GIANFRANCO NEROZZI & ANDREA COTTI L'ORA BLU (2006) GIANFRANCO NEROZZI ALLA FINE DELLA NOTTE & ANDREA COTTI IL POSTO BUIO...
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GIANFRANCO NEROZZI & ANDREA COTTI L'ORA BLU (2006) GIANFRANCO NEROZZI ALLA FINE DELLA NOTTE & ANDREA COTTI IL POSTO BUIO Il Carbonaio non è un mostro / il Carbonaio è solo un posto fa paura la sua voce / stringi subito la croce quando il buio si fa blu / non gli puoi sfuggire più. Parte prima Alla fine della notte Gianfranco Nerozzi Ancora una volta a mio figlio Samuele, questa storia, come allora; per affrontare e vincere la fine della notte: dopo quelle che sono state e per quelle che saranno, tutte le mattine della sua vita, e molto di più... Graffi di scuro nel fondo lontano. Bocche che succhiano e gridi. (Lili, Li, Lilith. Lili, Li, Lilith) Chiusi nel buio, la gabbia che scende. Bocche che succhiano e gridi. (Lili, Li, Lilith. Lili, Li, Lilith) La notte finisce e il cuore fa sangue. Bocche che succhiano e gridi Mastéma, Lilith da The Dark Jaws, Le bocche del buio anthology
Nel blu, dove hai perso gli occhi tu... Assoluto Naturale, Nel blu Alla fine della notte: qualcosa nell'aria, difficile da comprendere, impossibile da respirare. La bambina è distesa nella culla, a pancia in su, sveglia. Testa calva, pagliaccetto rosa, pannolino. Le palpebre teneramente dischiuse sugli occhi mobili. Segue con innocente meraviglia il movimento che si svolge su di lei, dentro di lei. Parte del suo pensiero, desideroso di conoscenza, vulnerabile, congiunto all'abbraccio invisibile che la sta avvolgendo. Una coltre blu, densa e silenziosa, la comprime lentamente. Non prova dolore, è un po' come nuotare nel ricordo vivo del ventre di sua madre: cullata nel silenzio, nascosta nel torpore. Un tremito le percorre la spina dorsale. Il suo piccolo cuore si stringe e il respiro le sfugge dal petto, fluidificato nell'aria: si allunga dal bordo delle sue labbra, risucchiato nell'imbuto di tenebra. Rigurgitando le ultime stille di fiato, la bambina tende le mani chiuse a pugno verso l'ombra deforme che la sovrasta. I suoi polmoni si contraggono, minuscole spugne spremute nella morsa di una mano cattiva, si svuotano del tutto. Frange di luce sfilano via dal suo sguardo, spiegandosi come ali, volano silenziose seguendo la traccia di una lunga scia dispersa nel nulla. Il buio guadagna spazio, la colma d'acqua densa. La ingoia, la deglutisce. Trova in lei, nella sua purezza, il proprio nutrimento. E tutto termina così: velocemente. Sale verso l'alto e poi precipita. Scompare come un sogno spezzato da un risveglio improvviso. La tenera essenza della bambina, ancora fresca e vibrante, assume la consistenza di un sussurro e si congiunge agli altri gemiti soffocati che aspettano fuori dal tempo, oltre il confine del vuoto, nascosti dentro gli spazi scuri. Fasci luminosi, bianchi e tesi, sbocciano dalle feritoie della tapparella: nella cameretta giunge la luce del mattino. Settembre 1997
I Notturne prospettive 0:00 Due punti di luce comparvero improvvisi da dietro una curva, esplodendo lunghi fasci d'argento nel buio. L'automobile era una Ford Ka grigio metallizzato. La strada proseguiva dritta. Una strada nera, deserta e immobile. Giorgio Bandini guidava tenendo gli occhi fissi davanti a sé senza quasi battere le palpebre: lo sguardo aggrappato al bordo della striscia chiara della mezzeria. Dall'impianto stereo si propagava il rock angosciante dei Mastéma, un pezzo intitolato Lilith, che parlava di demoni in agguato nella notte pronti a divorarti il cuore. I led dell'autoradio pulsavano di verde elettrico nell'abitacolo appena rischiarato dalla luce del cruscotto. Sul sedile a fianco, sua moglie Mila stava sonnecchiando. Con le braccia conserte e la testa reclinata all'indietro, ondeggiava nella penombra così mollemente da far pensare a un'assenza di vita. Né bionda né mora, aveva i capelli color del castagnaccio, cotonati e gonfi, un blocco scultoreo che incappucciava la sua testa con precisione: non un ciuffo, non un boccoletto fuori posto. La statale che stavano percorrendo non era molto frequentata a quell'ora. Erano partiti da Bologna due ore prima e avevano lasciato da poco l'autostrada all'altezza di Faenza per attraversare l'Appennino romagnolo diretti verso sud. L'idea era di fare tutta una tirata fino a mattina, per arrivare a destinazione alle prime luci del giorno. Esattamente come avevano fatto sette anni prima. Un segnale stradale balzò di colpo nel campo visivo del parabrezza e altrettanto velocemente scomparve. Giorgio registrò mentalmente: curva pericolosa. Risvegliandosi dallo stato di trance in cui era caduto, strizzò gli occhi e scalò la marcia per diminuire la velocità. Dopo spostò lo sguardo sulle gambe della moglie: confuse nella penombra sembravano ammassi informi. Lei indossava sempre quei suoi Levi's stretti fuori di misura e lui provò l'impulso di svegliarla per chiedere: «Mila? tesoruccio... Ti si è fermato il sangue nelle coscione e adesso ti stanno per scoppiare». Con una scrollata di spalle decise di lasciar perdere: era ancora presto per riaprire le ostilità.
Gli venne in mente una trasmissione televisiva dove c'era il mago Silvan che spiegava i segreti del mestiere di prestigiatore: se ti accorgi di uno sbaglio, distogli l'attenzione degli spettatori indicando dall'altra parte. Vualà! Senza trucco e senza inganno... Pensò che lui, adesso, avrebbe dovuto puntare l'indice dalla parte opposta a quella dove si trovava Mila per confondere le acque. Sperare che bastasse un gesto, per cancellare gli errori. Le incomprensioni. Pervaso da un misto di nostalgia e risentimento, si chiese quando fosse cominciata la fine di tutto. All'inizio il gioco sembrava così perfetto. Invece poi... Senza trucco e senza inganno. Tutto era diventato una merda, all'improvviso. Vualà. Concentrandosi sulla musica (tenuta bassa, per l'amor di Dio!) dei Mastéma, Giorgio Bandini si perse a considerare le luci dei fanali levitanti all'interno della spessa coltre notturna. I riflessi gialli e rossi sui catarifrangenti del guardrail davano l'idea di occhi che ammiccavano nel buio, occhi di mostri. E lui provò per un attimo la sensazione di trovarsi sull'orlo di un precipizio, in attesa di essere spinto giù: in un mondo scuro e senza traccia. 1:30 «Ma che ore sono?» chiese Mila. Giorgio sussultò per il suono di quella voce improvvisa. Qualcuno nella sua mente mormorò, con un certo fastidio: ecco, la signora si è svegliata... Lanciando un'occhiata alla chiesuola centrale del cruscotto, controllò l'orologio e rispose: «L'una e mezzo!» «Cosa...» Mila piegò le labbra in una smorfia di sincero disappunto, mentre allungava una mano per abbassare il volume dello stereo. «Che cosa hai detto?» Rivolti gli occhi al cielo, Giorgio non si disturbò a risponderle ancora, che tanto non serviva, si accese una sigaretta e rialzò il volume. E sua moglie prontamente lo riabbassò. Lui la fissò di sbieco un attimo scuotendo la testa, poi rivolse di nuovo la sua attenzione alla strada, aspirò una profondissima boccata e sputò fuori il fumo tossicchiando con la punta della lingua sporgente dalle labbra socchiuse. Mila, guardandolo, lo trovò talmente odioso. «Fuma pure!» sbraitò, mentre accendeva la ventola per il ricambio dell'aria. C'era un forte odore
di stantio nell'abitacolo: il puzzo che stagna in un armadio rimasto chiuso per troppo tempo. Giorgio contrattaccò buttando la cicca ancora praticamente intera fuori dal finestrino e imprecò sottovoce, a denti stretti. Mila recuperò da sotto il sedile una bottiglia di plastica formato famiglia di Coca Cola e la portò alla bocca dimenticandosi di togliere il tappo. Ignorando la risatina di scherno del marito, svitò con calma esagerata, poi bevve: a collo e a lungo. Si asciugò la bocca col dorso della mano con un gesto vagamente mascolino. Girandosi verso il marito con gli occhi inumiditi dalle bollicine, chiese: «Ne vuoi?» e aspettò che lui le rispondesse bruscamente di no prima di riporre la bottiglia. La conversazione era finita. Racchiusi nel loro bozzolo inespugnabile, i Bandini restarono muti a dipanare gli attimi della loro insofferenza. Quando lei, quasi subito, si riaddormentò, lui alzò trionfalmente il volume dello stereo: senza esagerare, però. Con ostentata indifferenza, tentò di seguire la musica fischiettando dietro una chitarra distorta all'inverosimile, le labbra spinte in avanti come se volesse baciare qualcosa d'invisibile nell'aria. Desiderò il soccorso di un'altra paglia. Smise di soffiare rilassando le labbra in una smorfia e cercò di convincersi mentalmente che non era il caso: ne aveva già fumate troppe. Temporeggiò riempiendosi la bocca di caramelle per la gola. Devo resistere! provò a imporsi. Succhiando menta forte, deglutiva saliva gelata nella gola cercando di non lasciarsi sopraffare. Ma poi le sue difese saltarono (giù!), caddero miseramente. Recuperò il pacchetto e ne sollevò il coperchio usando una mano sola, poi pescò una sigaretta con le labbra. Sfiorò il cruscotto alla ricerca dell'accenditore. Lo spinse... La sigaretta finalmente accesa fra i denti. E i sani colpi di tosse convulsa: catarro, fumo e menta piperita. Ripensando ai sette anni di vita in comune con Mila, la sensazione che Giorgio ne riceveva assomigliava in modo sorprendente al senso di soffocamento che provava dopo aver cremato nei polmoni la ventesima sigaretta della giornata. All'inizio si erano amati profondamente, senza riserve. Poi, nel consumarsi del tempo, la noia, le superficialità, le incomprensioni avevano fatto volatilizzare tutte le scorte di buonumore, disperdendole nell'aria come volute cancerose di fumo. E il loro matrimonio se ne era andato in malora: dolente e ossessionato. Fino a quando non era accaduto il miracolo. Mila era rimasta incinta - facendo arrossire per la vergogna tutti quegli
specialisti ginecologi che avevano diagnosticato la sua probabile incapacità di restare gravida - e aveva dato alla luce una stupenda femminuccia di tre chili e due, bella come il sole. E le cose, a quel punto, erano sembrate incanalarsi nei giusti binari. Tutto era diventato facile, e riuscivano persino a sorridersi più di una volta al giorno. Ma era durato poco, troppo poco. La loro piccolina era stata rapita dal buio in quell'ora fatale che precede il sorgere del sole. I dottori si erano stretti nelle spalle, incapaci di enunciare diagnosi attendibili. Morte improvvisa nella culla, l'avevano chiamata. La causa: sconosciuta. Un bambino messo a letto in perfette condizioni di salute veniva inspiegabilmente ritrovato morto. E gli esperti non potevano fare altro che avanzare ipotesi a vanvera e sbandierare i dati delle solite statistiche del cazzo:... numerose ricerche hanno dimostrato che le morti improvvise dei neonati si verificano sempre mentre il bambino sta dormendo, nell'ora che precede l'albeggiare... alcuni studiosi affermano che si può imputarne la causa alla probabile insorgenza di anomalie nell'apparato respiratorio... c'è chi ha dato la colpa agli effluvi che si sprigionano dalle imbottiture dei materassi sintetici... eccetera eccetera... via di questo passo: stronzate senza capo né coda. Una bambina, la loro bambina! era morta senza una ragione, aveva solo sei mesi e se ne era andata, offerta e indifesa in tutto quel buio. Vualà. Scomparsa senza un lamento. Senza trucco e senza inganno... E tutto quello che restava loro era una spina conficcata a fondo nella parte morbida del cuore, proprio al centro del reparto Illusioni perdute e affini. Imprigionati dentro la coltre di un lutto che dovevano per forza condividere, i Bandini avevano finito col gettare in pasto la morte della figlia alla loro incapacità di sopportare una vita a due logorata dai battiti di un cuore preso a morsi dal dolore. Così il rispetto e la stima reciproci, già ridotti all'osso, erano precipitati a profondità irraggiungibili. Gettata l'ennesima sigaretta malfumata dal finestrino, Giorgio Bandini, smarrito nel vorticare dei propri pensieri, udì giungere dal centro della sua mente una risatina: limpida e sottile. Poi una luce, simile a una minuscola luna, prese a ruotare su se stessa fino a mostrare l'immagine di una bambina. Sua figlia mentre lui la tiene in braccio. La faccina tonda e gli occhi grandi.
Quella sera, quell'ultima sera... Sala da pranzo. Tavola apparecchiata con i resti della cena consumata mezzora prima. Il biberon appannato di latte. Un vasetto di omogeneizzato alla frutta con un cucchiaino sporco parcheggiato a fianco. Sua moglie sta stirando in fondo alla stanza, muove il ferro lungo l'asse e fissa il vuoto fra le pieghe di una camicia bianca tutta sgualcita. «Mila? Guarda la piccola». Quando sente la voce del marito chiamarla, lei chiude le palpebre un attimo, poi alza la testa piano e fissa sua figlia con l'espressione già addolcita dalla tenerezza. La piccola si guarda attorno, allunga le manine e sorride di gusto, come per qualcosa che riesce a vedere solo lei. «Quando fanno così, vuol dire che ridono con gli angeli». Con uno sforzo e un gemito, Giorgio cercò di uscire dal ricordo prima che cominciasse a fare troppo male. Ti tenevo fra le braccia e annusavo la tua pelle che sapeva di latte, e tu fissavi il vuoto e sorridevi... Stringendo i pugni sul volante, cercò di svuotarsi la testa dai pensieri, ma gli interrogativi non se ne andavano. Grattavano come unghie. Perché ridevi? Giorgio spinse lo sguardo oltre il parabrezza e cercò di perdersi nella dimensione ipnotica che sfrecciava davanti ai suoi occhi. Immagini fuggevoli dentro ai coni di luce dei fanali. Perché ridevi, stellina? lo puoi dire a papà? Oltre la luce, il buio. (Quando fanno così vuol dire che ridono con gli angeli!) Oltre il buio: un interminabile abisso scuro. 2:30 Mila si svegliò. Si stiracchiò. Chiese: «Che ore sono?» Abbassò il volume dello stereo. Chiese: «Dove siamo?» Giorgio sospirò. Strinse più forte il volante. Chiese: «Hai dormito bene, cara?» Lei lo guardò storto prima di rispondere: «Fai lo spiritoso?» disse. La voce tagliente, già sintonizzata sul litigio. Giorgio risucchiò un tiro dalla sigaretta e tossì. «Fuma, fuma pure...» sbraitò Mila. Lui ricambiò con una smorfia lo sguardo gonfio di rimprovero della moglie. Provando un brivido di rabbia, pensò: piantala...
Lei stava dicendo: «Sembri un drogato!» Piantala di rompermi il cazzo! Lei stava dicendo: «Auf! e poi non si respira più qua dentro!» Giorgio cercò di resistere. Ma poi arrivò l'idea. Ed era come scivolare in una dimensione nitida e cruda dov'era il sangue a dettare legge. Sangue malato imbratta-pensieri, come acqua nera di fogna. Lei stava dicendo: «Quante ne hai già fumate, eh? No no, di' pure!» Piantala ti dico! Lei stava dicendo: «Un pacchetto? Due pacchetti?» Giorgio sentì crescere dentro di sé un'ondata di calore che si focalizzò in un punto a metà fra lo stomaco e il cuore. Mi piacerebbe ucciderla, pensò. Mentre il bruciore cresceva rapido fino a lambirgli la base della gola. In fondo all'esofago un rigurgito acido si fece strada e lui dovette deglutire con forza per ricacciarlo giù. Il desiderio di fare del male a sua moglie era sincero, si potrebbe persino dire: genuino. Stava provando un impulso che scaturiva dal palpitare stesso della sua carne. Afferrarla per il collo, oooh sììì. Stringere con gioia... Lei stava dicendo: «Guarda che io parlo per il tuo bene, cosa credi?» Sentire i pollici affondare nella sua morbida trachea... Giorgio provò un brivido e contrasse le mani sul volante fino a farsi male. All'improvviso quella sensazione di acido bollente se ne andò, veloce come era arrivata. Scivolò via. E l'acqua nera superò la grata di scolo. Restò solo un senso di pesantezza alla pancia e un filo di nausea, come quando si è mangiato troppo. Sentì la stanchezza sostituirsi alla rabbia e poté ringhiare solo: «Non rompermi i coglioni, va bene?!» Distillando il solito cupo disprezzo nella voce. «Sei un gran cafone, lo sai, vero?» «Non ho voglia di discutere, per cortesia...» «Perché... naturalmente, sono io quella che cerca di litigare...» «Ho guidato sempre io, perché tu, naturalmente, avevi la tua solita...» «Ma sentilo!» «... maledettissima emicrania da gocce agli occhi». «Mi vuoi rinfacciare anche il mal di testa, adesso?» Giorgio ridacchiò: «Che poi siamo nel campo del metafisico...» «Cosa?» «Realtà non verificabili». «Cosa cazzo vuoi dire si può sapere?»
«In poche parole, cefalea isterica». «Cioè cioè? Spiegati meglio...» «Niente, solo una considerazione di fondo: per avere male alla testa, (udite udite!) bisognerebbe avercela, una testa». «Giorgio? Va a fan culo!» «Il tuo o quello di qualcun'altra?» Mila si sentì avvampare di rabbia. «Ah! andiamo proprio bene...» disse. Con mani tremanti, si accese una sigaretta. Giorgio, guardandola di sottecchi, accennò un sorrisino sbilenco mentre cantilenava: «Fuuuma pure...» con la voce in falsetto, cercando di imitare quella della moglie. Lei ignorò la provocazione, aspiro tre boccate in rapida successione. Raggiunse il posacenere, arricciò il naso. «Ma che schifo! qui è pieno di cicche». «Perché non lo svuoti dal finestrino, se ti dà tanto fastidio?» Mila non rispose. Si aggrappò a un'ultima, profonda tirata. Spense la sigaretta pigiandola più volte, liberando scintille. Richiuse brusca il portacenere. Silenzio. Lui riaprì brusco il portacenere. Scrollò la sigaretta. Imboccò una caramella. Silenzio. Mila prese a tamburellare nervosamente sul cruscotto. L'anello nuziale, troppo largo, le ballava nel dito come se non fosse più della misura giusta. Giudicò insopportabile il rumore di risucchio che Giorgio emetteva rigirandosi la mentina nella bocca. Guardò il marito con la coda dell'occhio, mangiucchiandosi l'unghia del pollice: lui era solo una sagoma appena definita nella penombra; il suo profilo si delineava sotto il vertice di una stempiatura che si avviava inesorabilmente verso la calvizie totale. La brace della sigaretta che gli spenzolava dalla bocca aumentava d'intensità a ogni tirata, ingrossandogli il tratto del naso. Mila odiò profondamente quel naso. Sputò un mozzicone d'unghia, sospirò appoggiando la testa all'indietro e chiuse gli occhi. La sua mente era assiepata da mille perché: perché non riusciamo più a trovarci? Perché non sopporto più il suono della sua voce, il suo odore? Perché perché perché? Era stata di Giorgio l'idea d'intraprendere quel viaggio, lo stesso itinerario del loro viaggio di nozze: ma che idea romantica!
Per riscoprire vecchie prospettive, aveva detto. Forse ci aiuterà a dimenticare... Ma chi lo ha detto che io voglio dimenticare, eh? chi te lo ha detto, si può sapere? Il ricordo della morte della figlia appariva nitido e nello stesso tempo distorto nella sua mente: l'immagine di un incubo che non stava né in cielo né in terra. E il ricordo era una mano che la stringeva dentro, una mano cattiva. Passato remoto: un anno prima, settembre... Il silenzio rotto da un'esplosione frammentata: l'urlo d'agonia di un animale di vetro che si spezza spargendo briciole della propria sostanza nell'aria muta. Mila si sveglia e non capisce. Pungenti fitte d'apprensione piantate di traverso nel petto. Cuore che picchia, respiro affannato. Con la punta delle dita tocca il vuoto del lenzuolo ancora caldo nel posto di fianco a lei: suo marito non c'è. Dov'è andato? Dal baby-phone collegato con la camera della bimba si sta sprigionando un lamento monocorde. Cosa sta succedendo? Si alza dal letto. Si precipita fuori dalla stanza. Percorre un corridoio che sembra interminabile. Poi resta impalata sulla soglia della cameretta di sua figlia a fissare il marito inginocchiato a terra davanti alla culla e capisce subito che deve essere successo qualcosa di brutto. Sente brividi nella pancia e sul cuore. Un ronzio le sta invadendo la testa. Un ronzio che si trasforma in un pensiero, un'intenzione: vorrebbe dire qualcosa ma non sa cosa. Il pensiero scaturito dal ronzio diviene un gemito sottile in rapida crescita che le gonfia le guance. Le labbra si schiudono di colpo e l'aria esce fra i denti con un sibilo. Emette un verso stridulo scuotendo la testa in fretta. È successo qualcosa di brutto e vorrebbe voltarsi e scappare via e non sapere più un cazzo di niente. Tornare a letto, addormentarsi e sognare per ore e ore. Compie uno sconvolgente passo in avanti e alza le braccia davanti a sé come per proteggersi da un colpo improvviso che potrebbe giungere dal nulla e centrarla in piena faccia. Sembra una cieca che avanza a tentoni nel buio. Un altro passo verso la culla e intravede già le gambine della figlia, gambine cicciottelle, gambine immobili.
Apre di nuovo la bocca per mettere al lavoro le corde vocali. Al massimo dello sforzo, l'unica cosa che riesce a far uscire stavolta è una sorta di muggito sfibrato. Allunga la testa e cerca di scrutare dentro la culla e vede il corpicino morbido e immobile, con le braccine morbide e immobili. E si sente morire. Ancora un passo. La sua bambina dentro la culla. La sua bambina ha un'espressione strana e sembrerebbe dormire, se non fosse per gli occhi spalancati. Occhi grandi e immobili. Cosa è successo alla mia bambina! Vorrebbe chiedere spiegazione a qualcuno. Vorrebbe che suo marito smettesse di strisciare a terra e la rassicurasse un poco. Mila? Tesoromio... Va tutto bene, sai? Invece lui: Giorgicaro strisciante, se ne sta lì con le ginocchia a terra e non sembra nemmeno accorgersi di lei. Pare molto interessato a delle cose che scintillano sparse sul pavimento. Mentre le sue labbra si muovono a vuoto, come per recitare una preghiera silenziosa, Mila si accarezza i seni gonfi di latte e finalmente riesce a emettere delle parole fra un ansito e l'altro. Poche parole interrogative. «Sta solo dormendo, vero?» chiede, sentendosi subito a corto di fiato, un'esile scintilla di speranza nel tono della voce. E lui, Giorgicaro strisciante, non riesce a fare altro che tapparsi la bocca con una mano come per impedirsi di risponderle. Se ne sta sulle ginocchia al cospetto della luce dell'alba che filtra dalle tapparelle, tende il braccio destro in avanti come per dire: «Guarda che roba!» e mostra sul palmo una catenina d'oro con agganciato un pendaglio. Mila scuote la testa: non capisce. Cosa c'entra quella medaglietta? Si può sapere cosa c'entra? Si china sulla culla e afferra il corpicino della figlia, lo bacia dappertutto, lo stringe e lo accarezza. Si apre la camicia da notte strappando via i bottoni e si fa uscire un seno gonfio. Adesso ci pensa mamma, adesso ci pensa mamma, adesso ci pensa mamma, sai... Cerca di infilarle il capezzolo fra le labbra: un fiotto di latte schizza via colpendo il viso della bimba e scivola sulla sua guancia come una candida lacrima.
Poi Mila prende a cullare quel minuscolo corpicino oppresso dal gelo, (fate la nanna coscine di pollo...) lanciando nel vuoto un altro debole verso smarrito. Il dolore che Mila aveva provato, che stava provando, era insieme caldo e freddo nella profondità del suo cuore, come un intreccio di filo spinato inzuppato di veleno che faceva un male da morire. Assuefatta da dosi troppo abbondanti di pianti sconnessi, aveva finito col sentirsi prosciugata fino nel profondo dell'anima. E man mano che inaridiva cresceva dentro di lei un rancore bruciante nei confronti del marito, perché sentiva (anzi ne era sicura!) che lui in realtà non soffriva, non abbastanza almeno, di certo non come lei... E poi Giorgicaro non c'era mai, lui era sempre fuori a farsi i cazzi suoi: per svolgere quelle sue commissioni di lavoro importantissime... Ogni scusa era buona per restare lontano da lei. E quando era in casa, quelle rare volte, l'unica cosa che riusciva a fare era fissarla con aria compassionevole, come si guarda una demente. Poi, terminato lo scrutinio, presentava sul piatto di portata quelle sue paroline farcite di calma rassegnazione per cercare di consolarla: «Non fare così, devi reagire, devi rassegnarti, devi fartene una ragione. Vedrai che passerà...» Oh sì, lo so che passerà. Sul mio cadavere però... «Mila? perché non proviamo a metterne al mondo un altro?» trova il coraggio di chiederle lui un giorno. Sono seduti a tavola nel cucinotto per pranzare: uno di fronte all'altra, distanti anni luce, con due sigarette accese pronte per essere consumate nel portacenere già colmo di cicche di fianco alla bottiglia dell'acqua minerale. Mila non ha toccato cibo e si sta mangiucchiando con voracità le unghie della mano destra, mentre suo marito gioca col cucchiaio rimestando le stelline nel brodo di pomodoro dentro la scodella. «Cristosanto, Giorgio, l'abbiamo appena seppellita e tu vorresti sostituirla. Guarda che un figlio non è mica un cagnolino!», dice lei, sputando via una scaglia d'unghia e lasciando fiammeggiare subito dopo gli occhi. «È l'unica maniera per uscirne, Mila. L'unica, capisci? Ne ho parlato anche con mio fratello. Lui è un dottore e sa cosa dice... Molte coppie a cui è successa una disgrazia simile, hanno deciso di ricominciare daccapo e dopo le cose sono andate meglio...» «Non me ne frega un cazzo di quello che dice tuo fratello. Non me ne
frega un cazzo delle altre coppie». Giorgicaro scuote la testa. Giorgicaro non smette di guardarla con quello sguardo pieno di triste comprensione. Lui rimesta con calma il cucchiaio nella scodella. «Non vedi che ci stiamo dilaniando?», dice. «Non vedi che passiamo più tempo a ringhiare che a parlare? Prima o poi dovrai... dovremo farcene una ragione. Lo so che è dura, lo so che è difficile, ma...» Mila si piega in avanti di scatto con occhi furenti: «Eh no, TU!» E lui si scosta indietro di scatto e la sua mano ha una contrazione che gli fa sfuggire il cucchiaio. Rovescia il brodo di pomodoro, sporca di rosso la tovaglia bianca. Chiede: «IO cosa?» «TU! non sai un cazzo di niente... TU! non l'hai mica avuta dentro... TU! non l'hai mica nutrita col tuo sangue e con la tua fottuta aria...» La macchia di brodo di pomodoro sulla tovaglia sta crescendo sempre di più. Giorgio alza le mani e mostra i palmi, come per arrendersi. «Va bene, calmati adesso. Calmati per favore...» Il brodo di pomodoro sulla tovaglia sembra sangue. Mila prende un respiro dal naso, piegando le labbra in una smorfia obliqua. «Ma io sono calma, sai? Anzi: calmissima! Io voglio solo sperdere lo sguardo nel vuoto e rosicchiarmi la punta delle dita. Strapparmi unghie e pellicine scrollando la testa come fanno i cani quando mordono l'osso. Cos'è... chiedere troppo?» La pozza di brodo sanguigno al centro della tovaglia bianca sembra la faccia di un mostro, stelline di pasta sparse a raggiera con una strana coerenza estetica, come una composizione artistica. «Abbiamo solo bisogno di un po' di tempo, Mila» insiste lui, con quel tono pacatissimo assolutamente fuori luogo che riesce solo a farla andare giù di testa dal nervoso. Abbiamo bisogno di tempo per cosa? Lei fissa la pozza di sangue di pomodoro simile a un mostro, l'espressione attonita, terrorizzata. Quello è il mio cervello esploso, pensa, senza sapere il perché. E s'immagina riversa con la testa scoperchiata a colare grumi di materia cerebrale a forma di stelle. Al colmo della confusione, cerca di parlare ma non ci riesce e allora inizia a piangere con calma, una lacrima alla volta. Anche lui cerca di parlare, di dire una frase qualsiasi per consolarla, ma gli viene fuori solo un verso buffo, una specie di "eh?" privo di senso.
