TERRY BROOKS LE PIETRE MAGICHE DI SHANNARA (The Elfstones Of Shannara, 1982) "A Barbara, con amore".
1 Una fievole luc...
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TERRY BROOKS LE PIETRE MAGICHE DI SHANNARA (The Elfstones Of Shannara, 1982) "A Barbara, con amore".
1 Una fievole luce apparve a est nel cielo notturno quando gli Eletti entrarono nei Giardini della Vita. Vicina, la città elfa di Arborlon era immersa nel sonno, la gente ancora avvolta nel calore e nella solitudine del giaciglio. Ma, per gli Eletti, il giorno era già cominciato. Con le ampie tuniche bianche fluttuanti al vento d'estate, sfilarono fra le sentinelle della Guardia Nera che, secondo un rito antico di secoli, stavano rigide, impassibili davanti ai cancelli ad arco di ferro battuto intarsiato di volute argentee e tas-
selli d'avorio. Passarono rapidamente. Soltanto le loro voci sommesse e lo scricchiolio dei sandali sul sentiero ghiaioso turbavano il silenzio del nuovo giorno mentre scivolavano oltre i cancelli fra le ombre dei pini. Gli Eletti erano i custodi dell'Eterea, la pianta strana e meravigliosa che si ergeva al centro dei Giardini: l'albero, raccontavano le leggende, proteggeva gli Elfi da un male primordiale che, per poco, non li aveva distrutti secoli addietro, un male che era stato bandito dalla terra ancor prima che nascesse l'antica razza degli Uomini. Per tutto il tempo seguente erano stati chiamati gli Eletti a custodire l'Eterea, secondo un costume tramandato di generazione in generazione; un compito che gli Elfi consideravano un onore ambito e un dovere solenne. Eppure non c'era gran che di solenne nel gruppetto che sfilò attraverso i Giardini quel mattino. Erano in servizio ormai da duecentotrenta giorni, e tenere a freno la loro esuberanza giovanile era difficile. Il sacro timore per la responsabilità che gli era toccata era ormai scomparso da tempo, e ora gli Eletti degli Elfi erano soltanto sei ragazzi che, come ogni giorno da quando erano stati prescelti, si accingevano a compiere un rito divenuto ormai consueto e familiare: salutare l'albero alle prime luci dell'alba. Soltanto Lauren, il più giovane fra gli Eletti di quell'anno, era silenzioso. Se ne stava un po' discosto dagli altri, senza prendere parte alle loro chiacchiere oziose. La testa rossa era china per la concentrazione, la fronte aggrottata. Era talmente immerso nei suoi pensieri da non accorgersi dell'improvviso silenzio, e dei passi che gli si avvicinavano, finché una mano non gli sfiorò il braccio. Poi il suo volto turbato si alzò di scatto, scoprendo Jase che lo osservava. «Che c'è, Lauren? Stai male?» gli chiese il giovane. Essendo più anziano degli altri di qualche mese, Jase era il capo riconosciuto degli Eletti. Lauren scosse la testa, ancora un po' accigliato. «No, non è niente.» «No, tu sei preoccupato. È tutto il mattino che lo sei. A ripensarci, anche ieri sera eri piuttosto silenzioso.» Jase lo fece voltare verso di sé. «Forza, parla. Nessuno pretende che tu venga qua se non stai bene.» Lauren esitò, poi annuì, sospirando. «E va bene. È per via dell'Eterea. Ieri, al tramonto, poco prima che partissimo, ho avuto l'impressione di vedere qualche macchia sulle sue foglie. Sembrava malata.» «Malata? Ne sei sicuro? Niente del genere può capitare all'Eterea, almeno così ci hanno sempre detto» fece Jase, dubbioso.
«Forse mi sono sbagliato» ammise Lauren. «Cominciava a farsi buio. Mi sono detto che potevano essere delle ombre. Ma più mi sforzo di recuperare il ricordo, più mi convinco che quelle macchie c'erano davvero.» Gli altri borbottavano fra loro, sconcertati, poi uno parlò: «È colpa di Amberle. L'avevo detto che avere una ragazza fra gli Eletti ci avrebbe procurato dei guai». «Ci sono già state delle ragazze fra gli Eletti, e non è mai successo niente» protestò Lauren. Aveva sempre avuto simpatia per Amberle. Era così semplice, pur essendo la nipote del re Eventine Elessedil. «Non negli ultimi cinque secoli, Lauren» ribatté l'altro. «Ora basta» l'interruppe Jase. «Avevamo già deciso di non parlare più di Amberle. Lo sapete.» Rimase in silenzio un attimo, riflettendo sulle parole di Lauren. Poi si strinse nelle spalle. «Sarebbe un bel guaio se succedesse qualcosa all'albero, soprattutto mentre è affidato alle nostre cure. Ma, dopotutto, nulla dura in eterno.» Lauren era sconvolto. «Ma Jase, se l'albero si indebolisce, il Divieto scadrà e i demoni saranno liberati...» «Credi veramente a queste favole?» Jase scoppiò a ridere. Lauren guardò l'altro dritto negli occhi. «Come puoi essere un Eletto e non credervi?» «Non ricordo di esser stato invitato a dire in cosa credessi quando sono stato prescelto, Lauren. E tu?» Lauren scosse la testa. Ai candidati per l'onore di diventare Eletti non si chiedeva nulla. Venivano semplicemente portati davanti all'albero: erano i giovani Elfi divenuti uomini e donne l'anno precedente. All'alba del nuovo anno, si radunavano e sfilavano sotto i rami dell'Eterea, sostando ciascuno un istante. Se l'albero li sfiorava sulle spalle, diventavano i nuovi Eletti, e restavano in carica fino alla fine dell'anno. Lauren ricordava ancora l'estasi e la fierezza che aveva provato quando un ramo flessuoso si era chinato per toccarlo e aveva pronunciato il suo nome. E ricordava anche lo stupore di tutti quando era stata chiamata Amberle... «Sono soltanto favole per spaventare i bambini» stava dicendo Jase. «La reale funzione dell'Eterea è ricordare agli Elfi che essi, come lei, sopravvivono nonostante tutti i cambiamenti avvenuti nella storia delle Quattro Terre. È un simbolo della forza del nostro popolo, Lauren,... niente di più.»
Fece cenno ai compagni di riprendere il cammino e si allontanò. Lauren ricadde nei suoi pensieri. L'indifferenza dell'Elfo più anziano per la leggenda dell'albero lo turbava. Naturalmente Jase era un cittadino, e Lauren si era accorto che la gente di Arborlon non prendeva molto sul serio le vecchie credenze, a differenza degli abitanti del suo piccolo villaggio nel nord. Ma la creazione dell'Eterea e l'instaurazione del Divieto non erano soltanto leggende: erano il fondamento dell'autentica eredità elfa, l'evento più importante nella storia del suo popolo. Tutto era accaduto molto tempo addietro, prima che nascesse il nuovo mondo. C'era stata una grande guerra fra il bene e il male; una guerra che gli Elfi avevano infine vinto creando l'Eterea e con essa un Divieto che aveva imprigionato i demoni maligni in un'oscurità senza tempo. E finché l'Eterea fosse stata ben tenuta, il male non avrebbe minacciato la terra... Finché l'Eterea fosse stata ben tenuta... Scosse la testa, dubbioso. Forse non era che un inganno della sua immaginazione. O della luce. Altrimenti, avrebbero semplicemente dovuto trovare un rimedio. C'era sempre un rimedio. Qualche minuto dopo era con gli altri davanti all'albero. Esitando, alzò gli occhi, poi sospirò, sollevato. L'Eterea sembrava immutata, perfetta come sempre. Il tronco bianco-argenteo si inarcava verso il cielo con una simmetria di rami affusolati carichi di ampie foglie pentagonali color rosso sangue. Dalla base, strisce di muschio verde salivano a zigzag lungo le fessure della liscia corteccia, come ruscelli color smeraldo che scorrono lungo il pendio di una montagna. Nessuna crepa deturpava le linee aeree dell'albero, nessun ramo era incrinato o spezzato. Così bella, pensò. La guardò di nuovo, ma non vide alcun segno della malattia che temeva. Gli altri andarono a raccogliere gli utensili che avrebbero usato per dare nutrimento e accudire l'albero, così come per provvedere alla manutenzione dei Giardini in generale. Ma Jase trattenne Lauren. «Vorresti salutarla tu, oggi?» chiese. Stupito, Lauren ringraziò, balbettando. Jase stava rinunciando al suo turno per il compito più ambito, certo nel tentativo di rincuorarlo. Avanzò sotto la cortina dei rami, per posare le mani sul tronco liscio, gli altri raccolti a qualche passo di distanza per recitare il saluto del mattino. Guardò il cielo, in attesa del primo raggio di sole che sarebbe caduto sull'Eterea.
Poi, bruscamente, indietreggiò. Le foglie sopra la sua testa erano coperte di chiazze scure. Si sentì stringere il cuore. L'albero era tutto cosparso di macchie. Non era un inganno della luce o dell'ombra. Era la realtà. Chiamò Jase con gesti frenetici, indicandogli la pianta. Come era loro abitudine in tali occasioni, non parlarono, ma Jase uscì in un'esclamazione soffocata di stupore quando vide l'entità del danno. Lentamente i due girarono intorno all'albero, scoprendo macchie ovunque: alcune erano appena visibili, altre già deturpavano le foglie al punto da spegnerne il colore rosso sangue. Nonostante le opinioni professate prima, Jase era sconvolto, e era visibilmente sgomento mentre tornava fra gli altri per conferire con loro a bassa voce. Lauren fece per raggiungerli, ma Jase scosse rapidamente la testa, indicando la sommità dell'albero: la luce dell'alba stava per raggiungere i rami più alti. Lauren sapeva qual era il suo dovere e si voltò di nuovo. Qualsiasi cosa fosse in agguato, gli Eletti dovevano salutare l'Eterea anche questo giorno, così come l'avevano salutata ogni alba da quando avevano ricevuto l'incarico. Posò delicatamente le mani sulla corteccia argentea e le parole di saluto stavano per salirgli alle labbra quando un ramo dell'albero antico si chinò per sfiorargli la spalla. «Lauren...» Il giovane Elfo trasalì al sentire il suo nome. Ma nessuno aveva parlato. La parola gli era risuonata nella mente, la voce poco più che un'immagine del suo volto. Era stata l'Eterea! Trattenendo il fiato, girò un attimo la testa per guardare il ramo posato sulla sua spalla; poi subito si voltò. Era totalmente disorientato. Soltanto una volta gli aveva parlato: il giorno in cui era stato prescelto. Aveva detto il suo nome, il nome di tutti loro. Poi non li aveva più chiamati. Mai... tranne Amberle, naturalmente, e Amberle non era più con loro. Agitato, guardò gli altri, che lo fissavano, chiedendosi evidentemente perché si fosse interrotto. Poi il ramo che si era posato sulla sua spalla gli scivolò intorno al corpo, e a quel contatto il giovane involontariamente indietreggiò. «Lauren. Chiama gli Eletti qui intorno a me.» Le immagini erano apparse e scomparse rapidamente. Esitando, Lauren fece un cenno ai suoi compagni. Essi avanzarono, con aria palesemente in-
terrogativa, scrutando l'albero argenteo. Quando ognuno di loro fu abbracciato da un ramo, la voce dell'Eterea mormorò: «Ascoltatemi. Ricordate quel che vi dirò. Non venite meno al vostro impegno.» Un senso di gelo li assalì e sui Giardini della Vita, come un sudario, calò un silenzio profondo, vuoto, come se in tutto il mondo soltanto essi fossero rimasti in vita. Le loro menti furono travolte da immagini che fluivano una dopo l'altra in rapida successione. E quelle immagini esprimevano orrore. Se avessero potuto, gli Eletti sarebbero fuggiti a nascondersi finché l'incubo impadronitosi di loro non si fosse dissolto. Ma l'albero li tratteneva, e le immagini continuavano a fluire, e l'orrore a intensificarsi, fino a diventare insopportabile. Poi finalmente terminò. L'Eterea si richiuse nel suo silenzio, i suoi rami li abbandonarono e si allargarono per godere del calore del sole mattutino. Lauren era immobile come una statua, la faccia rigata di lacrime. Sconvolti, i sei Eletti si guardavano l'un l'altro, e in ciascuna mente mormorava silenziosa la verità. La leggenda non era leggenda, la leggenda era vita. Al di là del Divieto mantenuto dall'Eterea, si nascondeva veramente il male. Soltanto lei garantiva la salvezza degli Elfi. E ora lei stava morendo. 2 Lontano, a ovest di Arborlon, oltre il Confine, c'era un fermento nell'aria. Comparve un'ombra più scura del buio notturno, che si contorceva e fremeva sotto l'urto di qualcosa che sembrava minacciarla. Per un attimo, il velo di oscurità rimase compatto, poi si spaccò, lacerato da quella forza trattenuta. Ululati e strida di esultanza si riversarono dal buio impenetrabile, mentre dozzine di artigli si avventavano sull'improvvisa breccia, per dilaniarla e protendersi verso la luce. Un fuoco rosso esplose tutto intorno e le zampe ricaddero, bruciate e contorte. Il Dagda Mor emerse dall'oscurità, sibilando di collera. Col suo Bastone del Comando rovente cacciò via gli impazienti e attraversò baldanzoso il varco. Un istante dopo, lo seguirono le forme oscure del Mietitore e del Camaleonte. Altri corpi si spinsero avanti, disperati, ma gli orli della breccia si richiusero rapidamente intorno all'oscurità e alle cose che vi alligna-
vano. Qualche istante dopo, il varco era scomparso completamente e lo strano trio rimase solo. Il Dagda Mor si guardò intorno, circospetto. Stavano all'ombra del Confine, l'alba che aveva sconvolto la pace degli Eletti era poco più che una debole luce a oriente, oltre la barriera mostruosa delle montagne. I grandi picchi torreggianti fendevano il cielo, proiettando immense colonne di oscurità su tutta la desolazione delle Pianure di Cenere, che, dalla barriera delle montagne, si estendevano a perdita d'occhio verso ovest, nel nulla: un deserto aspro, squallido, statico, in cui la vita non poteva resistere che minuti o poche ore. Niente si muoveva sulla sua superficie. Nessun suono infrangeva la quiete opprimente del mattino. Il Dagda Mor sorrise, coi denti a uncino baluginanti. Il suo arrivo era passato inosservato. Dopo tutti quegli anni, era libero. Di nuovo libero fra quelli che lo avevano imprigionato. Da lontano, poteva essere scambiato per uno di loro. Tutto sommato, aveva un aspetto umano. Camminava eretto, e le sue braccia erano solo un poco più lunghe di quelle umane. Procedeva chino, stranamente impacciato nei movimenti - ma il mantello scuro che lo avvolgeva impediva di indovinarne la causa. Soltanto da vicino si poteva vedere l'enorme gobba che piegava quasi in due la sua spina dorsale all'altezza delle spalle. O i grandi ciuffi di peli verdastri che spuntavano da tutto il suo corpo come chiazze di carice. Oppure le scaglie che gli rivestivano gli avambracci e le gambe. O le mani e i piedi artigliati. O il suo muso vagamente somigliante a quello di un gatto. O gli occhi, neri e scintillanti, falsamente placidi, come due pozze gemelle d'acqua che nascondono qualcosa di maligno e distruttivo. Visti questi particolari, non potevano esserci dubbi sull'identità del Dagda Mor. Non uomo, ma demone. E il demone odiava. Odiava con un'intensità che sconfinava nella pazzia. Una reclusione secolare nella nera prigione oltre la barriera del Divieto aveva dato al suo odio tempo più che sufficiente per invelenirsi e dilatarsi. Ora lo divorava. Era tutto, per lui. Da esso traeva potere, quel potere che avrebbe usato per annientare le creature che gli avevano causato tanta pena. Gli Elfi! Tutti gli Elfi. E nemmeno quello gli sarebbe bastato ormai dopo essere rimasto escluso per secoli da quel mondo che un tempo era stato suo imprigionato in quel limbo informe, senza vita, di ristagno interminabile, cupo e lento, spaventoso. No, la distruzione degli Elfi non sarebbe bastata a cancellare l'infamia subita. Anche gli altri dovevano essere distrutti. Gli Uomini, i Nani, i Troll, gli Gnomi... tutti coloro che apparte-
nevano all'umanità che aveva tanto detestato, quelle razze che ora si erano insediate nel suo mondo, impossessandosene. Il momento della vendetta sarebbe venuto, pensò. Così come era giunta la sua libertà. Lo sentiva. Aveva aspettato secoli, appostato dietro la barriera del Divieto, valutandone la forza, cercando un punto debole... sapendo, sempre, che un giorno avrebbe cominciato a cedere. E ora quel giorno era arrivato. L'Eterea stava morendo. Oh, dolci parole! Voleva urlarle! Stava morendo! Stava morendo e non poteva più preservare il Divieto! Il Bastone del Comando luccicò rovente nelle sue mani mentre l'odio divampava in lui. La terra sotto i suoi piedi divenne cenere. Si impose di calmarsi e il Bastone si raffreddò. Per un certo tempo, naturalmente, il Divieto avrebbe ancora retto. L'erosione non si sarebbe completata in un giorno e, forse, nemmeno nell'arco di diverse settimane. Persino la piccola breccia che era riuscito a aprirsi aveva richiesto un'enorme potenza. Ma il Dagda Mor ne possedeva, più di tutti quelli ancora intrappolati dietro il Divieto. Egli era il loro capo: ogni sua parola era un ordine per loro. Durante i lunghi anni di esilio alcuni lo avevano sfidato... soltanto alcuni. Lui li aveva spezzati, dando così l'esempio. Ora tutti gli ubbidivano. Lo temevano. E condividevano il suo odio per quel che gli era stato fatto. Anche loro si nutrivano di quell'odio. Li aveva animati di una selvaggia brama di vendetta e, quando finalmente fossero tornati in libertà, ci sarebbe voluto molto, molto tempo per soddisfare quel desiderio. Ma, per il momento, dovevano aspettare. Avere pazienza. Non ci sarebbe voluto molto. Il Divieto si sarebbe indebolito ogni giorno un po' di più, erodendosi man mano che l'Eterea lentamente veniva meno. Una cosa soltanto poteva impedirlo: una rinascita. Il Dagda Mor annuì fra sé. Conosceva bene la storia dell'Eterea. Non era stato forse presente quando era nata e aveva cacciato lui e i suoi fratelli dal mondo della luce per seppellirli in quella prigione oscura? Non aveva forse visto la natura della magia che li aveva sconfitti... una magia così potente da poter trascendere persino la morte? Sapeva che quella libertà poteva essergli tolta di nuovo. Se uno degli Eletti avesse portato un seme dell'albero alla fonte della sua forza vitale, l'Eterea sarebbe potuta rinascere e il Divieto essere ripristinato. Lo sapeva, e proprio per questo adesso si trovava lì. Non era stato affatto sicuro di poter aprirsi un varco nella barriera del Divieto. Era stato un brutto rischio per lui spendere tante energie in quel tentativo perché, se avesse fallito, sarebbe rimasto gravemente inde-
bolito. Dietro la barriera ve n'erano alcuni potenti quasi quanto lui; avrebbero colto l'occasione per distruggerlo. Ma era stato un rischio necessario. Gli Elfi non si erano ancora resi conto dell'entità del danno. Per il momento, si credevano al sicuro. Ignoravano che qualcuno, oltre la barriera del Divieto, possedesse tanto potere da aprire una breccia. Avrebbero scoperto troppo tardi il loro errore. Nel frattempo, lui avrebbe fatto in modo che l'Eterea non potesse mai più rinascere e il Divieto venire ripristinato. Era per quel motivo che si era portato dietro gli altri due. Si guardò intorno, cercandoli. Trovò il Camaleonte immediatamente. Il suo corpo subiva una continua trasformazione di colori e forme, esercitandosi a riprodurre le creature intorno a lui: nel cielo, un falco a caccia e un piccolo corvo; sulla terra, una marmotta, poi un serpente, un millepiedi con antenne, poi qualcos'altro, al punto che era quasi impossibile seguire queste metamorfosi. Poiché il Camaleonte non aveva limiti. Recluso nell'oscurità con i suoi fratelli come unico riferimento, non aveva potuto esercitare a pieno i suoi poteri, che così erano andati praticamente sprecati. Ma qui, in questo mondo, le possibilità erano infinite. Qualsiasi cosa, essere umano o animale, pesce o uccello, di qualsiasi dimensione, forma, colore o qualità - egli poteva essere tutto, assimilandone perfettamente le caratteristiche. Nemmeno il Dagda Mor sapeva con certezza quale fosse il vero aspetto del Camaleonte; era così incline ad adattarsi ad altre forme di vita che passava quasi tutto il suo tempo a essere qualcos'altro. Era un dono straordinario, ma posseduto da una creatura la cui propensione al male era pari quasi a quella del Dagda Mor. Anche il Camaleonte era di stirpe demoniaca. Era egoista e permeato d'odio. Amava l'ambiguità; godeva del dolore altrui. Era da sempre nemico degli Elfi e dei loro alleati, detestandoli perché si curavano tanto delle forme inferiori di vita che popolavano il loro mondo. Queste creature non significavano niente per il Camaleonte. Erano deboli, vulnerabili, destinate a venire usate da esseri potenti, come lui. Gli Elfi non erano migliori delle creature che cercavano di proteggere. Non potevano o non volevano praticare l'inganno, come faceva lui. Erano imprigionati nel loro corpo, incapaci di trasformarsi. Lui poteva diventare qualsiasi cosa. Li disprezzava tutti. Il Camaleonte non aveva amici. Non ne voleva. Tranne il Dagda Mor, perché il Dagda Mor possedeva l'unica cosa che lui rispettasse: un potere maggiore del suo. Era per quel motivo e per quel motivo soltanto che il Camaleonte aveva acconsentito a servirlo.
Per individuare il Mietitore, il Dagda Mor impiegò diversi minuti. Infine lo trovò, a non oltre tre metri di distanza, perfettamente immobile, poco più che un'ombra nella luce pallida della prima alba, un altro fantasma della notte morente, curvo contro lo sfondo grigio delle Pianure. Avviluppato dalla testa ai piedi in un mantello color cenere, il Mietitore era quasi invisibile, la faccia accuratamente nascosta nell'ombra di un ampio cappuccio. Nessuno guardava mai quella faccia una seconda volta. Il Mietitore si rivelava soltanto alle sue vittime, e queste erano tutte morte. Se il Camaleonte era pericoloso, il Mietitore lo era dieci volte di più. Il Mietitore era un assassino. Uccidere era l'unica funzione della sua esistenza. Era una creatura massiccia, dai muscoli possenti, alta più di due metri, quando si ergeva in tutta la sua statura. Eppure, nonostante la sua mole, non era goffo. Si muoveva con la disinvoltura e la grazia del miglior Cacciatore elfo: armonioso, fluido, rapido e silenzioso. Una volta iniziata la caccia, era inesorabile. Nulla e nessuno gli era mai sfuggito. Con lui andava cauto persino il Dagda Mor, benché il Mietitore non possedesse il suo potere. Era diffidente perché il Mietitore lo serviva per capriccio e non per paura o rispetto come facevano gli altri. Il Mietitore non temeva nulla. Era un mostro che non si curava affatto della vita, nemmeno della propria. Non uccideva nemmeno per piacere, anche se, in verità, godeva a stroncare una vita. Uccideva per istinto. Uccideva perché lo trovava necessario. A volte, entro l'oscurità del Divieto, escluso da ogni forma di vita che non fosse quella dei suoi fratelli, era stato quasi impossibile controllarlo. Il Dagda Mor era stato costretto a permettergli di ammazzare i demoni di stirpe inferiore, tenendolo a freno con una promessa. Una volta che si fossero liberati dal Divieto - e questo sarebbe sicuramente accaduto, un giorno - il Mietitore avrebbe potuto imperversare per un intero mondo di creature. Cacciarle a volontà. Forse, ucciderle tutte. Il Camaleonte e il Mietitore - il Dagda Mor aveva fatto una buona scelta. Uno sarebbe stato i suoi occhi, l'altro le sue mani; occhi e mani che avrebbero colpito a fondo nel cuore del popolo elfo, escludendo per sempre la possibilità che l'Eterea rinascesse. Guardò bruscamente a est dove l'arco del sole nascente saliva rapidamente sopra la cresta del Confine. Era ora di andare. Quella sera stessa dovevano essere a Arborlon. Anche quel piano era stato accuratamente studiato. Il tempo era prezioso per lui; non poteva sprecarlo, se voleva sorprendere gli Elfi nel sonno. Non dovevano sapere della sua presenza finché non fosse stato troppo tardi.
Con un rapido cenno ai compagni, il Dagda Mor si voltò e ciondolò pesantemente verso il riparo del Confine. I suoi occhi neri luccicavano di piacere mentre assaporava il successo che avrebbe ottenuto quella notte. E che avrebbe segnato la condanna degli Elfi, costretti a veder appassire la loro diletta Eterea senza un barlume di speranza per la sua rinascita. Certo. Perché, dopo quella notte, nessun Eletto sarebbe rimasto in vita. A diverse centinaia di metri dalle montagne, ben riparato dalla loro ombra, il Dagda Mor si fermò. Stringendo il Bastone del Comando con entrambe le mani, lo portò davanti a sé, e ne conficcò un'estremità nella terra arida, cosparsa di crepe. La sua testa si abbassò un poco, e le sue mani si serrarono intorno al Bastone. Per lunghi istanti, rimase immobile. Dietro di lui, gli altri due osservavano incuriositi, le forme scure raggomitolate, gli occhi simili a lampi di luce gialla. Poi, all'improvviso, il Bastone del Comando cominciò a scintillare, emanando un pallido alone rossastro che delineò contro il buio la sagoma massiccia del demone. Un attimo dopo, la fosforescenza si intensificò bruscamente e cominciò a pulsare. Si comunicò dal Bastone alle braccia del Dagda Mor, trasformando la pelle verdastra in sangue. La testa del demone si alzò e il fuoco schizzò verso l'alto in un arco sottile e scintillante che volò nell'alba come una cosa viva, atterrita. Attimi dopo era scomparsa. Il Bastone del Comando mandò un ultimo bagliore e si spense. Il Dagda Mor indietreggiò di un passo, abbassando il Bastone. La terra intorno a lui era nera, carbonizzata, e nell'aria umida ristagnava l'odore di cenere rovente. Su tutte le pianure circostanti era sceso un silenzio di morte. Il demone sedette, con un'espressione soddisfatta negli occhi opachi. Rimase immobile, come le creature che erano con lui. Insieme aspettarono... mezz'ora, un'ora, due ore. Il tempo scorreva. Infine, dalla plaga deserta delle Terre del Nord, calò il mostruoso incubo alato che il demone aveva chiamato per portarli a Arborlon. «Ora vedremo» mormorò il Dagda Mor. 3 Il sole era appena spuntato sull'orizzonte quando Ander Elessedil uscì dalla porta della sua casetta e imboccò il sentiero diretto verso i cancelli di ferro del parco. Come secondogenito di Eventine, re degli Elfi, avrebbe potuto avere le sue stanze a palazzo; ma anni prima aveva trasferito se
stesso e i suoi libri nell'attuale residenza per ottenere una maggiore intimità. O almeno così aveva pensato allora. Adesso non ne era più così sicuro; poiché l'attenzione di suo padre era concentrata sul figlio maggiore, Arion, Ander avrebbe goduto della massima tranquillità ovunque avesse scelto di vivere. Odorò l'aria limpida e tiepida del primo mattino e sorrise. Una buona giornata per cavalcare. Un po' di esercizio avrebbe fatto bene sia a lui sia al suo cavallo preferito. A quarant'anni, non era più un giovanotto. Il suo viso elfo, magro, angoloso, era segnato intorno agli occhi allungati e la sua fronte aveva un solco profondo; ma il suo passo era rapido e disinvolto, e, quando sorrideva - il che capitava di rado, ultimamente - la sua faccia si illuminava come quella di un ragazzo. Mentre si avvicinava ai cancelli, vide che Went, il vecchio giardiniere, era già al lavoro, il corpo sottile chino a zappare le aiuole. Sentendo arrivare Ander, si raddrizzò lentamente, portandosi una mano alla schiena. «Buon mattino, principe. Bella giornata, vero?» Ander annuì. «Splendida, Went. Ti dà ancora fastidio la schiena?» «Ogni tanto.» Il vecchio si strofinò con precauzione. «È per via dell'età. Ma me la cavo ancora meglio dei giovani che mi danno come aiutanti.» Ander annuì di nuovo, sapendo che il vecchio diceva la pura verità. Went si sarebbe dovuto ritirare anni prima, ma aveva cocciutamente rifiutato di abbandonare il suo lavoro. Mentre Ander attraversava il cancello principale, le sentinelle di turno gli fecero un cenno di saluto col capo, che lui ricambiò. Da molto tempo lui e le guardie avevano eliminato ogni formalità. Arion, come erede al trono, poteva pretendere di essere trattato con deferenza, ma la posizione e le aspettative di Ander erano certo inferiori. Seguì la strada che voltava a sinistra intorno a alcuni cespugli decorativi in direzione delle scuderie. Poi un rombo di zoccoli e un grido infransero la pace del mattino. Ander saltò di lato mentre lo stallone grigio di Arion si slanciava verso di lui, facendo schizzare per aria la ghiaia, si impennava e infine bruscamente si fermava. Prima che il cavallo si fosse del tutto calmato, Arion era smontato e stava di fronte al fratello. Mentre Ander era basso e bruno, Arion era alto e biondo, e era sorprendente la sua somiglianza col padre alla stessa età. Questo, in aggiunta al fatto che era un superbo atleta e un perfetto maestro d'armi, cacciatore e cavaliere, rendeva inevitabile che fosse l'orgoglio e la
gioia di Eventine. Arion emanava un fascino carismatico... un fascino di cui Ander si era sempre sentito privo. «Dove vai, fratellino?» chiese Arion. Come al solito, quando parlava a Ander, la sua voce aveva un che di beffardo e sprezzante. «Non importunerei nostro padre. Se fossi in te. Lui e io abbiamo lavorato fino a tardi, ieri sera, su una serie di urgenti faccende di stato. Dormiva ancora quando me ne sono andato.» «Stavo andando alle scuderie» rispose tranquillo Ander. «Non avevo intenzione di importunare nessuno.» Arion sorrise, poi si voltò verso il suo cavallo. Con una mano sul pomo della sella, balzò su agilmente, ignorando le staffe. Poi si girò verso il fratello. «Bene, me ne vado nella Sarandanon per alcuni giorni. La gente delle comunità agricole è tutta in fermento... qualche vecchia storia di una calamità che sta per piombarci addosso: un mucchio di sciocchezze. ma devo tranquillizzarli. Non farti illusioni. Sarò già tornato quando nostro padre partirà per il Kershalt.» Sorrise. «Nel frattempo, fratellino. bada tu alle cose, eh?» Diede un colpo di redini; un attimo dopo varcò i cancelli e scomparve. Ander imprecò a bassa voce fra sé e si voltò. Non aveva più voglia di andare a cavallo. Sarebbe dovuto essere lui a accompagnare il re per la missione di stato nel Kershalt. Rafforzare i legami fra i Troll e gli Elfi era importante. E anche se erano già state gettate le basi, la cosa avrebbe richiesto ancora diplomazia e prudenti negoziati. Arion era troppo impaziente e avventato, con scarsa comprensione per i bisogni e le idee degli altri. Forse Ander non aveva le doti fisiche del fratello - pur cavandosela piuttosto bene - e nemmeno la sua naturale inclinazione alla leadership. Ma certo possedeva il dono di saper ragionare lucidamente e di esser paziente - doti indispensabili per le trattative diplomatiche. Nelle poche occasioni in cui era stato chiamato in causa, lo aveva dimostrato. Si strinse nelle spalle. Era inutile arrovellarsi. Aveva già chiesto a Eventine di portarlo con sé e era stato respinto in favore di Arion. Suo fratello sarebbe diventato re un giorno; doveva quindi farsi pratica come statista mentre Eventine era ancora in vita per guidarlo. E forse era anche comprensibile, ammise Ander. Un tempo, lui e Arion erano stati molto vicini. Quando Aine era ancora in vita... Aine, il figlio minore di Eventine Elessedil. Ma Aine era rimasto ucciso in un incidente di caccia undici anni prima, e da allora il vincolo
familiare non era più bastato. Amberle, la giovane figlia di Aine, si era rivolta non a Arion, bensì a Ander, per ricevere sostegno, e il fratello maggiore aveva presto manifestato la sua gelosia con un aperto disprezzo. Poi, quando Amberle aveva rinunciato al suo compito di Eletta, Arion ne aveva attribuito la responsabilità al fratello, e il suo disprezzo era degenerato in una ostilità appena dissimulata. Ora Ander sospettava che gli stesse inimicando suo padre. Ma non poteva farci niente. Sempre immerso nei suoi pensieri, stava riattraversando i cancelli diretto a casa sua quando un grido lo fece voltare. «Mio signore, principe, aspetta!» Ander, sorpreso, rimase a guardare una figura vestita di bianco che correva verso di lui, agitando freneticamente un braccio. Era uno degli Eletti, quello dalla testa rossa - Lauren, era così che si chiamava? Era raro vedere uno di loro lontano dai Giardini a quest'ora. Aspettò che il giovane arrivasse davanti a lui, inciampando per la stanchezza, la faccia e le braccia rigate di sudore. «Mio signore, principe, devo vedere il re» dichiarò affannosamente. «E per il momento non mi lasceranno passare. Puoi accompagnarmi da lui, adesso?» Ander esitava. «Il re dorme ancora...» «Devo vederlo subito!» insistette l'altro. «Ti prego! Questa cosa non può aspettare!» C'era disperazione nei suoi occhi e sul suo volto pallido e teso. La voce gli si spezzava nello sforzo di sottolineare l'urgenza del suo messaggio. Ander rifletté, chiedendosi cosa potesse essere tanto importante. «Se hai qualche problema, Lauren, forse io...» «Non si tratta di me, principe. Ma dell'Eterea!» L'indecisione di Ander svanì. Annuì e prese Lauren per il braccio. «Vieni con me.» Insieme attraversarono in gran fretta i cancelli e si diressero verso il palazzo, sotto lo sguardo stupito delle sentinelle. Gael, il giovane Elfo che fungeva da addetto personale a Eventine Elessedil, scosse con decisione la testa... ma la sua figura snella si agitava a disagio nella tunica scura e i suoi occhi si rifiutavano di affrontare quelli di Ander. «Non posso svegliare il re, principe Ander. Mi ha vivamente raccomandato... di non disturbarlo per nessuna ragione al mondo.»
«Ma se al mio posto ci fosse stato Arion?» chiese Ander a bassa voce. «Arion è partito...» cominciò Gael. Poi si interruppe, con un'aria ancora più infelice. «Precisamente. Ma io sono qui. Vuoi forse dirmi che non posso vedere mio padre?» Gael non rispose. Poi, mentre Ander si avviava verso la camera del re, il giovane Elfo gli passò accanto in gran fretta. «Lo sveglierò io. Ti prego, aspetta qui.» Passarono diversi minuti prima che tornasse, sempre turbato, facendo un cenno affermativo a Ander. «Ti riceverà, principe Ander. Ma, per ora, te solo.» Quando Ander entrò, il re era ancora a letto e stava finendo di sorseggiare il bicchierino di vino che Gael doveva avergli versato. Fece un cenno di saluto al figlio, poi uscì con precauzione dal caldo riparo delle coperte, e il suo vecchio corpo rabbrividì per un istante nel freddo mattutino della stanza. Gael, che era entrato con Ander, gli stava porgendo una vestaglia; Eventine la infilò, e si allacciò la cintura. Nonostante i suoi ottantadue anni, Eventine Elessedil era in forma eccellente. Il suo corpo era forte e asciutto. Era ancora in grado di cavalcare e ancora abbastanza rapido e sicuro da poter essere pericoloso con la spada. La sua mente era vigile e acuta; quando la situazione lo richiedeva. il che avveniva di frequente, si rivelava deciso. Possedeva ancora il suo incredibile senso dell'equilibrio, della misura; la capacità di vedere tutti i lati di una questione, di valutarne ciascun aspetto, e di scegliere quasi sempre la soluzione che si sarebbe rivelata più proficua per lui e per coloro che governava. Era un dono senza il quale non sarebbe rimasto re - non sarebbe nemmeno sopravvissuto. Era un dono che Ander riteneva a ragion veduta di aver ereditato, anche se nella sua attuale posizione non era di alcuna utilità. Il re si avvicinò alle tende tessute a mano che drappeggiavano la parete di fronte, le scostò, e aprì diverse porte-finestre che davano sulla foresta. La luce invase la camera, morbida e dolce, e si sentì il profumo della rugiada mattutina. Dietro Eventine, Gael si affaccendava silenziosamente, accendendo le lampade a olio per cacciare gli ultimi residui di buio dagli angoli della camera. Eventine esitò davanti a una finestra, fissando per un istante il suo viso riflesso nel vetro appannato. I suoi occhi erano sorprendentemente azzurri, duri e penetranti, gli occhi di un uomo che aveva vissuto e sofferto troppo. Sospirando, si voltò verso Ander.
«Dunque, Ander, che cosa c'è? Gael mi ha detto che hai accompagnato qui un Eletto con un messaggio per me.» «Sì, mio signore. Egli dice di avere un messaggio urgente da parte dell'Eterea.» «Un messaggio dell'albero?» chiese Eventine accigliato. «Quanto tempo è trascorso da quando è successo l'ultima volta... più di settecento anni? Qual è il senso di questo messaggio?» «Non ha voluto dirmelo» rispose Ander. «Insiste per comunicartelo personalmente.» Eventine annuì. «Sarà accontentato. Fallo entrare, Gael.» Gael fece un lieve inchino e uscì in gran fretta dalla stanza, lasciando la porta socchiusa. Un attimo dopo, un enorme cane irsuto fece capolino e si avviò silenzioso verso il re. Era Manx, il suo cane pastore alsaziano, e Eventine lo salutò con affetto, strofinandogli la testa brizzolata, accarezzandogli il pelo ispido lungo il dorso e i fianchi. Manx stava con lui da quasi dieci anni, più vicino e fedele di quanto potesse essere un uomo. «Ti stai facendo grigio». «Come me» borbottò tristemente il re. La porta si spalancò e Gael entrò, seguito da Lauren. L'Eletto si fermò sulla soglia per un istante, lanciando un occhiata perplessa a Gael. Il re fece un cenno d'assenso al suo addetto, congedandolo. Anche Ander stava per andarsene. Quando un lieve gesto del padre lo invitò a rimanere. Gael si inchinò di nuovo e se ne andò, questa volta chiudendo accuratamente la porta dietro di sé. Quando fu uscito, l'Eletto fece un passo avanti. «Mio signore, ti prego, perdonami... hanno ritenuto che dovessi essere io a...» «Non c'è nulla da perdonare» lo rassicurò Eventine. Con quel suo fascino naturale che Ander conosceva bene, il re avanzò rapidamente verso il giovane e con un braccio gli cinse le spalle. «So che quanto hai da dirmi deve essere molto importante, altrimenti non avresti abbandonato il tuo lavoro nei Giardini. Siediti e parla.» Lanciò un'occhiata interrogativa a Ander, poi guidò l'Eletto verso un piccolo scrittoio, facendolo sedere e mettendosi di fronte a lui. Ander li seguì, ma rimase in piedi. «Ti chiami Lauren, vero?» chiese Eventine al giovane. «Sì, mio signore.» «Bene, Lauren. Ora dimmi perché sei venuto.»
Lauren si irrigidì e appoggiò le mani sul tavolo, incrociando nervosamente le dita. «Mio Signore, questa mattina, l'Eterea ha parlato agli Eletti.» Le sue parole erano quasi un sussurro. «Ci ha detto... ci ha detto che sta morendo!» Ander si sentì gelare il sangue nelle vene. Per un istante, il re non reagì, ma rimase immobile, rigido, gli occhi fissi sul giovane. «Deve esserci un errore» disse alla fine. Lauren scosse violentemente la testa. «Non c'è alcun errore, mio signore. Ha parlato a tutti noi. Noi... noi tutti abbiamo sentito. Il Divieto ha già cominciato a indebolirsi.» Lentamente, il re si alzò e si diresse verso la finestra aperta, fissando ammutolito la foresta. Manx, che si era accucciato ai suoi piedi, si alzò e lo seguì. Ander vide che la mano del re si protendeva meccanicamente a grattare le orecchie del cane. «Sei sicuro, Lauren?» chiese Eventine. «Proprio sicuro?» «Sì... sì.» Il giovane piangeva piano, quasi in silenzio, la faccia nascosta fra le mani. Eventine non si voltò, ma continuò a guardare intensamente quelle terre boscose che erano la dimora sua e del suo popolo. Ander era raggelato, gli occhi fissi sul padre, la mente ancora stordita per lo choc. La gravità di quel che era stato detto prese lentamente consistenza. L'Eterea moribonda! La fine imminente del Divieto. Il male, già cacciato via, di nuovo in libertà. Caos, follia, morte. E la distruzione di tutto. Aveva studiato storia coi suoi maestri e poi anche sui libri della sua biblioteca. Era una storia che aveva le caratteristiche di una leggenda. Molto, molto tempo addietro, in un'epoca antecedente le Grandi Guerre, prima che nascesse la civiltà del vecchio mondo, ancor prima che sorgesse l'antica razza dell'Uomo, c'era stata una guerra fra creature della magia buona e cattiva. Gli Elfi avevano combattuto dalla parte del bene. Era stata una lotta lunga, terribile, distruttrice. Ma, alla fine, le forze del bene avevano vinto e le forze del male erano state schiacciate. E, tuttavia, la natura del male era tale che non si poteva annientarlo definitivamente, ma soltanto metterlo al bando. Perciò, gli Elfi e i loro alleati avevano unito la loro magia alla forza vitale della terra stessa e avevano creato l'Eterea, affinché la sua esistenza ponesse un Divieto alle creature del male. Finché fosse vissuta, il male non sarebbe potuto tornare sulla terra. Imprigionato in un
limbo oscuro, non poteva far altro che gemere angosciato dietro la barriera del Divieto. La terra gli era preclusa. Fino a ora! Se l'Eterea fosse morta, il Divieto sarebbe terminato. Era scritto che così doveva essere, perché nessun potere era tanto forte da preservarlo per sempre. Eppure l'Eterea esisteva da tante generazioni, immutata, da essere diventata un punto fisso di riferimento nel labirinto mutevole della vita. Gli Elfi erano arrivati a crederla eterna. A torto, evidentemente, e da stupidi. Il re si voltò di scatto, lanciando una breve occhiata a Ander, e tornò allo scrittoio; si rimise a sedere e, per calmare Lauren, gli prese le mani fra le proprie. «Devi ripetermi tutto quel che ti ha detto, Lauren. Ogni particolare. Non tralasciare nulla.» L'Eletto annuì silenziosamente. I suoi occhi erano di nuovo asciutti, il suo volto calmo. Eventine gli lasciò andare le mani e si appoggiò allo schienale, in attesa. Ander prese una sedia dall'altro lato della stanza e sedette accanto a loro. «Mio signore, tu conosci il modo in cui lei comunica con noi?» chiese il giovane, con cautela. «Sono stato anch'io un Eletto, Lauren» rispose Eventine. Ander guardò suo padre, esterrefatto. Non l'aveva mai saputo. Ma Lauren sembrò rassicurato dalla risposta. Annuì, voltandosi verso Ander per spiegare. «Non comunica con i suoni, ma con immagini che trasmette nella nostra mente. Raramente usa le parole; le parole sono la nostra traduzione dei pensieri che lei proietta. È così che faccio, quando mi chiama per nome. Le immagini sono brevi e incomplete, così dobbiamo interpretare come meglio ci riesce.» Si interruppe e si volse nuovamente a Eventine. «Io... questa mattina è stata la prima volta che l'Eterea mi ha parlato, mio signore. Aveva pronunciato il nostro nome soltanto il giorno in cui eravamo stati prescelti. Fino a oggi quasi tutte le nostre conoscenze sul suo modo di comunicare erano basate sugli scritti dell'Ordine e sugli insegnamenti degli Eletti che avevano servito prima di noi. Anche ora, sono molto disorientato.» Eventine annuì, incoraggiandolo. Lauren proseguì. «Mio signore, l'Eterea ci ha parlato a lungo questa mattina, cosa che non aveva mai fatto prima. Ci ha chiamati a lei e ha raccontato quel che accadrà e quel che noi, gli Eletti, dobbiamo fare. Le immagini non erano completamente chiare, ma non ci sono dubbi che sta morendo. È difficile stabilire quanto tempo le rimanga, ma certo è poco. L'erosione è già comincia-
ta. E man mano che lei avvizzisce, il Divieto si indebolisce. C'è un solo rimedio: una sua rinascita.» Eventine afferrò bruscamente il giovane per le spalle. Anche Ander aveva dimenticato... sconvolto e stordito dall'annuncio della morte imminente dell'Eterea. Una rinascita! Era scritto nelle storie più antiche che l'Eterea poteva rinascere e il Divieto essere ripristinato. «Allora c'è ancora speranza» mormorò. Gli occhi di Eventine erano fissi su Lauren. «Che cosa bisogna fare?» Lauren scosse la testa. «Mio signore, ha affidato il suo destino agli Eletti. Soltanto attraverso di noi consentirà a se stessa di rinascere. Io non pretendo di capirne il motivo, ma le immagini erano chiare. Consegnerà il suo seme a uno di noi... ma non ha ancora detto chi. Nessun volto è apparso. Però ci ha fatto capire che soltanto uno degli Eletti scelti da lei quest'ultimo anno potrà ricevere quel seme. Nessun altro verrà preso in considerazione. Il prescelto dovrà portare quel seme alla fonte della vita della terra... Alla fontana del Fuoco di Sangue. E lo dovrà immergere nel fuoco. Una volta tornato al luogo del vecchio albero, il seme metterà radice e un nuovo albero sorgerà al posto del primo.» Ora Ander stava ricordando i particolari della leggenda... il seme dell'Eterea, il rituale del Fuoco di Sangue, la rinascita. Raccontata nello strano, aulico linguaggio delle storie più antiche... storie che quasi tutti avevano dimenticato o semplicemente ignoravano. «La fontana del Fuoco di Sangue... dove si trova?» chiese bruscamente. Lauren era sconsolato. «Ci è stato mostrato un posto, principe, ma... non l'abbiamo riconosciuto. Le immagini erano vaghe, quasi come se non riuscisse a descriverlo adeguatamente.» La voce di Eventine restò calma. «Dimmi quel che vi ha mostrato. Tutto.» Lauren annuì. «Una landa desolata con montagne e paludi tutt'intorno. Una nebbia fitta che andava e veniva. Su quella landa si ergeva un'alta montagna solitaria e al suo interno un labirinto di tunnel affondava nella terra. In qualche punto del labirinto c'era una porta di vetro... vetro che non s'infrange. Dietro la porta il Fuoco di Sangue.» «Nessun nome per illuminarci?» chiese il re pazientemente. «Soltanto uno. Ma era un nome a noi sconosciuto. Sembra che il labirinto in cui è nascosto il Fuoco di Sangue sia chiamato la Cripta.» Cripta? Ander frugò nella sua memoria e scosse la testa. Si alzò, si allontanò di diversi passi dal tavolo, poi improvvisamente si fermò. Si voltò
verso Lauren. «Non c'è altro? Nessuna allusione... dettagli che potrebbero sembrare senza significato?» «No. Questo è tutto.» Il re annuì lentamente rivolto al giovane Elfo. «Bene, Lauren. Hai avuto ragione nell'insistere a parlarmi subito. Ora, vuoi aspettare fuori un poco?» Quando la porta si fu richiusa dietro l'Eletto, Eventine tornò al suo scrittoio e sedette lentamente. Il suo volto sembrava spaventosamente segnato e i suoi movimenti erano quelli di un uomo molto, molto vecchio. Manx gli si mise davanti e il suo muso brizzolato guardò in su con aria affettuosa. Eventine sospirò e accarezzò stancamente la testa del cane. «Sono vissuto troppo?» borbottò. «Se l'Eterea muore, come potrò proteggere il mio popolo da quel che succederà? Io sono il loro re; mia è la responsabilità di proteggerlo. L'ho sempre accettata. Eppure, per la prima volta, me ne dolgo...» Lasciò la frase in sospeso, poi si voltò verso Ander. «Bene, dobbiamo fare tutto il possibile. Ora che Arion è andato nella Sarandanon, avrò bisogno del tuo aiuto.» Ander arrossì all'involontaria offesa. «Va' con Lauren e interroga accuratamente gli Eletti. Vedi se può sapere da loro qualcosa di più. Qualsiasi cosa. Io farò portar su le storie antiche dai sotterranei e le studierò.» «Pensi di poter trovarci qualcosa - lì... o nelle carte del vecchio mondo?» domandò Ander dubbioso. «No. Tu le hai lette più recentemente di me, ma io non ricordo niente. E poi, cos'altro possiamo fare? Per avere almeno una possibilità di trovare il Fuoco di Sangue, non ci basta quel che Lauren è stato in grado di dirci.» Poi fece un cenno di congedo. Ander uscì, unendosi a Lauren, per tornare con lui all'albero dove attendevano gli altri Eletti. Lì avrebbe cercato di scoprire qualcosa di più su quella misteriosa Cripta. Sembrava un tentativo senza speranza. Ma, come aveva detto suo padre, cos'altro potevano fare? 4 Il giorno d'estate era finito in un'esplosione luminosa color rosso e lavanda che inondava tutto l'orizzonte a occidente. Per lunghi, splendidi istanti, il sole sembrò sospeso sulla cresta del Confine, con il suo bagliore che illuminava le foreste delle Terre dell'Ovest e con morbidi, immobili nastri di oscurità intrecciava arabeschi di ombre sulle distese boscose. L'aria si raffreddò lentamente; il calore del giorno svaniva mentre il vento te-
nue della sera frusciava e sospirava fra i grandi alberi silenziosi. Poi la luce si smorzò nel crepuscolo, e la notte cancellò ogni colore nel cielo. La gente della città elfa di Arborlon si avviava stanca verso casa. Nei Giardini della Vita Ander Elessedil scrutava l'Eterea. Nella luce della sera, la grande pianta sembrava normale, come sempre. Ma, prima del tramonto, le tracce della malattia che la stava distruggendo erano apparse evidenti. La malattia progrediva rapidamente: vicino a alcuni rami bassi, aveva cominciato a intaccare la corteccia argentea; ciuffi interi di foglie pendevano inerti, arricciate in punta, il color rosso cupo mutato in nero. Gli Eletti avevano strofinato accuratamente la corteccia con balsami vegetali e avevano strappato via le foglie danneggiate, sperando irragionevolmente che il male potesse essere fermato, e sapendo tuttavia che non era possibile. Ander aveva letto la verità nei loro occhi. Né loro né nessun altro potevano guarire l'Eterea. La pianta stava morendo, e nessuno poteva porvi rimedio. Con un sospiro si voltò, non sapendo nemmeno perché avesse fatto quest'ultima visita ai Giardini. Gli Eletti erano ritornati al loro alloggio un'ora prima, stanchi e scoraggiati. Ammutoliti per un senso di impotenza. Ma lui era venuto ugualmente, spinto dalla speranza irragionevole di trovare in qualche modo le risposte tanto disperatamente necessarie. Non le aveva trovate, naturalmente, e adesso che era scesa la notte, non c'era senso a rimanere. Quando uscì dai Giardini, sentì su di sé lo sguardo delle sentinelle della Guardia Nera. Ignoravano la malattia dell'albero, ma avvertivano qualcosa di anomalo. Era bastato l'andirivieni degli Eletti a comunicarglielo. Presto si sarebbe sparsa la notizia, pensò... si sarebbero diffuse delle voci. Presto si sarebbe dovuto informare il popolo. Ma, per il momento almeno, tutto era tranquillo. Le luci si stavano già spegnendo e dietro le finestre buie molti si apprestavano a coricarsi. Li invidiò. Era poco probabile che lui - e il re - dormissero quella notte. Sospirò di nuovo, desiderando poter fare qualcosa per suo padre. Eventine era sempre stato così sicuro di sé, così fermamente convinto di poter risolvere ogni problema. Ma durante le due visite che Ander gli aveva fatto, il vecchio re era apparso ripiegato su se stesso. Anche se aveva cercato di nasconderlo, era evidente che pensava con disperazione all'annientamento di tutto quel che aveva costruito nel corso della sua vita. Questa era una sfida al di là delle sue possibilità. Senza avergli detto quasi nulla, ave-
va congedato il figlio perché continuasse a aiutare gli Eletti meglio che poteva. Ma era stato un tentativo vano. Ander li aveva interrogati a uno a uno accuratamente, poi li aveva radunati, mettendo a confronto la loro memoria collettiva, cercando la minima informazione che potesse condurre alla Cripta. Ma inutilmente. Nemmeno un attento esame degli scritti del loro Ordine aveva dato frutti. Aveva studiato le storie antiche, controllando e ricontrollando. Vi erano continui riferimenti al sacro Fuoco di Sangue, la fonte della vita del mondo e delle sue creature viventi. Ma mai un cenno a quel luogo misterioso chiamato Cripta. Né l'Eterea era stata di ulteriore aiuto. Dietro suggerimento di Ander, gli Eletti erano tornati da lei, più volte, uno a uno e tutti insieme, supplicandola di aiutarli a capire meglio le immagini. Ma lei non aveva parlato. Era rimasta nel suo silenzio. Mentre si avvicinava alla residenza degli Eletti, Ander vide che tutte le luci erano spente. Evidentemente avevano ripreso il loro ritmo normale e si erano coricati alla solita ora, poco dopo aver terminato il pasto serale. Si augurò che trovassero sollievo nel sonno. Forse sì. Talvolta la disperazione, il senso di impotenza potevano sfinire più del lavoro fisico, e quella era stata una lunga giornata per loro. Stava oltrepassando lentamente la loro residenza, seguendo un sentiero che portava al palazzo per andare a fornire la relazione finale a suo padre, quando un'ombra scura uscì da sotto un basso albero che costeggiava il cammino. «Principe, mio signore!» «Lauren?» fece lui. Poi, mentre la figura si avvicinava, vide che era proprio il giovane Elfo. «Perché non dormi?» «Ci ho provato, ma non riesco. Io... ti ho visto andare verso i Giardini e ho sperato che, al ritorno, passassi di qua. Principe Ander, posso parlarti?» «È quel che stai facendo, Lauren» gli rammentò Ander. Ma il suo breve tentativo di battuta non attenuò l'espressione cupa dell'altro. «Ti è tornato in mente qualche particolare?» «Forse. Non riguardo a quanto detto dall'Eterea, ma si tratta di qualcosa che credo tu debba sapere. Posso fare un tratto di strada con te?» Ander annuì. Proseguirono lungo il sentiero scelto da Ander, allontanandosi lentamente dalla residenza degli Eletti.
«Ho la sensazione di dover essere io a risolvere questo problema» riprese Lauren dopo un istante. «Forse perché l'Eterea ha parlato prima a me; mi sembra che trovare la Cripta sia quasi un mio dovere personale. So che forse così mi attribuisco troppa importanza, ma è quel che sento. E non voglio trascurare nulla.» Lanciò un'occhiata al principe. «Tu mi capisci?» «Credo di sì. Abbiamo dunque trascurato qualcosa?» «Be', sì, mi è venuta in mente una cosa. Ho pensato che non potevo tenermela per me.» Ander si fermò a guardare il giovane Elfo. «Non volevo dirlo al re.» Lauren era sempre più imbarazzato. «E nemmeno agli altri. Non so fino a che punto l'abbiano notato... e non parliamo mai di lei...» Si interruppe. Ander aspettava, paziente. «Si tratta di Amberle. Mio signore, dopo essere stata prescelta, parlò con l'Eterea varie volte... lunghe conversazioni.» Proseguì lentamente. «Aveva un rapporto particolare con l'albero. Io non so se lei se ne sia resa conto. Non ne abbiamo mai discusso...» Ander si era irrigidito bruscamente. Lauren vide la sua reazione e si affrettò a proseguire: «Ma forse l'Eterea potrebbe parlarle di nuovo. Oppure lei potrebbe capirla meglio di noi e forse apprendere qualcosa che a noi sfugge». Per un lungo istante i due si guardarono in silenzio. Poi Ander scosse lentamente la testa. «Amberle non ci può aiutare, Lauren. Se n'è andata. Nemmeno sua madre sa dove sia. Come è possibile trovarla nel breve tempo che ci resta per agire?» L'Elfo dai capelli rossi annuì lentamente, mentre l'ultimo barlume di speranza spariva dal suo volto. «Era soltanto un'idea» disse infine, poi fece per andarsene. «Buona notte, principe Ander.» «Buona notte, Lauren. Grazie per avermelo detto, comunque.» L'Eletto annuì di nuovo prima di allontanarsi lungo il sentiero, la tunica bianca che frusciava mentre scompariva nella notte. Ander rimase a fissarlo un istante il volto bruno turbato. Suo padre aveva chiesto un indizio uno qualsiasi - che permettesse di localizzare la Cripta. Eppure non c'era proprio nessuna speranza di trovare Amberle. Poteva essere in qualsiasi luogo delle Quattro Terre. E quello non era certo il momento più opportuno per ricordarla a Eventine. Era stata la sua prediletta e quando la nipote era stata prescelta, aveva provato gioia e orgoglio profondi. Ma la ragazza
aveva abbandonato il suo compito, e questo l'aveva addolorato ancor più della morte del fratello Aine. Ander scosse la testa lentamente e proseguì verso il palazzo. Gael era ancora al lavoro, la faccia tirata per la stanchezza e la preoccupazione. Era inevitabile che fosse venuto a conoscenza del problema che li assillava, ma si poteva esser certi che avrebbe mantenuto il segreto. Fece per alzarsi, ma sedette subito al cenno di Ander. «Il re ti sta aspettando» disse. «È nel suo studio, rifiuta di coricarsi. Se potessi convincerlo a dormire, anche soltanto per poche ore...» «Vedrò cosa posso fare» promise Ander. Quando il figlio entrò Eventine alzò la testa. Per un attimo scrutò il volto di Ander, leggendovi il messaggio di sconfitta. Poi si scostò dallo scrittoio e si strofinò stancamente gli occhi. Alzatosi, si stiracchiò e si diresse lentamente verso le finestre, scrutando l'oscurità fra le pieghe delle tende. Sul tavolo cosparso di libri, un vassoio col cibo era stato spinto da parte, quasi intatto. Il piccolo studio era buio e tranquillo, le librerie di quercia e le pareti ricoperte di arazzi un miscuglio confuso di colori smorzati e ombra. Intorno erano ammucchiati i libri che Gael aveva portato dai sotterranei. Il re tornò a guardare brevemente il figlio. «Trovato niente?» Ander scosse silenziosamente la testa Eventine ebbe una smorfia. «Nemmeno io...» Si strinse nelle spalle, indicando il libro aperto sul tavolo. «L'ultima speranza. C'è un solo riferimento al seme dell'Eterea e al Fuoco di Sangue. Leggi tu stesso.» Il libro era uno degli oltre cento volumi contenenti le storie dettate dai re elfi ai loro scrivani dai tempi dei tempi. Erano logori, antichi, accuratamente rilegati in cuoio e ottone, tenuti in custodie sigillate che servivano a proteggerli dalla devastazione del tempo. Erano sopravvissuti alle Grandi Guerre e alla distruzione dell'antica razza dell'Uomo. Alla prima e alla seconda Guerra delle Razze. Erano sopravvissuti alle ere di vita e di morte descritte nelle loro cronache. Contenevano tutta la storia nota del popolo elfo. Migliaia e migliaia di pagine, tutte accuratamente vergate nel corso degli anni. Ander si chinò sul libro aperto: col tempo l'inchiostro era diventato marrone, e la calligrafia era di stile antico. Ma le parole erano leggibili. "E allora l'Unico Seme sarà consegnato all'Eletto prescelto per questo compito. E il Seme sarà da lui portato nella sala del Fuoco di Sangue, per essere immerso in quel Fuoco e venir poi restituito alla terra. L'albero, al-
lora, rinascerà e il Grande Divieto durerà in eterno. Così parlò agli Elfi il Grande Mago affinché, anche nel caso morisse, la sua conoscenza fosse tramandata al suo popolo." Eventine annuì mentre Ander alzava gli occhi dal libro. «Ho letto ciascuno di questi volumi, ogni brano che potrebbe interessarci. Ve ne sono altri... ma nessuno è più esplicito di questo.» Ritornò allo scrittoio e rimase a sfogliare distrattamente le pagine dagli orli dorati. «Questo è il più antico. Molto di quel che contiene deve essere soltanto mito. Il resoconto dell'antica guerra fra la magia buona e quella maligna, nomi di eroi, tutto quel che portò al Divieto. Ma non vi è alcun cenno alla Cripta o al luogo dove si trova il Fuoco di Sangue. E nemmeno alla natura della magia che diede origine all'Eterea e al potere del Divieto.» L'ultima omissione non era affatto inconsueta, pensò Ander. Gli antenati raramente mettevano per iscritto i loro segreti. Tali cose venivano tramandate verbalmente in modo da non poter cadere in mano ai nemici. E si diceva che alcune magie fossero tanto potenti da poter essere usate soltanto in un determinato tempo e luogo. Forse era così anche per la magia che aveva creato l'Eterea. Il re tornò a sedere, studiò per un attimo ancora il libro, poi, senza una parola, lo chiuse. «Dovremo accontentarci di quel poco che abbiamo appreso dall'Eterea» mormorò. «E così cercheremo di stabilire ed esplorare i luoghi possibili in cui si trova il Fuoco di Sangue.» Ander annuì silenziosamente. La situazione era disperata. C'era soltanto una vaga possibilità di trovare la Cripta con l'aiuto di quella vaga descrizione. «Vorrei che Arion fosse qui» mormorò improvvisamente suo padre. Ander tacque. Era comprensibile che il re avesse bisogno del figlio maggiore, riconobbe fra sé. Per dirigere e intensificare le ricerche, Arion era il leader più adatto. E la sua presenza gli poteva essere di conforto. Non era il momento di biasimarlo per quel motivo. «Io credo che dovresti dormire, padre» suggerì Ander dopo un attimo di silenzio. «Avrai bisogno di essere riposato per affrontare quello che ti aspetta.» Il re si alzò e si chinò per spegnere le candele sul tavolo. «D'accordo, Ander» disse, sforzandosi di sorridere. «Manda da me Gael. Ma anche tu hai avuto una lunga giornata. Coricati e cerca di riposare il più possibile.»
Ander tornò alla sua casetta. Con suo stupore, si addormentò. Benché la sua mente fosse agitata, la stanchezza fisica ebbe il sopravvento. Si svegliò soltanto una volta durante la notte, quando il suo riposo fu interrotto da un incubo di indescrivibile orrore che lo lasciò madido di sudore. Eppure pochi secondi dopo cadde di nuovo nel sonno, dimenticando l'incubo. Questa volta riposò indisturbato. Era già l'alba quando si svegliò di nuovo, scivolando in gran fretta giù dal letto per vestirsi. Mentre faceva rapidamente colazione e si preparava a lasciare la sua casa si sentiva animato da una rinnovata determinazione. Doveva esserci una risposta al dilemma, un modo per trovare la Cripta. Forse l'Eterea moribonda l'avrebbe data. Forse gli Eletti. Ma c'era una risposta... doveva esserci. Mentre scendeva per il sentiero di ghiaia, vide la prima luce del mattino filtrare attraverso lo schermo delle foreste circostanti. Prima sarebbe andato dagli Eletti - ormai dovevano già essere nei Giardini della Vita - nella speranza che, parlando di nuovo con loro, qualcosa di nuovo emergesse. Anch'essi dovevano aver riflettuto sulla questione, esaminandola sotto ogni aspetto, e forse uno di loro si era ricordato di qualche particolare tralasciato. O forse l'Eterea avrebbe parlato di nuovo quella mattina. Si fermò prima al palazzo, dove Gael era già al suo posto. Ma il giovane Elfo si portò un dito alle labbra, indicando silenziosamente che il re dormiva e non doveva essere disturbato. Ander annuì e se ne andò, grato che suo padre riposasse. La rugiada scintillava ancora sui prati del parco quando si avviò verso i cancelli. Passando, lanciò un'occhiata ansiosa verso i giardini e fu sorpreso di non trovare Went al lavoro. Fu ancor più sorpreso quando vide gli utensili del vecchio sparsi intorno alle aiuole di rose, il metallo ancora sporco di terra. Non era da Went lasciare un lavoro a metà. Se la sua schiena gli procurava troppi guai, bisognava provvedere. Ma a quello avrebbe pensato dopo. Ora c'erano questioni più urgenti. Dopo aver dato un'altra occhiata alle aiuole dietro i cespugli, proseguì in fretta. Qualche minuto dopo camminava veloce lungo i muri coperti d'edera dei Giardini della Vita, seguendo il vecchio sentiero che portava ai loro cancelli. In cima alla Carolan - la torreggiante barriera di roccia che si innalzava bruscamente dalla riva orientale del Rill Song, facendo sì che Arborlon dominasse le terre circostanti - poteva vedere la vasta distesa delle Terre dell'Ovest: a est e a nord, le torri e i viali della città degli Elfi, stretta
nel folto groviglio della foresta; a sud, in lontananza le montagne avvolte di bruma grigia dello Sperone Roccioso e del Baluardo, ravvivate da frammenti di un nastro azzurro dove il fiume Mermidon fendeva la roccia antica scorrendo verso Callahorn; a ovest, sotto la Carolan e oltre la rapida corrente del Rill Song, la valle di Sarandanon, il granaio della nazione elfa. La patria degli Elfi, pensò Ander con orgoglio. Dovevano assolutamente trovare un modo, lui e gli Eletti e suo padre, per salvarla. Qualche minuto dopo si trovava davanti all'Eterea. Non c'era traccia degli Eletti. La pianta era sola. Ander si guardò intorno, incredulo. Gli sembrava impossibile che tutti dormissero ancora, benché la loro vita fosse stata sconvolta dalla rivelazione dell'Eterea. In centinaia di anni, gli Eletti non avevano mai mancato di salutare l'albero allo spuntare del sole. Ander lasciò i Giardini in gran fretta e quasi correva quando arrivò vicino alla cinta di mura della residenza degli Eletti: circondata da sempreverdi, aveva bordure di fiori lungo i vialetti in pietra e mattoni e file ordinate di ortaggi sul retro, la terra nera punteggiata di steli e germogli verdi. Un basso muro di logora roccia racchiudeva il cortile e su ciascun lato si aprivano cancelli di paletti bianchi. La casa era immersa nell'ombra e nel silenzio. Ander rallentò. Oramai, gli Eletti dovevano essere svegli. Eppure non c'era segno di vita. Un senso di gelo si impadronì del principe. Proseguì, scrutando l'ombra al di là della porta aperta, finché si ritrovò all'ingresso. «Lauren?» Pronunciò a bassa voce il nome del giovane Elfo. Nessuna risposta. Si inoltrò nelle ombre cupe oltre la soglia. Registrò un guizzo ai limiti del suo campo visivo, un movimento che giungeva da qualche parte fra i sempreverdi. Lo assalì, raggelandolo, un'improvvisa apprensione. Che cosa c'era là dietro? Con rimpianto pensò alle armi che aveva lasciato nel suo alloggio. Rimase immobile per un po', in attesa. Ma non ci fu nessun altro movimento, nessun suono che tradisse la presenza di un altro essere vivente. Proseguì risoluto. «Lauren?» Poi la sua vista si adattò all'oscurità e il nome del giovane gli rimase in gola. I corpi giacevano sparsi per la stanza come marionette rotte, dilaniati, smembrati e senza vita. Lauren, Jase, tutti gli Eletti morti, straziati come da bestie impazzite. La disperazione lo travolse. Ora non restava nessun
Eletto che potesse portare il seme dell'Eterea, in cerca della Cripta e del Fuoco di Sangue. Non poteva più esservi rinascita per l'albero, né salvezza per gli Elfi. Pur nauseato alla vista della carneficina, non riusciva a andarsene. Rimase lì, sconvolto dall'orrore, con una sola parola che gli urlava nella mente. Demoni! Un attimo dopo, uscì barcollando e dopo aver vomitato convulsamente appoggiato contro il muro della casa. Si sforzò di calmare il suo tremito. Quando finalmente si fu ripreso. corse subito a dare l'allarme alla Guardia Nera, poi si affrettò verso la città. Il re doveva esserne informato, ed era meglio che a riferirgli la notizia fosse suo figlio. Cosa fosse accaduto agli Eletti, era fin troppo chiaro. La malattia dell'Eterea aveva dato il via allo sgretolamento del Divieto. I demoni più forti si erano liberati. Soltanto un demone poteva fare un simile scempio. In un sol colpo, quelle creature maligne avevano eliminato ogni rischio di essere nuovamente imprigionate. Avevano distrutto tutti coloro che potevano contribuire alla rinascita dell'Eterea e al ripristino del Divieto che le aveva cacciate nel buio. Riattraversò di corsa i cancelli di fronte al palazzo imboccando il sentiero di ghiaia che portava oltre i giardini curati dal vecchio Went. Egli era al suo posto, ora: intento a scavare e strappare le erbacce, sollevò per un istante la faccia di pergamena al passaggio del principe. Ander quasi non lo vide, non gli parlò e proseguì in fretta. Went abbassò gli occhi, soddisfatto. Frugando pigramente nella terra nera, il Camaleonte riprese il suo lavoro. 5 Era sera quando Ander Elessedil chiuse la porta della casa che aveva ospitato l'Ordine degli Eletti, facendo scorrere il chiavistello per l'ultima volta. Quando sostò per scrutare il buio che si addensava il silenzio piombò tutt'intorno a lui. La casa era vuota, ora; i corpi dei sei giovani assassinati erano stati portati via da tempo, e Ander aveva raccolto i loro oggetti personali per restituirli ai parenti. Per questi brevi istanti, era solo con i suoi pensieri. Ma non era piacevole indugiarvi. Aveva visto come i loro corpi mutilati venivano portati via e i libri contenenti la storia del loro Ordine venivano
poi raccolti per essere messi al sicuro nei sotterranei del palazzo degli Elessedil. Dietro suggerimento del padre, aveva esaminato gli scritti pagina per pagina, alla ricerca di una rivelazione sul mistero della Cripta che potesse esser loro sfuggita. Non aveva trovato nulla. Scosse la testa. Che differenza faceva? pensò, desolato. Che cosa importava, ormai, sapere dove era situata la Cripta? Senza un Eletto per portare il seme, che bisogno c'era di trovare il Fuoco di Sangue? E tuttavia, era stato contento di avere qualcosa da fare - qualsiasi cosa - che lo aiutasse a distogliere il pensiero da quel che aveva visto quando aveva trovato Lauren e gli altri. Si allontanò dalla casa vuota, attraversò il cortile e imboccò il sentiero che portava ai Giardini della Vita. Per tutta la Carolan, i fuochi delle torce guizzavano nell'oscurità che si addensava. C'erano soldati ovunque: la Guardia Nera circondava i Giardini e la Guardia Reale - il corpo di guardia personale del re formato da Cacciatori elfi - pattugliavano le strade e i viali della città. Com'era comprensibile, gli Elfi erano spaventati dall'accaduto. Quando la notizia del massacro si era sparsa, Eventine aveva agito prontamente affinché il suo popolo si sentisse al sicuro da un simile destino, pur essendo convinto, da parte sua, che non corresse un pericolo immediato. La cosa che aveva ucciso gli Eletti non si era scagliata contro nessun altro. Gli Eletti erano stati il suo unico bersaglio. E tuttavia non era un male prendere precauzioni. Tali provvedimenti sarebbero serviti sia a arginare il panico che il re sentiva diffondersi nel suo popolo sia a salvaguardare la città. Il vero danno, tuttavia, era già stato fatto. La pianta stava morendo, e ora non sarebbe più rinata. Una volta morta, il Divieto sarebbe crollato e il male imprigionato in esso si sarebbe liberato e avrebbe cercato di annientare tutti gli Elfi. E, morta l'Eterea, quale miracolo di magia elfa si poteva escogitare per impedire la catastrofe? Ander rimase davanti alle mura dei Giardini. Inspirò lentamente, per calmarsi, respingendo il senso di disperazione che si stava impadronendo di lui da quel mattino, poco a poco, come una malattia insidiosa. Che cosa mai dovevano fare? Anche se gli Eletti fossero rimasti in vita, non avrebbero saputo dove cercare il Fuoco di Sangue. Col Divieto che già cominciava a erodersi, non c'era mai stato il tempo per scoprirlo. E ora che gli Eletti erano morti... Amberle. Si sentì sussurrare quel nome nella mente. Amberle. L'ultima volta che aveva visto Lauren, l'Eletto gli aveva parlato di lei. Forse poteva essere
d'aiuto, aveva suggerito l'Elfo dai capelli rossi. Allora l'idea gli era parsa assurda. Ora qualsiasi soluzione sembrava preferibile all'inerzia. La mente di Ander turbinava. Come convincere suo padre a prendere in considerazione l'eventualità di ricorrere a Amberle? Come convincere suo padre anche soltanto a discutere in proposito? Ricordò l'amarezza e la delusione del vecchio re il giorno in cui aveva appreso che Amberle aveva abbandonato il suo incarico. Poi pensò alla disperazione dipinta sul volto di suo padre il mattino in cui aveva ricevuto la notizia del massacro degli Eletti. Non gli fu difficile decidere. Il re era pronto a accettare qualsiasi aiuto. Con Arion lontano nella Sarandanon, Ander sapeva che doveva essere lui a aiutarlo. E cos'altro poteva fare se non suggerire a suo padre di cercare Amberle? «Principe degli Elfi?» La voce veniva dal nulla, cogliendo Ander di sorpresa e facendolo sobbalzare, con un'esclamazione soffocata. Un'ombra più scura della notte scivolò fuori dal riparo dei pini che crescevano intorno alle mura dei Giardini della Vita. Per un istante, Ander rimase senza fiato. paralizzato dall'indecisione. Poi, mentre si affrettava a estrarre la spada che portava alla vita, l'ombra gli fu davanti e una mano fu sulla sua, trattenendogli il braccio in una morsa d'acciaio. «Pace a te, Ander Elessedil.» La voce era sommessa, ma ferma. «Io non sono tuo nemico.» L'immagine confusa era quella di un uomo alto più di due metri. La sua figura magra, scarna, era tutta avviluppata in un mantello nero e il cappuccio tirato sopra la testa lasciava intravvedere della sua faccia soltanto gli occhi scintillanti come quelli di un gatto. «Chi sei tu?» riuscì finalmente a chiedere il principe degli Elfi. L'altro sollevò le mani e tirò indietro il cappuccio. rivelando il suo volto. Era segnato, come scolpito nella pietra, ombreggiato da una corta barba nera che incorniciava una bocca larga, senza sorriso, e da capelli lunghi fino alle spalle. Gli occhi da gatto, scuri e penetranti, lo fissavano da sotto folte sopracciglia aggrottate sopra un lungo naso sottile. Il principe scoprì di non poter evitare quello sguardo. «Tuo padre mi avrebbe riconosciuto» sussurrò l'uomo. «Sono Allanon.» Ander si irrigidì, incredulo. «Allanon?» Scosse lentamente la testa. «Ma... ma Allanon è morto!» Non c'era sarcasmo nella voce profonda, e gli occhi scintillarono di nuovo. «Ti sembro morto, principe degli Elfi?»
«No... no...» Ander esitò. «Ma sono trascorsi più di cinquant'anni...» La sua voce si smorzò, al ricordo delle storie raccontate da suo padre: la ricerca della spada di Shannara; la liberazione di Eventine dal campo degli eserciti nemici; la battaglia di Tyrsis; la sconfitta del Signore degli Inganni a opera del Giovane della Valle Shea Ohmsford. E Allanon era sempre stato presente, trasmettendo la sua forza e saggezza ai popoli assediati delle Quattro Terre. Quando tutto fu finito e il Signore degli Inganni distrutto, Allanon era svanito nel nulla. Shea Ohmsford, si diceva, era stato l'ultimo a vederlo. Secondo certe voci, Allanon era tornato ancora alle Quattro Terre. Ma non aveva più fatto visita agli Elfi. Nessuno si era aspettato di rivederlo. E tuttavia, come diceva spesso Eventine, dal Druido ci si poteva aspettare di tutto. Viaggiatore, storico, filosofo e mistico, custode delle razze, l'ultimo degli antichi Druidi, i saggi del nuovo mondo... questo si diceva di Allanon. Ma era veramente lui? sussurrò una voce nella mente di Ander. L'uomo si fece avanti. «Guardami bene, principe degli Elfi» ordinò. «Capirai che dico il vero.» Ander scrutò il volto cupo, i profondi occhi scintillanti, e improvvisamente tutti i dubbi scomparvero. L'uomo davanti a lui era veramente Allanon. «Voglio che tu mi porti da tuo padre.» Aveva ripreso a parlare, a voce bassa, circospetta. «Scegli un sentiero poco frequentato. Desidero che nessuno sappia del mio arrivo. Presto, prima che arrivino le sentinelle.» Ander non perse tempo a discutere. Col Druido che lo seguiva da vicino come la propria ombra, scivolò oltre i Giardini della Vita e si affrettò verso la città. Qualche minuto dopo, stavano rannicchiati in un boschetto di sempreverdi a un'estremità del parco, davanti a un piccolo cancello laterale chiuso con catena e lucchetto. Ander prese un mazzo di chiavi dalla tasca e ne infilò una nella serratura. Con uno scatto stridente, il lucchetto si aprì. Un attimo dopo erano dentro. Normalmente, il parco veniva sorvegliato soltanto dalle sentinelle di guardia al cancello. Ma, lo stesso giorno, dopo la scoperta dei corpi straziati degli Eletti, era stato trovato anche il cadavere di Went, col collo spezzato, sotto un cespuglio in fondo ai giardini. La sua morte era avvenuta in modo completamente diverso da quella degli Eletti, per cui non vi era motivo di credere che vi fosse un nesso. Tuttavia, quest'ultimo omicidio
era stato compiuto troppo vicino al re. Perciò era stata aumentata la sorveglianza nel parco, e Dardan e Rhoe, le guardie personali di Eventine, erano di fazione davanti alla porta della sua camera. Ander non avrebbe mai creduto che qualcuno potesse raggiungere il palazzo dalle mura esterne senza essere visto dalle sentinelle. Tuttavia, sotto la guida del Druido, riuscirono a passare indisturbati. Come un'ombra della notte, Allanon si muoveva silenziosamente, tenendosi sempre accanto Ander, finché raggiunsero la portafinestra a piano terra da cui si poteva accedere allo studio del re. Lì si fermarono un istante mentre il Druido stava in ascolto. Poi Allanon afferrò la maniglia di ferro e la spinse. La porta-finestra si aprì silenziosamente e il Druido e il principe elfo entrarono. Eventine Elessedil si alzò dal suo scrittoio ancora ingombro di libri, guardando incredulo prima il figlio, poi l'uomo che lo seguiva. «Allanon!» sussurrò. Il Druido chiuse accuratamente la porta-finestra, sistemò le tende, come si trovavano prima, poi si voltò alla luce delle candele. «Dopo tutti questi anni!» Eventine scosse la testa, meravigliato, e si scostò dal tavolo. Poi vide chiaramente la faccia dell'uomo e l'incredulità si mutò in stupore. «Allanon! Tu non sei invecchiato! Tu... non sei cambiato da quando...» Le parole gli morirono in gola. «Come...?» «Io sono quello che sono sempre stato» tagliò corto il Druido. «Non c'è altro da sapere, re degli Elfi.» Eventine annuì in silenzio, ancora stordito dall'improvvisa comparsa dell'altro. Lentamente tornò allo scrittoio, e i due sedettero uno di fronte all'altro. Ander rimase dov'era per un istante, non sapendo se andare o restare. «Siedi qui con noi, principe elfo» Allanon gli indicò una terza sedia. Ander ubbidì rapidamente, grato di non essere escluso, ansioso di udire quel che si sarebbe detto. «Tu sai cosa è accaduto?» fece il re, rivolto a Allanon. Il Druido annuì. «È per questo che sono venuto. Ho avvertito una breccia nel Divieto. Qualcosa imprigionato là dentro è penetrato in questo mondo, qualcosa che ha veramente un grande potere. È stata la comparsa di questa creatura...» Si udì un debole rumore di passi nel corridoio davanti alla porta dello studio, e il Druido si alzò di scatto. Poi si fermò, calmo in volto, e guardò il re.
«Nessuno deve sapere che sono qui.» Eventine si limitò a annuire. Si alzò rapidamente dal tavolo, si diresse alla porta e l'aprì. Manx se ne stava accoccolato lì davanti, agitando lentamente la coda, il muso brizzolato alzato verso il padrone. Eventine uscì nel corridoio e vide Gael che si avvicinava con un vassoio per il tè. Il re glielo prese con un sorriso. «Voglio che tu vada a casa e ti riposi» ordinò. Quando Gael tentò di replicare, scosse con decisione la testa. «Non ammetto obiezioni. Avremo molto da fare domani mattina. Va' a casa. Io non ho bisogno di nulla. Chiedi a Dardan e Rhoe di montare la guardia finché non mi corico. Non voglio essere disturbato.» Si voltò bruscamente e rientrò nello studio, chiudendo bene la porta dietro di sé. Manx era entrato, annusando incuriosito lo straniero che aveva trovato seduto davanti allo scrittoio; poi, evidentemente soddisfatto, si era accucciato vicino al camino di pietra, il muso appoggiato sulle zampe, chiudendo placidamente gli occhi marrone. Eventine sedette di nuovo. «È stata quella creatura, dunque, a uccidere gli Eletti?» chiese, riprendendo la conversazione. Il Druido annuì. «Credo proprio di sì. Ho avvertito il pericolo che incombeva su di loro e sono venuto al più presto possibile. Non in tempo, purtroppo, per salvarli.» Eventine sorrise tristemente. «La colpa è mia, temo. Li ho lasciati senza protezione, anche dopo aver saputo che il Divieto aveva cominciato a venir meno. Ma forse non fa alcuna differenza. Anche se fossero rimasti vivi, non sono certo che sarebbero riusciti a salvare l'Eterea, che a loro non aveva fornito nessun dato utile per trovare il Fuoco di Sangue. Anche il nome da lei indicato, la Cripta, ci è ignoto. Tu lo conosci?» Allanon scosse la testa. «I nostri libri non parlano della Cripta - né quelli dei miei predecessori e degli Eletti» proseguì il re. «Mi trovo ad affrontare una situazione impossibile. L'Eterea sta morendo. Per salvarla, uno degli Eletti a lei addetto doveva portare il suo seme al Fuoco di Sangue, immergerlo nelle fiamme e poi restituirlo alla terra per consentire la rinascita della pianta.» «Conosco la storia» intervenne il Druido. Il re avvampò. La collera e la frustrazione che aveva controllato con tanta fatica stavano prendendo il sopravvento su di lui. «E allora considera un po' questo. Non sappiamo dove si trovi il Fuoco di Sangue. Da nessuna parte compare il nome Cripta. E ora gli Eletti sono
tutti morti. Non abbiamo nessuno che possa portare il seme dell'Eterea. Quindi le conseguenze sono inevitabili. L'Eterea morirà, il Divieto sarà infranto, il male imprigionato sarà di nuovo liberato, e gli Elfi e, molto probabilmente, tutte le razze delle Quattro Terre si troveranno ad affrontare una guerra fatale!» Si protese verso l'altro. «Io sono un re, soltanto un re. Tu sei un Druido, un mago. Se puoi, aiutaci. Io non so cos'altro potrei fare.» Il Druido piegò leggermente la testa di lato, come se meditasse. «Prima di venire da te, Eventine, sono stato nei Giardini della Vita e ho parlato con l'Eterea.» Il re lo guardò incredulo. «Tu hai parlato con...?» «Forse sarebbe più esatto dire che lei ha parlato con me. Se non fosse stato per lei, non ci sarebbe stata nessuna comunicazione fra noi, naturalmente.» «Ma lei parla soltanto con gli Eletti» interloquì Ander, poi tacque all'improvviso, vedendo suo padre aggrottare la fronte, infastidito. «Mio figlio ha ragione, Allanon.» Eventine si voltò verso il Druido. «L'Eterea non parla che agli Eletti... e solo raramente.» «Parla a coloro che la servono» replicò Allanon. «Fra gli Elfi, solo gli Eletti lo fanno. Ma anche i Druidi hanno servito l'Eterea, se pure in modo diverso. Comunque, io mi sono semplicemente presentato e lei ha deciso di parlarmi. Da quel che mi ha detto, risulta che la tua visione delle cose è errata almeno sotto un certo aspetto.» Eventine attese che il Druido proseguisse. Ma l'altro rimase in silenzio, fissando l'Elfo con aria indagatrice. «E va bene, allora te lo chiederò.» Il re si impose di restare calmo. «In che cosa mi sbaglio?» «Prima che te lo dica» fece Allanon, chinandosi in avanti, «voglio che tu sappia una cosa. Sono venuto a dare tutto l'aiuto che è in mio potere dare, poiché il male che è imprigionato dentro il Divieto minaccia tutte le creature viventi delle Quattro Terre. Quel che darò, lo darò spontaneamente. Ma a una condizione. Devo essere libero di agire come mi sembrerà più opportuno. Anche contro il tuo parere, Eventine Elessedil. Anche in tal caso. Capito?» Il re esitò, gli occhi azzurri che scrutavano il volto scuro dell'altro, cercandovi una risposta che non poteva trovarvi. Alla fine annuì. «Capisco. Potrai agire liberamente.»
Il Druido tornò a sedere, mascherando accuratamente ogni emozione di fronte a Ander e al re. «Primo, credo di poter contribuire a scoprire dove si trova la Cripta. L'immagine che mi mostrò l'Eterea quando parlammo non mi era familiare, come ho detto. Non era familiare perché proveniva dal suo ricordo del mondo all'epoca in cui fu creata. Le Grandi Guerre alterarono la geografia del vecchio mondo in modo così radicale che essa ne ha ora una percezione errata. Eppure, il nome Cripta esiste. Tu mi hai detto che esso non compare nelle storie dei re elfi e nemmeno in quelle dell'Ordine degli Eletti. Ma c'è un altro luogo in cui cercare. A Paranor, nella fortezza dei Druidi, vi sono volumi di storia dedicati interamente alle scienze e ai fenomeni sovrannaturali del vecchio mondo. È possibile che quei libri contengano qualche accenno alla creazione dell'Eterea e al luogo in cui si trova il Fuoco di Sangue. È una possibilità concreta, poiché gran parte delle informazioni contenute in quelle storie furono raccolte durante il Primo Consiglio dei Druidi... Fornite da ciascun membro così come erano state tramandate dall'epoca dell'olocausto. Ricorda che a guidare quel consiglio fu Galaphile, e Galaphile era Elfo. Egli avrà certo provveduto a lasciare notizie sulla creazione dell'Eterea e sul luogo ove si trova la fontana del Fuoco di Sangue.» Fece una pausa. «Stanotte, appena avremo finito di parlare, andrò a Paranor. Solo i Druidi sanno dove sono nascosti i libri, per cui devo assolutamente andare io stesso. Ma credo che in quelle pagine sia menzionata la Cripta. Dagli scritti possiamo sperare di scoprire l'ubicazione della fontana del Fuoco di Sangue.» Congiunse le mani sull'orlo del tavolo, gli occhi ora fissi in quelli del re. «Quanto agli Eletti, Eventine, hai torto. Non sono tutti morti.» Per un istante, un pesante silenzio calò nella stanza. Amberle! pensò Ander, stupefatto. Allude a Amberle! «Sono stati uccisi tutti e sei...!» cominciò Eventine, poi si interruppe bruscamente. «Gli Eletti erano sette» ribatté calmo il Druido. «Sette.» Il re si irrigidì, aggrappandosi con entrambe le mani al tavolo finché gli si sbiancarono le nocche. I suoi occhi esprimevano collera e incredulità. «Amberle!» sussurrò il nome come una maledizione. Il Druido annuì. «È una degli Eletti.» «No!» Il re scattò in piedi, urlando. «No, Druido!»
Si sentì un rumore frettoloso di passi nel corridoio e poi un battere di pugni sulla porta dello studio. Ander comprese cosa era successo. Le urla del re avevano richiamato Dardan e Rhoe. In gran fretta andò alla porta e l'aprì. Fu sorpreso di trovare non solo le guardie, ma anche Gael. Tutti guardarono incuriositi nello studio, ma il principe elfo fece in modo di impedire loro la vista. Poi suo padre gli si affiancò. «Ti avevo detto di tornare a casa» fece il re, rimproverando severamente il giovane elfo. «Ubbidisci.» Gael si inchinò meccanicamente, palesemente addolorato per le parole dell'altro, e si allontanò subito, senza una parola. Eventine fece un cenno rassicurante ai Cacciatori elfi, e quelli tornarono al loro posto. Il re rimase in silenzio sulla soglia per un istante, poi chiuse la porta. I penetranti occhi azzurri si fissarono su Allanon. «Come hai saputo di Amberle?» «Quando l'Eterea mi ha parlato, mi ha detto che sette erano stati i prescelti a servirla. Fra questi c'era una ragazza. Amberle Elessedil.» Il Druido si interruppe, scrutando la faccia del re elfo, segnata dall'amarezza, pallidissima. «È fuori della norma che una giovane donna venga prescelta» proseguì calmo Allanon. «Ce ne sono state pochissime, credo... nessuna da cinque secoli a questa parte.» Il re scosse la testa, incollerito. «L'esser stata prescelta non ha significato niente per Amberle. Ha rifiutato quell'onore. Ha portato la vergogna sul suo popolo e sulla sua famiglia. Non fa più parte degli Eletti. Non è più una cittadina di questa terra. Ha scelto lei stessa l'esilio!» Allanon si alzò rapidamente, con un'espressione improvvisamente dura. «È tua nipote, e tu parli come un pazzo.» al rimprovero, Eventine si irrigidì, ma tenne a freno la lingua. Il Druido gli si avvicinò. «Ascoltami. Amberle è un'Eletta. È vero che, diversamente dagli altri, non ha servito l'Eterea. È vero che ha abbandonato il suo incarico. È vero che, per motivi noti soltanto a lei, ha lasciato Arborlon e le Terre dell'Ovest nonostante le responsabilità che evidentemente le toccavano, che ha screditato la sua famiglia e in particolare te, il re, agli occhi del tuo popolo. È vero che ha scelto l'esilio. È vero che crede di non essere più una degli Eletti. «Ma sappi questo. Non sta a te e nemmeno al tuo popolo toglierle quel che l'Eterea le ha dato. E nemmeno a lei. Soltanto l'Eterea può farlo. Finché lei lo vuole, Amberle resta un'Eletta al suo servizio... un'Eletta che può
portare il suo seme e partire alla ricerca del Fuoco di Sangue, un'Eletta che può darle nuova vita.» Allanon rimase in silenzio per un attimo. «Non è detto che un re possa capire tutto, Eventine Elessedil, anche se è re. Certe cose deve semplicemente accettarle.» Eventine rimase a fissare il Druido senza parlare e, nei suoi occhi, alla collera subentrarono dolore e sgomento. «Le ero molto affezionato» disse infine. «Dopo che suo padre - mio figlio Aine - morì, diventò come una figlia per me. Era ancora una bambina, aveva solo sette anni. La sera, giocavamo insieme...» Si interruppe, incapace di proseguire. Inspirò a fondo, per calmarsi. «Aveva qualcosa che non ho mai ritrovato in nessun altro: una dolcezza, un'innocenza, un'inclinazione naturale a amare. Anche se sono un vecchio che parla della sua nipotina, non sono cieco. La conoscevo bene.» Allanon rimase in silenzio. Il re tornò al suo scrittoio e lentamente sedette. «Dall'epoca di Jerle Shannara le storie non registrano nessun nome di donna prescelta a servire l'Eterea. Amberle è stata la prima... la prima in più di cinque secoli. Un onore per il quale altri avrebbero dato qualsiasi cosa.» Scosse la testa, pensieroso. «Eppure Amberle l'ha rifiutato. Senza dare spiegazioni... né a me, né a sua madre, né a nessun altro. Non una parola. Se n'è semplicemente andata.» Si interruppe, disperato. Allanon gli stava di fronte, con i suoi intensi occhi neri. «Occorre fare in modo che ritorni. È l'unica speranza del popolo elfo.» «Padre!» Ander non riusciva più a controllarsi. Impulsivamente si inginocchiò davanti al vecchio. «La sera prima di essere ucciso, Lauren mi disse qualcosa. Mi disse che l'Eterea aveva parlato diverse volte con Amberle, dopo che era stata prescelta. E che questo non era mai successo con nessuno, prima. Forse Amberle è la nostra migliore speranza.» Il re lo guardò con occhi assenti, come se quel che aveva detto il figlio non avesse significato per lui. Poi appoggiò le mani sulla superficie logora dello scrittoio e annuì. «È soltanto una debole speranza, Ander. Può darsi che il nostro popolo l'accetti, se non altro perché ne ha bisogno. Ma non ne sono completamente sicuro: il suo rifiuto è imperdonabile. E forse anche l'Eterea l'accetterà come Eletta, e le affiderà il suo seme. Non pretendo di poter rispondere a questi interrogativi, e d'altro canto i miei sentimenti non contano.» Si voltò
verso Allanon. «Ma sarà Amberle a non volerne sapere, Druido. Quando lasciò la sua terra, la lasciò per sempre. Credeva fermamente di doverlo fare - oppure qualcosa l'ha indotta a crederlo. Tu non la conosci come la conosco io. Non tornerà mai.» L'espressione di Allanon non cambiò. «Resta da vedersi. Per lo meno dobbiamo chiederglielo.» «Non so dove si trovi» disse il re con amarezza. «E credo che non lo sappia nessuno.» Con cura. il Druido versò del tè e porse la tazza a Eventine. «Io lo so.» Il re lo fissò per un attimo senza parola. Il suo volto rivelava emozioni contrastanti, e all'improvviso i suoi occhi si riempirono di lacrime, lacrime che scomparvero così come erano venute. «Avrei dovuto immaginarlo» disse infine. Si alzò, poi si allontanò dal tavolo, il volto seminascosto dalle ombre. Anche Allanon si era alzato. Poi, con sorpresa di Ander, disse: «Prima che io parta richiedo per un breve tempo i servizi di tuo figlio». Eventine non si voltò. «Come desideri.» «Ricorda... nessuno deve sapere che sono stato qua.» Il re annuì. «Nessuno lo saprà.» Un attimo dopo il Druido varcava la porta-finestra e scompariva. Ander rimase a guardare suo padre, esitando, poi uscì anche lui. Sapeva che ora i pensieri del vecchio erano rivolti a Amberle. Nella notte delle foreste occidentali a nord della Carolan, il Dagda Mor sedeva tranquillo, gli occhi chiusi. Quando li riaprì, luccicavano di soddisfazione. Il Camaleonte aveva fatto un buon servizio. Si alzò lentamente, il Bastone del Comando che avvampava mentre le sue mani stringevano il legno levigato. «Druido» sibilò. «So che cosa ti proponi di fare.» Fece un cenno alla sagoma informe che era il Mietitore, e il mostro si librò in alto nella notte. Il Dagda Mor guardò verso est. Avrebbe aspettato il Druido a Paranor. Ma non da solo. Percepiva il suo potere, e voleva andare cauto. Il Mietitore era forse abbastanza forte da contrastarlo, ma il Dagda Mor aveva altri piani per lui. No, gli occorreva un altro aiuto. Avrebbe portato qualcuno dei suoi fratelli attraverso la barriera sgretolata del Divieto. Abbastanza da intrappolare il Druido. Abbastanza da ucciderlo.
6 Allanon aspettò che Ander uscisse dallo studio illuminato, e insieme rifecero il percorso attraverso il parco e ripassarono dal piccolo cancello laterale. Poi Allanon chiese di essere accompagnato alle scuderie. Silenziosamente i due seguirono uno stretto sentiero che, per un tratto di foresta, conduceva al recinto dei cavalli e poi all'ingresso delle scuderie. Dopo aver congedato e rassicurato il vecchio stalliere, lui e Allanon entrarono. Lampade a olio illuminavano una doppia fila di box e nel silenzio si udivano i nitriti smorzati dei cavalli. Allanon camminava lentamente lungo il locale, gli occhi che si spostavano da un cavallo all'altro mentre arrivava alla fine della prima fila e passava in rassegna la seconda. Ander lo seguiva, attento. Infine Allanon si fermò e si voltò verso Ander. «Quello» indicò. «Avrò bisogno di lui.» Ander guardò nervosamente il cavallo scelto da Allanon. Si chiamava Artaq, uno stallone enorme nero come il carbone alto diciotto palmi. Artaq era abbastanza grosso e forte da portare qualcuno come Allanon, e poteva sopportare qualsiasi sforzo. Era un cavallo da sella, dotato di una fibra eccezionale, che poteva essere velocissimo nelle brevi distanze. Aveva la testa stretta e piuttosto piccola, soprattutto se paragonata al suo gran corpo dal torace potente; gli occhi distanti l'uno dall'altro e di un sorprendente azzurro, brillanti d'intelligenza. Artaq non poteva essere cavalcato da chiunque. Era proprio quello il problema. Artaq era cocciuto e del tutto imprevedibile. Si divertiva a giocare dei tiri ai suoi cavalieri, facendoli finire generalmente per terra. Non pochi erano rimasti feriti, a causa di quelle cadute. Se l'uomo che lo montava non era abbastanza forte e rapido da evitarlo, Artaq trovava il modo di buttarlo a terra nel giro di pochi secondi. Pochi osavano correre quel rischio. Persino il re non lo cavalcava più, anche se un tempo era stato uno dei suoi preferiti. «Ve ne sono degli altri...» suggerì Ander esitante, ma Allanon già scuoteva la testa. «Questo è il cavallo che mi occorre. Come si chiama?» «Artaq» rispose il principe elfo. Per un po', Allanon esaminò attentamente la bestia, poi sollevò il saliscendi del box e entrò. Ander si avvicinò per osservare la scena. Il Druido rimase fermo davanti alla grande bestia nera, poi alzò una mano come per
invitarlo a avvicinarsi. Con stupore di Ander, Artaq ubbidì. Allanon gli accarezzò lentamente, con dolcezza il suo collo di seta, e si protese per sussurrargli qualcosa all'orecchio. Poi gli mise la cavezza e lo portò via per prendere i finimenti. Ander lo seguì, scuotendo la testa. Il Druido scelse sella e briglie e, dopo avere tolto la cavezza, le applicò con cura al cavallo. Con un'ultima parola di incoraggiamento, gli montò in groppa. Ander trattenne il fiato. Lentamente Allanon percorse la scuderia per tutta la sua lunghezza. Artaq era ubbidiente e malleabile. Non avrebbe giocato nessun tiro a quest'uomo. Il Druido tornò da Ander e smontò. «Durante la mia assenza, principe elfo, sarai tu responsabile di tuo padre» disse, gli occhi neri fissi su Ander. «Fa' in modo che nessuno gli faccia del male.» Fece una pausa. «Conto su di te.» Ander annuì, compiaciuto che Allanon gli mostrasse una tale fiducia. Il Druido lo scrutò ancora un attimo, poi si voltò. Seguito dal principe, condusse Artaq verso la porta della scuderia e l'aprì. «Arrivederci, Ander Elessedil» disse, e montò in sella. Varcata la soglia, scomparve nel buio. Ander rimase a guardarlo finché non si fu dileguato. Per il resto di quella notte e per gran parte dei tre giorni successivi, Allanon cavalcò verso est, diretto a Paranor. Attraversò le folte foreste delle Terre dell'Ovest, la storica valle di Rhenn e di lì giunse nella vasta plaga desolata delle Pianure di Streleheim. Viaggiava a un ritmo costante, fermandosi solo per far riposare Artaq, per nutrirlo e dissetarlo, tenendosi accuratamente al coperto dove era possibile, stando alla larga dalle piste e dalle strade frequentate. Finora, soltanto il re elfo e suo figlio sapevano che era tornato alle Quattro Terre. Soltanto loro sapevano che si proponeva di consultare i volumi di storia a Paranor e che esisteva un settimo Eletto. Se il male che era penetrato attraverso il Divieto l'avesse scoperto, la sua missione sarebbe stata gravemente minacciata. La segretezza era il suo migliore alleato, e intendeva preservarla. Al tramonto del secondo giorno di viaggio, arrivò a Paranor. Era sicuro di non essere stato seguito. A una certa distanza dall'antica fortezza, lasciò Artaq in un boschetto di abeti rossi dove c'erano buona erba e acqua e procedette a piedi. I branchi di lupi che si aggiravano nelle foreste circostanti, all'epoca del Signore degli Inganni, non esistevano più. La barriera di spine avvelenate che pro-
teggeva la Fortezza era scomparsa. Nel primo crepuscolo, la distesa boscosa era quieta e placida e l'aria vibrava piacevolmente. Pochi minuti dopo era ai piedi della Fortezza dei Druidi. L'antico castello si ergeva in cima a una immensa rupe, che si levava sopra le foreste come se una mano gigantesca l'avesse proiettata fuori dalle viscere della terra. Era una visione fantastica, da favola, un labirinto irreale di torri e mura, guglie e parapetti, le bianche pietre, corrose dalle intemperie, che si stagliavano contro il blu profondo del cielo notturno. Allanon si fermò. La storia di Paranor era la storia dei Druidi, la storia dei suoi antenati. Era cominciata un millennio dopo che le Grandi Guerre avevano quasi annientato la razza dell'Uomo e stravolto per sempre la faccia del mondo antico. Era cominciata dopo anni di desolazione e barbarie, quando i superstiti dell'olocausto lottavano per sopravvivere in un pericoloso nuovo mondo dove l'uomo non era più la specie dominante. Era cominciata dopo la rinascita dell'unica specie umana nelle nuove razze degli Uomini, dei Nani, degli Gnomi e dei Troll, e dopo la ricomparsa degli Elfi. Era cominciata a Paranor, dove si era riunito il Primo Consiglio dei Druidi nello sforzo disperato di salvare il nuovo mondo dall'anarchia totale. Galaphile li aveva convocati là... Galaphile, il più grande dei Druidi. Così la storia del mondo antico, tramandata per iscritto e per via orale, era stata registrata nei documenti dei Druidi, in modo da essere preservata per tutte le generazioni future. I misteri delle antiche scienze erano stati esplorati, i frammenti collegati fra loro, i segreti di pochi resi patrimonio comune. Per centinaia di anni i Druidi erano vissuti a Paranor a lavorare intensamente, intenti a ricostruire quel che era andato perduto. Ma i loro sforzi erano falliti. Uno di loro era caduto vittima dell'ambizione e di una sconsiderata impazienza, intrigando con un potere così grande e maligno che alla fine ne era stato consumato. Si chiamava Brona. Nella Prima Guerra delle Razze aveva guidato un esercito di Uomini contro le altre specie, cercando di impadronirsi delle Quattro Terre. I Druidi avevano domato l'insurrezione e costretto lui a nascondersi. L'avevano creduto morto. Ma cinque secoli dopo, era riapparso - non più Brona, ma il Signore degli Inganni. Aveva intrappolato i Druidi ignari nella loro Fortezza e li aveva massacrati... tutti tranne uno. Questi era Bremen, il padre di Allanon. Bremen aveva forgiato una spada magica, un talismano contro il quale il Signore degli Inganni era impotente, l'aveva consegnata al re elfo, Jerle Shannara. Con quell'arma gli Elfi e i loro alleati avevano vinto la
Seconda Guerra delle Razze e cacciato il Signore degli Inganni dal loro mondo. Dopo la morte di Bremen, Allanon era rimasto l'ultimo dei Druidi. Aveva sigillato la Fortezza per sempre. Paranor era diventato un monumento storico per le razze, la pietra miliare di un'altra epoca, un'epoca di grandi uomini e di eventi ancor più grandi. Il Druido scosse la testa. Questo era il passato; ora doveva occuparsi soltanto del presente. Cominciò a camminare lungo la base rocciosa del castello, studiando i profondi crepacci e le sporgenze frastagliate. Infine si fermò, allungò una mano verso la roccia e la toccò. Una lastra di pietra ruotò verso l'interno, rivelando un ingresso segreto. Il Druido scivolò rapidamente attraverso la stretta apertura, e la lastra si richiuse perfettamente dietro di lui. All'interno il buio era assoluto. Allanon annaspò finché trovò una serie di torce infilate in staffe di ferro inchiodate alla roccia. Dopo averne estratta una, sfregò insieme la pietra focaia e il sasso che portava in un sacchetto alla vita, finché una scintilla accese la pece di cui era rivestita la torcia. Tenendola davanti a sé, lasciò che i suoi occhi si adattassero all'ambiente. Uno stretto corridoio si delineava davanti a lui; i deboli contorni di gradini rozzamente intagliati nella roccia scomparivano in alto nel buio. Cominciò a salire. L'odore di polvere e di chiuso lo assalì. Fece una smorfia di disgusto. Le caverne erano fredde, il loro gelo sigillato in eterno da tonnellate di roccia. Il Druido si avviluppò intorno al corpo il pesante mantello. Centinaia di gradini passarono sotto i suoi piedi, mentre il tunnel proseguiva tortuoso nel buio. Finalmente terminò davanti a una massiccia porta di legno. Allanon si fermò a esaminare le pesanti cerniere di ferro. Un attimo dopo, le sue dita toccarono una combinazione di borchie metalliche, e la porta si aprì. Entrò. Si trovava nella fornace della Fortezza. Era una stanza rotonda, simile a una caverna, consistente in una stretta passerella che girava intorno all'orlo di un grande pozzo scuro, bordato da una bassa ringhiera di ferro. Sulla passerella si affacciava una serie di porte di legno, rinforzate in ferro, tutte chiuse e sbarrate. Il Druido si avvicinò alla ringhiera e, tenendo la torcia davanti a sé, scrutò nel pozzo. La debole luce della torcia rimbalzò dalle pareti annerite, incrostate di cenere e ruggine. La fornace era spenta, ora, e il congegno che un tempo faceva salire il calore alle torri e alle sale del castello era
fermo e silenzioso. Ma nelle profondità, oltre il pallido bagliore della torcia, sotto massicce valvole di ferro, i fuochi naturali della terra ardevano ancora. Persino ora, si sentiva il loro tumulto. Ricordò un evento lontano. Oltre cinquant'anni prima, era venuto alla Fortezza dei Druidi con una piccola compagnia di amici del villaggio di Nani, Culhaven; Shea e Flick Ohmsford; Balinor Buckhannah, principe di Callahorn; Menion, principe di Leah; Durin e Dayel Elessedil e il coraggioso Nano Hendel. Era venuto lì alla ricerca della leggendaria Spada di Shannara, poiché il Signore degli Inganni era tornato nelle Quattro Terre, e soltanto il potere della Spada poteva annientarlo. Con la sua piccola compagnia, Allanon era entrato nella Fortezza e ne era uscito indenne per miracolo. In quella stessa stanza, aveva combattuto fino all'ultimo sangue con uno dei Messaggeri del Teschio. Il Signore degli Inganni sapeva del suo arrivo. Era stata una trappola. Alzò bruscamente gli occhi, e ascoltò il silenzio profondo. Una trappola. La porta lo turbò; gli fece scattare un allarme istintivo, il suo sesto senso. C'era qualcosa di strano. Qualcosa... Rimase immobile per un istante, indeciso. Poi scosse la testa. Che sciocco! Era il ricordo di quell'episodio, nient'altro. Tenendo la torcia davanti a sé, camminò lungo il passaggio finché raggiunse una scaletta a chiocciola. Senza più voltarsi a guardare il pozzo o la sala della fornace, salì rapidamente i gradini e entrò nelle sale superiori della Fortezza dei Druidi. Tutto era così come l'aveva lasciato cinquant'anni prima. Il lucore delle stelle filtrava attraverso le alte finestre in sottili nastri argentei, sfiorando i pesanti pannelli di legno e le travi che incorniciavano l'atrio imponente. Lungo le pareti erano appesi dipinti e arazzi, i colori intensi smorzati dalla notte in grigi e blu profondo. Statue di pietra e di ferro montavano silenziose la guardia davanti a massicce porte di legno con maniglie di ottone. La polvere ricopriva tutto come un morbido spesso tappeto, e lunghi festoni di ragnatele cadevano dal soffitto fino al pavimento di marmo. Allanon percorse lentamente l'atrio; la luce della torcia ardeva attraverso l'aria stantia che ristagnava come foschia in tutta la Fortezza. Dappertutto un silenzio profondo e penetrante. I suoi passi echeggiavano sinistramente, e piccoli sbuffi di polvere si alzavano al suo passaggio. La sala che percorreva si intersecava con un'altra, e voltò a destra. Arrivò quasi fino in fondo, fermandosi davanti a una piccola porta di quercia bianca e ferro, chiusa da un'enorme serratura. Il Druido frugò per un istante nel sacchetto ap-
peso alla vita, estraendo infine una grande chiave di metallo. Infilò la chiave nella serratura e la fece girare due volte. Il meccanismo cigolò, protestando, arrugginito dal tempo, ma il pesante chiavistello scivolò indietro. Allanon abbassò la maniglia di ferro, entrò e chiuse la porta dietro di sé. La stanza era piccola e senza finestre. Un tempo era stata uno studio. Le pareti erano interamente ricoperte di scaffali con libri logori, rilegati di stoffe dai colori ormai sbiaditi, le pagine friabili. Contro la parete in fondo erano collocati due scrittoi con sedie di canna rigidi e solitari, come sentinelle sull'attenti. Vicino alla porta c'erano due poltrone imbottite, di cuoio, dall'aria più confortevole. Un antico tappeto tessuto a mano, intrecciato di figure araldiche e lamine d'oro, era disteso sul pavimento di assi di legno fissate con chiodi di ferro. Il Druido si guardò intorno frettolosamente e si diresse verso la parete alla sua sinistra. Frugando dietro i libri in fondo al terzo scaffale, trovò due grosse borchie d'ottone. Quando le toccò, una sezione della libreria si spalancò silenziosamente. La spostò un po', per passarvi, poi la risistemò dietro di sé. Si trovava in una cripta costruita interamente di massicci blocchi di granito sigillati con calce. Nella stanza non c'erano che un lungo tavolo di legno e sei sedie dallo schienale alto. Nessuna finestra e nessuna porta, salvo quella da cui era entrato. Nell'aria c'era odore di chiuso, ma era respirabile. Mancava quasi del tutto la polvere, il che non era sorprendente, data la struttura compatta delle pareti. Con la torcia che aveva in mano, Allanon accese quelle appese a ciascun lato dell'ingresso e due tozze candele sul tavolo. Poi si diresse verso la parete alla destra della porta e sfiorò la pietra liscia. Un attimo dopo, allargò le punte delle dita sul granito, i pollici che si congiungevano, e abbassò la testa, concentrandosi. Dapprima non successe niente, poi un profondo bagliore azzurro cominciò a sprigionarsi dalle sue mani e guizzò attraverso la pietra come vene nella carne. Un attimo dopo la parete si dissolse silenziosamente in un fuoco azzurro; poi fuoco e parete scomparvero. Allanon indietreggiò. Al posto del granito apparvero file di libri massicci, rilegati in cuoio, con elaborate incisioni in oro. Erano loro a aver spinto il Druido a venire a Paranor: essi contenevano infatti la storia dei Druidi, l'intera conoscenza del mondo nuovo e antico salvata dall'olocausto delle Grandi Guerre, registrata dall'epoca del Primo Consiglio fino al presente. Allanon si protese per prendere con cautela uno dei pesanti tomi. Era in buone condizioni, il cuoio morbido e flessibile, gli orli delle pagine nitidi,
la rilegatura solida. I libri avevano sopportato bene il passare del tempo. Quando, cinque secoli prima, dopo la morte di Bremen, si era reso conto di essere l'ultimo dei Druidi, aveva costruito quella cripta in cui poter custodire i volumi per gli uomini e le donne futuri che avrebbero avuto bisogno della conoscenza ivi contenuta. Di tanto in tanto tornava alla Fortezza, annotando coscienziosamente quel che aveva appreso nei suoi viaggi attraverso le Quattro Terre, i segreti delle ere che altrimenti sarebbero andati perduti. Gran parte di quel che era registrato riguardava la magia, un potere che nessuno, Druido o uomo comune, poteva comprendere a pieno, e ancor meno praticare. I Druidi avevano pensato di preservare quei segreti da uomini che potessero usarli in modo inconsulto. Ma i Druidi erano scomparsi, tranne Allanon, e un giorno anche lui se ne sarebbe andato. Chi avrebbe ereditato allora i segreti del potere? Era una questione di grande importanza per Allanon, un dilemma per il quale non aveva ancora trovato una soluzione accettabile. Sfogliò rapidamente il libro e lo rimise a posto, scegliendone un altro. Dopo aver dato un'occhiata a questo, si diresse verso il lungo tavolo e sedette. Lentamente, cominciò a leggere. Per quasi tre ore non si mosse, se non per voltare le pagine, il volto chino sulla scrittura accuratamente vergata. Al termine della prima ora scoprì dove si trovava la Cripta. Ma proseguì la lettura. Cercava qualcos'altro. Alla fine sollevò gli occhi e si appoggiò allo schienale, stanco. Per un po' rimase lì seduto, fissando le file di libri che contenevano le storie dei Druidi. Aveva trovato tutto quello che cercava, ma non ne era affatto felice. Ripensò all'incontro con Eventine Elessedil, due giorni prima. Aveva detto al re elfo che era andato nei Giardini della Vita e che l'Eterea gli aveva parlato. Ma non aveva riferito tutto quel che la pianta gli aveva rivelato. In parte, perché molto di quel che gli aveva mostrato - immagini provenienti da un epoca e da una vita ormai divenute irriconoscibili - era poco chiaro, confuso. Ma una cosa che lei gli aveva mostrato, l'aveva capita fin troppo bene. Eppure era così incredibile che non si era sentito di accettarla prima di aver controllato sulle storie dei Druidi. Così aveva fatto. Ora sapeva che era vera e anche che doveva tenerla nascosta... A Eventine, a tutti. Fu assalito da un senso di disperazione. Era come cinquant'anni prima, col giovane Shea Ohmsford, bisognava lasciare che la verità si manifestasse da sola attraverso una inesorabile catena d'eventi. Non toccava a lui de-
cidere il tempo e il luogo della sua rivelazione. Non toccava a lui manomettere il naturale ordine delle cose. Eppure era perplesso. Solo con le ombre dei suoi antenati l'ultimo della sua specie valutò questa decisione. Aveva scelto di nascondere la verità a Shea Ohmsford - anzi, a tutti coloro che formavano la piccola compagnia di avventurieri partiti da Culhaven pronti a rischiare la vita per trovare la Spada di Shannara, perché convinti da lui che era loro dovere farlo - ma soprattutto a Shea. Alla fine, aveva capito di aver agito erroneamente. E se sbagliava anche ora? Non doveva forse essere sincero fin dall'inizio? Sempre assorto nei suoi pensieri, chiuse il libro davanti a sé, si alzò dal tavolo e riportò il pesante volume nella nicchia dalla quale lo aveva preso. Fece un rapido movimento circolare con una mano e il muro di granito riapparve. Rimase a guardarlo con occhi assenti per un attimo poi si voltò. Prese la torcia con cui era entrato nella fortezza, poi spense le altre luci della stanza e fece scattare la serratura della porta nascosta. Quando fu di nuovo nello studio dei Druidi, si fermò per chiudere accuratamente la sezione aperta della scaffalatura. in modo che tutto tornasse come prima. Si guardò intorno quasi con tristezza. Il castello dei Druidi era diventato una tomba. Si sentivano l'odore e il sapore della morte. Un tempo era stato un luogo di studi, di visioni. Ma ora non più. Non vi era più spazio per i vivi fra queste mura. Aggrottò la fronte, addolorato. Dopo aver letto le pagine della storia dei Druidi, il suo animo si era considerevolmente amareggiato. Era ansioso di andarsene da Paranor. Era un luogo di disgrazia... e toccava proprio a lui portare quella sfortuna agli altri. Silenziosamente si diresse verso la porta dello studio, l'aprì e si ritrovò nel corridoio. A pochi metri da lui si ergeva la sagoma gibbosa del Dagda Mor. Allanon rimase immobile. Il demone aspettava - solo, lo sguardo duro fisso sul Druido, cullando il Bastone del Comando fra le braccia. Il suo respiro aspro risuonava nel silenzio profondo, ma non disse una parola. Rimase lì, studiando con cura l'uomo che intendeva distruggere. Il Druido si scostò dalla porta dello studio, spostandosi prudentemente verso il centro del corridoio, gli occhi che scrutavano l'oscurità nebbiosa intorno a lui. Quasi immediatamente individuò gli altri: confuse forme spettrali a quattro zampe, gli occhi simili a fessure di fuoco, che emergevano dall'ombra. Erano tanti, e lo assediavano da tutti i lati, avvicinandosi sempre più, come un branco di lupi si raccoglie intorno alla preda bracca-
ta. Da quelle teste senza volto proveniva un orrendo gemito che sembrava trovare piacere nell'attesa di quel che sarebbe accaduto. Alcuni scivolarono nell'alone della sua torcia. Erano creature grottesche: i corpi, una massa sinuosa di peli grigi, gli arti, contorti e vagamente umani, le molteplici dita, artigliate. Alcune facce si levarono verso il Druido, facendogli raggelare il sangue. Erano facce di donne, i tratti stravolti dalla sete di sangue, le bocche simili a fauci di gatti mostruosi. Ora le aveva riconosciute, anche se non apparivano sulla terra da migliaia di anni. Erano rimaste chiuse dietro la barriera del Divieto dall'alba dell'Uomo, ma la loro leggenda era scritta nella storia del vecchio mondo. Erano creature che si nutrivano di carne umana. Nate dalla follia, la loro sete di sangue le animava di una ferocia orribile, al di là di ogni ragione. Erano le Furie. Allanon rimase a guardare come gli si facevano vicine, strisciando intorno all'alone della torcia, assaporando la prospettiva della sua morte. Una morte che sembrava assicurata. Erano troppe, per il Druido; lui lo sapeva. Il suo potere non era sufficiente a fermarle tutte. L'avrebbero attaccato come una cosa sola, gettandosi su di lui da tutti i lati, dilaniandolo e lacerandolo finché nulla fosse rimasto di lui. Lanciò una rapida occhiata al Dagda Mor. Il demone restava immobile, al di là della cerchia dei suoi servi, lo sguardo cupo fisso su Allanon. Era ovvio che non sentiva alcun bisogno di far ricorso al suo potere. Sarebbero bastate le Furie. Il Druido era assediato da un nemico che l'avrebbe sopraffatto. Avrebbe lottato, naturalmente; ma alla fine sarebbe morto. Il miagolio delle Furie salì bruscamente di volume, un gemito stridulo che si propagò per tutta la Fortezza, echeggiando lugubremente per il castello di pietra. Dita artigliate graffiarono il pavimento di marmo con un rumore di ossa frantumate, e tutta Paranor sembrò percorsa da un brivido di orrore. Poi, improvvisamente, Allanon scomparve. Accadde così bruscamente che per un istante le Furie, disorientate e incredule, rimasero immobili a fissare il punto in cui si trovava il Druido un attimo prima, e le loro strida si smorzarono. La torcia era ancora sospesa nell'oscurità, un segnale di fuoco che le inchiodò. Poi cadde sul pavimento con una pioggia di scintille. La fiamma si disintegrò e il corridoio sprofondò nel buio. L'illusione durò solo pochi secondi, ma bastò per consentire a Allanon di sfuggire all'accerchiamento mortale. In un attimo, passò in mezzo alle
Furie e corse verso una massiccia porta di quercia, chiusa e sbarrata, in fondo al corridoio. Il Dagda Mor stridette per la collera e sollevò il Bastone del Comando. Un fuoco rosso avvampò per tutto il corridoio, saettando verso il Druido in fuga e facendo sparpagliare le Furie impazzite. Ma Allanon fu più veloce. Con un ampio movimento, sollevò il suo mantello, sventando l'attacco. Il lampo di fuoco passò oltre, e esplose nella porta, strappando i battenti dai cardini di ferro e lasciandoli frantumati. Il Druido balzò attraverso il varco nella stanza al di là e scomparve nel buio. Già le Furie lo inseguivano, schizzando per il corridoio come bestie, stridendo per la fame. La più veloce balzò attraverso il varco e afferrò il Druido mentre cercava di togliere il gancio di ferro di una porta-finestra che dava sui bastioni. Allanon si voltò per affrontarle, accovacciandosi. Afferrò le due più vicine mentre stavano per saltargli alla gola e le buttò nel mucchio. Alzò le mani e un fuoco azzurro si sprigionò dalle sue dita, trasformando lo spazio davanti a lui in un muro di fiamme. Ma le Furie non si scoraggiarono. La più vicina e imprudente finì fra le fiamme e perì. Quando un attimo dopo il fuoco svanì, la finestra era aperta e il Druido scomparso. A trenta metri sopra la distesa delle foreste circostanti, addossato alle mura torreggianti della Fortezza dei Druidi, Allanon avanzò con cautela lungo una stretta sporgenza di roccia che scendeva nell'oscurità. A ogni passo, il vento minacciava di farlo cadere nello strapiombo Si fece strada rapidamente verso una stretta passerella di pietra che portava alla torre adiacente. La passerella non era larga nemmeno un metro; sotto c'era il vuoto. Il Druido non esitò. Era la sua unica possibilità di fuga. Dietro di lui udì le strida di rabbia e delusione che esplodevano dalle gole delle Furie uscite dalla finestra aperta. Lo seguirono velocemente, sulla pietra levigata del castello erano più sicure di lui, afferrandosi saldamente con gli artigli mentre correvano per prenderlo. Alla finestra, il Dagda Mor sollevò il Bastone del Comando e il fuoco mortale saettò verso il Druido in fuga. Ma, prima di imboccare la passerella. Allanon cercò di fermare le Furie. Inginocchiatosi, sollevò entrambe le braccia in un ampio cerchio e uno scudo di fuoco azzurro si materializzò davanti a lui. La fiamma proveniente dal bastone del demone si infranse contro di esso. Ma, per sferrare il suo attacco, il Druido era caduto all'indietro sullo stretto ponte. Un istante dopo le Furie gli erano addosso. Questa volta Allanon non fu abbastanza veloce. Dita artigliate gli lacerarono il mantello, penetrandogli nella carne. Un dolore bruciante gli stra-
ziò le spalle e il petto. Con uno sforzo terribile, respinse le Furie che lo tenevano, e quelle caddero urlando nel vuoto. Alzatosi, si avviò barcollando verso la torre. Di nuovo le Furie si scagliarono contro di lui, inciampando l'una sull'altra nell'ansia di raggiungere la preda, ululando per la delusione; le loro strane facce dalle sembianze parzialmente femminili erano stravolte dall'odio. Di nuovo il Druido le respinse, il suo corpo si ricoprì di nuove ferite, e il mantello si inzuppò di sangue. Poi finalmente arrivò all'estremità della passerella, dove si appoggiò il corpo sfinito contro la parete della torre. Si voltò, alzando le mani. Un fuoco azzurro saettò verso lo stretto ponte, frantumandolo. Con un brivido, l'intero arco crollò. Urlando per l'orrore, le Furie precipitarono nella notte e scomparvero. Il fuoco emanato dal Bastone del Comando lampeggiava tutt'intorno a lui e tuttavia il Druido riuscì a eluderlo, passando rapidamente intorno alla torre finché scomparve alla vista del demone. Lì trovò una piccola porta di ferro chiusa a chiave. Con un'unica, potente spallata, la spalancò e scomparve. 7 Era mattino inoltrato. Nel Villaggio dei Guaritori, la piccola comunità gnoma di Storlock, il temporale stava finalmente terminando. Finché era durato, era stato uno spettacolo: masse di nuvole torreggianti striate dai lampi maligni di fulmini accompagnati da rombanti esplosioni di tuono; pioggia torrenziale che martellava la terra con la violenza di una bufera invernale; venti che sradicavano interi alberi e strappavano i tetti dalle casette di pietra e malta del villaggio. Il temporale era arrivato all'alba dalle Pianure di Rabb, e ora si stava spostando a est verso la cresta buia del Wolfsktaag, lasciando le distese boscose dell'Anar centrale fradice e fangose. Wil Ohmsford se ne stava solo sotto il portico del centro di riposo Stor, la più importante stazione di cura della comunità, e osservava distrattamente la pioggia rallentare in un sottile gocciolio. Le nuvole occultavano ancora il sole, lasciando il giorno avviluppato in cupe tonalità di grigio, e una bruma leggera si era formata quando l'aria fredda della tempesta era venuta a contatto con la terra calda. Le gronde e le mura del centro erano umide, luccicanti, e gocce di vapore condensato costellavano le foglie dei rampicanti che vi crescevano intorno, scintillanti di un verde fresco, rin-
novato. Pezzi di legno erano sparsi per terra, formando piccole dighe contro i ruscelli che scorrevano dappertutto. Il giovane, stanco, sbadigliò e si stiracchiò. Era stato sveglio tutta la notte, curando bambini afflitti da una febbre particolarmente insidiosa, che prosciugava tutti i fluidi del loro corpo e faceva salire vertiginosamente la temperatura. Naturalmente avrebbe potuto chiedere di essere sostituito, ma non se l'era sentita. Era ancora uno studente fra gli Stor, e era molto consapevole del fatto che doveva continuare a prodigarsi, se voleva diventare un Guaritore. Così era rimasto coi bambini, il giorno prima e tutta la notte, finché finalmente la febbre era scesa. Ora era troppo stanco per dormire, troppo teso per la notte di lavoro. Inoltre sapeva di dover dedicare un po' di tempo a Flick. Sorrise, anche se era sfinito. Il vecchio zio Flick era capacissimo di tirarlo giù dal letto se non avesse fatto una capatina da lui prima di coricarsi. Scese dal portico; gli stivali affondavano nel fango mentre avanzava a capo chino, in quell'atmosfera impregnata di umidità. Non era alto - quattro o cinque centimetri più di Flick, forse - e era di corporatura snella. Aveva i tratti di Shea, il nonno per metà Elfo: il naso e la mascella sottili, le orecchie leggermente appuntite nascoste sotto riccioli di capelli biondi, le strette sopracciglia arcuate - tratti particolari che avevano caratterizzato Shea Ohmsford e che ora caratterizzavano suo nipote. Un suono di passi in corsa lo fece voltare. Era uno dei Servitori gnomi che aiutavano gli Stor. Si avvicinò a Wil, la gialla faccia avvizzita rigata di pioggia, il mantello verde avviluppato intorno al corpo per proteggersi dal freddo. «Signore, è tutta la notte che tuo zio chiede di te» disse, ansimante. «Ha insistito perché venissi a cercarti...» Wil annuì e si protese a stringere la spalla dello Gnomo. «Sto andando proprio da lui. Grazie.» Il Servitore si voltò e schizzò via attraverso la bruma verso il riparo da cui era stato costretto a uscire. Wil rimase a guardarlo finché scomparve, poi riprese il cammino. Un sorriso gli increspò la faccia. Povero zio Flick. Non si sarebbe affatto trovato lì se Shea non si fosse ammalato. A Flick non piacevano gran che le Terre dell'Est, un paese del quale poteva tranquillamente fare a meno, come ricordava spesso a Wil. Aveva una particolare antipatia per gli Gnomi, benché gli Stor fossero brave persone. Troppi Gnomi avevano cercato di farlo fuori in passato, particolarmente durante la ricerca della
Spada di Shannara. Non era facile dimenticarlo; certi ricordi non potevano essere cancellati per semplice correttezza nei confronti degli Gnomi. In ogni caso, Flick non sarebbe certo venuto se non fosse stato per il fatto che Shea non aveva potuto fare visita a Wil come aveva promesso, e Flick si era sentito in dovere di venire al suo posto. Da quel punto di vista, l'intera faccenda era colpa di Shea, come aveva puntualizzato Flick dieci secondi dopo il suo arrivo. Dopo tutto, se Shea non avesse fatto quella sconsiderata promessa, Flick si sarebbe trovato nella Valle invece di starsene a Storlock contro ogni suo desiderio. Ma Flick era il fratello di Shea e perciò zio di Wil - Flick si rifiutava di considerarsi il prozio di chiunque e poiché Shea non poteva venire, qualcuno doveva fare il viaggio al suo posto. E quel qualcuno era Flick. La casetta per gli ospiti dove stava Flick era vicina. Wil vi si diresse a malincuore. Era stanco e non aveva voglia di discutere, ma sapeva che era inevitabile... perché, da quando era arrivato a Storlock, gli aveva dedicato troppo poco tempo, e niente del tutto nelle ultime trentasei ore. Il suo lavoro era impegnativo, ma sapeva che suo zio non accettava completamente quella giustificazione. Stava ancora rimuginando fra sé quando Flick apparve improvvisamente nel portico della casetta, e la sua faccia incorniciata dalla barba grigia irradiava disapprovazione. Rassegnato all'inevitabile, Wil salì i gradini e si scrollò l'acqua dal mantello. Flick lo scrutò silenziosamente un attimo, poi scosse la testa. «Sei sfinito» dichiarò bruscamente. «Perché non ti sei coricato?» Wil lo guardò, esterrefatto. «Non sono andato a letto perché tu mi hai mandato a dire che volevi vedermi.» «Non immediatamente.» «Bene» fece Wil, stringendosi nelle spalle. «Ho ritenuto giusto venire da te subito. Dopo tutto, non ti ho dedicato molto tempo.» «Esatto» grugnì suo zio, con una sfumatura di compiacimento per quell'ammissione. «Certo, hai scelto il momento meno adatto per rimediare. So che sei stato in piedi tutta la notte. Ho controllato. Volevo soltanto sapere come stavi.» «Sto bene.» Wil riuscì a sorridere. «Non hai un bell'aspetto. Sarà anche per via di questo maledetto tempo.» Flick si strofinò cautamente i gomiti. «Non ha smesso di piovere da quando sono arrivato. Non fa male soltanto ai vecchi come me, sai? Fa
male a tutti, anche a un futuro Guaritore.» Scosse la testa. «Staresti meglio nella Valle.» Will annuì distrattamente. Era da molto tempo che aveva lasciato Valle d'Ombra. Da quasi due anni ormai viveva e lavorava nel villaggio degli Stor, imparando l'arte del guarire da maestri riconosciuti, preparandosi per il giorno in cui sarebbe potuto tornare nelle Terre del Sud come Guaritore, e mettersi al servizio del suo popolo. Disgraziatamente, quel suo progetto era diventato una fonte di costante irritazione per Flick, benché il nonno di Wil fosse riuscito a accettarlo abbastanza di buon grado. Quando la febbre si era portata via i suoi genitori, il piccolo Wil aveva coraggiosamente deciso che, da grande, sarebbe diventato Guaritore. Con una determinazione infantile, aveva annunciato a suo nonno e a Flick che desiderava salvare gli altri dalla malattia e dal dolore. Era una bella idea, avevano commentato loro, considerandolo un capriccio. Ma quella ambizione era rimasta. E quando, sul punto di diventare uomo, aveva annunciato che intendeva studiare - non con i Guaritori delle Terre del Sud che, lui lo sapeva, avevano delle capacità limitate, ma con i migliori Guaritori delle Quattro Terre, gli Stor -, il loro atteggiamento era cambiato bruscamente. Il buon vecchio zio Flick si era da tempo fatto un'idea ben precisa degli Gnomi e delle Terre dell'Est. Anche il nonno si era opposto. Nessun abitante delle Terre del Sud aveva mai studiato con gli Stor. Come poteva aspettarsi di essere accettato nella loro comunità Wil, che non parlava nemmeno la loro lingua? Ma, nonostante le loro riserve, Wil era partito - soltanto per essere portato davanti al consiglio degli Stor subito dopo il suo arrivo e sentirsi dire con cortese fermezza che soltanto agli abitanti del villaggio di Storlock era permesso diventare Guaritori. Poteva restare finché voleva, ma non sarebbe mai diventato uno di loro. Wil non si era rassegnato. Aveva deciso che, per prima cosa, doveva imparare la loro lingua, e vi aveva dedicato quasi due mesi. Poi era comparso di nuovo davanti al consiglio e aveva cercato ancora di persuaderli, parlando nella loro lingua. Nemmeno questa volta l'aveva spuntata. Da allora, ogni settimana per quasi un mese, si era presentato al consiglio per perorare la sua causa. Aveva raccontato tutto di sé e della sua famiglia, spiegato le motivazioni che lo avevano indotto a decidere di diventare un Guaritore... tutto quanto riteneva potesse convincerli. La cosa doveva aver funzionato, perché, alla fine, senza una parola di spiegazione, gli avevano annunciato che poteva restare e che gli avrebbero
insegnato tutto quello che sapevano. Col tempo, se si fosse dimostrato diligente e capace, sarebbe diventato un Guaritore. Sorrise a quei ricordi. Com'era stato compiaciuto... e lo erano stati anche suo nonno e Flick, quando l'avevano appreso; solo che il secondo non l'aveva mai ammesso così come non avrebbe mai riconosciuto il vero motivo della sua disapprovazione per l'intera faccenda. Quel che veramente angosciava Flick era la distanza che lo separava da Wil. Mentre il nipote cresceva, erano andati a caccia, a pesca, avevano fatto dei giri insieme, e ora tutto questo gli mancava. Rimpiangeva che Flick non fosse più nella Valle con lui. Sua moglie era morta da molto tempo, e non avevano avuto bambini. Wil era stato come un figlio per lui. Flick aveva creduto che il ragazzo sarebbe rimasto nella Valle a gestire la locanda con lui e Shea. E invece se n'era andato, aveva messo radici a Storlock, lontano dalla Valle e dalla sua vecchia vita, e Wil sapeva che il prozio non poteva accettare quella situazione. «Mi stai ascoltando?» chiese Flick all'improvviso, la fronte corrugata. «Certo» lo rassicurò Wil. Posò con dolcezza una mano sulla spalla dello zio. «Sii paziente, zio Flick. Tornerò, un giorno. Ma ho ancora molto da imparare.» «Ma è di te che mi preoccupo, non di me» si affrettò a puntualizzare Flick, raddrizzando la sagoma robusta. «Io e tuo nonno ce la caviamo bene anche senza di te, ma non sono sicuro che tu possa dire altrettanto. Guarda un po' come sei ridotto. Lavori troppo. Sei tanto cocciuto da non renderti conto che anche tu hai dei limiti. Sei un essere umano come tutti noi. Come posso fartelo capire?» Sembrò sul punto di proseguire, ma con uno sforzo si controllò. «Questo non è il momento adatto.» Sospirò, posando una mano sulla spalla di Wil. «Perché non vai a letto? Potremo parlare quando tu...» I suoi occhi grigi si spostarono all'improvviso, e la sua voce si spense. Wil si voltò per seguire il suo sguardo. Qualcosa si muoveva nella nebbia: un ombra, scura e solitaria. La scrutarono, incuriositi, mentre lentamente si materializzava. Emerse un uomo a cavallo, l'uno più nero dell'altro. Il cavaliere stava chinato in avanti sulla sella, come se fosse sfinito dal viaggio, gli indumenti scuri inzuppati dalla pioggia e incollati alla sua alta figura. Un'improvvisa apprensione si impadronì di Wil. Quello non era uno Stor. A dire il vero, non aveva mai visto un uomo come quello. «Non è possibile...» sentì borbottare Flick.
