonare il dj.» «Mi sì, perdoniamolo» concessi, «ne vale la pena.» «È una canzone dolcissima» mi rispose, «forse avresti voluto ballarla con il tuo compagno...» «E forse tu con il tuo» gli feci di rimando. «E vero, ma ormai ci ho rinunciato e l'ho archiviato tra i sogni impossibili, almeno in quest'Italia.» Trasformò la presa in un autentico abbraccio e io appoggiai finalmente la guancia sul tessuto fresco e profumato della sua camicia: c'era una tenerezza profonda, anche se ognuno di noi, nella sua mente, ballava con una persona diversa da quella che stava stringendo. Il dj continuò il suo scavo archeologico attraversando sedimenti di Supertramp, di Dire Straits, di Santana e di Donna Summer. E noi continuammo a ballare, a ridere, a farci confidenze. Fino a che io, Cenerentola di un altro fuso orario, alle undici o giù di lì abbandonai la compagnia per recarmi all'appuntamento telematico con il mio principe azzurro. Sul computer, la finestra di Skype era rimasta aperta e accanto al nome di Marco c'era un pallino verde: era in linea. annapavesi.bergamo scrive: 23.18.47 ciao amore, non vedevo l'ora di sentirti. marco.callegari2 scrive: 23.19.01 anch'io: è l'unico momento bello della giornata. Qui c'è un'afa indescrivibile e i pazienti diventano insopportabili, quasi quanto i colleghi. annapavesi.bergamo scrive: 23.19.28 io invece, stranamente, mi sono divertita: ho ballato con i due ragazzi di cui ti ho parlato l'altro giorno.
marco.callegari2 scrive: 23.19.39 ma non sei li per lavorare? ;) Aveva scoperto anche lui il linguaggio delle emoticon, delle faccine che sorridono o che sono tristi; mi aveva strizzato l'occhio per dirmi che non era geloso, però... annapavesi.bergamo scrive: 23.19.50 è stata solo una pausa. La mattinata invece è stata dura: ho litigato con Elisabetta e ho fatto un sopralluogo solitario all'albergo abbandonato. marco.callegari2 scrive: 23.20.03 raccontami tutto. Gli feci un resoconto preciso di tutto ciò che era capitato, delle paure, del ribrezzo di fronte all'asciugamano insanguinato e lui mi incoraggiò, con quel misto di fiducia e timore che me lo faceva sentire vicino. A un certo punto, una voce sintetizzata mi avvertì che uno dei filmati era stato scaricato. Visualizzai lo stato dei download: il file completato era quello che mi stava più a cuore: «Vero sesso amatoriale — Serena». annapavesi.bergamo scrive: 23.37.28 scusa, posso richiamarti più tardi? Credo di essere a un momento di svolta. marco.callegari2 scrive: 23.37.56 quando vuoi, tanto devo fare delle ricerche in rete su un farmaco che hanno ritirato dal mercato. Chiamami quando vuoi. Doppio click sul nome del file. L'apertura della finestra «acquisizione dei diritti di utilizzo» mi comunicò che se volevo guardare il video dovevo prepararmi a sborsare altri soldi. Il prezzo era elevato: venti dollari. Pazienza. Digitai i dati della carta di credito ed eseguii la procedura: il filmato si avviò. Ebbi un tuffo al cuore. La prima inquadratura era un primo piano mosso e deformato, ma sull'identità del soggetto ripreso non c'erano dubbi: Jonathan. E per la prima volta udii la sua voce: « Exposed housewives volume nine». Questo diceva il farabutto guardando l'obiettivo. Poi il quadro diventava completamente scuro, eccezion fatta per una striscia vagamente luminosa ai bordi della quale si intuivano, ingigantiti, i denti di una cerniera lampo: la telecamera era scomparsa in un zainetto, proprio come aveva riferito Munir. Si sentì bussare. Guardai la porta, ma no, ovviamente il rumore era nel video. La ripresa continuava a essere cieca, ma, dal suo nascondiglio, la telecamera registrava i dialoghi: «Finalmente sei arrivato» diceva in italiano una voce di donna, «Clelia è già uscita da un pezzo e ci lascia campo libero fino alle undici.» «Meno male, perché oggi ho una voglia pazza di te.» Un colpo sordo e il fruscio della zip che si apriva segnavano il ritorno dell'immagine: nell'inquadratura si vedeva il letto, matrimoniale, con la testiera in midollino, identico a quello
della mia stanza o di quella di Aurora. Appoggiata sul comò, occultata discretamente nello zaino, la macchina era pronta a fare il suo dovere. Davanti all'obiettivo passò, inconsapevole, un sedere inguainato nello slip di un bikini verde a pallini. Un attimo dopo, certo meno inconsapevolmente, transitò il sedere di Johnny, nascosto dai pantaloni bianchi. Per un secondo lo scenario fu di nuovo vuoto, poi, disteso sul letto, comparve il corpo dell'animatore. «Vieni qua. Cosa aspetti?» Il suo accento era tipicamente italoamericano e mi ricordava quello del defunto Ruggero Orlando, il mitico corrispondente da New York. «Ho solo chiuso la finestra. Vorrai mica che ci sentano tutti: hai presente le scintille che facciamo io e te quando siamo a letto? Ieri abbiamo rischiato di distruggerlo.» E finalmente Serena Liberati, l'ex presentatrice di Sportmania Abruzzo, fece la sua apparizione a figura intera. Mi sentii invasa da un brivido di soddisfazione: avevo sul mio computer la prova che Jonathan Caputo, per quanto vittima di una donna disturbata, era a sua volta carnefice, nonché perverso corruttore di costumi. Un punto a favore di Aurora, un punto importante. Serena era ora sdraiata sul suo amante e lo baciava sulla bocca, mentre le mani di lui già esploravano i territori meravigliosi nascosti dalla stoffa verde del costume. I baci di lei si fecero più caldi, audaci. Gli aveva sfilato la maglia e le sue labbra sfioravano i pettorali ben scolpiti, poi gli addominali. Senza cedere l'iniziativa, Serena gli toglieva i pantaloni e i boxer, e continuava a baciare, proprio lì, non solo con le labbra, ma anche con la lingua. Niente da dire, la telecamera era stata piazzata in posizione davvero strategica e il protagonista maschile aveva assunto la posizione più adatta a far risaltare i particolari. E fu mentre Serena offriva al video una fellatio appassionata che mi arrivò il primo pugno nello stomaco. Johnny aveva levato il busto e aveva appoggiato un bacio sulla nuca di lei, poi di scatto, certo che la ragazza avesse gli occhi chiusi, si era girato verso l'obiettivo e aveva fatto un gestaccio con il medio della mano destra. Cosa significava? A chi era rivolto quel segno? Dopo qualche minuto, una dissolvenza incrociata presentò sul video una fotografia di Serena sulla spiaggia del villaggio, vestita naturalmente, nella posa da diva tipica dei servizi di Chadi Mejri, bellissima. Una nuova dissolvenza riportò le immagini sulla coppia: lui la stava possedendo in posizione canonica e di tanto in tanto le spostava il bacino per collocare bene i loro sessi uniti in favore di telecamera. Nessun tempo morto: il video era stato montato con cura, da qualcuno che lo sapeva fare, da un professionista: il fotografo Chadi Mejri. Ancora meglio: Aurora non aveva ucciso un amante occasionale, ma il componente di un'associazione a delinquere finalizzata alla produzione di materiale pornografico in un Paese islamico. Chissà, magari non avrebbe passato la sua vita a marcire in galera. Avrei dovuto essere contenta e invece sentivo crescere la nausea, il disgusto. E anche la rabbia; una rabbia più feroce di quella del mattino, una rabbia che mi scuoteva tutto il corpo in un tremito irrefrenabile. I due schifosi le avevano teso una trappola, predisponendo ogni dettaglio.