Tira su con il naso. Allunga una mano con l'intenzione di accarezzare la testa della moglie, ma il suo gesto si perde a mezza via. Il pugno si stringe a vuoto. «Davvero, Mila... Abbiamo solo bisogno di un po' di tempo». Lascia che la sua mano corra a recuperare la sigaretta nel posacenere. Poi prende un tiro profondo, con gli occhi chiusi. Lei non smette di fissare la macchia sulla tovaglia e tira su con il naso. «Abbiamo bisogno di tempo per cosa!» dice, con un sussurro roco. «Per capirci qualcosa, no?» «Ma che cazzo dici?» «Tentiamo, proviamo...» 2:45 L'orologio sul cruscotto segnava le due e quarantacinque quando Giorgio decise di fermarsi per orinare e per sgranchirsi le gambe. Fuori l'aria era umida, pesante. Il cerchio pallido della luna piena, al centro del cielo, delicatamente fuso col buio della notte, tremolava come un occhio smarrito dentro all'orbita nera di un teschio. Molte stelle, una miriade di stelle: schizzi scomposti di gialli brillii su un foglio di carta carbone. Giorgio raggiunse il fosso sul ciglio della strada. Lì ristagnava un odore penetrante di piscio vecchio. Lo schizzo della sua urina descrisse un arco continuo e, ricadendo nel fosso, borbottò stolidamente nel fango molle. Finito, sgocciolò. Ripose il pene nei pantaloni. Mentre tornava alla macchina, sfrecciò un grosso camion, suonando un clackson che pareva la sirena di una nave. Sulla fiancata del cassone, la scritta cubitale: Fonderie Ferpress. Poi la strada tornò deserta e rimase nell'aria un vago sentore di gasolio e gomma bruciata. Giorgio rientrò in macchina e Mila lo aggredì immediatamente con un anaerobico: «Dovevipropriosceglierediviaggiaredinotte?» I fanalini di coda dell'autocarro, assieme a tutta una serie di lucine intermittenti, stavano rimpicciolendo in lontananza. Giorgio disse: «Sai benissimo perché stiamo viaggiando a quest'ora». Mila disse: «Sì, perché tu ti sei fissato con questa stronzata della ricorrenza». Le luci del camion scomparvero, deglutite dall'oscurità. Giorgio ringhiò: «Piantala!» Il motore della Ka si avviò. Mila disse: «Io parlo finché mi pare, hai ca-
pito?» L'auto partì rabbiosa, con un lamento prolungato di gomma sull'asfalto. Giorgio deglutì l'acqua nera che stava risalendo per i canali scuri dei suoi sottopensieri. Ignorando il saporaccio di fogna, cercò di non stringere così forte il volante. Ma non poté fare a meno di pensare al collo morbido di lei e s'immaginò le proprie dita che stringevano, stringevano... Non stava andando bene, proprio per niente. Aveva insistito per quel viaggio, gli era sembrato giusto e indispensabile intraprenderlo, ma adesso non ne era più tanto certo. Disse: «Non sta andando molto bene, vero Mila?» La faccia scura, rabbuiata dallo sconforto. «Sta andando di merda, come al solito!» «Ma per forza! Tu non perdi mai un'occasione per litigare!» «IO!?» «Abbiamo proprio fallito in tutto...» «Ed è stata colpa mia, vero? No, no, di' pure... la colpa è di quella scema di tua moglie che non è buona da niente!» «Mila, per favore...» «Dimmi la verità. Pensi che tua figlia sia morta per colpa mia?» «Era nostra figlia...» sussurrò Giorgio, quasi in un soffio. Si fissarono per un attimo: sbigottiti. Mila cominciò a piangere. Inaspettatamente atteggiato a comprensione e tenerezza, Giorgio allungò la mano per accarezzare sua moglie sulla testa. Ma lei si scostò: «Lasciami, chemmi spettini!», disse. Lui ritirò il braccio. Tornarono soli. 3:30 Erano già le tre e mezzo quando si fermarono a un distributore di benzina per fare il pieno. Dopo proseguirono per una ventina di chilometri, poi abbandonarono la statale per avventurarsi in una scorciatoia che tagliava attraverso la campagna passando in mezzo a un fitto bosco di querce. Non si parlavano da più di mezzora e nessuno dei due aveva la minima voglia di rompere quel silenzio colmo di risentimenti. La strada che percorrevano era ancora in costruzione e risultava asfaltata solo in parte. Giorgio dovette rallentare per avanzare in un percorso solcato da profonde buche. Le valigie dentro al bagagliaio sobbalzavano con dei tonfi sordi.
«Questa strada mi fa paura!» asserì Mila all'improvviso, con una voce rauca che lei stessa stentò a riconoscere come sua. Lui non si stupì per quell'affermazione, perché un diafano senso di smarrimento lo stava perseguitando fin da quando avevano lasciato la statale. Quella doveva essere la strada giusta, la stessa che avevano percorso tanti anni prima, non c'erano dubbi. O forse... chissà? Era passato molto tempo e poteva essersi sbagliato. Non la ricordava così dissestata, quella scorciatoia del cazzo! Ma del resto... le scorciatoie sono quasi sempre imbrogli pensò. Le scorciatoie sono fumo negli occhi, un tentativo per fermare il tempo, per giocarlo in qualche modo. Girandosi verso la consorte, provò a decifrarne l'espressione, ma il viso di lei restava celato nella penombra. Giorgio cercò mentalmente le parole adatte per esprimere quello che stava provando, ma dopo ardue manovre non riuscì a emergere dal pantano di rancore represso. Dando un'occhiata oltre l'insofferenza, non trovò niente di buono. Così si accese una sigaretta, deglutì sapore amaro e restò rinchiuso a testa bassa nella scorza di silenzio. 5:50 La strada procedeva sempre più incassata nel fitto bosco, così stretta da rendere irrealizzabile l'idea di fare manovra per tornare indietro. Le curve frequenti, pericolose. Il fondo accidentato faceva sussultare l'auto trasmettendo l'inquietante sensazione di passare sopra a dei corpi morti stesi sulla carreggiata. La spia del carburante indicava già meno della metà. Non era rimasta molta autonomia nel serbatoio, e se restavano a secco in quel posto deserto poteva diventare un problema serio. «Secondomehaisbagliatostrada!» sentenziò Mila, rapida e improvvisa. Giorgio, avvolto nelle spire di un cupo disorientamento, non si curò di controbattere e prese un tiro dalla sigaretta. Gli occhi gli bruciavano e la schiena gli doleva, non ne poteva più di guidare e doveva fare una pausa. Appena trovò un punto dove la strada era abbastanza larga, accostò a destra e si fermò. Si sentiva le orecchie curiosamente tappate, come per effetto di un repentino sbalzo di pressione. Era stanchissimo. «Si può sapere perché ti sei fermato?» berciò Mila. Lui non rispose ma la guardò storto, mentre tirava il freno a mano. «Ti ho fatto una domanda!» continuò lei in una tonalità due ottave sopra a quella di una persona ragionevole.
Giorgio sbuffò, emettendo aria fra i denti con un sibilo che Mila giudicò estremamente antipatico; accese la luce dell'abitacolo per guardare la moglie. Piantala... Lei era pallida, con le labbra contratte, la fronte corrugata, i capelli immobili sulla testa come quelli di una scultura. Piantala di rompermi il cazzo! Mentre portava la mano alla chiavetta per spegnere il motore, lui provò a spiegare: «Sto guidando da più di sei ore e devo riposarmi un poco, non ce la faccio più...» Mila gli artigliò il braccio. «Lascia almeno il motore acceso...» disse, con la voce ridotta a un esile bisbiglio. «Brava furba! Così magari finiamo la benzina e restiamo bloccati qua». Lei a quel punto si convinse, si sganciò dal braccio del marito e lasciò che lui girasse quella benedetta chiavetta. Piombarono nel silenzio. «Prendi la cartina, per favore» chiese lui, mentre buttava la cicca consumata dal finestrino. Con gesti febbrili, Mila aprì il bauletto porta oggetti, recuperò una mappa stradale piuttosto malconcia e la porse sgarbatamente al marito, poi cominciò a rosicchiarsi le unghie con voracità. Giorgio prese a studiare la cartina seguendone col dito i vari tracciati. Mila sputacchiò un pezzo d'unghia. «E allora?» «Un attimo! Cristodidio!» «Non bestemmiare!» «Stai zitta un momentino? Per piacere?» «Ma stai zitto tu!» Giorgio richiuse il libricino sospirando. Prese a massaggiarsi le orecchie pigiandovi sopra i palmi delle mani. Mila sputò un altro brandello d'unghia. «Allora sentiamo! cosa hai scoperto?» «Niente. Credo che questa strada non sia segnata». Le sue orecchie finalmente si stapparono, all'unisono, con un suono frizzante molto simile a quello dei coperchini metallici nelle vecchie bottiglie di vetro della Coca Cola. «Che cosa? vorresti per caso dire che ci siamo persi?» Giorgio smise di fissare l'immagine della propria faccia riflessa sul parabrezza, si rivolse lateralmente, spostando la testa piano. Da sopra la spalla
annunciò, con molta calma: «Non drammatizzare come fai di solito...» «Ci siamo persi e lui cosa mi dice? di non drammatizzare... Questa è proprio roba da matti! Ci siamo persi e io devo essere felice come una pasqua... Ci siamo persi in questa notte del cazzo! In questo posto del cazzo! E lui non sa fare altro che guardarmi con un cazzo! di aria di sufficienza, per poi chiedermi, con un cazzo! di voce pacata pacata, che non devo farmi prendere dai nervi...» «Cristo, Mila, perché non prendi fiato...» Tamburellando nervosa sul cruscotto, lei lo guardò con occhi furenti. «Va bene... allora che cosa vuoi fare, sentiamo pure...» Giorgio reclinò il capo sul poggiatesta, spense la luce nell'abitacolo e pensò: che cosa voglio fare? Semplice: voglio strozzarti! Lei insisteva: «No, no, sentiamo pure...» Giorgio controllò l'orologio: mancavano dieci minuti alle sei. Chiuse gli occhi e cercò di rilassarsi. Fra poco sorgerà il sole e allora tutto sarà più facile, pensò. «Lo sai che non lo sopporto quando non mi rispondi!» Lui si rivolse alla moglie senza nemmeno girarsi. «Piantala!» ruggì. «Sono stanco, hai capito? Stanco morto. E voglio dormire un po'». «Cosa fai tu? Ma dico: sei fuori?» «Vo-glio DOR-MI-RE!» annunciò Giorgio, scandendo bene sillaba per sillaba. Poi aggiunse, quasi sottovoce: «Chiuso il discorso». Mila, imperterrita, continuò a sbraitare: «Ma chi lo dice che il discorso è chiuso, lo dici tu, eh? lo dici tu? Ecchi credi di essere tu?!» Ma niente da fare, lui non l'ascoltava più, lui stava già dormendo, il contatto era tolto. Sbirciando attraverso il vetro laterale, Mila si sentì avvolgere da un brivido d'apprensione: c'erano strane piante con fronde filamentose avviluppate insieme che ondeggiavano luccicando sotto i raggi della luna piena. E c'era qualcosa di strano nel modo in cui si muovevano quelle piante: qualcosa di sbagliato. Mila rabbrividì, distolse lo sguardo e riprese a divorarsi l'unghia del pollice, ormai ridotta all'osso, e per un attimo ebbe l'impressione di sgranocchiarsi la punta denudata della falange. Spostò la mano e si puntò il dito davanti agli occhi per controllare se c'era ancora tutto. Era intero. Anche se la carne in cima appariva deforme e grinzosa. Ruotò il polso e considerò che così, con il pugno stretto e il pollice teso all'insù, dava l'idea che volesse esprimere uno di quei gesti di soddisfazione all'americana; all righi, baby. Con quell'unghia scomparsa nella pelle.
Tutto bene... Anche se così non puoi graffiare e non ce la fai più ad aggrapparti a qualcosa, bambina. Mentre suo marito, di fianco a lei, se la dormiva della grossa, quello stronzo... II Nell'infinito degli spazi scuri Giorgio non precipitò in un sonno vero e proprio. Il suo fu una specie di stordimento. E dentro al sogno dentro a quello stordimento, riaffiorarono, tremolanti e sfocate come in un vecchio film, le immagini che riposavano nel piccolo sepolcro allestito ai margini della sua mente. Una produzione cinematografica cerebrale. Dapprima ci fu solo un abbozzo lento a prendere forma, come in una dissolvenza d'apertura, poi, sullo schermo sotto ai suoi occhi chiusi comparve la prima scena: un ometto stempiato che si sveglia di soprassalto nel suo letto e si guarda attorno; un uomo che indossa la sua stessa faccia: una faccia spaventata... Sudore, occhi sbarrati, pugni stretti sotto le lenzuola. Nel sogno si ode un rumore strisciante come di fibre viscide che si trascinano sul pavimento. L'uomo con la faccia di Giorgio Bandini si tira su a sedere. L'oscurità nella stanza appare così totale da dargli l'impressione che il mondo tutt'attorno abbia cessato di esistere. Cercando di scuotersi da quella sensazione angosciante, controlla le cifre fosforescenti del suo Casio da polso: sono le 5 e 50. Ormai sta per albeggiare, manca poco. Si sente la vescica gonfia di pipì all'inverosimile e formula l'intenzione di correre in bagno e di orinare per un'ora almeno. A tastoni prova ad accendere l'abat-jour schiacciando ripetutamente il pulsante: niente da fare. Probabilmente quel fusibile di merda in quel cazzo di contatore è saltato di nuovo, pensa. Sbatte le palpebre, cercando di abituare gli occhi al buio. Guarda la moglie distesa al suo fianco e cerca di intuirne la forma: nella penombra Mila sembra un sacco distorto, afflosciato, irriconoscibile. Accarezza l'idea di dirle qualcosa per svegliarla e renderla partecipe della sua apprensione ma la lingua è come morta nella sua bocca e così resta in silenzio, non dice niente. Prende dal comodino il ricevitore del baby-phone collegato con la
camera della figlia, mette al massimo il volume di ricezione e ascolta attentamente, trattenendo il respiro: silenzio, non un colpo di tosse, un vagito, o un verso qualsiasi... Si siede sul bordo del letto, mentre un brivido gli corre veloce lungo la schiena, come un serpente gelato. Il baby-phone si attiva con un verso strano che ricorda quello provocato da un paio di labbra che risucchiano uno spaghetto grondante di sugo o un sorso di brodo bollente dal cucchiaio: slurp! Si alza in piedi di scatto, esce dalla stanza. Gli sembra di avere un palloncino d'acqua inglobato nella pancia che sobbalza dolorosamente a ogni suo passo: se non piscia in fretta va a finire che se la fa dentro le braghe del pigiama. Percorre il corridoio brancolando nella semioscurità con la testa assalita da mille rumori soffocati: scricchiolii, ansiti, fruscii... Un luccichio sul pavimento attira la sua attenzione. Faccia da Bandini si china per raccogliere la catenina d'oro della figlia, quella con la medaglietta con sopra l'angelo custode ricciolino che pensa sulla nuvoletta, probabilmente sganciata dal collo della bambina senza che Mila, sempre con gli occhi foderati di prosciutto, se ne sia accorta. La stessa medaglietta che aveva lui da piccolo. La stessa che aveva portato suo fratello Carlo prima che se ne andasse via da casa per studiare all'Università. Il ciondolo regalato da nonna Violante, la madre di sua madre. Non devi toglierti quella medaglietta dal collo... La voce di sua nonna, vicina e lontana, (non devi toglierla mai!) un soffio rauco nelle orecchie che ti scalda. «Devi tenerla sempre al collo, perché è benedetta e serve per allontanare il Carbonaio con tutta la sua legione di esseri scuri». Nonna Violante, prugna secca e rugosa, che litiga tutti i giorni con la mamma e le dice che non ha mai capito niente. (Il Carbonaio non è un mostro... Il Carbonaio è solo un posto...) Poi quella filastrocca spaventosa, che lei gli recitava mentre gli rimboccava le coperte, qualcosa come... mille anni prima? (Fa paura la sua voce, stringi subito la croce...) La tenerissima nonna Violante con quella sua voce sottile sottile, gracchiante gracchiante, che sorrideva nel buio e lo fissava con gli occhi di gelatina che non stavano fermi un secondo.
(Quando il buio si fa blu, non gli puoi sfuggire più) E lui che recitava quella canzoncina assieme a lei, ripetendola di continuo, inspirando sulla frase finale, provocando una specie di risucchio di parole: quando il buio si fa blu non gli puoi sfuggire più. «Ma nonna, che cos'è il Carbonaio?», trova il coraggio di chiederle lui un giorno. «Oh, tesoro, Giorgi mio caro, il Carbonaio è l'uomo nero che vive oltre la superficie liscia degli specchi. Lui fa parte della notte e poco prima dell'alba, quando siamo più indifesi: slurp! arriva dal nulla per risucchiarti la luce dagli occhi e rubarti il respiro dal petto...» Slurp! Sua nonna aveva mosso le labbra risucchiando la saliva, producendo quel suono da cartone animato: slurp! Lo stesso che faceva quando beveva il brodo dal cucchiaio. Era un rumore che aveva un che di sgradevole, di osceno. Giorgio era rimasto incantato a osservare quelle labbra che sembravano lumache viscide che concludevano il racconto con quel risucchio terrificante. E dopo non era riuscito a chiudere occhio per tutta la notte, spaventato dalle grida di paura emesse da ogni suo singolo pensiero. E aveva fatto venire mattina ricordando la raccomandazione di nonna Violante (Non devi togliertela mai...) stringendo in pugno quella benedetta medaglietta d'oro. Sprofondato nel sogno, Giorgio-spettatore lanciò un gemito allarmato e cercò di gridare; corri dalla bambina, scemo che non sei altro! corri da lei subito, perché lei sta affrontando la notte senza il suo ciondolino dell'angelo ricciolino! Faccia da Bandini raggiunge correndo la camera della figlia. Prima di irrompere all'interno, prova una sensazione che sul momento non riesce a decifrare. Indugiando sulla soglia, cerca di capire... L'aria è diventata di colpo diversa, come se si trovasse sotto la giurisdizione di qualcosa d'irreale. Irreale e pericoloso. Stai calmo, è tutto a posto, prova a convincersi. Col cazzo che è tutto a posto, replica una vocetta dentro di lui, non lo senti che l'aria sembra morta stecchita, particella su particella? Faccia da Bandini inspira a fondo dal naso e si pente subito di averlo fat-
to, perché intercetta un leggero sentore che emerge dal nulla: un odore simile a quello di fiori marci dentro un vaso da cimitero... È a quel punto che la sua fisionomia comincia a mutare. Giorgio-spettatore, con gli occhi interiori molto spalancati, assistette alla trasformazione del suo "io" sognante non senza una punta di sana incredulità: aveva al massimo sei anni il bambino che superò la soglia della cameretta con la catenina stretta in pugno, e ne aveva molti di meno quello che sbirciò all'interno. Col cuore che gli batte ai cento all'ora, forse anche di più, il piccolo Bandini supplica: non voglio vedere, non voglio sentire. Una voce d'adulto, giunta da qualche parte al di là della dimensione ovattata del sogno, gli fa eco: basta adesso, io voglio svegliarmi adesso... Perché c'è qualcosa che non va dentro a quella cameretta, qualcosa che non quadra. Non è solo questione di buio. L'atmosfera pare impregnata da una nebbia densa, gonfia di panico: una foschia blu scuro animata da un frenetico brulicare. Il piccolo Bandini sta per chinarsi sulla culla (così terribilmente silenziosa!), quando coglie con la coda dell'occhio un subitaneo movimento sullo specchio dell'armadio di fronte. Col respiro bloccato nella gola, si avvicina per vedere meglio: una strana luminescenza ingloba una sagoma indefinita, qualcosa di non solido che pare inalare la propria fisionomia, risucchiandola attraverso i pori della pelle. Di certo uno degli uomini neri del Carbonaio, o forse lui in persona, chissà? L'essere si sta sollevando dal giaciglio dove riposa la bambina... Al massimo della confusione, il piccolo Bandini si volta di scatto verso la culla, e si perde sui particolari più futili: i paracolpi a fiorellini rosa, la Casina delle api... e non riesce a vedere altro, soprattutto nessun mostro. Allora si gira di nuovo verso lo specchio dell'armadio, con un senso di vertigine che gli confonde i battiti del cuore. Reso visibile dal rovesciamento speculare, l'essere è ancora là, di fianco alla culla. La sua anatomia appare confusa e instabile: il corpo è una colonna di gas nerastro, la testa una materia raggrinzita e fumante. Dalla punta delle sue labbra, vibra una sottile proboscide terminante con un loculo di muscoli sfinterici che si espandono e si contraggono. A quella vista, il piccolo Bandini lancia un grido, poi comincia a cresce-
re: a vista d'occhio, in una sovrapposta catena di fotogrammi, simile al personaggio di un cartone animato. E mentre cresce si volta di nuovo verso la culla e muove le braccia cercando di colpire l'aria scura apparentemente vuota, e le sue mani paiono sprofondare dentro a una consistenza molliccia, granulosa, simile a materia colloidale. Non sa come comportarsi, non sa cosa dire. Nel dubbio getta indietro la testa per emettere nuove grida. Chiude gli occhi, poi si volta per l'ennesima volta in direzione di quel maledetto specchio... Un'allucinazione! prova a spiegarsi Faccia da Bandini, di nuovo adulto, di nuovo stempiato, anche lui con gli occhi serrati. Solo un'allucinazione, una schifida forma creata dalla mia mente! Quando trova il coraggio di ripristinare lo sguardo sollevando le palpebre, l'essere è ancora là, gronda liquidi impensabili dalla proboscide che ha al posto della bocca e sembra un'ombra e nello stesso tempo è solido e vibra. Lui c'è per davvero, non se n'è andato e grugnisce. Allora Faccia da Bandini si lancia contro lo specchio e vede la propria immagine riflessa sovrapporsi a quella del mostro, fondersi con essa, distorcersi come attraverso il velo screpolato di una pelle morta. Sfonda lo specchio col pugno dentro al quale sta ancora stringendo la catenina d'oro dell'angelo ricciolino e lo rompe in mille pezzi. Dopo, cerca di fare il possibile per non perdere la ragione. A quel punto Giorgio spettatore, ormai allo stremo, compiendo uno sforzo convulso provò a sottrarsi al suo sogno. E se questo non fosse solo un terribile incubo? si chiese. Sogno o rievocazione? questo è il problema, amletico Giorgi... Forse avevo relegato tutta questa follia in qualche zona inaccessibile della mia coscienza, fuori dalla portata del cuore. Del resto io, di quella mattina famosa, ho dei ricordi molto frammentari, e soltanto dormendo riesco a rimetterli insieme, a montarli come i pezzi di una pellicola di un cortometraggio di quelli tosti: stile horror B-movie, per intenderci... Una vocina interiore dentro di lui lo interruppe, una voce pacata identica a quella di suo fratello maggiore Carlo, esimio dottore: quindi tu vorresti darci a bere che il Carbonaio di cui parlava sempre nostra nonna esiste per davvero? lui e la sua coorte di esseri scuri attaccata al culo? Io... io non so cosa pensare... Ecco, non pensare, Giorgicaro, che è meglio. Stai lì tranquillo a vedere quello che succede, okay? e i commenti li farai dopo se vorrai, se potrai...