Il prozio non terminò la frase. Passando vicino a Wil, attraversò il portico e si appoggiò con un braccio alla ringhiera lucida di pioggia. Wil gli si mise di fianco. Il cavaliere puntava proprio verso di loro. Il senso di presagio che gli fece scattare l'avvicinarsi dello straniero era così forte che per un attimo il giovane pensò di fuggire. Ma non ne ebbe la forza. Rimase in attesa. gli occhi fissi sulla figura spettrale. Il cavaliere si fermò davanti ai due. Teneva la testa abbassata, la faccia nascosta fra le pieghe del cappuccio nero. «Salve, Flick.» La voce dell'uomo era un lento. profondo sussurro. Wil vide il prozio sussultare. «Allanon!» L'uomo scivolò a terra, ma con un braccio continuava a cingere il collo del cavallo, come se non potesse reggersi in piedi. Wil fece un passo verso di lui, poi si fermò. C'era qualcosa di strano. Lo sguardo dello straniero si posò su di lui. «Wil Ohmsford?» Il giovane annuì, sorpreso. «Ti prego, va' e chiama subito gli Stor...» cominciò, poi fu sul punto di afflosciarsi, riprendendosi appena in tempo. Wil scese immediatamente dal portico, per correre in aiuto del Druido, ma si fermò all'istante quando l'uomo alzò la mano in segno di avvertimento. «Fa' come ti dico... va'!» Poi Wil vide chiaramente quel che la pioggia prima gli aveva nascosto. Il mantello di Allanon era inzuppato di sangue. Senza una parola, il giovane corse su per la strada. dirigendosi verso il centro del villaggio, dimenticando la stanchezza e il disagio così come un sogno svanisce al risveglio. 8 Gli Stor portarono Allanon al loro centro di riposo e, benché Wil e Flick si offrissero di accompagnare il Druido ferito, si sentirono rispondere gentilmente, ma con fermezza, che la loro presenza non era necessaria. Enigmatici e silenziosi, Stor e Druido scomparvero nei corridoi del centro, e i due uomini della Valle rimasero sotto la pioggia. Poiché era evidente che per il momento non si sarebbe appreso niente di più sulla comparsa del Druido, Wil Ohmsford salutò lo zio e andò a dormire. Più tardi, quello stesso giorno, nelle prime ore della sera, Allanon mandò a dire che desiderava vedere entrambi. Wil ricevette la notizia con e-
mozioni contrastanti. Da un lato, era curioso di scoprire che cosa fosse accaduto al Druido. Allanon era un personaggio familiare; Flick e suo nonno gli avevano parlato svariate volte di lui. Ma in quei racconti non vi era mai stato alcun cenno a ferite come quelle che l'uomo aveva mostrato al suo arrivo a Storlock. Nemmeno il Messaggero del Teschio che l'aveva aggredito nella stanza della fornace a Paranor durante la ricerca della Spada di Shannara gli aveva procurato simili lesioni, e Wil voleva sapere che tipo di creatura si aggirasse per le Quattro Terre, ancora più pericolosa dei servitori alati del Signore degli Inganni. D'altro canto, la presenza del Druido a Storlock lo turbava. Forse era una coincidenza che fosse arrivato proprio mentre Flick e Wil si trovavano entrambi nel villaggio. Forse era un caso se si era imbattuto in loro piuttosto che negli Stor. Ma per il momento Wil non vi credeva. Allanon era venuto deliberatamente da loro. Perché l'aveva fatto? E perché li aveva chiamati? Wil poteva capire che desiderasse conferire con Flick; dopo tutto, si conoscevano e avevano condiviso tante avventure. Ma perché voleva vedere anche lui? Il Druido non l'aveva mai incontrato. Perché era interessato a conoscerlo? Nonostante tutto, uscì di casa e, ubbidiente, attraversò la piazza del villaggio, nell'oscurità che si addensava, diretto verso la casa per gli ospiti dove sapeva che Flick l'avrebbe aspettato. Anche se diffidava dello scopo di quell'incontro, era deciso ad andarvi. Non era tipo da eludere i problemi... e inoltre, forse, i suoi sospetti erano infondati. Forse il Druido voleva semplicemente ringraziarlo per il suo aiuto. Trovò Flick in attesa nel portico della casa per gli ospiti, tutto avviluppato nel suo pesante mantello da viaggio, che brontolava irritato per il maltempo. Il vecchio attraversò il portico per venirgli incontro, e insieme imboccarono la strada verso il centro di riposo. «Che cosa vuole secondo te, zio Flick?» chiese Wil un attimo dopo, stringendosi addosso il mantello per proteggersi dal freddo della sera. «Difficile da immaginare» grugnì Flick. «Ma ti dirò una cosa. Ogni volta che appare, ci sono guai in vista.» «Il suo arrivo a Storlock ha a che fare con noi, vero?» azzardò Wil, scrutando il volto dello zio. Flick scosse la testa, perplesso. «Certo è venuto qui per qualche motivo. E se ci ha chiamati, non è soltanto per dirci salve e come stai. Qualsiasi cosa abbia da raccontare, non sarà piacevole. Lo so di certo. È sempre stato così e non vedo perché dovrei aspettarmi qualcosa di diverso.» Si fermò
bruscamente e guardò il nipote dritto negli occhi. «Sta' attento con lui, Wil. Non c'è da fidarsi.» «Sarò prudente, zio Flick, ma non credo che ci sia motivo di preoccuparsi» rispose il giovane. «Sappiamo tutti e due com'è fatto Allanon, non è vero? Inoltre ci sarai anche tu per tenere d'occhio la situazione.» «E come!» Flick si voltò e ripresero a camminare. «Ricorda quello che ti ho detto.» Pochi minuti dopo salivano i gradini dell'ingresso del centro di riposo e entravano. Era un edificio lungo, stretto, di pietra e malta, con un tetto di tegole di argilla. Da un atrio ampio, confortevolmente arredato, si diramavano corridoi che scomparivano nelle ali del centro, dove in numerose piccole stanze erano curati i malati e i feriti. Quando entrarono, uno degli Stor vestito di bianco venne loro incontro. Fece un cenno, in silenzio, poi li guidò lungo un corridoio vuoto. In fondo c'era una sola porta chiusa. Lo Stor bussò una volta, fece scattare la serratura e se ne andò. Innervosito, Wil lanciò un'occhiata a Flick, ma il vecchio fissava la porta chiusa. Insieme aspettarono. Poi la porta si spalancò e Allanon apparve davanti a loro. Sembrava illeso. Nessuna ferita era visibile. Sulla veste nera in cui era avviluppata la sua alta figura non c'era traccia di sangue. Il suo volto era tirato, ma non mostrava segni di sofferenza. Il suo sguardo penetrante si posò sui due uomini per un istante. poi indicò loro un tavolino con quattro sedie intorno. «Perché non ci sediamo lì mentre parliamo?» Più che un suggerimento, era un ordine. Entrarono e sedettero. La stanza era sommariamente arredata con un tavolo, alcune sedie e un grande letto. Wil lanciò una rapida occhiata attorno a sé, poi rivolse la sua attenzione al Druido. Flick e Shea gli avevano descritto Allanon svariate volte, e la loro descrizione corrispondeva esattamente alla verità. Ma come poteva essere rimasto immutato un uomo che avevano conosciuto prima ancora che lui fosse nato? «Bene, eccoci qua» disse infine Flick. quando apparve evidente che nessun altro avrebbe parlato. Allanon ebbe un debole sorriso. «A quanto pare.» «Stai piuttosto bene, se si pensa che solo qualche ora fa eri mezzo morto.»
«Gli Stor sono molto esperti nella loro arte, come tu dovresti sapere» rispose il Druido con un tono stranamente amabile. «Ma temo di non sentirmi bene come dovrei. E tu, Flick, come stai?» «Sono più vecchio e saggio, spero» dichiarò l'uomo della Valle, con aria allusiva. Allanon non reagì. Il suo sguardo si spostò bruscamente su Wil. Per un attimo rimase in silenzio, scrutando il giovane Ohmsford col suo volto scuro impenetrabile. Wil rimase in silenzio, senza abbassare gli occhi, anche se lo sguardo del Druido lo metteva a disagio. Poi, lentamente, Allanon si chinò in avanti, congiungendo le grandi mani sopra il tavolo. «Ho bisogno del tuo aiuto, Wil Ohmsford» disse con voce pacata. Zio e nipote lo fissarono, stupiti. «Ho bisogno che tu venga con me nelle Terre dell'Ovest.» «Lo sapevo» borbottò Flick, scuotendo la testa. Allanon sorrise triste. «È confortante constatare, Flick, che certe cose non cambiano mai. Tu ne sei certo la prova vivente. Conterebbe qualcosa se ti dicessi che chiedo l'aiuto di Wil non per me, ma per il popolo elfo, e per una ragazza elfa in particolare?» «No, non conterebbe niente» rispose l'altro senza un attimo di esitazione. «Lui non verrà, e questo è tutto.» «Aspetta un attimo, zio Flick» interloquì rapidamente Wil. «Forse non andrò, ma vorrei essere io a deciderlo. Almeno dobbiamo sapere per quale motivo è necessario il mio aiuto.» Flick ignorò l'obiezione. «Credimi, è meglio che tu non senta una parola di più. Altrimenti ti ritroverai nei guai. Così è stato per tuo nonno cinquant'anni fa.» Lanciò una rapida occhiata a Allanon. «Non è vero? Non è così che tutto cominciò quando venisti a Valle d'Ombra e ci parlasti della Spada?» Allanon annuì. «È vero.» «Visto?» dichiarò Flick trionfante. «Esattamente la stessa situazione. Scommetto che anche il viaggio che hai in mente per lui è pericoloso, vero?» Il Druido annuì di nuovo. «Bene, allora» fece il vecchio, il volto barbuto che irradiava soddisfazione. «Direi che la questione è risolta. Tu pretendi troppo. Non verrà.» Gli occhi scuri di Allanon scintillarono. «Deve.» Flick trasalì. «Come sarebbe a dire?»
«Capirai il perché, Flick, quando ti avrò spiegato cosa è successo nelle Quattro Terre in questi ultimi giorni. Ascoltatemi bene, uomini della Valle.» Avvicinò la sedia al tavolo e si chinò in avanti. «Molto, molto tempo fa, prima delle Grandi Guerre e dell'evoluzione delle nuove razze, ancor prima che l'Uomo si sviluppasse come specie civilizzata, scoppiò una terribile guerra fra creature che, in gran parte, oggi non esistono più. Alcune di loro erano buone e amorevoli; rispettavano la natura e cercavano di proteggerla e preservarla da ogni abuso e spreco. Per loro, la vita era sacra. Ma ve n'erano altre maligne e egoiste, che provocavano solo danni e distruzione. Depredavano la terra e le sue creature senza alcuna necessità, solo per il gusto di farlo. Le loro caratteristiche fisiche e le loro capacità differivano in gran parte dalle vostre: avevano un aspetto diverso e possedevano poteri non più presenti negli uomini di questo mondo. In particolare, possedevano in misura variabile l'arte della magia - così la definiremmo noi - oppure stregoneria. Tali poteri occulti erano comuni a quell'epoca; alcune di queste creature ne erano più dotate di altre; di conseguenza, aumentava la loro capacità di compiere il bene o il male. Tutte queste creature, buone o cattive, coesistevano e, poiché l'Uomo non aveva ancora superato una forma primitiva di vita, circoscritta in un limitato spazio geografico, il mondo era soltanto loro. Così era stato per secoli. Ma la loro coesistenza non era mai stata armoniosa. Vivevano in un continuo conflitto, perché le loro finalità erano opposte: quelle buone operavano per preservare, le altre per distruggere. Di tanto in tanto l'equilibrio di potere fra le parti in lotta cambiava, a seconda che prendessero il sopravvento le creature buone oppure quelle cattive. «Il conflitto fra loro si intensificò sempre più finché, dopo esser rimasto irrisolto per secoli, i capi di ciascuno schieramento riunirono sotto di sé tutti i loro seguaci e la guerra cominciò. Non fu un conflitto paragonabile a quelli fino allora conosciuti. Non fu vasto e dirompente come le Grandi Guerre, poiché in queste ultime fu impiegato un potere di tali terribili proporzioni che gli uomini che lo detenevano ne persero completamente il controllo e furono sommersi dal cataclisma che ne risultò. Fu una guerra in cui furono astutamente usati, di volta in volta, potere e forza e in cui le creature si fronteggiavano e vivevano o morivano secondo le capacità di cui erano dotate. Fu come la Guerra delle Razze, che hanno dominato la storia del nuovo mondo; nella Guerra delle Razze, il Signore degli Inganni pervertì il pensiero di quelli che lo servivano, aizzandoli gli uni contro gli
altri finché poté asservirli e dominarli tutti. Ma, in questa guerra, nessun inganno, nessuna illusione influenzarono coloro che la combattevano. Il male e il bene furono polarizzati fin dall'inizio; nessuno se ne stava da parte, perché non esistevano spazi neutrali. Era un conflitto combattuto per stabilire il carattere e il tipo di evoluzione della vita sulla terra. Era un conflitto che doveva decidere se la terra sarebbe stata per sempre preservata o per sempre dissacrata. Ciascuna delle due parti aveva deciso di conseguire la vittoria finale sull'altra. Per le creature del male, la sconfitta significava l'esilio; per le creature del bene, l'annientamento. «Così scoppiò la guerra: una guerra terribile, mostruosa, che non tenterò nemmeno di descrivere, perché non avrebbe senso. Per quel che ci interessa, è importante soltanto sapere che le creature maligne furono sconfitte e i loro poteri infranti; furono cacciate via e infine intrappolate. Coloro che le avevano sconfitte usarono i loro poteri per creare un Divieto, una barriera al di là della quale doveva essere segregato il male. Quella prigione non era né di questo né di nessun altro mondo; un buco nero di vuoto e isolamento dove soltanto il male poteva esistere. In questo abisso fu bandito, recluso per sempre il male. «La forza che aveva originato il Divieto era un albero meraviglioso chiamato Eterea. Le creature buone fecero nascere l'Eterea dalla forza vitale della terra, che chiamarono il Fuoco di Sangue, e dal loro potere. Le diedero vita affinché, con la sua presenza in questo mondo potesse mantenere il Divieto a lungo, anche dopo la loro stessa scomparsa, anche dopo che il mondo, per il cui mantenimento avevano combattuto tanto disperatamente, si fosse modificato e evoluto fino a diventare irriconoscibile. Non avevano alcun parametro per stabilire la durata della sua esistenza. Ma finché lei fosse vissuta, il Divieto sarebbe continuato, e finché il Divieto fosse continuato, il male sarebbe rimasto nella sua prigione.» Si appoggiò allo schienale della sedia, scostandosi cautamente dal tavolo per dare sollievo ai muscoli irrigiditi, e le braccia gli scivolarono in grembo. I suoi occhi scuri restavano fissi sui due uomini della Valle. «L'Eterea era ritenuta eterna - non da quelli che l'avevano creata, poiché sapevano che tutte le cose devono morire - ma da coloro che vennero dopo, e che curarono e amarono e onorarono quella pianta meravigliosa che era stata la loro protezione per infiniti secoli. Per loro, l'Eterea divenne un simbolo di eternità: era sopravvissuta alla distruzione del vecchio mondo nell'olocausto delle Grandi Guerre, alle Guerre delle Razze e al potere del Signore degli Inganni, e era sopravvissuta a ogni essere umano che l'aves-
se accudita - sopravvissuta a tutto tranne che alla terra, e persino la terra era cambiata mentre l'Eterea era rimasta immutata.» Fece una pausa. «Così nacque la leggenda. L'Eterea sarebbe vissuta per sempre, sarebbe stata eterna. Tale convinzione non venne mai meno.» Sollevò leggermente la faccia. «Fino a ora. Ora quella certezza è caduta. L'Eterea sta morendo. Il Divieto ha cominciato a erodersi. Le creature maligne imprigionate in esso hanno cominciato a liberarsi e a tornare in questo mondo che un tempo era loro.» «Sono state quelle creature a ferirti?» domandò Wil. Allanon annuì. «Alcune già percorrono le Quattro Terre. Benché credessi di aver tenuto nascosta la mia presenza, mi hanno scoperto. Mi hanno trovato a Paranor nella Fortezza dei Druidi e per poco non mi hanno ucciso.» Flick era allarmato. «Ti cercano ancora?» «Sì... ma ho motivo di credere che questa volta avranno più difficoltà a trovarmi.» «Non è molto rassicurante» borbottò il vecchio, lanciando un'occhiata un po' apprensiva verso le finestre della stanza. Allanon ignorò il commentò. «Ricorderai, Flick, che una volta raccontai a Shea e a te la storia delle razze. Come tutte si svilupparono dall'antica razza dell'Uomo dopo la devastazione provocata dalle Grandi Guerre... tutte, tranne una. Quella degli Elfi. Ti dissi che gli Elfi esistevano da sempre. Ricordi?» Flick borbottò: «Ricordo. Un'altra cosa che non hai mai spiegato». «Ti dissi che non era ancora il momento. Ecco, ora è venuto, anche se non intendo fare una lunga digressione sulla storia degli Elfi. Ma alcune cose devi saperle. Abbiamo parlato solo in astratto delle creature che combatterono quella guerra del bene e del male che culminò nella creazione dell'Eterea. Dobbiamo dare loro un'identità. Esse divennero parte delle antiche leggende e fiabe quando gli uomini emersero dal buio della barbarie e cominciarono a popolare il mondo. Erano creature dotate di magia, come ho detto, grande e piccola. Ve n'erano di specie diverse, alcune totalmente buone, alcune totalmente cattive, altre che comprendevano individui di natura opposta. Avevano nomi che tu riconoscerai: Fate, Folletti, Spiritelli, Spettri e così via. Le nuove razze, benché di origine umana, presero il nome da quattro delle più numerose e meglio ricordate di queste presunte creature leggendarie: Nani, Gnomi, Troll e Elfi. Se non che, naturalmente, gli Elfi sono diversi. Sono diversi perché non sono semplicemente una
leggenda rinata: sono una leggenda sopravvissuta. Gli Elfi sono i discendenti delle creature fantastiche che esistevano nel mondo antico.» «Ora, aspetta un attimo» interloquì rapido Flick. «Vuoi forse dire che gli Elfi sono gli stessi di cui parlano le vecchie leggende - che c'erano realmente degli Elfi nel mondo antico?» «Certo che c'erano degli Elfi nel mondo antico - così come c'erano Troll e Nani, e tutte le altre creature che diedero origine alle leggende. L'unica differenza è che quelle sono scomparse dal mondo secoli fa, mentre gli Elfi sono rimasti. Sono cambiati, naturalmente; si sono evoluti considerevolmente. Sono stati costretti a adattarsi.» Flick aveva l'aria di non capire una sola parola di quel che stava ascoltando. «C'erano degli Elfi nel vecchio mondo?» ripeté incredulo. «Non è possibile.» «Certo che lo è» ribatté calmo il Druido. «Ma come sopravvissero alle Grandi Guerre?» «E come sopravvisse l'Uomo?» «Ma le vecchie storie ci parlano dell'Uomo... mentre non c'è un solo accenno agli Elfi!» sbottò il vecchio. «Gli Elfi erano creature della fantasia. Se esistevano veramente, dov'erano?» «Dov'erano sempre stati. Gli uomini non potevano vederli.» «Vuoi forse dirmi che gli Elfi erano invisibili?» Flick allargò le braccia. «Non ci credo!» «Tu non credesti nemmeno a quello che ti raccontai di Shea e della Spada di Shannara, se ricordi bene» ribatté Allanon, le labbra increspate in un sorriso. «Da quanto hai detto, non riesco a capire perché gli Elfi abbiano bisogno del mio aiuto» interloquì Wil, per evitare un altro scatto dello zio. Il Druido annuì. «Cercherò di spiegare, se Flick avrà la pazienza di ascoltare ancora un momento. La storia degli Elfi ci interessa per un solo motivo. Furono loro a concepire l'idea dell'Eterea e a crearla. Furono loro a darle vita e a custodirla nel corso dei secoli. La sua protezione e benessere sono affidati a un ordine di Elfi chiamati Eletti. Ogni anno, dei giovani vengono prescelti per tale compito; alla fine dell'anno vengono sostituiti. È stato così dalla creazione della pianta. Soltanto un anno di servizio. Gli Eletti sono rispettati e onorati fra gli Elfi; solo pochi vengono prescelti e a costoro viene garantita una posizione di grande prestigio nella cultura elfa.
«Tutto ciò ci riporta al presente. Come vi ho detto, l'Eterea sta morendo. Pochi giorni fa, lo ha annunciato lei stessa agli Eletti. È stata in grado di farlo perché è un essere senziente e possiede la capacità di comunicare. Ha rivelato loro che la sua morte è inevitabile e vicina. Ha rivelato anche quel che le leggende elfe avevano predetto, che i primi Elfi avevano saputo, ma che le successive generazioni avevano praticamente dimenticato: che anche l'Eterea deve morire, come tutte le creature viventi ma, che a differenza di queste ultime, può rinascere. La sua rinascita, però, dipende totalmente dall'impegno degli Eletti. Uno di loro deve portare il suo seme alla fonte della vita della terra: il Fuoco di Sangue. Soltanto uno degli Eletti attualmente al suo servizio può farlo. L'Eterea ha detto loro dove è possibile trovare il Fuoco di Sangue e li ha sollecitati a fare i preparativi per la ricerca.» Fece una pausa. «Ma prima che si potesse intraprendere la missione, alcune delle creature maligne imprigionate dal Divieto si sono liberate, facendosi strada facilmente attraverso la barriera che, col venir meno della forza dell'Eterea, ha cominciato a indebolirsi. Una è penetrata nella città elfa di Arborlon, dove sta l'Eterea, e ha ucciso gli Eletti che vi ha trovato, credendo così di escludere ogni possibilità che la pianta rinascesse. Io sono arrivato troppo tardi per evitare che ciò accadesse. Ma ho parlato con l'Eterea e ho scoperto che uno degli Eletti è ancora in vita: una ragazza che non era in città quando gli altri sono stati uccisi. Il suo nome è Amberle. Ho lasciato Arborlon per cercarla.» Si chinò di nuovo in avanti. «Ma anche i maligni hanno appreso della sua esistenza. Mi hanno già inseguito per impedirmi di raggiungerla e per poco non ci sono riusciti. Certo tenteranno di nuovo, se ne avranno l'opportunità. Ma non sanno dove lei si trova e, per il momento almeno, non sanno nemmeno dove mi trovo io. Se sarò abbastanza rapido, dovrei riuscire a raggiungerla e riportarla sana e salva a Arborlon prima che mi scoprano di nuovo.» «Allora devo dedurre che stai perdendo del tempo prezioso conversando con noi» replicò deciso Flick. «Dovresti già essere partito alla ricerca della ragazza.» Il Druido l'ignorò, ma si incupì lievemente. «Anche se riporterò Amberle a Arborlon, ci saranno ancora dei problemi da risolvere. Come ultima degli Eletti, toccherà a lei andare alla ricerca del Fuoco di Sangue, per immergervi il seme dell'Eterea. Nessuno, me compreso, sa esattamente dove si trovi il Fuoco. Un tempo, l'Eterea lo sapeva. Ma il mondo che lei
ricorda è ora scomparso. Ha dato agli Elfi un nome... Cripta. Un nome che non ha significato per loro, un nome del mondo antico. Dopo aver lasciato Arborlon, mi sono recato prima a Paranor per consultare le storie druide compilate dal Consiglio dopo le Grandi Guerre... storie che riportano i misteri del mondo antico. Leggendole, sono riuscito a scoprire il paese in cui si trova la Cripta. Ma, dove si trovi esattamente il Fuoco di Sangue, dovranno scoprirlo coloro che lo cercano.» E improvvisamente Wil Ohmsford capì perché Allanon voleva che lui partisse per le Terre dell'Ovest. L'aveva capito, ma non poteva crederci. «Amberle non può intraprendere il viaggio da sola» proseguì Allanon. «Il paese in cui deve addentrarsi è pericoloso... troppo pericoloso perché una ragazza elfa possa viaggiarvi sola. Nel migliore dei casi, sarà un'impresa ardua. Coloro che hanno oltrepassato il Divieto continueranno a cercarla; se la trovano, lei non avrà nessuna protezione. Non le deve assolutamente capitare nulla. Lei è l'unica speranza del suo popolo. Se l'Eterea non rinascerà, il Divieto crollerà e il male da esso imprigionato si scatenerà di nuovo sulla terra. Ci sarà allora una guerra che, con tutta probabilità, gli Elfi non potranno vincere. Se essi verranno distrutti, le creature del male si abbatteranno anche sulle altre terre, diventando sempre più forti, come è nella loro natura. Alla fine, le razze verranno divorate.» «Ma ci sarai tu per aiutarla...» cominciò Wil, cercando di sfuggire alla trappola che sentiva chiudersi intorno a lui. «Io non potrò farlo» l'interruppe bruscamente Allanon. Ci fu un lungo silenzio. Il Druido allargò le mani sul tavolo. «E per un valido motivo, Wil Ohmsford. Ti ho detto che il male già comincia a irrompere dalla barriera del Divieto. L'Eterea si indebolirà sempre più, mentre le creature che lei tiene prigioniere diventeranno sempre più forti. Continueranno a premere contro la barriera del Divieto. Continueranno a uscirne. Alla fine, l'abbatteranno. Quando ciò accadrà, convergeranno sulla nazione elfa e cercheranno di distruggerla. Ciò può accadere assai prima che venga trovato il Fuoco di Sangue. Esiste anche la possibilità che il Fuoco di Sangue non venga mai trovato o che venga trovato troppo tardi. In entrambi i casi, il popolo elfo dovrà essere pronto a combattere. Alcune delle creature imprigionate dal Divieto sono molto potenti; almeno una di loro possiede poteri quasi pari ai miei. Gli Elfi saranno inermi contro di esse, perché hanno perso i loro poteri magici. I Druidi che un tempo li aiutarono sono scomparsi, sono rimasto soltanto io. Se io li la-
scio per accompagnare Amberle, saranno indifesi. Non posso farlo. Devo dar loro tutto l'aiuto possibile. «Eppure qualcuno dovrà andare con Amberle... qualcuno abbastanza potente da resistere al male che la inseguirà, qualcuno di cui ci si possa fidare e che faccia tutto quel che è umanamente possibile per proteggerla. Quel qualcuno sei tu, Wil.» «Ma cosa dici?» sbottò Flick, esasperato. «Che aiuto può dare Wil contro creature come quelle... che per poco non hanno fatto fuori te? Non vorrai forse che usi la Spada di Shannara?» Allanon scosse la testa. «Il potere della Spada funziona soltanto contro l'illusione. Il male che ci minaccia è molto concreto, tangibile. La Spada sarebbe impotente contro di esso.» Per poco Flick non saltò in piedi. «Che cosa, allora?» Gli occhi del Druido erano cupi e penetranti e Wil Ohmsford si sentì venir meno. «Le Pietre Magiche.» Flick era esterrefatto. «Le Pietre Magiche! Ma le ha Shea!» Wil gli posò rapidamente una mano sul braccio. «No, zio Flick, le ho io.» Si frugò nella tunica e estrasse un sacchetto di cuoio. «Il nonno me le diede quando lasciai Valle d'Ombra per venire a Storlock. Mi disse che non ne aveva più bisogno e che riteneva dovessero appartenere a me.» La sua voce tremava. «È strano; le ho prese soltanto per accontentarlo... non avrei mai creduto di usarle. Non ci ho mai nemmeno provato.» «Non ti saranno di alcun aiuto, Wil.» Flick si voltò in fretta verso Allanon. «Lui lo sa. Solo Shea poteva usare le Pietre Magiche. Chiunque altro non ne caverebbe niente.» L'espressione di Allanon era immutata. «Non è del tutto vero, Flick. Possono essere usate soltanto da colui al quale vengano date liberamente. Io le diedi a Shea quando lo avvertii di rifugiarsi a Culhaven. Rimasero sue finché lui, a sua volta, le diede a Wil. Ora appartengono a lui e sarà lui che dovrà invocarne il potere, come un tempo fece Shea.» Flick era disperato. «Le puoi restituire» insistette, voltandosi verso Wil, vedendo l'espressione confusa, disorientata del giovane. «Oppure darle a qualcun altro... chiunque altro. Non sei obbligato a tenerle. A lasciarti coinvolgere in questa pazza avventura!» Allanon scosse la testa. «Flick, lui è già coinvolto.» «Ma che ne sarà dei miei piani di diventare Guaritore?» interloquì improvvisamente Wil. «Di tutto il tempo e la fatica che vi ho dedicato? Di-
ventare guaritore è stata sempre la mia unica ambizione e ora sto finalmente per realizzarla. Devo abbandonare tutto?» «Se rifiuti di dare il tuo aiuto in questa impresa, come potrai diventare Guaritore?» La voce del Druido si fece dura. «Un Guaritore deve prodigarsi quanto può, come può, dove può. Non ha scelta. Se tu rifiuterai di venire e accadrà tutto quello che io ho previsto - e non ho dubbi in proposito - come potrai vivere, sapendo che non hai nemmeno cercato di impedirlo?» Wil avvampò. «Ma quando potrò tornare?» «Non so. Forse ci vorrà molto tempo.» «E anche se vengo con te, come puoi essere certo che il potere delle Pietre Magiche sarà abbastanza grande da proteggere la ragazza?» Il volto di Allanon si fece impenetrabile. «Non posso esserne certo. Il potere delle Pietre Magiche dipende da chi le possiede. Shea non ne verificò mai i limiti; tu potresti doverlo fare.» «Non mi puoi dare alcuna rassicurazione, allora?» La voce del giovane si era ridotta a un sussurro. «No.» Gli occhi del Druido non lo abbandonarono. «E, tuttavia, devi venire.» Wil si abbandonò sulla sedia, stordito. «Sembra proprio che non abbia scelta.» «Certo che ce l'hai!» sbottò Flick, furibondo. «Rinuncerai a tutto soltanto perché... perché Allanon ha detto che devi farlo? Lo seguirai soltanto per questo?» Wil lo guardò. «Non avete fatto così anche voi - tu e il nonno - quando siete partiti alla ricerca della Spada di Shannara?» Flick esitò, disorientato; poi si protese a afferrare la mano del nipote, stringendola forte. «Stai arrivando a delle conclusioni affrettate, Wil. Eppure ti avevo messo in guardia. Ora devi ascoltarmi. C'è dell'altro in questa faccenda. Qualcosa che il Druido nasconde. Me lo sento.» La sua voce si fece tesa, e le rughe sul suo volto incorniciato dalla barba grigia si approfondirono. «Temo per la tua sorte. È la paura che mi fa parlare così. Tu sei come un figlio per me e non voglio perderti.» «Lo so» sussurrò Wil. «Lo so.» Flick si raddrizzò. «Allora non andare. Lascia che Allanon trovi qualcun altro.»
Il Druido scosse la testa. «Non posso, Flick. Non c'è nessun altro. Soltanto Wil.» I suoi occhi cercarono quelli del giovane. «Devi venire.» «Lascia che prenda io il suo posto» si offrì improvvisamente Flick, con una nota di disperazione nella voce. «Wil mi darà le Pietre Magiche, e io proteggerò la ragazza elfa. Allanon, noi ci conosciamo...» Ma il Druido già scuoteva la testa. «Flick, tu non puoi venire» disse con dolcezza. «Il tuo cuore è più grande delle tue forze, uomo della Valle. Il viaggio sarà lungo e difficile e solo un giovane può affrontarlo.» Fece una pausa. «Le nostre imprese in comune sono terminate, Flick.» Ci fu un lungo silenzio. Poi il Druido si voltò verso Wil Ohmsford, in attesa. Il giovane guardò lo zio. Si fissarono l'un l'altro per un attimo, senza parole. Lo sguardo di Flick era incerto, quello di Wil adesso era risoluto. Flick capì che la decisione era stata presa. Quasi impercettibilmente, annuì. «Devi fare quel che ritieni giusto» borbottò, pronunciando ogni parola a malincuore. Wil si voltò verso il Druido. «Verrò con te.» 9 Il mattino dopo, all'alba, Allanon andò da Wil Ohmsford e gli annunciò che dovevano lasciare immediatamente Storlock. Cupo e arcigno, il Druido apparve alla porta della casa del giovane senza una parola di preavviso e Wil fu sul punto di protestare, ma qualcosa nel volto e nella voce dell'uomo lo dissuase dal farlo. La sera prima, quando si erano congedati, il Druido non aveva espresso alcuna urgenza; ora il suo atteggiamento era cambiato. Qualsiasi cosa lo avesse indotto a prendere quella decisione, doveva essere di estrema gravità. In silenzio, il giovane infilò in un sacco le sue poche cose e, dopo aver chiuso a chiave la porta della sua casetta, seguì il Druido. Pioveva di nuovo, con l'avvicinarsi di un altro temporale da nord-ovest, e il cielo era plumbeo. Allanon precedeva il giovane per la strada infangata, l'alta sagoma avviluppata nel mantello nero, la testa leggermente china contro il vento che si andava rafforzando. Sui gradini del centro di riposo alcuni Stor in tunica bianca li aspettavano con una piccola sacca da guaritore per Wil e provviste per il viaggio. Artaq, già sellato, scuoteva la testa, impaziente di partire, e Allanon si affrettò a montare lo stallone nero, con una precauzione tale da far pensare che le sue ferite non fossero ancora
completamente guarite. Wil ricevette un grigio robusto castrato di nome Spitter, e aveva già infilato un piede in una staffa quando Flick arrivò, trafelato, rosso in faccia e gocciolante di pioggia. In gran fretta suo zio lo fece smontare da cavallo e salire sotto il portico del centro di riposo. «Me l'hanno appena detto» disse, senza fiato, asciugandosi la faccia. «È già tanto che se ne siano ricordati!» Lanciò un'occhiata furibonda verso Allanon. «È proprio indispensabile che partiate così in fretta?» Wil annuì lentamente. «Credo di sì.» Gli occhi di Flick esprimevano delusione e ansia. «Puoi ancora rivedere la tua decisione» borbottò e avrebbe proseguito, se Wil non avesse subito fatto cenno di no con la testa. «Benissimo. Racconterò a tuo nonno cosa è accaduto, anche se sono certo che nemmeno a lui andrà a genio. Sii cauto, Wil. Ricorda quel che ti ho detto: tutti noi abbiamo dei limiti.» Wil annuì. Si congedarono in modo rapido, sbrigativo, come se temessero di esprimere i loro veri sentimenti, i volti pensierosi e tirati mentre si guardavano e si abbracciavano frettolosamente. Poi Allanon e Wil partirono. Flick, gli Stor e il villaggio diventarono ombre oscure che si allentavano nella bruma e nel grigio delle foreste orientali, e infine sparirono dalla loro vista. Uscirono da Storlock arrivando fino al limite delle Pianure di Rabb, poi voltarono a sud. Allanon si fermò solo il tempo necessario per informare Wil che, nel primo tratto del loro viaggio, sarebbero scesi a sud del fiume Argento per raggiungere un piccolo villaggio ai margini occidentali dell'Anar inferiore, chiamato Havenstead. Lì avrebbero trovato Amberle. Il Druido non aggiunse altro, e Wil non indagò. La pioggia scendeva a rovesci e il temporale diventava sempre più violento; tenendosi vicini alla foresta, chinarono le teste e cavalcarono senza parlare. Mentre viaggiavano, i pensieri di Wil tornavano agli eventi della sera precedente. Nemmeno ora sapeva con certezza perché avesse deciso di seguire il Druido. E ciò lo turbava. Come mai non poteva spiegare, nemmeno a se stesso, perché avesse acconsentito a intraprendere quel viaggio così strano? Aveva avuto tempo sufficiente per valutarne le motivazioni, e lo aveva fatto. La riflessione avrebbe dovuto chiarire i! perché della sua decisione, ma non era così. Anzi, provava un persistente senso di confusione. Tutto sembrava affastellarsi nella sua mente: gli elementi disparati, incompleti, le emozioni di cui erano intessuti e colorati. Non sarebbe riuscito a ricomporli, in un quadro nitido, razionale. Gli sfuggivano come pecore sbandate che lui cercava inutilmente di radunare.
Voleva convincersi che la sua scelta di seguire Allanon fosse stata dettata dalla necessità del suo contributo. Se tutto quel che gli aveva detto il Druido era vero - e lui sentiva che lo era, nonostante i dubbi palesi di Flick - egli poteva essere di grande aiuto al popolo elfo e in particolare a quella ragazza, Amberle. Ma perché illudersi? Non era affatto sicuro di poter usare le Pietre Magiche che suo nonno gli aveva affidato. E se non fosse riuscito a evocarne il potere? E se Allanon si fosse sbagliato, nel credere che egli potesse usarle? In ogni caso aveva agito d impulso: doveva ammetterlo. D'altra parte, la decisione, anche se estemporanea, era dettata da giuste motivazioni. Se era in grado di aiutare gli Elfi, doveva farlo, o almeno provarvi. Inoltre, suo nonno non si sarebbe tirato indietro, di questo era certo come era certo di esistere. Shea Ohmsford sarebbe partito, se Allanon glielo avesse chiesto, così come era partito per cercare la Spada di Shannara. Wil non poteva essergli da meno. Inspirò profondamente. Sì, aveva preso una decisione giusta e sensata, anche se ora tutto gli appariva confuso e sconnesso. A turbarlo, comprese all'improvviso, non era niente connesso con quella decisione o con i motivi che l'avevano inspirata. Era qualcosa che aveva a che fare con Allanon. Wil avrebbe voluto credere che era stato lui stesso a decidere. E invece. più ci pensava, più si rendeva conto che non era stato affatto lui, ma Allanon. Certo, apparentemente, era stato lui a esprimere con coraggio la sua decisione, nonostante gli avvertimenti dello zio. Eppure Wil sapeva che il Druido aveva previsto esattamente cosa l'avrebbe persuaso a pronunciare quelle parole, e aveva manovrato la conversazione di conseguenza. Misteriosamente. Aveva previsto le reazioni del giovane, e quelle di Flick, così come l'esito della loro discussione e l'influenza dei suoi interventi. Aveva saputo tutto ciò, e si era comportato di conseguenza. Un tempo Shea Ohmsford aveva detto a Wil che Allanon aveva il dono di leggere il pensiero degli altri. Ora Wil capiva esattamente cosa intendeva suo nonno. Così aveva accettato l'impegno. Non poteva abbandonarlo, anche se lo avesse voluto. Ma d'ora in poi si sarebbe messo in guardia contro le abili manipolazioni del Druido. Per quel che gli era possibile, avrebbe cercato di vedere, al di là delle parole e delle azioni dell'imponente uomo, i motivi che le ispiravano, anzi, di capire cosa Allanon pretendesse da lui. Wil non voleva farsi menare per il naso da nessuno. Badava a se stesso da diversi anni. e non intendeva smettere ora. Doveva essere cauto nei confronti del Druido. Certo si sarebbe fidato di lui, ma non ciecamente e non senza le necessarie riflessioni. Forse poteva essere utile agli Elfi e a quella ragazza,
Amberle; non che i sentimenti provocati in lui dal modo in cui Allanon si era assicurato la sua collaborazione lo spingessero a negare tale possibilità, ma avrebbe fatto in modo da preservare la sua autonomia di decidere lui di quali interessi doveva curarsi. Non avrebbe accettato niente a scatola chiusa. Sollevò lo sguardo, circospetto, e sbirciò attraverso la pioggia la forma scura che cavalcava davanti a lui: Allanon, l'ultimo dei Druidi, un essere venuto da un'altra era, e il cui immenso potere era sconosciuto nel mondo attuale. Wil doveva allo stesso tempo fidarsi e non fidarsi di lui. Per un attimo si sentì profondamente costernato. In quale guaio si era messo? Forse, dopo tutto, Flick aveva ragione. Forse avrebbe fatto meglio a ponderare di più quella decisione. Ma ormai era troppo tardi. Troppo tardi, anche, per simili riflessioni. Scosse la testa. Non c'era senso a insistervi. Gli conveniva volgere i suoi pensieri in un'altra direzione. Ci provò inutilmente per tutto il resto del giorno. Col passare delle ore la pioggia si attenuò, poi, nel grigio freddo del crepuscolo, finalmente cessò. Il cielo era ancora coperto di densi strati di nubi temporalesche quando scese il buio della notte e l'aria si riempì di una nebbia leggera che vagava ai margini della foresta come un bambino smarrito. Allanon si diresse verso il riparo dei grandi alberi, e si accamparono in una piccola radura a una certa distanza dalle Pianure di Rabb. Dietro di loro, sopra il tetto della foresta, si levava la nera barriera delle Montagne del Wolfsktaag, poco più che un'ombra più scura sullo sfondo della notte. Nonostante l'umidità, riuscirono a raccogliere abbastanza legna asciutta da accendere un piccolo fuoco; le fiamme intiepidirono il gelo della sera. Appesero i mantelli da viaggio a asciugare e legarono i cavalli a degli alberi vicini. Consumarono un pasto frugale di carne fredda, frutta e noci che si erano portati da Storlock, scambiandosi qualche parola frettolosa mentre mangiavano. Il Druido se ne stava in silenzio, assorto nei suoi pensieri, come lo era sempre stato da quando avevano lasciato il villaggio, evidentemente riluttante a intavolare una conversazione. Ma Wil era ben deciso a farsi dare dei chiarimenti su quel che lo aspettava e non aveva intenzione di aspettare ulteriormente. Quando ebbero finito di mangiare, si avvicinò un poco al fuoco, in modo da attirare l'attenzione di Allanon. «Possiamo parlare?» esordì cauto, ricordando che suo nonno gli aveva descritto il temperamento imprevedibile del Druido. Per un attimo l'altro lo fissò con occhi inespressivi, poi annuì.
«Puoi dirmi qualcos'altro sulla storia del popolo elfo?» Wil aveva deciso di cominciare da lì. Allanon ebbe un debole sorriso. «Benissimo. Cosa desideri sapere, Wil Ohmsford?» Il giovane esitò. «Ieri sera ci hai detto che, anche se la storia del vecchio mondo non contiene alcun accenno al popolo elfo, tranne che nelle favole e nei costumi, essi erano un popolo vero, proprio come gli uomini. Tu hai detto che esistevano, ma gli umani non erano in grado di vederli. Ecco, questo non l'ho capito!» «Davvero?» Il Druido sembrava divertito. «Bene, allora avrai una spiegazione. In parole povere, gli Elfi sono sempre vissuti nelle foreste... ma ancor più nelle epoche precedenti le Grandi Guerre. A quei tempi, come ti ho già detto, erano creature dotate di poteri magici. Possedevano la capacità di fondersi naturalmente con l'ambiente, di diventare un cespuglio o una pianta davanti ai quali si passa mille volte senza notarli. Gli uomini non li vedevano perché non sapevano come cercarli.» «Ma erano invisibili?» «No.» «Era soltanto difficile individuarli?» «Sì, sì.» C'era una nota di fastidio nella risposta del Druido. «Ma perché adesso riusciamo a vederli?» Allanon si raddrizzò. «Tu non mi ascolti. Nel vecchio mondo, gli Elfi erano creature dotate di arti magiche, come tutte le creature descritte nelle favole. Ora non lo sono più. Sono uomini, come te. Hanno perso la loro magia.» «Come è successo?» Wil appoggiò i gomiti sulle ginocchia puntellandosi il mento con le palme delle mani, come un bambino incuriosito. «Non è facile spiegarlo» rispose il Druido un po' perplesso, «ma poiché penso che non sarai soddisfatto finché non ci avrò provato, farò del mio meglio.» Si chinò leggermente in avanti. «Dopo la creazione dell'Eterea e dopo che le creature della magia maligna furono bandite dalla terra, gli Elfi e i loro fratelli si separarono di nuovo. Era naturale che questo accadesse perché si erano uniti soltanto allo scopo di sconfiggere il comune nemico e, una volta raggiunto tale scopo, non c'era più molta coesione fra loro. Oltre alla preoccupazione di preservare la natura, non avevano niente in comune. Ogni specie di creatura aveva il suo stile di vita, le sue abitudini, i suoi interessi. Elfi, Nani, Folletti, Gnomi, Troll, Streghe e tutti gli altri differi-
vano fra loro come gli animali della foresta differiscono dai pesci del mare. «La specie umana non aveva ancora cominciato a emergere dalla sua esistenza primitiva, e ci sarebbero voluti secoli prima che si evolvesse. Le creature fantastiche non si interessavano gran che degli uomini e, a dire il vero, era comprensibile. Dopotutto, a quell'epoca, gli uomini erano semplicemente una forma superiore di vita animale, possedevano più di altri animali una maggior intelligenza innata, ma erano meno dotati di istinti. Gli Elfi e i loro fratelli non prevedevano l'influenza che gli uomini avrebbero avuto un giorno sullo sviluppo della terra.» Il Druido fece una pausa. «Eppure avrebbero potuto prevederlo: bastava tener conto delle differenze esistenti fra loro e la specie umana. Due furono di particolare importanza. Gli Elfi e i loro fratelli non si riproducevano rapidamente; gli uomini sì. Gli Elfi, per esempio, erano uno dei popoli più numerosi ma, pur vivendo a lungo, le nascite fra di loro erano rare. Molte delle altre creature procreavano soltanto una volta a distanza di secoli. Invece gli uomini avevano frequenti nascite multiple nell'unità familiare, e la loro popolazione cresceva rapidamente. All'inizio, le creature fantastiche erano assai più numerose di quelle umane. Nell'arco di un millennio la situazione si ribaltò drammaticamente. Dopo di che l'espansione della popolazione umana proseguì costantemente, mentre le creature fantastiche cominciarono a diminuire... ma su questo ritornerò fra poco. «La seconda differenza fra gli Elfi e i loro fratelli da una parte e la razza umana dall'altra riguardava la capacità, o l'incapacità di adattarsi. Gli Elfi erano creature della foresta; raramente lasciavano il rifugio dei loro boschi. Lo stesso valeva per gli altri. Ciascun popolo risiedeva entro una particolare area geografica. Accuratamente delimitata. Era sempre stato così. Alcuni vivevano nelle foreste, altri sui fiumi o sui mari, altri sulle montagne, alcuni nelle pianure. Avevano adattato il loro tipo di vita al loro ambiente; non avrebbero voluto né potuto vivere altrove. Ma gli uomini erano più adattabili: si stabilivano dappertutto. Le foreste, i fiumi, le montagne, le pianure... si impadronivano di tutto. Perciò la loro espansione, man mano che aumentava la loro popolazione, avvenne in modo facile, naturale. Si adattavano a qualsiasi cambiamento dell'ambiente, mentre gli Elfi e le altre creature vi resistevano.» Allanon fece una pausa, poi sorrise. «Ci fu un tempo, Wil Ohmsford, in cui la vita nel vecchio mondo era molto simile a quella di adesso... e gli
uomini vivevano e lavoravano e giocavano come fanno ora le razze. Ti sorprende?» Wil annuì. «Un poco. sì.» Il Druido scosse la testa. «Eppure ci fu quel tempo. Gli Elfi si sarebbero dovuti manifestare e unire agli uomini per plasmare il mondo. Ma non lo fecero... né loro né gli altri. Scelsero di restare nascosti nelle foreste, limitandosi a osservare, convinti che lo sviluppo dell'umanità non avrebbe intaccato la loro esistenza. Non vi scorgevano nessuna minaccia: gli uomini non possedevano la magia e non erano malvagi... per il momento. Gli Elfi continuarono la loro politica di isolamento, pensando assurdamente di andare avanti così all'infinito. E determinarono la loro condanna. La popolazione umana continuò a espandersi e a evolversi. Col passare del tempo, scoprì l'esistenza degli Elfi e degli altri. Ma poiché le creature fantastiche avevano scelto di occultarsi, attirarono su di sé la sfiducia degli uomini. Questi credevano che portassero sfortuna, che li spiassero, che fossero esseri maligni e intriganti il cui passatempo preferito consistesse nel rendere ancora più difficile la loro vita già tanto faticosa. Queste accuse non erano del tutto infondate, poiché alcune creature si divertivano davvero a tormentare gli umani con piccoli atti di magia, ma certo non si meritavano la brutta fama che si erano fatte. In ogni caso gli Elfi e gli altri decisero di ignorare il problema. L'atteggiamento degli uomini verso di loro non li riguardava. Si preoccupavano soltanto di preservare e proteggere la terra e gli esseri che vi abitavano, e era un compito che sapevano svolgere molto bene, nonostante l'avversione degli uomini. «Ma poi anche questa situazione cominciò a cambiare. Gli uomini continuarono a popolare la terra con crescente rapidità, espandendosi, moltiplicandosi, costruendo città e fortezze, percorrendo i mari alla ricerca di nuove terre, limitando le zone selvagge. Cominciarono, per la prima volta, a compromettere pesantemente il carattere della terra, stravolgendo intere regioni per insediarvisi. Gli Elfi furono costretti a ritirarsi sempre più nelle loro foreste, mentre gli uomini continuavano a tagliare alberi e boscaglia. Tutte le creature fantastiche furono assediate da questa espansione e, infine, alcune si ritrovarono senza casa.» «Ma non resistettero a questa intrusione?» interruppe improvvisamente Wil. «Ormai era troppo tardi» rispose Allanon con un sorriso amaro. «Nel frattempo, alcune di queste creature si erano estinte, alcune per incapacità a procreare, altre per incapacità a adattarsi ai cambiamenti dell'ambiente.
Quelle superstiti non erano più in grado di unirsi come avevano fatto un tempo; erano trascorsi secoli dalla loro guerra contro le creature della magia maligna, e si erano sparse di qua e di là, perdendo i reciproci contatti. E, quel che è peggio, avevano perso la loro magia. Quando la magia maligna aveva imperversato sulla terra era stata necessaria la magia buona per opporle resistenza. Ma una volta che il male fu bandito, non ci fu più bisogno della magia buona. Le creature che la possedevano cessarono quasi completamente di usarla. Col passare del tempo, la dimenticarono. Gli esseri umani non usavano nessuna magia, così gli Elfi e i loro fratelli non ritennero necessario ricorrere alla potente magia che un tempo avevano impiegato per sconfiggere il male. Quando si accorsero di averne nuovamente bisogno, scoprirono di averla persa quasi completamente. Così la resistenza all'espansione della popolazione umana nelle loro terre fu fortemente indebolita. Dapprima combatterono duramente, usando tutto il potere che ancora possedevano per porre fine a quel che stava succedendo. Non servì a niente. Gli uomini erano tanti e loro troppo pochi, dotati di una magia ormai inefficace che offrì loro piccole vittorie, brevi tregue, ma niente di più. Alla fine furono sopraffatti, cacciati dalle loro terre e costretti a trovarne altre o a perire... vinti, in ultima analisi, da una scienza e da una tecnologia contro le quali non avevano una reale difesa.» «E gli Elfi - che ne fu di loro?» chiese a bassa voce Wil. «Impararono a sopravvivere. La loro popolazione diminuì, ma non si estinse come molte altre. Rimasero nella foresta, penetrandovi sempre più a fondo, nascosti ora completamente agli uomini che erano arrivati a occupare quasi tutta la terra. Assistettero inorriditi alla distruzione del loro mondo, spogliato delle sue risorse e della sua vita animale. Assistettero allo sconvolgimento irreversibile del suo equilibrio ecologico. Assistettero alle guerre incessanti fra gli uomini mentre i vari paesi cercavano di conquistare il dominio l'uno sull'altro. Osservavano e aspettavano e si preparavano - perché avevano capito come sarebbe finita.» «Con le Grandi Guerre» fece Wil, anticipando il Druido. «Con le Grandi Guerre» annuì Allanon. «Gli Elfi previdero tali orrori. Usarono tutta la magia ancora in loro possesso nello sforzo di preservare se stessi e alcuni tesori, scelti con cura, del loro passato - e fra questi l'Eterea - dall'olocausto che seguì. Fu uno sforzo notevole che consentì loro di sopravvivere. Quasi tutte le altre creature fantastiche furono distrutte. Un piccolo numero di uomini sopravvisse, anche se non fu merito della loro lungimiranza. Sopravvissero perché erano così numerosi in così numerose
zone della terra che alcuni semplicemente non furono colpiti dall'olocausto. Ma tutto quello che avevano costruito andò distrutto. La loro civiltà fu annientata in tutta la sua estensione. Il vecchio mondo fu ridotto a uno squallido deserto. «Nei secoli che seguirono, tutti gli esseri viventi dovettero combattere selvaggiamente per sopravvivere. Le poche creature rimaste in questo nuovo mondo furono costrette a adattarsi all'ambiente primitivo che le circondava, un ambiente in cui la natura era stata stravolta fino a diventare irriconoscibile. Anche gli uomini erano cambiati per sempre. Dalla vecchia razza umana emersero quattro razze nuove, distinte: Uomini, Nani, Gnomi e Troll. Si credeva, e molti lo credono ancora, che gli Elfi fossero una quinta razza nata dall'olocausto. Per le nuove razze fu l'alba della vita. Quasi tutta la storia del vecchio mondo fu rapidamente dimenticata - e anche l'antico modo di vivere. Gli Elfi preservarono gran parte della loro storia e delle loro tradizioni. Avevano perso solo la magia - ma per sempre. L'esigenza di adattarsi produsse cambiamenti che altrimenti non sarebbero avvenuti, cambiamenti che li avvicinarono culturalmente e fisiologicamente alle nuove razze. Nel nuovo mondo uomini rinati e Elfi sopravvissuti si assimilarono finché, inesorabilmente, diventarono praticamente uguali. «E quando, finalmente, quasi un millennio dopo la fine delle Grandi Guerre, le nuove razze cominciarono a emergere dall'esistenza primitiva che avevano condotto nella lotta per sopravvivere alle conseguenze dell'olocausto, gli Elfi furono con loro. Non rimasero più nascosti nelle foreste come osservatori imparziali. Questa volta avrebbero preso parte allo sviluppo del nuovo mondo, collaborando con le nuove razze per essere certi che gli uomini non imboccassero di nuovo quella strada che per poco non era terminata con la distruzione di tutta la vita. Perciò, attraverso il Druido Galaphile, gli Elfi convocarono il Primo Consiglio di Paranor. E cercarono di distogliere le razze da un malaugurato interesse per le vecchie scienze della tecnologia e dell'energia, consigliando un approccio più cauto verso i misteri della vita. Così si proposero di riconquistare almeno in parte la magia che avevano perduto, nella convinzione che queste arti li avrebbero meglio aiutati nello sforzo di preservare il nuovo mondo e la sua vita.» «Eppure gli Elfi non hanno magia» ricordò Wil. «Soltanto i Druidi l'avevano.» «I Druidi e pochi altri sparsi per il mondo» corresse Allanon. Per un attimo rimase assorto. Quando riprese a parlare, la sua voce era lontana. «I Druidi capirono presto quali pericoli fossero connessi alla ricerca della
magia perduta. Glieli illustrò un Druido di nome Brona. Ma egli era così determinato a esplorare i limiti della magia che ne fu distrutto, trasformandosi in quella creatura nota come il Signore degli Inganni. Quando i Druidi capirono come il desiderio insano di impadronirsi di quella magia l'avesse devastato, proibirono ogni ulteriore esplorazione. La magia che avevano scoperto non era né totalmente buona, né totalmente cattiva; era semplicemente troppo potente perché esseri mortali potessero controllarla. Per un certo tempo, fu accantonata. Poi Brona catturò e uccise tutti i Druidi a Paranor, scatenando la Seconda Guerra delle Razze, e così rimase soltanto Bremen in grado di insegnare la magia. Poi, quando lui scomparve, rimasi soltanto io...» La sua voce si affievolì; e i suoi occhi, ora ridotti a fessure, scrutarono il fuoco ai loro piedi. Poi, improvvisamente, il Druido tornò a guardare Wil. «Che cos'altro vuoi sapere, giovane della Valle?» Il tono della sua voce era brusco, quasi incollerito. Quel mutamento improvviso colse Wil di sorpresa, ma si costrinse a sostenere lo sguardo del Druido. «Che cos'altro vuoi che io sappia?» ribatté, calmo. Allanon tacque, in attesa. Ci fu una lunga pausa di silenzio, carica di tensione, mentre i due uomini si fronteggiavano. Infine Wil distolse lo sguardo, attizzando le braci con la punta di uno stivale. «Quegli esseri che furono imprigionati al di là del Divieto... cosa mi dici di loro?» chiese infine. «Come mai sono sopravvissuti per tanti anni? Perché non sono periti?» L'espressione cupa di Allanon non si attenuò. «Chiamali demoni, perché è quello che sono diventati. Furono mandati in un non luogo, uno spazio vuoto al di là di ogni mondo vivente. In quell'oscurità senza tempo non esistono né vecchiaia né morte. Gli Elfi non se ne resero conto, immagino, o forse non vi diedero molta importanza, poiché pensavano soprattutto a allontanare il male dal loro mondo. In ogni caso, i demoni non morirono; anzi, si moltiplicarono. Il male racchiuso in loro continuava a crescere e a rafforzarsi. Alimentava nuova vita. Poiché il male lasciato a se stesso, Wil, non perisce, ma prospera. Imprigionarlo non significa distruggerlo. Esso si nutre di sé, cresce nel suo isolamento, si dilata e si imbestialisce finché si libera... e allora... e allora imperversa.» «E la sua magia?» insistette Wil. «Anche la sua magia è cresciuta?» L'espressione dell'altro si fece meno dura, e annuì. «Alimentata nello stesso modo, e praticata, poiché, nella loro prigione, i maligni si combat-
tono l'un l'altro, resi quasi folli dal bisogno di sfogare l'odio per quello che hanno subito.» Ora fu il giovane della Valle a chiudersi nel silenzio. Chinò la testa nell'ombra, le braccia allacciate protettivamente intorno alle ginocchia mentre sollevava le gambe verso il petto. A est risuonava in distanza il debole rombo del temporale che svaniva nella barriera frastagliata del Wolfsktaag. Un'ombra d'impazienza apparve negli occhi scuri di Allanon mentre osservava il giovane. Si chinò di nuovo verso di lui. «Ho risposto a tutti i tuoi quesiti, ora, Wil Ohmsford?» L'altro sbatté le palpebre. «No.» Sollevò di scatto la testa. «No, ne ho un altro.» Allanon si accigliò. «Ah, sì? Parla, allora.» Era chiaramente contrariato. Wil esitò, valutando l'opportunità di quel che stava per dire. Poi decise che non doveva tacere. Scelse con cura le parole. «Da tutto quanto mi hai detto è evidente che questi demoni metteranno a dura prova gli Elfi. E dal tuo incontro con loro, è evidente che hanno messo a dura prova anche te.» Ora gli occhi di Allanon brillavano di collera, ma Wil si affrettò a proseguire: «Se accompagnerò la ragazza elfa alla ricerca del Fuoco di Sangue. Come tu mi hai chiesto di fare, sicuramente ci seguiranno. E se ci trovano? Che possibilità ho io di opporre resistenza? Persino con le Pietre Magiche, che possibilità ho? Prima non mi hai risposto in merito. Fallo ora». «Bene.» Allanon buttò indietro la testa e il volto scarno e scuro si fece improvvisamente inespressivo alla luce del fuoco, segnato dalle ombre. «Lo sapevo che saremmo arrivati a questo.» «Ti prego, rispondimi» insistette Wil, calmo. Allanon piegò il capo di lato come se riflettesse. «Non posso darti una risposta.» «Non puoi?» Il giovane ripeté le parole, incredulo. Il Druido lo guardò. «In primo luogo spero di evitare che loro ti trovino. Se non ti trovano, non possono danneggiarti. Al momento, non sanno niente di te. Intendo fare in modo che le cose restino così.» «Ma se mi trovano... cosa accadrà?» «Tu hai le Pietre Magiche.» Esitò. «Cerca di capire, Wil. Le Pietre Magiche provengono dal mondo antico... sono una magia che esisteva quando gli Elfi sconfissero quelle creature. Il potere delle Pietre dipende dalla for-
za dell'uomo o della donna che le tiene. Ve ne sono tre: una per il cuore, una per la mente e una per il corpo di chi le usa. Tutte devono unirsi come una cosa sola; se ciò avviene, il potere da esse emanato può essere immenso.» Guardò intensamente il giovane. «Capisci, dunque, perché non posso rispondere alla tua domanda? Sarai tu a determinare l'efficacia della tua difesa contro i tuoi nemici; deve venire da te, non dalle Pietre. E io non posso misurarla. Solo tu puoi farlo. Posso solo dirti che io ti ritengo forte e onesto come lo era tuo nonno - e non ho mai conosciuto uomo migliore, Wil Ohmsford.» Il giovane fissò in silenzio il Druido per un attimo, poi abbassò gli occhi sul fuoco. «Nemmeno io» mormorò. Allanon ebbe un debole sorriso. «Sembrava che tuo nonno avesse scarse possibilità di successo quando partì alla ricerca della Spada di Shannara. Anche lui, se fosse qui, lo ammetterebbe. Il Signore degli Inganni sapeva di lui fin dall'inizio; i Messaggeri del Teschio vennero nella Valle a cercarlo. Gli diedero continuamente la caccia. Eppure sopravvisse... nonostante tutti i suoi dubbi.» Si chinò verso il giovane, mettendogli una mano sulla spalla, gli occhi infossati che brillavano alla luce del fuoco. «Io credo che tu possa farcela. Ho fiducia in te. Ora devi cominciare tu a credere in te stesso.» Si alzò. «Abbiamo parlato abbastanza questa sera. Ora dobbiamo dormire. Domani ci aspetta un lungo viaggio. Si avviluppò il mantello nero intorno al corpo. «Io monterò la guardia.» Fece per allontanarsi. «Posso farlo io» si offrì rapidamente il giovane, ricordando che il Druido era ferito. «Tu puoi dormire» borbottò Allanon, e le ombre della notte lo inghiottirono. Wil rimase a fissarlo un istante, mentre scompariva, poi scosse la testa. Dopo aver disteso le sue coperte vicino al fuoco, vi ci si arrotolò e si abbandonò, sfinito. Non avrebbe dormito, si disse. Non ancora. Prima doveva riflettere attentamente su tutto quel che era stato detto quella sera, fino a decidere in che misura doveva credervi, e fino a capire qual era il suo ruolo in tutto ciò. Non prima di allora. Chiuse gli occhi soltanto un istante. Immediatamente si addormentò.
10 All'alba ripresero il viaggio. Anche se la foresta era ancora tutta impregnata di umidità e luccicante per la pioggia del giorno prima, il cielo era limpido, azzurro, inondato di sole mentre i due si dirigevano a sud lungo i margini dell'Anar. La distesa tetra delle Pianure di Rabb si trasformò in una prateria ondulata, e un vento mattutino portò loro il profumo delicato degli alberi da frutto. A pomeriggio inoltrato arrivarono al leggendario Fiume Argento e si imbatterono in una compagnia di Nani genieri impegnati nella costruzione di una passerella in una gola boscosa. Dopo aver lasciato Wil nascosto fra i pini coi cavalli, il Druido scese alla riva del fiume per conferire coi Nani. Rimase via a lungo e, quando tornò, sembrava preoccupato per qualche motivo. Soltanto quando furono rimontati a cavallo, scendendo a valle del fiume, spiegò a Wil che aveva messo al corrente i Nani del pericolo che incombeva sugli Elfi, chiedendo loro che mandassero aiuti il più presto possibile. Uno dei genieri aveva riconosciuto il Druido e aveva promesso che si sarebbero dati da fare. Ma raccogliere delle truppe avrebbe richiesto tempo... Allanon non approfondì la questione. Qualche minuto dopo attraversarono il Fiume Argento in un punto in cui un ampio banco di sabbia divideva le acque limpide e una barriera di sassi rallentava la corrente abbastanza da consentire ai due cavalieri di guadare senza pericolo. Di lì puntarono verso sud a passo tranquillo, vedendo le loro ombre allungarsi man mano che il giorno proseguiva. Era quasi il tramonto quando Allanon fermò Artaq sulla cresta di un'altura boscosa e smontò. Wil lo seguì, portando Spitter nel punto in cui l'aspettava il Druido. Legarono i cavalli in un boschetto di noci e insieme si diressero verso una rupe che divideva la barriera di alberi. Con Allanon in testa, salirono sulla roccia e osservarono il paesaggio. Sotto di loro si estendeva un'ampia valle a forma di ferro di cavallo, ricoperta di una fitta foresta, ma con una vasta distesa erbosa a ovest che era stata arata e coltivata. Fra la foresta e i campi si trovava un villaggio; un fiumiciattolo scorreva dai boschi fra le case passando attraverso i campi, irrigando il suolo con dozzine di canali ben ordinati. Uomini e donne della piccola comunità si affaccendavano intorno: figure minuscole per i due che li osservavano dall'alto. A sud, la zona coltivata era delimitata da una pianura sassosa che si estendeva a perdita d'occhio fino all'orizzonte.
«Havenstead» annunciò Allanon, indicando il villaggio e le fattorie. Sollevò leggermente il dito indicando la landa sassosa: «Laggiù ci sono le pianure del Tumulo». Wil annuì. «Cosa facciamo adesso?» Il Druido si mise a sedere. «Aspettiamo che scenda il buio. Meno persone ci vedono, meglio è. Gli Stor sono estremamente discreti, ma gli abitanti di quel villaggio sono chiacchieroni. La segretezza è il nostro miglior alleato, e non intendo rinunciarvi se non è indispensabile. Entreremo alla chetichella e ce ne andremo allo stesso modo.» Alzò gli occhi verso il sole, che già cominciava a tramontare. «Non dovremo aspettare che un'ora.» Rimasero seduti senza parlare finché l'ultimo margine del sole fu appena visibile sopra gli alberi e il crepuscolo cominciò a allungare la sua ombra grigia sulla valle. Infine, Allanon si alzò. Tornarono ai cavalli, montarono in sella e ripartirono. Per un po', il Druido puntò verso est, costeggiando i margini della valle finché raggiunsero un pendio molto boscoso che nascondeva una stretta gola. Poi cominciarono a scendere. Avanzavano lentamente fra gli alberi, mentre sulla foresta si andava addensando la notte, lasciando che i cavalli si facessero strada nella boscaglia. Wil perse rapidamente ogni senso dell'orientamento, ma Allanon sembrava sapere esattamente dove andava e non rallentò mai l'andatura. Dopo un po', raggiunsero il fondovalle, e il viaggio si fece più agevole. Squarci di cielo illuminato dalla luna apparivano fra le sommità degli alberi, e gli uccelli notturni mandavano striduli richiami al loro passaggio. L'aria era dolce e profumava di bosco e Wil fu preso dalla sonnolenza. Finalmente, qualche sprazzo di luce cominciò a balenare attraverso lo schermo della foresta, e un debole suono di voci li raggiunse nella quiete della notte. Allanon smontò, facendo cenno a Wil di imitarlo, e avanzarono a piedi. Gli alberi si erano diradati considerevolmente, non c'erano più cespugli né rami secchi per terra, e davanti a loro scorsero un basso muro di pietra con un cancello di legno. Intorno al muro, una fila di alti sempreverdi nascondeva quasi completamente quel che c'era dietro, anche se per Wil era evidente che si trovavano al limite orientale del villaggio e che le luci gialle erano le fiamme delle lampade a olio. Raggiunto il muro, legarono i cavalli a un palo di ferro. Allanon si portò un dito alle labbra. Silenziosamente attraversarono il piccolo cancello di legno. Quel che trovarono al di là lasciò Wil senza fiato. Un ampio giardino a terrazze si estendeva davanti a loro, le file di fiori multicolori abbaglianti
persino sotto la luce pallida della luna. Un sentiero delimitato da un muricciolo di pietre, scintillante di granelli d'argento, serpeggiava attraverso i giardini fino a alcune panchine di legno e di lì puntava verso una casetta di legno e pietre, formate da un piano con una soffitta e un portico aperto sul davanti. Cassette di fiori erano appese sotto finestre munite di grate, bassi cespugli bordavano i muri intonacati. Davanti alla casa si ergevano tassi cremisi e abeti azzurri. Dal portico, sotto le fronde di una magnifica betulla bianca, partiva un secondo sentiero che andava a finire in una strada al di là di una siepe. In lontananza, baluginavano nella notte le luci provenienti dalle altre casette. Wil contemplava estasiato lo spettacolo. Tutto era così ricco di colori e di vita - come se uscisse da un libro di favole, tutto era così grazioso. Lanciò un'occhiata interrogativa a Allanon. Il Druido ebbe un breve sorriso amaro, poi gli fece cenno di avanzare. Seguirono il sentiero fino alle panchine, poi proseguirono verso la casa. Una luce intensa emanava dalle tende delle finestre, e dall'interno proveniva un suono sommesso e delicato di voci - di voci infantili! Si corresse Wil. Piuttosto sorpreso da questa scoperta, per poco non vide il grosso gatto a strisce che se ne stava sdraiato sul primo gradino del portico. Evitò appena in tempo di investire la bestiola addormentata. Il gatto sollevò il muso adorno di grossi baffi e lo fissò con aria insolente. Un altro gatto, nero come il carbone, scappò via rapidamente e scivolò silenzioso fra i cespugli. Il Druido e Wil salirono i gradini del portico e si diressero verso la porta anteriore. Dall'interno provenne uno scoppio di risa infantili. Allanon bussò deciso e le voci tacquero. Dei passi si avvicinarono e si fermarono. «Chi è?» chiese una voce sommessa, e le tende ornate di disegni che schermavano una finestra si scostarono leggermente. Il Druido si chinò in avanti, lasciando che la luce proveniente dall'interno illuminasse il suo volto scuro. «Sono Allanon» rispose. Ci fu un lungo silenzio, poi il rumore di un catenaccio tirato indietro. La porta si aprì e la ragazza apparve. Era piccola persino per un'Elfa, snella e abbronzata. I capelli castani le arrivavano fino alla vita e le incorniciavano un viso da bambina innocente e perspicace allo stesso tempo. I suoi occhi si posarono brevemente su Wil - occhi di un verde profondo, pieni di vita poi tornarono sul Druido.
«È da oltre cinquant'anni che Allanon ha lasciato le Quattro Terre.» La sua voce era calma, ma c'era paura nei suoi occhi. «Chi sei tu?» «Sono Allanon» ripeté. Poi, dopo una breve pausa: «Chi altri avrebbe potuto trovarti qui, Amberle? Chi altri potrebbe sapere che tu sei un'Eletta?». La ragazza rimase a guardarlo in silenzio. Tentò di parlare, ma senza riuscirvi. Torcendosi le mani, con uno sforzo visibile, si ricompose. «I bambini avranno paura se li lascio soli. Devo metterli a letto. Aspetta qui, ti prego.» Già si sentiva un rumore di passi frettolosi all'interno e il sussurro di voci eccitate. Amberle si voltò e scomparve. Sentirono la sua voce, sommessa e rassicurante, mentre faceva salire i bambini su per le scale di legno verso la soffitta. Allanon si diresse verso una panca dall'ampio schienale in fondo al portico e rimase in attesa. Wil rimase dov'era, in piedi vicino alla porta, ascoltando i suoni provenienti dall'interno della casa, e pensando: ma è soltanto una bambina, santo cielo! Un attimo dopo lei tornò, scese leggera nel portico, e chiuse accuratamente la porta dietro di sé. Guardò Wil, che le sorrise, imbarazzato. «Questo giovane è Wil Ohmsford.» La voce di Allanon emerse dal buio. «Studia a Storlock per diventare Guaritore.» «Salve...» Cominciò Wil, ma lei già stava dirigendosi verso il Druido. «Perché sei venuto qui, Allanon... Ammesso che tu lo sia?» domandò con una voce che esprimeva allo stesso tempo collera e perplessità. «Ti ha mandato mio nonno?» Allanon si alzò. «Possiamo sederci a parlare nei giardini?» La ragazza esitò, poi annuì. Li guidò lungo il sentiero fino al punto in cui si trovavano le panchine. Lì sedette. Il Druido le si mise davanti, mentre Wil sedette a una certa distanza. Si era reso conto che doveva limitarsi a far da spettatore mentre i due si fronteggiavano. «Perché sei qui?» ripeté Amberle, la voce un po' più ferma di prima. Allanon si avviluppò il mantello intorno al corpo. «Tanto per cominciare, non mi ha mandato nessuno. Sono venuto qui di mia iniziativa. Sono venuto per chiederti di tornare con me a Arborlon.» Fece una pausa. «Sarò breve. L'Eterea sta morendo, Amberle. Il Divieto sta indebolendosi; il male sarà presto libero. Fra poco i demoni invaderanno le Terre dell'Ovest. Solo tu puoi impedirlo. Tu sei l'ultima degli Eletti.» «L'ultima...» Sussurrò, ma le parole le rimasero in gola.
«Sono tutti morti. I demoni li hanno trovati e uccisi. Ora cercano te.» La sua faccia era stravolta dall'orrore. «No! Che imbroglio è mai questo, Druido? Che imbroglio...» Non finì la frase; le lacrime le salirono agli occhi e le scesero giù per il volto di bambina. Le asciugò rapidamente. «Sono veramente tutti morti? Tutti?» Il Druido annuì. «Tu devi venire con me a Arborlon.» Lei scosse rapidamente la testa. «No. Io non sono più un'Eletta. E tu lo sai.» «È quel che tu vorresti, ecco cosa so io.» Gli occhi verdi lampeggiarono per la collera. «Quel che io voglio non conta. Tutto ciò non mi riguarda più. Io non sono più un'Eletta.» «L'Eterea ti ha prescelto» ribatté, calmo, Allanon. «Tocca a lei decidere se lo sei ancora. E se tu devi portare il suo seme alla ricerca del Fuoco di Sangue, così che lei possa rinascere e il Divieto essere ripristinato. Lei deve decidere... non tu, e nemmeno io.» «Io non verrò con te» dichiarò Amberle con voce bassa, ma decisa. «Devi.» «No, non tornerò mai. Adesso è questa, la mia casa. Questa è la mia gente. Ho fatto la mia scelta.» Il Druido scosse lentamente la testa. «La tua casa, la tua gente sono là dove vuoi che siano. Ma talvolta accade che si sia costretti a accettare delle responsabilità senza possibilità di scelta. È così anche nel tuo caso. Tu sei l'ultima degli Eletti; tu sei l'ultima reale speranza degli Elfi. Non puoi eludere questa verità, né fuggire da essa. E sicuramente non puoi alterarla.» Amberle si alzò, si allontanò di un passo, poi si voltò. «Tu non capisci.» Allanon l'osservava. «Ti capisco meglio di quanto tu creda.» «Se così fosse, non mi chiederesti di tornare. Quando lasciai Arborlon, sapevo che non sarei mai più tornata. Agli occhi di mia madre, di mio nonno e della mia gente, ho commesso un atto infame. Qualcosa per cui non esiste perdono: ho rifiutato il dono di essere un'Eletta. Anche se lo volessi, e non lo voglio, non posso porvi rimedio. Gli Elfi hanno uno spiccato senso della tradizione e dell'onore. Non potranno mai perdonarmi. Anche se dovessero sapere che sono tutti condannati a perire a meno che io non decida di salvarli, anche allora non mi accetterebbero. Per loro, io sono in esilio, e niente può modificare questa situazione.» Il Druido si alzò, torreggiando sulla figura piccola e esile della ragazza. I suoi occhi incutevano paura quando fissò quelli di lei.
«Le tue parole sono sciocche. Le tue argomentazioni senza senso e inoltre le esprimi senza convinzione. Non ti si addicono. Io so che tu sei più forte di quanto hai mostrato di essere.» Ferita dal rimprovero, Amberle si irrigidì. «Che ne sai di me. Druido? Niente!» Fece qualche passo verso di lui, gli occhi verdi brillanti di collera. «Io insegno ai bambini. Alcuni li hai visti questa sera. Vengono in gruppi di sei o otto e restano con me una stagione. I loro genitori li affidano alle mie cure. Io ne sono responsabile. Mentre sono con me, insegno loro a conoscere le creature viventi. Insegno loro a amare e rispettare il mondo in cui sono nati: la terra e il mare e il cielo e tutti coloro che vi abitano. Insegno loro a capire questo mondo. Insegno loro a restituire la vita in cambio di quella che hanno ricevuto; insegno loro a far crescere e a curare quella vita. Cominciamo dalle cose più semplici, come questo giardino. Finiamo con la complessità che circonda l'esistenza umana. Nel mio lavoro c'è amore. Io sono una persona semplice con un dono semplice: un dono che posso dividere con altri. Un Eletto non divide niente con nessuno. Io non fui mai un'Eletta... mai! Quel compito mi fu imposto; l'ho sempre sentito estraneo alla mia natura. Ora ho lasciato tutto dietro di me. Questo villaggio e la sua gente sono la mia vita. Ecco chi sono io. E qual è il mio posto.» «Forse.» La voce del Druido, calma, ferma, attenuò la collera della ragazza. «E tuttavia volterai le spalle agli Elfi soltanto per questo? Senza te, sicuramente periranno. Combatteranno e resisteranno come fecero nel vecchio mondo quando, per la prima volta, furono minacciati dal male. Ma questa volta non hanno più la magia come alleata. Saranno distrutti.» «Questi bambini sono stati affidati alla mia custodia...» si affrettò a ribattere Amberle, ma Allanon alzò bruscamente una mano. «Che cosa pensi che accadrà, una volta che gli Elfi saranno stati annientati? Credi che i maligni si accontenteranno di restarsene entro i confini delle Terre dell'Ovest? Che ne sarà dei tuoi bambini, allora, Amberle?» Lei lo fissò in silenzio per un attimo, poi lentamente si lasciò cadere sulla panchina. Chiuse gli occhi bagnati di lacrime. «Perché sono stata prescelta?» chiese con un filo di voce. «Non c'era motivo. Non lo desideravo... mentre molti altri ne sarebbero stati fieri.» Si torceva le mani. «È stata una presa in giro, Druido uno scherzo. Non capisci? In cinque secoli mai una donna è stata prescelta. E poi è toccato a me... un errore impossibile, crudele. Un errore.» Il Druido osservava i giardini, il volto nuovamente impenetrabile.
«Non ci fu errore» rispose, anche se a Wil sembrò che parlasse fra sé. Allanon tornò a guardare la ragazza. «Che cosa ti spaventa, Amberle? Tu hai paura. vero?» Lei non alzò la testa, né aprì gli occhi. Si limitò a annuire. Allanon sedette di nuovo. La sua voce era dolce, ora. «La paura è parte della vita, ma occorre affrontarla apertamente, mai eluderla. Che cosa ti spaventa?» Ci fu un lungo silenzio. Wil. tutto teso, si chinò in avanti. Infine Amberle mormorò: «Lei». Il Druido aggrottò la fronte. «L'Eterea?» Ma questa volta Amberle non gli rispose. Sollevò le mani per asciugarsi le lacrime dal viso sconvolto. Aprì gli occhi verdi e si alzò. «Se dovessi accettare di venire con voi a Arborlon, affrontare mio nonno e il mio popolo, se andassi davanti all'Eterea per l'ultima volta... se facessi tutto ciò, tutto quel che tu mi hai chiesto, cosa accadrebbe se lei non mi desse il suo seme?» Allanon si raddrizzò. «Allora potrai tornare a Havenstead e io non ti disturberò più.» Dopo una pausa di silenzio, lei mormorò: «Ci penserò». «Non c'è tempo per pensare» insistette Allanon. «Devi decidere ora, questa sera. I demoni ti cercano.» «Ci penserò» ripeté lei. Poi i suoi occhi si posarono su Wil. «Qual è la tua parte in tutto ciò, Guaritore?» Wil fece per rispondere, ma l'improvviso sorriso di lei lo fece tacere. «Non importa. Sento che io e te siamo nella stessa situazione. Tu ne sai quanto me.» Forse ancora meno, avrebbe voluto dirle Wil, ma lei si era già voltata. «Non posso ospitarvi in casa mia» fece, rivolta a Allanon. «Potete dormire qui, se volete. Domani ne riparleremo.» Si diresse verso la casetta, con i capelli castani che le ondeggiavano come vele lungo la schiena. «Amberle!» la chiamò Allanon. «Domani!» rispose lei, senza rallentare. Poi scomparve silenziosamente attraverso la porta della casetta, mentre il Druido e Wil rimanevano a seguirla con lo sguardo. 11
La creatura assalì Wil mentre questi era abbandonato nel sonno: un'immagine dei suoi sogni informe, emersa come un'ossessione dal profondo del suo inconscio. Era una cosa orrenda, una cosa in agguato nei più remoti recessi della sua mente, dove egli nascondeva le sue paure più profonde. Lo assalì furtiva e astuta, superando facilmente gli ostacoli con cui lui cercava di bloccarla, e il suo movimento incalzante era fluido e rapido. Non la poteva vedere mentre si avvicinava; non avrebbe potuto. Mancava di sostanza e identità; e di ragione. Ci fu solo il senso travolgente di terrore creato da lei. Lui fuggì, naturalmente, fuggì il più rapidamente possibile attraverso i paesaggi della sua immaginazione, corse e corse finché gli parve di averla seminata. Ma non era così. Stava avventandosi su di lui, rapida, sicura. Lui balzò via, disperato, chiedendo aiuto con un urlo muto. Ma non c'era nessuno. Era solo con quella cosa e non poteva fuggire. Eppure doveva, perché se l'avesse raggiunto, se l'avesse toccato, sicuramente sarebbe morto. Così corse terrorizzato, sentendo il fiato della cosa sul collo... Si svegliò di soprassalto, tirandosi su a sedere sopra le coperte. L'aria della notte era fredda sul suo viso e sul suo corpo. Era inzuppato di sudore, e sentiva i battiti del suo cuore impazzito echeggiargli nel cervello. La sagoma scura di Allanon si accovacciò davanti a lui, le sue mani forti afferrarono Wil per le spalle. La voce del Druido era un sussurro roco. «Presto, Wil. Ci hanno trovati.» Wil Ohmsford non ebbe bisogno di chiedere chi li avesse trovati. L'incubo era diventato realtà. Si alzò di scatto, afferrò le sue coperte e corse dietro il Druido, che già puntava verso la casetta. Come per intuizione, Amberle apparve sul portico, la camicia da notte bianca che si gonfiava aerea intorno alla sua figura snella, dandole un che di spettrale. Allanon andò subito da lei. «Ti avevo detto di vestirti» le sussurrò, incollerito. Lei pareva poco convinta. «Non cercherai di ingannarmi, Druido? Non stai escogitando qualche trucco per costringermi a decidere di tornare con te a Arborlon?» Il volto di Allanon si fece cupo come la notte. «Ancora qualche minuto di indugi e avrai la risposta che vuoi! Ora vestiti.» Ma lei non cedeva. «Benissimo. Ma non posso lasciare i bambini. Devono essere messi al sicuro.» «Non c'è tempo per quello» ribatté perentorio il Druido. «Inoltre, saranno più al sicuro qui che camminando alla cieca nel buio.»
«Ma come posso abbandonarli? Non capiranno mai!» «Resta e divideranno il tuo destino!» Allanon aveva completamente perso la pazienza. «Sveglia il più grande. Digli che devi andartene per un po', che non hai scelta. Digli di portare gli altri nella casa di un vicino, appena sorgerà il sole. Ora fa' come ti ho detto... muoviti!» Questa volta senza obiettare, Amberle si voltò e scomparve nella casa. Wil si lisciò gli indumenti e arrotolò le coperte. Poi lui e il Druido sellarono i cavalli e li portarono davanti alla casa immersa nell'oscurità, in attesa della ragazza. Lei arrivò quasi immediatamente; indossava stivali, calzoni, una tunica stretta in vita da una cintura e un lungo mantello blu da viaggio. Allanon portò Wil e Amberle davanti a Artaq e sussurrò qualcosa all'animale, accarezzandogli il collo serico. Poi porse le redini a Wil. «Monta.» Wil ubbidì, arrampicandosi sul grosso stallone nero. Artaq scosse la testa e nitrì. Allanon continuò a sussurrargli con dolcezza, poi prese Amberle per la vita e, come se fosse stata una piuma, la sollevò e la mise dietro il giovane. Poi, a sua volta, montò su Spitter. «Silenzio, ora» ammonì. «Non una parola.» Imboccarono la strada che partiva dalla casetta e la seguirono a est attraversando il villaggio addormentato. Nella quiete profonda si udiva soltanto il rumore sordo degli zoccoli dei cavalli sulla pista di terra battuta. Pochi minuti dopo, si erano lasciati alle spalle le case del villaggio e erano vicini alla foresta. Davanti a loro si estendevano i campi arati, le acque dei canali di irrigazione scintillanti alla luce della luna, mentre essi attraversavano file ordinate di grano e mais quasi maturi. In lontananza. su entrambi i lati, i pendii boscosi della valle si perdevano nella prateria. Allanon smontò in silenzio. Rimase immobile per un po', ascoltando il silenzio della notte, in ansia. Infine si avvicinò a Artaq, facendo cenno a Wil e a Amberle di chinarsi. «Sono tutt'intorno a noi.» Parlava a voce bassissima. Wil si sentì raggelare. Il Druido lo guardò come per valutarlo. «Sei mai stato a caccia?» Wil annuì. «Bene. Tu e Amberle resterete con Artaq. Se vi incalzano lasciatelo libero. Vi porterà in salvo. Noi punteremo a nord lungo il limite del villaggio fin dove la valle scende nella prateria. Una volta là, cercheremo di passare attraverso il loro accerchiamento. Non fermatevi per nessun motivo, capito? Se ci separiamo, non tornate indietro. Continuate verso nord finché non raggiungete il Fiume Argento. Se non arriverò subito, guadate e puntate a ovest verso Arborlon.» «Che cosa farai tu...?» si affrettò a chiedere Wil.
«Non preoccuparti di quel che farò io» tagliò corto il Druido. «Fa' come ti ho detto.» Wil annuì a malincuore. Non gli piaceva la faccenda. Quando Allanon si allontanò, si girò a guardare Amberle. «Tienti stretta» sussurrò e cercò di sorriderle. Lei non contraccambiò. I suoi occhi non nascondevano la paura. Allanon rimontò a cavallo. Lentamente, con cautela, costeggiarono i margini della foresta, passando lungo i confini occidentali del villaggio di Havenstead. Tutta la valle era immersa in un silenzio profondo, penetrante. Come ombre, scivolarono attraverso l'oscurità degli alberi, frugando la notte alla ricerca di movimenti sospetti. Davanti a loro, il pendio settentrionale della valle cominciò a incombere cupo attraverso varchi del bosco. Poi Allanon tirò bruscamente le redini, facendo loro cenno di fermarsi. Senza parlare, indicò i campi alla loro sinistra. Wil e Amberle seguirono la linea del suo braccio. Dapprima, non videro nulla, solo file di steli di un grigio cupo nella luce del mattino. Ma un attimo dopo i loro occhi colsero i rapidi movimenti di qualcosa somigliante vagamente a un animale che si allontanava strisciando da uno dei canali per scomparire fra gli steli del campo. Aspettarono per un po' immobili vicino agli alberi, poi ripartirono. Avevano percorso una breve distanza quando, dai boschi dietro di loro, si levò un ululato profondo, lacerante. Amberle strinse più forte le braccia intorno alla vita di Wil e appoggiò la testa alla sua schiena. «Demoni-lupi» disse Allanon a bassa voce. «Hanno trovato la nostra pista.» Spronò Spitter, che partì al trotto. Artaq sbuffò ansioso e seguì. L'ululato riecheggiò da più parti e all'improvviso vi furono tonfi di corpi attraverso gli alberi. «Via!» urlò Allanon. I cavalli scattarono in avanti, deviando bruscamente a sinistra e uscendo dal riparo degli alberi; al galoppo corsero lungo i bordi dei campi, seguendo la linea dei canali di irrigazione fino al varco che portava alla prateria. Gli ululati si levavano tutt'intorno a loro, feroci e famelici. Nell'oscurità, ombre enormi saltavano rumorose sopra gli steli di grano e mais alla loro sinistra, inseguendoli freneticamente. Tutto chino sul collo di Artaq, Wil spronava il grosso cavallo. Poi, davanti a loro, apparve il varco.
Una mezza dozzina di sagome oscure e irsute irruppe dai boschi davanti a loro, cose che assomigliavano a lupi, ma assai più grosse e con facce grottescamente umane alla luce della luna, digrignanti lunghe zanne. Allanon puntò direttamente su di loro, alzando minaccioso una mano che emanò dardi di fuoco azzurro. Un istante dopo il fuoco piombò sul branco, disperdendolo. Spitter balzò in avanti, superando i demoni-lupi con nitriti striduli di terrore. Artaq aveva già oltrepassato il Druido e i demoni-lupi, il corpo lucido tutto proteso mentre correva verso le pianure aperte. Diverse sagome scure si lanciarono davanti a loro, tentando di afferrare con le fauci le zampe del cavallo. Ma Artaq non rallentò. Una bestia gli finì su una spalla e lui la fece ruzzolare a terra. Presto si lasciarono dietro le altre. Wil si chinò ancor più, premendo anche Amberle contro il dorso di Artaq, mollando un poco le redini. Alla loro destra, altri demoni-lupi balzavano dagli alberi, riempiendo l'aria notturna dei loro ululati. Lampi azzurri di fuoco li investirono e gli ululati diventarono urli di dolore. Artaq correva sempre. Poi un solo enorme demone-lupo apparve ai margini della foresta davanti a loro, correndo lungo il fiumicello che alimentava i canali di irrigazione. Si lanciò in avanti per intercettarli, muovendosi con incredibile velocità, balzando attraverso l'erba alta, silenzioso e fluido nei movimenti. Wil sentì una morsa gelida al petto. La bestia stava coprendo troppo rapidamente la distanza che li separava; non sarebbero riusciti a sfuggirle. Fece l'unica cosa che gli venne in mente. Urlò selvaggiamente a Artaq, lasciandolo a briglia sciolta. Il grosso stallone nero rispose. Dal profondo del suo essere, trovò nuove forze. Il suo passo si allungò. Ormai la bestia era quasi su di loro, un'ombra enorme, orrenda, che sembrò emergere improvvisamente dalla notte. Wil chiuse gli occhi e urlò ancora. Artaq nitrì in risposta. Raccogliendo tutte le sue forze, lo stallone superò con un balzo il fiumicello davanti a lui. Arrivato sull'altra riva, schizzò via dai boschi e dai campi di Havenstead verso le pianure aperte. Per un istante, Wil tenne chiusi gli occhi, terrorizzato com'era. Se ne stava aggrappato al collo di Artaq, sentendo il saldo, confortevole appoggio del grande cavallo sotto di sé, mentre fuggivano nella notte. Quando alla fine sollevò la testa e si azzardò a lanciare una rapida occhiata alle sue spalle, oltre la sagoma rannicchiata di Amberle, scoprì che erano soli. Dalla valle immersa nell'oscurità si levavano fuoco e fumo, e dappertutto risuonavano ululati frenetici. Non c'era traccia di demoni-lupi. E nemmeno di Allanon.
Quasi senza pensare, Wil arrestò bruscamente Artaq e lo fece voltare. Allanon aveva dato istruzioni precise: non doveva tornare indietro in nessun caso. La sua principale preoccupazione doveva essere Amberle. Gli era stata affidata, e lui doveva proteggerla a ogni costo. Le lanciò una rapida occhiata quando il suo viso di bambina sbucò dall'ombra con un'espressione interrogativa nei suoi occhi verdi. Lui sapeva qual era il suo dovere. Ma sapeva che il Druido era ancora laggiù, probabilmente in pericolo. Come poteva abbandonarlo e andarsene? La sua indecisione durò soltanto un attimo. Dalla valle emerse al galoppo un terrorizzato Spitter, il robusto corpo grigio tutto proteso nella corsa. Il Druido era chino sul suo dorso, il nero mantello svolazzante, la sagoma che si stagliava scura contro l'orizzonte rosso di fuoco. Lo incalzavano i demoni-lupi, saltando frenetici fra l'erba alta, con i loro corpo villosi, ululando di odio per gli esseri umani che gli erano sfuggiti. Wil fece subito voltare Artaq verso il nord e lo spronò. Il grande stallone nero sbuffò e balzò avanti. Questa volta il giovane non lo lasciò a briglia sciolta, ma lo guidò con cura. La fuga poteva durare parecchio, e anche la bestia aveva i suoi limiti. Artaq non gli oppose resistenza, e rallentò la corsa. Wil si chinò in avanti e sentì Amberle stringergli le braccia intorno alla vita, e nascondere di nuovo la faccia contro la sua schiena. Dopo un miglio, Spitter gli si affiancò, il corpo ansimante striato di sudore e di polvere, le narici dilatate: era già stanco. Wil lanciò un'occhiata ansiosa al Druido, che però continuò a tenere lo sguardo fisso davanti a sé mentre sollecitava il cavallo con piccoli movimenti delle mani. La fuga attraverso le praterie del Fiume Argento proseguì con feroce determinazione. L'ululato selvaggio dei demoni-lupi si smorzò rapidamente, trasformandosi in un ansito accompagnato da ringhi di delusione. I cavalieri in fuga sentivano soltanto il sibilo ovattato del vento e il tonfo costante degli zoccoli dei cavalli. Correvano - cacciatori e prede - attraverso valli che si aprivano fra dolci colline e sopra ampie alture deserte; attraverso frutteti, querce e salici solitari, piccoli fiumi tortuosi; nel silenzio e nel buio delle pianure. Il tempo scorreva senza significato. Avevano percorso quasi dodici miglia. Ma la distanza fra loro e gli inseguitori restava immutata. Finalmente apparve il Fiume Argento, un ampio nastro d'acqua illuminato dalla luna che brillò fra le basse colline lungo la riva più vicina. Wil fu il primo a vederlo e urlò. Artaq balzò immediatamente in avanti al suono della sua voce, superando nuovamente Spitter. Colto di sorpresa, Wil
cercò di frenarlo, ma questa volta il grande stallone nero non volle saperne. Correva sempre agevolmente, e presto si lasciò dietro lo stanco Spitter. La distanza fra Artaq e l'altro cavallo aumentò ancora. Wil stava di nuovo cercando di frenare lo stallone nero quando scorse le scure forme accovacciate che emersero improvvisamente dalla notte davanti a lui... forme curve e contorte e ricoperte di peli grigi setolosi. Demoni! Wil sentì una morsa allo stomaco. Era una trappola. Li avevano aspettati lì, nel caso che fossero riusciti a sfuggire ai demoni-lupi a Havenstead. Ora erano lungo tutte e due le rive del Fiume Argento, e serravano le file all'arrivo dei cavalieri. Artaq li vide e deviò bruscamente a sinistra verso una piccola altura. Cinquanta metri più indietro, Spitter lo imitò. Ancora più indietro, ma vicini a raggiungere l'animale stanco, correvano i demoni-lupi, ululando. Artaq arrivò al galoppo sulla cima dell'altura e si precipitò giù verso il Fiume Argento. I demoni davanti a lui balzarono a sbarrargli il passo. Wil li vedeva, ora: bestie feline con facce di donne, contorte e grottesche. Saltavano verso il grande stallone nero, miagolando orrendamente, scoprendo i lunghi denti aguzzi. All'ultimo secondo, Artaq deviò bruscamente e tornò indietro verso l'altura, lasciando i mostri a stridere per la delusione. In quel momento, Spitter arrivò sulla collina, inciampando, e infine afflosciandosi. Allanon cadde a terra nel groviglio del suo mantello e rotolò diverse volte prima di riuscire ad alzarsi. Demoni-lupi puntavano su di lui da tutte le parti, ma dalle sue mani si sprigionò in un ampio raggio il fuoco azzurro che li fece sparpagliare come foglie in balia di un vento forte. Artaq deviò di nuovo a sinistra, con Wil e Amberle aggrappati disperatamente al suo dorso per non cadere. Con alti nitriti di odio per i mostri che cercavano di intrappolarlo, si avventò di nuovo contro di loro, parallelamente alla riva del fiume, con tale rapidità che gli fu addosso ancora prima che quelli potessero rendersene conto. Diverse bestie cercarono di afferrarlo, ma lui le superò quasi subito, liberandosi dei loro artigli protesi con un salto potente. e scomparve nella notte. Dietro di lui, un arco di fuoco azzurro incenerì gli inseguitori più vicini. Wil si voltò e vide Allanon ancora in cima alla collina. con i demoni-lupi e i mostri felini che lo stavano accerchiando. Erano troppi! Wil si sentì urlare quelle parole nel cervello. Dalle mani del Druido si sprigionò il fuoco. e egli scomparve in una nebbia di fumo, mentre le sagome scure continuavano a agitarsi.
Poi, nel giovane, scattò un sesto senso, mettendolo in guardia da un nuovo pericolo. Allontanò rapidamente lo sguardo dalla battaglia sulla cima della collina. Dal nulla apparvero altri sei demoni-lupi, correndo verso Artaq con grandi balzi silenziosi. Wil fu assalito dal panico. Erano intrappolati fra i mostri e il fiume. Davanti a loro un fitto bosco bloccava il passaggio. Dietro di loro c'erano i demoni dai quali erano appena fuggiti. Non avevano possibilità di scampo. Artaq non esitò. Deviò verso il Fiume Argento. I lupi lo seguivano, come un fluido, silenzioso terrore nero. Wil ormai era sicuro che la fine era vicina. Non c'era Allanon, questa volta. per aiutarli. Erano soli. Il Fiume Argento si avvicinava. Non c'era un guado in vista... soltanto un nastro d'acqua troppo ampio, profondo e veloce perché potessero attraversarlo: se ci avessero provato, pensò Wil, sarebbero stati certo travolti dalla corrente. Eppure Artaq non rallentava e puntava verso il fiume: il grande stallone nero aveva fatto la sua scelta. Anche i demoni-lupi lo capirono. A pochi metri di distanza, si buttarono avanti decisi a agguantare Wil e la ragazza. Amberle urlò. Freneticamente, Wil frugò nella sua tunica alla ricerca del sacchetto di cuoio con le Pietre Magiche, non sapendo se sarebbe riuscito a usarle, sapendo soltanto che doveva fare qualcosa. Ma era troppo tardi. Mentre la sua mano si chiudeva sulle pietre, raggiunsero la riva del Fiume Argento. Artaq si protese tutto e balzò sull'altra sponda con Wil e Amberle aggrappati al suo dorso. In quell'istante, una luce bianca esplose tutto intorno a loro, immobilizzandoli come se fossero stati imprigionati in un dipinto. I lupi scomparvero. Il Fiume Argento svanì. Tutto si dissolse. Erano soli, e salivano lentamente, ma decisamente, nella luce. 12 Fu là, nel tempo perso alla memoria. Prima di uomini e donne, nazioni e governi, prima di tutta la storia dell'umanità. Vide il mondo quando ancora le creature fantastiche non avevano scatenato la guerra fra il bene e il male, determinando una volta per tutte il tipo di vita che sarebbe seguito. Visse nell'epoca in cui il mondo era un Eden sacro e tutte le creature viventi coesistevano in pace e armonia. Era giovane, allora, anche lui una creatura fantastica proprio mentre questi esseri cominciavano a nascere. Viveva fra i giardini affidati alla sua custodia, perché tutte le creature viventi che vi abitavano fossero accudite e preservate, protette e rinnovate. Non aveva
nome, perché i nomi non erano necessari. Egli era quello che era in quel momento e la sua vita stava appena cominciando. Non aveva capito cosa dovesse diventare. Il suo futuro era una promessa vaga e distante sussurrata nei corridoio dei suoi sogni, e non poteva prevederne la realtà. Non poteva prevedere che la sua esistenza non sarebbe terminata come quella di tutte le creature viventi, ma si sarebbe dovuta protrarre per secoli di vite celebrate nella nascita e dimenticate nella morte finché non avesse ricevuto le insegne dell'immortalità. Non poteva prevedere che tutti coloro che erano nati con lui e sarebbero nati in seguito, creature magiche e umane, si sarebbero dissolti, mentre lui solo avrebbe proseguito il cammino. Né gli sarebbe piaciuto saperlo, perché era ancora abbastanza giovane da credere che il suo mondo sarebbe rimasto immutato. Se avesse saputo di dover vivere per vederlo sconvolto e irriconoscibile, non avrebbe desiderato sopravvivere. Avrebbe preferito morire e diventare di nuovo parte della terra che lo aveva partorito. Sarebbe stata una perdita irreparabile, perché lui doveva diventare l'ultimo erede di quella favolosa epoca iniziale del mondo, l'ultimo simbolo della pace e dell'armonia, della bellezza e della luce che racchiudeva l'Eden della vita. Ciò era stato decretato nell'aurora del principio, cambiando così il corso della sua esistenza, cambiando per sempre il senso della sua vita. A un mondo che aveva perso la grazia, lui doveva ricordare quel che era andato perduto. E essere anche la promessa che quel che era stato poteva rinascere. All'inizio, non l'aveva capito. Era rimasto soltanto sconvolto e sgomento quando scoprì che il mondo stava cambiando, che la sua bellezza sbiadiva, la sua luce moriva... che tutta quella ricchezza di pace e armonia doveva scomparire. Presto non rimasero che i suoi stessi giardini: di tutti coloro che erano venuti alla luce con lui, non restava nessuno. Era solo. Per un po' si abbandonò alla disperazione, divorato dal dolore e dall'autocommiserazione. Poi i cambiamenti che avevano alterato la terra intorno a lui cominciarono a assediare il suo piccolo mondo, minacciando di stravolgere anche quello. Allora ricordò le sue responsabilità, e cominciò la lunga e difficile lotta per preservare i giardini che erano la sua casa, deciso a difendere quest'ultimo frammento del primo mondo, anche se tutto il resto era andato perduto. Gli anni scivolavano via, e lui lottava sempre. Scoprì di invecchiare molto lentamente e trovò in sé un potere insospettato. Dopo un po', cominciò a capire lo scopo della sua esistenza solitaria: una nuova
responsabilità gli era stata affidata, una responsabilità che doveva accettare e che capì quando accettò. Per secoli lavorò nell'anonimato, la sua esistenza poco più che un mito, parte del folklore delle nazioni che nascevano intorno a lui, una leggenda raccontata con sorrisi sforzati e ironica indulgenza. Fu soltanto dopo la distruzione del vecchio mondo e l'emergere delle nuove razze, che il mito cominciò a essere accettato. Perché fu allora che egli decise per la prima volta di uscire dai giardini per avventurarsi al di là. La sua scelta era ben motivata. Nel mondo c'era di nuovo la magia, e lui possedeva la magia migliore, più elevata: la magia della vita. La terra intorno era di nuovo ricca di vitalità, e lui vide in quella rinascita l'opportunità di ricreare tutto quel che aveva conosciuto da giovane. In lui, passato e futuro avrebbero potuto finalmente ricongiungersi. Non sarebbe stato né facile né rapido, ma sarebbe accaduto. Non poteva più restarsene isolato e nascosto nei suoi giardini. Doveva uscirne. Nel suo piccolo santuario era racchiuso il seme di tutto quel che la terra aveva disperato bisogno di riacquisire e che era stato affidato a lui. Capì ora che preservarlo non bastava più, che bisognava svilupparlo... Anzi renderlo visibile e accessibile. Questo era il suo nuovo compito. Così uscì dai giardini che erano stati il suo mondo per tanti secoli e viaggiò nella campagna circostante: una campagna di dolci praterie e colline ondulate, di valli boscose ricche d'ombra e di stagni tranquilli, percorsa da un fiume che era la corrente vitale della terra. Non si sarebbe allontanato molto dai giardini, però, perché a loro teneva più di tutto e doveva restarvi vicino per proteggerli. E comunque non ne ebbe bisogno. La campagna che trovò lo soddisfece. Le piantò nel cuore il seme del primo mondo, marcandolo come proprio, dandogli una particolare radiosità che lo rendeva facilmente riconoscibile, offrendo agli abitanti e ai viandanti della zona, a chiunque le richiedesse, la sua benedizione e protezione da ogni pericolo. Col tempo, le nuove razze capirono quel che aveva fatto; parlavano di lui e del suo regno con rispetto e ammirazione. Cominciarono a raccontare la sua storia per tutte le Quattro Terre. E ogni volta la storia si arricchiva finché diventò leggenda. Gli diedero il nome della terra che aveva reso sua. Lo chiamarono il Re del Fiume Argento. Si rivelò a Wil e Amberle sotto le spoglie di un vecchio, che emerse dalla luce, incartapecorito e curvo per l'età, il corpo sottile come uno stecchet-
to avvolto in un mantello. I capelli gli ricadevano sulle spalle in folti riccioli bianchi. La faccia antica era rugosa e abbronzata; i profondi occhi azzurri color dell'acqua marina. Sorrise mentre salutava, e Wil e Amberle sorrisero di rimando, sentendo che quell'uomo non era pericoloso. Erano sempre avvinghiati al dorso robusto di Artaq, tutto proteso nella corsa, ma fermo nella luce che li imprigionava. Né il giovane né la ragazza capivano cosa fosse successo, eppure non avevano paura, solo una profonda, piacevole sonnolenza che li immobilizzava con la forza di catene di ferro. Il vecchio si fermò davanti a loro, la sua sagoma confusa e indistinta nel bagliore. Toccò il muso liscio di Artaq e lo stallone nitrì sommessamente. Poi il vecchio guardò Amberle, e i suoi occhi luccicavano di lacrime. «Tu che eri la mia bambina» mormorò. Si avvicinò di più, prendendo la mano di lei fra le sue. «Non corri nessun pericolo qui. Stai tranquilla. Siamo uniti dallo stesso fine e saremo una cosa sola con la terra.» Wil si sforzò di parlare, ma non vi riuscì. Il vecchio indietreggiò, alzando un braccio in segno di addio. «Riposate, ora. Dormite.» Cominciò a rimpicciolire, indietreggiando nella luce. «Dormite, figli della vita.» Wil si sentiva le palpebre pesanti. Era una sensazione piacevole, e non la contrastò. Sentì il corpo esile di Amberle abbandonarsi contro il suo, le mani ancora strette intorno alla sua vita. La luce sembrò ritrarsi da loro, svanendo nel buio. Wil chiuse gli occhi e scivolò nel sonno. Cominciò a sognare. Era in un giardino di incredibile bellezza e serenità che sprizzava colori e fragranze, e era così meraviglioso da far impallidire, al suo confronto, tutto quel che aveva conosciuto prima. Ruscelli scintillavano come l'argento, fluendo da sorgenti nascoste nella terra e riversandosi in stagni tranquilli. Gli alberi formavano un'immensa volta verde, da cui filtravano raggi di luce calda, dorata. I sentieri erano ricoperti di un tappeto d'erba verde smeraldo. Volavano uccelli di ogni tipo; i pesci nuotavano nell'acqua e gli animali si muovevano attraverso questi giardini... in un'atmosfera di armonia, serenità, pace. Il giovane fu sommerso da un senso di pace, di appagamento profondo, e la felicità fu così intensa che pianse. Eppure, quando si voltò per condividere i suoi sentimenti con Amberle, non la trovò più. 13
Quando Wil Ohmsford si risvegliò, era l'alba. Giaceva in una valle erbosa sotto i rami protettivi di due aceri gemelli; il sole del mattino filtrava attraverso masse di ampie foglie verdi in lunghi nastri luminosi che gli fecero sbattere gli occhi. In vicinanza, si sentiva il fievole sciacquio dell'acqua contro una riva. Per un istante, credette di trovarsi ancora nei giardini stupendi del sogno. Gli erano apparsi così reali che, quasi senza pensare, si sollevò su un gomito e si guardò intorno, aspettandosi di rivederli. Ma non c'erano più. Amberle giaceva accanto a lui, ancora addormentata. Esitando, si chinò su di lei e la scosse dolcemente per una spalla. Lei si agitò e aprì gli occhi. Lo guardò, sorpresa. «Come stai?» chiese lui. «Bene.» Si strofinò gli occhi assonnati. «I)ove siamo?» Wil scosse la testa. «Non lo so.» La ragazza si mise lentamente a sedere e si guardò intorno. «Dov'è Allanon?» «Non so nemmeno quello.» Wil si stiracchiò le gambe, sorpreso di trovarle sciolte e non doloranti. «Se n'è andato. Se ne sono andati tutti: Allanon, quelle creature...» Si fermò, sentendo qualcosa muoversi in un cespuglio poco distante. Un familiare muso nero fece capolino fra le foglie, nitrendo piano. Wil sorrise. «Bene, almeno c'è sempre Artaq con noi.» Lo stallone nero brucava pigramente, poi si liberò dal cespuglio e trotterellò verso Wil, strofinando il muso contro di lui. Wil gli accarezzò per un attimo la morbida testa, grattandogli le orecchie. Amberle osservava tranquilla. «Hai visto il vecchio?» le chiese Wil. Lei annuì, solenne. «Era il Re del Fiume Argento.» Wil la guardò. «L'ho pensato anch'io. Mio nonno lo vide, anni fa. Ma forse non ho creduto alla sua esistenza fino a ora. Buffo.» Artaq si allontanò un po' e ricominciò a brucare. Wil scosse la testa. «Ci ha salvato la vita. I demoni-lupi ci avevano quasi raggiunti...» Vide la paura negli occhi della ragazza e si interruppe. «Be', adesso penso che siamo al sicuro.» «È stato come un sogno, vero?» mormorò lei. «Stavamo sospesi in quella luce, a cavallo di Artaq. Poi lui arrivò dal nulla e disse qualcosa...» La sua voce si smorzò, come se il ricordo la disorientasse. «Lo hai visto?» Il giovane annuì.
«Poi è scomparso» proseguì Amberle, parlando più a se stessa che a lui, come se cercasse di ricordare quel che era accaduto. «Lui è scomparso e anche la luce e... e allora...» Lo guardò con un'aria strana. «I giardini?» suggerì lui. «Hai visto i giardini?» «No.» Lei esitava. «No, non c'erano giardini, ma solo il buio e una sensazione indescrivibile... come se brancolassi.» Lo guardò, chiedendo silenziosamente aiuto, ma lui si limitò a osservarla, confuso. «Tu eri con me» proseguì lei. «Tu c'eri, ma non potevi vedermi. Ti ho chiamato, ma non mi sentivi. Era così strano.» Wil si chinò in avanti. «Ricordo il vecchio e la luce, come li hai descritti tu. Li ricordo bene. Quando sono scomparsi, mi sono addormentato o, almeno, credo di essermi addormentato. Tu eri con me su Artaq. Sentivo le tue braccia intorno alla vita. Poi, mi sono ritrovato in quei giardini... mai visto niente di simile: così placidi e splendidi. Ma quando ti ho cercato, tu non c'eri. Te n'eri andata.» Si guardarono in silenzio per un attimo. «Sarà meglio cercare di scoprire dove siamo adesso» disse infine Wil. Si alzò e si guardò intorno. Pensò di aiutare Amberle a alzarsi, ma ormai lei era già in piedi, vicino a lui, e si toglieva foglie e erba dai capelli. Esitò un attimo, poi si fece strada attraverso la boscaglia verso lo sciacquio dell'acqua. Qualche minuto dopo si trovavano sulla riva di un lago così vasto che le sue sponde racchiudevano tutto l'orizzonte. Le onde si increspavano in bagliori improvvisi di schiuma argentea, e nel sole del mattino l'acqua aveva diverse tonalità di blu. Le rive erbose erano bordate di boschetti, di salici, olmi e frassini, le foglie fruscianti a un leggero vento del sud che portava con sé una fragranza di caprifoglio e azalea. Nel limpido cielo azzurro si alzava un luminoso arco iridescente che sembrava partire da un'estremità dell'orizzonte e scomparire nell'altra. Wil guardò in su, per cercare il sole, poi si voltò verso Amberle, scuotendo la testa, incredulo. «Lo sai dove siamo? Siamo sulla riva settentrionale del Lago Arcobaleno. Il vecchio ci ha portati giù per il Fiume Argento e attraverso il lago fino al punto dove ci troviamo adesso. Siamo a miglia di distanza da dove siamo partiti.» La ragazza annuì quasi distrattamente. «Credo che tu abbia ragione.» «Lo so che ho ragione.» Wil si allontanò tutto eccitato e si fermò vicino all'acqua. «Non riesco a immaginare come abbia fatto.»
Amberle sedette nell'erba, contemplando il lago. «Secondo le leggende, egli aiuta coloro che ne hanno bisogno quando viaggiano nella sua terra... li preserva dal male.» Si interruppe, come se pensasse a altro. «Mi ha detto qualcosa... Vorrei poterlo ricordare...» Wil non l'ascoltava. «Dobbiamo metterci in cammino. Arborlon è lontana. Ma se viaggiamo verso nord-ovest, dovremmo trovare il Mermidon, poi ci basterà seguirlo per arrivare nelle Terre dell'Ovest. Saremo quasi sempre allo scoperto, ma questa volta sarà difficile trovarci. Non ci sarà nessuna pista da seguire.» Non notò l'espressione infastidita di Amberle, tutto assorto com'era dal pensiero del viaggio che li attendeva. «Dovremmo farcela in quattro giorni... forse cinque, dato che abbiamo soltanto un cavallo in due. Se abbiamo fortuna, ne troveremo un altro lungo la strada, ma forse sarebbe pretendere troppo. Qualche arma ci sarebbe utile; non abbiamo nemmeno un arco. Il che significa che dovremo accontentarci di frutta e verdura selvatiche. Naturalmente...» Si interruppe, accorgendosi all'improvviso che Amberle scuoteva la testa, disapprovando. La ragazza sedette a gambe incrociate. «Qual è il problema?» chiese lui, lasciandosi cadere accanto a lei. «Tu sei un problema, tanto per cominciare.» «Che cosa vuoi dire?» «Sembri aver già stabilito tutto quel che faremo. Non credi che dovresti ascoltare la mia opinione al riguardo?» Wil la guardò, piuttosto sconcertato. «Be', certo, io...» «Non mi sembra che tu me l'abbia chiesta» proseguì lei, ignorandolo. «Non lo ritieni necessario?» Il giovane arrossì. «Mi dispiace. Io stavo soltanto...» «Stavi soltanto prendendo delle decisioni che non hai alcun diritto di prendere.» Lei si interruppe e lo squadrò freddamente. «Non so nemmeno perché sono con te. L'unico motivo per cui sono venuta fin qui è che non ho avuto alternative. È ora di mettere in chiaro alcune cose. Prima di tutto: perché Allanon ti ha portato con sé, Wil Ohmsford? Chi sei tu?» Wil le spiegò tutto, cominciando dalla storia di Shea Ohmsford e della Spada di Shannara e terminando con la visita di Allanon a Storlock per richiedere il suo aiuto nella ricerca del Fuoco di Sangue. Le disse tutto, decidendo che era assurdo nasconderle qualsiasi cosa, intuendo che, se non fosse stato completamente onesto con questa ragazza, lei non avrebbe più voluto saperne di lui.
Quando ebbe finito, Amberle lo fissò in silenzio per un attimo, poi scosse lentamente la testa. «Non so se crederti oppure no. Penso che ti crederò. Non ho nessun motivo per non farlo. Ma sono successe così tante cose che al momento non sono sicura di niente.» Esitò. «Ho sentito parlare delle Pietre Magiche. Era una vecchia magia, e si diceva che fosse andata perduta molto tempo prima delle Grandi Guerre. Eppure tu affermi che Allanon le diede a tuo nonno e lui, a sua volta, le diede a te. Se quel che mi hai detto è vero...» Si interruppe, guardandolo dritto negli occhi. «Me le faresti vedere?» chiese. Il giovane esitò, poi si frugò nella tunica. Capiva che lo stava mettendo alla prova, ma pensò che ne aveva il diritto: dopotutto, aveva soltanto la sua parola per tutto quel che le aveva detto, e le veniva chiesto di affidarsi a lui. Tirò fuori il logoro sacchetto di cuoio, lo aprì e si fece scivolare le pietre nella mano. Perfette nella forma, di un azzurro profondo, luminoso, scintillarono alla luce del mattino. Amberle si chinò a scrutarle da vicino, solennemente. Poi guardò Wil. «Come sai che sono le Pietre Magiche?» «Ho la parola di mio nonno. E quella di Allanon.» Lei non sembrò gran che impressionata. «Sai come usarle?» Lui scosse la testa. «Non ci ho mai provato.» «Allora non sai se possono esserti utili, vero?» Rise piano. «Lo saprai soltanto quando ne avrai bisogno. Molto rassicurante, vero?» «No, per niente» ammise lui. «Eppure tu sei qui.» Wil si strinse nelle spalle. «Mi è sembrata la cosa giusta da fare.» Rimise le pietre nel sacchetto e se lo infilò nella tunica. «Credo che dovrò aspettare e vedere come andrà, per sapere se mi sono sbagliato oppure no.» Lei lo studiò attentamente per un attimo, in silenzio. Lui aspettava. «Abbiamo molte cose in comune, Wil Ohmsford» disse infine. Sollevò le ginocchia e vi appoggiò sopra le braccia incrociate. «Bene, tu mi hai detto chi sei... e ora è giusto che io faccia altrettanto. Il nome della mia famiglia è Elessedil. Eventine Elessedil è mio nonno. In un certo senso, siamo entrambi coinvolti in questa storia per via dei nostri nonni.» Wil annuì. «È vero, immagino». Il vento le agitò i capelli castani e glieli fece ricadere sul viso come un velo. Lei li buttò indietro e guardò di nuovo il lago. «Tu sai che io non voglio tornare a Arborlon» disse. «Sì.»
«Ma è lì che devo tornare, secondo te, vero?» Lui si lasciò andare sull'erba, osservando l'arcobaleno. «Sì, credo proprio di sì. Ovviamente, non puoi tornare a Havenstead; i demoni sarebbero in agguato. Presto verranno a cercarti anche qui. Perciò dobbiamo metterci in cammino. Se Allanon è riuscito a fuggire...» Si interruppe, turbato dalle implicazioni di quella frase. «Se Allanon è riuscito a fuggire, si aspetterà che andiamo a Arborlon, e sarà là che lo troveremo.» La guardò. «Se hai idee migliori, dimmele.» Lei rimase in silenzio, a lungo. Contemplava il Lago Arcobaleno, l'incresparsi dell'acqua, lasciandosi accarezzare dal vento. Quando infine parlò, fu soltanto un sussurro. «Ho paura.» Poi lo guardò, sembrò sul punto di aggiungere qualcosa, ma ci ripensò. Sorrise... e quella era la prima volta che Wil la vedeva sorridere veramente. «Bene, siamo proprio due sciocchi, vero? Tu con le tue Pietre Magiche che non sai se potrai mai utilizzare e io in procinto di fare l'unica cosa che avevo giurato di non fare mai.» Si alzò, fece alcuni passi, poi si voltò; nel frattempo anche lui si era alzato. «Voglio che tu sappia questo. Io credo che andare a Arborlon sia inutile. E che Allanon abbia torto. Né l'Eterea né gli Elfi mi accetteranno perché, nonostante quel che pensa il Druido, non sono più un'Eletta.» Dopo una pausa, proseguì: «Eppure, fare qualcos'altro non avrebbe senso, vero?». «No, non per me» ammise lui. Lei annuì. «Allora non ci sono più dubbi.» Il suo volto di bambina lo guardò seriamente. «Spero soltanto che non sia un errore.» Wil sospirò. «Se lo è, probabilmente lo sapremo fin troppo presto.» Ebbe un sorriso forzato. «Andiamo a prendere Artaq e partiamo.» Per il resto di quel giorno e per tutto quello successivo viaggiarono verso nord-ovest attraverso le praterie di Callahorn. Il tempo caldo-asciutto era gradevole e le ore passavano rapidamente. Cupe nuvole temporalesche apparvero al nord, verso la metà del primo giorno, incombendo sinistre sulla barriera frastagliata dei Denti del Drago, ma al tramonto si erano allontanate verso le Pianure di Rabb e erano scomparse. A tratti i due giovani cavalcavano Artaq, insieme, e a tratti camminavano entrambi per far riposare il grande stallone nero. Artaq sembrava fresco anche dopo sette ore
di viaggio, ma Wil non voleva far correre rischi al cavallo. Non videro traccia dei demoni che li avevano incalzati al Fiume Argento, ma quelle creature certo li inseguivano ancora. Se avessero avuto la sfortuna di imbattersi in loro, Wil voleva che Artaq fosse in grado di correre. Assolutamente disarmati, a eccezione di un piccolo coltello da caccia che Wil portava infilato nella cintura, erano costretti a mangiare frutti e erbe che crescevano nella prateria. Per Wil il cibo era abbondante, anche se non del tutto soddisfacente, mentre Amberle sembrava non avere problemi. Anzi, era molto soddisfatta dei loro pasti. Mostrò una incredibile capacità di scoprire nei luoghi più improbabili piante e radici commestibili che subito identificava e descriveva accuratamente. Wil l'ascoltava attentamente facendo qualche domanda di tanto in tanto, poiché questo era l'unico tipo di conversazione che lei sembrava accettare di buon grado. Inizialmente, aveva cercato di affrontare altri argomenti, ma con scarso successo. Così parlavano di piante e radici e per il resto del tempo proseguivano in silenzio. Trascorsero quella prima notte in un boschetto di pioppi vicino a una piccola sorgente che fornì loro un'ottima acqua potabile. Nel tardo pomeriggio del secondo giorno raggiunsero il Mermidon e cominciarono a seguirlo verso nord. Fino a allora non avevano incontrato nessuno, ma in seguito oltrepassarono una mezza dozzina di viaggiatori, alcuni a piedi, altri a cavallo, uno a bordo di un carro trainato da buoi. Tutti scambiarono con loro dei saluti amichevoli e un cenno d'addio prima di continuare per la loro strada. Al tramonto si accamparono lungo il Mermidon, a sud-ovest della città di Tyrsis, trovando riparo in un bosco di pini bianchi e di salici. Con un ramo di salice, un po' di spago e un gancio, Wil costruì una rudimentale canna da pesca. Nel giro di mezz'ora aveva pescato un paio di branzini. Stava ancora pulendo i pesci sulla riva del fiume quando apparve da sud una carovana che si faceva strada verso la riva opposta. I carrozzoni dipinti a colori vivaci, con i tetti appuntiti formati da travi di cedro, le porte di legno intagliate a mano e le finestre con borchie d'ottone, rilucevano al sole del tramonto. Trainavano i carrozzoni tiri di cavalli dai bei finimenti e dai morsi d'argento. Li scortavano diversi cavalieri, le sagome eleganti avvolte in mantelli di seta, con sciarpe colorate al collo e nastri che svolazzavano dalle briglie dei loro cavalli. Involontariamente, Wil si fermò per osservare la strana processione avvicinarsi al fiume, gli assi dei carrozzoni che gemevano, i finimenti che stridevano, i richiami e i fischi di incorag-
giamento che rimbalzavano da una parte all'altra. Quasi di fronte al giovane, la carovana si dispose in cerchio e lentamente si fermò. Uomini, donne e bambini scesero dai carri e cominciarono a sganciare i tiri e a accamparsi. Amberle emerse dagli alberi e raggiunse Wil. Il giovane le lanciò una breve occhiata, poi seguì il suo sguardo al di là del fiume. «Nomadi» annunciò, pensieroso. Lei annuì. «Ne ho già visti. Gli Elfi li detestano.» «È così per tutti.» Riprese a pulire i pesci. «Rubano qualsiasi cosa non sia inchiodata... o trovano il modo di portartela via comunque. Hanno le loro leggi, e non si curano di quelle degli altri.» Amberle gli toccò un braccio, e lui vide un uomo alto, tutto vestito di nero, tranne che per un mantello e una sciarpa verdi, accompagnare due donne anziane vestite di gonne lunghe e bluse variopinte che portavano dei secchi verso la riva del fiume. Mentre le donne si chinavano per riempire i secchi, l'uomo si tolse un cappello a tesa larga e, con fare cerimonioso, si inchinò in direzione di Wil e Amberle; i suoi denti bianchi scintillarono in un ampio sorriso nella faccia abbronzata e ombreggiata da una barba nera. Wil alzò un braccio e lo salutò cordialmente. «Sono proprio contento che siano sull'altra riva del fiume» borbottò rivolto a Amberle, mentre si alzavano per tornare al loro accampamento. Dopo aver gustato un pasto saporito di pesce, frutta, verdura e acqua di fonte, sedettero vicino al fuoco, osservando attraverso gli alberi il bagliore dei fuochi dei nomadi che emergeva dall'oscurità. Rimasero in silenzio per un po', assorti nel propri pensieri. Poi Wil lanciò un'occhiata alla ragazza. «Come mai sai tante cose su come coltivare fiori e frutti... sto pensando ai giardini della tua casa a Havenstead, e alle radici e alle piante che hai trovato durante il viaggio. Chi ti ha insegnato tutto ciò?» Lei lo guardò, sorpresa. «Anche se hai sangue elfo nelle vene, non sai molto di noi, vero?» Wil si strinse nelle spalle. «Già. Io sono Elfo da parte di padre, e lui morì quando ero molto piccolo. Non credo che mio nonno sia mai andato nelle Terre dell'Ovest - o per lo meno non ne ha mai parlato. Ma credo di non aver mai pensato molto alla mia eredità elfa.» «E invece avresti dovuto» ribatté lei, calma. I suoi occhi verdi lo scrutavano. «Dobbiamo prima capire quel che eravamo per capire quel che siamo.»
Le parole di rimprovero, più che a Wil, sembravano rivolte a se stessa. Avrebbe voluto saperne di più di questa ragazza, scoprì improvvisamente Wil, avrebbe voluto trovare il modo di persuaderla a confidarsi un poco con lui, invece di tenersi tutto dentro. «Forse tu potresti aiutarmi un poco» propose lui dopo un attimo di riflessione. Immediatamente un'espressione dubbiosa apparve negli occhi di lei, quasi sospettasse di essere presa in giro. Esitò a lungo prima di rispondere. «Benissimo, forse potrò esserti d aiuto.» Si spostò in modo da sedere di fronte a lui. «Per prima cosa devi capire che, per gli Elfi, preservare la terra e tutto quel che vi vive e vi cresce sopra, vita vegetale e animale, è una responsabilità morale. Essi hanno sempre basato la loro esistenza su questa convinzione. Nel vecchio mondo, si dedicavano interamente a curare i boschi e le foreste in cui vivevano, coltivandone le varie forme di vegetazione, proteggendone gli animali. Naturalmente. Avevano poco altro di cui occuparsi, a quei tempi, poiché erano un popolo isolato e solitario. E ora, anche se tutto è cambiato, credono ancora nella loro responsabilità verso il mondo. Ogni Elfo deve dedicare una parte della sua vita a restituire alla terra quel che ne ha preso. Voglio dire che ogni Elfo deve trascorrere alcuni anni dedicandosi alla terra... per riparare ai danni che essa può avere sofferto per abusi o negligenza, per accudire i suoi animali o altre forme di vita, per curarne gli alberi e le piante più piccole quando ciò sia necessario.» «Non è ciò che stavi facendo a Havenstead?» Lei annuì. «In un certo senso. Gli Eletti sono esonerati da questo servizio. Quando cessai di essere una di loro e non mi sentii più accettata dalla mia gente, decisi che avrei lavorato per la terra. Gran parte del loro lavoro gli Elfi lo compiono nelle Terre dell'Ovest perché quella è la loro patria. Noi però crediamo che tale responsabilità non sia soltanto degli Elfi, ma di tutti gli uomini. In una certa misura i Nani condividono la nostra sollecitudine, ma non siamo mai veramente riusciti a persuadere le altre razze. Così alcuni Elfi partono verso altre comunità, cercando di instillare nella gente il senso di responsabilità nei confronti della sua terra. Era quello che stavo cercando di fare io a Havenstead.» «E lavoravi coi bambini del villaggio» fece Wil. «In primo luogo coi bambini, perché sono i più ricettivi ai miei insegnamenti e hanno tempo per imparare. Io stessa appresi queste cose quand'ero piccola, nello stile degli Elfi. Ero più adatta di molti a mettere in
pratica la lezione; questo è uno dei motivi per i quali, io credo, sono stata prescelta come Eletta. Gli Eletti sono i più esperti nel preservare e curare la terra e le sue forme vitali; l'Eterea lo sa. Lei possiede quel dono...» Amberle sembrò essersi imbattuta in un pensiero che non desiderava esprimere. Si interruppe bruscamente, stringendosi nelle spalle. «Be', ero molto brava a insegnare ai bambini di Havenstead, e la gente del villaggio era molto gentile con me. Havenstead era casa mia, e non volevo lasciarla.» Improvvisamente si mise a fissare il fuoco fra loro. Wil tacque chinandosi per aggiungere alcuni rami secchi alle fiamme. Dopo un attimo di silenzio, Amberle lo guardò di nuovo. «Bene, ora sai qualcosa dei sentimenti che provano gli Elfi per la terra. Essi sono anche parte della tua eredità spirituale, così dovrai cercare di capirli.» «Ma io credo di capirli» rispose il giovane, pensieroso. «Almeno in parte. Non sono stato educato dagli Elfi, ma sono stato addestrato come Guaritore dagli Stor. Loro si curano della vita umana così come gli Elfi si curano della terra. Un Guaritore deve fare tutto quanto è in suo potere per preservare la vita e la salute degli uomini, delle donne e dei bambini che gli sono stati affidati. Questo è l'impegno che mi sono assunto quando ho scelto di diventare Guaritore.» La ragazza lo guardò incuriosita. «È strano, ma così mi riesce ancor più difficile capire come Allanon sia riuscito a persuaderti a occuparti di me. Tu sei un Guaritore, la tua missione consiste nel preservare la vita. Che farai se ti troverai in una situazione in cui, per proteggermi, dovrai danneggiare altri, e forse provocarne addirittura la morte?» Wil la fissò, senza parole. Non aveva nemmeno preso in considerazione una tale eventualità. Pensandoci ora, provò una spiacevole sensazione. «Non so cosa farò» ammise, a disagio. Rimasero in silenzio per un attimo, guardandosi attraverso il fuoco, incapaci di superare quella pausa imbarazzante. Poi, bruscamente, Amberle si alzò, si avvicinò al giovane, sedette accanto a lui e d'impulso gli strinse una mano. Il suo bel viso lo guardò attraverso l'ombra dei lunghi capelli. «Non è stato giusto, da parte mia, porti un simile problema. Mi dispiace. Hai intrapreso questo viaggio perché credevi di potermi aiutare. E io ho torto a dubitarne.» «No, avevi ragione» rispose deciso Wil. «Io non sono in grado di risponderti.»
«Né devi farlo» insistette lei. «Io, più di tutti gli altri, dovrei sapere che certe decisioni non possono essere prese in anticipo. Non è sempre possibile prevedere il modo in cui andranno le cose e di conseguenza le reazioni che avremo. È una cosa che dobbiamo accettare. Ti prego, scusami. Anche tu potresti chiedermi cosa deciderò di fare se l'Eterea mi dirà che sono ancora un'Eletta.» Wil ebbe un debole sorriso. «Sta' attenta. Potrebbe venirmi la tentazione di chiedertelo.» Lei abbandonò immediatamente la sua mano e si alzò. «Non farlo. Non ti piacerebbe la risposta che ti darei.» Scosse la testa, tristemente. «Tu credi che, nel mio caso, la decisione sia semplice. Ma ti sbagli.» Ritornò a sedere davanti a lui e prese il suo mantello da viaggio, stendendolo per terra. Mentre si preparava a avvolgerselo intorno, si voltò di nuovo verso di lui. «Credimi, Wil, se uno di noi due si troverà a prendere delle decisioni, per te sarà più facile che per me.» Appoggiò la testa sul mantello e pochi minuti dopo dormiva. Wil Ohmsford rimase a contemplare il fuoco, pensieroso. Anche se non riusciva a spiegarselo, sentiva che lei aveva ragione. 14 Quando si svegliarono il mattino dopo, Artaq non c'era più. Dapprima pensarono che si fosse allontanato durante la notte, ma una rapida perlustrazione nel bosco in cui erano accampati e nei prati al di là non rivelò alcuna traccia del grande stallone nero. Fu a quel punto che uno spiacevole sospetto cominciò a affacciarsi nella mente di Wil. In gran fretta, esaminò il punto in cui avevano lasciato Artaq a pascolare, percorrendo tutto il perimetro del loro accampamento, mettendosi in ginocchio di tanto in tanto per odorare la terra o toccarla. Amberle lo osservava incuriosita. Dopo alcuni minuti, il giovane sembrò aver trovato qualcosa. Gli occhi sempre fissi davanti a sé, cominciò a camminare: trenta, sessanta metri. Poi deviò verso il fiume. In silenzio, la ragazza lo seguiva. Qualche minuto dopo. si trovavano entrambi sulla riva del Mermidon, scrutando un guado distante diverse centinaia di metri a valle del loro accampamento. «Sono stati i nomadi» dichiarò Wil, furibondo. «Durante la notte hanno attraversato il fiume in questo punto e l'hanno rubato.» Amberle era sorpresa. «Ne sei sicuro?»
«Certo.» Wil annuì. «Ho trovato le loro tracce. Inoltre, nessun altro vi sarebbe riuscito. Artaq si sarebbe fatto sentire, se non si fosse trattato di qualcuno molto esperto in fatto di cavalli. E i nomadi lo sono. Guarda, se ne sono già andati.» Indicò lo spiazzo vuoto al di là del fiume dove la carovana aveva sostato la sera precedente. Rimasero a fissarlo in silenzio per un attimo. «Cosa facciamo ora?» chiese infine Amberle. Wil era talmente furibondo che non riusciva quasi a parlare. «Prima raccogliamo le nostre cose. Poi attraversiamo il fiume e diamo un occhiata al posto dov'erano accampati.» Tornarono al loro accampamento, raccolsero frettolosamente le loro poche cose e tornarono al fiume. Lo attraversarono senza difficoltà nel punto in cui c'era il guado. Pochi minuti dopo si trovavano nell'accampamento dei nomadi, ora deserto. Wil ricominciò a studiare il terreno, percorrendo rapidamente l'area da un'estremità all'altra. Infine tornò da Amberle. «Mio zio Flick mi insegnò a leggere le tracce quando andavamo a caccia nei boschi intorno a casa mia, a Valle d'Ombra» le spiegò, ora molto più disteso. «Quando ero piccolo andavamo a pesca e a caccia nelle foreste del Duln per intere settimane. Ho sempre pensato che quel che avevo imparato allora prima o poi mi sarebbe stato utile.» Lei annuì, spazientita. «Cosa hai scoperto?» «Sono andati a ovest, probabilmente appena prima dell'alba.» «Tutto qua? Non c'è qualche segno che indichi se Artaq è con loro?» «Oh, sì, certo. Giù al guado, vi sono tracce di un cavallo che scende nel fiume da una riva e ne esce dall'altra. Un cavallo, diversi uomini. Non ci sono dubbi, l'hanno portato via loro. Ma noi ce lo riprenderemo.» Lei lo guardò, dubbiosa. «Vuoi forse dire che li inseguiamo?» «Ma naturalmente!» Si stava arrabbiando di nuovo. «Tutti e due.» «Io e te, Wil?» Scosse la testa. «A piedi?» «Potremo raggiungerli al tramonto. Quei carrozzoni sono lenti.» «Quindi, secondo te, possiamo trovarli, vero?» «Non c'è niente di strano. Un tempo, sapevo seguire le tracce di un cervo attraverso una landa incolta anche se non pioveva da settimane. Credo proprio di riuscire a individuare un'intera carovana di carri attraverso una prateria.» «Questa faccenda non mi piace» dichiarò lei, calma. «Anche se riusciamo a trovarli, e a trovare Artaq, cosa potremo fare?» «Ci penseremo quando li avremo raggiunti» rispose lui seccamente.
La ragazza non si arrese. «Invece credo che dobbiamo pensarci subito. Tu stai proponendo di inseguire un gruppo intero di uomini armati. Nemmeno a me piace quel che è successo, ma non è una buona scusa per agire in modo dissennato.» Con uno sforzo visibile, Wil si controllò. «Non intendo perdere quel cavallo. In primo luogo. se non fosse stato per Artaq, i demoni ci avrebbero preso, già a Havenstead. Si merita un destino migliore che passare il resto della sua vita al servizio di quei ladri. In secondo luogo, è l'unico cavallo che avevamo e l'unico che potremo avere. Senza di lui, saremo costretti a fare a piedi il resto della strada fino a Arborlon. Ci vorrà più di una settimana, e dovremo viaggiare quasi sempre in aperta prateria. Il che aumenta considerevolmente il rischio di essere scoperti da quelli che ancora ci inseguono. E a me questo non và. Abbiamo bisogno di Artaq.» «A quanto pare, hai deciso» fece lei, inespressiva. Lui annuì. «Certo. Inoltre i nomadi stanno viaggiando verso ovest; per lo meno andiamo nella giusta direzione.» Per un attimo Amberle non parlò; si limitò a guardarlo. Poi infine annuì. «D'accordo, inseguiamoli pure. Anch'io voglio riavere Artaq. Ma riflettiamo un poco prima di raggiungerli. Sarà meglio avere pronto un piano, per allora.» Lui ebbe un sorriso disarmante. «L'avremo.» Camminarono tutto il giorno per la prateria aperta, seguendo la pista della carovana di nomadi. Il tempo era caldo e asciutto, e il sole li dardeggiava da un cielo azzurro senza nuvole. Non trovarono quasi ombra lungo il cammino. Presto l'acqua finì, e non si imbatterono nemmeno in un ruscello. A pomeriggio inoltrato erano tormentati dalla sete e in bocca avevano sapore di polvere. Avanzavano con i muscoli delle gambe doloranti, i piedi coperti di vesciche. Si parlavano di rado, cercando di non spendere energie, concentrati nel difficile compito di mettere un piede davanti all'altro, osservando il sole calare lentamente all'orizzonte finché non rimase che un cupo bagliore arancione sopra la landa immensa. Poco dopo cominciò a imbrunire, la luce si dissolse nel crepuscolo, il crepuscolo nella notte. Proseguivano, anche se non riuscivano più a trovare le tracce dei carrozzoni, fidandosi del loro senso dell'orientamento. La luna e le stelle si accesero nel cielo notturno, spargendo sulla prateria la loro debole luce per guidare i due giovani. Il sudore e la polvere sui loro corpi si raffreddarono e si asciugarono e loro sentirono gli indumenti incollarglisi addosso. Nessuno dei due propose all'altro di fermarsi. Fermarsi
significava ammettere che non avrebbero mai raggiunto la carovana quella sera, e che avrebbero dovuto proseguire così un altro giorno. Continuavano a camminare, silenziosi, decisi, la ragazza quanto il giovane, un fatto che sorprese quest'ultimo, sinceramente ammirato dal suo coraggio. Poi videro in lontananza della luce davanti a loro: un fuoco che bruciava attraverso il buio come un segnale, e capirono di aver trovato i nomadi. In silenzio, si trascinarono fino a una certa distanza dal falò, mentre i tetti appuntiti dei carrozzoni gradualmente si delineavano nella notte e infine si rivelò l'intera carovana, disposta in cerchio come sulle rive del Mermidon. Wil prese Amberle per un braccio e con dolcezza la fece accovacciare. «Ora entriamo» sussurrò, lo sguardo sempre fisso sul campo dei nomadi. Lei lo guardò, incredula. «Qual è il tuo piano?» «Conosco quella gente. Tu non contraddirmi, e andrà tutto bene.» Senza aspettare la sua risposta, si alzò e cominciò a camminare verso la carovana. La giovane rimase a fissarlo per un attimo, poi si alzò e lo seguì. Mentre si avvicinavano ai carri disposti in cerchio, le facce di uomini, donne e bambini che passavano vicino al falò diventavano visibili. Captarono risate e frammenti di conversazione. I nomadi avevano appena terminato il loro pasto serale e si stavano scambiando visite. Da un punto dell'accampamento arrivò il suono di una chitarra. A una ventina di metri dal perimetro dei carrozzoni, Wil chiamò. Amberle ne fu tanto sorpresa che trasalì. Nel campo, tutti immediatamente si immobilizzarono, e le teste si voltarono nella loro direzione. Ci fu uno scalpiccio di passi mentre alcuni uomini apparivano fra i carrozzoni più vicini ai due giovani. Senza parlare, i nomadi sbirciarono nell'oscurità, e poiché il falò era alle loro spalle, le loro facce erano completamente immerse nell'ombra. Wil non rallentò. Continuò a puntare direttamente verso di loro, con Amberle che lo seguiva a pochi passi di distanza. L'intera carovana si era improvvisamente immobilizzata. «Buona sera» disse allegramente Wil mentre raggiungeva i nomadi che bloccavano l'accesso al campo. Gli uomini non risposero. Al bagliore del fuoco, il giovane vide scintillare delle lame. «Abbiamo visto il vostro falò e abbiamo pensato che forse potreste darci un po' d'acqua» proseguì, sempre sorridendo. «È dall'alba che camminiamo senza bere e siamo sfiniti.»