Le fotografie della spiaggia, intercalate alle immagini di sesso, sottolineavano il valore del titolo annunciato da Johnny in apertura: Exposed housewives. Casalinghe spogliate, sfruttate, umiliate. Massacrate lacerando le ferite aperte da matrimoni ormai naufragati, pestate giocando sulla debolezza che deriva dalle piccole insoddisfazioni quotidiane. Nuova fotografia, distesa su uno dei catamarani del centro velico, e nuova posizione: da dietro. «Vuoi che mi metta giù?» chiedeva Serena appoggiata sui gomiti e sulle ginocchia. «Sì, giù.» Lei con la faccia nel cuscino e lui sopra, a imperversare, in un tripudio di mugolii. Ed eccoli gli altri pugni nello stomaco. Lui muoveva forsennatamente il bacino, ma, al tempo stesso, guardava in macchina e faceva le boccacce. Bastardo. Johnny non stava facendo l'amore, non se la stava neppure scopando, non era neanche una sanissima, liberatoria scopata; lui stava fottendo con se stesso, in una recita davanti allo specchio che lasciava a lei la parte del morto, del manichino. No, era peggio ancora, peggio di così. Il vero succo della rappresentazione era la mortificazione di Serena: i gestacci, le smorfie, i sorrisini verso l'obiettivo servivano a quello, a ribadire la superiorità del maschio e la sottomissione della femmina. Un senso di superiorità venduto per venti dollari al colpo a uomini frustrati che altrimenti non avrebbero conosciuto neppure il significato della parola «superiorità». Di nuovo la dissolvenza, ma dopo la foto nessun cambio di posizione, solo un diverso registro nei dialoghi: «Dimmi che ti piace». «Sì, Johnny, mi piace, mi piace tanto.» «Con tuo marito godi così?» «Dai, non voglio parlare di lui.» «Ma lui ti fa godere come me?» «No, no.» Sullo sfondo acustico della scena, il rumore del corpo di lui che colpiva le natiche di lei, il ritmo sonoro delle spinte pelviche. Poi una pausa. Uno, due, tre e quattro: una battuta di silenzio. L'ondeggiare del bacino riprendeva, ma più lento, più cauto, un affondare leggero, interlocutorio. «No, lì, no. Ti prego. Mi fa male lì... Ah...» Forse dolore, forse piacere, forse tutti e due insieme, come spesso accade nel sesso. Ma anche ammettendo che Serena in quel momento stesse godendo, nulla poteva cancellare la pena della gogna. Johnny continuava a girarsi, a fare le linguacce, ad agitare il braccio come se stesse montando un cavallo da rodeo. Bastardo, mille volte bastardo. La rabbia aveva dato i suoi frutti e sentivo le lacrime scendermi lungo le guance, sentivo le mani chiudersi a pugno e la mente aprirsi a pensieri vergognosi. Era crepato fin troppo in fretta; Aurora lo aveva finito con un solo colpo, ma in quel momento io avrei desiderato per lui una lunga agonia.
Sol chi non lascia eredità d'affetti poca gioia ha dell'urna. Bella eredità quella che lasciava l'americano, con Elisabetta quale unica custode di una memoria che sarebbe stato meglio cancellare per sempre. Anche Serena era morta, anche lei lasciava un'eredità d'affetti. Possibile che la presenza di suo fratello nello stesso villaggio dove l'aguzzino di Serena era stato ucciso fosse del tutto casuale? No, mi rifiutavo di crederlo. Concedevo al caso il potere di trasformare le nostre vite, ma gli riconoscevo anche una sorta di discrezione, una capacità di agire senza troppo clamore: se Libero Liberati fosse stato presente al villaggio senza una ragione precisa, la sorte sarebbe stata davvero troppo sfrontata. E io sentivo che non era così. Per togliere al fato il suo potere non rimaneva che scoprire cosa legasse Libero ad Aurora, ma la mia mente, a quel punto, era troppo annebbiata. Era ora di chiedere aiuto. annapavesi.bergamo scrive: 0.11.32 sei ancora lì? marco.callegari2 scrive: 0.11.40 sì, a seguire le tracce di un altro farmaco cancerogeno. È arrivata la svolta? annapavesi.bergamo scrive: 0.11.58 ho le prove che Johnny faceva un sacco di soldi vendendo in internet i video che girava quando si portava a letto le clienti. Una delle sue vittime è stata Serena Liberati, la sorella del compagno di equipaggio di Ermanno: adesso rimane da stabilire quale rapporto ci fosse tra Libero Liberati e Aurora. marco.callegari2 scrive: 0.12.10 vuoi dire che Aurora e Libero hanno tramato alle spalle di Ermanno? annapavesi.bergamo scrive: 0.12.24 non ci avevo pensato, ma adesso che tu lo dici, credo che possa anche essere così. É Libero che ha insistito perché Ermanno andasse alla regata. marco.callegari2 scrive: 0.12.40 così da toglierlo dai piedi nel momento in cui Aurora invitava Johnny in camera per fargli la festa. Hai provato a chiedere alla signora Melzi se sua figlia conosce i Liberati? annapavesi.bergamo scrive: 0.13.02 no, adesso è troppo tardi per telefonare: le viene un colpo. Provo domani, ma ho l'impressione che Aurora non sia poi così fuori come vuol far credere e che a sua madre dica solo una parte della verità. marco.callegari2 scrive: 0.13.17 io posso esserti utile in qualche modo?