Nella mente di Giorgio riprese la proiezione: il secondo tempo di Morte improvvisa nella culla. Ma stavolta c'era una novità: lui non era più soltanto uno spettatore. Lui, adesso, era dentro al suo sogno in prima persona, faceva parte di lui... Dissolvenza d'apertura: una lama di sole compare dal nulla filtrando attraverso la tapparella e guizza nell'aria come una fiamma viva. L'oscurità bluastra che pervade la stanza prende a scomparire al passaggio della luce, ringhiando, sciogliendosi sulla coda di un sospiro prolungato. Con la sensazione di essermi appena risvegliato da uno stato d'ipnosi, guardo mia figlia riversa nella culla: i pugni stretti simili a piccole noci, il corpicino irrigidito, la bocca aperta come per iniziare un pianto... E gli occhi... (oh mio Dio!) i suoi occhi (risucchiati) sembrano finti: gli occhi di una bambola di pezza. Il carillon della casina delle api prende a suonare da solo, animato da una brezza giunta dal nulla: dlin dlon dlan... Dalla tapparella filtrano i raggi del sole nascente e io guardo mia figlia, incredulo, e poi mi metto a invocare aiuto. Chiedo: «Perché? perché?» Muovo le mani sul suo corpo. Esploro la sua carne alla ricerca dei battiti e del calore. La scrollo una volta, due volte, sempre più forte: la testolina che ciondola di qua e di là. Grido ancora, implorando che possa essere soltanto un sogno. Poi la mia supplica si fonde in un unico lamento la cui eco prende a tuonarmi nelle orecchie accodandosi a un vortice confuso di dolore e incredulità. Mi cedono le gambe e crollo in ginocchio sul pavimento; il palloncino gonfio di pipì dentro la mia pancia provoca una specie di sciacquio. A quel punto non posso fare molto, soltanto piangere, così scoppio in singhiozzi, quasi senza accorgermene. Mila è arrivata, mi guarda, e io non so proprio che cosa dire, che cosa fare... La mia testa è invasa da qualcosa di molto denso e molto soffocante che non lascia spazio al movimento dei pensieri. È già così difficile continuare a respirare, figuriamoci... O peggio: guardarmi attorno e rassegnarmi al fatto che, nonostante quello che è successo, mi sta scappando (che cosa stupida, vero?) da pisciare e che... Eh già, prima o poi dovrò, per forza di cose, mangiare e bere e dormire e... (Dio mio no!) sognare? Mostro a mia moglie la catenina che stringo in pugno. Lei mi guarda
con un'espressione che non riesco a sostenere, così abbasso gli occhi sul pavimento e vedo le schegge dello specchio rotto sparse dappertutto, e su ciascuno di quei frammenti, una faccia mostruosa che digrigna file di denti affilati. Allora cerco di avvertire mia moglie e apro la bocca con l'intenzione di dirle che sta camminando su delle cose che tagliano (su delle facce schifose che mordono!) e che le sue piante stanno probabilmente sanguinando per quei tagli (per quei morsi!) Ma poi Mila libera un grido d'orrore, così improvviso, sconvolgente. E le facce sulle schegge di specchio scompaiono nel nulla. Allora mi copro la faccia con le mani e riprendo a piangere, convinto al cento per cento di essere a un passo dall'andare irrimediabilmente fuori di testa. Giorgio cercò di uscire dal sonno, col viso inondato dalle lacrime. Spalancò gli occhi e alzò le mani di scatto come per difendersi da qualcosa d'irreale che gli stava baluginando davanti. Vide l'immagine della luna attraverso il parabrezza e si trovò a galleggiare in una dimensione sospesa fuori dal tempo e dallo spazio: le mani gli ricaddero in grembo, si calmò... o per lo meno: smise di agitarsi. Si passò la lingua sulle labbra secche, sembravano di legno. Radunò i pensieri sbandati e confusi, e cercò di riordinarli, di metterli in fila uno di fianco all'altro come soldati, per ispezionarli, controllarli. Dio... è stato solo un incubo quello, giusto? Oh sì, forse sì... Era proprio il Carbonaio quello, giusto? Oh sì, forse sì, Giorgicaro, il Carbonaio o chi per lui... Non del tutto sicuro di essere veramente uscito dall'incubo, si girò per guardare, attraverso il velo del suo pianto, la moglie seduta a fianco, e i piani del viso di lei parvero rifiutarsi d'intersecarsi fra loro per dare un'immagine sufficientemente a fuoco; poteva essere anche qualcun altro... un mostro? Giorgio, completamente nel pallone, si asciugò gli occhi col dorso della mano. Ripensando al suo sogno, fu colto da un'improvvisa ispirazione. Gli specchi... loro si vedono solo negli specchi... Cercò di scrutare fuori, attraverso il retrovisore, e gli parve di cogliere un movimento nell'oscurità, come un ribollire di forme contorte. Trattenendo un grido, afferrò la chiavetta d'accensione per mettere in moto. «Cosa c'è che non va, si può sapere?» stava chiedendo sua moglie. Il motorino girò a vuoto: una volta, due volte... «Là dietro... delle ombre che si muovono» rispose Giorgio, la voce de-
formata dalla paura. Mila, colpita dalla tensione che trapelava dall'espressione di lui, non replicò, non disse niente, si limitò solo a scuotere la testa con fare sconsolato. Il motore si accese al terzo tentativo, con un rombo leggero. Giorgio inserì la prima troppo in fretta, facendo grattare il cambio. Sua moglie intanto si era girata per scrutare dal vetro posteriore. «Ma io non vedo niente!» disse. Io invece li vedo, pensò Giorgio, eccome se li vedo. Loro stanno arrivando e sono tutti neri. La voce di nonna Violante: molto meno sottile e molto più gracchiante, si fece largo fra i suoi pensieri: «E dopo... lo sai almeno che cosa ti faranno loro, dopo che ti avranno preso?» chiese quella voce. Sì. Lui adesso sapeva, lo aveva visto nel sogno (nello specchio!) Loro lo avrebbero risucchiato di brutto, (slurp!) come avevano fatto con la sua povera bambina. La Ka si staccò dal ciglio con un sussulto e cominciò ad avanzare. Per un attimo le ruote girarono a vuoto come se l'auto fosse trattenuta da dietro... Trattenuta da loro? Ma poi le gomme fecero presa e macchina scattò in avanti. Il tratto pianeggiante era finito nuovamente ed erano ricominciati i saliscendi. L'auto procedeva sobbalzando. I fanali perlustravano l'oscurità seguendo la serie di scossoni, mostrando architetture di rami contorti che comparivano improvvisi nelle curve, per poi scomparire e riapparire in un confuso carosello d'immagini. Giorgio, morsicandosi il labbro inferiore, diede l'ennesima sbirciata dallo specchietto: adesso sembrava tutto tranquillo. Rassicurato, tirò un sospiro di sollievo. La risatina che fece dopo parve più un grugnito. «Mi sembra di essere il protagonista di un racconto dell'orrore!» disse, fingendo un'allegria che non si sognava nemmeno lontanamente di possedere. Mila, con le braccia conserte, gli occhi cocciutamente fissi davanti a sé, non lo degnò di uno sguardo e disse: «Non è mica colpa mia se ti sei perso!» Giorgio tornò serio. E cercò di farsi venire in mente dove poteva aver messo la catenina con l'angelo ricciolino; dopo la morte della figlia, aveva
deciso di portarla sempre con sé, senza trovare però il coraggio di mettersela al collo, e così l'aveva riposta da qualche parte. Forse nel portafogli, assieme alla foto della piccola, gli parve di ricordare, al colmo della confusione. Sì sì, deve essere proprio lì, pronta alla bisogna. Tanto per confondere le acque, accese lo stereo e il rock angosciante dei Mastéma si propagò nell'abitacolo. Mila asserì, categorica: «Questa musica mi fa schifo!» Spinse con forza il pulsante Eject, la musicassetta schizzò fuori e cadde sul tappetino. Inserita la radio, girò la manopola del sintonizzatore cercando di prendere qualche stazione. Per tutta la banda della modulazione di ampiezza non riuscì a ottenere altro che fastidiose bordate di statica; sull'FM centrò solo un ronzio costante, minaccioso, che passava la testa da parte a parte come una sorta di pungolo sonoro. Giorgio volse il capo verso la moglie, la fissò vacuamente e non poté fare a meno di pensare al suo collo, a quanto doveva essere morbido. Lei intercettò lo sguardo di lui, distogliendo subito gli occhi e si affrettò a spegnere la radio. L'eco di quel ronzio gutturale continuò a risuonare per molto tempo dentro ai loro pensieri. Mila artigliò il braccio del marito, stringendolo molto forte. Giorgio, allarmato, controllò dallo specchietto retrovisore: soltanto la solita parete di buio impenetrabile, meno male... Girandosi verso la moglie, chiese sgarbatamente: «E adesso cosa cazzo c'hai?» Lei era pallida, segnata sotto agli occhi da ombre violacee simili a lividi. «L'orologio...» disse, in un sussurro. «Che cosa?» «Guarda l'ora». Giorgio occhieggiò il quadrante, le lancette segnavano le 5:50. E non era possibile. Era la stessa ora di quando si era addormentato. Cercò di capire. Non possono essere ancora le cinque e cinquanta... Concentrò lo sguardo sui fasci dei fanali protesi nell'oscurità e qualcosa dentro al suo stomaco si mosse, provocandogli un crampo. A un tratto, dentro all'abitacolo, non c'era più niente da respirare: tutto finito. Così aprì la bocca, la richiuse, la spalancò nuovamente: sembrava un pesce fuor d'acqua. La Ford Ka procedeva nel nero cunicolo della notte e Giorgio, boccheggiando per quel suo respiro diventato troppo pesante, provò a spiegare:
«Deve essere rotto!» La voce di Mila parve quella di un'estranea, di una persona mai conosciuta prima. «Anche il mio segna la stessa ora» stava dicendo quella voce irriconoscibile. Giorgio temporeggiò deglutendo più volte nel tentativo di inumidire una gola diventata molto secca. Una goccia di sudore gli scese dalla fronte stempiata, incanalandosi fra le rughe del viso. Controllò il suo Casio da polso: anche lui segnava crudelmente le cinque e cinquanta antimeridiane. Con gli occhi dilatati dall'incredulità e un senso di vuoto alla bocca dello stomaco, assaporò una sensazione di totale smarrimento. Come potevano tre orologi rompersi contemporaneamente e fermarsi tutti alla stessa ora? E poi... ormai il sole dovrebbe essere spuntato, Cristo! Si guardò attorno e si sentì come se l'abominevole oscurità che li circondava stesse per inghiottirli. Questa è una notte con mascelle per ingoiare, pensò, così affamata che dopo che ti avrà divorato non risputerà nemmeno gli ossicini. L'immagine che comparve nella sua mente fu quella di un gigantesco mostro nero in procinto di deglutire, l'immagine del Carbonaio. «Non è possibile...» sussurrò. «Non è possibile...» Si accese una paglia, cercando di non tremare così tanto. «Non è possibile!» ripeté con ostinazione. La vocina carlesca che dimorava dentro di lui s'intromise con un brivido: invece è possibile, ormai tutto è possibile, questa è solo un'altra ciliegina d'aggiungere all'orrida torta, non sei d'accordo fratellino, Giorgicaro che non sei altro? Giorgicaro si trovò d'accordissimo e annuì più volte, poi risucchiò un tiro dalla sigaretta: così profondamente da farsi venire le lacrime agli occhi. Il sapore del fumo faceva schifo; non gli sembrava di fiutare catrame, ma la carne bruciacchiata dei suoi stessi polmoni. È questo l'odore della paura? si domandò, fra un battito di cuore e l'altro. La strada ora proseguiva in discesa. La carreggiata sembrava aver subito un'orrida mutazione: in alcuni punti era solcata da profonde crepe, in altri sembrava sprofondata sotto l'effetto di chissà quale terribile sconvolgimento tellurico. Rami e cespugli si protendevano ai lati della strada, e parevano frustare rabbiosi la carrozzeria dell'auto, come animati da un palpito maligno. L'indicatore del livello del carburante aveva appena cominciato a segna-
re la zona rossa della riserva e Giorgio, approfittando della forte pendenza, procedeva in folle per risparmiare benzina. Guidava tenendo gli occhi socchiusi, con angosciata concentrazione, pronto a una frenata improvvisa o a una curva inaspettata. E mentre guidava ansimava, come se stesse correndo a perdifiato. Mila era scoppiata in lacrime, e cercava di calmare i singhiozzi respirando profondamente. Recuperò dalla borsetta un fazzoletto e si asciugò gli occhi grondanti di lacrime. Si soffiò il naso. Guardò il marito nella debole penombra creata dalla luce del cruscotto. Giorgio, sentendosi osservato, si girò a sua volta. Per un attimo i loro sguardi s'incatenarono. Entrambi avevano un'espressione di stupore che finì per infastidirli per la mancanza di frasi di spiegazione. Al centro della carreggiata comparve il tronco di un albero caduto. Giorgio, uscendo dalla sua distrazione, pigiò il pedale del freno e sterzò nel tentativo d'infilarsi attraverso il piccolo spazio di strada libera. L'auto sbandò puntandosi in direzione del fosso. Girando il volante disperatamente, riuscì quasi a riportarla nella direzione giusta. La collisione col tronco fu evitata, ma le ruote posteriori finirono fuori strada, impantanandosi. Schiacciando l'acceleratore, strattonando la frizione fino a farla fumare, provò a uscirne. Inutilmente. Uno sgradevole odore di gomma bruciata si propagò nell'abitacolo. Giorgio imprecò a denti stretti, mentre inseriva la seconda per fare un altro tentativo. Per un attimo sembrò che le gomme riuscissero a far presa ma poi ricominciarono a slittare. Alla fine, con un rumore simile a uno sbuffo d'aria, il motore si spense. L'improvviso silenzio li avvolse, terrorizzandoli. Ma durò poco. Di colpo la radio si accese e ricominciò a trasmettere quello strano ronzio. Giorgio, imprecando fra i denti, sganciò il frontalino dello stereo e la buttò sul sedile posteriore. «E adesso? cosa vuoi fare adesso?» gli chiese Mila, mentre calciava sotto al sedile la bottigliona di Coca Cola che le era rotolata fra i piedi. Giorgio avverti la paura della moglie trapelare dal tono stridulo della sua voce. E la detestò profondamente. Scrutò di fronte a sé, come per trovare risposta nel buio che covava di fuori, spingendo contro il parabrezza. Mosse la testa di qua e di là, come per inseguire qualcosa. Un'ispirazione per capire cosa doveva fare. Quello che poteva fare... C'era un pensiero che gli stava covando dentro. Una considerazione di
fondo. L'idea di un trucco per far comparire qualcosa dal nulla: vualà! Prese a rovistare nel vano portaoggetti della portiera. Per un momento temette che ciò che stava cercando non ci fosse più e venne colto dal panico, ma poi le sue dita sfiorarono un oggetto di plastica rugosa e lui tirò un sospiro di sollievo. Recuperata la caratteristica custodia beige, ne tirò fuori un paio di antiquati Ray-ban a specchio. Erano un modello a goccia che andava negli anni Settanta. Gli occhiali dei piloti americani, con le stanghette metalliche placcate d'oro che si agganciavano attorno all'orecchio. Glieli aveva regalati suo fratello Carlo, esimio dottore, quando Giorgio aveva appena raggiunto la maggiore età. Carlo era più vecchio di undici anni e quando erano rimasti senza padre e la mamma aveva dovuto cercarsi un lavoro, lui si era preso cura del fratello minore, ed era diventato l'uomo di casa. Carlo intelligente e bello, che si era laureato in medicina a pieni voti. Carlo il più bravo. Quello che sapeva sempre cosa fare in ogni occasione. Mica come il suo fratellino, venuto peggio, che si perdeva sempre in un bicchiere d'acqua. Con gesti febbrili, Giorgio tirò fuori gli occhiali dalla custodia e se li agganciò alla camicia. Pensò che lui non era solo venuto peggio... Lui stava finendo peggio. Con un sospiro denso di rassegnazione, aprì lo sportello. Mila gli domandò cosa cazzo stesse facendo aggrappandosi con forza al suo braccio ma Giorgio non si degnò nemmeno di risponderle, si liberò con uno strattone e scese dall'auto. La luna appariva e scompariva balbettando fra banchi scuri di nuvole in corsa. Non c'erano più stelle in cielo, nemmeno una, soltanto quella luna rossa e sfrangiata, simile a un grumo di carne: un frammento di cuore rapito dal petto. Presa dal bagagliaio la torcia elettrica, Giorgio cominciò a perlustrare il terreno all'intorno per recuperare dei sassi abbastanza grandi e abbastanza piatti. Riuscì a trovarne un paio e li andò a posizionare davanti alle gomme posteriori, cercando di incastrarli sotto il più possibile. Con le mani sporche di fango, prese uno straccio dal bagagliaio per pulirsi. Pensò che forse adesso ce l'avrebbe fatta a uscire dal fosso. Pensò che forse non sarebbe servito a nulla. Uscire da quel fango... Perché noi siamo impantanati per natura. Impantanati dentro... Stava per tornare in auto, quando le sue orecchie percepirono un sussur-
ro. Allora si bloccò di colpo e trattenne il respiro per sentire meglio. Non era un sussurro, sembrava una cantilena... Voci di bambini lontane che recitavano in coro una filastrocca. Non riusciva a distinguere le parole, ma solo la cadenza, il ritmo... E lui conosceva bene quella cadenza e quel ritmo; le parole risucchiate dall'inspirazione sull'ultima frase prima di ricominciare da capo. Gli tornò in mente nonna Violante che gli sussurrava la filastrocca per tenere lontano il Carbonaio. Gli tornò in mente sua madre che entrava in camera e sgridava la nonna dicendole che doveva smetterla di riempire la testa di suo figlio di stronzate senza capo né coda. Quindi si tratta di tronchi allora! ricordava di aver pensato Giorgio quella volta, mentre se ne stava accucciato nel letto con la medaglietta dell'angelo ricciolino stretta in pugno e un lieve tremore in corsa lungo la spina dorsale. Senza la testa e senza la coda, resta solo il tronco, non è vero? Giorgio si guardò attorno e fissò gli alberi che lo circondavano, i tronchi scuri che sembravano le sbarre di una prigione. Le stronzate della nonna senza capo né coda lo tenevano chiuso in una gabbia. E lui adesso si sentiva soffocare. Una gabbia senza tempo. Senza niente. (Il Carbonaio non è un mostro, il Carbonaio è solo un posto...) Già, questo posto del cazzo dove siamo finiti adesso noi, giusto? La voce di Mila giunse alle sue orecchie confusa da strani ronzii, come in una trasmissione disturbata da scariche elettriche in un canale radiofonico fuori sintonia: «Dove bzzz stai andando? bzzz», gli parve che stesse farfugliando sua moglie, «bzzz Torna subito bzzz qua!» Senza girarsi, sottovoce per essere sicuro che lei non sentisse, Giorgio rispose, rivolto verso il nulla: «Non preoccuparti...» Scrollò gli occhiali a specchio tenendoli per una stanghetta e li inforcò. Poi tese le orecchie per cercare di capire la direzione da cui proveniva il coro sussurrato che riecheggiava nell'aria e si avviò lungo il ciglio, puntando la pila a due mani come fosse una pistola, cercando di illuminare il buio torrido che soffocava il tratto di strada. Mila, con gli occhi dilatati, guardò il marito allontanarsi domandandosi perché cazzo si fosse infilato quegli occhiali da sole del cazzo: di certo era impazzito. Faticava a respirare, come se una mano invisibile le premesse con forza contro al petto. Continuò a fissare, con avidità, la sagoma del marito mentre diveniva sempre più indistinta: Giorgio aveva la camicia fuori dalle braghe, come al solito, colpa di quella sua schiena troppo lunga e del culo troppo basso. L'anello nuziale le ballava nel dito, sempre più
largo; cominciò a farlo andare su e giù, tenendolo col pollice e l'indice dell'altra mano. Come in un fenomeno di sinestesia, le parve di sentire il sapore dell'oro vecchio attraverso le dita: sapore amaro di metallo caldo. Regnava un silenzio sorprendente. L'aria, satura d'oscurità, appariva assolutamente immobile, amorfa, incapace di condurre suoni coerenti. Era un'aria strana, ricoperta da un buio innaturale. Era lo stesso colore di un cielo notturno pulito, che se guardi bene non è nero, ma molto più profondo. Un colore che i pittori ottengono mescolando il nero con il celeste, quello del cielo sereno. Tanto nero e poco celeste. Come sporcare una giornata limpida con una pasta di tenebra. Ma non era solo questione di colori strani. Tutto sembrava sbagliato e fuori posto là fuori; persino il rumore dei suoi passi risuonava in modo anomalo. Mai sentito un suono del genere: fiacco, strisciante, unidimensionale... Da un punto imprecisato di fronte a lui qualcosa si mosse e i battiti del suo cuore si moltiplicarono divenendo violenti come percosse. Puntò la pila in quella direzione, si aggiustò gli occhiali sul naso e chiese: «C'è qualcuno là?», una domanda stupida come un'altra. E la voce sembrò allungarsi dalla sua bocca come una specie di elastico sonoro, restò per un attimo appiccicata alle labbra, poi si staccò con un sibilo smorzandosi di colpo, senza disperdere riverberi nell'aria. Mentre il suo cuore batteva sempre più forte, continuò ad avanzare arrancando su un paio di gambe diventate molto pesanti, molto confuse... Mila teneva gli occhi aggrappati alla schiena (troppo lunga!) del marito e faceva il possibile per non tremare così tanto. Poi Giorgio scomparve dalla sua vista di colpo, inghiottito dall'oscurità. E Mila si rigirò in fretta come se temesse di restare contagiata da tutto quel buio. Per cercare di calmare la sua apprensione, prese a divorarsi l'unghia dell'indice fino a farsi sanguinare il dito. Poi risucchiò dalla punta e scrollò la mano: bruciava. Con gli occhi ingranditi dall'ansietà, prese a torcersi le dita sbucciate. E restò ferma, senza osare più guardare dietro. Giorgio cercò di distinguere qualcosa nella confusione di ombre attorno a lui. Indugiò, sbattendo le palpebre in quel buio virato in blu. Si ricordò di quando era piccolo, a scuola, durante l'ora d'educazione artistica, il professore che gli elencava il nome misterioso dei tubetti di colore che servivano
per rappresentare il cielo notturno: blu oltremare, blu di Prussia, blu primario... Quest'ultimo nome lo aveva sempre riempito d'angoscia, chissà perché: blu primario, dava l'idea di qualcosa di definitivo, di vorace... Il blu primario adesso gli stava addosso, lo circondava, lo soffocava e cantava filastrocche del cazzo. Il Carbonaio è solo un posto, fanculo! Si chiese dove potesse essere una via d'uscita per un incubo del genere. Dove si fosse cacciato il sole. Pensò che forse il nuovo giorno si era nascosto da qualche parte, in quel posto buio. Magari se provava a grattare bene l'aria, spuntava il celeste di un cielo sereno. Uno di quei cieli di giorno, senza nuvole, che sembrano bicchieri per il sole, recipienti limpidi e caldi come acqua che splende. Peccato che lui fosse uno che riusciva a perdersi anche nei bicchieri d'acqua. Giorgio si chiese quando fosse stata l'ultima volta in cui si era sentito davvero contento di sé, simile a un cielo sereno dentro un bicchiere. Di certo era passato molto tempo, così tanto tempo che adesso si sentiva come se fosse diventato impermeabile a tutto, persino alla speranza. Ora come ora non riusciva più nemmeno a sentirsi vivo, figuriamoci. Era confuso e spaventato, e si sentiva la mente ricolma di tutto quel blu assurdo attorno a lui, di quel blu primario vorace che non stava né in cielo né in terra. L'oscurità che lo circondava era così densa e totale che pareva che la luce della torcia elettrica non ce la facesse a passarvi attraverso in ragione della sua portata; era come se la coltre della notte ne inghiottisse il fascio dopo solo un paio di metri. Cosa cazzo sta succedendo? si domandò, qualcuno me lo può dire? Forse erano semplicemente vittime di una distorsione temporale come quelle nei vecchi telefilm della serie Twilight zone. Oppure... chissà? Un'aberrazione, una crisi di realtà... O che altro? Gli venne in mente di aver letto una volta un racconto dell'orrore intitolato In fondo al nero, dove veniva descritta una situazione per molti versi simile a quella che stavano vivendo lui e sua moglie: una coppia di coniugi si perdeva in una notte senza fine e veniva inseguita da due misteriosi punti di luce gialla e poi... come cazzo andava a finire? Non lo ricordava. Comunque gli era piaciuto molto quel racconto e si era divertito un casino a
leggerlo perché, naturalmente, quello era solo un racconto. Ma adesso... già, c'era poco da divertirsi adesso, perché questa era realtà nuda e cruda e di quelle peggiori, di quelle che non hanno senso. Be', mettiamola così, pensò. Siamo dentro a un sogno, un sogno cattivo. E dentro a questo cazzo di sogno il tempo si è fermato, ecco tutto, e siamo rimasti imprigionati all'interno di quella particolare ora poco prima del sorgere del sole, quel nastro di tenebra più scuro di tutto il resto della notte... Ricordava di aver letto da qualche parte che in quel misterioso attimo di tempo gli omicidi accadevano più frequentemente e che durante la guerra i cecchini riuscivano a colpire il bersaglio, a uccidere più facilmente. Era come se, in quell'ora di confine, si mettessero in gioco forze tenebrose. L'ora blu era la stessa in cui era morta sua figlia. L'ora prediletta dal nostro caro amico dei sogni più scuri: il Carbonaio (o chi per lui!) E adesso ci ritroviamo qua, coi cuori andati a male pericolosamente vicino al punto di rottura e con un tasso di angoscia troppo alto nel sangue, a viaggiare all'interno di noi stessi con gli orologi che si fanno i cazzi loro... Esaminando le sensazioni del suo corpo, Mi sento spaventato? del suo cuore, No, mi sento solo... della sua anima, ...perduto? Giorgio Bandini cercò di interpretare il proprio stato d'animo. Sì, perduto era un buon modo per descrivere come si sentiva. Perché si trovavano nel territorio del Carbonaio, il luogo consacrato al libero orrore ove vivono tutti gli spiriti del buio, e lì non c'erano vie d'uscita, nemmeno una. Altro che grattare l'aria per scoprire il celeste del giorno... Interrompendo di colpo le sue elucubrazioni, Giorgio si fermò e tese le orecchie. Adesso non riusciva più a sentire il coro della cantilena infantile. Adesso c'era un rumore che giungeva dall'oscurità: un fondersi crescente di suoni senza cuore. Qualcuno... qualcosa stava avvicinandosi rapidamente. Nella visione attraverso le lenti a specchio, forme ringhianti si stavano muovendo verso di lui. Facce morte, occhi affossati in orbite bluastre che lo fissavano... Mentre indietreggiava, sentì la paura alitargli nel cervello come un vento invernale, soffiando sui suoi pensieri, vorticando, gridando... Loro stavano per arrivare, doveva scappare via, andarsene da lì, scomparire come per una magia: vualà!
Senza trucco e senza inganno... Il rumore di passi arrivò alle orecchie di Mila e lei si sentì il cuore balzare nel petto con un guizzo doloroso. Cercò di girarsi per guardare dietro. Non ci riuscì. Terrorizzata, prese a succhiarsi un pollice quasi totalmente privo di unghia. I passi sempre più vicini. Lui sta tornando! I passi vicinissimi... Va bene, adesso guardo e non ci pensiamo più! Serrò i pugni con forza, nascondendovi dentro le unghie tutte mangiucchiate, si girò di scatto e l'oscurità sbadigliò su di lei. Nessuno? Deglutì più volte respirando il lezzo nauseante che impregnava l'aria come un gas tossico. La sensazione di panico era divisa, dentro di lei, fra odore e sapore. Stava semplicemente annusando la propria paura, e assaporandola. Mila a quel punto ne ebbe l'improvvisa certezza: doveva scappare! Subito... Si mise al sedile di guida e cercò di accendere il motore. Ma girava la chiavetta dalla parte sbagliata. E non capiva. Provò e riprovò: ancora e ancora... Grazie all'assistenza rabbiosa di un paio di imprecazioni, finalmente trovò il verso giusto e il motorino d'avviamento s'innescò: grrr grrr... Ma fece cilecca. Motore stronzo! Ancora una volta. Ti prego... Con la coda dell'occhio le parve di scorgere un'ombra guizzare di fianco alla macchina. Gridò. Riprovò. Ancora: grrr grrr grrr. Continuò a girare la chiavetta, mentre una voce rauca bisbigliava nella sua testa: la sua stessa voce che la esortava a muoversi, a fare presto. Il motore finalmente prese vita. E lei esultò. Ingranata la prima, pensò: e Giorgio? non lo aspetto Giorgio? Esitò un attimo, serrando forte i denti. Poi fece spallucce e si disse: non gliel'ho mica detto io di scendere. E quella le parve una buona giustificazione. Rotto
ogni indugio, lasciò la frizione, ma l'auto riuscì a percorrere solo mezzo metro, poi le gomme persero aderenza e ripresero a slittare nel fango. Provò ancora e ancora, muovendo il bacino in avanti come per aiutare l'auto a spostarsi. Niente da fare. Allora ingranò la retro e affondò sul pedale. Qualcuno... qualcosa... stava bussando contro la portiera. Incapace di trattenersi, Mila urlò di nuovo. Inaspettatamente l'auto scattò indietro avvicinandosi pericolosamente al limitare del fosso. Frenò di colpo. Il motore si spense. Il panico era una bestia incatenata nella sua pancia che si divincolava per liberarsi e allora, forse, lui sarebbe scappato o si sarebbe cacato nelle braghe. Giorgio scelse di mettersi a correre. Ma le articolazioni delle sue gambe si mossero a casaccio, così inciampò nei suoi stessi piedi, cadde sulle ginocchia e si lasciò sfuggire la pila dalle mani: non si curò di raccoglierla. Riprese la sua fuga, agitando le braccia davanti a sé come per cercare di farsi largo in tutto quel buio. Corri corri corri corri corri corri... I suoi piedi battevano il suolo: uno dopo l'altro. La bocca dilatata, contratta in un rictus terrorizzato, il sudore come pioggia sugli occhi. Loro si stavano avvicinando. Per prenderlo, per risucchiarlo... Slurp! Bevendo il proprio affanno a rapide sorsate, Giorgio percepì un odore nell'aria: lo stesso che aleggiava nella camera della bimba, odore di fiori marci persi nel vuoto. E quell'odore lo precedeva, lo inseguiva, entrava in lui trafiggendogli le labbra, avvelenandogli le narici, i polmoni. Quell'odore lo voleva morto. Corri corri corri corri corri corri... La sagoma dell'auto comparve dal nulla emergendo dal blu come una magica apparizione e Giorgio vi si lanciò contro, incurante delle ombre gelide che lo incalzavano da dietro, cercando d'ignorare la debolezza che gli ammollava le ginocchia. Per un attimo gli parve che i fanalini di coda della Ka si fossero trasformati in occhietti rossi e lucidi, che lo fissavano malignamente. Cercando di non fare caso a quella stupida visione, accelerò l'andatura. Ormai l'aveva quasi raggiunta: due metri, un metro... Avvertì un rumore: il motorino d'avviamento che girava, senza dubbio. Mila, che cazzo fai? vai via senza di me...