Qualcuno si fece strada fra gli uomini silenziosi, un tipo alto con un mantello verde e un cappello a tesa larga... quello che avevano visto al fiume. «Oh, i nostri giovani viaggiatori di ieri sera» constatò tranquillo, senza alcun cenno di saluto. «Salve» fece Wil, cordiale. «Siamo stati molto sfortunati. Durante la notte abbiamo perso il cavallo... deve essere andato via mentre dormivamo. È tutto il giorno che viaggiamo senz'acqua e ci farebbe piacere bere qualcosa di fresco.» «Ma certo.» L'uomo sorrise senza cordialità. Era alto, ben oltre un metro e ottanta, magro e ossuto, la faccia bruna oscurata da una barba e da baffi neri che davano al suo sorriso un che di minaccioso. Aveva una fronte rugosa, segnata, una leggera gobba sul naso e occhi più neri della notte. La mano che alzò per fare un cenno agli uomini dietro di lui aveva un anello a ciascun dito. «Portate dell'acqua» ordinò, gli occhi sempre fissi su Wil. La sua espressione non era cambiata. «Chi sei tu, giovane amico, e qual è la tua destinazione?» «Sono Wil Ohmsford» rispose lui. «Questa è mia sorella, Amberle. Siamo diretti a Arborlon.» «Arborlon.» L'uomo ripeté il nome, pensieroso. «Bene, siete Elfi, naturalmente... Almeno in parte. Chiunque potrebbe capirlo. Ma ora, tu mi hai detto di aver perso il tuo cavallo. Non sarebbe stato più saggio restare lungo il Mermidon, anziché puntare direttamente verso ovest come hai fatto?» Wil sorrise ancora. «Oh, sì, ci abbiamo pensato; ma vedi, noi dobbiamo raggiungere Arborlon il più rapidamente possibile, e a piedi ci impiegheremmo troppo tempo. Naturalmente, vi abbiamo visti accampati al di là del fiume ieri sera e abbiamo anche visto che avete diversi bei cavalli. Abbiamo pensato che se fossimo riusciti a raggiungervi avremmo potuto offrirvi qualcosa di prezioso in cambio di uno dei vostri cavalli.» «Potete offrire qualcosa di prezioso?» L'uomo si strinse nelle spalle. «Perché no? Naturalmente dobbiamo prima vedere di cosa si tratta.» Wil annuì. «Naturalmente.» Apparve una vecchia, con una caraffa piena d'acqua e una tazza di legno; le porse a Wil, che le accettò in silenzio. Sotto lo sguardo dei nomadi, si versò un po' d'acqua. Non ne offrì a Amberle, che lo guardò stupita
mentre lui l'ignorava. Poi si riempì di nuovo la tazza e la vuotò. Quando ebbe finito, porse senza una parola tazza e caraffa a Amberle. «Vedo che tu conosci la nostra tradizione» osservò l'uomo alto, guardandolo con interesse. «Allora sai anche che siamo nomadi.» «Mi è capitato di curare dei nomadi» fece Wil. «Sono un Guaritore.» Un rapido mormorio serpeggiò nel gruppo, che era cresciuto considerevolmente da quando era cominciata la conversazione, e ora era formata da quasi tutti i membri dell'accampamento. una trentina di persone fra uomini. donne e bambini. tutti vestiti di sete, sciarpe e nastri variopinti. «Un Guaritore? Straordinario.» L'uomo alto si fece avanti, si tolse il cappello con ostentata cortesia e si inchinò. Dopo essersi raddrizzato, porse la mano. «Io sono Cephelo. Capo della Famiglia.» Wil gliela strinse energicamente. Cephelo sorrise. «Be', non dovete restarvene qua fuori; presto farà freddo. Vieni con me; anche tua sorella è la benvenuta. Avete l'aria di aver bisogno di un bagno e di mangiare qualcosa.» Fece strada attraverso la folla dei nomadi fin entro il cerchio dei carrozzoni. Un immenso falò ardeva al centro del campo, un tripode e una pentola di ferro sospesi sopra di esso. Il bagliore delle fiamme si rifletteva sui carrozzoni dipinti allegramente, mescolando l'arcobaleno dei colori alle ombre della notte. Sotto i carrozzoni c'erano ampie panche di legno, elaboratamente intagliate e lucidate, coperte di cuscini di piume. Le finestre dalle maniglie d'ottone erano aperte adorne di tende e di file di perline. Su un lungo tavolo a un lato era disposto con cura un assortimento intimidatorio di picche, spade e coltelli. Due ragazzini stavano oliando diligentemente le lame di metallo. Quando arrivarono davanti al falò, Cephelo si voltò bruscamente. «Bene, che cosa volete per primo... un bagno o un pasto?» Wil non guardò Amberle nemmeno di sfuggita. «Un bagno, credo... Anche per mia sorella, sempre che abbiate abbastanza acqua.» «Certo!» Cephelo annuì e si voltò. «Eretria!» Ci fu un fruscio di sete, e Wil si ritrovò faccia a faccia con la ragazza più straordinaria che avesse mai visto. Era piccola e delicata, come Amberle, ma senza l'innocenza infantile della giovane Elfa. Folti capelli neri e ricci le ricadevano sulle spalle, gli occhi erano scuri e impenetrabili. Il volto era bellissimo, i lineamenti perfetti, indimenticabili. Portava alti stivali di cuoio, pantaloni e una tunica di seta scarlatta trasparente. Aveva ai polsi e al collo nastri d'argento.
Wil la contemplò stupito, incapace di distogliere lo sguardo. «Mia figlia» fece Cephelo, infastidito. Indicò Amberle. «Accompagna la ragazza elfa: ha bisogno di un bagno.» Eretria sorrise, maliziosa. «Sarebbe molto più interessante farlo a lui» ribatté, indicando Wil. «Fa' come ti ho detto» le ordinò bruscamente suo padre. Eretria teneva gli occhi fissi su Wil. «Vieni con me» disse, rivolta a Amberle. Si voltò e scomparve. Contro voglia, Amberle la seguì. Cephelo guidò Wil verso l'altro lato dell'accampamento dove alcune coperte erano appese fra due carrozzoni. Dietro c'era una vasca. Al riparo delle coperte, il giovane si tolse i vestiti e li dispose ordinatamente per terra accanto a lui. Sapeva che il nomade lo teneva d'occhio, per scoprire se possedeva qualche oggetto prezioso, e fece bene attenzione affinché il sacchetto con le Pietre Magiche non cadesse dalla tasca della tunica. Cominciò a versarsi addosso l'acqua con un mestolo, lavando via la polvere e il sudore di un giorno di viaggio. «Non incontriamo spesso dei Guaritori disposti a curare dei nomadi» disse Cephelo un attimo dopo. «Di solito dobbiamo arrangiarci da soli.» «Io sono stato addestrato dagli Stor» rispose Wil. «Non negano il loro aiuto a nessuno.» «Gli Stor?» ripeté Cephelo, di nuovo sorpreso. «Ma gli Stor sono tutti Gnomi.» Il giovane annuì. «Io sono un'eccezione.» «Tu non sei un'eccezione solo per quello» dichiarò l'altro. Si sedette su una panca lì vicino e rimase a osservare il giovane che si asciugava e cominciava a lavare i suoi indumenti. «Abbiamo del lavoro per te, Guaritore, che ti consentirà di pagare il cibo e il riparo che ti offriremo. Alcuni di noi hanno bisogno delle tue cure.» «Sarò felice di fare tutto quello che posso» rispose Wil. «Bene.» L'altro annuì, soddisfatto. «Ora ti troverò degli abiti asciutti.» Si alzò e se ne andò. Immediatamente Wil fece scivolare le Pietre Magiche dalla tasca della tunica in uno stivale, poi rapidamente riprese a lavare la sua roba. Cephelo tornò quasi subito, portando degli abiti di seta. Il giovane li prese e li indossò. Nonostante il fastidioso rigonfiamento allo stivale destro, se lo infilò con decisione e poi infilò anche l'altro. Cephelo chiamò la vecchia che aveva portato prima l'acqua e le ordinò di prendere i vestiti bagnati di Wil. Il giovane glieli porse senza una parola, sapendo che li avrebbero frugati accuratamente, senza trovare niente.
Poi tornarono al falò al centro dell'accampamento, dove Amberle li raggiunse, tutta pulita e vestita anche lei di seta. Ciascuno ricevette un piatto di cibo fumante e una coppa di vino. Sedettero vicino al fuoco e mangiarono in silenzio mentre i nomadi, intorno a loro, li osservavano incuriositi. Cephelo gli si mise di fronte, seduto a gambe incrociate su un ampio cuscino con nappe dorate, il volto scuro inespressivo. Non c'era traccia di Eretria. Quando il pasto fu finito, il capo dei nomadi mandò a chiamare i membri della sua Famiglia che avevano bisogno di Wil. Senza commenti, il giovane li esaminò a uno a uno, curando una serie di infezioni, disturbi interni, irritazioni della pelle e febbriciattole. Anche se non era stato richiesto il suo aiuto, Amberle lavorava accanto a lui, porgendogli bende e acqua calda, aiutando nell'applicazione di semplici farmaci e unguenti vegetali. Wil impiegò un'ora per completare la sua opera. Quando ebbe finito, Cephelo gli si avvicinò. «Hai lavorato bene, Guaritore.» Sorrise con eccessiva cordialità. «Ora dobbiamo vedere cosa possiamo fare in cambio per te. Vieni con me... da questa parte.» Circondò con un braccio le spalle di Wil e lo portò via, lasciando Amberle sola a ripulire e a mettere in ordine. Si diressero verso il lato opposto dell'accampamento. «Hai detto di aver perso il tuo cavallo ieri sera vicino al nostro accampamento sul Mermidon» fece Cephelo, con aria pensierosa. «Com'era quell'animale?» Wil rimase impassibile. Aveva capito che il gioco stava cominciando. «Uno stallone, tutto nero.» «Bene, allora.» Cephelo apparve ancor più pensieroso. «Abbiamo trovato un cavallo come quello che tu hai descritto, una bellissima bestia, proprio questa mattina, all'alba. È arrivato dalla prateria mentre noi stavamo agganciando i nostri tiri per partire. Forse è il tuo cavallo, Guaritore.» «Forse» ammise Wil. «Naturalmente, noi non sapevamo di chi fosse» fece Cephelo, sorridendo. «Così l'abbiamo portato con noi. Perché non gli diamo un'occhiata?» Passarono oltre il cerchio dei carrozzoni. A una ventina di metri dal campo erano legati tutti i cavalli dei nomadi, in fila. Due sagome scure emersero dalla notte, uomini armati di archi e picche. A una parola di Cephelo tornarono a nascondersi. L'omone guidò Wil fino all'estremità della fila. Lì c'era Artaq.
Wil annuì. «È proprio lui.» «Porta il tuo marchio, Guaritore?» chiese l'altro, come se si trattasse di una domanda indiscreta. Wil scosse la testa. «Oh, ma che peccato! Come possiamo essere sicuri che il cavallo sia tuo? Dopotutto, vi sono diversi stalloni neri nelle Quattro Terre, e come possiamo riconoscerli se i loro padroni non li marchiano? È un grosso problema, Guaritore. Vorrei darti questo cavallo, ma ciò comporta un grosso rischio per me. Supponiamo che io te lo dia, come desidererei fare, ma poi un altro venisse da me e mi dicesse che anche lui ha perso uno stallone nero. e scoprissimo che io, per sbaglio, ti ho dato il suo cavallo. Dovrei risponderne a quell'uomo.» «Be', immagino che tu abbia ragione.» Wil annuì con appena una sfumatura di dubbio, evitando con cura di contestare la ridicola supposizione. Dopotutto faceva parte del gioco. «Io ti credo, naturalmente.» La faccia barbuta di Cephelo si fece solenne. «Certo ci si deve fidare di un Guaritore, sempre che ci si possa fidare di qualcuno a questo mondo.» Sorrise alla propria battuta. «Tuttavia, resta il fatto che io corro un rischio se ti do questo cavallo; essere un uomo di mondo è spesso difficile. E poi c'è la questione del cibo e delle cure che abbiamo dato a questo animale. Lo abbiamo strigliato e accudito come se fosse nostro. Tu mi capirai se ti dico che ci tocca qualcosa in cambio.» «Ma certo» fece Wil, annuendo. «Bene, allora.» Cephelo si sfregò le mani, soddisfatto. «Siamo d'accordo. Ora non resta che fissare il prezzo. Tu prima mi hai detto che sei disposto a dare qualcosa di prezioso in cambio del cavallo. Forse possiamo fare un giusto baratto: tu mi dai quello che porti con te per saldare il tuo debito verso di noi. E di conseguenza, se qualcuno venisse da me a reclamare uno stallone nero, io potrei far finta di niente.» Ammiccò con aria d'intesa. Wil si avvicinò a Artaq e gli accarezzò la fronte liscia, lasciando che il cavallo gli strofinasse il muso contro il petto. «Temo, però, di non avere niente di prezioso da offrirti» disse infine. «Non ho portato niente con me che ti possa ripagare di quel che hai fatto.» Cephelo non nascose la sua delusione. «Niente?» «Niente.» «Ma tu hai detto di avere qualcosa di prezioso...» «Oh, sì» si affrettò a annuire Wil. «Alludevo ai miei servizi come guaritore... pensavo che avessero un certo valore.» «Ma tu hai prestato quei servizi in cambio del cibo, del riparo e degli indumenti per te e tua sorella.»
«Sì, è vero.» Il giovane apparve sconsolato. Inspirò a fondo. «Forse potrei farti una proposta?» Un'espressione di rinnovato interesse apparve sulla faccia dell'altro. «Bene, a quanto pare viaggiamo entrambi verso le Terre dell'Ovest. Se tu ci permetterai di accompagnarti. potremo trovare qualche opportunità per ripagarti... forse tu avrai ancora bisogno della mia opera.» «Mi sembra improbabile.» Cephelo era meditabondo. Scosse la testa. «Non hai niente di prezioso da offrire in cambio del cavallo... proprio niente?» «No. niente.» «È un problema» borbottò il nomade, strofinandosi il mento barbuto. Il giovane tacque, in attesa. «Comunque. non c'è niente di male se venite con noi fino alle foreste. Sono solo pochi giorni di viaggio, però, e se per allora non avrai fatto niente per noi, forse dovremo tenerci il cavallo in cambio del nostro disturbo. Tu capisci, vero?» Wil annuì in silenzio. «Un altra cosa.» Cephelo gli si avvicinò, senza più traccia di cordialità. «Spero che tu non sia tanto sciocco da tentare di rubarci quella bestia. Ci conosci abbastanza bene da sapere cosa ti accadrebbe se ci provassi.» Il giovane inspirò a fondo e annuì di nuovo. Lo sapeva. «Bene.» L'uomo indietreggiò. «Cerca di non scordartelo.» Era evidentemente deluso per il modo in cui erano andate le cose, ma si strinse nelle spalle, con falsa indifferenza. «Basta con gli affari, ora. Vieni a bere con me.» Ritornò verso la cerchia dei carrozzoni. e batté imperiosamente le mani, chiamando gli altri a bere e a suonare per festeggiare quel giorno fortunato e dare il benvenuto al giovane Guaritore che era stato tanto gentile con loro. Wil era seduto accanto al capo su una panca foderata di cuscini quando gli uomini, le donne e i bambini dell'accampamento si avvicinarono entusiasti. Si riempirono coppe di vino da un grande mastello e le si fecero passare intorno. Cephelo si alzò e fece un elaborato brindisi alla salute della sua Famiglia. Tutti alzarono le coppe e le prosciugarono rapidamente. Wil bevve con gli altri. Si guardò intorno ansiosamente alla ricerca di Amberle e la trovò seduta nelle vicinanze del perimetro di facce circostante. Aveva un aria tutt'altro che soddisfatta. Lui si rammaricò di non poterle spiegare cos'era accaduto, ma, per farlo, doveva essere solo con lei. Per il momento, doveva portare pazienza.
Bevvero ancora; fu declamato un altro brindisi e le coppe furono nuovamente riempite. Cephelo ordinò che si facesse della musica. Furono portati strumenti a corda e cimbali, e i suonatori cominciarono a esibirsi. La musica si levò nella notte, selvaggia, prepotente, ossessiva, accompagnata dalle risate dei nomadi, allegre, spensierate. Dell'altro vino fu versato e trangugiato; seguirono grida di incoraggiamento per i suonatori. Wil cominciava a sentirsi stordito. Il vino era forte, troppo forte per chi non era abituato a berne. Doveva essere prudente, si disse, alzando la coppa mentre veniva proposto un nuovo brindisi, e questa volta sorseggiò lentamente il liquido color ambra. Nella punta dello stivale destro sentiva la pressione rassicurante delle Pietre Magiche. La musica si fece più veloce; i nomadi saltarono in piedi e cominciarono a danzare, sei o otto, a braccetto, formando un cerchio intorno al falò. Altri si affrettarono a raggiungerli, e quelli rimasti seduti cominciarono a battere freneticamente il tempo. Wil li imitò, mettendo la coppa accanto a sé sulla panca. Quando la riprese, un attimo dopo, era nuovamente piena. Ammaliato dalla musica, la vuotò senza pensare. I danzatori si separarono e formarono delle coppie, saltando e girando vorticosamente davanti alle fiamme. Qualcuno cantava, una voce malinconica che formava un irreale tutt'uno con la musica e la danza. Poi, all'improvviso, Eretria fu davanti a lui, bruna, bellissima, il corpo snello vestito di seta scarlatta. Il suo sorriso era abbagliante mentre si chinava su di lui, lo prendeva per le mani e lo faceva alzare. Lo trascinò in mezzo ai danzatori, si separò da lui un istante, e roteò via in un ondeggiare di nastri e di capelli neri. Poi fu di nuovo davanti a lui, tenendolo con le braccia sottili mentre danzavano. La fragranza dei suoi capelli e del suo corpo si mescolarono al calore del vino che lo pervadeva. Sentì che lo stringeva a sé, morbida e sottile, mormorando parole che non percepiva chiaramente. Il movimento della danza lo stordiva; tutto, intorno a lui, cominciò a fondersi in una girandola di colori vorticante contro lo sfondo della notte. La musica, il battere di mani e gli urli e i fischi dei nomadi crebbero di volume. Gli sembrò di sollevarsi da terra, sempre stretto a Eretria. E poi lei scomparve, e lui cominciò a cadere. 15
Si svegliò col peggior mal di testa della sua vita, con la sensazione di essere un fuscello in balia di un vento violento che lo faceva vorticare, e impiegò diversi lunghi istanti per capire che si trovava nel retro di un carrozzone, disteso sul pagliericcio di una lettiera di legno spinta contro la parete posteriore; sopra la sua testa vide uno strano assortimento di arazzi, sete, pizzi, e utensili di legno e metallo, che oscillavano mentre il carro avanzava traballando nella prateria. Un dardo luminoso di sole scivolò attraverso una fessura della finestra, e capì di aver dormito tutta la notte. Amberle apparve accanto a lui, con un'espressione di rimprovero negli occhi verde mare. «È inutile chiederti come stai questa mattina, vero?» esordì, le sue parole appena percettibili sopra il fragore delle ruote. «Mi auguro che ne sia valsa la pena.» «No.» Si mise lentamente a sedere, sentendosi pulsare violentemente la testa. «Dove siamo?» «Nel carro di Cephelo. Da ieri sera, se ricordi cosa è successo. Io gli ho detto che ti stavi rimettendo da un attacco di febbre e che non stavi male soltanto per il vino. Così mi hanno lasciato qui con te finché non ti fossi ripreso. Bevi questo.» Gli porse una tazza con del liquido scuro. Wil guardò con sospetto quella mistura dall'aria ripugnante. «Bevi» ripeté lei, decisa. «È un rimedio a base di erbe per chi si ubriaca. Vi sono cose che non occorre essere Guaritore per sapere.» Lui ubbidì senza discutere. Soltanto allora si accorse che non aveva più gli stivali. «I miei stivali! Dove sono...» «Zitto!» lo ammonì lei, indicando rapidamente la piccola porta chiusa sul davanti del carro. In silenzio, si chinò sotto il letto e li tirò fuori, poi si tolse dalla fascia intorno alla vita il sacchetto di cuoio con le Pietre Magiche. Wil si abbandonò sul giaciglio con un sospiro di sollievo. «La festa è stata troppo impegnativa per te» continuò lei, con una nota di sarcasmo nella voce. «Quando sei svenuto, Cephelo ti ha fatto portare in questo carro. Voleva farti svestire da quella vecchia, ma io l'ho convinto che, se ti fosse tornata la febbre, sarebbe stata contagiosa e che, in ogni caso, ti saresti offeso se ti avessero svestito senza il tuo consenso. Evidentemente non ha dato molta importanza alla faccenda perché ha ordinato alla
vecchia di andarsene. Dopo che se ne è andato anche lui, ti ho frugato addosso e ho trovato le Pietre Magiche.» Lui annuì, approvando. «Tu non hai perso la testa.» «È un bene che almeno uno dei due ci sia riuscito» ribatté lei, inarcando le sopracciglia. Guardò di nuovo verso la porta chiusa. «Cephelo ha lasciato la vecchia là davanti per tenerci d'occhio. Non credo sia completamente convinto di quel che gli hai detto.» Wil si chinò in avanti, puntellandosi il mento sulle mani. «Non mi sorprenderebbe.» «E allora perché siamo ancora qua, se non per il fatto che ieri sera hai bevuto troppo?» indagò lei. «E comunque, perché siamo venuti qua?» Lui allungò una mano verso le Pietre Magiche e Amberle gliele diede. Rimise il sacchetto di cuoio nello stivale destro e si infilò prima quello, poi l'altro. Le fece cenno di avvicinarsi. «Perché dobbiamo trovare il modo di portar via Artaq e non possiamo farlo se non restiamo con questa gente» mormorò in modo che lei potesse sentirlo sopra il cigolare del carro. «E c'è un altro motivo. I demoni che ci hanno dato la caccia da Havenstead cercheranno due persone... non un'intera carovana. Forse, viaggiando coi nomadi, gli faremo perdere la pista. Inoltre, siamo diretti a ovest, che è la nostra destinazione. e così avanziamo più rapidamente che a piedi.» «Bene. Ma anche questa situazione è pericolosa, Wil» puntualizzò lei. «Che cosa hai in mente di fare quando raggiungeremo le foreste delle Terre dell'Ovest e Cephelo si rifiuterà di ridarti Artaq?» Lui si strinse nelle spalle. «Ci penserò quando verrà il momento.» «È un discorso che ho già sentito.» Amberle scosse la testa, infastidita. «Dovresti provare a avere più fiducia in me di quanta ne hai mostrata finora. Non è molto rassicurante dovermi affidare a te e non avere la più pallida idea di quel che intendi fare.» «Hai ragione» ammise lui. «Mi dispiace per ieri sera. Avrei dovuto parlare con te prima di entrare nell'accampamento, ma, per essere sincero, non avevo ancora un piano in mente.» «Ti credo» fece lei, aggrottando la fronte. «Senti, ora cercherò di darti qualche spiegazione. I nomadi viaggiano in Famiglie... questo lo sai già. Il termine "Famiglia" è piuttosto fuorviante perché i suoi membri non sono sempre consanguinei. I nomadi spesso barattano mogli e figli o addirittura li vendono a altri accampamenti, come se fossero proprietà comune. Ciascuna Famiglia ha un capo - una figura pa-
terna che prende tutte le decisioni. Le donne devono fare da serve agli uomini; è questa la loro famosa Tradizione. Per i nomadi, è l'ordine naturale delle cose. Credono fermamente che le donne debbano essere sottomesse agli uomini, i quali le proteggono e provvedono al loro mantenimento. Inoltre, sempre secondo la loro tradizione, coloro che entrano nel loro accampamento devono osservare queste usanze per essere ben accolti. È per questo motivo che ho bevuto per primo. E per questo che ti ho lasciata a sistemare le cose dopo che abbiamo curato i malati. Volevo convincerli che io capivo e onoravo le loro convinzioni. Se ci fossi riuscito, c'era una possibilità che ci ridessero Artaq.» «A quanto pare la cosa non ha funzionato» osservò Amberle. «No, non ancora» ammise lui. «Ma ci hanno permesso di viaggiare con loro; normalmente non avrebbero nemmeno preso in considerazione una cosa del genere. I nomadi non sopportano gli estranei.» «Ci hanno permesso di viaggiare con loro perché tu hai incuriosito Cephelo e lui vuole saperne un po' di più sul tuo conto.» Si interruppe. «Inoltre l'interesse di Eretria per te non è passeggero. L'ha fatto capire chiaramente.» Lui sorrise suo malgrado. «E, secondo te, io me la sono spassata ieri sera, danzando e bevendo?» «Se lo vuoi proprio sapere... sì, è quello che penso.» Lo disse senza l'ombra di un sorriso. Wil si abbandonò sul pagliericcio, la testa che gli pulsava per i continui sobbalzi. «E va bene, ammetto di aver esagerato. Ma avevo un motivo più che valido per fare quel che ho fatto, nonostante quel che pensi tu. Era necessario fargli credere che non sono più furbo di loro. Se avessero pensato il contrario, saremmo entrambi morti. Così ho bevuto e danzato e mi sono comportato come qualsiasi persona avrebbe fatto al mio posto... per evitare di insospettirli.» Si strinse nelle spalle. «Quanto a Eretria, non posso farci niente.» «E nessuno te lo chiede.» Poi, con improvvisa collera: «Non mi interessa quel che pensa Eretria di te, ma soltanto che tu non faccia lo sciocco e ci tradisca». Vedendo l'espressione esterrefatta di lui, Amberle avvampò. «Prometti di essere prudente?» aggiunse rapidamente, poi gli prese la tazza vuota dalle mani, e si voltò, dirigendosi verso il fondo del carro. Wil rimase a guardarla, incuriosito. Un attimo dopo ritornò, di nuovo calma e composta.
«C'è qualcos'altro che devi sapere. Questa mattina presto la carovana ha incontrato un vecchio cacciatore diretto a est. Era appena passato dal Tirfing, la zona lacustre di fronte alle foreste delle Terre dell'Ovest a sud del Mermidon. Ha avvertito Cephelo di non avventurarsi là. Perché c'era un diavolo.» Wil si accigliò. «Un diavolo?» «L'ha chiamato così, un nome che i nomadi usano per qualcosa di non umano, di maligno.» Fece una pausa significativa. «Può darsi che questo diavolo sia uno dei demoni che hanno fatto irruzione attraverso il Divieto.» «Che cosa ha detto Cephelo in proposito?» Lei ebbe un debole sorriso. «Lui non ha paura dei diavoli. Intende passare ugualmente dal Tirfing. Credo che debba andarci per qualche sua faccenda. Gli altri membri della Famiglia non sono troppo soddisfatti della sua decisione.» Wil annuì. «Sono proprio d'accordo con loro.» La ragazza gli diede una lunga occhiata indagatrice. «Non sarei d'accordo con nessuno di questi nomadi, se fossi in te. Ricordatelo, se ti offriranno dell'altro vino.» Gli girò le spalle senza aggiungere altro e ritornò in fondo al carro, nascondendo i suoi movimenti al giovane. Wil fece per seguirla, irritato, ma il mal di testa lo fece tornare rapidamente sulla sua decisione. Sedette di nuovo con cautela, appoggiando la testa pulsante contro un pannello di vimini che foderava la parete del carro. Una cosa era certa, pensò, cupo. Amberle non doveva preoccuparsi che lui bevesse ancora quel vino. La carovana viaggiò fino a mezzogiorno verso ovest, poi ci fu una sosta per permettere ai nomadi di consumare un rapido pasto. Ora Wil si sentiva molto meglio e riuscì a mangiare un po' di carne essiccata e di verdure. Cephelo ebbe una breve conversazione con lui; gli chiese cortesemente come stava, poi se ne andò, evidentemente interessato a altre faccende. I nomadi borbottavano fra loro sulla presenza del diavolo, e il giovane capì che la Famiglia era seriamente preoccupata per la notizia portata dal cacciatore. I nomadi erano superstiziosi per natura, e la decisione presa da Cephelo di ignorare tale avvertimento non era stata ben accolta. Il resto del pomeriggio passò rapidamente. Wil si offrì di guidare il carro di Cephelo mentre la vecchia faceva un sonnellino nel retro. Amberle gli era al fianco mentre lui guidava il tiro di quattro cavalli attraverso la vasta distesa della prateria; canticchiava fra sé, parlando pochissimo con
lui. Il giovane la ignorò, concentrandosi sul suo compito, osservando pensieroso le pianure solitarie. Diverse volte Cephelo passò accanto a loro su un grosso sauro - il grande mantello verde che gli sventolava dietro, la faccia scura lucida di sudore per il caldo. Una volta Wil intravide Artaq mentre, con gli altri cavalli di riserva, veniva portato verso una pozza davanti alla carovana. Nessuno lo montava, e non sembrava che Cephelo avesse deciso come usare il grande stallone nero - il che poteva significare che non aveva ancora deciso se tenerselo o no. Poco più di un'ora prima del tramonto entrarono nel Tirfing, una zona di piccoli laghi e boschi ai margini della prateria. Lontano, a ovest, sotto la sfera infuocata del sole al tramonto, si allargava la cupa massa compatta delle foreste d'Occidente. I carrozzoni lasciarono le pianure per inoltrarsi nel Tirfing lungo una pista di terra piena di buche segnata dal passaggio di infiniti viaggiatori. Il calore della prateria si smorzò rapidamente mentre si inoltravano fra i boschi, e le ombre si allungavano davanti a loro nel crepuscolo. Fra gli alberi cominciarono a intravvedere i laghi che costellavano la campagna circostante. Era buio quando Cephelo diede finalmente l'ordine di fermarsi in una vasta radura, circondata da querce, che si affacciava su un lago. I carrozzoni si disposero nel solito cerchio, fermandosi stancamente, rumorosamente, con una serie di cigolii. Wil era così rattrappito che non riusciva quasi a muoversi. Mentre gli uomini sganciavano i tiri e le donne cominciavano a cucinare, scese con cautela dal duro sedile di assi e cercò di sgranchirsi un po' le gambe. Amberle se ne andò da un'altra parte, e lui non si curò di seguirla. Attraversò zoppicando il cerchio dei carrozzoni e arrivò fino agli alberi circostanti; lì si fermò per stiracchiarsi e lasciare che il sangue circolasse attraverso gli arti rattrappiti. Qualche minuto dopo udì dei passi e si voltò. Eretria si stava avvicinando, la figura snella simile a un'ombra nella sera. Portava stivali alti e abiti di cuoio da amazzone, una sciarpa rossa di seta intorno alla vita e un'altra al collo. I capelli neri e ricci le ricadevano sulle spalle, arruffati dal vento. Mentre si avvicinava, gli sorrideva, e i suoi occhi scuri scintillavano maliziosi. «Non allontanarti troppo, Wil Ohmsford» lo ammonì. «Un diavolo potrebbe trovarti e allora cosa faresti?» «Mi lascerei divorare» rispose Wil, con una smorfia, strofinandosi la schiena dolorante. «Comunque, non ho nessuna intenzione di allontanarmi finché non avrò mangiato.»
Si lasciò cadere nell'erba alta, appoggiandosi con la schiena a una quercia. Eretria lo osservò in silenzio per un attimo, poi sedette accanto a lui. «Dove sei stata tutto il giorno?» chiese lui, tanto per fare un po' di conversazione. «A osservarti» rispose lei, sorridendo perfidamente quando vide l'espressione del giovane. «Naturalmente non mi hai visto. E non dovevi.» Wil esitò, a disagio. «Perché mi osservavi?» «Così voleva Cephelo.» Inarcò le sopracciglia. «Non si fida di te e nemmeno della ragazza elfa che vuoi far passare per tua sorella.» Ora lo fissava dritto negli occhi, quasi sfidandolo a contraddirla. Per un attimo Wil fu preso dal panico. «Amberle è mia sorella» rispose, sforzandosi di essere convincente. Eretria scosse la testa. «Lei non è tua sorella così come io non sono la figlia di Cephelo. Non ti guarda come ti guarderebbe una sorella; i suoi occhi rivelano che lei è qualcos'altro. Comunque, per me non fa alcuna differenza. Se desideri far credere che lei sia tua sorella, non ci sono problemi. Ma fa' in modo che Cephelo non si accorga del tuo piccolo imbroglio.» Ora fu Wil a fissarla. «Aspetta un attimo» disse dopo una breve pausa. «Che cosa significa che lei non è mia sorella così come tu non sei la figlia di Cephelo? Lui ha detto che sei sua figlia, non è vero?» «Quel che dice Cephelo non è necessariamente vero, anzi, non lo è quasi mai.» Gli si avvicinò. «Cephelo non ha figli. Mi ha comprato da mio padre quando avevo cinque anni. Mio padre era povero e non poteva darmi niente. Aveva altre figlie, così non avrebbe sentito la mancanza di una. Ora io appartengo a Cephelo. Ma non sono sua figlia.» L'aveva detto con tanta naturalezza che per un attimo Wil rimase senza parole. Vedendolo così disorientato, lei rise allegramente. «Noi siamo nomadi, Wil... tu conosci le nostre usanze. Inoltre, poteva andarmi peggio. Potevo finire con un uomo di rango inferiore. Cephelo è un capo: gode di rispetto e prestigio. Come sua figlia, sono avvantaggiata. Sono molto più libera delle altre donne. E ho imparato molto, Guaritore. Potrei mettere a dura prova chiunque.» «Non vorrei che capitasse a me» riconobbe lui. «Ma perché allora mi dici tutte queste cose?» Lei increspò le labbra in un sorriso beffardo. «Perché mi piaci... per quale altro motivo?» «È quello che mi domando» fece lui seccamente. Lei si raddrizzò di scatto, con un'espressione petulante.
«Sei sposato o fidanzato con quella ragazza elfa?» Wil apparve sinceramente sorpreso. «No.» «Bene. L'avevo immaginato.» L'espressione petulante scomparve. Dopo una pausa, gli sorrise di nuovo perfidamente. «Cephelo non intende restituirti il cavallo.» Wil valutò attentamente l'informazione. «Lo sai?» «So com'è lui. Non te lo restituirà. Ti lascerà andare per la tua strada, se non gli creerai guai e se non cercherai di riprenderti il cavallo, ma non te lo restituirà mai di sua iniziativa.» Il volto del giovane era inespressivo. «Te lo chiedo di nuovo... perché mi dici tutto ciò?» «Perché posso aiutarti.» «E perché dovresti farlo?» «Perché tu, a tua volta, potresti aiutare me.» Wil si accigliò. «Come?» Eretria si mise a sedere a gambe incrociate e appoggiò le mani sulle ginocchia, dondolandosi. I suoi occhi scuri luccicavano, divertiti. «È evidente, Wil Ohmsford, che tu sei molto di più di quel che ci hai detto di essere... e non soltanto un Guaritore, che viaggia per le praterie di Callahorn con la sorella. È evidente che quella ragazza elfa ti è stata affidata, e che tu l'accompagni o, forse, addirittura devi proteggerla.» Alzò rapidamente una mano bruna. «Non cercare di negarlo, Guaritore... una tua menzogna non mi convincerebbe, poiché io sono la figlia del più grande bugiardo di questo mondo e conosco l'arte meglio di te.» Sorrise e gli mise una mano su un braccio. «Mi piaci, Wil... questo è vero. Io voglio che tu abbia di nuovo il tuo cavallo. Ovviamente, per te è importante riaverlo, altrimenti non saresti venuto con noi. Ma da solo non ce la faresti. Io, però, potrei aiutarti.» Wil la guardò, dubbioso. «E perché lo faresti?» chiese infine. «Se ti aiuto a ricuperare il tuo cavallo, allora voglio che tu mi porti con te ovunque tu vada.» «Cosa?» esclamò lui, senza riflettere. «Portami con te» ripeté lei, decisa. «Non posso!» «Certo che puoi, se vuoi riavere il tuo cavallo.» Lui scosse la testa, disorientato. «Perché vuoi andartene? Mi hai appena detto che...»
Lei lo interruppe. «Tutto quel che ti ho raccontato appartiene al passato. Cephelo ha deciso che ora devo sposarmi. Secondo la tradizione dei nomadi, sceglierà mio marito e, in cambio di una certa somma, mi consegnerà a lui. Finora la mia vita è stata bella, ma non ho intenzione di farmi vendere un'altra volta.» «Non potresti andartene per conto tuo? Sembri in grado di cavartela benissimo.» «Certo, e sono molto più in gamba di quanto tu possa immaginare, Guaritore. È per questo che tu hai bisogno di me. Se porti via il tuo cavallo - e io dubito che tu possa riuscirvi senza il mio aiuto - i nomadi ti inseguiranno. Poiché sarai inseguito in ogni caso, non ti creerà nessun ulteriore problema portare via anche me... tanto più che io conosco abbastanza i nomadi da darti tutti i consigli necessari per eluderli.» Si strinse nelle spalle. «Quanto a andarmene per conto mio, ci ho pensato. Se non avessi alternative, lo farei, piuttosto che essere venduta. Ma dove andrei? Una nomade non è ben accolta da nessuna parte e, che mi piaccia o no, io sono una nomade. Sola, sarei emarginata, e non avrei una vita piacevole. Ma se fossi con te, potrei essere accettata; tu sei un Guaritore e come tale rispettato. Potrei accompagnarti. Aiutarti a curare gli ammalati. Scopriresti che io...» «Eretria» l'interruppe lui con dolcezza. «È inutile proseguire questa discussione. Non posso portarti con me. Devo occuparmi soltanto di Amberle.» Lei si rabbuiò. «Pensaci bene prima di respingermi, Guaritore.» «Non è che io ti respinga» rispose Wil, cercando allo stesso tempo di decidere quanto potesse confidarle. Non molto, capì rapidamente. «Ascolta. Correresti dei rischi viaggiando con me, ora. Quando me ne andrò, Cephelo non sarà il solo a inseguirmi. Ci sono degli altri che mi danno la caccia, assai più pericolosi di lui. Se ti portassi con me, correresti un grave pericolo. Non posso permetterlo.» «La ragazza elfa viaggia con te» insistette lei. «Amberle viaggia con me perché vi è costretta.» «Sciocchezze. Non ti credo. Tu mi porterai con te, Wil Ohmsford. Tu mi porterai con te perché non hai scelta.» Lui scosse la testa. «Non posso.» Lei si alzò bruscamente, il viso bellissimo incollerito. «Cambierai idea, Guaritore. Verrà il momento in cui non avrai scelta.»
Si voltò e si allontanò a grandi passi. A qualche metro da lui, improvvisamente si fermò e si girò di nuovo, gli occhi scuri fissi nei suoi. Dal volto immerso nell'ombra balenò quel sorriso meraviglioso, abbagliante. «Io sono per te, Wil Ohmsford» gridò. Lo guardò ancora un poco, poi si voltò e ritornò verso la carovana. Il giovane rimase a osservarla, stupito. 16 La cena fu servita e consumata, e poco dopo il ruggito profondo, tuonante irruppe fra i suoni placidi della notte, immobilizzandoli per il terrore. Venne dall'estremità meridionale del lago su cui erano accampati i nomadi: una, due volte, poi scomparve. Tutte le teste si voltarono contemporaneamente, con un'espressione impaurita e d'attesa. Qualche minuto dopo risuonò di nuovo, rombando come il ruggito intimidatorio di un toro mostruoso che lancia un richiamo di sfida. I nomadi si precipitarono a prendere le armi, corsero verso il perimetro del cerchio dei carrozzoni e scrutarono l'oscurità. Ma il ruggito si spense, e questa volta non si ripeté. Cephelo e oltre una dozzina di uomini rimasero all'erta per un po'. Poiché non successe niente, egli ordinò in tono burbero che tutti tornassero davanti al fuoco, a bere il vino della sera. Raccontando a alta voce battute sui diavoli e sulle cose in agguato nella notte, si vantò che nessuna di esse avrebbe osato entrare in un accampamento nomade senza prima chiedere il suo permesso. Si riempirono coppe di vino e le si fecero passare intorno, e tutti bevvero con entusiasmo. Eppure gli sguardi tornavano spesso in direzione del ruggito. Mezz'ora dopo ritornò, più vicino ora, improvviso e cupo nella notte. I nomadi spaventati saltarono in piedi, afferrando di nuovo le armi e correndo verso il perimetro dell'accampamento. Wil andò con loro questa volta, seguito da Amberle, e si mise nello spazio fra due carrozzoni, guardandosi attorno con cautela. Non c'era niente. Tutto era immobile. Esitando, Cephelo si spinse fin sotto le querce che circondavano la piccola radura, stringendo energicamente con entrambe le mani l'impugnatura di una pesante spada. Rimase lì fermo per un po', l'alta figura che si stagliava contro gli alberi, pronto a difendersi. Ma c'era soltanto il silenzio. Infine si voltò e tornò dentro il cerchio dei carrozzoni, con uno sguardo fisso. Questa volta non fece battute. I cavalli, che erano legati in fila lungo una piccola insenatura del lago, furono portati più vicino alla carovana in modo da poter
essere sorvegliati meglio. Guardie furono messe lungo tutto il perimetro della radura, con l'ordine di tenere gli occhi ben aperti. Tutti gli altri rimasero entro il cerchio dei carrozzoni, accanto alla luce rassicurante dei falò. Coppe colme di vino furono di nuovo passate intorno, anche se questa volta furono in pochi a bere. Ripresero a conversare, ma a bassa voce, con circospezione, e la parola "diavolo" ricorreva spesso. Gli uomini si tenevano vicini i bambini e le donne, e tutti apparivano tesi, preoccupati. Wil fece allontanare Amberle dal gruppo. «Voglio che tu mi stia vicino» mormorò, chinando la testa verso di lei. «Non lasciarmi per nessuna ragione.» «D'accordo» promise lei. Il suo sguardo era intenso mentre lo guardava, poi cambiò rapidamente direzione. «Pensi...?» Cephelo l'interruppe, ordinando improvvisamente che si facesse della musica, battendo le mani e incoraggiando gli altri a imitarlo. Wil e Amberle ubbidirono. Qualche debole acclamazione salutò Cephelo mentre si muoveva intorno al fuoco. Wil si guardò intorno, innervosito. «Se c'è qualcosa là fuori, e se quel qualcosa attacca questo accampamento, io e te ce ne andiamo. Cercheremo di raggiungere Artaq, poi scapperemo. Sei disposta a correre il rischio?» Lei annuì. «Certo.» I cimbali mandavano il loro richiamo argentino, e gli strumenti a corda vibravano sommessi. I nomadi cominciarono a battere le mani, con un ritmo costante, fiducioso. Poi, echeggiando dal buio, il ruggito esplose quasi sopra di loro, improvviso e spaventoso, cupo e orrendo. Si sentirono le guardie urlare terrorizzate: «Il diavolo! Il diavolo!». Quelli che erano rimasti intorno al fuoco si sparpagliarono, gli uomini per correre a prendere le armi, le donne e i bambini fuggendo da tutte le parti, alla cieca. Un urlo si levò sopra il clamore, alto e breve, tacendo quasi immediatamente. Oltre il cerchio dei carrozzoni, qualcosa di enorme e scuro si muoveva nella notte. «È un demone!» sussurrò Wil quasi senza pensare. Un istante dopo, il mostro apparve nello spazio fra due carrozzoni, spostando le due case mobili come se fossero state di carta. Era indubbiamente un demone... ma assai più grosso di tutti quelli che Wil e Amberle avevano incontrato nella fuga di Havenstead. Si ergeva sulle zampe posteriori, alto quasi quattro metri. il corpo massiccio curvo e pesante, ricoperto di una pelle a chiazze marrone e grigie che pendeva dall'ossatura in grosse pieghe. Una cresta di scaglie gli scendeva dal collo lungo la schiena e giù
su ciascuna zampa. Il muso era vuoto, scarnificato; una massa di denti sporgevano dalle fauci spalancate nell'emettere quel ruggito profondo, rombante. Dalle zampe artigliate penzolava il corpo spezzato di uno dei nomadi di guardia. Gettò via il cadavere e avanzò. Cephelo e una dozzina d'altri si fecero avanti con picche e spade. Qualche fendente penetrò la pelle spessa, ma per lo più la bestia riuscì a deviarli. Era lenta e pesante, ma incredibilmente forte. Si trascinò attraverso la barriera di difensori, disperdendola senza sforzo. Cephelo si buttò davanti al mostro, per affondargli la spada nelle fauci spalancate. Senza quasi rallentare il passo, quello ridusse la spada in schegge, e protese le zampe artigliate verso il capo dei nomadi. Cephelo riuscì a schivarle, ma un altro cadde, inciampando nei propri piedi per la fretta di scappare. La zampa del demone si abbatté come una roccia sull'uomo che si divincolava. Wil stava già portando Amberle verso all'avamposto dell'accampamento, deciso a raggiungere i cavalli, quando vide crollare anche il capo dei nomadi. I difensori stavano cercando di gettare una corda intorno alle zampe del demone quando quello assestò a Cephelo un colpo di striscio, che lo fece cadere a testa in giù. Esitando nello spazio fra due carrozzoni, Wil vide dei nomadi correre in aiuto di Cephelo; due afferrarono il corpo esanime e lo portarono in salvo, mentre gli altri facevano finte col mostro, stuzzicandolo per attirare la sua attenzione. Il demone si voltò, mentre picche e spade si abbattevano sul suo corpo, e si avventò sul carrozzone più vicino. Lo afferrò e, con una sola mossa, lo rovesciò. Il carro cadde di schianto, spaccandosi in due, e ornamenti metallici e rotoli di seta si sparpagliarono dappertutto alla luce del falò. Urlando furibondi, i difensori ripresero il loro attacco disperato. Amberle tirava con insistenza Wil per il braccio, ma il giovane esitava. Non poteva credere che qualcosa di così grosso e lento fosse riuscito a inseguirli per tutto il cammino da Havenstead. No, quel mostro era fuggito attraverso la barriera del Divieto per conto proprio, vagando per il Tirfing, e per caso si era imbattuto nella carovana. Era venuto solo, alla cieca, stupidamente... ma possedeva una tale forza distruttrice che i nomadi non potevano sconfiggerlo. Nonostante i loro sforzi per allontanarlo o bloccarlo, il demone avrebbe sicuramente distrutto l'intera carovana. Ma i nomadi non sarebbero fuggiti. I carrozzoni variopinti, quelle ingombranti case mobili... lì dentro era racchiuso tutto quel che possedevano. No, non sarebbero fuggiti. Avrebbero combattuto, e così sarebbero
morti. Il demone apparteneva a un'altra era; il suo potere era superiore a quello della carne, del sangue, delle ossa. Occorreva un potere pari al suo per fermarlo e soltanto lui, Wil, lo possedeva. Ma questa lotta non lo riguardava. Quella gente gli aveva rubato il cavallo; non gli doveva niente. La sua prima e unica responsabilità era verso Amberle. Doveva portarla via subito. Eppure, se così avesse fatto, che ne sarebbe stato dei nomadi... non solo degli uomini, ma delle donne e dei bambini? Gli avevano forse fatto del male? Senza il suo aiuto, non avevano nessuna possibilità di sfuggire al demone. Le sue perplessità aumentarono ulteriormente quando ricordò quel che gli aveva raccontato una volta suo nonno: quando aveva usato le Pietre Magiche fuggendo dal Signore degli Inganni, aveva inavvertitamente rivelato al nemico dove si trovava. Lo stesso poteva accadere ora. Alcuni di questi demoni erano in grado di usare la magia; glielo aveva detto Allanon. Se avesse usato le Pietre Magiche, forse se li sarebbe tirati addosso. Lanciò una rapida occhiata a Amberle. Anche lei lo guardò, capì immediatamente cosa intendeva fare e, senza una parola, lasciò il suo braccio. Wil si levò lo stivale destro e prese il sacchetto di cuoio. Doveva almeno tentare, si disse. Non poteva lasciare morire quella gente. Aprì il sacchetto e lasciò cadere le tre Pietre azzurre nella palma aperta. Chiudendole nel pugno, fece per tornare nell'accampamento. «Resta qua» disse alla ragazza elfa. «No, aspetta...» gli gridò dietro lei, ma lui correva già. Il demone si era allontanato dai carrozzoni e muoveva contro i nomadi, avanzando verso il centro dell'accampamento. Cephelo era di nuovo in piedi; traballando si appoggiò a un carro, lanciando urla di incoraggiamento ai difensori. Wil coprì la distanza fra sé e i combattenti finché soltanto una ventina di metri li separarono. Alzando il pugno sopra la testa, invocò il potere delle Pietre Magiche. Non accadde nulla. Sentì una morsa gelida allo stomaco. La cosa che aveva temuto più di tutte era successa... non aveva in mano il potere delle Pietre Magiche. Allanon si era sbagliato. Soltanto suo nonno poteva invocarlo, non lui. Non gli rispondevano. Non gli avrebbero ubbidito. Ma dovevano farlo! Tentò di nuovo, concentrandosi sul contatto delle Pietre con la sua mano, invocando la magia che si nascondeva in loro. Ancora niente. Eppure questa volta avvertì qualcosa che non aveva sentito
prima: una barriera indefinibile che bloccava i suoi sforzi, una barriera interiore. Gli urli dei nomadi interruppero i suoi pensieri, e egli vide che il demone avanzava proprio verso di lui. Ora i difensori erano dietro il mostro, e lo colpivano con le armi alle zampe e ai fianchi, cercando di allontanarlo dal giovane. Una zampa enorme si alzò e buttò a terra due uomini facendo fuggire tutti gli altri. Il ruggito orrendo rombò dalle sue fauci. Cephelo cominciò a zoppicare freneticamente verso il luogo della battaglia, appoggiandosi a una picca rotta, gli indumenti a brandelli ricoperti di polvere e sangue. Per un istante, mentre si sforzava di liberare il potere racchiuso nelle Pietre Magiche, Wil vide tutti immobili come in un quadro. Non gli venne in mente di fuggire: rimase nel centro dell'accampamento - una figura solitaria col braccio alzato verso il cielo notturno. Poi, come dal nulla apparve Eretria, schizzando avanti, la sua figura snella una veloce ombra in movimento che balzò fra il demone e il giovane, gettando un tizzone contro il muso del mostro. Questi afferrò il legno nelle fauci. frantumandolo meccanicamente - ma rallentando, come se fosse infastidito dal fuoco e dal fumo. Approfittando di quella momentanea esitazione, Eretria prese Wil per un braccio e cominciò a spingerlo indietro, finché entrambi persero l'equilibrio, inciamparono e caddero. I nomadi si radunarono immediatamente afferrarono tizzoni ardenti dal falò e li gettarono contro il demone nel tentativo di confonderlo. Ma il mostro aveva già ripreso a avanzare. Wil balzò in piedi frettolosamente, facendo alzare anche Eretria. Nello stesso istante Amberle arrivò al suo fianco, brandendo con decisione una lunga picca con le sue piccole mani, pronta a difenderli tutti. In silenzio il giovane l'afferrò per un braccio, spinse indietro le due donne, e si voltò per affrontare il demone che avanzava. Il mostro era quasi sopra di loro. Wil Ohmsford alzò verso di lui il pugno che stringeva le Pietre Magiche. Ogni traccia di esitazione e confusione era scomparsa. Concentrandosi, frantumò la barriera che si ergeva fra lui e il potere delle Pietre, la frantumò con la forza di volontà nata dalla disperazione e dalla necessità senza capire cosa gli stesse accadendo. Così facendo, avvertì dentro di sé un cambiamento inesplicabile che non gli parve del tutto positivo. Ma non ebbe tempo per riflettere. Affondando nel cuore delle Pietre Magiche, le portò finalmente alla vita. Un'intensa luce azzurra balenò dal suo pugno, si raccolse, e poi esplose colpendo il demone. Il mostro ruggì quando il potere delle Pietre lo investì, bruciandolo. Eppure continuava a avanzare, gli artigli protesi. Wil rimase immobile. Si
calò più a fondo nelle Pietre, sentendo accrescere il loro potere. Immersa in quel bagliore azzurro, ogni cosa intorno a lui divenne irreale. Di nuovo le Pietre Magiche si lanciarono contro il demone. Questa volta il mostro non poté resistere alla magia elfa. Completamente avvolta dalle fiamme, la sua mole mostruosa divenne una colonna di luce accecante. Per un istante bruciò di un blu profondo nella notte, poi esplose in cenere e si dissolse. Lentamente, Wil Ohmsford abbassò il braccio. Dove prima era il demone non restavano che terra carbonizzata e un filo di fumo nero che si alzava nella notte. Su tutti i boschi circostanti era calato un silenzio di morte, interrotto soltanto dal crepitio del falò. Il giovane si guardò intorno, perplesso. I nomadi erano immobili; gli uomini brandivano ancora le armi, le donne e i bambini erano ancora stretti a vicenda - tutti con un'espressione di incredulità e paura negli occhi. Per un attimo Wil fu assalito dal panico. Si sarebbero scatenati contro di lui, sapendo che li aveva ingannati? Guardò rapidamente Amberle, ma anche lei se ne stava immobile, i suoi occhi di un verde profondo colmi di stupore. Poi Cephelo si fece avanti, zoppicando, buttando via la picca rotta mentre si avvicinava al giovane, la scura faccia barbuta sporca di sangue e fuliggine. «Chi sei tu?» domandò a bassa voce. «Dimmi chi sei.» Il giovane esitò. «Io sono quello che ho detto di essere» rispose infine. «No.» Cephelo scosse la testa. «No, certo tu non sei soltanto un Guaritore. Sei qualcosa di più.» La sua voce era dura, perentoria. «Non mi ero sbagliato, dunque?» Wil non sapeva cosa rispondere. «Dimmi chi sei» ripeté Cephelo, con voce bassa e minacciosa. «Te l'ho già detto.» «Tu non mi hai detto niente!» Il capo dei nomadi avvampò per la collera. «Io sono convinto che tu sapessi di questo diavolo, e che sia venuto qui per te. Io credo che tutto ciò sia accaduto per causa tua!» Wil scosse la testa. «Quel mostro è arrivato qua per caso, e sempre per caso io mi sono trovato qui nello stesso momento.» «Guaritore, tu stai mentendo!» Wil perse la pazienza. «Tu hai mentito, Cephelo. Sei stato tu a impostare il gioco... A stabilire le regole.» L'uomo fece un passo avanti. «Forse ci sono regole che non conosci ancora.»
«Non credo» rispose deciso il giovane. Sollevò un poco il pugno che racchiudeva le Pietre Magiche. Il gesto non sfuggì a Cephelo, che indietreggiò lentamente. Il sorriso che seguì era penosamente sforzato. «Hai detto che non portavi con te niente di prezioso, Guaritore. Ti sei dimenticato di quelle?» Wil scosse la testa. «Le pietre non hanno valore per nessuno tranne che per me. A te non servirebbero.» «Ma guarda!» Il nomade non si preoccupò di nascondere il suo sarcasmo. «Sei un mago, allora? Oppure un diavolo? Perché non mi dici chi sei?» Wil esitava. Così non concludeva nulla. Doveva porre fine a quella conversazione. Amberle si mise al suo fianco, e gli sfiorò un braccio con la piccola mano. La sua presenza lo rassicurò. «Cephelo, tu mi devi restituire il mio cavallo» ribatté calmo. La faccia del nomade avvampò di nuovo per la collera. «Amberle e io dobbiamo andarcene subito. Ci sono altri diavoli oltre a quello che io ho distrutto... è tutto quello che posso dirti. Essi inseguono me e la ragazza elfa. Poiché ho usato le Pietre, ora sapranno dove trovarmi. Dobbiamo andarcene, e anche tu devi partire subito.» Cephelo lo fissò in silenzio per diversi lunghi istanti, ovviamente tutto concentrato nel tentativo di capire se gli era stata detta la verità. Alla fine, la prudenza ebbe la meglio. Annuì bruscamente. «Prendi il tuo cavallo e vattene. Non voglio più rivedervi, nessuno dei due.» Si voltò e si allontanò, gridando alla sua gente di prepararsi a partire. Evidentemente anche lui desiderava andarsene dal Tirfing. Wil rimase a osservarlo un istante, poi lasciò cadere le Pietre Magiche nel sacchetto di cuoio che infilò di nuovo nella tunica. Prese Amberle per la mano e cominciò a dirigersi verso i cavalli. Poi ricordò Eretria. La cercò e la trovò nell'ombra dei carrozzoni, gli occhi scuri che l'osservavano. «Addio, Wil Ohmsford» mormorò. Lui ebbe un debole sorriso. La ragazza aveva capito di aver perso ogni possibilità di andarsene via con lui. Per un istante Wil esitò. Lei gli aveva salvato la vita; le doveva qualcosa in cambio. Che cosa c'era di male a aiutarla? Eppure sapeva che non era possibile. Doveva occuparsi soltanto di Amberle. Non poteva distrarsi dal suo compito, nem-
meno per questa ragazza nomade che trovava tanto incantevole. Avrebbe pagato il suo debito un'altra volta. «Addio, Eretria» rispose. Un'ombra di quel sorriso abbagliante apparve sul suo volto. «Ci incontreremo ancora» gridò lei, poi rapidamente si voltò e si dileguò. Cinque minuti dopo, Wil e Amberle, in groppa a Artaq, uscivano dall'accampamento nomade, diretti a nord. Subito scomparvero nella notte. 17 Mancava poco più di un'ora all'alba, quando raggiunsero la riva meridionale del Mermidon, diverse miglia a valle dal punto in cui il fiume emergeva dalle foreste dell'Ovest nella regione di Callahorn. Avevano cavalcato per quasi tutta la notte, mantenendo un'andatura costante mentre viaggiavano verso nord attraverso le praterie aperte, più facili da percorrere, cercando di allontanarsi il più possibile dal Tirfing. Dopo essersi concessi una breve sosta per bere e per dare sollievo ai muscoli rattrappiti, erano rimontati a cavallo e avevano proseguito. Quando raggiunsero la sponda del fiume, Artaq e i due giovani erano quasi sfiniti. Wil non riusciva a individuare nessun guado facilmente accessibile, essendo il Mermidon, per quanto potessero guardare in entrambe le direzioni, ampio e profondo e presto capirono che avrebbero dovuto attraversare il fiume a nuoto oppure seguirlo lungo la riva fino a trovare un guado. Non volendo fare né una cosa né l'altra finché era ancora buio, Wil decise che gli conveniva riposare fino all'alba. Dopo aver portato Artaq in un boschetto di pioppi, tolse la sella al grande stallone nero e lo legò a un albero, poi distese in terra delle coperte per sé e Amberle. Al riparo degli alberi, si addormentarono presto tutti e tre. Era quasi mezzogiorno quando Wil si svegliò, col calore estivo che filtrava attraverso i rami dei pioppi da un cielo ancora una volta limpido e luminoso. Il giovane toccò leggermente Amberle, e lei si svegliò. Si alzarono, si lavarono, consumarono un breve pasto e ripresero il viaggio verso Arborlon. Cavalcarono risalendo il fiume per diverse miglia, fin quasi ai margini delle foreste dell'Ovest, ma non trovarono nessun guado sicuro. Anziché sprecare altro tempo ritornando a valle, decisero di arrischiarsi a attraversare il fiume a nuoto. Dopo aver assicurato le loro poche cose intorno al
collo di Artaq, si legarono alla sua sella con un pezzo di corda e si tuffarono. L'acqua era fredda, e lo choc dell'improvvisa immersione li intirizzì. Si dibatterono freneticamente per alcuni minuti, lottando contro il freddo e la forza della corrente, poi cominciarono a muovere regolarmente le gambe, tenendosi stretti alle corde di sicurezza. Artaq nuotava con vigore. Anche se il fiume li trascinò a valle per quasi mezzo miglio, raggiunsero la riva opposta illesi. Di lì viaggiarono verso nord a un'andatura tranquilla, camminando spesso per far riposare Artaq. Wil riteneva che si fossero allontanati abbastanza dal Tirfing da evitare un inseguimento immediato, e non vedeva il motivo di stancare ulteriormente lo stallone nero. La corsa della notte precedente aveva estenuato il valoroso cavallo, che aveva bisogno di una pausa per riacquistare le forze. Se non gliel'avessero data ora, non avrebbe potuto galoppare quando se ne fosse reso necessario - un'eventualità che poteva presentarsi prima che arrivassero a Arborlon. Inoltre, anche a quell'andatura, avrebbero raggiunto la Valle di Rhenn il mattino dopo. Abbastanza presto, ragionò Wil fra sé. Fino allora sarebbero stati al sicuro. Forse Amberle aveva un'opinione diversa al riguardo, ma se la teneva per sé. Lontano dai nomadi, il suo umore era notevolmente migliorato. Riprese a canticchiare mentre camminavano, fermandosi spesso per osservare piccoli fiori e piante, frammenti di vita minuscola che sarebbero passati inosservati a Wil nel vasto tappeto delle praterie. Non aveva gran che da dire al giovane, benché rispondesse volentieri quando lui le parlava e sorridesse pazientemente quando le poneva domande sulla vita vegetale che lei amava e conosceva bene. Ma, per lo più, manteneva verso di lui un atteggiamento riservato e distante, rifiutandosi di lasciarsi coinvolgere in una conversazione, chiusa in quel mondo privato che si era creata da quando avevano cominciato il viaggio verso il nord, allontanandosi dalle sponde del Lago Arcobaleno. Man mano che le ore passavano, Wil si ritrovò a pensare a Eretria, a chiedersi se avrebbe lasciato Cephelo e la carovana come aveva minacciato di fare e se l'avrebbe mai rivista un giorno. Quella ragazza emanava un eccitamento che l'affascinava. Gli ricordava una breve visione evocata dalle sirene che abitavano nelle pianure del Tumulo: con la loro malia ipnotica, creavano nella mente pensieri selvaggi, stupendi. Sorrise a quel paragone. Era stupido, certo. Lei non era una visione, era di carne e sangue. Eppure, se avesse potuto sondarla, non avrebbe forse scoperto che anche Eretria, come le Sirene, era un'illusione? C'era qualcosa in lei che glielo
faceva sospettare, e questo lo turbava non poco. Non aveva dimenticato come aveva rischiato la vita per salvarlo; non gli sarebbe piaciuto scoprire che anche quell'atto era stato illusorio. Quando cadde la notte, deviarono verso ovest, seguendo i margini della foresta che si estendeva a nord verso l'ampia plaga delle Streleheim. Mentre il buio calava su di loro, Wil portò Artaq nei boschi, seguendo per un bel tratto un fiumicello fino al punto in cui formava una pozza sotto una rapida, che offrì loro della buona acqua potabile. Lì si accamparono, sistemando Artaq in una piccola radura dall'erba folta, nutrendo e dissetando lui prima di pensare a se stessi. Il fuoco avrebbe attirato l'attenzione sulla loro presenza, così si accontentarono di verdure e frutti raccolti da Amberle. Anche se gli erano poco familiari, Wil li mangiò volentieri. Intuiva che, dopo un certo tempo, si sarebbe persino abituato a quella strana alimentazione. Aveva appena finito l'ultimo degli strani frutti oblunghi color arancione quando la giovane Elfa si voltò improvvisamente verso di lui, con un'espressione interrogativa. «Ti dispiace se ti chiedo qualcosa?» Lui sorrise. «Come posso saperlo, se non so di cosa si tratta?» «Be', puoi anche fare a meno di rispondermi se non te la senti... Ma è un pensiero che mi turba da quando abbiamo lasciato l'accampamento dei nomadi.» «In tal caso, chiedi pure.» La piccola radura in cui si trovavano era immersa nell'oscurità la luce pallida della luna e delle stelle nascosta dal groviglio di rami sopra di loro; lei gli si avvicinò per poterlo vedere meglio in faccia. «Sarai sincero con me?» Lo fissava negli occhi. «Certo.» «Quando hai usato le Pietre Magiche, ti sei...?» Esitò, come se non sapesse quale parola scegliere. «Ti sei... fatto male?» Lui rimase a fissarla, mentre un'improvvisa premonizione gli balenava alla mente, anche se ancora indefinita. «E una strana domanda.» «Lo so.» Lei annuì, e un debole sorriso le sfuggì prima che il suo volto ritornasse serio. «Non so come spiegarti... è stata una sensazione che ho avuto mentre ti guardavo. Dapprima, sembrava che tu non potessi controllare le Pietre Magiche. Le stringevi nel pugno, e non succedeva nulla, anche se era evidente che stavi cercando di usare il loro potere per arrestare il demone. Poi, quando finalmente hanno preso vita, c'è stato un cambia-
mento in te... un cambiamento che il tuo volto ha rivelato... quasi come una sofferenza.» Il giovane annuiva lentamente. Ricordava, ora, e non era piacevole. Dopo che era successo, l'aveva rimosso dalla sua mente... l'aveva cacciato senza pensare, quasi involontariamente. Anche ora, non sapeva perché. Soltanto in quel momento, quando lei l'aveva evocata, aveva ricordato la sensazione. Wil osservò la ragazza elfa, visibilmente preoccupata. «Se non desideri...» gli disse in fretta. «No.» La sua voce era ferma, tranquilla. Scosse lentamente la testa. «No. Nemmeno io riesco a capire... ma credo che mi farebbe bene parlarne.» Inspirò a fondo, scegliendo con cura le parole. «C'era un blocco in me. Non so cosa fosse o da cosa fosse causato, ma c'era e non mi permetteva di usare le Pietre. Era come se non potessi né aggirarlo né attraversarlo.» Scosse di nuovo la testa. «Poi il demone mi venne quasi addosso, e tu e Eretria eravate al mio fianco, e saremmo morti tutti, e in qualche modo ho fatto a pezzi quel blocco... l'ho fatto a pezzi e mi sono calato nelle Pietre...» Fece una pausa. «Non era una sofferenza, ma la sensazione che qualcosa di spiacevole accadesse dentro di me, qualcosa... Non so come descriverlo. La sensazione di aver fatto qualcosa di male... eppure non c'era nulla di male in quello che ho fatto.» «Forse, il male l'hai fatto a te stesso» mormorò lei, dopo un attimo di riflessione. «Forse, in qualche modo, la magia elfa ti nuoce.» «Può darsi» ammise lui. «Ma mio nonno non mi ha mai accennato a questo problema. Può essere che non fosse dannosa per lui, mentre lo è per me? Perché per me dovrebbe essere diverso?» Lei scosse la testa, perplessa. «La magia elfa provoca reazioni diverse a seconda delle persone. È sempre stato così. È una magia nata dallo spirito, e lo spirito non è mai lo stesso.» «Ma mio nonno e io ci somigliamo tanto... Ancor più di quanto ci somigliassimo io e mio padre.» Wil rifletteva. «Spiriti affini, si potrebbe dire; perciò non capisco come io abbia avuto questa reazione quando ho usato le Pietre. Me l'avrebbe certo detto, se anche lui l'avesse provata.» Amberle gli strinse con decisione il braccio. «Io penso che tu non dovresti mai più usare le Pietre Magiche.» Lui sorrise. «Nemmeno per proteggerti?»
Lo disse in tono scherzoso, ma lei rimase seria. Per Amberle non c'era niente di buffo in tutto ciò. «Io non voglio arrecarti nessun danno, Guaritore» dichiarò in tono fermo e tranquillo. «Non è stato per mia scelta che hai dovuto intraprendere questo viaggio, e mi dispiace veramente che tu abbia dovuto farlo. Ma poiché sei qui, ti dirò quello che penso. Non si può giocare con la magia elfa; può rivelarsi più pericolosa del male per sconfiggere il quale è stata creata. Le nostre storie, se non altro, ci hanno lasciato questo avvertimento. La magia può agire non solo contro il corpo, ma anche contro lo spirito. Le ferite del corpo si possono curare. Ma le ferite dello spirito? Come le curerai, Guaritore?» Si chinò avvicinandosi a lui. «Nessuno vale tanto da correre un simile rischio... nessuno. E tanto meno io.» Wil la guardò in silenzio per un attimo, stupito di vederle gli occhi lucidi di lacrime. Le prese una mano. «Saremo prudenti tutti e due» promise. Abbozzò un breve sorriso. «Forse non avremo più bisogno delle Pietre.» Lei lo guardò come se non credesse una sola parola di quel che lui aveva detto. Era mezzanotte quando l'ululato dei demoni-lupi si levò nella pace della prateria, stridulo, affamato e vibrante di odio. Wil e Amberle si svegliarono immediatamente dalla placidità del sonno, torturati dalla paura. Per un istante non si mossero seduti sulle coperte, gli occhi spalancati mentre si cercavano nel buio. L'ululato si spense echeggiando nel silenzio che seguì, poi si alzò di nuovo, stridulo e penetrante. Questa volta i due giovani non esitarono più. Senza una parola, balzarono in piedi, si infilarono gli stivali e si gettarono i mantelli sulle spalle. Nel giro di pochi secondi avevano sellato e montato Artaq, diretti nuovamente verso nord. Avanzavano a un trotto serrato nelle pianure aperte dove il cammino era agevole, illuminato dalla luna e dalle stelle, seguendo i margini della foresta. Mentre cavalcavano erano investiti dall'aria fredda della notte impregnata di umidità che si andava condensando nella rugiada del mattino, impregnata dai profumi della notte. Dietro di loro, l'ululato continuava, ma lontano sopra il nastro del Mermidon. I demoni-lupi stavano cercandoli. La pista che seguivano era vecchia di un giorno: non sapevano ancora quanto fossero vicini alla loro preda.
Artaq correva agevolmente, il grande corpo proteso senza sforzo mentre correva attraverso la prateria, come un ombra che scivolava nella notte d'estate. Poiché aveva potuto riposarsi, non si sarebbe stancato facilmente. Wil lo controllava con cura, tenendo un'andatura costante, badando a che lo stallone nero non si impegnasse troppo. Era ancora presto: la caccia era appena cominciata. I loro inseguitori avrebbero presto scoperto la verità. Wil era in collera con se stesso: non aveva creduto che potessero trovarli così rapidamente. Le Pietre Magiche dovevano aver rivelato la loro presenza nel Tirfing. I demoni-lupi si erano precipitati al loro inseguimento, li avevano rintracciati al nord e ora si stavano avvicinando alle foreste dell'Ovest. Una volta trovati i resti del loro accampamento, li avrebbero braccati per vendicarsi e non gli avrebbero dato tregua finché non li avessero presi. Continuarono a cavalcare per oltre un'ora senza vedere la valle, inseguiti da quell'ululato. A questo, ora, rispondevano grida che si alzavano dalle praterie sotto i Denti del Drago e dalle pianure a nord. Wil si sentì mancare. I lupi li avevano accerchiati. Soltanto la via verso l'Ovest restava loro aperta. All'improvviso dubitò anche di questa possibilità. Ricordò quel che era successo al Fiume Argento. Forse anche la Valle di Rhenn era una trappola. Forse i demoni stavano facendo in modo che si dirigessero verso la valle, dove intendevano finirli. E tuttavia quale alternativa restava loro se non correre il rischio? Qualche minuto dopo, gli ululati dietro di loro divennero frenetici. I demoni-lupi avevano trovato il loro accampamento. Wil lanciò Artaq al galoppo. Ora i demoni sarebbero presto arrivati, certi che la loro preda era nelle vicinanze, a portata di mano. A nord e a est risuonarono dei gridi in risposta agli ululati dietro di loro, che si fecero striduli e affannosi quando gli inseguitori cominciarono a correre. Artaq sudava, la testa tutta protesa in avanti, le orecchie piegate indietro. Alle praterie subentrò la boscaglia: erano arrivati nelle Streleheim. La Valle di Rhenn non doveva essere lontana. Wil si chinò ancora di più sul collo di Artaq, spronando il valoroso cavallo. Durante la terza ora di fuga - le praterie di Callahorn erano ormai lontane e la terra sotto di loro era diventata aspra e arida, gli ululati dei demonilupi si erano talmente avvicinati da far temere che le enormi sagome grigie sarebbero balzate dietro di loro da un momento all'altro; il vento e la polvere li avevano accecati e i loro corpi sotto i mantelli aggrovigliati erano inzuppati di sudore per la paura - i due giovani videro finalmente le rupi
frastagliate che segnavano l'accesso alla Valle di Rhenn. Si alzavano dalle pianure sotto le foreste elfe - roccia e cespugli neri contro il cielo notturno. Puntarono verso il passo senza rallentare. Artaq ansimava, con le narici dilatate, il liscio corpo nero coperto di sudore e schiuma. Si protese ancor più nella corsa attraverso l'oscurità, i due giovani aggrappati disperatamente a lui, chini sul suo dorso. Pochi secondi dopo, il passo era davanti a loro: rupi frastagliate che incombevano su ciascun lato. Lo stallone nero schizzò come un fulmine nello stretto varco. Wil si guardava freneticamente attorno, con gli occhi pieni di lacrime per il vento che lo schiaffeggiava, temendo di trovare i demoni in agguato. Con suo stupore non ne vide. Erano soli nella valle. Per un attimo fu preso dall'euforia. Ce l'avrebbero fatta! I loro inseguitori erano troppo lontani per catturarli prima che loro si mettessero in salvo nelle foreste dell'Ovest, nella terra degli Elfi. Allora avrebbero ricevuto aiuti... Il pensiero rimase sospeso a metà nella sua mente, tornando e ritornando su se stesso in sintonia con la cadenza degli zoccoli di Artaq, mentre lo stallone nero percorreva veloce il fondovalle. Poi Wil si sentì raggelare. Perché si illudeva? Nessuno li avrebbe aiutati. Nessuno nemmeno sapeva che stavano arrivando... nessuno tranne Allanon, e il Druido era scomparso. Aiuto? Quale aiuto poteva aspettarsi? I demoni si erano già spinti nel cuore della città di Arborlon per distruggere gli Eletti. Che cosa poteva impedire loro di inseguire un giovane incredibilmente stupido e un'inerme ragazza elfa attraverso foreste distanti da qualsiasi città? Raggiungendo la Valle di Rhenn, aveva semplicemente allontanato Artaq dalla prateria aperta, dove poteva galoppare, per portarlo fra i boschi, dove non avrebbe potuto correre. Lì non c'era nulla che impedisse ai lupi di raggiungerli: erano creature più rapide e agili di loro, più abili nel penetrare attraverso il labirinto di alberi e boscaglia, più abili nella caccia di quanto fossero loro nella fuga. Avrebbe voluto urlare i suoi sentimenti. Stupido! Con la sua sventatezza aveva allontanato la loro unica possibilità di salvezza. Era tanto preoccupato per i mostri che li inseguivano da dimenticare i pericoli in cui poteva incorrere. Non ce l'avrebbero fatta. Li avrebbero presi e uccisi. Per colpa sua. Doveva fare qualcosa. La sua mente lavorava freneticamente, disperatamente. Non gli restava che un'arma. Le Pietre Magiche.
Poi Amberle urlò. Il giovane si voltò di scatto, seguendo il braccio rigido della ragazza che puntava verso il cielo. Attraverso il passo era volata una mostruosa creatura nera con ali di pipistrello ampie quanto le rupi e una testa curva a uncino come un arto contorto. Stridendo, aveva sorvolato le Streleheim, aveva raggiunto la valle e ora puntava verso di loro. Wil non aveva mai visto niente di così mostruoso. Urlò freneticamente a Artaq, ma il cavallo era ormai sfinito... correva solo per forza di volontà. A un centinaio di metri si profilava l'uscita del passo. Al di là c'erano boschi che li avrebbero nascosti da quell'incubo, boschi in cui una creatura di quella mole non poteva addentrarsi. Bastavano solo pochi secondi ancora. Il mostro cominciò a abbassarsi su di loro. Sembrava cadere come un masso, emergendo dalla notte. Wil Ohmsford lo vide arrivare e per un attimo scorse anche il suo cavaliere, un essere vagamente umano, gobbo e deforme, gli occhi rossi nel nero della faccia. Quello sguardo sembrò trafiggerlo, e Wil si sentì venir meno. Per un attimo pensò che erano finiti. Ma poi, con un balzo finale, Artaq raggiunse la gola, allontanandosi dalle rupi, e si tuffò nell'oscurità degli alberi. Il cavallo correva come un lampo per una stretta pista di terra battuta, cosparsa di buche, senza rallentare mentre si destreggiava nel groviglio di tronchi e cespugli. Wil e Amberle si aggrappavano disperatamente a lui; rami e rampicanti si protendevano verso di loro da tutte le parti, minacciando di sbalzarli di sella a ogni curva. Wil cercò di farlo rallentare, ma Artaq teneva stretto il morso fra i denti. Il giovane aveva perso completamente il controllo della bestia. Ora questa era diventata la sua corsa. Nel giro di pochi secondi, i due giovani avevano perso ogni senso dell'orientamento, confusi dal buio della foresta che si era chiuso su di loro e dalla pista tortuosa. Anche se non sentiva più l'ululato dei demoni-lupi né lo stridere del mostro alato, Wil era terrorizzato al pensiero che stessero girando su se stessi, ritornando verso le creature dalle quali stavano fuggendo. Tirò forte le redini per liberare il morso, ma Artaq non lo mollò. Il giovane aveva appena abbandonato ogni speranza di frenare lo stallone nero quando esso bruscamente rallentò e si fermò. Nel mezzo della pista, tutto ansimante, le narici dilatate, abbassò la sua bella testa e nitrì piano. Seguì un lungo momento di silenzio. Wil e Amberle si guardarono, stupiti.
Poi una sagoma nera e alta apparve di fronte a loro, emergendo silenziosa dalla notte. Successe così rapidamente che Wil non ebbe nemmeno il tempo di pensare alle Pietre Magiche. La figura si fece avanti, sfiorò con una mano il collo sudato di Artaq, accarezzandogli lentamente il morbido pelo. Dall'ombra di un cappuccio, sollevò il volto verso la luce. Era Allanon. «State bene?» chiese a bassa voce; poi si protese verso Amberle, la sollevò dalla sella e la depose con precauzione a terra. La giovane Elfa annuì silenziosamente, gli occhi stupefatti... stupefatti e anche un poco incolleriti. Il Druido si accigliò, poi si voltò per aiutare Wil, ma il giovane stava già scendendo dal dorso di Artaq. «Ti credevamo morto!» esclamò, ancora incredulo. «A quanto pare c'è sempre qualcuno che mi crede morto» osservò il Druido con una certa ironia. «Come potete vedere, sono del tutto...» «Allanon, dobbiamo andarcene di qua.» Wil si stava già guardando ansiosamente alle spalle. Quasi farfugliava per la fretta. «I demoni- lupi ci hanno dato la caccia fin dal Mermidon, e poi c'è una creatura nera, alata che...» «Wil, calmati.» «... per poco non ci ha presi nella valle, più grossa di qualsiasi cosa...» «Wil!» Il giovane tacque. Allanon scosse la testa, in atteggiamento di rimprovero. «Ora mi permetti di parlare?» Il giovane annuì, avvampando. «Grazie. Prima di tutto, siete in salvo. I demoni non vi braccano più. Quello che li guida avverte la mia presenza. Ha paura di me e se n'è andato.» Il giovane appariva perplesso. «Ne sei sicuro?» «Certo. Nessuno vi ha seguiti. Ora venite qua con me, entrambi, e sedetevi.» Li portò verso un tronco caduto vicino alla pista sul quale Wil e Amberle sedettero stancamente. Allanon rimase in piedi. «Dobbiamo proseguire per Arborlon questa notte» annunciò. «Ma possiamo concederci qualche minuto di riposo prima di partire.» «Come sei arrivato qui?» chiese Wil. «Io potrei farvi la stessa domanda.» Anche lui sedette, avviluppandosi nel mantello nero. «Avete capito cosa è successo al fiume?» Il giovane annuì. «Credo di sì.»
«È stato il re del Fiume Argento» interloquì calma Amberle. «L'abbiamo visto; ci ha parlato.» «Ha parlato solo a Amberle» corresse Wil. «Ma tu, come te la sei cavata? Ha aiutato anche te?» Allanon scosse la testa. «Purtroppo non l'ho nemmeno visto... soltanto la luce che vi ha avvolti e portati via. È un essere solitario e misterioso, e si rivela a pochissimi. Questa volta ha scelto di mostrarsi a voi, per motivi che dovranno restare imperscrutabili, immagino. In ogni caso, la sua apparizione ha provocato considerevole confusione fra i demoni, e io ne ho approfittato per fuggire.» Fece una pausa. «Amberle, hai detto che ti ha parlato. Ricordi cosa ti ha detto?» La ragazza appariva turbata. «No, non esattamente. È stato come un sogno. Disse qualcosa come... essere uniti.» Per un istante negli occhi scuri del Druido vi fu un lampo di intuizione. Ma né Wil né Amberle lo videro, e scomparve subito. «Non importa.» Il mistico accantonò l'episodio. «Vi ha aiutati quando ne avevate bisogno, e per questo gli dobbiamo molto.» «Certo, dobbiamo molto a lui, ma non a te.» Amberle non si curò di nascondere la sua collera. «Dove sei stato, Druido?» Allanon apparve stupito. «A cercarvi. Purtroppo, aiutandovi, il re del Fiume Argento ha provocato la nostra separazione. Sapevo che eravate in salvo, naturalmente, ma ignoravo dove eravate stati portati, o come ritrovarvi. Avrei potuto usare la magia, ma mi è sembrato inutile correre un simile rischio. Colui che guida i demoni fuggiti dalla barriera del Divieto ha poteri pari ai miei... forse superiori. Usando la magia, avrei potuto rivelare dove ci trovavamo tutti. Così ho deciso di continuare il viaggio verso Arborlon, cercandovi nel frattempo, convinto che voi avreste ricordato le mie istruzioni e le avreste seguite. Poiché ero costretto a camminare - il tuo cavallo grigio, Wil, è andato perduto nella battaglia - ero certo che foste davanti a me. È stato soltanto quando tu hai usato le Pietre Magiche che ho capito di essermi sbagliato.» Si strinse nelle spalle. «Oramai, ero quasi a Arborlon. Sono tornato indietro subito, viaggiando verso sud attraverso le foreste, pensando che avreste cercato rifugio nei boschi sotto il Mermidon. Ma mi sbagliavo di nuovo. Quando ho sentito l'ululato dei demoni-lupi, ho capito che stavate cercando di raggiungere la Valle di Rhenn. E così sono arrivato qua.» «A quanto pare, non hai fatto altro che sbagliarti» scattò Amberle.
Allanon la guardò negli occhi, senza parlare. «E ti sei sbagliato a venire da me, in primo luogo» proseguì lei, in tono d'accusa. «Era necessario.» «Resta da vedersi. Quel che mi preoccupa, al momento, è che i demoni ti sono stati alle calcagna fin dall'inizio. Quante volte ho rischiato di cadere nelle loro mani?» Allanon si alzò. «Troppe volte. Non succederà più.» Anche Amberle si alzò, avvampando per la collera. «Le tue promesse non mi rassicurano. Voglio farla finita con questo viaggio. Voglio tornare a casa... A Havenstead, non a Arborlon.» Il volto del Druido era inespressivo. «Cerca di capire... io faccio per te tutto quel che posso.» «Forse. O forse soltanto quel che ti va di fare.» Il Druido si irrigidì. «Questo è ingiusto, Amberle. Tu ne sai meno di quanto credi.» «Io so una cosa. Che né tu né il protettore da te scelto per me vi siete rivelati molto validi. Sarei molto più felice se non avessi mai incontrato nessuno di voi due.» Era talmente in collera che stava per piangere. Li guardava furibonda, sfidandoli a contraddirla. Poiché essi rimasero in silenzio, si voltò e cominciò a camminare lungo la pista. «Hai detto che dobbiamo proseguire subito per Arborlon, Druido!» gridò. «Voglio farla finita con questo viaggio!» Wil Ohmsford rimase a guardarla, con un'espressione di risentimento e confusione. Per un attimo pensò di restarsene seduto lì e lasciare che la ragazza se ne andasse via da sola. Evidentemente non gliene importava gran che di lui. Poi sentì la mano di Allanon sulla spalla. «Aspetta a giudicarla» gli disse piano il Druido. Ritirò la mano, e andò a raccogliere le redini di Artaq. Si voltò a guardare Wil con aria interrogativa. Scuotendo la testa, il giovane si alzò. Dopotutto, era arrivato fin lì. Tanto valeva proseguire. Il Druido si era già incamminato dietro la snella figura della ragazza elfa che scomparve su per il sentiero fra gli alberi. A malincuore, Wil li seguì. 18
Era la sera del giorno dopo. Le ombre si allungavano sulla città di Arborlon circondata dalle foreste e un grigio crepuscolo andava dissolvendosi nella sera. Eventine Elessedil se ne stava isolato nel suo studio, esaminando la lista, preparata da Gael, dei problemi che avrebbero richiesto la sua attenzione il mattino dopo. Il suo volto era segnato della fatica; socchiudeva gli occhi stanchi alla luce della lampada a olio sullo scrittoio. In quella stanza silenziosa, il vecchio re elfo era tutto solo coi suoi pensieri. Lanciò una breve occhiata a Manx, che se ne stava disteso contro una libreria, dormendo saporitamente. I fianchi brizzolati del pastore alsaziano si alzavano e abbassavano ritmicamente; esalava il respiro attraverso il naso con un curioso sibilo. Vecchio cane, pensò, per te il sonno viene facilmente, profondo, senza sogni né preoccupazioni. Scosse la testa. Che cosa non avrebbe dato per una sola notte tranquilla. Aveva avuto ben poco riposo. Gli incubi affollavano i suoi brevi sonni... incubi che erano distorsioni di realtà spiacevoli vissute di giorno, e che si portava con sé la notte. Lo infastidivano e tormentavano; penetravano perfidamente nel suo sonno, odiosi e distruttivi. Tornavano ogni notte, torturando il suo inconscio, frammentando il suo riposo così da costringerlo continuamente a svegliarsi, finché l'alba finalmente poneva fine alla lotta. Si strofinò gli occhi, poi la faccia, spegnendo la luce. Presto avrebbe dovuto cercare di dormire comunque, perché non poteva farne a meno. Ma sapeva che avrebbe riposato poco. Quando si sollevò dallo scrittoio si ritrovò davanti Allanon. Per un istante, non credette ai propri occhi; doveva essere un inganno della sua mente esausta. Ma quando guardò di nuovo, l'immagine non era scomparsa, e allora si alzò in piedi di scatto. «Allanon! Credevo di avere un'allucinazione!» Il Druido si fece avanti e si strinsero le mani. C'era appena un'ombra di incertezza negli occhi del re elfo. «L'hai trovata?» Allanon annuì. «È qui.» Eventine non sapeva cosa rispondere. I due uomini rimasero a guardarsi senza parole. Appoggiato alla libreria, Manx sollevò la testa e sbadigliò. «Non avrei mai creduto che sarebbe tornata» disse infine il re. Esitò. «Dove l'hai portata?» «Dove può essere al sicuro» rispose Allanon. Lasciò la mano del re. «Non abbiamo molto tempo. Voglio che tu convochi i tuoi figli e i tuoi consiglieri più fidati... coloro ai quali hai confidato la verità sul pericolo
che minaccia gli Elfi. Sii cauto nella tua scelta. Falli riunire fra un'ora nella sala dell'Alto Consiglio elfo. Di' loro che gli parlerò. Tieni il segreto con chiunque altro. Provvedi affinché le tue guardie siano di fazione all'esterno. Fra un'ora. Ti vedrò là.» Si voltò e si diresse verso la finestra aperta da cui era venuto. «Amberle...?» gli gridò dietro Eventine. «Fra un'ora» ripeté il Druido, poi scivolò via attraverso le tende e scomparve. L'ora passò e coloro che erano stati convocati dal re elfo erano riuniti nell'Alto Consiglio. Era un'immensa sala esagonale costruita con legno di quercia e pietre, il soffitto a raggiera simile a quello di una cattedrale, con le travi massicce che convergevano al centro. Una serie di portali in legno si apriva sulla sala, illuminata da lampade a olio appese a catene nere di ferro. Contro una parete era disposto il palco reale; una serie di gradini portava a un grande trono di quercia intagliato a mano; ai suoi lati vi erano diversi stendardi con gli stemmi della casa reale elfa. Lungo le altre pareti erano disposte a anfiteatro numerose file di seggi, tutti rivolti verso l'ampia zona centrale di pietra levigata, delimitata come un'arena da una bassa ringhiera di ferro. Proprio al centro della sala si trovava una grande tavola ovale con ventun seggi riservati ai membri dell'Alto Consiglio elfo. Quella sera, soltanto sei di quei seggi erano occupati. In uno di essi era seduto Ander Elessedil. Parlò poco con gli altri cinque convenuti e i suoi occhi irrequieti tornavano spesso al portale chiuso in fondo alla sala. La sua mente era tutta assorta dal pensiero di Amberle. Sebbene suo padre non avesse accennato alla ragazza quando gli aveva dato la notizia del ritorno di Allanon, era sicuro che il Druido era riuscito a riportarla a Arborlon; altrimenti non avrebbero convocato quella seduta tanto in fretta. Era altrettanto sicuro che Allanon intendeva portarla davanti al Consiglio, per chiedere che le affidassero il seme dell'Eterea. Si domandava come avrebbe reagito il Consiglio. Se il re avesse deciso di esprimersi per primo in merito alla richiesta del Druido, appoggiandola, allora probabilmente gli altri avrebbero acconsentito... Anche se la conclusione era tutt'altro che scontata, data la forte prevenzione degli Elfi verso Amberle. In ogni caso, non credeva che suo padre lo avrebbe fatto. Avrebbe prima ascoltato i pareri degli uomini raccolti intorno a lui. Poi avrebbe deciso. Il principe lanciò una rapida occhiata al re, poi distolse lo sguardo. E come si sarebbe espresso lui, Ander? Si domandò improvvisamente. Certo
avrebbero chiesto la sua opinione. ma come poteva sperare di essere obiettivo quando si trattava di Amberle? Emozioni contrastanti, intense lo agitavano. Amore e delusione si combattevano. Turbato da questi sentimenti. si torceva le mani sul tavolo. Forse era meglio che tacesse. Forse era meglio che si affidasse al giudizio degli altri. Il suo sguardo si posò per un attimo sui loro volti. A eccezione di Dardan e Rhoe, che montavano la guardia davanti ai portali della sala, nessun altro sapeva del motivo di quella riunione. C'erano altri che suo padre avrebbe potuto chiamare... ottime persone. Ma il re aveva preferito questi. Era una scelta equilibrata, rifletté Ander mentre considerava il carattere di ciascuno. Ma che tipo di giudizio avrebbero espresso dopo aver conosciuto la natura del problema? Non ne era affatto sicuro. Arion Elessedil era seduto alla destra del padre, il posto al tavolo del Consiglio riservato al principe ereditario. Era Arion che il re avrebbe guardato per primo, come sempre aveva fatto ogni qualvolta aveva dovuto prendere una decisione importante. Arion era la forza del padre, e il vecchio lo amava intensamente. Bastava la sua presenza per trasmettergli un senso di sicurezza che Ander sapeva di non potergli dare, per quanto si sforzasse. Ma Arion non conosceva la compassione e talvolta mostrava un'ottusità che oscurava il suo buon senso. Un tempo era stato molto affezionato alla ragazza, l'unica figlia del suo amato fratello Aine. Ma tutto ciò apparteneva al passato. I suoi sentimenti erano cambiati con la morte del fratello... e ancor più quando Amberle aveva abbandonato il suo incarico di Eletta. Il principe ereditario era rimasto molto amareggiato, soprattutto per l'offesa che la ragazza aveva inflitto al re. Era impossibile immaginare quanto fosse profondo quel risentimento e Ander era turbato dalle sue possibili conseguenze. Il primo ministro del re, Emer Chios, occupava la sedia vicina a Arion. Come primo ministro, era lui a presiedere il Consiglio in assenza del re. Un uomo lucido, persuasivo, che sicuramente avrebbe espresso i suoi sentimenti con franchezza. Benché Eventine e il suo primo ministro non fossero sempre d'accordo sulle questioni discusse davanti al Consiglio, avevano grande rispetto per le reciproche opinioni. Eventine avrebbe ascoltato Chios attentamente. Kael Pindanon, comandante dell'esercito elfo, era il più vecchio e intimo amico del re. Benché avesse dieci anni meno di lui, sembrava più vecchio di Eventine: la faccia, simile a pergamena, il corpo contorto era tutto pelle
e ossa, ricoperto di cicatrici dopo una vita di combattimenti. I capelli bianchi gli ricadevano sulle spalle e un paio di grandi baffi spioventi si inarcavano sulla linea sottile della bocca. Duro come il ferro e deciso, Pindanon era il più prevedibile fra i consiglieri del re. Totalmente devoto a Eventine, il vecchio soldato esprimeva i suoi consigli tenendo sempre nella massima considerazione gli interessi del re. Altrettanto avrebbe fatto per il caso di Amberle. L'ultimo uomo seduto alla tavola non faceva parte dell'Alto Consiglio. Era più giovane persino di Ander, un Elfo esile, bruno, con un'aria sveglia e ansiosi occhi castani. Era accanto a Pindanon, leggermente discosto dalla tavola ovale; non parlava con gli altri, ma li osservava in silenzio. Intorno alla vita portava due pugnali gemelli e una grossa spada infilata nel fodero pendeva dallo schienale della sua sedia. Non aveva nessuna insegna ufficiale tranne un piccolo medaglione con lo stemma degli Elessedil appeso a una catena d'argento intorno al collo. Si chiamava Crispin. Era il capitano della Guardia Reale, il corpo d"lite dei Cacciatori elfi, il cui unico dovere consisteva nel proteggere il re. La sua presenza era un mistero; Ander non si sarebbe aspettato che suo padre chiedesse il suo consiglio. Ma del resto il comportamento del re era talvolta imprevedibile. La sua valutazione era terminata. Benché ciascuno avesse una storia diversa e una diversa personalità, gli uomini riuniti da suo padre avevano in comune la loro assoluta fedeltà al vecchio re. Forse proprio a causa di ciò, Eventine sentiva di poter affidare loro la decisione, per quanto difficile, da prendere in merito a Amberle. Forse erano qui anche perché a loro si sarebbe rivolto quando fosse giunto il momento di difendere la patria elfa. E quel momento era vicino. L'inevitabile, terribile lotta fra Elfi e demoni era incombente. Ogni giorno l'Eterea deperiva sempre più, i suoi rami si deterioravano inesorabilmente, la sua vita e bellezza se ne andavano, indebolendo il potere che preservava il Divieto. Ogni giorno giungevano notizie di strane e spaventose creature, esseri partoriti da incubi e cupe fantasie, che si aggiravano per i confini delle Terre dell'Ovest. Soldati elfi pattugliavano il paese dalla Valle di Rhenn fino alla Sarandanon, da Acque Opache al Kershalt, e tuttavia quelle creature si facevano sempre più numerose. Non c'era dubbio che altre sarebbero arrivate, finché non fossero state abbastanza numerose da attaccare gli Elfi in forza. Ander appoggiò i gomiti sul tavolo e si portò le mani alla fronte per riparare gli occhi dalla luce. L'Eterea stava deperendo così rapidamente che dubitava restasse abbastanza tempo per raggiungere il Fuoco di Sangue,
sempre che l'impresa proposta da Allanon avesse successo. Tempo! Era quello il problema. Il massiccio portale in fondo alla sala si spalancò e sei teste si voltarono contemporaneamente. Allanon lo varcò solenne, alto e austero nel suo mantello nero. Lo seguivano due figure più piccole, entrambe nascoste in mantelli con cappuccio. Amberle! pensò Ander. Una di loro deve essere Amberle! Ma chi era l'altra? Tutti e tre si diressero silenziosamente verso l'estremità opposta dell'ampio tavolo ovale. Là il Druido fece sedere gli altri due, poi alzò il viso bruno verso il re. «Mio signore, Eventine.» Si inchinò leggermente. «Allanon» rispose il re. «Sei il benvenuto.» «Siete tutti riuniti?» «Tutti» assicurò Eventine, poi li presentò a uno a uno. «Ti prego, parla.». Allanon fece diversi passi avanti finché si trovò a metà strada fra gli Elfi e le due figure avvolte nei mantelli. «Benissimo. Parlerò una volta sola, perciò vi prego di ascoltarmi con attenzione. La nazione elfa è in grave pericolo. L'Eterea sta morendo. Si sta deteriorando rapidamente, e sempre più rapidamente ogni giorno. E intanto la barriera del Divieto si indebolisce. Già i demoni che i vostri antenati imprigionarono dietro di esso cominciano a imperversare nel nostro mondo. Presto saranno tutti liberi e, allora, non penseranno che a annientarvi.» Il Druido avanzò di un altro passo. «Non siate increduli, signori. Voi ancora non capite, come invece so io, quanto sia intenso l'odio che li anima. Ho visto solo poche di quelle creature che già hanno attraversato il Divieto, ma mi è bastato per capire la violenza dell'odio che le consuma tutte. Quell'odio è spaventoso. Dà loro potere... più potere di quanto ne avessero quando furono cacciate dalla terra. Io non credo che voi potrete opporre loro resistenza!» «Tu non conosci l'esercito elfo!» esclamò Pindanon con veemenza. «Comandante» lo richiamò gentilmente Eventine. Il vecchio soldato si voltò subito. «Ascoltiamolo, prima.» Pindanon si riappoggiò allo schienale, accigliato. «L'Eterea è la vostra protezione» proseguì Allanon, ignorando Pindanon. «Con la sua morte, il Divieto si dissolverà. Anche la magia che l'ha creata andrà perduta. Una cosa sola può impedirlo. Secondo la leggenda
elfa e le leggi della magia che le hanno dato la vita, l'Eterea deve rinascere. C'è una sola possibilità, lo sapete bene. Un Eletto al servizio dell'albero deve portare il suo seme alla fonte di tutta la vita, il Fuoco di Sangue. Il seme deve essere immerso completamente nel Fuoco, poi restituito alla terra dove affonda le radici l'albero madre. Allora ci sarà nuova vita per l'Eterea. Allora la barriera del Divieto sarà ripristinata e i demoni verranno ricacciati nel loro limbo. «Uomini di Arborlon. Due settimane fa, avendo scoperto che l'Eterea stava morendo, venni da Eventine Elessedil per offrire il mio aiuto. Ma giunsi troppo tardi. Il Divieto aveva già cominciato a indebolirsi, permettendo a alcuni demoni imprigionati lì dentro di fuggire. Prima che io potessi impedirlo, avevano massacrato gli Eletti, nel sonno, ammazzando tutti quelli che avevano trovato. «Tuttavia, dissi al re che avrei cercato di aiutare gli Elfi in due modi. Per prima cosa, mi sarei recato a Paranor nella fortezza dei Druidi, per consultare le storie dei miei antenati e chiarire il segreto della parola "Cripta". L'ho fatto. E ho scoperto dove si può trovare il Fuoco di Sangue.» Si interruppe, scrutando i volti degli uomini che ascoltavano. «Dissi anche al re che avrei cercato chi potesse portare il seme dell'Eterea alla ricerca del Fuoco di Sangue, poiché credevo che tale persona esistesse. E ho fatto anche questo. Questa persona è ora con me a Arborlon.» Ander si fece teso, mentre un mormorio di incredulità si levava dagli uomini riuniti. Allanon si voltò e fece un cenno alla più piccola delle due figure avvolte nei mantelli. «Vieni avanti.» Esitando, la figurina si alzò, poi andò a mettersi a fianco del Druido. «Abbassa il cappuccio.» Di nuovo quella esitò. Gli Elfi si sporsero in avanti, impazienti... tutti, tranne Eventine, che se ne stava seduto rigidamente, afferrandosi con le mani ai braccioli di legno intagliato della sedia. «Abbassa il cappuccio» ripeté dolcemente Allanon. Questa volta la figurina misteriosa ubbidì. Fragili mani si protesero dalle pieghe del mantello e scostarono il cappuccio. Gli occhi verde mare di Amberle, fissi e trepidanti, incontrarono quelli del nonno. Ci fu un istante di silenzio stupefatto. Poi Arion saltò in piedi, livido di collera. «No! No, Druido! Portala via di qui! Riportala dove l'hai trovata!»
Ander fece per alzarsi, visibilmente sconvolto dalle parole del fratello, ma suo padre lo afferrò per un braccio e lo costrinse a sedere di nuovo. Gli altri si scambiarono rapidi commenti astiosi, ma le parole si persero in una confusione di voci che si cancellavano l'un l'altra. Eventine alzò bruscamente una mano. e nella sala ritornò il silenzio. «Noi ascolteremo Allanon fino in fondo» ripeté, deciso, e Arion tornò e sedere. Il Druido annuì. «Vorrei che tutti ricordaste quel che vi dirò. Soltanto un Eletto in servizio potrà portare il seme dell'Eterea. Quando iniziò l'anno, erano in sette. Sei sono morti. Amberle Elessedil è la vostra ultima speranza.» Arion saltò in piedi. «Lei non è più una speranza. Lei non è più un'Eletta!» La voce del principe era dura, carica di rancore. Kael Pindanon annuì, con un'espressione di intensa contrarietà sul volto segnato. Allanon fece un altro passo avanti. «Dubitate che sia ancora un'Eletta?» Un breve sorriso beffardo gli affiorò sulle labbra. «Sappiate allora che anche lei ne dubita. Ma io ho detto a lei, e a suo nonno, e ora lo dico a voi che nessun sentimento al riguardo, né vostro né suo, stabilirà la verità. I vostri sentimenti non sono di nessuna importanza. Nipote del re o esiliata dalla sua gente... che importanza ha, principe elfo? Tu dovresti preoccuparti soltanto della sopravvivenza del tuo popolo... del tuo popolo e di quelli di tutte le Terre, poiché questo pericolo minaccia anche loro. Se Amberle può essere di aiuto a voi e agli altri, quel che è successo prima deve essere dimenticato.» Arion non cedeva. «Io non dimenticherò mai.» «Che cosa ci chiedi di fare?» interruppe rapidamente Emer Chios, e Arion sedette di nuovo. Allanon si voltò verso il primo ministro. «Soltanto questo. Né voi né io né la stessa Amberle abbiamo il diritto di decidere se lei sia ancora un'Eletta. Soltanto l'Eterea può farlo, poiché è stata lei a presceglierla. Perciò dobbiamo sapere cosa sente l'albero al riguardo. Lasciamo che Amberle compaia davanti all'Eterea; lasciamo che sia l'Eterea a decidere se accettarla o respingerla. Se sarà accettata come Eletta, riceverà il seme e partirà alla ricerca del Fuoco di Sangue.» «E se viene respinta?» «Allora dobbiamo soltanto augurarci che la fiducia del comandante Pindanon nell'esercito elfo sia ben riposta.» Arion si alzò ancora, ignorando lo sguardo di avvertimento del padre.
«Tu pretendi troppo da noi, Druido. Tu chiedi che riponiamo fiducia in qualcuno che già se ne è dimostrato indegno.» La voce di Allanon era ferma. «Io vi chiedo di riporre la vostra fiducia nell'Eterea, come avete fatto per infiniti secoli. Lasciamo che sia lei a decidere.» Arion scosse la testa. «No. Ho la sensazione che qui si stia facendo uno strano gioco. L'albero non parla a nessuno, e non parlerà a questa ragazza.» Il suo sguardo incollerito si spostò su Amberle. «Se lei vuole avere la nostra fiducia, lasciamo che ci spieghi perché ha lasciato Arborlon. Perché ha disonorato se stessa e la sua famiglia.» Allanon sembrò considerare la richiesta per un attimo; infine abbassò lo sguardo sulla ragazza al suo fianco. Amberle era pallidissima. «Non intendevo disonorare nessuno» rispose, con voce sommessa. «Ho fatto quel che sentivo di dover fare.» «Tu ci hai disonorati!» esplose Arion. «Tu sei la figlia di mio fratello, e io lo amavo molto. Vorrei poter capire quel che hai fatto, ma non ci riesco. Hai disonorato la tua famiglia... noi tutti. E la memoria di tuo padre. Nessun Eletto ha mai rifiutato l'onore di servire. Nessuno! Ma tu, tu l'hai disprezzato come se non contasse niente!» Amberle si irrigidì. «Io non dovevo essere prescelta, Arion. È stato un errore. Ho cercato di servire come gli altri, ma non potevo. So quel che ci si aspettava da me, ma io... non potevo.» «Non potevi?» Arion avanzò verso di lei, minaccioso. «Perché? Voglio sapere perché. Ora puoi spiegarlo... fallo!» «Non posso!» rispose lei, in un sussurro disperato. «Non posso. Non potrei mai farti capire, nemmeno se volessi, nemmeno se...» Guardò il Druido, implorante. «Perché mi hai riportata qui, Druido? È assurdo. Non mi vogliono. E io non voglio restare qui. Sono spaventata, lo capisci? Lascia che torni a casa.» «Tu sei a casa» rispose dolcemente il Druido, con un'improvvisa tristezza nella voce. Guardò Arion. «Le tue domande sono senza senso, principe elfo. Qual è il loro scopo? Qual è la loro motivazione? L'offesa provoca amarezza, l'amarezza collera. Se ti spingi troppo oltre per questa strada, perderai l'orientamento.» Si interruppe, gli occhi neri fissi sui membri del Consiglio. «Non pretendo di capire i motivi che hanno indotto questa fanciulla a lasciare il suo popolo. Non pretendo di capire perché ha scelto una vita diversa da quella che le era offerta a Arborlon. Non tocca a me giudicarla, né a voi. Quel
che è successo non conta più. Lei ha mostrato coraggio e determinazione nel viaggio di ritorno a Arborlon. I demoni sapevano della sua esistenza; le hanno dato la caccia. E continuano a farlo. Ha sopportato avversità e corso numerosi rischi per tornare qui. E tutto ciò deve essere accaduto per nulla?» Sentendo che Amberle era in pericolo, un'espressione allarmata balenò negli occhi di Eventine. Ander la vide, ma quasi subito scomparve. «Avresti potuto portare questa ragazza davanti all'Eterea senza consultarci» osservò improvvisamente Emer Chios. «Perché non l'hai fatto?» «Amberle non voleva tornare a Arborlon» rispose Allanon. «È tornata perché io l'ho convinta che era necessario, che doveva aiutare il suo popolo, se poteva farlo. Ma non era giusto che fosse costretta a venirvi di nascosto. Comparirà davanti all'Eterea soltanto se avrà la vostra approvazione.» Passò un braccio intorno alle spalle esili della ragazza. Lei lo guardò, con un'espressione sorpresa sul viso infantile. «Dovete fare la vostra scelta.» Il volto del Druido era impassibile. «Chi di voi si schiererà al suo fianco, signori?» Nella sala calò il silenzio. Gli Elfi e il Druido si guardavano in silenzio, intensamente. La seconda figura, ormai dimenticata, si agitò innervosita all'estremità del tavolo. I secondi scorrevano. Nessuno si alzò. Poi, improvvisamente, Ander Elessedil sentì gli occhi di Allanon su di lui. Un messaggio silenzioso passò fra loro, quasi un'intesa. In quell'istante Ander seppe cosa doveva fare. Lentamente si alzò. «Ander!» sentì protestare suo fratello. Lanciò una rapida occhiata al volto incollerito di Arion, lesse un avvertimento negli occhi duri dell'altro, poi distolse lo sguardo. In silenzio, girò attorno al tavolo fino a porsi al fianco di Amberle. Lei lo guardò spaventata, come una creatura selvaggia che vuole fuggire. Dolcemente, Ander la prese per le spalle e si chinò a baciarle la fronte. Amberle aveva anche gli occhi lucidi mentre lo abbracciava. Anche Emer Chios si alzò. «Non vedo alcuna difficoltà nel prendere questa decisione, signori» annunciò, solenne. «Quali che siano le nostre possibilità di successo, dobbiamo approfittarne.» E si unì a Ander.
Crispin lanciò una breve occhiata a Eventine. Il re sedeva rigido, il volto inespressivo mentre incontrava lo sguardo del suo capitano. Il giovane si alzò e andò a mettersi accanto a Ander. Il Consiglio era diviso a metà. Tre stavano al fianco di Amberle; tre erano ancora seduti al tavolo. Eventine guardò Arion. Il principe ereditario affrontò deciso lo sguardo del padre, poi volse gli occhi amareggiati verso Ander. «Io non sono sciocco come mio fratello. Io dico no.» Il re guardò Pindanon. Il volto del vecchio soldato era duro. «Io ho fiducia nell'esercito elfo, non in questa bambina.» Poi sembrò esitare. «È la tua carne e il tuo sangue. Io voterò come te, mio re. Che la tua decisione sia quella giusta.» Ora tutti gli sguardi erano rivolti a Eventine. Per un istante egli sembro ignorarli. Stava seduto fissando il tavolo davanti a sé, con un'espressione triste, rassegnata. Le sue mani scivolarono lentamente sulla lucida superficie di legno, poi si congiunsero. Si alzò. «Allora è deciso. Amberle comparirà davanti all'Eterea. Questo Consiglio è aggiornato.» Arion Elessedil si alzò, lanciò un occhiata sprezzante a Ander e si allontanò a grandi passi dalla sala. senza una parola. Al riparo del suo cappuccio, Wil Ohmsford vide il dolore e l'incredulità negli occhi di Ander Elessedil mentre seguiva il fratello con lo sguardo. Fra quei due vi era stata una rottura forse irreparabile. Poi gli occhi del principe si volsero improvvisamente verso Wil, che guardò altrove, imbarazzato. Allanon aveva ripreso a parlare; a coloro che erano rimasti propose che Amberle si riposasse un giorno o due prima di comparire davanti all'Eterea, dopo di che si sarebbero riuniti di nuovo. Wil si alzò, tutto avviluppato nel suo mantello, poiché Allanon lo aveva ammonito di non rivelarsi. La sala cominciò a svuotarsi, e lui si spostò vicino a Amberle. Vide Ander Elessedil lanciare loro un'occhiata, poi esitare e infine seguire gli altri. Allanon si era appartato con Eventine e gli parlava a bassa voce, con aria misteriosa. Poi, con un riluttante cenno d'assenso, anche il re elfo se ne andò. Wil e Amberle rimasero soli con il Druido. Allanon fece cenno di seguirlo.
Rapidamente li condusse fuori della sala, guidandoli lungo il corridoio finché si ritrovarono nel buio dell'ingresso. Lì il Druido si fermò, rimase un attimo in ascolto, poi si voltò verso di loro. «Amberle.» Aspettò finché lei lo guardò negli occhi. «Voglio che tu vada davanti all'Eterea questa notte.» Il volto della ragazza rifletteva sorpresa e confusione. «Perché?» chiese, incredula, poi rapidamente scosse la testa. «No. No, è troppo presto! Voglio del tempo per prepararmi. Inoltre, hai appena finito di dire a mio nonno e agli altri che ci sarei andata fra uno o due giorni!» Allanon annuì, paziente. «È stato un inganno piccolo, ma necessario. Quanto a prepararti, di cosa hai bisogno? Questo non è un esame di abilità o resistenza; nulla ti servirà. O tu sei un'Eletta ancora al servizio dell'albero oppure non lo sei.» «Sono stanca, Druido!» Ora era in collera. «Sono stanca e ho bisogno di dormire. Non posso farlo ora.» «Devi.» Fece una pausa. «So che sei stanca; so che hai bisogno di dormire. Ma dovrai avere pazienza. Prima devi comparire davanti all'albero... e devi farlo ora.» Lei si irrigidì a quelle parole, uno sguardo di creatura braccata apparve nei suoi occhi. Poi cominciò a piangere, senza più controllarsi. Era come se tutto quel che era accaduto in così breve tempo - la comparsa inaspettata del Druido davanti alla sua casetta, la notizia che l'Eterea stava morendo e che gli Eletti erano stati massacrati e che lei doveva tornare a Arborlon, la fuga disperata da Havenstead, il confronto col Consiglio e suo nonno e ora quest'ultima notizia - l'avesse improvvisamente sopraffatta. Tutte le sue difese sembravano crollare. Rimase davanti a loro, piccola e vulnerabile, singhiozzando, cercando inutilmente di parlare. Quando Allanon si chinò su di lei, si scostò rapidamente, voltando loro le spalle per diversi lunghi minuti. Wil Ohmsford la guardava disperato. Infine smise di piangere, sempre nascondendo loro il volto. Quando parlò, la sua voce era appena percettibile. «E veramente necessario, Allanon - veramente necessario - che vada davanti a lei questa notte?» Il Druido annuì. «Sì, Amberle.» Ci fu un lungo silenzio. «Allora lo farò.» Nuovamente calma e composta, si voltò. Senza una parola, Allanon li precedette per le strade della città.
19 La pallida luce argentea della luna scendeva dal cielo, illuminando la notte d'estate. Dolci fragranze e canti sommessi si levavano dal buio in onde lente, inebrianti, che fluttuavano e danzavano nel venticello caldo e sfioravano le siepi e i boschetti, le aiuole fiorite e i cespugli dei Giardini della Vita. Ombre screziate proiettavano sui giardini strani disegni in bianco e nero. Minuscole forme di vita notturna frullavano e volavano all'improvviso, invisibili, senza lasciar traccia del loro passaggio. Nel centro, solitario e ignorato in cima alla collinetta che dominava la terra degli Elfi, l'albero meraviglioso che chiamavano Eterea continuava il suo lento, inesorabile cammino verso la morte. Il lungo viaggio l'aveva devastata. La perfetta bellezza dell'Eterea fiorente se n'era andata, la perfetta simmetria della sua forma era deturpata e spezzata. La corteccia d'argento, ora nera e marcia, si stava staccando dal tronco e dai rami e penzolava in strisce simili a lembi di pelle. Le foglie rosso sangue erano tutte accartocciate; per terra erano sparse quelle già cadute, secche e avvizzite, che frusciavano al vento. Come uno spaventapasseri logoro infilzato sopra un palo in mezzo ai campi, si ergeva cupa e scheletrica contro l'orizzonte notturno. Allanon, Wil Ohmsford e Amberle rimasero a fissarla in silenzio dalla base dell'altura, i volti incappucciati alzati verso la luce della luna. Rimasero a lungo silenziosi, immobili; soltanto i mantelli frusciavano al vento leggero. Quando Amberle infine parlò, la sua voce era carica di una profonda, improvvisa angoscia. «Oh, Allanon, sembra così triste.» Il Druido non rispose, il corpo scarno rigido sotto il mantello, il volto nascosto nell'ombra del cappuccio. Il profumo dei lillà li avvolse per un istante, poi scomparve. Un attimo dopo, Amberle guardò l'uomo, stringendosi nel mantello. «Soffre?» Il Druido fece un cenno appena percettibile. «Un po'.» «Sta morendo?» «La sua vita sta terminando. È quasi giunta la sua ora.» Ci fu una lunga pausa. «Non puoi far niente per lei?» «Solo tu puoi aiutarla.» La voce profonda di Allanon era un dolce mormorio.
Si udì Amberle sospirare: un brivido di accettazione le passò attraverso il corpo sottile. I secondi passavano. Wil strascicava i piedi, stanco, aspettando che la ragazza venisse a patti con se stessa. E non era facile per lei. Non si era aspettata di trovarsi lì quella sera. E nemmeno lui l'aveva immaginato. Una volta aggiornato il Consiglio, avevano sperato di potere finalmente dormire. Non avevano chiuso occhio da quando erano fuggiti verso la Valle di Rhenn e si erano inaspettatamente riuniti con Allanon. Erano esausti. «Dorme» mormorò improvvisamente Amberle. «Si sveglierà per te» rispose il Druido. Non vuole farlo, pensò Wil. Non l'ha mai voluto. Non è soltanto riluttante, è spaventata. Lo ha detto quella prima sera nel piccolo giardino dietro la sua casa. Eppure non ne ha mai spiegato il motivo. Wil guardò verso la sommità dell'altura. Che cosa la spaventava tanto di quella pianta? «Sono pronta» disse semplicemente Amberle, con voce calma. Allanon rimase in silenzio per un attimo, poi annuì, chinando leggermente la testa. «Allora va'. Ti aspetteremo qui.» Lei non si mosse subito; rimase un istante come in attesa che il Druido le dicesse qualcosa. Ma lui taceva. Dopo essersi avviluppata nel mantello, cominciò a salire per il pendio dolce, il volto sollevato verso l'albero immobile, devastato che aspettava in cima. Non si voltò a guardarli. Pochi minuti dopo era sola davanti all'Eterea, un poco distante, il corpo fragile nascosto fra le pieghe del mantello scuro, le braccia strette lungo i fianchi. Dalla cima dell'altura, le Terre dell'Ovest si estendevano a perdita d'occhio, e lei si sentiva piccola, indifesa. Il vento notturno le accarezzò il viso, intriso dei profumi del giardino, e lei inspirò a fondo, facendosi coraggio. Ho bisogno di un momento, si disse. Soltanto un momento. Ma aveva tanta paura! Non ne capiva il perché, nemmeno ora, dopo tutto questo tempo. Eppure doveva riuscirci; doveva controllarla. Ma non poteva. E questo peggiorava le cose. La paura era irragionevole, cieca, insensata. Era sempre lì, in agguato nella sua mente come un animale rapace, uscendo dal suo nascondiglio ogni qualvolta pensava all'Eterea. La contrastò, la combatté con decisione, e tuttavia la paura l'invadeva, cupa, irrefrenabile. Era riuscita a sop-
primerla a Havenstead, poiché là la causa che la provocava era distante, apparteneva al passato. Ma ora, che era di nuovo a Arborlon, a pochi metri di distanza dall'albero, e ricordava il contatto dell'Eterea... Rabbrividì. Era quello, ciò che veramente temeva. Eppure, perché mai? Non provocava alcun danno, alcuna ferita. Serviva all'albero soltanto per comunicare i suoi pensieri attraverso immagini. Ma quel contatto le aveva sempre trasmesso qualcos'altro, fin dalla prima volta che l'Eterea le aveva parlato. Qualcos'altro. I suoi pensieri si interruppero quando udì il verso sommesso di una civetta. Si accorse di essere lì da diversi minuti e che i due uomini, in attesa ai piedi dell'altura, l'osservavano. Questo la infastidiva. Rapidamente, girò intorno all'albero. Il Druido e il giovane osservavano in silenzio la figura della ragazza spostarsi e scomparire. Rimasero in piedi ancora un attimo; ma poiché lei non riapparve, Allanon sedette silenziosamente nell'erba. Wil esitò, poi si mise accanto a lui. «Cosa farai se l'Eterea decide che non è più un'Eletta?» Il Druido non voltò il capo. «Ciò non accadrà.» Il giovane esitò un attimo prima di proseguire: «Tu sai qualcosa di lei che non hai detto a nessuno dei due, vero?» «No. Non nel senso che intendi tu» rispose freddamente Allanon. «Ma in un certo senso, sì.» «Per quel che ti riguarda, giovane della Valle, fa' in modo che non le accada nulla dopo che avrete lasciato Arborlon.» Dal tono di voce del Druido, Wil capì che, per lui, l'argomento era chiuso. Si spostò, a disagio. «Puoi dirmi qualcos'altro, allora?» chiese un attimo dopo. «Puoi spiegarmi perché ha tanta paura dell'Eterea?» «No.» Wil avvampò. «Perché no?» «Perché nemmeno io sono sicuro di capire. E credo che nemmeno lei capisca. In ogni caso, quando se la sentirà, te lo dirà lei stessa.» «Ne dubito.» Wil si chinò in avanti, appoggiando le braccia sulle ginocchia. «Non sembra avere una grande opinione di me.» Allanon non rispose. Rimasero così per un po', guardando di tanto in tanto l'albero solitario alla sommità dell'altura. Non c'era traccia di Amberle. Wil lanciò un'occhiata al Druido.
«E al sicuro lassù, da sola?» Il mistico annuì. Wil si aspettava una spiegazione in proposito, ma l'altro non gliela diede. Il giovane si strinse nelle spalle. Essendole così vicino, doveva avere qualche mezzo per provvedere affinché fosse protetta, decise fra sé. Per lo meno se lo augurava. Amberle rimase a lungo immobile. La paura l'aveva paralizzata. Se ne stava rigida, rabbrividendo poco distante dai rami più vicini, fissando come ipnotizzata l'Eterea. Sentiva la paura fluirle dentro come ghiaccio liquido, che intirizziva persino i suoi pensieri. Perse ogni nozione di tempo e luogo: era consapevole soltanto della sua incapacità di compiere quegli ultimi passi. Quando finalmente vi riuscì, le sembrò che fosse qualcun altro a farli. Ricordò soltanto che la distanza fra lei e l'Eterea diminuiva e poi scompariva. Fu sotto la volta dell'albero, immersa nell'ombra. Il vento notturno si placò e il freddo dentro di lei si trasformò in calore. In silenzio, si inginocchiò sul tappeto di foglie morte e rami spezzati, stringendo le mani nel grembo. Aspettava. Un attimo dopo, un ramo deturpato le scivolò dolcemente intorno alle spalle. «Amberle» La ragazza cominciò a piangere. Erano in silenzio da parecchio tempo quando Wil improvvisamente ricordò qualcosa di strano che Allanon gli aveva detto prima. Aveva deciso di non porre più domande al Druido dopo l'ultimo scambio di battute, ma la sua curiosità ebbe la meglio. «Allanon?» Il Druido lo guardò. «C'è qualcosa che non capisco.» Impiegò un attimo per organizzare i suoi pensieri. «Quando hai detto a Amberle che dovevamo venire qui questa notte, lei ti ha ricordato che, secondo quanto tu stesso avevi dichiarato all'Alto Consiglio, lei avrebbe avuto un giorno o due di riposo. Tu le hai risposto che è stato un inganno piccolo, ma necessario. Che cosa intendevi con quella frase?» La luce della luna rivelò il familiare sorriso beffardo sul volto scarno del mistico.
«Mi domandavo quando ci saresti arrivato, Wil Ohmsford.» Rise piano. «Hai uno spirito talmente indagatore.» Wil sorrise quasi suo malgrado. «Avrò una risposta questa volta?» Allanon annuì. «Una risposta che non ti piacerà. L'inganno è stato necessario perché c'è una spia fra gli Elfi.» Il giovane si sentì raggelare. «Come lo sai?» «È una questione di logica. Quando arrivai a Paranor, i demoni mi aspettavano. Mi aspettavano, capisci? E nessuno mi seguiva. Il che fa presumere che sapessero già del mio arrivo. Ma come era possibile? E come potevano essere al corrente della mia esistenza? Soltanto Eventine sapeva che ero tornato alle Quattro Terre. Soltanto Eventine sapeva che intendevo recarmi a Paranor; gli dissi a tu per tu che sarei andato là per studiare le storie dei Druidi al fine di scoprire dove si trova la Cripta. Avvertii Eventine di mantenere il più assoluto segreto al riguardo, cosa che sicuramente lui fece.» Dopo una pausa, concluse: «Il che lascia una sola possibilità. Qualcuno ascoltò la nostra conversazione... qualcuno che aveva motivo di tradirci ai demoni». Wil parve dubbioso. «Ma come può essere accaduto? Tu stesso hai detto che nessuno sapeva del tuo ritorno alle Quattro Terre finché non parlasti con Eventine!» «È un mistero anche per me» ammise il Druido. «La spia deve essere qualcuno molto vicino al re, qualcuno che sa tutto di lui. Forse un membro del personale.» Si strinse nelle spalle. «A ogni modo, per fortuna non dissi al re dove si trovava Amberle, altrimenti i demoni quasi certamente l'avrebbero raggiunta prima di me.» Si interruppe, gli occhi neri fissi sul giovane. «Avrebbero raggiunto anche te, immagino.» Wil si sentì venire la pelle d'oca. L'ipotesi era del tutto sconvolgente, persino ora. Per la prima volta da quando aveva incontrato Allanon, fu grato al Druido per il suo estremo riserbo. «Se le cose stanno così, perché hai parlato tanto all'Alto Consiglio?» chiese. «Se c'è una spia, non è probabile che venga a sapere quanto è stato detto?» Il Druido si chinò verso di lui. «Certo che esiste questa possibilità. Anzi, io voglio essere ben certo che questa persona ne venga a conoscenza. Questo è il motivo dell'inganno. Capisci, i demoni sanno già che siamo qui, e perché. Sanno chi sono io, e chi è Amberle. Ma non sanno ancora chi sei
tu. Hanno scoperto tutto ciò dalla mia conversazione con Eventine e da quel che hanno visto inseguendoci da Havenstead. All'Alto Consiglio degli Elfi non ho raccontato niente di più, tranne un particolare. Ho detto che Amberle riposerà qualche giorno prima di comparire davanti all'Eterea. Così, per i prossimi giorni almeno, i demoni non si aspetteranno nessuna mossa da noi. Questo inganno, perciò, ci darà un piccolo, ma utile vantaggio.» «Che tipo di vantaggio?» chiese Wil, accigliato. «Che cosa hai in mente, Allanon?» Il Druido assunse di nuovo la sua espressione enigmatica. «Mi dispiace, Wil, ma temo che dovrò chiederti di pazientare ancora un poco. Ti prometto, comunque. che avrai una risposta prima che finisca la notte. Non ti sembra ragionevole?» Non c'era nulla di ragionevole in quella faccenda, pensò tristemente Wil. Ma era inutile insistere. Quando Allanon aveva preso una decisione, non c'era nulla da fare. «Un'altra cosa.» Il Druido gli mise una mano sulla spalla. «Non dire nulla di tutto ciò a Amberle. È già abbastanza spaventata. e non c è motivo di accrescere i suoi timori. Che questo resti un segreto fra me e te.» Il giovane annuì. Su quello, almeno, potevano essere d'accordo. Pochi minuti dopo, Amberle emerse improvvisamente dall'ombra dell'albero. La sua sagoma si stagliò per un attimo contro il cielo notturno, esitò, poi avanzò verso di loro. Camminava lentamente, con cautela, come se fosse insicura dei suoi movimenti, stringendo le mano contro il seno. Aveva il cappuccio abbassato i lunghi capelli castani fluttuavano dietro di lei nel vento. Mentre si avvicinava, videro il suo viso sconvolto, pallido. tirato, rigato di lacrime; nei suoi occhi si leggeva la paura. Si fermò davanti a loro. Tremava. «Allanon...?» chiamò con un filo di voce, pronunciando a fatica il nome. Il Druido capì che era sul punto di crollare. Si protese subito verso di lei, la prese fra le braccia e la tenne stretta a sé. Questa volta lei non protestò, piangendo silenziosamente. Lui la tenne così a lungo, senza parlare. Wil osservava la scena a disagio, con un senso di impotenza. Dopo un po', Amberle smise di piangere. Allanon la lasciò andare e indietreggiò. Lei rimase a capo chino per un attimo, poi alzò gli occhi verso di lui. «Avevi ragione» sussurrò.
Da sotto le pieghe del mantello uscirono le sue mani congiunte. Nelle palme che ora aprì, aveva il seme dell'Eterea, simile a un ciottolo biancoargenteo, dalla forma perfetta. 20 Qualche minuto dopo, Allanon li portò via dai Giardini. Tutti avviluppati nei mantelli, i cappucci tirati sulla testa, scivolarono attraverso i cancelli senza farsi notare dalle sentinelle della Guardia Nera, e tornarono verso la città. Il Druido non spiegò dove li stava conducendo, e loro non fecero domande. Camminavano in silenzio; Allanon li precedeva di un passo o due. Wil e Amberle erano esausti. Il giovane lanciava frequenti occhiate alla ragazza, più preoccupato per lei di quanto osasse ammettere persino a se stesso, ma Amberle lasciava trapelare ben poco del suo stato emotivo, e lui riuscì appena a intravvedere il suo volto nascosto dal cappuccio. Una volta le chiese a bassa voce se stava bene, e lei annuì silenziosamente. Poco dopo, si ritrovarono nelle vicinanze del palazzo degli Elessedil. Dopo avergli fatto un cenno, senza parlare, Allanon li guidò per il parco circostante verso una fila di pini che delimitavano il prato a sud, poi lungo una serie di siepi fino a un padiglione con due porte-finestre immerse nell'ombra. Allanon bussò piano sul vetro. Si udì il rumore di un chiavistello all'interno e la porta si aprì. Rapidamente Allanon gli fece cenno di entrare e, dopo aver lanciato un'occhiata furtiva intorno, li seguì, chiudendo la porta dietro di sé. Rimasero alcuni secondi al buio, ascoltando un debole rumore di passi mentre qualcuno si muoveva lentamente per la stanza. Poi il lucignolo di una candela fu acceso. Wil scoprì allora che si trovavano in un piccolo studio; alla debole fiamma della candela si delineavano le librerie di lucida quercia che ricoprivano le pareti; i libri rilegati in cuoio e gli arazzi che emanavano delicate macchie di colore visibili nell'ombra pesante. In fondo alla stanza, un cane pastore alsaziano sollevò la testa brizzolata da un piccolo tappeto color ocra su cui era sdraiato e agitò la coda in segno di saluto. Eventine Elessedil posò la candela su un piccolo scrittoio e si voltò verso di loro. «È stato fatto tutto?» La voce profonda di Allanon ruppe il silenzio. Il vecchio re annuì.
«E a palazzo?» Il Druido si stava già dirigendo verso la porta d'accesso al resto della casa. L'aprì, lanciò fuori una breve occhiata e la richiuse. «Dormono tutti, tranne Dardan e Rhoe, che montano la guardia davanti alla mia camera da letto, credendomi addormentato. Qui dentro non c'è nessuno tranne il vecchio Manx.» Il cane alzò la testa sentendo il proprio nome, poi la riabbassò fra le zampe e chiuse gli occhi. llanon riattraversò la stanza. «Allora possiamo cominciare.» Fece cenno a Wil e Amberle di sedersi al tavolo, avvicinando una terza sedia per sé. Il giovane sedette, sfinito. Amberle fece qualche passo avanti, poi si fermò, gli occhi fissi sul nonno. Eventine la guardò, esitando, ma subito l'abbracciò. Per un attimo la giovane si irrigidì, poi lo contraccambiò. «Ti voglio bene, nonno» sussurrò. «Mi sei tanto mancato.» Il vecchio re non rispose, ma annuì, tenendosela stretta, accarezzandole i capelli. Poi le prese dolcemente la testa fra le mani e la fece voltare verso di sé. «Quel che è successo non conta più, Amberle. È dimenticato. Non ci saranno più parole dure fra di noi. Questa è la tua casa. Voglio che tu resti qui, con la tua famiglia.» La giovane scosse tristemente la testa. «Ho parlato con l'Eterea, nonno. Mi ha detto che sono ancora un'Eletta. Mi ha dato il suo seme.» Il vecchio impallidì e abbassò gli occhi. «Mi dispiace, Amberle. So che tu non lo vorresti. E, credimi, anch'io preferirei che non fosse così.» «Ti credo» rispose lei, con la disperazione negli occhi. Si separò da lui e sedette al tavolo con Allanon e Wil. Il re rimase in piedi per un attimo, osservando intensamente la nipote. Aveva lo sguardo perso e spaventato di un bambino smarrito. Lentamente si riprese, e sedette con gli altri. Allanon si chinò in avanti, congiungendo le mani sopra il tavolo. «Al termine del Consiglio, Eventine e io abbiamo concordato di incontrarci in segreto questa notte. Quel che verrà detto qui dovrà restare fra noi quattro. Il tempo scorre rapidamente, e dobbiamo agire con tempestività se vogliamo salvare il popolo elfo. L'Eterea sta morendo. Presto i demoni imprigionati dietro il Divieto faranno irruzione nelle Quattro Terre. Quando lo faranno, Eventine e io li affronteremo. Ma tu, Amberle, e anche tu, Wil, dovete partire alla ricerca del Fuoco di Sangue.»
Si voltò verso la ragazza. «Verrei con te, se potessi. Verrei con te, se appena ne avessi una possibilità, ma non è così. Uno dei demoni che è già passato oltre il Divieto, come altri ancora imprigionati lì dentro, possiede poteri ai quali tuo nonno e il popolo elfo non potrebbero resistere senza il mio aiuto. Io avrò il compito di proteggere gli Elfi da quei poteri. La magia contro la magia. Così deve essere. «Ma, al mio posto, mando Wil Ohmsford. E la scelta di affidarti a lui è stata ben ponderata. Suo nonno venne con me alla ricerca della Spada di Shannara, la trovò, da solo affrontò il Signore degli Inganni e lo distrusse. Il suo prozio Flick un tempo salvò la vita di tuo nonno. Wil ha la forza di carattere che ha contraddistinto entrambi gli uomini. e il loro senso dell'onore. Tu hai visto che egli ha le Pietre Magiche da me un tempo affidate a suo nonno. Ti proteggerà come avrei fatto io. Sarà sempre al tuo fianco, Amberle... non ti verrà meno.» Ci fu una lunga pausa di silenzio. Il giovane era imbarazzato per le parole del Druido... imbarazzato e turbato. Non era sicuro delle proprie forze. Lanciò una rapida occhiata a Amberle e scoprì che anche lei lo stava guardando. «Tu sei un'Eletta al servizio dell'Eterea» proseguì Allanon, attirando nuovamente su di sé lo sguardo della ragazza. «Anche se tutti noi vorremmo che fosse altrimenti, non restano più dubbi. Tu sei l'ultima degli Eletti, e perciò l'ultima speranza del tuo popolo. Tu sola puoi ripristinare il Divieto. È una responsabilità terribile, Amberle, ma non la puoi eludere. Se fallisci, demoni e Elfi combatteranno finché gli uni o gli altri o entrambi saranno annientati. L'Eterea ti ha dato il suo seme, e così tu devi portarlo con te alla ricerca del Fuoco di Sangue. Non sarà facile. Il Fuoco di Sangue si trova in un luogo chiamato Cripta, e la Cripta fa parte del vecchio mondo. Quel mondo non esiste più, è stato mutato per sempre. Nel corso delle ere il luogo chiamato Cripta è stato dimenticato. Nemmeno l'Eterea potrebbe riconoscere il sentiero che vi conduce. Se non fosse stato per le storie dei Druidi, non saremmo mai riusciti a individuarlo. Ma le storie sono un ponte fra passato e presente. Io le ho lette e so dove si trova la Cripta.» Fece una pausa. «Si trova nella Malaterra.» Nessuno parlò. Non ce n'era bisogno. Persino Wil Ohmsford, che veniva da Valle d'Ombra nelle Terre del Sud e prima di allora non aveva mai messo piede nelle Terre dell'Ovest, aveva sentito parlare della Malaterra. Sepolta fra le foreste a sud della terra degli Elfi, era una plaga infida e
spaventosa praticamente circondata da montagne e acquitrini. Vi si trovavano pochissimi villaggi, abitati da ladri, criminali e fuorilegge di ogni possibile sorta. Persino loro si allontanavano solo di rado dall'abitato o dalle poche vecchie piste che attraversavano la regione, poiché nei boschi al di là, dicevano le voci, abitavano creature che nessun uomo avrebbe voluto incontrare. Wil inspirò a fondo. «Non sai per caso in quale punto della Malaterra si trova il Fuoco di Sangue?» Allanon scosse la testa. «Non posso esserne certo. Persino le storie dei Druidi si riferiscono in parte alla geografia del vecchio mondo, e i punti di riferimento che esistevano allora sono scomparsi. Dovrai aiutarti con le Pietre Magiche.» «L'avevo immaginato.» Il giovane si afflosciò sulla sedia. «Se userò le Pietre Magiche, rivelerò ai demoni dove ci troviamo.» «Disgraziatamente è proprio così. Dovrai essere molto accorto, Wil. Ti riferirò quel che l'Eterea disse agli Eletti a proposito della Cripta prima che fossero massacrati... e quel che poi disse anche a me. Forse ti sarà utile. Il Fuoco di Sangue si trova in una plaga tutta circondata da montagne e paludi - ovviamente la Malaterra, come riferiscono le storie dei Druidi. Parlò anche di una nebbia profonda che va e viene. In quella plaga si alza una montagna isolata. Sotto la quale c'è un labirinto di tunnel che scende fin nelle viscere della terra; in qualche punto del labirinto si trova una porta di vetro che non si infrange. Dietro quella porta troverai il Fuoco di Sangue.» Sollevò la testa. riflettendo. «Come potete vedere, la descrizione generale della Malaterra è sorprendentemente accurata, anche dopo tanti anni e i cataclismi che hanno stravolto la geografia della terra in seguito alle Grandi Guerre. Forse anche i particolari sono esatti. Forse il Fuoco di Sangue si trova ancora sotto una montagna solitaria, in un labirinto di tunnel.» Si strinse nelle spalle. «Vi aiuterei di più se potessi, ma non so altro. Dovrete fare del vostro meglio con le informazioni che vi ho dato.» Wil riuscì a dare un sorriso debole, anche se piuttosto sforzato. Non osò guardare Amberle. «Come raggiungeremo la Malaterra?» chiese. Il Druido lanciò un'occhiata interrogativa a Eventine, ma il re elfo appariva assorto. Alla fine, colpito dal silenzio, guardò Allanon e annuì distrattamente. «Tutto è stato predisposto.»
Il Druido sembrò esitare, poi si rivolse a Amberle. «Tuo nonno ha scelto il capitano Crispin, che comanda la Guardia Reale, perché ti guidi e ti protegga in questo viaggio. Crispin è un soldato coraggioso, intraprendente; ti servirà bene. Gli è stato ordinato di sceglierti una scorta di sei Cacciatori elfi. Sei è un piccolo numero, ma in questo caso è meglio essere in pochi. Così attirerete meno l'attenzione e viaggerete più rapidamente. «Questo è il piano concordato dal re e da me. Verrete portati via in segreto dalla città; di ciò si occuperà il capitano Crispin. Soltanto lui è al corrente della vostra missione. Lui e i Cacciatori elfi al suo comando vi accompagneranno fin dove lo riterrete necessario. Tutti hanno ricevuto ordine di preservarvi da ogni danno, di fare tutto il possibile per proteggervi.» «Allanon.» Era stato Eventine a parlare, alzando improvvisamente lo sguardo, preoccupato. I suoi penetranti occhi azzurri incontrarono quelli del Druido. «C'è qualcosa che non ti ho ancora detto. Non te ne ho parlato perché abbiamo avuto solo pochi minuti al termine del Consiglio. Ma ora credo di dover affrontare l'argomento. Questa impresa presenta un pericolo, oltre a quello ovvio di essere braccati dai demoni che vi hanno inseguito fin qui.» Si chinò in avanti, appoggiando le braccia sul tavolo per sostenersi. La sua faccia, alla luce fievole della candela, appariva molto invecchiata. «Tu sai come sono morti gli Eletti... ma forse Wil e Amberle lo ignorano.» Si voltò verso di loro. «Sono stati dilaniati, straziati fino a essere resi quasi irriconoscibili.» I due giovani erano visibilmente inorriditi. Il re mise dolcemente una mano sulla spalla della nipote. «Non te lo dico per spaventare ancor più te, Amberle, e nemmeno te, Wil, ma solo per questo motivo.» Tornò a guardare Allanon. «Da quando siete partiti da Arborlon, vi sono state altre morti come quelle. Molte morti. Il demone che ha ucciso gli Eletti si aggira per la campagna circostante, distruggendo sistematicamente chiunque e qualsiasi cosa incontri, uomo o bestia, vecchio o giovane. Oltre cinquanta Elfi sono morti... tutti allo stesso modo, dilaniati. Tre notti fa, a un'intera pattuglia elfa è stata tesa un'imboscata e è stata annientata. Sei uomini armati. Una settimana prima, un accampamento dell'esercito al confine nord della città è stato invaso e venti uomini sono stati uccisi nel sonno. Sono sempre più numerosi i demoni avvistati nelle Terre dell'Ovest da quando l'Eterea ha cominciato a venir meno e vi sono stati diversi violenti scontri... ma nessun episodio di questa
natura, niente di tanto deliberato, premeditato. Questa creatura sa quel che fa: non uccide a caso. Abbiamo tentato inutilmente di individuarla. Non riusciamo a scovarla. Non l'abbiamo mai nemmeno vista. Nessuno l'ha vista. Ma è là fuori... in agguato.» Fece una pausa. «È stata mandata qui, Allanon, allo scopo di distruggere gli Eletti. E li ha distrutti... tranne uno. Può darsi che venga mandata di nuovo.» Amberle era pallidissima. Allanon si strofinò il mento, pensieroso. «Sì, esisteva un tale demone nei tempi antichi» rifletté. «Un demone che uccideva per un bisogno istintivo. Lo chiamavano il Mietitore.» «Non m'importa come lo chiamassero» intervenne improvvisamente Wil. «M'importa sapere come evitarlo.» «Agendo segretamente» rispose il Druido. «Per quanto egli sia maligno e astuto, come i suoi confratelli non avrà motivo di sospettare che voi avete lasciato Arborlon. Se egli crede che siate ancora qui - se tutti i demoni credono che siate ancora qui - non vi cercheranno altrove. Forse possiamo ingannarli.» Si voltò verso Eventine. «Verrà molto presto il momento in cui l'Eterea non avrà più forza sufficiente a trattenere dietro la barriera del Divieto il resto dei demoni ancora imprigionati lì dentro. Quando verrà quel momento, i demoni concentreranno le loro forze sul punto più debole della barriera e faranno irruzione attraverso di esso. Non possiamo aspettare che ciò accada. Dobbiamo trovare il punto in cui tenteranno di passare e fare tutto il possibile per bloccarli. Anche se falliamo, possiamo tentare una manovra per rallentare la loro marcia verso Arborlon. Cercheranno di arrivare qui, perché vorranno distruggere l'Eterea. Devono farlo. Non possono tollerarla. Ricorda che, finché era forte, era come un anatema per loro. Ma, man mano che si indebolisce, lo diventa sempre meno. Una volta che saranno emersi dalla barriera, si precipiteranno qui per distruggerla. Dobbiamo fare tutto il possibile per evitarlo. Dobbiamo dare a Amberle il tempo necessario per raggiungere il Fuoco di Sangue e tornare qui. Fino a allora dobbiamo tenere i demoni lontani da Arborlon.» «Dunque.» Lasciò per un attimo la parola sospesa nel silenzio della piccola stanza. «Inganneremo i demoni che hanno già superato il Divieto comportandoci come se dovessimo ancora ultimare i preparativi per cercare il Fuoco di Sangue. Daremo l'impressione che non siate ancora partiti. I demoni sanno che sono stato io a accompagnare qui Amberle; si aspetteranno che sia con lei quando parte. Possiamo servirci di questo espediente.