annapavesi.bergamo scrive: 0.13.25 domani è sabato: lavori? marco.callegari2 scrive: 0.13.26 no. annapavesi.bergamo scrive: 0.14.15 allora dovresti andare in biblioteca appena apre e consultare «Il Tempo» nell'edizione per l'Abruzzo, in particolare le notizie della zona di Giulianova. Nei giorni tra il 5 e il 10 novembre 2006 guarda se riesci a trovare qualcosa che leghi Serena, Libero e Aurora. Serena è morta in un incidente il 4 novembre del 'anno scorso, schiacciata da un treno. marco.callegari2 scrive: 0.14.30 devo cercare un messaggio cifrato? annapavesi.bergamo scrive: 0.14.36 basta un necrologio. marco.callegari2 scrive: 0.14.48 obbedisco. annapavesi.bergamo scrive: 0.15.01 e se puoi, chiama anche per sapere come sta Morgana. marco.callegari2 scrive: 0.15.16 riobbedisco. Buonanotte. Non correre rischi inutili e fai attenzione. annapavesi.bergamo scrive: 0.15.39 buonanotte. Stai tranquillo. Baci.
Sabato 4 agosto 2007 A tastoni, nel buio della stanza, cercai di individuare l'oggetto che produceva quel rumore fastidioso. Che poi non era un rumore, ma una musica, e non sarebbe stata nemmeno sgradevole se non mi avesse svegliato da quel sonno profondissimo che avevo desiderato tutta la notte e che si era manifestato solo sul far del mattino. Veniva dalla sveglia? Dalla radio? Recuperai un po' di lucidità: ero al villaggio Calypso, ero sola e quello che suonava era il mio telefonino. Tutto abbastanza chiaro. «Pronto?» «Dormivi amore?» «Sì, che ora è?» «Le otto e quaranta, non è l'alba.» «Lo so, ma ieri notte ho faticato tantissimo a prendere sonno e poi ho avuto gli incubi.» «Mi dispiace, però la notizia che ho da darti non poteva aspettare.» «Sei già in biblioteca?» «E ho già anche controllato i giornali. Il tuo suggerimento è stato prezioso. Ho guardato subito i necrologi di Serena Liberati. Ti leggo quello che secondo me chiarisce tutto: "Il mio amore non se ne va con te, rimane per sempre. Ermanno".» «Non c'è il cognome? Non compare da nessuna parte qualcosa come "Serena Liberati in Mastrangeli" ?» «No, forse non erano sposati, forse erano una coppia di fatto, o magari erano solo fidanzati.» Già. Impietrita. Assolutamente impietrita. Ringraziai Marco e lo salutai un po' frettolosamente. Dovevo riordinare le idee e agire rapidamente. Prima questione: l'Ermanno del necrologio era il «nostro» Ermanno? Probabile, ma occorreva una conferma e l'unica persona che poteva darmela aveva bisogno di una robusta, energica strigliata. Accesi il computer e, mentre quello si avviava, mi lavai e mi vestii a tempo di record. Quando la musichetta di Windows risuonò nella stanza, a me non mancavano che le scarpe. Recuperai in rete gli indirizzi mail di due giornalisti a caso, poi aprii il programma per l'invio della posta elettronica e iniziai a digitare: Da:
[email protected] A:
[email protected];
[email protected] Cc:
[email protected] Oggetto: pornografia in villaggio. Gent.mi sig.ri, Mi rivolgo a voi per segnalare alcuni episodi vergognosi e criminali. Un istruttore di windsurf del villaggio turistico Calypso di Djerba, in Tunisia, ha diffuso via internet alcuni filmati pornografici girati nel villaggio medesimo all'insaputa delle donne che vi compaiono. Ne avrete una prova scaricando da eMule il video dal titolo: «Vero sesso amatoriale TC nascosta – Serena». L'animatore che si è reso protagonista di questi fatti è stato recentemente assassinato e la sua morte è da mettere in relazione proprio con il suo ignobile commercio di materiale pornografico. La direzione del villaggio, da lungo tempo al corrente di queste pratiche, non ha fatto nulla per impedire il perdurare dei comportamenti illeciti, rendendosi così complice del criminale e anche corresponsabile della sua morte. Spero che i giornali sapranno dare la giusta rilevanza a questa ennesima violenza ai danni delle donne e che la direzione del tour operator proprietario del villaggio, che ci legge in copia, prenda gli opportuni provvedimenti. Distinti saluti Anna Pavesi Portai il cursore sopra il tasto «invia» ma non cliccai. Attraversai invece la valle incantata con il notebook in mano ed entrai nell'ufficio di Elisabetta, anzi vi feci irruzione. Lei era seduta alla scrivania, io mi piazzai davanti ed evitai ogni preliminare: «Ho bisogno della fotocopia della carta d'identità di Ermanno Mastrangeli. Ho visto che fotocopiate tutti i documenti dei clienti, quindi ce l'avete». «Le ho già detto che non possiamo prescindere da una certa riservatezza...» «Guarda bene questa mail.» Le misi lo schermo del mio computer davanti agli occhi, ma tenni il tutto a distanza di sicurezza, in modo che le sue mani non potessero giungere alla tastiera: se era miope, peggio per lei. Ma non era miope, infatti il suo viso rimase come paralizzato in una smorfia di spavento. «Ascoltami.» Ero passata al tu, perché minacciare qualcuno dandogli del lei mi sembrava troppo formale. «Ascoltami bene. Se tu non fai quello che ti dico, io premo "invio" e in meno di un secondo i tuoi capi vengono informati di quello che è successo qui dentro per anni. Al tempo stesso, il "Corriere" e "La Stampa" ricevono una notizia che si presta perfettamente a riempire le pagine un po' mosce del mese d'agosto. Quindi adesso tu vai e torni con la fotocopia e, naturalmente, se quando apri quella porta non sei sola, la mail parte ancora prima che tu abbia varcato la soglia.» Fantastico! Mi sentivo come un eroe dall'impermeabile chiaro con il dito pronto a premere il grilletto. Grazie al wireless, avevo in mano un'arma compatibile con il mio pacifismo e potevo finalmente tenere sotto tiro qualcuno. Elisabetta uscì, senza parlare. Attraverso le pareti vetrate osservai i suoi passi; la vidi sparire nell'ufficio dietro la reception e ricomparire dopo un attimo, con un foglio in mano, sola. «Ecco.»