Gli occhietti rossi nascosti nei fanali ammiccarono divertiti. Giorgio li ignorò, strisciò lungo la fiancata; afferrò la maniglia della portiera... Lasciandosi sfuggire gemiti di paura, Mila rigirava la chiavetta d'accensione. Qualcuno... qualcosa... stava scuotendo l'auto, come una culla: fate la nanna, coscine di pollo... La portiera si spalancò. La Ka in quel momento si mise finalmente in moto. Mila pigiò più volte sull'acceleratore per aumentare i giri del motore. Muoviti... Mollò la frizione dando contemporaneamente gas con tutta la sua forza, con tutto il suo cuore. Muoviti muoviti... L'auto sul momento parve non farcela, ma poi fece presa con le gomme sui sassi piatti collocati sotto e riuscì a partire, così furiosamente che per poco non andò a sbattere contro uno dei rami che si allungavano dal tronco riverso sulla carreggiata. Girando bruscamente il volante, Mila fece derapare la vettura verso sinistra. Qualcuno... qualcosa... le afferrò il braccio. Poi una voce: «Scappa!» Boccheggiando fumo nero dal tubo di scappamento, l'auto si rimise in carreggiata sul fondo accidentato. C'erano delle cose appuntite (gli artigli di un mostro?) che scalfivano il tetto producendo stridori metallici. Mila rabbrividì e i nervi le si contrassero facendole allentare la presa sul volante. La Ka sbandò e per poco non finì di nuovo fuori strada. Serrate le dita con forza, irrigiditi i muscoli delle braccia, riprese il controllo della situazione. Mille sussurri sfumarono dai recessi della sua mente, lasciando il residuo di un balbettio indistinto. Giorgio, seduto al suo fianco, i capelli (quei pochi) arruffati e unti di sudore, fissò la moglie con gli occhiali a specchio sul naso a punta, senza dire niente. Sembrava un pazzo. Mila si girò verso di lui, e colse la fugace immagine del proprio volto riflesso sulle lenti dei Rayban: due piccole facce gemelle, una di qua e una di là, due faccine spaventate. Spinse l'acceleratore a tavoletta, con rabbia. L'auto, con un gran fremere di lamiere, corse via. Dopo un tempo che parve interminabile Mila, con ancora in bocca il sa-
pore ferrigno del panico, chiese: «Cosa è successo là fuori?» Giorgio stava seduto immobile, in un bagno di sudore; gli occhi persi in un punto impreciso al di là del bagliore dei fari. Aspettò un po' prima di rispondere: «Non è facile spiegare... è tutto così confuso, così assurdo...» Lei, incredibilmente, non fece commenti e continuò a guidare, schiacciando vigorosamente l'acceleratore: la lancetta del tachimetro avanzò sussultando fino ad accarezzare i sessanta all'ora. Lui guardò prima il profilo della moglie, poi l'oscurità della notte al di là del parabrezza: il tenebroso carceriere che li imprigionava. Chiuse gli occhi e si rivide mentre risaliva la strada con la pila stretta in pugno. A un certo punto, quando la cantilena era cessata, aveva sentito un rumore e li aveva visti: gli esseri neri si erano staccati dal buio come da una placenta marcita e lui se l'era data a gambe e loro lo avevano rincorso. Già, e poi? Qualcosa gli stava sfuggendo, ma non riusciva a capire che cosa. Le mille sensazioni che aveva provato stavano lì, completamente esposte, a ribollire nel caos che irretiva la sua mente e Giorgio cercò con tutte le forze di saggiarle, di assaporarle con cautela, come chi sta centellinando una tazza di caffè bollente, attento a non bruciarsi... E mentre sorseggiava, cominciò a trapelare qualcosa: non una gran cosa, soltanto una considerazione. Gli emissari del Carbonaio non volevano prendermi, loro non volevano farmi niente, soltanto spingermi... Ma spingerti dove? gli domandò la vocina antipatica uguale a quella di suo fratello grande (più bravo e più bello!), che viveva ormai in pianta stabile nella sua mente. Sul momento Giorgio non seppe rispondere, ma poi una consapevolezza sporse la testa, invadendo e colmando le zone vuote. E all'improvviso lui seppe dove volevano che lui andasse. Lo capì con il gelido nitore che lampeggia nella gora di una pacata rassegnazione. Dove? Alla deriva, nell'infinito degli spazi scuri... III Il Carbonaio Il motore si fermò con una specie di singulto strozzato. Anche l'ultima goccia di benzina era stata bruciata. Mila non disse niente, si limitò a piangere sommessamente. Era riapparso il fazzoletto nelle sue mani: singhiozzi, soffiatina, via il fazzoletto, sin-
ghiozzi, ancora il fazzoletto, singhiozzi, soffiatina... sembrava un moto perpetuo. Giorgio controllò prima dallo specchietto retrovisore, poi dai laterali. Per sicurezza indossò anche i Ray-ban a specchio e scandagliò il buio all'intorno. Okay, non si vedono mostri in giro, per adesso. Si tolse gli occhiali, guardò la moglie e affondò nel suo sguardo, profondamente. «Cosa sarà di noi?» gli chiese Mila, la voce remota, soffocata dal pianto. Giorgio non rispose. Non lo sapeva. Squadrandola provò per lei un misto di pena e repulsione. La sua faccia tremolava nella penombra come una goccia di pioggia in procinto di cadere dalla punta di una foglia. L'armatura compatta dei suoi capelli si era disgregata trasformandosi in una massa contorta di bioccoli unti di sudore; il mascara del trucco le era sceso lungo le guance, rigandole di scuro. Mila stava rivelando attraverso la propria paura l'aspetto che avrebbe avuto da vecchia... e non era proprio un gioiellino. Le sue mani si muovevano convulsamente sul fazzoletto fradicio, allargandolo, poi riducendolo a una palla. Lui si sporse e afferrò quelle mani. Lei se le lasciò stringere solo per pochi secondi, poi le sottrasse in fretta come per evitare un contagio. «Non mi toccare...» disse, con calma, come se fosse una cosa logica. E riuscì ad aggiungere solo: «Per favore». Tutte le altre parole che avrebbe voluto dire le restarono ferme nella gola, tenute dentro da un rigurgito di pianto trattenuto. Si guardarono sbigottiti, con imbarazzata intensità, scoprendo ancora una volta quanti spazi incompleti c'erano nella loro comune carta geografica interiore. Ma poi lei, inaspettatamente, si avvicinò al marito e porse le labbra. Il suo alito era cattivo e sapeva di ferro. Giorgio chiuse gli occhi e cercò di ricordare la prima volta che si erano baciati. Erano in auto sopra una vecchia Alfa 33 che gli aveva prestato per l'occasione suo fratello. Reduci da un film dell'orrore che s'intitolava, ironia della sorte, Nightmare, dal profondo della notte, un nome che era tutto un programma. Mila era bellissima. E nello stereo stava suonando una canzone di Lucio Dalla che parlava di due che facevano all'amore per concepire una bambina che si sarebbe chiamata Futura. Voglio ancora guardarti, dove sono le tue mani? Giorgio spalancò le palpebre. Si sentiva il cuore dolorante di malinconia. Aspettiamo che ritorni la luce... Il viso di sua moglie a pochi centimetri dal suo. I suoi occhi spaventati.
Le prese la testa fra le mani, avvicinò le labbra e le spinse la lingua nella bocca, più a fondo che poteva. Quando si staccarono, Mila si ripulì il mento dalla saliva col dorso della mano. «Siamo perduti, vero?» ansimò. Giorgio, stupito per l'improvvisa erezione del suo pene, deglutì più volte, come per saggiare meglio il sapore di pianto lasciato dalla bocca di lei. Annuì, scuotendo la testa: su e giù come una marionetta. Poi rispose, semplicemente: «Sì». E quell'unica parola gli uscì dalla bocca nuda e cruda, e restò per un attimo sospesa nell'aria prima di ricadere a terra morta, disperdendo un brivido sulla sostanza morbida del cuore. Mila si limitò a fissarlo, mentre si sfilava i jeans strettissimi, liberando le cosce. Poi si tolse gli slip lasciandoli spenzolare in fondo a una caviglia. Il sorriso che gli concesse dopo le restò fermo sulle labbra, non ce la fece a risalire fino agli occhi. In balia di una tempesta di emozioni, Giorgio si chiese quanto tempo era che loro due non facevano all'amore. Da quanto tempo non si accarezzavano. Da quanto tempo non si annusavano un po'... Sentendosi un poco ridicolo e un poco emozionato, azionò il ribaltabile del sedile, si sdraiò, alzò il sedere e si slacciò i calzoni calandoli solo quel tanto che bastava. Aspettò che Mila gli montasse sopra. Si sentì schiacciare dal suo peso e inarcò il bacino per contrastarla. Si aiutò con la mano da sotto e cercò la fessura della vagina con movimenti impacciati, come se si fosse dimenticato come si faceva. Mila lanciò un gemito roco e si spalancò con le dita per farsi penetrare più agevolmente. Finalmente il pene trovò la strada dentro lei. Non era molto umida e sentì male, la sensazione di un'unghia che gratta. Cosa stiamo facendo? si chiese, mentre fletteva i muscoli delle cosce per liberarsi di qualche centimetro. Come possiamo stare qua a fare questa cosa, prigionieri dentro a questo incubo assurdo... Guarda che non c'è niente di nuovo dal solito, bambina. È il solito all right baby, privo di senso. Niente di nuovo. Mosse il bacino e si sforzò di concentrarsi su quello che stava facendo. Il pene del marito la riempiva e la svuotava e lei si sentiva grattare la pancia e non si bagnava neanche a morire. Perché lei era disperata e non ce la faceva. Lei era come morta. Carne morta. Aumentò il ritmo del suo ancheggiare per cercare di farla finita in fretta, perché Giorgicaro potesse emettere il suo bravo spruzzettino. Così poi lui, una volta scaricato a dovere, l'avrebbe lasciata in pace a rosicchiarsi le
punte delle dita. Per un attimo, un attimo solo, le parve di sentire una piccola stilla di piacere, ma poi tutto si perse di nuovo in una bolla arida e secca. Non voglio fare all'amore, non sono più in grado, pensò. Si tirò su la maglia con rabbia. Liberò i seni pesanti e si piegò in avanti per fare in modo che lui le lambisse i capezzoli irrigiditi. Sentì la lingua del marito percorrerle la pelle sensibile e porosa intorno all'areola. Poi le sue labbra che si attaccavano come un bambino che cerca di succhiare da un biberon. Ancora più forsennatamente Mila mosse il bacino. Ancora, dai... Ce la stava per fare. Un colpo dietro l'altro i suoi umori si stavano risvegliando. Adesso non sentiva più dolore o fastidio, la sua vagina stava sciogliendosi in una crema calda, invasa da un languore che non provava da tanto tempo. Ancora, dai... La sua pancia si riempiva di fuoco mentre l'orgasmo si avvicinava percorrendo un sentiero tappezzato di tremiti convulsi. Lanciando versi intermittenti, gemiti e ansiti e parole insieme: dai dai dai... incitava se stessa, incitava l'uomo sotto di lei. L'orgasmo stava per esplodere, imprevisto, indeciso. Dai dai dai... Mila chiuse gli occhi per assaporare fino in fondo il momento in cui lui l'avrebbe riempita di liquido caldo e viscido. L'attimo in cui loro due sarebbero stati di nuovo insieme. Quando iniziò a venire, lei accolse la gioia dentro la pancia, e provò la sensazione di aprirsi completamente, ogni orifizio del suo corpo, ogni poro della pelle, spalancato come una bocca per sentirlo arrivare meglio... Il suo spruzzettino... Giorgio cercava di muoversi come poteva, schiacciato dal peso della moglie e, quando si sentì pronto per venire, istintivamente, cercò di trattenersi, di ribellarsi in qualche modo, e rallentò quasi fino a fermarsi. Stava provando una sensazione di panico inspiegabile, come se fosse sul punto di perdersi irrimediabilmente, di annientarsi. L'orgasmo stava montando dentro di lui simile a una mareggiata inarrestabile. Ormai allo stremo, pensò: devo uscirne, devo... Reggendo le natiche della moglie con entrambe le mani, cercò di spingerla via. Ma lei si stava accanendo su di lui, aggrap-
pandosi alle sue spalle, espirando a scatti, con violenza, come in un tentativo di risucchiarsi il cuore per divorarlo. Dai dai dai... Giorgio allora si arrese e prese a eiaculare, e una volta iniziato parve non dover più finire. Tremando da capo a piedi, la voce gemente contratta in un verbo d'agonico piacere, si consumò dentro di lei, spremendosi fino all'ultima stilla. Dopo restarono in silenzio, abbracciati l'uno all'altra, i volti inargentati di sudore e gli occhi chiusi, ad ascoltarsi a vicenda il cuore: così veloce ogni battito da lasciare senza fiato. Quando tutto ciò divenne intollerabile, Giorgio iniziò a parlare, a spiegare, cercando di essere convincente il più possibile. Mila ascoltò la confessione del marito - una storia assurda popolata di demoni neri, di specchi e di catenine miracolose che è molto meglio portare al collo - provando un forte senso di déjà-vu, come se quelle fossero cose che lei già conosceva. Forse le aveva sognate, chissà? o forse erano nascoste da sempre nella sua mente, nel suo io più antico e profondo. Soprattutto una frase aveva fatto centro, colpendola proprio nel bel mezzo del cuore, quella che spiegava la responsabilità del Carbonaio (o chi per lui!) nella morte (improvvisa nella culla!) di sua figlia. Alla luce del giorno lei avrebbe di certo respinto un'ipotesi del genere (un'ipotesi dotata di una certa forza di persuasione, bisogna dire...) ma adesso, imprigionati in quella strada dentro a quel bosco col tempo che si era bloccato: fermo immobile in una notte soffocante come il cappuccio di un cobra... Ecco, in un frangente del genere si poteva veramente credere a tutto e tutto diventava possibile. Quando Giorgio ebbe terminato di confessarsi, lei non disse niente, non diede la sua assoluzione; era troppo impegnata ad auscultarsi il cuore e a sentirselo come uno straccio imbevuto d'acqua sporca appallottolato al centro del petto. Volgendo la testa verso il vetro laterale, di scatto, come per effetto di una violenta sberla, si limitò a fissare il vuoto, persa più che mai. Sentiva lo sperma di lui infiltrato dentro alla sua pancia: denso come una specie di sciroppo; una schiuma inerte, stagnante, che pizzicava, faceva il solletico, bruciava quasi. Con la faccia accartocciata in un'espressione di disgusto, si tirò su e guadagnò di nuovo il sedile accanto. Poi cominciò a grattarsi il ventre, sempre più forte, graffiandosi fino al sangue. Ma non contava. Allora provò l'impulso d'infilarsi un'intera mano dentro per raschiarsi via tutta quella robetta viscida che la stava colmando. Si trattenne
a fatica. Tanto per confondere le acque si accese una sigaretta. Nei suoi occhi era ricomparso il luccichio delle lacrime. Immaginandosi di poterla rassicurare in qualche modo, Giorgio si girò verso di lei, le prese il volto fra le mani e la baciò sulla fronte, sul naso, sulle labbra socchiuse. Lei lo lasciò fare, guardandolo con vigile apprensione, come aspettandosi qualcosa di poco piacevole fra una tenerezza e l'altra. Prima che lui provasse a baciarla di nuovo, si tirò indietro, aspirò un tiro dalla sigaretta e cercò di sentirsi viva: ma non era possibile in mezzo a tutto quel buio, al massimo dello sforzo, poteva sentirsi come un fantasma. I Bandini, scesi dall'auto, s'incamminarono, uscendo di scena. Ferma al centro della strada deserta, rimase la Ford Ka vuota: una delle tante sagome sfumate in quell'inamovibile paesaggio popolato da esseri scuri. Camminavano tenendosi per mano, con i piedi ormai gonfi nelle scarpe. Giorgio aveva spezzato il ponticello e il parasudore dei Ray-ban, dividendo le lenti specchiate e ottenendo così due mezzi occhiali: uno l'aveva dato alla moglie e l'altro se l'era aggiustato alla bell'e meglio sul naso, come una sorta di strano monocolo, invitando poi Mila a fare lo stesso. La strada si era ridotta a un sentiero molle di fango. Non si udiva alcun rumore. Tutto appariva così immobile e stagnante da dare l'impressione di non trovarsi all'aperto, ma dentro al cunicolo di un labirinto racchiuso in un'enorme stanza. L'oscurità della notte incombeva su di loro come il codice di un sogno incomprensibile, la chiave di un incubo sospeso in una dimensione fuori dal tempo e dallo spazio. E faceva male agli occhi tutto quel blu infiltrato nel buio, ti colpiva con cattiveria penetrando il centro della mente. Nel silenzio s'insinuò un rumore; qualcosa di simile a un battito distorto: tu-tump! Forse erano i loro stessi corpi che palpitavano al di fuori di ogni controllo, come se si fossero trasformati in grandi cuori pulsanti, cuori spaventati: tu-tump! tu-tump! Serpeggiò una risatina, seguita da un rauco bisbiglio. Da qualche parte, immersi nella tenebra, bambini molto piccoli piangevano disperati. Provando un atavico brivido di gelo, Giorgio e Mila fissarono, attraverso le lenti specchiate, i grovigli di ombre che si agitavano allungandosi verso di loro, come enormi mantidi religiose fra la vegetazione contorta. Cominciarono a scappare, gettandosi alle spalle sguardi terrorizzati. E
mentre correvano, con il fango che s'incollava alle scarpe rendendo le gambe più pesanti a ogni passo, qualcosa d'impreciso li inseguiva, balbutendo, farfugliando, ringhiando, accontentandosi di restare dietro, sempre alla stessa distanza, come se il suo scopo fosse soltanto quello di spaventarli a morte, per farli correre, di spingerli verso qualcosa... verso qualcuno. Da lì in avanti, il sentiero divenne più ripido. Giorgio trascinava il corpo della moglie per un braccio, arrancando in avanti, cercando di trovare passaggi meno ardui sul percorso fradicio di melma. Mila rigurgitava strani versi e muoveva le gambe come poteva cercando di mantenersi all'altezza della situazione. I loro piedi sprofondavano risucchiati da quel fango frollo, caldo e viscido come catarro. Le fronde dei cespugli li frustavano al loro passaggio, graffiandoli impietosamente sul viso, sulle braccia, dove capitava... Mille ombre correvano con loro, dietro di loro, accompagnate dal riecheggiare di mille sussurri soffocati. Mila inciampò e cadde con un tonfo molle, batté la testa per terra e il suo campo visivo venne inondato da una moltitudine di stelle luminose. Perse la lente specchiata. Provò di rialzarsi. Annaspando riuscì a recuperare il mezzo occhiale, senza sapere di avere un taglio sulla fronte che sanguinava copiosamente. Giorgio, incatenato al braccio della moglie, cercava di continuare la sua fuga. Stringeva forte la mano di lei e tirava, trascinandosela dietro. E Mila cercava di muovere in modo coerente le gambe fasciate dai jeans strettissimi e squittiva per il terrore, strisciando nel fango. Con gli occhi parzialmente oscurati dal velo rossastro che le colava dalla ferita sulla fronte, si riaggiustò sulla sella del naso il monocolo specchiato e cercò di guardare il buio attraverso lenti rosate di sangue fresco... Tutt'attorno si ergevano filari di piante slanciate come antenne, che parevano spuntare dal terreno per poi sgretolarsi in movimenti fruscianti. L'oscurità stessa fremeva, lasciando filtrare dalla volta di foglie immagini aliene, mostruose, che vacillavano nell'aria, evanescenti come fuochi fatui. Con il respiro ansante, rapido come una sega che morde il legno, bruciante a ogni boccata, Mila ce la mise tutta e finalmente riuscì a rialzarsi, mentre Giorgio la esortava: «Muoviti, muoviti...», incalzandola con tono brusco. «Muoviti cazzo!» Ancora in corsa, guardandosi attorno selvaggiamente. Sempre più avanti...
Più avanti la vegetazione prese a diradarsi. E i Bandini vennero spinti fuori dal bosco, in una distesa piatta. Mille ombre e mille sussurri circondarono la radura. Si fermarono, ansando rauchi. I polmoni imprigionati da catene arrugginite, le membra d'acqua. Dal suolo scaturiva un ruggito che pareva vibrare nella consistenza stessa del terreno. Mila cadde in ginocchio. Guardò di fronte a sé e s'insalivò la palma della mano schiacciandosela contro la bocca spalancata, ma il grido che spingeva per uscire sbucò lo stesso. In fondo alla radura, la tenebra si era coagulata in un'enorme sagoma scura che avanzava ruggendo. «Dio, cos'è quella cosa?» chiese, cercando di scrutare il buio attraverso il suo monocolo, la voce rotta da una crepa d'isteria. La vescica le cedette di colpo: un fiotto di urina inzuppò la patta dei suoi jeans-secondapelle. Col volto fra le mani, cercò disperatamente di non credere ai propri occhi: no no no, là non c'era un mostro cattivo, no no no, era solo l'oscurità che voleva prendersi gioco di lei, soffocarla come aveva fatto con la sua bambina, strangolarla con le sue dita di velluto scuro. Un suono puntellato, simile a quello di una cremagliera si fece largo nell'aria buia, accompagnato dai soliti sussurri soffocati. In quel momento, nella testa di Giorgio una nuova consapevolezza affiorò, rendendosi decifrabile a livello del suo pensiero razionale. Una consapevolezza che era come un'ombra tra le ombre. L'ombra di un mostro con occhi febbrili da bestia feroce. Il Carbonaio esigeva un sacrificio: doveva mangiare, riempirsi lo stomaco, saziarsi. E dopo non risputerà nemmeno gli ossicini... Giorgio rivolse lo sguardo alla moglie e la vide inginocchiata, con la faccia arabescata di graffi, il mezzo occhiale tutto sbilenco a cavallo del naso: era così piccola e indifesa. Una voce malefica nella sua testa, che non sembrava più quella di suo fratello, suggerì: «Uccidila! Dalla in pasto al Carbonaio o a chi per lui!» L'acqua sporca gorgogliò, ribollendo nel brodo dei suoi pensieri, e lui seppe in quel momento che avrebbe potuto farle veramente male, molto male. Se avesse voluto. Ritirò il labbro superiore, mostrando i denti in un ghigno. Protese una mano, trovò la guancia di lei e vi posò una sterile carezza. Seguendo col pollice la discesa di una lacrima, raggiunse le labbra e s'insinuò, dischiudendole fino a sfiorare il chiostro viscido dei denti. Percorse il tratto del mento e scivolò fino alla gola. Affondare...
Avvertì il pulsare delle giugulari che contrastava la stretta delle sue dita e si ritrovò a battere inconsapevolmente le palpebre al ritmo forsennato di quelle pulsazioni. Il collo di lei era sottile, si poteva afferrare completamente con una mano sola. Affondare le dita nella gola morbida... Giorgio aveva gli occhi opachi e l'espressione priva di senso di chi sta scrutando all'interno di se stesso. La sua mente era come una superficie scivolosa e tutti i concetti se ne andavano via, sfuggivano in profondità, strisciavano, facendosi largo in un territorio nemico, nell'infinito degli spazi scuri. Mila lo stava guardando, mentre dalle sue labbra dischiuse volavano via sospiri lunghi e profondi, significativi. Lei era così indifesa... La mano di Giorgio ricadde sconfitta e le dita si aggrapparono fra loro stringendo nel pugno una manciata di aria vuota. La voce insisteva: «Dai, uccidila! Dalla in pasto... e sarai salvo». NO! Si sentiva come se mani mostruosamente forti lo stessero comprimendo ai lati delle tempie. E s'immaginò il suo osso cranico cedere con uno schianto orripilante e il cervello che gli schizzava dalle orecchie e dalle narici, in lunghi spruzzi ectoplasmatici. La pressione sempre più intollerabile, le fibre sinaptiche pericolosamente vicine al punto di rottura. Avvertì uno strappo secco al centro della mente: come di qualcosa che cede di colpo. E l'intera struttura del suo pensiero razionale si squarciò, lasciando trapelare uno scampolo di tenebra solida, dura e inossidabile, un'oscurità vorace senza vie d'uscita colorata come un cielo nella notte più pura. Blu primario... Aprì la bocca per gridare, e la tenne spalancata per un po', senza emettere altro che il suo respiro. Il mostro era vicinissimo. Giorgio, ignorando le fitte lancinanti alla testa, prese a frugarsi nella tasca di dietro dei pantaloni e recuperò il portafogli. In uno degli scomparti c'era una foto della figlia, scattata al compimento del suo sesto (l'ultimo!) mese di vita. Sotto alla foto (eccola!) c'era la catenina d'oro dell'angelo ricciolino. La strinse in pugno provando subito un senso di conforto inspiegabile: gli pareva di sentire una strana vibrazione propagarsi dalla medaglietta, qualcosa di elettrico, di pulsante. Aspirò una boccata d'aria scura e la inghiottì con una smorfia, come fosse una medicina cattiva. L'odore di fiori marci impregnò la sua mente simile a un effluvio narcotizzante e lui
provò una sensazione di scollegamento interiore, come se qualcun altro stesse usando il suo cervello per pensare. Lui era diventato un tramite. Lui non c'era più. Lui era tornato bambino... A letto, a tremare e a piangere. A tirarmi la coperta fin sotto al mento mentre cerco d'interpretare le strisce d'ombra che fluttuano sulle pareti della camera. Scruto il buio con gli occhi sbarrati e cerco di consolare la mia paura dicendomi che ormai manca poco allo spuntare del giorno, questione di attimi. E se fa tanto di spuntare il sole... be', allora tutto andrà a posto: garantito! Ma ecco: uno scricchiolio. «Sta arrivando?» Uno scricchiolio da qualche parte: la porta dell'armadio si apre spalancando la sua bocca di specchio e mostrando uno scorcio della dimensione abitata dal Carbonaio. I suoi occhi brutti e cattivi sono là, al loro posto di sempre: appesi al centro del blu, e mi fissano... inequivocabilmente mi fissano. Stringo la catenina d'oro (di nonna Violante) che porto al collo. «Mamma! voglio la mamma!» grido. La mamma arriva. Accende la luce e mi abbraccia. Tutto si dissolve. «Ti prego ma', lascia la luce accesa, è meglio...» «Va bene tesoro, solo per questa volta...» Mila stava genuflessa, senza riuscire a muoversi. E tremava, cercava protezione. E Giorgio l'abbracciò forte. «Va bene tesoro, solo per questa volta». La voce di nonna Violante giunse dal nulla: «Quando stai sognando, quando sei più indifeso, il Carbonaio, il capo di tutti gli spiriti del buio, colui che striscia nell'infinito degli spazi scuri, arriverà per risucchiarti se non porti al collo questa catenina. Sono stata chiara? Sono stata convincente?» Va bene nonna, ho capito, ho capito... (... il Carbonaio non è un mostro, il Carbonaio è solo un posto, fa paura la sua voce, stringi subito la croce...) Giorgio guardò la medaglietta dell'angelo ricciolino oscillare in fondo alla catenella che stringeva fra le dita. Una parte di lui, quella più razionale e quindi più scettica, disapprovò scuotendo la testa. Guarda che questo è solo oro vecchio e nient'altro, semplice metallo e chiuso il discorso!
Ma no, non è vero! non sono d'accordo! replicò il bambino che dimorava in lui. C'è di più... C'è che io ci credo in questa medaglietta, io sono con lei, mi fido di lei. È come la croce nelle storie di vampiri: se non hai fede non fa effetto e il succhiasangue se la ride. Ma se invece ci credi... Oooh, allora sì che sono cazzi per gli spiriti malvagi. E io c'ho fiducia cieca in questo benedetto ciondolino! E allora perché non lo sbatti in faccia al mostro e non fermi tutta questa follia e non ci pensiamo più? Bisogna indossarla, se no mica funziona... Giorgio indugiò con lo sguardo sulla moglie, sui suoi capelli spettinati. Ripensò all'atto d'amore che avevano consumato, al suo seme che riposava nel grembo di lei, e seppe finalmente con chiarezza che cosa doveva (poteva) fare. Mentre cingeva il collo di Mila (così morbido!) con la catenina dell'angelo ricciolino, le sue labbra trovarono la forza di sorridere. Quando la medaglietta si posò sulla carne di lei, scintille di luce trasparente parvero sprigionarsi da quel contatto, e un odore di rose appena colte si propagò nell'aria come una dolce melodia. Giorgio trasse un grosso respiro, riempiendosi fino all'orlo di quell'aura inebriante. Il sangue, impregnato di profumo, gli salì alla testa ribollendo, e uno schizzo di calore lo colpì al centro del cuore infondendogli il coraggio necessario per fare quello che doveva: darsi in pasto... Cominciò a correre davanti al Carbonaio. Muoveva le gambe e agitava le braccia, per attirarne l'attenzione. E nel suo cervello non dimoravano più pensieri razionali, non c'era più niente che non fosse affogato nella confusione della solita energia statica di sottofondo: il ronzio fastidioso (sempre quello!) di una radio sintonizzata su Canale Nulla Assoluto. Per lui non esisteva più una suddivisione temporale con la quale poter esprimere la propria essenza. C'era solo il buio. Correva e gli sembrava di farlo da tantissimo tempo. Una fitta gli ardeva l'inguine: un piccolo punto di brace in alto a sinistra. Mi fa male la milza, pensò. Quando era piccolino lo chiamava così quel male che gli veniva dopo una corsa, quando ci dava dentro a perdifiato senza avere i muscoli allenati. Sto correndo da sempre, pensò. La vita è solo una maledetta corsa! Voleva girarsi per guardare ma non ci riusciva, aveva paura di farlo. La milza bruciava sempre di più... Si chiese quale fosse il suo desiderio vero. Cosa desiderasse fare sul serio, nel profondo.