Concentrare la loro attenzione su di me. Quando avranno capito di essere stati ingannati, voi sarete già abbastanza lontani.» A meno che la loro spia non sia più ingegnosa di quanto credi tu, avrebbe voluto dire Wil, ma decise di tacere. «Sembra tutto risolto» disse invece. «Tutto, se non la questione di quando dovremmo partire.» Il Druido si appoggiò allo schienale della sedia. «Partirete all'alba.» Wil lo guardò incredulo. «All'alba? Domani?» Amberle saltò in piedi. «È impossibile, Druido. Siamo esausti! Non dormiamo da quasi due giorni... non ci bastano poche ore di sonno prima di riprendere il viaggio!» Allanon sollevò le braccia. «Calmati, Amberle. Ti capisco. Ma rifletti. I demoni sanno che sei venuta qui per portare il seme dell'Eterea al Fuoco di Sangue. Sanno che cercherai di lasciare la città, e saranno all'erta. Ma non tanto quanto lo saranno fra un giorno o due. Sai perché? Perché si aspettano che ti riposi. È proprio per questo che dovete partire subito. La sorpresa è il miglior accorgimento per passare inosservati.» Wil aveva capito. Questo era il vantaggio che il Druido sperava di avergli offerto col suo piccolo inganno all'Alto Consiglio. «Avrete abbastanza tempo per riposarvi una volta che sarete partiti» promise Allanon. «In due giorni di viaggio raggiungerete l'avamposto elfo di Boschi Grigi; là potrete rifarvi del sonno perduto. Ma restare a Arborlon è pericoloso. Più rapidamente ve ne andrete di qui, maggiori saranno le vostre probabilità di non essere presi.» Anche se detestava ammetterlo, Wil capiva che l'argomentazione del Druido era fondata. Lanciò una rapida occhiata a Amberle. Lei lo fissò in silenzio per un attimo, delusa e in collera, poi si voltò verso Allanon. «Voglio vedere mia madre prima di partire.» Il Druido scosse la testa. «Non è una buona idea, Amberle.» L'espressione di lei si indurì. «Tu credi di poter dire l'ultima parola su tutto quello che faccio, Druido. Non è così. Voglio vedere mia madre.» «I demoni sanno chi sei. Se sanno anche di tua madre, immagineranno che tu andrai da lei. Non aspetteranno che quello. È pericoloso.» «Persino star qua è pericoloso. Certo tu puoi fare in modo che passi cinque minuti con mia madre.» Abbassò gli occhi. «Non essere così folle da propormi di vederla quando tornerò.»
Ci fu un momento di silenzio imbarazzante. Il volto cupo di Allanon si fece improvvisamente inespressivo, come se temesse di rivelare qualcosa che desiderava tenere nascosto. Wil se ne accorse e ne fu disorientato. «Come desideri» acconsentì il Druido. Si alzò. «Ora dovete dormire finché potete. Andiamo.» Anche Eventine si era alzato, voltandosi verso la nipote. «Mi dispiace che Arion abbia avuto parole tanto dure per te al Consiglio» cominciò, come se avesse qualcos'altro da dire, ma non potesse. Scosse la testa. «Penso che, col tempo, finirà anche lui col capire...» Si interruppe, imbarazzato, poi abbracciò Amberle e la baciò sulle guance. «Se non fossi così vecchio...» cominciò, con voce tremante per l'emozione, ma la ragazza gli mise una mano sulla bocca per impedirgli di continuare. Scosse la testa. «Non sei tanto vecchio da non capire che sei indispensabile qui, e non puoi accompagnarmi.» Sorrise, e aveva le lacrime agli occhi quando lo baciò. Sentendosi un po' imbarazzato, Wil si allontanò dal tavolo e si diresse silenziosamente verso il cane addormentato. Il vecchio Manx lo sentì avvicinarsi. Perplesso, alzò un occhio verso di lui. D'impulso, Wil si chinò a accarezzarlo, ma il cane emise un ringhio di avvertimento basso, appena percettibile. Che bestia antipatica, pensò il giovane fra sé. Tornò fra gli altri. Eventine gli strinse la mano e gli augurò buona fortuna. Poi, con Amberle al fianco, Wil seguì Allanon e si inoltrarono nella notte. 21 Il Druido li portò verso una casetta annidata fra i boschi di un pendio al limite settentrionale della città e contornata da una serie di casette uguali. Non c'era nulla che la distinguesse dalle altre, e quello, pensò Wil, doveva essere stato il motivo principale della sua scelta. Anche se appariva disabitata, era completamente ammobiliata e qualcuno doveva essere stato lì di recente. Allanon non spiegò dove fossero ora i proprietari. Entrò nella casetta come se fosse sua, attraversò un soggiorno immerso nell'ombra per accendere diverse lampade a olio, poi con cura chiuse tutte le tende alle finestre. Dopo una visita nelle rimanenti stanze, mentre Wil e Amberle lo
aspettavano seduti a un tavolino adorno di fiori freschi e di centrini ricamati, ritornò con pane, formaggio, frutta e una caraffa d'acqua. Mangiarono in silenzio. Wil consumò un pasto intero nonostante l'ora tarda, Amberle quasi niente. Quando la cena fu finita, Allanon accompagnò la ragazza elfa in una piccola camera sul retro della casa. Una sola finestra con le imposte era chiusa con un chiavistello e sprangata dietro le tende accostate. Il Druido controllò attentamente la finestra, poi annuì. In silenzio, Amberle si diresse verso il letto di piume. Era così stanca che non si curò nemmeno di svestirsi; dopo essersi sfilata gli stivali, cadde sfinita sul copriletto. Si addormentò quasi subito. Allanon si fermò il tempo necessario per stendere una leggera coperta sulla ragazza esausta, poi uscì dalla stanza, chiudendo silenziosamente la porta dietro di sé. Solo, nel soggiorno, Wil Ohmsford se ne stava con lo sguardo assorto nell'oscurità circostante, dove le luci della città palpitavano come lucciole nelle ombre della foresta. Si guardava intorno irrequieto quando riapparve il Druido. «Dobbiamo parlare, Allanon.» L'uomo non parve sorpreso. «Altre domande, Wil Ohmsford?» «Non esattamente.» Il giovane appariva imbarazzato. «Capisco. Bene, allora, perché non ci sediamo?» Wil annuì, sedettero uno di fronte all'altro davanti al piccolo tavolo dove avevano consumato il pasto. A quel punto, il giovane sembrò perplesso su come procedere. Allanon lo osservava con un volto inespressivo, in attesa. «Mi è successo qualcosa quando ho cercato di usare le Pietre Magiche contro quel demone nel Tirfing... qualcosa che non capisco» cominciò infine, evitando gli occhi scuri dell'altro. «Avevo quasi deciso di non dirti niente perché non volevo che tu lo credessi un pretesto per sottrarmi al viaggio nella Malaterra.» «Ma questo è assurdo» protestò Allanon. «Dimmi che cosa è successo.» Il giovane sembrò non averlo udito. «L'unico motivo per cui ho deciso di parlartene è che sono in apprensione per la sicurezza di Amberle. Se devo proteggerla, non posso preoccuparmi troppo del mio orgoglio.» «Dimmi cosa ti è successo» ripeté il Druido. Wil lo guardò, turbato. «Te lo spiegherò meglio che posso. Come ti ho già detto, quando il demone avanzò verso di me e cercai di usare le Pietre Magiche, qualcosa in me oppose resistenza. Era come una specie di blocco, una barriera fra me e le Pietre Magiche, che mi impediva di invocarne
l'aiuto. Le sollevai in alto davanti a me e cercai di calarmi in loro, di evocarne il potere, ma non successe niente. In quell'istante, fui sicuro che ti eri sbagliato: diversamente da mio nonno, non potevo usare le Pietre Magiche. Pensai che sarei morto. Proprio allora, un attimo prima che il demone mi raggiungesse, la barriera dentro di me sembrò spezzarsi, e il potere delle Pietre divampò e distrusse quella creatura.» Fece una pausa. «Da allora, ho riflettuto a lungo su quell'episodio. Dapprima decisi che semplicemente non avevo capito come usare le Pietre Magiche, che la resistenza era provocata dalla mia inesperienza o confusione. Ma ora non lo credo più. Era qualcosa di diverso. Qualcosa dentro di me.» Il Druido lo fissò in silenzio per diversi minuti. Con una mano si accarezzava la barba nera, tirandola, torcendola. «Come ricorderai, ti dissi che le Pietre Magiche sono una vecchia magia, precedente la comparsa dell'uomo, una magia appartenente all'era in cui le creature dotate di poteri magici governavano la terra e la magia era un fenomeno comune. Allora, vi erano svariate Pietre Magiche, che servivano a svariati scopi. Il colore ne identificava l'uso. Le Pietre Magiche azzurre, come le tue, erano quelle della ricerca. Chi possedeva le Pietre Magiche azzurre poteva trovare quel che gli era nascosto con un semplice sforzo di volontà... per esempio, nel tuo caso, il Fuoco di Sangue. Altre Pietre Magiche avevano caratteristiche diverse. Tutte ne possedevano una in comune: proteggevano da altre magie e da creature nate dalla magia e dalla stregoneria. Ma l'efficacia della loro protezione - e dunque il loro potere dipendeva interamente dalla forza di carattere di chi le usava. Le Pietre Magiche erano raggruppate per tre, e per un valido motivo. Ciascuna pietra rappresentava una parte di chi le usava: una il suo cuore, una il suo corpo, una la sua mente. Perché la magia prendesse vita, le tre pietre dovevano agire di concerto... tre forze individuali che si fondevano in una sola forza. Il successo nell'impiegare le Pietre Magiche dipendeva dalla capacità di unire quelle forze.» Allargò le mani sul tavolo. «Le Pietre Magiche hanno un'altra caratteristica, Wil, fondamentale per il loro uso. Sono una magia elfa; sono state create dai maghi elfi esclusivamente per gli Elfi. Sono state trasmesse da una generazione all'altra, da una famiglia all'altra, da una mano all'altra... ma sempre da Elfi a Elfi, perché nessun altro avrebbe mai potuto usarle.»
Un'espressione incredula apparve sul volto del giovane. «Vuoi forse dirmi che non posso usare le Pietre Magiche perché non sono Elfo?» esclamò. Allanon scosse la testa. «Non è così semplice.» Si sporse in avanti, scegliendo con cura le parole. «Tu sei in parte Elfo, Wil. Come tuo nonno. Ma egli è Elfo per metà, essendo nato da una donna elfa e da un uomo. Tu sei diverso. Né tua madre né la madre di lei erano Elfe; entrambe appartenevano alla razza dell'uomo. Tutto quel che di Elfo vi è in te è quella parte ereditata da tuo padre attraverso tuo nonno.» «Non vedo che differenza faccia» insistette Wil. «Perché dovrei avere difficoltà nell'usare le Pietre Magiche mentre mio nonno non ne aveva? anch'io ho un po' del suo sangue elfo nelle vene.» «Non è il tuo sangue elfo che ti crea difficoltà» replicò subito il Druido. «È il tuo sangue di uomo. Tu hai le caratteristiche fisiche di tuo nonno, quella parte di te che costituisce la tua inconfondibile eredità elfa. Ma non è che una piccola parte del tutto; tu sei soprattutto un uomo. Molte delle tue caratteristiche elfe ti sono state tolte.» Fece una pausa. «Cerca di capire. Quando tu cerchi di usare le Pietre Magiche. solo quella piccola parte in te che è Elfa può collegarsi al loro potere. L'equilibrio formato dal tuo cuore, dalla tua mente e dal tuo corpo si oppone all'intrusione della magia. Forma un blocco contro di essa. Le tre forze sono indebolite, poiché ciascuna è limitata esclusivamente a quel che emana il tuo sangue elfo. Ecco cosa puoi aver provato usando le Pietre: un rifiuto della magia elfa dalla tua parte di uomo, che è quella prevalente.» Wil scosse la testa. confuso. «Mio nonno. però, non provò questo rifiuto?» «No, non lo provò» ammise Allanon. «Ma tuo nonno era Elfo per metà. La sua metà elfa dominava e gli consentiva di usare il potere delle Pietre Magiche. La resistenza che sperimentò fu appena percettibile. Per te la questione è completamente diversa. Il tuo legame col potere delle Pietre Magiche è più tenue.» Wil lo fissava, allibito. «Allanon, tu sapevi tutto ciò quando venisti da me, a Storlock. Tu sapevi. Eppure non mi hai detto niente. Non una parola. Non una.» Il Druido era impassibile. «Che cosa dovevo dirti, Wil? Non potevo sapere quale difficoltà avresti incontrato nell'usare le Pietre Magiche. Il loro effetto dipende in gran parte dal carattere della persona che le usa. Ti cre-
devo abbastanza forte da superare ogni tua intima resistenza. E lo credo ancora. Se ti avessi parlato del problema, ti avrei instillato considerevoli dubbi... dubbi che avrebbero potuto provocare la tua morte nel Tirfing.» Il giovane si alzò senza parlare, sconvolto. Si allontanò di diversi passi dal tavolo, poi tornò indietro. «Potrà succedermi di nuovo, non è vero?» chiese. «Ogni volta che cercherò di usare le Pietre Magiche.» Il Druido annuì. Wil scrutò in silenzio il suo volto per un attimo, mentre le implicazioni di quella ammissione gli turbinavano nella mente come foglie in balia del vento. «Ogni volta» ripeté. Le foglie smisero di vorticare. «Allora mi potrà capitare che questa resistenza si riveli troppo forte. Mi potrà capitare di invocare il potere delle Pietre Magiche senza averne risposta.» Allanon rifletté a lungo prima di rispondere. «Sì, è possibile.» Wil sedette di nuovo; sul suo volto la perplessità si trasformò in orrore. «Come puoi affidarmi la protezione di Amberle, sapendolo?» La mano del Druido calò sul tavolo come un martello. «Perché non c'è nessun altro!» Il suo volto scuro avvampò di collera, ma la sua voce rimase calma. «Tempo fa ti suggerii di avere fiducia in te stesso. Te lo ripeterò ancora. Non sempre possiamo essere adeguatamente preparati a affrontare le difficoltà che la vita ci presenta. È così anche ora. Vorrei che il mio potere fosse tale da non doverti chiedere aiuto in questa faccenda; vorrei poterti dare qualcosa di più per proteggere la ragazza elfa e te stesso. Ci sono molte cose che vorrei, ma non posso fare. Ti ho portato a Arborlon perché sapevo che, da solo, non potevo sperare di salvare gli Elfi dal pericolo che incombe su di loro. E per questo compito siamo entrambi inadeguati, Wil Ohmsford. Ma dobbiamo fare del nostro meglio con i mezzi a nostra disposizione. I Druidi sono scomparsi; la magia elfa del vecchio mondo è andata perduta. Siamo rimasti soltanto tu e io. Soltanto le Pietre Magiche che tu hai e la mia magia. È tutto, ma deve bastare.» Wil lo guardò dritto negli occhi. «Non è per me che ho paura, ma per Amberle. Se dovessi venir meno al mio compito...» «Tu non devi venir meno, giovane della Valle.» La voce del Druido era dura, implacabile. «Non devi! Lei ha soltanto te.» Wil si raddrizzò. «Forse io non basto.» «Non basti?» C'era una nota di sarcasmo nella sua voce. «Un tempo, non molti anni fa, tuo nonno la pensava allo stesso modo. Non capiva come io credessi che egli potesse distruggere un essere spaventoso come il
Signore degli Inganni. Dopotutto, era soltanto un insignificante piccolo abitante della Valle.» Ci fu una lunga pausa di silenzio. Il giovane e il Druido si fissarono senza parlare, la fiamma della lampada a olio che danzava fra di loro. Poi la sagoma nera di Allanon si alzò, lentamente, decisamente. «Abbi fiducia in te stesso. Hai già usato le Pietre Magiche una volta; hai sperimentato e superato la resistenza dentro di te e dato vita alla magia. Puoi riuscirvi di nuovo. Vi riuscirai. Tu sei un figlio della casa di Shannara; tu porti in te un'eredità di forza e di coraggio più forte delle perplessità e della paura che ti inducono a dubitare del tuo sangue elfo.» Si chinò su di lui. «Dammi la mano.» Il giovane ubbidì. Allanon la strinse forte nella propria. «Con la mia mano, mi sono legato a te. Ecco la mia promessa solenne. Tu riuscirai in questa impresa, Wil Ohmsford. Tu troverai il Fuoco di Sangue e riporterai a casa, sana e salva, l'ultima degli Eletti, colei che ridarà vita all'Eterea.» La sua voce era assai imperiosa. «Io lo credo, e anche tu devi credervi.» Gli occhi cupi, duri, penetranti fissarono intensamente il giovane, che si sentì messo a nudo. Eppure Wil non abbassò lo sguardo. Quando parlò, la sua voce era quasi un sussurro. «Ci proverò.» Il Druido annuì. Era abbastanza saggio da non aggiungere altro. Dopo che gli altri tre se ne furono andati, Eventine Elessedil rimase a lungo nel piccolo studio. Sedeva in silenzio ai margini del cerchio di luce emanato dalla fiamma solitaria della lampada a olio, gli abiti scompigliati, immerso nell'ombra. Abbandonato nell'abbraccio familiare della sua poltrona preferita, logorata dal tempo e sformata dall'uso, il re degli Elfi fissava, senza vederli, i dipinti, gli arazzi tessuti a mano, le librerie che ricoprivano la parete davanti a lui, pensando a quel che era stato e a quel che doveva ancora accadere. Mezzanotte arrivò e passò. Infine il re si alzò. Con la mente turbinante di pensieri confusi, di progetti abbozzati, spense la lampada a olio e varcò stancamente la porta dello studio. Non c'era altro da fare quella notte, niente che potesse compiere. All'alba, Amberle sarebbe già stata in cammino verso la Malaterra. Ora non doveva più preoccuparsi per lei, ma per il suo popolo.
Il vecchio re attraversò il corridoio immerso nel buio, desiderando ora il riposo che il sonno gli avrebbe portato. Per tutto il tempo, gli occhi del Camaleonte lo osservarono allontanarsi. Nell'oscurità più cupa delle foreste a sud della città di Arborlon, il Dagda Mor si alzò dal sasso su cui era seduto. Gli occhi crudeli riflettevano la sua euforia. Questa volta non ci sarebbero stati errori, pensò. Questa volta si sarebbe assicurato che tutti fossero distrutti. La sua sagoma gibbosa ciondolò in avanti. Per prima cosa avrebbe pensato alla ragazza elfa. Fece un cenno con una mano artigliata, e dalle ombre emerse il Mietitore. 22 L'alba si levò su Arborlon, nebbiosa, color grigio ferro; nel cielo turbinavano grandi nuvole nere. Wil e Amberle si erano vestiti e avevano fatto colazione, quando cominciò a piovere; uno spruzzo di gocce si trasformò rapidamente in una pioggia torrenziale, che martellava il tetto e le finestre della casetta. In lontananza, il tuono rombava in lunghi boati che scuotevano la terra. «Non sarà facile trovarvi con questo temporale» osservò Allanon, soddisfatto, e li accompagnò fuori. Avviluppati in lunghi mantelli con cappucci, vestiti di tuniche di lana, calzoni e alti stivali di cuoio, seguirono il Druido. Egli li guidò attraverso la pioggia battente giù per i sentieri fra i boschi che costeggiavano il confine occidentale della città lungo l'ampio dirupo della Carolan. Riuscendo a malapena a mettere un piede davanti all'altro in quell'alba cupa, i giovani seguivano il Druido da presso. Immagini frammentarie di casette, staccionate e giardini comparivano e scomparivano rapidamente, come miraggi attraverso la foschia, che subito li inghiottiva. La pioggia, portata da un vento forte, gelido, li schiaffeggiava attraverso le pieghe dei cappucci, e essi procedevano a testa china per proteggersi. Gli stivali affondavano nelle pozze e nei ruscelli che si formavano davanti a loro mentre percorrevano la vecchia pista della foresta. All'altro capo della città, Allanon lasciò bruscamente il sentiero e li condusse verso una scuderia solitaria che si profilava contro una collina alla loro sinistra. La porta di legno era socchiusa, e si affrettarono a entrare.
Dalle fessure nelle imposte e dalle mura screpolate filtrava una luce grigia. opaca. Vi erano file di box e un fienile, vuoti, immersi nell'ombra e nella polvere. L'aria aveva un odore acre di chiuso. Si fermarono un attimo per scrollare l'acqua dai mantelli, poi si diressero verso una porta solitaria sul lato posteriore della scuderia. Quasi immediatamente ebbero al loro fianco due Cacciatori elfi armati di tutto punto, emersi silenziosamente dall'oscurità. Allanon li ignorò. Puntò direttamente verso la porta senza girarsi. Dopo aver bussato piano, mise una mano su una maniglia arrugginita e si voltò a guardare Amberle. «Cinque minuti. Non posso concederti di più.» Aprì. Il giovane e la ragazza guardarono dentro. Era un piccolo ripostiglio. Lì aspettava Crispin con una donna elfa, anche lei avviluppata in un mantello. Subito la donna si tirò indietro il cappuccio, e Wil notò con stupore che il suo viso, anche se più vecchio, rispecchiava quello di Amberle. Allanon aveva mantenuto la sua promessa: era la madre della ragazza. Amberle corse subito da lei, l'abbracciò e la baciò. Crispin uscì dalla stanza e chiuse piano la porta dietro di sé. «Non siete stati seguiti» disse il Druido: era una constatazione. Il capitano della Guardia Reale annuì. Era vestito come un normale Cacciatore elfo, con comodi indumenti grigi e marrone che si mimetizzavano fra i colori della foresta; portava un mantello drappeggiato sulle spalle. Aveva due lunghi coltelli infilati nella cintura; sulla schiena portava un arco di frassino e una corta spada. Con i capelli castani bagnati per la pioggia, aveva decisamente un'aria da ragazzo; soltanto i duri occhi marrone lasciavano capire che il ragazzo in lui era scomparso da tempo. Fece col capo un breve cenno di saluto a Wil, poi si allontanò per parlare con gli Elfi. Uno si voltò e scomparve silenziosamente nella pioggia, l'altro nel fienile, silenziosi e agili come felini. I minuti scorrevano. Wil se ne stava in silenzio accanto a Allanon, ascoltando il martellare della pioggia contro il tetto della scuderia, con la sensazione che quell'umidità gli penetrasse nelle ossa. Infine il Druido tornò davanti al ripostiglio e bussò piano. Un attimo dopo la porta si aprì, e Amberle e sua madre riapparvero. Entrambe avevano gli occhi lucidi. Allanon prese la mano della fanciulla e la strinse fra le proprie. «È ora di andare. Crispin vi porterà in salvo fuori dalla città. Tua madre resterà qui con me finché non sarete partiti.» Fece una pausa. «Abbi fiducia in te stessa, Amberle. Sii coraggiosa.»
Lei annuì in silenzio. Si voltò verso la madre e l'abbracciò. Poi, Allanon si appartò con Wil. «Ti auguro buona fortuna, Wil Ohmsford.» La sua voce era appena percettibile. «Ricorda che conto soprattutto su di te.» Strinse la mano di Wil e indietreggiò. Wil rimase a guardarlo un attimo, stupito, poi si voltò quando sentì la mano di Crispin sulla spalla. «State vicini» consigliò l'Elfo, e si avviò verso la porta. Il giovane e la ragazza lo seguirono in silenzio. Non li lasciò uscire subito: fece un fischio rivolto agli altri Cacciatori elfi. Il segnale fu contraccambiato quasi immediatamente. Crispin scivolò fuori nella pioggia. Stringendosi nei mantelli, Wil e Amberle lo seguirono. Scesero rapidamente giù per l'altura fino al sentiero, tornarono indietro per una quindicina di metri, nella direzione da cui erano giunti, poi imboccarono una nuova pista che puntava a est verso la Carolan. Nel giro di pochi secondi, tre Cacciatori elfi erano comparsi dietro di loro come ombre emerse dalla foresta. Wil lanciò un'ultima occhiata alla scuderia solitaria, ma quella era già svanita nella bruma e nella pioggia. Ora il sentiero si era bruscamente ristretto, e gli alberi li assediavano. Scivolando attraverso neri tronchi scintillanti e cespugli carichi di pioggia, le sei figure avanzavano sulla pista cosparsa di buche che cominciò a scendere, terminando in una lunga, serpeggiante scarpata sconnessa di legno che si allontanava dalla Carolan per immergersi nel groviglio della foresta. In basso, appena visibile attraverso banchi di nebbia che andavano dissolvendosi, scorreva il nastro grigio del Rill Song. A est, prati e boschi si alternavano come in una scacchiera. Crispin gli fece cenno di procedere. Era una discesa lunga e piuttosto difficoltosa, perché i gradini erano stretti e viscidi per la pioggia e era facile scivolare. Una corda spessa, ruvida e sfilacciata penzolava da pali fissati lungo la scala, e Wil e Amberle prudentemente vi si tenevano attaccati. Dopo centinaia di gradini la scala terminò, e imboccarono un nuovo sentiero che scompariva in un boschetto di pini. Davanti a loro sentirono il cupo fragore del fiume, gonfio per le piogge e torbido, accompagnato dal tetro ululato del vento che scendeva dalle montagne. Quando, dopo qualche centinaio di metri, la foresta si aprì davanti a loro, si ritrovarono in una insenatura che, costeggiata da grandi salici piangenti e cedri, dava sul corso principale del Rill Song. Al riparo dell'insenatura, ancorata accanto a un pontile cigolante, quasi marcio, c'era una chiatta solitaria col ponte ricoperto da un telo carico di ceste e provviste.
Crispin gli fece segno di fermarsi. I Cacciatori elfi rimasti indietro svanirono fra gli alberi come spettri. Crispin si guardò intorno, poi fece un lungo fischio. Un altro di risposta venne quasi immediatamente dalla chiatta, poi un altro dal bordo dell'insenatura. Facendo cenno a Wil e Amberle di seguirlo, il capitano della Guardia Reale lasciò il riparo della foresta. Chini per proteggersi dalla violenza del vento, i tre percorsero rapidamente il pontile, con gli stivali che facevano un rumore sordo, poi salirono sulla chiatta in attesa. Un Cacciatore elfo apparve improvvisamente da sotto il telo, tirandone subito indietro un lembo per rivelare un'apertura fra le ceste ammucchiate. Crispin fece cenno ai due giovani di entrare lì dentro. Essi ubbidirono, e il telo calò silenziosamente dietro di loro. Dentro, erano al riparo e all'asciutto. L'oscurità dapprima li disorientò, e rimasero in piedi, incerti, sentendo il rollio della barca sotto i piedi. Ma una debole luce filtrava dai bordi inferiori del telo e lentamente riuscirono a adattare la vista alla penombra. Scoprirono che al centro, fra le ceste, era stato liberato lo spazio sufficiente per formare una piccola cabina. Vivande e coperte erano disposte ordinatamente contro la parete opposta, e in un angolo erano sistemate con cura le armi, in foderi di cuoio. Dopo essersi tolti i mantelli, li distesero a asciugare accanto alle ceste e sedettero, in attesa. Pochi minuti dopo sentirono che la chiatta, con un sobbalzo, si staccava dal vecchio pontile e cominciava a scivolare sulla corrente. Il loro viaggio verso la Malaterra era cominciato. Per tutto quel giorno e quello successivo rimasero nascosti nella loro piccola cabina; Crispin gli aveva proibito di fare anche la più rapida apparizione sul ponte. La pioggia scendeva in un gocciolio costante; la terra e il cielo restavano grigi, immersi nelle ombre. Ogni tanto, fra gli squarci del telo, intravedevano il paesaggio circostante, per lo più un insieme di boschi e di colline ondulate, anche se, a un certo punto del viaggio, una serie di alti scogli e di rupi frastagliate sfilò lungo il Rill Song per diverse ore, mentre la chiatta procedeva lenta e pigra verso sud. Su tutto, la nebbia e la pioggia stendevano un velo di baluginante luce grigia, rendendo il paesaggio simile a un sogno vagamente ricordato. Il fiume, gonfio per le piogge, intorpidito da rami e detriti, faceva oscillare pesantemente la chiatta. Dormire era impossibile. Cercarono di riposarsi il più possibile, brevi sonnellini che, quando si svegliavano, li lasciavano disorientati e ancora
stanchi. I muscoli e le giunture, rattrappiti, doloravano e il costante rollio della barca toglieva loro quel poco appetito che gli restava. Il tempo sembrava non passare mai. Erano sempre soli, tranne nella rare occasioni in cui Crispin o uno degli altri Cacciatori elfi scendevano da loro per ripararsi dalla pioggia. Dove gli Elfi mangiassero o dormissero era un mistero, perché apparentemente erano sempre occupati a governare l'imbarcazione e a montare la guardia ai loro passeggeri. C'era sempre almeno un Elfo di guardia proprio davanti all'ingresso della loro piccola cabina. Dopo un po' ne impararono i nomi; quando, per esempio, uno di loro faceva una rapida comparsa nella cabina oppure sentivano le loro conversazioni all'esterno. A alcuni riuscirono a dare un volto; Dilph, il piccolo Elfo bruno dagli occhi amichevoli e dalle mani d'acciaio, e Katsin, il Cacciatore grande e grosso, ossuto, che non parlava mai. Kian, Rin, Cormac e Ped erano più che altro delle voci, anche se impararono a riconoscere le rapide imprecazioni di Kian e il fischiettare allegro di Ped. Vedevano soprattutto Crispin, poiché il capitano elfo faceva regolarmente visita per informarsi dei loro bisogni e metterli al corrente dell'andamento del viaggio. Non si tratteneva mai più di qualche minuto, scusandosi sempre con cortesia ma con fermezza, per tornare fra gli Elfi ai suoi ordini. Alla fine, fu parlando fra loro che riuscirono a rendere tollerabili la reclusione, lo squallore e la solitudine del viaggio. Cominciarono a conversare perché entrambi ne avevano bisogno, pensò Wil, ma con una certa diffidenza e imbarazzo, perché nutrivano ancora una forte diffidenza reciproca. Il giovane non capì mai veramente perché Amberle avesse scelto di abbandonare l'isolamento nel quale si era rifugiata per gran parte del loro viaggio da Havenstead. Comunque, il suo atteggiamento si modificò in modo sorprendente. Prima, era riluttante a intavolare qualsiasi discussione con Wil. Ora invece era desiderosa di conversare con lui; si fece raccontare episodi dei suoi primi anni a Valle d'Ombra, quando erano ancora in vita i suoi genitori, poi del periodo successivo, quando era andato a abitare con suo nonno e Flick. Si interessò alla sua vita con gli Stor e al lavoro che avrebbe fatto, una volta partito da Storlock e tornato nelle Terre del Sud come Guaritore. Mostrava per lui un interesse sincero e profondo, che nasceva da qualche sua esigenza interiore. Ma non parlarono solo di lui. Amberle raccontò di se stessa, della sua infanzia come nipote del re degli Elfi, della sua vita come unica figlia del figlio morto di Eventine. Descrisse a Wil lo stile di vita degli Elfi, la loro convinzione di dover dare alla terra, che li nutriva e riparava, qualcosa di sé, una parte della loro vita. Di-
scusse con lui i modi in cui le razze potevano meglio soddisfare le reciproche esigenze e quelle della terra. Ciascuno invocava in toni pacati e persuasivi comprensione, compassione e amore, scoprendo così, con un certo stupore, di avere le stesse convinzioni, di condividere gli stessi valori. Pian piano, con cautela, si formò un legame fra i due. Evitavano intenzionalmente di parlare del viaggio che dovevano intraprendere, del pericolo che minacciava il popolo elfo e della loro responsabilità, che consisteva nel porre fine a quel pericolo, o dell'albero misterioso e antico chiamato Eterea. Avrebbero avuto tutto il tempo di occuparsene in seguito; non volevano sprecare questa pausa. Era stato un tacito accordo. Avrebbero parlato con franchezza del passato e del futuro, e ignorato il presente. Quelle conversazioni gli davano conforto. Fuori, la pioggia cadeva incessante, il paesaggio era velato dalla nebbia grigia del temporale, e il Rill Song brontolava scontento nel suo percorso verso sud. Reclusi nel loro buio nascondiglio, martellati dal vento e dalla pioggia, incapaci di dormire e di mangiare, avrebbero potuto facilmente cedere all'apprensione e al dubbio. Ma quelle conversazioni, nate da sentimenti simili e da un'intesa e una comprensione profonde, gli davano calore, infondevano un reciproco senso di sicurezza, attenuando almeno in parte la spiacevole sensazione che tutto il loro mondo stava scomparendo e che anche le loro vite sarebbero mutate per sempre. Quel sentirsi così vicini gli dava speranza. Qualsiasi cosa fosse accaduta nei giorni a venire, l'avrebbero affrontata insieme. Nessuno dei due avrebbe dovuto combattere da solo. A un certo punto. durante quelle ore grigie, piovose, qualcosa di strano accadde a Wil Ohmsford. Per la prima volta da quella notte a Storlock in cui aveva accettato di seguire Allanon nelle Terre dell'Ovest, si ritrovò a preoccuparsi, con intensità e profondità, del futuro di Amberle Elessedil. Era pomeriggio inoltrato del secondo giorno di viaggio quando arrivarono a Boschi Grigi. La pioggia si era ridotta a un lento gocciolio, e con l'arrivo della notte l'aria si era improvvisamente raffreddata. Un crepuscolo grigio avviluppava la foresta come un sudario. Da lontano, a occidente, un nuovo banco di minacciose nuvole nere aveva cominciato a dirigersi verso di loro. Boschi Grigi era un tratto di densa foresta su una serie di basse alture che, dalla riva sinistra del Rill Song. si estendeva verso est, fino a alcune alte, aspre rupi. Olmi e querce nere torreggiavano su un folto groviglio di
cespuglio e rami morti; i boschi emanavano un tanfo di marcio. A una dozzina di metri dalla riva del fiume non c'era nulla, se non una barriera di oscurità profonda e impenetrabile. Soltanto la pioggia che martellava inesorabile gli alberi infrangeva il silenzio. I Cacciatori elfi guidarono la chiatta ingombrante in una baia poco profonda verso un piccolo pontile, i cui pali di sostegno erano investiti da ondate che si riversavano sulle assi di legno. A riva, proprio ai margini della foresta, c'era una capanna vuota, malconcia, con la porta e le finestre chiuse accuratamente. Dopo aver fatto accostare la chiatta ai pali, gli Elfi assicurarono gli ormeggi e scesero a terra. Crispin fece uscire Wil e Amberle dalla cabina, ammonendoli di tenersi ben avvolti nei mantelli, coi cappucci tirati sulla testa. Stiracchiandosi felici, lo raggiunsero sul pontile. Ma le ondate del Rill Song arrivavano fin lì e si affrettarono quindi verso la riva. Dilph si diresse verso la capanna, aprì la porta, sbirciò dentro e indietreggiò. Fece un cenno negativo a Crispin. Il capitano elfo, accigliato, si guardò intorno con aria circospetta. «C'è qualcosa che non va?» chiese Wil. Crispin non lo guardava in faccia mentre rispondeva. «È soltanto una questione di prudenza. La principale postazione è a circa mezzo chilometro di distanza, nell'interno, e è costruita sugli alberi in cima a un'altura in modo da poter dominare la terra circostante. Pensavo che i nostri cacciatori di guardia là ci avrebbero visti venire, ma forse non hanno potuto per via del maltempo.» «Cos'è questa capanna?» volle sapere il giovane. «Una delle nostre diverse postazioni. In genere c'è sempre qualcuno di guardia.» Si strinse nelle spalle. «Con questo tempo, però, può darsi che il comandante della postazione abbia fatto ritirare tutte le sentinelle. Non era informato del nostro arrivo e non aveva nessun motivo di aspettarci.» Lanciò un'occhiata verso la foresta. «Scusami un istante, ti prego.» Fece segno agli altri di raggiungerlo; subito si appartarono, confabulando. Amberle si avvicinò a Wil. «Tu gli credi?» mormorò. «Non so.» «Io no. Sono convinta che sia successo qualcosa.» Il giovane non rispose. I Cacciatori elfi si erano già separati. Katsin era tornato sul molo per tener d'occhio la chiatta ormeggiata. Cormac e Ped avevano preso posizione ai margini della foresta. Crispin ora stava parlan-
do con Dilph, e Wil, senza darlo a vedere, si avvicinò un po' per cercare di intercettare la loro conversazione. «Prendi Rin e Kian e va' a dare un'occhiata alla postazione interna.» Il capitano elfo girò appena la testa per dare un'occhiata a Wil. «Se tutto è a posto, torna qui.» Presa rapidamente una decisione, il giovane si fece avanti. «Vado anch'io.» Crispin aggrottò la fronte. «Non ne vedo il motivo.» Ma Wil non cedette. «Invece c'è, e valido. Proteggere Amberle è una responsabilità mia, oltre che tua; ecco perché Allanon ha voluto che l'accompagnassi. Per assolvere questa responsabilità, devo valutare di volta in volta la situazione, capitano, e in questo caso io credo di dover andare in esplorazione con Dilph.» Dopo aver riflettuto un istante, Crispin annuì. «Purché tu faccia esattamente ciò che ti dice Dilph.» Wil si voltò verso Amberle. «Tu hai obiezioni?» Lei scosse il capo. Rimase a guardarlo in silenzio mentre seguiva i Cacciatori elfi, scomparendo nell'oscurità della foresta. Come spettri, i quattro scivolavano silenziosamente attraverso i boschi impregnati d'acqua. Intorno a loro, la nebbia fluttuava in nastri densi di umidità, e la pioggia cadeva sommessa. File di tronchi scuri e masse di cespugli e alberelli sfilavano via mentre salivano su per ripide alture. Man mano che i minuti scorrevano, Wil Ohmsford si sentiva sempre più turbato. Poi Kian e Rin partirono in direzioni opposte, scomparendo fra i boschi, e Wil si trovò solo con Dilph. Una radura apparve improvvisamente nell'oscurità, e Dilph si accovacciò, facendo cenno a Wil di restare dietro a lui. L'Elfo indicò un punto fra gli alberi. «È là» sussurrò. In alto, fra i rami intrecciati di due grandi querce, c'era la postazione elfa. Pioggia e nebbia oscuravano le costruzioni e le passerelle. Dall'interno non proveniva nessuna luce, né di lampada a olio né di torcia. Tutto era immobile, silenzioso. Come se non ci fosse anima viva. Ma non doveva essere così. Dilph avanzò leggermente, scrutando a sinistra attraverso il buio finché intravide Rin, poi a destra finché trovò Kian. Entrambi se ne stavano inginocchiati al riparo degli alberi a una trentina di metri da lui, osservando la
postazione immersa nel silenzio. Dilph emise un basso fischio per attirare la loro attenzione. Poi fece segno a Kian di andare a dare un'occhiata e mandò Rin a sinistra per esplorare il perimetro della radura. Wil vide Kian scattare verso la base delle querce che sostenevano la postazione, trovare il punto d'appoggio nascosto in un tronco massiccio, e cominciare a salire. Poi, preceduto da Dilph, Wil si diresse a destra, restando ai margini della radura, guardandosi attorno alla ricerca di qualche traccia degli Elfi scomparsi. Il terreno era fradicio, fangoso, e era difficile scorgere qualcosa nel groviglio della boscaglia. Il giovane si voltò a guardare la postazione. Kian aveva quasi raggiunto la costruzione più bassa, una piccola capanna appena sotto gli alloggi. Rin non si vedeva da nessuna parte. Wil stava ancora cercando gli altri Elfi quando fece un passo avanti e inciampò, cadendo a faccia in giù sul corpo straziato, senza vita di un cacciatore elfo. Balzò in piedi, inorridito, scrutando nell'oscurità circostante. Alla sua sinistra c'erano altri due corpi, gli arti contorti, le ossa spezzate e frantumate. «Dilph!» chiamò con un rauco sussurro. Subito l'Elfo gli fu accanto. Fermandosi solo un istante a osservare la scena orrenda, Dilph si affacciò ai margini della radura e emise un fischio forte, acuto. Rin emerse dalla foresta, con un'espressione stupita. Appoggiato alla ringhiera della piattaforma che circondava la capanna, Kian guardò giù. Freneticamente, Dilph gli fece cenno di tornare. Ma, un attimo dopo, Kian scomparve, come se qualcuno l'avesse afferrato e portato via, così improvvisamente che allo sbalordito Wil l'Elfo sembrò essersi dileguato. Poi si sentì l'urlo di Kian, breve, strangolato. Il suo corpo volò giù dagli alberi nella pioggia come un ramo caduto piombando a terra senza vita. «Corri!» urlò Dilph a Wil, e scattò via fra gli alberi. Per un solo, terribile istante il giovane rimase immobile. Kian era morto. Quasi certamente erano morti tutti i membri della postazione elfa. Dalla sua mente svanì ogni sorta di pensiero, tranne uno: se non fosse arrivato da Amberle in tempo, anche lei sarebbe morta. E allora corse, come un cervo braccato attraverso il groviglio della foresta, saltando e contorcendosi fra cespugli e legni marci, nello sforzo disperato di raggiungere la chiatta e l'ignara fanciulla elfa la cui vita gli era stata affidata. Da qualche parte alla sua destra sentiva Dilph e, dietro, Rin. Sapeva d'istinto che qualcosa li inseguiva. Non poteva vederlo né sentirlo, ma lo percepiva, terribile e cupo e spietato. La pioggia gli scorreva sulla faccia, annebbiandogli la vista
mentre cercava di evitare tronchi caduti e cespugli spinosi. Una volta cadde, ma si rialzò quasi immediatamente, senza mai rallentare, la figura snella tutta tesa nello sforzo di allontanarsi il più possibile dall'invisibile cacciatore. Ansimava penosamente e gli doloravano le gambe. Poche volte nella sua vita gli era capitato di avere paura, e ora ne aveva. L'urlo di Rin lacerò il silenzio. La cosa l'aveva preso. Wil digrignò i denti, furibondo. Forse, ora, gli Elfi al pontile si sarebbero allarmati. Forse avrebbero preso subito il largo così che, anche se avessero ucciso lui, Amberle si sarebbe salvata. Rami e foglie lo graffiavano come artigli. Cercò Dilph con lo sguardo, ma non lo vide più. Solo, continuò a correre. Su Boschi Grigi scese il crepuscolo trasformando il tetro pomeriggio in notte. La pioggerella che era caduta costante per quasi tutto il giorno divenne un acquazzone accompagnato da violente folate di vento, mentre nuove masse di nubi temporalesche solcavano il cielo. Il tuono rombava in lontananza. profondo e sinistro. Sulla riva del Rill Song i Cacciatori elfi e la ragazza affidatagli si avvilupparono ancor più i mantelli fradici di pioggia intorno ai corpi raggelati. L'urlo risuonò da qualche punto del bosco, alto e breve, quasi soffocato dal pesante sibilo del vento. Per un istante nessuno si mosse, lo sguardo fisso sulla scura barriera di alberi. Poi Crispin cominciò a urlare ordini, rimandando Amberle al riparo sulla chiatta, chiamando Ped e Cormac. Con le armi in pugno. i tre Cacciatori elfi indietreggiarono fino all'estremità del pontile, scrutando il groviglio nebbioso della foresta. Sulla chiatta Katsin allentò gli ormeggi, pronto a partire. Amberle rimase rannicchiata per alcuni minuti nell'oscurità della cabina, ascoltando il vento e la pioggia. Poi all'improvviso si alzò, scostò il telo, e uscì fuori. Quali che fossero le conseguenze, non poteva restarsene nascosta senza sapere che cosa stesse succedendo. Si fece strada fra i mucchi di ceste finché riuscì a arrivare sul pontile. Katsin aveva assicurato gli ormeggi intorno a un palo di sostegno; ora ne teneva strette le estremità, pronto a lasciarle andare appena avesse ricevuto l'ordine. Diede un'occhiataccia a Amberle quando la vide, ma la ragazza lo ignorò. Vicini alla riva, a una certa distanza dal pontile, gli altri Cacciatori elfi stavano di fronte al bosco, le lame delle spade luccicanti debolmente sotto la pioggia.
Improvvisamente una figura lacera e scarmigliata emerse dagli alberi a venti metri di distanza, inciampò e cadde in avanti. Quando si tirò in piedi, videro che era Dilph. «Partiamo!» gridò, fuori di sé. «Partiamo subito!» Fece per proseguire, ma perse l'equilibrio e cadde di nuovo. Crispin era già in azione. Con un secco ordine mandò Ped e Cormac alla chiatta mentre lui correva a soccorrere Dilph. Senza quasi rallentare, afferrò il compagno, se lo caricò su una spalla e corse verso la barca in attesa. Amberle scrutava la foresta attraverso la foschia e la pioggia. Dov'era Wil Ohmsford? «Mollate gli ormeggi!» urlava Crispin. Katsin ubbidì, poi in gran fretta spinse Amberle sulla chiatta dove Ped e Cormac già aspettavano. Un secondo dopo, Crispin aveva portato a bordo anche Dilph, e la pesante imbarcazione cominciò a scostarsi dalla riva. Poi, improvvisamente, apparve Wil; a fatica uscì fuori dalla foresta e corse verso il pontile. Amberle lo vide, fu sul punto di gridare, ma si sentì gelare il sangue. Nell'ombra degli alberi dietro di lui, qualcosa di enorme lo inseguiva. «Sta' attento!» urlò a Wil. Spronato dal suo grido, il giovane raggiunse il pontile con un sol balzo, lo percorse senza rallentare, e saltò sulla chiatta che si stava allontanando, raggiungendone il ponte con un piede. Sarebbe caduto nel fiume se i Cacciatori elfi non lo avessero tirato in salvo. L'ingombrante imbarcazione imboccò il corso principale del Rill Song e cominciò a acquistare velocità. Katsin afferrò la barra del timone, invertendo la rotta. Traballando, Wil raggiunse il loro nascondiglio e cadde a terra, sfinito. Rapida, Amberle si tolse il mantello e vi avvolse Wil. Vicino a loro, Crispin era chino su Dilph. Il vento e il fragore del fiume soffocavano le parole dell'Elfo. «... Morti, tutti... fatti a pezzi, come rami... come la pattuglia di Arborlon, come... gli Eletti.» Boccheggiava. «Anche Kian... e Rin... sono morti... il demone li ha presi... ci aspettava...» Amberle non sentì il resto. Tutta la sua attenzione era concentrata su Wil. Con spaventosa certezza, ciascuno comprese la verità. Li aspettava. Il demone. Allanon gli aveva dato un nome. Lo aveva chiamato il Mietitore. 23
Era mezzanotte quando Crispin accostò di nuovo la chiatta a riva. Immediatamente sotto Boschi Grigi, il Rill Song deviava verso ovest nel suo percorso tortuoso verso Innisbore. Quando finalmente gli Elfi guidarono la chiatta in una stretta insenatura boscosa che si apriva a sud del corso del fiume, si ritrovarono sul confine più settentrionale di Acque Opache, a miglia di distanza dal punto in cui si erano proposti di lasciare il fiume. La pioggia si era ridotta di nuovo a un gocciolio sottile che permeava come bruma l'aria gelida. Pesanti nuvole oscuravano la luna e le stelle, e la notte era così buia che persino gli occhi degli Elfi vedevano solo fino a pochi passi di distanza. Il vento si era placato del tutto, e una foschia profonda era calata su tutto il paesaggio. I Cacciatori avvicinarono la chiatta a una bassa lingua di sabbia all'inizio dell'insenatura, la tirarono quasi in secco e l'ormeggiarono. Rapidi e sicuri, esplorarono i boschi circostanti per diverse centinaia di metri in tutte le direzioni e, dopo aver appurato che nessun pericolo era in agguato, tornarono a far rapporto a Crispin. Il capitano decise che era assurdo tentare di proseguire il viaggio di notte. Disse a Wil e a Amberle di restare nella loro cabina. Avvolti in calde coperte per proteggersi dal freddo, liberati per la prima volta in due giorni dal fastidioso rollio del fiume, si addormentarono di colpo. Gli Elfi si disposero tutt'intorno alla chiatta e ai suoi passeggeri addormentati, montando la guardia a turno. Crispin si appostò davanti all'ingresso della cabina e si preparò a trascorrervi la notte. All'alba, la piccola compagnia si alzò; sistemarono nei sacchi tutte le provviste e le armi che potevano portare, poi liberarono la chiatta dagli ormeggi, lasciandola in balia del fiume. Scivolò via subito trascinata dalla corrente. Appena fu scomparsa, iniziarono il viaggio attraverso Acque Opache. Acque Opache erano pianure soffocate da un groviglio di boscaglia e cespugli e costellate di laghi stagnanti, roveti, doline. Spezzavano in due le vaste foreste dell'Ovest dalle rive del Rill Song fino alla catena dello Sperone Roccioso: un labirinto desolato e selvaggio in cui pochi viaggiatori osavano addentrarsi. Coloro che lo facevano, correvano il rischio di perdersi senza speranza in un groviglio di boscaglia e di paludi avviluppate nella bruma e nell'oscurità; e, peggio ancora, di imbattersi negli sgradevoli abitanti di Acque Opache: creature maligne, astute, pronte a attaccare chiunque. I pochi che vivevano in quella plaga semideserta agivano in base al principio che tutte le creature si suddividono in predatori e prede e che sol-
tanto i primi hanno il diritto di sopravvivere. «Se esistesse un'alternativa. non passeremmo di qui» spiegò Crispin, affiancandosi un attimo a Wil per condividere le sue riflessioni con lui. «Se tutto fosse andato secondo i nostri piani, avremmo proseguito a cavallo dalla nostra postazione a sud, passando per il confine occidentale di Acque Opache fino al Mermidon, e di lì ci saremmo diretti verso lo Sperone Roccioso. Ma quel che è successo a Boschi Grigi ha cambiato tutto. Ora dobbiamo preoccuparci di quel demone che ci insegue, oltre che di quelli che potremo ritrovarci davanti. L'unico lato positivo della pianura è che nasconderà ogni traccia del nostro passaggio.» Wil scosse la testa, dubbioso. «Il Mietitore non si arrenderà facilmente.» «No, continuerà a inseguirci» ammise l'Elfo. «Ma non ci coglierà più di sorpresa. Ci aspettava a Boschi Grigi perché sapeva del nostro arrivo. Non so come, ma certo ne era informato.» Lanciò un'occhiata al giovane, che tacque. «In ogni caso. non può sapere dove siamo adesso. Se vuole scovarci, dovrà trovare le nostre tracce. E ci sarebbe riuscito piuttosto agevolmente, se fossimo rimasti nella foresta, ma qui sarà molto difficile. Dovrà prima scoprire a che punto abbiamo lasciato il fiume, e già quello potrà richiedergli dei giorni. Poi dovrà seguirci qui. Ma Acque Opache ti inghiottono senza lasciare traccia; questa zona paludosa cancella le tracce dieci secondi dopo che sei passato. E abbiamo con noi Katsin, che è nato da queste parti e ha già attraversato Acque Opache. Per quanto sia potente, il demone si ritroverà in una terra a lui sconosciuta. Dovrà cacciare soltanto seguendo il suo istinto. E questo ci dà un buon margine di sicurezza.» Wil Ohmsford non era d'accordo. Anche Allanon non aveva creduto che i demoni potessero inseguirlo, quando aveva lasciato Paranor. E invece l'avevano fatto. Il giovane aveva creduto che non avrebbero ritrovato lui e Amberle dopo che il Re del Fiume Argento li aveva portati sulle lontane rive del Lago Arcobaleno. Perché questa volta doveva essere diverso? I demoni erano creature di un'altra era, e avevano poteri per loro inimmaginabili. Lo aveva affermato lo stesso Allanon. Aveva anche detto che chi li guidava era uno stregone. Che difficoltà avrebbero incontrato a rintracciare una piccola compagnia di cacciatori elfi, una ragazza e un giovane? Eppure, non c'erano alternative, lui lo sapeva. Se il Mietitore fosse riuscito a scovarli fra Acque Opache, li avrebbe trovati ovunque. Crispin aveva preso la giusta decisione. I Cacciatori elfi erano molto abili; forse questo sarebbe bastato per assicurare il successo del viaggio.
Il giovane era assai più preoccupato da un'altra spiacevole possibilità, e da quando si erano imbattuti nel Mietitore a Boschi Grigi non era riuscito quasi a pensare a altro. Il Mietitore sapeva che sarebbero arrivati alla postazione elfa. Doveva saperlo, perché era rimasto lì in agguato. Crispin aveva ragione. Ma poteva esserne stato informato soltanto dalla spia nascosta fra gli Elfi, la spia che Allanon aveva cercato con tanta cura di ingannare. E se i demoni erano al corrente del loro piano di raggiungere la postazione elfa di Boschi Grigi, che cos'altro ancora sapevano? Era possibile, concluse il giovane, che sapessero tutto. Era una possibilità agghiacciante, una possibilità che avrebbe preferito scartare, ma che, più esaminava i fatti, più appariva plausibile. Allanon era sicuro che vi fosse una spia nel campo elfo. In qualche modo la spia aveva origliato la loro conversazione nello studio di Eventine. Non riusciva a immaginare come vi fosse riuscita, ma ne era certo. Si era accennato a Boschi Grigi. il che spiegava la presenza del Mietitore in quel luogo. Ma avevano anche parlato della Malaterra. Quindi i demoni sapevano esattamente dove si sarebbero diretti, dopo aver lasciato Boschi Grigi; e se ciò era vero, qualsiasi percorso scegliesse o qualsiasi trucco impiegasse per eludere gli inseguitori, era molto probabile che, quando la piccola compagnia fosse giunta nella Malaterra, avrebbe trovato i demoni in agguato. Il pensiero non abbandonò Wil per tutto il giorno, mentre con gli altri avanzava faticosamente attraverso il groviglio paludoso di Acque Opache. Erano punti in continuazione da cespugli spinosi e falaschi, la nebbia impregnava di umidità i loro indumenti, raggelandoli, e il fango e l'acqua fetida filtravano nei loro stivali e li assalivano con un orribile odore. Camminavano separati e distanti l'uno dall'altro, quasi senza parlare, scrutando con sospetto la pioggia e la foschia turbinante in quella plaga che si estendeva intorno a loro, grigia e monotona. Quando scese la notte, erano sfiniti. Si accamparono fra alcuni cespugli che crescevano contro una bassa altura. Accendere un fuoco era troppo rischioso, così si avvolsero nelle coperte umide e si accontentarono di cibo freddo. I cacciatori mangiarono rapidamente e si prepararono a montare la guardia a turno. Wil aveva appena terminato il suo pasto frugale a base di carne essiccata e frutta, con l'aggiunta di un poco d'acqua, quando Amberle venne a rannicchiarsi accanto a lui, guardandolo col suo volto di bambina fra le pieghe della coperta che si era messa sulla testa. Ciocche sparse di capelli castani le ricadevano sugli occhi. «Come te la cavi?» chiese lui.
«Bene.» Aveva lo sguardo di un'orfana smarrita. «Devo parlarti.» «Ti ascolto.» «È tutto il giorno che penso a una cosa.» Wil annuì in silenzio. «Il Mietitore ci aspettava a Boschi Grigi» disse lei, calma. Poi esitò. «Capisci cosa significa?» Lui rimase in silenzio. Sapeva cosa avrebbe detto ora. Era come se gli avesse letto il pensiero. «Significa che sapeva del nostro arrivo.» Anche lui era giunto alla stessa conclusione. «Come può essere accaduto?» Wil scosse la testa. «Chissà.» Era scorretto da parte sua, lo sapeva. Lei avvampò. «Così come i demoni ci hanno trovati a Havenstead? E hanno trovato Allanon a Paranor? E, a quanto pare, ci trovano ovunque andiamo?» La sua voce era sempre sommessa, ma carica di collera. «Credi proprio che io sia stupida, Wil?» Era la prima volta che lo chiamava per nome, e lui ne fu tanto sorpreso che per un attimo si limitò a fissarla. I suoi occhi esprimevano dolore e sospetto, e egli capì che doveva dirle quel che Allanon aveva raccomandato di tenerle nascosto, oppure mentirle. Fu facile decidere. Le raccontò della spia. Quando ebbe finito, lei scosse la testa, con atteggiamento di rimprovero. «Avresti dovuto dirmelo prima.» «Allanon mi aveva chiesto di nascondertelo» cercò di scusarsi. «Pensava che avessi già troppi motivi di preoccupazione.» «Il Druido crede di conoscermi bene, ma non è così. A ogni modo, tu dovevi dirmelo.» Non se la sentiva più di giustificarsi. Annuì. «Lo so. E non l'ho fatto.» Rimasero in silenzio per un attimo. Dalla nebbia emerse, come un folletto, uno degli Elfi di guardia, poi scomparve di nuovo. Amberle lo seguì con lo sguardo, poi si rivolse di nuovo a Wil. La sua voce, irreale, uscì dalle pieghe del cappuccio, il volto nascosto nell'ombra. «Non sono in collera. Davvero.» Lui ebbe un debole sorriso. «Bene. Questa palude è già abbastanza squallida.» «Ma mi sarei arrabbiata se non mi avessi detto la verità ora.» «L'ho capito.»
Lei lasciò cadere l'argomento. «Se quella spia ci ha origliati mentre eravamo nello studio di mio nonno la sera prima che partissimo da Arborlon, allora i demoni sanno dove stiamo andando, vero?» «Immagino di sì» rispose lui. «E allora sanno anche della Cripta. e di tutto quel che l'Eterea disse agli Eletti, perché Allanon l'ha ripetuto a noi. Hanno le stesse nostre probabilità di trovare il Fuoco di Sangue.» «Forse no.» «Forse no?» «Noi abbiamo le Pietre Magiche» ribatté lui, domandandosi allo stesso tempo che differenza facesse. Dopotutto, non era sicuro di poterle usare nuovamente. Quel pensiero lo avvilì. «Chi poteva essere tanto vicino da sentire quel che dicevamo?» disse corrugando la fronte e guardandolo. Wil scosse la testa, in silenzio. Anche lui se l'era domandato. «Spero che non sia successo nulla a mio nonno» mormorò Amberle, un attimo dopo. «Sono sicuro che sta meglio di noi» rispose Wil, con un sospiro. «Per lo meno può dormire al caldo.» Si rannicchiò, tirando le ginocchia verso il petto, nel tentativo di scaldarsi un poco. Amberle gli si accostò, rabbrividendo. Lui lasciò che gli si raggomitolasse accanto, tutta avvolta nelle sue coperte. Il giovane ebbe una smorfia. «Vorrei che non fosse mai cominciata questa storia.» Lei si voltò verso Wil. «E io vorrei che, d'ora in poi, tu fossi sempre sincero con me. Basta con i segreti.» «Basta con i segreti» promise lui. Dopo di che non parlarono più. Qualche minuto dopo, la testa di Amberle gli scivolò sulla spalla: dormiva. Lui non la disturbò. La lasciò così e rimase a scrutare il buio, pensando a momenti migliori. Per i due giorni successivi, la piccola compagnia avanzò faticosamente attraverso lo squallore di Acque Opache. Pioveva quasi sempre, un gocciolio insistente intervallato da acquazzoni che infradiciavano ancor di più quella terra fangosa e raggelavano e intristivano i viaggiatori. Sopra di loro era sospesa una coltre di bruma che turbinava fra cime di alture e laghi paludosi, stagnanti. Il sole era sempre nascosto da strati di nubi temporalesche, e la sua presenza era segnalata solo da una debole luce nel cielo che
durava alcune ore intorno a mezzogiorno. Di notte, c'era soltanto il buio impenetrabile. Il viaggio era lento e faticoso. In fila indiana, si facevano strada in quel groviglio di erbacce, attraverso roveti che era difficile abbattere e spazzar via con le lame delle spade, lungo paludi che ribollivano fetide e risucchiavano qualsiasi cosa gli capitasse a tiro, e intorno a laghi maleodoranti di fango verdastro. Per terra erano sparsi rami secchi mescolati a pozze d'acqua e a radici contorte. La vegetazione era tutta ricoperta di un velo grigio che ne spegneva il verde e dava al paesaggio un aspetto malsano, invernale. Le forme di vita di Acque Opache restavano nascoste, anche se deboli suoni frullavano e saettavano nella quiete opprimente, e ombre scivolavano come fantasmi attraverso la pioggia e l'oscurità. Poi, poco prima della metà del terzo giorno, arrivarono davanti a una distesa di acqua stagnante, soffocata da radici e rami morti che sporgevano come le ossa rotte della terra da uno strato di foglie di ninfee ondeggianti sotto la pioggia. Sulle rive del lago si ammassavano a perdita d'occhio rovi e piante nane. La foschia turbinava sulla superficie dell'acqua, e non si intravedeva la riva opposta. Fu subito evidente che, per costeggiare il lago evitando i rovi, sarebbero dovuti tornare sui loro passi, il che avrebbe comportato diverse ore di cammino. Non restava che un'alternativa, e la scelsero. Katsin li guidava, come aveva fatto per gran parte del viaggio attraverso Acque Opache, mentre gli altri quattro cacciatori procedevano a coppie, così che due camminavano davanti a Wil e Amberle e due li seguivano. Aprendosi la strada in mezzo alla boscaglia, salirono su un ponticello di terra e radici che partiva dalla riva e scompariva nella nebbia. Con un po' di fortuna, avrebbero raggiunto la riva opposta. Procedevano con cautela. un passo dopo l'altro, ben attenti a non cadere nella melma sottostante. La foschia si richiudeva quasi immediatamente intorno a loro, inghiottendo il paesaggio retrostante. I minuti scorrevano. Raffiche di pioggia li investivano. Poi, improvvisamente, la nebbia scomparve: una dozzina di metri più avanti, il ponte scendeva nel lago. Al di là si alzava una sorta di collina incrostata di rocce e vegetazione. Da nessuna parte si vedeva la riva opposta. Erano finiti in un vicolo cieco. Crispin andò avanti per esaminare da vicino cosa si nascondesse dietro la collina, ma Katsin alzò bruscamente la mano in segno di avvertimento. Poi si voltò subito verso gli altri. portandosi un dito alle labbra. Indicò la collina, il lungo pendio che scendeva nel lago. In fondo, piccoli schizzi di
vapore uscivano da due fori ispidi che sporgevano appena sopra la linea dell'acqua. Fori che respiravano! Silenziosamente. Crispin fece loro cenno di indietreggiare. Qualsiasi cosa dormisse laggiù, non aveva alcuna intenzione di disturbarla. Ma era troppo tardi. La creatura li aveva sentiti. Il suo corpo immenso si sollevò improvvisamente dal lago, inondandoli di acqua stagnante. Soffiò rumorosamente mentre gli occhi gialli, ora aperti, spuntavano dalla coltre di ninfee e rampicanti. Tentacoli serpeggianti scattarono dal corpo ricoperto di melma. e un muso largo e piatto oscillò verso di loro, le fauci spalancate per la fame. Rimase sospeso sopra il lago per un attimo, poi affondò nell'acqua e scomparve. Wil Ohmsford intravide appena la creatura mostruosa. Poi si ritrovò a fuggire attraverso la nebbia seguendo Ped e Cormac, tirandosi dietro Amberle. sforzandosi disperatamente di non perdere l'equilibrio su quel ponticello. Sentì Katsin, Dilph e Crispin correre poco distante e si azzardò a lanciare una rapida occhiata indietro per vedere se la creatura li aveva seguiti. In quello stesso istante, incespicò e cadde, trascinando Amberle con sé. Quella caduta salvò a entrambi la vita. Dalla foschia emerse il mostro; le sue fauci massicce si abbatterono sul ponticello come la rete di un pescatore. Ped e Cormac urlarono inorriditi mentre la cosa li catturava e li trascinava nel lago. Poi il mostro sprofondò nell'acqua e scomparve. Wil era paralizzato dall'orrore, lo sguardo fisso nel punto in cui la cosa era scomparsa. Subito arrivò Crispin, afferrò Amberle e se la buttò sopra una spalla, schizzando verso la riva. Katsin fece la stessa cosa con Wil prima che il giovane potesse riprendersi, e seguì il capitano. Dilph correva dietro di loro, con la corta spada in pugno. Pochi secondi dopo, si facevano di nuovo strada, barcollando, fra la barriera di rovi e cespugli. Lontani dalla riva, crollarono sulla terra fangosa, respirando affannosamente, tesi nello sforzo di intercettare qualsiasi rumore sospetto. Il silenzio era totale. La creatura era scomparsa. Ma ora erano rimasti in cinque. 24 Il crepuscolo scese lentamente sulle Terre dell'Ovest in grigie ragnatele d'ombra e il freddo della sera calò sulla foresta. Le nubi che avevano na-
scosto il cielo estivo per quasi sette giorni cominciarono a aprirsi così che lembi di azzurro scintillavano nel tramonto. A ovest, l'orizzonte si fece scarlatto e viola; la luce morbida avvolse i boschi fradici di pioggia. Dalla foschia che avvolgeva come un sudario Acque Opache emersero i cinque superstiti della piccola compagnia partita da Arborlon, simili a anime perse dell'oltretomba. Stralunati e malconci, con le mani e la faccia ricoperte di graffi e lividi, gli indumenti sporchi e laceri che gli penzolavano fradici dal corpo, sembravano dei mendicanti. Soltanto le loro armi suggerivano un'identità diversa. Trascinandosi a fatica attraverso l'ultimo roveto, l'ultima macchia di cespugli, si arrampicarono su per una piccola altura sassosa, ricoperta di cespugli e, finalmente, si ritrovarono davanti al Baluardo. Era uno spettacolo che toglieva il fiato. Le due montagne gemelle sorgevano ai lati dell'ampio nastro tortuoso del Mermidon che scorreva a est verso le praterie di Callahorn, formando un cancello naturale d'accesso all'ampia catena di monti gibbosi che gli Elfi chiamavano lo Sperone Roccioso. Solitarie e austere, le massicce sentinelle torreggiavano all'orizzonte a guardia della terra sottostante. I solchi e i crepacci disegnavano sulla roccia un labirinto di cicatrici che l'oscuravano come rughe sul volto di un vecchio. Alla base settentrionale delle montagne cresceva una foresta di pini che si diradava via via che aumentava l'altitudine, finché restavano soltanto cespugli e fiori selvatici che costellavano la roccia scura di brillanti macchie di colore. In alto, chiazze di neve e ghiaccio scintillavano di un bianco abbagliante. Crispin si consultò rapidamente con i compagni di viaggio. Vagando nel labirinto di Acque Opache, si erano spostati più a est di quanto fosse auspicabile; così erano emersi lì anziché ai margini dello Sperone Roccioso. Secondo la logica, avrebbero dovuto costeggiare il Baluardo, poi proseguire, risalendo lungo il Mermidon fino al punto in cui si inoltrava nella catena dello Sperone Roccioso. Ma, dovendo viaggiare sempre a piedi, avrebbero impiegato almeno due giorni per arrivarvi. Peggio ancora, avrebbero corso il rischio di lasciare tracce facilmente riconoscibili. Secondo il capitano elfo, esisteva un'alternativa migliore. All'interno di un crepaccio nel picco di fronte a loro era annidata una fortezza elfa rimasta abbandonata fin dalla Seconda Guerra delle Razze. Crispin vi era stato anni prima e, se fosse riuscito a ritrovarla, vi erano tunnel che di lì scendevano attraverso la montagna fino al Mermidon, nel punto in cui il fiume passava in mezzo alle due torri gemelle. Sul fiume c'erano dei pontili e, forse, anche una
barca; o altrimenti, avrebbero trovato abbastanza legna da costruirne una. Di lì, il Mermidon scorreva a est per diverse miglia, ma poi curvava fin dove lo Sperone Roccioso confinava con le paludi impenetrabili di Lama Spettrale. Se fossero riusciti a navigare sul fiume, avrebbero impiegato metà tempo: un giorno, forse anche meno. E poi c'era un altro motivo per scegliere quell'alternativa, aggiunse il capitano elfo. Il fiume avrebbe nascosto ogni traccia del loro passaggio. Quest'ultima considerazione fu decisiva. Nessuno di loro aveva dimenticato l'incontro col Mietitore a Boschi Grigi. Certo il demone stava ancora cercandoli e dovevano fare ogni possibile sforzo per eluderlo. Perciò tutti accettarono rapidamente il consiglio di Crispin. Senza perdere altro tempo, cominciarono a salire sulla montagna più vicina del Baluardo. Passarono rapidamente fra i pini sparsi alla base, raggiungendo le falde mentre il sole cominciava a tramontare dietro la foresta e scendevano le prime ombre della sera. Poi una mezzaluna si accese luminosa a est; un nugolo di stelle palpitava nel blu profondo del cielo, illuminando il cammino dei cinque che avanzavano sulle rocce. Era una notte placida, silenziosa, ricca di dolci fragranze di bosco portate da un venticello del sud. Trovarono un sentiero ampio, ben segnato, che saliva tortuoso fra massi, dirupi e baratri nell'ombra della montagna. Mentre dietro di loro la foresta cominciava a allontanarsi, a nord, sotto di loro, il panorama cupo di Acque Opache si profilava fino al nastro sottile del Rill Song. Era quasi mezzanotte quando finalmente apparve la fortezza elfa. Era situata in un profondo crepaccio, un labirinto tortuoso di parapetti, torri e bastioni che si stagliava scuro contro le rocce illuminate dalla luna. Una lunga scala serpeggiava fino a un ampia entrata nelle mura esterne del castello. Il portale di legno rivestito di ferro - rovinato dalle intemperie e dagli anni, coi cardini arrugginiti - era spalancato. Le torri di guardia erano appollaiate come animali rapaci in cima a massicce mura costruite con blocchi di pietra, le finestre alte e strette. nere e vuote. Spuntoni di ferro sporgevano dalla sommità dei parapetti; in alto, fra le numerose torri appuntite, le catene che un tempo avevano portato gli stendardi dei re elfi urtavano con fragore contro aste di ferro. Da qualche punto sopra la fortezza, fra le profondità dei dirupi, risuonò il richiamo penetrante di un uccello notturno: il suo gridò salì, diventando stridulo e forte come il sibilo del vento, echeggiò per un attimo, poi svanì. I cinque superstiti della piccola compagnia partita da Arborlon salirono i gradini dell'ingresso e varcarono cauti la soglia della fortezza abbandona-
ta. Un angusto cammino di ronda, formato da blocchi di pietra, fra cui erano cresciuti cespugli e erbacce, portava a un secondo giro di mura. I passi dei cinque rimbombavano nel silenzio assoluto. Pipistrelli svolazzavano dalle fessure e dalle crepe, agitando freneticamente le ali membranose. Piccoli roditori schizzavano qua e là. Le ragnatele penzolavano come fili di garza, restando attaccate ai vestiti dei viaggiatori. Alla fine del cammino di ronda. un ingresso dava su un enorme cortile zeppo di detriti, in cui ululava il vento. A ciascun lato di uno spalto, un'ampia scala saliva verso un balcone sul davanti della torre principale dell'antica fortezza: una mostruosa cittadella che si alzava per decine di metri nel cielo notturno, le rozze pietre che scomparivano nell'ombra della montagna. Le finestre indicavano i vari piani della torre, che si affacciava sull'oscurità aggrovigliata di Acque Opache. Al centro del balcone. una nicchia profonda nascondeva un'unica porta di legno. In basso, una seconda porta immetteva direttamente nella torre. Entrambe erano chiuse. Wil si guardò intorno, a disagio: quelle torri e quei bastioni incombevano su di lui, cupi e sinistri, decrepiti per l'età. Il vento gli ululava nelle orecchie e gli gettava la polvere negli occhi; si strinse il cappuccio intorno alla faccia per proteggersi. Non gli piaceva quel posto. Gli faceva paura. Era un rifugio per spettri, un luogo in cui ogni essere vivente era un intruso. Guardò Amberle e lesse nei suoi occhi il suo stesso turbamento. Crispin aveva mandato Dilph a esplorare il balcone. Seguito da Katsin, il capitano elfo si diresse verso l'ingresso della torre. Manovrò inutilmente il chiavistelli, poi fece pressione con tutto il corpo contro la porta, che non cedette. Anche Katsin tentò di sfondarla, ma senza successo. La porta era bloccata. Wil li osservava con crescente apprensione. La fortezza incombeva su di loro, e lui era ansioso di liberarsi di quella presenza opprimente. Dal balcone apparve Dilph e l'ululato del vento quasi soffocò le sue parole. La porta in alto era aperta. Crispin annuì. Dopo aver raccolto diversi pezzi di legno sparsi che potevano servire come torce, una volta entrati nella torre, guidò la compagnia su per le scale, verso il riparo della nicchia. La porta era spalancata. Appena entrato, il capitano elfo accese uno dei pezzi di legno con della pietra focaia, ne accese un secondo che diede a Dilph, poi fece loro cenno di entrare, e chiuse la porta contro il vento. Si ritrovarono in un piccolo atrio da cui si diramavano diversi corridoi immersi nel buio. Una scala a chiocciola si apriva sulla parete di fronte, salendo dal pavimento di pietra nell'oscurità. L'aria, smossa dal vento, era impregnata di polvere, e la roccia della torre era permeata dall'odore di
umidità e di chiuso. Tenendo la torcia in alto davanti a sé, Crispin camminò avanti e indietro per la stanza, controllò la pesante sbarra di ferro che bloccava la porta d'accesso, e poi si voltò verso gli altri. Avrebbero riposato lì fino all'alba. Katsin e Dilph avrebbero montato la guardia nel cortile mentre Wil e Amberle dormivano. Crispin sarebbe andato alla ricerca del tunnel che, attraverso la montagna, li avrebbe portati sulle rive del Mermidon. Dilph porse la sua torcia a Wil. Seguito da Katsin, scomparve nella notte. Crispin chiuse la porta dietro di loro, avvertì Wil e Amberle di tenere la sbarra abbassata e poi scomparve nell'oscurità di uno dei vari corridoi. Il giovane e la ragazza rimasero a guardarlo finché anche la sua torcia svanì nel buio. Poi Wil si avvicinò all'ingresso, infilò la sua torcia in una staffa di ferro fissata alla parete e sedette per terra con la schiena appoggiata contro la porta. Amberle si avvolse nella sua coperta e si sdraiò accanto a lui. Attraverso le fessure dei serramenti, l'ululato del vento echeggiava in modo spettrale per i corridoi, simili a tunnel, della torre. Passò molto tempo prima che i due giovani si addormentassero. Wil non seppe mai se avesse veramente dormito. Era caduto in uno stato di assopimento che lo lasciava sospeso fra la veglia e il sonno. Quasi subito cominciò a sognare, inoltrandosi attraverso il groviglio di torpore sospeso come una nebbia fitta intorno al suo inconscio. Bruma e oscurità lo avvolsero in una foresta di immagini, e si smarrì. Eppure era già stato lì, gli sembrava. Era un sogno, o una visione, che aveva già avuto... Poi sentì la terribile presenza della creatura accovacciata nel buio intorno a lui, e improvvisamente ricordò. Havenstead... Aveva avuto quel sogno a Havenstad. La creatura lo inseguiva, e lui era fuggito, ma inutilmente, perché non c'era possibilità di salvezza. Infine si svegliò. Ma ora cosa poteva fare? Fu invaso dal panico. La cosa, il mostro, era lì. Era tornato per distruggerlo. Non poteva sfuggirgli, a meno che non si svegliasse. Ma non riusciva a emergere dal buio, dalla nebbia. Sentì il proprio urlo mentre la cosa si protendeva verso di lui. Di colpo fu sveglio. Nella tasca della tunica le Pietre Magiche bruciavano come fuoco contro il suo corpo. Si tirò su, scrutò freneticamente l'alone fumoso, rossastro della torcia guizzare sulle pareti di pietra. Amberle era rannicchiata accanto a lui, gli occhi annebbiati di sonno, pallida e spaventata. Wil toccò il sacchetto delle Pietre Magiche, incerto. Forse era stato il
suo urlo a svegliarli, si domandò. Ma la ragazza non guardava lui. Fissava la porta. «Là fuori» mormorò. In fretta Wil si alzò, tirando su anche Amberle. Rimase in ascolto, ma non udì nulla. «Forse è stato il vento» mormorò infine, dubbioso. Le mise una mano sul braccio. «È meglio che dia un'occhiata. Richiudi subito la porta, appena sarò uscito. Aprila soltanto se senti la mia voce.» Fece correre la pesante sbarra e scivolò fuori nella notte. Il vento sibilò attraverso la porta che si chiudeva dietro di lui. Amberle abbassò subito la sbarra e rimase in attesa. Wil si accovacciò per un istante nell'ombra della nicchia, scrutando il buio circostante. La luce della luna cadeva sul balcone deserto, sulle mura e sui bastioni tutt'intorno. Si avvicinò prudentemente al parapetto e guardò nel cortile. Era vuoto. Nessuna traccia di Katsin o Dilph. Esitò, incerto sul da farsi. Un attimo dopo, cominciò a percorrere il balcone. In cima alle scale, si fermò di nuovo per scrutare il cortile. Non si vedeva nulla. Cominciò a scendere. A ogni raffica di vento erbacce e mulinelli di polvere correvano di qua e di là per il cortile cosparso di detriti. Wil scivolò silenziosamente giù per le scale. Era quasi in fondo quando vide Katsin. O per lo meno quel che restava di lui, il suo corpo grottescamente contorto, abbandonato contro il muro sotto il balcone. A qualche metro di distanza giaceva Dilph, appena visibile sotto quel che restava della pesante porta della torre, prima saldamente sbarrata. Wil si sentì raggelare. Il Mietitore! Li aveva trovati. E si trovava dentro la torre. L'istante dopo, correva affannosamente su per le scale verso l'ingresso del balcone, pregando che non fosse troppo tardi. Sola, nel piccolo atrio della torre, Amberle ebbe l'impressione di sentire un rumore provenire dalla tromba delle scale dietro di lei, un rumore che giungeva dalle profondità della costruzione. Innervosita, si guardò intorno, poi rimase in ascolto. Era tutta tesa quando un battere di pugni sulla porta della torre la fece sussultare. Corse via, gridando. «Amberle! Apri!»
Era la voce di Wil, resa quasi irriconoscibile dall'ululato del vento. In fretta, Amberle fece scorrere la pesante sbarra. Il giovane balzò dentro, chiudendo la porta dietro di sé. Era bianco per la paura. «Sono morti... tutti e due!» Si sforzò di parlare a bassa voce. «È stato il Mietitore. È qui. nella torre!» Amberle stava per dire qualcosa, ma Wil rapidamente le mise una mano sulla bocca. Un rumore - aveva udito un rumore - nella tromba delle scale. Era il Mietitore. Lo sapeva con certezza assoluta. Veniva da loro. Una volta che fosse arrivato lì, sarebbe stata la fine. Per un istante il giovane fu sopraffatto dal panico. Come poteva essere accaduto? Come aveva potuto trovarli così rapidamente? E che cosa avrebbe dovuto fare lui, ora? Tenendo la torcia davanti a sé come uno scudo, si allontanò dalla porta e dalla tromba delle scale. Amberle lo seguiva da presso, indietreggiando meccanicamente come lui. Non potevano restare lì, si disse, come paralizzato. Lanciò un'occhiata ai vari corridoi. Quale aveva imboccato Crispin? Non ne era sicuro. Scelse quello in cui, gli pareva di ricordare, era scomparso il capitano elfo. e corse nell'oscurità, tenendosi vicina Amberle. Dopo diversi metri, si fermarono di botto. Il corridoio si diramava in altri tre corridoi. Di nuovo il giovane fu sopraffatto dal panico. Quale scegliere? Avvicinò la torcia al pavimento. Il passaggio di due stivali elfi aveva lasciato tracce sugli strati di polvere accumulati nel corso degli anni, una pista chiara e facilmente riconoscibile, che gli avrebbe consentito di raggiungere Crispin... e che avrebbe consentito al Mietitore di raggiungere loro. Ma represse la paura e riprese a correre. Insieme, i due giovani corsero per i bui corridoi della fortezza, attraverso atri coperti di ragnatele, dall'aria stagnante, sale dagli arazzi in disfacimento e dai mobili in rovina, e lungo balconi e parapetti che si affacciavano su baratri oscuri. Nell'antica cittadella regnava il silenzio profondo e penetrante fin nelle sue viscere, così che persino il sibilo del vento moriva, e si sentiva soltanto il tonfo dei loro stivali correre sui pavimenti di pietra. Per due volte si smarrirono, correndo lungo un corridoio prima di scoprire che la pista era scomparsa e, nella fretta, non avevano notato una svolta. Diverse volte trovarono una doppia serie di tracce di Crispin che doveva essere tornato sui suoi passi per cercare la pista giusta. Ogni volta dovettero sprecare secondi preziosi per scoprire dove fosse andato. Erano perseguitati dall'assillo che, da un momento all'altro, il Mietitore gli sarebbe balzato addosso dall'oscurità, cancellando così ogni possibilità di fuga.
Poi il baluginare di una torcia emerse dal buio davanti a loro. Corsero freneticamente in quella direzione, vedendo con sollievo l'esile forma del capitano materializzarsi dalle ombre. Crispin stava tornando indietro dopo aver trovato il tunnel che scendeva nelle viscere della montagna. Si affrettò a raggiungerli, la lama della spada che luccicava alla luce rossa della torcia. «Che cosa è successo?» chiese, vedendoli terrorizzati. Rapidamente Wil glielo spiegò. Crispin diventò pallidissimo. «Anche Dilph e Katsin? Come potremo mai fermare quella cosa?» Abbassando gli occhi sulla sua spada, esitò, poi fece loro cenno di seguirlo. «Da questa parte. Forse abbiamo ancora una possibilità.» Insieme corsero lungo il corridoio da cui era arrivato il capitano, svoltando a sinistra in un altro corridoio, attraversando un atrio enorme che un tempo era stato una sala d'armi, volando giù per una scalinata che li condusse in una rotonda vuota, e poi lungo un tunnel. In fondo a quest'ultimo una porta di ferro era fissata alla roccia della montagna da bulloni e sbarre. Crispin fece scorrere le sbarre e spalancò la porta massiccia, il vento li investì ruggendo, esplodendo attraverso l'apertura e cacciandoli indietro con violenza. Dopo aver fatto cenno a Wil e Amberle di seguirlo, il capitano abbandonò la torcia, abbassò risoluto la testa e si lanciò nell'oscurità oltre la porta. Si ritrovarono in una gola profonda dove la montagna si spaccava in due dalla cima alla base. I due pendii erano collegati da una passerella che portava dalla piccola nicchia rocciosa in cui si trovavano a una torre isolata sulla rupe di fronte. Il vento ululava lungo l'immenso crepaccio, e stridendo furioso scuoteva il ponticello di ferro. Soltanto un nastro di luce lunare penetrava in quell'abisso, cadendo sull'estremità opposta della passerella. Crispin tirò vicino a sé i due giovani. «Dobbiamo arrivare dall'altra parte!» urlò sopra il ruggito del vento. «Tenetevi stretti alla ringhiera! Non guardate giù!» «Ho paura di non farcela!» urlò Amberle, scrutando con ansia la passerella. Wil sentì che gli stringeva forte il braccio. «Devi farcela!» La risposta di Crispin non lasciava spazio a discussioni. «È la nostra unica possibilità di salvezza!» L'ululato del vento era ossessionante. Amberle lanciò una breve occhiata alla porta chiusa dietro di sé, poi tornò a guardare Crispin. Silenziosamente annuì. «State vicini!» ammonì il capitano elfo.
In fila indiana cominciarono a percorrere la passerella, il capitano elfo davanti, Amberle dietro di lui e infine Wil. Avanzavano lentamente, con cautela, aggrappandosi a ciascun lato della ringhiera, le teste chine. Raffiche di vento li investivano, strappandogli quasi via gli indumenti e scuotendo il sottile ponte di ferro finché sembrò che stesse per crollare nella gola. Mentre si allontanavano dal riparo della rupe, li avvolse l'aria gelida proveniente dalla sommità della montagna. Presto ebbero mani e piedi intirizziti; il ferro del ponte era come ghiaccio. Un passo dopo l'altro, l'attraversarono, allontanandosi finalmente dall'ombra delle rupi per ritrovarsi sotto il nastro di luce lunare che segnava l'ultimo tratto. Un attimo dopo raggiunsero la piattaforma di fronte alla torre solitaria. La struttura si ergeva davanti a loro contro la facciata della rupe, le strette finestre scure e incassate, le mura di pietra impregnate di umidità trasformata in ghiaccio. La fortezza aveva una sola porta, chiusa. Crispin guidò Amberle giù dalla passerella e la fece appoggiare contro l'ingresso della torre. Quando Wil, un po' traballante, li ebbe raggiunti, l'Elfo frugò in una cassetta di legno fissata alla torre e ne estrasse un paio di pesanti martelli. Ne diede uno a Wil, indicando il ponte. La sua voce era soffocata dal sibilo del vento. «I supporti del ponte sono fissati da sei perni... tre a ciascun lato! Se li togliamo, il ponte crollerà! È stato costruito così per bloccare i nemici nel caso la fortezza venisse attaccata. Togli i tre sulla destra!» Wil si affrettò a raggiungere la piattaforma. Tre perni fissati orizzontalmente attraverso altrettanti anelli assicuravano la passerella alla piattaforma. Brandendo con decisione il martello, cominciò a battere sul primo. La ruggine e la polvere vi si erano stratificati sopra, e era molto difficile farlo girare. Quando finalmente si staccò, cadde silenziosamente nella gola. Passò rapidamente a quello successivo, col vento che lo assordava al punto che non sentiva il rumore prodotto dal martello, il freddo che gli intirizziva le mani nude. Anche il secondo perno si staccò e cadde. Qualcosa di pesante scosse il ponte. Wil e Crispin alzarono contemporaneamente gli occhi, coi martelli in mano. Fra le ombre profonde, all'estremità opposta della passerella, si muoveva qualcosa. «Muoviti!» gridò il capitano elfo. Wil prese a martellare freneticamente l'ultimo perno con una pioggia di colpi sulla sua testa rotonda, tentando disperatamente di farlo saltare via. Ma la ruggine lo incollava al suo posto. Lo colpì con entrambe le mani e infine riuscì a spostarlo un poco in fuori.
Sul piccolo ponte, proprio oltre il nastro di luna, un'ombra più cupa della notte era apparsa. Crispin si alzò di scatto. Aveva già staccato due perni e il terzo era fuori per metà. Ma non c'era più tempo. Il Mietitore avanzava nella luce: enorme, senza volto, tutto avviluppato nel suo mantello. Crispin imbracciò il suo arco di frassino e cominciò così rapidamente a scagliare frecce contro il demone che Wil quasi non riusciva a seguire i suoi movimenti. Ma il mostro se le scrollò di dosso senza sforzo. Wil sentì una morsa gelida allo stomaco. Disperatamente martellò il perno, facendolo sporgere di diversi centimetri dal foro. Ma non andò oltre. Poi, bruscamente, ricordò le Pietre Magiche. Le Pietre Magiche! Doveva usarle adesso! Saltò su, infilò con decisione la mano nella tunica e aprì il sacchetto di cuoio. Un attimo dopo, teneva le Pietre nella mano, stringendole con tanta forza che gli tagliavano la pelle. L'immensa ombra del Mietitore, sempre accovacciato sulla passerella, avanzava verso di loro. Ormai, era a meno di sei metri di distanza. Il giovane alzò il pugno in cui stringeva le Pietre e, con tutta la forza di volontà che poté chiamare a raccolta, invocò il fuoco per distruggere il mostro. Le Pietre Magiche mandarono un intenso bagliore, il fuoco azzurro si irradiò. Ma poi qualcosa sembrò venir meno in Wil. L'istante dopo il potere era scomparso. Il giovane fu assalito dal terrore. Tentò di nuovo, disperatamente. Non accadde nulla. Amberle corse al suo fianco, gridandogli freneticamente, ma le sue parole furono soffocate dallo stridio del vento. Wil indietreggiò, barcollando. sgomento. Aveva fallito. Non poteva invocare il potere delle Pietre Magiche! Un istante dopo, Crispin era sul ponte. Lui non conosceva esitazioni. Abbandonato l'arco, estrasse la spada e si diresse verso il demone. La creatura sembrò leggermente perplessa. Non si era aspettata un attacco diretto. La passerella, sbattuta dal vento, oscillava, e i supporti di metallo cigolavano. «I perni!» gli gridò Crispin. Come in un sogno, Wil ripose le Pietre Magiche nella tunica, ricuperò il martello e riprese a battere inutilmente sul perno arrugginito. Dall'ombra dietro di lui, Amberle schizzò avanti. Raccolto il martello lasciato da Crispin, cominciò a colpire freneticamente l'altro perno. Sulla passerella, Crispin era di fronte al Mietitore. Con finte e stoccate, il capitano della Guardia Reale cercava di far perdere l'equilibrio al demo-
ne, nella speranza che scivolasse e precipitasse dal ponte. Ma il Mietitore se ne stava sempre accovacciato, parando i colpi dell'Elfo con un braccio massiccio, aspettando pazientemente l'occasione propizia. Crispin era un abile spadaccino, ma non poteva far breccia nelle difese del mostro. Lentamente, il Mietitore avanzava, e l'Elfo era costretto a retrocedere. Wil Ohmsford fu assalito da rabbia e delusione. Stringendo il martello con tutte e due le mani, batté sul perno arrugginito con tutta la forza che gli rimaneva, e finalmente quello si staccò e precipitò nell'abisso. Di conseguenza, il ponte si piegò leggermente e Crispin perse l'equilibrio. Mentre barcollava all'indietro, il Mietitore si lanciò. I suoi artigli si strinsero intorno alla tunica dell'Elfo. Sotto gli occhi inorriditi di Wil e Amberle, il Mietitore sollevò Crispin dalla passerella. La spada del capitano lampeggiò verso la gola del demone, ma la lama si infranse contro di essa. Il Mietitore non ne fu nemmeno scalfito. Reggendo Crispin sopra la sua testa incappucciata, lo gettò nel vuoto. L'Elfo precipitò senza un grido e scomparve. Il Mietitore riprese a avanzare. Poi un'improvvisa raffica di vento investì con violenza la passerella già oscillante, facendo saltar via anche l'ultimo perno. Il ponticello si staccò dalla piattaforma, portando con sé la sagoma del Mietitore che si teneva aggrappato. Cadde lentamente, con un gemito metallico verso l'altra rupe, mentre il ferro si spaccava, si contorceva. Oscillando attraverso il nastro di luce lunare, finì fra le ombre, abbattendosi contro il fianco della montagna. Non si staccò del tutto, ma restò sospeso ai suoi supporti rovinati, oscillando precariamente al vento. Era appena visibile nell'oscurità. Il Mietitore era scomparso. La voce si Amberle risuonò sopra l'ululato del vento, un gemito terrorizzato, che invocava Wil. Raffiche frenetiche di vento assalivano il giovane, raggelandolo fin nelle ossa, assordandolo. Non capiva quel che diceva la ragazza. Non gliene importava. Il suo pugno stringeva ancora l'inutile martello. La sua mente turbinava. Crispin e i Cacciatori elfi erano tutti morti. Il potere delle Pietre Magiche era andato perduto. Lui e Amberle erano soli. Lei piangeva, il viso nascosto nella sua spalla, supplicandolo di venire via. Lui si voltò e la strinse a sé. Per un istante gli parve di sentire la voce di Allanon: «Ricorda che conto soprattutto su di te». Rimase un attimo ancora vicino all'orlo dell'abisso, tenendo accanto a sé la ragazza, fissando disperato l'oscurità sottostante. Poi si voltò. Con Amberle stretta a lui, scomparve nel riparo della torre.
25 Impiegarono il resto della notte per uscire da quel luogo. Con l'unica torcia che Crispin aveva lasciato in una staffa di ferro fissata all'ingresso della torre, seguirono una successione apparentemente interminabile e tortuosa di tunnel e scale che affondavano nelle viscere rocciose della montagna. Completamente sfiniti dalle prove degli ultimi giorni, scivolavano, incuranti del pericolo, lungo i tunnel dell'antica fortezza, gli occhi fissi nell'oscurità che gli si parava davanti, tenendosi per mano. Non parlavano: non avevano niente da dirsi. Erano storditi, sconvolti dalla paura per tutto quel che era accaduto. Desideravano una cosa soltanto: fuggire da quella montagna. Ben presto persero ogni nozione del tempo. Non sapevano più se erano trascorsi minuti, ore o giorni da quando si trovavano prigionieri fra quelle rocce. Non avevano la minima idea di dove quel meandro li avrebbe condotti. Si affidavano ciecamente alla fortuna e all'istinto, seguendo tunnel e corridoi con la muta. disperata speranza, che in qualche modo avrebbero rivisto la luce. Avevano i muscoli rattrappiti e doloranti, gli occhi annebbiati dalla stanchezza. La loro unica torcia si ridusse a un misero mozzicone. Eppure la discesa continuava. Ma finalmente terminò. Si ritrovarono davanti a una massiccia porta di ferro sigillata da doppi chiavistelli e da una sbarra. Wil stava per cominciare a manovrare i chiavistelli quando Amberle lo afferrò per un braccio, e la sua voce era stanca e tesa. «Wil, e se anche là dietro ci fossero i demoni? Forse il Mietitore non era solo.» Il giovane la fissò senza parlare. Fino a allora non aveva considerato quell'eventualità. Non se l'era permesso. Ripensò a tutto quel che era accaduto da quando erano approdati a Boschi Grigi. I demoni erano sempre riusciti a scovarli. C'era un che di inesorabile in quella vicenda. Anche se il Mietitore era scomparso, c'erano altri demoni. E la spia di Arborlon aveva udito tutto. «Wil?» Amberle, ansiosa, aspettava la sua risposta. Ma lui ormai aveva deciso. «Dobbiamo correre il rischio. Non abbiamo alternative.» Con dolcezza si tolse dal braccio la sua mano e le passò davanti. Poi, con cautela, manovrò i chiavistelli, sollevò la sbarra e spalancò la porta.
Nell'apertura passò la luce del giorno. Al di là, le acque torbide del Mermidon lambivano le pareti di una grotta profonda che nascondeva il pontile degli Elfi. Tutto era immobile. I due giovani si scambiarono una rapida occhiata. In silenzio, Wil lasciò cadere la torcia per terra, dove si spense. Il pontile e le barche a esso ormeggiate erano marci e inutilizzabili. I due avanzarono con cautela lungo una stretta cengia dentro la grotta finché emersero sulla riva del fiume ai piedi del Baluardo. Non c'era nessuno. Erano soli. L'alba stava appena spuntando; una gelida penombra mattutina aveva fatto cristallizzare in brina la rugiada della notte su alberi e cespugli e sparso per terra un mantello candido di falsa neve. Scrutarono il paesaggio, meravigliati, vedendo il proprio respiro condensarsi in bianco vapore, sentendo il gelo filtrare nei loro corpi umidi sotto gli indumenti. Il fiume ribolliva fragoroso fra i due picchi gemelli, scorrendo a est attraverso le foreste; sulla sua ampia superficie ristagnava una pesante coltre di nebbia. Sopra questa si ergeva il Baluardo, con le sue scure guglie massicce che gettavano ombre profonde sulla terra. Wil si guardò intorno, perplesso. Nella grotta, le barche degli Elfi erano irreparabilmente rovinate, assolutamente inutilizzabili. Poi scorse poco lontano una piccola barca a remi accostata alla riva e parzialmente nascosta fra i cespugli. Presa Amberle per mano, la guidò fin lì attraverso l'intricata vegetazione. Era una barca da pesca in buon condizioni, con gli ormeggi, ovviamente lasciata lì da qualcuno che, di tanto in tanto, si divertiva a pescare vicino alle profonde acque della grotta. Dopo aver fatto salire Amberle a bordo, il giovane mollò gli ormeggi e si spinse nel fiume. Indubbiamente la barca era più necessaria a loro che allo sconosciuto pescatore. Si lasciarono trascinare verso est dalla corrente; venne il mattino e con esso un po' di calore. Tutta avviluppata nel suo mantello, Amberle si addormentò quasi subito. Anche Wil avrebbe dormito se avesse potuto. Ma era talmente sfinito che non poteva abbandonarsi al sonno. La sua mente era sconvolta dagli ultimi eventi. Dopo aver infilato in una scalmiera a poppa un piccolo remo trovato dentro la barca, si appoggiò al lato posteriore della piccola imbarcazione e prese a guidarla, guardando intontito il sole levarsi da dietro le montagne e la leggera bruma del mattino dissolversi. Pian piano, nei boschi la brina si dissolse, le torri gemelle del Baluardo scomparvero, e il verde umido delle foreste si allargò intorno a loro. Il cielo, liberato da nubi temporalesche e ombre cupe, era ora di un azzur-
ro luminoso, attraversato da nastri sottili di nuvole che fluttuavano pigre nel sole. Verso mezzogiorno, il Mermidon cominciò lentamente a curvare verso sud finché prese a scorrere verso la linea buia dello Sperone Roccioso a occidente. Col calore del sole l'umidità e il gelo sparirono dai loro corpi e dai loro indumenti. Sul Mermidon volavano gli uccelli in esplosioni ricche di suoni e di colori. Nell'aria si sentiva la fragranza dei fiori selvatici. Stiracchiandosi, Amberle si svegliò, posando subito gli occhi assonnati sul giovane. «Hai dormito?» chiese. Wil scosse la testa. «Non ci sono riuscito.» Lei si mise a sedere. «Dormi ora. Guiderò io la barca nel frattempo. Devi riposarti.» «No, va bene così. Non sono stanco.» «Wil, tu sei sfinito» ribatté lei, preoccupata. «Devi dormire.» La guardò un istante senza parlare, gli occhi stralunati. «Tu sai che cosa mi è successo là dentro?» chiese infine. Lei scosse lentamente la testa. «No. E credo che nemmeno tu lo sappia.» «E invece sì. So esattamente che cosa è successo. Ho tentato di usare le Pietre Magiche e non ci sono riuscito. Non riesco più a invocarne il potere. Ho perso quel dono.» «Non puoi saperlo. Hai avuto difficoltà con le Pietre anche l'altra volta, quando le hai usate nel Tirfing. Forse questa volta ti sei sforzato troppo. O forse non sei riuscito a concentrarti abbastanza.» «Mi sono concentrato al massimo» ribatté lui a bassa voce. «Ho chiamato a raccolta tutte le mie energie per invocare il potere delle Pietre Magiche. Ma non è successo nulla. Nulla. Allanon mi aveva detto che questo poteva accadere a causa del sangue umano che ho in me. Soltanto il sangue elfo ha potere sulle Pietre, e io ne ho molto poco, a quanto pare. C'è una barriera in me, Amberle. L'ho superata una volta, ma non ci riuscirò mai più.» Lei gli si avvicinò e gli posò una mano sul braccio. «E allora faremo a meno delle Pietre.» Lui ebbe un debole sorriso. «Le Pietre Magiche sono la nostra unica arma. Se i demoni ci ritrovano, siamo finiti. Non abbiamo null'altro con cui proteggerci.» «Allora i demoni non devono trovarci.»
«Ci hanno trovati sempre, Amberle, nonostante tutte le precauzioni che abbiamo preso, ci hanno trovati ovunque siamo andati. Ci troveranno anche questa volta. E tu lo sai.» «Io so che sei stato tu a insistere per proseguire, dopo la nostra fuga da Havenstead. Io so che tu non hai mai pensato di arrenderti. So anche che Allanon ha scelto te per proteggermi. Mi abbandoneresti?» Wil avvampò. «No. Mai.» «Nemmeno io ti lascerei. Abbiamo cominciato questo viaggio insieme e insieme lo finiremo. Ci prenderemo cura l'uno dell'altra, tu e io. Ci aiuteremo a vicenda. Forse basterà.» Si interruppe, sorridendo. «Capirai. naturalmente, che dovresti essere tu a rassicurare me, e non viceversa. Ero io che non credevo nella mia missione, né alle parole del Druido. Tu ci hai sempre creduto.» «Se le Pietre non mi avessero tradito...» cominciò Wil, triste. Amberle gli posò una mano sulle labbra per farlo tacere. «Non essere così sicuro che ti abbiano tradito. Pensa un attimo a quel che hai cercato di fare con esse. Hai cercato di usarle come un'arma di distruzione. È possibile per te, Wil? Ricorda. sei un Guaritore. La tua etica ti impone di preservare, non di distruggere. La magia elfa non è che un'emanazione di chi la esercita. Forse tu non dovevi usare le Pietre nel modo in cui hai tentato di usarle affrontando il Mietitore.» Il giovane rifletté. Allanon gli aveva spiegato che le tre Pietre avevano l'effetto di unire cuore, mente e corpo nel potere che creava la magia. Se uno dei tre elementi veniva meno... «No.» Scosse la testa con decisione. «È una distinzione troppo accademica. Mio nonno credeva nel preservare la vita quanto me eppure usò le Pietre per distruggere. E non trovò mai le mie difficoltà.» «Allora esiste un'altra possibilità» proseguì lei. «Allanon ti ha spiegato la resistenza che il tuo sangue umano può provocare in te. L'hai già provata. Forse è stata quest'esperienza a crearti questo blocco... un blocco mentale che ti ha persuaso, a livello inconscio, che il potere delle Pietre Magiche è andato perduto, mentre non è così. Forse il blocco che hai provato davanti al Mietitore sei stato tu a crearlo.» Wil la guardò in silenzio. Era possibile? Scosse la testa. «Non so. Non posso esserne certo. È successo così in fretta.» «Allora, ti prego, ascoltami.» Gli si avvicinò, guardandolo dritto negli occhi. «Non accettare tanto rapidamente quella che è soltanto una congettura. Hai usato le Pietre Magiche una volta. Hai invocato il loro potere e
l'hai reso tuo. Io non credo che si possa perdere facilmente un simile dono. Forse è soltanto soffocato. Prenditi tutto il tempo necessario per ricuperarlo prima di decidere che non è più tuo.» Wil la guardò stupito. «Hai più fiducia in me di quanta ne abbia io. È molto strano. Non mi davi nessun credito durante il viaggio di ritorno da Havenstead. Ricordi?» Lei indietreggiò un poco. «Avevo torto. Ho detto cose che non avrei mai dovuto dire. Avevo paura...» Per un istante sembrò sul punto di aggiungere qualcosa; ma, come le altre volte in cui era sembrata pronta a confidarsi, lasciò cadere l'argomento. Wil fu abbastanza saggio da non insistere. «Be', su una cosa avevi ragione» disse, cercando di darsi un'aria allegra. «Dovrei essere io a rassicurarti, e non viceversa.» Lei lo guardò con ansia. «Allora ricordati di farlo, quando vedrai che ne ho bisogno. Ora dormirai?» Lui annuì. «Penso di sì... per un poco, almeno.» Si spostò in avanti, lasciando che la ragazza governasse il piccolo timone. Dopo essersi sdraiato sul fondo della barca, si mise il mantello a mo' di cuscino sotto la testa e si abbandonò, sfinito. Lo tormentava il pensiero delle Pietre Magiche. Chiuse gli occhi, affondando nell'oscurità. Abbi fiducia in te stesso, gli aveva detto Allanon. Ma lui ne aveva? I pensieri svanirono. Si addormentò. Si svegliò a metà pomeriggio. Rattrappito e dolorante, si sollevò a fatica dal duro fondo della barca e tornò a prua, per sostituire Amberle al timone. Aveva fame e sete, ma non c'era nulla da bere e da mangiare. Nella loro fuga dal Baluardo avevano perso tutto. Poco tempo dopo, il letto del fiume cominciò a restringersi e i rami degli alberi su entrambe le rive si intrecciavano in alto come un baldacchino. Le ombre si allungavano su di loro; a occidente il sole cominciava a scendere sopra la barriera dello Sperone Roccioso, e la sua luce dorata si andava arrossando nel crepuscolo. Una serie di rapide fece ballonzolare la barca, ma Wil riuscì a schivare le rocce e a mantenere la rotta finché le ebbe superate. Quando il fiume riprese a scorrere verso sud nel suo lungo viaggio di ritorno verso le praterie di Callahorn, il giovane accostò la barca a riva e scesero a terra. Passarono la notte sotto un salice vecchio e massiccio a diverse centinaia di metri dalla sponda del fiume. Dopo aver nascosto la barca fra i ce-
spugli della riva, raccolsero frutti e erbe per un pasto serale e andarono alla ricerca di acqua potabile. Non ne trovarono, e furono costretti a accontentarsi del cibo. Dopo aver mangiato, conversarono un poco e si addormentarono. Quando l'alba spuntò, luminosa e limpida, i due giovani cominciarono il viaggio a occidente verso lo Sperone Roccioso. Camminavano veloci, disinvolti, godendo il calore del primo mattino, mangiando i frutti rimasti dalla sera precedente. Le ore passavano velocemente, e l'intorpidimento che avevano provato appena svegli scomparve via via. A metà mattino, scoprirono un fiumicello con una piccola cascata che formava una pozza di acqua potabile. Bevvero a sazietà ma, non avendo un contenitore con sé, non poterono farsi una scorta. Man mano che il giorno proseguiva, le montagne dello Sperone Roccioso incombevano sempre più vicine sopra la barriera della foresta: una linea massiccia, gibbosa di vette che si estendeva a perdita d'occhio verso occidente. Soltanto in lontananza a sud, dove si estendevano gli acquitrini di Lama Spettrale, non c'erano montagne; là l'orizzonte era gravato da una densa nebbia grigia che si alzava dalle paludi come una cortina di fumo. Per la prima volta da quando erano fuggiti dal Baluardo, Wil cominciò a preoccuparsi. La loro decisione di seguire il Mermidon fino alle foreste confinanti con la catena dello Sperone Roccioso era sembrata abbastanza logica. Ma ora che se le vedeva davanti, cominciava a domandarsi come sarebbero mai riusciti a attraversare quelle montagne mostruose. Nessuno dei due le conosceva; né sapeva se esistevano dei passi agevoli. Senza i Cacciatori elfi per guidarli, come potevano evitare di smarrirsi? Al tramonto, si parò davanti a loro la catena dello Sperone Roccioso, un labirinto di vette altissime che incombevano l'una sopra l'altra senza alcun segno di passaggi o di varchi. I due emersero dalla foresta ritrovandosi ai piedi della montagna più vicina. Ampi pascoli erbosi erano costellati di campanule dai colori vivaci e da rosse centauree. Il sole era quasi scomparso; cercarono un posto dove accamparsi. Trovarono ben presto un fiumicello che scorreva fra le rocce; vicino a una piccola pozza in un boschetto di pini si sistemarono per la notte. Consumarono un altro pasto di frutti e erbe, ma Wil si ritrovò a desiderare pane e carne e mangiò con poco appetito. Nel cielo fecero la loro comparsa la luna e uno spettacolare schieramento di stelle. Dopo essersi augurati la buonanotte. i due giovani si avvolsero nei loro mantelli e chiusero gli occhi.
Wil stava ancora chiedendosi come sarebbero riusciti a attraversare quelle montagne quando il sonno lo sopraffece. Quando si svegliò, un ragazzino era seduto lì vicino. e lo guardava. Era l'alba, e il sole si stava alzando dalle lontane foreste in un trionfo di luce dorata che lasciava, a ricordo della notte, soltanto effimeri frammenti di grigio. Sugli ampi pendii della montagna sovrastante, i fiori selvatici stavano appena schiudendosi e l'erba scintillava di rugiada. Wil sbatté le palpebre, stupito. Dapprima pensò di aver avuto un'allucinazione e aspettò pazientemente che il ragazzo scomparisse nel regno della fantasia. Ma quello rimase dov'era, seduto nell'erba, a gambe incrociate, osservandolo in silenzio. No, non era un miraggio, decise Wil, che si tirò su, appoggiandosi a un gomito. «Buongiorno» disse. «Buongiorno» rispose solenne il ragazzo. Wil si strofinò gli occhi assonnati e studiò lo sconosciuto. Era un Elfo, piccolo e esile, capelli ricci color sabbia incorniciavano un volto piuttosto comune spruzzato di lentiggini. Portava una tunica e calzoni di cuoio, e un intero assortimento di sacchetti appesi al collo e alla vita. Era molto giovane, certo assai più giovane di Wil e Amberle. «Non volevo svegliarti» si giustificò il ragazzo. Wil annuì. «Non hai fatto rumore.» «Lo so. Posso camminare su un tappeto di aghi di pino senza farmi sentire.» «Davvero?» «Sì. E so anche avvicinarmi alla tana di una volpe senza che lei se ne accorga. Una volta ci sono riuscito.» «Straordinario.» Il ragazzo lo guardò incuriosito. «Che cosa fai qui?» Wil sorrise suo malgrado. «Stavo chiedendomi la stessa cosa di te. Vivi qui?» «No, a sud dell'Irrybis. A Rifugio Alato.» Wil non aveva la più pallida idea di cosa fosse Rifugio Alato. Sentì che, dietro di lui, Amberle cominciava a agitarsi. «È molto carina» osservò tranquillo il ragazzo. «Siete sposati?» «Uhm... no, viaggiamo insieme» rispose il giovane, un po' imbarazzato. «Come sei arrivato qui?» «In volo. Sono un Cavaliere Alato.»
Wil lo fissò allibito. Ora il ragazzo stava guardando Amberle, che si stava mettendo a sedere, tutta avvolta nel suo mantello. «Buon giorno, signora» la salutò. «Buon giorno» rispose lei, guardandolo con gli occhi verdi divertiti e sorpresi. «Come ti chiami?» «Perk.» «Io sono Amberle.» Sorrise. «E lui è Wil.» Il ragazzo si alzò e si avvicinò a Wil per stringergli la mano. La palma di Perk era coperta di calli e il giovane ne fu stupito. L'altro sembrò accorgersene e ritirò rapidamente la mano. Non la porse a Amberle e si limitò a farle un cenno col capo. «Volete fare colazione?» chiese. Wil si strinse nelle spalle. «Che cosa ci proponi, Perk?» «Latte, noci, formaggio e pane. È tutto quello che ho con me.» «Magnifico!» Il giovane sorrise, lanciando una rapida occhiata a Amberle. Non aveva la più pallida idea del motivo per cui Perk si trovava lì, ma il cibo che offriva era delizioso. «Saremo molto felici di dividere la colazione con te.» Si sedettero in circolo. Da uno dei suoi sacchetti il ragazzo estrasse le noci, il formaggio e il pane promessi, oltre a tre piccole tazze, che riempì con il latte contenuto in un altro sacchetto. Wil e Amberle divorarono il piccolo pasto. «Da dove arriva questo latte?» chiese Amberle un attimo dopo. «Dalle capre» borbottò il ragazzo, con la bocca piena. «Ne ho munta una questa mattina presto.» Amberle lanciò un'occhiata interrogativa a Wil, che si strinse nelle spalle. «Ha detto che lui è un Cavaliere Alato. Vola.» «Non proprio... non ancora» interruppe il ragazzo. «Sono troppo giovane. Ma un giorno lo diventerò.» Ci fu una pausa imbarazzata mentre i tre si guardavano in silenzio. «Ma voi non avete detto cosa fate qui» disse infine Perk. «Vi insegue qualcuno?» «Perché lo chiedi, Perk?» ribatté immediatamente Amberle. «Perché si capisce. I vostri abiti sono sporchi e laceri. Non avete né armi né cibo né coperte. Non avete acceso un fuoco. E poi si vede che qualcosa vi ha spaventato.»
«Perk, tu sei un ragazzo intelligente» rispose rapidamente Wil, decidendo sui due piedi come affrontare la situazione. «Prometterai di mantenere il segreto se ti dico una cosa?» Il ragazzo annuì, vivamente interessato. «Lo prometto.» «Bene.» Wil si chinò verso di lui con aria confidenziale. «Questa signora - Amberle - è un personaggio importante. È una principessa, la nipote di Eventine Elessedil, re degli Elfi.» «Re degli Elfi di Terra» corresse Perk. Poiché Wil esitò, confuso da quella inaspettata distinzione, il giovane proseguì, ansioso. «Andate alla ricerca di un tesoro? Oppure la signora è stata vittima di un incantesimo? È stregata?» «Sì. No.» Wil si interruppe. In quale pasticcio si era ficcato? «Noi siamo alla ricerca di un... talismano, Perk. Soltanto la signora può esercitarne il potere. Un grave pericolo incombe sul popolo elfo. Soltanto quel talismano può proteggerlo, e dobbiamo trovarlo rapidamente. Saresti disposto a aiutarci?» Perk spalancò gli occhi, eccitato. «Un'avventura? Una vera avventura?» «Wil, io non credo...» intervenne Amberle, preoccupata. «Ti prego, abbi fiducia in me.» Wil le lanciò un'occhiata rassicurante. Si rivolse di nuovo a Perk. «È una faccenda molto pericolosa. Le cose che ci inseguono hanno già ucciso molti Elfi. Non sarà un gioco. Tu devi fare esattamente quel che ti dico, e quando ti dirò che è finita, dovrai lasciarci subito. D'accordo?» Perk si affrettò a annuire. «Che cosa volete che faccia?» Il giovane indicò la catena dello Sperone Roccioso. «Voglio che tu mi indichi un modo per attraversare quelle montagne. Ne conosci uno?» «Naturalmente» rispose l'altro, indignato. «Dove siete diretti?» Wil esitò. Non sapeva se era il caso di dirglielo. «È importante?» chiese infine. «Certo che è importante» rispose subito Perk. «Posso forse mostrarti come raggiungere un certo luogo se non so di che luogo si tratta?» «Questa è un'obiezione molto sensata» intervenne Amberle, dando a Wil un'occhiata d'intesa: avrebbe dovuto prevederla. «Credo che ti convenga dirglielo, Wil.» Il giovane annuì. «Va bene. Dobbiamo arrivare nella Malaterra.» «Nella Malaterra?» Perk scosse la testa con aria solenne, e un po' del suo entusiasmo svanì. «La Malaterra mi è vietata. E molto pericolosa.»
«Lo sappiamo» concordò Amberle. «Ma non abbiamo scelta. Dobbiamo per forza andarci. Puoi aiutarci?» «Sì» rispose deciso il ragazzo. «Ma non potete attraversare le montagne. Impieghereste dei giorni.» «Ma se non passiamo per le montagne, come possiamo arrivarci?» chiese Wil. «Esiste forse un altro modo?» Perk sorrise. «Naturalmente. Possiamo volare.» Wil guardò Amberle, chiedendole silenziosamente aiuto. «Perk, ma noi non possiamo... volare» rispose lei con dolcezza. «Certo che sì» insistette lui. «Ve l'ho detto. Sono un Cavaliere Alato... quasi.» Questo ragazzo ha molta fantasia, pensò Wil. «Senti, Perk, per volare ci vogliono le ali, e noi non le abbiamo.» «Ali?» Il ragazzo era confuso. Poi sorrise. «Oh, voi credevate... Oh, capisco. No, non voliamo noi. Noi abbiamo Genewen. Venite con me.» Subito si alzò e si allontanò dal riparo degli alberi. Disorientati, Wil e Amberle lo seguirono, scambiandosi occhiate perplesse. Quando emersero dal boschetto e si ritrovarono sul prato, Perk aprì un sacchetto di cuoio legato intorno al collo e tirò fuori uno zufolo d'argento. Vi soffiò dentro. Non ne uscì alcun suono. Wil guardò di nuovo Amberle, e scosse lentamente la testa. Le cose non andavano come aveva sperato. Perk fece scivolare di nuovo lo zufolo nel sacchetto di cuoio e si voltò per scrutare l'orizzonte. Meccanicamente, i due giovani seguirono il suo sguardo. Improvvisamente una grande forma dorata si levò dallo Sperone Roccioso, scintillando nel caldo sole del mattino mentre scendeva fra le montagne, diretta verso di loro. Wil e Amberle rimasero a guardare, allibiti. Era l'uccello più grande che avessero mai visto, un'enorme creatura con un'apertura alare di una decina di metri, una testa liscia, crestata, color del fuoco macchiettata di nero, un grande becco a uncino e potenti artigli protesi in avanti mentre si avvicinava. Per un istante, gli ricordò il nero mostro alato che per poco non li aveva presi nella fuga attraverso la Valle di Rhenn, ma subito capirono che questa creatura era completamente diversa. Atterrò sul prato a pochi metri da loro, richiudendo le ali contro il pennuto corpo dorato, inarcando la testa mentre si appollaiava. Il suo richiamo penetrante lacerò la quiete del mattino, poi abbassò il capo verso Perk. Il ragazzo le rispose con uno strano rapido grido, poi si voltò verso i suoi compagni esterrefatti.
«Questo è Genewen» annunciò fiero. Poi sorrise. «Visto? Ve l'avevo detto che potevate volare.» Dopo aver visto Genewen, Wil e Amberle furono disposti a credere alla storia che Perk raccontò loro. Prima dell'epoca di Jerle Shannara e della Seconda Guerra delle Razze, una piccola comunità di Elfi migrò verso sud alla terra natale - per motivi da lungo tempo dimenticati - e si insediò a sud delle Irrybis in un tratto di montagne aspre, boscose, sconosciute, che sorgevano intorno a una vasta distesa d'acqua nota alle razze come lo Spartiacque Azzurro. Quegli Elfi erano gli antenati di Perk. Col passare degli anni diventarono cacciatori e pescatori, costruendo i loro piccoli villaggi su una serie di scogli a ridosso dello Spartiacque Azzurro a ovest del Myrian. Gli Elfi presto scoprirono di coabitare con una colonia di robusti uccelli da caccia che nidificavano in grotte prospicienti lo Spartiacque Azzurro. Li chiamarono Roc, dal nome di un uccello leggendario del vecchio mondo. Sulle prime, i Roc e gli Elfi si tennero reciprocamente a distanza, ma col tempo gli Elfi capirono che gli uccelli giganteschi potevano essere loro di grande utilità se addestrati a trasportarli. Gli Elfi erano ingegnosi e decisi, e si misero all'opera. Dopo numerosi insuccessi, riuscirono a trovare un mezzo di comunicazione con gli uccelli, che gli consentì di addomesticare diversi piccoli e infine l'intera colonia. Gli uccelli diventarono i mezzi di trasporto degli Elfi, che ora potevano spingersi più lontano per cacciare e pescare. Diventarono anche uno strumento di protezione, quando vennero addestrati a combattere i nemici della comunità. Gli Elfi, a loro volta, proteggevano i Roc dalle creature che cercavano di invadere la loro colonia o di insediarsi nei loro territori di caccia. Impararono a accudirli, a curarli se si ammalavano o ferivano, a guarirli, a tenerli in buona salute. Col passare degli anni, il vincolo fra le due colonie si rafforzò. La comunità che condividevano venne chiamata Rifugio Alato. Era piccola e isolata in una zona quasi disabitata e raramente attraversata dagli uomini. Ogni contatto fra Rifugio Alato e le grandi comunità elfe a nord della Malaterra era da tempo cessato. Gli Elfi di Rifugio Alato avevano creato un proprio governo e, pur riconoscendo la sovranità dei re elfi di Arborlon sulla maggioranza delle Terre dell'Ovest, si consideravano un popolo a parte. Perciò avevano definito se stessi Elfi del Cielo e gli altri Elfi d'occidente Elfi di Terra. Perk era figlio e nipote di Cavalieri Alati. I Cavalieri Alati erano gli uomini che addestravano i giganteschi Roc, volavano con essi, e presiede-
vano all'approvvigionamento e alla difesa di Rifugio Alato. Per gli uomini e le donne della comunità esistevano altre cariche, ma quella di Cavaliere Alato era la più ambita. Soltanto loro potevano comandare ai Roc. Soltanto loro potevano volare, veleggiare da un angolo all'altro del cielo. Il Cavaliere Alato era un uomo che custodiva l'onore e la fiducia del suo popolo, che dedicava la sua vita al suo servizio. e che sarebbe sempre stato riconosciuto come simbolo del suo stile di vita. Perk era al secondo anno di addestramento come Cavaliere Alato. Venivano prescelti da ragazzi, e l'addestramento continuava finché i ragazzi diventavano uomini. Spesso la scelta era praticamente predeterminata. come nel caso di Perk, poiché sia suo padre sia suo nonno erano stati Cavalieri Alati, e perciò era previsto che ne seguisse le orme. Genewen era l'uccello di suo nonno, ma questi era troppo vecchio per compiere un servizio regolare; quando Perk fosse diventato uomo, Genewen sarebbe diventato suo. I Roc erano longevi, le loro vite si protraevano per l'arco di quattro e talvolta cinque generazioni di Elfi. Perciò un Roc serviva diversi padroni. Genewen prima era stato al servizio del nonno di Perk e, se fosse rimasto in buona salute, sarebbe appartenuto un giorno al figlio o addirittura al nipote di Perk. Per il momento, era al servizio di Perk mentre questi si addestrava sotto la supervisione del nonno per diventare Cavaliere Alato. Proprio durante tale esercitazione, il ragazzo era arrivato fra le montagne dello Sperone Roccioso. incontrando Wil e Amberle. Per diventare Cavaliere Alato, doveva compiere voli sempre più lunghi. Per ciascun volo, gli venivano affidati determinati compiti e doveva seguire determinate regole. In questo caso particolare, doveva restare lontano da Rifugio Alato per sette giorni, portando con sé soltanto una piccola razione di pane e formaggio e un contenitore d'acqua. Avrebbe dovuto arrangiarsi da solo per trovare altro cibo e altra acqua. Doveva esplorare e poi descrivere accuratamente al suo ritorno certe zone del territorio montuoso intorno alla Malaterra, che era vietato a lui come a tutti coloro che non avevano completato l'addestramento. Poteva atterrare nel territorio circostante. ma non addentrarsi nella Malaterra. Inoltre doveva evitare ogni contatto con i suoi abitanti. Le istruzioni erano state piuttosto esplicite, e Perk non aveva sollevato obiezioni. Ma il mattino del secondo giorno, mentre volava verso sud lungo il confine orientale dello Sperone Roccioso, aveva intravisto Wil e Amberle addormentati in un boschetto di pini sotto di lui, avviluppati nei loro mantelli. Dopo essersi abbassato per vedere meglio, si era trovato
immediatamente di fronte a un dilemma. Chi erano quei viaggiatori, Elfi come lui, un giovane e una ragazza, che evidentemente provenivano da un'altra parte del paese? Cosa facevano in quella terra aspra, desolata, senza provviste né armi? Gli era bastato riflettere un attimo per decidere. Gli avevano ordinato di evitare ogni contatto con gli abitanti della Malaterra, ma non gli avevano dato nessuna direttiva riguardo a altri. Anche se forse era stata una dimenticanza del nonno, le cose stavano così. Nonostante la maturità e la prudenza che il suo intenso addestramento gli aveva instillato, Perk era pur sempre un ragazzo con la passione dell'avventura. Suo nonno gli aveva lasciato uno spiraglio, e era abbastanza naturale che lui ne approfittasse. Dopo tutto, anche se era ubbidiente, era curioso. Qualche volta anche la sua curiosità doveva avere il sopravvento. Fortunatamente per Wil e Amberle, le cose erano andate proprio così. Terminata la sua storia, Perk rispose pazientemente alle domande degli altri due per un paio di minuti. Ma la sua ansia di cominciare una nuova avventura ebbe presto la meglio. Con un'inconfondibile espressione di eccitazione, chiese ai suoi nuovi compagni se erano pronti a partire. Anche se non vi era abituato, Genewen poteva portarli tutti e tre. Avrebbe superato le montagne dello Sperone Roccioso in un batter d'occhio. Wil e Amberle osservarono perplessi l'uccello gigantesco. Se ci fosse stata un'alternativa, l'avrebbero accolta con gioia. Il pensiero stesso di volare dava loro uno spiacevole senso di nausea. Ma non c'era altro da fare, e il ragazzo se ne stava lì, con le mani sui fianchi, pronto a partire. Wil guardò Amberle stringendosi nelle spalle, dopo di che annunciò che erano pronti. Dopotutto, se ci riusciva un ragazzo potevano riuscirci anche loro. Preceduti da Perk, si avvicinarono a Genewen. L'uccello gigantesco portava stretta intorno al corpo una bardatura di cuoio. Perk mostrò delle staffe che avrebbero consentito a tutti e tre di montare sul dorso dell'uccello. Tenne fermo Genewen mentre salivano, poi infilò ai giovani i piedi nelle staffe, raccomandò di tenersi stretti alle apposite impugnature e, come ulteriore precauzione, li legò alla bardatura con corde di sicurezza. Così, spiegò, se il vento li avesse investiti, non sarebbero caduti. Tale rassicurazione fu di scarso conforto per i due giovani, già abbastanza spaventati. Poi Perk diede a ciascuno di loro un pezzetto di radice marroncina da masticare e ingoiare. Quella radice, spiegò, avrebbe attenuato il disagio del volo. La mangiarono in gran fretta. Quando i due furono sistemati, il ragazzo prese un lungo frustino di cuoio da sotto la bardatura e diede un colpetto a Genewen. Con un grido pene-
trante, il Roc allargò le sue grandi ali e si librò nell'aria del mattino. Pietrificati, Amberle e Wil videro la terra allontanarsi sotto di loro. I pini del boschetto si rimpicciolirono mentre Genewen saliva sopra i prati, veleggiando sulle correnti d'aria e curvando velocemente verso le vette delle montagne a occidente. Per Wil e Amberle, l'impressione fu indescrivibile. Dapprima ebbero una sensazione contrastante di nausea e euforia, e soltanto i succhi della strana radice impedirono loro di vomitare. Poi la nausea si attenuò, e il senso di euforia cominciò a intensificarsi, man mano che l'orizzonte si allargava: un panorama spettacolare di foreste, acquitrini, montagne e fiumi. Uno scenario incredibile. Davanti a loro le vette nere dello Sperone Roccioso si levavano come denti frastagliati dalla terra, e il sottile nastro azzurro del Mermidon scorreva tortuoso fra le montagne; a nord la chiazza torbida di Acque Opache affondava nel verde delle foreste occidentali; a est, ora molto lontane, si ergevano le torri gemelle del Baluardo; a sud, la foschia di Lama Spettrale si levava davanti alle Irrybis. L'intero paesaggio si dispiegava sotto di loro, come racchiuso in qualche valle nascosta messo a fuoco dal sole che ardeva in un cielo terso, di un intenso azzurro. Genewen si librò in alto, proseguendo deciso verso lo Sperone Roccioso, serpeggiando fra il labirinto di vette, scivolando agile e sicuro attraverso crepacci, scendendo nelle vallate, poi alzandosi per superare ogni nuovo crinale. Wil e Amberle si tenevano aggrappati con tutte le loro forze alla bardatura dell'uccello, ma il viaggio era agevole; il Roc ubbidiva prontamente a Perk che lo sollecitava e blandiva con una serie di movimenti delle mani e delle gambe familiari all'uccello. Di tanto in tanto il vento li investiva, ma era leggero e caldo in quel giorno d'estate, soffiando tenue da sud. Perk si voltò a lanciare una rapida occhiata ai suoi nuovi compagni, con un ampio sorriso sulla faccia lentigginosa. Amberle e Wil sorrisero a loro volta, ma con minore entusiasmo. Continuarono a volare per quasi un'ora, inoltrandosi nelle montagne finché le foreste scomparvero completamente. Di tanto in tanto la foschia di Lama Spettrale appariva fra i picchi a sud, grigia e ostile, poi anche quella svanì. Le montagne li circondavano dappertutto, torri massicce di roccia che si ergevano verso la luce del sole, lasciandoli nell'ombra. Wil si ritrovò a pensare per un attimo a quel che sarebbe stato di lui e Amberle se avessero cercato di attraversare lo Sperone Roccioso a piedi. Molto probabilmente non ce l'avrebbero fatta, soprattutto essendo venuto meno l'aiuto dei Cacciatori elfi. Si chiese se i demoni gli davano ancora la caccia. In-
dubbiamente era così, pensò, provando una certa soddisfazione all'idea che persino il Mietitore, sempre che fosse riuscito a sopravvivere al crollo della passerella nel Baluardo, questa volta non avrebbe trovato la loro pista. Poco tempo dopo, Perk guidò Genewen verso una collina alta, senza alberi, ricoperta da un manto di erba lunga e fiori selvatici, prospiciente un lago di montagna. Il Roc atterrò senza scosse e i suoi viaggiatori scesero: Perk saltò giù. Agilmente dal dorso dell'uccello gigantesco; Wil e Amberle, rattrappiti e rigidi nei movimenti, avevano negli occhi una evidente espressione di sollievo. Rimasero lì a riposare per una mezz'ora, poi montarono di nuovo su Genewen e ripartirono, diretti a ovest attraverso i picchi massicci. Quel mattino si concessero altre due pause. Ogni volta Perk propose ai suoi compagni di bere e mangiare con lui, e ogni volta essi rifiutarono. Accettarono soltanto un altro pezzetto della strana radice. Perk la offrì senza commenti. Era successo così anche a lui, la prima volta che aveva volato. A mattino inoltrato, avevano raggiunto il confine orientale della Malaterra. In groppa a Genewen. vedevano chiaramente tutta la valle, una massa aggrovigliata di alberi e boscaglia circondata dalle montagne dello Sperone Roccioso e dalle Irrybis e dall'ampia, nebbiosa distesa di Lama Spettrale. Era un paesaggio che incuteva timore, ricoperto da una densa vegetazione. un susseguirsi di avvallamenti e di alture, costellato di acquitrini; qua e là, come braccia protese, spuntavano da sopra gli alberi vette isolate. Non c'era traccia di abitazioni umane, né villaggi né capanne, e non vi erano nemmeno campi coltivati o bestie al pascolo. Wil e Amberle guardavano la plaga sotto di loro con apprensione. Qualche attimo dopo, Park riportò Genewen nell'ombra delle montagne e la Malaterra scomparve dietro le vette. Continuarono a volare fin poco dopo mezzogiorno, quando Perk voltò di nuovo Genewen verso sud. Con un lento arco graduale, il Roc scivolò in una stretta apertura fra le montagne. Davanti a loro. riapparve la Malaterra. Volarono in quella direzione, scendendo lungo un aspro versante che affondava nell'incavo della valle. Giunto in fondo, Genewen deviò a destra, calando verso un ampio pendio, costellato di boschetti, che si allargava alla base della montagna e si affacciava sulla Malaterra. Perk guidò Genewen al riparo di un abete. Wil e Amberle scesero con precauzione dal dorso del Roc, strofinandosi i muscoli rattrappiti e irrigiditi per il lungo viaggio. Dopo aver dato un rapido ordine a Genewen. Perk li seguì, rosso in faccia per l'eccitazione.
«Avete visto? Ce l'abbiamo fatta!» Il suo sorriso andava da un orecchio all'altro. «Già» riconobbe Wil. con un sorriso sforzato, massaggiandosi la schiena. «Che cosa facciamo adesso?» volle sapere subito il ragazzo. Wil si raddrizzò. con una smorfia di dolore. «Tu non farai un bel niente, Perk. Non puoi venire con noi.» «Ma io voglio aiutarvi» insistette il ragazzo. Amberle si fece avanti e gli circondò le spalle con un braccio. «Tu ci hai già aiutati. Perk. Non saremmo mai arrivati fin qui senza di te.» «Ma io voglio venire...» «No, Perk» l'interruppe rapidamente Amberle. «Quel che dobbiamo fare ora è troppo pericoloso. Non possiamo coinvolgerti. Wil e io dobbiamo addentrarci nella Malaterra. Tu stesso hai detto che la Malaterra ti è vietata. Perciò ora devi lasciarci. Ricorda, hai promesso a Wil che te ne saresti andato quando fosse giunto il momento.» Il ragazzo annuì, triste. «Io non ho paura» borbottò. «Lo so.» Amberle gli sorrise. «Credo proprio che tu non abbia paura di niente.» A quel complimento, Perk si illuminò, e un rapido sorriso gli balenò sul volto. «C'è un'altra cosa che puoi fare per noi.» Wil gli mise una mano sulla spalla. «Noi non sappiamo gran che della Malaterra. Puoi dirci qualcosa di quel che ci troveremo a affrontare?» «Mostri» rispose il ragazzo senza esitare. «Mostri?» «Di tutti i tipi. E anche streghe, dice mio nonno.» Il giovane non riusciva a decidere se credervi o meno. Dopo tutto, il nonno voleva tenere il ragazzo lontano dalla Malaterra e quindi era comprensibile che calcasse un po' la mano. «Hai mai sentito parlare di un luogo chiamato Cripta?» chiese d'impulso. Perk scosse la testa. «Lo immaginavo» fece Wil sospirando. «Mostri e streghe, eh? Ci sono delle strade?» Il ragazzo annuì. «Ve le mostrerò.» Li portò fuori dal boschetto verso una piccola altura dove potevano dominare la valle.
«Vedete laggiù?» disse, indicando una massa di alberi caduti alla base del pendio. Wil e Amberle guardarono finché individuarono il punto che lui indicava. «Fra quegli alberi c'è una strada che porta al villaggio di Grimpen Ward. Tutte le strade della Malaterra portano a Grimpen Ward. Di qui non vedete niente, ma è laggiù, diversi chilometri dentro la foresta. Mio nonno mi ha detto che è un brutto posto, abitato da ladri e assassini. Ma, forse, potrete trovarci qualcuno che vi faccia da guida.» «Forse.» Wil gli sorrise, grato. Se non altro ladri e assassini erano preferibili a mostri e streghe, pensò fra sé. Certo, dovevano stare in guardia. Anche se tutti i ladri e gli assassini e le streghe e i mostri erano immaginari, i demoni che li inseguivano erano una realtà; forse già li aspettavano, a loro insaputa. Perk era assorto nei suoi pensieri. Dopo un attimo, alzò gli occhi. «Cosa farete dopo aver trovato questa Cripta?» chiese. Wil esitò. «Be', Perk, quando avremo trovato la Cripta, avremo trovato anche il talismano di cui ti ho parlato. Torneremo subito a Arborlon.» Il volto del ragazzo si illuminò. «Allora c'è qualcos'altro che posso fare» annunciò con entusiasmo. Frugò nel sacchetto di cuoio che portava appeso al collo e estrasse lo zufolo d'argento, che porse al giovane. «Perk, cosa...?» cominciò Wil, mentre l'altro glielo ficcava in mano.«Ho altri cinque giorni a disposizione prima di tornare a Rifugio Alato» lo interruppe il ragazzo. «Ogni giorno volerò sulla valle a mezzodì. Se avrai bisogno di me, mi farai un segnale con quello zufolo e io verrò. Se riuscirete a trovare il talismano entro quei cinque giorni, Genewen e io vi riporteremo a nord, verso la vostra terra.» «Perk, non mi sembra...» cominciò a obiettare Amberle, scuotendo lentamente la testa. «Aspetta un attimo» interloquì Wil. «Se Genewen ci riportasse al nord, risparmieremmo parecchi giorni di viaggio. Eviteremmo tutta la zona che abbiamo dovuto attraversare per arrivare fin qui. Amberle, dobbiamo tornare il più rapidamente possibile... lo sai.» Si voltò verso Perk. «Genewen potrebbe fare un simile viaggio? E tu?» Il ragazzo annuì, fiducioso. «Ma ha già detto che la Malaterra gli è proibita» osservò Amberle. «Come potrebbe atterrarvi?» Perk rifletté. «Be', atterrare con Genewen solo per raccogliervi... non richiederà che un attimo.»