Mi sbatté sulla scrivania la copia del documento di Ermanno e io controllai una cosa sola, il comune di nascita: Giulianova. «Grazie, era proprio quello che mi serviva.» «Adesso...» «La mail, hai ragione.» Premetti un tasto e la finestra con il testo si chiuse per lasciare il posto a un messaggio del sistema: «Mail inviata ai destinatari previsti». «Ma...» . Era interdetta. «Sì, l'ho fatta partire. In primo luogo perché era giusto, e in secondo luogo perché così non ti viene in mente di organizzarmi qualche cosa come un incidente con una moto d'acqua o un'aggressione in un bagno.» Mi guardò con un'aria così interrogativa che fui costretta a crederle immediatamente. «Se non sei stata tu, è stato il tuo amico fotografo, il complice di Johnny nelle sue porcherie. Adesso ricordo come ascoltava interessato la nostra conversazione quando ti ho chiesto di prenotarmi il taxi per Dehiba: mi ha preparato un brutto incontro perché conosceva perfettamente il percorso che avrei seguito. Un'ultima raccomandazione: io devo finire il mio lavoro e ho bisogno che tu non faccia parola con nessuno di quello che è successo qui oggi. Se rimani in silenzio, da domani ti toccherà soltanto cercarti un nuovo posto di lavoro, altrimenti ti conviene chiamare l'avvocato, perché ci vuole poco a tirarti in ballo nell'omicidio di Johnny.» Stava per piangere. «Adesso» le ordinai, «chiamami Mastrangeli al telefono.» Compose il numero della camera e mi passò la cornetta. «Ciao Ermanno, sono Anna. Volevo chiederti se oggi possiamo andare insieme a trovare Aurora.» La risposta fu affermativa e stringata, com'era sua abitudine. «Allora ci troviamo alle dieci davanti all'ingresso principale. A dopo.» Restituii il ricevitore a Elisabetta e mi alzai; lei invece non si mosse: non aveva più fatto un gesto da quando era rientrata con il documento di Ermanno. Andai verso la porta e prima di uscire le posi un'ultima domanda: «Ma come ha fatto una come te, colta, intelligente, raffinata, a innamorarsi di uno come Jonathan?». Lei alzò le spalle per esprimere una rassegnazione infinita. La capii: chiedere le ragioni degli amori impossibili è sempre una crudeltà inutile. Abbandonai in camera il computer che ormai aveva compiuto il suo dovere e andai dritta al centro velico in cerca di Fouad. Lo trovai che stava preparando i catamarani e quel sottile velo di sudore che gli faceva risplendere i muscoli rischiò di distrarmi dai miei propositi.
Mi ripresi: «Hai tempo per un paio di informazioni?». Mi sorrise: «Certo». «Se uno è un po' esperto, questi catamarani può guidarli da solo?» Sorrise di nuovo, divertito probabilmente da quel verbo «guidare» che, utilizzato a proposito di una barca a vela, doveva sembrargli poco meno che blasfemo. «Senza problemi. Basta tenere un po' lunga la scotta del fiocco, così la puoi manovrare da poppa.» Non sapevo se aveva usato termini rigorosi o se io ormai mi stavo abituando a quel linguaggio da iniziati, fatto sta che compresi il senso delle sue parole. «Tutto qui?» «No, volevo anche chiederti se ti ricordi bene come si è svolta la regata finale della scorsa settimana.» «Quella del giorno in cui è stato ucciso Johnny?» «Sì, quella.» «Credo di ricordarmela abbastanza bene. Cosa vuoi sapere?» «C'è stata per caso una barca che si è allontanata dalle altre?» Fouad ci pensò un attimo. «Allontanata no, però ce n'era una che stava sempre indietro. Distaccata di parecchio. Era distanziata di almeno duecento metri. Poi però, alla fine, ha recuperato ed è arrivata quasi insieme alle altre.» «Su quella barca poteva esserci una persona sola?» «Tutte le barche partono con due persone a bordo.» Ricordavo le foto della regata: Ermanno e Libero fotografati insieme, sulla barca, sia alla partenza, sia all'arrivo. Su quelle foto si era formata, fin dall'inizio, l'idea che Ermanno fosse completamente estraneo all'omicidio. Insieme alla partenza. Insieme all'arrivo. E insieme a tante altre persone. Partenza e arrivo: ma in mezzo? «Mi dicevi che l'ultima barca ha recuperato nel finale?» «Sì. È arrivata comunque ultima, ma con un distacco piccolissimo. Laggiù, all'altezza della spiaggia libera, era indietro ancora di un centinaio di metri, e qui, all'arrivo, non erano più di venti o trenta.» «E se qualcuno fosse salito o sceso da quel catamarano tu lo avresti visto?» «Guarda.» Mi indicò una vela a circa cento metri da noi. «Tu vedi quanti sono a bordo?» Il riflesso del sole sull'acqua mi accecava e la distanza faceva il resto.
«No» risposi. «Neanch'io. Noi col gommone siamo sempre stati in testa alla regata. Troppo lontani. E anche quelli delle altre barche erano lontani. E poi te li immagini? Tutti impegnati a fare bene, tutti attenti alle manovre. Figurati se qualcuno guardava quante persone c'erano sulle altre imbarcazioni!» «Hai ragione. Ti chiedo un'ultima cosa...» «Chi erano i due che sono arrivati ultimi?» Ormai mi ero scoperta. Forse troppo. Sperai che almeno Fouad fosse fuori da tutto quello. «Aspetta.
Vado
a
prendere
la
classifica
della
regata.»