Ti va? La vocina carlesca riprese a sussurrargli nella mente. Sei sicuro che ti va? Il bravo fratellino maggiore si dava da fare per accertarsi che lui fosse contento, che lui fosse indirizzato bene, che lui avesse preso la strada giusta. Ti va di crepare come un cane in questa cazzo di notte che non finisce? (No, io...) Ti va di lasciarci le penne in questo blu sparso nel buio? (Blu primario, fratellino, si chiama primario, sai?) Ti va di raggiungere la tua bambina, (nell'infinito) di andare da lei, (nell'infinito degli spazi scuri) annusare di nuovo la sua pelle che sa di latte, e ascoltare il suo respiro e toccare le sue manine chiuse a pugno come noci... Una ventata gelida gli trafisse la nuca da parte a parte. Giorgio inciampò, cadde sulle ginocchia e sui palmi delle mani. Provò l'impulso di rannicchiarsi su se stesso, di abbracciarsi le gambe e perdersi nell'incoscienza. Invece si aggiustò il mezzo occhiale sul naso e si girò. Sul momento non capì bene che cosa stesse vedendo: il suo cervello riceveva in modo chiaro gli impulsi visivi attraverso la lente specchiata, ma poi doveva modificarli per codificare l'immagine in qualcosa di comprensibile. Il Carbonaio, da come lo vedeva lui, non aveva una forma definita. Sembrava più che altro fatto di teste, teste calve di bambini riunite in grappoli e in ghirlande che pulsavano, come ammassi di cellule malate; e su quelle teste: centinaia di occhi privati della luce, come spente feritoie spalancate nel nulla, sbocciavano e si richiudevano e non stavano fermi un secondo. Giorgio reagì con un grido, serrò le palpebre e non provò nemmeno a rialzarsi. Si sentiva privo di consistenza, evanescente come un ubriaco. Il nucleo di presenza di spirito che abitava il centro del suo essere si era sgretolato in mille pezzi e i frammenti erano sparsi dappertutto. L'enorme cosa tappezzata da tutte quelle teste stava balzando su di lui, gonfiandosi. E nella sua mente non c'era più niente. Esisteva solo il ticchettio dell'orologio folle che scandiva il tempo che separava la carne viva dall'impatto. Il tempo fra l'impatto e la tenebra. E in quel momento esatto, fra un tic tac e l'al-
tro, lui capì che il Carbonaio era solo un'illusione, che il Carbonaio era solo un'ossessione. Perché non posso svegliarmi da tutto questo? si chiese. Oooh non puoi, Giorgicaro. Non puoi, perché tu, come tutti, sei preda delle tue illusioni e delle tue ossessioni. Ah, ecco... quindi non ho vie d'uscita, giusto? No, devi solo decidere se ti va. Non devi fare altro, fratellino. Giorgio pensò alla sua bambina che rideva nella culla, al suono argentino dei suoi gorgheggi che mettevano allegria. (Quando fanno così, significa che ridono con gli angeli) Pensò che lui voleva. Senza dubbio lui voleva... (darsi in pasto) Solo così la notte sarebbe finita. Solo così ci sarebbe stata una nuova occasione per grattare via il buio dal cielo. Perdersi in un bicchiere pieno di sole. Mi va cazzo, mi va... Il mostro, colpendolo, lo sollevò in alto, disarticolandolo nell'aria. Il suo corpo piroettò come un pupazzo rotto per poi cadere e rotolare, rotolare e poi fermarsi. Su nel cielo c'era... nel nero compatto del cielo. Lassù: (vide) la luna velata di rosso. La luna fa sangue, pensò, pure lei, oh sììì... Giorgio non provò molto dolore: era come galleggiare in un fluido denso. Cercò di lanciare segnali di movimento col cervello, in ordine sparso. Ma di tante cose, riuscì a spostare solo un piede (meglio che niente!) Un piede nudo, senza scarpa (Cristo!) mancava anche il calzino. Il resto di lui: smarrito nel nulla. Aggrappato agli ultimi lembi di coscienza, deglutì un sorso del sangue che gli riempiva la bocca, poi cominciò il conto alla rovescia: meno quattro, tre... Quando il Carbonaio lo aggredì ancora, Giorgio stava contando i battiti impazziti che lo separavano dal fondo della voragine dentro alla quale stava precipitando; s'immaginò denti digrignanti che si aprivano e si chiudevano su di lui e avvertì il mantice di un respiro morto sulla faccia. ... meno due, meno uno, BOOM! Le sue braccia schizzarono via dal tronco. Il torace (senza capo né coda) si sfondò, disperdendo nell'aria una parabola di spruzzi rossastri, tranci d'interiora e frammenti d'ossa. Alla fine restò solo una poltiglia informe e
scura, e la testa mozzata. E su quella testa: occhi sbarrati fissavano stupidamente il buio della notte. Ciò che accadde risultò confuso nella mente di Mila. Si era tolta il mezzo occhiale - lasciandoselo spenzolare agganciato all'orecchio come uno stravagante orecchino - perché non voleva più vedere, non voleva più sapere niente di niente. Desiderava solo restarsene inginocchiata ad aspettare la fine di tutto. La sua mano era andata alla catenina che le cingeva il collo e su di essa si era stretta: il pendaglio aveva prodotto un tintinnio sommesso. E Mila aveva cercato di pregare per attirare l'attenzione di Dio. Ma era da troppo tempo che non lo faceva e non ricordava più le parole, così non era riuscita ad andare oltre al «Cristosanto» iniziale. Quando il Carbonaio fu su di lei, avvertì un'ombra fredda, come una coltre immensa, piegarsi sul suo corpo, dilatarsi, avvolgerla con l'odore che emanava dalle fauci spalancate: un odore antico e crudele, come di fiori marciti. E quell'odore le passò attraverso, riempiendola, spandendosi in fiotti di sangue greve dentro al petto, soffocandola. Avvertì una forte compressione al centro dell'addome e il suo respiro proruppe dalle labbra, schiudendole e rotolando di fuori in una scansione di rauchi vocalizzi che vennero risucchiati dal mostro a uno a uno. Producendo un lamento prolungato in cui si fondevano dolore e paura, Mila strinse la medaglietta ancora più forte, disperatamente, e implorò che finisse. Il ciondolo pulsò contro al suo palmo, come una cosa viva, sprigionando una corrente di fremiti che le risalì dalle ossa delle dita, lungo il braccio, raggiunse le spalle, risalì la gradinata delle vertebre infiltrata nel midollo, sino a penetrargli l'osso cranico e irrompere nella testa. «Vattene via!» ordinò Mila, o chi per lei, all'essere che cercava di risucchiarla. «Vattene, vattene, vattene...» Il demone, incapace di proseguire oltre, elevò una sorta d'ululato rigonfio di rabbia, mentre scioglieva il suo abbraccio dal corpo della donna. Tutto finì così: veloce com'era iniziato. Il bozzolo proteiforme di energia primordiale che l'aveva avviluppata scivolò via dal suo corpo, grugnendo. I gemiti delle creature intrappolate nell'essenza del Carbonaio si propagarono nell'aria, in una scia di vapore che si allontanò in un concerto di liquide vibrazioni. E Mila poté spalancare la bocca per accogliere una sorsata d'aria pulita dentro di sé, prima di precipitare nell'incoscienza.
Quando riprese i sensi, la prima cosa che fece fu di dare fiato a uno strillo: acuto e interminabile. Il grido sconcertato di chi si e appena svegliato da un sogno impossibile. Lasciò andare la medaglietta che stringeva ancora nella mano - ridotta a un grumo informe di metallo fuso - abbandonandola sopra al proprio petto ansimante. Si accorse di essere sdraiata per terra. Si alzò faticosamente in piedi, guardandosi attorno, e vide un grosso camion fermo un centinaio di metri più avanti; c'era una scritta cubitale sul fianco del cassone situato sul rimorchio: «Fonderia Ferpress» le parve di leggere, o qualcosa del genere. Provò ad avvicinarsi; i jeans fradici d'urina le trasmisero una sgradevole sensazione di pizzicore fra le gambe. Le ci volle molto tempo per capire cosa fosse la poltiglia che lordava l'asfalto della strada. Quando realizzò, non provò molte sensazioni: soltanto un brivido. L'uomo sceso dall'autocarro stava dicendo: «Non l'ho visto... me lo sono trovato davanti all'improvviso, non è stata colpa mia». E quelle parole riecheggiarono a lungo nella testa di Mila: non l'ho visto... me lo sono trovato davanti... Gli occhi presero a pungerle per le lacrime ma cercò di trattenersi. Piangere le avrebbe impedito di guardare, Lei invece voleva guardare. Dentro a una pozza di sangue scuro, galleggiava la testa di suo marito e su quella testa: occhi di vetro fissavano il buio. Il camionista, piegato su se stesso, stava vomitando una lurida sostanza fatta di vino maldigerito e fili di spaghetti. Mila, con grande fatica, distolse lo sguardo dalle pupille morte di Giorgio. In lontananza, sull'orizzonte ottico, l'oscurità stava cambiando. La parete scura della notte andava sciogliendosi, digradando su tonalità più chiare. «Il buio...» sussurrò Mila. Il camionista la guardò interrogativamente, un colaticcio denso e untuoso a imbrattargli il mento, uno spaghetto spenzolante dal labbro inferiore. «Cosa dici, signora?» chiese, rivolgendo subito lo sguardo al terreno fra le punte dei suoi piedi, il terreno che puzzava del suo vomito. Mila, serrando le labbra attorno a un'increspata linea di disappunto, annuì più volte. Poi cercò di essere convincente: «Il buio, il buio...» ripeté, indicando con la mano un punto indefinito davanti a sé. Il camionista la guardò come si guarda una matta: l'espressione divisa
fra paura e imbarazzo. Si portò in disparte, scuotendo la testa, e si perse a fissare, con un certo stupore, gli arabeschi di sangue che decoravano l'asfalto e la scarpa sul ciglio della strada col tacco rivolto malinconicamente al cielo. A quella vista si commosse e riprese a cantilenare, fra i singhiozzi: «Non l'ho visto, me lo sono trovato davanti, non l'ho visto...» Sul ciglio della strada si erano fermate delle macchine. Alcune persone erano scese e stavano correndo verso il luogo dell'incidente. Mila nemmeno ci fece caso e distolse gli occhi dal cielo dove già stavano comparendo le prime striature di luce rosata. S'inginocchiò di fronte alla testa del marito: plin! Un lento rivoletto gocciolava, plin!, dalla punta del suo naso e ricadeva nella brodaglia sanguigna che si allargava sulla carreggiata. Plin! Toccò con un dito quel liquido scuro e si osservò con curiosità il polpastrello sporco. Sembrava intinto in un inchiostro blu. «Il colore del buio...» sussurrò, molto sommessamente. Il giorno stava finalmente spuntando. Una striscia perlacea si protendeva al centro del cielo come una monade di luce indagatrice. Dal bosco immerso nell'oscurità provenivano mille sussurri. Ed era il vento a trasportarli, assieme allo stormire delle fronde. Lo stesso vento che muoveva lo strato di nuvole in cielo. I primi raggi di sole sbucarono furtivamente. Filamenti di Fulgore, sparsi per ravvivare il nulla, colpirono a fondo, lacerando la coltre notturna, penetrandola con forza come in un ruvido amplesso, stuprandone gli interstizi più profondi. I colori dell'alba si rincorrevano sul viso di Mila in un inesauribile gioco di sfumature. E i tratti dei suoi lineamenti assunsero splendore, quasi che ogni singola cellula sanguigna, ciascun granulo di pigmentazione, irrorato dal sole, avesse ritrovato la piena realtà. Mila socchiuse gli occhi al cospetto di tutto questo. Ed era come se, assieme a quella luce, si andassero intensificando anche i suoi colori interiori. Miracoli iridescenti fluivano dentro e fuori dalla sua mente intrappolando in gabbie dorate le forme dei pensieri. Inspirando a fondo, accolse dentro di sé tutti gli odori ricomparsi dal nulla. E tutti quei suoni, che crescevano attorno a lei, occupando gli spazi di silenzio. Mila allora sorrise, sorrise veramente. E mentre lo faceva si toccò il ventre, se lo accarezzò piano, con grande riguardo. Il seme che ristagnava dentro di lei, sospeso come in un bozzolo nel silenzio d'acqua del suo grembo, si animò con un guizzo, divenne una cosa viva, letale, che strisciò nel suo interno diffondendovi calore e gioia.
Battezzato dalla luce, un nucleo di cellule cominciò a crescere, a proliferare, propagando la massa di una nuova vita. Al centro degli spazi scuri, i mille sussurri all'improvviso cessarono. Gianfranco Nerozzi ha pubblicato svariati racconti su antologie e riviste e i romanzi: Ultima pelle come FJ Crawford (Ed. Eden 1991); Le bocche del buio (Polistampa 1993); L'urlo della mosca (Addictions, 1999); Ogni respiro che fai (Adn kronos, 2000); Immagini collaterali (Addictions 2003). Per la serie di spionaggio Hydra crisis: L'occhio della tenebra (Mondadori 2003); La coda dello scorpione (Mondadori 2004). Di prossima uscita: Lo spettro corre sull'acqua. Ha inoltre scritto un'antologia di racconti: Prima dell'urlo (Addictions 2000), il romanzo per bambini Una notte troppo nera (Disney libri 2000) e il thriller Cuori perduti (Mondadori 2001, vincitore del Premio Tedeschi per il miglior giallo dell'anno). Ha curato un'antologia di racconti horror di autori italiani: In fondo al nero (Mondadori 2003). Nel 2004 è uscito Genia per la Dario Flaccovio editore: l'inizio di una saga horror che è proseguita con Resurrectum uscito nel 2005, e che continuerà con altri tre romanzi. Musicista, pittore e cultore d'arti marziali (è cintura nera di karaté); scrive sceneggiature per cinema e teatro. Organizza e interpreta reading musicali. Ha fondato, assieme ad alcuni colleghi scrittori, il laboratorio di scrittura Zanna Bianca, ed è docente di thrilling nella scuola Incubatoio 16 di Carlo Lucarelli. È membro del direttivo dell'Associazione Scrittori Bologna (www.scrittoribologna.com). Il suo sito: www.gianfranconerozziofficial.com Parte seconda Il posto buio Andrea Cotti Per Barbara perché lei in un posto buio fa luce! Dicembre 2006 Domenica 3
23:52 Ha iniziato da poco: la neve cade con fiocchi larghi e grossi, mossi appena dal vento. Le finestre accese nelle case sparse sul fianco della collina sembrano piccoli fuochi nel buio. Le cime degli alberi sono già imbiancate. Quando il vento aumenta, si sentono lunghi fischi, e la neve fa brevi mulinelli nervosi. Lunedì 4 5:50 La neve continua a cadere, e adesso la collina è tutta bianca. Tutte le luci nelle case sono spente. Solo nella casa più in alto, quella proprio in cima alla collina, le finestre sono illuminate. Non è più notte, e non è ancora giorno. Nel cielo nero, all'orizzonte, è apparsa una sottile striscia blu. Il vento è calato. C'è molto silenzio, ora. Poi si sente uno sparo. Poi un altro. Poi un altro. Poi un altro. Sono seduto. Se muovo le braccia in alto, di fianco, davanti e dietro, non tocco niente. C'è solo il buio. E il blu. Il buio che è blu. Marco Bandini ha otto anni, e non sa dov'è. Prima ero a letto, nella mia stanza, e adesso sono qui. Ma qui non è la mia stanza. Marco non sa da quanto tempo si trova in questo posto, e non sa come ha fatto ad arrivarci. E chi ce l'ha portato. E adesso comincia ad avere paura. Perché gli sembra di non essere solo, qui, in questo posto buio e blu. 9:19 Il maresciallo dei Carabinieri ha il viso più bianco della neve che scende. Deve avere più o meno la sua età, trentasei o trentasette anni. Mentre gli va incontro per presentarsi, Luca Masi sorride per un istante. È la prima volta che gli capita, nella sua carriera: un carabiniere che chiama la polizia! «Maresciallo Franza». «Io sono Masi, il PM incaricato, ci siamo sentiti prima al telefono».
«Ah, dottore...» Masi stringe la mano al carabiniere, e si guarda attorno. Il sole ormai è sorto da parecchio, ma il cielo ha un colore bianco sporco, che risucchia la poca luce. Anche le altre colline, attorno, e la valle sotto, sono sfocate dentro quel bianco che sembra latte cagliato. Di fronte alla casa è posteggiata la civetta della Mobile che lo ha portato qui da Bologna, una gazzella dei Carabinieri e il furgone attrezzato della Scientifica. Ai bordi del perimetro delimitato dal nastro giallo, tra i grossi fiocchi di neve che cadono, si distinguono altre forme, e altri colori: giacche a vento blu, arancioni, verdi, visi rossi, cuffie rosa. Sono i vicini, quelli che abitano nelle altre case lungo il fianco della collina. «Mi scusi, maresciallo, ma mi dia un'idea...» dice Masi. «Qui dove siamo?» Il maresciallo scuote la testa. «Da nessuna parte... Il paese più vicino è Rocca di Roffeno, praticamente qua sotto, ma il comune è Castel d'Aiano, a dieci chilometri, dove sta la nostra stazione. Siamo ancora in provincia di Bologna, ma per poco. Se arriva fino a Zocca, siamo già sotto Modena». Masi annuisce. Anche il carabiniere adesso si guarda attorno, osserva gli uomini della Scientifica che vanno e vengono dal loro furgone alla casa. Con le loro tute bianche, in mezzo alla neve, sembrano fantasmi. Franza è nervoso: «Non so, dottore, se ho fatto bene a suggerirle di far intervenire la Scientifica. Ma ho chiamato il Comando a Bologna, m'hanno detto che non c'erano tecnici disponibili, si sarebbero dovuti muovere direttamente i RIS da Parma... Invece loro» dice indicando gli uomini in bianco «salendo da Bologna avrebbero fatto prima...» Masi sorride di nuovo. Il maresciallo gli piace. «Cioè, lo so che è lei che dispone chi deve intervenire, però mi sa che i superiori mi faranno passare i guai per questo... Ma io non avevo mai visto un omicidio, e così, poi... E stavamo già perdendo tempo...» Masi gli batte una mano sulla spalla: «No, ha fatto bene, maresciallo, davvero. Ho apprezzato il suo... suggerimento. Lei faccia un rapporto al suo Comando, poi, se ci sono problemi, faccia il mio nome. Dica che parlino con me, e io troverò poi il modo di elogiare... il suo "spirito di collaborazione tra le diverse forze di polizia"». Franza rimane pallido, ma sembra sollevato. «Adesso mi vuole spiegare?» chiede Masi. «Abbiamo ricevuto una telefonata, verso le sei di stamattina, da una
coppia di anziani che abitano in una casa più in basso, lungo la strada. Dicevano d'avere sentito degli spari, tre, forse quattro. Ma non erano sicuri, c'hanno messo un po' a decidersi a telefonare. Io sono venuto con due dei miei». Il maresciallo indica due giovani carabinieri che stazionano davanti alla porta d'ingresso col viso pietrificato. «La porta era aperta. Siamo entrati, e lui era lì...» «Lui?» «Carlo Bandini. Aveva ancora il fucile in mano. Era seduto sul divano...» «Ha fatto resistenza?» «No, no. Ha abbassato l'arma, con calma. L'abbiamo ammanettato. Poi siamo saliti di sopra, e...» «E?» «Sua madre e sua cognata. Un colpo di fucile per ciascuna. Una allo stomaco e l'altra alla testa...» Il maresciallo Franza si volta di scatto, fa tre passi, poi cade in ginocchio nella neve e vomita. La casa dà una sensazione di calore: i mobili in legno, le pareti grezze, il pavimento in pietra, i pochi quadri colorati, il grande camino nella sala. Ora i tecnici della Scientifica sono al piano di sopra, e se non fosse che sente i loro passi e le loro voci, Masi potrebbe credere che in quella casa non è mai accaduto nulla. Anche l'uomo seduto sul divano, se ci si dimentica le mani ammanettate dietro la schiena, sembra che si stia solo rilassando. O riposando. Ha lo sguardo stanco, ma vivo, presente. «Signor Bandini?» Masi si presenta e gli si siede accanto. L'uomo lo fissa. «Dovrei farle alcune domande». Bandini continua a guardarlo, ma tace. «È stato lei? Ha ucciso sua madre e sua cognata?» Bandini fa un piccolo sospiro, poi dice: «Sì». La voce assolutamente tranquilla. «E può dirmi perché?» «No». Ora è Masi che fissa per un istante l'uomo. Nessuna tensione, quasi sereno. L'unico movimento che fa è scrollare le spalle, le braccia ammanettate dietro la schiena. Masi si rivolge al maresciallo Franza, pallidissimo, dopo avere vomitato,
e imbarazzato: «Le manette credo che possiamo toglierle, no? Almeno per cinque minuti...» Franza prende la chiavetta e toglie le manette a Bandini. «Tanto lei starà buono, vero Bandini?» dice Masi. Bandini annuisce. Scrolla di nuovo le spalle e scioglie le braccia togliendole finalmente da dietro la schiena. In quel momento, Masi vede le sue mani. Sono tagliate, graffiate, le nocche sanguinanti. Sulle ferite si vedono piccole schegge di vetro. Nella mano destra Bandini stringe una catenina d'oro. È un ciondolo, con una medaglietta. Sulla medaglietta è inciso un piccolo angelo con una gran corona di capelli ricci. «Che è successo?» chiede Masi al maresciallo Franza. «Mi scusi, dottore, non glielo avevo detto. Abbiamo trovato tutti gli specchi rotti». Masi lancia una rapida occhiata alla stanza. Entrando non l'aveva notato, ma sul grande camino c'è una piccola cornice, una di quelle decorate con paesaggi di una qualche località turistica. I frammenti dello specchio luccicano sul pavimento in pietra. Masi torna a fissare Bandini. «Ha rotto lei gli specchi?» «Sì». «E perché lo ha fatto?» Bandini tace. Masi osserva di nuovo le sue mani, la catenina con la medaglietta e l'angelo ricciolino. «E quella?» chiede a Franza. «Non... Non siamo riusciti a togliergliela di mano. Si agitava, si dimenava. È stato l'unico momento. Io ho pensato che era più importante farlo stare buono...» «Adesso, però, bisogna prenderla. Dobbiamo repertarla». Bandini ritrae le mani brusco. «No!» All'improvviso ha il viso contratto, gli occhi spalancati. «Signor Bandini, che succede? Perché non ci vuole dare quella medaglietta?» Bandini arretra sul divano, si scosta. Masi prende dalla sua giacca un fazzoletto, e allunga la mano, col fazzoletto sopra, verso Bandini. «La dia a me, signor Bandini».
Bandini scuote la testa, gli occhi sempre spalancati. «Signor Bandini...» Bandini continua a scuotere la testa e a farsi indietro sul divano. «Vede, dottore...» dice il maresciallo Franza. Masi ritira la mano. «Va bene, tenga pure la medaglietta... Semmai ce la darà più tardi. D'accordo?» Bandini rimane irrigidito ancora qualche istante, ma poi il viso torna lentamente a distendersi. Sembra di nuovo calmo. «Lei adesso, però, deve dirmi qualcosa» dice Masi». Bandini tace ancora. «Signor Bandini, per noi è importante capire cos'è accaduto qui...» Bandini fa un altro piccolo sospiro: «Mi dispiace. Ma no» risponde. E lo dice come se davvero fosse dispiaciuto. Masi resta in silenzio per un secondo. Poi si alza dal divano. «Va bene, per adesso basta così». Guarda Franza: «Fuori nevica ancora, e noi, per salire, ci abbiamo messo più di un'ora. Anziché in questura a Bologna, pensavo di farlo portare alla vostra stazione. Per lei ci sono problemi?» «No, dottore». «C'è qualcuno, là?» «Due appuntati». «Bene. Lo faccio accompagnare dai due agenti della Mobile. Lei chiami i suoi alla stazione, dica loro che poi arriverò io per sentirlo». Mentre viene portato fuori dai due poliziotti, Bandini lo fissa un'ultima volta. Una singola lacrima scende lungo la guancia dell'uomo, ma subito Bandini gira la testa. 9:54 Masi sta di nuovo parlando con il maresciallo Franza, che tiene in mano un piccolo taccuino. «Generalità delle due vittime?» «La cognata, appunto. Mila Raimondi, sposata Bandini, quarant'anni. E la madre di lui, Angela Serra, anche lei sposata Bandini, settantaquattro...» «Se c'è una cognata, dov'è il fratello?» Franza scuote la testa. «Non lo so, dottore. Io sono qui da neanche due mesi, ho appena preso il comando della stazione, vengo dalla Liguria...» Masi scorge qualcosa con la coda dell'occhio e si volta. «Ciao, Carmelo».
L'ispettore capo della Scientifica, che sta scendendo dal piano di sopra. Si chiama Carmelo Pecora, ha quarantasei anni, è di origine siciliana, e ha sempre un sorriso allegro sulla bocca. Quando Masi è arrivato in Procura, fresco di laurea, e nonostante i dieci anni d'età di differenza, Pecora è stato uno dei primi poliziotti coi quali ha fatto amicizia, il primo in assoluto a non trattarlo come un magistratino inesperto. D'altra parte Pecora tratta tutti così: è gentile, attento, spiritoso. Ed è bravissimo nel suo lavoro. «Ciao, Luca» dice Pecora, rivolgendo un cenno della testa anche a Franza, «Mi spiace averti fatto salire fin qui con questo tempo, ma qua dentro era un casino e io volevo un PM sulla scena...» «Non ti preoccupare, Carmelo. Tanto lo sai che venivo lo stesso...» «E meno male che in Procura c'è ancora qualcuno che lavora coi piedi, oltre che con la testa...» «Sì, giusto io sono il fesso!» Molti sostituti procuratori dirigono le indagini da dietro la scrivania, smistando carte e telefonate, e mandando in giro gli ispettori e i marescialli. Masi, no. Lui si sposta, si muove, vuole essere presente, farsi un'idea sua del luogo, delle vittime, degli assassini. «Ma insomma, di sopra come va?» «Bene. Abbiamo finito con la stanza della cognata. Adesso iniziamo anche nella stanza della madre di Bandini e nella sua». «E che mi dici?» «Per quello che vedo io, il tipo ha dato di matto e si è messo a fare il tiro al bersaglio». «Tutto qui?» «Sì». «Io l'ho visto, prima, Bandini. Non mi è parso uno che ha dato di matto». «Ha rotto tutti gli specchi di casa a pugni...» «Vabbè» dice Masi. «Il resto della casa?» «Dopo. Appena finiamo con la stanza della madre. Io torno di sopra... Vieni anche tu?» Masi fa cenno al maresciallo Franza d'aspettarlo. «Vengo». La stanza della cognata. Il corpo di Mila Bandini è ancora riverso sul letto, coperto con un lenzuolo, il profilo segnato con del nastro adesivo. La sovraccoperta è arabescata, con delle stelle in rilievo, e al centro c'è una larga macchia di sangue e di materia cerebrale.
Sul comodino ci sono delle riviste d'arredamento e di moda, e una fotografia. Sul muro accanto al comodino, appena sotto a un orologio rotondo da parete, c'è un'altra macchia di sangue e la rosa dei pallini sparata dal fucile ha sbriciolato l'intonaco mettendo a nudo i mattoni. Al muro opposto sono appoggiati una cassettiera e un armadio con le ante aperte. Le ante erano a specchio. Adesso gli specchi sono rotti. Pecora scosta delicatamente il lenzuolo che copre Mila Bandini. Indica a Masi le ferite alla testa, la direzione da cui dovrebbe essere partito lo sparo. Poi gli indica anche un segno rosso sulla gola della vittima. «Vedi? Portava qualcosa, al collo, e le è stato strappato...» «Una catenina». Pecora fa una faccia stupita. «Che catenina?» «L'aveva in mano Bandini. Franza e i suoi non sono riusciti a farsela dare. E nemmeno io. Bandini faceva resistenza. Dopo, quando torno a parlarci, magari lo convinco senza dovergliela prendere a forza...» «Ma non era quello che non ha dato di matto?» Masi non risponde. «Comunque...» Pecora gli indica di nuovo il corpo di Mila Bandini. «Mi sa che stavolta per l'ora esatta del delitto non dobbiamo aspettare l'autopsia». «E perché?» Pecora mostra a Masi un braccio, l'orologio al polso. «Una cosa da film... Bandini le ha sparato alla testa, da di fianco, lei deve avere alzato istintivamente il braccio sinistro per proteggersi, e uno dei pallini ha colpito l'orologio. L'ha fermato, alle 5.50 di questa mattina. Esatte». «Sì, roba da film» dice Masi. «Ma meglio così, facciamo risparmiare un po' di tempo al medico legale». Alza lo sguardo, poi si interrompe. Indica a Pecora la parete scalfita dalla rosa dei pallini. L'orologio. «E quello, Carmelo? Anche quello è stato colpito da un pallino?» Pecora si rialza. «No, non credo...» Anche l'orologio al muro ha le lancette immobili, e fa le 5.50. «E allora com'è possibile?» chiede Masi. Pecora stacca l'orologio dal muro, lo gira, apre uno sportellino che sta sul retro. «È a pile. Forse si sono scaricate». «Sì, ma alla stessa ora?»