«Non mi piace per niente questa idea» dichiarò Amberle, guardando Wil, corrucciata. «È troppo pericoloso per Perk; inoltre tradirebbe la fiducia che gli è stata accordata.» «Voglio esservi d'aiuto» insistette il ragazzo. «E poi, mi avete spiegato quanto sia importante la vostra missione.» Era talmente deciso che per un attimo Amberle non seppe controbattere. Wil ne approfittò per intervenire di nuovo. «Senti, perché non facciamo un compromesso? Io prometto che, se esisterà la minima possibilità di pericolo per Perk, non lo chiamerò in nessun caso. Ti va bene?» «Ma, Wil...» cominciò il ragazzo. «Inoltre, passati cinque giorni, ritornerà a Rifugio Alato come ha promesso a suo nonno, anche se io non lo avrò chiamato» concluse il giovane, tagliando corto alle obiezioni che Perk stava già per fare. Amberle rifletté un attimo, poi annuì a malincuore. «Va bene. Ma farò in modo che tu non venga meno alla tua promessa, Wil.» Il giovane la guardò negli occhi. «Allora siamo d'accordo.» Si voltò verso il ragazzo. «Adesso dobbiamo andare, Perk. Ti siamo molto grati.» Prese la mano callosa dell'Elfo e la strinse energicamente. «Addio» disse Amberle, sfiorandogli la guancia con un bacio. Perk arrossì, e abbassò gli occhi. «Addio, Amberle. Buona fortuna.» Con un ultimo cenno di saluto, i due giovani cominciarono a scendere lungo il pendio verso la foresta. Perk rimase a guardarli finché scomparvero. 26 A pomeriggio inoltrato del secondo giorno successivo alla partenza da Arborlon di Wil e Amberle insieme ai Cacciatori elfi come scorta, Eventine Elessedil se ne stava solo nel suo studio, tutto assorto nelle mappe e carte geografiche sparpagliate sullo scrittoio davanti a lui. Fuori, la pioggia martellava grigia, inesorabile, da due giorni, infradiciando tutte le foreste elfe. Il crepuscolo stava già calando; le sue ombre ricadevano lunghe e cupe attraverso le porte-finestre in fondo alla stanza. Manx se ne stava raggomitolato ai piedi del padrone, la testa brizzolata appoggiata sulle zampe anteriori, il respiro profondo e regolare. Il vecchio re sollevò la testa dalle carte, strofinandosi gli occhi arrossati dalla stanchezza. Si guardò intorno distrattamente, poi scostò la sedia dal tavolo. Allanon sarebbe già dovuto ritornare, pensò in ansia. C'erano tante
cose da fare. per le quali l'aiuto del Druido era indispensabile. Eventine non aveva la minima idea di dove fosse andato questa volta: era partito il mattino presto e nessuno l'aveva più rivisto. Il re guardò fuori. Per tre giorni aveva lavorato col Druido e i membri del consiglio all'elaborazione di una difesa per la patria elfa, una difesa che sapeva essere necessaria. Il tempo scivolava via. L'Eterea continuava a deperire. il Divieto a indebolirsi. Ogni giorno, il re si aspettava di sentirsi annunciare che entrambi erano venuti meno che i demoni imprigionati si erano liberati, e che l'invasione delle Terre dell'Ovest era cominciata. L'esercito elfo era stato mobilitato e era pronto: soldati armati di picche e spade, arcieri e lancieri; cavalleria e fanteria; la Guardia Reale e la Guardia Nera; l'esercito regolare e la riserva; soldati elfi provenienti da tutto il paese. L'appello era stato lanciato. e tutti gli uomini abili erano venuti per servire. Abbandonando le famiglie e le case e riversandosi nella città per essere equipaggiati e armati. Eppure il re sapeva che nemmeno la volontà ferrea del popolo elfo era sufficiente per resistere a un assalto dell'intera orda demoniaca, una volta che si fosse liberata e fusa in una unità compatta. Lo sapeva perché gliel'aveva detto Allanon, e Eventine conosceva abbastanza il Druido da credere a questa previsione tanto spaventosa. I demoni erano fisicamente più forti degli Elfi e assai più numerosi. Selvaggi, impazziti, erano animati da un odio che era esploso il giorno in cui erano stati banditi dalla terra e che era tutto concentrato sul popolo responsabile di averli cacciati. Per secoli, non erano vissuti che di quello. Ora avrebbero sfogato il loro odio. Eventine non si faceva illusioni. Se gli Elfi non avessero ricevuto aiuto da qualche parte, i demoni li avrebbero distrutti tutti. Non era il caso di affidarsi soltanto a Amberle e al seme dell'Eterea. Anche se il pensiero lo tormentava, Eventine sapeva di dover accettare la possibilità di non rivedere mai più la nipote. Ancor prima che essa ritornasse a Arborlon. il re aveva mandato messaggeri alle altre razze, chiedendo che si unissero agli Elfi nel combattere questo male che minacciava la sua terra... un male che avrebbe finito col divorarli tutti. I messaggeri erano partiti da oltre una settimana, ormai; finora, nessuno era tornato. Era ancora troppo presto, naturalmente, per aspettarsi una risposta dalle altre razze, perché persino Callahorn era distante diversi giorni di viaggio a cavallo. Ma in ogni caso dubitava che molti si sarebbero messi al loro fianco.
Certamente sarebbero venuti i Nani, come avevano sempre fatto. I Nani e gli Elfi avevano combattuto insieme ogni nemico che i liberi popoli delle Quattro Terre avevano affrontato dall'epoca del primo consiglio dei Druidi. Ma i Nani erano molto lontani, nel cuore delle foreste dell'Anar. E dovevano venire a piedi, perché non viaggiavano a cavallo. Eventine scosse la testa. Sarebbero arrivati il più rapidamente possibile... ma forse non abbastanza da salvare gli Elfi. C'era Callahorn, naturalmente, ma non la vecchia Callahorn, la Callahorn di Balinor. Se Balinor fosse stato ancora in vita, o se i Buckhannah avessero ancora regnato, la Legione del Confine si sarebbe messa subito in marcia. Ma Balinor, l'ultimo dei Buckhannah, era morto e l'attuale re di Callahorn, un lontano cugino che era salito al trono più per caso che per volontà popolare, era un uomo indeciso e estremamente cauto che forse avrebbe trovato conveniente dimenticare che gli Elfi erano venuti in soccorso di Callahorn quando erano stati chiamati. In ogni caso, i consigli uniti di Tyrsis e Varfleet e Kern, ricostruita dopo la sua distruzione cinquant'anni prima, ora avevano più potere del re. Avrebbero agito con lentezza, anche se i messaggeri di Eventine fossero riusciti a illustrare con efficacia la drammaticità della situazione, poiché mancavano della guida di un forte capo. Avrebbero discusso e discusso e, nel frattempo, la Legione della Frontiera sarebbe rimasta ferma. Ironicamente, era la sfiducia per i conterranei del Sud - e, più in particolare, per la Federazione - che probabilmente avrebbe ritardato l'intervento degli uomini di Callahorn. In seguito alla distruzione del Signore degli Inganni e alla sconfitta dei suoi eserciti, le principali città del profondo Sud avevano tardivamente capito quale enorme minaccia rappresentasse il Signore delle Tenebre; agendo in gran fretta per la paura, avevano formato un'alleanza reciproca, un'alleanza che era cominciata come una organizzazione indefinita di territori confinanti e che rapidamente si era evoluta in una Federazione altamente strutturata. La Federazione era stata la prima forma coesiva di governo che la razza dell'uomo avesse conosciuto in oltre mille anni. Il suo fine dichiarato era quello di unificare le Terre del Sud e la razza dell'uomo sotto un solo governo. Quel governo, naturalmente, doveva essere la Federazione. A quel fine, aveva iniziato un tentativo concertato di unire le rimanenti città e province. Nei quattro decenni dalla sua fondazione, la Federazione era arrivata a dominare quasi tutte le Terre del Sud. Fra le maggiori città del Sud, soltanto quelle di Callahorn si erano opposte all'unificazione. Tale decisione aveva provocato alcuni attriti fra i
due governi, tanto più che la Federazione continuava a avanzare verso i confini settentrionali di Callahorn. Eventine incrociò le braccia sul petto, accigliato. Aveva mandato un messaggero alla Federazione, ma aveva poche speranze di ricevere aiuto. La Federazione aveva sempre mostrato scarso interesse per i problemi delle altre razze, e era improbabile che si sentisse coinvolta dalla prospettiva di un'invasione dei demoni nelle Terre dell'Ovest. Anzi, era improbabile che prestasse fede a una simile invasione. Gli uomini del profondo Sud non sapevano gran che delle arti magiche che avevano tormentato le altre terre fin dall'epoca del Primo Consiglio dei Druidi; avevano sempre condotto un'esistenza chiusa, introversa, e nel corso della recente espansione, non si erano ancora imbattuti in molte delle spiacevoli realtà che si nascondevano oltre la loro limitata esperienza. Il re scosse nuovamente la testa. No, le città della Federazione non sarebbero venute in loro aiuto. Così com'era accaduto quando erano state avvertite dell'arrivo del Signore degli Inganni, non avrebbero creduto alla minaccia incombente. Nessun messaggero era stato mandato agli Gnomi. Sarebbe stato inutile. Gli Gnomi erano una razza tribale. Non rispondevano né a un re né a un consiglio. Li governavano i loro capitribù e i loro maghi, e ogni tribù aveva un capo e un mago, e tutte erano costantemente in lotta fra loro. Amareggiati e scontenti dopo la sconfitta subita a Tyrsis, gli Gnomi non si erano più interessati alle vicende delle altre razze nei cinquant'anni da allora trascorsi. Era assurdo aspettarsi che se ne occupassero ora. Restavano i Troll. Anche quelli erano una razza tribale, eppure dopo la conclusione della Terza Guerra delle Razze, i Troll erano andati unificandosi nelle vaste distese delle Terre del Nord; alcune tribù si erano fuse entro certi territori sotto la guida di un unico consiglio. Una delle più numerose di queste comunità, e anche la più vicina, si trovava nel Territorio del Kershalt, ai confini settentrionali della terra elfa. Il Kershalt era abitato principalmente dai Troll delle Montagne, e anche da tribù minori. Tradizionalmente, Elfi e Troll erano stati nemici; nelle ultime due Guerre delle Razze, avevano combattuto accanitamente gli uni contro gli altri. Ma con la caduta del Signore degli Inganni, l'ostilità fra le due razze era considerevolmente diminuita, e negli ultimi cinquant'anni la loro convivenza era stata relativamente pacifica. I rapporti fra Arborlon e il Kershalt erano stati particolarmente buoni. Erano stati avviati scambi commerciali e formulati
progetti per scambiarsi delegazioni. C'era una possibilità che i Troll del Kershalt venissero in loro aiuto. Il vecchio re passò di nuovo in rassegna le sue riflessioni e ebbe un debole sorriso. Una possibilità molto limitata, ammise. Ma sapeva di non poterla trascurare. Per sopravvivere, gli Elfi avrebbero avuto bisogno di chiunque fosse disposto a combattere al loro fianco. Si alzò lentamente, stiracchiandosi, poi guardò di nuovo la schiera di carte sparse sullo scrittoio. Ciascuna rappresentava un diverso settore delle Terre dell'Ovest, tutto il territorio conosciuto comprendente la terra elfa e quelle circostanti. Eventine le aveva studiate fino al punto di ricordarsele a occhi chiusi. Da uno di quei settori sarebbero spuntati i demoni, e lì bisognava disporre le difese. Ma da quale? Dove avrebbe cominciato a crollare il Divieto? Dove sarebbe cominciata l'invasione? Gli occhi del re vagavano da una carta all'altra. Allanon aveva promesso di scoprire dove si sarebbe aperto il varco, e era proprio quella indispensabile informazione che attendeva l'esercito elfo. Fino a allora.. Sospirando, si diresse verso le porte-finestre che davano sul parco. Mentre scrutava le ombre del crepuscolo, intravide Ander che arrivava dal sentiero, la testa china per proteggersi dalla pioggia, le braccia cariche degli elenchi delle truppe e dei rifornimenti che era stato incaricato di riunire. Il volto accigliato del re si distese un poco. Ander era stato prezioso in questi ultimi giorni. Al figlio minore era toccata la noiosa, anche se necessaria incombenza di raccogliere informazioni, nel migliore dei casi, un compito ingrato, che Arion avrebbe certo rifiutato con sdegno. Ma Ander si era messo al lavoro senza una parola di protesta. Il re scosse la testa. Era strano, ma, benché Arion fosse il principe ereditario e il figlio che sentiva più vicino, talvolta, in questi ultimi giorni, si era riconosciuto di più in Ander. Poi sollevò lo sguardo verso il cielo plumbeo della sera e si domandò se il figlio minore condividesse i suoi sentimenti. La stanchezza segnava profondamente il volto di Ander Elessedil mentre entrava nel palazzo, si toglieva il mantello fradicio di pioggia e imboccava il corridoio buio che portava allo studio del padre, cullando con aria protettiva fra le braccia gli elenchi delle truppe e dei rifornimenti. Era stata una giornata difficile e il continuo rifiuto del fratello di avere a che fare con lui non l'aveva certo alleggerita. Arion aveva assunto quell'atteggiamento da quando lui aveva preso le parti di Amberle all'Alto Consiglio. Il distacco che era sempre esistito fra loro era diventato un enorme abisso
che ormai non poteva nemmeno pensare di superare. L'incontro di oggi col fratello aveva dimostrato quanto quell'abisso fosse diventato profondo. Incaricato dal padre di raccogliere le informazioni che ora portava con sé, era andato a chiedere aiuto a Arion, al quale era stata affidata la responsabilità di mobilitare e equipaggiare l'esercito elfo. Anche se Arion aveva tutto il tempo per sbrigare il suo lavoro, si era rifiutato di riceverlo, mandando in sua vece un giovane ufficiale addetto ai rifornimenti e tenendosi alla larga tutto il giorno. Ander si era talmente incollerito che se la sarebbe sentita di scontrarsi col fratello. Ma in tal caso avrebbe coinvolto suo padre, e il vecchio re non aveva davvero bisogno di dover affrontare ulteriori problemi. Alla fine Ander aveva soffocato i propri sentimenti. Finché le orde demoniache minacciavano il paese, i problemi personali dovevano essere accantonati. Scosse il capo. Simili ragionamenti non gli davano nessun sollievo circa il modo in cui si erano evoluti i rapporti fra Arion e lui. Raggiunta la porta dello studio, la socchiuse con lo stivale, entrò e la richiuse di nuovo, con delicatezza. Si sforzò di rivolgere un sorriso incoraggiante a suo padre, che gli venne incontro per liberarlo dalle carte e dagli elenchi. Poi si abbandonò sfinito in una poltrona. «È tutto» disse. «Inventariato, registrato e messo in ordine.» Eventine posò il materiale portato dal figlio sul tavolo delle mappe e si voltò. «Hai l'aria stanca.» Ander si alzò, stiracchiandosi. «Sono...» In una raffica di vento e pioggia, le porte-finestre si spalancarono. Padre e figlio si girarono di scatto mentre le carte e le mappe si sparpagliavano per terra e le fiammelle delle lampade a olio guizzavano. Allanon si ergeva nell'ingresso, il mantello nero, fradicio, che luccicava nella luce del crepuscolo, bagnando anche il pavimento dello studio. I suoi lineamenti angolosi erano tesi, e la linea sottile della sua bocca era più dura che mai. Teneva con entrambe le mani un sottile bastone di legno color argento. Per un istante gli occhi di Ander incontrarono quelli del Druido, e il principe si sentì gelare il sangue nelle vene. C'era un che di spaventoso nell'espressione del Druido, bagliori di selvaggia determinazione, potere, e morte. Allanon si voltò e chiuse energicamente le porte-finestre, facendo scorrere il saliscendi che in qualche modo era riuscito a aprire dall'esterno. Quando si voltò di nuovo, Ander vide chiaramente il bastone argenteo e il suo volto diventò di un pallore mortale.
«Allanon, cosa hai fatto!» esclamò, incapace di controllarsi. Quando lo vide anche il re, sussurrò inorridito: «L'Eterea! Druido, hai tagliato un ramo dalla viva pianta!». «No, Eventine» rispose l'uomo a voce bassa. «Non l'ho tagliato. Non avrei mai danneggiato lei che è la vita di questa terra. Non l'avrei mai fatto.» «Ma allora...» cominciò il re, protendendo le mani come per toccare qualcosa che scottasse. «Non l'ho tagliato» ribadì l'altro. «Guarda bene, ora.» Sollevò il ramo e lo voltò lentamente perché gli altri due potessero esaminarlo. Ander e suo padre si chinarono a guardarlo da vicino. Entrambe le estremità erano lisce e arrotondate. Non c'era né scalfittura né traccia di lama Anche il resto era intatto. Eventine era allibito. «Ma allora...» «Il ramo mi è stato dato, re degli Elfi... dato da lei, perché possa essere brandito contro i nemici che minacciano il suo popolo e la sua terra.» La voce del Druido era così fredda che sembrò raggelare l'aria della piccola stanza. «Ecco. dunque, la magia che darà forza all'esercito elfo, e il potere per resistere al male che vive nelle orde dei demoni. Questo ramo sarà il nostro talismano... la mano destra dell'Eterea, che porteremo davanti a noi quando gli eserciti si scontreranno.» Si fece avanti, sempre stringendo il ramo davanti a sé, gli scuri occhi duri nell'ombra delle sopracciglia. «Questa mattina presto sono andato da lei, cercando un'arma con la quale combattere il nostro nemico. Lei mi ha dato udienza, parlando con le immagini che sono le sue parole, e mi ha chiesto il perché della mia visita. Le ho detto che gli Elfi non hanno alcuna magia, tranne la mia, con cui opporsi al potere dei demoni; le ho espresso il timore che non sia sufficiente, e che io possa fallire. Le ho detto che cercavo una parte di lei con cui combattere i demoni, perché lei è un anatema per loro. «Allora l'Eterea ha levato da se stessa questo ramo, questo arto del suo corpo. Indebolita, sapendo di morire, è riuscita a darmi una parte di sé con cui aiutare il popolo elfo. Io non l'ho toccata, non ho fatto altro che contemplarla, ammirato per la sua forza di volontà. Tocca questo legno, re degli Elfi... toccalo!» Mise il ramo fra le mani di Eventine, che le chiuse intorno a esso. Il re spalancò gli occhi. Il Druido prese il ramo e in silenzio lo porse a Ander. Il principe elfo sobbalzò. Il legno era caldo, come se vi scorresse il sangue della vita.
«Vive!» mormorò il Druido in tono reverente. «Lontano e separato da lei, racchiude in sé la sua vita! Ecco l'arma che cercavo. Il talismano che proteggerà gli Elfi dalla magia nera delle orde dei demoni. Finché porteranno con sé questo ramo, il potere che vive nell'Eterea veglierà su di loro e agirà per la loro salvezza.» Prese il ramo dalle mani di Ander e nuovamente i loro occhi si incontrarono. Il principe elfo sentì un messaggio inespresso passare fra di loro, e che non comprendeva... come era accaduto quella notte durante la seduta dell'Alto Consiglio quando si era messo al fianco di Amberle. Gli occhi del Druido tornarono sul re. «Ora ascoltami». Parlava a bassa voce, in tono sbrigativo. «Questa notte le pioggia cesserà. L'esercito è pronto?» Eventine annuì. «Allora marceremo all'alba. Dobbiamo muoverci rapidamente.» «Ma dove ci dirigeremo?» chiese immediatamente il re. «Hai scoperto dove cederà il Divieto?» Gli occhi neri del Druido scintillarono. «Sì. Me l'ha detto l'Eterea. Ha sentito i demoni concentrarsi in un unico punto entro il Divieto, e si sente indebolire là dove si raccolgono. Sa che la barriera comincerà a venir meno proprio lì. Il varco è già stato aperto da quelli che sono venuti qua per massacrare gli Eletti. La breccia è stata chiusa, ma la ferita non è guarita. Là il Divieto crollerà. Già sta cedendo, sotto la forza di tutti coloro che premono contro di esso. I demoni vengono radunati in quel punto da colui che li comanda, e i cui poteri magici sono quasi pari ai miei: il Dagda Mor. Col suo aiuto, la breccia verrà nuovamente aperta, e questa volta non sarà mai più richiusa. «Ma noi li aspetteremo.» Le sue mani strinsero il ramo. «Noi li aspetteremo. Li affronteremo subito dopo che avranno attraversato il Divieto e saranno ancora disorganizzati. Bloccheremo la loro avanzata verso Arborlon il più a lungo possibile. Daremo a Amberle il tempo di cui ha bisogno per trovare il Fuoco di Sangue e tornare.» Silenziosamente fece cenno a Ander e a suo padre di avvicinarsi. Poi si chinò a raccogliere dal pavimento una delle mappe cadute, e la aprì sullo scrittoio. «L'invasione comincerà qui» disse a bassa voce. Il suo dito indicava l'ampia distesa delle Pianure di Cenere. 27
Quello stesso pomeriggio - la luce si era quasi spenta e la pioggia si era trasformata in bruma - il Libero Battaglione entrò a cavallo in Arborlon. Gli abitanti della città, vedendolo passare, interrompevano le proprie faccende, sussurrando fra loro, preoccupati. Dai viali cittadini fino alle strade della foresta, voci sommesse si levavano come una sola. Il Libero Battaglione era inconfondibile. Ander Elessedil era sempre rinchiuso nello studio del palazzo col padre e Allanon - dietro l'insistenza, abbastanza strana, del Druido che si familiarizzasse con le mappe delle Terre dell'Ovest e della Sarandanon e coi piani difensivi proposti - quando Gael portò l'annuncio del suo arrivo. «Mio signore, è arrivato da Callahorn un reparto di cavalleria della Legione della Frontiera» annunciò il giovane, comparendo improvvisamente alla porta dello studio. «Le nostre pattuglie li hanno incontrati a est della città e li hanno scortati fin qui. Arriveranno fra pochi minuti.» «La Legione!» Un ampio sorriso si allargò sul viso stanco del vecchio re. «Non avevo osato sperare tanto. Chi la comanda, Gael? Quanti sono?» «Non so nulla, mio signore. Un messaggero della pattuglia ha portato la notizia, ma senza alcun particolare.» «Non importa.» Eventine era già in piedi diretto verso la porta. «Ogni aiuto è gradito. comunque...» «Re degli Elfi!» La voce profonda di Allanon fece voltare bruscamente il padre di Ander. «Abbiamo un lavoro importante da sbrigare, ora, e non possiamo interromperlo. Forse potrebbe andare tuo figlio in tua vece, se non altro per dare il benvenuto agli uomini della Frontiera.» Ander fissò Allanon, stupito, e si voltò ansioso verso il padre. Il re esitò, poi vedendo l'espressione del figlio, annuì. «Benissimo, Ander. Porgi il mio saluto al Comandante della Legione e annunciagli che lo riceverò personalmente questa sera. Provvedi al suo alloggio.» Compiaciuto per il fatto che, una volta tanto, gli era stata affidata una responsabilità di una certa importanza, Ander uscì in gran fretta dal palazzo, scortato da Cacciatori elfi. La sorpresa che aveva provato all'inaspettato suggerimento di Allanon si trasformò rapidamente in curiosità. Non era la prima volta che il Druido interveniva deliberatamente per fargli affidare un incarico. C'era stato quel primo incontro in cui aveva parlato a Eventine di Amberle e del Fuoco di Sangue. E poi, mentre si accingeva a partire per Paranor, aveva affidato a lui la responsabilità di proteggere suo padre. E
infine, c'era quella segreta alleanza fra loro che lo aveva spinto durante la seduta dell'Alto Consiglio, a alzarsi e a porsi al fianco di Amberle in un momento in cui nessun altro l'avrebbe fatto. E l'incontro di quel pomeriggio, quando Allanon aveva consegnato a suo padre il ramo dell'Eterea... In tutte quelle circostanze, sarebbe toccato a Arion, l'essere presente, non a lui. Ma perché Arion non c'era mai? Aveva appena attraversato i cancelli del palazzo. Sempre immerso nei suoi pensieri, quando le prime file di cavalieri si profilarono sulla sommità della strada e lentamente apparve alla vista l'intero battaglione. Ander rallentò il passo, aggrottando la fronte. Riconosceva quei cavalieri. I lunghi mantelli grigi bordati di cremisi ondeggiavano sotto i cappelli a tesa larga ornati da un'unica penna cremisi. Dalle cinghie della sella sporgevano archi lunghi e spade, e loro stessi avevano corte spade assicurate sulla schiena. Ogni cavaliere portava una lancia da cui svolazzava un piccolo stendardo cremisi e grigio, e i cavalli avevano leggere bardature di cuoio con finimenti metallici. Scortati da alcuni Cacciatori elfi che li avevano incontrati mentre pattugliavano la zona a est della città, essi percorrevano le strade infangate di Arborlon col loro passo cadenzato, lo sguardo fisso davanti a sé, ignorando la folla che si andava raccogliendo. incuriosita. «Libero Battaglione» borbottò Ander fra sé. «Ci hanno mandato il Libero Battaglione.» Pochi non avevano sentito parlare del Libero Battaglione, il reparto più famoso e più discusso aggregato alla Legione della Frontiera di Callahorn. Era chiamato così dalla promessa, fatta a coloro che vi entravano, che i suoi soldati potevano lasciarsi alle spalle il passato, senza timore di essere inquisiti e senza alcun bisogno di scagionarsi. Per quasi tutti, questo passato era gravoso. Se i paesi da cui provenivano, le loro vicende e le loro vite trascorse erano diversi, i motivi che li inducevano a entrare nel battaglione erano analoghi. Fra loro vi erano assassini, ladri e imbroglioni, disertori di altri eserciti, uomini di origini illustri o oscure, uomini d'onore e uomini senza onore, alcuni alla ricerca di qualcosa, altri in fuga, o alla deriva... ma tutti decisi a fuggire il passato, a dimenticarlo, a ricominciare da capo. Il Libero Battaglione dava loro quella possibilità. A nessun soldato veniva mai chiesto nulla del suo passato; la sua vita cominciava il giorno stesso in cui si univa al Battaglione. Non contava più quel che era successo prima, ma solo il presente, e quel che avrebbe dato di sé da allora in poi. Per la maggioranza, quel tempo era breve. Il Libero Battaglione era l'unità d'urto della Legione; come tale, veniva mandato allo sbaraglio. I suoi
soldati erano i primi a entrare in battaglia e i primi a morire. In ogni combattimento sostenuto da quando il Battaglione si era formato circa trent'anni prima - le sue perdite erano state le più elevate. Se i suoi soldati si lasciavano alle spalle il passato, il futuro era una prospettiva molto incerta. E tuttavia, era ritenuto un giusto patto. Dopotutto, ogni cosa aveva un prezzo, e questo prezzo non era irragionevole. Se non altro, era un motivo d'orgoglio per i soldati che lo pagavano; gli dava un senso di valore, di identità, che li contraddistingueva da tutti gli altri combattenti delle Quattro Terre. Era una tradizione del Libero Battaglione che i suoi soldati morissero in battaglia. Essi accettavano questo destino: la morte era una realtà della loro esistenza, una vecchia conoscenza che avevano visto da vicino più di una volta. No, non gli importava di morire, ma di morire bene. Ne avevano dato prova in diverse occasioni: Ander lo sapeva. Ora erano stati mandati a Arborlon per dimostrarlo una volta ancora. Il Battaglione si fermò davanti ai cancelli di ferro e un cavaliere alto, solo davanti a tutti, smontò. Vedendo Ander, passò le redini del suo cavallo a un soldato e avanzò a grandi passi verso il principe. Giusto davanti a Ander e alla sua guardia, si tolse il cappello e chinò leggermente il capo. «Sono Stee Jans, comandante del Libero Battaglione della Legione.» Per un istante Ander non rispose, tanto era sorpreso dall'aspetto dell'altro. Stee Jans era un uomo importante, e torreggiava sopra di lui. La sua faccia ancora giovanile, ma segnata, era costellata di cicatrici, alcune delle quali attraversavano in forma di una striscia bianca la rada barba rossa che gli ombreggiava le mascelle, lasciando strisce bianche. Una massa di capelli color ruggine, raccolti in trecce, gli ricadeva sulle spalle. Aveva un orecchio mozzo e un orecchino d'oro gli pendeva dall'altro. Gli occhi nocciola fissavano quelli del principe elfo, così duri che sembravano scolpiti nella pietra. Ander si accorse di essere rimasto a fissarlo e si riprese rapidamente. «Sono Ander Elessedil... Eventine è mio padre.» Gli porse la mano che l'altro strinse in una morsa d'acciaio, le mani abbronzate coperte di calli e nodi. Ander si affrettò a ritirare la sua, dando un'occhiata alle lunghe file di cavalieri grigi, cercando invano altre unità della Legione. «Il re mi ha incaricato di porgerti il suo saluto e di provvedere a alloggiarti. Fra quanto tempo arriveranno gli altri battaglioni?» Un debole sorriso balenò sul volto segnato di Stee Jans. «Non ce ne saranno altri, mio signore. Soltanto i soldati del Libero Battaglione.»
«Soltanto...?» Ander esitò, disorientato. «Quanti siete, comandante?» «Seicento.» «Seicento!» Ander non riuscì a nascondere il suo sgomento. «Ma, la Legione della Frontiera? Quando verrà mandata?» Stee Jans ebbe un attimo di esitazione. «Mio signore, credo di dover essere franco con te. Può darsi che la Legione non venga mandata affatto. Il Consiglio delle Città non ha ancora raggiunto una decisione. Come quasi tutti i consigli, preferisce discutere su una decisione piuttosto che prenderla. Il tuo ambasciatore si è espresso con efficacia, mi hanno detto, ma molti membri del Consiglio raccomandano la prudenza. Il re demanda ogni responsabilità al Consiglio, e il Consiglio guarda verso sud. La Federazione è una minaccia tangibile mentre i vostri demoni sono poco più che un mito dell'Ovest.» «Un mito!» Ander era inorridito. «È già una fortuna che abbiano mandato il Libero Battaglione» proseguì calmo l'uomo. «Il Consiglio l'ha fatto unicamente per placare la sua coscienza collettiva. Una forza simbolica, come minimo, doveva essere mandata in aiuto degli alleati elfi, hanno detto. Naturalmente, la scelta è caduta sul Libero Battaglione... come sempre accade quando si tratta di una missione particolarmente pericolosa.» Era una semplice constatazione, fatta senza rancore né amarezza. Gli occhi dell'uomo erano duri, inespressivi. Ander avvampò. «Non avrei mai creduto che gli uomini di Callahorn fossero così stupidi!» sbottò. furibondo. Stee Jans lo scrutò un istante, come lo soppesasse. «So che quando Callahorn era assediata dall'armata del Signore degli Inganni, le Terre della Frontiera chiesero soccorso agli Elfi. Ma Eventine era caduto prigioniero del Signore delle Tenebre e in sua assenza, l'Alto Consiglio degli Elfi fu incapace di agire.» Fece una pausa. «La stessa cosa sta accadendo a Callahorn adesso. Le Terre della Frontiera non hanno un capo: non ne hanno mai avuto uno dopo la morte di Balinor.» Ander osservò l'altro con interesse, più calmo ora. «Tu sei un uomo sincero, comandante.» «Io sono un uomo onesto, mio signore. Questo mi aiuta a capire meglio le cose.» «Quel che mi hai detto potrebbe dar fastidio a parecchia gente di Callahorn.» L'altro si strinse nelle spalle. «Forse è per questo che sono qui.»
Ander sorrise. Aveva simpatia per Stee Jans... Anche se di lui sapeva solo quel che aveva appreso dalla loro breve conversazione. «Comandante, non volevo mostrarmi in collera con te. Tu non c'entri. Ti prego di capirmi. Il Libero Battaglione è il benvenuto. Ora permetti che ti accompagni al tuo alloggio.» Stee Jans scosse la testa. «Non è necessario, io dormo con i miei uomini. Mio signore, l'esercito elfo si metterà in marcia domattina all'alba, mi hanno detto.» Ander annuì. «Allora il Libero Battaglione sarà al suo fianco. Abbiamo soltanto bisogno di riposare un po' questa notte. Ti prego, informane il re.» «Lo farò» promise Ander. Il comandante della Legione salutò, poi si girò. Rimontato a cavallo, fece un breve cenno alla pattuglia elfa che scortava il suo battaglione e la lunga colonna grigia voltò a sinistra, imboccando di nuovo la strada infangata. Ander rimase a guardarla con un misto di ammirazione e incredulità. Seicento uomini! Pensando alle migliaia di demoni che si sarebbero scatenati contro di loro si domandò che differenza avrebbe fatto la presenza di seicento soldati del Sud. 28 All'alba, gli Elfi marciarono fuori da Arborlon, accompagnati dal gemito delle zampogne e dal rullio dei tamburi, cantando, con le bandiere svolazzanti che formavano chiazze di vivido colore contro un cielo ancora plumbeo e rannuvolato. Eventine Elessedil cavalcava davanti a tutti, i capelli grigi che gli scendevano sulla cotta di maglia forgiata con ferro blu, tenendo fermamente nella destra il ramo bianco-argenteo dell'Eterea. Al suo fianco c'era Allanon: un'ombra spettrale, alta e nera, su un Artaq ancor più alto e nero, e era come se la Morte fosse emersa dalle viscere della terra per vegliare sugli Elfi. Dietro cavalcavano i figli del re: Arion, con un mantello bianco, portava lo stendardo elfo da combattimento, un'aquila in campo cremisi; Ander, con un mantello verde, portava lo stendardo della casa degli Elessedil, una corona di fronde intrecciate sopra una quercia. Poi venivano Dardan, Rhoe e tre dozzine di temprati Cacciatori elfi, la guardia degli Elessedil; poi i colori grigio e cremisi del Libero Battaglione della Legione, forte di seicento uomini. Pindanon cavalcava solo davanti alle sue truppe, la figura scarna china sul suo cavallo da guerra, e indossa-
va l'armatura segnata da infinite battaglie. Dietro veniva il suo esercito, immenso e formidabile, sei colonne formate da migliaia di uomini. Comprendeva tre compagnie di cavalleria, le lance che si ergevano in una foresta di aste dalle punte di ferro, quattro compagnie di fanti armati di picche e scudi e due compagnie di arcieri che portavano i grandi archi lunghi degli Elfi... tutti vestiti secondo lo stile tradizionale del guerriero elfo: leggere armature con cotte di maglia e guardamani di cuoio per garantire mobilità e rapidità. Era una sfilata impressionante. Armi e bardature stridevano e tintinnavano nella quiete del primo mattino, lampeggiavano cupe nella debole luce, conferendo agli Elfi un aspetto ultraterreno che sapeva di morte. Gli stivali dei soldati e gli zoccoli dei cavalli ricadevano con un tonfo sordo, cadenzato, sollevando spruzzi di fango, mentre le colonne di fanti e cavalieri si allontanavano dalla piazza d'armi a nord della città, dirigendosi verso l'altopiano della Carolan, e si preparavano a voltare sull'Elfitch, le sette rampe che, dall'alto di Arborlon, scendevano nelle foreste sottostanti. Gli abitanti della città si erano affollati per assistere alla sfilata. Sulla Carolan, in cima a muri e steccati, nei campi e nei giardini, allineati lungo tutto il cammino, davano l'addio ai soldati con acclamazioni di incoraggiamento e di speranza e con pause di silenzio cariche di emozioni inesprimibili. Davanti ai cancelli dei Giardini della Vita era schierata la Guardia Nera al completo, le lance levate in alto. Sull'orlo della Carolan erano schierati i Cacciatori elfi della Guardia Reale e l'uomo che li avrebbe comandati in assenza di Eventine... Emer Chios, primo ministro dell'Alto Consiglio, ora difensore designato della città di Arborlon. L'esercito elfo scese lungo il fianco della Carolan, seguendo la spirale delle rampe di blocchi di pietra che si inoltravano fra la roccia e gli alberi, attraversando i sette cancelli in muratura che ne segnavano i livelli di discesa. In fondo, l'esercito girò a sud verso il fiume. Un ponte solitario si inarcava sul Rill Song, l'unico passaggio a est della città, i puntelli di ferro quasi sommersi dalle acque turbinose del fiume. Simile a un serpente dal dorso di metallo l'esercito salì sul ponte, l'attraversò e si inoltrò nei boschi silenziosi al di là. Lo scintillio delle armi e delle armature si spense nell'oscurità, gli stendardi scomparvero alla vista; le note delle canzoni, il gemito delle zampogne, il rullio dei tamburi si smorzarono in echi che presto si dissolsero nel folto baldacchino degli alberi. Quando il sole del mattino spuntò fra le nuvole del temporale ormai passato, illuminando la sommità
della Carolan e le foreste in basso, le ultime immagini di quella grandiosa sfilata erano già scomparse. Per cinque giorni l'esercito avanzò verso occidente, attraverso le profonde foreste della terra elfa, diretto verso le Sarandanon. Il maltempo si era spostato a est, verso Callahorn, e il sole scintillava in un cielo terso riscaldando i boschi immersi nell'ombra. Avanzavano a un ritmo regolare, costringendo la cavalleria a rallentare la sua andatura per adeguarsi a quella dei fanti. Man mano che l'esercito si spingeva a ovest verso le province circostanti, il pericolo che minacciava gli Elfi diventava sempre più evidente. Intere famiglie si dirigevano verso la capitale con le loro masserizie ammucchiate su carretti e caricate sul dorso di buoi e cavalli, lasciandosi alle spalle case e villaggi abbandonati. A ovest imperversavano creature terrificanti, raccontavano spaventati: mostri cupi e brutali che uccidevano senza ragione e scomparivano rapidamente così come erano apparsi. Avevano devastato case e dilaniato i loro abitanti. Tali episodi erano sporadici, ma sufficienti a convincere i fuggitivi che non vi era più alcun luogo sicuro a ovest di Arborlon. Gli abitanti dei villaggi accoglievano il passaggio dell'esercito con acclamazioni e urla di incoraggiamento, ma i loro volti restavano offuscati dalla preoccupazione. La marcia verso ovest proseguì finché, a pomeriggio inoltrato del quinto giorno, l'esercito emerse dalle foreste per ritrovarsi nella Sarandanon. La valle era circondata da boschi a sud e a est, dalle montagne Kensrowe a nord, e dal grande lago Innisbore a ovest. La Sarandanon, una pianura fertile costellata di boschetti e di sorgenti, era il granaio della nazione elfa. Gli abitanti della valle facevano la semina e il raccolto di granoturco, frumento e altri cereali secondo il ritmo delle stagioni, poi li barattavano o li vendevano. Temperature miti e precipitazioni equilibrate fornivano un clima ideale per l'agricoltura, e per generazioni la Sarandanon era stata la principale fonte di cibo per il popolo elfo. L'esercito elfo si accampò quella notte al limite orientale della valle; all'alba del giorno successivo si dispose a attraversarla. Un'ampia strada di terra battuta si inoltrava nella Sarandanon lungo staccionate e gruppi di capanne e casette, e l'esercito la seguì in direzione ovest. Nei campi, le famiglie lavoravano, tranquille e operose. Pochi di loro si erano mai spinti a est. Tutto quel che contava nella loro vita era radicato nella terra che coltivavano, e non si sarebbero lasciati indurre facilmente a abbandonarla.
A metà pomeriggio, l'esercito aveva raggiunto il limite occidentale della valle. In lontananza, oltre l'Innisbore, il crinale gibboso del Confine si stagliava contro l'orizzonte, curvando a nord sopra le Kensrowe fin nell'aspro territorio del Kershalt. Il sole era sceso già sulla cresta delle montagne, riversando la sua luce dorata sulle rocce. A est, la falce candida della luna baluginava nell'oscurità che avanzava. L'esercito puntò verso nord. Fra l'Innisbore e le Kensrowe, il Baen Draw delimitava, confinando con la Sarandanon, l'aspra zona montuosa sotto il Confine. Fu là che l'esercito elfo si accampò. Al crepuscolo, Allanon scese dalle Kensrowe, e la sua comparsa fu silenziosa e improvvisa così come lo era stata ore prima la sua sparizione: l'alta figura entrò nell'accampamento elfo come un'ombra della notte, cupa e solitaria mentre attraversava il labirinto di falò che costellavano la prateria. Puntò direttamente verso la tenda del re, la testa nascosta nell'ombra del cappuccio, ignorando i soldati che lo squadravano, stupiti. Al suo arrivo, i Cacciatori elfi che montavano la guardia davanti alla tenda di Eventine si fecero da parte in silenzio e lo lasciarono entrare senza fargli domande. Allanon trovò il re, seduto a un piccolo tavolo improvvisato di assi disposte di traverso su tronchi d'albero, davanti a un vassoio col pasto della sera. Dardan e Rhoe se ne stavano in silenzio in fondo alla tenda. A un'occhiata del Druido, Eventine li congedò. Quando se ne furono andati, Allanon si avvicinò al tavolo e sedette. «È tutto pronto?» chiese, calmo. Eventine annuì. «E il piano di difesa?» Alla luce delle lampade a olio, il re vide che la faccia del Druido era rigata di sudore. Fissò perplesso l'uomo misterioso, poi spinse di lato il vassoio e aprì sul ripiano una carta della terra elfa. «All'alba marciamo verso il Confine.» Tracciò il percorso con un dito. «Ci assicureremo i passi di Halys Cut e di Worl Run e li presidieremo contro i demoni finché ci sarà possibile. Se saremo costretti a abbandonare i passi, ci ritireremo nella Sarandanon. Il Baen Draw sarà la nostra seconda linea di difesa. Una volta varcato il Confine, i demoni potranno scegliere tre direzioni. Se scenderanno a sud dei passi, dovranno costeggiare l'Innisbore attraverso le foreste, poi dirigersi di nuovo verso nord. Se invece punteranno subito a nord, dovranno farsi strada attraverso l'aspra zona
montuosa sopra le Kensrowe e poi scendere a sud. L'uno o l'altro percorso ritarderà la loro avanzata su Arborlon per lo meno di diversi giorni. Infine, gli resta l'alternativa di attraversare il Baen Draw... e affrontare l'esercito elfo.» Gli occhi cupi di Allanon fissavano il re. «Sceglieranno il Baen Draw.» «Dovremmo riuscire a tenerlo per diversi giorni» proseguì il re. «E forse ancor più, a meno che non ci attacchino di fianco.» «Due giorni, non di più.» La voce del Druido era atona, senza traccia di emozione. Eventine si irrigidì. «Benissimo, due giorni. Ma se prenderanno il Baen Draw, la Sarandanon sarà persa. Arborlon sarà la nostra ultima difesa.» «Così sarà.» Allanon si chinò in avanti, le mani congiunte davanti a sé. «Ora dobbiamo parlare di qualcos'altro, qualcosa che ti ho tenuto nascosto.» La sua voce era sommessa, appena un sussurro. «I demoni non sono più con noi... quelli che già hanno varcato il divieto, il Dagda Mor e i suoi servi. Né ci tengono d'occhio né ci seguono. Se lo facessero, me ne accorgerei, invece non ho percepito niente da quando abbiamo lasciato Arborlon.» Il re lo guardò senza parlare. «Mi sembrava strano che fossero tanto poco interessati a noi.» Il druido ebbe un debole sorriso. «Questo pomeriggio sono salito sulle montagne per restare solo e scoprire dove fossero andati. Io posso individuare dove si trovano coloro che sono nascosti ai miei occhi. Ho questo potere, ma devo usarlo con precauzione, poiché, se vi ricorro, rivelo a altri dotati di un potere simile al mio - come il Dagda Mor - sia la mia presenza sia quella di coloro che cerco. Perciò non mi sono azzardato a seguire Wil Ohmsford e tua nipote nel loro viaggio verso sud: altrimenti avrei potuto rivelare ai demoni dove potevano trovarli. Ma localizzare il Dagda Mor in persona... quello, ho pensato, era un rischio che dovevo correre. «Allora l'ho cercato, frugando tutta la terra circostante per scoprire dove si fosse nascosto. Ma non era nascosto. L'ho trovato oltre la barriera del Confine, nelle Pianure di Cenere, lui e quelli che lo servono. E tuttavia non riuscivo a capire cosa stessero facendo; non riuscivo a penetrare nei loro pensieri. Ho potuto soltanto percepire la loro presenza. Il male che li pervade è così forte che persino sfiorarlo per un istante mi ha procurato grande sofferenza, e ho dovuto ritrarmi subito.» Il Druido si raddrizzò. «È certo che i demoni si stanno raccogliendo entro le Pianure in attesa del crollo del Divieto. È certo che stanno lavorando per accelerarlo. Agiscono
apertamente e senza curarsi minimamente delle intenzioni degli elfi. Il che mi fa presumere che conoscano già i nostri piani.» Eventine impallidì. «La spia che si nasconde in casa mia... la spia che ha avvertito i demoni del tuo viaggio a Paranor.» «Ciò spiegherebbe perché essi mostrano un così palese disinteresse per i nostri spostamenti» riconobbe Allanon. «Se sanno già che intendiamo fermarli al Confine, non hanno bisogno di seguirci per sapere che intenzioni abbiamo. Devono soltanto aspettarci.» A Eventine non sfuggirono le conseguenze che quell'ultima frase implicava. «Allora il Confine può essere una trappola.» Il Druido annuì. «Il problema allora è: che tipo di trappola ci preparano i demoni? Non sono ancora tanto numerosi da opporre resistenza a un esercito di queste dimensioni. Hanno bisogno di quelli che sono rimasti imprigionati dietro il Divieto. Se saremo rapidi a agire...» Lasciò la frase in sospeso e si alzò. «Un'altra cosa, Eventine. Sii prudente. La spia è ancora con noi. Forse addirittura in questo accampamento, fra coloro che tu stimi. Se le si presenterà l'opportunità, potrà cercare di ucciderti.» Si voltò e si diresse verso l'ingresso, mentre l'ombra della sua sagoma scura si alzava gigantesca contro la parete della tenda alla luce guizzante delle lampade a olio. Il re rimase a guardarlo in silenzio per un attimo, poi scattò bruscamente in piedi. «Allanon!» Il Druido si voltò. «Se i demoni sanno perché marciamo verso il Confine - nel caso lo sappiano - sapranno anche che Amberle sta portando il seme dell'Eterea nella Malaterra.» Vi fu una pausa carica di tensione. I due uomini si squadrarono. Poi, senza parlare, il Druido si voltò e scomparve nella notte. In quello stesso momento, Ander attraversava con difficoltà l'affollato accampamento elfo alla ricerca del Libero Battaglione della Legione e di Stee Jans, allo scopo di verificare se i soldati avessero qualche richiesta, ma in realtà animato dal suo personale interesse per il loro comandante. Non aveva più parlato con Jans da quando il Libero Battaglione era arrivato a Arborlon e era francamente incuriosito da quell'uomo enigmatico. Poiché non aveva nessun impegno immediato, aveva deciso di approfittare dell'occasione per cercarlo e proseguire il discorso con lui.
Trovò l'accampamento del Libero Battaglione al limite orientale delle Kensrowe, le sentinelle già di fazione, i cavalli legati e nutriti. Nessuno lo fermò mentre vagava fra loro. Poiché non riuscì immediatamente a individuare l'alloggio del comandante, fermò diversi soldati per chiedere dove si trovasse Jans e infine fu indirizzato a un capitano della Legione. «Lui?» Il capitano era un omone con una folta barba e una risata profonda e cupa. «Chi lo sa? Non è nella sua tenda: è tutto quel che posso dirti. Se ne è andato appena ci siamo accampati. Su per le montagne.» «In esplorazione?» Ander era incredulo. Il capitano si strinse nelle spalle. «Lui è fatto così. Vuole sapere tutto, di un posto in cui gli potrebbe capitare di morire.» Uscì in una risataccia. «Quel tipo di controllo non lo lascia mai a nessuno... Vuole farlo di persona.» Ander annuì, a disagio. «È per questo, immagino, che è ancora vivo. «Ancora vivo? Ma quello non morirà mai. Sai come lo chiamano? L'Uomo di Ferro. L'Uomo di Ferro... lui. Il comandante.» «Certo, si vede che è un tipo duro» ammise Ander, sempre più incuriosito. Il capitano gli fece cenno di avvicinarsi, e per un attimo ciascuno dei due si dimenticò a chi stava parlando. «Conosci la storia di Rybeck?» chiese l'omone. Ander scosse la testa e un lampo di compiacimento balenò negli occhi duri dell'altro. «Allora sta' a sentire. Dieci anni fa una banda di Gnomi razziatori incendiava le case e ammazzava la gente al confine orientale delle nostre terre. Piccole bestie maligne, e numerose. La Legione fece di tutto per farli cadere in trappola, ma non ci riuscì. Infine il re mandò il Libero Battaglione... con l'ordine di scovarli e distruggerli, anche a costo di impiegare il resto dell'anno. Ricordo quella caccia. Ero già col Battaglione.» Si accoccolò accanto a un falò, e Ander si mise a sedere accanto a lui. Altri cominciarono a avvicinarsi per ascoltare. «La caccia durò cinque settimane, e il Battaglione inseguì quegli Gnomi a est fin nell'alto Anar. Poi, un giorno, mentre ci stavamo avvicinando, una pattuglia dei nostri, di soli ventitré uomini, si imbatté in una retroguardia di diverse centinaia di banditi. La pattuglia avrebbe potuto battere in ritirata, ma non lo fece. Erano soldati del Libero Battaglione e scelsero di combattere. Un uomo fu mandato a chiedere rinforzi e gli altri rimasero in quel piccolo villaggio chiamato Rybeck: qualche capanna, tutto lì. Per tre ore
quei ventitré soldati resistettero ai banditi... respinsero ogni loro assalto. Un tenente, tre ufficiali subalterni e diciotto soldati. Uno degli ufficiali subalterni era poco più che un ragazzo. Era nel Battaglione da soli sette mesi... ma era già caporale. Nessuno sapeva gran che di lui. Come tutti, non gli andava di parlare del suo passato.» Il capitano si chinò in avanti. «Dopo le prime due ore, quel ragazzo era l'unico ufficiale ancora vivo. Radunò i sei soldati rimasti in una casetta di pietra. Rifiutò di arrendersi, rifiutò la grazia della vita. Quando finalmente arrivarono i soccorsi, c'erano Gnomi morti sparsi dappertutto.» L'uomo strinse il pugno davanti alla faccia di Ander. «Più di cento. Tutti i nostri uomini erano morti, tutti tranne due, e uno morì più tardi quel giorno. Così ne rimase soltanto uno. Il giovane caporale.» Si interruppe, ridacchiando. «Quel ragazzo era Stee Jans. Ecco perché lo chiamiamo l'Uomo di Ferro. E Rybeck?» Scosse la testa, solenne. «Rybeck ha dimostrato come un soldato del Libero Battaglione deve combattere e morire.» Gli uomini intorno a lui mormorarono il loro assenso. Ander rimase fermo un istante, poi si alzò. Il capitano lo imitò, raddrizzandosi, come se si fosse ricordato improvvisamente chi era la persona con cui stava conversando. «E comunque, mio signore, il comandante non è qui al momento.» Dopo una pausa chiese: «Posso esserti utile?» Ander scosse la testa. «Sono venuto per informarmi se avete bisogno di qualcosa.» «Da bere» gridò uno, ma il capitano lo zittì subito con una imprecazione. «È tutto a posto, mio signore» rispose. «Non ci manca niente.» Ander annuì lentamente. Uomini duri, questi soldati del Libero Battaglione. Avevano fatto il lungo viaggio fino a Arborlon e poi, dopo una sola notte di riposo, una marcia forzata fin nella Sarandanon. Dubitava che potessero aver bisogno di qualcosa. «Allora ti do la buonanotte capitano» disse. Si voltò e tornò verso l'accampamento elfo, rimuginando la storia del Comandante della Legione che chiamavano l'Uomo di Ferro. 29
I mattino successivo l'esercito degli Elfi e i loro alleati uscirono dalla Sarandanon diretti a nord. Era l'alba quando i soldati attraversarono il Baen Draw e si inoltrarono nelle colline al di là. Lo stridere dei finimenti e il clangore metallico delle armature accompagnavano il tonfo cadenzato di uomini e cavalli in marcia che emettevano nuvole di vapore bianco nella gelida aria del mattino. Nessuno parlava, cantava o fischiava. Un senso di attesa timorosa pervadeva tutti Quel mattino. Cacciatori elfi e soldati della Frontiera sapevano di marciare verso la battaglia. Salirono su per le colline, aspre e spoglie, cosparse di rada erba e di cespugli, solcate e erose dal vento e dalla pioggia. Davanti a loro, ancora molto distante, la massa cupa del Confine si delineava contro la notte morente. Lentamente, mentre il sole rischiarava l'orizzonte, le montagne si stagliarono contro l'oscurità, un labirinto di vette e dirupi, di burroni e anfratti. L'aria cominciò a intiepidirsi. Il mattino passava e intanto l'esercito deviava verso occidente; colonne di cavalieri e fanti attraversavano gole e superavano crinali che si estendevano all'infinito A sud, l'Innisbore scintillava in bagliori azzurri; sopra l'acqua increspata volavano gabbiani dal dorso bianco e le punte delle ali nere, emettendo gridi striduli e ossessivi. A mezzogiorno, l'esercito aveva raggiunto il Confine, e Eventine diede l'alt. Le montagne incombevano all'orizzonte, una barriera cupa e massiccia di rocce. Rupi e pinnacoli si alzavano nel cielo, stretti insieme come se un gigante li avesse riuniti nelle sue mani e spremuti finché la roccia non era esplosa liberandosi Immobili, silenziosi, spogli e freddi, emanavano un senso di vuoto, oscurità, morte. Il Confine era interrotto in due punti da due passi. che collegavano come fili sottili la terra degli Elfi alle Pianure di Cenere: a sud, Halys Cut, a nord, Worl Run Se i demoni avessero infranto il Divieto e si fossero riversati nelle Pianure come aveva previsto Allanon, avrebbero dovuto irrompere da uno o da entrambi i passi per raggiungere Arborlon. Quindi l'esercito elfo avrebbe cercato di fermarli proprio lì. «Ora ci separiamo» annunciò Eventine agli ufficiali riuniti intorno a lui. Ander si avvicinò al gruppetto di uomini per sentire meglio quel che veniva detto. «L'esercito si dividerà. Metà marcerà a nord col principe Arion e il comandante Pindanon per presidiare Worl Run. L'altra metà verrà a sud con me verso Halys Cut. Comandante Jans?» La faccia abbronzata del comandante del Libero Battaglione si fece avanti. «Vorrei che il tuo Battaglione venisse a sud. Pindanon, dà gli ordini.»
Il cerchio di cavalieri si sciolse, mentre gli ordini venivano trasmessi. Ander lanciò una breve occhiata a Arion, che lo squadrò freddamente e poi guardò altrove. «Ander, voglio che tu venga con me» gli gridò suo padre. Kael Pindanon tornò al galoppo dal re. Tutto era pronto. I due vecchi compagni d'arme si congedarono con una vigorosa stretta di mano. Con lo sguardo, Ander cercò di nuovo suo fratello, ma Arion stava già dirigendosi verso la testa della sua colonna. Improvvisamente apparve Allanon, il volto bruno impassibile. «La sua collera è ingiusta» mormorò, poi spronò Artaq. Risuonò la voce di Pindanon. Stendardi e lance si levarono in alto mentre l'esercito degli Elfi si separava. Urla e acclamazioni infransero la quiete del mattino, echeggiando attraverso i crepacci e le balze delle montagne. Per lunghi istanti l'aria vibrò di voci, feroci e combattive. Poi le truppe di Pindanon puntarono verso nord, serpeggiando fra le colline in un'ampia nuvola di polvere finché scomparvero. I soldati del re voltarono verso sud. Per parecchie ore avanzarono a fatica lungo i margini del Confine. seguendo la linea ondulata delle colline. Davanti a loro, il sole viaggiava verso occidente lungo il crinale delle montagne, e le ombre cominciarono a allungarsi in chiazze scure. L'aria immobile e afosa del giorno si raffreddò quando, da sud, si levò una brezza dalle lontane foreste. Le colline digradarono in praterie. In fondo, fra una serie di montagne strette e frastagliate, si apriva nella roccia la gola buia di Halys Cut. Eventine diede l'alt alle truppe e si consultò rapidamente con i suoi ufficiali. Sotto l'accesso orientale al passo si apriva per diverse miglia la pianura che si estendeva a sud fin verso le foreste. Se i demoni intendevano attraversare il Confine sotto Halys Cut, potevano scivolare verso nord attraverso le foreste e intrappolare l'esercito elfo nel passo. Per evitare tale rischio, occorreva avere una retroguardia. La cavalleria era la più adatta a tale compito; in ogni caso, non sarebbe stata di grande utilità nello spazio angusto del passo. Ander vide lo sguardo di suo padre cadere per un attimo su Stee Jans, per poi allontanarsene. Tale retroguardia sarebbe stata formata da unità della cavalleria elfa, annunciò il re. L'ordine fu dato. La cavalleria elfa si staccò dal resto dell'esercito e cominciò a dispiegarsi attraverso la prateria. A un segnale di Eventine il resto delle truppe si inoltrò in Halys Cut. Gli Elfi marciarono attraverso
l'ampia gola, immersa nell'ombra di montagne torreggianti. La salita verso il passo si fece improvvisamente ripida e i soldati arrancarono sulle rocce. Presto l'aria diventò fredda, e il rumore degli zoccoli dei cavalli e degli stivali contro la roccia produceva un'eco sinistra. Man mano che la pista saliva, avanzare era sempre più difficile. Sul sentiero cosparso di sassi e crepe uomini e cavalli inciampavano e scivolavano a ogni passo, e l'andatura rallentò. Poi, bruscamente, si fermarono. Davanti a loro si apriva un crepaccio enorme, un baratro che sprofondava in una vuota oscurità, largo centinaia di metri. A sinistra, la pista scendeva lungo il versante della montagna, ampia e piatta, puntando verso uno stretto passaggio, al di là del baratro. A destra, una cengia correva lungo i bordi dell'abisso, un sentiero angusto, insicuro, che avrebbe permesso a fatica il passaggio di un solo cavaliere. Tutt'intorno, pareti rocciose a picco sembravano incurvarsi verso l'interno mentre si levavano verso il cielo, di cui lasciavano intravvedere soltanto una sottile, frastagliata linea azzurra. L'esercito imboccò la pista più larga a sinistra, tenendosi ben discosto dal baratro. Quando ebbe superato il varco, si ritrovò in un canalone inondato dal sole del pomeriggio, verdeggiante di boscaglia e carice. Il fondo era cosparso di macigni e un fiumiciattolo gocciolava giù dalle pareti rocciose raccogliendosi in una piccola cavità riparata da cespugli. All'arrivo dei soldati, alcune lepri schizzarono via attraverso la boscaglia e gli uccelli che bevevano all'orlo della pozza si levarono in volo. Gli Elfi arrivarono in fondo al canalone. Là il passo si apriva in un'ampia gola tortuosa che sfociava nella vasta distesa deserta delle Pianure di Cenere. Eventine alzò bruscamente la mano, dando l'alt. I suoi occhi scrutarono la gola in tutta la sua lunghezza, un labirinto di cavità rocciose e di anfratti che scendevano a picco attraverso rupi enormi e lunghi. Aspri pendii. Silenziosamente annuì. Era lì che l'esercito elfo si sarebbe appostato. Il crepuscolo calò lento sul Confine e dentro Halys Cut il silenzio si fece più profondo. Ander Elessedil se ne stava solo su una collinetta a metà della gola che sfociava nelle pianure, stringendo fra le braccia, con atteggiamento protettivo, il ramo bianco-argenteo dell'Eterea. Silenziosamente scrutò le file di Cacciatori elfi e di soldati del Libero Battaglione, ripetendosi mentalmente per la ventesima volta la strategia elaborata da suo padre per la difesa del
passo. A alcune centinaia di metri dall'imboccatura del passo, si allargava un'ampia piattaforma rocciosa sopra un pendio aspro cosparso di sassi e cespugli. Era lì che l'esercito si sarebbe inizialmente appostato. Gli arcieri si sarebbero disposti lungo l'altura, inondando di frecce i demoni che si fossero riversati dalle Pianure attraverso la gola e si fossero arrampicati su per il dirupo. Quando i demoni fossero stati troppo vicini perché gli archi potessero essere efficaci, gli arcieri sarebbero stati sostituiti da una falange di lancieri e di soldati armati di picche, che avrebbero sopportato il grande urto dell'assalto. Una seconda falange sarebbe stata tenuta di riserva per rinforzare la prima. Gli Elfi avrebbero difeso l'altura il più a lungo possibile, poi sarebbero arretrati di alcune centinaia di metri verso una posizione analoga. Se avessero perso la gola, avrebbero ripiegato verso l'imboccatura del canalone. Se non fossero riusciti a tenere nemmeno quella, avrebbero difeso il canalone, e così via, finché si sarebbero dovuti ritirare da Halys Cut. Era un buon piano. Ander, compiaciuto, si disse che i demoni non li avrebbero cacciati via facilmente dal passo. Le posizioni difensive erano state scelte bene; quando l'attacco fosse cominciato, gli Elfi sarebbero stati pronti. Sollevò lo sguardo, scrutando le Pianure. Tutto era immobile. La plaga era vuota, silenziosa. Non c'era nessun segno dei demoni. Eppure sarebbero venuti. Le sue mani si spostarono lentamente lungo il ramo liscio dell'Eterea. Accarezzandone la superficie. Suo padre glielo aveva affidato momentaneamente mentre scendeva lungo il pendio per ispezionare di persona le difese elfe. Ander inspirò a fondo l'aria notturna. Il ramo avrebbe veramente protetto gli Elfi? Avrebbe trasmesso il suo potere a uomini ormai mortali, non più dotati di magia come erano stati i suoi antenati? Lo guardò, stringendolo forte, e cercò di attingervi forza. Allanon aveva detto che questo ramo aveva potere sui demoni e avrebbe indebolito il male insondabile, nato da un mondo ormai scomparso da tempo, un mondo che nessuno aveva mai visto né poteva lontanamente immaginare. No, si corresse mentalmente. Nessuno, tranne Allanon. E lo stesso Allanon era forse parte di quel mondo oscuro, dimenticato. Suo padre emerse improvvisamente dal buio, scivolando al suo fianco. In silenzio, Ander gli restituì il ramo dell'Eterea. Il volto del vecchio era segnato dalla stanchezza e dalla preoccupazione, che si rifletteva nei suoi occhi, e Ander si costrinse a guardare altrove. «È tutto a posto?» chiese un attimo dopo.
Il re annuì in modo assente. «Tutte le posizioni difensive sono state consolidate.» Di nuovo rimasero in silenzio. Ander cercò qualcosa da dire. C'era in lui un'inquietudine incontrollabile, che gli faceva sentire il bisogno di essere vicino a suo padre. Avrebbe voluto farglielo capire. Ma, chissà come, era difficile parlare con lui di simili cose. Tutti e due avevano sempre avuto difficoltà a esprimere i propri sentimenti. Il suo disagio aumentò. Era così anche con Arion... soprattutto con Arion. Fra loro c'era una distanza che non aveva mai veramente capito, una distanza che si sarebbe potuta ridurre se uno dei due fosse riuscito a parlarne. Ma né uno né l'altro ci aveva provato. E ora, naturalmente, la situazione era peggiorata. Arion era in collera con lui per il suo comportamento all'Alto Consiglio, per il rifiuto di respingere Amberle come Eletta, e per il rifiuto di pretendere - come esigeva Arion - che lei rendesse conto delle proprie azioni; ora non avrebbe mai più parlato con suo fratello. Ander sentiva un tale rancore in lui! Eppure lo capiva. Quando Amberle aveva lasciato Arborlon tanti mesi prima, abbandonando senza spiegazioni le sue responsabilità, entrambi i fratelli ne erano stati profondamente amareggiati, lui quanto Arion, perché anche lui aveva amato quella bambina. Per troppo tempo aveva lasciato che quell'amarezza gli facesse dimenticare quel che era stata per lui. Eppure, rivedendola, aveva ritrovato i suoi vecchi sentimenti per lei. Avrebbe voluto spiegarlo a Arion; ne aveva sentito il bisogno. Ma, chissà perché, non ci era riuscito. Sussultò quando si accorse che Allanon era in piedi accanto a lui. Il Druido si era materializzato dal nulla, senza nemmeno un fruscio di quell'ampio mantello nero. Il volto affondato nel cappuccio lo scrutò un istante, poi si rivolse al re. «Non dormi?» Eventine sembrava turbato. «No. Non ancora.» «Tu devi riposare, re degli Elfi.» «Presto mi coricherò. Allanon, pensi che Amberle sia ancora viva?» Ander trattenne il fiato e lanciò una breve occhiata al Druido. Allanon rimase in silenzio un attimo, prima di rispondere. «Sì.» Poiché non aggiunse altro, Eventine lo guardò. «Come puoi saperlo?» «Non posso saperlo; è quel che credo.» «E allora perché credi che sia ancora viva?»
Il Druido sollevò leggermente la testa, e i suoi occhi infossati scrutarono il cielo. «Perché Wil Ohmsford non ha ancora usato le Pietre Magiche. Se la vita di Amberle fosse stata in pericolo, le avrebbe usate.» Ander aggrottò la fronte. Le Pietre Magiche? Wil Ohmsford? Ma di cosa stava parlando? Poi ricordò la seconda figura avviluppata in un mantello portata da Allanon insieme con Amberle all'Alto Consiglio, e che non aveva mai rivelato il suo volto. Quello doveva essere Wil Ohmsford. Si voltò rapidamente verso Allanon per interrogarlo, ma si trattenne e si voltò di nuovo. Forse era qualcosa che lui non doveva sapere, pensò. Dopotutto, non gli avevano detto niente. Se Allanon avesse voluto informarlo, lo avrebbe già fatto. Ma allora perché il Druido si era espresso così in sua presenza? Disorientato, rimase a guardare il sole che scivolava sotto l'orizzonte delle Pianure, e i colori del tramonto che si smorzavano nella notte. «Ho fatto preparare dei falò lungo l'imboccatura del passo» mormorò suo padre un attimo dopo. «Devo ordinare che vengano accesi.» Si inoltrò nella gola, lasciando Ander solo con Allanon. I due rimasero in silenzio, immobili come statue nell'ombra sempre più fitta, guardando la figura china del vecchio re che avanzava per il sentiero sassoso. I minuti scorrevano. Ander ormai credeva che l'altro si fosse dimenticato di lui quando la voce del Druido risuonò improvvisamente nel silenzio. «Vuoi che ti parli di Wil Ohmsford, principe?» Ander spalancò gli occhi, esterrefatto; poi annuì. «Allora sarai accontentato» rispose Allanon, senza guardarlo. «Ascolta.» A bassa voce, gli parlò del giovane, del suo retaggio e della sua missione. Allora il principe ricordò le storie che suo padre gli aveva raccontato dei due uomini della Valle, Shea e Flick Ohmsford, e della ricerca della leggendaria Spada di Shannara. E ora il nipote di Shea, erede del potere magico che tutti gli Elfi avevano perduto da quando il vecchio mondo era stato distrutto, aveva il compito di proteggere Amberle. Dopo che il Druido ebbe finito, Ander rimase in silenzio un istante. Scrutò le ombre fra cui suo padre era scomparso, riflettendo. Poi guardò il Druido. «Perché mi hai detto tutto ciò, Allanon?» «Perché devi saperlo.» Ander scosse la testa. «No... quel che voglio sapere è perché hai scelto me?»
Allora finalmente il Druido si voltò verso di lui, i lineamenti affilati appena visibili nell'ombra del cappuccio. «Per molte ragioni, Ander» mormorò. Dopo una pausa, aggiunse: «Forse perché nessun altro si sarebbe messo al fianco di Amberle quella sera, durante l'Alto Consiglio. Forse per quello». I suoi occhi neri rimasero fissi su Ander solo per un istante. «Dovresti riposare, ora, dormire.» Ander annuì distrattamente. Il Druido aveva veramente risposto alla sua domanda? Gli lanciò una breve occhiata, poi guardò altrove. Quando si voltò di nuovo verso di lui, Allanon era scomparso. 30 Spuntò l'alba e una nebbia grigia, bassa, calò sulle Pianure di Cenere. Fitta, stagnante, impenetrabile, era distesa sopra la terra come un sudario. Quando la notte se ne fu andata, la nebbia prese vita. Lentamente, dapprima, cominciò a agitarsi contro le pareti delle montagne come una zuppa torbida rimescolata in una pentola. Poi, prese a turbinare sempre più in fretta, salendo su per la roccia finché sembrò inghiottire le montagne. Nel riparo di Halys Cut, vicino al padre e a Allanon, circondato dalla Guardia Reale, Ander Elessedil guardava in basso. L'esercito elfo si preparava a difendersi contro le orde dei demoni. Una fila dopo l'altra di arcieri e lancieri si dispose nella gola che dava sulle Pianure, le armi in pugno, gli occhi incollati sulla nebbia che ribolliva davanti all'imboccatura del passo. Da quella nebbia dovevano emergere i demoni, ma non se ne vedeva traccia. I minuti scorrevano e l'attacco non cominciava: i soldati cominciarono a inquietarsi. Ander avvertiva che in loro, come in lui, il nervosismo si trasformava lentamente in paura. «Reggetevi forte, non lasciatevi spaventare!» risuonò improvvisamente la voce di Allanon. Tutti gli occhi si volsero verso il Druido avvolto nel suo mantello nero. «Non è che nebbia, anche se creata dai demoni. Coraggio, ora! Il Divieto sta cedendo: i demoni stanno per arrivare!» La nebbia continuava a ribollire selvaggiamente davanti al passo come se fosse respinta da qualche barriera invisibile che non la lasciava avanzare. Il silenzio regnava, profondo e pervadente. Le mani di Ander tremavano, mentre stringeva l'asta da cui pendeva lo stendardo della Casa degli Elessedil, e si sforzò disperatamente di controllarsi.
Poi, bruscamente, cominciarono i gemiti, distanti e ossessivi, come se uscissero dalle viscere della terra. Entro la nebbia strisce di fuoco rosso schizzarono verso il cielo del mattino ancora buio. e la foschia turbinante sembrò sollevarsi. I gemiti si fecero più forti, diventando improvvisamente gridi striduli e selvaggi, animati da follia. Crescevano costantemente di intensità, fino a trasformarsi in un unico urlo interminabile che si riversò dalle Pianure nella stretta imboccatura del passo. «Stanno arrivando» sussurrò Allanon. I soldati si misero in ginocchio, mentre il suono si abbatteva su di loro come un'ondata. Le frecce furono incoccate rapidamente; le lance e le picche appoggiate a terra. Attraverso l'imboccatura del passo, la nebbia eruppe in un fuoco rosso che col suo riflesso fece diventare cremisi la terra e il cielo. Le strida e gli urli raggiunsero un'altezza assordante. e improvvisamente l'aria stessa sembrò esplodere in un tuono violentissimo che rimbombò dalla plaga contro la barriera del Confine e scosse la roccia da cima a fondo. Ander gridò, angosciato, mentre la forza del tuono li buttava tutti a terra. In fretta, si tirarono di nuovo in piedi, guardandosi attorno con ansia. Era calato il silenzio. La nebbia ristagnava, grigia, immobile. «Allanon?» chiamò a bassa voce. «È finito... Il Divieto si è infranto» mormorò il Druido. L'istante successivo le urla sgorgarono di nuovo dalla plaga vuota, un ruggito selvaggio, frenetico, di esultanza, e le orde demoniache, liberate finalmente dalla loro secolare prigionia si riversarono attraverso l'imboccatura di Halys Cut. Si buttarono lungo la gola, un'ondata di corpi scuri, guizzanti. Erano di tutte le forme e dimensioni, curvi e contorti per la lunga reclusione nell'oscurità. Si vedevano denti e artigli e zanne affilate come lame, capelli e scaglie e peli arruffati; ciondolavano e strisciavano. scavavano nella terra e volavano, saltavano e scivolavano; erano tutte creature del mito e dell'incubo. Ogni essere descritto negli antichi racconti dell'orrore era presente: licantropi, esseri mezzo uomo e mezzo bestia, fuggevoli ombre grigie che l'occhio poteva appena intercettare; orchi massicci, strascicanti, dai tratti orrendamente distorti; folletti e spiriti maligni che svolazzavano intorno come portati dal vento; piccoli demoni neri di sudiciume e fango; forme rettili che sibilavano il loro veleno e si contorcevano freneticamente; demoni-lupi; vampiri e altre cose che si nutrivano di carne e sangue umani; arpie e pipistrelli che annerivano il cielo quando sollevavano i loro corpi goffi e pesanti sulla massa dei loro fratelli. Si facevano strada fra la nebbia, dilaniandosi l'un l'altro nell'ansia di liberarsi.
I lunghi archi degli Elfi ronzarono, e un'ondata di frecce nere fece a pezzi la prima fila di demoni. Gli altri rallentarono solo un poco affrettandosi a arrampicarsi sui corpi dei compagni caduti. Gli archi sibilavano in continuazione, ma i demoni continuavano a avanzare urlando la loro collera e frustrazione. Meno di cinquanta metri separavano le due forze. Gli arcieri indietreggiarono verso i lati mentre la prima falange di lancieri si appostava sulla sommità dell'altura, impugnando le armi. I demoni ondeggiarono in avanti, una massa di corpi contorti che saltellavano su per la roccia frastagliata della gola fin dove gli Elfi aspettavano. Con uno stridore soffocato, la marea si infranse contro la barriera della falange, artigli e denti pronti a lacerare. Le prime file degli Elfi ondeggiarono leggermente, ma ressero. Dappertutto si vedevano demoni impalati sulle lance, e le loro urla risuonavano per tutta la gola. Quando i Cacciatori elfi li ributtarono ai loro fratelli, videro inorriditi i corpi straziati scomparire, calpestati dalla massa che prorompeva. Di nuovo i demoni si gettarono contro gli Elfi, e questa volta parecchi riuscirono a penetrare la barriera difensiva, ma perirono immediatamente mentre la falange posteriore avanzava rapida per chiudere i varchi nelle prime linee. Ora, però cadevano anche gli Elfi, sepolti sotto la massa nera dei loro aggressori, strappati dalle loro file e dilaniati. E altri demoni ancora continuavano a riversarsi dalla nebbia, a migliaia. sparpagliandosi per tutta la gola. Le frecce continuavano a falciarli, ma quando uno cadeva, dieci prendevano il suo posto. I fianchi degli Elfi cominciavano a cedere sotto la pressione degli aggressori, e l'intera linea rischiava di essere sopraffatta. Eventine diede l'ordine di ritirarsi. Gli Elfi si disimpegnarono in gran fretta, retrocedendo verso la seconda linea difensiva, una frastagliata sporgenza rocciosa appena sotto il varco che immetteva nel canalone. Di nuovo sibilarono i lunghi archi, e una grandinata di frecce piovve sulla massa ribollente in basso. I lancieri serrarono le file, pronti a sostenere l'assalto. Venne quasi subito, un'ondata di frenetiche forme scure che avanzava con le zampe artigliate sopra i cespugli e i sassi per abbattersi contro la barriera di lance elfe. Centinaia caddero nell'assalto, trapassate da frecce e lance, calpestate a morte sotto i piedi dei loro fratelli. Ma altri esseri continuavano a emergere dalla nebbia. riversandosi nel tunnel profondo della gola, contro le linee dei difensori elfi. Gli Elfi li respinsero una, due, tre volte. Halys Cut era tutto cosparso di corpi neri, dilaniati e sanguinanti, che urlavano per il dolore e l'odio.
All'imboccatura del canalone. Ander osservava in silenzio le alterne vicende della battaglia. Gli Elfi stavano perdendo terreno. Come Allanon aveva promesso, il ramo dell'Eterea indeboliva i demoni che si avventavano contro gli Elfi, così da farli morire sotto i colpi delle armi di questi ultimi. E tuttavia ciò non bastava per arrestare la marea interminabile - malgrado il valore dei soldati, le posizioni difensive prescelte, e tutti i piani accuratamente elaborati. Semplicemente vi erano troppi demoni e un numero di Elfi insufficiente. Lanciò una rapida occhiata a suo padre, ma il re non lo vide. Le mani di Eventine erano strette intorno al ramo nodoso dell'Eterea, e tutta la sua attenzione era concentrata sulla battaglia che si svolgeva sotto di lui. L'intera linea difensiva elfa stava cominciando a vacillare pericolosamente. Usando armi strappate agli Elfi morti, sassi e bastoni improvvisati. zanne e artigli e forza bruta, i demoni combattevano per irrompere fra le file decimate di lancieri che ancora gli sbarravano la strada. Il Libero Battaglione della Legione, tenuto in riserva fino a allora. si buttò nel centro delle linee elfe, urlando il suo grido di battaglia. Ma i demoni continuavano a avanzare. «Non possiamo reggere» borbottò Eventine e si preparò a ordinare la ritirata. «Resta vicino» mormorò improvvisamente a Ander. In quello stesso istante i demoni irruppero attraverso il fianco sinistro e si riversarono nella gola verso il gruppo compatto di uomini che stava davanti all'imboccatura del canalone. La Guardia Reale subito si mise davanti al re e a Ander, Dardan e Rhoe a ciascun lato. Corte spade lampeggiarono dai foderi di cuoio. In fretta, Ander conficcò lo stendardo degli Elessedil nella terra rocciosa e estrasse la propria arma. Sul corpo, sotto la cotta di maglia, sentiva scorrergli il sudore, mentre la gola era asciutta per la paura. Allanon si fece avanti, il mantello nero che svolazzava mentre sollevava le braccia. Il fuoco azzurro infranse la penombra. saettando dalle sue dita, e la terra intorno agli aggressori esplose. Dalla roccia, uscirono spirali di fumo, che si dispersero sopra una distesa di scuri corpi senza vita. Ma non tutti erano cauti. Per un istante i sopravvissuti esitarono. Dietro di loro, la breccia si era chiusa di nuovo; non avevano scampo. Urlando per la furia, si scagliarono sulla Guardia Reale. La lotta era disperata. Alcuni demoni caddero sotto le spade dei Cacciatori elfi, ma altri riuscirono a avanzare e si lanciarono contro il re. Un folletto magro, nero, si buttò su Ander, protendendo gli artigli verso la gola del principe. Freneticamente, Ander sol-
levò la spada, respingendolo. La creatura si lanciò di nuovo su di lui, ma un Cacciatore della Guardia Reale si frappose fra i due, inchiodando il demone a terra con la sua lancia. Ander indietreggiò barcollando, inorridito. mentre il clamore della battaglia si faceva più vicino. Il fianco sinistro era crollato di nuovo e di nuovo Allanon si fece avanti per bloccare la marea nera. Il fuoco azzurro si scatenò sugli aggressori, e l'aria vibrò di urla. Un gruppo di demoni si era aperto una breccia anche nel fianco destro e si buttò giù dal pendio nello sforzo disperato di aiutare i fratelli intrappolati dietro la linea difensiva elfa. Ander era agghiacciato. Non c'erano abbastanza Cacciatori della Guardia Reale per fermarli tutti. Poi, incredibilmente, Eventine cadde, abbattuto da una mazza, lanciata dalla massa degli aggressori. che lo colpì alla tempia. Il vecchio re crollò immediatamente a terra, e il ramo dell'Eterea gli sfuggì di mano. Un ruggito si alzò dalle gole dei demoni, che si lanciarono in avanti con furia rinnovata. Una mezza dozzina di quelli che si erano buttati giù dal pendio si fecero sotto per finire il re caduto. Ma Ander stava già correndo al fianco del padre, dimentico di ogni paura, il volto contorto dalla furia. Con un urlo di rabbia, caricò i demoni più vicini, folletti neri come quello che per poco non l'aveva ucciso qualche attimo prima, e ne giacevano per terra due, moribondi, prima che gli altri capissero cosa stava succedendo. Come impazzito, Ander si buttò su di loro, ricacciandoli lontano dal re caduto. Per un attimo, tutto sprofondò nel caos. Sulla sommità del pendio, la linea difensiva elfa era stata costretta a indietreggiare fin quasi all'imboccatura del canalone. I demoni si buttavano in avanti a frotte, straziando gli Elfi che gli sbarravano la strada, urlando di gioia alla vista di Eventine caduto. Ander si batteva per tenere i demoni lontani da suo padre. Fuori di sé per la collera, inciampò in uno di quelli che aveva massacrato e cadde. Immediatamente gli furono addosso. Gli artigli si protesero verso di lui, sulla sua armatura, e, per un solo terribile istante, pensò di essere finito. Ma Dardan e Rhoe riuscirono a raggiungerlo, misero in fuga i suoi aggressori e lo portarono in salvo. Stordito. tornò barcollando dove giaceva suo padre e si inginocchiò accanto al vecchio, incredulo e sconvolto. Disperato, gli tastò il polso. Era debole, lento. Suo padre era ancora in vita, ma caduto, perso per gli Elfi, per Ander... il re, l'unico che potesse salvarli da quel che stava accadendo...
Poi Allanon fu al suo fianco. Raccolto in gran fretta da terra il ramo dell'Eterea, fece alzare Ander e gli mise il talismano fra le mani. «Non abbandonarti al dolore, principe.» Il suo volto bruno era vicino a quello di Ander. «Ora devi comandare. Presto... fa' ritirare gli Elfi nel canalone.» Ander fu sul punto di obiettare, ma si trattenne. Quel che lesse negli occhi del Druido lo convinse che non era né il tempo né il luogo per fare discussioni. In silenzio ubbidì. Ordinò che suo padre fosse portato al sicuro. Poi, dopo aver raccolto la Guardia Reale intorno a sé all'ingresso del canalone, mandò messaggeri al centro e a entrambi i fianchi della linea difensiva elfa con l'ordine di ritirarsi. Con Allanon alle sue spalle, si mise proprio al centro della gola, in modo che Elfi e uomini della Frontiera potessero vederlo, e rimase a osservare la battaglia rifluire verso di lui. I lancieri della falange elfa e i soldati grigi del Libero Battaglione retrocedevano rapidamente, affollando l'imboccatura del canalone. Apparve Stee Jans, i capelli rossi svolazzanti, brandendo una spada enorme. Poi Allanon levò le braccia in alto sopra la testa, e mentre il suo mantello nero si allargava, il fuoco azzurro saettò dalle sue dita. «Ora!» ordinò a Ander. «Ritiratevi nel canalone!» Ander sollevò l'Eterea e lanciò l'ordine. Gli ultimi Elfi e soldati del Libero Battaglione abbandonarono la battaglia e schizzarono attraverso il varco che collegava la gola al canalone. Urla di rabbia si levarono dai demoni, che si lanciarono dietro di loro. Ora Allanon era solo nel varco. I demoni si riversarono verso di lui, arrampicandosi su per la gola. un'ondata di corpi neri. Il Druido sembrò raccogliere tutte le sue forze, la sagoma alta e sottile eretta contro l'ombra delle pareti rocciose. Alzò di nuovo le mani e il fuoco azzurro saettò, divampando davanti a lui come una barriera ardente contro i demoni impazziti per la collera, sbarrando loro il passo. Ululando e stridendo, quelli indietreggiarono. Dentro il canalone, Allanon si volse a Ander. «Il fuoco durerà solo pochi minuti.» Il volto del Druido era tirato, sporco di polvere e sudore. «Presto ci saranno addosso di nuovo.» «Allanon, come possiamo resistere» cominciò, disperato, Ander. «Non possiamo... non qui, non ora.» Il Druido gli afferrò un braccio. «I passi del Confine sono perduti. Dobbiamo fuggire, in fretta.» Ander stava già urlando gli ordini. L'esercito degli Elfi si riversò per il canalone, in ritirata: le riserve di cavalleria in testa con i feriti che poteva-
no stare a cavallo, seguite da lancieri e arcieri che portavano a braccia gli altri. La Guardia Reale portava il re svenuto. Dietro a tutti, venivano Allanon e Ander. Avevano appena oltrepassato la pozza riparata da cespugli al centro del canalone quando la barriera di fuoco davanti all'ingresso si spense con un ultimo bagliore. Gli Elfi in fuga si voltarono. Per un istante il varco rimase vuoto, ma poi i demoni vi si riversarono dentro, ammucchiandosi nello stretto passaggio per raggiungere il canalone. Ululando si buttarono dietro gli Elfi. Ma era troppo tardi. Il grosso delle truppe aveva già raggiunto la stretta gola, da cui si raggiungeva l'ampio sentiero intorno al baratro, e l'aveva attraversata. Una retroguardia formata da soldati del Libero Battaglione agli ordini di Stee Jans prese posizione mentre Allanon, Ander e i superstiti della Guardia Reale coprivano le ultime centinaia di metri del canalone. Giunti davanti al varco si voltarono per un istante, osservando avvicinarsi le orde demoniache. Era uno spettacolo terrificante. Come una marea nera, i demoni occuparono tutto il canalone, assiepandosi da una parete all'altra, i corpi neri che si dimenavano, agitavano e pulsavano simili a ratti sospinti da un'improvvisa inondazione. La terra, prima verde d'erba, diventò nera, ricoperta da quelle forme che saltavano, serpeggiavano e si contorcevano, mentre, in alto, lo spazio era costellato di demoni alati. Il Druido e gli Elfi rimasero a guardare, increduli. Era una moltitudine senza fine. Poi, bruscamente, la marea sembrò dividersi in due; dalla gola eruppe, barcollando, una forma mostruosa, bestiale, verdastra. Si alzò sulle zampe posteriori all'ingresso del canalone e si fece strada, allontanando come fuscelli quelli che gli si assiepavano intorno. Gli Elfi gridarono, inorriditi. Era un drago, il corpo di rettile ricoperto di scaglie viscide. Sei zampe massicce, nodose, artigliate, coperte di ciuffi di peli neri, sostenevano la sua mole ciondolante. La sua testa cornuta, deforme, in cui dardeggiava un solo occhio verde senza ciglia, si inarcò nell'aria, avidamente. Quando l'odore del sangue elfo gli arrivò alle narici, spalancò le fauci rivelando file di denti aguzzi, e dimenò freneticamente la coda, creando un vortice di corpi dilaniati. I demoni si scansarono in gran fretta, e il mostro si trascinò avanti, facendo tremare la roccia col peso della sua mole. In fondo al canalone, Allanon rimase a guardare ancora un attimo il drago, prima di voltarsi verso Ander. «Va' al di là del baratro. Fa' presto.» Ander era pallido. «Ma il drago...»
«... è troppo per te.» La voce del Druido era fredda. «Fa' come ti dico. Lascia che me ne occupi io.» Ander indietreggiò per dare l'ordine, e l'esercito elfo si ritirò al di là della voragine. Con Stee Jans al fianco, Ander si voltò per osservare la scena. Allanon era solo, lo sguardo fisso sul canalone. Il drago aveva superato il centro e stava trascinandosi su per il pendio verso la stretta gola. Già aveva visto il Druido, quella solitaria figura nera che non scappava come gli altri, e moriva dalla voglia di raggiungerlo per schiacciarlo a morte. Le zampe massicce lavoravano freneticamente. spaccando la roccia e la terra. I demoni gli erano tutt'attorno, stridendo eccitati, azzuffandosi fra loro per non finire schiacciati dal mostruoso fratello. Allanon rimase immobile, tutto avviluppato nel suo mantello, finché il drago arrivò a un centinaio di metri dal varco. Poi il mantello si allargò di colpo, le braccia scarne si levarono, le mani protese verso il mostro. Il fuoco azzurro saettò dalle sue dita, colpendo il drago alla testa e alla gola, e nell'aria si sentì puzza di carne bruciata. Ma l'animale non rallentava, come se l'attacco l'avesse soltanto infastidito. Di nuovo il fuoco lampeggiò, bruciandogli le zampe anteriori e il petto, e spirali di fumo si alzarono dal corpo del drago, che emise un sibilo acuto, rabbioso, continuando però la marcia. Rapidamente Allanon scivolò via dal varco. Si voltò. Il drago apparve, spingendosi nello stretto passaggio. Allanon lo colpì di nuovo, il fuoco azzurro che bruciava in improvvise scariche. Il drago, furibondo per non aver ancora potuto raggiungere quella figura davanti a lui che lo tormentava, emetteva un sibilo minaccioso. Le pareti della stretta gola lo ostacolavano nei movimenti. Dietro di lui, le strida degli altri demoni lo spronavano. Allanon indietreggiò lentamente verso il baratro. Il passaggio era intasato da polvere e fumo, e la forma mostruosa del drago era oscurata dalla foschia. Poi, improvvisamente, emerse, le fauci spalancate. Con le mani strette davanti a sé, Allanon lanciò una saetta di fuoco nell'occhio del mostro. Quando le fiamme colpirono il bersaglio, tutta la testa della bestia ne fu avviluppata. Questa volta il drago gridò, un ululato terribile di dolore e rabbia. Il suo corpo si impennò nella gola, urtando contro le pareti finché la roccia tremò sotto i suoi colpi. Massi caddero intorno al mostro mentre si dibatteva e si agitava per il dolore. Un attimo dopo, una larga crepa si aprì nella parete sud e l'intera facciata della rupe cominciò a franare lentamente nella gola. Avvertendo il peri-
colo incombente, il drago barcollò in avanti, nello sforzo disperato di uscire dal varco. Mezzo accecato dal dolore e dalla polvere, emerse dalla gola proprio mentre tonnellate di roccia si abbattevano dietro di lui, seppellendo i demoni che cercavano di seguirlo. Il fuoco azzurro lo raggiunse immediatamente, ma senza effetto. Questa volta il drago stava in guardia, muovendo accortamente la testa informe per evitare il colpo. Davanti a lui era accovacciata la cupa figura del Druido. Sibilando furibondo, il mostro barcollò verso il suo nemico, per azzannarlo. Allanon girò su se stesso e schizzò via, non sulla pista più ampia a destra, ma saltando sulla cengia che curvava a sinistra sopra il baratro. Accecato dalla collera, incurante di ogni rischio, il drago lo seguì. Con un balzo atterrò rombando sulla stretta sporgenza, il muso proteso verso l'essere umano che lo eludeva. Ma, improvvisamente, la cengia sparì: la roccia incrinata cedette sotto il peso della creatura mostruosa. Con uno sforzo disperato il drago si lanciò verso il Druido. Allanon saltò indietro proprio mentre le poderose mascelle si chiudevano a meno di mezzo metro dalla sua testa. Poi, con un ultimo, terribile sibilo, il drago scivolò giù dalla cengia in rovina nell'abisso nero, scomparendo con un urlo d'odio in una valanga di terra e sassi. E l'oscurità si chiuse sopra di lui. Sull'altro lato del baratro Ander Elessedil guardava Allanon tornare lungo quel che restava della cengia. Un istante dopo, qualcos'altro attirò la sua attenzione. La gola era bloccata da tonnellate di roccia. Un debole. Amaro sorriso gli increspò la faccia insanguinata. I demoni non avrebbero più potuto seguirli attraverso Halys Cut. Gli Elfi si erano conquistati una breve tregua, una possibilità di riorganizzarsi in modo da prendere posizione altrove. Si voltò. Dietro di lui, nell'imboccatura del passo, i soldati dell'esercito elfo scrutavano in silenzio le ombre, con i volti offuscati dalla stanchezza e dall'incertezza. Il principe elfo poteva leggere i loro pensieri. Mai avrebbero immaginato che i demoni passati attraverso il Divieto fossero tanto numerosi... Se non erano riusciti a fermarli qui, come avrebbero potuto bloccarli nella Sarandanon? In silenzio, distolse lo sguardo. Lui non era in grado di rispondere. E forse non ne era nessuno, pensò. 31
L'esercito che scese da Halys Cut era avvilito, umiliato dalla sconfitta inflittagli e sconvolto dal numero delle perdite. I morti, caduti nella fuga attraverso il passo, non potevano essere restituiti alla terra che gli aveva dato la vita. E ai feriti non si poteva recare nessun sollievo dal dolore tormentoso delle lesioni inflitte dagli artigli e dai denti di demoni. Quanto agli altri, quelli che marciavano verso sud lungo la barriera del Confine non potevano trarre conforto né da quel che era accaduto quel giorno, né dalle prospettive future. Quando il sole di mezzogiorno batté sulle loro teste, avevano la gola secca per la sete e i pensieri cupi per l'amarezza. Li guidava Ander Elessedil, che si sentiva non tanto un capo, quando poco più che una vittima delle circostanze, e i suoi erano pensieri desolati. Voleva che tutto ciò finisse, che suo padre riprendesse conoscenza e suo fratello tornasse. Teneva fra le mani il ramo dell'Eterea e si sentiva inetto. Niente di tutto ciò sarebbe dovuto accadere. Eppure, sapeva di dover continuare a recitare ancora per un po' la parte che gli era stata imposta, almeno finché l'esercito avesse raggiunto il Baen Draw. Per fortuna, là tutto sarebbe finito. Guardò Allanon. Il Druido cavalcava in silenzio accanto a lui, cupo e enigmatico sotto il suo mantello, nascondendo accuratamente i suoi pensieri a Ander. Durante il ritorno gli aveva parlato soltanto una volta. «Ora capisco perché ci hanno lasciati arrivare fin qui» aveva detto all'improvviso con voce sommessa. «Volevano che ci inoltrassimo in queste montagne.» «Perché?» aveva chiesto Ander. «Perché, principe elfo» aveva risposto freddamente Allanon, «essendo tanto numerosi, sapevano che non avremmo potuto in nessun modo fermarli. Ci hanno fatto intrappolare con le nostre stesse mani.» Un cavaliere solitario apparve all'orizzonte, galoppando selvaggiamente attraverso la prateria verso gli Elfi che si avvicinavano. Sollevando il ramo dell'Eterea, Ander diede l'alt. Con Allanon al fianco, andò incontro al cavaliere. Scarmigliato e coperto di polvere, egli arrestò bruscamente davanti a loro il suo cavallo sfinito, schiumante. Ander conosceva l'uomo: era un messaggero al servizio di suo fratello. «Flyn» lo apostrofò in segno di saluto. Il messaggero esitò, poi lanciò una rapida occhiata alla colonna di soldati. «Devo parlare col re in persona...» cominciò. «Da' il tuo messaggio al principe» lo interruppe seccamente Allanon.
«Mio signore...» cominciò Flyn, pallidissimo. Improvvisamente i suoi occhi si bagnarono di lacrime. «Mio signore...» cominciò di nuovo, ma la sua voce si spezzò e non poté continuare. Ander smontò da cavallo e fece cenno a Flyn di fare altrettanto. Senza una parola, circondò con un braccio le spalle del messaggero angosciato e con lui si allontanò di diversi passi perché potessero restare soli. Poi guardò l'altro dritto negli occhi. «Forza, ora... dammi il tuo messaggio.» Flyn annuì, stringendo le mascelle. «Mio signore, ho l'ordine di annunciare al re che il principe Arion è caduto. Mio signore... è morto.» Ander scosse lentamente la testa. «Morto?» Gli sembrò di non riconoscere la propria voce. «Come può essere morto? Non può essere morto!» «Siamo stati attaccati all'alba, mio signore.» Flyn ora piangeva senza più controllarsi. «I demoni... erano tanti. Ci hanno costretti a ritirarci dal passo. Siamo stati travolti. Lo stendardo di combattimento è caduto... e quando il principe Arion ha cercato di riprenderlo, i demoni l'hanno assalito...» Ander alzò subito una mano per interromperlo. Non voleva sentire il resto. Era un incubo inimmaginabile. I suoi occhi si volsero rapidamente verso Allanon: il Druido guardava verso di lui: sapeva già. «Abbiamo il corpo di mio fratello?» si costrinse a chiedere Ander. «Sì, mio signore.» «Voglio che mi sia portato.» Flyn annuì in silenzio. «Mio signore, non è tutto.» Ander si voltò, in attesa. «Mio signore, abbiamo perso Worl Run, ma il comandante Pindanon crede che possa essere ripreso. Chiede rinforzi di cavalleria per attraversare di nuovo la prateria intorno al passo in modo da...» «No!» lo interruppe Ander con improvvisa violenza. Poi, a fatica, si ricompose. «No, Flyn. Di' al comandante Pindanon che deve ritirarsi subito. Deve tornare nella Sarandanon.» L'Elfo deglutì a fatica, lanciando una rapida occhiata a Allanon. «Perdonami, mio signore, ma mi è stato ordinato di parlare col re in persona. Il comandante mi chiederà...» Ander capì. «Di' al comandante che mio padre è stato ferito.» Flyn impallidì ancor più, e Ander inspirò a fondo. «Di' a Kael Pindanon che ora comando io l'esercito elfo e che deve ritirarsi subito. Prendi un cavallo fresco, Flyn, e parti subito. Buon viaggio, messaggero!» Flyn salutò e partì in gran fretta. Ander rimase solo, scrutando le vuote praterie, e una sensazione strana, come di stordimento, si impadronì len-
tamente di lui quando capì che ormai non esisteva più nessuna possibilità di superare quella distanza che lo aveva sempre separato da Arion. Aveva perso suo fratello per sempre. Voltando le spalle a Allanon, pianse. Il crepuscolo scese silenzioso sulla valle della Sarandanon, gettando ombre lunghe su Baen Draw e sull'esercito elfo. Nella sua tenda, Eventine Elessedil dormiva, senza aver ripreso conoscenza, con un respiro lieve e irregolare. Ander sedeva solo al suo capezzale, fissandolo senza parlare, desiderando con tutto il cuore che si risvegliasse. Finché il re non avesse ripreso i sensi, non si sarebbe potuto determinare l'entità della sua ferita. D'impulso, si chinò a prendere la mano del padre e la tenne dolcemente fra le sue. La mano era inerte. Il vecchio non si mosse. Ander la tenne un attimo, poi l'abbandonò e si ritrasse, stanco. «Padre» mormorò, quasi a se stesso. Si alzò e si allontanò dal letto, angosciato. Tutto gli sembrava irreale: suo padre caduto, gravemente ferito; suo fratello ucciso; lui Ander, divenuto capo degli Elfi. Come poteva essere accaduto? Per quanto fosse assurdo, non riusciva a accettarlo. Certo, era sempre esistita la possibilità che suo padre e suo fratello scomparissero e che restasse lui solo a governare. Ma era stata una possibilità remota, impensabile. Nessuno aveva creduto che potesse realizzarsi, lui meno di tutti. Non vi era preparato, pensò, cupo. Che cosa era mai stato lui, per suo padre e suo fratello, se non un paio di braccia che agivano per loro conto? Era sempre stato loro e non suo - il destino di governare il popolo elfo: quel che desideravano e si aspettavano dalla vita. Eppure ora... Scosse stancamente la testa. Ora doveva governare, almeno per un certo tempo. E doveva guidare l'esercito che suo padre aveva guidato prima di lui. Doveva difendere la Sarandanon e trovare un modo per arrestare l'avanzata dei demoni. Halys Cut aveva mostrato agli Elfi quanto ardua sarebbe stata l'impresa. Sapevano quanto lui che, se la caduta di massi provocata dalla battaglia fra Allanon e il drago non avesse bloccato il passo, i demoni avrebbero potuto prenderli e annientarli tutti. Il suo primo compito, perciò, consisteva nel creare tutti i presupposti perché gli Elfi credessero che ciò non si sarebbe ripetuto al Baen Draw, nonostante la perdita del re e del suo erede. In breve, doveva dargli speranza. Sedette di nuovo accanto al padre. Kael Pindanon avrebbe potuto aiutarlo: era un veterano di molte guerre, un soldato esperto. Ma l'avrebbe fatto?
Sapeva che Pindanon era in collera con lui perché gli aveva ordinato di ritirarsi dai passi del Confine. Pindanon non era ancora tornato; era rimasto con una retroguardia di cavalleria elfa per rallentare l'avanzata dei demoni nella Sarandanon. Ma Ander era già venuto a conoscenza del suo malcontento attraverso uno scambio di frasi fra alcuni suoi ufficiali. Quando fosse arrivato, avrebbe affrontato Ander direttamente. E quello sarebbe stato il momento cruciale. Il principe sapeva che Pindanon avrebbe chiesto il comando dell'esercito. Scosse di nuovo la testa. Sarebbe stato troppo facile, cedere il comando a Pindanon e lasciare al vecchio guerriero la responsabilità di difendere la patria elfa. Forse era quel che doveva fare. Eppure qualcosa in lui si opponeva a una soluzione così semplicistica del dilemma; non poteva scrollarsi di dosso doveri che chiaramente toccavano a lui. «Che cosa faresti tu?» chiese sommessamente al padre, sperando in una risposta che sapeva non sarebbe venuta. I minuti scorrevano, e il crepuscolo si approfondì. Infine Dardan apparve nell'ingresso della tenda. «Il comandante Pindanon è tornato» annunciò. «Chiede di parlarti.» Ander annuì e per un istante si domandò dove fosse andato Allanon. Non aveva più visto il Druido da quando erano arrivati nella Sarandanon. Ma certo toccava a lui affrontare quell'incontro con Pindanon. Si alzò, poi ricordò il ramo dell'Eterea che giaceva sul pavimento accanto al letto di suo padre. Sollevandolo, esitò un istante, e guardò il vecchio. «Buon riposo» mormorò infine; poi si voltò e uscì. Nella tenda adiacente, trovò Pindanon che l'aspettava. L'armatura del comandante era coperta di sangue e polvere, e la sua faccia incorniciata dalla barba bianca era rossa di collera mentre avanzava verso il principe elfo. «Perché mi hai ordinato di ritirarmi, Ander?» sbottò. Ander non si intimorì. «Abbassa la voce, comandante. Il re dorme qua accanto.» Ci fu un attimo di silenzio mentre Pindanon lo squadrava. Poi, più calmo, chiese: «Come sta?». «Dorme» rispose freddamente Ander. «Allora, che cosa vuoi sapere?» Pindanon si raddrizzò. «Perché mi hai ordinato di ritirarmi? Avrei potuto riprendere Worl Run. Avremmo potuto tenere il Confine come aveva ordinato tuo padre!»
«Mio padre aveva ordinato di tenere il Confine finché fosse stato possibile» rispose seccamente Ander, fissando Pindanon dritto negli occhi. «Con mio padre ferito, mio fratello morto e Halys Cut perduto, non lo era più. Siamo stati cacciati via da Halys Cut, così come voi siete stati costretti a ritirarvi da Worl Run.» Pindanon fremeva di collera, ma Ander lo ignorò. «Per riprendere Worl Run avrei dovuto fare una marcia forzata a nord con un esercito che, subito dopo aver subito una sconfitta, avrebbe dovuto gettarsi di nuovo in un'altra battaglia. Se le nostre forze congiunte fossero state sbaragliate, avremmo dovuto affrontare una marcia logorante per tornare nella Sarandanon, con scarse possibilità di riposare prima di intraprendere la difesa della valle. E, quel che è peggio, per combattere entro i passi del Confine, avremmo dovuto fare a meno della cavalleria elfa. Se dobbiamo resistere all'avanzata dei demoni, avremo bisogno di tutte le nostre forze. È per questo, comandante, che ti ho ordinato di ritirarti.» Pindanon scosse lentamente la testa. «Tu non sei un soldato esperto, mio signore. Tu non avevi nessun diritto di prendere una decisione cruciale come questa senza prima consultarti col comandante dell'esercito. Se non fosse stato per la mia fedeltà a tuo padre...» Ander alzò di scatto la testa. «Basta così, comandante.» Il suo sguardo si spostò per un momento sull'ingresso della tenda quando entrarono Allanon e Stee Jans. La comparsa di Allanon non era inaspettata, ma Ander fu piuttosto sorpreso di vedere anche il comandante del Libero Battaglione. L'uomo della Frontiera lo salutò formalmente, ma non disse una parola. Ander si voltò nuovamente verso Pindanon. «In ogni caso, la questione è chiusa. Ora faremo meglio a occuparci di quel che ci aspetta. Quanto tempo abbiamo prima che ci raggiungano i demoni?» «Un giorno, forse due» rispose bruscamente Pindanon. «Devono riposarsi, riorganizzarsi.» Allanon alzò gli occhi neri. «Verranno domani, all'alba.» Di colpo calò il silenzio. «Ne sei sicuro?» chiese a bassa voce Ander. «Sono così eccitati e frenetici che non hanno bisogno di dormire. Domani all'alba.» Pindanon sputò per terra. «Allora dobbiamo decidere ora come li fermeremo, una volta che saranno qui» dichiarò Ander, accarezzando il ramo dell'Eterea. «Piuttosto semplice» sbottò Pindanon. «Difendiamo il Baen Draw. Isoliamolo. Fermiamoli alla gola, prima che raggiungano la valle.»
Ander inspirò a fondo. «Abbiamo già tentato questa tattica a Halys Cut. È fallita. I demoni hanno sopraffatto la falange elfa con la semplice preponderanza numerica. Non c'è nessun motivo di credere che questa volta le cose andrebbero diversamente.» «E invece sì» insistette Pindanon. «Qui le nostre forze non sono divise come lo erano al Confine. E i demoni non saranno freschi e riposati, dopo la marcia dalle Pianure. Potremo avere il sostegno della cavalleria, mentre al passo non l'avevamo. Oh, molte cose sono cambiate, lo garantisco. Il risultato sarà diverso, questa volta.» Ander lanciò una breve occhiata a Allanon, ma il Druido tacque. Pindanon fece un passo avanti. «Ander, dammi il comando al posto di tuo padre. Lascia che disponga le difese come io so che farebbe lui. Gli Elfi possono difendere il passo da quelle creature qualunque sia il loro numero. Tuo padre e io sappiamo...» «Comandante.» Il principe elfo parlava a voce bassa, decisa. «A Halys Cut ho visto come hanno ridotto una linea difensiva che, secondo mio padre, sicuramente avrebbe retto. Il nemico che combattiamo è del tutto particolare. Nutre per gli Elfi un odio incommensurabile; è posseduto a tal punto da quell'odio che non ha paura di morire. Possiamo forse dire lo stesso di noi, che amiamo tanto la vita? Credo di no. Non ci basta la solita tattica, se vogliamo sopravvivere a questo scontro.» Con la coda dell'occhio, intercettò il breve cenno d'assenso di Allanon. Pindanon fremeva. «Tu non hai fede, mio signore. Tuo padre non sarebbe così...» Ander lo interruppe. «Mio padre non c'è. Ma se ci fosse, ti parlerebbe come ti ho parlato io. Io cerco suggerimenti, comandante... Non una disputa.» Pindanon avvampò, poi si voltò improvvisamente verso Allanon. «Che cosa ha da dire costui? Non ha nessuna proposta da fare per fermare questi demoni?» Il volto cupo di Allanon era inespressivo. «Tu non puoi fermarli, comandante. Puoi soltanto rallentare l'avanzata.» «Come sarebbe a dire?» «Rallentare l'avanzata così che Amberle possa avere abbastanza tempo da trovare il Fuoco di Sangue e tornare.» «Di nuovo quella storia!» esclamò beffardo Pindanon. «Il nostro destino è nelle mani di quella ragazza! Druido, io non credo nelle leggende del vecchio mondo. Se le Terre dell'Ovest devono essere salvate, ciò avverrà
grazie al coraggio dei suoi soldati... Alla loro abilità e esperienza. I demoni possono morire come tutte le creature di carne e sangue.» «Come gli Elfi» ribatté il Druido. Ci fu un lungo silenzio. Pindanon voltò le spalle agli altri, stringendo furibondo le mani dietro la schiena. Un attimo dopo si girò di scatto. «Ci attestiamo al Baen Draw, si o no, principe Ander? Finora non ho sentito altre proposte.» Ander esitò, desiderando che Allanon intervenisse. Invece si fece avanti Stee Jans e la sua voce dura ruppe il silenzio. «Mio signore, posso parlare?» Ander aveva quasi dimenticato il comandante della Legione. Gli lanciò un'occhiata e annuì. «Mio signore, il Libero Battaglione si è trovato in simili circostanze più di una volta al servizio delle Terre della Frontiera. Anche se i nostri nemici erano spesso più forti di noi, noi siamo sempre sopravvissuti, e è un nostro vanto. Abbiamo imparato alcune dure lezioni, mio signore, che ti illustrerò. Una è questa... Mai stabilire una linea difensiva statica quando la preponderanza numerica del nemico avrà sicuramente la meglio. Abbiamo imparato a spaccare il nostro fronte difensivo in una serie di linee mobili che si spostano secondo il flusso della battaglia. Queste linee attaccano e poi si ritirano, attirando il nemico prima da un lato poi dall'altro, colpendolo sempre sui fianchi quando esso si volta per respingere ogni nuovo assalto ritirandosi al di là della sua portata dopo averlo colpito.» «Allora non guadagni né perdi mai terreno, comandante» ribatté Pindanon. beffardo. Stee Jans si voltò verso di lui. «Quando il nemico è stato spinto abbastanza lontano nel tentativo di prenderti, quando le sue linee si sono diradate e spaccate, allora tu serri le file a ciascun lato e ti abbatti su di lui. Così.» Dispose le sue mani a V e le batté insieme con un colpo secco. Ci fu un silenzio di stupore. «Non so» borbottò Pindanon, dubbioso. «Come difenderesti il Baen Draw?» insistette Ander. «Userei una variazione della tattica che ti ho appena descritto» rispose Stee Jans. «Gli archi sui pendii delle Kensrowe sopra l'imboccatura del Draw per disturbare l'avanzata dei demoni. I fanti in testa, come se intendeste tenerla, come avete tentato di tenere Halys Cut. Quando i demoni attaccano, resistete un poco, poi ritiratevi. Lasciateli irrompere. Dategli un falso bersaglio, un'unità di cavalleria per attirarli. Quando le loro linee sa-
ranno schierate, i loro fianchi esposti, circondateli da entrambi i lati, rapidamente, prima che si possano ritirare o ricevere rinforzi. Usate le lance per tenerli a bada. I demoni non hanno le nostre armi. Se restiamo fuori della loro portata, non possono danneggiarci. Quando avrete distrutto le file davanti, disponete di nuovo l'esca. Attirateli da un altra parte; fategli perdere l'orientamento. Concentratevi sui loro fianchi.» Aveva finito. Gli Elfi guardavano l'uomo della Frontiera, stupiti. Pindanon era accigliato. «E chi farebbe da esca?» Stee Jans ebbe un sorriso di scherno. «E chi mai potrebbe essere, comandante?» Pindanon si strinse nelle spalle. Ander lo guardò con aria interrogativa. «Potrebbe funzionare» ammise il vecchio guerriero a malincuore. «Se l'esca è in gamba, naturalmente.» «L'esca conosce alcuni trucchi» rispose Stee Jans. «È per questo che è ancora viva dopo tante cacce.» Ander lanciò una rapida occhiata a Allanon. Il Druido annuì. «Così abbiamo il nostro piano per la difesa della Sarandanon» annunciò il principe elfo. Strinse le mani di Pindanon, poi quelle dell'Uomo di Ferro. «Facciamo in modo che abbia successo.» Quando, più tardi, quella notte, ultimati i preparativi per la battaglia dell'indomani, Ander Elessedil rimase solo, si concesse una pausa per riflettere sulla fortunata coincidenza che aveva fatto essere presente Stee Jans al suo incontro con Pindanon. Soltanto allora gli balenò il pensiero che forse non era affatto una coincidenza, ma il frutto della preveggenza caratteristica di quell'enigmatico essere errabondo noto come Allanon. 32 Seppellirono Arion Elessedil alla prima luce dell'alba. Ander, Pindanon e quattro dozzine di cacciatori della Guardia Reale lo sotterrarono secondo la tradizione degli Elfi, alla nascita del nuovo giorno, come per un nuovo inizio. Lo portarono in silenzio verso un'altura ombreggiata dalle querce sotto il Baen Draw, che si affacciava a occidente sulle acque azzurre dell'Innisbore e a oriente sulla verde valle di Sarandanon. Là fu posto a riposare il primogenito di Eventine Elessedil, il suo corpo restituito alla terra che gli aveva dato la vita, il suo spirito nuovamente liberato.
Non lasciarono nessuna lapide per il principe ereditario. Allanon li aveva avvertiti che alcuni fra i demoni avrebbero cercato un tale segno, per devastare il morto. Non ci furono canzoni, né parole d'elogio, né fiori... nulla che evocasse la vita trascorsa di Arion Elessedil. Del primogenito di Eventine non restavano che i ricordi. Ander vide le lacrime negli occhi di coloro che lo seguivano e pensò che forse i ricordi bastavano. Meno di un'ora dopo, i demoni attaccarono gli Elfi a Baen Draw. Si riversarono giù dalle colline settentrionali, e le loro strida e urla ruppero la quiete dell'alba. Giunsero così come erano arrivati a Halys Cut, una massa di scuri corpi contorti che si lanciavano in avanti come un'ondata inarrestabile di piena. Ai piedi del passo, la falange elfa aspettava: file di lancieri, spalla a spalla, con le armi in pugno. Quando le prime file di demoni cominciarono a puntare verso di loro, i lunghi archi elfi sibilarono per i pendii delle Kensrowe e l'aria fu invasa da frecce. I demoni cadevano, contorcendosi per il dolore, e venivano calpestati dai compagni che seguivano. Le loro file vennero raggiunte da nugoli di frecce e centinaia morirono nell'attacco. Ma infine raggiunsero la falange e si scagliarono contro di essa, urlando per il dolore mentre le lance dalle punte di ferro li penetravano e trafiggevano. Gli attaccanti vacillarono e furono respinti. Poi vi fu un'altra, improvvisa ondata di corpi deformi, armati di denti e artigli mostruosi, e anche questa fu respinta. Lungo tutta la barriera difensiva elfa erano ammucchiati morti e moribondi. Di nuovo l'innumerevole orda dei demoni si lanciò in avanti, e infine la linea elfa vacillò e si spaccò in due. I demoni si riversarono nella breccia, saltando, ballonzolando e strisciando giù dal passo. Immediatamente si parò davanti a loro un gruppo di cavalieri dai mantelli grigi bordati di cremisi; alla loro testa un uomo alto, col volto segnato da cicatrici, montava un gigantesco roano. I cavalieri si lanciarono sulle prime file dei demoni, falciandoli con le loro lance. Poi bruscamente si allontanarono, deviando verso la valle, i mantelli grigi al vento, i corpi snelli chini sui cavalli lanciati al galoppo. I demoni si gettarono freneticamente dietro di loro. Qualche attimo dopo, i cavalieri si voltarono, caricando i loro inseguitori, con le lance abbassate, portando lo scompiglio nelle file dei nemici, con i loro rapidi colpi e la loro fuga tempestiva. Ululando per la rabbia, i demoni si lanciarono al loro inseguimento.
Poi improvvisamente i cavalieri grigi si voltarono, formando una linea compatta che gli sbarrò la strada, e il loro capo alzò un braccio. Non più ammassati in modo da proteggersi reciprocamente, ma sparpagliati nella prateria per centinaia di metri sotto il Baen Draw, i demoni che si erano aperti un varco nella linea difensiva elfa si guardarono intorno freneticamente, comprendendo ora di essere stati accerchiati. Da ciascun lato apparvero file di cavalieri elfi al galoppo, che li cacciarono indietro come bestiame. Alle loro spalle, la breccia era stata chiusa da un'alta figura avvolta in un mantello nero, apparsa sui pendii più bassi delle Kensrowe; il fuoco che saettava dalle sue mani protese disperdeva i demoni, che formicolavano disorientati nel passo. Disperatamente quelli che si trovavano intrappolati fuori cercarono di aprirsi un varco. Ma gli Elfi fecero una rapida conversione su di loro abbattendo con spade e lance le forme nere che cercavano di avvinghiarli. Nel giro di pochi minuti, l'intera avanzata dei demoni era spezzata. Per tutto il Baen Draw risuonò il grido elfo di vittoria. Ma non finì lì. Per il resto del mattino fino alle prime ore del pomeriggio, la battaglia infuriò. Di tanto in tanto, i demoni si ammassavano per assalire la falange elfa che gli sbarrava il passaggio attraverso il Baen Draw. Di tanto in tanto, riuscivano a irrompere, aprendosi la strada fra arcieri e lancieri e gli strali del Druido, soltanto per ritrovarsi faccia a faccia con i cavalieri grigi del Libero Battaglione. Esasperati e sconvolti, si lanciavano al loro inseguimento, incuranti di ogni rischio, talvolta verso la riva dell'Innisbore, talvolta verso i pendii delle Kensrowe o la valle di Sarandanon. Poi, quando erano sicuri di avere a portata di mano quei cavalieri elusivi, si trovavano circondati dalla cavalleria elfa, le proprie file diradate e non protette, poiché, cedendo al proprio impulso, si erano allontanati dai compagni che ancora combattevano nel passo. Schiumanti di rabbia, si buttavano contro il nemico, ma non avevano scampo. Gli Elfi retrocedevano, e serravano le file lungo tutto il Baen Draw. Per un po' i demoni cercarono di raggiungere i pendii delle Kensrowe, credendo di distruggere una buona volta quegli odiati arcieri. Ma questi, al riparo di una postazione scelta con cura, numerosi e ben protetti fra le rocce, fecero a pezzi quelli che cercavano di raggiungerli. In mezzo a loro si ergeva il gigante ammantato di nero, che faceva scaturire dalle mani un fuoco magico e proteggeva col suo tremendo potere gli Elfi che combattevano in basso. Demoni di tutti i tipi cercarono di raggiungerlo: demoni che scavavano nella terra, demoni che volavano, demoni che scalavano rupi a picco con estrema facilità. Tutti fallirono, tutti morirono.
Durante un attacco, le creature del male fecero irruzione attraverso la falange elfa vicino alla riva dell'Innisbore, costringendola a ripiegare verso il passo, mentre centinaia di demoni si riversavano sulle colline verso la valle al di là. Per un attimo sembrò che la linea difensiva elfa fosse stata veramente infranta. Ma, con grande coraggio, la cavalleria si spostò a est di questa nuova avanzata e si lanciò alla carica contro i demoni, ricacciandoli verso le acque dell'Innisbore. Di nuovo i maligni non poterono riunirsi, ma furono costretti a sparpagliarsi lungo la riva, le spalle rivolte al lago. L'attacco vacillò e poi si frantumò contro le lance degli Elfi. La breccia si richiuse di nuovo. Quel pomeriggio migliaia di demoni morirono in attacchi assurdi, selvaggi, spericolati attraverso il Baen Draw. Attaccavano incessantemente, riversandosi dal passo con la cieca determinazione dei "lemming", incuranti della propria distruzione. Anche Elfi e uomini della Frontiera morirono per opporsi ai loro frenetici tentativi di irrompere nella Sarandanon. Ma quel giorno non si ripeté la disfatta subita a Halys Cut; i demoni venivano continuamente ricacciati indietro, le prime file distrutte prima che avessero l'opportunità di ricevere rinforzi dai compagni ammassati dietro di loro. Poi, a metà pomeriggio, i demoni lanciarono il loro attacco finale. Ammucchiati sul Baen Draw, si scagliarono contro la falange elfa, la costrinsero a indietreggiare con la semplice preponderanza numerica, e a spaccarsi. Si riversarono nella breccia, e di colpo non vi fu più tempo per elaborare tattiche o escogitare trucchi. Gli Elfi e la Legione risposero all'attacco; la cavalleria si lanciò nel mezzo della mischia. Spade e lance affondarono in basso nel groviglio di forme contorte. Cavalli e cavalieri crollavano urlando per il dolore. Le linee dei combattenti fluttuavano avanti e indietro disperatamente. Ma infine i demoni furono sbaragliati: ringhiando, agitando gli artigli, urlando per la rabbia fuggirono verso il passo. Questa volta non si voltarono, ma proseguirono, calpestando i corpi dei loro compagni morti e moribondi, barcollando e strisciando e arrampicandosi sulle colline al di là, finché il Baen Draw fu sgomberato. Gli Elfi, sfiniti, rimasero a osservare increduli i demoni in fuga, finché gli ultimi scomparvero oltre le colline e il rumore dei loro passi si smorzò lentamente nel silenzio. Poi gli Elfi si guardarono intorno, e infine si resero conto delle dimensioni della battaglia che avevano combattuto. Migliaia di corpi scuri giacevano aggrovigliati gli uni con gli altri, sparsi nelle praterie, dalle Kensrowe fino all'Innisbore, immobili, dilaniati, senza vita. Ne
rimanevano tantissimi ammucchiati anche sul passo. Gli Elfi erano inorriditi. I demoni avevano combattuto come se la vita non contasse niente per loro, come se, per qualche misterioso motivo, preferissero la morte. Poi gli Elfi cominciarono a guardarsi intorno, alla ricerca di amici e compagni, a protendere le braccia gli uni verso gli altri, scambiandosi vigorose strette di mano, provando un immenso sollievo, grati di essere miracolosamente sopravvissuti a una così tremenda devastazione. All'imboccatura del passo, Ander Elessedil trovò Kael Pindanon e impulsivamente strinse a sé il veterano. Grida di esultanza si levarono dalle gole degli Elfi man mano che si rendevano conto della loro vittoria. Arrivò Stee Jans alla testa del Libero Battaglione e gli Uomini della Frontiera si unirono agli Elfi, levando in alto le lance in segno di esultanza. Per tutta la Sarandanon risuonarono grida di vittoria. Soltanto Allanon se ne stava in disparte. Solitario, sui pendii delle Kensrowe, guardava verso nord, verso le colline sulle quali si erano precipitati i demoni in fuga. Si ritrovò a domandarsi come mai avessero mostrato un tale disprezzo per la propria vita e, soprattutto, come mai durante quel massacro non si fosse vista traccia di quello che chiamavano il Dagda Mor. Il pomeriggio impallidì nel crepuscolo e calò la notte. Davanti al Baen Draw, l'esercito delle Terre dell'Ovest aspettava che i demoni attaccassero. Ma i demoni non vennero. Né vennero all'alba, benché Elfi e uomini della Frontiera fossero nuovamente pronti per la battaglia. Man mano che le ore del mattino passavano, una crescente inquietudine cominciò a diffondersi fra le file dei difensori. A mezzogiorno, Ander andò a cercare Allanon, sperando che gli potesse dare qualche spiegazione su quel che stava accadendo. Solo, si arrampicò su per le Kensrowe fin dove il Druido vigilava, in solitudine, al riparo di una sporgenza rocciosa, seminascosto nell'ombra mentre i suoi occhi spaziavano sulla Sarandanon. Il principe non parlava con Allanon dal giorno prima, quando quest'ultimo era salito sulle montagne; nessun altro aveva parlato con lui. Trascinato dall'euforia generale per la vittoria sui demoni, Ander non si era molto preoccupato per l'improvviso allontanamento del Druido. In fondo, egli andava e veniva tutto il tempo, e raramente dava spiegazione dei suoi spostamenti. Ma ora, mentre gli si avvicinava, Ander si ritrovò a domandarsi come mai avesse scelto proprio quella circostanza per restare solo.
Ebbe la risposta nel momento stesso in cui il Druido si voltò verso di lui. Il suo volto, normalmente bruno, era di un pallore spettrale, solcato da rughe profonde, che gli conferivano un aspetto stanco, avvizzito; e i penetranti occhi neri avevano una strana espressione meditabonda. Ander si arrestò di botto e lo fissò. Vedendo la sua espressione sorpresa, Allanon atteggiò le sue labbra sottili a un debole sorriso. «Sei turbato, principe?» Ander sussultò. «No, io... è solo che... Allanon, hai un aspetto...» Il Druido si strinse nelle spalle. «Tutti dobbiamo pagare un prezzo per l'uso che facciamo di noi stessi. È una legge di natura, anche se spesso preferiamo ignorarla. Persino un Druido vi è soggetto.» Fece una pausa. «Capisci quel che intendo dire?» Ander appariva perplesso. «La magia ti fa questo effetto?» Allanon annuì. «La magia porta via energie vitali a chi la usa... prosciuga la forza e l'essere. In parte si può ricuperare quel che è andato perduto, ma il processo è lento. E doloroso...» Le ultime parole si spensero; la frase rimase in sospeso. Ander ebbe una improvvisa sensazione di gelo. «Allanon, hai perso la tua magia?» La testa incappucciata si alzò. «La magia non è persa finché chi la detiene è in vita. Ma vi sono limiti che non si possono superare e questi limiti si riducono col passare degli anni. Tutti invecchiamo, principe.» «Anche tu?» mormorò Ander. Gli occhi neri erano velati. Allanon cambiò bruscamente argomento. «Perché sei venuto a cercarmi?» Ander impiegò un attimo per riordinare i suoi pensieri. «Ero venuto a chiederti come mai i demoni non attaccano.» Il Druido guardò altrove. «Perché non sono ancora pronti.» Rimase in silenzio un istante, poi i suoi occhi si posarono di nuovo sul principe. «Non lasciarti trarre in inganno: verranno. Ma non subito, e per un motivo ben preciso. Chi li guida, quello che chiamano il Dagda Mor, non fa nulla senza motivo.» Si chinò leggermente in avanti. «Rifletti su quanto ti dirò. Il Dagda Mor non era fra coloro che ci hanno attaccato ieri.» Ander corrugò la fronte, preoccupato. «Dov'era, allora?» Allanon scosse la testa. «Quello che dobbiamo chiederci è: dove si trova adesso?» Osservò Ander per un istante, poi si avviluppò il mantello intorno al corpo. «Credo che sarebbe saggio mandare esploratori a nord sulle
Kensrowe e a sud sotto l'Innisbore per essere certi che i demoni non intendano circondarci.» Ci fu un lungo silenzio. «I demoni sono così numerosi da poterlo fare?» chiese infine Ander, pensando alle migliaia che si erano lanciati contro di loro al Baen Draw. La risata di Allanon era fredda. «Certo che lo sono.» Il Druido gli voltò le spalle. «Lasciami solo, ora, principe.» Ander scese dalla montagna, tormentato dal dubbio. Appena fu tornato all'accampamento, fece partire gli esploratori e l'attesa continuò. Il mattino scivolò nel pomeriggio e il pomeriggio nella sera. Un denso banco di nuvole turbinava nel cielo ormai buio, e le ombre si allungarono rapidamente al calar della notte. Ma i demoni non vennero. Era quasi mezzanotte quando fu sferrato l'attacco. Fu improvviso, così improvviso che le sentinelle di fazione ebbero appena il tempo di dare l'allarme prima che i demoni le assalissero. Dalle colline a nord, immerse nell'ombra, ondate di corpi neri, nodosi, si riversarono nel Baen Draw fin sotto la luce dei falò dell'accampamento elfo. A uno a uno i fuochi si spensero, travolti dalla marea dei demoni che, attraversato il passo, si buttarono sui pendii delle Kensrowe. Con i falò spenti e il cielo notturno oscurato dalle nuvole che avevano veleggiato verso est dal Confine, tutto il Baen Draw era sprofondalo nelle tenebre, tenebre a cui i demoni, in seguito alla reclusione entro il Divieto, erano abituati e che sarebbero state sfruttate a loro vantaggio. Mentre ora gli Elfi e gli uomini della Frontiera non vedevano quasi nulla, i demoni vedevano infatti come se fosse stato pieno giorno. Ululando selvaggiamente per la brama di uccidere, attaccarono. All'imboccatura del passo, raccolta intorno a Ander Elessedil e al ramo bianco luccicante dell'Eterea, una falange elfa affrontò l'orda. L'urto terribile fece indietreggiare i soldati, che però ressero. Centinaia di corpi con le zanne e gli artigli pronti a colpire si abbatterono su di loro. Gli Elfi risposero all'attacco con determinazione, immergendo alla cieca lance e picche nella massa oscura che si faceva avanti, e urla di dolore risuonarono nella notte. Ma i demoni continuavano a riversarsi sugli Elfi, cercando di spezzarne la difesa. Per alcuni disperati minuti, gli Elfi resistettero a quella pressione selvaggia, respingendo la massa che si scagliava contro di loro. Ma l'oscurità li disorientava e li impacciava. E furono sopraffatti. La fa-
lange cominciò a vacillare, a sbandarsi, a spaccarsi. Pochi secondi dopo, i demoni vi fecero irruzione. Quella sarebbe stata la fine, se non fosse intervenuto Allanon. Raggiunti i pendii più bassi delle Kensrowe, dove gli arcieri elfi combattevano nell'oscurità una battaglia già persa in partenza per respingere la marea dei demoni, il Druido prese una manciata di polvere luccicante da un sacchetto legato alla vita e la lanciò in aria. Istantaneamente la polvere si sparse nel cielo notturno sopra gli Elfi, producendo un intenso bagliore bianco che illuminò la terra con l'intensità di un chiaro di luna. Sparita l'oscurità, i demoni non potevano più occultarsi. Dalla falange sbaragliata si levò un grido di riscossa. Nella breccia principale, dove si era buttato il grosso dei demoni, si lanciò Stee Jans con i suoi uomini. Come un cuneo di ferro, spaccarono in due le prime file degli aggressori. Ridotti ora a meno di quattrocento, si fecero strada a suon di fendenti nell'orda davanti a loro e la costrinsero a retrocedere fino all'imboccatura del Baen Draw. In loro aiuto giunse al galoppo la cavalleria elfa, guidata da Kael Pindanon, a testa scoperta, i bianchi capelli al vento. Lungo tutta la linea difensiva frantumata, le lance dei cavalieri seminarono la morte fra le file dei demoni e li ricacciarono indietro. Sui pendii delle Kensrowe, i demoni avevano fatto irruzione fra le file degli arcieri e si stavano riversando nella Sarandanon. Allanon, solo, li affrontava, facendo saettare il fuoco azzurro dalle sue mani. Si lanciarono su di lui da tutte le parti, ululando selvaggiamente mentre il fuoco li carbonizzava. Il Druido era irriducibile. Quando diventarono troppo numerosi, trasformò centinaia di metri di prateria intorno a lui in un inferno di morte, una barriera di fuoco azzurro che accerchiò i demoni infuriati e distrusse quelli che tentarono di attraversarla. A un centinaio di metri dall'imboccatura del Baen Draw, gli Elfi e il Libero Battaglione combattevano disperatamente per impedire che il grosso dei demoni irrompesse nella Sarandanon. Era una battaglia terribile, spaventosa e la notte estiva era permeata dall'odore di morte. Al culmine dei combattimenti, Kael Pindanon crollò a terra quando il suo cavallo inciampò. Il vecchio guerriero, scosso, si tirò faticosamente in piedi, annaspando alla ricerca della sua spada. Immediatamente i demoni gli furono sopra, ululando. Menando fendenti a destra e a sinistra, i Cacciatori elfi combatterono per raggiungere il loro comandante assediato. Ma i demoni furono troppo veloci. Zampe artigliate si protesero verso Pindanon, eludendo i colpi della sua spada, e il vecchio soldato fu trascinato via verso la morte.
Nello stesso istante, una dozzina di demoni irruppe attraverso la massa di soldati che li circondavano e si lanciarono contro Ander Elessedil. Si insinuarono oltre la barriera di Cacciatori della Guardia Reale che combattevano intorno a lui, saltando come gatti, per scagliarsi contro il principe. Disperato, egli levò davanti a sé il ramo dell'Eterea come uno scudo e i suoi aggressori immediatamente indietreggiarono, ululando di rabbia. Ma ora Ander era completamente solo, circondato da contorte forme nere, che fremevano, aspettando l'occasione di fare una breccia nella barriera protettiva del talismano. I Cacciatori elfi combattevano disperatamente per raggiungere il principe, ma le creature del male gli bloccavano la strada, straziando quelli che si avvicinavano troppo, schivando con mosse frenetiche i colpi di lance e spade. Vedendo che avevano a portata di mano colui che teneva l'odiato talismano, altri demoni si lanciarono in loro aiuto, le zampe artigliate protese per uccidere. Poi, attraverso il groviglio dei combattenti, si fece strada un gigantesco soldato della Frontiera, il volto devastato dalle cicatrici, il mantello grigio macchiato di polvere e sangue. Si scagliò contro i demoni, facendo a pezzi i neri corpi nodosi con grandi fendenti della sua enorme spada, finché si ritrovò al fianco di Ander. Urla di collera si levarono dalle creature del male, che si gettarono contro di lui. Ma Stee Jans, irremovibile come un macigno, teneva alla larga i demoni mentre chiamava i suoi uomini. Essi arrivarono immediatamente, al galoppo, raccogliendosi intorno a lui come un cerchio di ferro. Poi egli montò di nuovo sul suo roano, e levò in alto la spada. I cavalieri grigi caricarono: il loro grido di battaglia risuonò forte e vigoroso nella notte. Per un istante, Ander non capì cosa stesse succedendo. Poi, al chiarore della falsa luna, vide gli uomini del Libero Battaglione: alla loro testa, Stee Jans, i capelli rossi al vento, brandiva con una mano la spada enorme e con l'altra reggeva lo stendardo di combattimento. Solo, contro centinaia di mostri, il Battaglione stava attaccando! Il principe elfo afferrò subito le redini di un cavallo rimasto senza cavaliere, lo montò, poi spronò la bestia, chiamando i suoi soldati. Mentre gli Elfi convergevano verso di lui da ogni parte, si lanciò contro i demoni, al fianco del Libero Battaglione. Come una marea, gli Elfi e gli uomini della Frontiera si riversarono nel Baen Draw, ricacciando i mostri. Cavalieri e fanti, con lance e picche e spade, si facevano strada freneticamente, urlando come un sol uomo il grido di battaglia delle loro terre.
Per un istante, i demoni opposero resistenza, urlando di rabbia e odio, avventandosi su quei pazzi che avevano osato buttarsi in mezzo a loro. Ma il soldato gigantesco con la grande spada e lo stendardo di combattimento del Libero Battaglione aveva infuso coraggio negli Elfi, un coraggio che gli dava la forza di affrontare la morte senza paura, spinti dalla volontà incrollabile di annientare tutte quelle nere forme contorte che gli si assiepavano intorno. I demoni vacillarono e retrocessero, dapprima lentamente, poi sparpagliandosi in una fuga affannosa, poiché la collera che animava l'esercito elfo adesso era assai più intensa della loro. Così fuggirono di nuovo verso le colline a nord, riversandosi disordinatamente giù dai pendii delle Kensrowe attraverso i macigni e i dirupi del passo, precipitandosi a nascondersi fra le ombre della notte. In soli pochi attimi il Baen Draw era stato liberato e la Sarandanon era di nuovo nelle mani degli Elfi. Ander Elessedil era nella sua tenda, a torso nudo, mentre i Cacciatori elfi gli curavano le ferite che gli avevano inflitto i demoni durante la battaglia. Se ne stava seduto in silenzio, il corpo dolorante per la stanchezza e le ferite. Messaggeri andavano e venivano, riferendo sui progressi delle truppe che si preparavano di nuovo a trincerarsi lungo l'imboccatura del Baen Draw. La Guardia Reale era schierata intorno alla tenda, e le loro armi scintillavano alla luce dei falò. Dopo esser stato bendato, il principe elfo stava mettendosi l'armatura quando i lembi della tenda improvvisamente si scostarono e dalla notte emerse Stee Jans, il corpo gigantesco sporco di polvere e sangue. Tutti coloro che si trovavano nella tenda immediatamente tacquero. Con una sola parola, Ander li congedò. Rimasto solo, Ander si diresse verso l'uomo della Frontiera. Senza parlare, gli strinse energicamente la mano. «Questa notte ci hai salvati tutti, comandante» disse a bassa voce. «Io ho un debito con te che mi sarà difficile saldare.» Stee Jans lo scrutò un attimo, poi scosse lentamente la testa. «Mio signore, non mi devi niente. Io sono un soldato. Questa notte non ho fatto che il mio dovere.» Ander sorrise, stanco. «Non ti crederò mai. Ma ti rispetto e ammiro troppo per mettermi a discutere. Mi limiterò a ringraziarti.» Lasciò andare la mano dell'uomo e indietreggiò. «Kael Pindanon è morto, e io devo trovare un nuovo comandante sul campo. Voglio che sia tu.»
L'altro rimase in silenzio per un attimo. «Mio signore, io non sono Elfo e nemmeno di queste terre.» «Non c'è nessun altro più adatto di te a comandare questo esercito» replicò immediatamente Ander. «E è stato il tuo piano che ci ha consentito di tenere il Baen Draw.» Stee Jans guardava Ander dritto negli occhi. «C'è chi potrebbe contestare questa decisione.» «C'è chi contesterebbe qualsiasi decisione.» Ander scosse la testa. «Io non sono né mio padre né mio fratello e nemmeno il capo che pensavano di avere. Ma, comunque sia, tocca a me decidere e io ho deciso. Voglio che sia tu a comandare le mie truppe. Accetti?» L'uomo della Frontiera rifletté a lungo prima di rispondere: «Accetto». Ander ebbe la sensazione che un peso gli cadesse di dosso. «Allora cominciamo a...» Un improvviso movimento fra le ombre all'ingresso della tenda li fece voltare entrambi di scatto. Comparve Allanon cupo in volto come scolpito nella pietra. «Gli esploratori mandati a nord e a sud della valle sono tornati.» Parlava a bassa voce, quasi sibilando. «Quelli che sono andati a sud lungo l'Innisbore non hanno trovato nulla. Ma quelli che sono andati a nord hanno visto un esercito di demoni immenso rispetto a quello che abbiamo combattuto al Baen Draw. Procede verso sud lungo il lato orientale delle Kensrowe. Sarà già entrato nella Sarandanon.» Ander Elessedil rimase a fissare in silenzio il Druido, mentre la speranza svaniva dai suoi occhi. «Questo era il loro piano fin dall'inizio, principe... Impegnarvi al Baen Draw con un numero ridotto di forze mentre il grosso dell'orda costeggiava le Kensrowe a nord, per scendere nella Sarandanon da dietro le nostre linee, intrappolando l'esercito elfo fra due fuochi. Se tu non avessi mandato quegli esploratori...» Lasciò la frase in sospeso. Ander fece per parlare, ma le parole gli morirono in gola. Improvvisamente gli salirono le lacrime agli occhi, lacrime di rabbia e frustrazione. «Tutti gli uomini che sono morti qui... qui e a Halys Cut... mio fratello, Pindanon... tutti morti per salvare la Sarandanon... Non c'è niente che si possa fare?» «Nell'esercito che arriva da nord si trovano demoni i cui poteri sono di gran lunga superiori a qualsiasi cosa abbiate finora incontrato» rispose Allanon, scuotendo lentamente la testa. «Poteri troppo grandi, temo, perché
voi possiate resistervi. Se tentate di tenere ancora la Sarandanon, se tentate di opporre resistenza qui al Baen Draw o persino di ritirarvi verso qualche altra linea difensiva entro la valle, sarete sicuramente distrutti.» Ander era pallidissimo. «Allora la Sarandanon è persa.» Allanon annuì lentamente. Il principe esitò, lanciando una breve occhiata verso il retro della tenda, dove il re giaceva privo di sensi, ignaro, imprigionato in un sonno senza sogni, distante dalla sofferenza e dalla realtà che il figlio angosciato doveva affrontare. Il Confine, la Sarandanon, la sua famiglia, il suo esercito... tutto perduto! Era dilaniato. Sentì la mano di Allanon su una spalla. Senza voltarsi, annuì. «Partiremo subito.» A capo chino uscì dalla tenda per impartire l'ordine. 33 Wil Ohmsford trovò la Malaterra proprio come gliela avevano descritta: Desolata e spaventosa. Anche se il cielo pomeridiano era inondato di sole quando lui e Amberle avevano lasciato lo Sperone Roccioso, la Malaterra era un groviglio di ombre e di oscurità cupa; un meandro di alberi e cespugli contorti e aggrovigliati che sembrava estendersi all'infinito la separava dal resto del mondo. Tronchi coperti da un denso strato di muffa crescevano nodosi e curvi, coi rami a spirale simili a zampe di ragno, soffocati dai rampicanti e dalla boscaglia, con foglie spinose che scintillavano argentee nella luce. Per terra erano ammassati detriti e arbusti, che marcivano lentamente nell'oscurità, rendendo il terreno molle, spugnoso, ripugnante al tatto. Impregnata di umidità, muffa e putridume, la Malaterra aveva un che di deforme e grottesco. Era come se la natura avesse soffocato la terra e con essa la vita che vi cresceva, ripiegandola su se stessa, così che dovesse respirare, mangiare e bere il putridume che emanava dalla sua stessa morte. Il giovane camminava lungo la pista tortuosa, con Amberle al fianco; scrutavano la cupa foresta intorno a loro, preoccupati, avvertendo in lontananza i suoni della vita che vi allignava. La strada era come un tunnel: affossata, fra la duplice barriera di alberi; era illuminata soltanto da deboli raggi di luce che, misteriosamente, riuscivano a penetrare il groviglio della vegetazione, sfiorando la terra umida. Non c'erano uccelli in quella foresta - Wil se n'era accorto subito. Gli uccelli non sarebbero mai vissuti in quell'oscurità, pensò Wil, non finché potevano volare alla luce del sole.