La classifica. Benedissi quello spirito di competizione che mi era del tutto estraneo. Ogni gara aveva la sua classifica e ogni classifica era come un verbale, un resoconto, una testimonianza. Dopo un minuto uscì dalla baracca con un foglio in mano. «Ecco qui. Ultimi classificati: Ermanno Mastrangeli e Libero Liberati.» Libero Liberati. Il grande velista. Ultimo in una regata per principianti! Ultimo, ma con onore, con un grande recupero finale; per non sfigurare, ma soprattutto per essere visto assieme agli altri, per essere fotografato con il gruppo: la conclusione di un piano perfetto. «Era quello che pensavi?» Non gli risposi. Misi un dito sulle labbra e lo salutai con la mano. Anche lui mi salutò in silenzio, come a garantire che non avrebbe parlato. Adesso toccava a Ermanno: questa volta fui io ad arrivare in anticipo all'appuntamento e a prendere accordi con il taxista. Com'era avvenuto nei giorni precedenti, il viaggio dal Calypso a Houmt Souk fu un lungo silenzio interrotto solo da brevi scambi sull'immutata situazione di Aurora e sull'angoscia della signora Melzi. E com'era avvenuto nei giorni precedenti, il taxi ci lasciò al fondo del viale, di fronte alla stazione di polizia nella quale il commissario Zaalani era sicuramente intento a compilare scartoffie o a bere il suo tè alla menta. Ermanno pagò l'autista e fece per attraversare la strada: lo trattenni. «Aspetta. Sediamoci qua.» Gli indicai una panchina, all'ombra degli alberi. Lui mi guardò sorpreso e non ebbe la prontezza di fare nulla, se non assecondarmi. Eravamo gli unici turisti e i due giovani poliziotti di guardia sotto il patio della casermetta presero a guardarci incuriositi. Era quello che speravo. «Perché hai voluto sederti?» «Per parlare di Serena.» Mi parve di vederlo impallidire dietro la maschera dell'abbronzatura.
«Serena era tua moglie, Libero, il tuo compagno di equipaggio, era tuo cognato. Serena lo scorso anno è venuta in vacanza qui al villaggio, giusto?» La risposta fu immediata, come se fosse lì pronta da giorni, spinta da una pressione insostenibile. «Sì. Era con un'amica. Dovevamo venirci insieme, a giugno, ma poi c'è stato un problema sul lavoro. Alla sede di Roma. Mi hanno detto che se li aiutavo a risolverlo mi davano una promozione. Non ho potuto rifiutare. Da Roma chiedevano aiuto a me che ero della sede di Pescara. La promozione ci serviva. Serena non lavorava più in televisione: le dicevano che era troppo vecchia, e lei rispondeva che aveva dieci anni di esperienza. Ma per quel lavoro lì, nelle trasmissioni di calcio, non c'è bisogno di esperienza: vogliono solo carne fresca, tette e cosce da mettere in primo piano, nient'altro. Ma Serena non si arrendeva, non voleva cercare un altro lavoro e con un solo stipendio non potevamo neppure pensare di pagarci un mutuo. Ecco perché ci serviva quella promozione. Così Serena è partita da sola con la sua amica.» «Ed era arrabbiata con te?» «Sì. Lei era fatta così. Poteva tenermi il muso per settimane, poi, tutto d'un tratto, tornava gentile ed eravamo felici come prima.» «Invece qui ha conosciuto Johnny.» «Quel vigliacco le ha fatto subito la corte e lei ci è cascata.» Provai a immaginare la situazione in tutta la sua deprimente banalità: lui seduttore consumato, professionista; lei moglie trascurata, bisognosa di rivincita più che di vere attenzioni. Rivincita su suo marito, che preferiva lavorare piuttosto che stare con lei, e rivincita sul piccolo mondo delle televisioni locali, della «carne fresca». In un'altra situazione avrebbe potuto risolversi tutto in quella che un tempo si chiamava «un'avventura», in un attimo di follia per far trionfare i sensi. Ma Johnny non era interessato al trionfo dei sensi e neppure a Serena; e lei era troppo bella per capirlo, troppo abituata al desiderio altrui per comprendere che questa volta il suo corpo non era oggetto di passione, ma un semplice strumento per fare soldi. Ci era cascata, poveraccia. «Chi dei due ha scoperto il video?» «Sono stato io, anzi, un mio amico. Un sabato che io ero a casa e Serena era via per una delle sue solite audizioni. Mi ha detto che c'erano delle pagine internet che parlavano male di mia moglie e che forse lo si poteva segnalare alla polizia postale per farle cancellare. Gli ho chiesto che cosa dicevano esattamente e lui non ha avuto il coraggio di ripetermelo: mi ha mandato l'indirizzo del sito via mail. C'era scritto che si poteva scaricare un filmato amatoriale in cui Serena faceva sesso. Mi sono messo a ridere, perché è pieno di idioti che pubblicano in rete foto pornografiche prese chissà dove e ci scrivono sopra il nome della loro professoressa o della loro vicina di casa. Ma poi mi sono accorto che la storia del filmato di Serena era su un mucchio di siti, nei forum, dappertutto. Così ho scaricato il video e l'ho guardato...» La voce gli si ruppe sulle ultime parole, divenne più acuta, stridula, e infine si trasformò in singhiozzo. Ero abituata al pianto degli uomini. Nel mio lavoro con i tossici ne avevo visti tanti: ragazzi che non ce la facevano più, padri distrutti, educatori in burnout. Però era la prima volta che guardavo piangere un omicida. A dire il vero, avevo già asciugato le lacrime di un'assassina, ma,