«O forse s'è fermato proprio come l'orologio da polso. Cioè non è stato colpito direttamente, ma quando i pallini hanno colpito il muro c'è stata una scossa forte, una vibrazione» dice Pecora. «Vedi che l'intonaco è caduto? Forse si sono allentate le pile all'interno e il contatto s'è interrotto». «Forse». 10:43 Masi solleva il bavero del cappotto e osserva il fiato che gli si condensa davanti alla bocca. La neve continua a cadere lenta. I fiocchi larghi sembrano coriandoli sfilacciati. I necrofori li ha fatti chiamare, adesso aspetta che Pecora finisca con la stanza della madre e con il resto della casa prima di andare a interrogare Bandini. Quando è sceso, Franza stava parlando al cellulare, probabilmente col suo Comando a Bologna, e lui non l'ha disturbato. Da dentro la casa sente la sua voce che continua a discutere, ma non riesce a distinguere cosa dice. Gli sembra lontanissimo. Masi guarda ancora la neve, raccoglie qualche fiocco nel palmo della mano e lascia che si sciolga. Lui, in un posto simile a questo, c'è nato e cresciuto. Castelnovo, sulle colline tra Reggio Emilia e Parma. Si ricorda ancora i ritorni da scuola, in pulmino, alle tre del pomeriggio. I compiti, la finestra della sua stanza che dava sul bosco, il cielo basso e grigio, d'inverno, la sensazione di essere chiuso dentro un bozzolo. Ma si ricorda anche certe sere, col vento che cresceva e si infilava dentro il bosco, le foglie che tremavano, i rami che si scuotevano e facevano una specie di lamento. I vecchi in paese, al bar, dicevano quando tira lo stravento sono le sere dello spavento. «Luca...» Masi si volta. Pecora è sulla porta, una strana espressione sul viso. Sulle labbra non ha nessun sorriso. «Avete finito con le altre stanze?» «No...» «Che c'è, Carmelo?» «Il tipo, Bandini, doveva essere molto incazzato...» «Che vuoi dire?» «Non siamo ancora sicuri, ma sembra che nella stanza di sua madre abbia sparato tre volte...»
«Tre volte?» «Sì. Il fucile è da caccia, due canne sovrapposte, due colpi. Il primo colpo Bandini l'ha sparato alla cognata. Il secondo l'ha sparato a sua madre, nella sua stanza. Ma lì le rose dei pallini sono tre, ravvicinate. E sotto il letto abbiamo trovato i bossoli vuoti. Bandini ha ricaricato, e ha sparato. Tre volte». «Ma perché?» «E io che ne so? Forse ha mancato la madre col primo colpo...» «L'ha mancata?» Rientrano in casa. Masi vede che il maresciallo Franza gli si fa incontro. Deve avere finito la telefonata col suo Comando. Masi alza una mano. «Ancora un attimo, maresciallo» dice seguendo Pecora su per le scale. «Poi davvero sono da lei...» Franza si blocca, quasi sta per mettersi sull'attenti. «Certo, dottore, certo...» Sono nella stanza della madre. È una stanza stretta e lunga, con un letto matrimoniale che occupa quasi per intero la parete, un singolo comodino, un armadio e una cassettiera. Nello spazio tra il letto e l'armadio, un'altra macchia di sangue e le rose dei pallini conficcate nel muro. «Stiamo estraendo i pallini dal muro uno a uno, per contarli. Ma sono tre rose...» dice Pecora. «Hai detto che il fucile era da caccia?» chiede Masi. «Sì». «Quindi probabilmente Bandini e un cacciatore». «Sembrerebbe». «È impossibile, Carmelo. Bandini non poteva sbagliare neanche bendato, in un posto così piccolo, chiuso, con una donna anziana... Specie se è un cacciatore. E poi cosa dovrebbe aver fatto? Spara il primo colpo, manca sua madre, ricarica, e spara altre due volte?» «Io ti dico quello che stiamo trovando, Luca». Masi si avvicina al letto, al piccolo comodino. Sul comodino c'è una radiosveglia. «5.50». Masi evita di toccarla, senza i guanti di lattice, ma la indica a Pecora. «Come?» «Anche questa radiosveglia è ferma alle 5.50».
Pecora, come ha già fatto con l'orologio nella stanza della cognata, prende la radiosveglia, controlla lo sportellino delle pile. «Le pile ci sono». «Può essere stato anche qui lo sparo, le vibrazioni...» «Può essere». «Ma se Bandini ha sparato alla cognata alle 5.50 di là, e questo lo sappiamo, perché le ha colpito l'orologio al polso» dice Masi «non può avere sparato anche a sua madre di qua alle 5.50». «Forse la radiosveglia era indietro...» «Ma a te è mai capitata una cosa così, Carmelo?» «No, ma...» Masi annuisce. È una cosa che gli ha insegnato Pecora: "Di solito non succede nulla, di solito quello che ti trovi davanti è banalissimo e scontato. Ma nel nostro lavoro tutto può succedere". «Ma può sempre capitare». 11:22 «Torno giù dal maresciallo». Masi esce dalla stanza della madre di Bandini, ripercorre il corridoio. Sulla destra una porta aperta, il bagno, lo specchio rotto. Sulla sinistra, un'altra porta, una scrivania, una specie di studiolo. Sulla destra un'altra porta ancora, questa chiusa. Poi la stanza di Bandini. Poi la stanza della cognata. Masi entra. Vuole vedere di nuovo l'orologio da polso di Mila Bandini. Ma si blocca. È lì, sul comodino, appena dietro le riviste di moda e d'arredamento. La fotografia. Prima, mentre parlava con Pecora, non c'aveva fatto caso. Sulla fotografia ci sono due donne. La madre e la cognata di Bandini. E un bambino. Masi prende la fotografia e torna in corridoio. La porta chiusa! Masi la apre: un letto singolo, piccolo, le coperte ancora tirate, giocattoli, una cartella, libri di scuola, una piccola scrivania. È la stanza di un bambino. Ma non c'è nessun bambino. «Carmelo!» urla Masi. Pecora s'affaccia sulla porta. «Ma che c'è, Luca? Che...?» «Fate dei rilievi qui dentro. Vedete se trovate tracce di sangue, o se anche qui hanno sparato... E vedete se nella stanza della suocera tutto il sangue appartiene a lei. «Ma cosa...?»
Masi mostra a Pecora la fotografia. «C'è un bambino, vedi? E questa è la sua stanza. Ma il bambino dov'è?» Masi scende le scale. Il maresciallo Franza è lì, lo stava aspettando. «Chiami la stazione, chieda se Bandini è arrivato!» Franza non chiede nulla, prende il cellulare, telefona. Aspetta un secondo, due secondi. Poi dice: «Come? Ah... è con i due poliziotti? Va bene, va bene. Portatelo al telefono e mettete il vivavoce, che il dottore, qui, deve parlargli». Franza passa a Masi il suo cellulare. «Pronto? Signor Bandini, è lei? Mi sente?» Silenzio. «Signor...» «È lui, è lui...» È la voce di uno dei due poliziotti della Mobile che hanno portato Bandini alla stazione dei Carabinieri e accompagnato lui da Bologna. Masi insiste: «Signor Bandini, ho trovato una fotografia. In quella foto c'è un bambino. È suo figlio?» Silenzio. «Signor Bandini, chi è quel bambino?» Ancora silenzio. «Dov'è adesso il bambino, Bandini?» Sempre silenzio. Si sente la voce dello stesso poliziotto di prima, dura: «Guarda che il dottore ti ha fatto una domanda! Rispondi!» «Ehi, ehi, calma, lì!» interviene Masi. È un'altra delle cose che gli ha insegnato Pecora: "Niente mani alzate sui fermati, niente arie minacciose, niente scene. Se lasci che un poliziotto sgarri una volta, è come se sgarrassero tutti, tutte le volte". «Mi scusi, dottore» dice l'agente. «Senta, Bandini» riprende Masi «la sua posizione è già abbastanza grave. Mi dica dov'è il bambino e se gli ha fatto qualcosa». Solo silenzio. Poi una scarica elettrostatica nel cellulare, un fischio. La comunicazione cade. Masi impreca. «Succede» dice Franza, e fa un gesto con la mano, indica le colline fuori dalla finestra, la neve che scende. Masi mostra anche a Franza la fotografia. «Il bambino non è in casa. Sa
se è il figlio di Bandini?» «Non lo so». «Non lo sa? E non sa neanche dov'è il fratello di Bandini! Qui c'è sua moglie morta, e lei...» «Gliel'ho detto, dottore, sono qui...» «Lei non è qui da neanche due mesi, lei è qui già da due mesi. In un posto come questo il maresciallo deve essere come il prete, deve sapere tutto di tutti! E subito!» Franza scuote la testa, ancora imbarazzato: «Mi dispiace, dottore...» Masi respira, si calma. «No, scusi lei, maresciallo». Fa una pausa. «E i due carabinieri che sono con lei?» «Sono qui da ancora meno di me, e sono di leva...» «Richiami la stazione, chieda ai due appuntati, forse loro lo sapranno. Sembra piccolo, il bambino. Avrà sette anni, otto. La scuola elementare dov'è?» «Sempre a Castel d'Aiano». «Chiami una qualche maestra. O qualcuno all'anagrafe. Svegli chi vuole, io devo sapere chi è quel bambino». Franza si allontana per usare il telefono fisso, quello della casa, visto che col cellulare la linea era caduta. Masi resta solo, si affaccia sulla porta d'ingresso, aperta. Si stringe un po' nel cappotto. La temperatura deve essere scesa. La neve, però, continua a cadere. Può vedere il fiato che si condensa davanti alla bocca. Se il bambino è ancora vivo - se Bandini non l'ha ucciso - e se è all'aperto, rischia l'assideramento. Se è al chiuso, da qualche parte, rischia di finire il cibo, o l'acqua, se gliene ha lasciata. O l'aria. Masi alza di nuovo lo sguardo verso le colline. Quando torna in paese, a trovare i suoi genitori, vede anche lui quante cose sono cambiate da quando era piccolo. Sa che ormai è quasi come essere in città: strade, automobili, case, palazzi, televisori, Internet, cellulari. Ma sa anche che ci sono ancora posti nascosti, segreti. Posti dove niente è come in città. Deve trovare il bambino. Forse non dovrei restare seduto. Forse dovrei alzarmi, cercare dove sono le pareti, se riesco a toccare il soffitto. Marco Bandini, però, non lo fa.
Adesso ha l'impressione di esserci già stato, in questo posto. Non sa come gli è venuta questa impressione, visto che ancora nemmeno l'ha esplorato. Ma lo stesso gli sembra di sapere dove si trova. Deve soltanto ricordarselo. Se se lo ricorda, forse si ricorderà anche chi l'ha portato qui, e perché. Ci prova, si sforza, pensa. Ma no. Non riesce a concentrarsi. È la faccia. Gli prude, e lui deve grattarsela spesso. Forse ci sono degli insetti, lì, in quel posto. Forse lo hanno punto. Per un attimo li sente che gli camminano addosso. O forse se li sta solo immaginando. Sua nonna glielo dice sempre che lui ha molta immaginazione. Non riesco a vedere niente. Nella mia stanza, anche quando è buio, dopo un po' gli occhi si abituano e riesco a vedere qualche ombra, i miei giochi, i libri di scuola per terra. Qui, no. Qui, nel buio c'è solo il buio. Anzi, il blu. Marco non sa bene come mettere insieme quel pensiero, ma... Non è il buio che è blu. È il blu che è buio. E però, intanto... Anche se non vede nulla, a Marco sembra che il buio si muova. Che qualcosa, o qualcuno, si muova dentro il buio. La paura cresce. All'improvviso, un punto di fronte a lui è come se diventasse più buio. Più blu. Marco è immobile. Adesso lo sa. Adesso è sicuro. Non è solo. Poi le voci cominciano. 12:17 «Allora, maresciallo?» «Ho sentito l'appuntato Vigiani, che è a Castel d'Aiano da quindici anni. Il bambino si chiama Marco, ha otto anni, e fa la seconda elementare...» «Ottimo». «Ma non è il figlio di Bandini. È suo nipote!» «Cosa?» «È il figlio di suo fratello. E di sua cognata, ovviamente». «Ancora questo fratello. Si può sapere dov'è?»
«È morto». «Ah». «Vigiani ha detto che dopo la morte del fratello, Bandini ha preso in casa con sé la cognata, che era incinta». «E di lui, del nostro Bandini, che mi sa dire?» «Cinquantadue anni, scapolo. Fino a quando non è arrivata la cognata, viveva solo con la madre». «Lavoro?» «È pediatra». «Un medico?» «Sì». «Problemi economici? Problemi personali? Girava qualche voce?» «No. Vigiani dice che a noi non ne sono arrivate... Anzi, sembra che fosse uno stimato da tutti, benvoluto». Pecora raggiunge Masi e il maresciallo Franza. «Ero nella stanza del bambino. Non c'è nessuna traccia di sangue, e nessun segno di colpi d'arma da fuoco. La camera è intatta, il letto non è disfatto. O il bambino dormiva con sua madre, o dormiva con la nonna...» «Il sangue nella stanza della madre di Bandini?» «Abbiamo raccolto i campioni, e anche nella stanza della cognata, però, per il DNA, lo sai anche tu quali sono i tempi...» «No, niente DNA» dice Masi. Si rivolge a Franza: «Bandini dove esercita?» «A Vergato, all'ospedale. Saranno venti chilometri da qui...» «Ha un ambulatorio anche a Castel D'Aiano?» «Sì». «E in paese ci sono altri medici?» «Sì, altri due, credo». «Bene». Masi spiega a Pecora del bambino, del fratello morto di Bandini. «Poi il maresciallo, qui, m'ha appena detto che Bandini è un pediatra. Non sappiamo se segue lui la sua famiglia, o se ha preferito che lo facesse qualcun altro. Tu manda in giro i tuoi: dagli altri medici in paese, all'ambulatorio di Bandini, in ospedale. E guardate anche di sopra, in casa». «Perché di sopra?» «C'è una specie di studiolo. Forse Bandini ci teneva delle carte». «Va bene». «Da qualche parte debbono esserci le cartelle mediche della madre e del-
la cognata di Bandini. E del bambino. Magari ci sono segnati i gruppi sanguigni, e se abbiamo culo bastano per capire se il sangue è solo della suocera, o c'è anche quello del bambino. E visto che mandi qualcuno all'ospedale, vacci anche tu, sequestrate un laboratorio e analizzate i campioni ematici. Così sappiamo a quale, o a quali gruppi sanguigni appartengono...» Pecora fa un sorrisino: «Madonna, ma che è? Hai imparato dalla televisione?» «No, ho avuto un buon maestro...» Anche Masi sorride, ma senza nessuna allegria. «Noi andiamo» dice a Franza. «Mi accompagni alla stazione, voglio sentire Bandini». Prima che esca, ferma Pecora: «E... Carmelo, fa venire qualcuno dal nucleo Cinofili. Iniziamo a cercare il bambino». Il Carbonaio non è un mostro / Il Carbonaio è solo un posto / fa paura la sua voce / stringi subito la croce / quando il buio si fa blu / non gli puoi sfuggire più. Dicono le voci. È una specie di nenia, di canzoncina. Marco Bandini s'irrigidisce. Sente un brivido che gli corre lungo la schiena. «Ma chi c'è?» «Siamo noi, Marco» rispondono le voci. «Chi siete?» «Tu non lo sai chi siamo?» «No...» Marco si gratta di nuovo la faccia, dove gli sembra che degli insetti lo abbiano punto. «Eppure dovesti saperlo...» «No, non lo so». «Sei sicuro?» «Sì... No...» «E la canzoncina? Quella, sai cos'è? Te la ricordi?» Sì, forse sì. Però non so come dirlo. Non è che proprio me la ricordo. Marco ci pensa, ma gli sembra di sentire soltanto un mormorio lontano, un suono che sta là, in fondo alla sua testa. 13:00
Gli spazzaneve stanno passando per le strade principali, e la neve si raduna in cumuli alti, sui lati. Sull'asfalto nero e lucido, però, si posa immediatamente altra neve. Il contrasto tra il nero e il bianco fa risaltare la forma dei singoli fiocchi. Sembrano minuscoli gioielli. Dentro, la stazione dei Carabinieri è silenziosa. I due poliziotti della Mobile che hanno portato Bandini sorseggiano un caffè seduti su una panca di legno. Un appuntato sta battendo a macchina un rapporto. Il ticchettio dei tasti è l'unico rumore. Quando Masi entra, assieme a Franza, l'altro appuntato li saluta: «Maresciallo... Dottore...» Franza fa le presentazioni. È Vigiani, quello che ha dato le informazioni su Bandini e la sua famiglia. «Allora lei li conosceva?» chiede Masi. «Be', Bandini più che altro di vista. Io non ho figli, e il mio medico è un altro. E lui, tra l'ospedale e l'ambulatorio, non stava tanto in giro. Anche sua madre stava quasi sempre in casa, in paese ce la portava Bandini in macchina, per fare spesa. Mila invece la vedevo tutti i giorni. Aveva trovato lavoro al bar qui in piazza, dove vado sempre io... Poveretta, che vita che ha avuto!» «Perché?» «Stava ancora a Bologna... Otto anni fa ha perso la prima figlia. Era una neonata. È stata una di quelle morti... come si dice?» «Una morte in culla». «Sì, ecco». «Poi il marito, appunto. Giorgio Bandini». «Si sa com'è morto?» «Un incidente, è stato investito... E dopo che lui è morto, lei si è accorta di essere incinta». Masi tace. Non sa che dire. «Poi Carlo Bandini le ha chiesto di venire a stare con lui e sua madre» continua Vigiani. «Anche per il bambino. Io pensavo che almeno questa poteva essere una fortuna. Invece guardi com'è finita...» «Vabbè, Vigiani» interviene Franza. «Ma adesso Bandini dove sta? Dove l'abbiamo messo?» Vigiani guarda prima Masi e poi Franza. «Nel suo ufficio, maresciallo». «Come, nel mio ufficio?» «Abbiamo la cella piena. Ieri sera c'è stata una rissa in una discoteca, alla Buca, a Montese. I colleghi hanno fermato più di venti ragazzetti, da lo-
ro non ci stavano tutti, e ce ne hanno portati cinque qui da noi, per gli accertamenti...» Adesso è Masi che interviene: «Bandini ha detto qualcosa?» «No. Cioè io gli ho detto "Ma che ha fatto, dottore?"» «E lui?» «Ha detto "Ho fatto quello che dovevo"». «Ho fatto quello che dovevo?» «Sì, dottore, più o meno...» «E del bambino? Ha detto niente?» «Gliel'ho chiesto anche io: dov'è Marco, cos'era successo, ma lui ha detto che non poteva dirlo. Gli ho chiesto perché e lui ha ripetuto soltanto "Non posso". Ha scosso la testa e poi è stato zitto». «Va bene. Andiamo a sentirlo». Vigiani fa strada, passano per un piccolo corridoio e arrivano di fronte alla porta dell'ufficio di Franza. Sempre Vigiani la apre con una chiave che teneva nella tasca, poi si scosta per far entrare Franza e Masi. Tutti e due, però, rimangono immobili. Bandini è seduto su una sedia di fronte a una scrivania. È a torso nudo. Dietro la scrivania, sul muro, si riconosce un quadrato più chiaro. A terra, c'è uno specchio, avvolto nella maglia che indossava Bandini. Lo specchio è rotto. I frammenti sono sparsi in una pozza di sangue. Bandini s'è tagliato la gola. 13:28 «Ma che cazzo hai fatto, Vigiani?» urla Franza. «Te l'avevo detto degli specchi!» L'appuntato ha il viso rosso, muove gli occhi a destra e a sinistra, non riesce a guardare il suo superiore. «Mi dispiace, maresciallo» balbetta. «Non ho badato allo specchio...» «Non hai sentito niente?» «No, stavo di là» continua a balbettare Vigiani. Indica lo specchio, la maglia. «Quando l'ha rotto non ha fatto rumore...» «Anche voi due!» Masi interrompe Vigiani e si rivolge ai due poliziotti della Mobile che hanno portato alla stazione Bandini, e che sono accorsi davanti all'ufficio. «Adesso cosa ci scrivete nella nota di servizio?» «Ma dottore, era sotto la responsabilità dei colleghi...» Masi fa un gesto di taglio con la mano, e tutti si zittiscono. Non ha voglia di pensare alla montagna di carte che gli toccherà preparare per giusti-
ficare quel disastro. Fissa Bandini, ancora seduto, la testa reclinata all'indietro, il taglio sulla gola. Quando l'ha visto seduto sul divano di casa sua, gli era sembrato stanco, stanchissimo, ma anche tranquillo, calmo. Adesso sul viso di Bandini la stanchezza è scomparsa. Pensa a quello che ha detto all'appuntato Vigiani. Bandini sembra davvero un uomo che doveva compiere un dovere, che era sgradevole, terribile, ma che alla fine ce l'ha fatta. Adesso sul suo viso c'è solo un'espressione di serenità. Nella mano destra stringe ancora la catenina con la medaglietta e l'angelo ricciolino. Masi continua a fissare il cadavere. Oltre al maglione che si è tolto, ha le scarpe senza lacci e i pantaloni senza cintura. Ed è senza orologio. «Dove avete messo le cose di Bandini?» chiede a Vigiani. Vigiani gliele mostra. I lacci delle scarpe, la cintura. C'è anche un portafogli. «Dottore, la catenina non siamo riusciti...» «Be', adesso non importa più. Lasciategliela». Masi prende l'orologio. È fermo alle 5.50. Chiama Pecora sul cellulare. Pecora risponde dopo pochi squilli, con voce affannata. Si sente il rumore di macchine in transito. «Ah, Luca. Stavo per chiamarti io...» «Perché?» «I necrofori sono arrivati e andati. Io ero all'ospedale, a Vergato, ma mi sto muovendo. Stanno per arrivare quelli del nucleo Cinofili, e volevo essere sul posto». «Di già?» «Stavano andando a un'esercitazione programmata nel parco del Corno alle Scale, e li hanno dirottati qui». «Ti raggiungo anche io. Ma lì come siete messi coi campioni ematici?» «Bene. Uno dei miei è rimasto a Castel d'Aiano, è andato all'ambulatorio di Bandini e ha trovato le cartelle. Curava lui la sua famiglia. Noi qui all'ospedale stiamo ricontrollando, ma direi che questa volta, coi gruppi sanguigni, ce l'abbiamo avuto...» «Cosa?» «Culo. Come dicevi tu. Nella stanza della cognata il sangue è solo il suo.
Lo stesso nella stanza della madre». «Del bambino niente?» «Niente». «Però Bandini nella stanza della madre ha sparato tre volte. Può avere sparato al bambino?» «Se l'ha fatto, non l'ha colpito...» «Siamo sempre lì, Carmelo. La stanza l'hai vista anche tu: è impossibile mancare qualcuno, in uno spazio come quello...» «Non so che dirti, Luca...» «No, no. Hai fatto un gran lavoro. E la notizia è buona. Sta di fatto che il bambino ancora non sappiamo dov'è, e cosa gli è successo». «Bandini cosa dice?» Masi tace per un istante. «Luca?» «Il tuo uomo, quello che hai mandato a Castel d'Aiano è ancora in giro?» «Sì, penso di sì». «Fallo venire alla stazione dei Carabinieri, con tutto l'occorrente per i rilievi». «Perché?» «E chiama di nuovo i necrofori». 14:20 I cani sono tre splendidi pastori tedeschi, accompagnati dagli agenti del nucleo, e stanno fiutando al pianterreno della casa. Masi e Pecora si tengono in disparte. «Anche Bandini aveva l'orologio fermo alle 5.50...» sta dicendo Pecora. «Sì... Possibile che anche questo si sia fermato quando ha sparato? Per 'sta cosa delle vibrazioni?» «Posso far portare tutti gli orologi al laboratorio per controllarli». «No, per ora no. Abbiamo altro da fare...» I cani, assieme agli agenti, stanno salendo al piano di sopra. «E Bandini si è suicidato...» dice Pecora. «Già». «Non è così strano». «No. Uomo stermina la sua famiglia e poi si toglie la vita...» «Però?» «Però non sono convinto. Te l'ho detto, medaglietta e specchi a parte, Bandini non m'è sembrato un matto, uno che fa una cosa così. E poi il
bambino dov'è?» «Non l'ha voluto dire, no?» «È questo! A me pare che si sia ammazzato pur di non dirlo». All'improvviso, dal piano di sopra, si sentono i cani che abbaiano e ringhiano. Due cani sono affacciati sulla stanza della madre di Bandini, e abbaiano scoprendo i denti. Gli agenti tentano di farli entrare nella stanza, ma puntano le zampe. L'altro cane sta annusando una maglietta del bambino. Ringhia e si dimena, tira indietro il muso. «Ma che succede?» chiede Masi. «Non lo sappiamo, dottore» risponde l'agente il cui cane sta fiutando la maglietta. «Non hanno mai fatto così. Rispondono ai comandi solo perché ci siamo noi. Cioè, perché in un certo senso li obblighiamo...» I cani continuano a ringhiare e abbaiare. Poi il cane che stava annusando la maglietta si dirige verso le scale. Scende. Tutti lo seguono. Il cane tira l'agente conduttore con forza. Sembra avere fiutato una traccia. Escono dalla casa. Fuori, però, il cane si blocca di colpo. Ringhia ancora più forte, con le fauci piene di bava, e allo stesso tempo guaisce disperato. Anche gli altri due cani ringhiano e abbaiano e guaiscono. I loro fiati si confondono nella neve che scende. «Non hanno mai fatto così» ripete l'agente. I cani continuano a ringhiare. Adesso girano in tondo, frenetici. «Hanno perso la traccia» dice un altro agente. Masi guarda i cani che non smettono di girare in cerchio, su loro stessi. Gli agenti sono costretti a trattenerli. «Cos'è che li agita?» «Forse un odore, dottore» risponde il terzo agente, mentre stringe forte il guinzaglio del suo cane. «Noi non li sentiamo, ma loro...» «Va bene, basta. Magari spostatevi dal perimetro della casa, andate verso le altre abitazioni, o verso il bosco. Vedete se trovate qualcosa». «Cazzo, Carmelo, speravo che i cani servissero...» «Non è detto, Luca, dai, forse trovano qualcosa...» «Ci credo poco». Masi parla a voce bassa, ma il tono è teso. Comincia a sentire il tempo che corre troppo in fretta.
«E comunque quel bambino è da qualche parte ormai da ore!» «Ragioniamo, va bene?» Masi fissa Pecora per un istante. Sospira. «Va bene». «E bravo Luca! Allora, sappiamo che Bandini ha ammazzato sua madre e sua cognata alle 5.50, giusto?» «Giusto». «Diciamo che i vicini non hanno chiamato subito, diciamo che hanno chiamato dieci minuti dopo... Sai, non erano sicuri di avere sentito bene, se erano spari o che, le solite cose... Franza e i suoi sono arrivati più o meno alle sei e mezzo, sei e trequarti, e il bambino già non c'era più». «Sì, Carmelo, questo lo so anche io...» «Aspetta, buono. Quello che voglio dire, è che Bandini può aver portato via suo nipote prima di mettersi a sparare, e se è così, può averlo portato ovunque. Ma se l'ha portato via dopo, ha avuto al massimo tre quarti d'ora per andare e tornare, dato che poi Franza l'ha trovato bello seduto sul divano col fucile in mano. E in mezz'ora non può averlo portato lontanissimo... Possiamo prendere una piantina della zona e metterci a fare calcoli. Quanta distanza può avere coperto Bandini, se era a piedi o in macchina...» «Ecco, neanche questo sappiamo! No, stavolta così non funziona. Non è che diamo la caccia a un latitante... E poi, se ti guardi attorno, cosa vedi?» «Cosa vedo?» «La neve. Un sacco di neve, Carmelo. Ormai sono più di dodici ore che nevica fitto. Forse, se ci fossimo messi a cercare il bambino subito, appena è arrivato Franza, o almeno appena siamo arrivati noi...» Sul viso di Masi c'è una smorfia di frustrazione. «Adesso potrebbe essere a un metro da qui e non lo troveremmo!» «Allora che si fa?» «Non lo so... Di sicuro dobbiamo saperne di più, di tutta questa storia. Dobbiamo capire perché Bandini ha ammazzato sua madre e sua cognata, e ha portato via il bambino. Forse, se capiamo il perche, lo troviamo...» Il cellulare che suona è il suo. Masi risponde. È il maresciallo Franza. «Mi scusi, dottore, ma è venuta qui in stazione la maestra di Marco Bandini. Ha saputo cos'è successo, e chiedeva se poteva fare qualcosa...» «Dov'è adesso?» «È tornata a scuola. Sa, anche con la neve alcuni bambini sono andati...»