Non c'erano nemmeno le solite bestiole dei boschi, nemmeno i comuni insetti o le farfalle variopinte. Lì vivevano le creature che amavano il buio, la notte, l'ombra: pipistrelli che emanavano un fetore di malattia; serpenti e predatori ricoperti di scaglie che lì deponevano le uova e si nutrivano dei parassiti di fetidi stagni e acquitrini; bestie simili a gatti, agili e veloci nell'arrampicarsi silenziosi sugli alberi. Un paio di volte le ombre di simili animali caddero sulla strada, e i due giovani si fermarono, guardinghi. Ma quelli se ne andarono all'istante così come erano comparsi, e si persero di nuovo nelle tenebre; dopo un'ansiosa occhiata intorno, Wil e Amberle ripresero rapidamente il cammino. Una volta - ormai si erano addentrati nel cuore della foresta - udirono muoversi qualcosa di grosso, che si faceva strada fra gli alberi come se fossero stati ramoscelli, e soffiava forte nel silenzio che al suo passaggio era calato sulla foresta. Invisibile, ciondolando attraverso l'oscurità, non li vide o non si curò delle due piccole creature che se ne stavano immobili, agghiacciate per la paura, sulla strada. Nel silenzio che seguì, i due giovani scapparono via. Incontrarono pochissimi viaggiatori nel loro percorso attraverso la foresta, tutti a piedi, tranne uno che guidava un cavallo così magro e malconcio da sembrare più un'apparizione che una creatura in carne e ossa. Avvolti in mantelli dalla testa ai piedi, i viaggiatori passavano soli o a coppie, senza salutare. Ma, nell'ombra dei cappucci, le teste si voltavano e gli occhi li scrutavano col freddo interesse dei gatti, squadrando gli intrusi come per indovinare lo scopo del loro viaggio. Raggelati da quelle occhiate, il giovane e la ragazza si ritrovavano a guardarsi alle spalle ancora per parecchio tempo dopo che le figure ammantellate erano scomparse dalla loro vista. Era quasi il tramonto quando emersero finalmente dall'oscurità opprimente della foresta per ritrovarsi nel villaggio di Grimpen Ward. Sarebbe stato difficile immaginare un luogo meno ospitale. Situato in una conca, Grimpen Ward era un ammasso di case di legno strette le une alle altre al punto da non poter essere distinte le une dalle altre. Era tutto molto squallido: negozi, scuderie, taverne e osterie. Gli intonachi, colori vistosi, erano sbiaditi e screpolati. Molte saracinesche erano abbassate, diverse porte sbarrate e munite di chiavistelli. Insegne mal scritte pendevano da pali vacillanti o erano attaccate alle porte, offrendo, sotto i nomi dei proprietari, uno sciatto elenco di promesse e prezzi. Attraverso le finestre e gli ingressi
bruciavano lampade a olio e a pece che gettavano la loro aspra luce gialla fuori nelle ombre, mentre il crepuscolo calava sul villaggio. Gli abitanti di Grimpen Ward erano raccolti nelle taverne e nelle osterie, intorno a rozzi tavoli di legno e banconi formati da assi collocate sopra barili, intenti a prosciugare bicchieri e boccali di birra e vino; le loro voci erano aspre e forti; le loro risate stridule; passavano da un locale all'altro uomini dagli occhi duri e donne di tutte le razze, alcune vestite di colori allegri, altre straccione, con un'aria sfacciata alla luce viva delle lampade oppure furtiva mentre si aggiravano nei vicoli: molte inciampavano, vacillavano e puzzavano di alcool. Il denaro tintinnava e cambiava rapidamente di mano, spesso sottratto di soppiatto o con esplicita violenza. Lì una figura se ne stava abbandonata sulla soglia di una porta, sprofondata in un torpore di ebbrezza, spogliata dei suoi abiti e del suo denaro. Là un essere cencioso giaceva immobile, tutto contorto, con il sangue che gli sgorgava da uno squarcio alla gola. Dappertutto si aggiravano i cani, arruffati e affamati, scivolando fra le ombre come spiriti dell'oltretomba. Ladri e assassini, prostitute e imbroglioni, mercanti di vita e morte e falsi piaceri. Wil Ohmsford si sentì venire la pelle d'oca. Il nonno di Perk aveva detto la verità su Grimpen Ward. Tenendo stretta la mano di Amberle seguì la strada cosparsa di buche che serpeggiava nel groviglio di case. Che cosa dovevano fare ora? Non potevano certo tornare nella foresta... non di notte. L'idea di restare a Grimpen Ward non gli piaceva, ma quale alternativa aveva? Erano entrambi stanchi e affamati. Da giorni non dormivano in un letto né consumavano un pasto caldo. Eppure, sembrava molto improbabile che potessero trovarli lì. Non avevano né denaro né qualcosa da barattare in cambio di qualcosa da mangiare e un posto in cui dormire. Avevano perso tutto nella fuga dal Baluardo. Il giovane aveva pensato di cercare qualcuno che fosse disposto a farli lavorare in cambio di cibo e alloggio, ma da quel che vedeva intorno a sé intuiva che a Grimpen Ward non esisteva una simile possibilità. Uno Gnomo ubriaco gli si avvicinò barcollando e gli si mise a frugare nel mantello. Wil lo spinse via in fretta. Lo Gnomo ruzzolò per terra e rimase sulla strada ridendo scioccamente. Il giovane lo guardò un attimo, poi afferrò Amberle per un braccio e si affrettò a proseguire. C'erano altri problemi da affrontare. Una volta che fossero usciti da Grimpen Ward, come avrebbero trovato la pista giusta? Come avrebbero evitato di perdersi irrimediabilmente nella vasta plaga desolata al di là?
Avevano un bisogno disperato di una guida, ma c'era forse qualcuno a Grimpen Ward di cui potessero fidarsi? Se fossero stati costretti a proseguire senza sapere come raggiungere la loro meta, Wil avrebbe dovuto usare le Pietre Magiche - o per lo meno provarci - prima ancora di aver trovato i tunnel della Cripta e del Fuoco di Sangue e assai prima di essere pronti a fuggire. Usando le Pietre Magiche, avrebbe attirato i demoni su di loro. Ma senza le Pietre o l'aiuto di una guida, non sarebbero mai riusciti a trovare la Cripta... nemmeno se avessero avuto a disposizione anni invece di giorni. Wil si fermò, disperato, scrutando le porte e le finestre illuminate delle case, le figure simili a ombre che brulicavano nel villaggio, e sullo sfondo la foresta selvaggia e il cielo notturno. Era un terribile dilemma e non aveva nessuna idea circa il modo in cui risolverlo. «Wil.» Amberle lo tirò ansiosamente per un braccio. «Lasciamo questa strada.» Il giovane le diede una rapida occhiata e annuì. Prima doveva risolvere le questioni immediate. Trovare un luogo dove dormire, qualcosa da mangiare. Il resto poteva aspettare. Tenendo Amberle per mano, ritornò sulla strada principale, scrutando le osterie e le taverne a ciascun lato. Proseguirono per una ventina di metri prima che il giovane individuasse una piccola costruzione a due piani, un po' arretrata rispetto agli altri edifici, con un boschetto di pini nani intorno. Le finestre del primo piano erano illuminate, mentre quelle del secondo erano buie. Qui non si sentivano voci eccitate e risate rauche, o per lo meno erano smorzate, e vi era poca gente. Wil attraversò il cortile della taverna e sbirciò attraverso il vetro sporco delle finestre che davano sulla sala principale. Tutto appariva tranquillo. Alzò gli occhi. L'insegna al cancello annunciava che quella era la Taverna del Lume di Candela. Esitò un istante, poi decise. Con un cenno rassicurante a Amberle, che sembrava molto dubbiosa, la precedette attraverso il cancello e imboccò il sentiero che si inoltrava fra i pini. Nella notte estiva, la porta della taverna era aperta. «Nasconditi la faccia» le mormorò improvvisamente e, poiché lei lo guardò senza capire, le abbassò il cappuccio sul volto. Le sorrise, cercando di nascondere la propria perplessità, poi la prese deciso per mano e varcò l'ingresso. La stanza era angusta e vi ristagnava il fumo delle lampade a olio e delle pipe. Sul davanti c'era un corto bancone, intorno al quale era affollato un
gruppetto di uomini e donne dall'aria rozza, che chiacchieravano fra loro e bevevano birra. Sul retro vi erano vari tavolini intorno occupati da figure avvolte in mantelli, chine sui loro bicchieri, che parlottavano. Su questa stanza si affacciavano diverse porte che conducevano a altre parti dell'edificio, e lungo la parete sinistra saliva una scala che scompariva nel buio. Il pavimento era consunto, scheggiato, e dagli angoli del soffitto pendevano ragnatele. Vicino all'ingresso, un vecchio cane da caccia rosicchiava placidamente un osso. Wil guidò Amberle verso il retro, a un tavolino vuoto su cui brillava una grossa candela, e sedettero. Alcune teste si sollevarono o voltarono al loro passaggio, poi altrettanto rapidamente guardarono altrove. «Cosa facciamo qui?» chiese Amberle ansiosamente, sforzandosi di parlare a bassa voce in modo da non essere udita. Wil scosse la testa. «Abbi pazienza.» Qualche minuto dopo, un donnone goffo, dall'aria ostile e di età incerta, si trascinò fino a loro, con un tovagliolo buttato su un braccio. Mentre si avvicinava, Wil notò che zoppicava pesantemente. Gli parve di riconoscere le origini del difetto, e in lui cominciò a farsi strada un'idea. «Volete bere?» domandò lei, perentoria. Wil le rivolse un sorriso accattivante. «Due bicchieri di birra.» L'ostessa se ne andò senza commenti. Wil rimase a osservarla. «Non mi piace la birra» protestò Amberle. «Che cosa stai combinando?» «Cercando di essere socievole. Non hai notato come zoppicava quella donna?» La donna lo guardò, stupita. «E cosa c'entra?» Wil sorrise. «E come, se c'entra! Sta' un po' a vedere.» Rimasero in silenzio per un attimo, poi la donna tornò, portando i due boccali di birra. Li mise sul tavolo e si raddrizzò, passandosi la mano grassa fra i capelli grigi, spettinati. «Tutto qui?» «Che cosa può darci per cena?» si informò Wil, sorseggiando la birra. Amberle ignorò la sua. «Stufato, pane, formaggio, forse qualche dolce... fresco di oggi.» «Uhm. Una giornata calda per cuocere al forno.» «Veramente calda. E poi è stata una fatica inutile. Nessuno mangia.» Wil scosse la testa con aria comprensiva. «Non è giusto sprecare simili occasioni.»
«Quasi tutti preferiscono bere» replicò l'ostessa, sbuffando. «E anch'io lo farei, se ne avessi il tempo.» Wil sorrideva. «Immagino. Manda avanti la taverna da sola?» «Con l'aiuto dei miei ragazzi.» La donna, adesso meno ostile, aveva incrociato le braccia sul petto. «Mio marito mi ha piantato. I ragazzi mi aiutano quando non bevono o non giocano d'azzardo... e quindi quasi mai. Potrei arrangiarmi da sola se non fosse per questa gamba. Soffro sempre di crampi. Un male continuo.» «Ha provato delle applicazioni calde?» «Certo. Danno un po' di sollievo.» «Miscugli di erbe?» Sputò per terra. «Non servono a niente.» «Un bel problema. Da quanto tempo le fa male?» «Ah, da anni, credo; ne ho perso il conto. Non serve a niente pensarci sopra.» «Già.» Wil appariva pensieroso. «Il pasto promette bene. Penso che possiamo provare... una porzione ciascuno.» L'ostessa annuì e si allontanò di nuovo. Amberle si chinò rapidamente verso Wil. «Come pensi di pagare? Non abbiamo denaro.» «Lo so» rispose il giovane, guardandosi attorno. «Ma non credo che ne avremo bisogno.» Sembrò che Amberle fosse lì lì per dargli uno schiaffo. «Mi avevi promesso che non l'avresti mai più rifatto. Ma avevi promesso che mi avresti informato dei tuoi piani prima di attuarli... ricordi? L'ultima volta che mi hai combinato uno scherzo del genere è stata quando eravamo coi nomadi, e per poco non ci è costato la vita. Questa gente ha l'aria di essere molto più pericolosa di loro.» «Lo so, lo so, ma ci ho pensato bene. Abbiamo bisogno di mangiare e riposare, e questa sembra la miglior occasione per entrambi.» Fra le ombre del cappuccio il viso della ragazza si indurì. «Non mi piace questo posto, Wil Ohmsford... questa taverna, questo villaggio, questa gente, tutto. Possiamo fare a meno di mangiare e dormire.» Wil scosse la testa. «Certo, ma non lo faremo. Ssst, sta tornando.» La donna aveva portato la cena. Mise i piatti fumanti davanti a loro e stava per andarsene quando Wil parlò. «Resta un attimo» le chiese. L'ostessa si voltò. «Ho pensato alla tua gamba. Forse posso aiutarti.»
Lei lo guardò, sospettosa. «Cosa vuol dire?» Lui si strinse nelle spalle. «Be', credo di poter metter fine alle tue sofferenze.» L'espressione sospettosa si fece ancor più pronunciata. «Perché faresti una cosa simile per me?» Lo guardò torva. Wil sorrise. «Per interesse. Quattrini.» «Io non ho molti soldi.» «Allora perché non facciamo un baratto? In cambio della birra, del pasto e di un letto per questa notte, io farò cessare il tuo dolore. Ti sembra giusto?» «Giusto.» Il suo corpo goffo si abbandonò pesantemente sulla sedia vicina a quella di Wil. «Ma come puoi riuscirci?» «Portami una tazza di tè caldo e un asciugamano pulito e vedremo.» La donna si alzò immediatamente e si trascinò fino alla cucina. Wil rimase a guardarla, con un lieve sorriso sulle labbra. Amberle scosse la testa. «Spero che tu sappia quel che fai.» «Anch'io. Mangia la tua cena nell'eventualità che le cose vadano male.» Avevano già quasi finito il pasto quando la donna tornò col tè e l'asciugamano. Wil guardò i clienti raccolti attorno al bancone. Qualcuno aveva voltato la testa, incuriosito. Qualsiasi cosa accadesse, pensò, non voleva attirare ulteriormente l'attenzione su di sé. Guardò l'ostessa, sorridendo. «Non posso lavorare in pubblico. Non c'è qualche posto tranquillo dove andare?» La donna si strinse nelle spalle e li precedette attraverso una delle porte chiuse in una stanzetta, dove si trovavano un tavolo con una candela e sei sgabelli. Accese la candela e chiuse la porta. I tre sedettero. «Che cosa succede adesso?» chiese l'ostessa. Il giovane estrasse un'unica foglia essiccata da un sacchetto che portava intorno alla vita e la ridusse in polvere, che lasciò cadere nel tè. Mescolò il liquido, poi porse la tazza alla donna. «Ora bevi. Ti verrà un po' sonno, nient'altro.» La donna scrutò per un istante la pozione, poi la trangugiò. Quando la tazza fu vuota, Wil la prese, vi lasciò cadere dentro una foglia di un altro tipo e vi versò sopra un pochino di birra dal suo bicchiere, che aveva portato con sé. Poi agitò il liquido lentamente, osservando la foglia dissolversi. Seduta davanti a lui, Amberle scuoteva la testa.
«Metti qui la gamba» ordinò Wil, spingendo uno sgabello davanti alla donna, che vi appoggiò sopra la gamba. «Ora tira su la sottana.» L'ostessa gli lanciò un'occhiata interrogativa, come se dubitasse del giovane, poi sollevò la gonna fino alla coscia. La gamba era tutta ricoperta di gonfiori, vene varicose, chiazze scure. Wil intinse l'asciugamano nella tazza e cominciò a strofinarle la gamba. «Pizzica un poco.» La donna ridacchiava. Wil le sorrise con aria incoraggiante. Quando la tazza fu vuota, frugò di nuovo nel sacchetto e questa volta estrasse un lungo ago d'argento con la capocchia rotonda. L'ostessa si chinò in avanti, spaventata. «Non vorrai mica infilarmelo, vero?» Wil annuì calmo. «Non te ne accorgerai nemmeno.» Lo passò lentamente attraverso la fiamma della candela al centro del tavolo. «Ora resta immobile» ordinò. Lentamente, con precauzione, inserì l'ago nella gamba, appena sopra la giuntura del ginocchio, finché rimase visibile solo la capocchia rotonda. Lo lasciò lì un istante, poi lo ritirò. La donna ebbe una piccola smorfia, chiuse gli occhi e subito dopo li riaprì. Wil si appoggiò allo schienale della sedia. «Tutto fatto» annunciò, augurandosi che fosse davvero così. «Alzati e cammina.» La donna, perplessa, lo fissò un istante, poi, indignata, tirò giù la gonna e si alzò. Con precauzione, si allontanò dal tavolo, come se mettesse a prova la gamba malata. Poi bruscamente si mise a volteggiare intorno, mentre un ampio sorriso le increspava la faccia rozza. «È scomparso! Il dolore è scomparso! Per la prima volta da mesi!» Rideva, eccitata. «Non ci credo. Come ci sei riuscito?» «Magia.» Wil sorrise, soddisfatto, poi immediatamente rimpianse di aver detto quella parola. Amberle gli lanciò un'occhiataccia. «Magia, eh?» L'ostessa fece qualche altro passo, scuotendo la testa. «Bene, se lo dici tu. Certo che sembra proprio magia. Non ho più dolore.» «Be', non è stata veramente magia...» tentò di rimediare Wil, ma la donna si stava già dirigendo verso la porta. «Sto così bene che voglio offrire da bere a tutti.» Aprì la porta e uscì. «Non vedo l'ora di vedere che faccia faranno i miei clienti quando lo sapranno!»
«No, aspetta...» le gridò dietro Wil, ma la porta si chiuse e la donna scomparve. «Maledizione» borbottò lui, rimpiangendo di non averle fatto promettere di tenere la cosa segreta. Amberle, calma, incrociò le braccia e lo guardò. «Come ci sei riuscito?» Lui si strinse nelle spalle. «Sono un Guaritore, non ricordi? Gli Stor mi hanno insegnato alcune cose sui vari tipi di dolori.» Si chinò verso di lei con aria da cospiratore. «Il guaio è che l'effetto non è duraturo.» «Non è duraturo!» Amberle era inorridita. Wil le fece cenno di abbassare la voce. «La cura è solo temporanea. Domattina, il dolore sarà tornato, così dovremo già essercene andati.» «Wil, tu hai mentito a quella donna» protestò la ragazza. «Le hai detto che l'avresti guarita!» «No, non è vero. Le ho detto che potevo far cessare il dolore. Non ho precisato per quanto tempo. Una notte di sollievo per lei, un pasto e una notte di riposo per noi. Mi sembra equo.» Amberle continuò a fissarlo con aria d'accusa e non rispose. Wil sospirò. «Se può consolarti, il dolore sarà meno forte di prima. Ma nessun Guaritore può sollevarla per sempre dai suoi guai, che dipendono dalla vita che fa, dall'età, dal peso... e da varie altre cose sulle quali non ho nessun controllo. Ho fatto per lei tutto quel che potevo. Ora sarai ragionevole?» «Non potresti darle qualcosa per quando le tornerà il dolore?» Il giovane si chinò verso Amberle, prendendole una mano. «Sei veramente cara, lo sai? Sì, posso darle qualcosa. Ma glielo lasceremo in modo che lo trovi dopo che saremo partiti, se non ti dispiace.» Un improvviso clamore dall'altra stanza lo fece alzare in piedi; si diresse verso la porta, socchiudendola. Prima, la taverna era quasi vuota. Ora era quasi affollata; la gente affluiva dalla strada, attratta dalla promessa di un bicchiere gratis e dai movimenti grotteschi dell'ostessa che, tutta euforica, stava dando dimostrazioni della sua guarigione. «Andiamocene alla svelta» borbottò Wil e in fretta portò via Amberle dalla stanza. Non avevano fatto che pochi passi quando la donna, gridando con la sua voce stridula, corse per fermarli. I clienti indicavano Wil, scambiandosi commenti. Erano troppo numerosi per i gusti del giovane. «Un bicchiere di birra anche per voi?» offrì l'ostessa. La sua manona agguantò Wil per una spalla e per poco non lo sollevò da terra. Lui sorrise, poco convinto.
«Abbiamo bisogno di dormire. Ci aspetta un lungo viaggio e siamo davvero molto stanchi.» La donna sbuffò. «Dovete festeggiare anche voi. Tutto gratis. Bevete finché volete.» Wil scosse la testa. «Abbiamo bisogno di dormire.» «Dormire? Con tutto questo rumore?» L'ostessa si strinse nelle spalle. «Prendete la stanza numero dieci; salite su per le scale e andate in fondo al corridoio. È sul retro della taverna. Forse starete un po' tranquilli.» Fece una pausa. «Ora siamo pari, vero? Non vi devo più niente, no?» «Niente» la rassicurò Wil, ansioso di andarsene. La donna uscì in un largo sorriso. «Be', non ti sai proprio vendere, sai? Io ti avrei dato dieci volte di più per quello che hai fatto. Anche soltanto un paio d'ore di sollievo valgono quel che vi ho dato! Ma devi farti furbo se vuoi ottenere qualcosa in questo paese. Ricorda questo consiglio, piccolo Elfo. È gratis.» Scoppiò in una risataccia e si voltò. Ora non voleva più offrire da bere gratis. Con tutta quella gente, si potevano fare dei bei quattrini. La donna si precipitò verso il bancone, raccogliendo avidamente le monete. Wil afferrò Amberle per un braccio e la guidò verso la scala. I clienti li seguivano con lo sguardo. «E pensare che ti sei tanto preoccupata per lei» borbottò il giovane mentre raggiungevano il corridoio del piano superiore e vi si inoltravano. Amberle sorrise, senza rispondere. 34 Dormivano da diverse ore quando udirono rumori davanti alla porta della loro stanza. Wil fu il primo a svegliarsi; di scatto si mise a sedere sul letto, scrutando attraverso la profonda oscurità della notte. Sentiva dei suoni all'esterno... uno scalpiccio di piedi, un sussurrare di voci, respiri pesanti. Non erano demoni, si disse rapidamente, ma il gelo che si era impadronito di lui non lo lasciava. La serratura della porta stridette: qualcuno stava cercando di forzarla. Anche Amberle era sveglia, seduta accanto a lui, il volto pallido sotto l'ombra dei lunghi capelli castani. Wil si portò un dito alle labbra. «Aspetta qui.» Silenziosamente, scivolò giù dal letto e si diresse verso la porta. La serratura continuava a stridere, ma il giovane aveva fatto scorrere la sbarra,
così la stanza era al sicuro da irruzioni. Si chinò verso la porta, in ascolto. Fuori, le voci erano basse, smorzate. «Fa' attenzione, stupido... solleva il gancio...» «Ma lo sto sollevando! Non togliermi la luce!» «... è una perdita di tempo. Buttiamo giù la porta, siamo in tanti!» «... ma se lui usa la magia?» «Val la pena di correre il rischio per l'oro... rompilo!» Continuarono a discutere fra loro, le voci basse, impastate dalla birra, accompagnate da borbottii e da respiri pesanti, faticosi. Fuori dovevano essere almeno in sei, arguì il giovane: ladri e assassini, attirati indubbiamente dalle chiacchiere di qualcuno che aveva sentito parlare della miracolosa guarigione dell'ostessa e che non aveva potuto fare a meno di aggiungere qualche ritocco alla storia. Tornò indietro in gran fretta, cercando a tastoni il letto. Amberle lo afferrò per un braccio. «Dobbiamo andarcene di qui» mormorò lui. Silenziosamente lei scese dal letto. Avevano dormito vestiti e nel giro di pochi minuti avevano indossato i mantelli e gli stivali. Wil corse verso la finestra sul retro della stanza e la spalancò. Sotto di loro si trovava il tetto di una veranda: dall'orlo del tetto a terra vi era un salto di tre metri e mezzo. Wil si voltò per cercare Amberle e la portò alla finestra. «Fuori!» le mormorò e la prese per un braccio. Nello stesso istante, una forte imprecazione risuonò nel corridoio e un corpo massiccio si abbatté contro la porta, provocando una pioggia di schegge e di frammenti metallici. I ladri avevano perso la pazienza. Wil si affrettò a spingere la ragazza fuori dalla finestra, voltandosi per vedere se gli intrusi fossero entrati. No, non era così. La porta reggeva ancora. Ma poi vi fu un altra spallata. Questa volta il chiavistello cedette. Nella stanza si riversò un gruppo di figure ammantellate, che inciamparono l'una sull'altra. bestemmiando e urlando. Wil non rimase a guardare oltre. Uscì fuori in gran fretta dalla finestra e atterrò sul tetto della veranda. «Salta!» urlò a Amberle accovacciata davanti a lui. La ragazza si fece scivolare fino al bordo del tetto e si lasciò cadere per terra. Un attimo dopo, Wil le era accanto. Sopra loro, affacciate alla finestra, le figure ammantellate urlavano furibonde. Wil fece arretrare Amberle fra le ombre dell'edificio, poi si guardò intorno freneticamente. «Da che parte dobbiamo andare?» borbottò improvvisamente disorientato.
In silenzio, Amberle lo prese per mano: corsero lungo il muro, poi puntarono verso l'edificio di fianco alla taverna. All'improvviso risuonarono gli urli dei loro inseguitori, accompagnati dal tonfo di stivali che piombavano sul tetto della veranda. I due giovani corsero in silenzio attraverso il buio, lungo anditi, vicoli e muri finché si ritrovarono sulla strada principale. Gli urli li inseguivano ancora. Grimpen Ward sembrò svegliarsi all'improvviso; le luci si accesero tutto intorno a loro nelle case prima immerse nell'oscurità: risuonarono voci incollerite. Amberle fece per imboccare la strada, ma Wil la tirò frettolosamente indietro. A meno di trenta metri, davanti alla Taverna del Lume di Candela, diverse forme scure si erano riversate sulla strada, frugando le ombre intorno a loro. «Dobbiamo andarcene» mormorò il giovane. Tornarono sui propri passi, seguendo il muro della casa fino alla fine. Capannoni e scuderie erano ammucchiati insieme contro lo sfondo cupo della foresta. Wil esitò. Se avessero tentato di fuggire fra gli alberi, si sarebbero sicuramente persi. Dovevano cercare di farsi strada fra le case fino al punto in cui la strada principale usciva dal lato sud di Grimpen Ward. Una volta lontani dal villaggio, probabilmente non li avrebbero più inseguiti. Con cautela si spostarono lungo il retro dell'edificio. Mura e staccionate li circondavano da ogni parte e barili di rifiuti erano ammucchiati sul sentiero. Ma ora le urla si era smorzate, e le case davanti a loro erano ancora immerse nel buio. Forse, nel giro di pochi minuti, avrebbero seminato i loro inseguitori. Imboccarono uno stretto vicolo che si snodava attraverso una fila di scuderie dietro un negozio di foraggi. Sentendo il loro odore, i cavalli nitrirono sommessamente e batterono impazientemente gli zoccoli nei loro box. Un piccolo recinto si allargava davanti a loro oltre una fila di capannoni. Wil cominciò a camminare lungo la staccionata del recinto con Amberle al fianco. Non aveva fatto che una decina di passi quando un grido acuto risuonò dietro di loro. Fra le ombre del negozio di foraggio emerse una figura scura, che agitava le braccia, e altre voci allarmate risuonarono. Dalle case al di là giunsero urli di risposta. Spaventati, i due giovani inciamparono l'uno sull'altra nella fretta di fuggire, persero l'equilibrio e caddero. Immediatamente il loro inseguitore gli fu addosso, agitando le braccia, menando pugni. Wil e l'uomo, un tipo robusto che puzzava di birra si ac-
capigliarono, mentre Amberle ruzzolava via. Wil afferrò il suo aggressore per il mantello e, con uno scatto improvviso, riuscì a buttarlo contro il recinto. Ci fu un rumore secco mentre la testa dello sconosciuto urtava contro le assi, e quello rimase lì, inerte. Wil si tirò frettolosamente in piedi. Le luci si accesero nelle stanze sopra il negozio di foraggio e negli edifici circostanti. Dietro di loro, le torce guizzavano nel buio della notte. Gli urli degli inseguitori risuonavano dappertutto. Il giovane afferrò Amberle per la mano e insieme corsero lungo il recinto fino ai capannoni. Là voltarono verso la strada principale, imboccando uno stretto vicolo che passava in mezzo a due case in rovina. Il vicolo era immerso nell'ombra e i due correvano alla cieca, Wil davanti alla ragazza. Poi apparve la strada in terra battuta. «Wil!» gridò Amberle per avvertirlo. Troppo tardi. Il giovane non aveva una vista così buona come la ragazza elfa, e piombò a capofitto su un mucchio di assi che bloccava il vicolo. Ruzzolò, urtando contro un muro. Una fitta lancinante gli esplose nella testa; per un istante, perse completamente i sensi. Poi, in qualche modo, riuscì a rialzarsi, barcollando; la voce di Amberle era diventata un mormorio lontano. Si portò una mano alla fronte e se la ritrovò sporca di sangue. Improvvisamente la ragazza fu al suo fianco, sorreggendolo. Debolissimo, Wil si abbandonò contro di lei, costringendosi a avanzare, traballando, verso la luce distante della strada. Si sentì di nuovo venir meno e cercò di resistere. Doveva muoversi, restare sveglio. Amberle gli parlava, con toni pressanti, ma lui non riusciva a capire il senso delle parole. Si sentiva un perfetto idiota. Come aveva potuto combinare una cosa del genere, proprio ora? A fatica uscirono dal vicolo e si rifugiarono all'ombra di un portico, che percorsero a fatica in tutta la sua lunghezza; la ragazza cercava disperatamente di sorreggerlo e Wil borbottava fra sé, furibondo, mentre il sangue gli scorreva negli occhi, accecandolo. Improvvisamente sentì Amberle uscire in un'esclamazione di stupore. Attraverso la nebbia che gli offuscava la vista, intravide un groviglio di ombre emergere dal buio. Si udirono delle voci, rozze e basse, e un sibilo di avvertimento. Poi Amberle scomparve, e sentì che lo sollevavano. Mani forti lo trasportarono rapidamente attraverso l'oscurità. Ci fu un turbinio di colori davanti ai suoi occhi annebbiati, e la luce di una torcia. Poi lo sollevarono di nuovo, questa volta attraverso lo stretto varco dei lembi di una tenda. Una lampada a olio guizzava accanto a lui. Sentì delle voci, racco-
mandazioni sommesse, e uno straccio umido ripulirgli la faccia insanguinata. Qualcuno stava avvolgendolo in coperte e mettendogli un cuscino sotto la testa. Lentamente aprì gli occhi. Si trovava in un carro dai colori vistosi, le pareti decorate con arazzi, sete colorate, file di perline. Il giovane sobbalzò. Conosceva quel carro. Poi un volto si chinò su di lui, scuro e sensuale, incorniciato da folti capelli neri, ricciuti. Il sorriso che lo salutò era abbagliante. «Te l'avevo detto che ci saremmo incontrati di nuovo, Wil Ohmsford.» Era Eretria. 35 Per cinque giorni l'esercito degli Elfi e il Libero Battaglione della Legione si aprirono la strada con le armi attraverso le Terre dell'Ovest per ritornare a Arborlon. Attraverso l'ampia valle della Sarandanon, boschi densi e aggrovigliati, strade forestali e piste sconnesse, essi ripiegarono lentamente. Senza sosta verso est, braccati a ogni passo dalle orde dei demoni. Marciavano giorno e notte, senza sosta, spesso senza nemmeno mangiare, poiché le creature che li inseguivano non mangiavano né dormivano. Senza il peso delle esigenze e dei limiti umani, i demoni li braccavano con inesorabile determinazione, animati dalla loro bizzarra follia. Come cani da caccia, tormentavano l'esercito in ritirata, con rapide puntate distruttive ai suoi fianchi, di tanto in tanto sferrando attacchi frontali, cercando di deviarne il cammino, di paralizzarlo e distruggerlo, senza tregua. Gli Elfi e i loro alleati, già provati dalle battaglie al Baen Draw, erano ormai sfiniti. Presto, con lo sfinimento, venne la disperazione, e poi la paura. Ander Elessedil cadde vittima di quella paura, associata, per il principe elfo, al senso del proprio fallimento. Era ossessionato dai morti, dalle sconfitte subite, dalle speranze svanite. Ma questo non era il peggio. Poiché, man mano che il suo esercito stremato avanzava faticosamente verso est e la sua gente continuava a morire intorno a lui, Ander cominciò a temere che forse nessuno di loro sarebbe sopravvissuto alla lunga marcia di ritorno... che forse sarebbero morti tutti. Da questa orrenda eventualità, nacque la paura, che divenne il suo demone personale... senza volto, insidioso, in agguato nei meandri della sua mente. Capo degli Elfi, gli chiedeva maliziosamente, che farai per salvarli? Sei forse così inetto? Tanti sono già morti... e se anche gli altri periranno? Lo stuzzicava e tormentava, mi-
nacciando di annientare la sua forza di volontà, di sprofondarlo nella disperazione totale. Nemmeno la presenza di Allanon lo rincuorava, poiché il Druido cavalcava distante, silenzioso, al suo fianco, chiuso nel proprio mondo di cupi segreti. Così Ander combatteva quella paura solo, nel silenzio della sua mente, raccogliendo tutte le sue energie per sconfiggerla, mentre lentamente, tristemente guidava i suoi soldati sfiniti verso Arborlon. Alla fine fu Stee Jans a salvarli tutti. Fu nel momento più nero di un simile fallimento e di una simile disperazione che il gigantesco uomo della Frontiera mostrò la tenacia, la resistenza e il coraggio che avevano creato la leggenda dell'Uomo di Ferro. Dopo aver formato una retroguardia con Elfi e soldati del suo Battaglione, organizzò la difesa della colonna principale dell'esercito che, col favore della notte, trasportava i morti e i feriti verso est. Con una serie di rapide puntate e di finte, il Comandante della Legione colpì i suoi inseguitori, attirandoli prima da una parte, poi dall'altra, utilizzando la stessa tattica che aveva impiegato con tanto successo al Baen Draw. Più volte i demoni si lanciarono contro di lui, riversandosi prima nella valle della Sarandanon, poi nella foresta al di là. Più volte cercarono di intrappolare gli agili cavalieri della Legione e i veloci cavalli elfi, giungendo sempre un istante troppo tardi, trovando soltanto la prateria deserta, una gola, una conca immersa nell'ombra, oppure una pista ingombra di cespugli che ripiegava su se stessa. Con una destrezza che sconcertava e infuriava i demoni, Stee Jans e i suoi cavalieri adottavano una pericolosissima tattica - simile al gioco che fa il gatto col topo - per cui sembravano essere dappertutto contemporaneamente, ma sempre lontano dal grosso delle truppe che tornava a Arborlon. La collera e la frustrazione dei demoni aumentavano; quando la notte divenne giorno e il giorno nuovamente notte, l'inseguimento si fece frenetico. Questi demoni erano diversi dalle creature nere, magre, che si erano riversate giù dalle colline a nord del Baen Draw per prendere la Sarandanon. Questi erano i demoni che si erano diretti a est sopra le Kensrowe, più pericolosi dei loro fratelli, con poteri irresistibili per qualsiasi comune essere umano. Alcuni erano di dimensioni mostruose, ricoperti di scaglie, con muscoli protuberanti... creature dedite alla distruzione. Altri erano piccoli e guizzanti, e uccidevano appena sfiorando la vittima. Alcuni erano lenti e goffi, altri rapidissimi, nel scivolare come spettri attraverso le ombre della foresta. Alcuni avevano parecchi arti, altri ne erano privi. Alcuni sputavano fuoco, come i draghi antichi, e altri mangiavano carne umana.
Dove passavano, la terra restava devastata e annerita, inospitale per qualsiasi forma di vita. Eppure gli Elfi riuscivano a sfuggirli. La caccia continuava. Elfi e soldati del Libero Battaglione combattevano fianco a fianco nello sforzo disperato di rallentare l'avanzata dei demoni, vedendo diradarsi costantemente le loro file sotto gli attacchi degli inseguitori. Senza Stee Jans come capo, sarebbero stati annientati. Ma anche con la sua guida, centinaia rimasero feriti o morirono lungo il cammino, caduti nel terribile sforzo di evitare che una lunga ritirata diventasse una totale disfatta. Il comandante della Legione attuava sempre la stessa tattica. La forza dei demoni era tale che l'esercito elfo non doveva essere costretto a attestarsi fuori di Arborlon. Così la retroguardia continuava a colpire rapidamente e a fuggire via, per poi colpire di nuovo e di nuovo velocemente ritirarsi... e ogni volta vi erano delle perdite. Finalmente, il pomeriggio del quinto giorno, le truppe lacere e sfinite ritornarono sulle rive del Rill Song. Con urla selvagge, lo attraversarono. Poi scoprirono il prezzo che era stato pagato. Un terzo degli Elfi che avevano partecipato alla marcia verso la Sarandanon erano morti. Diverse centinaia erano i feriti. Dei seicento soldati del Libero Battaglione della Legione che li avevano seguiti, meno di un terzo erano i sopravvissuti. E l'avanzata dei demoni continuava. Il crepuscolo cadde sulla città di Arborlon. L'aria era diventata fredda, un banco di dense nuvole temporalesche avanzava verso est dalle pianure, nascondendo la luna e le stelle, e diffondendo nell'aria l'odore della pioggia. Nelle case della città, le finestre cominciarono a illuminarsi mentre famiglie e amici si riunivano per il pasto serale. Per le strade e i viali, unità della Guardia Reale cominciavano il loro pattugliamento notturno, scivolando attraverso le fitte ombre in un silenzio carico di nervosismo. Sulla Carolan, sull'Elfitch e lungo la riva orientale del Rill Song, i soldati dell'esercito elfo erano pronti, scrutando l'oscurità della foresta al di là di bracieri di ferro pieni di pece ardente. Fra gli alberi, nulla si muoveva. Nella sala dell'Alto Consiglio elfo, Ander Elessedil doveva affrontare per la prima volta, dopo il suo ritorno dalla Sarandanon, i ministri del re, i comandanti dell'esercito e i pochi stranieri che erano arrivati per aiutare gli Elfi nella loro lotta contro i demoni. Varcò il pesante portale di legno in fondo alla sala del Consiglio, portando nella mano destra il ramo argenteo dell'Eterea. Il principe era ricoperto di polvere, sudore e sangue; si era concesso poche ore di sonno, ma non il tempo per lavarsi, preferendo
comparire il più rapidamente possibile davanti al Consiglio. Al suo fianco camminavano Allanon - alto, cupo, austero, che al suo ingresso nella sala proiettò la sua enorme ombra sulle pareti - e Stee Jans, ancora armato di tutto punto, gli occhi nocciola freddi come la morte. Tutti i convenuti, seduti intorno al tavolo del Consiglio, sulle logge e sui gradini del palco reale, si alzarono immediatamente. Un'ondata di sussurri e borbottii riempì la sala, e si cominciarono a udire delle voci eccitate mentre ciascuno cercava di farsi sentire. All'estremità del tavolo, Emer Chios batté il pugno sulla superficie di legno e nella stanza tornò il silenzio. «Sedetevi» ordinò il primo ministro. Borbottando, i presenti ubbidirono. Ander aspettò un istante, poi si fece avanti. Conosceva le regole dell'Alto Consiglio. Se il re era invalido, toccava al primo ministro presiederla. Emer Chios era un uomo potente e rispettato, e lo era ancor più in questa situazione. Ander era venuto lì con uno scopo ben preciso in mente, e avrebbe avuto bisogno dell'appoggio di Chios per attuarlo. Era stanco, angosciato, ma era necessario che si concedesse il tempo necessario per affrontare la questione in modo adeguato. «Signor primo ministro» esordì. «Vorrei parlare al Consiglio.» Emer Chios annuì. «Fa' pure, principe.» Lentamente, con qualche esitazione, perché, a differenza di suo padre e di suo fratello, non era un oratore brillante, Ander raccontò quel che era accaduto all'esercito elfo dopo la sua partenza da Arborlon. Descrisse le battaglie e le sconfitte subite al Confine, la ritirata verso il Baen Draw, la valorosa difesa del passo, e infine la lunga marcia di ritorno attraverso la Sarandanon e le Terre dell'Ovest. Elogiò il coraggio del Libero Battaglione, la forza e l'abilità di Stee Jans come comandante delle truppe dopo la morte di Pindanon. Con precisione, descrisse il nemico che avevano affrontato: le sue dimensioni, il suo aspetto, la sua frenesia, il suo potere. I demoni, concluse, stavano avvicinandosi a Arborlon per sterminare gli Elfi, distruggere la città e riprendersi la terra che avevano perso secoli prima. Era imminente uno scontro in cui gli uni o gli altri, Elfi o demoni, sarebbero stati annientati. Mentre parlava, scrutava i volti dei presenti, cercando di intuire, dalle loro espressioni, come giudicavano le sue azioni dopo che egli era dovuto subentrare al re e al suo erede al trono. Oramai aveva accettato l'eventualità che suo padre morisse e che egli diventasse re; sapeva che anche l'Alto Consiglio e gli Elfi dovevano accettarla. Per Ander era stato difficile per-
ché, prima della battaglia di Halys Cut, tale possibilità gli era sempre sembrata remota e perché non aveva mai voluto credere di poter perdere sia suo padre sia suo fratello. Ma suo padre ora giaceva sul suo letto a palazzo, sempre privo di sensi. Per tutto il tempo della battaglia al Baen Draw e durante la lunga marcia di ritorno, Ander Elessedil aveva aspettato che il re si svegliasse, rifiutandosi di credere che ciò potesse non accadere. Ma Eventine non aveva ripreso conoscenza, e ora sembrava che forse non sarebbe mai più tornato in sé. Il principe l'aveva capito, accettato, e perciò ora guardava al futuro. «Signori» terminò, con voce stanca, atona, «io sono il figlio di mio padre e so qual è il dovere di un principe degli Elfi. L'esercito elfo ha abbandonato la Sarandanon e deve attestarsi qua. Io intendo combattere e guidarlo. Non lo farei se questo momento potesse essere annullato, se tutto quel che è successo nelle ultime settimane potesse essere cancellato dalle nostre menti. Ma ciò non è possibile. Se mio padre fosse qui, vi stringereste intorno a lui come un sol uomo, lo so. Io ora sono qui, al posto di mio padre e faccio appello alla vostra fedeltà poiché sono l'ultimo del suo sangue. Questi uomini al mio fianco mi hanno dato il loro appoggio. Io chiedo ora il vostro. Date la vostra parola d'onore che mi sosterrete fino in fondo, signori.» In silenzio, aspettò. Non era tenuto a chiedere il loro appoggio, lo sapeva bene. Il potere degli Elessedil era suo di diritto, e pochi avrebbero osato contestarlo. Avrebbe potuto chiedere a Allanon di parlare in suo nome; sarebbe bastata la voce del Druido per mettere a tacere qualsiasi opposizione. Ma Ander non voleva che nessuno intercedesse per lui, né voleva prendere nulla per scontato. L'appoggio dell'Alto Consiglio e degli stranieri che erano venuti in loro aiuto doveva essergli dato per quel che loro vedevano in lui... non perché lo temevano, o perché lui rivendicava un diritto che non fosse andato esclusivamente sulla forza di carattere che aveva mostrato guidando l'esercito elfo da quando suo padre era caduto. Emer Chios si alzò. I suoi occhi scuri passarono rapidamente in rassegna i convenuti. Poi si rivolse a Ander. «Principe, mio signore» tuonò la sua voce profonda. «Tutti coloro che sono riuniti in questo consiglio sanno che io non seguirei mai ciecamente nessun uomo, fosse pure di sangue reale e figlio di re. Ho detto più volte che ho più fiducia nel giudizio della mia gente che in quello di qualsiasi uomo, fosse pure sovrano di tutto il mondo conosciuto.»
Si guardò intorno lentamente. «E tuttavia sono il fedele ministro di Eventine Elessedil, per il quale nutro una stima incondizionata. Non vi è re più degno, signori. Vorrei che fosse qui a guidarci in questo momento di estremo pericolo. Ma ciò non è possibile. Suo figlio si offre di prenderne il posto. Io conosco Ander Elessedil... credo di conoscerlo meglio di chiunque altro. L'ho ascoltato; ho avuto modo di giudicarlo attraverso le sue parole e i suoi atti e quel che ha dimostrato di essere. Io dico che, in assenza del re, non vi è nessun altro uomo al quale affiderei più serenamente la sicurezza della mia terra e la mia vita.» Tacque, poi lentamente posò la mano destra sul cuore: il giuramento elfo di fedeltà. Ci fu un istante di silenzio. Poi altri si alzarono dal tavolo, dapprima alcuni, poi tutti, le mani sul cuore mentre guardavano il principe. Anche i comandanti dell'esercito elfo si fecero avanti: Ehlron Tay, dal volto duro, forte, che, dopo la morte di Pindanon, ricopriva il massimo rango; Kobold, l'alto, impeccabile comandante della Guardia Nera, e Kerrin, il comandante della Guardia Reale. Nel giro di pochi istanti, tutti gli Elfi convenuti all'Alto Consiglio erano in piedi di fronte al principe, la mano sul petto. Al fianco di Ander Elessedil, un'alta figura si chinò su di lui. «Ora ti seguiranno, principe» mormorò Allanon. Ander annuì, cupo, quasi rammaricandosene. Poi parlarono della difesa di Arborlon. I preparativi erano iniziati quasi immediatamente dopo la partenza dell'esercito elfo per la Sarandanon, due settimane prima. Emer Chios, come governatore della città in assenza del re, aveva convocato l'Alto Consiglio, insieme con i comandanti dell'esercito elfo che non avevano accompagnato il re, allo scopo di decidere i provvedimenti da prendere per difendere Arborlon nell'eventualità che i demoni facessero irruzione dalla Sarandanon. Erano state decise diverse accurate misure difensive. Il primo ministro le riesaminava ora con Ander. Non vi erano che due vie d'accesso alla città: da est, lungo le piste che attraversavano la valle di Rhenn e le foreste al di là, e da ovest, attraverso la Sarandanon. A nord e a sud di Arborlon vi erano montagne impenetrabili, alti picchi che proteggevano i boschi delle pianure e circondavano la Carolan con una barriera di roccia. Allanon aveva avvertito che il Divieto si sarebbe infranto nelle Pianure di Cenere. Il che significava che i demoni sarebbero giunti da est attraverso la Sarandanon e, a meno che non devias-
sero a nord o a sud per aggirare le montagne che proteggevano Arborlon una marcia che avrebbe richiesto parecchi giorni in più - l'attacco contro la città elfa sarebbe giunto da ovest. Eppure, erano proprio lì le più forti difese elfe. I demoni avrebbero dovuto immediatamente affrontare due barriere naturali. In primo luogo il Rill Song, piuttosto stretto nel punto in cui curvava a est sotto la Carolan, ma profondo e difficile da attraversare anche col tempo migliore. La seconda era costituita dal dirupo stesso, che scendeva a picco per oltre centoventi metri, la facciata rocciosa incisa profondamente da crepacci e soffocata da un'aggrovigliata boscaglia. Sul Rill Song vi era un solo ponte, nel punto in cui il fiume si restringeva sotto la Carolan. Non vi erano guadi per miglia in entrambe le direzioni. L'Elfitch costituiva la strada primaria d'accesso alla Carolan, anche se, più a sud, diverse piccole piste salivano su per la parte boscosa del dirupo. Perciò la difesa della Carolan dipendeva dal fiume e dal dirupo. Si era deciso di distruggere il ponte sul Rill Song immediatamente dopo il ritorno dell'esercito elfo. Ciò era stato fatto, puntualizzò Chios, e l'ultimo collegamento fra Arborlon e la Sarandanon era stato reciso. Sulla riva orientale, gli Elfi avevano collocato una serie di bracieri di pece ardente che facessero luce nel caso che i demoni tentassero una traversata notturna e per diversi chilometri lungo la sponda del fiume alla base del dirupo avevano costruito una fortificazione di pietra e terra che curvava verso la barriera rocciosa a ciascun lato dell'Elfitch. La sponda orientale era distante dal dirupo una sessantina di metri e questo terreno era tutto ricoperto di alberi e di una fitta boscaglia. Gli Elfi vi avevano collocato dozzine di trappole e trabocchetti per i demoni che avessero cercato di aggirare la fortificazione. Ma era l'Elfitch che costituiva la principale difesa per Arborlon. Tutte le piccole piste che portavano al vasto altopiano della Carolan erano state distrutte. Non restava che l'Elfitch: sette rampe di blocchi di pietra, munite di cancelli rivestiti di ferro, che salivano dalla base del dirupo fino alla sommità. Ciascuna rampa e ciascun cancello erano leggermente arretrati rispetto a quelli sottostanti e, man mano che la spirale dell'Elfitch saliva, descriveva una serie di curve ben strutturate che consentivano a ciascun cancello e a ciascuna rampa sovrastanti di offrire una certa protezione usando gli archi lunghi contro i cancelli e le rampe sottostanti. In tempi di pace, i cancelli delle sette rampe erano aperti; i bastioni erano lasciati indifesi, se non per qualche sentinella e sulla pietra antica fiorivano i rampi-
canti. Ma ora dopo la ritirata dell'esercito elfo dalla Sarandanon, i bastioni brulicavano di picche e lance e i cancelli erano chiusi e sbarrati. Nessuna fortificazione era stata costruita in cima alla Carolan. L'altopiano si estendeva fino alle profonde foreste, ampio, ondulato, costellato di boschi, casette isolate; vi si trovava il santuario dei Giardini della Vita. A est, ai margini della foresta, sorgeva Arborlon. Se i demoni fossero riusciti a raggiungere la Carolan, gli Elfi avrebbero avuto poche alternative. Se fossero sopravvissuti in numero sufficiente, avrebbero potuto attestarsi sull'altopiano nel tentativo di ricacciare gli invasori al di là del dirupo. Se avessero fallito, avrebbero dovuto ripiegare nella valle di Rhenn, per combattere la battaglia finale o essere cacciati dalle Terre dell'Ovest. Terminata la sua relazione, Chios osservò: «Naturalmente se aggirano le montagne e arrivano da oriente...». «Non lo faranno» lo interruppe Allanon. «Ora il tempo diventa importante per loro. Verranno da occidente.» Ander lanciò un'occhiata interrogativa a Stee Jans, ma il comandante del Libero Battaglione si limitò a stringersi nelle spalle. Ander si voltò di nuovo verso Emer Chios. «Hai altre notizie, primo ministro?» «Sono notizie contrastanti, temo, riguardo alla nostra richiesta di aiuto alle altre Terre Callahorn ci ha mandato altri duecentocinquanta cavalieri... la Vecchia Guardia, l'esercito regolare della Legione, oltre a qualche vaga promessa di ulteriori aiuti, senza alcun accenno, però, alla data del loro arrivo. I nostri messaggeri hanno riferito che i membri del Consiglio delle Città non sono ancora riusciti a risolvere le loro divergenze circa la misura in cui Callahorn debba impegnarsi in questa "guerra degli Elfi" e il re ha deciso di non intervenire. A quanto pare, hanno optato per una soluzione di compromesso, mandando il battaglione della Vecchia Guardia. Si discute ancora della questione, ma noi non sappiamo altro.» Stee Jans aveva visto giusto, pensò cupo Ander. «Anche la Federazione ha mandato un messaggio, principe.» Il sorriso di Chios era amaro. «Un messaggio breve, ma significativo. La Federazione persegue la politica di non intervento negli affari di altri paesi e altre razze. La Federazione agirà soltanto se una minaccia a altri stati comprometterà la sua stessa sovranità. E questo non sembra essere il caso, nella presente situazione. Perciò, finché questa non cambierà, non fornirà alcun aiuto.» Si strinse nelle spalle. «Non era imprevedibile.» «E il Kershalt?» chiese rapidamente Ander. «Che hanno mandato a dire i Troll?»
Chios scosse la testa. «Niente. Mi sono preso la libertà di mandare un altro messaggero.» Ander annuì, approvando. «E i Nani?» «Siamo qua» rispose una voce aspra. «Almeno in parte.» Un Nano robusto, barbuto, si diresse verso il tavolo del Consiglio. Intelligenti occhi azzurri scintillavano in un volto segnato e abbronzato dal sole, e due mani nodose si afferrarono all'orlo del tavolo. «Druido.» Il Nano fece un breve cenno di saluto a Allanon, poi si rivolse a Ander. «Mi chiamo Browork, il più anziano cittadino di Culhaven. Ho portato cento genieri al servizio degli Elessedil. Di ciò puoi essere grato al Druido. Ci trovò alcune settimane fa mentre lavoravamo a un ponte sul Fiume Argento e ci avvertì del pericolo imminente. Noi Nani conosciamo bene Allanon, perciò non ci fu bisogno di discussioni. Abbiamo informato Culhaven e siamo venuti... dieci giorni di dura marcia. Ma eccoci qua.» Allungò la mano che Ander strinse energicamente. «E gli altri, Browork?» chiese Allanon. Il Nano annuì, piuttosto spazientito. «Ormai saranno in cammino, immagino. Dovresti avere diverse migliaia di uomini entro la fine della settimana.» Poi guardò Allanon, accigliato. «Nel frattempo ci siamo noi, Druido, e è una bella fortuna. Soltanto noi genieri avremmo potuto sistemare quella rampa.» «L'Elfitch» spiegò rapidamente Chios al perplesso Ander. «Browork e i suoi hanno lavorato con noi a sistemare le difese. Studiando l'Elfitch, egli ha scoperto che era possibile sistemare la quinta rampa in modo che crolli.» «Un gioco da ragazzi» fece Browork in modo sbrigativo. «Abbiamo ridotto il blocco di pietra, rimosso i sostegni secondari, poi inserito in quelli primari cunei di ferro fissati alle catene. Abbiamo nascosto le catene nella boscaglia sotto la rampa, le abbiamo fatte scorrere verso l'alto e poi fissate a un sistema di pulegge. Se i demoni arrivano alla quinta rampa, basterà tirare le catene, far scivolare via i cunei e l'intera rampa crollerà. Semplice.» «Semplice per chi possiede le capacità tecniche dei Genieri Nani» Ander sorrideva. «Ben fatto Browork. Abbiamo bisogno di te.» «Vi sono altri, qui, di cui hai bisogno» Allanon mise una mano sulla spalla di Ander e indicò qualcuno in fondo al tavolo. Il principe si voltò. Un Elfo solitario tutto vestito di cuoio si fece avanti e si mise la mano sul cuore nel giuramento di fedeltà.
«Sono Dayn, mio signore» disse l'Elfo, a bassa voce. «Un Cavaliere Alato.» «Un Cavaliere Alato?» Ander lo guardò, esterrefatto. Suo padre gli aveva parlato di coloro che si facevano chiamare Elfi del Cielo... storie ormai quasi completamente dimenticate, perché nessun Cavaliere Alato era venuto a Arborlon negli ultimi secoli. «Quanti siete?» chiese infine. «Cinque» rispose Dayn. «Ne sarebbero venuti altri se non fosse stato per il timore di un attacco dei demoni a Rifugio Alato, la nostra città. Mio padre ha mandato quelli di noi che sono qui. Siamo tutti della stessa famiglia. Mio padre si chiama Herrol.» Si interruppe e lanciò un'occhiata a Allanon. «Un tempo lui e il Druido erano amici.» «Siamo sempre amici, Cavaliere Alato» rispose, tranquillo, Allanon. Dayn fece un cenno di assenso verso il Druido, poi tornò a guardare Ander. «Per mio padre il vincolo con gli Elfi di Terra è più forte che per la maggioranza della nostra gente, mio signore, poiché quasi tutti hanno da tempo rotto i vecchi legami con le tradizioni. Inoltre mio padre sa che Allanon è dalla parte degli Elessedil... e questo conta. Perciò ha mandato noi. Sarebbe venuto personalmente se non fosse stato per l'assenza del suo Roc Genewen, col quale si addestra il figlio di mio fratello in modo da poter diventare un giorno Cavaliere Alato come suo padre. E comunque, anche così, potremo esserti utili. Possiamo volare per tutto il cielo delle Terre dell'Ovest, se sarà necessario; scovare i demoni che vi minacciano e tenervi informati dei loro movimenti: spiarli, per valutarne la forza e la debolezza. Se non altro questo ti possiamo offrire.» «E noi lo accettiamo con gratitudine, Dayn.» Ander ricambiò il saluto del Cavaliere Alato. «Siate i benvenuti.» Dayn si inchinò e indietreggiò. Ander guardò Chios. «Sono venuti altri in nostro soccorso, primo ministro?» Chios scosse lentamente la testa. «No, mio signore. Sono tutti qui.» Ander annuì. «E allora basteranno.» Fece cenno a tutti quelli che erano riuniti di sedersi con lui al tavolo del Consiglio, e seguì una discussione generale sulla disposizione delle truppe, sulla distribuzione delle armi, sulla tattica da adottare e su ulteriori misure difensive. Ehlorn Tay dei Cacciatori Elfi dell'esercito regolare, Kerrin della Guardia Reale e Kobold della Guardia Nera fecero le loro relazioni. Browork espresse il suo parere circa l'efficienza delle strutture complessive delle difese elfe, e Stee Jans fu consultato in merito alle strategie da a-
dottare per controbilanciare la preponderanza numerica delle orde demoniache. Anche Dayn parlò brevemente delle capacità dei Roc e del loro uso nella battaglia aerea. Il tempo trascorse rapidamente, e la notte svanì. Ander era stordito dalla stanchezza, e i suoi pensieri cominciarono a divagare. Fu nel mezzo di una di queste divagazioni che un colpo tremendo lo fece sussultare mentre il portale dell'Alto Consiglio si spalancava; apparve Gael, scarmigliato, accompagnato dalle guardie del Consiglio. Ansimando, il piccolo elfo corse a inginocchiarsi davanti a Ander. «Mio signore!» esclamò, rosso in faccia per l'eccitazione. «Mio signore, il re è sveglio!» Ander lo guardò, stupito. «Sveglio?» Poi balzò in piedi e uscì di corsa dalla stanza. Nel sonno, Eventine Elessedil aveva la sensazione di fluttuare in un'oscurità intessuta di fili di seta che lo avvolgevano come una coperta senza cuciture. A uno a uno sentiva i fili avvilupparlo, plasmarsi su di lui, incollarsi al suo corpo. Il tempo e lo spazio non esistevano più. C'erano solo quell'oscurità e quell'intreccio di fili. Dapprima fu una sensazione calda, piacevole, simile a quella che prova un neonato fra le braccia della madre, dispensiere di benessere e amore. Ma poi l'abbraccio sembrò farsi più stretto, e lui cominciò a soffocare. Disperatamente cercò di liberarsi e scoprì che non poteva. Prese a sprofondare nel buio, a vorticare lentamente, l'involucro diventò un sudario e lui non più una creatura vivente, ma morta. Terrorizzato, si dibatteva nella sua prigione di seta, cercando di strapparne il tessuto, finché, con una lacerazione improvvisa, quello si spaccò e lui fu libero. Aprì gli occhi. La luce lo accecò momentaneamente, aspra e guizzante. A quel bagliore, sbatté le palpebre, disorientato e confuso, sforzandosi di capire dov'era e cosa stava facendo. Poi cominciarono a delinearsi i contorni di una stanza, e riconobbe l'odore delle lampade a olio e il contatto delle lenzuola di cotone e delle coperte di lana avvolte intorno al suo corpo. Tutto quel che era avvenuto negli attimi precedenti il momento in cui era caduto gli ritornò rapidamente alla memoria - un carosello sconnesso e impazzito di immagini: il Confine; Halys Cut e i demoni che attaccavano, emergendo dalla profonda foschia; le file di arcieri e lancieri elfi disposte sotto di lui; le grida di dolore e di morte; le forme scure che si avventava-
no su di lui attraverso una barriera di fuoco azzurro; Allanon, Ander, il luccichio delle armi, poi un colpo improvviso. Si contrasse violentemente sotto le coperte, e si ritrovò in un bagno di sudore. All'improvviso la stanza si delineò davanti ai suoi occhi: era la sua camera da letto nel palazzo di Arborlon e una figura si stava dirigendo verso di lui. «Mio signore?» Era la voce spaventata di Gael e il volto del giovane si chinò sul suo. «Mio signore, ti sei svegliato?» «Che cosa è successo?» borbottò, con una voce impastata e appena riconoscibile. «Sei stato ferito, mio signore... A Halys Cut. Ti hanno colpito qui.» L'Elfo indicò la tempia sinistra del re. «Da allora hai perso conoscenza. Mio signore, eravamo tanto preoccupati...» «Quanto... quanto ho dormito?» l'interruppe Eventine. Allungò una mano per toccarsi la testa e provò una fitta di dolore fino al collo. «Sette giorni, mio signore.» «Sette giorni!» Gael cominciò a indietreggiare. «Ti porterò tuo figlio, mio signore.» La mente di Eventine turbinava. «Mio figlio?» «Il principe Ander, mio signore.» Il giovane schizzò verso la porta. «Ora è in seduta con l'Alto Consiglio. Riposati... Te lo porterò subito.» Eventine rimase a guardarlo mentre spalancava la porta, lo sentì parlare brevemente con qualcuno al di là, poi vide che la porta veniva richiusa, e lui rimase nel silenzio. Cercò di sollevarsi, ma era uno sforzo eccessivo per lui e ricadde sfinito. Ander? Gael aveva detto che Ander era in seduta con l'Alto Consiglio? Dov'era Arion? Il dubbio si insinuò nei suoi pensieri, e subito si scatenò una serie di interrogativi. Cosa stava facendo qui a Arborlon? Che ne era stato dell'esercito elfo? Che esito aveva avuto la difesa della Sarandanon? Di nuovo cercò di sollevarsi e di nuovo ricadde. Fu assalito dalla nausea. Si sentì improvvisamente vecchio, come se tutti i suoi anni di vita fossero stati una malattia che lo aveva logorato. Strinse le mascelle. Oh, se avesse potuto riavere per cinque minuti la forza della sua giovinezza e alzarsi da quel letto! Animato dalla collera e dalla determinazione, si tirò su lentamente contro i cuscini fino a appoggiarvisi, respirando faticosamente. In fondo alla stanza, Manx sollevò la sua testa brizzolata. Il re aprì la bocca per chiamare il vecchio cane pastore alsaziano. Ma improvvisamente gli occhi della bestia incontrarono i suoi, e le parole gli morirono in go-
la. C'era odio in quegli occhi... un odio così freddo che lo colpì come una raffica di gelo. Sbatté le palpebre, incredulo, lottando per respingere il senso di repulsione che lo assalì. Manx? Ma cosa stava pensando? Si sforzò di distogliere lo sguardo, di volgere gli occhi verso le altre zone della stanza, le pareti e gli arazzi e le tende drappeggiate alle finestre. Disperatamente, tentò di ricomporsi, ma senza riuscirvi. Sono solo, pensò all'improvviso, irragionevolmente, e fu invaso dalla paura. Solo! Guardò di nuovo Manx. Gli occhi del cane erano fissi su di lui, velati e nascondevano quel che avevano rivelato prima in maniera tanto evidente. Oppure se l'era immaginato? Osservò la vecchia bestia che si alzava, si voltava e si sdraiava di nuovo. Perché non viene da me, si chiese il re? Perché non viene? Si abbandonò contro i cuscini. Che cosa dico? Si sentiva le parole sussurrargli nella mente e pensò che la follia minacciava di impadronirsi di lui. Leggere l'odio negli occhi di un cane che gli era stato fedele per anni? Vedere in Manx un nemico che potesse danneggiarlo? Che cosa gli era successo? Si sentirono delle voci, fuori nel corridoio. Poi la porta della camera si aprì e Ander attraversò la stanza per abbracciarlo. Il re lo strinse a sé, poi si ritrasse, scrutando il volto turbato del figlio mentre questi si sedeva sulla sponda del letto. «Dimmi cosa è successo» ordinò il re a bassa voce. Poi vide qualcosa guizzare negli occhi di Ander, e sentì un brivido improvviso. Si costrinse a chiedere: «Dov'è Arion?» Ander aprì la bocca per parlare, poi fissò il vecchio in silenzio. Eventine sbiancò in volto. «È morto?» «A Worl Run» rispose Ander con un filo di voce. Sembrò sul punto di cercare qualcosa da aggiungere, poi rinunciò, scuotendo lentamente la testa. Gli occhi di Eventine si riempirono di lacrime e le sue mani tremavano mentre si aggrappava al figlio. «Arion è morto?» Lo disse come se non potesse credervi. Ander annuì, poi guardò altrove. «Anche Kael Pindanon.» Ci fu un momento di silenzio. Il re, sconvolto, si ritrasse. «E la Sarandanon?» «Persa.» Si guardarono senza parlare, padre e figlio, come se condividessero un segreto spaventoso, che non doveva essere espresso con le parole. Poi An-
der si chinò su Eventine, stringendolo a sé. Rimasero abbracciati per lunghi istanti, in silenzio. Quando infine il re parlò, la sua voce era atona, distante. «Parlami di Arion. Non trascurare nulla.» Ander ubbidì. Con calma, riferì come suo fratello era morto, come lo avevano portato via dal Confine, e come lo avevano sepolto al Baen Draw. Poi descrisse tutto quel che era accaduto all'esercito elfo dal primo giorno della battaglia a Halys Cut fino alla lunga marcia di ritorno verso Arborlon. Eventine ascoltava in silenzio. Quando il figlio ebbe finito, rimase a guardare per un istante con occhi vuoti la luce guizzante delle lampade a olio. Poi il suo sguardo si posò su Ander. «Voglio che tu torni all'Alto Consiglio, Ander. Fa' quel che deve essere fatto.» La sua voce si spezzò. Poi proseguì: «Va' pure. Voglio restare solo». Ander lo guardò, perplesso. «Posso chiedere a Gael di venire...» Il re scosse la testa. «No. Non ora. Voglio soltanto...» Si interruppe, trattenendosi, poi strinse forte il braccio del figlio. «Sono... sono fiero di te Ander. So quanto deve essere stato difficile...» Ander annuì, con un nodo alla gola. Prese le mani del padre fra le proprie. «Gael resterà fuori nel corridoio. Potrai chiamarlo appena ne avrai bisogno.» Si alzò e si diresse verso la porta. La sua mano era già sulla maniglia quando Eventine lo chiamò, con una voce stranamente ansiosa. «Porta Manx con te.» Ander si fermò; guardando il vecchio cane, gli lanciò un fischio e uscì con lui. La porta si richiuse silenziosamente alle sue spalle. Di nuovo solo, questa volta veramente solo, il re degli Elfi si abbandonò contro i cuscini, affrontando l'enormità di tutto quanto era accaduto. In poco più di sette giorni il miglior esercito delle Quattro Terre era stato cacciato dal proprio territorio, come un branco di bestiame inseguito dai lupi: cacciato dal Confine, dalla Sarandanon, fino a Arborlon, per combattere la battaglia finale. Nel profondo del suo animo sentì un terribile senso di fallimento. Lui aveva permesso che tutto ciò accadesse. Era lui il responsabile. «Arion» mormorò improvvisamente, ricordando. Le lacrime gli salirono agli occhi e cominciò a piangere. 36
«Eretria!» esclamò Wil a bassa voce, sorpreso e diffidente allo stesso tempo. Ignorando il dolore della ferita, si tirò su, appoggiandosi a un gomito. «Che cosa fai qui?» «Ti sto salvando, a quanto pare» rispose lei, ridendo, con un lampo malizioso negli occhi neri. Il giovane intercettò un improvviso movimento, e scrutò fra le ombre. Due donne nomadi erano affaccendate davanti a un armadio nel retro del carrozzone, lavando stracci rossi del suo sangue in una bacinella piena d'acqua. Istintivamente, si toccò la testa e scoprì che la ferita era bandata. La sfiorò con precauzione e sussultò. «Se fossi in te non lo farei» disse Eretria, scostandogli la mano. «È l'unica parte pulita del tuo corpo.» Il giovane si guardò intorno rapidamente. «Che avete fatto di Amberle?» «Tua sorella?» fece lei, beffarda. «È al sicuro.» «Scusami, ma sono un po' scettico in proposito.» Fece per alzarsi dal letto. «Sta' fermo, Guaritore.» Lo costrinse a sdraiarsi. Abbassò la voce in modo che le donne dietro di lei non potessero sentirla. «Temi forse che voglia vendicarmi per la tua insensata decisione di lasciarmi nel Tirfing? Mi credi così meschina?» Scoppiò a ridere, scuotendo la testa. «Forse ora, se te ne dessi l'opportunità, cambieresti idea. È possibile?» «Assolutamente no. Ora dimmi dov'è Amberle.» «Se avessi inteso far del male a te, Wil Ohmsford - o a lei - vi avrei lasciato in balia degli assassini che vi inseguivano per Grimpen Ward. La ragazza elfa sta bene. La farò portare qui dopo che avremo parlato.» Si voltò verso le due donne. «Andatevene. Lasciateci soli.» Quelle interruppero immediatamente le loro faccende e scomparvero attraverso un'apertura in fondo al carrozzone. Quando se ne furono andate, Eretria si voltò verso il giovane, scrutandolo intensamente. «Bene, ora, cosa devo fare di te, Wil Ohmsford?» Lui respirò a fondo prima di rispondere: «Come mi hai trovato, Eretria?». Lei sorrise. «È stato piuttosto facile. La notizia delle tue grandi virtù terapeutiche si è sparsa per tutto Grimpen Ward dieci minuti dopo che avevi guarito quella grassa ostessa. Credevi forse che un atto così clamoroso sarebbe passato inosservato? Come pensi che ti abbiano trovato quei malviventi?»
«Sapevi anche quello?» «Guaritore, sei un pazzo.» Lo disse con dolcezza, accarezzandogli una guancia. «I nomadi sono i primi a sapere quel che succede nei luoghi in cui si trovano. Se non fosse così, non sopravviverebbero a lungo... una lezione che evidentemente devi ancora imparare. Una volta sparsa la voce della miracolosa guarigione operata da te, qualcuno inevitabilmente avrebbe presto dedotto che un uomo dotato del tuo talento doveva essere sicuramente ricco. L'avidità e l'alcool insieme formano un intruglio micidiale. È una fortuna che tu sia ancora vivo.» «Immagino di sì» ammise lui, mortificato. «Dovevo essere più prudente.» «Già. Fortunatamente per te, ho capito cosa stava succedendo e, dopo aver sentito quello schiamazzo nella taverna, ho convinto Cephelo a darmi il permesso di cercarti. Altrimenti, potresti essere ridotto a brandelli.» «Un pensiero gradevole.» Wil fece una smorfia. Le lanciò una rapida occhiata. «Cephelo sa che sono qui?» «Certo» rispose lei sorridendo, e la luce maliziosa tornò nei suoi occhi. «La cosa ti spaventa?» «Diciamo soltanto che mi preoccupa» riconobbe Wil. «Perché dovrebbe fare qualcosa per me dopo quel che è accaduto nel Tirfing?» Eretria si chinò su di lui, e gli mise le esili braccia brune intorno al collo. «Perché sua figlia è molto convincente, Guaritore... tanto convincente che talvolta riesce persino a influenzare un uomo come Cephelo.» Si strinse nelle spalle. «Inoltre ha avuto il tempo per riflettere su quanto è accaduto nel Tirfing. L'ho convinto, credo, che non era colpa tua... che anzi tu hai salvato la Famiglia.» Wil scosse la testa, dubbioso. «Non mi fido di lui.» «E hai ragione» fece lei. «Ma per questa sera, almeno, non dovrai preoccupartene. Fino a domani mattina non verrà qua a indagare. E allora, in ogni caso, i tuoi inseguitori si saranno stancati di dare la caccia alle ombre, e saranno tornati a ubriacarsi nelle taverne e a cercare fonti più tangibili di guadagno.» Si alzò, scivolò via in un turbinio di seta azzurra, e tornò un attimo dopo con uno straccio umido e una bacinella d'acqua che mise sul pavimento accanto al letto. «Devo ripulirti, Guaritore. Puzzi di sudore e sporcizia, e i tuoi vestiti sono a brandelli.» Si interruppe. «Spogliati e ti laverò.»
Wil scosse la testa. «Mi lavo da solo. Puoi prestarmi degli indumenti nuovi?» Lei annuì, ma non accennò a andarsene. Il giovane arrossì. «Vorrei fare da solo, se non ti dispiace.» Lei ebbe di nuovo quel suo sorriso abbagliante. «Oh, ma mi dispiace.» Lui scosse la testa. «Sei veramente incorreggibile.» «Tu lo sei, per me, Wil Ohmsford. Te l'ho già detto.» Il sorriso svanì, e gli lanciò un'occhiata così sensuale e irresistibile che per un attimo Wil dimenticò ogni altra cosa. Quando Eretria cominciò a chinarsi verso di lui, si costrinse a tirarsi su a sedere. Gli girava la testa, ma si tenne diritto. «Mi porti i vestiti?» Per un istante gli occhi di Eretria diventarono cupi di collera. Poi si alzò, si diresse verso l'armadio, prese alcuni indumenti e glieli portò. «Tieni.» E glieli buttò sul letto. Fece per andarsene, poi improvvisamente si chinò su di lui e gli sfiorò le labbra. «Lavati e vestiti pure da solo» gli disse risentita e se ne andò. Aprì una porta sul retro del carrozzone e scomparve nella notte, chiudendo il chiavistello dall'esterno. Suo malgrado, Wil sorrise. Qualsiasi cosa avesse in mente, non l'avrebbe certo lasciato andar via. Rapidamente si svestì, si lavò e indossò gli indumenti portati da Eretria. Gli andavano bene, anche se erano da nomade e lo facevano sentire un po' a disagio. Aveva appena finito di vestirsi quando la porta si riaprì e Eretria apparve con Amberle. La ragazza elfa indossava pantaloni e una tunica stretta alla vita da una cintura; in testa, aveva un nastro per trattenere i lunghi capelli. Il suo viso, ora pulito, era un po' attonito. Quando vide la testa bendata di Wil, apparve immediatamente preoccupata. «Come stai?» si affrettò a chiedere. «Ho già provveduto ai suoi bisogni» replicò Eretria, liquidando la questione. Indicò il letto di fronte a quello di Wil. «Puoi dormire là. Non cercate di andarvene dal carrozzone questa notte.» Fece a Wil un sorriso d'intesa, poi si voltò e si diresse verso la porta. Quando fu sulla soglia, si girò improvvisamente. «Buonanotte, fratello Wil. Buonanotte, sorella Amberle. Dormite bene.» Con un sorriso beffardo, scivolò via. Si sentì il clic metallico del chiavistello.
Il giovane della Valle e la ragazza elfa trascorsero quella notte nel carrozzone dei nomadi. Era l'alba quando si svegliarono; la luce del mattino filtrò attraverso le fessure nelle persiane delle finestre disperdendo l'oscurità. Wil rimase in silenzio per un po', raccogliendo i suoi pensieri, aspettando che la sua mente si liberasse completamente dal sonno. Un attimo dopo si frugò nella tunica per cercare il sacchetto di cuoio con le Pietre Magiche, controllò che queste fossero al loro posto, poi lo rimise via. Non era mai male essere prudenti, pensò. Era già quasi sceso dal letto quando Amberle gli ordinò di tornare a sdraiarsi; si alzò e gli si avvicinò. Dopo avergli esaminato accuratamente la ferita, gli risistemò la benda. Quando ebbe finito, Wil si tirò su di scatto e la colse di sorpresa con un rapido bacio sulla guancia. Lei arrossì un poco, e sorrise, il volto di bambina raggiante. Poco tempo dopo si sentì il rumore del chiavistello che veniva fatto scorrere e apparve Eretria, con un vassoio con pane, miele, latte e frutta. Braccia e gambe abbronzate spuntavano da un diafano vestito bianco spumeggiante. Rivolse al giovane il suo solito sorriso abbagliante. «Ti sei riposato bene, Wil Ohmsford?» Gli depositò il vassoio in grembo, strizzandogli l'occhio. «Ora Cephelo verrà a parlarti.» Se ne andò senza dire una parola a Amberle. Dopo che Eretria se ne fu andata. Wil lanciò un'occhiata alla ragazza, stringendosi nelle spalle. Il sorriso di Amberle era sforzato. Pochi minuti dopo, apparve Cephelo. Entrò senza bussare, curvando leggermente il corpo alto e magro per varcare la porta. Vestito di nero e avvolto nel mantello verde, era esattamente com'era apparso la prima volta che l'avevano visto sulle rive del Mermidon. Portava il cappello a tesa larga inclinato sulla testa; se lo tolse con fare cerimonioso e un ampio sorriso gli increspò il volto bruno. «Ah, gli Elfi, il Guaritore e sua sorella. Eccoci qua di nuovo.» Si inchinò. «Cerchi sempre il tuo cavallo?» «No, questa volta no» rispose Wil, sorridendo. Il nomade li squadrò dall'alto del suo naso adunco. «Davvero? Vi siete smarriti, allora? Arborlon, se ricordo bene, si trova a nord.» «Siamo stati a Arborlon e siamo ripartiti» rispose il giovane, mettendo di lato il vassoio. «E siete venuti a Grimpen Ward.» «Anche voi, a quanto pare.»
«Già.» L'uomo sedette di fronte ai due. «Per quel che mi riguarda, i miei affari mi portano in molti luoghi in cui altrimenti non andrei. Ma tu, Guaritore, come mai sei venuto a Grimpen Ward? Sicuramente non per la prospettiva di usare la tua arte a beneficio degli abitanti di un villaggio tanto misero.» Wil esitò un istante prima di rispondere. Doveva essere molto cauto con Cephelo. Ormai lo conosceva abbastanza da sapere che se il nomade avesse scoperto di poter sfruttare qualcosa a suo vantaggio, non avrebbe esitato a approfittarne. «Abbiamo delle faccende da sbrigare» rispose infine. Il nomade assunse un'aria perplessa. «A quanto pare non te la cavi molto bene, Guaritore. Ti avrebbero già tagliato la gola se non fosse stato per me.» Wil fu sul punto di scoppiare a ridere. La vecchia volpe! Non avrebbe certo ammesso che era stata Eretria a salvarli. «A quanto pare ti siamo nuovamente debitori» ammise. Cephelo si strinse nelle spalle. «Il giudizio che ho espresso su di te nel Tirfing era affrettato; ho lasciato che la mia sollecitudine per la mia gente avesse la meglio sul buon senso. Me la sono presa con te per quanto è accaduto, mentre avrei dovuto ringraziarti per avermi aiutato. Mi è dispiaciuto. L'averti salvato ora allevia il mio senso di colpa.» «Sono felice di sentirti parlare così.» Ma Wil non credeva a una sola parola di Cephelo. «È stato un momento difficile per me e per mia sorella.» «Difficile?» Il volto abbronzato di Cephelo rivelò un'improvvisa preoccupazione. «Forse c'è qualcos'altro che posso fare per te... qualcosa di utile. Se mi spieghi esattamente qual è il motivo che ti ha portato in questa parte tanto pericolosa del paese...» Ci siamo, pensò Wil. Con la coda dell'occhio, vide Amberle aggrottare la fronte come per metterlo in guardia. «Vorrei tanto che tu fossi in grado di aiutarmi.» Wil fece del suo meglio per sembrare sincero. «Ma temo che non sia possibile. Io ho bisogno di qualcuno che conosca bene la storia di questa valle, le sue caratteristiche, le sue leggende.» Cephelo batté le mani. «Bene, invece potrò esserti di qualche aiuto, forse. Ho percorso la Malaterra diverse volte» dichiarò, sollevando l'indice. «Conosco alcuni suoi segreti.» Forse, pensò Wil, forse no. Lui vuole sapere perché siamo qui.
Il giovane si strinse nelle spalle. «Non mi sembra giusto approfittare ulteriormente della tua ospitalità coinvolgendoti nelle nostre faccende. Mia sorella e io possiamo arrangiarci da soli.» Il volto del nomade era inespressivo. «Perché non mi spieghi per quale motivo sei giunto qui? Lascia che sia io a giudicare la situazione.» Amberle strinse forte il braccio di Wil, ma egli la ignorò, continuando a guardare Cephelo dritto negli occhi. Sapeva che avrebbe dovuto raccontargli qualcosa. «La casa degli Elessedil, che regna sugli Elfi, ha un grave problema.» Abbassò la voce. «La nipote del re è molto malata. La medicina di cui ho bisogno è l'estratto di una radice che si trova soltanto nella Malaterra. È un segreto di cui siamo al corrente soltanto noi... io e mia sorella. Siamo venuti qui alla ricerca di quella radice, poiché se riusciamo a trovarla e a portarla al re elfo, la ricompensa sarà grande.» Sentì che la stretta di Amberle si allentava bruscamente. Non osò guardarla. Cephelo rimase in silenzio un istante prima di rispondere. «Sai in quale punto della Malaterra si può trovare quella radice?» Il giovane annuì. «Vi sono libri, libri antichi di medicina del vecchio mondo che descrivono la radice e dicono dove si trova. Ma è un nome da tempo dimenticato, ormai cancellato dalle mappe di cui si servono ora le razze. Dubito che quel nome significherebbe qualcosa per te.» Il nomade si chinò in avanti. «Dimmelo comunque.» «Cripta» annunciò Wil, scrutando il volto abbronzato dell'altro. «Si chiama Cripta.» Cephelo rifletté un istante, poi scosse la testa. «Hai ragione... quel nome non mi dice niente. Eppure...» Fece una pausa plateale, buttando indietro la testa come se fosse assorto. «C'è qualcuno che potrebbe conoscerlo, qualcuno che conosce i vecchi nomi di questa valle. Penso di poterti portare da lui. Oh, ma Guaritore, la Malaterra è molto pericolosa... lo sai già, dato che certamente hai attraversato una parte delle sue foreste per arrivare a Grimpen Ward. Se dovessimo aiutarti in questa pericolosa ricerca, io e la mia gente correremmo un rischio notevole.» Si strinse nelle spalle, come per scusarsi. «Inoltre, abbiamo altri impegni, altri luoghi dove recarci, altre faccende da sbrigare. Il tempo è prezioso per persone come noi. Certo ti renderai conto che...» «Che cosa vuoi dire?» domandò il giovane a voce bassa.
«Che, senza di me, fallirai nella tua ricerca. Che tu hai bisogno di me; che io, a mia volta, desidero offrirti il mio aiuto. Ma l'aiuto di cui tu hai bisogno non può essere dato senza, diciamo... un'adeguata ricompensa.» Wil annuì lentamente. «Quale ricompensa, Cephelo?» Gli occhi del nomade scintillavano. «Le Pietre che porti con te. Quelle magiche.» Il giovane scosse il capo. «A te non sarebbero di alcuna utilità.» «Davvero? Il loro potere è così misterioso?» Gli occhi di Cephelo erano diventati due fessure. «Non credere di poterti prendere gioco di me. Tu non sei un semplice Guaritore. Questo l'ho capito quasi dal momento in cui ci siamo incontrati. Comunque, non m'interessa quel che sei, ma quel che hai. Tu hai il potere delle Pietre Magiche e io lo voglio.» «La magia che sprigionano è elfa.» Wil si sforzò di restare calmo, sperando disperatamente di non aver perso il controllo della situazione. «Soltanto chi ha sangue elfo può usarle.» «Tu stai mentendo, Guaritore.» La voce del nomade era minacciosa. «Egli dice la verità» interloquì rapidamente Amberle, spaventata. «Se non fosse stato per le Pietre, non avrebbe nemmeno intrapreso questa ricerca. Tu non hai alcun diritto di pretendere che te le ceda.» «Io ho il diritto di pretendere tutto quello che voglio» sbottò Cephelo, gesticolando, come per liquidare la sua obiezione. «In ogni caso, non vi credo.» «Credi quel che ti pare.» La voce di Wil era ferma. «Io non ti darò le Pietre.» I due uomini si fissarono in silenzio per un attimo: il volto del nomade era duro e minaccioso, ma c'era anche la paura nei suoi occhi... una paura evocata dal vivido ricordo del potere racchiuso nelle Pietre Magiche, un potere che Wil Ohmsford aveva esercitato. Con un grande sforzo, si costrinse a sorridere. «Che cosa mi darai allora? Guaritore? Pretendi forse che ti faccia questo servizio per niente? Pretendi forse che rischi le nostre vite e i nostri beni senza alcuna ricompensa? Ci deve essere qualcosa di prezioso che puoi darmi... qualcosa il cui valore sia pari a quello delle Pietre che tanto ostinatamente rifiuti di cedermi. Che cosa allora? Che cosa mi darai?» Wil cercò disperatamente di escogitare qualcosa, ma quel che portava con sé non valeva che pochi soldi. Proprio quando aveva deciso che la situazione era disperata, Cephelo fece schioccare le dita.
«Farò un patto con te, Guaritore. Tu hai detto che il re elfo ti darà una grande ricompensa se gli porterai la medicina che consentirà a sua nipote di guarire. Benissimo. Io farò del mio meglio per aiutarti a scoprire dove si trova quel luogo chiamato Cripta. Ti porterò da qualcuno che forse lo sa. Farò questo e niente di più. In cambio di ciò, tu mi darai la metà della ricompensa che riceverai dal re elfo. Metà. D'accordo?» Wil rifletté un istante. Uno strano baratto, notò. Raramente, per non dire mai, i nomadi davano qualcosa senza prima aver ottenuto qualcos'altro in cambio. Che cosa aveva in mente Cephelo? «Stai dicendo che mi aiuterai a scoprire dove si trova la Cripta...» «Se potrò.» «... ma che non verrai con me a cercarla?» Cephelo si strinse nelle spalle. «Non ho nessuna voglia di rischiare inutilmente la mia vita. Trovare la medicina e portarla alla nipote del re elfo è compito tuo. A me tocca soltanto aiutarti a imboccare la giusta strada.» Si interruppe. «Non credere, però, che una volta partito, ti sarai liberato di me. Ogni tentativo di defraudarmi di quel che mi devi ti costerebbe molto caro.» Il giovane aggrottò la fronte. «Come potrai sapere se riuscirò nella mia impresa, dato che non vieni con me?» Cephelo scoppiò a ridere. «Guaritore, io sono un nomade... lo saprò! Saprò tutto quel che ti accadrà, credimi.» Il suo sorriso era così perfido che per un istante Wil fu certo che quelle parole avessero un sottinteso. Qualcosa non quadrava, lo sentiva. E tuttavia aveva bisogno di aiuto per attraversare la Malaterra... un aiuto che gli consentisse di non usare le Pietre Magiche. Se Cephelo glielo avesse dato, forse gli avrebbe permesso di trovare il Fuoco di Sangue prima che i demoni li scovassero. «Siamo d'accordo?» chiese nuovamente il nomade. Wil scosse la testa. Lo avrebbe messo alla prova. «La metà è troppo. Ti darò un terzo.» «Un terzo!» La faccia di Cephelo si incupì momentaneamente, poi si rilassò. «Benissimo. Io sono un uomo ragionevole. Un terzo.» Era stato tutto troppo facile, pensò Wil. Lanciò un'occhiata a Amberle, leggendo nei verdi occhi di lei la stessa sfiducia che era balenata nei suoi. Ma la ragazza taceva. Lasciava a lui la decisione. «Forza, Elfo» insistette Cephelo. «Non ci penserai tutto il giorno?» Il giovane annuì. «D'accordo. Accetto.»
«Bene.» Il nomade si alzò immediatamente. «Partiamo subito poiché le nostre faccende qui sono terminate. Ma tu resterai nel carrozzone per un po'. Non è proprio il caso che ti faccia rivedere a Grimpen Ward. Una volta che saremo nel cuore della foresta, potrai uscire.» Con un largo sorriso, si tolse il cappello e si congedò. Chiuse piano la porta dietro di sé e fece scorrere il chiavistello. Wil e Amberle rimasero a guardarsi in silenzio. «Io non mi fido di lui» mormorò Amberle. Wil annuì. «Nemmeno io.» Pochi minuti dopo, il carrozzone traballò in avanti e cominciò a muoversi: così proseguiva il loro viaggio attraverso la Malaterra. 37 Il vecchio canticchiava fra sé mentre se ne stava seduto sulla sedia a dondolo di vimini e scrutava le ombre che calavano sulla foresta. Lontano, a ovest, oltre la fitta barriera di alberi entro la quale era racchiusa la radura in cui si trovava, il sole scivolò sotto l'orizzonte e la luce impallidì nel crepuscolo. Per lui, era il momento preferito della giornata, quando il caldo si smorzava nell'ombra della sera, e il tramonto colorava il lontano orizzonte di cremisi e porpora, finché giungeva il blu profondo della notte. Dalla sommità delle alture, dove gli alberi erano meno fitti e lasciavano intravvedere il cielo, la luna e le stelle attraverso un groviglio di tronchi e rami, per un po' giunse un'aria limpida, libera dall'umidità e dalla muffa che la impregnavano per il resto del giorno; le foglie della foresta sussurravano accarezzate da un leggero vento notturno. Per quei pochi istanti, la Malaterra era come un qualsiasi altro paese che un uomo potesse amare e sentire amico. Il vecchio la sentiva spesso così, in questi momenti più che in qualsiasi altra ora del giorno e della notte, ma sempre con lo stesso senso di profonda e incrollabile fedeltà. Pochi condividevano i suoi sentimenti, ma pochi erano anche quelli che conoscevano la valle come la conosceva lui. Oh, era infida... dura, costellata di pericoli e trabocchetti che potevano distruggere un uomo. Nella Malaterra c'erano creature come non se ne trovavano in nessun altro luogo, creature leggendarie di cui si sussurrava intorno a un falò con sguardi atterriti. Lì dominava la morte, una morte che falciava in continuazione, aspra, crudele, decisa. Era una terra di predatori e di vittime, e ogni essere vivente era vittima e predatore al tempo stesso: il vec-
chio aveva visto il meglio e il peggio di ogni cosa nei sessant'anni trascorsi in quella valle. Trasognato, tamburellava le dita sui braccioli della sedia a dondolo. Era arrivato lì sessant'anni prima... gli sembrava quasi impossibile che fosse trascorso tanto tempo. Era stata la sua terra per tutti quegli anni... non semplicemente un luogo qualsiasi con case e persone tutte ammassate insieme, tranquille, sicure e assurdamente squallide, ma un luogo di solitudine e di profondità, di sfida e trascendenza, un luogo in cui pochi si sarebbero avventurati perché soltanto quei pochi che di fatto vi abitavano avrebbero potuto radicarvisi. Gente come lui, pensò, e ora soltanto lui restava di quelli che un tempo erano venuti con lui nella valle. Tutti gli altri erano scomparsi, divorati dalla natura selvaggia, sepolti nella profondità della terra. Naturalmente c'erano quegli stupidi che se ne stavano ammucchiati insieme come cani spaventati nelle malconce capanne di Grimpen Ward, truffandosi e rapinandosi l'un l'altro, e altri stupidi che osavano avventurarsi lì. Ma la valle non era loro, né mai lo sarebbe stata, perché non potevano capirla né mai l'avrebbero capita. Era come se, per il solo fatto di starsene rinchiuso nel ripostiglio di un castello, qualcuno pretendesse di esserne il signore. Pazzo, lo chiamavano... quegli stupidi di Grimpen Ward, perché viveva solo in quella terra selvaggia. Sorrise beffardo fra sé. Quella era la sua particolare pazzia, forse; ma la preferiva alla loro. «Vagabondo» chiamò bruscamente, e l'enorme cane nero disteso ai suoi piedi si svegliò e si alzò, sbadigliando: era una bestia gigantesca che assomigliava allo stesso tempo a un lupo e a un orso, massiccia e irsuta. «Ehi, tu» borbottò il vecchio, e il cane si avvicino, appoggiò la grossa testa sul grembo del padrone, aspettando che gli grattasse le orecchie. Il vecchio lo accontentò. Da qualche parte, fra le ombre sempre più fitte, risuonò un grido, breve e penetrante, che rimase sospeso nel silenzio improvviso come un'eco moribonda, poi si spense. Vagabondo alzò di scatto la testa. Il vecchio annuì. Un grosso gatto della palude. Qualcuno doveva avergli attraversato la strada e ne aveva pagato il prezzo. Il suo sguardo vagava pigro, individuando forme e immagini familiari nella penombra. Dietro di lui c'era la capanna in cui viveva, una costruzione piccola, ma solida, di tronchi e assicelle tenuti insieme con la malta. Appena dietro la capanna c'erano una baracca e un pozzo, un piccolo recinto per il mulo, un banco di lavoro e del legno. Gli piaceva intagliarlo e scolpirlo; gli piaceva al punto che passava gran parte del tempo a plasmare
e a rifinire il legno che prendeva dai grandi alberi intorno alla radura, creando oggetti che si divertiva a guardare: oggetti che non avevano valore per nessun altro all'infuori di lui; ma del resto non gli importava gran che degli altri, così non c'erano problemi. Anche le rare visite che riceveva, erano troppe per i suoi gusti, e faceva in modo da non creare pretesti perché lo si andasse a trovare. Come compagnia gli bastava il cane. E quegli stupidi gatti che vagavano alla ricerca di nuovi posti in cui dormire e di avanzi da mangiare, come se vivessero soltanto di rifiuti. E il mulo, una creatura ottusa ma affidabile. Si stiracchiò e si alzò. Il sole era tramontato e il cielo era rischiarato dalle stelle alla luna. Era ora di preparare qualcosa da mangiare per sé e per il cane. Lanciò una breve occhiata al tripode e alla pentola collocati sopra un piccolo falò davanti a lui. La zuppa di ieri; certo ne era rimasta poca... ma forse sarebbe bastata per un altro pasto. Si diresse verso il fuoco, scuotendo la testa. Era un uomo piccolo, vecchio e curvo, dalla corporatura esile; indossava una camicia malconcia e pantaloni a mezza gamba. La testa calva era cerchiata da una rada frangia di capelli bianchi come neve che scendeva fin sulle mascelle rotonde congiungendosi con una barba macchiata di fuliggine e di segatura. Il vecchio corpo tenace era ricoperto da una pelle abbronzata, raggrinzita, dura come cuoio e gli occhi erano appena visibili attraverso le palpebre gonfie e cascanti. Camminava curvo, con una strana andatura come se, essendosi appena svegliato e ritrovandosi rattrappito per il sonno, cercasse di sgranchirsi i muscoli. Si fermò davanti alla pentola e vi guardò dentro, tentando di decidere come poteva renderne più appetitoso il contenuto. Proprio in quel momento sentì il rumore di cavalli e di un carro: dapprima distante, perso nell'oscurità sulla pista in alto sopra la sua capanna, che si avvicinava esitante verso di lui. Si voltò e rimase a scrutare la notte. Al suo fianco, Vagabondo ringhiò, ostile, e il vecchio gli diede una pacca per tenerlo tranquillo. I minuti scivolavano via e il rumore si avvicinava. Infine, una serie di ombre emerse dal crepuscolo, serpeggiando su per la cresta dell'altura prospiciente la radura: un solo carro trainato da cavalli e seguito da una mezza dozzina di cavalieri. La vista del carro irritò il vecchio. Lo aveva riconosciuto subito, era un carrozzone di nomadi, e apparteneva a quel furfante di Cephelo. Sputò per terra, disgustato, e pensò seriamente di sguinzagliare Vagabondo addosso a quella gentaglia.
Il carro e i cavalieri si arrestarono ai margini della radura. Cephelo smontò e avanzò verso di lui. Quando fu davanti al vecchio, il nomade si tolse il cappello, e lo salutò. «Sono felice di rivederti, Hebel. Buona sera.» «Cosa vuoi, Cephelo?» replicò seccamente l'altro. Cephelo si finse offeso. «Hebel, Hebel, questo non è il modo di salutare qualcuno che ha fatto tanto per te e per il quale tu hai fatto altrettanto. Non è il modo di salutare un uomo che ha condiviso con te le durezze e le sventure della vita umana. Allora?» Il nomade prese la mano del vecchio e la strinse con decisione. Hebel non oppose resistenza né si sottrasse al gesto. «Ah, hai proprio un bell'aspetto» esclamò Cephelo con un sorriso disarmante. «La collina fa bene per i dolori e i guai della vecchiaia, immagino.» «Dolori e guai, eh?» Hebel sputò per terra e arricciò il naso. «Che cosa stai cercando di vendermi, Cephelo... qualche rimedio infallibile per tutti i mali?» Cephelo si voltò a guardare quelli che lo accompagnavano e si strinse nelle spalle con aria di scusa. «Sei molto scortese, Hebel, davvero.» Il vecchio aveva seguito il suo sguardo. «Che ne hai fatto del resto dei tuoi? Se ne sono andati con un altro ladro?» Questa volta il volto del nomade si incupì lievemente. «Li ho mandati avanti. Sono sulla strada principale a est e mi aspettano nel Tirfing. Sono venuto qui con questa gente per una questione di una certa importanza. Possiamo fare quattro chiacchiere?» «Ormai sei qui, no?» fece Hebel. «Parla finché ti pare.» «E possiamo usare il tuo fuoco?» Hebel si strinse nelle spalle. «Non ho abbastanza cibo per tutti... e, anche se l'avessi, non ve lo darei. Magari hai portato qualcosa con te, uhm?» Cephelo uscì in un sospiro drammatico. «Ma certo. Stasera sarai nostro ospite.» Chiamò gli altri. I cavalieri smontarono e cominciarono a occuparsi dei cavalli. Una vecchia, seduta a cassetta con una giovane coppia, scese, prese dal retro del carro provviste e utensili per cucinare e in silenzio si trascinò fino al fuoco. I due seduti accanto a lei esitarono un attimo, poi, sollecitati da Cephelo, si fecero avanti. A loro si unì una ragazza snella, dai capelli corvini, che prima era a cavallo.
Hebel si voltò senza parlare e tornò a sedersi sulla sedia a dondolo. C'era qualcosa di strano nei due che erano scesi dal carro, ma non riusciva a capire di cosa si trattasse. Assomigliavano ai nomadi, eppure, nello stesso tempo, erano diversi da loro. Rimase a osservarli mentre si avvicinavano con Cephelo e la ragazza bruna. Tutti e quattro si sedettero sull'erba intorno a lui... la ragazza dai capelli corvini si strinse al giovane, guardandolo con aria sfrontata. «Mia figlia Eretria.» Cephelo le scoccò un'occhiata irritata mentre la presentava. «Questi due sono Elfi.» «Non sono cieco» sbottò Hebel, comprendendo ora perché gli fossero apparsi tanto diversi dai nomadi. «Che cosa fanno con te?» «Stiamo facendo una ricerca» annunciò il nomade. «Una ricerca?» fece Hebel, sporgendosi in avanti. «Con te?» Guardò il giovane, e la sua vecchia faccia si increspò di rughe. «Tu sembri un tipo in gamba. Perché mai ti sei messo con lui?» «Ha bisogno di una guida per attraversare questa squallida terra» rispose Cephelo al posto di Wil... un po' troppo precipitosamente, pensò Hebel. «Perché mai, Hebel, insisti a vivere in questo posto selvaggio, deserto? Un giorno passerò di qui e troverò le tue ossa, vecchio, e tutto perché ti rifiuti ostinatamente di portare la tua carcassa insignificante in luoghi più sicuri.» «Tanto, non te ne importerebbe un bel niente» grugnì Hebel. «Per un uomo come me, questa valle è sicura come qualsiasi altro posto. La conosco, conosco tutto quel che vi vive, respira e imperversa, so come mantenere le distanze e quando mostrare i denti. Io ti sopravvivrò, nomade... ricorda le mie parole.» Si abbandonò di nuovo sulla sedia a dondolo, mentre l'ombra scura di Vagabondo si sdraiava dietro di lui. «Cosa vuoi da me?» Cephelo si strinse nelle spalle. «Fare quattro chiacchiere, come ho detto.» Hebel uscì in una risata rauca. «Quattro chiacchiere? Forza, Cephelo... cosa vuoi? Non farmi perdere tempo... non me ne resta molto.» «Per me, niente. Per questi giovani Elfi, un po' della conoscenza immagazzinata in quella tua vecchia testa calva. Ho faticato molto per arrivare fin quassù, ma vi sono cause per le quali val la pena di...» Hebel ne aveva sentito abbastanza. «Che cosa state cucinando laggiù?» Si lasciò distrarre dall'odore del cibo che bolliva a fuoco lento nella pentola. «Che cosa c'è dentro?» «Come faccio a saperlo?» sbottò Cephelo, irritato dall'apparente disinteresse del vecchio.
«Carne, credo, carne e verdure.» Si sfregò le mani logorate dal lavoro e dagli anni. «Credo sia meglio mangiare, prima di discutere. Hai un po' di quella tua birra, Cephelo?» Mangiarono stufato, pane fresco, frutta secca e noci, innaffiando il tutto con bicchieri di birra. Non parlarono gran che durante il pasto, anche se si scambiarono parecchie occhiate, e quelle occhiate, per Hebel, furono più rivelatrici di qualsiasi cosa avessero potuto dirgli i suoi visitatori. Gli Elfi, stabilì, erano lì perché non avevano alternative. Stimavano Cephelo e la sua banda non più di quanto li stimasse lui. Cephelo, naturalmente, aveva un suo personale interesse in tutta la faccenda, ma, di qualsiasi cosa si trattasse, l'avrebbe accuratamente tenuta segreta. Era la ragazza dai capelli corvini, la figlia del nomade, che lo disorientava più di tutti. I suoi sguardi all'Elfo rivelavano in parte le sue intenzioni, eppure c'era qualcos'altro che non voleva far trapelare. Il vecchio era sempre più incuriosito. Quando ebbero finito di mangiare e bere, Hebel tirò fuori una lunga pipa, l'accese con un acciarino e una pietra focaia, e esalò un ampio anello di fumo nell'aria notturna. Cephelo tornò all'attacco. «Questo giovane Elfo e sua sorella hanno bisogno di te. Hanno già fatto un lungo viaggio, ma non saranno in grado di proseguire senza il tuo aiuto. Io gli ho detto, naturalmente, che non glielo avresti negato.» Il vecchio sbuffò. Conosceva il gioco. «Non mi piacciono gli Elfi. Si sentono superiori a tutti: guardano dall'alto in basso la gente come me.» Inarcò un sopracciglio. «Non mi piacciono nemmeno i nomadi, come ben sai, anzi mi piacciono ancor meno degli Elfi.» Eretria sorrise, beffarda. «C'è un sacco di gente che non ti piace.» «Chiudi la bocca!» scattò Cephelo, cupo in volto. Eretria tacque e Hebel vide un lampo di collera nei suoi occhi. «Non hai tutti i torti, ragazza» osservò, ridacchiando. Poi guardò Cephelo. «Cosa mi darai se ti accontento, nomade? Mettiamo subito le carte in tavola, se vuoi il mio aiuto.» Cephelo lo guardò, minaccioso. «Non approfittare della mia pazienza, Hebel.» «Ah, ah! Mi taglierai la gola? E allora come potrò aiutarti? Ora rispondimi... cosa mi darai?» «Indumenti, coperte, cuoio, seta... tutto quel che vuoi.» Il nomade liquidò la questione con aria indignata. «Ma non mi manca niente di quella roba» sibilò Hebel.
Cephelo dovette compiere uno sforzo immenso per controllarsi. «Bene, che cosa vuoi allora? Parla, vecchio!» Da dietro la sedia a dondolo, Vagabondo mandò un ringhio minaccioso. Hebel si allungò verso il cane e gli diede una pacca. «Coltelli» rispose. «Una mezza dozzina di buone lame. Un manico d'ascia e cunei. Due dozzine di frecce, legno di frassino e a spigolo acuto. E una pietra da taglio.» Cephelo annuì, tutt'altro che soddisfatto. «Va bene, ladro. Ora dammi qualcosa in cambio di tutta quella roba.» Hebel si strinse nelle spalle. «Che cosa volete sapere?» Cephelo indicò il giovane. «L'Elfo è un Guaritore. Cerca una radice da cui si estrae una medicina rara. I suoi libri dicono che si può trovare qui, nella Malaterra, in un luogo chiamato Cripta.» Seguì un lungo silenzio: il nomade e il vecchio si fissavano negli occhi e gli altri aspettavano. «Ebbene?» fece infine Cephelo, perentorio. «Ebbene che cosa?» scattò il vecchio. «La Cripta? Dov'è?» Hebel sorrise, ambiguo. «Dov'è sempre stata, immagino.» Vide una certa sorpresa negli occhi dell'altro. «Conosco questo nome, Cephelo. Un vecchio nome, dimenticato da tutti, tranne che da me, immagino. Deve essere un luogo dove si trovano delle tombe - catacombe - sotto una montagna.» «Proprio così!» Il giovane era scattato in piedi, rosso in volto. Poi si accorse che tutti lo stavano guardando e si affrettò a sedere di nuovo. «Almeno è così che i libri lo descrivono» aggiunse, imbarazzato. «Ah sì?» Hebel si dondolava, aspirando lunghe boccate di fumo. «E parlano anche della Fossa?» Il giovane scosse la testa e lanciò un'occhiata a Amberle, che fece anche lei un cenno di diniego. Cephelo si era proteso in avanti, vivamente interessato, gli occhi ridotti a due fessure. «Vuoi forse dire che la Cripta si trova nella Fossa, vecchio?» C'era nella voce di Cephelo un'apprensione che non sfuggì a Hebel. Il nomade aveva paura. Hebel ridacchiò. «Proprio nella Fossa. Cerchi ancora la Cripta, nomade?» Il giovane si protese verso di lui. «Dove si trova la Fossa?»
«A sud, a una giornata di cammino» rispose il vecchio. Era ora di porre fine a tutta questa storia assurda. «È una conca cupa e profonda, Elfo... se qualcosa vi cade dentro sparisce e è perso per sempre. Significa morte, Elfo. Niente e nessuno è mai tornato dalla Fossa. Quelle che vi abitano hanno deciso di tenerla così.» Il giovane scosse la testa. «Non capisco.» Eretria borbottò qualcosa a fior di labbra, e il suo sguardo cercò rapidamente Wil. Lei sapeva, pensò Hebel. Quando parlò, la sua voce era un mormorio. «Le Streghe Sorelle, Elfo. Morag e Mallenroh. La Fossa appartiene a loro e a chi è al loro servizio... creature nate dalla stregoneria.» «Ma dove si trova precisamente la Cripta?» insistette il giovane. «Hai parlato di una montagna...» «La Guglia Nera... un picco solitario che si alza sopra la Fossa come un braccio proteso dalla tomba della Morte. Lì si trova la Cripta.» Il vecchio si interruppe, stringendosi nelle spalle. «O almeno così era un tempo. Sono passati molti, molti anni da quando ho visto la Fossa. Scosse la testa. «Nessuno più si avventura da quelle parti.» Il giovane annuì lentamente. «Parlami di queste Streghe Sorelle.» Hebel socchiuse gli occhi. «Morag e Mallenroh... le ultime della loro specie. Un tempo, Elfo, ve n'erano molte... ora sono rimaste soltanto in due. Alcuni dicono che erano le serve del Signore degli Inganni. Altri sostengono che esistessero assai prima che lui venisse. E si racconta che abbiano potere pari a quello dei Druidi.» Allargò le braccia. «Solo loro conoscono la verità... cercale, se lo desideri. La morte di un Elfo, per me, conta assai poco.» Scoppiò a ridere, finché gli mancò il fiato e dovette bere qualche sorsata di birra. La sua figura esile si sporse in avanti mentre guardava il giovane negli occhi. «Sono sorelle, Morag e Mallenroh. Sorelle di sangue. Ma si odiano a morte... per qualche torto subito tempo fa... reale o immaginario non saprei dire, né credo che nessun altro possa saperlo. Si combattono entro la Fossa, Elfo: Morag regna sul lato orientale, Mallenroh su quello occidentale, e ciascuna tenta di distruggere l'altra, ciascuna tenta di impadronirsi delle terre e del potere della sorella. Al centro della Fossa si erge la Guglia Nera... e lì si trova la Cripta.» «Tu l'hai vista?» «Io? No. La Fossa appartiene alle sorelle; e a me basta questa valle.»
Hebel si abbandonò sulla sedia a dondolo, ricordando. «Un tempo, così tanti anni fa che non saprei nemmeno contarli, andavo a caccia lungo i margini della Fossa. Era rischioso, ma avevo deciso che dovevo conoscere tutto il paese in cui avevo deciso di vivere, e che le storie che si raccontavano erano soltanto frottole. Per giorni andai a caccia nell'ombra della Fossa, senza veder nulla. Poi, una notte, mentre dormivo, solo vicino alle braci morenti del mio fuoco da campo, venne da me: Mallenroh, alta, come una creatura di sogno, i lunghi capelli grigi intrecciati di belladonna; il suo volto era quello della Signora Morte. Mi si avvicinò, mi disse che aveva bisogno di parlare con un essere umano, come me. Mi parlò per tutto il resto della notte e mi raccontò di sé e di sua sorella Morag e della loro guerra nella Fossa.» Ora il vecchio era nel ricordo, la voce sommessa e distante. «Il mattino dopo era scomparsa, come se non fosse mai venuta. Non l'ho più rivista, naturalmente. Avrei creduto di aver immaginato tutto, sennonché lei si portò via qualcosa di me... un po' di vita, credo.» Scosse lentamente la testa. «Quasi tutto quel che mi raccontò si è dissolto come frammenti di sogno. Ma ricordo quel che mi disse della Cripta, Elfo. Parlava di catacombe nelle viscere della Guglia Nera, di un luogo di un'altra era, dove un tempo era stata compiuta una strana magia, così antica che nemmeno le sorelle ne conoscevano il significato. Mi disse questo, Mallenroh... questo. Per lo meno, questo è quanto ricordo.» Tacque, ripensando a quel che era stato. Anche dopo tutti quegli anni, il volto di lei era vivido davanti ai suoi occhi come le facce di quelli che gli stavano seduti intorno. Mallenroh! Strano, pensò, che la ricordasse così bene. «Hai buona memoria, Hebel» mormorò il giovane, sfiorando il bracciolo della sedia. Il vecchio guardò l'Elfo, stupito, senza capire. Poi lesse negli occhi dell'altro quel che intendeva fare. Voleva andare là. Voleva andare nella Fossa. D'impulso si sporse verso di lui. «Non andare» sussurrò, scuotendo lentamente la testa. «Non andare.» Il giovane ebbe un sorriso sforzato. «Devo, altrimenti Cephelo non avrà la sua ricompensa.» Il nomade non aprì bocca, il volto abbronzato impassibile. Eretria gli lanciò un'occhiata penetrante, poi si voltò verso l'Elfo. «Guaritore, non farlo» lo supplicò. «Dà retta al vecchio. La Fossa non è posto per te. Cerca la tua medicina altrove.»
L'Elfo scosse la testa. «Non si trova che lì. Ti prego, non insistere, Eretria.» Per un istante, la ragazza sembrò irrigidirsi in tutto il corpo, avvampando sotto l'urto di emozioni che stavano per esplodere. Ma riuscì a controllarsi: si alzò e lo guardò freddamente. «Tu sei pazzo» dichiarò, e se ne andò via a grandi passi. Hebel osservava il giovane; notò che con gli occhi seguiva Eretria allontanarsi. La ragazza elfa rimase immobile, gli strani occhi verdi assorti, nascosti dall'ombra dei lunghi capelli che le ricadevano sul volto di bambina. «È tanto importante questa radice?» chiese il vecchio, stupito, rivolto non solo a Wil, ma anche a Amberle. «Non si può trovarla altrove?» «Lasciali stare» intervenne bruscamente Cephelo, mentre i suoi occhi scuri scivolavano da un volto all'altro. «Tocca a loro decidere e l'hanno fatto.» Hebel aggrottò la fronte. «Hai tanta fretta di mandarli a morire, nomade? Qual è la ricompensa di cui parla l'Elfo?» Cephelo scoppiò a ridere. «È il capriccio del destino a dare e a togliere, vecchio. Un giorno perdi, un altro vinci. L'Elfo e sua sorella devono fare quel che vogliono. Noi non abbiamo nessun diritto di giudicare.» «Noi dobbiamo andare là» mormorò all'improvviso Amberle, parlando per la prima volta da quando si era seduta nell'erba, guardando intensamente il vecchio negli occhi. «Bene, allora.» Cephelo si alzò. «La questione è chiusa. La serata non è ancora finita e abbiamo della buona birra nomade da bere. Dividetela con me, amici miei. Parleremo del tempo passato, anziché cercare di indovinare il futuro. Hebel, ti racconterò cosa hanno fatto recentemente quei pazzi di Grimpen Ward... cose che soltanto uomini con la nostra esperienza possono veramente apprezzare.» Gridò alla vecchia, che si affrettò a portargli una borraccia di birra. Diversi altri nomadi si unirono alla compagnia, e Cephelo riempì generosamente i bicchieri di tutti. Ridendo e scherzando, cominciò a raccontare una serie di storie fantastiche su luoghi che probabilmente non aveva mai visto e su persone che certamente non aveva mai conosciuto. Sfrontato e disinvolto, il nomade chiacchierava, accompagnato dalle risate della sua gente e dal tintinnio dei bicchieri alzati nei brindisi. Hebel ascoltava, perplesso. Cephelo aveva liquidato troppo frettolosamente il suo ammonimento agli Elfi e negato ogni interesse per la ricompensa che gli sarebbe toccata, a quanto pareva, soltanto se il giovane avesse trovato la medicina che cerca-
va e fosse tornato. Già, si era mostrato troppo disinteressato... poiché il nomade sapeva bene quanto lui che nessuno mai tornava dalla Fossa. Si dondolava piano nella sedia di vimini, accarezzando distrattamente la testa irsuta di Vagabondo. Come poteva mettere in guardia l'Elfo? Si domandò. Che cosa poteva dire, oltre a quel che già aveva detto, per scoraggiare quella follia? Forse nulla: il ragazzo sembrava ben deciso. Si chiese allora se avrebbe incontrato Mallenroh, così come era capitato a lui tanti anni prima: pensando a tale eventualità, lo invidiò. Poco tempo dopo, Wil Ohmsford si alzò, lasciando la compagnia dei nomadi gaudenti, e si avvicinò al pozzo sul retro della capanna. Amberle dormiva già avvolta nelle coperte, vicino al fuoco. Evidentemente sfinita dal viaggio di quel giorno e dagli eventi che lo avevano provocato. Wil si sentiva stranamente stordito, anche se aveva bevuto pochissimo. Aveva bisogno di un po' d'acqua fresca, pensò, e poi di una buona dormita. Aveva appena bevuto una lunga sorsata d'acqua dalla tazza di metallo appesa alla catena sopra il pozzo, quando Eretria emerse dalle ombre e fu al suo fianco. «Io non ti capisco. Guaritore» disse bruscamente. Lui mise la tazza nel secchio e sedette sul bordo di pietra del pozzo. Era la prima volta che Eretria gli si avvicinava da quando lo aveva chiamato folle davanti agli altri. «Mi sono data parecchio da fare per salvare la tua vita a Grimpen Ward» proseguì. «Non è stato facile persuadere Cephelo a permettermi di aiutarti... per niente facile. Ma evidentemente i miei sforzi non sono serviti a niente. Avrei dovuto lasciarti nelle mani di quegli assassini, te e quella ragazza elfa che vuoi far passare per tua sorella. Nonostante gli avvertimenti che ti sono stati dati, insisti a andare nella Fossa. Voglio saperne il motivo. C'entra forse Cephelo? Non so quale patto tu abbia fatto con lui, ma nulla di quel che ti ha promesso - anche se fosse tipo da mantenere le sue promesse, cosa di cui dubito - vale il rischio che corri.» «Cephelo non c'entra» rispose a bassa voce Wil. «Se ti ha fatto una qualsiasi minaccia, io mi schiererò con te contro di lui» dichiarò con fermezza la ragazza. «Ti aiuterò.» «Lo so. Ma Cephelo non ha nulla a che fare con la mia decisione.» «E allora perché? Perché devi fare una cosa simile?» Il giovane abbassò gli occhi. «Quella medicina è necessaria per...»
«Non mentirmi!» Eretria si mise a sedere accanto a lui sul bordo del pozzo, gli occhi scintillanti di collera. «Può darsi che Cephelo abbia bevuto quella storia di radici e medicine, ma lui ascolta solo le tue parole, Guaritore, non legge la verità riflessa nei tuoi occhi. Potrai ingannare con le parole, ma mai con gli occhi. Quella ragazza non è tua sorella: ti è stata affidata, e si tratta di una responsabilità alla quale evidentemente tieni molto. Tu non cerchi radici e medicine, ma qualcos'altro. Che cosa cerchi dunque nella Fossa?» Wil alzò lentamente lo sguardo su di lei e l'affrontò. Per un lungo istante la fissò senza rispondere. Eretria si protese d'impulso verso di lui, afferrandogli le mani. «Non ti tradirei mai. Mai.» Lui ebbe un debole sorriso. «Forse questa è l'unica cosa di te in cui credo, Eretria. Ti posso dire soltanto questo. Un pericolo minaccia questa Terra... Anzi tutte le Terre. Soltanto nella Cripta si trova la cosa che può proteggerci da esso. Amberle e io abbiamo il compito di trovarla.» «E allora lascia che venga con te» Lo implorò la ragazza con occhi brucianti. «Portami con te come avresti dovuto fare prima.» Wil sospirò. «Come posso farlo? Hai appena finito di dirmi che sono un pazzo perché voglio andare a tutti i costi nella Fossa. Ora vorresti essere coinvolta in questa follia. No, il tuo posto è fra la tua gente... Almeno per ora. Meglio che tu prosegua verso est, e ti allontani dalle Terre dell'Ovest e da quel che potrà accadere.» «Guaritore, quel diavolo che si finge mio padre intende vendermi non appena avremo raggiunto le grandi città del Sud!» La sua voce era dura, violenta. «Esiste forse un destino peggiore? Portami con te!» «Eretria...» «Stammi bene a sentire. Io conosco questo paese, poiché i nomadi l'hanno percorso da quando sono nata. Potrei darti informazioni utili. E, comunque, se non altro, non ti sarei d'impaccio. So badare a me stessa... meglio di quella ragazza elfa. Io non ti chiedo niente, Guaritore, che tu non mi chiederesti se fossi al mio posto. Tu devi lasciarmi venire!» «Eretria, anche se fossi d'accordo, Cephelo non te lo permetterebbe mai.» «Cephelo lo saprebbe soltanto quando fosse troppo tardi per intraprendere qualcosa.» Proseguì rapidamente, eccitata: «Portami con te, Guaritore. Dimmi di sì».
Fu quasi sul punto di cedere. Era così bella, meravigliosa che, in circostanze normali, sarebbe stato difficile rifiutarle qualcosa. E ora, nei suoi occhi luminosi per l'attesa, c'era una tale disperazione che ne fu commosso. Eretria aveva paura di Cephelo e di quel che avrebbe fatto di lei. Non l'avrebbe supplicato, Wil lo sapeva, ma vi sarebbe giunta vicino pur di persuaderlo a liberarla. Ma la Fossa significava morte, aveva detto il vecchio. Nessuno si avventurava là dentro. Sarebbe stato già abbastanza difficile badare a Amberle, e benché Eretria avesse affermato di saper badare a se stessa, il giovane sapeva che, se le avesse permesso di venire con loro, si sarebbe preoccupato per lei quanto per Amberle. Scosse lentamente la testa. «Non posso, Eretria. Non posso.» Ci fu un lungo silenzio: lei lo fissava, incredula e furibonda, e lo sguardo di eccitazione e di attesa svanì. Lentamente si alzò. «Anche se ti ho salvato la vita, tu non sei disposto a salvare me. Benissimo.» Si scostò da lui, il volto rigato di lacrime. «Due volte mi hai respinto, Wil Ohmsford. Non ci sarà una terza.» Si voltò e fece per andarsene, ma quasi subito si fermò. «Verrà il momento, Guaritore, te lo prometto, in cui rimpiangerai di aver tanto frettolosamente rifiutato di aiutarmi.» Poi scomparve fra le ombre della notte. Il giovane la seguì con lo sguardo. Rimase immobile a lungo, desiderando disperatamente che tutto fosse diverso, che esistesse un modo ragionevole per darle l'aiuto di cui aveva bisogno. Infine si alzò, sempre più stordito, inciampò e cadde addormentato. 38 L'alba spuntò grigia e cupa sulla Malaterra, drappeggiando sopra le foreste ombre che si allargavano come macchie di sangue attraverso la terra scura. Un denso strato di nuvole, sospeso immobile sopra la valle, nascondeva il cielo e nell'aria un sospetto silenzio preannunciava un imminente temporale estivo. In cima al crinale, Cephelo e la sua piccola banda cominciarono a scendere giù dalle colline, seguendo la pista che li avrebbe riportati sulla strada principale, diretti verso la Fossa. I nomadi se ne andarono nell'accampamento di Hebel così come vi erano arrivati: sembravano ombre randagie, i cavalieri che trainavano l'unico carrozzone con Wil e Amberle a bordo, agitando le mani in brevi cenni di saluto al vecchio che
in piedi, silenzioso, davanti alla sua capanna, stava a osservarli. Lentamente s'inoltrarono nell'oscurità della foresta; gli alberi enormi si chiusero intorno a loro finché anche i più tenui raggi di luce furono occultati e non rimase che il sentiero, stretto, buio, cosparso di buche, che affondava nelle profondità della valle. A metà mattino erano di nuovo sulla strada principale e voltarono verso est. La nebbia cominciò a addensarsi sulla valle, filtrando attraverso gli alberi man mano che il caldo aumentava e il freddo notturno si trasformava in vapore. Wil e Amberle se ne stavano in silenzio accanto alla vecchia nomade, pensando a quel che li aspettava. Non avevano più parlato con Hebel, poiché quella notte avevano dormito pesantemente e, appena si erano svegliati, Cephelo aveva fatto tutto il possibile per tenerli lontani dal vecchio. Ora si domandavano che cos'altro avrebbe potuto raccontargli, se ne avesse avuto la possibilità. Mentre riflettevano su questo punto, arrivò Cephelo, a cavallo, tornò indietro verso di loro per parlargli ma il suo sorriso e la sua conversazione sembravano forzati, privi di scopo. Quella mattina tornò da loro diverse volte e sempre si ripeté la stessa scena. Era quasi come se cercasse qualcosa, ma i due giovani non avevano la più pallida idea di cosa avesse in mente. Eretria, invece, stava alla larga da loro, e mentre Amberle era perplessa per l'improvviso cambiamento della ragazza nomade, Wil lo capiva fin troppo bene. Fu verso mezzogiorno che Cephelo diede l'alt a uno stretto crocevia nel cuore della foresta. In lontananza, il tuono rombava sinistro e il vento prese a soffiare in raffiche improvvise che scuotevano gli alberi e sparpagliavano foglie e polvere. Cephelo si affiancò al carrozzone e si fermò accanto a Wil. «E qui ci separiamo, Guaritore» annunciò. Indicò il crocevia. «Tu dovrai proseguire verso sud, lungo il sentiero. È ben segnato, non devi far altro che seguirlo. Dovresti raggiungere i margini della Fossa prima di notte.» Wil fece per parlare, ma il nomade rapidamente alzò una mano. «Ti dico subito che non devi chiedermi di accompagnarti. Non rientra nel nostro patto, e io ho altri impegni che intendo rispettare.» «Stavo per chiederti qualche provvista da portare con noi» lo informò freddamente Wil. Il nomade si strinse nelle spalle. «Per un giorno o due. Non di più.»
Fece un cenno alla vecchia, che rientrò nel carrozzone. Wil si accorse che il nomade si muoveva nervosamente sulla sella. Qualcosa turbava Cephelo. «Come ti troverò per darti la tua parte della ricompensa?» chiese improvvisamente. «Ricompensa? Ah, sì.» Cephelo sembrava essersene dimenticato. «Be', come ti ho già detto, saprò che cosa avrai ricevuto. Verrò a cercarti, Guaritore.» Il giovane annuì, si alzò e scese dal carrozzone, poi si voltò per aiutare Amberle. Le diede una breve occhiata mentre la sollevava per la vita e la metteva a terra. Anche lei era sconcertata dal comportamento del nomade. Si voltò verso Cephelo. «Potresti darci un cavallo? Sarebbe...» Il nomade tagliò corto: «Non abbiamo cavalli in più. Ora credo che fareste meglio a andarvene. Sta arrivando un temporale». La vecchia riapparve e porse a Wil un sacchetto. Il giovane se lo buttò sopra una spalla e la ringraziò. Poi guardò di nuovo il nomade. «Buon viaggio, Cephelo.» L'altro annuì. «Anche a te. Guaritore. Addio.» Wil prese Amberle per un braccio e la guidò attraverso il gruppo dei cavalieri fino al crocevia. Eretria se ne stava in groppa al suo baio, i capelli neri che turbinavano al vento. Quando il giovane le passò vicino, si fermò un istante e la salutò. «Addio, Eretria.» Lei annuì, il volto bruno inespressivo, freddo, bellissimo. Poi, senza una parola, voltò il cavallo per raggiungere Cephelo. Il giovane rimase a guardarla un istante, ma lei non si girò. Wil imboccò il sentiero diretto a sud. Il vento gli soffiava la polvere in faccia, e lui si protesse con una mano, socchiudendo gli occhi. Con Amberle al suo fianco, cominciò a camminare. Hebel trascorse il resto della mattina al suo tavolo da lavoro accanto alla capanna, tutto curvo a scolpire un gatto delle paludi. Mentre lavorava, la sua mente tornava alla sera precedente, agli Elfi e alla loro strana avventura, all'avvertimento che lui aveva dato e che loro avevano ignorato. Non riusciva a capire. Perché si erano rifiutati di prestargli attenzione? Certo era stato abbastanza esplicito nel dire che inoltrarsi nella Fossa significava morte sicura. E certo era stato altrettanto esplicito riguardo al fatto che non si poteva violare impunemente il regno delle Streghe Sorelle. Che cosa al-
lora poteva indurre quei due a avventurarsi in quel luogo soltanto per un'oscura radice? Poi pensò che forse il motivo era un altro. Rifletté ancora e più rifletteva, più gli sembrava plausibile. Dopotutto, non sarebbero stati così stupidi da dire la verità a un uomo come Cephelo; no, quel giovanotto era troppo intelligente per fare una cosa simile. La Cripta giaceva nelle profondità della Guglia Nera; quale radice poteva mai crescere nelle viscere di una montagna dove non arrivava nessun raggio di sole? Ma nella Cripta era avvenuto un incantesimo, gli aveva sussurrato Mallenroh... una magia di un'altra epoca, persa e dimenticata. Forse gli Elfi speravano di riscoprirla? Sopra di lui, il cielo si incupì ancor più mentre il temporale avanzava. L'ululato del vento fra gli alberi si fece stridulo, penetrante. Il vecchio interruppe il suo lavoro e per un attimo alzò gli occhi. Sarebbe stato un temporale violento, pensò. Un altro cattivo segno per quegli Elfi che ne sarebbero stati investiti senza possibilità di ripararsi, perché la pioggia li avrebbe infradiciati prima che raggiungessero la Fossa. Scosse la testa. Sarebbe andato a cercarli, se fosse servito a qualcosa, ma quelli erano così decisi. E tuttavia, non era giusto. Qualsiasi cosa sperassero di trovare nella Cripta, radice o medicina o magia, era meglio che se la scordassero. Tanto, non sarebbero vissuti abbastanza da poterla usare. Ai suoi piedi, Vagabondo sollevò la testa irsuta e fiutò il vento. Poi bruscamente uscì in un ringhio basso, profondo, rabbioso. Hebel gli diede un'occhiata, incuriosito, e si guardò intorno. Sulla radura cadevano le ombre degli alberi, ma niente si muoveva. Vagabondo ringhiò di nuovo e gli si rizzarono i peli sul collo. Hebel si guardò di nuovo intorno, allarmato. C'era qualcosa là fuori, qualcosa nascosto nell'oscurità. Si alzò, prendendo la grossa ascia. A passi lenti, prudenti, si avviò verso gli alberi, con Vagabondo che gli stava vicino, continuando a ringhiare. Ma poi si fermò. Non capì perché si fosse fermato, quando, improvvisamente, sentì qualcosa di freddo scivolargli nel corpo, raggelandolo al punto che riusciva appena a reggersi. Ai suoi piedi, Vagabondo si buttò per terra, gemendo come se l'avessero colpito, scosso dai tremiti. Il vecchio intravide qualcosa in movimento: un'ombra enorme, ammantellata, ma un istante dopo era già scomparsa. Fu assalito da una paura così terribile che non riuscì a liberarsene. Lo stringeva in una morsa crudele, paralizzandolo, e lui restava a fissare disperato la cupa foresta, desiderando con tutta la forza di volontà di cui ancora era capace di potersi voltare e fuggire. L'ascia gli cadde di mano, e finì per terra.
Poi quella sensazione se ne andò, rapidamente com'era venuta. Tutto intorno a lui il vento ululava, e uno scroscio di pioggia lo investì in faccia. Inspirando a fondo, si chinò a raccogliere l'ascia e, con Vagabondo sempre stretto a lui, indietreggiò lentamente finché sentì che le sue gambe sfioravano il banco da lavoro. Allora si fermò, aggrappandosi con una mano al collo del grosso cane per non tremare. Con spaventosa certezza seppe che, nei sessant'anni trascorsi a lottare per sopravvivere ai pericoli della valle, non si era mai trovato così vicino alla morte. Wil e Amberle camminavano da meno di un'ora quando il temporale li investì. Una spruzzata di gocce pesanti che scivolavano fastidiose attraverso il fitto baldacchino degli alberi si trasformò presto in un acquazzone. Raffiche di pioggia si abbattevano sul sentiero, sospinte da un vento d'occidente, e il tuono esplodeva e risuonava attraverso la foresta fradicia. Davanti a loro, il buio sentiero si oscurò ancor di più e rami carichi di pioggia cominciarono a inclinarsi verso di loro come umide liane. Nel giro di pochi minuti si ritrovarono fradici dalla testa ai piedi, non avendo il riparo dei mantelli che i nomadi si erano tenuti col resto dei loro indumenti. Gli abiti leggeri che indossavano presto gli si incollarono addosso. Poiché non potevano far nulla per alleviare i loro disagi, abbassarono la testa e proseguirono. Per diverse ore la pioggia continuò a martellarli, implacabile, tranne che per qualche breve tregua illusoria. I due giovani avanzavano faticosamente, penosamente, grondanti d'acqua, gli stivali incrostati di fango, gli occhi fissi sul sentiero davanti a loro. Quando finalmente la pioggia diminuì e il temporale si spostò verso est, la foresta si riempì di vapore, che si mescolò all'oscurità profonda. Alberi e cespugli rilucevano cupi fra la nebbia, e l'acqua gocciolava rumorosa in quella quiete improvvisa. Sopra di loro, il cielo era sempre rannuvolato e buio; a est rombava il tuono, distante, ma insistente. La nebbia cominciò a addensarsi, e i due viandanti dovettero rallentare l'andatura. Fu allora che il sentiero cominciò a scendere - una leggera inclinazione dapprima appena percettibile, che aumentò gradualmente. I due giovani scivolavano e sbandavano sulla terra fangosa, scrutando speranzosi il buio davanti a loro, benché non si vedesse che il tunnel buio del sentiero e la duplice barriera di alberi. Il silenzio era diventato ancora più intenso. Erano svaniti persino i fievoli suoni degli insetti che cantano quando il temporale è cessato.
Poi, di colpo, come se qualcuno gli avesse tolto un velo dagli occhi, la foresta si aprì, il pendio si fece scosceso, e la grande, cupa conca della Fossa si allargò davanti a loro. Amberle e Wil si fermarono di botto in mezzo al sentiero fangoso, e rimasero a fissare quello spettacolo terrificante. Capirono immediatamente di aver trovato la Fossa; quella conca ricoperta da un mantello fitto di nera foresta non poteva essere altro. Era come se si fossero imbattuti in qualche mostruoso lago morto, immobile e senza vita, la buia superficie ricoperta da uno strato di vegetazione così compatto che si poteva soltanto immaginare cosa nascondesse. Nel centro di quella distesa d'ombre si alzava la Guglia Nera, una roccia solitaria a forma di colonna, nuda e cosparsa di crepacci, che fendeva l'oscurità. La Fossa era tetra come una bara aperta che sussurri di morte. I due giovani rimasero in silenzio ai suoi margini, cercando di soffocare un senso di repulsione che aumentava man mano che scrutavano quell'oscurità silenziosa. Nessuno dei due aveva mai visto un paesaggio più desolato. «Dobbiamo scendere laggiù » disse infine Wil, detestando quella prospettiva. Lei annuì. «Lo so.» Wil si guardò intorno, sperando di trovare un sentiero da seguire. La pista che avevano percorso fin lì sembrava interrompersi bruscamente. Eppure, quando il giovane avanzò un poco, scoprì che non terminava lì, ma che si biforcava serpeggiando verso le ombre in basso. Esitò un istante, studiando i due sentieri, tentando di decidere quale potesse essere più agevole, e infine scelse quello che andava a sinistra. Porse la mano a Amberle e lei la strinse con decisione. Precedendola, cominciò a scendere, sentendosi scivolare mentre la terra e la roccia umide cedevano sotto i suoi piedi. Amberle gli stava vicina, appoggiandosi a lui. Avanzavano con cautela. Poi, bruscamente, Wil perse l'equilibrio e cadde. Anche Amberle cadde, scivolando in avanti attraverso le gambe del giovane, precipitando a capofitto con un grido acuto, nell'oscurità degli alberi. Freneticamente, Wil si diede da fare per raggiungerla, facendosi strada fra pesanti cespugli che gli strappavano i vestiti e gli graffiavano la faccia. Forse non avrebbe più trovato la ragazza se non fosse stato per lo scintillio della seta del suo abbigliamento da nomade, una chiazza di rosso contro il buio. Se ne stava incastrata in mezzo alla boscaglia, quasi senza fiato, la faccia sporca di fango. Lo guardò trepidante, quando la toccò. «Wil?»
L'aiutò a sedersi, stringendola fra le braccia. «Stai bene? Ti sei fatta male?» «No, non credo.» Sorrise. «Sei piuttosto maldestro, lo sai?» Lui annuì, sorridendo per il sollievo. «Ora ti tirerò su.» Le passò un braccio intorno alla vita e la sollevò dai cespugli, rimettendola in piedi; era leggera come una piuma. Immediatamente lei gridò e ricadde a terra, toccandosi la caviglia. «Si è slogata!» Wil la tastò, controllando le ossa. «Non c'è niente di rotto, è soltanto una brutta distorsione.» Sedette accanto a lei. «Possiamo concederci qualche minuto di riposo. Ti aiuterò a scendere il pendio; posso anche portarti, se è necessario.» Lei scosse la testa. «Wil mi dispiace tanto, dovevo essere più prudente.» «Tu? Sono stato io a cadere.» Sorrise, cercando di apparire allegro. «Bene, forse una delle Sorelle Streghe descritte dal vecchio verrà a darci una mano.» «Non è il caso di scherzare» fece Amberle, preoccupata. Si guardò intorno, innervosita. «Penso che sia meglio aspettare fino a domattina prima di scendere ancora. Allora, forse, la mia caviglia sarà migliorata. Inoltre, anche se arrivassimo giù prima dell'alba, dovremmo passarvi la notte, e l'idea non mi attira molto.» Wil annuì. «Sono d'accordo. E poi non credo che sia saggio avventurarsi là di notte. Presto sarà giorno.» «Forse dovremmo tornare indietro, ai margini della Fossa.» Lo guardò speranzosa. Il giovane sorrise. «Credi veramente alla storia del vecchio? Pensi che laggiù vivano delle streghe?» Lei lo guardò intensamente. «E tu?» Lui esitò e poi si strinse nelle spalle. «Non lo so. Forse. Sì, immagino di sì. Ormai tutto mi sembra possibile.» Si chinò lentamente in avanti, cingendosi le ginocchia con le braccia. «Se vi sono delle streghe, spero che abbiano paura delle Pietre Magiche, perché quella è tutta la protezione che ci resta. Naturalmente, se dovrò usare le Pietre per spaventarle, potremo trovarci seriamente nei guai.» «Io non credo» rispose lei, piano. «Tu pensi ancora che io possa usarle, vero... Anche dopo quel che è accaduto al Baluardo?» «Sì. Ma non devi farlo.»