chissà perché, associavo, all'idea di un uomo che uccide, quella della durezza, della ferocia. La fragilità dell'assassino, così presente nei miei studi, non era contemplata nelle mie esperienze. Continuava a singhiozzare, sotto lo sguardo sempre più incuriosito dei poliziotti. Provai imbarazzo e tentai maldestramente di passare oltre: «Ti capisco, l'ho visto anch'io quel filmato e ne sono rimasta nauseata; non parliamone più, raccontami il resto.» «L'hai visto anche tu? Hai visto cosa faceva quel pezzo di merda?» Non si poteva passare oltre. Ermanno aveva bisogno di essere ascoltato: forse, se fosse successo prima, Johnny non sarebbe morto, posto che fosse quella la vera disgrazia. «L'ho guardato una volta, due, tre. Non volevo crederci che quella era Serena. Mi dicevo che era una che le assomigliava, che l'avevano fatto apposta per metterci il nome di una persona conosciuta. Ma più lo guardavo e più lei era proprio lei. E anche la voce era la sua. E lui le parlava, le chiedeva se anche con suo marito godeva così e lei alla fine diceva di no, che suo marito non la faceva godere così. E poi c'erano quei gesti che lui faceva verso la telecamera per prenderla in giro, per dire "Mi sono fottuto anche questa".» Cercò il fazzoletto in tasca e, prima di soffiarsi il naso, se lo passò sul viso bagnato di lacrime e di sudore. Avevo trascorso gli ultimi quindici anni della mia vita in mezzo al dolore degli altri, ma ancora non mi ci ero abituata: provavo pena per lui e sapevo che tra un attimo avrebbe ripreso a infliggersi quella tortura. E così fu: «Due anni fa, avevo già avuto il sospetto che Serena mi avesse tradito: mi ero roso per un po' l'animo, poi era passato. Ma questa volta è stato diverso. A metà del video sono corso in bagno a vomitare. Puoi immaginare che tua moglie se la faccia con un altro, ma non puoi vederla mentre lui la gira, la mette sotto. Non puoi resistere. So che ci sono quelli che ci godono a vedere, ma sono dei pervertiti. Se ami tua moglie non lo puoi sopportare». «Ne hai parlato con Serena?» «Non volevo, non subito almeno. Mi sono fatto una doccia e quando lei è rientrata, io ho cercato di far finta di nulla. L'ho baciata, le ho chiesto com'era andata l'audizione, ma lei è stata dura come al solito, come le capitava quando si sentiva presa in giro da quelli della televisione. Ha cominciato a preparare la cena, sbattendo la roba sul tavolo e trattandomi male, secca, senza un sorriso, senza una parola dolce. E allora non ci ho visto più: l'ho presa per un braccio, l'ho trascinata davanti al computer, ho fatto partire il video e l'ho costretta a guardarlo tutto. E lei mi diceva: "Basta, spegni", ma io gliel'ho fatto vedere fino alla fine, fino a quando lei esce dalla stanza di quel figlio di puttana e lui fa quell'ultimo gesto prima di spegnere la telecamera.» Lo avevo in mente quel gesto, quel mimare la fellatio e quella risata che faceva da sfondo alle fotografie di Serena montate in chiusura. «Non dovevo farglielo vedere, dovevo tenere tutto per me.» «Credi che sarebbe servito? Quello che c'è in internet rimane lì per anni e prima o poi salta fuori.»
«Hai ragione. Ormai era diventata un'ossessione: accendevo il computer e guardavo se c'erano nuovi siti che parlavano di Serena e di quella schifezza che aveva fatto con Johnny e ogni giorno c'era una pagina in più, o un messaggio su un forum, o qualcosa del genere. E quando uscivo, avevo l'impressione che tutti sapessero, che tutti ci guardassero, che tutti la guardassero. Quando un uomo posava gli occhi su di lei, ero ormai sicuro che pensasse: "Io ti conosco, so come lo fai..."» «E Serena?» «Non faceva che piangere. Sentivo il suo rimorso, ma al tempo stesso il suo odio. Da quando l'ho costretta a guardare il video, non mi ha più parlato.» «Tu volevi continuare con lei o le hai chiesto la separazione?» «No, io non volevo lasciarla. Ero innamorato di Serena. Certo, ero arrabbiato, ero mortificato, ma ero disposto a ricominciare. I miei amici me lo avevano detto fin dall'inizio che una ragazza come lei era troppo bella per me e alla fine avevo anche messo in conto qualche scappatella. Col passare dei giorni, mi accorgevo che quello che mi bruciava davvero era il modo in cui Serena era stata trattata, il disprezzo, l’umiliazione. Soffrivo per lei.» «E non sei riuscito a dirle tutte queste cose?» «Gliele ho dette, le ho ripetuto che avremmo cambiato città, che potevamo andare a vivere al Nord dove nessuno ci conosceva, ma non è bastato. Serena ormai era distrutta. Sapeva che forse il matrimonio si poteva salvare, ma il resto era tutto perduto: niente più televisione, niente più pubblicità. Chi la voleva una che si era bruciata in quel modo? A un certo punto ha persino cominciato a fissarsi che l'avrebbero cercata per girare i film porno.» «Come facevi a sapere tutto questo se lei non parlava?» «Serena teneva un diario: quando lei è morta l'ho ritrovato.» Si mise a frugare nello zainetto che portava sempre con sé e ne estrasse un'agenda rilegata in finta pelle nera. Me la porse. «Te lo lascio, ormai lo conosco a memoria. Forse tu capirai più di me. Io non ne sono stato capace, non ho saputo prevedere quello che stava per succedere.» «Quello al passaggio a livello non è stato un incidente vero?» Mi indicò il diario: non servivano altre spiegazioni. «Dopo quanto tempo si è uccisa?» «Una settimana.» Una settimana di agonia. Quando il treno l'aveva travolta, Serena era già morta dentro da una settimana: Johnny l'aveva uccisa, senza saperlo, ma non senza volerlo. L'aveva uccisa ancor prima di girare quel video, ancor prima di venderlo in internet. Aveva fatto sesso con lei come l'avrebbe fatto con un cadavere, con una cosa qualsiasi. Serena era entrata nel letto con Johnny come un animale va al macello, pronta per essere fatta a pezzi e servita sul web. And you treated my woman to a flake of your life. And when she came back she was nobody's wife. Ripensai al pianobar, a quella canzone di Leonard Cohen che io avevo canticchiato al femminile, cercando stupidamente la verità della sorella assassina. E invece era la voce di un uomo quella giusta.