15:03 La scuola è un cubo di cemento con le porte e le finestre colorate. Deve risalire agli anni Settanta. Deve essere l'intervallo, o forse le lezioni sono già finite. Davanti all'entrata alcuni bambini si lanciano palle di neve. Masi ricorda molto bene quelle battaglie, quando andava a scuola al suo paese. Dopo, in classe, si sentiva i piedi fradici dentro le scarpe, e le guance e il naso rossi, che quasi bruciavano. Più tardi, quando tornava a casa, restava a guardare la neve che cadeva, dalla finestra della sua stanza, con la luce del pomeriggio che diventava sempre più scura. Le altre case, le altre colline, i boschi. Tutto sembrava galleggiare e svanire tra la neve e quella luce incerta. Lui si sentiva in pace, senza pensieri, al sicuro. Poi, prima di dormire - anche se aveva già sei o sette anni, e voleva essere grande - qualche volta si metteva a pensare allo stravento. Faceva paura, ma lo faceva anche affondare di più sotto le coperte, al caldo. La maestra di Marco Bandini si chiama Annalisa Conti. Ha poco più di trent'anni, ed è una bella ragazza minuta e sorridente. Ha ricevuto Masi in un'aula vuota. Ci sono solo la cattedra, la lavagna e due file di piccoli banchi e sedie. Da fuori si sentono le voci smorzate dei bambini che continuano a giocare. «Quando l'ho saputo, non ci volevo credere...» sta dicendo la maestra, un po' emozionata, confusa. «Lo so che si dice sempre così...» Masi tenta di metterla a suo agio: «Già. E nessuno "avrebbe mai immaginato che". E in parte è vero. Nessuno immagina, nessuno si accorge di niente. Ma spesso ci accorgiamo di un sacco di cose, specie se ci sono vicine, solo che non ci diamo importanza». «Ma io davvero non saprei cosa... Cioè, vorrei esservi utile, però...» «Marco, mi parli di Marco». Gli occhi della maestra per un istante si illuminano. «Oh, sì. Un bambino dolce, tranquillo, intelligente. Non ha mai creato problemi». «Mai?» «Mai». «Non ha mai detto niente di particolare sulla sua famiglia, su suo zio?» «No. A me sembrava che andasse tutto bene. Quando c'erano i ricevimenti, assieme a sua madre spesso veniva anche lo zio. Qualche volta lo accompagnava lui a scuola, o lo veniva a prendere...»
«Insomma mai niente di strano?» «No, no...» La maestra stringe le labbra tra i denti. Si sta sforzando di pensare. «L'unica cosa è che ultimamente non stava tanto bene...» «Cioè?» «Fisicamente. A volte aveva qualche linea di febbre. Aveva sempre le occhiaie. Sembrava sempre stanco. È stato anche assente, una settimana circa. Ma era già successo anche ad altri due bambini, qui a scuola. Uno in classe con Marco, uno in un'altra. Pensavamo a una qualche forma d'influenza... Non ci siamo preoccupati troppo. C'era suo zio. È pediatra, lo sa, vero?» «Sì». «Ho sentito sua madre e m'ha detto che suo zio forse lo portava con sé a Vergato, all'ospedale, per fare qualche esame...» «Poi?» «Poi niente. Marco è tornato a scuola e sembrava tutto a posto. Appena due giorni fa... E invece adesso è stato portato via, o...» La maestra scoppia a piangere e si copre il viso con le mani. Marco Bandini non si muove, non s'è ancora mosso. Solo ogni tanto continua a grattarsi la faccia, dove gli sembra che degli insetti l'abbiano punto. Per il resto, sta immobile. Ci sono soltanto il buio, il blu, e le voci che parlano. «Allora un po' ti ricordi? Di noi? Della canzoncina?» «Forse...» «Molto bene, Marco». In effetti Marco Bandini pensa che un po' comincia a ricordarsi. Cioè, gli sembra che quel mormorio lontano che sente in fondo alla testa sta crescendo. Se aspetto, prima o poi mi ricordo... «Sì, ma voi cosa volete?» «Noi? Niente... Tu, invece, cosa vuoi?» «Non lo so. Io... Vorrei uscire da qui». «Perché?» «Perché non mi piace». «E perché non ti piace?» «Perché non so dove sono». «Non lo sai?» «No».
«No?» «No! E poi qui è...» «Buio?» «Sì, è buio. Il blu è buio». «E non ti piace il blu buio?» «No... Non lo so». «Mamma mia, Marco, quante cose che non sai...» «Forse non è vero che il blu buio non mi piace...» «Ecco, lo dicevamo noi! In fondo si sta bene, nel blu buio, no? È morbido, ti tiene stretto, ti protegge. Non c'è da avere paura...» 15:31 Ha rimandato i due della Mobile alla casa di Bandini. Dalla scuola è venuto a piedi, e ora si strofina le mani per scaldarle. Alla stazione dei Carabinieri, Masi è seduto di fronte al maresciallo Franza. I necrofori hanno già rimosso il corpo di Bandini. A lui hanno lasciato una pila di carte che deve firmare, e per un attimo Masi pensa di nuovo a tutte quelle che dovrà compilare per il suicidio. Vigiani, con gli occhi bassi, senza guardarlo, gli chiede se vuole un caffè. Come tutti, da quando è arrivato non si è fermato un minuto, ma Masi rifiuta. Sta parlando al telefono con Pecora, che è ancora alla casa, assieme a quelli del nucleo Cinofili. «Si stanno spostando dal perimetro?» «Sì». «E?» «Niente, Luca. Faranno altri giri, però...» Masi la sente la delusione nella voce di Pecora. «Eh, Carmelo... A volte a sbagliarsi si sarebbe più felici! Qui, però, c'è qualcos'altro...» «Cosa?» «La maestra del bambino m'ha detto che negli ultimi tempi non stava tanto bene e che era andato a fare degli esami. Voi, nell'ambulatorio di Bandini e in ospedale, che avete trovato?» «Non c'abbiamo guardato. In ambulatorio abbiamo controllato solo i gruppi sanguigni, e in ospedale, in pratica, abbiamo soltanto requisito il laboratorio per fare gli esami dei campioni ematici...» «Allora ricontrolla le cartelle cliniche. Le hai lì?»
«Si, le abbiamo prese». «Vedi se Bandini ha annotato cos'aveva suo nipote». Masi guarda Franza, sempre tenendo in mano il telefono. «Lei, maresciallo, può portarmi direttamente a Vergato?» 15:59 Il ritmo dei tergicristalli che spazzano la neve è quasi ipnotico, e il maresciallo Franza guida piano, dolcemente, per non fare slittare la macchina. Luca Masi sente le palpebre pesanti, sente ora la stanchezza che gli inchioda la schiena, le braccia e le gambe al sedile. Fuori dal finestrino vede scorrere le colline, i tetti delle poche case imbiancati, qualche anziano che spala la neve da un vialetto d'ingresso, poi di nuovo solo colline e campi. È tutto bianco. E nonostante l'ora, la luce comincia già a scendere. Poi il suo cellulare suona, e lui sbatte le palpebre, risponde. È Pecora: «Ho guardato la scheda del bambino. Bandini aveva preso solo un appunto. Possibili disturbi del sonno. Con molti punti interrogativi dopo». 17:04 L'ospedale di Vergato è piccolo, ma curato, pulito. Dentro ci sono poche persone, e l'aria ha un odore leggero di disinfettante. Spostandosi nei corridoi i passi rimbombano. Il medico che li riceve è giovane, coi capelli ricci e rossi, gli occhi svegli. «Sì, abbiamo fatto degli esami a Marco Bandini. L'aveva portato Carlo... cioè, suo zio. Sangue, urine, elettrocardiogramma, elettroencefalogramma...» «Lei lavorava con Bandini, qui?» lo interrompe Masi. «Sì». «E sa cos'è successo?» Il giovane medico arrossisce. «Sì». «E com'era Bandini al lavoro?» «Perfetto. Attento, scrupoloso, gentile con i pazienti...» Il giovane medico fa una breve pausa. «Davvero. Non dico tanto per dire». «Anche nell'ultimo periodo?» «Sì». «Mi scusi» continua Masi «sono le solite domande che si fanno in questi
casi. Quindi tutto come al solito?» «Sì, credo di sì... Insomma, si vedeva che un po' era preoccupato per Marco...» «Preoccupato?» «Sì. Si era messo anche a rileggersi testi sui disturbi del sonno. Cause fisiologiche, psicosomatiche...» «Allora era a questo che pensava?» «Sì». «Ma gli esami che dicevano?» «Tutti normali. Tranne l'elettroencefalogramma. C'erano alcune irregolarità nel tracciato». «Cioè?» chiede Masi. «Oh, niente di allarmante. Succede, a volte, se il soggetto non dorme bene». «E per fare questi esami l'avete tenuto qui quasi una settimana?» «Una settimana? No, qui è rimasto solo un giorno. Dopo Carlo l'ha portato alla pediatria del Sant'Orsola, a Bologna. Per me non era necessario, ma lui insisteva...» Masi e Franza si scambiano un'occhiata. Sono ancora all'interno dell'ospedale. L'altro medico, quello del Sant'Orsola che ha seguito Marco Bandini, si chiama De Nicola. Sono riusciti a trovarlo al volo prima che smontasse dal suo turno. Masi gli ha spiegato a grandi linee cosa sta succedendo, senza entrare troppo nei dettagli. «Insomma» gli sta chiedendo ora, al telefono «avete riscontrato le stesse anomalie nell'elettroencefalogramma che avevano visto qui, a Vergato?» «Sì». «E poi?» «L'abbiamo tenuto in osservazione. Più che altro per tranquillizzare Bandini... Sa, quando il parente è un altro medico, è sempre più difficile». «Suo zio...» «Sì. C'è sempre stato lui col bambino». «Solo lui? E la madre? Qualche altro parente?» «No, solo Bandini. Anzi...» «Cosa?» «Non so se conta, ma una volta stava discutendo al telefono, a voce alta. Io ero in reparto e l'ho pregato di fare piano, avrebbe dovuto saperlo anche lui... Comunque, stava discutendo con sua moglie, credo, la chiamava per
nome... Da quello che ho capito lei non era d'accordo che il bambino rimanesse in ospedale». Masi di nuovo scambia un'occhiata con Franza. «Sì, ma il bambino, poi?» «Niente. Dopo due giorni che era qui l'elettroencefalogramma si è normalizzato. Da solo. Noi non abbiamo fatto praticamente nulla. Il bambino dormiva regolarmente. Abbiamo aspettato altri due giorni, e alla fine l'abbiamo rimandato a casa». 19:18 Stanno ritornando verso Castel D'Aiano. Nonostante gli spazzaneve abbiano continuato a passare, la neve si sta sempre più accumulando sulle strade, e Franza è costretto a guidare ancora più lentamente che all'andata. Ora, poi, è anche buio. Di nuovo Masi sta guardando fuori dal finestrino, il cielo buio e compatto, la neve che sfarfalla alla luce dei fari. Adesso, però, non è assorto. Anzi, guarda l'orologio per un istante, parla rapido, concitato: «Tra andata e ritorno e chiacchiere ci abbiamo perso quasi tre ore con gli ospedali. Però almeno abbiamo saputo qualcosa». Franza gli lancia un'occhiata, poi torna a fissare la strada. «Voglio dire: non le sembra strano, maresciallo? Bandini porta suo nipote con sé a Vergato, sempre Bandini lo porta a Bologna, e poi resta con lui tutto il tempo. E sua cognata, cioè la madre? La madre non va a trovare il bambino? No, non ci va. Anzi, discute al telefono con Bandini, perché è chiaro che Bandini non stava parlando con nessuna moglie... A quanto pare sua cognata non vuole nemmeno che suo figlio ci stia, in ospedale...» «Sì, è strano, dottore. Però forse davvero il bambino non aveva nulla. Forse la cognata era irritata con Bandini perché pensava stesse esagerando». «Ma Bandini è preoccupato, ed è un medico. E di solito sono i medici a non preoccuparsi. Ma in ogni caso, la cognata non va a trovare suo figlio nemmeno una volta?» Per un momento nessuno dei due parla. Poi Franza chiede: «Comunque adesso che si fa?» Masi guarda ancora l'orologio. «Lei sa dove abita la maestra del bambino?» «Io, però, non lo so perché siamo qui» dice Marco Bandini. Ancora non
si muove, ma non sta male. No, non sto male. Se solo la faccia non mi facesse così prurito... «No? E non sai neanche chi ti ha portato?» No, questo proprio non me lo ricordo, non lo so. «No». «È stato tuo zio». «Ma perché?» «Ah, Marco, non possiamo dirti tutto noi...» «Però siete qui anche voi...» «Sì, siamo qui. Con te. Noi siamo sempre con te». 20:33 La casa della maestra di Marco Bandini è al centro del paese. Una palazzina moderna, su due piani, poco lontana sia dalla scuola che dalla stazione dei Carabinieri. All'interno, il salotto è piccolo e accogliente. L'unica luce accesa è quella di una abat-jour, su un tavolino di legno. Le pareti sono occupate da librerie, quadri e foto. Nell'aria c'è odore di cibo. Masi si muove per la stanza, non riesce a stare fermo, fa scorrere un dito sul dorso dei libri, Miti e leggende dell'Appennino, Tradizioni della collina, La Natura e... Osserva i quadri, le foto. «Mi dispiace di averla disturbata qui a casa, a quest'ora, forse stava cenando...» dice alla maestra «ma ho bisogno di sapere se il bambino, quand'è tornato a scuola, ha detto qualcosa sul periodo passato in ospedale, o su suo zio, o...» «Non si preoccupi, ho cucinato qualcosa, ma non riesco a mangiare...» Masi annuisce. Anche lui non ha mangiato nulla. Non c'ha neppure pensato. La maestra si è seduta su una poltroncina ricoperta da un tessuto a fiorellini gialli e blu. Tiene le mani strette sulle ginocchia, un po' rannicchiata. In quella posizione sembra ancora più minuta: «Comunque, no. Marco non ha detto niente. Sembrava solo stare bene... Meglio...» Masi osserva di nuovo le fotografie appese al muro. In una di queste riconosce l'aula dove è stato quel pomeriggio, e Marco, con un vestito tipo costume da renna di Babbo Natale. Si volta verso la maestra. Lei se ne accorge, si alza dalla poltroncina a fiori.
«È stata la recita del Natale scorso. Tutta la scuola». «E lei ha tenuto la foto?» «Sì. È stata una festa bellissima. Abbiamo fatto anche un video...» «Ha anche quello, qui?» «Sì. Vuole vederlo?» «Sì. Io...» «Cosa?» «Io non ci sto capendo nulla di questa famiglia...» Masi per un istante abbassa lo sguardo. La maestra prende da una libreria una videocassetta e la inserisce nel videoregistratore collegato a un televisore, in un angolo del salotto, in basso su una mensolina. «È pronto?» «Sì». Le immagini mostrano un gruppo di bambini di prima, seconda e terza elementare, disposti su tre file. Quelli della prima fila, più in alto, evidentemente debbono stare in piedi su delle sedie, o sui banchi. Nella fila in basso, quasi al centro, c'è Marco Bandini, col suo costume da renna. Gli altri sono vestiti da Babbo Natale, elfi, pacchetti regalo giganti... Masi è inginocchiato davanti al televisore, con la maestra alle sue spalle. «Vede? Lì c'è Marco. Stanno cantando...» dice la maestra. Jingle Bells. Stanno cantando Jingle Bells. Masi osserva il video. Poi nota che... «Può fermare il video e farlo tornare indietro?» chiede alla maestra. Lei stoppa il nastro e riavvolge. La sequenza riparte. «Può rallentare?» chiede ancora Masi. Ora la sequenza scorre a una velocità dimezzata. Masi segue il labiale di Marco Bandini e sillaba: Il Carbonaio non è un mostro, il Carbonaio è solo un posto... E non è solo lui. Anche altri due bambini stanno cantando quel ritornello, anziché Jingle Bells. «Cosa stanno cantando?» «Come?» chiede la maestra. «Marco Bandini. Non sta cantando Jingle Bells. Sta cantando qualcos'altro. E anche questi altri due». Masi indica gli altri due bambini sul video. La maestra di nuovo riavvolge e riavvia il nastro a velocità dimezzata. Ora segue pure lei il labiale del bambino. «Il Carbonaio non è un mostro / Il Carbonaio è solo un posto / fa paura
la sua voce / stringi subito la croce / quando il buio si fa blu / non gli puoi sfuggire più» recita la maestra con voce monotona. «Cos'è?» La maestra fa una smorfia veloce. Sembra indecisa, almeno per un secondo: «È una vecchia canzoncina». «Una canzoncina?» «Sì... È molto antica». «Ma è terribile. È... spaventosa!» La maestra di nuovo fa una smorfia. «Che c'è?» chiede Masi. «È che quelli come lei non capiscono. Oppure si mettono a ridere». «Perché quelli come me?» «Lei di dov'è?» «Castelnovo. Sugli Appennini reggiani. Un posto quasi identico a questo». «Lo immaginavo...» «Lo immaginava?» «Sì. Si vede che lei è uno di collina, di montagna. Però giurerei che ha studiato altrove. Giusto?» «Sì, a Bologna. Ma lei come fa a sapere certe cose? Voglio dire, la canzoncina antica?» «Anche io ho studiato fuori. Poi però sono tornata. Ho scelto». «Io torno a trovare i miei al paese al massimo una volta al mese...» «Infatti. Io no. Io ho deciso di stare qui. Mi sono messa anche a studiare la storia locale, le tradizioni, il folclore, le leggende». La maestra fa un cenno verso la libreria. «Era... È bello. Ogni tanto faccio pure da guida turistica per la Pro loco. Porto qualche turista a funghi nei boschi, faccio escursioni per i sentieri, faccio visitare le rocche...» «Va bene, ma la filastrocca, la canzoncina?» «Senta... Dottore? Dovrei chiamarla così?» «Mi chiamano così. Io, però, mi chiamo Luca. Luca» rivolge un dito verso di sé e poi verso la maestra «e Annalisa...» «Allora, Luca... È solo una canzoncina. Spaventosa fin che vuoi. Ma hai presente le favole? Cappuccetto Rosso? Hansel e Gretel?» «Sì». «E non sono orribili?» «Sì... In un certo senso». «Be', questa canzoncina è uguale. E poi la nonna di Marco era... una sta-
riona...» «Cos'era?» «Oh, andiamo... montanaro diventato cittadino...» Annalisa sembra prenderlo un po' in giro. «Una stariona! Una guaritrice, una mezza maga... I più vecchi in paese dicono che viene da un'intera famiglia di...» Anche senza volere Masi fa un sorriso sarcastico. «Vedi che stai ridendo!» «No, scusa, Annalisa, non volevo». «Sì, sì, certo...» Annalisa sembra offesa. «Ok, una stariona, la canzoncina antica... Ma perché il bambino stava cantando quella anziché la canzone di Natale?» Annalisa lo fissa con uno sguardo freddo, ritirato. «Non lo so». «E gli altri due bambini?» «Neanche loro so perché la cantavano». Masi ha notato il cambiamento d'umore della maestra. «Le... Ti sto facendo perdere tempo?» Annalisa accenna un sorriso tirato. «No, no, figurati». Ora è Masi che la fissa. «Bene... Quello che volevo dire è, se gli altri due bambini hanno anche loro una nonna stariona...» «No. Non che io sappia». «Allora come fanno a conoscere la canzoncina?» «È una scuola piccola, questa. Forse l'hanno sentita da Marco e l'hanno copiato. Succede, coi bambini. Uno dei due poi era...» «A proposito» l'interrompe Masi «come si chiamano i due bambini?» «Simone Saudati, che stava in classe con Marco. E Davide Bricco, di quarta». «Ti ringrazio». Masi segna in fretta i nomi su un foglietto. Poi va verso la porta, fa per andarsene. All'ultimo, però, si ferma, si volta. Annalisa è ancora in piedi accanto al videoregistratore, immobile. Da lì, dalla porta, è in controluce rispetto all'abat-jour, una sagoma scura. «Senti, ma... la canzoncina. Vuol dire qualcosa? Il Carbonaio è solo un posto... Quando il buio si fa blu...» Annalisa non si sposta, non si muove. «Niente, non vuol dire niente».
«Niente?» «No. È solo una canzoncina sul babau, sull'uomo nero, chiamalo come vuoi. A te da piccolo non ti raccontavano le storie di paura?» Masi ripensa ai suoi vecchi, al suo paese. Allo stravento. «Sì». «E secondo te perché si raccontano queste storie ai bambini?» «Non ne ho idea». Adesso Annalisa fa un passo avanti, esce dall'ombra. «Per fargliela passare, la paura». 22:00 Masi osserva gli agenti del nucleo Cinofili che rientrano da un'altra perlustrazione nei boschi attorno alla casa di Bandini. Portano lunghe torce nere che illuminano a sprazzi lo spazio davanti alla casa e i loro visi. Non ha nemmeno bisogno di chiedere, per sapere che di nuovo non hanno trovato nulla, basta guardarli. «Potremmo coinvolgere la Guardia forestale, per una ricerca più estesa» suggerisce il maresciallo Franza, che ha riportato Masi a casa di Bandini. «Sì». «E forse potrei radunare anche un po' di persone in paese, in fondo sono pratici del posto. Possono prendere anche loro delle torce. Lo so che non è molto professionale, ma...» «No, no, va bene, maresciallo. Le tentiamo tutte. Se ne occupa lei?» «Certo, dottore. Torno alla stazione a fare qualche telefonata». Il maresciallo risale sulla gazzella. Masi rientra in casa. È stanco, molto stanco. Si scuote la neve dai capelli. Dalla mattina non ha smesso di nevicare neppure per un minuto. Pecora e i suoi sono fermi al centro del salotto. Hanno aspettato, assieme a lui, l'ultima battuta di quelli del nucleo Cinofili. Adesso hanno un'aria smarrita, impotente. E anche loro sono sfiniti. I Cinofili spariscono coi loro cani in cucina, per farli bere e mangiare. Masi si siede sul divano dove stava seduto Bandini, col fucile in mano. Si sfrega la faccia con le mani. Chiude gli occhi. Quando li riapre, Pecora è davanti a lui, con in mano una tazza fumante di caffè, e qualche biscotto. «Abbiamo preparato qualcosa... stavamo dormendo in piedi». Stavolta Masi accetta il caffè. Prende la tazza e beve un sorso. Pecora gli allunga i biscotti, ma Masi scuote la testa. «Eddai, Luca, mica è una pasta con le sarde... Due biscotti, non hai
mangiato niente». Masi scuote ancora la testa. «No. Ma grazie!» «Come vuole lei, dottore... Capo!» Pecora mette via i biscotti e anche lui si siede. «Allora?» Masi gli spiega dell'ospedale, dei disturbi del bambino. Poi gli racconta del video che ha visto a casa della maestra, della canzoncina che cantavano Marco e gli altri due bambini. «Madonna, belle cose gli insegnava la nonna, a 'sto bambino!» dice Pecora. «Già! E sai che c'è? Non smetto di pensarci...» «Alla canzoncina?» «Sì». Masi beve un altro sorso di caffè. Tiene la tazza stretta con tutte e due le mani. Forse non doveva sedersi, doveva restare in movimento. Si sente sempre più stanco. «Io le sentivo in paese, storie così... Quando tira lo stravento sono le notti dello spavento...» «E poi?» «Mah, non me lo ricordo bene. Forse era che se uscivi in quelle notti lì poi non tornavi più... Una cosa così... Non c'era l'uomo nero, ma il concetto era quello». «Be', anche tu non è che sentivi storielle tranquillizzanti...» «No. Ma se ci pensi tutte le storie, le leggende, le superstizioni sono più o meno uguali. E la cosa buffa è che quando te le raccontano, queste storie, anche se sei piccolo, è impossibile crederci, no? Però allo stesso tempo è impossibile non crederci del tutto. Poi cresci e te le dimentichi...» Masi resta in silenzio per un momento. Beve ancora caffè, portando la tazza alla bocca lentamente. Gli sembra d'avere la testa pesantissima, quasi da non riuscire a tenerla dritta, e contemporaneamente leggera, staccata dal collo e dal corpo. Non guarda Pecora, ha lo sguardo opaco, e fissa il nulla davanti a sé. «In ogni caso» dice Pecora «col bambino qualcosa che non andava c'era...» «Be', c'erano questi disturbi del sonno. Che non si sa da dove venivano. Che spariscono da soli...» «O forse era suo zio». «Cosa?» «Ci sono persone che si convincono che i figli, o i parenti, siano amma-
lati. È una patologia. L'hai detto tu che Bandini insisteva coi suoi colleghi che facessero più esami, che la cognata, invece...» «Giriamo sempre attorno a 'sto punto, Carmelo. Pure per Franza. Per lui forse la cognata non è andata a trovare il figlio solo perché pensava che Bandini esagerasse. Ma non ci sta, lo dicevo anche al maresciallo. Lo sai com'è con i dottori, no?» «Cioè?» «Tu vai da un dottore con un male che ti sembra di morire e quelli ti dicono che non è niente, una sciocchezza, che non c'è da preoccuparsi. Minimizzano sempre». «Sì, ho capito, ma che c'entra? Anche i medici vanno fuori di testa». «Eh, se è così, va tutto bene. Se Bandini era un matto. Allora è stato solo un raptus. O davvero si era fissato su chissaché, era ossessionato e decide di risolvere il problema radicalmente: ammazza la cognata e sua madre, e ammazza, o fa sparire, il bambino. Ma io ti ripeto che a me non è sembrato uno così. Anche con gli specchi rotti e tutto. E se vuoi, puoi vedere la cosa anche al contrario: Bandini prende in casa con sé la cognata e il bambino, poi si occupa del bambino come se fosse suo, ed è lui che lo porta in ospedale, è lui che si preoccupa, è lui che gli resta vicino...» S'interrompe, Masi. Per un attimo lo sguardo si riaccende. Si volta verso Pecora. È un pensiero rapido... «E se fosse davvero l'opposto, Carmelo?» «L'opposto?» «E se il problema non fosse Bandini? Cioè, quello che sappiamo è che il bambino stava male, quando era a casa, poi in ospedale stava bene...» «Lontano dalla madre e dalla nonna?» «Esatto!» «Certo, con le storie che gli raccontavano...» «La maestra dice che ai bambini si raccontano storie di paura per fargliela passare». «Se lo dice lei... In ogni caso, con questa cosa che sappiamo, che ci facciamo, Luca?» Masi sta per dire qualcosa, ma si blocca. Di colpo la consapevolezza lo stordisce. Torna a voltarsi, lo sguardo di nuovo opaco fisso sul nulla. «Niente» dice. Guarda ancora gli uomini della Scientifica in piedi al centro del salotto. Sono passate quasi sedici ore da quando il bambino è scomparso.
Masi posa la tazza del caffè e si alza dal divano. Fuori il cielo è nero e la neve scende. «Franza vuole far intervenire la Forestale e radunate un po' di gente del paese... Carmelo, perché tu e i tuoi non tornate a Bologna? Io resto con i due della Mobile, tanto qui, senza luce, non c'è molto altro da fare. Coi Cinofili possiamo riprendere domattina». Pecora, per un attimo, squadra Masi. Masi sa molto bene perché: qualsiasi altro sostituto procuratore sarebbe tornato da un pezzo in ufficio. Sicuramente non sarebbe lì, adesso, a cercare di convincere gli altri ad andarsene. "Tu non dovevi fare il magistrato" gli ha detto una volta Pecora. "Il poliziotto dovevi fare, direttamente!" "È che a solo pensare di sparare mi cago addosso Carmelo" aveva risposto Masi. "Ma io mica ho mai sparato a nessuno". "Sì, uguale. Ma lo stesso non c'ho il fisico, Carmelo. Non come te..." Pecora l'aveva mandato affanculo e avevano riso assieme. Meglio così: che uno facesse il poliziotto e l'altro il magistrato. «E perché tu resti?» «Perché...» «Perché 'sto bambino vogliamo trovarlo, no?» Masi fa un sorriso sconfitto. «Andiamo, Luca! Lo so anche io quanto tempo è passato, e quello che non abbiamo in mano...» Avere Pecora lì in questo momento lo conforta, quasi lo commuove, ma queste sono cose che non si possono dire, nemmeno tra amici. E poi, comunque, non serve. «Carmelo, io non so più che...» «Cerchiamo ancora!» dice Pecora indicando tutta la casa. «Cerchiamo cosa?» «Qualcosa!» «Avete guardato dappertutto?» «Sì». «Anche nella stanza di Bandini?» «Sì». «E nello studiolo di sopra?» «No, lì no. Avevamo già trovato le cartelle cliniche all'ambulatorio...»