La guardò. «Non è la prima volta che lo dici, ricordi? Dopo quell'episodio nel Tirfing, quando ci siamo accampati vicino al Mermidon, eri preoccupata per me. Hai detto che non dovevo più usare le Pietre, nemmeno per salvarti.» «Ricordo.» «Poi, dopo, quando siamo fuggiti dal Baluardo, ti ho spiegato che non potevo più usare le Pietre, che il loro potere mi sfuggiva, che il mio sangue elfo non era abbastanza forte. Tu mi hai detto che non dovevo scoraggiarmi... che tu avevi fiducia in me.» «Ricordo anche quello.» «Bene. Allora prova a riflettere su quanto ci siamo appena detti. Io penso che dovrei usare le Pietre, ma non credo di riuscirvi. Tu pensi che possa riuscirvi, ma non dovrei farlo. Buffo, no?» Scosse la testa. «E non sappiamo ancora chi di noi abbia ragione, vero? Eccoci qua, quasi alle porte della Cripta, e non ho ancora scoperto...» Si interruppe bruscamente, rendendosi conto di quel che stava dicendo. «Be', non importa» concluse, guardando altrove. «Meglio non scoprirlo mai. Meglio che le restituisca a mio nonno.» Rimasero in silenzio per un attimo. Quasi meccanicamente, Wil si frugò nella tunica e estrasse il sacchetto. Lo tastò distrattamente e stava per rimetterlo a posto quando avvertì qualcosa di strano. Preoccupato, slacciò il cordoncino e fece ricadere il contenuto sulla sua palma aperta. Si ritrovò in mano tre comuni sassolini. «Wil!» esclamò Amberle, inorridita. Il giovane rimase a osservarli in silenzio, attonito, mentre la sua mente lavorava freneticamente. «Cephelo» mormorò alla fine. «Cephelo. In qualche modo è riuscito a sostituire le Pietre con questi. Ieri notte, probabilmente, mentre dormivamo. Certo; ieri mattina, a Grimpen Ward, erano ancora nel sacchetto... Avevo controllato.» Si alzò lentamente, sempre parlando. «Ma questa mattina mi sono dimenticato di farlo. Ieri sera ero così stanco... e tu ti sei addormentata quasi subito. Deve aver drogato la birra per essere sicuro che non mi svegliassi. Ecco perché era così ansioso di liberarsi di noi. Ecco perché ha preso tanto alla leggera quanto diceva Hebel a proposito della Fossa. Sarebbe ben felice se non tornassimo mai. La ricompensa non gli interessava affatto. Era sempre alle Pietre Magiche che pensava.» Prese a risalire il sentiero, livido in volto. Poi bruscamente si ricordò di Amberle. Tornò indietro rapidamente, sollevò la ragazza fra le braccia, te-
nendola stretta a sé e, faticosamente, ritornò ai margini della Fossa. Per un attimo si guardò intorno, poi si diresse verso una macchia di alti cespugli a diversi metri dal pendio. Giunto al riparo dei loro rami, posò Amberle per terra. «Devo tornare a riprendermi le Pietre Magiche» dichiarò, calmo. «Se ti lascio qui, va bene per te?» «Wil, non ne hai bisogno.» Scosse la testa. «Se dobbiamo mettere alla prova questa teoria, preferisco farlo con le Pietre in mio possesso. Hai sentito anche tu quel che ha detto il vecchio a proposito della Fossa. Le Pietre sono tutto quello che ho per proteggerti.» Amberle era pallidissima. «Cephelo ti ucciderà.» «Forse. Forse a quest'ora è già così lontano che non riuscirò nemmeno a raggiungerlo. Ma, Amberle, devo provarci. Se non lo trovo entro l'alba, tornerò qui, te lo prometto. Con o senza le Pietre Magiche, sarò qui per scendere con te nella Fossa.» Lei fu sul punto di ribattere, ma poi si trattenne. Aveva le guance rigate di lacrime. Gli sfiorò il volto. «Io ti voglio bene» mormorò. «Davvero.» Lui la guardò esterrefatto. «Amberle!» «Va'» lo esortò lei, con la voce che si spezzava. «Cephelo si sarà fermato per la notte e, se ti affretti, riuscirai a raggiungerlo. Ma sii prudente, Wil Ohmsford... non farti uccidere stupidamente. Torna, per me.» Si protese verso di lui per baciarlo. «Va'! Presto!» La fissò in silenzio per un istante, poi saltò in piedi. Senza voltarsi a guardare, corse via e pochi secondi dopo era scomparso nella foresta. 39 L'alba dello stesso giorno in cui Wil e Amberle si trovarono a affrontare la scomparsa delle Pietre Magiche, i demoni attaccarono Arborlon. Con un urlo spaventoso che infranse il silenzio e si propagò per tutte le foreste delle pianure, si riversò fuori dal bosco, per tutta la lunghezza della Carolan, una marea di corpi ingobbiti e contorti. Possedute da una frenesia bestiale, le creature delle tenebre emersero dalle ombre ancora dense fra gli alberi e si gettarono nelle acque del Rill Song. Come una macchia immensa che si allargava sull'acqua, riempirono il fiume: corpi grossi e piccoli, lenti e veloci, saltando, strisciando, trascinandosi, ballonzolando e ansi-
mando nella rapida corrente. Alcuni nuotavano, agitandosi e scalciando per raggiungere la riva opposta. Quelli agili e leggeri volavano oppure saltavano sopra l'acqua o la sfioravano. Altri, così enormi che avrebbero potuto camminare sul fondo del fiume, avanzavano goffamente, traballando, tenendo in alto i musi e i grugni. Molti navigavano su rozze barche e zattere, remando, incuranti di ogni pericolo, e afferrandosi a qualsiasi essere o cosa che capitasse loro a tiro, venendo così portati in salvo oppure trascinati verso il fondo da chi non riusciva a aiutarli. Sull'orda demoniaca regnava la follia generata dalla delusione di non aver ancora potuto distruggere l'odiato nemico, distante soltanto qualche centinaio di metri. Questa volta, certamente, l'avrebbero annientato. Ma gli Elfi non si lasciarono prendere dal panico. Benché il numero, le dimensioni e la ferocia dei demoni che si stavano scagliando contro di loro potessero scoraggiare difensori meno risoluti, gli Elfi non si lasciarono impressionare. Quella doveva essere la loro battaglia finale. Era la loro città che difendevano, il cuore della terra che era di loro proprietà da che esistevano le razze. Tutto il resto era stato perduto, dal Rill Song a occidente. Ma gli Elfi erano fermamente decisi a non perdere Arborlon. Meglio combattere e morire qui, fino all'ultimo uomo, donna e bambino, che essere cacciati dal loro paese, vivere come esuli altrove, braccati come bestie dai loro inseguitori. In cima ai bastioni dell'Elfitch, Ander Elessedil osservava la marea demoniaca precipitarsi avanti. Al suo fianco c'era Allanon. Nessuno dei due parlava. Un attimo dopo, Ander alzò gli occhi. In alto, nel cielo limpido dell'alba, era spuntata una piccola macchia, che si ingrandiva man mano che scendeva, volteggiando, finché prese forma. Era Dayn sul suo Roc, Dancer. Planarono lungo le rupi della Carolan per atterrare infine sulla rampa aperta sovrastante Ander e il Druido. Appena smontato, Dayn si precipitò dal principe. «Quanti sono?» chiese subito Ander. Dayn scosse la testa. «Nemmeno i boschi e la nebbia riescono a nasconderli tutti. Quelli che vediamo davanti a noi non sono che una piccola avanguardia.» Ander annuì. Una moltitudine, pensò, tetro. Allanon lo aveva previsto. Si trattenne dal guardare il Druido. «Cercano di circondarci, Dayn?» Il Cavaliere Alato scosse la testa. «Vengono direttamente contro la Carolan... tutti quanti.» Lanciò una breve occhiata ai demoni che si agitavano e arrancavano fra le acque del Rill Song, poi si voltò e si diresse verso i
bastioni. «Lascerò riposare Dancer qualche minuto, poi farò un altro volo. Buona fortuna, principe.» Ander lo udì appena. «Dobbiamo resistere qui» mormorò, quasi fra sé. La battaglia era già cominciata. Sulla riva del fiume, una fila dopo l'altra di archi elfi sibilarono, e nere frecce saettarono verso la massa dei demoni ansanti che riempivano le acque del Rill Song. I dardi rimbalzavano come ramoscelli innocui dai corpi ricoperti di scaglie o di pelli spesse come cuoio, ma alcuni centravano il bersaglio, e le strida delle vittime si alzavano sopra gli urli degli attaccanti. Forme scure si contorcevano e affondavano nelle acque turbinose, travolte dall'ondata successiva di corpi. Frecce infuocate si conficcarono nelle barche, nelle zattere e nei tronchi usati come imbarcazioni, ma per lo più venivano rapidamente spente. Più volte gli arcieri scagliarono ondate di frecce contro l'orda che si riversava dalla foresta nel fiume, ma l'avanzata dei demoni, inarrestabile, anneriva tutta la riva occidentale e le acque del fiume mentre si affannava per raggiungere la barriera difensiva degli Elfi. Poi un grido risuonò in cima alla Carolan, e gli fecero eco delle acclamazioni. Nella penombra dell'alba, gli Elfi si voltarono immediatamente a guardare, con gioia e incredulità negli occhi, un cavaliere, alto, dai capelli grigi. Per tutto l'Elfitch il grido passò di bocca in bocca. Si levò nel mattino lungo tutta la prima linea sul Rill Song, dietro le fortificazioni e le mura, finché diventò un ruggito assordante. «Eventine! Eventine è con noi!» All'istante gli Elfi si trasformarono, animati da una nuova speranza, una nuova fede, una nuova vita. Perché quello era il re che li aveva governati per quasi sessant'anni... una vita intera, per molti. Quello era il re che aveva combattuto il Signore degli Inganni, trionfando su di lui. Quello era il re che li aveva guidati attraverso ogni crisi del loro paese. Ferito a Halys Cut, apparentemente perso, era tornato. Ora nessun nemico, per quanto mostruoso, avrebbe potuto avere la meglio su di loro. Eventine! Eppure c'era qualcosa di strano. Ander lo capì nello stesso istante in cui suo padre smontò da cavallo e si voltò verso di lui. Quello non era l'Eventine dei bei tempi, come lo conosceva il suo popolo. Vide che gli occhi del re erano distanti, come se qualcosa lo separasse da tutto quel che accadeva intorno a lui. Era come se si fosse ripiegato su se stesso, non per paura o ansia - sentimenti che era in grado di controllare - ma per una profonda, sconfinata tristezza che sembrava averne spezzato lo spirito. Come sem-
pre, la maschera del suo volto rifletteva forza, determinazione, una volontà ferrea. Salutò quelli intorno a lui con le vecchie familiari parole di incoraggiamento. Eppure i suoi occhi tradivano la tremenda perdita subita, la disperazione che lo straziava. Suo figlio lesse tutto ciò nel suo sguardo e vide che anche Allanon aveva capito. Era soltanto un fantasma del re, quello che avanzava a cavallo nel mattino per essere vicino al suo popolo. Forse erano state le morti di Arion e Pindanon a ridurlo così; forse la ferita che gli era stata inferta a Halys Cut, la sconfitta del suo esercito, o la terribile devastazione della sua terra; ma più probabilmente era tutto ciò e qualcosa di più: il pensiero del fallimento, la consapevolezza che se gli Elfi avessero perso questa battaglia, avrebbero aperto le porte a una calamità inarrestabile che si sarebbe abbattuta sulle Quattro Terre, investendo e divorando tutte le razze. La responsabilità di ciò sarebbe ricaduta sugli Elfi, e soprattutto su Eventine, perché era il loro re. Ander abbracciò il padre affettuosamente, nascondendo la propria tristezza. Poi indietreggiò e gli porse il ramo dell'Eterea. «Questo appartiene a te, mio signore.» Eventine sembrò esitare per un attimo, poi scosse lentamente la testa. «No, Ander. Ora non più. Dovrai portarlo tu per me.» Ander lo fissò in silenzio. Vide nei suoi occhi quel che gli era sfuggito prima. Suo padre sapeva. Sapeva del proprio profondo malessere, del cambiamento avvenuto in lui. Con gli altri doveva fingere, ma non con suo figlio. Ander ritrasse il braccio. «Allora fatti vedere con me sulle mura, mio signore» chiese piano. Il re annuì, e insieme salirono sui bastioni. Proprio in quel momento, le prime linee dei demoni raggiunsero la sponda orientale del Rill Song. Si riversarono fuori dal fiume, lanciandosi con urli selvaggi contro le lance che si rizzavano da dietro le fortificazioni elfe. Nel giro di pochi minuti, lungo tutta la linea difensiva, emersero dalle acque scure del fiume demoni forniti di corna e artigli, un groviglio di zanne e di arti contorti protesi a dilaniare e a straziare i difensori che gli sbarravano la strada. Al centro, Stee Jans e i suoi soldati superstiti reggevano la difesa, il gigante della Frontiera in testa ai suoi uomini, la spada in pugno. Ai fianchi, Ehlron Tay e Kerrin della Guardia Reale gridavano ai loro soldati: Resistete, Cacciatori elfi, resistete! Ma alla fine non ressero. Accerchiati e soverchiati, videro la loro linea cominciare a sgretolarsi. Demoni enormi si gettarono fra i difensori e apri-
rono varchi nelle basse fortificazioni per lasciar avanzare quelli che seguivano. Le acque del Rill Song erano annerite dal sangue e dai corpi contorti dei demoni; ma, quando uno di loro cadeva, tre ne prendevano il posto: un assalto selvaggio che soltanto truppe altrettanto numerose potevano sperare di arrestare. Dietro i cancelli del secondo livello dell'Elfitch, Ander diede l'ordine di ritirarsi. Rapidamente. gli Elfi e i loro alleati abbandonarono le fortificazioni ormai in rovina lungo il fiume e scivolarono nella foresta seguendo sentieri accuratamente memorizzati per arrivare alla rampa. Un momento prima che i demoni si rendessero conto di quel che stava succedendo, i difensori erano fra le sue mura e i cancelli si chiusero dietro di loro. Immediatamente i demoni si lanciarono al loro inseguimento. Riversandosi attraverso la foresta alla base della barriera rocciosa, si imbatterono nelle centinaia di trabocchetti e di trappole che gli Elfi avevano teso per loro. Per qualche minuto, l'attacco vacillò. Ma dal fiume ne arrivarono altri, spingendosi oltre la zona cosparsa di trappole, e si avventarono contro la rampa dell'Elfitch. Ammassandosi rapidamente, attaccarono. Caricarono su per le mura del primo cancello, accalcandosi l'uno sull'altro finché sommersero le difese del livello inferiore. Gli Elfi furono ricacciati; quasi ancor prima che potessero essere richiusi i cancelli del secondo livello, il primo era caduto. Senza rallentare, i demoni avanzavano, arrampicandosi su per la rampa fino al secondo cancello. Si riversarono lungo le mura e persino sulla parete aspra del dirupo, brulicando nella roccia come insetti. Quei corpi avanzavano con urla fameliche aggrappandosi con gli artigli, o saltando su per il pendio della rampa e per il dirupo. Gli Elfi erano inorriditi. Il fiume non aveva arrestato i demoni. Le difese lungo la sponda erano state travolte nel giro di pochi minuti. Ora il primo livello dell'Elfitch era stato perso e nemmeno la parete scoscesa del dirupo sembrava impedire i mostri. Cominciarono a temere che tutte le loro difese si rivelassero inutili. I demoni si gettarono contro i cancelli della seconda rampa, e cominciarono a arrampicarvisi. Furono scagliate lance che si conficcarono negli aggressori. Ma i cardini dei cancelli cominciarono a cedere sotto la pressione di quella massa. Questa volta, però, i difensori ressero, rinforzando i cancelli con pezzi di ferro e supporti, arginando l'attacco. Urla di dolore e di morte echeggiavano dappertutto, e l'orda dei demoni si trasformò in una massa di forme contorte che si gettavano freneticamente contro le mura della rampa. Dalla moltitudine emersero alcune Furie, forme agili, grigie,
con facce per metà feline e per metà femminili, contorte dall'odio, che saltarono in cima alle mura di pietra. Davanti a loro gli Elfi furono costretti a retrocedere, urlando di paura, dilaniati dai loro artigli. Poi il fuoco azzurro di Allanon esplose fra le Furie, disperdendole. Gli Elfi contrattaccarono, rigettando quelle creature dalle mura finché l'ultima fu ingoiata dalla massa oscura sottostante. Il Druido e gli Elessedil si spostarono al terzo cancello. Da lì rimasero a guardare i demoni raccogliere le forze per lanciarsi nuovamente all'attacco. I difensori elfi ressero ancora; gli arcieri dei livelli superiori coprivano i lancieri di quelli inferiori. Tutt'intorno alla rampa dell'Elfitch, file di demoni stavano aggrappate alla parete rocciosa, cercando lentamente, a fatica, di arrampicarsi verso l'alto. Dalla cima del dirupo, i Genieri Nani puntarono gli archi e scagliarono macigni contro quelle forme scure. I demoni caddero uno dopo l'altro sulle rocce in basso, urlando e contorcendosi. Poi, improvvisamente, un demone mostruoso emerse fra quelli che stavano attaccando i cancelli della seconda rampa: una creatura ricoperta di scaglie che stava eretta come un essere umano, ma aveva il corpo e la testa di una lucertola. Sibilando di rabbia, scagliò la sua mole contro i cancelli, spaccando le traverse e liberando i cardini. Disperati, gli Elfi cercarono di ricacciarla indietro, ma la cosa mostruosa ignorò i colpi e le armi elfe si infransero sul suo corpo corazzato. Si gettò una seconda volta contro i cancelli, che questa volta cedettero, cadendo sugli Elfi. I difensori ripiegarono immediatamente, fuggendo verso il terzo livello dell'Elfitch dove i cancelli erano aperti per accoglierli. Il demone lucertola e i suoi fratelli li seguirono, riversandosi su per la rampa. Per un istante sembrò che gli Elfi non sarebbero riusciti a chiudere i cancelli del terzo livello prima che i demoni vi facessero irruzione. Poi, Stee Jans apparve all'ingresso della rampa, impugnando una lancia enorme. Fiancheggiato da veterani del Libero Battaglione, da Kerrin e da alcuni Cacciatori della Guardia Reale, affrontò i demoni che avanzavano. Dopo essersi accovacciato sulle quattro zampe, la mostruosa lucertola si scagliò contro di lui. Ma l'uomo della Frontiera fu più veloce. Schivando il mostro, gli gettò la grande lancia attraverso le fauci spalancate. Sibilando e soffocando, il demone lucertola arretrò sulle zampe posteriori, con la lancia che gli trapassava la testa. Le zampe artigliate si protesero verso il comandante della Legione, ma gli uomini del Libero Battaglione e gli Elfi si raccolsero intorno a lui, proteggendolo. Pochi secondi dopo, erano al sicuro fra i bastioni, e i cancelli si chiudevano dietro di loro. Per un istante il
demone lucertola rimase al centro della rampa, cercando di strapparsi via la lancia micidiale. Poi la sua vita si spense, e stramazzò fra i suoi fratelli, trascinandoli giù con sé mentre ruzzolava sopra le mura e precipitava in basso, nella foresta. Ringhiando, i demoni si buttarono nuovamente all'attacco. Ma avevano perso slancio. Sparpagliati per tutta la lunghezza dell'Elfitch, non sembravano in grado di attaccare con decisione. Il più grosso di loro era stato ucciso; poiché non poteva essere rimpiazzato, brulicavano incerti fra le mura della rampa inferiore. Rincuorati dal coraggio del Libero Battaglione e della loro Guardia Reale, i difensori elfi li ricacciarono indietro. Un nugolo di frecce e lance piombò sui demoni e centinaia di forme scure crollarono sotto la rampa. Tuttavia continuavano a affannarsi per avanzare, ma ora erano confusi e vulnerabili. Ander decise di approfittarne. Diede il segnale di contrattacco. All'ordine di Kerrin, i cancelli di accesso alla terza rampa furono spalancati e gli Elfi si lanciarono avanti. Caricarono la massa dei demoni, ricacciandoli giù dall'Elfitch, attraverso i cancelli squarciati del secondo livello. Riversandosi giù per la rampa, i difensori respinsero i nemici fino al limite di cancelli inferiori prima che i demoni stringessero le file. Questi tornarono all'attacco, rinforzati dalle migliaia che ancora uscivano dal Rill Song salendo su per il dirupo. Gli Elfi resistettero solo un attimo, poi si ritirarono dietro i cancelli del secondo livello, risistemandoli e rinforzandoli con legno e ferro, e si fermarono lì. La battaglia continuò così per il resto del giorno fino a sera, infuriando su e giù per la rampa, dalla base del dirupo fino ai cancelli del terzo livello: Elfi e demoni si straziavano l'un l'altro in una lotta senza quartiere. Due volte i demoni riconquistarono i cancelli del secondo livello e si spinsero fino a quelli del terzo. Due volte furono ricacciati, una volta addirittura fino alla base del dirupo. Migliaia di Elfi morirono, anche se le perdite erano molto più numerose fra i demoni, poiché essi combattevano senza alcun riguardo per la propria vita, buttandosi allo sbaraglio contro le formazioni accuratamente preparate dei difensori. Ma anche gli Elfi cadevano, morti o feriti, e le loro file cominciavano a assottigliarsi sempre più, mentre l'orda dei demoni sembrava non diminuire mai. Poi bruscamente, inaspettatamente, i demoni interruppero l'attacco. Scesero giù per l'Elfitch, non in una fuga frettolosa, ma lentamente, a malincuore, ringhiando e gracchiando mentre si dissolvevano nella foresta. L'oscurità notturna si riempì di scure figure, ombre accovacciate, immobili e
silenziose come se aspettassero qualcosa. Dietro i cancelli e le mura dell'Elfitch e dall'alto della Carolan, i difensori scrutavano esausti l'oscurità in basso. Non si chiedevano il perché di quello che era successo, ne erano semplicemente sollevati. Per un giorno ancora, almeno, la città di Arborlon era salva. Quella stessa notte, appena due ore dopo che i demoni si erano ritirati nell'oscurità della foresta sotto la Carolan, giunse un messaggero per Eventine e Ander che si erano riuniti in seduta con i ministri nell'Alto Consiglio. Con voce eccitata, annunciò che un esercito di Troll delle Montagne era arrivato dal Kershalt. In gran fretta, il re e suo figlio uscirono dalla sala, seguiti dagli altri, per trovare, schierate nell'intero cortile, file e file di figure massicce come tronchi d'albero, con armature di cuoio e ferro. Spade e lance scintillavano alla luce fumosa delle torce intorno alle truppe, e un mare di occhi incavati fissavano i volti esterrefatti degli Elfi. Il loro comandante si fece avanti, un Troll enorme con una grande bipenne assicurata sul dorso. Dopo aver dato una rapida occhiata agli altri Elfi, si mise davanti al re. «Sono Amantar, Maturen di questo esercito» annunciò, parlando l'aspro dialetto dei Troll. «Siamo in millecinquecento, re Eventine, venuti per combattere al fianco degli Elfi.» Eventine era senza parole. Ormai si erano rassegnati a non ricevere alcun aiuto dai Troll, convinti che la gente del Nord avesse deciso di non lasciarsi coinvolgere in questo conflitto. Ora, trovarseli improvvisamente di fronte. proprio quando sembrava che nessun altro soccorso sarebbe arrivato... Amantar notò lo stupore del re. «Re Eventine. devi sapere che la tua richiesta di aiuto è stata vagliata a lungo» dichiarò con la sua voce di basso. «I Troll e gli Elfi si sono sempre combattuti; siamo stati nemici. Non è facile dimenticarlo. Eppure, per tutti, esiste il momento di un nuovo inizio. Questo momento, per Elfi e Troll, è venuto. Sappiamo dei demoni. Già vi sono stati scontri con alcuni di loro, e abbiamo avuto delle perdite. I Troll delle Montagne si rendono conto del pericolo costituito dai demoni. Essi sono altrettanto pericolosi del Signore degli Inganni e dei Messaggeri del Teschio. Tale calamità minaccia tutti. Perciò è giusto che Elfi e Troll dimentichino le loro divergenze e combattano uniti questo comune nemico. Siamo venuti, i miei uomini e io, per metterci al tuo fianco.»
Era stato un discorso eloquente. Quando lo ebbe terminato, Amantar, con un gesto accuratamente misurato, posò un ginocchio per terra: il suo giuramento di fedeltà secondo la tradizione dei Troll delle Montagne. Dietro di lui, i suoi uomini lo imitarono, inginocchiandosi silenziosi davanti a Eventine. Ander vide gli occhi di suo padre improvvisamente lucidi di lacrime. Per quel solo momento, Eventine tornò dal mondo in cui si era ritirato, e il suo volto espresse speranza e fiero orgoglio. Lentamente posò la mano destra sul cuore, ricambiando il giuramento secondo la tradizione elfa. Amantar si alzò, e i due si strinsero la mano. Ander avrebbe voluto urlare per la gioia. Allanon percorse gli stretti sentieri dei Giardini della Vita sotto un cielo nuvoloso attraverso il quale luna e stelle scivolavano via come creature braccate. Solitaria, silenziosa, la sua sagoma alta si inoltrò nell'oscurità riposante, fragrante delle aiuole e delle siepi, lo sguardo fisso davanti a sé, le braccia raccolte fra le pieghe del lungo mantello nero. La sua faccia dura era nascosta dall'ombra del cappuccio, i tratti scarni sottolineati da un'espressione di ansia e di amara determinazione. Poiché quella notte egli andava a un incontro con la morte. Si diresse verso la base dell'altura circondata da soldati della Guardia Nera. Impaziente, sollevò una mano e scivolò fra loro con la rapidità di un pensiero passeggero, e non lo videro nemmeno. Lentamente, a malincuore, arrivò fino alla sommità della collina, gli occhi abbassati e fissi sul pendio erboso che percorreva. Quando infine fu in cima all'altura, sollevò la testa. Davanti a lui stava l'Eterea, gli arti un tempo snelli e aggraziati ricurvi e avvizziti come le ossa di una cosa morta. Spariti erano il colore e la fragranza; solo un'ombra restava della pianta che un tempo era stata tanto bella. Le foglie rosso sangue giacevano sparse per terra come pezzi di pergamena accartocciata. L'albero si ergeva nudo, inchiodato contro il cielo notturno in un groviglio di rami secchi e di lembi di corteccia. Allanon si sentì gelare. Nemmeno lui era preparato a tanto, non a quello che aveva visto, e a quel che aveva provato nel vedere. Fu sommerso dal dolore per l'inevitabilità di quel che stava accadendo. Non poteva impedirlo, perché persino ai Druidi mancava il dono della vita eterna. Tutte le cose erano destinate a scomparire e per l'Eterea era giunta la sua ultima ora.
Sollevò la mano per toccarle gli arti avvizziti, ma subito la ritrasse. Non voleva sentire il suo dolore. Eppure doveva sapere, e sollevò di nuovo la mano, lentamente allargandola sul tronco. Ve la lasciò solo un istante, cercando di trasmetterle un senso di conforto e di speranza, poi la ritrasse. Un altro giorno o due, forse tre. Non di più. Poi si sarebbe spenta. L'alta figura si raddrizzò, le mani ricaddero inerti mentre gli occhi scuri fissavano l'albero moribondo. C'era così poco tempo. Mentre si voltava, si chiese se sarebbe bastato perché Amberle tornasse. 40 Wil Ohmsford riattraversò a rotta di collo la foresta della Malaterra, seguendo il solco scuro del sentiero che affondava come un tunnel, fra la nebbia e l'oscurità. Mentre correva, rami cascanti e rampicanti fradici di umidità lo sfioravano e schiaffeggiavano, e spruzzi d'acqua si sollevavano dalle pozzanghere che costellavano la pista impregnata di pioggia, infangandolo. Ma il giovane non si accorgeva di niente, la mente sopraffatta da emozioni contrastanti che si intrecciavano, lasciandolo stordito dalla disperazione per la perdita delle Pietre Magiche, in collera con Cephelo, preoccupato per Amberle, e meravigliato per le parole che lei gli aveva detto. Ti voglio bene, gli aveva detto, e era sincera. Era tanto strano sentirle dire quelle parole. Un tempo non l'avrebbe mai creduto possibile. Lei gli aveva mostrato in modo inequivocabile risentimento e sfiducia. E lui non aveva provato molta simpatia per quella ragazza elfa. Ma il lungo viaggio iniziato da Havenstead gli aveva insegnato a conoscersi, e i pericoli e le difficoltà che avevano affrontato e superato insieme li avevano ravvicinati. In quel breve arco di tempo le loro vite si erano inestricabilmente congiunte. Perciò non era poi tanto imprevedibile che da quel vincolo nascesse un certo affetto. Le parole gli pulsarono nella testa, più volte. Ti voglio bene. Era proprio così, lo sapeva, e si chiese all'improvviso quanto bene le volesse lui. Perse l'equilibrio e cadde, precipitando nel fango e nell'umidità. Furibondo si tirò su, si ripulì meglio che poté, e continuò a correre. Il pomeriggio si stava spegnendo troppo rapidamente; sarebbe già stata una fortuna se fosse riuscito a raggiungere la strada principale prima di notte. Poi, si sarebbe ritrovato nell'oscurità assoluta, solo, in una terra sconosciuta, armato soltanto di un coltello da caccia. Stupido! Quello era l'aggettivo più
blando che potesse attribuirsi per quel che aveva fatto: lasciarsi convincere che Cephelo avrebbe dato il suo aiuto in cambio di una vaga promessa. Sei molto furbo, Wil Ohmsford, si rimproverò, bruciando di collera. E Allanon credeva che tu fossi l'unico cui poter affidare Amberle! La fatica della corsa cominciava già a procurargli dei crampi ai muscoli. La disperazione lo sommerse per un attimo al pensiero di tutto quel che avevano sopportato lui e Amberle soltanto per dover affrontare la prospettiva di un insuccesso causato dall'imprudenza. Sette Cacciatori elfi avevano dato la loro vita perché lui e Amberle raggiungessero la Malaterra. Chissà quanti altri erano già morti per difendere le Terre dell'Ovest dai demoni, poiché certamente, ormai, il Divieto era crollato. Tutto ciò, dunque, non sarebbe servito a niente? Soltanto per arrivare a questa situazione disperata? Fu assalito dalla vergogna e poi da una feroce risolutezza che cancellò la disperazione. Non si sarebbe mai arreso... mai! Avrebbe ricuperato le Pietre Magiche. Sarebbe tornato da Amberle. L'avrebbe portata fino alla Guglia Nera, fino al Fuoco di Sangue e poi di nuovo a Arborlon. Avrebbe fatto tutto ciò perché sapeva che era suo dovere farlo, perché, se non lo avesse fatto, avrebbe tradito... non soltanto Allanon e gli Elfi, ma anche se stesso. E questo non l'avrebbe permesso mai. Aveva appena formulato quel pensiero, quando un'ombra emerse davanti a lui sulla pista, materializzandosi dall'oscurità come uno spettro, aspettandolo, alta e silenziosa. Il giovane si fermò di botto, talmente spaventato che per poco non fuggì nella foresta. Ansimando penosamente, rimase a fissare l'ombra, comprendendo improvvisamente che si trattava di un cavaliere. Il cavallo scalpitò. Wil avanzò cauto; il sospetto si trasformò in incredulità e infine nel più assoluto stupore. Era Eretria. «Sorpreso?» La sua voce era fredda, distante. «Altro che» ammise lui. «Sono venuta per salvarti un'ultima volta, Wil Ohmsford. Ora, credo, mi presterai più attenzione.» Wil si fermò davanti a lei. «Cephelo ha rubato le Pietre.» «Lo so. Ha drogato il tuo vino, poi te le ha prese ieri notte mentre dormivi.» «E non hai fatto nulla per avvertirmi?» «Avvertirti?» Scosse lentamente la testa. «L'avrei fatto, Guaritore. Ti avrei aiutato. Ma tu mi hai respinto... ricordi? Ti ho chiesto soltanto di portarmi con te. Se tu avessi accettato, ti avrei detto che Cephelo intende-
va impadronirsi delle Pietre Magiche e avrei fatto in modo che non ti venissero sottratte. Ma tu mi hai respinto, Guaritore. Mi hai abbandonata. Hai pensato di potertela cavare anche senza di me. Benissimo, ho deciso, vedremo come se la cava il Guaritore senza di me.» Si chinò per esaminarlo. «Non sembra che te la passi molto bene.» Wil annuì lentamente. e intanto rifletteva: non era il momento più propizio per lasciarsi sfuggire qualche idiozia. «Amberle si è fatta male. È caduta, si è slogata una caviglia e non può camminare da sola. Ho dovuto lasciarla ai margini della Fossa.» «Sembri molto bravo a lasciare le donne in difficoltà» scattò Eretria. Lui fu sul punto di reagire, ma si trattenne. «Immagino che debba sembrare così. Ma talvolta, quando si tratta di aiutare gli altri, non si può fare sempre quel che si vuole.» «Dunque, è così che la pensi. Immagino che tu ne sia convinto. Hai lasciato la ragazza elfa, allora?» «Solo per ricuperare le Pietre.» «Una cosa che non ti riuscirà senza di me.» «Ma che farò, con o senza di te.» La nomade lo fissò un istante, e il suo volto si addolcì. «Immagino che tu sia convinto anche di questo, vero?» Wil accarezzò il fianco del cavallo. «Sei qui per aiutarmi, Eretria?» Lei lo osservò in silenzio per un istante, poi annuì. «Se anche tu mi aiuterai. Questa volta devi farlo, lo sai.» Poiché lui taceva, lei proseguì. «Facciamo un patto, Wil Ohmsford. Io ti aiuterò a ricuperare le Pietre se tu acconsenti a portarmi con te dopo che saranno tornate in tuo possesso.» «Come riuscirai a riprenderle?» chiese lui, prudente. Per la prima volta, lei ebbe quel familiare, abbagliante sorriso che toglieva il fiato. «Come ci riuscirò? Guaritore, io sono una nomade e per di più figlia di un ladro... il quale mi ha comperata. Cephelo te le ha rubate; io le ruberò a lui. Conosco il mestiere meglio di lui. Non ci resta altro da fare che trovarlo.» «Non si sarà già chiesto dove sei finita?» Scosse la testa. «Quando ci siamo separati da te, gli ho detto che desideravo andare avanti per raggiungere la carovana. Lui non si è opposto, perché i nomadi conoscono bene i sentieri della Malaterra, e sarei uscita dalla valle prima di notte. Come ben sai, Guaritore, tiene molto alla mia salute. Le merci danneggiate rendono poco. In ogni caso, non ho fatto che un chilometro oltre la Collina Sibilante, poi ho imboccato una seconda pista che
taglia verso sud e si unisce a questa diverse centinaia di metri dopo. Pensavo di raggiungerti prima di notte, o alla Fossa oppure quando fossi tornato da questa parte, dopo aver scoperto di aver perso le Pietre. Così, capisci, Cephelo non saprà quel che ho fatto finché non si sarà riunito alla carovana. Il carrozzone procede lento, perciò non la raggiungerà prima di domani mattina. Questa notte, si accamperà vicino alla strada che esce dalla valle.» «Perciò dobbiamo agire subito per recuperare le Pietre» concluse Wil. «Il tempo è più che sufficiente» rispose lei. «Ma non lo sarà più se continuiamo a sprecarlo in chiacchiere. Inoltre, non vorrai lasciare a lungo quella ragazza sola ai margini della Fossa, vero?» Il pensiero di Amberle lo scosse «No. Partiamo subito.» «Un momento.» Eretria fece indietreggiare il cavallo. «Prima, dammi la tua parola. Una volta che io ti avrò aiutato, tu aiuterai me. Tu mi porterai con te dopo che avremo ricuperato le Pietre. Mi permetterai di restare con te finché sarò sufficientemente lontana da Cephelo... e allora deciderò io cosa fare. Promettimelo. Guaritore.» Non aveva alternative, se non cercare di rubarle il cavallo, e non era affatto sicuro di riuscirvi. «Benissimo. Lo prometto.» Lei annuì. «Bene. Per essere certa che tu mantenga la promessa, io terrò le Pietre. dopo che le riavremo, finché non saremo entrambi usciti da questa valle. Monta a cavallo dietro di me.» Wil ubbidì in silenzio. Non poteva certo lasciarle le Pietre, una volta che lei le avesse riprese da Cephelo, ma era inutile discutere ora. Si sistemò dietro la ragazza, e lei si voltò a guardarlo. «Tu non meriti quel che sto facendo per te... e lo sai. Ma mi piaci; mi piace il tuo modo di affrontare la vita... tanto più se posso aiutarti. Mettimi le mani intorno alla cintura.» Wil esitò, poi ubbidì. Eretria si abbandonò contro di lui. «Ora va meglio» mormorò con fare seducente. «Ti preferisco così; non mi piace come ti comporti quando c'è la ragazza elfa. Ora tienti stretto.» Con un urlo improvviso, puntò gli stivali contro i fianchi del cavallo. La bestia. sorpresa, si impennò nitrendo, poi schizzò via sul sentiero. Correvano nella foresta, tutti e due chini sul collo del cavallo e i rami degli alberi li schiaffeggiavano mentre volavano nell'oscurità. Eretria aveva una vista da gatto, e guidava il suo baio con mano sicura e esperta, facendogli superare tronchi e cumuli di rami secchi, buche e solchi formati dalla
pioggia improvvisa, giù per il pendio fangoso e su per un altro. Wil si teneva disperatamente aggrappato, chiedendosi se la ragazza fosse impazzita. A quell'andatura, sarebbero certamente caduti. Ma, stranamente, non fu così. Pochi secondi dopo, Eretria fece deviare il cavallo dalla pista attraverso uno stretto varco fra gli alberi quasi completamente coperto di cespugli. Con un balzo, il cavallo lo superò, poi proseguì al galoppo lungo una seconda pista - che era passata completamente inosservata a Wil durante il viaggio verso la Fossa - nell'oscurità nebbiosa. Continuarono così, Wil e Eretria, rallentando appena davanti agli ostacoli che sbarravano la strada, correndo fra ombre sempre più fitte. La debole luce cominciò a spegnersi col crepuscolo. Il sole, invisibile sopra l'immenso baldacchino della foresta, si abbassò sull'orlo delle montagne. Le ombre si approfondirono, l'aria si raffreddò, ma Eretria non rallentava. Quando infine si fermarono, erano di nuovo sulla strada principale. Eretria arrestò bruscamente il cavallo, accarezzò i fianchi sudati della bestia e si girò a guardare Wil con un sorriso birichino. «Questa è stata soltanto una dimostrazione di come io sia in grado di badare a me stessa. Non ho nessun bisogno di essere protetta da te.» Wil sentì che la stretta allo stomaco cominciava a attenuarsi. «Mi hai convinto, Eretria. Perché ci siamo fermati qua?» «Tanto per dare un'occhiata» rispose lei, e smontò. I suoi occhi scrutarono la pista alcuni istanti; poi, aggrottò la fronte. «È strano. Non ci sono le tracce del carrozzone.» Anche Wil smontò e le si avvicinò. «Sei sicura?» Esaminò la pista, senza trovare alcun segno di ruote. «Forse la pioggia le ha cancellate.» «Il carrozzone era così pesante che la pioggia non poteva cancellare ogni traccia del suo passaggio.» Scosse lentamente la testa. «Inoltre, quando è arrivato qui, la pioggia doveva quasi essere finita. Non capisco, Guaritore.» La luce era sempre più pallida. Wil si guardò intorno, con apprensione. «Pensi forse che Cephelo si sia fermato per aspettare la fine del temporale?» «Forse.» Appariva dubbiosa. «Forse ci conviene tornare indietro un poco. Monta.» Risalirono a cavallo e cominciarono a dirigersi verso occidente, guardando di tanto in tanto la terra infangata alla ricerca di qualche traccia del carrozzone nomade. Ma non ce n'era. Eretria fece procedere il cavallo a un trotto lento. Davanti a loro, la nebbia saliva da entrambi i lati, sottili nastri
e riccioli che scivolavano come tentacoli attraverso l'oscurità. Dal cuore della foresta, giunsero i suoni della notte, mentre le creature della valle si svegliavano e cominciavano la loro caccia. Poi, da qualche punto davanti a loro, giunse un altro rumore, indugiando dapprima come una debole eco fra i suoni più acuti, e brevi, e facendosi via via più forte e insistente. Si intensificò fino a diventare un ululato, penetrante e irreale, come se, a qualche anima torturata, fosse stata inflitta una pena tale da superare ogni limite di tolleranza e, prima della morte, non restasse che quell'ultimo, terribile grido di agonia. Allarmato, Wil afferrò Eretria per una spalla. «Che cos'è?» Lei si voltò a guardarlo. «La Collina Sibilante... proprio qua davanti.» Sorrise nervosamente. «Il vento talvolta fa quel suono.» Diventò più forte, aspro, selvaggio; il terreno cominciò a salire in un pendio roccioso che li portò sopra lo strato di nebbia, dove, fra le cime degli alberi, si intravedevano lembi di cielo notturno. Il rumore aveva cominciato a innervosire il cavallo, che sbuffava, agitandosi mentre Eretria cercava di calmarlo. Ora avanzavano più lentamente, con difficoltà, attraverso il crepuscolo finché furono in cima all'altura. Al di là, la strada tornava diritta e scompariva nell'oscurità. Allora Wil vide qualcosa, un'ombra che si dirigeva verso di loro, materializzarsi dall'ululato del vento e dalla notte. Anche Eretria la vide e frenò bruscamente. L'ombra si avvicinava. Era un grosso sauro, con le redini che strisciavano per terra. Si avvicinò lentamente, e strofinò il muso contro il loro cavallo. Wil e Eretria lo riconobbero subito. Era il sauro di Cephelo. Eretria smontò, e diede le redini del suo cavallo a Wil. Senza parlare, esaminò il sauro, girandogli rapida intorno, accarezzandogli i fianchi e abbracciandolo per calmarlo. La bestia non aveva nessun segno, ma era tutta ricoperta di sudore. Quando Eretria guardò di nuovo Wil, il suo volto bruno era perplesso. «È successo qualcosa. Il suo cavallo non si sarebbe mai allontanato.» Il giovane annuì. Cominciava a avere un brutto presentimento. Eretria montò in groppa al sauro di Cephelo e prese le redini. «Andremo avanti ancora un poco» decise, ma la sua voce era dubbiosa. Fianco a fianco, avanzarono lungo la sommità dell'altura, col vento che sibilava sinistramente attraverso le rupi e gli alberi della foresta. In alto cominciarono a palpitare le stelle, una pallida luce bianca sopra le tenebre della Malaterra.
Poi qualcos'altro emerse dall'oscurità, un'altra ombra, nera, squadrata e immobile sulla pista. I due giovani rallentarono, procedendo con cautela, tutti e due turbati. Gradualmente l'ombra cominciò a delinearsi. Era il carrozzone di Cephelo: la luce delle stelle ne rivelava i colori sgargianti. Si avvicinarono e il turbamento si mutò in orrore. I cavalli che avevano trainato il carro erano morti, dilaniati e contorti, ancora imprigionati nei loro finimenti di cuoio e argento. Diversi altri animali erano ridotti così e i loro cavalieri erano sparsi sulla strada come spaventapasseri, straziati, devastati, gli abiti dai colori vivaci macchiati di sangue che filtrava dal tessuto mescolandosi con la terra infangata. Rapidamente Wil si guardò intorno, scrutando le ombre della foresta, cercando qualche traccia della cosa che aveva fatto il massacro. Nulla si muoveva. Guardò Eretria. Lei sedeva rigida sul cavallo, bianca come una morta mentre fissava i corpi sparpagliati sulla strada. Lentamente le mani le caddero in grembo, e lasciò andare le redini. Wil smontò, raccolse le redini e cercò di ridargliele. Poiché Eretria non si mosse, le prese le mani, le mise fra le dita le redini di entrambi i cavalli e poi gliele fece richiudere. Lei lo guardò senza parlare, inorridita. «Resta qui» le ordinò lui. Si avviò verso il carro, esaminando i corpi contorti intorno a lui. Tutti, anche la vecchia che stava a cassetta, erano morti, frantumati come rami. Il giovane si sentì venire la pelle d'oca. Sapeva chi aveva fatto tutto ciò. Li guardò a uno a uno finché trovò Cephelo, anche lui morto, steso per terra, il mantello verde a brandelli, i lineamenti angolosi raggelati per l'orrore. Il suo corpo era così devastato che era quasi impossibile riconoscerlo. Wil si chinò. Lentamente frugò gli indumenti del nomade, in cerca delle Pietre Magiche. Non trovò nulla. La paura gli strinse lo stomaco in una morsa. Doveva trovare le Pietre. Poi notò le mani di Cephelo. La destra era conficcata nella terra in un gesto che evocava un'agonia insopportabile. La sinistra era gettata di lato e stretta a pugno. Il giovane inspirò a fondo e si chinò sulla mano sinistra. Dovette aprire le dita irrigidite a una a una. Quando fece capolino la luce azzurra, provò un immenso sollievo. Le Pietre Magiche erano incastrate nella palma della mano. Cephelo aveva cercato di usarle come aveva fatto Wil nel Tirfing, ma le Pietre non avevano risposto al nomade, che era morto stringendole in pugno. Il giovane le strappò dalla mano irrigidita, le ripulì sulla sua tunica e le fece cadere nel sacchetto di cuoio. Poi si alzò, ascoltando il sibilo del vento attraverso la collina. Fu sconvolto da un'ondata di nausea e vertigine
mentre l'odore di morte lo assaliva. Una cosa sola poteva aver fatto un simile massacro. Ricordò gli Elfi morti a Boschi Grigi e nella fortezza del Baluardo. Una cosa sola. Il Mietitore. Ma come era riuscito a scovarli di nuovo? Come era riuscito a seguirli dal Baluardo nella Malaterra? Cercò di calmarsi e si affrettò a tornare da Eretria. Era sempre a cavallo, gli occhi scuri che bruciavano di paura. «L'hai visto?» mormorò. «Cephelo?» Wil annuì. «È morto. Sono tutti morti.» Si interruppe. «Ho ritrovato le Pietre.» Lei sembrò non averlo udito. «Che tipo di cosa può aver fatto tutto ciò, Guaritore? Un animale, forse? O le Sorelle Streghe, o...?» «No» rispose subito lui, scuotendo la testa. «No, Eretria. Io so chi è l'assassino. La cosa che li ha massacrati tutti ha braccato me e Amberle fin da Arborlon. Credevo che avesse perso le nostre tracce, una volta giunti sull'altro versante dello Sperone Roccioso, ma è riuscita a ritrovarci.» «È un demone?» chiese con voce tremante. «Un tipo particolare di demone.» Si voltò a guardare la pista cosparsa di morti. «Lo chiamano il Mietitore.» Rifletté un attimo. «Deve aver creduto che viaggiassimo con Cephelo. Forse la pioggia l'ha confuso. L'ha seguito e assalito qui...» «Povero Cephelo» mormorò lei. «Ha voluto strafare.» Si interruppe e lo guardò dritto negli occhi. «Guaritore, questa cosa ora sa che tu non sei venuto a est con Cephelo. Dove andrà adesso?» I due si guardarono in silenzio. Entrambi conoscevano la risposta. Ai margini della Fossa. Amberle se ne stava rannicchiata al riparo dei cespugli dove l'aveva nascosta Wil, e ascoltava i suoni della notte. Il buio era calato sulla Malaterra come un sudario, profondo e impenetrabile, e la giovane si sentiva prigioniera dentro di esso, non riuscendo a vedere al di là degli arbusti, sentendo aggirarsi le creature intorno a lei. Poiché Wil non sarebbe tornato prima dell'alba, per un po' si forzò di dormire. Ma non ci riusciva; la caviglia le faceva male, e la sua mente era assillata da pensieri: il giovane della Valle e la sua missione, Eventine, i pericoli in agguato tutto intorno a lei. Alla fine vi rinunciò. Con le ginocchia tirate verso il petto, si rannicchiò, decisa a fondersi il più possibile con la foresta circostante, immobile, invisibile. Per un po' vi riuscì. Nessuna delle creature si avventurò vicino a lei, restando fra i boschi profondi, lontano dai margini della Fossa. Questa era
avviluppata in un silenzio così profondo che la giovane poteva sentirlo, così come sentiva i suoni della notte. Una o due volte qualcosa volò sopra il suo riparo; un battito veloce di ali interruppe brevemente il silenzio, poi svanì di nuovo. Il tempo scivolava via, e lei cominciò a vacillare, assonnata. Ma poi improvvisamente fu assalita dal gelo, come se ogni traccia di calore fosse stata risucchiata dall'aria. Si svegliò e si strofinò energicamente le braccia. Il gelo se ne andò e ritornò il caldo della notte estiva. Disorientata, ora, si guardò intorno. Tutto era come prima, l'oscurità immobile, silenziosa. Inspirò a fondo e chiuse di nuovo gli occhi. Il gelo tornò. Questa volta aspettò, prima di muoversi, tenendo gli occhi ben chiusi, tentando di individuarne l'origine. Scoprì che arrivava da qualche punto dentro di lei. Non capiva. Un freddo intenso, agghiacciante, che si faceva strada in lei, intirizzendola come la mano della... morte. Spalancò gli occhi. Immediatamente capì. La stavano avvertendo - non capiva come - che qualcosa voleva ucciderla. Chiunque al suo posto avrebbe ignorato l'allarme, scambiandolo per frutto della propria immaginazione. Ma lei era una sensitiva; conosceva tali sensazioni e sapeva bene che non si doveva ignorarle. L'avvertimento era reale. Era soltanto la sua origine che la disorientava. Si chinò in avanti, momentaneamente perplessa. Qualcosa stava venendo verso di lei, qualcosa di mostruoso, qualcosa che l'avrebbe distrutta. Lei non poteva eluderlo, né resistergli. Ma solo fuggire. Ignorando il dolore alla caviglia, scivolò via dal riparo dei cespugli, poi si accovacciò, e scrutò il buio della foresta. La cosa che la braccava era vicina; ne avvertiva chiaramente la presenza, ora, mentre avanzava silenziosa nella notte. Pensò improvvisamente a Wil, desiderando disperatamente che fosse lì con lei a aiutarla. Ma Wil non c'era. Doveva mettersi in salvo, subito. C'era un solo luogo dove potesse andare, un luogo dove la cosa non poteva seguirla... la Fossa. Vacillando, arrivò ai margini e cominciò a scendere in quel buio impenetrabile. La paura l'assalì. La Fossa la spaventava quanto la cosa che la inseguiva. Cercò di calmarsi; gli occhi verdi scrutarono l'oscurità finché individuarono la torre della Guglia Nera. Era lì che doveva andare. Era lì che Wil l'avrebbe cercata. Trovò un sentiero che scendeva e cominciò a seguirlo, avanzando con prudenza fra le ombre. Nel giro di pochi minuti fu avviluppata dalle tenebre, poiché gli alberi non lasciavano filtrare la luce della luna e delle stel-
le. Il suo viso di bambina assunse un'espressione decisa mentre avanzava a tastoni. Cercava di essere il più silenziosa possibile nei suoi movimenti, e soltanto il leggero rumore degli stivaletti che strisciavano sulla terra e sui sassi tradiva la sua presenza. Sotto, c'era soltanto silenzio. Infine arrivò sul fondo della Fossa. Allora si fermò, sedendosi contro il tronco di un albero, toccandosi con precauzione la caviglia slogata. Dopo averci camminato sopra, si era gonfiata molto. La sua faccia era madida di sudore mentre guardava in su e ascoltava. Non udì nulla. Non importava, si disse. Qualsiasi cosa la inseguisse, era sempre là, e la cercava. Doveva inoltrarsi nella Fossa. I suoi occhi avevano cominciato a adattarsi al buio; ora poteva distinguere vagamente la forma degli alberi e dei cespugli intorno a lei. Doveva muoversi. Si tirò su e avanzò zoppicando nel buio, cercando di non appoggiarsi troppo alla caviglia slogata. Mentre passava da un albero all'altro si riposava un attimo, a ognuno, ascoltando con ansia il silenzio profondo. Il dolore peggiorava, un pulsare continuo che sembrava intensificarsi a ogni suo passo. I muscoli della gamba sana si erano irrigiditi e si contraevano in crampi dolorosi. Cominciava già a sentirsi stanca. Infine dovette fermarsi. Respirando affannosamente, si lasciò cadere per terra accanto a un boschetto e si abbandonò nell'erba fresca. Si sforzò di concentrarsi e di individuare la fonte dell'avvertimento. Per un attimo non accadde nulla. Poi il gelo la investì di nuovo, penetrante, mordente. Trattenne il fiato. La cosa che la cercava era entrata nella Fossa. Si tirò faticosamente in piedi e proseguì, zoppicando alla cieca attraverso l'oscurità. A un certo punto le venne il timore di camminare in circolo, ma respinse rapidamente il pensiero. Cadeva in continuazione. Diverse volte si fece male al punto che per poco non svenne. E ogni volta si metteva in ginocchio, boccheggiando, si alzava e si costringeva a proseguire. I minuti scorrevano finché perse ogni nozione del tempo. Tutto intorno a lei il silenzio e l'oscurità si facevano sempre più profondi. Infine non ebbe più la forza di camminare. Cadde in ginocchio; sentì il proprio respiro aspro, ansimante. Piangendo per la disperazione, cominciò a strisciare. Mentre si faceva strada nella boscaglia si graffiava le mani e le ginocchia sui sassi e sui rami caduti. Non avrebbe ceduto, si ripromise silenziosamente. La cosa non l'avrebbe avuta. Volse i suoi pensieri a Wil. Le parve di rivedere la sua espressione quando gli aveva detto che gli voleva bene. Non avrebbe dovuto dirglielo, lo sapeva. Ma l'aveva tanto desi-
derato, ne aveva tanto sentito il bisogno in quel momento; ne era rimasta meravigliata lei stessa. E quello stupore negli occhi di lui... Cadde a testa in giù, piangendo. Wil! Sussurrò il suo nome come se fosse stato un talismano e potesse ricacciare il maligno che la braccava attraverso l'oscurità. Poi si alzò e continuò a strisciare. La sua mente vagava, e sembrò avvertire la presenza di altri esseri che si muovevano intorno a lei nella notte, rapidi e quasi silenziosi. Piccole creature, pensò. Ma la cosa, dov'era la cosa? Quanto le era vicina? Strisciò e strisciò fino a perdere completamente le forze; poi si abbandonò per terra. Era finita, lo sapeva. Non aveva più energie cui attingere. Chiuse gli occhi, aspettando di morire. Un attimo dopo, si addormentò. Dormiva ancora quando le dita legnose, contorte, di una dozzina di mani nodose la sollevarono e la portarono via. 41 Il giovane della Valle e la nomade scesero a gran velocità dalla Collina Sibilante lungo il sentiero sassoso, col vento che gli fischiava nelle orecchie. Volavano nel fitto buio della foresta, curvi sopra il collo dei cavalli, i loro corpi schiaffeggiati dalle vesti di seta, e scrutavano il buio impenetrabile. Ben presto gli alberi si chiusero sopra di loro e il cielo notturno scomparve. Incuranti della propria vita, correvano, confidando nell'abilità dei cavalli e nella fortuna. Non c'era stata nessuna discussione in proposito; non ce n'era stato il tempo. Appena Wil aveva capito che il Mietitore sarebbe tornato sui suoi passi fino a trovare la pista seguita da lui e Amberle verso la Fossa dopo che si erano separati dai nomadi, non aveva pensato che a lei... A Amberle sola, ferita, inerme. Se non l'avesse raggiunta prima del Mietitore, sarebbe morta, e sarebbe stata colpa sua, perché lui aveva deciso di lasciarla sola. Un'immagine dei corpi straziati dei nomadi sulla pista gli era passata come un lampo nella mente. Aveva dimenticato ogni altra cosa se non l'urgenza di ritrovare Amberle. Saltato in groppa al suo cavallo, lo aveva fatto voltare e era corso via al galoppo. Subito Eretria lo aveva seguito. Avrebbe potuto fare diversamente. Ora che Cephelo era morto, non aveva più bisogno della protezione di Wil. Non apparteneva più a nessuno: era finalmente padrona di se stessa. Avrebbe potuto andarsene dalla valle e mettersi in salvo, lontano dalla terribile cosa che aveva ucciso Cephelo e gli altri. Ma l'idea non le era nem-
meno passata per la mente. Il suo unico pensiero era stato per Wil, che se ne andava, lasciandola di nuovo. Orgoglio, caparbietà e la strana attrazione che provava per il giovane si erano impossessati di lei. Non poteva permetterlo. Senza esitare, l'aveva seguito. Così cominciò la loro corsa disperata per salvare Amberle. Correndo come un ossesso, Wil perse rapidamente ogni senso dell'orientamento. Quando scese dalla collina per inoltrarsi nella foresta profonda, fu avvolto da buio e nebbia, e mentre schizzava via riusciva appena a distinguere le sagome degli alberi a entrambi i lati. Eppure non rallentò; non poteva. Sentì lo scalpitio di un altro cavallo e capì che Eretria lo seguiva. Borbottò rapidamente un'imprecazione; non aveva già abbastanza problemi? Ma non c'era tempo per preoccuparsi della nomade. La allontanò dai suoi pensieri e si concentrò nello sforzo di trovare la scorciatoia che portava verso sud. E tuttavia la superò senza vederla. Se Eretria non lo avesse richiamato, avrebbe proseguito verso est fino alle montagne. Girandosi, sorpreso, tornò indietro al galoppo. Ma ora Eretria era in testa, spronando il suo cavallo nell'oscurità. Conoscendo meglio il sentiero, galoppò avanti, gridandogli di seguirla. Nuovamente sorpreso, Wil si lanciò dietro di lei. Era una corsa angosciosa. L'oscurità era così profonda che gli occhi della nomade riuscivano appena a individuare il sentiero serpeggiante nella notte. Varie volte i cavalli furono lì lì per inciampare, evitando per un pelo buche e tronchi caduti sullo stretto sentiero. Ma quelli erano cavalli nomadi, addestrati dai migliori cavalieri delle Quattro Terre, e reagivano con rapidità e agilità tali da strappare gridi di stupore alla ragazza e da lasciare Wil senza fiato. Poi, improvvisamente, furono di nuovo sulla pista che Wil e Amberle avevano seguito a sud fino alla Fossa; rami e liane li schiaffeggiavano e l'acqua fangosa schizzava dalle pozze profonde che si erano formate sul sentiero. Senza rallentare, voltarono verso sud. I minuti scivolavano via. Finalmente emersero dalla foresta e si ritrovarono ai margini della Fossa: la conca nera si estendeva davanti a loro come un immenso pozzo senza fondo. Dopo aver frenato bruscamente i cavalli, saltarono a terra, scrutando il buio della foresta. Dappertutto regnava un silenzio profondo e incombente. Wil esitò solo un secondo, poi cominciò a cercare i cespugli fra i quali aveva lasciato Amberle. Li trovò quasi subito e li scostò per arrivare al centro della piccola macchia. Non c'era nessuno. Per un attimo, fu preso dal panico. Cercò a tastoni qualche traccia della ragazza, ma non
trovò nulla. Il panico si intensificò. Dov'era? Si alzò, allontanandosi dai cespugli. Forse si era sbagliato, pensò improvvisamente, e cominciò a cercare altrove. Si interruppe quasi subito. Non c'era nessun'altra macchia di cespugli nelle vicinanze. No, era proprio lì che l'aveva nascosta. Eretria si affrettò a raggiungerlo. «Dov'è?» «Non lo so» sussurrò lui, il volto scarno madido di sudore. «Non riesco a trovarla.» Con uno sforzo, riprese l'autocontrollo. Ragiona, si disse. I casi sono due: o è fuggita o il Mietitore l'ha presa. Se è fuggita, dov'è andata? Guardò subito verso la Fossa. Là, decise... Alla Guglia Nera o il più possibile vicino. E se il Mietitore l'aveva presa? Ma non era possibile, rifletté, perché non c'era nessuna traccia di lotta. Lei si sarebbe difesa; avrebbe lasciato qualche segno. Se era fuggita, d'altro canto, avrebbe evitato di lasciare tracce che potessero essere individuate dal suo inseguitore. Inspirò a fondo. Doveva essere fuggita. Ma poi fu colpito da un nuovo pensiero. Tutto il suo ragionamento era basato sull'ipotesi che Amberle fosse fuggita dal Mietitore. E se non fosse stato lui a inseguirla, ma qualcun altro emerso dalla Fossa? Strinse le mascelle, disperato. Come poteva scoprirlo? Con quel buio, era impossibile trovare un sentiero. Avrebbe dovuto aspettare fino al mattino e allora sarebbe stato troppo tardi per aiutare Amberle oppure... Oppure avrebbe dovuto usare le Pietre Magiche. Stava per prendere il sacchetto, quando improvvisamente Eretria lo afferrò per un braccio, facendolo sobbalzare per la sorpresa. «Guaritore!» mormorò. «Viene qualcuno!» Sentì una morsa allo stomaco. Per un istante, rimase immobile, seguendo lo sguardo della ragazza rivolto a nord verso il sentiero da cui erano arrivati. Sul suo solco immerso nell'ombra, qualcosa si muoveva. Wil fu sopraffatto dalla paura. La sua mano frugò nella tunica e prese le Pietre Magiche. Al suo fianco, Eretria estrasse da uno stivaletto un pugnale affilato. Insieme affrontarono l'ombra che si avvicinava. «Non allarmatevi!» gridò una voce familiare. I due giovani si guardarono. Lentamente nascosero Pietre Magiche e coltello. Era la voce di Hebel. Eretria borbottò qualcosa a fior di labbra e se ne andò per ricuperare i cavalli che si erano allontanati nella foresta. Hebel avanzava faticosamente lungo il sentiero, con la sagoma pelosa di Vagabondo alle calcagna. Era vestito da boscaiolo, con indumenti di cuoio; aveva un sacco sulla schiena, un arco lungo e frecce su una spalla, e un coltello da caccia alla vita. Camminava curvo, appoggiandosi pesantemen-
te su un bastone nodoso. Mentre si avvicinava, videro che era inzaccherato da capo a piedi. «Per poco non mi avete travolto, sapete!» sbottò. «Guardatemi! Se non fossi stato tanto accorto da starmene proprio sul ciglio del sentiero, sarei tutto coperto di segni di zoccoli, oltre che di fango. Che cosa credete di fare, galoppando così nella foresta? Non si vede a un palmo di naso e voi correte come se fosse pieno giorno. Perché non vi siete fermati quando vi ho chiamato, accidenti?» «Be'... perché non ti abbiamo sentito» rispose Wil, disorientato. «Non mi avete sentito perché non prestavate attenzione come avreste dovuto fare!» Hebel non aveva nessuna intenzione di perdonarli. Traballando, si diresse verso Wil. «Ho impiegato tutto il giorno per arrivare qua... tutto il giorno. Senza cavallo, potrei sottolineare. Perché mai questa fretta indemoniata? Alla velocità a cui andavate un attimo fa, potevate essere arrivati qui e ripartiti una dozzina di volte!» Nel frattempo era tornata Eretria con i cavalli. «Che cosa fai qui? Dov'è la ragazza elfa? Quella cosa non l'ha presa, vero?» Wil sussultò. «Sai del Mietitore?» «Mietitore? Se è così che lo chiamano, sì, so cos'è. È passato vicino a casa mia questa mattina... proprio dopo la vostra partenza. Cercava voi, a quanto pare, anche se allora non ne ero sicuro. Ho visto... soltanto un'ombra. Immagino che se lo avessi visto veramente, sarei morto.» «Ne sono convinto anch'io» fece Wil. «È quel che è successo a Cephelo e agli altri. Li ha sorpresi alla Collina Sibilante.» Hebel annuì, cupo. «Prima o poi Cephelo doveva finire così.» Lanciò un'occhiata a Eretria. «Mi dispiace, ragazza, ma questa è la verità.» Poi si voltò di nuovo verso Wil. «Dov'è la piccola Elfa?» «Non so» rispose Wil. «Ho dovuto lasciarla qui...» Esitò. «Ho dovuto lasciarla qui per qualcosa che era rimasto nel carrozzone di Cephelo. Amberle si era slogata una caviglia, così l'ho nascosta in una macchia di cespugli. Al ritorno non ho seguito la stessa pista da cui sono arrivato, altrimenti anch'io sarei già morto; ho trovato Eretria - anzi, penso sia stata lei a trovarmi - e dopo aver visto quel che era accaduto a Cephelo, siamo venuti qua il più rapidamente possibile. Ma ora Amberle è scomparsa, e io non riesco a capire che cosa le sia successo. Non so nemmeno se il Mietitore sia già stato qui o ci stia ancora inseguendo.» «È venuto e se ne è andato» gli disse Hebel. «Io e Vagabondo lo abbiamo seguito mentre lui seguiva voi. Lo abbiamo perso al crocevia perché il
Mietitore è andato a est, verso la Collina Sibilante, mentre Vagabondo e io siamo venuti a sud dietro di voi. Ma più avanti, a sud, la pista ricominciava. La cosa deve aver tagliato attraverso la foresta. Se ha potuto farlo, è pericolosa, Elfo.» «Chiedi a Cephelo quanto è pericolosa» borbottò Eretria, scrutando le ombre della foresta. «Guaritore, possiamo andarcene da qui, adesso?» «No, finché non avremo scoperto cosa è successo a Amberle» rispose deciso Wil. Hebel gli diede un colpetto su un braccio. «Fammi vedere dove hai lasciato la ragazza.» Wil si diresse verso la macchia di cespugli, seguito da Eretria. il vecchio e il cane, e indicò l'apertura da cui si poteva entrare. Hebel si chinò, sbirciò dentro, e chiamò Vagabondo con un fischio. Mormorò qualcosa al cane, che si fece avanti, fiutò in giro, poi si affacciò ai margini della Fossa mentre gli altri stavano a osservarlo. «Vagabondo ha trovato il suo odore» borbottò Hebel, soddisfatto. Il cane si fermò e ringhiò piano. «E giù nella Fossa, Elfo. E giù c'è anche il Mietitore. Probabilmente sta ancora cercandola. L'avrei giurato.» «Allora dobbiamo trovarla subito» fece Wil, pronto a partire. Hebel lo afferrò per un braccio. «Non c'è nessun bisogno di correre. Qui si tratta di scendere nella Fossa, non ricordi quello che avevo detto? Laggiù ci sono soltanto le Sorelle Streghe e le cose che le servono. Chiunque altro vi metta piede viene immediatamente rapito... me lo ha detto Mallenroh sessant'anni fa.» Scosse la testa. «Ormai, la ragazza e la cosa che la segue sono in compagnia di una delle due sorelle... oppure morte.» Wil sbiancò in viso «Tu pensi che le Streghe le ucciderebbero, Hebel?» Il vecchio sembrò riflettere. «Oh. non penso che ucciderebbero la ragazza... non subito. La cosa sì. E non credere che non siano in grado di farlo, Elfo.» «Non so più cosa pensare» rispose lentamente Wil. Guardò l'oscurità compatta, impenetrabile della Fossa. «So soltanto questo... io scendo laggiù a cercare Amberle. Adesso.» Fece per dire qualcosa a Eretria, ma la ragazza lo interruppe. «Non sprecare il fiato, Guaritore. Vengo con te.» Lo disse in un modo che non lasciava spazio a obiezioni. Wil guardò Hebel. «Vengo anch'io, Elfo» annunciò il vecchio.
«Ma tu stesso hai detto che nessuno dovrebbe avventurarsi nella Fossa» obiettò Wil. «Non capisco nemmeno perché tu sia venuto fin qui.» L'altro si strinse nelle spalle. «Perché? Ormai posso stare qui come da qualsiasi altra parte, Elfo. Sono vecchio; ho fatto in questa vita quel che volevo fare, sono andato dove volevo andare; ho visto quel che volevo vedere. Ora non mi resta più nulla... nulla tranne, forse, quest'ultima cosa. Voglio sapere cosa c'è laggiù nella Fossa.» Scosse la testa, triste. «È da sessant'anni che ogni tanto ci penso. Mi dicevo sempre che un giorno l'avrei scoperto... come quando pensi a una pozza profonda; ti chiedi sempre cosa c'è sotto.» Si strofinò il mento. «Be', un uomo normale non perderebbe il suo tempo così, e io ero normale quando ero giovane, anche se, credo, un po' diverso dagli altri. Ora sono stanco di essere normale, stanco di sognare che un giorno scenderò laggiù invece di farlo. Tu mi hai fatto prendere una decisione. La prima volta che mi hai detto le tue intenzioni, ho cercato di persuaderti a rinunciarvi... così come avevo convinto me stesso. Ero certo che, dopo quel che ti avevo detto, tu avresti cambiato rapidamente idea. Ma mi sbagliavo. Ho capito che quel che cercavi era tanto importante da farti dimenticare la paura. Perché allora dovrei avere paura io, ho pensato? Poi, dopo che ho intravisto il Mietitore e mi sono reso conto di essere stato tanto vicino a morire, ho scoperto che non ne avevo più paura, che mi importava soltanto di scendere laggiù. Così vi ho seguiti. Ho deciso che ci saremmo andati insieme.» Wil aveva capito. «Speriamo di trovare entrambi quel che cerchiamo.» «Be', forse io potrò esserti di aiuto.» Il vecchio si strinse nelle spalle. «In questa parte della Fossa regna Mallenroh. Può darsi che si ricordi di me, Elfo.» Per un istante apparve assorto, poi guardò Wil. «Vagabondo potrà farci da guida.» Fischiò. «Portaci giù, cane. Forza, giovanotto.» Vagabondo scomparve oltre i margini della Fossa. Eretria tolse ai cavalli sella e finimenti e, con un colpo secco sui fianchi, li mandò via al galoppo nella foresta. Poi si unì a Wil e al vecchio. In fila, cominciarono a scendere nella Fossa. «Non avremo bisogno di Vagabondo per molto» dichiarò con decisione Hebel. «Mallenroh... ci troverà presto.» Se era così, si scoprì a pensare Wil, si augurava che lei trovasse anche Amberle. Amberle aprì gli occhi nel cuore della foresta. Fu un leggero dondolio a svegliarla. Qualcuno la stava trasportando e per un istante fu presa dal panico. Dita nodose le stringevano le braccia e le gambe, il corpo, persino il
collo e la testa... dita così ruvide che sembravano fatte di legno. La sua prima reazione fu di liberarsi, ma vi resistette con uno sforzo disperato e si costrinse a restare immobile. La cosa che la teneva prigioniera non sapeva ancora che lei era sveglia. Quello era il suo unico vantaggio. Per il momento, almeno, doveva continuare a fingersi addormentata e cercare di capire la situazione. Non sapeva quanto avesse dormito. Forse minuti, ore o ancor più. Pensò, tuttavia, che doveva essere sempre la stessa notte. Era la logica a suggerirglielo. Inoltre, rifletté, a portarla non era certo l'essere che l'aveva inseguita fin nella Fossa. Poiché quello, se l'avesse trovata, l'avrebbe semplicemente uccisa. Perciò doveva trattarsi di qualcos'altro. Il vecchio, Hebel, aveva raccontato a Wil e a lei che la Fossa era il regno privato delle Sorelle Streghe. Forse era una di loro che la stava portando via. Dopo aver tratto queste conclusioni, si sentì un po' meglio, e si rilassò un poco. Si sforzò di scorgere qualcosa intorno. Era difficile; gli alberi nascondevano totalmente la luna e le stelle, avviluppando tutto nell'oscurità più cupa. Se non fosse stato per il familiare profumo dei boschi, non si sarebbe nemmeno accorta di trovarsi in una foresta. Il silenzio era profondo. I pochi suoni erano distanti e brevi, gridi che giungevano dalla plaga desolata oltre la Fossa. E invece c'era un suono, si corresse, una specie di stridio, come di rami agitati da un vento leggero... sennonché l'aria era immobile, e il suono veniva da sotto di lei, non dall'alto. Era la cosa che la portava a produrre quel suono. I minuti scorrevano via. Pensò per un attimo a Wil, cercando di immaginare cosa avrebbe fatto al suo posto. Sorrise suo malgrado. Chissà quale bravata avrebbe tentato lui in quella situazione? Poi si domandò se l'avrebbe mai più rivisto. I muscoli cominciavano a irrigidirsi, e decise di provare a alleviare il suo disagio senza tradirsi. Provò a stendere le gambe, fingendo di stiracchiarsi nel sonno, mettendo alla prova le dita che la tenevano prigioniera. Quelle si spostarono, ma non lasciarono. Dunque, così stavano le cose. Udì un rumore di acqua corrente, che diventava più forte ogni secondo. Ora ne sentiva l'odore, fresco, che sapeva di fiori selvatici... un ruscello che serpeggiava e gorgogliava nella quiete della foresta. Poi fu sotto di lei, e lo stridio di rami e i suoni della notte svanirono. Sentì un rumore sordo di passi su assi di legno, e capì che stava attraversando un ponte. Il gorgoglio del fiume cominciò a attenuarsi. Udì uno sferragliare di catene, come
se venissero arrotolate, e poi un tonfo sordo. Qualcosa era stato chiuso, una porta... una porta molto pesante. Sentì chiaramente una sbarra che scorreva e una serratura che scattava. Intorno a lei sentiva sempre l'aria della notte, ma ora portava con sé l'odore inconfondibile di pietra e malta. Di nuovo fu sopraffatta dalla paura. Era entro una zona circoscritta da mura, forse un cortile. Forse la stavano imprigionando, chissà dove, e se non si fosse liberata subito, non si sarebbe liberata mai. Ma le dita che la tenevano non allentavano mai la stretta, e ce n'erano così tante... Avrebbe dovuto compiere uno sforzo terribile per strapparsele di dosso, e non credeva che le rimanesse tanta forza. Inoltre, pensò angosciata, anche se si fosse liberata, dove sarebbe andata? Davanti a lei si aprì un'altra porta, cigolando. Non c'era mai luce, solo l'oscurità più totale. «Carina» disse improvvisamente una voce, e la ragazza sobbalzò, sorpresa. Chi la trasportava, avanzava ancora. Dietro di lei, la porta si chiuse e scomparvero gli odori della foresta. Era dentro... ma dove? La portarono lungo corridoi tortuosi che puzzavano di umidità e muffa; ma c'era anche un altro odore, come di incenso o profumo. La ragazza lo inspirò profondamente e per un attimo le girò la testa. Poi, oltre un ampio arco, vide un luccichio inaspettato. In quell'improvviso chiarore, dopo tutto quel buio, Amberle dovette sbattere le palpebre. La portarono oltre l'arco e poi giù per una scala a chiocciola. La luce palpitava sopra di lei, rimase indietro per un attimo, poi riprese a seguirla, oscillando e serpeggiando nel buio. Poi si arrestarono. Amberle si sentì posare su una spessa stuoia, e le dita lignee la lasciarono. Si alzò sui gomiti e, socchiudendo gli occhi, guardò verso la luce. Rimase sospesa davanti a lei solo un istante poi si ritirò lentamente dietro una parete di sbarre di ferro. Una porta si chiuse e la luce scomparve. Ma un istante prima che si spegnesse. Amberle aveva intravisto i suoi rapitori, le forme snelle delineate chiaramente nel bagliore bianco. Sembravano fatti di rami. In fondo alla Fossa, Wil ordinò l'alt. Era così buio che riusciva appena a vedere la sua mano di fronte al viso: non vedeva affatto Eretria o Hebel; né loro scorgevano lui. Se avessero tentato di procedere in quelle condizioni, presto si sarebbero separati e smarriti senza speranza. Aspettò alcuni
minuti finché i suoi occhi si furono abituati un poco al buio. La Fossa restava una massa confusa, appena percettibile, di ombre. Fu Hebel a proporre un piano per risolvere le loro difficoltà. Chiamato a sé Vagabondo con un fischio, estrasse un rotolo di corda dal sacco che portava con sé, e ne legò un'estremità al cane; assicurò il resto intorno alla propria vita e a quella del giovane e della ragazza. Così legati, potevano procedere uno dietro l'altro senza correre il rischio di separarsi. Il grosso cane partì. Wil aveva la sensazione di camminare da ore, inciampando attraverso un infinito labirinto di alberi e cespugli, quasi cieco in quelle tenebre impenetrabili, affidandosi all'istinto del cane che li guidava. Non si parlarono mai, avanzando il più silenziosamente possibile, fin troppo consapevoli del fatto che da qualche parte, laggiù, si aggirava il Mietitore. Wil non si era mai sentito tanto inerme in vita sua. Era già sgradevole non vedere quasi nulla; era ancor peggio sapere che potevano imbattersi nel demone. Pensava continuamente a Amberle. Se lui era spaventato, cosa doveva provare lei? Si vergognò della propria paura. Non aveva nessun diritto di essere impaurito, quando lei era sola, senza protezione, e era stato lui a abbandonarla. Ma non riusciva a liberarsi dalla paura. Per combatterla, stringeva forte, con decisione, il sacchetto con le Pietre Magiche, come se il tenerlo in mano potesse proteggerlo da qualsiasi cosa si nascondesse nella foresta. Eppure in lui restava la sensazione che le Pietre Magiche non l'avrebbero protetto, che non poteva più evocarne il potere e che mai avrebbe ritrovato quel dono. Quel che Amberle gli aveva detto o quel che lui stesso si era detto non faceva nessuna differenza. Per quanto irragionevole, immotivata, la sensazione persisteva, ossessiva, perfida, terrificante. Il potere delle Pietre Magiche non era più in mano sua. Stava ancora tentando di liberarsene quando il pezzo di corda davanti a lui si allentò improvvisamente. Per poco non cadde addosso a Hebel, che si era fermato di botto. Eretria urtò contro di lui, e i tre rimasero ammucchiati insieme, scrutando davanti a loro, nel buio. «Vagabondo ha trovato qualcosa» sussurrò il vecchio a Wil. Caduto in ginocchio, avanzò fino al punto in cui si trovava il cane, fiutando il terreno, seguito a breve distanza da Wil e Eretria. Dopo aver accarezzato la bestia, tastò un poco per terra, poi si alzò. «Mallenroh.» Pronunciò quel nome a voce bassissima. «È stata lei a portar via la ragazza elfa.»
«Ne sei sicuro?» sussurrò Wil. Il vecchio annuì. «Certo. Il Mietitore è da qualche altra parte, ora. Vagabondo non lo sente più.» Wil non capiva come Hebel potesse esserne tanto sicuro, soprattutto con quel buio impenetrabile, ma era inutile discutere. «Cosa facciamo adesso?» chiese ansioso. «Proseguiamo» borbottò Hebel. «Vagabondo... da bravo, vai.» Il cane ripartì, seguito dalle tre persone. I minuti scivolavano via e gradualmente cominciò a schiarire. Dapprima Wil pensò che la sua vista gli giocasse qualche scherzo, ma infine si rese conto che la notte stava dissolvendosi e che era cominciato un nuovo giorno. Alberi e cespugli cominciarono a delinearsi intorno a lui; le tenebre lentamente si dileguavano mentre deboli raggi di sole penetravano nell'immenso baldacchino della foresta. Davanti a loro, la nera sagoma pelosa di Vagabondo, con la testa abbassata sulla pista che fiutava attraverso la terra umida, divenne visibile per la prima volta da quando erano discesi nella Fossa. Poi, bruscamente, il cane sollevò la grossa testa e si fermò. Anche i tre si fermarono di botto, esterrefatti. Davanti a loro si ergeva la più strana creatura che avessero mai visto. Era fatta di rami: due braccia, due gambe e un corpo di rami; radici nodose si incurvavano dalle estremità delle braccia e delle gambe formando dita. Non aveva testa. Era rivolta verso di loro... o almeno così sembrava, poiché le radici che fungevano da dita sembravano indicare la loro direzione. Il suo corpo sottile oscillò leggermente come se fosse stato un alberello scosso da un vento improvviso. Poi si voltò e scomparve nella foresta. Hebel lanciò una rapida occhiata agli altri due. «Ve l'avevo detto. È una delle creature fatte da Mallenroh.» Con un rapido cenno agli altri due, prese a seguirla. Wil e Eretria si scambiarono occhiate perplesse, ma poi lo imitarono. Silenziosamente, la piccola processione avanzava faticosamente nel buio, serpeggiando attraverso il labirinto della foresta. Dopo un po', cominciarono a apparire intorno a loro altre creature di rami simili alla prima: cose nodose, senza testa, silenziose se non per il leggero stridio che producevano camminando. Quasi prima di rendersene conto, i tre furono circondati da dozzine di queste creature, che li seguivano come spettri attraverso le ombre. «Ve l'avevo detto» mormorava di tanto in tanto Hebel, ai due giovani, il volto incartapecorito acceso dall'emozione.
Poi, bruscamente, la foresta si diradò. Di fronte a loro, sopra gli alberi, si ergeva una massiccia torre solitaria, scura. Posta in cima a una piccola altura, era quasi senza finestre, e la pietra antica, consunta, era ricoperta di rampicanti e muschio. L'altura era diventata un'isola, circondata da un ruscello che giungeva da qualche punto della foresta, e faceva una serie di curve e rapide prima di scomparire fra gli alberi alla loro sinistra. La torre era circondata da un basso muro, costruito vicino alla riva del fiume; di fronte a loro, i tre videro un pesante ponte levatoio aperto e vuoto, che portava all'altra riva, con le catene che pendevano da piccole guardiole a ciascun lato. Tutt'intorno all'altura e alla torre crescevano querce massicce, alberi antichi i cui rami si intrecciavano fra loro, nascondendo il sole del mattino, lasciando l'isola, come il resto della Fossa, drappeggiata nell'ombra più profonda. La creatura che avevano seguito si fermò. Si voltò leggermente, come per accertarsi della loro presenza. Poi cominciò a camminare verso il ponte levatoio. Zoppicando, Hebel la seguì senza esitare, con Vagabondo al fianco. Wil e Eretria rimasero perplessi un istante, non altrettanto sicuri che fosse il caso di proseguire. La torre incuteva paura; sapevano che non dovevano metter piede fra le sue mura, che avevano già osato fin troppo. Ma Wil intuiva che là avrebbe trovato Amberle. Si voltò a guardare Eretria, e insieme avanzarono. Seguendo la creatura silenziosa, il gruppetto arrivò alla riva del fiume, dove venne circondato da altri esseri fatti di rami. Solo lo stridio dei loro arti e il gorgoglio del fiume infrangevano il silenzio profondo della foresta. La creatura salì sul ponte e avanzò, scomparendo nell'ombra del cancello. Gli uomini, la ragazza e il cane la seguirono; Wil e Eretria lanciavano occhiate apprensive alla massiccia torre nera. Poi furono sotto il cancello. La creatura riapparve davanti a loro, ferma appena oltre l'arco immerso nell'ombra. Mentre avanzavano in fila, la videro ripartire verso la torre. Avevano appena superato il cancello quando all'improvviso sentirono un rumore di catene che gemevano e cigolavano. Dietro di loro il ponte levatoio si alzò e si incastrò nelle mura. Ora non potevano più andarsene. Stretti insieme, si avvicinarono alla torre. La creatura li aspettava; sotto un'alta volta c'erano due ampi portali di legno rivestiti di ferro. Uno era aperto. La creatura lo varcò e scomparve. Wil alzò gli occhi verso la massiccia facciata di pietra della torre, poi affondò una mano nella tunica e ne estrasse il sacchetto con le Pietre Magiche. Insieme con gli altri, varcò quel portale per ritrovarsi nell'oscurità.
Per un istante nessuno si mosse, restando sulla soglia e scrutando inutilmente il buio. Poi la porta si chiuse dietro di loro, e le serrature scattarono. Un globo di vetro sospeso sopra di loro spandeva una luce morbida, bianca, che non era di olio ardente o di pece; doveva trattarsi di qualcosa che bruciava senza fiamma. Tutt'intorno stavano gli uomini di rami, le ombre nodose proiettate sulle mura di pietra, oscillanti lievemente nella luce. Dall'oscurità dietro di loro apparve una donna, avvolta in un mantello nero, con lunghi rami di belladonna violetta intrecciati nei capelli. «Mallenroh» sussurrò Hebel, e Wil Ohmsford sentì l'aria intorno a lui diventare di ghiaccio. 42 Il secondo giorno della battaglia di Arborlon appartenne a Ander Elessedil. Fu un giorno di sangue e dolore, di morte e grande coraggio. Per tutta la notte le orde dei demoni avevano continuato a trasportare i loro fratelli sulle acque del Rill Song, singolarmente o in gruppo, finché, per la prima volta da quando avevano fatto irruzione attraverso il Divieto, tutte le loro forze furono raccolte per colpire, ammassate ai piedi della Carolan dalla base del dirupo fino alla riva del fiume, estendendosi verso nord e sud, a perdita d'occhio: spaventose, terrificanti innumerevoli. All'alba attaccarono. Si lanciarono frenetiche su per le mura dell'Elfitch, un'ondata dopo l'altra, ululando il loro odio. Si riversarono su per il dirupo, arrampicandosi sulla nuda roccia, facendosi strada con gli artigli sotto un nugolo di frecce. Avanzavano come una marea che avrebbe travolto i difensori in attesa, seppellendoli. Fu Ander Elessedil a determinare l'esito di quello scontro. Fu come se, quel giorno, egli fosse diventato finalmente il re che era stato suo padre, il re che aveva guidato gli Elfi contro il Signore degli Inganni cinquant'anni prima. Stanchezza e avvilimento scomparvero. Scomparve anche il dubbio che l'aveva ossessionato dopo Halys Cut. Credette nuovamente in se stesso e nella determinazione di coloro che combattevano con lui. Fu un momento storico, e il principe elfo ne divenne il punto focale. Intorno a lui erano raccolti gli eserciti di quattro razze, gli stendardi di combattimento che svolazzavano nel vento del mattino. Le aquile d'argento e la quercia degli Elfi, il fregio grigio e cremisi del Libero Battaglione e i cavalli neri della Vecchia Guardia; il verde bosco dei Genieri Nani attraversato dal meandro
del Fiume Argento, e il martello e le montagne blu gemelle dei Troll del Kershalt. Mai prima d'allora quelle bandiere erano state unite. Nella storia delle Quattro Terre le razze non avevano mai combattuto insieme per una causa comune, per formare una difesa comune e per realizzare un fine comune. Troll e Nani, Elfi e Uomini... gli esseri umani del nuovo mondo si preparavano a resistere uniti a un male proveniente da epoche remote. Per quell'unico, meraviglioso giorno, Ander Elessedil divenne la scintilla che trasmise a loro tutti la vita. Era onnipresente, dall'orlo del dirupo fino ai cancelli dell'Elfitch, talvolta a cavallo, talvolta a piedi, sempre là dove la lotta era più accesa. Con la cotta di maglia scintillante, il ramo dell'Eterea tenuto in alto, egli era sempre in prima fila fra coloro che difendevano la città, contro i demoni che accorrevano per massacrarlo. Ovunque andasse, si levavano acclamazioni e i difensori si rianimavano. Sempre inferiori numericamente, sempre soverchiati, il principe elfo e i suoi compagni respingevano i loro attaccanti. Ander Elessedil fu sovrumano, quel giorno: combatté con tale ferocia che nulla sembrava resistergli. Ripetutamente i demoni cercarono di abbatterlo, riconoscendo subito che egli era il cuore della difesa elfa. A più riprese sembrava che fossero sul punto di riuscirvi, circondando Ander con un branco di rabbiosi corpi neri. Ma ogni volta egli si liberava a suon di fendenti. Ogni volta i demoni venivano ricacciati. Fu un giorno di eroismo, poiché tutti i difensori di Arborlon furono spronati dal coraggio del principe elfo. Eventine Elessedil stava al fianco del figlio e combatteva coraggiosamente; la sua stessa presenza incoraggiava gli Elfi. C'era anche Allanon; la testa e le spalle della sua figura ammantellata si alzavano sopra i soldati intorno a lui, mentre il fuoco azzurro si sprigionava dalle sue dita abbattendosi sulle file dei demoni impazziti. Due volte questi irruppero attraverso i cancelli della terza rampa, e due volte i Troll delle Montagne al comando di Amantar li ricacciarono. Stee Jans e gli uomini del Libero Battaglione spezzarono un terzo assalto, contrattaccando con tanta violenza da ributtare i demoni fino alla seconda rampa e, per un certo tempo, furono lì lì per riprendere i cancelli. La cavalleria elfa e i Genieri Nani respingevano una sortita dopo l'altra lungo il bordo della Carolan, ricacciando indietro dozzine di demoni che, riusciti a arrampicarsi fino in cima al dirupo, minacciavano di accerchiare i difensori sull'Elfitch. Ma fu Ander a guidarli, a dar loro forza rinnovata quando sembravano sul punto di non poter più resistere, a radunarli ogni volta attorno a sé.
Quando finalmente il sole tramontò e cominciò a scendere l'oscurità, i demoni furono costretti a ritirarsi di nuovo, scivolando verso la foresta in basso, stridendo di rabbia e delusione. Per un altro giorno ancora, i difensori di Arborlon avevano retto. Fu il momento più bello per Ander Elessedil. Poi le sorti dei difensori volsero al peggio. Calata la notte, i demoni attaccarono ancora. Aspettando soltanto che la luce scomparisse, si riversarono fuori dalle foreste per spazzar via le difese elfe. A una a una, spensero le torce che erano state accese lungo i livelli inferiori dell'Elfitch, aprendosi la strada fino ai cancelli della terza rampa. Disperatamente, i difensori si raccolsero per respingere l'assalto; i massicci Troll delle Montagne erano schierati lungo i cancelli mentre i soldati elfi e quelli della Legione combattevano in cima alle mura. Ma la pressione era troppo forte; i cancelli cedettero e si spalancarono. Attraverso la breccia si riversarono i demoni, che si facevano strada con gli artigli. Anche in cima al dirupo cominciavano a irrompere. Dozzine di forme nere scivolarono fra le file dei cavalieri che pattugliavano la Carolan e si sparpagliarono con velocità bestiale verso la città. Di queste, oltre un centinaio puntò verso i Giardini della Vita, sapendo che, dietro i loro cancelli, stava la cosa che li aveva tenuti imprigionati per tanti secoli. Lì si scontrarono faccia a faccia con i soldati della Guardia Nera pronti a adempiere la loro missione e a difendere fino all'ultimo uomo l'albero antico che era loro affidato. Pazzi di rabbia, i demoni attaccarono. Caricarono contro le picche abbassate della Guardia Nera e furono fatti a pezzi. All'estremità meridionale della Carolan, un'altra banda di demoni riuscì a aprirsi la strada sotto una fila di trappole piazzate dai Nani lungo una pista secondaria, smantellata, che dal Rill Song portava verso l'alto, e quindi a raggiungere la sommità del dirupo. Aggirando la Guardia Nera e i Giardini della Vita, si allontanarono verso est dalla Carolan, strisciando fra le ombre dietro la fila di torce collocate sul suo bordo, e si scaraventarono sulla città. Una mezza dozzina di Elfi feriti, diretti a casa, furono sorpresi all'aperto e massacrati. Maggiori sarebbero state le perdite se non fosse intervenuta una pattuglia di Genieri Nani che aveva accettato di collaborare con gli Elfi nel sorvegliare il perimetro della città. Rendendosi conto che i demoni avevano fatto irruzione fra i difensori del dirupo, seguirono le grida dei moribondi e si scagliarono contro i loro assassini. Alla fine della battaglia soltanto tre Nani erano sopravvissuti. Ma tutti i demoni erano morti.
All'alba, la Carolan era stata ripulita e i demoni nuovamente ricacciati. Ma la terza rampa dell'Elfitch era stata persa e la quarta era minacciata. Alla base del dirupo, i demoni si ammassarono di nuovo. Grida rauche echeggiarono attraverso il silenzio del mattino mentre la massa compatta caricava su per la rampa; quelli davanti portavano un massiccio ariete di legno, che spinsero contro i cancelli, spaccando la barriera di legno, e subito si riversarono al di là. Troll e Elfi formarono rapidamente una compatta falange: una selva di lance e alabarde di ferro penetrò a fondo nelle forme nere che si contorcevano. E tuttavia i demoni avanzavano, buttandosi contro i difensori angosciati, finché questi ultimi furono costretti a ritirarsi dietro la protezione della quinta rampa. Fu un momento disperato. Quattro dei sette livelli dell'Elfitch erano stati perduti. I demoni erano a metà strada nella loro ascesa verso il dirupo. Ander radunò i difensori, fiancheggiato da Amantar e Kerrin, e circondato dalla Guardia Reale. I demoni caricarono, premendo contro i cancelli della rampa. Ma proprio quando sembrava inevitabile che irrompessero, sulle mura apparve Allanon, le braccia alzate. La fiamma azzurra schizzò giù lungo tutta la rampa, spezzando l'assalto dei demoni, riducendo l'ariete in cenere. Momentaneamente storditi, i demoni ripiegarono. Per tutto il mattino i demoni cercarono di far crollare le difese elfe della quinta rampa. A mezzogiorno, vi riuscirono. Un paio di orchi mostruosi si spinsero davanti ai loro fratelli e si gettarono contro i cancelli... una, due volte. Legno e ferro si frantumarono e i cancelli crollarono. Gli orchi fecero irruzione nella rampa, disperdendo i difensori. Una dozzina di Troll delle Montagne cercarono di fermarli, ma gli orchi li spinsero via come se fossero stati di carta. Di nuovo Ander radunò i suoi soldati, spronandoli alla lotta. Ma i demoni si stavano riversando attraverso i cancelli abbattuti, gettandosi sui difensori. Poi il cavallo di Eventine Elessedil fu ucciso mentre il re si allontanava per mettersi al riparo dietro i cancelli in alto, e il vecchio cadde a terra. I demoni se ne accorsero. Con un ululato si lanciarono su di lui. Lo avrebbero ucciso se non fosse stato per Stee Jans. Con un gruppetto dei suoi soldati, si buttò contro di loro, la spada in pugno. Barcollando, Eventine si tirò in piedi, stordito e insanguinato, ma vivo. Subito Kerrin fece accorrere la Guardia Reale per salvare il re, che fu portato via. I soldati del Libero Battaglione resistettero ancora un poco, poi furono travolti anch'essi. I demoni si fecero avanti, respingendo gli Elfi che tentavano di sbarrare loro la strada. A guidare l'assalto erano gli orchi che ave-
vano spaccato i cancelli, e ora schiacciavano tutti coloro che gli arrivavano a tiro. Ander Elessedil corse a fermarli, tenendo alto il ramo dell'Eterea mentre chiamava a raccolta i difensori della città. Ma la pressione era troppo forte. Amantar e Stee Jans stavano combattendo per salvarsi la vita vicino alle mura della rampa, e non potevano raggiungere il principe elfo. Per un terrificante momento, egli fu solo davanti all'assalto dei demoni. Ma soltanto per un momento. In cima ai cancelli della sesta rampa, Allanon chiamò con un fischio Dayn dall'orlo della Carolan. Senza una parola, strappò le redini di Dancer allo sbalordito Cavaliere Alato e salì in cima al gigantesco Roc. L'istante dopo volava verso il basso, il mantello nero che svolazzava dietro di lui come una vela. Dancer gridò una volta, poi si calò fra i demoni che minacciavano Ander, dilaniandoli col becco e con gli artigli. Urlando, le sagome nere si sparpagliarono. Il fuoco azzurro saettò dalle dita del Druido, e sulla rampa davanti a lui esplose una barriera di fiamme. Poi, dopo aver spinto l'esterrefatto Ander davanti a sé sull'uccello, il Druido lanciò un richiamo al Roc, che si alzò nuovamente nell'aria; sotto, gli ultimi difensori indietreggiavano, riversandosi fra i cancelli della sesta rampa. Per alcuni secondi ancora, il fuoco del Druido bruciò, poi crepitò e morì Furibondi, i demoni caricarono i difensori in fuga. Ma ormai i Genieri Nani in alto sul dirupo erano in allarme. Argani e pulegge cominciarono a girare quando vennero tirate le catene avvolte intorno ai sostegni della rampa. La trappola accuratamente nascosta di Browork stava per scattare. I sostegni già indeboliti crollarono da sotto l'Elfitch, spaccandosi e frantumandosi mentre le catene li strappavano via. Con uno scossone, tutta la rampa sotto il sesto livello si spaccò e sprofondò I demoni che vi si trovavano sopra scomparvero in una nuvola di macerie. Urla e strida riempirono l'aria, e l'intera rampa scomparve. Quando la polvere si dissipò, l'Elfitch era un mucchio di pietre spaccate e di travi di legno frantumate dai cancelli della sesta rampa fino alla quarta. I corpi dei demoni erano sparpagliati per tutta la parete del dirupo, incastrati fra le macerie, spezzati, senza vita. I sopravvissuti ripiegarono verso la base del dirupo, schivando massi e frammenti che ruzzolavano intorno a loro scomparendo infine nei boschi in basso. Quel giorno i demoni non tornarono più all'attacco contro la città di Arborlon.
Sofferente per un'altra ferita alla testa, oltre che per i numerosi tagli e escoriazioni, Eventine Elessedil fu portato via dalla battaglia che infuriava sull'Elfitch verso il suo palazzo. Il fedele Gael si affrettò a prendersi cura di lui, a lavargli e a bendargli le ferite; e infine lo aiutò a coricarsi. Poi, con Dardan e Rhoe che montavano la guardia, il re elfo fu lasciato solo a riposare. Ma Eventine non riposava. Non poteva. Se ne stava nel suo letto, appoggiato contro i cuscini di piume, fissando sconsolato, sommerso dalla disperazione, gli angoli bui della sua stanza. Nonostante tutto l'aiuto dato dalla Legione, dai Nani e dai Troll delle Montagne, la battaglia era persa. Tutte le loro difese erano crollate. Un altro giorno, forse due, e anche il sesto e il settimo livello dell'Elfitch sarebbero caduti e demoni sarebbero arrivati sulla Carolan. Quella sarebbe stata la fine. Soverchiati senza speranza, i difensori sarebbero stati rapidamente travolti e distrutti; gli Elfi cacciati dalla loro terra, sparpagliati ai quattro venti. Tutto ciò comportava per lui conseguenze che gli riuscivano insopportabili. La vittoria dei demoni avrebbe significato che lui era venuto meno al suo compito. Non solo verso il suo popolo, ma verso i popoli di tutte le Terre... poiché la marea dei demoni non si sarebbe fermata qui, ora che si erano liberati dal Divieto. E che dire dei suoi antenati che avevano imprigionato i demoni secoli prima, in un'epoca così remota che poteva appena visualizzarla? Aveva tradito anche loro. Essi avevano creato il Divieto, ma si erano affidati ai loro successori perché lo preservassero, lo mantenessero forte. E tuttavia, nel corso dei secoli, mentre il vecchio mondo veniva sconvolto e rinascevano le razze, il Divieto era stato dimenticato, dimenticato da tutti. Persino gli Eletti erano arrivati a considerarlo poco più che un elemento remoto della loro storia, una leggenda che apparteneva a un'altra era, al passato o al futuro... ma non al presente. Sentì una stretta al cuore. Se Arborlon fosse caduta, se gli Elfi avessero perso le Terre dell'Ovest, sarebbe stata colpa sua. Sua! I penetranti occhi azzurri si infiammarono di collera. Per ottantadue anni era vissuto su quella terra; per oltre cinquanta, era stato il capo del suo popolo. Aveva fatto molto in quel tempo, e ora tutto sarebbe andato perduto. Pensò a Arion, il suo primogenito, il figlio che avrebbe dovuto completare l'opera alla quale egli si era tanto dedicato, a Kael Pindanon, il suo vecchio compagno d'armi, il suo fedele amico. Pensò agli Elfi caduti per difendere la Sarandanon e Arborlon. Tutti morti, e inutilmente.
Scivolò sotto le coperte, rimuginando le alternative che restavano, le tattiche che si potevano impiegare, le risorse alle quali si poteva attingere quando i demoni fossero tornati all'attacco. La sua mente turbinava, nel profondo del suo animo, c'era un senso di disperazione. Non bastavano; non sarebbero mai bastate. Alla ricerca di risposte per i suoi problemi, improvvisamente ricordò Amberle. Sorpreso, si rizzò a sedere sul letto. Nella confusione degli ultimi giorni, aveva dimenticato sua nipote, l'ultima degli Eletti, l'unica speranza per il suo popolo, secondo Allanon. Che ne era stato di Amberle? si domandò angosciato. Giacque di nuovo, scrutando il buio sempre più profondo oltre l'ombra delle tende. Allanon aveva detto che Amberle era viva, ormai nel cuore delle basse Terre dell'Ovest; ma Eventine non credeva che Allanon potesse esserne certo. Il pensiero lo depresse. Se era morta, lui non voleva saperlo, decise improvvisamente. Meglio ignorare la verità. Eppure non era così. Lui voleva disperatamente sapere. Fu sommerso dall'amarezza. Tutto gli sfuggiva di mano: la famiglia, il suo popolo, il suo paese, tutto quel che amava e aveva dato un senso alla sua vita. Era così fondamentalmente ingiusto che non poteva rassegnarsi. No, non era soltanto questo. Se si fosse rassegnato, sarebbe stata la fine per lui. Chiuse gli occhi per difendersi dalla luce. Dov'era Amberle? Doveva saperlo, si disse ostinatamente. Doveva trovare un modo per raggiungerla, per aiutarla se ne aveva bisogno. Doveva trovare un modo per riaverla vicino. Inspirò a fondo, una, due volte. Sempre pensando a lei, scivolò nel sonno. Era buio quando si svegliò. Dapprima, con la mente ancora annebbiata dal sonno e i pensieri confusi, non capì che cosa lo avesse svegliato. Un rumore, pensò, un grido. Pallido in volto, si alzò appoggiandosi ai cuscini e scrutò l'oscurità della stanza. La luce della luna filtrava attraverso il tessuto delle tende drappeggiate, illuminando debolmente i contorni delle doppie finestre sprangate. Nell'incertezza, attese. Poi udì un altro suono, un urlo breve, soffocato, di sorpresa, che svanì quasi immediatamente. Era venuto dall'esterno, dal corridoio dove Dardan e Rhoe montavano la guardia. Si alzò lentamente a sedere, scrutando il buio, teso a ascoltare. Ma c'era solo il silenzio, profondo e sinistro. Eventine scivolò sull'orlo del letto e con cautela mise un piede sul pavimento.
La porta della sua camera si aprì lentamente, e la luce delle lampade a olio del corridoio si riversò nella stanza. Il re elfo rimase agghiacciato. Sulla porta apparve Manx, il corpo pesante incurvato, pronto a scattare, la testa brizzolata puntata verso il padrone. Gli occhi del cane scintillavano come quelli di un gatto, e il suo muso scuro era striato di sangue. Ma furono soprattutto le sue zampe che colpirono il re: nella penombra sembravano essere diventati gli arti nodosi di un demone. Manx passò dalla luce delle lampade nell'ombra, e Eventine sbatté le palpebre allibito. In quell'istante credette che quello fosse soltanto il ricordo di un sogno: aveva immaginato che Manx non fosse Manx, ma qualcos'altro. Il cane si dirigeva lentamente verso di lui, e il re vide che agitava la coda come sempre. Ebbe un sospiro di sollievo. Era sempre il vecchio Manx, si disse. «Manx, vecchio mio...» cominciò a dire, ma si interruppe quando vide le tracce rosse di sangue che la bestia lasciava dietro di sé sul pavimento. Poi Manx si lanciò contro di lui, mirando alla gola, rapido e silenzioso, le fauci spalancate, le zampe artigliate protese. Ma Eventine fu più veloce. Strappando le coperte dal letto, le buttò addosso alla bestia. Dopo avervi imprigionato il cane che si divincolava, il re lo sbatté sul letto e corse verso la porta aperta. In un attimo fu fuori, chiudendola violentemente dietro di sé, sentendo il rumore della serratura che scattava. Era tutto coperto di sudore. Cosa stava succedendo? Come in un sogno, indietreggiò traballando dalla porta. e per poco non inciampò nel corpo senza vita di Rhoe, che giaceva abbandonato per terra a qualche metro di distanza, la gola squarciata. La mente di Eventine turbinava. Manx? Perché mai Manx...? Si interruppe bruscamente. Ma quello non era Manx. Quella bestia che si era lanciata contro di lui nella sua camera non era il suo cane, ma solo qualcosa che gli assomigliava. Stordito, si avviò giù per il corridoio, cercando Dardan. Lo trovò vicino all'ingresso, il cuore trafitto da una lancia. Poi la porta della sua camera da letto si spalancò, e la cosa che assomigliava a Manx, ma che certo non era lui, balzò fuori. Freneticamente, Eventine corse verso l'entrata, tirando le maniglie della porta. Era bloccata sbarrata. Il vecchio re si voltò, osservando la bestia che si dirigeva lentamente verso di lui, le fauci rosse di sangue spalancate. Eventine fu colto dalla paura, una paura così orribile che per un istante fu lì lì per esserne sopraffatto. Era intrappolato nella sua stessa casa. Non c'era nessuno che potesse aiutarlo, nessuno cui rivolgersi. Era solo.
Il mostro avanzava lungo il corridoio: e il suo respiro raschiava lentamente nel silenzio. Un demone, pensò inorridito Eventine, un demone che fingeva di essere Manx, il fedele vecchio Manx. Ricordò allora quel giorno in cui si era svegliato, dopo la battaglia per la Sarandanon, e, vedendo Manx, aveva pensato improvvisamente, irrazionalmente che non era affatto Manx, ma qualcos'altro. Un'allucinazione, aveva creduto... ma si era sbagliato. Manx era scomparso, morto da diversi giorni, o addirittura settimane. Poi l'orribile verità gli balenò alla mente. I suoi incontri con Allanon, tutte le precauzioni che avevano adottato per mantenere i loro piani segreti, per proteggere Amberle... Manx era sempre stato presente. Oppure il demone che gli assomigliava. C'era una spia fra gli Elfi, aveva avvertito Allanon... una spia che, per tutto il tempo, era stata in mezzo a loro. Il vecchio re ripensò a tutte le volte che aveva accarezzato quella testa brizzolata, e si sentì venire i brividi. Ormai il demone era a pochi metri di distanza: avanzava piano, le fauci spalancate, le zampe anteriori piegate. Eventine capì in quell'istante di essere un uomo morto. Poi qualcosa scattò in lui, così rapidamente da cancellare tutto il resto. Fu sommerso dalla collera... per l'inganno che aveva subito, per tutte le morti avvenute a causa di quell'inganno e soprattutto, per la situazione disperata in cui si trovava ora, intrappolato dentro la propria casa. Era tutto teso. Vicino al corpo di Dardan c'era la corta spada che era stata l'arma preferita del Cacciatore. Tenendo gli occhi fissi in quelli del demone, si allontanò impercettibilmente dalla porta. Se fosse riuscito a raccogliere la spada... Improvvisamente il demone superò con un balzo lo spazio che li separava, mirando alla testa del re. Eventine sollevò le braccia per proteggersi e cadde all'indietro, scalciando violentemente. Denti e artigli gli penetrarono negli avambracci, ma, con i piedi, il re colpì la bestia al ventre e la fece cadere fra le ombre dell'ingresso. Rapidamente saltò in piedi, buttandosi su Dardan e afferrando la sua spada. Poi si alzò di nuovo, affrontando il suo aggressore. Esterrefatto, vide avanzare goffamente, dall'angolo buio in cui era caduto, non più Manx, ma qualcosa di diverso. Il demone mutò forma proprio mentre si accingeva a scagliarsi su di lui: divenne una cosa nera, magra, nodosa, il corpo liscio e senza peli. Avanzava su quattro zampe che terminavano in mani artigliate, e le fauci, spalancate, rivelavano zanne scintil-
lanti. Girò intorno al re, alzandosi di tanto in tanto sulle zampe posteriori, facendo finte come un pugile, sibilando di odio. Un Camaleonte, pensò Eventine, respingendo una nuova ondata di paura. Un demone che poteva assumere qualsiasi forma. Il Camaleonte si scagliò improvvisamente contro di lui, lacerandogli la spalla e il fianco, lasciandolo insanguinato e ferito. Il re alzò la spada contro la cosa - troppo tardi. Era già balzata via prima che lui potesse raggiungerla. Poi il demone gli girò nuovamente intorno, lentamente, come un felino che osservi la sua preda braccata. Questa volta devo essere più rapido, si disse Eventine. Il demone si lanciò di nuovo, fingendo di volerlo colpire al petto, e invece scivolò sotto l'arco della spada, ferendo il re alla gamba sinistra. Una fitta dolorosa gli trapassò i muscoli, e cadde in ginocchio, sforzandosi di non crollare a terra. Per un istante gli si annebbiò la vista, poi si riprese e si costrinse a alzarsi. Davanti a lui, il Camaleonte era accovacciato, in attesa. Quando Eventine fu di nuovo in piedi, ricominciò a girargli intorno. Il re sanguinava copiosamente e si sentiva venir meno. Stava perdendo anche questa battaglia, pensò freneticamente, e sarebbe morto se non fosse riuscito a prendere l'offensiva contro il mostro. Serpeggiando e fremendo, il demone si avvicinava. Il re cercò di metterlo con le spalle al muro, ma quello lo schivò agilmente, troppo veloce per un vecchio ferito. Eventine abbandonò quell'espediente: non serviva a nulla. Il demone continuava a girargli intorno, sibilando. Poi, in un ultimo disperato tentativo, il re finse di inciampare e barcollare, cadendo in ginocchio. Provò una fitta lancinante, ma l'inganno funzionò. Credendo il vecchio finito, il Camaleonte si lanciò. Questa volta, però, Eventine vi era preparato. Colpì il mostro nel petto, affondandogli la spada fra le costole e i muscoli. Urlando di dolore, il demone morse il re e lo graffiò, poi balzò via. Il sangue gli scorreva dalla ferita, un fluido rosso-verdastro che macchiava il corpo nero, liscio. Rimasero accovacciati faccia a faccia, il re e il demone, entrambi feriti: ciascuno aspettava che l'altro abbassasse la guardia. Una volta ancora, il demone cominciò a girare intorno a Eventine, lasciando una scia di sangue sul pavimento. Il re raccolse le forze, voltandosi per seguire gli spostamenti del demone. Era coperto di sangue, e si sentiva venir meno. Il dolore trafiggeva il suo corpo torturato. Sapeva che avrebbe potuto resistere soltanto qualche minuto ancora. Tutt'a un tratto il Camaleonte si lanciò contro la sua gola. Accadde così rapidamente che il re ebbe soltanto il tempo di buttarsi indietro, le mani
alzate davanti alla faccia, impugnando la spada. Il demone gli fu addosso, facendolo cadere sul pavimento. Eventine urlò di dolore quando gli artigli gli penetrarono nel petto, e le fauci gli si chiusero intorno all'avambraccio. Poi le porte del palazzo si spalancarono, i chiavistelli andarono in frantumi, i cardini cedettero. Si udirono risuonare per tutto l'ingresso buio le grida di uomini armati. Stordito dal dolore e dall'angoscia, Eventine gridò. Qualcuno l'aveva sentito! Qualcuno era venuto! Il Camaleonte si alzò dal corpo del re, urlando. In quell'istante, lasciò la sua gola esposta. La spada di Eventine si levò, luccicante. Il demone fu sbalzato via, la testa quasi recisa dal corpo, rantolando. Mentre cadeva, i soldati gli piombarono addosso, affondandogli le spade nel corpo. Con un brivido violento, il Camaleonte morì. Barcollando, Eventine Elessedil si alzò, sempre impugnando la spada, gli occhi azzurri duri e fissi. Una sensazione di torpore si diffuse nel suo corpo mentre si voltava, trovando Ander pronto a accoglierlo. Poi il re degli Elfi cadde in avanti, e la notte si chiuse su di lui. 43 Come la Signora Morte, si avvicinò agli esseri umani; era alta ancor più di Allanon, i lunghi capelli grigi intrecciati di belladonna, il mantello nero fluttuante intorno al corpo sottile, un fruscio di seta nel silenzio profondo della notte. Era bellissima; i tratti delicati e finemente modellati, la pelle così pallida da sembrare quasi trasparente. Era come se il tempo non potesse lasciare traccia su di lei, come se lei fosse esistita da sempre e per sempre. Mentre si avvicinava, gli uomini di rami si ritirarono, lo stridio delle gambe di legno simile a un debole fruscio nell'oscurità. Lei passò oltre senza guardarli, gli strani occhi violetti fissi sui tre che restavano paralizzati davanti a lei. Protese le mani, piccole e fragili, curvando le dita come per attirarli a sé. «Mallenroh!» Hebel sussurrò di nuovo il nome, con voce carica di emozione. Lei si fermò, e i tratti perfetti erano privi di espressione mentre guardava il vecchio. Poi si voltò verso Eretria e infine verso Wil. Il giovane era talmente raggelato dalla paura che tremava. «Sono Mallenroh» disse la voce morbida e distante. «Perché siete qui?» Nessuno rispose, gli occhi fissi su di lei. Aspettò un istante, poi agitò davanti a loro le mani pallide.
«La Fossa è proibita. A nessun umano è concesso entrarvi. È la mia casa e qui io ho potere di vita e di morte su tutte le creature viventi. A coloro che mi compiacciono, concedo la vita. Agli altri, do la morte. È sempre stato così. E sempre sarà.» Li guardò uno dopo l'altro, attentamente questa volta, gli occhi violetti che sembravano penetrare in loro. Infine il suo sguardo si posò su Hebel. «Chi sei tu, vecchio? Perché sei venuto nella Fossa?» Hebel deglutì a vuoto. «Cercavo... cercavo te, immagino.» Quasi balbettava. «Ti ho portato qualcosa, Mallenroh.» Lei protese una mano. «Cosa?» Hebel appoggiò per terra il suo sacco, lo aprì e vi frugò dentro. Un attimo dopo estrasse una scultura levigata di legno, intagliata in un blocco di quercia. Era Mallenroh, raffigurata così bene che sembrava prendere vita. Lei la sollevò e l'esaminò; le dita affusolate sfioravano lentamente la superficie lucida. «Carina» disse infine. «Sei tu» mormorò rapidamente Hebel. Lei lo guardò, e a Wil non piacque il suo sguardo. Il sorriso che rivolse al vecchio era pallido e freddo. «Ti ho conosciuto» disse, poi si interruppe, studiando nuovamente il volto incartapecorito di Hebel. «Molto tempo fa, ai margini della Fossa, quando eri ancora giovane. Una notte ti diedi...» «Ricordavo» mormorò Hebel, indicando rapidamente la figura di legno, «ricordavo... com'eri.» Ai piedi di Hebel, Vagabondo si accovacciò sul pavimento di pietra e uggiolò. Ma il vecchio non lo sentì. Era perso completamente negli occhi della strega. Lei scosse lentamente i capelli grigi. «Fu un capriccio, stupido» sussurrò. Tenendo la scultura, gli passò davanti e si diresse verso Eretria. Gli occhi della ragazza erano dilatati per la paura quando la strega le si avvicinò. «Che cosa mi hai portato tu?» La domanda di Mallenroh ebbe un suono fastidioso nel silenzio. Eretria era senza parole. Disperata, guardò Wil, e poi di nuovo Mallenroh. La strega le passò una mano davanti agli occhi, in un gesto che era allo stesso tempo conciliante e imperioso. «Carina» fece, sorridendo. «Hai portato te stessa?» Il corpo snello di Eretria era scosso dai brividi. «Io... no, io...»
«Ti interessa questa?» fece Mallenroh, indicando improvvisamente Wil. Si voltò verso il giovane. «A lui è cara l'altra, credo. Una ragazza elfa. probabilmente? È così?» Wil annuì lentamente. Gli strani occhi della strega trattenevano i suoi; le sue parole lo investirono, dure, arroganti. «Sei tu che hai la magia.» «La magia?» farfugliò Wil. Le mani della strega scivolarono dentro il mantello nero. «Fammi vedere.» La sua voce era così imperiosa che. prima ancora di rendersene conto, Wil Ohmsford aveva aperto la mano che teneva il sacchetto di cuoio. Lei gli fece un breve cenno. «Fammi vedere» ripeté. Incapace di controllarsi, il giovane si fece cadere le Pietre Magiche nella palma aperta. Lì racchiuse, scintillavano e mandavano bagliori. Mallenroh trattenne il fiato, e sollevò una mano verso di loro. «Le Pietre Magiche» disse piano. «Le Pietre Azzurre per la Ricerca.» I suoi occhi incontrarono quelli di Wil. «Saranno il tuo dono per me?» Wil tentò di parlare, ma la morsa di gelo aumentò e dalle labbra non gli uscì nessun suono. Teneva la mano stretta davanti a sé, e non riusciva a abbassarla. Gli occhi di Mallenroh guardarono a fondo nei suoi; quel che vi lesse, lo terrorizzò. Gli aveva fatto capire cosa poteva fare di lui. La strega indietreggiò. «Wisp» chiamò. Dall'ombra emerse furtiva una piccola creatura pelosa, somigliante a uno Gnomo, con la faccia avvizzita di un vecchio. Accorrendo goffamente al fianco di Mallenroh, alzò ansioso gli occhi verso il volto freddo di lei. «Sì, signora. Wisp serve soltanto te.» «Vi sono dei doni...» mormorò lei con un pallido sorriso, e tacque. Silenziosamente, gli porse la scultura di legno che la raffigurava, poi si mise nuovamente davanti a Hebel. Wisp si affrettò a seguirla, accovacciandosi fra le pieghe del suo mantello. «Vecchio» fece lei, avvicinando il volto pallido a quello di lui, «che cosa vuoi che faccia di te?» Hebel sembrò essere tornato in sé. I suoi occhi non erano più trasognati mentre li posava rapidamente sulla strega e poi li distoglieva. «Di me? Non so...» Il sorriso di lei era duro. «Forse dovresti restare qui nella Fossa.»
«Non importa» fece lui, come se intuisse che sarebbe stata comunque la strega a decidere. Poi alzò lo sguardo. «Ma gli Elfi, Mallenroh. Tu puoi...» «Aiutarli?» l'interruppe lei bruscamente. Hebel annuì. «Se tu vuoi che io resti, resterò. Non ho nessuno al mondo. Ma lascia andare gli altri. Aiutali.» Lei rise piano. «Forse c'è qualcosa che tu puoi fare per loro, vecchio.» «Ma ho fatto tutto quello che ho potuto...» «Forse no. Ti ho detto che c'è qualcos'altro che puoi fare, che sarai disposto a fare, non è vero?» I suoi occhi fissavano il vecchio. Wil capì che la strega stava giocando con lui. Hebel apparve perplesso. «Non so.» «Certo che lo sai» fece lei piano. «Guardami.» Lui alzò la testa. «Sono tuoi amici. Vuoi aiutarli, vero?» Wil era angosciato. C'era qualcosa di terribilmente sbagliato in tutto ciò, ma non riusciva né a parlare né a muoversi per mettere in guardia Hebel. Intravide la faccia spaventata di Eretria. Anche lei avvertiva il pericolo. Anche Hebel lo sentiva. Ma sentiva pure che non poteva evitarlo. I suoi occhi incontrarono quelli della strega. «Voglio aiutarli.» Mallenroh annuì. «E così sarà, vecchio.» Allungò una mano verso di lui, toccandogli la faccia. Hebel vide riflesso negli occhi della strega quel che sarebbe diventato. Vagabondo si alzò, digrignando improvvisamente i denti, ma Hebel lo afferrò per il collo e lo tenne fermo. Non c'era più tempo per resistere. Le dita della strega accarezzarono dolcemente la guancia barbuta del vecchio e lui sembrò improvvisamente irrigidirsi in tutto il corpo. No! tentò di urlare Wil, ma era già troppo tardi. Il mantello di Mallenroh avviluppò Hebel e Vagabondo, che scomparvero. Il mantello rimase così un attimo, poi si aprì di nuovo. Mallenroh era sola. In una mano teneva la perfetta riproduzione in legno di un vecchio e di un cane. «Questo è il modo migliore per aiutarli.» Sorrise freddamente. Porse le statuine di legno a Wisp, che le raccolse. Poi si voltò verso Eretria. «E ora, cosa faremo di te, carina?» mormorò. Alzò una mano, puntando un dito. Eretria fu costretta a inginocchiarsi a capo chino. La strega incurvò le dita, e le mani di Eretria si protesero verso di lei in un gesto di sottomissione. Il suo volto era rigato di lacrime.
Mallenroh la osservò senza fare commenti per un attimo, poi guardò bruscamente Wil. «Vorresti che anche lei diventasse una statuina di legno?» La sua voce era così tagliente che al giovane sembrò di essere penetrato da un coltello. Ma non riusciva a parlare. «Oppure la ragazza elfa, forse? Lo sai, naturalmente, che è in mio potere.» Non aspettò la risposta che, come sapeva, lui non era in grado di dare. Avanzò verso Wil e la sua alta figura si chinò finché il suo volto fu vicino a quello del giovane. «Io voglio le Pietre Magiche, e tu me le darai. Tu me le darai, Elfo, poiché io so che, se te le prenderò con la forza, saranno inutili.» I suoi occhi violetti gli bruciavano dentro. «Voglio avere la loro magia, capisci? Conosco il loro valore meglio di te. Sono più vecchia di questo mondo e delle sue razze, più vecchia dei Druidi che giocavano a Paranor con una magia di cui, da tempo, io e mia sorella eravamo già padrone. È così anche con le Pietre Magiche. Non sono di sangue elfo, ma poiché il mio è il sangue di tutte le razze, posso esercitare il loro potere. Nemmeno io, però, posso infrangere la legge che lo evoca. Le Pietre Magiche devono essere date liberamente. E così sarà.» Avvicinò la mano al volto di lui, quasi sfiorandolo. «Ho una sorella, Elfo - Morag - così si fa chiamare. Da secoli viviamo in questa Fossa, e siamo chiamate le Sorelle Streghe, le ultime della nostra congrega. Un tempo, molto tempo fa, lei mi fece un grande torto, che io non ho mai perdonato. Mi sarei già liberata di lei, sennonché i nostri poteri sono pari, così né l'una né l'altra può avere la meglio. Ma le Pietre Magiche sono una magia che mia sorella non possiede e che mi consentirà di distruggerla. Morag... odiosa Morag! Sarà bello costringerla a servirmi come quelle creature di rami! Bello, mettere a tacere per sempre quella voce detestabile! Oh, è tanto che aspetto di liberarmi di lei, Elfo! Tanto!» Mentre parlava, la sua voce si alzava, finché rimbombò contro le pietre della torre, echeggiando attraverso la quiete profonda. Il volto freddo, bellissimo si scostò da quello del giovane, le esili braccia si congiunsero sotto il mantello nero. Wil Ohmsford sentiva il sudore scorrergli lungo il corpo. «Le Pietre Magiche saranno il tuo dono per me» mormorò. «E io ti farò dono della tua vita e di quella delle donne. Accetta la mia proposta. Ricorda il vecchio. Pensa a lui prima di decidere.» Si interruppe mentre la porta della torre si apriva lasciando entrare una dozzina di uomini di rami. Si avvicinarono con quella loro andatura mec-
canica, oscillante, affollandosi intorno a lei. Mallenroh si chinò su di loro per un attimo poi si raddrizzò, lanciando una fredda occhiata a Wil. «Avete portato un demone nella Fossa» gridò. «Un demone... dopo tutti questi anni! Deve essere trovato e distrutto. Wisp... il suo dono?» La creatura pelosa corse verso il giovane inerme e gli prese il sacchetto con le Pietre Magiche. La faccina avvizzita gli diede un'occhiata poi si ritirò fra le pieghe del mantello di Mallenroh. La strega alzò una mano. e Wil si sentì improvvisamente debole. «Ricorda quel che hai visto. Elfo.» La sua voce sembrava distante, ora. «Io ho il potere di dare la vita e la morte. Sii saggio.» Gli passò davanti e scomparve attraverso la porta aperta. Wil si sentì mancare, gli si velarono gli occhi. Al suo fianco, Eretria crollò sul pavimento. Poi cadde anche lui. L'ultima cosa che ricordò fu il contatto di dita lignee che gli si stringevano intorno al corpo. 44 «Wil.» Il suono del suo nome rimase sospeso come un'eco nella nera foschia che lo avviluppava. La voce sembrava venire da una grande distanza, fluttuando attraverso il buio per raggiungerlo nel sonno. Si stirò pigramente, sentendosi oppresso, legato. Con un grande sforzo, emerse dal suo torpore, annaspando. «Wil, stai bene?» Era la voce di Amberle. Il ragazzo sbatté le palpebre, costringendosi a svegliarsi. «Wil?» Stava cullandogli la testa in grembo, il viso chino sul suo, i lunghi capelli castani che ricadevano intorno a lui come un velo. «Amberle?» chiese, assonnato, tirandosi su. Poi, silenziosamente, si protese verso di lei e la strinse a sé. «Temevo di averti persa» riuscì a dire. «E io di avere perso te.» Rise piano, le braccia strette intorno al collo di lui. «Hai dormito per ore, da quando ti hanno portato qui.» Il giovane annuì, la testa nascosta nella spalla di lei, sentendo improvvisamente nell'aria un forte profumo di incenso. Capì che era quello a stordirlo tanto. Dolcemente si scostò dalla ragazza e si guardò intorno. Si tro-
vavano in una cella senza finestre, immersa nell'oscurità tranne che per la luce proveniente da un globo di vetro sospeso a una catena che scendeva dal soffitto; anche questa, ardeva senza olio né pece e non emanava fumo. Una parete della cella era composta interamente di sbarre di ferro conficcate verticalmente nel pavimento e nel soffitto di pietra. Una sola porta si delineava fra le sbarre, fissata a un lato da cardini e all'altro da una massiccia serratura. Nella cella c'erano una caraffa d'acqua, una bacinella di ferro, asciugamani, coperte e tre pagliericci. Su uno giaceva Eretria, e il suo respiro era profondo e regolare. Oltre la parete di sbarre di ferro, un corridoio portava a una scala che scompariva nel buio. Anche Amberle guardò la ragazza nomade. «Penso che stia bene - dorme. Finora, non ero riuscita a svegliare nessuno di voi.» «Mallenroh» mormorò lui, ricordando. «Ti ha fatto del male?» Amberle scosse la testa. «Non mi ha quasi parlato. Anzi, sulle prime non avevo nemmeno capito chi mi avesse fatta prigioniera. Mi hanno portato qui gli uomini di rami e ho dormito per un po'. Poi è venuta lei. Mi ha detto che altri mi cercavano, che le sarebbero stati portati qui come me. Poi se n'è andata.» Gli occhi verde mare cercarono quelli di Wil. «Mi fa paura, Wil... è bella, ma così fredda.» «È un mostro. Ma come è riuscita a trovarti?» Amberle impallidì. «Qualcosa mi ha inseguito fin qui nella Fossa. Non l'ho mai visto, ma lo sentivo - qualcosa di maligno, che mi cercava.» Si interruppe. «Ho corso finché ho potuto, poi ho strisciato. Infine sono crollata. Quelle creature di rami devono avermi trovata e portata qui da lei. Wil, era Mallenroh che sentivo?» Il giovane scosse la testa. «No. Il Mietitore.» Lei lo osservò in silenzio per un attimo, poi distolse lo sguardo. «E ora è quaggiù nella Fossa, vero?» Lui annuì. «La strega lo sa, però. È andata a cercarlo.» Sorrise cupo. «Forse si distruggeranno l'un l'altro.» Lei non sorrise. «Come sei riuscito a trovarmi?» Le raccontò tutto quel che era successo da quando l'aveva lasciata nascosta fra i cespugli ai margini della Fossa... l'incontro con Eretria, le morti di Cephelo e dei nomadi, il ritrovamento delle Pietre Magiche, il ritorno attraverso la Malaterra, l'incontro con Hebel e Vagabondo, la discesa nella Fossa, la scoperta dell'uomo di rami e l'apparizione di Mallenroh. E infine quel che la strega aveva fatto a Hebel.
«Quel povero vecchio» mormorò lei, gli occhi lucidi di lacrime. «Non voleva farle nessun male. Perché allora ridurlo così?» «Noi non contiamo niente per lei» rispose il giovane. «Tutto il suo interesse è per le Pietre Magiche. Vuole averle, Amberle. La trasformazione di Hebel è stato un esempio significativo per tutti noi, particolarmente per me.» «Ma tu non gliele darai, vero?» La guardò, perplesso. «Se si tratta di salvare le nostre vite, certo. Dobbiamo andarcene di qui.» La ragazza scosse lentamente la testa. «Io non credo che ci lascerà andare, Wil... nemmeno se le darai quel che vuole. Non dopo quel che ha fatto a Hebel.» Lui rimase in silenzio un attimo. «Lo so. Ma forse possiamo trattare con lei. Accetterebbe qualsiasi cosa pur di avere le Pietre...» Si interruppe bruscamente. rimanendo in ascolto. «Sst. Viene qualcuno.» Scrutarono silenziosamente attraverso le sbarre della cella. Si sentì un rumore di passi strascicati per le scale. Poi apparve una figura nel raggio della loro unica luce. Era Wisp. «Qualcosa da mangiare» annunciò allegro, porgendo un vassoio con pane e frutta. Avvicinatosi alla cella, fece scivolare il vassoio attraverso una stretta apertura fra le sbarre alla base della porta. «Buon cibo» disse, e fece per andarsene. «Wisp!» lo chiamò Wil. La creatura pelosa si voltò, fissando stupito il giovane. «Non puoi restare a parlare con noi?» La faccina avvizzita si aprì in un sorriso. «Wisp parlerà con voi.» Wil lanciò un'occhiata a Amberle. «La caviglia... puoi camminare?» Lei annuì. «È molto migliorata» rispose. La prese per mano e la portò fino al vassoio. In silenzio, sedettero. Wisp si accovacciò sul gradino più basso della scala buia, la testa leggermente inclinata. Wil prese un pezzo di pane, lo masticò e annuì, soddisfatto. «Ottimo, Wisp.» La creatura sorrise. «Bene.» «Da quanto tempo sei qui, Wisp?» «Da tanto. Wisp serve la Signora.» «La Signora ha fatto te... come quegli uomini di rami?» La creatura pelosa rise. «Gli uomini di rami... clic clac. Wisp serve la Signora... ma non è fatto di legno.» I suoi occhi si illuminarono. «Ero Elfo, come te.»
Wil era esterrefatto. «Ma sei così piccolo! E tutti quei peli?» Indicò le proprie gambe e braccia, poi quelle di Wisp. «È lei che ti ha ridotto così?» L'Elfo annuì allegramente. «Carino, lei dice. Vuole fare diventare Wisp carino. Rotolare e saltare e giocare con gli uomini di rami. Carino.» Si interruppe e guardò Eretria che dormiva. «Carina» disse, indicandola. «La più carina di tutti.» «Che ne sai di Morag?» insistette Wil, ignorando l'evidente interesse di Wisp per la nomade. Il volto di Wisp si increspò in una smorfia. «Malvagia Morag. Tanto cattiva. È da molto che vivono nella Fossa, lei e la Signora. Sorelle. Morag a est, la Signora a ovest. Tutte e due hanno gli uomini di rami, ma soltanto la Signora ha Wisp.» «Escono mai dalla Fossa... Morag e la Signora?» Wisp scosse la testa con solennità. «Mai.» «Perché?» «Non hanno più la magia lontano dalla Fossa.» Wisp ebbe un sorriso astuto. Questo, Wil non l'aveva sospettato. Il potere delle Sorelle Streghe era limitato; non si estendeva al di là della Fossa. Ecco perché mai nessuno le aveva incontrate altrove nelle Terre dell'Ovest. Cominciò a intravvedere un barlume di speranza. Se fosse riuscito a andarsene dalla Fossa... «Perché la Signora odia tanto Morag?» stava chiedendo Amberle. Wisp rifletté un istante. «Tanto tempo fa, c'era un uomo. Bellissimo, dice la Signora. La Signora lo voleva. Morag lo voleva. Ciascuna tentò di prenderlo. L'uomo...» Si torse le mani, poi, con uno sforzo, le separò. «Non c'è più. Andato.» Scosse la testa. «Morag l'ha ucciso. Perfida Morag.» Perfida Mallenroh, pensò Wil. A ogni modo, era evidente cosa provassero le Sorelle Streghe l'una per l'altra. Decise di scoprire cos'altro sapeva Wisp sulla Fossa. «Esci mai dalla torre, Wisp?» chiese. La faccina avvizzita sorrise, fiera. «Wisp serve la Signora.» Wil considerò la risposta affermativa. «Sei mai stato alla Guglia Nera?» «Alla Cripta» rispose subito Wisp. Ci fu un improvviso silenzio. Amberle strinse il braccio di Wil e gli lanciò una rapida occhiata. Il giovane era rimasto così stordito da quella inaspettata risposta da non riuscire a spiccicare parola. Dopo essersi ripreso,
si chinò verso l'ometto. mettendosi una mano davanti alla bocca con aria da cospiratore. Wisp si avvicinò un poco, allungando la testa. «Tunnel e tunnel tortuosi» disse Wil. «È facile perdersi in quei tunnel, Wisp.» La creatura pelosa scosse la testa. «Non per Wisp.» «No?» fece il giovane, incredulo. «E che mi dici di quella porta fatta di vetro che non s'infrange?» L'altro rifletté un attimo, poi batté le mani, eccitato. «No, no, solo vetro finto. Wisp riconosce il vetro finto. Wisp serve la Signora.» Wil stava cercando di decifrare la risposta quando l'altro indicò Eretria dietro di loro. Guarda. Che carina! Salve, salve.» Wil e Amberle si voltarono. Eretria era seduta sul pagliericcio, finalmente sveglia, i capelli neri che le ricadevano sulla faccia mentre si strofinava la nuca. Lentamente alzò gli occhi su di loro, fu sul punto di parlare, ma notò che Wil le faceva un cenno di avvertimento. Poi vide Wisp accovacciato a qualche metro dalle sbarre della cella, che sorrideva estasiato. «Salve, carina» ripeté Wisp, alzando timidamente una mano. «Salve» rispose lei, incerta. Poi, vedendo il rapido cenno di incoraggiamento di Wil, esibì il suo sorriso più abbagliante. «Salve, Wisp.» «Voglio parlare con te, carina.» L'ometto si era completamente dimenticato di Wil e Amberle. Eretria si alzò, vacillando, sbattendo le palpebre per il sonno, e si avvicinò ai suoi compagni, sedendosi accanto a loro. Lanciò una rapida occhiata alle scale a al corridoio. «Che gioco stai facendo ora, Guaritore?» mormorò a labbra socchiuse. C'era un'espressione di paura nei suoi occhi scuri, ma la sua voce era calma. «Sto cercando di scoprire qualcosa che ci aiuterà a uscire di qua» rispose il giovane, senza distogliere lo sguardo da Wisp. Lei annuì approvando, poi arricciò il naso. «Cos'è quest'odore?» «Incenso. Non sono sicuro, ma ho l'impressione che agisca come una droga, se lo respiri. È per quello, credo, che ci sentiamo così deboli.» Eretria si voltò verso Wisp. «Che effetto fa l'incenso?» La creatura pelosa rifletté un attimo, poi si strinse nelle spalle. «Buon odore. Nessuna preoccupazione.» «Davvero» borbottò la nomade, lanciando un'occhiata a Wil. Somministrò un altro sorriso abbagliante a Wisp. «Puoi aprire la porta, Wisp?» chiese, indicando le sbarre.
Anche l'altro sorrise. «Wisp serve la Signora, carina. Tu resti.» Eretria non cambiò espressione. «La Signora è qui nella torre, adesso?» «È alla ricerca del demone» rispose Wisp. «Molto cattivo. Spacca tutti i suoi uomini di rami.» La sua faccia avvizzita si contorse in una smorfia. «Farà male al demone.» Si sfregò le mani. «Lo costringerà a andare via.» Poi si illuminò. «Wisp potrebbe mostrarvi le statuine di legno. Il piccolo uomo e il cane. Nella scatola, cose carine come te.» Indicò Eretria, che impallidì e scosse rapidamente la testa. «No, grazie, Wisp. Parliamo.» L'altro annuì amabilmente. «Sì, parliamo.» Ascoltando la loro conversazione, Wil ebbe improvvisamente un'idea. Si chinò in avanti, afferrando le sbarre della cella. «Wisp, cosa ha fatto la Signora delle Pietre Magiche?» Wisp lo guardò distrattamente. «Sono nella scatola, al sicuro nella scatola.» «Quale scatola, Wisp? Dove tiene questa scatola, la Signora?» Con aria assente, Wisp indicò il corridoio buio dietro di lui, tenendo sempre gli occhi fissi su Eretria. «Parla, carina» supplicò. Wil guardò Amberle, stringendosi nelle spalle. I suoi tentativi di blandire Wisp non avevano molto successo. La creatura era interessata soltanto a Eretria. La ragazza incrociò le gambe e buttò indietro la testa. «Mi faresti vedere quelle pietre tanto carine, Wisp? Eh, che ne dici?» L'altro si guardò intorno, con aria furtiva. «Wisp serve la Signora. Wisp è fedele.» Si interruppe, riflettendo. «Ti farò vedere le statuine di legno, carina.» Eretria scosse la testa. «No, parliamo, Wisp. Perché devi restare qui nella Fossa? Perché non te ne vai?» «Wisp serve la Signora.» Wisp ripeté la sua risposta preferita con ansia, visibilmente turbato. «Non lascia mai la Fossa. Non può lasciarla.» In alto, in qualche punto della torre, una campana squillò, poi tacque. Wisp si alzò in fretta. «La Signora chiama» disse, cominciando a salire le scale. «Wisp!» gli gridò dietro Wil. La creatura si fermò. «La Signora ci lascerà andare se le do le Pietre Magiche?» Wisp sembrava non capire «Andare?» «Andare via dalla Fossa?» insistette Wil.
Wisp scosse rapidamente la testa. «Mai andare. Mai. Statuine di legno.» Fece un cenno a Eretria. «La carina per Wisp. Abbi cura di lei. Parleremo ancora. Più tardi?» Si voltò e schizzò via per le scale, scomparendo nel buio. In silenzio, i prigionieri rimasero a osservarlo. Sopra di loro, la campana suonò di nuovo, e nel silenzio si sentì risuonare l'eco. Wil fu il primo a parlare. «Forse Wisp si sbaglia. Mallenroh tiene molto alle Pietre Magiche. Credo che ci lascerebbe andare se io accettassi di dargliele.» Si accovacciarono davanti alla porta della loro cella, scrutando turbati la scala immersa nell'oscurità. «Wisp non si sbaglia.» Amberle scosse lentamente la testa. «Hebel ci aveva detto che nessuno si avventura nella Fossa e nessuno ne esce.» «La ragazza elfa ha ragione» fece Eretria. «La strega non ci lascerà mai andare. Ci trasformerà tutti in statuine di legno.» «Bene, allora sarà meglio escogitare qualcos'altro.» Wil afferrò le sbarre della cella, per provare quanto erano robuste. Eretria si alzò e, dopo aver lanciato un'occhiata verso le scale, mormorò: «Io ho un altro piano, Guaritore». Si chinò verso lo stivaletto destro, aprì le pieghe di cuoio lungo il lato interno, e estrasse un ferro ritorto a un'estremità. Poi dallo stivaletto sinistro estrasse il pugnale che aveva mostrato a Wil quando Hebel era arrivato inaspettatamente ai margini della Fossa. Alzò l'arma con un sorriso malizioso, e la nascose nuovamente. «Come mai Mallenroh non se n'è accorta?» chiese Wil, sorpreso. La nomade si strinse nelle spalle. «Non si è presa la briga di farmi perquisire dagli uomini di rami. Era troppo occupata a farci sentire inermi.» Si avvicinò alla porta della cella e cominciò a esaminare la serratura. «Che cosa intendi fare?» chiese Wil. «Andarmene di qui» dichiarò lei, scrutando attentamente il buco della serratura. Si girò rapidamente verso di lui e indicò il ferro ritorto. «È un grimaldello. Nessun nomade ne è sprovvisto. Troppi sospettosi cittadini passano il loro tempo a tentare di tenerci in gattabuia. Credo che non si fidino di noi.» Strizzò un occhio a Amberle, che aggrottò la fronte. «Alcuni di loro probabilmente hanno dei validi motivi» ribatté l'Elfa. «Probabilmente.» Eretria soffiò via la polvere dalla serratura. «Tutti noi inganniamo qualcuno, ogni tanto... non è vero, "sorella" Amberle?»
«Aspetta un attimo.» Wil si accovacciò accanto a lei, ignorando lo scambio di battute. «Una volta che tu riesci a aprire quella serratura, Eretria, cosa facciamo?» Lei lo guardò allibita. «Ma scappiamo, Guaritore... ce ne andiamo a gambe levate da questo posto.» Il giovane scosse la testa. «Non possiamo. Dobbiamo restare.» «Dobbiamo restare?» ripeté lei, incredula. «Per un po', almeno.» Wil lanciò una breve occhiata a Amberle, poi prese la sua decisione. «Eretria, penso che sia giunto il momento di farla finita con tutti gli inganni. Sta' bene a sentire.» Fece cenno a Amberle di avvicinarsi, e i tre sedettero vicini nell'oscurità. Rapidamente Wil spiegò alla nomade chi erano veramente Amberle e lui, perché erano venuti nella Malaterra e cosa cercavano. Nel suo resoconto, non omise nessun elemento, poiché era necessario che ora Eretria comprendesse a fondo l'importanza della loro missione. Erano in grave pericolo in quella torre, ma anche se fossero fuggiti. Avrebbero continuato a esserlo. Se fosse successo qualcosa a lui, voleva essere sicuro che la nomade facesse tutto il possibile perché Amberle fuggisse dalla Fossa. Quando ebbe finito, Eretria rimase a guardarlo senza parole. Si voltò verso Amberle. «È tutto vero? Mi fido più di te, Elfa.» Amberle annuì. «È tutto vero.» «E sei decisa a restare finché non trovi questo Fuoco di Sangue?» Amberle annuì nuovamente. La nomade scosse la testa, dubbiosa. «Posso vedere il seme che porti?» Amberle estrasse dalla tunica il seme dell'Eterea, accuratamente avvolto in tela bianca. Tolse l'involucro e lo mostrò, argenteo, di forma perfetta. Eretria lo guardò, stupita. Poi il dubbio scomparve dai suoi occhi, e si voltò di nuovo verso Wil. «Farò come tu dici, Wil Ohmsford. Se pensi che dobbiamo restare, la faccenda è risolta. Però dobbiamo uscire da questa cella.» «D'accordo» fece Wil. «Poi dobbiamo trovare Wisp.» «Wisp?» «Abbiamo bisogno di lui. Lui sa dove Mallenroh ha nascosto le Pietre Magiche e sa anche dove si trova la Cripta, conosce i suoi tunnel, i suoi segreti. Conosce la Fossa. Se riusciamo a avere Wisp come guida, allora avremo una possibilità di riuscire nel nostro intento e di fuggire.»