Hai trattato la mia donna, come un granello della tua vita, e quando è tornata non era più la moglie di nessuno. Johnny l'aveva trattata come una nullità e lei non era stata più nulla. E mi venne in mente un altro verso della canzone: And what can I tell you my broth, my killer, what can I possibly say? Cosa vuoi che ti dica, fratello mio, mio assassino. Sicuramente per Ermanno, Johnny non era mai stato un fratello, ma un assassino sì. Un assassino di cui vendicarsi. Era ora di far affiorare l'ultimo brandello di verità. «Jonathan lo hai ucciso tu, vero?» «Sì.» Era finita. Aurora era libera. Libera dalla prigione e dai suoi incubi. Libera dallo spettro di quelle coltellate scomparse dalla memoria. Tutto era condensato in quel «sì». A patto che Ermanno fosse disposto a ripeterlo davanti alla polizia, e poi ancora: davanti al giudice, davanti ai genitori di Aurora. Un «sì» era un'ammissione fragile, effimera; bisognava corroborarla, incatenarla a una ricostruzione inoppugnabile. «Avevi programmato tutto, assieme a tuo cognato. Perfino Aurora non era altro che una parte del programma. Non è così?» «Sì.» Effimera ammissione. «Aurora ti è servita come esca. Bella, fragile di nervi, in cura con antidepressivi: era il soggetto ideale per attirare Johnny, ma anche per assumersi la colpa della sua morte. Hai pensato di sacrificarla fin dal primo momento in cui l'hai conosciuta.» «Da prima ancora di conoscerla. Quando sua cugina Marzia mi ha parlato di Aurora, dei suoi problemi psichiatrici, di quella volta che ha colpito il professore con le forbici, mi è venuto in mente che una un po' matta avrebbe potuto aiutarmi a uccidere quello schifoso. Così ho cominciato a pensare a un piano e al tempo stesso mi sono fatto presentare Aurora.» Prima ero combattuta tra la compassione per l'uomo che aveva sofferto e l'odio sordo per l'assassino cinico, ma a sentire quelle parole, l'odio prevalse su ogni possibile comprensione. Non era migliore di Johnny: aveva ingannato, usato e praticamente ucciso una ragazza che avrebbe dato tutto per lui. Bastardo, mille volte bastardo. Il mio tono di voce si fece più aggressivo: «Scommetto che hai aspettato che lei si addormentasse, poi le hai versato chissà quante gocce di Entumin nella bottiglietta che teneva sul comodino. Sapevi che Aurora beveva spesso nella notte e quello era il mezzo più sicuro per fare in modo che dormisse come un sasso per buona parte della mattinata successiva. E, in effetti, quando sei partito per la tua regata dei dilettanti, lei era sprofondata in un sonno malato che la isolava dal mondo». Aveva piegato la testa e aveva unito le mani dietro alla nuca, con i gomiti appoggiati sulle gambe e gli avambracci che quasi tappavano le orecchie. Mi risparmiò un ulteriore soffio di assenso e io proseguii. «Alle otto e mezza ti sei presentato puntuale per posare con tuo cognato sul catamarano che prendeva il largo, ultimi, fin dal principio. Le foto erano importanti, erano il tuo alibi. Appena doppiato il promontorio che delimita la spiaggia pubblica, tu ti sei gettato in acqua e Libero ha proseguito la regata da solo, sempre in fondo, sempre invisibile agli altri. Tu hai nuotato fino a
riva e, passando attraverso l'albergo abbandonato, hai scavalcato il muro e hai raggiunto la tua camera. Sei entrato: Aurora ovviamente dormiva. Hai messo dei guanti, hai preso il suo cellulare e hai mandato un messaggio a Johnny: il numero degli animatori non è un mistero per nessuno qui al villaggio, fa parte della disponibilità totale e lui era molto disponibile. La porta era socchiusa. Lui è entrato, si è avvicinato ad Aurora e, come nel più classico degli agguati, tu sei balzato fuori dal tuo nascondiglio dietro la tenda e lo hai colpito alla gola. Poi hai preso le mani di Aurora, gliele hai sporcate col sangue di Johnny e le hai fatto stringere il manico del coltello. Certo, se fossi stato a Las Vegas o a New York o a Miami ti saresti preoccupato della ricostruzione che avrebbe fatto la polizia scientifica: posizione del corpo, direzione del fendente, posizione dell'aggressore, profondità della ferita e tutte le cose che i telefilm ci hanno insegnato. Ma qui non siamo in America. Ti sei detto che in Tunisia non sarebbero andati tanto per il sottile, specie davanti a una impasticcata fino al midollo. E hai visto giusto: il commissario Zaalani è convinto più che mai della colpevolezza di Aurora.» «Mi dispiace per Aurora. Pensavo che avrebbe dormito di più, che avrebbe dormito tutto il mattino. Avevo previsto di rientrare, di trovare la porta chiusa con la catena e di chiamare la direzione perché da dentro nessuno mi rispondeva. Così sarei entrato in stanza con altri e avrei avuto dei testimoni della mia innocenza. Non credevo che si sarebbe tagliata le vene. Mi dispiace davvero, però io dovevo ucciderlo, per quello che ci aveva fatto...» E tornò a stringersi la testa tra le mani. «Dunque hai messo la catena dall'interno e sei uscito dalla portafinestra che dà sul vialetto dove non passa nessuno, chiudendotela alle spalle. Come sei riuscito a farti assegnare una stanza così adatta al tuo piano?» «L'amica che l'anno scorso ha accompagnato qui Serena aveva la mappa del villaggio. È lei che mi ha raccontato la storia della regata, sempre uguale, ogni settimana. Con tre settimane prenotate, avevo altre due possibilità di farcela, anche se Johnny non avesse abboccato al primo invito o se la regata fosse stata annullata per qualche motivo.» «E invece ti è andata bene al primo colpo. Ti sei pulito con l'asciugamano per non lasciare impronte, poi hai di nuovo scavalcato il muro di cinta e hai raggiunto l'albergo, dove hai gettato il telo sporco di sangue. Sei arrivato al promontorio e quando Libero è passato, hai nuotato fino alla barca, sei risalito e avete raggiunto il gruppo giusto in tempo per le altre fotografie: la seconda parte dell'alibi.» «Non volevo finire in galera per Jonathan. Volevo ucciderlo e poi ricominciare a vivere. E da quando lui è morto io ho davvero ripreso a vivere.» «E ad Aurora non hai pensato?» «Immaginavo che se la sarebbe cavata con la semi-infermità mentale o qualcosa del genere?» «Qui? In Tunisia? E anche se fosse stato così, ti saresti sentito a posto?» Si soffiò nuovamente il naso e si accontentò di buttare lì un «non so». All'improvviso gli afferrai entrambe le mani e le strinsi tra le mie. Era la scena madre, quella che avevo preparato durante il viaggio in taxi: «Se lasci credere che sia stata Aurora a uccidere, Johnny diventa una semplice vittima e nessuno o quasi saprà mai quale bastardo fosse, lui e l'altro suo complice, il fotografo. Nessuno saprà mai del suo traffico di video porno, di quanto fosse schifoso. Pensaci, sarebbe davvero una vendetta la tua?».