Masi si strofina nuovamente la faccia. Dondola la testa sul collo, che scricchiola. Poi fa un sospiro. «Allora ricominciamo da lì. Cerchiamo!» dice. È stato zitto per un po', Marco Bandini. Voleva... pensare! C'era quel mormorio in fondo alla sua testa che cresceva, ma anche che scappava via. Come tenere della sabbia tra le dita. Doveva concentrarsi. Anche la voce per un po' non ha parlato. Adesso mi sembra che mi ricordo. Insomma, non tutto tutto, ma almeno... «La canzoncina che cantavi prima...» «Sì?» «Me la cantava sempre la mia nonna, prima di dormire...» «Sì». «Ma tu come fai a conoscerla?» «Oh, l'ho sentita tante volte!» «Ma... da mia nonna?» «Sì». «Ma eri lì?» «Te l'ho detto, Marco, io sono sempre con te». Marco si gratta di nuovo lo stomaco. «Ma io non ti vedevo?» «Anche adesso non mi vedi, però ci sono, giusto?» «Sì». 22:51 Sono disegni, tre disegni. Stavano nell'ultimo cassetto della scrivania nello studiolo. In tutti e tre i disegni è raffigurata una forma indefinita: teste, centinaia di teste di bambini raggruppate in grappoli, gli occhi fissi, le bocche spalancate. Sotto i disegni, ai margini dei fogli, tre scritte, tre firme: Simone Saudati, Davide Bricco, Marco Bandini. «Ma cos'è 'sta roba?» dice Pecora. Masi controlla il foglietto su cui si era scritto - a casa della maestra - i nomi dei bambini che cantavano la strana canzoncina. Lo fa vedere a Pecora. «Sono gli stessi, Carmelo».
Sotto i tre disegni, c'è un altro foglio, una specie di schema, scritto da Bandini. Simone Saudati-8 anni-disturbi del sonno-disegno —> Francesco Saudati-4 mesi-Morte in culla. Davide Bricco-9 anni-disturbi del sonno-disegno —> Andrea Bricco-3 mesi-Morte in culla. Marco Bandini-8 anni-disturbi del sonno-disegno —> Sara Bandini-6 mesi-Morte in culla. «Alla faccia della canzoncina e dei disturbi del sonno!» dice Pecora. «Questi disegnavano mostri... Alien, disegnavano!» «Già. E Bandini si era segnato tutto. Compreso il fatto che tutti e tre i bambini avevano avuto un fratellino o una sorellina morti di morte improvvisa nella culla. Probabilmente era lui che li seguiva. Sia i più grandi che i neonati». «E i tre bambini stavano tutti nella stessa scuola?» «Sì. Marco e Davide nella stessa classe». «Cioè, ci sono tre bambini che non stanno bene, tutti e tre nella stessa scuola, tutti e tre hanno avuto una morte in culla a casa, praticamente un'epidemia, e la maestra non t'ha detto niente?» «No». «Ah, bene!» Pecora sfoglia ancora i disegni e la tabella di Bandini. «Sai che c'è, Luca? Forse Bandini non era matto, ma qui, matti, ci diventiamo noi... C'abbiamo uno, un medico tranquillo e stimato, che fa fuori sua madre e sua cognata, fa sparire suo nipote - sempre che non abbia ammazzato pure lui - rompe a pugni gli specchi di casa, si tiene stretta una medaglietta come se fosse la Sacra Sindone, e poi si suicida tagliandosi la gola sempre con uno specchio rotto. E poi - tanto perché se no non ci divertiamo - suo nipote - quello fatto sparire o ucciso - ha dei disturbi del sonno, disegna mostri e la sua sorellina di sei mesi è morta in culla. E come lui, altri due bambini della scuola, non dormono, disegnano Alien, avevano...» «Lo so». «Ma come stanno assieme, tutte 'ste cose?»
«Questo non lo so». «Quindi?» «Quindi, intanto, ci ripassiamo tutte le altre stanze». Il bagno: niente. La stanza della madre: niente. La stanza della cognata: niente. Poi, nella stanza del bambino: altri disegni. Stavano in mezzo alle pagine di un libro di scuola. Nei disegni si vede un buco, una sorta di grotta dentro a un bosco. Sia Masi che Pecora fissano i fogli. «Secondo te» chiede Masi a Pecora «Bandini può avere visto anche questi, di disegni?» «Nello schema che ha trascritto sembrava che si riferisse solo ai disegni di Alien... Però sì, può averli visti. Perché?» «Mettiamo che Bandini non abbia ucciso suo nipote» dice Masi. «Mettiamo che l'abbia portato via. Può averlo fatto con la forza. O può averlo convinto a seguirlo in un posto che anche il bambino conosceva...» «Come questo» dice Pecora indicando i disegni. «Sì». «Vuoi cercare questo posto? Un buco in mezzo a un bosco? Di notte?» «Sì. Non ci perdiamo niente». «Cosa facciamo, sentiamo se il maresciallo ha un'idea di dove possa essere questo buco?» «No, l'ha detto lui, è qui da poco». «Allora da chi andiamo?» «Eh... Così le facciamo anche qualche altra domandina... Andiamo dalla nostra cara maestra». 00:40 Nel salottino l'unica luce accesa è sempre quella dell'abat-jour sul tavolo di legno. Annalisa indossa una tuta e una felpa, ma non ha l'aria assonnata. Quando hanno suonato il campanello doveva essere ancora sveglia. Lei si è seduta di nuovo sulla poltrona a fiori. Masi e Pecora rimangono in piedi. «Perché non ci hai detto che Marco e gli altri due bambini che nel video cantavano la canzoncina hanno avuto un fratellino o una sorellina deceduti a causa di una morte improvvisa nella culla?» chiede Masi ad Annalisa.
«La sorellina di Marco è morta prima che lui nascesse...» «Sì, lo so. Ma gli altri due bambini?» Masi riprende il foglietto con segnati i nomi. «Simone Saudati e Davide Bricco... I loro fratellini non sono morti tanto tempo fa». «No». Masi passa ad Annalisa lo schema che aveva scritto Bandini. «Tutti e tre i bambini erano nella tua scuola, tutti e tre i bambini hanno avuto in casa una morte in culla - una percentuale incredibile - tutti e tre i bambini - e solo loro tre - cantano una canzoncina spaventosa. Poi lo zio di uno di loro fa fuori tutta la famiglia e fa sparire suo nipote. Non ti è sembrato almeno un po' strano?» Annalisa restituisce a Masi lo schema di Bandini. Si tira l'orlo della felpa sopra le ginocchia e rannicchia le gambe. In quella posizione sembra ancora più minuta, sembra lei una bambina di sei o sette anni. «No, non mi è sembrato strano...» «No? Be', a Bandini per una qualche ragione invece sì» dice Masi sventolando ancora lo schema. «No, volevo dire che io non... Io non faccio quello che fate voi. Non avevo collegato tutti questi fatti...» «Bandini ha scritto che anche Simone Saudati e Davide Bricco avevano disturbi del sonno. Tu te n'eri accorta?» «No. Te l'ho detto oggi pomeriggio, avevo notato che non stavano bene, io e anche le altre maestre, ma pensavamo a una forma d'influenza. Io non sapevo dei risultati degli esami che aveva fatto Marco». «Sì, ma Bandini deve avere visitato anche gli altri due bambini». «Può darsi. Ma nessuno dei loro genitori mi ha mai detto niente». Masi scambia un'occhiata con Pecora. Poi passa ad Annalisa i disegni con i grappoli di teste di neonati. Lei è ancora rannicchiata nella poltrona. «Che cos'è?» «Il Carbonaio...» «Quello della canzoncina?» «Sì... La leggenda dice che porta via i bambini dalla culla». «Bandini aveva inserito anche questa cosa nello schema. Secondo te perché?» «Non lo so. Forse i bambini non dormivano bene perché erano rimasti impressionati dalla canzoncina, dalla storia...» «Che dice che il Carbonaio porta via i bambini dalla culla, appunto! Come la sorellina di Marco, e come i fratellini di Simone Saudati e Davide
Bricco...» «Ti ripeto, non avevo collegato...» Annalisa sfila le ginocchia dall'orlo della felpa e allunga le gambe. Si sfrega le mani. Masi scambia un'altra occhiata con Pecora. «Va bene, pensiamo solo a Marco adesso». Stavolta è Pecora che mostra ad Annalisa i disegni con il buco nel bosco. «Questi li abbiamo trovati nella stanza di Marco» dice «ma non abbiamo capito se è una grotta, un anfratto, o cosa». Annalisa scuote la testa. «No. È una vecchia legnaia. Ci veniva messa la legna in estate per asciugarsi, appena tagliata». «E sai dov'è?» chiede Masi. «No. Non esattamente questa legnaia. Però conosco la zona». «Puoi portarci?» «Sì». 1:49 Si sono radunati tutti alla stazione dei Carabinieri. Masi, Pecora e i suoi, l'unità dei Cinofili, i due della Mobile. E Annalisa. Masi ha spiegato cos'hanno pensato lui e Pecora: Bandini che porta il bambino in un posto che conosceva. «Se Bandini conosceva il punto esatto, può averlo portato ed essere tornato a casa in meno di tre quarti d'ora, prima che arrivaste voi...» «Ma se il bambino è lì, può averla passata, la notte scorsa? Poi tutto oggi, fino ad adesso...» chiede il maresciallo Franza. «Be', se stiamo ancora qui, la situazione non migliora» dice Masi. «Non sarebbe meglio far venire su qualcun altro da Bologna?» chiede Pecora. «No, no. Abbiamo già perso anche troppo tempo. Bastiamo noi». «Noi? Viene anche lei, dottore?» chiede Franza stupito. «Cioè, potrebbe restare qui alla stazione a coordinare...» «Non l'ha ancora capito, maresciallo, che il nostro sostituto procuratore, qui, non sta seduto in un ufficio nemmeno legato?» dice Pecora. «Va bene» dice Franza stringendosi nelle spalle. «Allora muoviamoci». Comincia a distribuire a tutti lunghe torce nere, simili a quelle che avevano usato i Cinofili. «Muoviamoci» ripete Masi. «Annalisa...»
Annalisa guarda Masi con un sorrisetto ironico. Di nuovo sembra prenderlo un po' in giro. «Sei proprio diventato un cittadino». Fa un cenno con gli occhi verso la finestra. La neve continua a cadere sullo sfondo del cielo nero. «Dobbiamo andare dentro un bosco, su per una collina. Molto su per una collina, con la neve che ci arriverà alle ginocchia, di notte...» Pecora sbuffa guardando anche lui fuori dalla finestra. «Io vengo da Enna...» «Maresciallo, non avrebbe delle giacche pesanti, degli scarponi...» dice Annalisa. «Sì. Vigiani, va' in magazzino». Dopo qualche minuto Vigiani torna con giacche a vento e scarponi. «Io questa non la metto» dice Pecora mentre Vigiani gli passa una giacca a vento. È blu scuro, e sulla schiena, in bianco, c'è la scritta: CARABINIERI «Eddai, Carmelo...» lo esorta Masi. Pecora fa una smorfia. Tutti si cambiano. Prima il maresciallo Franza - un carabiniere - aveva chiamato la polizia. Adesso tutti i poliziotti sono vestiti da carabinieri. Marco Bandini si è mosso. È la prima volta da quando è qui, in questo posto blu e buio. Non l'ha fatto apposta. Stava pensando, stava cercando di ricordare, e quasi non s'è accorto di avere allungato una mano, in alto, come per stiracchiarsi... E allora l'ha sentito. Qualcosa di freddo e liscio, sotto le dita. Qualcosa che sembra vetro. E dopo ha allungato le mani anche a destra e sinistra. E l'ha sentito di nuovo: freddo, liscio, come vetro. Ecco, adesso s'è distratto! Lo sa che deve restare concentrato se vuole ricordarsi perché lo zio Carlo l'ha portato qui. Cosa è successo. E forse anche questo posto. Perché, dopo che ha toccato quel qualcosa che sembra vetro, un po' comincia ad avere l'impressione che lui, qui... Però c'è un'altra cosa... Un po' si vergogna, ma non può farci niente. «Mi scappa la pipì». «Ti scappa la pipì?» «Sì». «Ti scappa forte?»
«Sì». «Prova a tenerla. Ancora un po'». «Va bene. Ci provo. Ma...» «Cosa?» «Ho anche fame». «Anche noi abbiamo fame, Marco». «Anche voi?» «Sì». «Ma non possiamo uscire?» «No. Però vedrai che verranno a prenderci». «Dite?» «Oh, sì». «Chi?» «Questo non lo sappiamo». «Ma ci tireranno fuori? Ci daranno da bere e da mangiare?» «Certo!» Marco si rilassa. Lì, nel buio blu, si fida di quello che gli dicono le voci. Mi sono distratto per il vetro. E per la pipì. Ma adesso se torno a concentrarmi mi distraggo dalla pipì. E dalla fame e dalla sete. 3:11 Annalisa è davanti, Masi è subito dietro. Ancora dietro ci sono Pecora, quelli della Scientifica, l'unità cinofila, i due della Mobile, il maresciallo Franza e l'appuntato Vigiani. Sono distanziati uno dall'altro di circa trecento metri, per non perdere il contatto visivo e allo stesso tempo formare un fronte largo. Il cielo è sempre nero, la neve cade pesante e fredda. Entrano nel bosco. I fasci delle loro torce illuminano il profilo degli alberi. Iniziano a salire per la collina. 4:00 È infagottato nella giacca a vento. È sfinito. È congelato. Si sente distante, ovattato. Luca Masi muove le gambe in automatico. Solleva un piede, fa un passo, affonda il piede nella neve, solleva l'altro piede. La torcia fa una piccola pozza di luce gialla davanti a lui. Attorno, solo nero. Dietro sente l'ansimare dei cani dell'unità cinofila. Sente Pecora che borbotta e impreca sottovoce.
Davanti a lui, invece, Annalisa procede tranquilla e regolare, il passo elastico. Si volta a guardarlo per un attimo, e lui alza la torcia per un attimo: ha le guance arrossate, il fiato che le esce a nuvolette dalla bocca, gli occhi che brillano. Poi torna a guardare dritta davanti a sé. Masi pensa che lì, tra gli alberi e la neve, lei sembra completamente a suo agio, nonostante il buio, come un piccolo animale. Continuano a salire. 4:39 Ogni tanto si fermano per controllare una legnaia, confrontandola con i disegni fatti da Marco Bandini che si sono portati dietro. Sono tutte simili, ma il bambino non c'è. Si rimettono in movimento. Con il buio, è tutto più lento, più difficile. Per superare un avvallamento, Masi scarta verso destra. Va sempre in automatico: un passo, un altro passo, un altro passo ancora. Si toglie la neve dagli occhi. Stringe le palpebre e poi le riapre. E si ritrova solo. Era convinto di non avere scartato di molto, ma forse si è sbagliato. Forse anche gli altri hanno scartato per superare l'avvallamento. Ma forse verso sinistra. Urla: «Carmelo!» La voce viene inghiottita dalla neve, dagli alberi, e dal buio. Muove attorno il fascio della torcia. Non vede nessuno. Pecora, Franza, Vigiani, l'unità cinofila, quelli della Scientifica, i due della Mobile. Annalisa. Urla di nuovo: «Carmelo!» Niente. «Ehi!» Masi sussulta. Si volta. C'è qualcuno, ma non vede chi. Ha la luce di un'altra torcia puntata negli occhi, distingue soltanto una sagoma scura. Poi la sagoma abbassa un poco la sua torcia. Non è Pecora, è Annalisa. «Dove stavi andando, cittadino?» dice. «Mi sa che mi sono perso». «Mi sa». «Gli altri?» «Li ho mandati sul versante opposto della collina. Io ho visto che tu deviavi, sono scesa un po' e ti sono venuta dietro». «Torniamo indietro anche noi?»
«No. Siamo abbastanza in alto. La zona delle legnaie non va più su. Facciamo il girotondo e ci ricongiungiamo agli altri, dall'altra parte». 5:09 Un passo, un altro passo, un altro passo ancora. «Dobbiamo sbrigarci» dice Masi ad Annalisa, che continua a camminargli davanti. «Il bambino è fuori da davvero troppo tempo...» «Sta' tranquillo, lo troviamo, Marco» dice lei. Sembra incredibilmente calma. Un passo, un altro passo, un altro passo ancora. «Io però continuo a non capirci niente» dice Masi. «Ma perché Bandini avrebbe dovuto portare suo nipote in questo posto? E poi la nonna del bambino. La canzoncina pazzesca che gli cantava, il Carbonaio, la cosa della stariona... E anche gli altri due bambini, i disegni, i neonati morti...» Annalisa si volta di scatto. Si ferma. Gli si avvicina, la torcia alzata, il viso a pochi centimetri dal suo. Gli occhi sempre che le brillano, le guance rosse, il fiato dalla bocca. Freme. «Sì, tu proprio non capisci!» C'è una nota di disprezzo, nella voce. «Hai davvero dimenticato tutto? Il male e il bene ci sono». «Ma cosa...?» Masi è stordito. Sono in mezzo a un bosco, di notte, debbono ritrovare il bambino, e lei si blocca e si mette a parlargli del bene e del male? «Se qualcuno nasce, qualcun altro muore. Qualcuno è sano, qualcuno è malato. Qualcuno può guarire, qualcuno no. È sempre stato così. Dovrebbe essere ancora così. Invece oggi lottiamo disperatamente per vivere, per vivere sempre più a lungo, un anno di più, dieci anni di più, cinquant'anni. Pensaci!» «Annalisa, senti, non possiamo...» «E vogliamo cancellare tutto il dolore, tutto il male». Masi fa un passo indietro, ma Annalisa ne fa uno in avanti, non stacca il viso dal suo. «E senza il male, il bene dov'è?» Ancora di scatto, Annalisa toma a voltarsi. Riprende a camminare, adesso rapida. Masi la segue, arranca nella neve. Lei gli parla senza guardarlo. «Le starione lo sanno. È un equilibrio» dice. Poi tace. All'improvviso Marco Bandini si ricorda.
Tutto. «Adesso lo so dove siamo». Lo zio Carlo era a lavorare all'ospedale o all'ambulatorio, la mamma era a lavorare al bar, e lui rimaneva a casa da solo con la nonna. Dopo pranzo la nonna lo metteva a letto. Poi, tutti i giorni, raccontava. "Io lo so chi sei, piccolo mio. La tua mamma era così spaventata, quando ha scoperto che ti aspettava. Sai, aveva perso la tua sorellina, e aveva perso il tuo papà, e voleva tenerti, ma aveva davvero tanta tanta paura. Lo sapeva dove eri stato concepito. Si teneva sempre stretta al collo quella medaglietta con l'angelo ricciolino. Gliel'aveva data proprio il tuo papà, per proteggerla. A lui gliel'aveva data la mia, di mamma, la tua bisnonna, la nonna Violante che tu non hai mai conosciuto. Lei era l'unica della nostra famiglia che aveva rifiutato certe cose. Ma io poi, quelle stesse cose le ho spiegate alla tua mamma, quando è arrivata qui, e lei ha smesso di avere paura. Teneva ancora al collo la medaglietta, ma ormai aveva capito quelle cose, le aveva accettate. E dopo, tutte e due ti abbiamo sempre voluto un bene immenso e gigantesco, sai? " Quando finiva di raccontare, la nonna gli dava un bacio leggero sulla fronte. E iniziava a cantare. La canzoncina, per farlo addormentare. Solo che lui faceva fatica ad addormentarsi. Quando proprio non ci riusciva, la nonna lo portava qui, nel bosco, e lo infilava in questo buco. Ma con un sorriso, perché non era una punizione. "È solo per te, questo posto" diceva. "L'ho preparato io, apposta". E intanto ricominciava a cantargli la canzoncina: Il Carbonaio non è un mostro / Il Carbonaio è solo un posto / fa paura la sua voce / stringi subito la croce / quando il buio si fa blu / non gli puoi sfuggire più. Dopo un po' lo riprendeva fuori dal buco e tornavano a casa. Quando la mamma rientrava dal lavoro, chiedeva sempre alla nonna: "È stato buono, oggi, il mio ometto? Ha dormito?'" La mamma sapeva tutto, lui era sicuro. Allo zio Carlo invece non dicevano niente. E lui disegnava il buco nel bosco. «E poi, Marco?» «Poi lo zio Carlo. Lo so cosa è successo». Lo zio Carlo è entrato nella stanza della nonna, dove c'era anche lui, e ha fatto quel rumore col fucile. A Marco è sembrato di essersi addormentato. Era così tanto che non dormiva... Ma poi si è svegliato. E lo zio Carlo era ancora lì, col fucile. Aveva gli occhi... spaventati. Marco ha sentito prurito alla faccia, come adesso, e si è grattato. Poi ha visto la nonna ste-
sa sul pavimento. "Cosa fa la nonna?" ha chiesto allo zio Carlo. "Niente, dorme". "E quella?" C'era una macchia rossa sul muro. "È conserva, la nonna ha rovesciato la conserva". Lo zio Carlo l'ha portato fuori dalla stanza della nonna, tenendolo per mano. Sono passati davanti alla camera dove dorme la mamma. Anche la mamma era stesa sul pavimento e c'erano delle macchie rosse. "Anche la mamma dorme?" ha chiesto Marco. "Sì, era molto stanca " ha risposto lo zio Carlo. "Ma anche lei ha rovesciato la conserva?" Lo zio Carlo ha fatto una strana risata acuta. "Sì, ma non ti preoccupare, dopo pulisco io. Adesso lasciamola dormire". "Sembra sangue, vero zio?" "Eh sì!" Lo zio Carlo ha fatto un'altra strana risata acuta. Marco lo ha visto nei film, alla tv, il sangue che sembra pomodoro. Lo zio Carlo gli ha stretto la mano più forte mentre scendevano le scale. "Ma perché hai fatto quel rumore col fucile?" ha chiesto Marco. "Lo stavo pulendo, mi è scappato". Sono usciti fuori di casa. "Dove stiamo andando?" "Ti andrebbe di andare al buco, dove ti porta la nonna?" Marco ha spalancato la bocca. "Ma tu come lo sai?" "Una volta vi ho seguiti di nascosto, ero curioso". "Non si fa, zio!" "Hai ragione... Però non sono mai entrato". "Ah, ecco!... Ma perché c'andiamo?" "Così lasciamo dormire in pace la mamma e la nonna". "Ma non si sono svegliate quando hai fatto quel rumore col fucile?" "Si vede che erano proprio stanchissime tutte e due... " «Poi lo zio Carlo mi ha portato qui, e neanche stavolta è entrato. Lui è andato via, e io sono entrato da solo». «Bravo, Marco». 5:50 Un passo, un altro passo, un altro passo ancora. Annalisa davanti, lui dietro. Masi alza gli occhi al cielo. La neve scende. Il buio è meno compatto, però. All'orizzonte è comparsa una sottile striscia blu. Anche Annalisa alza gli occhi al cielo. «È l'ora blu» dice. Dopo la tirata sul bene e il male, è la prima volta che parla. «Cosa?» «L'ora blu. Quando non è più notte e non è ancora giorno...» Masi guarda l'orologio. Sono le 5.50. Sempre 5:50
Un passo, un altro passo, un altro passo ancora. Masi guarda di nuovo l'orologio. È sicuro. Hanno camminato, si sono mossi. Potrebbero essere passati anche solo cinque minuti, dieci minuti. Ma è passato del tempo! Invece l'orologio segna sempre le 5.50. «È incredibile! Deve essersi fermato anche il mio orologio... Ma cos'avete, da queste parti? I campi magnetici?» Annalisa non risponde. Si ferma, e si scosta di lato. «È qui» dice, sicura. È un buco nel terreno, su un rialzo della collina, appena coperto da qualche cespuglio, ma libero dalla neve. È identico a come l'ha disegnato Marco Bandini, ma assomiglia anche a tutte le altre legnaie che hanno trovato vuote. «Come fai a sapere che è proprio questo il...?» chiede Masi ad Annalisa. Ma si interrompe. Il bambino, Marco Bandini, è lì, affacciato all'apertura del buco. La prima cosa che Masi nota è che indossa ancora il pigiama che doveva indossare al momento in cui suo zio l'ha portato via. Ha trascorso un giorno intero - una notte, un giorno, e un'altra notte - dentro quel buco, vestito solo così! Poi vede il viso. Sulle guance e sulla fronte conta almeno dieci piccoli fori frastagliati. Allora Bandini ha sparato anche a suo nipote... pensa Masi. Poi pensa a Pecora, se fosse lì, a vedere... Perché i fori sul viso di Marco Bandini sono cicatrizzati! Ma Bandini gli ha sparato ventiquattro ore fa. Se mai uno restasse vivo, neanche dopo mesi... È impossibile! «Marco?» Il bambino sparisce all'interno del buco. «Marco?» Masi guarda Annalisa. È di fianco all'apertura del buco. Non si è mossa. Respira. Il fiato a nuvolette, gli occhi sempre che le brillano, le guance arrossate. «Io vado dentro» dice Masi. «Vai». Masi, in ginocchio, infila la testa nel buco, poi il busto, le gambe. Solle-
va la torcia. Un lampo! Masi stringe gli occhi, accecato. Tiene la torcia più bassa... Specchi! Sopra, sotto, di lato. Quel posto - un buco nella terra - è interamente ricoperto di specchi! Masi, per un attimo, pensa di nuovo a Pecora... A Bandini che ha rotto tutti gli specchi e si è suicidato... «Marco?» «Siamo qui...» Masi sposta la torcia. Marco Bandini è seduto accanto a lui. Lo fissa sorridendo. «Chi, siamo?» chiede Masi. Marco Bandini sorride ancora. Poi negli specchi qualcosa... Qualcosa sta prendendo forma, rapidamente, si sta addensando. Cresce. E Masi le vede. Sono dappertutto. Le teste. Sono dentro gli specchi. I grappoli di teste. Le teste dei neonati, gli occhi fissi, spenti, le bocche che si aprono e si chiudono. Si aprono e si chiudono. Luca Masi urla. Poi c'è solo il buio. E il blu, ora. Andrea Cotti è nato a San Giovanni in Persiceto (Bologna) nel 1971. Dopo aver gestito per anni una libreria specializzata in poesia e narrativa italiana, ha pubblicato il romanzo Tre (Bollati Boringhieri 1996), la raccolta di racconti Lo stesso discorso di sempre (Addictions 1999) e numerosi romanzi per ragazzi. Scrive sceneggiature per il cinema e per la televisione e tiene corsi di scrittura e sceneggiatura. Un gioco da ragazze (Coloradonoir 2005) è stato il suo primo romanzo noir. Ringraziamenti del Nero Adesso come allora, agli indomiti sostenitori della prima volta, che furono: nonna/mamma Nadia (dolcissima); nonna Petti (incoraggiante); Cavalier/nonno Sergio (insostituibile); Simonetta (supervisionatrice che dira-
dava il buio); Marco Solfanelli, Gianfranco De Turris e Dario Tonani grazie ai quali, volendosi ripetere, in qualche tortuoso modo e partendo da un «fondo molto nero», questa storia ebbe ragione di emettere vagiti. Graziano Braschi, per la versione delle Bocche in quel glorioso tomo per lettori nani (che il tempo passa, ma basta non starlo a sentire!); Riccardo (hasta siempre) Coltri, che ne scrisse bene. E Alessandro Perissinotto pure. Per non parlare di Danilo Arona. Infine Sandra, che lo ha letto in un giorno lontano (ancora così maledettamente vicino) e che ha detto «ma bravo!» con quei suoi sorprendenti occhi dorati, mentre balenavano dappertutto le tracce di sorprendenti arcobaleni futuri, vaganti e inutili. Poi ci sono quelli di questa volta. Prima fra tutti Miriam, che ha telefonato per proporre una gita in tandem (accettata a patto che fosse in un posto buio); Andrea Cotti (compagno di mille avventure, compresa questa). Per ultimo agli indomiti lettori che in qualche modo hanno spinto per una nuova indagine, ancora una volta dispersa in tutti quegli spazi scuri. Ringraziamenti del Cotti Grazie a Raffaele, primo lettore, e Hilde, la seconda (perché quello che dicono vale, molto). A nonna Vivella, nonno Paolino e Riccardo (perché con loro sono a casa, e sto bene). Ai miei: padre, madre, fratello, Samantha, nonna e nonna (perché adesso più che mai ci sono). E poi a Carmelo, ovviamente (perché tutto il racconto in fondo è una dedica, anche se tra amici non si dice). Infine al Nero (perché solo lui poteva farmi fare una cosa cosi). Entrambi gli autori desiderano inoltre puntualizzare che: i personaggi descritti nella vicenda sono puramente immaginari e qualsiasi riferimento a coppie esistenti, così come a poliziotti, cantilene e uomini neri, è puramente casuale. FINE