Il mio era un tentativo goffo e disperato, fatto di una logica ferrea quanto banale. A dire il vero, avevo anche un'altra carta da giocare, e la giocai: «In ogni caso, se non ti costituisci tu, ti denuncio io. Forse ci vorrà più tempo: tu negherai e io cercherò di convincerli. Costituisciti o vado io stessa da Zaalani, adesso. Anche se...». Mi ripugnava dirlo. In passato, una cosa del genere l'avevo confessata solo a me stessa. «Anche se uno così meritava di morire. Ammettendo che le donne che ha rovinato si fossero fatte coraggio e lo avessero citato in giudizio, non ci sarebbe stata alcuna possibilità non dico di condannarlo, ma neppure di processarlo. Capirai! Era cittadino statunitense; gli americani non hanno condannato neppure quello che ha ucciso Nicola Calipari, neppure quelli che hanno tirato giù la funivia del Cermis, figuriamoci se punivano Jonathan Caputo per violazione della privacy! Però Aurora non può pagare per te. Hai iniziato una cosa, portala a termine.» Lui si alzò guardando la caserma della polizia, poi si voltò verso di me: «Accompagnami».
Domenica 5 agosto 2007 Sdraiata sul lettino, lungo la piscina, col mio bikini arancione, a pancia in giù, a godermi il sole, potrei sentirmi finalmente in pace. Potrei sentirmi a posto come mai mi è capitato in passato dopo aver trovato la verità. Tutto è bene ciò che finisce bene: il cattivo più cattivo è morto, il cattivo meno cattivo è in galera, la stronza perderà il lavoro e l'anima candida tornerà al suo candore e ai suoi psicofarmaci. Happy End. Il finale è lieto. È l'inizio che è doloroso, e io quell'inizio non riesco proprio a dimenticarlo. Da ieri sto leggendo e rileggendo il diario di Serena, l'agenda che Ermanno mi ha dato. La apro alla pagina del 3 novembre 2006. Diario. «Nessuno può capirmi, nessuno può aiutarmi. Per strada incontro sguardi che mi fanno paura. Si posano su di me e mi spogliano, mi scarnificano, mi lacerano la pelle come coltellate. lo che ho sempre amato gli sguardi, io che fin da bambina ho cercato l'esibizione, ora vorrei essere invisibile, nascosta da un velo, protetta da un burqa. Non sono più una donna, sono una bambola vecchia e sporca che qualcuno si deciderà a gettare nei rifiuti. Sempre che non lo faccia io stessa. Non sopporto più gli sguardi, soprattutto il tuo, così carico di comprensione, così innamorato e misericordioso. Picchiami, schiaffeggiami, sputami addosso, cacciami via, dammi un motivo per odiarti come odio me stessa. Ti ho implorato tante volte in questi giorni, te l'ho chiesto con gli occhi, con i miei silenzi. Disprezzami, fammi sentire che sei al mio livello, che sei squallido come me. E invece no, mi fai persino i regali. Ti odio, domani la faccio finita.» Mentre leggo, sento un click discreto. Mi volto. Chadi Mejri mi sta fotografando; forse pensa che, ora che non c'è più Johnny, i video può farseli da solo, recitando da protagonista. Vuol dire che Elisabetta ha tenuto la bocca chiusa, probabilmente Zaalani, come mi ha promesso, verrà a prelevarlo nel pomeriggio: non sono teneri qui con i pornografi. Però non mi basta. La sua presenza lì è una sfida, un insulto. Click. Mi alzo di scatto e gli strappo di mano il suo preziosissimo apparecchio digitale, poi, tenendolo per la tracolla, lo sbatto sul bordo in cemento della piscina: si frantuma in mille pezzi, alcuni cadono in acqua, altri rotolano tra le sdraio e i lettini. La gente guarda, gli addetti alla sicurezza sono già lì. La mia voce è un sibilo di vipera: «E questo per te è solo l'inizio!». Cerco con gli occhi Omar, il cugino di Karima, ma lui ovviamente non c'è. Peccato, avrebbe apprezzato il mio gesto, avrebbe capito che il pentolone era definitivamente scoperchiato: a questo miravano le sue rivelazioni.
Venerdì 30 novembre 2007 Morgana non la smette di strusciarsi sulle mie gambe e ogni volta rischia di farmi inciampare, mentre vado avanti e indietro tra la camera da letto e il bagno nella speranza di vestirmi e di truccarmi in maniera decente. Cena al ristorante, con Marco, la signora Melzi e alcuni amici di Aurora. Festeggiamo il suo ritorno, dopo quattro mesi di attesa e di paura. Il giudice ha interrogato quasi subito Ermanno e il suo avvocato ha detto che non sa se riuscirà a evitargli l'ergastolo. Con Aurora invece, la giustizia tunisina si è mossa con lentezza pachidermica. Due mesi d'ospedale e due di carcere: per cancellarne il ricordo basterà una decina d'anni di terapia e qualche centinaio di scatole di Fevarin, ma in fondo le è andata bene. Halima Baravati, l'animatrice tunisina, ha visto una decina di giorni fa la conclusione del suo processo, l'ho letto sul sito: uscirà di prigione tra undici anni. Per un reato che non ha commesso.
Ringraziamenti Un grazie di cuore a Giorgio Gallino per la consulenza medica (eventuali errori sono da attribuirsi solo alle mie rielaborazioni), e agli amici scrittori Younis Tawfik e Carlo D'Amicis per la consulenza linguistica. E un ringraziamento speciale a Luigi e Adelina Bruschi per aver ospitato la nascita di molte di queste pagine. Grazie infine a Raffaella Lops per i suoi consigli.
Table of Contents Alessandro Perissinotto Risvolti Diario Giovedì 26 luglio 2007 Sabato 28 luglio 2007 Domenica 29 luglio 2007 Lunedì 30 luglio 2007 Martedì 31 luglio 2007 Mercoledì 1° agosto 2007 Giovedì 2 agosto 2007 Venerdì 3 agosto 2007 Sabato 4 agosto 2007 Domenica 5 agosto 2007 Venerdì 30 novembre 2007 Ringraziamenti