Eretria annuì. «Prima dobbiamo andarcene di qui. Mi ci vorrà un po' di tempo per aprire questa serratura. Non fate nessun rumore. Tenete d'occhio le scale.» Con cura inserì il grimaldello nel buco della serratura e cominciò a farlo girare. Wil e Amberle si spostarono verso un lato della parete formata da sbarre di ferro, da dove potevano meglio osservare il corridoio che portava verso le scale. I minuti scorrevano, e Eretria non era ancora riuscita a aprire la porta della cella. Nel silenzio profondo, mentre il ferro ritorto frugava la serratura, si sentiva un leggero raschiare; la nomade borbottava poiché il meccanismo continuava a sfuggirle. Amberle si accovacciò accanto a Wil, una mano abbandonata su un ginocchio. «Che cosa farai se non ci riesce?» mormorò la ragazza dopo un po'. Wil teneva gli occhi fissi sul corridoio. «Ci riuscirà.» Amberle annuì. «E in tal caso...?» Lui scosse la testa. «Non voglio che tu dia le Pietre Magiche a Mallenroh» annunciò decisa Amberle. «Ne abbiamo già parlato. Dobbiamo andarcene di qui.» «Una volta che lei avrà le Pietre, ci distruggerà.» «No, se saprò affrontare bene la situazione.» «Ascoltami!» Era in collera. «Mallenroh non ha nessun riguardo per la vita umana. Per lei gli esseri umani sono soltanto oggetto da usare. Hebel non lo capì quando l'incontrò quella prima volta ai margini della Fossa sessant'anni fa. Non vide che la sua bellezza e la magia di cui si ammantava, i sogni che intesseva con le sue parole, le impressioni lasciate dalla sua immagine - tutto fasullo. Non vide il male che si nascondeva in lei - non lo vide finché fu troppo tardi.» «Io non sono Hebel.» Lei inspirò a fondo. «No. Ma temo che la tua preoccupazione per me e per la nostra missione cominci a offuscare il tuo giudizio. Sei così risoluto, Wil. Tu credi di poter superare qualsiasi ostacolo, per quanto temibile. Io invidio la tua determinazione... è una cosa che, purtroppo, mi manca.» Prese le sue mani fra le proprie. «Voglio soltanto farti capire che io mi affido a te. Non so come spiegare... ho bisogno della tua forza, della tua convinzione, della tua determinazione. Ma né questo né quel che provi per me devono offuscare la tua lucidità. Altrimenti, saremo entrambi perduti.»
«La determinazione è più o meno tutto quello che ho» rispose lui, girandosi un attimo a guardarla. «E non mi sembra affatto che tu ne sia priva.» «Ma è così, Wil. Allanon lo sapeva quando scelse te per proteggermi. Sapeva, credo, quanto fosse importante la tua risolutezza per la nostra sopravvivenza. E, senza di essa, Wil, saremmo morti da un pezzo.» Fece una pausa, la sua voce si abbassò finché lui poté appena udirla. «Ma ti sbagli quando dici che anch'io sono forte, determinata. Non è così. Non è mai stato così.» «Non ci credo» ribatté Wil. Ma abbassò gli occhi, e lei se ne accorse. «Tu pensi di conoscermi, ma non è così.» Wil la scrutò. «Cosa intendi dire?» «Intendo dire che ci sono delle cose in me...» Si interruppe. «Che non sono forte come vorrei essere. Ricordi, Wil, quando cominciammo il viaggio da Havenstead? Non avevi una grande opinione di me, allora. E nemmeno io; ecco, voglio che tu lo sappia.» «Amberle, avevi paura. Questo non...» «Oh, sì, avevo paura» l'interruppe lei rapidamente. «Ho ancora paura. E proprio per questo che sono accadute tutte queste cose.» Davanti alla porta della cella, Eretria borbottò furibonda e si mise a sedere, fissando la serratura sempre sigillata. Lanciò un'occhiata al giovane e tornò al lavoro. «Che cosa stai cercando di dirmi, Amberle?» chiese Wil a bassa voce. Amberle scosse lentamente la testa. «Sto cercando, credo, di raccogliere il coraggio per confessarti quella cosa che non sono riuscita a dirti dall'inizio del viaggio.» Si voltò a guardare l'interno buio della piccola cella. «Immagino che desidero dirtela ora perché non so se avrò un'altra occasione.» «Allora parla» la incoraggiò lui. Alzò il viso di bambina verso di lui. «Ho lasciato Arborlon e il mio incarico di Eletta al servizio dell'Eterea perché avevo tanta paura della pianta che non potevo sopportare di starle vicino. Sembra stupido, lo so, ma ti prego, ascoltami. Non l'ho detto a nessun altro. Credo che soltanto mia madre abbia capito. Avrei potuto cercare di spiegarlo, ma ho preferito non farlo. Sentivo di non potermi confidare con nessuno.» Fece una pausa. «Fu difficile per me una volta che lei mi scelse. Sapevo bene che il mio era un caso raro. Sapevo di essere la prima donna prescelta in cinque secoli, la prima donna dall'epoca della Seconda Guerra delle Razze. Accettai, anche se vi furono molti che contestarono il mio incarico
e lo contestarono apertamente. Ma ero la nipote di Eventine Elessedil; non era poi così strano che fossi stata prescelta, pensai. E i miei familiari - soprattutto mio nonno - erano così orgogliosi. «Ma il fatto che fossi stata prescelta non era il solo aspetto singolare della vicenda, come dovetti presto scoprire. Dal primo giorno in cui entrai in servizio, per me fu diverso. L'Eterea, era noto, raramente parlava. Era praticamente inaudito che conversasse con i suoi Eletti dopo che erano stati prescelti, tranne che in rare eccezioni. Ma anche in questo caso, a un Eletto poteva capitare una sola volta durante il suo anno di servizio di avere una conversazione con lei. E invece, fin dal primo giorno, lei mi parlò... non una, o due volte, ma sempre, ogni giorno; non in modo sbrigativo, casuale, ma a lungo e con uno scopo preciso. E. quando accadeva, ero sempre sola; gli altri non c'erano mai. Mi diceva quando venire, e io ubbidivo, naturalmente. Mi sentivo incredibilmente onorata; per lei contavo molto, più di chiunque altro nel presente e nel passato, e ne ero molto fiera.» Scosse la testa, al ricordo. «Dapprima fu meraviglioso. Mi diceva cose che nessun altro sapeva, segreti della terra e della vita che vi cresce, che le razze hanno perso da secoli... perso o dimenticato. Mi parlò delle Grandi Guerre, delle Guerre delle Razze, della nascita delle Quattro Terre e dei suoi popoli, di tutto ciò che era esistito dall'inizio del nuovo mondo. Mi descrisse il mondo antico, anche se la memoria le svaniva, mentre riandava al passato. Non sempre comprendevo quel che mi diceva. E tuttavia capii molte cose. Tutto quel che mi spiegò sul modo di far crescere le cose, di piantarle e curarle. Quello era il suo dono per me: l'arte di far crescere la vita. Era uno splendido dono. E tutto era magico... poter ascoltare quelle cose meravigliose. «Questo accadde nei primi tempi. Avevo appena iniziato il servizio e quel che mi diceva era così nuovo e eccitante che lo accettai senza esitazioni. Ma presto cominciò a accadere qualcosa di molto sgradevole. Ti sembrerà strano, Wil, ma io cominciai a perdermi in lei Cominciai a perdere ogni senso di identità. Non ero più io; ero una sua estensione. Non so ancora se sia stato intenzionale da parte sua oppure semplicemente il risultato del nostro stretto rapporto. Allora, credetti che fosse intenzionale. Cominciai a essere impaurita per quel che mi stava accadendo... impaurita e poi in collera. Come Eletta, dovevo forse rinunciare alla mia personalità, alla mia identità. per soddisfare i suoi bisogni? Avevo la sensazione che lei si trastullasse con me; che mi usasse. Era ingiusto.
«Gli altri Eletti cominciarono a avvertire un cambiamento in me. Cominciarono a sospettare, credo, che il mio rapporto con l'Eterea fosse diverso dal loro. Sentii che mi evitavano, che mi osservavano. E, nel frattempo, io mi perdevo in lei... ogni giorno un po' di più. Ero decisa a porvi fine. Cominciai a evitarla così come gli altri Eletti evitavano me. Mi rifiutavo di andare da lei quando me lo chiedeva; mandavo un altro al mio posto. Quando mi domandava cosa avessi, io non glielo dicevo. Avevo paura di lei, e mi vergognavo di me stessa; ero furibonda per tutta la situazione.» La sua bocca si indurì. «Infine decisi che tutto dipendeva dal fatto che io non dovevo essere prescelta. Non ero in grado di affrontare quella responsabilità, di capire l'essenza del mio compito. Lei mi aveva dato qualcosa che non aveva mai dato a nessun Eletto - qualcosa di stupendo. meraviglioso - e io non potevo accettarlo. Non era giusto che reagissi così; nessun altro al mio posto lo avrebbe fatto. Dunque la mia scelta come Eletta era stata un errore. «Così me ne andai, Wil, appena un mese dopo. Dissi a mia madre e a mio nonno che partivo, che non potevo continuare a servire l'Eterea. Non spiegai loro il motivo. Non avevo il coraggio di farlo. Fallire come Eletta era già orribile. Ma fallire perché lei mi aveva rivolto richieste che chiunque altro sarebbe stato felice di soddisfare... no, era troppo. Potevo ammettere con me stessa quel che era successo fra l'Eterea e me, ma non con gli altri. Mia madre sembrò capire. Mio nonno no. Fra noi ci furono parole dure, che lasciarono entrambi amareggiati. Lasciai Arborlon screditata ai miei stessi occhi oltre che a quelli della mia famiglia e del mio popolo, decisa a non tornare mai più. Giurai secondo la tradizione elfa di prestare servizio al di fuori del mio paese; mi sarei stabilita in una delle altre Terre e avrei insegnato quel che sapevo su come curare e preservare la terra e la sua vita. Viaggiai finché trovai Havenstead. Quella divenne casa mia.» Aveva gli occhi lucidi di lacrime. «Ma mi sbagliavo. Lo posso, lo devo dire ora. Ho abbandonato una responsabilità che era mio dovere assolvere. Sono fuggita dalle mie paure e dalle mie frustrazioni. Così ho deluso tutti e, alla fine, ho lasciato i miei compagni Eletti a morire senza di me.» «Sei troppo dura nel giudicarti» l'ammonì Wil. «Credi?» Ebbe una smorfia. «E invece temo di non giudicarmi abbastanza severamente. Se fossi rimasta a Arborlon, forse l'Eterea avrebbe annunciato tempestivamente che stava morendo. Era a me che aveva parlato per prima... non agli altri. Loro non si erano nemmeno resi conto di quel che succedeva. Forse a me avrebbe parlato in tempo perché il Fuoco
di Sangue venisse trovato e il seme piantato prima che il Divieto cominciasse a sgretolarsi e i demoni a liberarsi. Non capisci, Wil? Se è così, allora io ho sulla coscienza tutti gli Elfi che sono morti.» «È altrettanto possibile» obiettò il giovane «che, se tu non fossi andata via da Arborlon, ma fossi rimasta, l'avvertimento dell'Eterea non sarebbe giunto prima. E allora tu saresti morta con gli altri e non potresti essere di alcuna utilità agli Elfi ancora vivi.» «Tu mi stai chiedendo di giustificare le mie azioni con l'opportunismo del senno di poi.» Lui scosse la testa. «Ti sto chiedendo semplicemente di non formulare congetture su quel che è accaduto. Forse era scritto che le cose andassero così. Tu non puoi sapere.» La sua voce si indurì. «Ora ascoltami un attimo. Supponiamo che l'Eterea avesse deciso di scegliere un altro dei tuoi compagni Eletti per parlargli così come ha fatto con te. Egli avrebbe forse reagito diversamente da te a una tale esperienza? Sarebbe stato immune alle emozioni che ti hanno sconvolta? Io non lo credo, Amberle. Io ti conosco. Forse ti conosco meglio di chiunque altro, dopo quel che abbiamo passato insieme. Tu hai forza di carattere, convinzione e, nonostante quel che dici, determinazione.» Le sollevò il mento con la mano. «Io non conosco nessuno - nessuno, Amberle - che avrebbe sopportato questo viaggio e tutti i pericoli che abbiamo incontrato meglio di te. Penso sia ora di dirti quel che tu ripeti sempre a me. Credi in te stessa. Lascia perdere i dubbi, e le congetture. Abbi fiducia. Un poco di fiducia in te stessa. Amberle, tu la meriti.» Lei piangeva silenziosamente, senza nascondersi. «Ti voglio bene.» «Anch'io.» La baciò sulla fronte, ormai sicuro dei suoi sentimenti. «Moltissimo.» Amberle gli appoggiò la testa sulla spalla e lui la tenne stretta a sé. Quando lo guardò di nuovo, le lacrime erano scomparse. «Voglio che tu mi faccia una promessa» disse. «D'accordo.» «Voglio che tu mi prometta di fare in modo che io porti a termine questa missione... senza esitare, senza smarrirmi. Sii la mia forza e la mia coscienza. Promettimelo.» Le sorrise con dolcezza. «Te lo prometto.» «Ho ancora paura» confessò lei, a bassa voce. Eretria si era alzata davanti alla porta della cella. «Guaritore!»
Wil si tirò subito in piedi, seguito da Amberle, e si affrettò a raggiungere la nomade. I suoi occhi neri scintillavano. Silenziosamente ritirò il ferro dal buco della serratura e se lo infilò nello stivaletto. Poi, con una strizzatina d'occhio al giovane, afferrò le sbarre della cella e spinse. La porta si aprì silenziosamente. Wil Ohmsford sorrise, trionfante. Ora dovevano soltanto trovare Wisp. 45 Lo trovarono quasi immediatamente. Usciti dalla cella, si avvicinarono ai piedi delle scale, e stavano sbirciando nell'oscurità quando sentirono arrivare qualcuno. Rapidamente, Wil fece cenno a Eretria di spostarsi a un lato del corridoio, e spinse Amberle verso l'altro. Appiattiti contro la parete di pietra, aspettavano in ansia mentre il fruscio si avvicinava, un familiare rumore di passi frettolosi che Wil riconobbe subito. Qualche secondo dopo, il faccino avvizzito di Wisp spuntò fuori dal buio del corridoio. «Salve carina, salve, salve. Parli con Wisp?» Wil lo afferrò per il collo. Wisp ebbe un esclamazione soffocata, divincolandosi a più non posso mentre il giovane lo sollevava dal pavimento. «Sta' zitto!» lo minacciò Wil a bassa voce, voltandolo verso di sé in modo che l'altro potesse vederlo. Gli occhi di Wisp si dilatarono. «No, no, non potete andarvene!» «Zitto!» Wil lo scosse finché l'altro divenne tranquillo. «Un'altra parola e ti tiro il collo, Wisp.» L'ometto annuì freneticamente, contorcendo il piccolo corpo robusto. Wil si piegò su un ginocchio, rimettendo il suo prigioniero per terra, ma senza mollarlo. Gli occhi di Wisp erano spalancati per la paura. «Ora, stammi bene a sentire» disse il giovane. «Io rivoglio le Pietre Magiche, e tu mi farai vedere dove le ha nascoste la strega. Capito?» L'altro scosse violentemente la testa. «Wisp serve la Signora! Non puoi andartene!» «Sono in una scatola, hai detto» proseguì Wil, ignorando le sue proteste. «Fammi vedere dov'è quella scatola.» «Wisp serve la Signora! Wisp serve la Signora!» ripeté l'ometto, disperato. «Voi dovete restare! Tornate dentro!»
Lì per lì Wil non seppe cosa fare. Poi si fece avanti Eretria, avvicinando il volto bruno a quello di Wisp. Estrasse il pugnale dallo stivaletto e lo premette contro la gola della creatura. «Ascolta bene, piccola palla pelosa! Se non ci fai vedere immediatamente dove si trovano le Pietre Magiche, ti taglierò la gola da un orecchio all'altro. E così non servirai più nessuno.» La faccia di Wisp si contorse in una orribile smorfia. «Non fare male a Wisp, carina. Tu gli piaci, carina. Lui ti ama. Non fargli male.» «Dove sono le Pietre Magiche?» chiese lei, premendogli ancor più la lama contro la gola. Tutt'a un tratto squillò la campana della torre... una, due, tre e poi quattro volte. Wisp ebbe un gemito terrorizzato e si dibatté violentemente. Wil lo scosse, furibondo. «Cosa sta succedendo, Wisp? Che c'è?» L'altro si afflosciò, affranto. «Viene Morag» piagnucolò. «Morag!» Wil fu assalito da un improvviso senso di disperazione. Come mai Morag si recava alla torre della sorella? Lanciò una rapida occhiata alle ragazza, ma nei loro occhi lesse il suo stesso sgomento. «Wisp serve la Signora» farfugliò l'ometto e cominciò a piangere. Wil si guardò rapidamente intorno. «Abbiamo bisogno di qualcosa per legarlo.» Eretria si tolse la lunga fusciacca dalla vita e legò le mani di Wisp dietro la schiena. Wil prese le estremità della cintura e se le fissò intorno a un polso. «Ascoltami bene, Wisp.» Tirò su di scatto il mento all'Elfo che piagnucolava, finché i loro sguardi si incontrarono. «Ascoltami bene!» Wisp ubbidì. «Voglio che tu mi porti dove la Signora tiene le Pietre Magiche. Se cerchi di fuggire o di lanciare qualche avvertimento, sai quel che ti capiterà. non è vero?» Aspettò pazientemente finché Wisp annuì. «Perciò non fare il furbo. E adesso andiamo.» Wisp fu lì lì per dire qualcosa, ma Eretria fece lampeggiare il pugnale. Rassegnato, l'ometto annuì di nuovo. «È meglio per te, Wisp.» Wil lo lasciò andare. «E ora, muoviamoci.» In fila cominciarono a salire la scala. Wisp in testa, Wil a un passo da lui, tenendo stretta la fusciacca che legava le mani di Wisp, seguito da Eretria e Amberle. Si inoltrarono nel buio scrutandosi intorno, annaspando
per trovare le pareti di pietra del passaggio. Per diversi minuti furono immersi nell'oscurità più completa. Poi una luce scintillò davanti a loro, e i deboli contorni delle scale riemersero dal buio. Apparve un globo simile a quello che aveva illuminato la loro cella e vi passarono sotto. Più avanti ne luccicavano altri. Continuarono a salire su per la scala a chiocciola. Di tanto in tanto passavano davanti a corridoi neri e vuoti che affondavano nella pietra e a porte isolate, chiuse e sbarrate, ma Wisp non rallentava. Dopo i primi rintocchi, le campane avevano taciuto; l'intera torre era immersa nel silenzio. Il profumo muschiato dell'incenso diventava sempre più forte man mano che salivano, invadendo il pozzo delle scale col suo odore pungente. Stordiva Wil e le ragazze, che si sforzavano di non inspirarlo. Man mano che i minuti passavano Wil cominciò a insospettirsi. Forse Wisp era più furbo di quanto sembrasse. Ma poi raggiunsero un pianerottolo e Wisp si fermò. Indicò un breve corridoio appena illuminato che terminava in una massiccia porta rinforzata col ferro. Da dietro quella porta giungevano delle voci. Wil si chinò in fretta. «Che cos'è, Wisp?» Il faccino avvizzito era furtivo e imperlato di sudore. «Morag» mormorò, poi scosse rapidamente la testa. «Molto male. Molto male.» Wil si raddrizzò. «Morag non ci interessa. Dove sono le Pietre Magiche?» Wisp indicò nuovamente la porta. Wil esitò, fissandolo esitante. Gli stava veramente dicendo la verità? Poi Eretria si inginocchiò accanto all'ometto e gli parlò con dolcezza, senza più minacciarlo col coltello. «Wisp, ne sei certo?» L'altro annuì. «Non mento, carina. Non fare male a Wisp.» «Non voglio farti del male» lo rassicurò lei, fissandolo dritto negli occhi. «Ma tu servi la Signora, non noi. Dobbiamo crederti?» «Wisp serve la Signora» ammise Wisp, con scarsa convinzione, poi scosse la testa. «Wisp non mente. Le belle pietre sono là, in fondo al grande atrio, in una piccola stanza in cima alle scale, in una scatola con fiori graziosi, rossi e oro.» Eretria rimase a fissarlo ancora un attimo, poi lanciò un'occhiata a Wil e annuì. Gli credeva. Wil annuì a sua volta. «C'è un altro modo per arrivare lì?» chiese. Wisp scosse la testa. «Una sola porta.» Indicò quella in fondo al corridoio.
Wil lo guardò in silenzio per un attimo, poi fece cenno agli altri di seguirlo. Silenziosamente, scivolò lungo il breve corridoio finché fu davanti alla porta. Al di là, si alzavano delle voci, stridule, rabbiose. Qualsiasi cosa stesse succedendo, Wil non voleva esservi coinvolto. Inspirò a fondo, poi, lentamente, con cautela, fece scorrere il chiavistello e socchiuse la porta. Sbirciò dentro. Al di là c'era l'atrio dove era comparsa Mallenroh, enorme e immerso nell'ombra, illuminato debolmente da alcuni di quegli strani globi che pendevano come ragni da un invisibile soffitto. La porta dava su un pianerottolo; una serie di gradini a semicerchio scendeva verso il pavimento dell'atrio. Là centinaia di uomini di rami erano ammassati intorno a due figure nere, allampanate, che si affrontavano a meno di dodici passi di distanza e stridevano come gatti rabbiosi. Wil Ohmsford rimase a guardare, esterrefatto. Le Sorelle Streghe, Morag e Mallenroh, ultime della loro Congrega, nemiche acerrime per un conflitto vecchio di secoli, dimenticato da tutti, tranne che da loro, erano gemelle identiche. Alte, nei loro ampi mantelli neri, i capelli grigi intrecciati di belladonna, i tratti squisiti, la pelle bianca perfetta, dall'aspetto spettrale nel buio - l'una sembrava il riflesso dell'altra. Entrambe erano snelle e delicate. Ma in quel momento la loro bellezza era deturpata dall'odio che contorceva i loro lineamenti e induriva gli occhi violetti. Le loro voci giunsero fino al giovane, meno violente, ora che avevano smesso di urlare, ma sempre aspre e rabbiose. «Il mio potere è pari al tuo, Sorella. Io non ti temo. Non riesci nemmeno a tenermi lontana da questo squallido rifugio. Siamo come pietra e roccia; né l'una né l'altra potrà prevalere.» Scosse la testa, beffarda. «Ma tu vuoi cambiare tutto, sorella. Vuoi danneggiarti con una magia che non ti appartiene. Così facendo, porresti fine al tuo dominio su questa parte della Fossa, sorella. Non puoi avere segreti per me. Conosco le tue intenzioni non appena le concepisci.» Fece una pausa. «E so delle Pietre Magiche.» «Tu non sai niente» urlò l'altra. Wil vide che era Mallenroh. «Vattene da casa mia, sorella, vattene finché puoi, oppure troverò il modo di fartelo rimpiangere.» Morag scoppiò a ridere. «Calmati, sciocca. Non puoi spaventarmi. Me ne andrò quando avrò ottenuto quello che voglio.» «Le Pietre Magiche sono mie!» sbottò Mallenroh. «Io le ho e me le tengo. Il dono era per me.»
«Sorella, nessun dono sarà tuo se io non lo voglio. Il potere racchiuso nelle Pietre Magiche deve appartenere a chi è meglio dotata per esercitarlo. E quella sono io. Sono sempre stata io.» «Tu non sei mai stata più dotata di me» scattò Mallenroh. «Ti ho permesso di dividere questa valle con me perché sei l'ultima delle mie sorelle, e ho pietà per te così brutta e senza scopi nella vita. Pensaci. Io ho sempre avuto le mie belle cosine; ma tu, tu non hai che la compagnia dei tuoi silenziosi uomini di rami. Ricordi l'umano che hai cercato di portarmi via, quell'umano bellissimo che era mio, e tu desideravi tanto?» sibilò. «Ricordi, sorella? Hai perso anche lui, no? Sei stata così imprudente da permettere che venisse distrutto.» Morag si irrigidì. «Sei stata tu a distruggerlo, sorella.» «Io?» Mallenroh scoppiò a ridere. «Bastò che tu lo toccassi e lui avvizzì per l'orrore.» Il volto di Morag era stravolto dalla collera. «Dammi le Pietre Magiche.» «Non ti darò niente!» Immobile, accovacciato dietro la massiccia porta di legno, Wil Ohmsford sentì una mano sulla spalla e sobbalzò. Eretria voleva guardare attraverso lo spiraglio. «Cosa succede?» «Stai dietro» mormorò lui e tornò a osservare lo scontro in corso nell'atrio. Morag si era avvicinata e ora stava direttamente davanti a Mallenroh. «Dammi le Pietre Magiche. Devi darmele.» «Tornatene nel buco da cui sei strisciata fuori, lucertola» rispose, beffarda, Mallenroh. «Torna nel tuo nido vuoto.» «Serpente! Mostro!» «Megera! Vattene!» strillò Mallenroh. La mano di Morag scivolò fuori di scatto dal mantello e colpì violentemente Mallenroh in faccia. Il rumore secco dello schiaffo risuonò nel silenzio. Mallenroh barcollò, sorpresa. Gli arti lignei degli uomini di rami stridevano mentre si agitavano spaventati nell'atrio cavernoso, allontanandosi dalle due antagoniste. Poi risuonò improvvisamente la risata stridula di Mallenroh. «Sei ridicola, sorella. Non puoi farmi del male. Vattene. Aspetta che io venga da te. Aspetta che io ti dia la morte che meriti. Non vale nemmeno la pena di averti come schiava.»
Morag si fece avanti e la colpì di nuovo, uno schiaffo rapido, improvviso che strappò a Mallenroh un urlo di rabbia. «Dammi le Pietre Magiche!» C'era una nota di disperazione nella voce di Morag. «Le voglio, sorella! Le voglio! Dammele!» Si avvicinò a Mallenroh, stringendole le mani intorno alla gola. L'altra, barcollando. indietreggiò. il volto bellissimo contorto dalla rabbia. Le Sorelle Streghe ruzzolarono sul pavimento dell'atrio, stridendo e graffiandosi come gatti. Poi Mallenroh si liberò e si tirò in piedi. Allungò un braccio. Immediatamente una massiccia radice spuntò dalla pietra ai suoi piedi avvolgendosi intorno al corpo di Morag che si divincolava. Portando con sé la strega, salì verso il buio, immensa e troneggiante, fin oltre il bagliore bianco delle lampade. Morag urlò. All'improvviso un lampo luminoso infranse l'oscurità, e un fuoco verde investì la radice, riducendola in cenere. Morag si afflosciò senza vita. mentre dense nuvole di fumo si alzavano dai suoi resti. Poi la strega riapparve, fluttuando verso il basso come uno spettro nella nebbia. per finire sul pavimento. Mallenroh urlò per la delusione; il fuoco verde saettò dalle sue dita, avvolgendo la sorella. Morag colpì a sua volta. Per un istante furono entrambe consumate dal fuoco, mentre nell'atrio risuonavano le loro grida. Poi il fuoco scomparve e le streghe si ritrovarono faccia a faccia; lentamente si allontanarono l'una dall'altra. «Questa volta mi libererò di te» sussurrò Mallenroh con fredda rabbia, e balzò addosso alla sorella. Morag le si fece incontro e la respinse. Di nuovo il fuoco verde saettò dalle sue dita. Con un grido alto, terribile, Mallenroh scomparve in una nuvola di fumo. Un istante dopo emerse qualche metro a destra, sprigionando fuoco dalle mani. Le due sorelle continuarono a combattersi, schizzando avanti e indietro, in un turbinio frenetico. Scintille di fuoco verde piovvero sugli sfortunati uomini di rami; in pochi attimi, dozzine di loro andarono in fiamme. Una volta ancora le sorelle si avvicinarono, accapigliandosi selvaggiamente, col fuoco che saettava dalle loro mani, i mantelli neri che ondeggiavano nel vortice dei loro movimenti. Poi, il fuoco esplose come una colonna dal pavimento di pietra. Un urlo terribile sfuggì a entrambe mentre stavano con le mani avvinghiate e le alte figure si raddrizzavano per la violenza dello scontro. La fiamma schizzava come acqua verso gli angoli dell'atrio, riversando scintille sugli uomini di rami che si assiepavano. La colonna di fuoco emanava un calore tale che penetrò attraverso lo spira-
glio della porta dietro cui erano accovacciati Wil e gli altri, scottandogli la faccia. Poi la torre cominciò a tremare; schegge di pietra e di legno piovevano giù attraverso il fumo e l'oscurità. Wil vide che la colonna si protendeva avidamente oltre le Sorelle Streghe verso le grandi travi di legno che sostenevano la torre. Dappertutto gli uomini di rami bruciavano, spargendo fiamme in lungo e in largo. Subito Wil si alzò. Un attimo ancora di indugio, e le fiamme li avrebbero intrappolati. O, peggio ancora, l'intera torre poteva crollare e seppellirli. Ora dovevano uscire allo scoperto. Sarebbe stato pericoloso, ma sempre meno che restarsene lì. Spinse Wisp davanti allo spiraglio. «Dov'è la stanza con la scatola, Wisp?» Wisp gemeva e singhiozzava. Wil lo scosse, furibondo. «Fammi vedere dov'è!» Wisp indicò un punto attraverso la porta. Alla loro destra, quasi in fondo all'atrio, c'era una stretta scala a chiocciola che saliva verso un pianerottolo sul quale si affacciava una porta solitaria. Wil lanciò una rapida occhiata a Amberle. La sua caviglia slogata l'avrebbe intralciata. «Puoi farcela?» chiese. Lei annuì in silenzio. Guardò Eretria, che annuì. Inspirò a fondo. «Allora andiamo.» Tenendo Wisp che si divincolava sotto un braccio, spalancò la porta e schizzò fuori. Il calore delle fiamme lo investì come una barriera, bruciandogli la faccia, la gola. Abbassò la testa, seguì la parete destra della torre, e saltò giù per i gradini a semicerchio. Gli uomini di rami gli brulicavano intorno, ma lui li respinse bruscamente, facendo strada alle sue compagne. Scesero fino al pavimento dell'atrio, aggirando i fuochi sparsi qua e là, avanzando a fatica verso le scale distanti. Poi, bruscamente, la colonna di fuoco schizzò verso l'alto in una esplosione che li fece cadere tutti per terra. Storditi, si misero in ginocchio, osservando la lotta fra le Sorelle Streghe intensificarsi. Improvvisamente il fuoco, da verde mistico che era, cominciò a diventare di un giallo crepitante, un vero fuoco naturale. Le streghe urlarono. Il fuoco le lambiva e saliva veloce su per le loro membra snelle, per il groviglio dei lunghi capelli grigi. Le stava bruciando. «Sorella!» gemette una delle due, improvvisamente consapevole e impaurita. Ci fu un crepitio di carne che bruciava; con sorprendente rapidità, la conflagrazione avviluppò le due streghe come un sudario, divorandole. Un
minuto prima erano avvinghiate nella loro battaglia furibonda; un attimo dopo erano scomparse. Immuni ai reciproci poteri, non erano in grado di sopravvivere alla fusione di entrambi. Di loro non restava che un mucchio di cenere e di carne carbonizzata. Wil sentì Amberle uscire in un'esclamazione di orrore. Poi gli uomini di rami cominciarono a cadere, crollando come bambole di pezza, le braccia e le gambe che si staccavano dai corpi, le dita che appassivano, finché non rimase che un ammasso di legna annerita. La magia che li aveva creati e tenuti in attività era morta con le Sorelle Streghe. Nell'atrio devastato dalle fiamme, non restavano più in vita che i tre stranieri e Wisp. Ormai il tempo stringeva. Tossendo mentre il fumo si spandeva sopra di lui, Wil saltò in piedi. Tenendo stretto Wisp sotto il braccio, si spinse avanti fra le fiamme e il fumo, aprendosi la strada fra i resti degli uomini di rami, urlando a Amberle e a Eretria di seguirlo. Wisp piangeva e farfugliava, ma Wil, spazientito, lo ignorò; arrivato faticosamente fino alla scala in fondo all'atrio, cominciò a salire, barcollando. Sul pianerottolo, cercò a tastoni il chiavistello della porta, pregando che si aprisse. Si aprì. Piangendo per il fumo, con la gola che gli bruciava, si spinse dentro. Il ruggito del fuoco lo seguì, soffocando le strida disperate di Wisp. La stanza era un labirinto di sete scure e di belladonna infestonate lungo le pareti e i graticci di ferro. Il giovane scrutò ansiosamente il buio, trovando finalmente quel che cercava. Su un tavolo in fondo alla stanza, in mezzo a mucchi di ornamenti e a vasi di incenso e profumo, c'era un grosso scrigno di legno, tutto intarsiato, i bordi adorni di fiori dipinti in rosso e oro. Le Pietre Magiche! Un'ondata di gioia lo travolse. Wisp urlava come un pazzo, ma Wil non lo sentì, stordito dal calore e dal fumo, tutto teso a ricuperare le Pietre. Si accorse vagamente che anche Eretria e Amberle erano entrate nella stanza mentre, barcollando, si avvicinava allo scrigno. Stava per toccarne il coperchio quando Eretria gridò e lo spinse rapidamente di lato. «Quante volte dovrò salvarti, Guaritore?» urlò per farsi sentire sopra il ruggito del fuoco. Strappato un chiavistello di ferro da un gancio alla parete, si mise con cautela a un lato dello scrigno e allungò con precauzione il chiavistello per aprire il coperchio. Una macchia verde schizzò fuori, avvolgendosi intorno al ferro. Rapidamente la ragazza lo scagliò per terra, con la cosa ancora attorcigliata intorno, un involucro senza vita. Wil la guardò, inorridito. Era una vipera. «Stava cercando di avvertirti!» Eretria indicò Wisp. La creatura si era sciolta in lacrime.
Wil era talmente sconvolto che, per un istante, non fu più in grado né di muoversi né di parlare. Un morso di quella vipera... Col pugnale Eretria smosse lo scrigno allontanandolo dal tavolo. Cadde sul pavimento, riversando fuori un mucchio di pietre preziose e di gioielli. In mezzo c'era il sacchetto di cuoio. La nomade lo afferrò, lo tenne un istante come per decidere cosa farne, poi lo porse a Wil. Lui lo prese in silenzio, allentò i cordoncini e guardò dentro. Un debole sorriso gli increspò le labbra. Le Pietre Magiche erano nuovamente sue. Un altro brivido scosse la torre; nell'atrio, una delle massicce travi di sostegno aveva ceduto. schiantandosi in una pioggia di fiamme. Wil si ficcò le Pietre Magiche nella tunica e si avviò verso la porta tirandosi dietro Wisp, Eretria e Amberle. Dovevano andarsene subito. Ma un improvviso martellare proveniente da un massiccio armadio di legno lo fece voltare... un martellare accompagnato da grida soffocate e dal ringhio profondo di un animale. Wil lanciò una rapida occhiata a Eretria. Qualcosa era intrappolato nell'armadio. Il giovane esitò solo un istante. Qualsiasi cosa fosse, si meritava la possibilità di andarsene dalla torre. Si affrettò a fare scorrere il chiavistello. La porta dell'armadio si spalancò e una grossa forma scura saltò addosso a Wil. buttandolo a terra. Urla risuonarono nella stanza piena di fumo mentre il giovane cercava di respingere il suo aggressore. Poi qualcuno cacciò via la creatura e apparve un volto familiare. «Hebel!» esclamò Wil, esterrefatto. «Basta, Vagabondo!» Il vecchio allungò una pacca al cane. «Che cosa sta succedendo? Che cosa facevo io in quell'armadio, per amore del cielo?» Barcollando. Wil si tirò in piedi. «Hebel! La strega, Mallenroh... ti ha trasformato in una statuina di legno! Non ricordi?» Sorrise per il sollievo. «Ti credevamo perduto! Non capisco come tu...» Amberle lo prese per un braccio. «È stata la magia, Wil. Con Mallenroh, è morta anche la sua magia. Per quello sono crollati gli uomini di rami... la magia era scomparsa. Deve essere successa la stessa cosa a Hebel e al cane.» Una nuova ondata di fumo si riversò nella stanza. e Eretria gridò, angosciata.
«Dobbiamo uscire di qua!» Wil corse di nuovo verso la porta, tenendo sempre il terrorizzato Wisp sotto un braccio. «Porta Amberle» gridò a Hebel. Sul pianerottolo. si fermarono, sgomenti. L'intero atrio era in fiamme. Il pavimento era ricoperto da uomini di rami che bruciavano. Le travi lungo il soffitto a volta si incurvarono e spezzarono, divorate dalle fiamme. Persino le pareti di pietra avevano cominciato a arroventarsi per il caldo. La porta dell'atrio era chiusa e sbarrata. Esitando, Wil cominciò a scendere le scale, avanzando a tastoni fra le fiamme e il fumo, tentando di raggiungere la porta. Poi, improvvisamente, quella si spalancò fragorosamente, sbattuta contro le pareti di pietra da qualcosa che faceva irruzione dall'esterno. Giunti in fondo alla stretta scala, Wil Ohmsford e gli altri si fermarono, sorpresi, sbirciando attraverso la barriera di fiamme. La luce del sole filtrò dalla porta devastata e, per un istante, sembrò a Wil che una specie di ombra si fosse inoltrata nell'atrio. Incerto, cercò di vedere al di là delle fiamme, di capire che cosa avesse scorto. Forse aveva solo immaginato quell'ombra... Qualche passo dietro di lui. Vagabondo si fermò improvvisamente e si accovacciò, ringhiando e uggiolando. E poi capì. Il Mietitore! Si era dimenticato del Mietitore. «Wisp!» gridò freneticamente, scuotendo l'Elfo così forte che la faccina avvizzita ballonzolava davanti a lui. «Come facciamo a andarcene di qui? Ascoltami! Mostrami un altra uscita!» «Wisp... uscire... laggiù.» Indicò debolmente con un braccio. Wil la vide... una porta, alla loro sinistra, forse venti metri oltre la barriera di fuoco. Non esitò un istante. Gridando ai suoi compagni di seguirlo, corse fra le fiamme e il fumo. Gli sembrava quasi di sentire il respiro del Mietitore sul collo. Da qualche parte, nell'atrio, li stava cercando. Raggiunsero la porta. Tossendo, Wil trovò la maniglia e la tirò. Cedette. Dopo aver sospinto gli altri avanti, li seguì, chiuse la porta con forza dietro di sé e fece scorrere il chiavistello. Poi corsero inciampando e barcollando... giù per una scala a chiocciola che scendeva sotto la torre, attraverso un'oscurità illuminata fiocamente, in un'umidità impregnata di muffa che raffreddava i loro corpi accaldati, dove i loro passi echeggiavano nel silenzio. Solo due volte il giovane si voltò per parlare, mentre guidava gli altri lontano dalla torre in rovina: la prima per pronunciare il nome del loro inseguitore, e la seconda per avvertirli
che il Mietitore li aveva trovati. Poi nessuno disse niente. Pensavano solo a fuggire. In fondo alle scale si apriva un lungo tunnel che scompariva nel buio, illuminato da qualche globo. Lo imboccarono; Wil teneva stretto il corpo raggomitolato di Wisp, che gemeva e piagnucolava a ogni passo; Hebel con Vagabondo al fianco - e Eretria sostenevano Amberle, che ancora zoppicava per la sua caviglia slogata. Al loro passaggio in quel tunnel sotterraneo, che serpeggiava descrivendo una curva dietro l'altra, centinaia di insetti correvano via zampettando e si alzavano nugoli di polvere. Più volte Wil si voltò a scrutare le ombre. Non si era mosso qualcosa? Non si era udito un rumore? Le lacrime gli annebbiavano gli occhi, e le asciugò furibondo. Dov'era il Mietitore? Li aveva inseguiti da Arborlon fin lì. Era vicino; lo sentiva. Era lì, che li braccava. Davanti a lui il tunnel terminò e apparve la spirale di una seconda scala, scura e deserta. Arrivato lì, il giovane si fermò finché gli altri lo ebbero raggiunto, poi cominciò rapido a salire. Per lunghi minuti avanzarono tortuosamente nel buio - la curva dei gradini sembrava prolungarsi all'infinito davanti a loro - l'orecchio teso a intercettare la cosa che li inseguiva. Ma non udirono nulla salvo i propri passi. Tutto era immerso nel silenzio. La scala terminava con una botola. Un chiavistello era fissato sulla pietra. Wil lo fece scorrere, puntò la spalla contro la botola e riuscì a sollevarla; quella si spalancò e ricadde con un tonfo sordo; nel tunnel si riversò una pallida luce. I fuggiaschi si precipitarono fuori. Erano di nuovo nella Fossa, grigia, immobile, avvolta nella nebbia. Dietro di loro la torre di Mallenroh, avviluppata nelle spirali di fumo che salivano fra gli alberi e si allungavano sul fossato e sulle mura, si sgretolava lentamente. Tutt'intorno la foresta era deserta. Da nessuna parte si vedeva il Mietitore. 46 Wil si guardò intorno, perplesso. Nebbia e oscurità nascondevano tutto, tranne il guizzare delle fiamme che ancora bruciavano nella torre di Mallenroh. Non si scorgeva null'altro. Il giovane non aveva la più pallida idea di quale direzione prendere. «Hebel, dov'è la Guglia Nera?» chiese in fretta. Il vecchio scosse la testa. «Non saprei, Elfo. Non vedo niente.»
Wil esitò, poi si inginocchiò rapidamente per terra e si tolse da sotto il braccio Wisp, che, la faccia nascosta fra le mani, si era tutto raggomitolato. Per quanto si sforzasse, il giovane non riuscì a farlo raddrizzare. Infine rinunciò; tenendo Wisp per le spalle, lo scosse. «Wisp, ascoltami» disse in tono pressante. «Wisp, ho bisogno di parlarti. Guardami.» L'ometto sbirciò in su, riluttante, tenendosi una mano davanti alla faccia. Tremava tutto. «Wisp, dov'è la Guglia Nera?» chiese in fretta Wil. «Devi portarci alla Guglia Nera.» Wisp non rispose, guardandolo un attimo come un bambino incantato fra le mani aperte; poi le richiuse a pugno. «Wisp!» Wil lo scosse di nuovo. «Wisp, rispondimi!» «Wisp serve la Signora!» esclamò improvvisamente l'Elfo. «Serve la Signora! Serve la Signora! Serve la...» Wil lo scosse così forte da fargli battere i denti. «Smettila! E morta, Wisp! La Signora è morta! Tu non la servi più!» Wisp smise di tremare e lentamente le mani gli caddero dalla faccia. Cominciò a piangere, forti singhiozzi strazianti che scuotevano il suo piccolo corpo. «Non fate del male a Wisp» supplicò. «Buono Wisp. Non fategli del male.» Poi crollò per terra come un mucchio di cenci, gridando e rotolandosi come un animale ferito. Wil lo guardò, disperato. «Bravo, Guaritore» sospirò Eretria, facendosi avanti. «Lo hai quasi spaventato a morte. Ci sarà proprio d'aiuto, ora.» Afferrò il giovane per un braccio e lo spinse via. «Lascia che me ne occupi io.» Wil si mise di fianco a Amberle e insieme rimasero a osservare la ragazza che si inginocchiava accanto a Wisp e cullava l'ometto singhiozzante fra le braccia. Parlandogli a bassa voce, lo tenne stretto a sé e gli accarezzò la testa pelosa. Passarono lunghi momenti e infine Wisp smise di piangere. Alzò leggermente il capo. «Carina?» «Sì. Wisp?» «Carina, ti prenderai cura di Wisp?» «Certo» rispose lei, lanciando un occhiata severa a Wil. «Nessuno ti farà del male.» «Non fare del male a Wisp?» La faccina avvizzita si sollevò verso quella di Eretria. «Promesso?»
La ragazza gli sorrise, rassicurante. «Te lo prometto. Ma tu devi aiutarci, Wisp. Lo farai? Ci aiuterai?» Lui annuì energicamente. «Ti aiuterò, carina. Wisp buono.» «Wisp buono, davvero» riconobbe Eretria. Poi si chinò su di lui. «Ma dobbiamo affrettarci. Il demone - quello che ci ha inseguiti fin nella Fossa - ci dà ancora la caccia. Se ci trova, ci farà del male.» Wisp scosse la testa. «Non lasciare che faccia del male a Wisp, carina.» «No, non ti farà del male... ma dobbiamo muoverei.» Gli accarezzò una guancia. «Dobbiamo trovare quella montagna... Guaritore, come si chiama?» «Guglia Nera» rispose Wil. Lei annuì. «Guglia Nera. Puoi direi come arrivarci, Wisp? Puoi accompagnarci là?» Wisp lanciò un occhiata perplessa a Wil, poi alla torre che ancora bruciava. I suoi occhi rimasero fissi sulle rovine per un attimo, poi ritornarono su Eretria. «Porterò te, carina.» Eretria si alzò e lo prese per mano. «Non avere paura, Wisp. Avrò cura di te.» Mentre passavano vicino a Wil, la ragazza gli strizzò un occhio. «Te l'avevo detto che avresti avuto bisogno di me, Guaritore.» Scomparvero nel buio della foresta. Wisp in testa, che scivolava come un'anguilla attraverso la nebbia e il groviglio di rami e cespugli, stringendo forte la mano di Eretria. Hebel seguiva con Vagabondo, poi veniva Wil con Amberle, tenendole un braccio intorno alla vita per sorreggerla mentre lei zoppicava coraggiosamente al suo fianco. Ma quasi immediatamente gli altri cominciarono a distanziarli; nel tentativo di affrettarsi, Amberle inciampò e cadde. Wil non esitò. La raccolse fra le braccia e proseguì. Amberle non protestò. Lui se ne stupì, dato che per tutto il viaggio aveva tanto tenuto alla sua autonomia. Ma ora se ne stava tranquilla, la testa appoggiata alla spalla del giovane, le braccia abbandonate intorno al suo collo. Non si scambiarono una sola parola. Wil rifletté un attimo su quell'improvviso mutamento, poi la sua mente tornò a concentrarsi sugli altri problemi. Stava già elaborando un piano di fuga, non soltanto dalla Fossa, ma anche dal Mietitore. Poiché fuggire dalla Fossa non sarebbe servito a nulla, se non fossero riusciti a eludere il Mietitore. Certo quel luogo era pericoloso, ma era il Mietitore che spaventava veramente Wil: quel predatore implacabile che non si fermava davan-
ti a nulla, era una creatura che sfidava le leggi della ragione e delle probabilità e semplicemente eliminava ogni ostacolo che lo intralciava nell'inseguimento di quella fragile donna-bambina che ora lui portava fra le braccia. Non doveva permettergli di trovarla. Forse nemmeno le Pietre Magiche, sempre che lui scoprisse un modo per liberarne lo straordinario potere, sarebbero bastate a arrestare quel mostro. Dovevano fuggire lontano da lui, e in fretta. Pensava di potervi riuscire. Era il quinto giorno da quando si erano inoltrati nella Malaterra... l'ultimo giorno in cui Perk sarebbe volato con Genewen sopra la valle prima di tornare a casa. Per un attimo il giovane fece scivolare una mano nella tasca della sua tunica per tastare i contorni dell'oggetto lì nascosto... lo zufolo d'argento che Perk gli aveva dato per chiamare Genewen. Era la loro unica possibilità di mettersi in contatto col giovane Cavaliere Alato, e Wil l'aveva gelosamente conservato. Sapeva di aver promesso a Amberle che non avrebbe chiamato il ragazzo a meno che la loro situazione non fosse stata disperata, ma certo non poteva essere più disperata di così. Se avessero dovuto riattraversare la Fossa, la Malaterra e tutte le basse Terre dell'Ovest per raggiungere Arborlon, non ce l'avrebbero fatta mai. Il Mietitore avrebbe trovato la loro pista e li avrebbe raggiunti. Sarebbe stato stupido illudersi di sfuggirgli. Dovevano trovare un altro modo per tornare e l'unico che Wil conoscesse era quello di volare con Genewen. Il Mietitore avrebbe continuato a inseguirli, come sempre, ma in tal caso sarebbero stati al di fuori della sua portata. Forse, si corresse. Forse. Avevano bisogno di tempo per fuggire, e quello che restava stava scivolando via rapidamente. Già ne avevano avuto poco fin dall'inizio, e gran parte era trascorso. Il Mietitore li braccava. Anche se erano riusciti a eluderlo fra le rovine della torre della Strega, li avrebbe presto rintracciati. Ma, prima di fuggire, dovevano raggiungere la Cripta, trovare il Fuoco di Sangue, immergervi il seme dell'Eterea, salire su per la Guglia Nera, lanciare il segnale a Perk, che poteva essere da qualsiasi parte sopra la Malaterra, montare su Genewen, sempre che il grande Roc potesse portarli tutti, e volare verso la salvezza... e tutto ciò doveva accadere prima che il Mietitore li sorprendesse. Forse era pretendere troppo, pensò Wil. Gli alberi lo intralciavano mentre seguiva la figura snella di Eretria, i rami e i rampicanti lo schiaffeggiavano. Teneva stretta Amberle, ma già cominciavano a dolergli le braccia. Tutto intorno la foresta era profonda, silenziosa.
Pensò a Arborlon e agli Elfi. Ormai i demoni dovevano aver fatto irruzione attraverso il Divieto e invaso le Terre dell'Ovest, e gli Elfi erano certo impegnati a difendere il loro paese. Il terribile conflitto che Eventine aveva cercato di evitare doveva già essersi scatenato. E l'Eterea? Allanon aveva forse trovato un modo per proteggere l'albero morente? Il potere del Druido era stato abbastanza forte da opporre resistenza all'assalto dei demoni? Soltanto una rinascita dell'Eterea poteva salvare gli Elfi, aveva detto Allanon. Ma quanto tempo rimaneva perché non fosse troppo tardi? Domande inutili, si rimproverò Wil. Domande destinate a restare senza risposta, poiché non poteva sapere cosa succedeva al di là della Fossa. Si ritrovò a desiderare che Allanon potesse in qualche modo raggiungerlo, fargli sapere cosa stava succedendo nella terra degli Elfi, e che c'era ancora tempo... sempre che Wil riuscisse a tornare. La disperazione lo assalì, improvvisa, accompagnata da una terrificante certezza... che se anche fosse riuscito nel suo intento, sarebbe stato troppo tardi per coloro che attendevano il suo ritorno. E allora... Wil non volle terminare quel pensiero. Continuando così, sarebbe impazzito. Il terreno cominciò a salire, dapprima dolcemente, poi bruscamente. Erano sui pendii della Guglia Nera. Dirupi rocciosi e grappoli di macigni si materializzarono fra il groviglio dei boschi; uno stretto sentiero serpeggiava verso l'alto nella nebbia. Avanzavano faticosamente. Gradualmente la nebbia cominciò a dissolversi e la foresta a diradarsi. Ampie chiazze di cielo grigio apparvero fra gli alberi, e l'oscurità fu rischiarata da qualche raggio di sole. Lentamente, con cautela, i viandanti salivano su per il pendio, intravedendo di tanto in tanto, attraverso gli alberi sempre più radi, la conca della Fossa, simile a un mare di rami aggrovigliati e contorti. Poi, all'improvviso, gli alberi scomparvero e si trovarono sull'orlo di un dirupo, oltre al quale, sopra la Fossa, scorsero le montagne più alte della Malaterra. Ammassi di cespugli e di rami morti si alzavano da chiazze fitte di carice fino alla parete rocciosa della Guglia Nera, dove una massiccia caverna si apriva come una grande gola scura. Wisp guidò la piccola compagnia fino all'ingresso della caverna, aggirando il labirinto di pesanti cespugli, poi si fermò e si voltò rapidamente verso Eretria. «Carina, la Cripta è qui.» Indicò l'interno della caverna. «Tunnel e tunnel che corrono dentro. La Cripta. Bravo, Wisp.» La ragazza gli rivolse un sorriso rassicurante e guardò Wil. «E ora?»
Wil si fece avanti, scrutando inutilmente il buio. Posò un attimo Amberle per terra e si voltò verso Wisp. L'ometto sgusciò subito dietro Eretria, nascondendo la faccia fra le pieghe dei suoi pantaloni. «Wisp?» lo chiamò con gentilezza, ma Wisp non voleva più avere a che fare con lui. Wil sospirò. Non c'era tempo per queste stupidaggini. «Eretria, chiedigli dove si trova una porta di vetro che non si infrange.» La nomade si chinò verso l'ometto. «Wisp, non devi avere paura. Non permetterò che nessuno ti faccia del male. Guardami, Wisp.» Lui sollevò la testa e sorrise, incerto. Eretria gli accarezzò una guancia. «Wisp, sai dove si trova una porta di vetro che non si infrange? Ne hai sentito parlare?» Wisp inclinò la testa. «Giochi, carina? Giochi con me?» Eretria era perplessa. Lanciò una rapida occhiata a Wil che si strinse nelle spalle e annuì. «Certo, possiamo giocare, Wisp» rispose Eretria, sorridendo. «Ci fai vedere questa porta?» La faccina avvizzita si increspò per la gioia. «Wisp ti fa vedere.» Saltò su, schizzò dentro la caverna, poi ne uscì di nuovo; afferrò Eretria per una mano e se la tirò dietro. Wil scosse la testa, disperato. Wisp doveva essere ammattito, per tutto quello che gli era successo durante la sua reclusione nella Fossa o per lo choc che aveva subito perdendo la Signora; stavano correndo un brutto rischio dandogli retta, nella convinzione che sapesse veramente dove si trovava il Fuoco di Sangue. Ma non avevano alternative. Diede un'altra occhiata all'enorme caverna buia. «Sarebbe molto spiacevole perdersi lì dentro» borbottò Hebel accanto a lui. Eretria sembrava essere della stessa opinione. «Wisp, non si vede niente.» Lo obbligò a fermarsi. «Dobbiamo farci delle torce.» Wisp si arrestò di botto. «Niente torce, carina. Niente fuoco. Il fuoco brucia... distrugge. Fa male a Wisp. Il fuoco brucia la torre della Signora. La Signora... Wisp serve...» Improvvisamente crollò, il faccino inondato di lacrime, stringendo le piccole braccia intorno alle gambe della nomade. «Non fare male a Wisp, carina!» «No, no, Wisp» lo rassicurò lei, prendendolo in braccio e tenendolo stretto a sé. «Nessuno ti farà del male. Ma abbiamo bisogno di luce, Wisp. Non possiamo vedere in questa caverna senza luce.»
Wisp sollevò la faccia rigata di lacrime. «Luce, carina? Oh, ma c'è. Vieni. Laggiù c'è luce.» Borbottando fra sé, li riaccompagnò all'ingresso della caverna. Poi si diresse verso la parete più vicina, frugò in una piccola nicchia e estrasse un paio di quelle strane lampade. Mentre si inoltrava nell'oscurità, i globi di vetro si accesero di quella strana luce senza fumo che ardeva in tutta la torre della Strega. «Luce» fece Wisp sorridendo, e porse le lampade a Eretria. Lei le prese, tenendone una per sé e dando la seconda a Wil. Il giovane si voltò verso Hebel. «Non sei obbligato a venire con noi se non te la senti.» «Non dire stupidaggini» rispose il vecchio. «E se vi perdete là dentro? Avrete bisogno di me e Vagabondo per uscire, no? Inoltre, sono curioso di vedere questa Cripta.» Wil capì che era inutile discutere. Fece un cenno di assenso a Eretria. La giovane afferrò Wisp per la mano; tenendo la lampada di fronte a entrambi, cominciò a inoltrarsi nella caverna. Wil sollevò Amberle fra le braccia e li seguì. Hebel e vagabondo chiudevano la fila. Procedevano con cautela. Gradualmente i loro occhi cominciarono a adattarsi all'ambiente; l'enorme caverna, di cui non si vedevano né le pareti né il soffitto, scendeva nel cuore della Guglia Nera. Avanzando sul pavimento irregolare, ma senza ostacoli, sprofondarono nell'oscurità. Finalmente arrivarono alla parete posteriore. Si ritrovarono davanti a una serie di strette fenditure verticali che si aprivano nella roccia, una identica all'altra, e delle quali non si intravedeva la fine. Wisp non ebbe la minima esitazione, ne scelse una e vi si inoltrò. Imboccò un labirinto di curve e canali, di tunnel tortuosi in costante discesa. Presto gli altri persero ogni senso dell'orientamento. Ma Wisp continuava a guidarli, sicuro di sé. Poi, improvvisamente, si ritrovarono di fronte a una scala, e i tunnel mutarono aspetto. Ora non erano più scavati nella roccia. La scala e le pareti intorno erano formate da blocchi di pietre, rozzi e massicci, ma indubbiamente lavorati a mano. Chiazze di umidità scintillavano su tutti i lati del tunnel e rivoli d'acqua scorrevano sui gradini. In basso si udivano dei rumori. Piccoli corpi guizzarono via con un fruscio di minuscoli piedi e squittii infastiditi. Squarci di movimenti saettanti rivelarono le forme lisce e scure di ratti.
Wisp guidò la compagnia giù per la scala nel buio. I gradini scendevano per decine di metri, descrivendo strane curve, ordinandosi una o due volte in piccole rampe, poi sprofondando di nuovo tortuosamente nella montagna. Tutto intorno a loro, appena oltre il bagliore delle lampade, i ratti scorrazzavano nel buio, con strida che risuonavano deboli e sgradevoli nel silenzio. L'atmosfera era appesantita dall'odore di muffa, umidità e putrefazione. Ma continuavano a scendere, osservando i gradini serpeggiare sotto di loro. Infine la scala terminò. Si ritrovarono in una grande sala dall'alto soffitto a volta sostenuto da massicce colonne. Tutto intorno a una bassa piattaforma circolare erano disposti, a anfiteatro, seggi rotti di pietra. Strani segni erano incisi sulla pietra delle colonne e delle pareti, e sopra la piattaforma vi erano bracieri di ferro e aste di stendardi: tutti arrugginiti. Quella doveva essere stata una sala del consiglio, o persino un luogo in cui si compivano sacrifici e strani riti, pensò Wil. In tempi lontani, un popolo si era riunito qui. Si guardò intorno, ma già Wisp avanzava fra le file di seggi; superata la piattaforma si diresse verso una massiccia porta di pietra spalancata in fondo alla sala. Al di là un altra serie di scalini si inoltrava giù nella montagna. Cominciarono a scendere. Wil era piuttosto preoccupato. Erano penetrati nelle viscere della Guglia Nera, e soltanto Wisp aveva qualche idea di dove si trovassero. Se il Mietitore li avesse sorpresi lì... I gradini terminarono. La compagnia imboccò un altro tunnel. Da qualche parte davanti a lui Wil immaginò di sentire uno scrosciare d'acqua, come un ruscello che scendesse giù lungo la roccia. Wisp avanzava in fretta, tirando Eretria per mano e lanciandosi occhiate ansiose alle spalle, come per rassicurarsi che lei ci fosse ancora. Poi il tunnel terminò e si ritrovarono in una grande caverna. Qui non c'era più traccia dei grandi blocchi di pietra. Questa caverna era opera della natura: le pareti butterate e piene di crepe, il soffitto una massa irregolare di stalattiti, il pavimento costellato di buche e cosparso di frammenti di roccia. Nell'oscurità, oltre il cerchio di luce emanato dalle loro lampade, sentirono scorrere l'acqua. Wisp li guidò attraverso la caverna, camminando agilmente fra le rocce, borbottando fra sé. Contro la parete in fondo erano ammucchiati dei macigni, che sembravano esser franati giù. In mezzo a loro scorreva uno stretto nastro d'acqua, che si raccoglieva in una pozza dalla quale si diramava una serie di minuscoli ruscelli gorgoglianti e serpeggianti nell'oscurità.
«Qui» annunciò soddisfatto Wisp, indicando la cascata. Wil posò Amberle per terra e guardò esterrefatto l'ometto. «Qui» ribadì Wisp. «La porta di vetro che non si infrange. Un buffo gioco per Wisp.» «Wil, allude alla cascata» intervenne improvvisamente Amberle. «Guarda bene... dove l'acqua si allarga fra quelle rocce sopra la pozza.» Wil guardò, e capì allora cosa intendeva la ragazza. Precipitando nella pozza, il ruscello formava un sottile, uniforme nastro d'acqua fra due colonne gemelle di roccia, così da assomigliare molto a una porta di vetro. Fece diversi passi avanti; la superficie dell'acqua rifletteva la luce della sua lampada. «Ma non è vetro!» sbottò Eretria. «È soltanto acqua!» «È possibile che l'Eterea se ne sia scordata!» ribatté prontamente Amberle, rivolta al giovane. «È tutto così remoto. Gran parte di quel che sapeva l'ha dimenticato col passare del tempo. Molti suoi ricordi sono confusi. Forse ricorda questa cascata d'acqua soltanto per quel che sembrava... una porta di vetro che non s'infrange.» Eretria guardò Wisp. «È questa la porta, Wisp? Ne sei sicuro?» L'altro annuì energicamente. «Buffo gioco, carina. Fai ancora questo gioco con Wisp.» «Se questa è la porta, allora deve esserci una caverna al di là» fece Wil. «Wisp ti fa vedere!» L'ometto gli schizzò davanti, tirandosi dietro Eretria. «Guarda, guarda, carina! Vieni!» Si portò dietro la nomade finché si trovarono alla destra della cascata, di fianco alla pozza. La faccina avvizzita si girò un attimo, poi lasciò andare la mano della ragazza. «Guarda, carina.» Un istante dopo passava sotto la cascata e scompariva. Eretria, allibita, rimase a guardare il punto in cui era scomparso. Quasi immediatamente tornò, i peli incollati al corpo, raggiante. «Guarda» disse, e prese nuovamente la ragazza per mano, tirandosela dietro. Passarono attraverso la cascata, stando vicini, sempre tenendo le lampade davanti a loro, proteggendosi gli occhi mentre avanzavano fra le rocce. Dietro la cascata c'era una nicchia, e poi uno stretto passaggio. Grondanti, lo seguirono, preceduti da Wisp; arrivati in fondo, trovarono un'altra caverna, assai più piccola di quella precedente e inaspettatamente asciutta, senza traccia dell'umidità e della muffa di cui era impregnata l'altra; il pavimento saliva in una sorta di gradinata naturale. Wil inspirò a fondo. Se
la cascata d'acqua era la porta di vetro che non si infrangeva descritta dall'Eterea, allora era lì che avrebbero trovato il Fuoco di Sangue. In silenzio camminò verso il fondo della caverna e tornò indietro. Non c'era più nessun tunnel, nessun corridoio. Alzò la lampada, guardandosi attorno; ma non si scorgeva nulla da nessuna parte. La sala era vuota. All'ingresso della caverna che si inoltrava nella Guglia Nera, un'ombra passò attraverso il groviglio di cespugli e scomparve silenziosamente nella Cripta. Al suo passaggio, un improvviso silenzio era piombato sulla foresta. Una girandola di pensieri turbinò nella mente di Wil Ohmsford mentre, disperato, se ne stava nella caverna vuota e si guardava intorno. Non c'era nessun Fuoco di Sangue. Dopo tutto quel che avevano sopportato per raggiungere la Cripta, non avevano trovato il Fuoco di Sangue. Era perso, forse scomparso dalla terra secoli addietro, insieme col vecchio mondo. Era un'illusione, una vana speranza concepita dall'Eterea moribonda, una magia morta insieme con un mondo di favola. Oppure, se esisteva ancora il Fuoco di Sangue, non era lì. Era da qualche altra parte nella Malaterra, chissà dove, e non l'avrebbero mai trovato. Era irraggiungibile. Nascosto... «Wil!» Il grido di Amberle infranse il silenzio, rapido e improvviso. Si voltò e se la trovò davanti che annaspava come se fosse cieca e cercasse di vedere. «Wil, è qui! Il Fuoco di Sangue è qui! Lo sento!» La sua voce tremava di eccitazione. Gli altri la guardavano increduli, ipnotizzati mentre zoppicava attraverso la caverna buia, protendendo le dita nel buio come tentacoli. Eretria si avvicinò rapidamente a Wil, sempre stringendo per mano Wisp che si nascondeva dietro di lei. «Guaritore, cosa...?» Lui le fece cenno di tacere. Scosse lentamente la testa, senza parlare. I suoi occhi erano fissi su Amberle. Ora si era avvicinata alla parte più alta della caverna, una piccola sporgenza rocciosa quasi nel centro della sala. Penosamente, zoppicando, vi salì sopra. In fondo, c'era un masso. Amberle vi si avvicinò e poi si fermò, protendendo le mani per sfiorarne la superficie. «Qui» mormorò a fior di labbra.
Wil schizzò avanti, saltando sulla sporgenza. Immediatamente la ragazza si voltò verso di lui. «No, non avvicinarti, Wil!» Il giovane si immobilizzò. Qualcosa nella sua voce lo costrinse a ubbidire. Per un istante si guardarono in silenzio nell'oscurità della caverna: gli occhi di Amberle esprimevano paura e disperazione. Fissò il giovane un attimo ancora, poi si voltò. Appoggiando il suo corpo esile contro il macigno, lo spinse. E quello, come se fosse stato fatto di carta, rotolò via. Un fuoco bianco esplose dalla terra, alzandosi fino al soffitto della caverna, una fiamma scintillante come ghiaccio liquido. Ardeva bianco e luminoso, ma senza emanare calore. Poi, lentamente, cominciò a diventare rosso come il sangue. Wil Ohmsford indietreggiò, barcollando sconvolto; per un attimo, non si accorse che Amberle era scomparsa. Poi, dietro di sé, sentì Wisp gridare inorridito. «Fuoco! Wisp bruciare! Wisp ferito!» La sua voce divenne uno stridulo altissimo. La sua faccina avvizzita era orribilmente contorta mentre il fuoco inondava la sala di luce rossa. «La Signora, la Signora brucia... brucia, brucia! Wisp... serve... brucia!» La sua mente aveva ceduto. Liberatosi da Eretria, corse via dalla caverna, con un lungo gemito di angoscia. Hebel cercò inutilmente di afferrarlo. «Wisp, torna qui!» gridò Eretria. «Wisp!» Ma era troppo tardi. Lo sentirono passare sotto la cascata. Se n'era andato. Nel bagliore cremisi del Fuoco di Sangue, Wil, Eretria e Hebel si guardarono ammutoliti. 47 L'istante successivo Wil si rese conto che Amberle era scomparsa. Esitò, pensando che i suoi occhi lo ingannavano, che il Fuoco la nascondeva fra le ombre e la luce cremisi, che la ragazza doveva essere ancora su quella sporgenza rocciosa dove stava un attimo prima. Ma, se era così perché non la vedeva? Stava dirigendosi verso il Fuoco di Sangue per cercarla quando l'urlo risuonò... Alto e terribile, rimase sospeso nel silenzio. «Wisp!» sussurrò Eretria, inorridita.
Già correva verso il corridoio, quando Wil la raggiunse e rapidamente la riportò indietro. Anche Hebel indietreggiò, afferrando per il collo Vagabondo che ringhiava. Poi udirono qualcosa attraversare la cascata. Non era Wisp, pensò Wil ma qualcos'altro, molto più grosso di Wisp. Era il rumore provocato dal suo passaggio a rivelarlo. E se non era Wisp... I peli si rizzarono sul collo di Vagabondo che si accovacciò, mostrando i denti. «Mettetevi dietro di me» fece Wil a Eretria e a Hebel. Già si era infilato una mano nella tunica, estraendo il sacchetto con le Pietre Magiche. Indietreggiando fino alla sporgenza rocciosa dove bruciava il Fuoco di Sangue, gli occhi fissi sull'ingresso della sala, slacciò il cordoncino di cuoio, muovendo freneticamente le dita. Era il Mietitore. La sua ombra penetrò nella caverna, silenziosa come il moto della luna. Il Mietitore camminava come un essere umano, anche se era assai più grosso di qualsiasi persona normale: una cosa scura, massiccia, più alta persino di Allanon. Di lui non si vedevano che il mantello e il cappuccio color della cenere umida. Quando scivolò nella caverna, la luce cremisi del Fuoco cadde su di lui come sangue. L'esclamazione terrorizzata di Eretria infranse il silenzio. Dai grandi artigli uncinati penzolava il corpo spezzato di Wisp. Immediatamente nella mano della nomade apparve il pugnale ricurvo. Dall'ombra nera del suo cappuccio, il Mietitore la fissò, implacabile, senza volto. Wil si sentì raggelare ancor più di quando aveva visto Mallenroh la prima volta. Il demone era la personificazione del male. Pensò improvvisamente alle sue vittime, agli Elfi di guardia a Boschi Grigi, a Crispin, Dilph e Katsin al Baluardo, a Cephelo e agli altri nomadi vicino alla Collina Sibilante... tutti distrutti da quel mostro. E ora era venuto per lui. Cominciò a tremare; la paura che lo sconvolgeva era forte come una creatura viva. Non riusciva a distogliere lo sguardo dal demone, non ne aveva la forza, anche se ogni fibra del suo corpo lo supplicava di farlo. Al suo fianco, Eretria era terrea; i suoi occhi scuri corsero verso quelli del giovane. Hebel indietreggiò, e il ringhio di Vagabondo si trasformò in un uggiolio disperato. Il Mietitore si staccò dalla parete della caverna con un movimento silenzioso, quasi impercettibile. Wil Ohmsford si fece forza. Alzò la mano che teneva le Pietre Magiche.
Il Mietitore si fermò, sollevando leggermente il cappuccio senza volto. Non era stato il giovane a farlo esitare, ma il fuoco cremisi che bruciava alle sue spalle. C'era qualcosa in quel fuoco che turbava il demone. Scrutò silenziosamente le fiamme rosso sangue che lambivano la superficie levigata della sporgenza rocciosa e si alzavano verso il soffitto della caverna. Il fuoco non sembrava minaccioso; semplicemente ardeva, freddo, costante, senza fumo, senza lasciar traccia. Il Mietitore attese ancora un istante, circospetto, poi avanzò. In quell'istante, Wil fu di nuovo colto dai sogni, i sogni che l'avevano tormentato a Havenstead e poi ancora nella fortezza del Baluardo: la cosa che gli dava la caccia attraverso la nebbia e la notte la cosa da cui non poteva fuggire. Le immagini tornarono ora così come lo avevano assalito nel sonno, e anche tutte le sensazioni che le avevano accompagnate, ma più forti e terrificanti. Era il Mietitore che l'aveva inseguito, il suo volto sempre invisibile mentre lo perseguitava da un sogno all'altro, sempre sul punto di coglierlo... il Mietitore, ora, emerso dall'incubo nella realtà. Ma questa volta Wil non poteva né fuggire né nascondersi, e nemmeno svegliarsi. Questa volta non c'era via di scampo. Allanon! Aiutami! Cercò profondamente dentro di sé, e, in una marea di indicibile paura, ritrovò le parole del Druido. Credi in te stesso. Credi. Abbi fiducia. Io conto soprattutto su di te. Conto su di te. Si lasciò fluire dentro quelle parole. Con una mano non più tremante, invocò la magia delle Pietre Magiche con tutte le forze che riuscì a raccogliere. Affondò in loro, sentendosi cadere fra strati di profonda luce azzurra. Gli si annebbiarono gli occhi, e il bagliore scarlatto del Fuoco di Sangue sembrò spegnersi, diventare grigio. Era vicino ora, vicino. Sentiva fra le mani il potere delle Pietre. Ma non successe nulla. Allora fu preso dal panico e, per un istante, ne fu sommerso a tal punto che per poco non corse via. Fu soltanto la consapevolezza di non avere scampo che lo obbligò a restare. La barriera era sempre lì, dentro di lui come l'aveva sentita dopo l'incontro col demone nel Tirfing - e come l'avrebbe sempre sentita, perché non era in grado di dominare le Pietre Magiche, perché non era la persona adatta: lui non era che uno stupido giovane della Valle che pretendeva di essere qualcosa che in realtà non era. «Guaritore!» gridò Eretria disperata.
Di nuovo egli tentò e di nuovo fallì. Non riusciva a evocare il potere delle Pietre. Non era in grado di raggiungerlo, non era in grado di dominarlo. Con la faccia madida di sudore, le strinse così forte che le sentì penetrare nella mano. Perché quel potere gli sfuggiva? Allora Eretria si scostò da lui, facendo improvvisamente una finta col pugnale, per attirare il demone. Il Mietitore si voltò, il cappuccio senza volto la seguì mentre si spostava lentamente lungo la sporgenza rocciosa, come se cercasse di fuggire via dalla caverna. Wil capì immediatamente perché lo faceva; voleva dargli tempo... qualche prezioso secondo in più per evocare il potere delle Pietre Magiche. Avrebbe voluto gridare, dirle di tornare e avvertirla che non era più in grado di usare la magia. Ma non riuscì a parlare. Aveva gli occhi lucidi di lacrime mentre si sforzava di infrangere la barriera che lo separava dalle Pietre. Eretria stava per morire, pensò angosciato. Il Mietitore l'avrebbe uccisa sotto i suoi occhi. Con aria indolente, il Mietitore buttò via quel che restava di Wisp. Da sotto il mantello, gli artigli uncinati emersero nella luce cremisi del Fuoco di Sangue e si protesero verso la ragazza. Eretria! Quel che successe dopo doveva restare impresso nella sua mente come se fosse stato scolpito nella roccia. In pochi secondi di eternità, passato e presente si fusero; come era successo a suo nonno, Wil Ohmsford si ritrovò faccia a faccia con se stesso. Gli sembrò che Amberle gli parlasse, che la sua voce uscisse dal bagliore rosso emanato dal Fuoco di Sangue: calma, forte e ricca di speranza. Gli parlò come gli aveva parlato quel mattino dopo che erano fuggiti dal Baluardo, mentre il Mermidon li portava verso sud, lontano dall'orrore di quella notte. Gli disse, come gli aveva detto allora, che nonostante tutto quel che era accaduto, egli non aveva perso il potere di evocare le Pietre Magiche. Ma non era così. Lei aveva visto quel che era successo sul ponticello davanti alla fortezza. Wil aveva desiderato con tutte le sue forze di distruggere il demone dopo che quello aveva ucciso il valoroso Crispin! E invece era rimasto là, impotente, stringendo inutilmente le Pietre Magiche nella mano. Se il vento non avesse fatto crollare la passerella. Il Mietitore li avrebbe distrutti allora. Lei doveva certo capire che egli aveva perso quel potere. Poi la voce sommessa di Amberle tornò, un sussurro, nella sua mente. No, non era perso. Ma i suoi sforzi non facevano che precludergli la pos-
sibilità di raggiungere le Pietre Magiche, e questo accadeva perché non capiva la natura del potere che cercava di esercitare. Doveva cercare di capire. Doveva ricordare che la magia elfa non era che un'estensione di chi la usava... La voce di Amberle svanì e subentrò quella di Allanon. Cuore e mente e corpo... una pietra per ciascuno. La fusione di tutti e tre avrebbe dato vita alle Pietre Magiche. Ma quella fusione dipendeva da Wil. Forse per lui non sarebbe stato così facile come lo era stato per suo nonno, perché egli era diverso da lui. Due generazioni lo separavano dal sangue elfo di Shea Ohmsford, e se a suo nonno era bastato un pensiero, per Wil non sarebbe stato altrettanto agevole. Una parte di lui resisteva alla magia. Sì, sì! Esclamò il giovane fra sé. Il suo sangue di uomo resisteva. Era il suo sangue umano che lo separava dal potere delle Pietre. Il suo sangue di uomo, la parte non-elfa di lui che respingeva la magia. La risata di Allanon risuonò sommessa, ironica. Se era così, perché era riuscito a usare le Pietre Magiche quella volta...? Anche la voce del Druido svanì. E allora Wil Ohmsford capì come si fosse lasciato trarre in errore dopo quella volta nel Tirfing, quando aveva evocato il potere delle Pietre Magiche e aveva sentito l'incredibile magia fluire in lui come fuoco liquido. Aveva lasciato che i suoi dubbi alimentassero l'inganno, e inconsapevolmente l'aveva rinforzato con la sorprendente rivelazione di Allanon che soltanto il sangue elfo consentiva di evocare il potere delle Pietre Magiche. Così era giunto rapidamente alla conclusione che la sua incapacità di usare nuovamente lo stesso potere evocato nel Tirfing dipendeva dal suo sangue umano... Anche se il suo sangue non era certo mutato da allora. Si era completamente ingannato! Forse non consapevolmente, forse non volontariamente, ma comunque si era ingannato, e così aveva perso il potere delle Pietre Magiche. Come era successo? Amberle aveva sfiorato la verità quando, due volte durante i loro viaggi, aveva asserito che qualcosa gli era successo, usando le Pietre nel Tirfing. Lui aveva cercato di chiarire i suoi dubbi, di dissipare le sue preoccupazioni... pur ammettendo che aveva ragione. Qualcosa gli era veramente successo mentre usava le Pietre Magiche. Ma non riusciva a individuarlo. Aveva pensato che si trattasse di un mutamento fisico, eppure non aveva riscontrato nessun danno. Amberle aveva suggerito che fosse qualcos'altro, che la magia elfa poteva anche influire sullo spirito. Ma lui non aveva voluto crederlo. E poiché non aveva scoperto niente apparentemente fuori posto, aveva liquidato in fretta l'inte-
ra faccenda e l'aveva allontanata dalla sua mente perché, in fondo, non poteva permettersi di preoccuparsi per se stesso quando doveva badare a Amberle. Ma era stato un grosso errore. Avrebbe dovuto capire allora, come capiva adesso, che Amberle aveva ragione, che l'uso delle Pietre Magiche aveva certamente influito sul suo spirito, procurandogli un danno tale che, finché non lo avesse affrontato, non avrebbe più potuto evocare il potere delle Pietre. Aveva cominciato a avere paura: ecco cosa gli era successo. Ora poteva ammetterlo. Doveva ammetterlo. Era una paura che fino a quel momento non era riuscito a individuare, una paura che era facilmente occultabile, e che aveva abilmente nascosto. Era stata in lui per tutte quelle settimane, e non aveva saputo riconoscerla. Poiché non era la paura dell'essere che lo aveva braccato nei suoi sogni o del demone che aveva inseguito lui e Amberle fin da Arborlon. Era la paura di quella stessa cosa sulla quale aveva contato come loro unica protezione, la paura delle Pietre Magiche e dell'effetto che l'uso del loro imprevedibile, incredibile potere avrebbe potuto avere su di lui. Finalmente aveva capito. Non era il suo sangue di uomo a impedirgli di usare le Pietre. Era il suo terrore della magia. Era stata tutta colpa sua. Deciso com'era a assolvere a qualsiasi costo la missione affidatagli da Allanon, aveva sepolto la sua paura appena era nata. Si era rifiutato di ammetterne l'esistenza, l'aveva nascosta, persino a se stesso. E questo gli aveva impedito di usare le Pietre. Non poteva esservi nessuna fusione del suo essere - della sua mente, del suo corpo e del suo cuore - col potere delle Pietre finché quella paura si nascondeva in lui. Si era lasciato indurre a credere che fosse il suo sangue umano a respingere la magia elfa. Così aveva completato l'inganno, e usare le Pietre gli era diventato impossibile. Fino a ora. Ora capiva la natura della barriera che lo escludeva dal potere delle Pietre Magiche. Era la paura... e quella poteva affrontarla. Si concentrò in se stesso - un atto rapido, deliberato - fondendo cuore e mente e corpo, volontà e pensiero e forza, verso un unico, irremovibile scopo. Non fu facile. La paura era ancora in agguato. Si levò davanti a lui come una barriera, ricacciandolo indietro, erodendo la sua determinazione. Era forte, così forte che, per un istante, Wil pensò di non reggere. Usare le Pietre Magiche, per lui, comportava un pericolo, che non poteva né vedere né toccare, né individuare né capire. Un pericolo reale e tangibile, che poteva compromettere irreparabilmente corpo e spirito. Che po-
teva distruggerlo. O, peggio ancora, lasciarlo sopravvivere. C'erano cose peggiori della morte... Lottò. Pensò a suo nonno. Quando aveva usato la Spada di Shannara, Shea Ohmsford aveva avvertito un pericolo inesplicabile. L'aveva confessato a Wil. Ma la magia della Spada era essenziale, e la scelta di suo nonno inevitabile. Così era ora per Wil. C'era qualcosa che contava più di lui. La missione affidatagli e le vite che lui solo poteva preservare. Affondò nella luce azzurra delle Pietre Magiche, e la paura sparì. Il sangue umano cedette a quello elfo, e il potere delle Pietre affiorò in lui. Passato e presente si separarono. I secondi scorrevano. Eretria! Il Mietitore stava scivolando silenziosamente verso la ragazza attraverso il bagliore cremisi del Fuoco di Sangue. Wil alzò le Pietre e, dalle sue mani, si sprigionò il fuoco azzurro che colpì il demone, ricacciandolo contro la parete della caverna. Non vi fu alcun suono... solo un terribile silenzio mentre il suo mantello si afflosciava contro la roccia. L'istante dopo era di nuovo in piedi, lanciandosi contro Wil. Egli non avrebbe mai creduto che una cosa tanto enorme potesse essere così rapida. Quasi ancor prima che Wil potesse reagire, il Mietitore fu davanti a lui, pronto a lacerarlo con gli artigli. Di nuovo il fuoco azzurro esplose dalle Pietre Magiche, abbattendosi sul demone, scagliandolo via come una bambola di pezza. Non vi fu nessun suono nemmeno questa volta. Wil ora sentì il fuoco nel suo corpo, se lo sentì fluire dentro come se fosse il proprio sangue, e di nuovo vi fu quella sensazione che aveva provato nel Tirfing. Gli era successo qualcosa... qualcosa di spiacevole. Ma non ebbe il tempo per riflettere. La sagoma grigio-cenere del Mietitore correva silenziosa come un'ombra nella semioscurità. Il fuoco saettò di nuovo dalla mano protesa del giovane, ma questa volta il Mietitore fu troppo veloce. Schivato l'attacco, continuò a avanzare. Di nuovo Wil cercò di fermarlo, e di nuovo fallì. Barcollò, tentando freneticamente di evocare la magia elfa, ma aveva perso concentrazione, e il fuoco cominciava a venir meno. Il Mietitore vi schizzò attraverso, incombendo davanti a lui. Proprio all'ultimo istante, Wil riuscì a raccogliere il fuoco davanti a sé come uno scudo. Poi il demone gli fu addosso, scagliandolo per terra. E lui cadde, battendo la testa sul pavimento. Per un istante temette di svenire. Gli artigli si lanciarono verso il fuoco azzurro, nel tentativo di raggiunger-
lo. Ma Wil resistette allo stordimento e al dolore, e la magia elfa rimase in vita. Il Mietitore, deluso, saltò via e silenziosamente si allontanò. Intontito, Wil si tirò in piedi, col corpo dolorante per l'attacco del demone; dei puntini luminosi gli danzavano davanti agli occhi. Con uno sforzo si tenne diritto. Le cose non stavano andando come si era aspettato. Quando era riuscito a cogliere la magia elfa, aveva creduto di aver superato il peggio, di poter finalmente controllare un'arma alla quale il Mietitore non poteva resistere, e che, per quanto pericoloso e potente fosse il demone, sarebbe stato sopraffatto dalle Pietre. Ora non ne era più sicuro. Poi ricordò Eretria. Dov'era? Il fuoco elfo si contorse dentro di lui come una creatura imprigionata. Per un terribile istante pensò di averne perso completamente il controllo. In quel momento il Mietitore lo attaccò di nuovo. Emerse dalle ombre, silenzioso e rapido, balzando verso Wil attraverso il bagliore del Fuoco di Sangue. Quasi per propria volontà, la magia elfa si levò fra i due combattenti in una esplosione accecante che li fece precipitare entrambi dalla stretta sporgenza rocciosa. Il giovane, colto di sorpresa, fu ricacciato contro la parete della caverna, e le costole e il gomito del suo braccio libero scricchiolarono come rami mentre urtavano contro la roccia. Un dolore lancinante lo attraversò, e rapidamente il braccio si intorpidì. Riuscì a tirarsi nuovamente in piedi, appoggiandosi contro il muro. Respingendo l'ondata di nausea e dolore che lo sommergeva, chiamò Eretria. La ragazza schizzò fuori dalle ombre, arrivando davanti a lui appena prima del Mietitore. Con un balzo silenzioso, il mostro si avventò su di loro, troppo rapido questa volta perché il giovane, stordito, potesse agire. Li avrebbe finiti se non fosse stato per Vagabondo. Dimenticato da tutti, il cane enorme si liberò dalla stretta di Hebel e si scagliò contro il demone. Il mostro vacillò, quando quella massa pelosa gli piombò addosso, lacerandogli il mantello color cenere. Per un istante entrambi scomparvero nelle ombre sul davanti della caverna. Il ringhio di Vagabondo era profondo, terribile. Poi il Mietitore si risollevò, gettando via il valoroso cane come se fosse stato un insetto. Vagabondo volò per aria e finì contro una parete della caverna, crollando con un gemito di stupore; poi tacque. Eppure quei pochi secondi diedero a Wil il tempo necessario per riprendersi. Il suo braccio si alzò immediatamente e il fuoco azzurro lampeggiò, colpendo il Mietitore di striscio; ma questi di nuovo si liberò, correndo veloce nella penombra finché la colonna del Fuoco di Sangue lo nascose.
Il giovane aspettava, scrutando la sala. Non c'era traccia del demone. Freneticamente, frugava le ombre, sapendo che sarebbe tornato all'attacco. Ma non lo vedeva. Singhiozzando, Eretria si era accovacciata accanto a lui, tenendo ancora stretto il pugnale, il viso sporco di polvere e rigato di lacrime. Hebel era chino su Vagabondo, parlandogli in toni pressanti. I secondi scivolavano via. Ma tutto era immobile. Poi Wil alzò gli occhi. Il Mietitore era sul soffitto della caverna. Lo vide proprio mentre calava verso di lui facendo svolazzare l'ampio mantello. Spinse disperatamente via Eretria e sollevò il braccio con le Pietre Magiche. Agile come un felino, il demone atterrò davanti a loro, massiccio e silenzioso. Urlando, Eretria indietreggiò, inorridita. Lentamente, molto lentamente, il buco nero del cappuccio si allargò, raggelando Wil Ohmsford col suo sguardo vuoto. Il giovane non poteva muoversi. Quella macchia scura, profonda, senza volto lo paralizzava. Poi il Mietitore si lanciò, e per un istante Wil si sentì inghiottito dalla cosa. Sarebbe morto se non fosse stato per il potere delle Pietre. Le Pietre che cercano, le aveva definite Allanon, e l'avvertimento risuonò nella sua mente... cercate la faccia del Mietitore! Più rapida del pensiero, la magia agì, rendendolo insensibile al terribile mostro, alla paura e al dolore, a tutto, tranne che a un primitivo istinto di sopravvivenza. Si sentì urlare, e il fuoco azzurro esplose da lui. Saettò attraverso il cappuccio senza volto del Mietitore, lo afferrò in una morsa e lo tenne stretto. Contorcendosi disperatamente, il mostro cercò di liberarsi. Wil Ohmsford teneva le mani congiunte davanti a sé, e la magia elfa scaturì dal suo corpo devastato avventandosi sul Mietitore, sollevandolo e rigettandolo contro la parete della caverna. Là il demone rimase sospeso, trafitto dal fuoco azzurro, contorcendosi rabbiosamente mentre bruciava. Un istante dopo il fuoco corse giù, lungo il suo mantello e esplose in un lampo di luce accecante. Quando il fuoco si spense, del Mietitore non rimase che il contorno carbonizzato del mantello attorcigliato, inciso profondamente nella roccia. 48 Il Fuoco di Sangue accolse Amberle Elessedil con la dolcezza di un abbraccio materno. Tutto intorno a lei le fiamme si innalzavano, una barriera cremisi che nascondeva il mondo circostante, ma non recava alcun danno alla fanciulla stupita. Che strano, pensò, il Fuoco non bruciava. Eppure l'aveva subito intuito, appena aveva spinto il macigno e il Fuoco era esploso
intorno a lei. Il Fuoco l'aveva consumata, ma senza pena; non aveva avvertito né calore, né fumo e nemmeno odore. Solo il colore, un profondo scarlatto nebuloso, e il senso di essere avviluppata in qualcosa di familiare, di confortevole. La pervase uno stato di sonnolenza e la paura e il dolore delle ultime settimane sembrarono lentamente dissolversi. I suoi occhi vagarono incuriositi attraverso le fiamme, tentando di intravvedere la caverna che ospitava il Fuoco e i suoi compagni. Ma non c'era nulla: solo il Fuoco. Pensò di uscirne per un attimo, di protendersi oltre il suo alone, ma qualcosa in lei la dissuase dal farlo. Doveva restare lì, lo sentiva. Doveva assolvere la sua missione. Assolvere la sua missione... si ripeté le parole, e sospirò. Era stato un viaggio tanto lungo, una prova così terribile. Ma ora era finita. Aveva trovato il Fuoco di Sangue. Era accaduto in modo così strano, pensò improvvisamente. Era lì in quella caverna vuota, immersa nell'oscurità, avvilita come i suoi compagni perché non c'era nulla oltre la porta di vetro che non si infrangeva, perché tutti i loro sforzi erano stati vani, quando improvvisamente... improvvisamente aveva avvertito la presenza del Fuoco. Esitava a definirlo così... ma non c'era modo migliore. La sensazione era analoga a quella che l'aveva avvertita della presenza del Mietitore ai margini della Fossa, mentre, nascosta fra i cespugli, aspettava il ritorno di Wil. Era una sensazione che veniva dal profondo del suo essere: le annunciava che il Fuoco di Sangue era lì in quella caverna e lei doveva trovarlo. Si era fatta avanti a tastoni, fidando nel suo istinto, senza capire che cosa la inducesse a agire così. Anche quando aveva trovato il Fuoco sotto quella sporgenza rocciosa e aveva avvertito Wil di allontanarsi, persino quando aveva spinto di lato il macigno per liberare il Fuoco, non aveva idea di che cosa la guidasse. Il pensiero la turbava. Non capiva ancora. Qualcosa l'aveva sfiorata. Doveva sapere cosa fosse. Chiuse gli occhi e cominciò a cercare la soluzione. Lentamente, capì. Dapprima pensò che doveva essere il Fuoco di Sangue, perché l'aveva chiamata. Ma il Fuoco non era un essere senziente; era una forza impersonale, antica, vitale e rigeneratrice, senza facoltà di pensiero. No, non era il Fuoco. Poi pensò che, se non era il Fuoco, doveva essere il seme che portava, quel frammento di vita datole dall'Eterea. L'Eterea era senziente; anche il suo seme poteva esserlo. Forse era stato il seme a avvertirla della presenza del Mietitore e del Fuoco... Ma, no, non era nemmeno quello. Il seme dell'Eterea non avrebbe preso vita finché non fosse stato immerso
nelle fiamme del Fuoco di Sangue. Ora era assopito; solo il Fuoco poteva svegliarlo. No, non era il seme. Ma se non era il Fuoco e non era il seme, cos'altro poteva essere? Poi capì. Era lei. Qualcosa in lei l'aveva avvertita che il Mietitore era vicino. Qualcosa in lei l'aveva avvertita che lì si trovava il Fuoco di Sangue. Quei messaggi venivano dal profondo del suo essere, erano parte di lei. Era l'unica risposta ragionevole. Spalancò gli occhi, sorpresa, poi rapidamente li richiuse. Perché quegli avvertimenti venivano da lei? Poi le tornò alla memoria lo strano influsso che l'Eterea aveva esercitato su di lei, il modo in cui aveva cominciato a avvilupparla finché non si era più sentita se stessa, ma un'estensione dell'albero. Era stata l'Eterea a renderla così? L'aveva cambiata ancor più di quanto lei credesse possibile? Per un attimo fu spaventata da quella possibilità, così come aveva sempre paura quando pensava al modo in cui l'Eterea l'aveva sottratta a se stessa. Con uno sforzo, respinse quei timori. Non c'era nessun motivo di essere spaventata adesso. Ormai tutto era finito. Il viaggio per trovare il Fuoco di Sangue era terminato. Lei aveva mantenuto le sue promesse. Ora non restava altro da fare che restituire la vita all'Eterea. La sua mano scivolò nella tunica e si chiuse intorno al seme che era la fonte di quella nuova vita. Era caldo e vivo, come se avvertisse la fine del suo letargo. Amberle stava per ritirare la mano quando le paure tornarono, improvvise e intense. Esitò, sentendo che la sua forza di volontà cominciava a vacillare. C'era in questo rituale qualcosa che non aveva immaginato? Dov'era Wil? Le aveva promesso di esserle sempre vicino. Le aveva promesso di sostenerla fino in fondo. Dov'era? Aveva bisogno di lui. Aveva bisogno di sentirlo vicino. Ma Wil Ohmsford non veniva. Era oltre la barriera del Fuoco e lei sapeva che non poteva raggiungerla. Doveva fare tutto da sola. Era il compito che le era stato affidato; la responsabilità che aveva accettato. Inspirò a fondo. Un attimo per immergere il seme dell'Eterea nelle fiamme del Fuoco di Sangue e il suo compito sarebbe terminato. Era venuta fin lì per questo; ora doveva farlo. Ma la paura persisteva. La divorava come una malattia e lei non poteva sopportarla, perché non capiva. Perché aveva tanta paura? Nella sua mano, il seme cominciò a pulsare dolcemente. Lo guardò. Anche quel seme la spaventava, persino una parte tanto piccola dell'albero. I ricordi tornarono e fuggirono di nuovo. All'inizio erano state così vicine, lei e l'Eterea. Nessuna paura, solo amore. La gioia di es-
sere insieme. Perché tutto era cambiato? Perché aveva cominciato a sentire di perdersi nell'albero? Era stata un'esperienza così spaventosa. Persino ora la ossessionava. Che diritto aveva l'Eterea di farle una cosa simile? Che diritto aveva l'Eterea di usarla così? Che diritto? Fu sommersa dalla vergogna. Queste domande non avevano senso. L'Eterea stava morendo e aveva bisogno di aiuto, non di recriminazioni. Il popolo elfo aveva bisogno di aiuto. La giovane aprì gli occhi e scrutò il bagliore cremisi del Fuoco di Sangue. Non c'era tempo per abbandonarsi ai rimpianti o per indagare sulla sua paura. C'era soltanto il tempo di fare quel che doveva fare... immergere nel Fuoco il seme che portava. Trasalì. Il Fuoco! Perché il seme non era già stato modificato dal fuoco? Le fiamme non potevano forse raggiungerlo dentro la sua tunica? Non l'avevano già sfiorato? Che cosa sarebbe cambiato se l'avesse tirato fuori? Altri interrogativi. Interrogativi inutili. Di nuovo fece per estrarre il seme e di nuovo la paura la trattenne. Aveva gli occhi lucidi di lacrime. O, se ci fosse stato qualcun altro per fare quella cosa! Non era un'Eletta! Non era all'altezza! Non era... non era... Con un grido, strappò il seme dalla tunica e lo immerse nella fiamma scarlatta del Fuoco di Sangue. Avvampò nella sua mano, vivo al contatto con la fiamma. Dal profondo del suo essere la fanciulla sentì venire di nuovo quella sensazione, che l'aveva avvertita dell'arrivo del Mietitore, che l'aveva chiamata verso il Fuoco di Sangue, sommergendola ora in una girandola abbagliante di immagini, straziandola con emozioni così intense da farla cadere in ginocchio. Lentamente si portò il seme dell'Eterea al seno, sentendo fremere in esso la vita. Le lacrime le scorrevano lungo le guance. Era lei. Era lei. Ora, finalmente, aveva capito. Si tenne stretto il seme e attirò a sé il Fuoco di Sangue. 49 Accovacciati contro la parete della caverna, Wil e Eretria videro il bagliore scarlatto spegnersi. Accadde all'improvviso: un ultimo guizzo delle fiamme e poi il Fuoco di Sangue scomparve. Soltanto le lampade che avevano portato con sé illuminavano la stanza col loro debole bianco lucore. Il giovane e la ragazza sbatterono le palpebre in quella improvvisa oscurità, guardandosi inutilmente intorno. Lentamente la loro vista si adattò al
buio e allora intercettarono un movimento sulla sporgenza rocciosa dove prima ardeva il Fuoco di Sangue. Per precauzione, Wil sollevò la mano che teneva le Pietre Magiche, e la magia elfa si diffuse in un lampo di fuoco azzurro. «Wil...» Era Amberle! Emerse dall'oscurità come una bambina smarrita, la voce un sussurro esile, disperato. Ignorando il dolore che lo tormentava, il giovane si diresse verso di lei, subito seguito da Eretria. La raggiunsero proprio mentre stava per cadere, la presero fra le braccia e la tennero così. «Wil» mormorò lei, singhiozzando. Sollevò la testa e i lunghi capelli castani le ricaddero dal volto. I suoi occhi ardevano, cremisi come il Fuoco di Sangue. «Per tutte le tenebre!» esclamò Eretria, allibita, indietreggiando. Wil cullava Amberle fra le braccia; nonostante le fitte di dolore che trafiggevano il suo corpo ferito, la tenne stretta a sé. Era leggera come una piuma, come se le sue ossa si fossero rimpicciolite e di lei non restasse che un guscio di carne. Piangeva ancora, la testa nascosta nella spalla di lui. «Oh, Wil, mi sbagliavo, mi sbagliavo. Non era lei. Ero io. Sono sempre stata io.» Parlava in fretta, come se qualcosa la incalzasse. Il giovane le accarezzò la guancia pallida. «Non ti preoccupare, Amberle» sussurrò. «È tutto passato.» Lei lo guardò di nuovo, gli occhi rosso sangue fissi, terribili. «Non ho capito. Lei ha sempre... saputo. Sapeva, e ha tentato... e ha tentato di dirmi, di farmi capire... ma io non capivo, avevo paura...» «Non parlare.» Wil la strinse forte, mentre una improvvisa, irragionevole angoscia si impadroniva di lui. Dovevano andarsene da quel luogo buio. Dovevano tornare alla luce. Si voltò rapidamente verso Eretria. «Prendi le lampade.» La nomade ubbidì senza discutere. Ricuperò i globi e tornò subito da lui. «Eccole qua, Guaritore.» «Allora andiamocene da questa...» cominciò, poi si interruppe. L'Eterea. Il seme. Lo aveva...? «Amberle» mormorò. «Hai immerso il seme nel fuoco, Amberle?» «È... stato fatto» mormorò lei a voce così bassa che lui faticò a sentirla. Quanto le era costato? si domandò amaramente. Che cosa le era successo dentro il Fuoco...? Ma no, non c'era tempo. Dovevano muoversi. Dove-
vano uscire da queste catacombe, riemergere sui versanti della Guglia Nera e raggiungere Arborlon. Là Amberle sarebbe tornata in salute. «Hebel!» chiamò. «Sono qua, Elfo.» La voce del vecchio era debole, rauca. Emerse dalle ombre, cullando Vagabondo fra le braccia. «Ha una zampa rotta. Forse anche qualcosa di peggio.» I suoi occhi erano lucidi di lacrime. «Non posso lasciarlo.» «Guaritore!» Il volto bruno di Eretria fu improvvisamente vicino al suo. «Come usciremo di qui senza il cane?» Lui la guardò come se si fosse scordato della sua esistenza, e lei avvampò di vergogna, pensando che fosse in collera per come aveva reagito alla vista di Amberle. «Le Pietre Magiche» borbottò lui alla fine e non si soffermò a chiedersi se poteva usarle. «Le Pietre Magiche ci indicheranno il cammino.» Spostò leggermente Amberle fra le braccia, con una smorfia di dolore per le fitte lancinanti che lo assalivano. Eretria lo prese per un braccio. «Non puoi portare la ragazza e nello stesso tempo usare le Pietre. Lascia che la tenga io.» Lui scosse la testa. «Ce la farò» insistette. Voleva tenersi Amberle vicina. «Non essere ostinato» lo supplicò Eretria, a bassa voce. Strinse le mascelle e parlò con difficoltà. «So quel che provi per lei, Guaritore. Lo so. Ma questo è troppo per te. Ti prego, lascia che ti aiuti. Lascia che sia io a portarla.» Per un istante i loro occhi si incontrarono nella penombra, e Wil vide scintillare delle lacrime sulle guance di lei. Quell'ammissione l'aveva ferita. Lentamente annuì. «Hai ragione. Non posso farcela da solo.» Diede Amberle alla nomade, che la cullò come se fosse stata una bambina. La giovane elfa abbandonò la testa contro la spalla di Eretria e si addormentò. «Restatemi vicini» avvertì lui e, presa una delle lampade, si avviò. Riattraversarono la cascata e la caverna in cui si trovava, avanzando con cautela sul pavimento cosparso di sassi. Il corpo di Wil era insanguinato, zuppo di sudore, e il dolore si faceva più acuto a ogni passo. Quando ebbero raggiunto il passaggio che sboccava nel labirinto di tunnel, il giovane riusciva appena a camminare. Eppure non c'era tempo per riposare. Dovevano affrettarsi, perché quello era l'ultimo giorno in cui Perk avrebbe vola-
to sulla Malaterra. Dovevano andarsene dalla Cripta, riemergere sui versanti della Guglia Nera, prima che il sole calasse e il piccolo Cavaliere Alato se ne andasse. Altrimenti sarebbe stata la fine per loro. Senza Perk e Genewen che li portassero a Arborlon, non ce l'avrebbero mai fatta a andarsene dalla Malaterra. Vacillando, si fermò all'ingresso del passaggio. Frugò nel sacchetto che portava alla vita, contenente le erbe e le radici che lo aiutavano nella sua arte di Guaritore. Dopo un attimo di ricerca, estrasse una radice color viola scuro, lunga una quindicina di centimetri, arrotolata. La tenne davanti a sé, esitando. Se l'avesse mangiata, il suo succo avrebbe cancellato il dolore. Sarebbe riuscito a proseguire finché fossero emersi dalla montagna. Ma la radice aveva altri effetti: gli avrebbe procurato uno stato di sonnolenza e infine gli avrebbe fatto perdere i sensi. Quel che era peggio, avrebbe sempre più offuscato la sua lucidità. Se gli effetti si fossero verificati troppo rapidamente, prima che fossero riusciti a trovare il modo per uscire dalle catacombe... Eretria lo osservava in silenzio. Lui guardò la ragazza e il fragile corpo che portava. Poi diede un morso alla radice e cominciò a masticarla. Era un rischio che doveva correre. Avanzavano incerti nel buio. Quando, davanti a loro, cominciò a snodarsi il labirinto, il giovane sollevò la mano che teneva le Pietre Magiche e ne evocò la magia. Questa volta la risposta fu immediata, fluendo in lui come un'improvvisa ondata di calore, turbinando fra le sue membra e esplodendo infine nel buio fuori di lui. Un segnale luminoso si allungò davanti a loro attraverso le catacombe, guidandoli. Essi lo seguivano, simili a ombre nell'oscurità. Avanzavano faticosamente: il giovane ferito teso nello sforzo di emanare il fuoco azzurro; al suo fianco la nomade che portava con delicatezza l'Elfa addormentata fra le braccia: e infine il vecchio, col suo cane. I minuti scorrevano lentamente. La sofferenza provocata dalle ferite inflitte dal Mietitore si dileguò in uno stato di torpore, e Wil Ohmsford si sentì veleggiare nell'oscurità come una creatura d'aria. Lentamente il succo della radice faceva effetto, minando le sue forze finché gli sembrò che il suo corpo fosse un guscio di creta umida, indebolendo la sua ragione fino a lasciargli soltanto la consapevolezza di dover andare avanti. Nel frattempo la magia elfa agitava il suo sangue e Wil sentiva che, ancora una volta, qualche mutamento inesplicabile stava avvenendo in lui. Non era più lo stesso, lo sapeva. Non sarebbe mai più stato lo stesso. La magia gli bruciava dentro, lasciandogli una ci-
catrice invisibile, permanente nel corpo e nella coscienza. Incapace di opporre resistenza, si abbandonò, chiedendosi quale effetto avrebbe avuto sulla sua vita. Ma non importava, si disse. Nulla importava se non salvare Amberle. Man mano che la piccola compagnia avanzava faticosamente nella scia del luminoso fuoco azzurro, i tunnel e i corridoi e le scale scomparivano nell'oscurità. Quando finalmente emersero barcollando dall'ultima caverna della Cripta per ritrovare l'aria e la luce della valle, erano allo stremo delle forze. La nomade aveva portato Amberle per tutto il percorso, e era sfinita. Wil era appena cosciente, intontito dal succo della radice, e come qualcuno che vaga alla cieca in una nebbia profonda, aveva momenti alterni di coscienza e incoscienza. Persino Hebel era esausto. Insieme stavano sul dirupo che si apriva sui versanti della Guglia Nera, sbattendo le palpebre, mentre la luce impallidiva e le ombre si allungavano, percorrendo con lo sguardo la vasta conca della Fossa fino a occidente, dove il sole tramontava lentamente in un bagliore di fuoco dorato. Wil sentì che le speranze lo abbandonavano. «Il sole... Eretria!» Lei gli si avvicinò subito e insieme appoggiarono Amberle per terra, cadendo sfiniti in ginocchio. La fanciulla dormiva ancora, e il suo respiro lieve era l'unico segno di vita che avesse mostrato durante l'intero viaggio attraverso le catacombe. Ora si mosse lievemente, come se fosse sul punto di svegliarsi, ma i suoi occhi rimasero chiusi. «Eretria... qui» la chiamò Wil, frugandosi nella tunica. Aveva le palpebre pesanti, la lingua gonfia e faticava a parlare. Lottando per tenersi eretto, estrasse il minuscolo zufolo d'argento e lo diede alla ragazza. «Ecco... usalo... presto.» «Guaritore, cosa devo...?» cominciò lei, ma lui spazientito, le strinse un polso. «Usalo!» mormorò con un filo di voce, vacillando. Troppo tardi, stava pensando. Troppo tardi. Il giorno è finito. Perk se ne sarà andato. Ora stava perdendo rapidamente conoscenza... Ancora pochi minuti e si sarebbe addormentato. Le sue mani stringevano ancora le Pietre Magiche, e le sentiva affondare nella palma. Pochi minuti ancora. Poi che cosa li avrebbe protetti?
Vide Eretria alzarsi e portarsi lo zufolo alle labbra. Si voltò verso di lui, con aria interrogativa. «Ma non esce nessun suono!» Lui annuì. «Soffia... di nuovo.» Lei ubbidì. «Guarda...» fece lui, indicando il cielo. Lei si voltò. Hebel aveva adagiato Vagabondo su uno strato d'erba e il grosso cane gli stava leccando la mano. Wil inspirò a fondo e guardò Amberle. Era così pallida, come se la sua forza vitale fosse bruciata. Un senso di disperazione lo assalì. Doveva fare qualcosa per aiutarla, non poteva lasciarla così. Aveva bisogno di Perk! Se fossero stati soltanto un poco più rapidi nella fuga! Se non fosse stato intralciato dalle sue ferite! Ormai il giorno era terminato. Le ombre caddero su di loro e il pinnacolo della montagna era avviluppato nella luce grigia del crepuscolo. Il sole era quasi tramontato: soltanto una piccola cresta dorata scintillava sulla distesa della foresta a occidente. Perk, non andartene, gridò silenziosamente. Aiutaci. «Wil.» Voltò bruscamente la testa. Amberle lo fissava con i suoi occhi rosso sangue. Gli prese una mano. «Va tutto bene... Amberle» riuscì a dire, nonostante la patina che gli rivestiva la gola. «Siamo... fuori.» «Wil, ascoltami» mormorò lei. Le sue parole erano chiare ora, non più vaghe o frettolose, solo appena percettibili. Lui cercò di risponderle, ma Amberle gli chiuse le labbra con le dita, e scosse lentamente la testa. «No, ascoltami. Non parlare. Ascoltami.» Si spostò verso di lui. Wil annuì, chinandosi sulla fanciulla. «Mi sbagliavo riguardo a lei, Wil, all'Eterea. Lei non cercava di usarmi, non stava tramando nulla. La paura... quella era inevitabile e proveniva dalla mia incapacità di capire quel che lei stava facendo. Wil, lei cercava di farmi capire, di farmi sapere perché io ero lì, perché ero tanto particolare. Vedi, lei sapeva che sarebbe toccato a me. Lo sapeva. Era arrivata la sua ora, e lei...» Si interruppe, mordendosi le labbra, mentre veniva sopraffatta dall'emozione. «Amberle...» fece Wil, ma lei scosse la testa. «Ascolta. Laggiù ho fatto una scelta. Solo io potevo farla e solo io ne sono responsabile. Capisci? Solo io. L'ho fatta perché dovevo. Per diverse ragioni, per ragioni che non
posso...» La sua voce si spezzò. «Per gli Eletti, Wil. Per Crispin e Dilph e gli altri Cacciatori elfi. Per i soldati di Boschi Grigi. Per il povero piccolo Wisp. Tutti sono morti, Wil, e io non posso permettere che siano morti per nulla. Vedi, io e te dobbiamo... dimenticare quello che...» Incapace di proseguire, cominciò a singhiozzare. «Wil, ho bisogno di te, ho tanto bisogno di te...» Wil fu colto dall'angoscia. La stava perdendo. Lo sentiva, nel profondo del suo essere. Si sforzò disperatamente di respingere il torpore che lo opprimeva. Poi Eretria li chiamò, la voce acuta per l'eccitazione. Si voltarono, alzando gli occhi per seguire il suo braccio teso verso il cielo. Lontano a occidente, attraverso l'alone del sole morente, un grande uccello dorato stava calando verso il dirupo. «Perk!» esclamò Wil a bassa voce. «Perk!» Amberle sollevò un braccio verso di lui e lo strinse a sé. Poi Wil si sentì trasportare e, attraverso l'ovatta della semi incoscienza, udì la voce di Perk. «È stato il fumo di quella torre incendiata, Wil. Genewen e io abbiamo volato intorno tutto il giorno. Sentivo che eravate laggiù. Lo sentivo. Anche quando il sole era quasi tramontato e era ora di tornare a Rifugio Alato, non ho potuto andarmene. Sapevo che la signora aveva bisogno di me. Wil, è così pallida.» Il giovane sentì che lo issavano sul dorso di Genewen; le snelle braccia brune di Eretria cominciarono a stringergli intorno le corde. «Amberle» mormorò. «È qui, Guaritore» rispose piano la nomade. «Siamo tutti al sicuro ora.» Wil si abbandonò contro di lei, scivolando lentamente nel sonno mentre la notte si approfondiva intorno a loro. «Elfo» lo chiamò dolcemente una voce, e i suoi occhi si aprirono davanti al volto segnato di Hebel. «Addio, Elfo. Ora me ne vado. La Malaterra è la mia casa. Ho visto quel che volevo vedere. E Vagabondo si riprenderà. La ragazza nomade mi ha aiutato a steccargli la zampa, e così tutto andrà a posto. È un duro, quel cane.» Il vecchio si chinò su di lui. «Auguro buona fortuna... A te e alla ragazza elfa.» Wil deglutì a vuoto. «Noi... ti dobbiamo molto, Hebel.»
«A me?» Il vecchio uscì in una risatina. «No, Elfo. Non mi dovete nulla. Buona fortuna.» Fece qualche passo e sparì dalla vista. Poi vide Amberle, il corpo sottile chino davanti a lui, e Perk tornò, controllando rapidamente finimenti e corde. Un attimo dopo risuonò la strano richiamo del ragazzo; con uno scatto improvviso, Genewen si librò lentamente nel cielo, le grandi ali che si allargavano sopra la conca scura della Fossa. Il Roc gigante volò verso l'alto. Le foreste della Malaterra scomparvero. In lontananza apparve la barriera dello Sperone Roccioso. Wil strinse più forte Amberle. Un attimo dopo era addormentato. 50 Su Arborlon era scesa la notte. Nella solitudine dei Giardini della Vita, Allanon si dirigeva verso la sommità della piccola altura su cui si trovava l'Eterea, il mantello nero avviluppato intorno al corpo per ripararsi dal freddo della sera, portando fra le braccia il ramo argenteo che lei gli aveva affidato. Voleva stare con lei, confortarla come poteva, farle compagnia. Queste dovevano essere le sue ultime ore; stava per essere liberata dal fardello che le era stato destinato tanti anni prima. Si fermò un attimo, alzando gli occhi verso di lei. Avrebbero fatto una strana impressione, se qualcuno li avesse visti insieme: il Druido e l'Eterea, sagome nere che si delineavano contro il cielo estivo rischiarato dalla luna: davanti all'albero avvizzito, senza foglie, l'uomo silenzioso, trasognato, il cui volto bruno era una maschera impassibile, che nulla lasciava trapelare dei suoi sentimenti. Ma nessuno sarebbe venuto. Allanon aveva decretato che lui e la pianta avrebbero trascorso soli quell'ultima notte e che soltanto lui poteva assistere alla morte dell'Eterea. Avanzò verso di lei, sussurrando mentalmente il suo nome. Subito i suoi rami si protesero verso di lui, spaventati e pressanti, e lui le rivolse rapidamente i suoi pensieri per confortarla. Non disperare, la consolò. Questo pomeriggio mentre infuriava la battaglia per salvare Arborlon e gli Elfi combattevano così valorosamente per arginare l'avanzata dei demoni, è successo qualcosa di inaspettato, qualcosa che dovrebbe darci speranza. Lontano, a sud, nel profondo delle foreste dove è andata l'Eletta, colui che la protegge ha dato vita alla magia delle Pietre Magiche. L'ho saputo nel momento stesso in cui l'ha fatto. Allora mi sono proteso verso di lui e ho sfiorato la sua mente... rapidamente, per un attimo, poiché il Dagda Mor
avrebbe potuto captarmi. Ma quel momento è bastato. Dolce Signora, il Fuoco di Sangue è stato trovato! La rinascita può ancora avvenire! Ravvivati da quell'eventualità, i pensieri di Allanon veleggiarono verso di lei. Ma non ebbe alcun messaggio in risposta. Indebolita fino al punto da non essere più ricettiva, l'Eterea non aveva né udito né capito. Era consapevole soltanto della sua presenza, capì Allanon, consapevole soltanto del fatto che, nei suoi ultimi momenti, non era sola. Qualsiasi cosa le avesse detto, sarebbe rimasta senza significato; non esisteva più per lei che la sua lotta disperata, senza speranza per adempiere la sua missione... vivere, e così proteggere gli Elfi. Allanon provò una grande tristezza. Era venuto troppo tardi. Allora tacque, perché non poteva fare altro che starle vicino. Il tempo passava con angosciosa lentezza. Di tanto in tanto lo raggiungevano pensieri sparsi dell'Eterea, filtrando come frammenti colorati nella sua mente; alcuni riandavano alle storie del passato, altri esprimevano desideri e sogni di quel che ancora poteva essere, e tutti, inesorabilmente, erano aggrovigliati e frantumati dall'agonia. Pazientemente, Allanon captava i pensieri che lei emanava e le ribadiva che lui era lì, che aveva sentito, che ascoltava. Pazientemente, divideva con lei i brividi e i sussulti di quella agonia. Ne sentiva l'effetto raggelante, perché simboleggiavano fin troppo eloquentemente la sua stessa mortalità. Tutto deve andarsene così come lei se ne sta andando, sussurravano. Persino un Druido. Lo indussero a riflettere momentaneamente sull'inevitabilità della propria morte. Benché dormisse per prolungare la sua vita, ben al di là della comune esistenza umana, anche lui, un giorno, sarebbe morto. E, come l'albero, era l'ultimo della sua specie. Nessun Druido avrebbe preso il suo posto. Quando lui fosse scomparso, chi avrebbe preservato i segreti tramandati dall'epoca del Primo Consiglio a Paranor? Chi avrebbe esercitato la magia che solo lui aveva padroneggiato? Chi sarebbe stato guardiano delle razze? La notte scivolò via silenziosa, e a oriente la pallida luce dell'alba penetrò l'oscurità del cielo. Nelle vaste foreste dell'Ovest la vita cominciava a risvegliarsi. Allanon avvertì un cambiamento nell'Eterea. La stava perdendo. Guardò intensamente la pianta, stringendo con tutte e due le mani il ramo d'argento come se, così facendo, potesse trattenere la vita che l'abbandonava. Il cielo del mattino si illuminò. Allora, le immagini si diradarono. Il dolore che si riversava in lui diminuì, e vi subentrò uno strano di-
stacco. Pian piano, quel distacco approfondì la distanza fra loro. A est, il sole spuntò sopra l'orizzonte, mentre le stelle si spegnevano. Poi le immagini cessarono completamente. Allanon si irrigidì. Fra le sue mani il ramo d'argento era diventato freddo. Era finita. Delicatamente pose il ramo sotto l'albero. Poi si voltò e si allontanò dai Giardini della Vita senza mai guardarsi indietro. In silenzio, Ander Elessedil stava al capezzale del padre, vegliandolo. Il fragile corpo straziato del vecchio re era tutto fasciato e avvolto nelle coperte; il lieve alzarsi e abbassarsi del suo petto era l'unico segno di vita. Ora dormiva, un sonno agitato, irrequieto, sospeso nel grigio limbo fra la sua vita e la morte. Il principe era sommerso da sentimenti che turbinavano come foglie in balia di un vento forte. Era stato Gael a svegliarlo, spaventato e incerto. Il giovane, irrequieto, incapace di dormire, era tornato al palazzo, pensando di fare qualche preparativo per il giorno imminente. Ma aveva trovato le porte sbarrate, le sentinelle scomparse, e ne aveva informato Ander. Nessuno vegliava sul sonno del re? Bisognava fare qualcosa? Immediatamente Ander si era alzato, uscendo velocissimo dalla sua casa e gridando per chiamare le guardie di fazione al cancello. Freneticamente avevano fatto irruzione attraverso l'ingresso principale, mentre dall'interno risuonavano le grida del re. Là avevano assistito alla fine della mortale battaglia fra suo padre e il mostro... il demone che aveva assunto le sembianze di Manx. Suo padre aveva ripreso conoscenza per pochi minuti mentre lo portavano via, sanguinante e ferito, e aveva raccontato con un filo di voce la battaglia che aveva combattuto e il tradimento che aveva subito. Poi aveva perso i sensi. Come era potuto sopravvivere? Dove aveva trovato la forza? Ander scosse la testa. Solo i pochi che lo avevano soccorso potevano vagamente capire quale terribile prova avesse subito. Gli altri, i ministri e i capi dell'esercito, le guardie e i servitori, erano venuti dopo. Non avevano visto il vecchio re abbandonato per terra, in una pozza di sangue, il corpo straziato. Non avevano visto come era stato ridotto. C'erano state delle ipotesi, naturalmente... ipotesi che avevano fatto nascere delle voci. Il re era morto, si sussurrava. La città era perduta. Il volto di Ander si indurì. Le aveva subito soffocate. Non bastava certo un demone per uccidere Eventine Elessedil!
Si inginocchiò improvvisamente accanto al padre e gli sfiorò la mano inerte. Avrebbe pianto se gli fossero rimaste ancora delle lacrime. Come era stato crudele, il destino, col vecchio re. Il suo primogenito e i suoi amici più cari erano morti. La nipote che amava tanto era scomparsa. Il suo paese era minacciato da un nemico che non poteva sconfiggere. Lui stesso, alla fine, era stato tradito da un animale di cui si fidava. Gli era stato strappato tutto. Che cosa mai lo teneva in vita dopo quel che aveva subito? Sicuramente avrebbe accolto la morte con grande sollievo. Gli strinse dolcemente la mano. Eventine Elessedil, re degli Elfi... Non ci sarebbe mai più stato un re come lui. Egli era l'ultimo. E che cosa avrebbe testimoniato della sua esistenza se non una terra distrutta e un popolo costretto all'esilio? Ander non era amareggiato per se stesso, lo sapeva. Era amareggiato per suo padre, che aveva dedicato tutta la sua vita a quella terra e al suo popolo. Forse nulla era dovuto a Ander Elessedil. Ma che dire di quel vecchio il cui cuore era votato alla sua terra che sarebbe stata devastata, al suo popolo che sarebbe stato distrutto? Non gli era forse dovuto qualcosa? Egli amava le Terre dell'Ovest e gli Elfi più della vita che stava per abbandonare, e che fosse costretto a assistere alla loro distruzione... era così orrendamente ingiusto! D'impulso, Ander si chinò a baciare il padre sulla guancia. Poi si alzò e si voltò. Attraverso le tende drappeggiate alle finestre vide il cielo illuminarsi del nuovo giorno. Doveva trovare Allanon, pensò improvvisamente. Il Druido non sapeva ancora. Poi doveva tornare sulla Carolan, per combattere col suo popolo così come avrebbe fatto suo padre se ne fosse stato in grado. Doveva lasciarsi alle spalle l'amarezza, i rimpianti. Ora era necessario che mostrasse forza e coraggio come aveva fatto suo padre nella sua ultima battaglia, un coraggio e una forza che avrebbero rafforzato la determinazione degli Elfi. Qualsiasi cosa accadesse quel giorno, egli doveva essere degno di suo padre. Stringendosi addosso l'armatura mentre se ne andava, Ander Elessedil uscì rapidamente dalla stanza buia. Sulla soglia del palazzo si fermò un attimo e guardò il cielo che si illuminava a oriente. Aveva occhiaie profonde, il suo viso era scarno, tirato. L'aria dell'alba lo raggelò, e si strinse nel pesante mantello. Dietro di lui le stanze del palazzo si illuminarono, e Cacciatori elfi dall'aria torva percorsero i corridoi come cani da caccia. «Ormai è inutile...» mormorò fra sé.
Si diresse verso i cancelli. percorrendo il sentiero di ghiaia, la mente annebbiata dalla stanchezza. Quanto aveva dormito prima che arrivasse Gael? Un'ora? Due? Non ricordava più. Quando ci provò, gli apparve davanti agli occhi la faccia suo padre, terribile, insanguinata, i penetranti occhi azzurri fissi sui suoi. Tradito, gridavano quegli occhi. Sono stato tradito! Varcò i cancelli di ferro battuto e si ritrovò nella strada al di là, senza notare la gigantesca figura che emergeva dalle ombre dove erano radunati i cavalli da combattimento. «Principe Ander?» Udendo il suo nome, trasalì: si voltò. La figura scura si avvicinava lentamente; la nuova luce faceva scintillare la cotta di maglia. Era il comandante del Libero Battaglione, Stee Jans. «Comandante.» Lo salutò stancamente. L'altro ricambiò il cenno di saluto, impassibile. «Una brutta notte, mi hanno detto.» «Allora tu sai?» Stee Jans lanciò un'occhiata verso il palazzo. «Un demone è riuscito a penetrare nella residenza del re. Le guardie sono state massacrate e lui stesso è stato abbattuto mentre uccideva la creatura. Non puoi certo aspettarti di mantenere segreta una simile notizia, mio signore.» «No... né vi ho provato.» Ander sospirò. «Il demone era un Camaleonte. Ha assunto le sembianze del cane di mio padre, un animale che stava con lui da diversi anni. Nessuno di noi sa da quanto tempo fosse qua a tramare, ma ieri sera deve aver deciso di arrivare a una conclusione. Ha ucciso le guardie, sbarrato la porta, e attaccato il re. Un mostro... ho visto il suo corpo. Non so come mio padre sia riuscito a...» Incapace di proseguire, scosse la testa. Gli occhi del comandante tornarono su di lui. «Allora il re è ancora vivo.» Ander annuì lentamente. «Ma non so che cosa lo tenga in vita.» Rimasero in silenzio, guardando entrambi il palazzo illuminato e i soldati armati che pattugliavano il parco ancora immerso nell'ombra. «Forse ci sta semplicemente aspettando» mormorò Stee Jans. I loro sguardi si incontrarono. «Che vuoi dire?» «Voglio dire che il tempo stringe per tutti noi.» Ander inspirò a fondo. «Quanto ce ne rimane?» «Soltanto oggi.»
Il volto duro era rimasto impassibile, come se l'uomo della Frontiera avesse semplicemente parlato delle condizioni atmosferiche. Ander si raddrizzò. «Tu sembri rassegnato, Comandante.» «Io sono un uomo onesto, mio signore. Te lo dissi quando ci incontrammo. Preferiresti che ti nascondessi la verità?» «No.» Ander scosse la testa con decisione. «Non c'è nessuna possibilità di resistere più a lungo?» Stee Jans si strinse nelle spalle. «C'è sempre una possibilità. Pari a quella che ha il re di sopravvivere a questo giorno. È tutto quello che abbiamo.» Il principe annuì lentamente. «E io l'accetto, comandante.» Gli porse la mano. «Gli Elfi sono stati fortunati a avere te e il tuo battaglione al loro fianco. Vorrei poter trovare un modo migliore per ringraziarti.» L'Uomo di Ferro strinse con decisione la mano del principe. «E io vorrei potertene offrire l'opportunità. Buona fortuna, principe Ander.» Lo salutò e se ne andò. Ander rimase a guardarlo un istante, poi si voltò e imboccò la strada. Qualche minuto dopo Allanon lo trovò mentre, a cavallo, si preparava a raggiungere la Carolan. Il Druido emerse dalla semioscurità su Artaq. Le ombre stavano abbandonando la bruma che avvolgeva la foresta. Ander rimase in silenzio mentre il Druido fermava il nero stallone e lo guardava. «So cosa è accaduto» risuonò la voce profonda. «Mi dispiace, Ander Elessedil.» Ander annuì. «Allanon, dov'è il ramo?» «Non c'è più.» Il Druido ora guardava verso il palazzo. «L'Eterea è morta.» Ander si sentì svuotato. «Allora è la fine, vero? Senza l'aiuto della sua magia, noi siamo battuti.» Gli occhi di Allanon erano duri. «Forse no.» Ander lo fissò, incredulo, ma il Druido stava già voltando Artaq verso la strada. «Ti aspetterò ai cancelli dei Giardini della Vita, principe» gridò. «Seguimi. C'è ancora speranza per noi.» Poi spronò il cavallo e scomparve. 51
L'alba era spuntata da un'ora quando i demoni attaccarono. Si riversarono su per la parete rocciosa della Carolan, arrampicandosi goffamente sulle macerie dell'Elfitch per convergere verso le mura e i cancelli della sesta rampa. Non più indeboliti dal potere dell'Eterea né frenati dall'anatema del Divieto, i demoni si scrollavano di dosso le frecce e le lance che piovevano su di loro e avanzavano. Un'ondata dopo l'altra di corpi neri irrompeva dalla foresta. Nel giro di pochi minuti il dirupo ne fu tutto ricoperto. Rozzi uncini forgiati con le armi catturate, attaccati a robuste liane, furono gettati in cima alle mura e ai cancelli per agganciare i massicci blocchi di pietra. Una mano sopra l'altra, i demoni cominciarono a arrampicarsi. I difensori erano pronti: Kerrin e la Guardia Reale in cima ai cancelli, Stee Jans e il Libero Battaglione sulle mura a sinistra, Amantar e i Troll delle Montagne su quelle a destra. Mentre gli aggressori si arrampicavano verso di loro, i difensori recisero le corde. I demoni piombarono giù, urlando. Gli archi lunghi elfi sibilarono, e un'ondata di frecce nere si abbatté sugli attaccanti. Ma i demoni continuavano a avanzare, gettando altri uncini e liane. Pesanti travi di legno, ricavate da alberi interi, nelle quali erano stati scavati dei gradini, furono gettate contro i cancelli, e i demoni vi si arrampicavano sopra. Dalla massa nera in basso volavano mazze e sassi, che piombavano contro i difensori intenti a resistere. Più volte i demoni furono ricacciati indietro, ma alla fine raggiunsero le mura, e gli Elfi e i loro alleati furono costretti a un selvaggio corpo a corpo. Lungo entrambi i lati dell'Elfitch i demoni si riversarono su per la facciata del dirupo, avanzando decisi verso il bordo della Carolan. Là li aspettavano la cavalleria elfa, la Vecchia Guardia della Legione, i Genieri Nani e unità sparse di altre compagnie, al comando di Ehlron Tay. Guidando una carica dopo l'altra contro le schiere di demoni che spuntavano lungo l'orlo del dirupo, li ricacciò dalla Carolan. Ma i difensori erano pochi e il dirupo era lungo e cosparso di alberi che nascondevano l'avvicinarsi dei demoni. Gruppi isolati cominciarono a fare irruzione sull'altopiano, e i fianchi elfi a vacillare. Sull'Elfitch i demoni si aprirono un varco verso i cancelli della sesta rampa. Facendo irruzione fra le file dei difensori, mandarono in frantumi i chiavistelli e le sbarre che tenevano chiusi i cancelli e li spalancarono. Vi si riversarono dentro, arrampicandosi sopra i corpi dei loro morti. Amantar teneva ancora le mura a destra, ma Stee Jans e i suoi decimati uomini della Frontiera venivano costretti a indietreggiare. Al centro della difesa elfa, Kerrin raccolse intorno a sé la Guardia Reale e contrattaccò i demoni, nel
disperato tentativo di respingerli. I Cacciatori elfi caricarono la massa urlante, ricacciandola indietro, rallentandone l'assalto. Per un istante sembrò che la Guardia Reale avrebbe riconquistato i cancelli. Ma poi alcune Furie si lanciarono dalle mura contro gli Elfi che attaccavano, avventandosi su di loro con i denti e con gli artigli. Kerrin crollò, morto. Il contrattacco vacillò, e infine gli Elfi furono costretti a ripiegare. Lentamente i difensori si ritirarono su per l'Elfitch attraverso i cancelli aperti della settima e ultima rampa, a ranghi serrati, incalzati dal nemico. Mentre Amantar e Stee Jans tenevano il centro, gli Elfi scivolarono via dietro le mura, e i cancelli si richiusero. In basso, i demoni si ammassarono di nuovo. A trecento metri a est della sommità della rampa, Ander Elessedil osservava il campo di battaglia e sentiva morire le sue speranze. Dietro di lui, i soldati della Guardia Nera circondavano i Giardini della Vita. Lanciò una rapida occhiata a Kobold, che stava alla loro testa, poi a Allanon. Il Druido era al suo fianco, su Artaq, il volto bruno impassibile mentre osservava l'infuriare della battaglia. «Allanon, dobbiamo fare qualcosa» mormorò infine il principe. Il Druido non si voltò. «Non ancora. Aspetta.» Tutt'intorno all'orlo del dirupo, i demoni continuavano a arrampicarsi verso la sommità della Carolan, combattendo per aggirare l'esercito elfo. A sud, conquistarono una base d'appoggio sull'altopiano e vi si riversarono numerosi, respingendo più volte gli assalti della cavalleria elfa che cercava di cacciarli via. A nord, i Genieri Nani ancora reggevano ai ripetuti assalti; l'ingegnoso Browork radunò cavalieri e fanti lanciandoli in una serie di cariche che più volte ricacciarono i demoni dall'altopiano. Ehlron Tay, a cavallo, si diresse a sud, guidando una compagnia di cavalleria della riserva per riconquistare le balze del dirupo. Caricarono i demoni, le lance abbassate. Ci fu uno spaventoso corpo a corpo: urla e strida echeggiavano e la battaglia infuriava con tale violenza che, da lontano, era impossibile distinguere gli Elfi dai demoni. Ma quando infine lo scontro si interruppe, a ripiegare furono gli Elfi. Il fianco sinistro della difesa arretrò rapidamente, e i Demoni si riversarono in avanti, ululando di esultanza. Poi i cancelli della settima rampa si spaccarono con una pioggia di schegge, e i demoni vi si riversarono dentro. I difensori furono ributtati indietro, e sembrarono sul punto di essere travolti. Ma i Troll scatenarono un improvviso, selvaggio contrattacco che ricacciò i demoni attraverso i cancelli frantumati, e per un istante le mura furono riconquistate. Poi i demoni
si radunarono di nuovo, il più grosso e brutale davanti a tutti, e le orde fecero nuovamente irruzione. Questa volta nemmeno i Troll delle Montagne poterono arginarne l'avanzata. Trascinandosi dietro i loro feriti, abbandonarono i cancelli e risalirono lungo la rampa verso l'orlo del dirupo. Oramai i demoni avevano conquistato anche l'estremità settentrionale della Carolan, ricacciando indietro i valorosi Nani, e i fianchi della difesa ripiegarono verso il centro. Lentamente, inesorabilmente, i Giardini della Vita divennero l'unica oasi di pace nel campo di battaglia invaso dai demoni. Ehlron Tay cadde, strappato dal suo cavallo. Sanguinante, contuso, fu portato in salvo dai suoi soldati lontano dal dirupo. Browork aveva parecchie ferite, e i demoni lo avevano circondato. La Vecchia Guardia aveva perso un terzo dei suoi uomini. Due dei Cavalieri Alati erano caduti e i tre che restavano, compreso Dayn, erano tornati in volo ai Giardini della Vita per stare al fianco di Allanon. Dappertutto, gli Elfi e i loro alleati erano in ritirata. Gli attaccanti avevano costretto i difensori dell'Elfitch a indietreggiare fin sotto l'orlo del dirupo. Stee Jans teneva la posizione centrale nella difesa, circondato dai suoi soldati. Elfi e Troll tenevano i fianchi. Era evidente a tutti che non avrebbero potuto reggere a lungo. Il comandante del Libero Battaglione capì immediatamente la pericolosità della loro situazione. Sotto, i demoni si ammassavano per un altro assalto. A ciascun lato, lungo l'orlo del dirupo, le linee dei difensori erano crollate e stavano ritirandosi faticosamente. Nel giro di pochi istanti, sarebbero finiti tutti in una morsa da cui nessuno si sarebbe salvato. Dovevano ripiegare immediatamente, riformare le loro linee vicino al perimetro dei Giardini della Vita, dove potevano consolidare le loro forze e avere l'appoggio della Guardia Nera. Ma avevano bisogno di tempo per riuscirvi, e qualcuno doveva darglielo. Con i capelli rossi al vento, il Comandante del Libero Battaglione afferrò lo stendardo da combattimento cremisi e grigio e lo conficcò fra le pietre della rampa. Lì il Libero Battaglione avrebbe preso posizione. Raccolti i suoi uomini intorno a sé, formò una stretta falange al centro della rampa. Poi ordinò agli Elfi e ai Troll di ritirarsi. Nessuno contestò l'ordine; a Stee Jans era stato affidato il comando dell'esercito. Rapidamente abbandonarono l'Elfitch, indietreggiando verso le file della Guardia Nera che circondava i Giardini della Vita. Nel giro di pochi istanti, i superstiti del Libero Battaglione rimasero soli. «Cosa sta facendo?» urlò Ander a Allanon, inorridito. Ma il Druido non rispose.
I demoni attaccarono. Caricarono su per la rampa, ululando di rabbia. Incredibilmente, il Libero Battaglione resistette all'assalto e lo respinse. Nel frattempo gli Elfi continuavano a liberarsi dalla morsa che aveva minacciato di distruggerli. Di nuovo i demoni si buttarono su per l'Elfitch e di nuovo il Libero Battaglione li ricacciò. Poco più di venti uomini erano rimasti in vita. Alla loro testa, l'alta figura di Stee Jans. Raggruppati davanti ai Giardini della Vita, i soldati che erano fuggiti dall'Elfitch si voltarono, osservando il manipolo di uomini che ancora reggeva all'urto dei demoni. Tutti tacevano. Sapevano qual era la fine inevitabile. Ora tutta la Carolan era deserta. Stee Jans strappò da terra lo stendardo da combattimento, sollevò la bandiera grigia e cremisi in alto sopra la testa, e lanciò il grido di battaglia del Libero Battaglione. Poi lentamente, deliberatamente, ordinatamente, il piccolo gruppo cominciò a ripiegare attraverso la Carolan, verso i difensori elfi che circondavano i Giardini della Vita. Non un solo soldato della Frontiera correva. Ander uscì in un'esclamazione soffocata. Quegli uomini non avevano scampo. Al suo fianco, spuntò la faccia malconcia di Browork. «Sei troppo lontano, comandante!» borbottò quasi fra sé. Un'ondata di demoni si riversò sopra l'orlo della rampa, ringhiando. Cominciarono a ammassarsi a nord e a sud, lungo tutta la Carolan. «Corri!» mormorò Ander. «Corri, Stee Jans!» Ma oramai non c'era più tempo. La breve pausa di silenzio fu infranta da strida selvagge e tutta l'orda dei demoni si buttò in avanti. Poi apparve Allanon. Disse qualcosa a Dayn e subito le redini di Dancer furono nelle sue mani. Un attimo dopo era salito in groppa al gigantesco Roc e si alzava nel cielo. Ander Elessedil e quelli che stavano con lui rimasero a osservare il Druido, allibiti. In alto sopra i Giardini della Vita, volava, col mantello nero che gli ondeggiava intorno, le braccia scarne alzate. I demoni che convergevano sulla Carolan rallentarono bruscamente, alzando gli occhi verso il cielo. Poi un rombo mostruoso esplose sulle praterie come se la terra, per la collera, si fosse spaccata, e il fuoco azzurro saettò dalle dita del Druido. Con un arco che si estendeva lungo tutta l'orda nera, il fuoco investì le prime file dei demoni e li ridusse in cenere. Ululati e strida si alzarono dagli aggressori mentre una barriera di fiamme si alzava davanti a loro, costringendoli a arretrare dai superstiti, accerchiati, del Libero Battaglione.
Gli Elfi esplosero in un ruggito di eccitazione. Uno stretto corridoio si era aperto attraverso l'anello di fuoco fino ai Giardini e all'esercito schierato degli Elfi. Lungo questo varco corsero gli Uomini della Frontiera... in fretta ora, poiché, da un momento all'altro, la morsa poteva chiudersi nuovamente intorno a loro. I demoni fremevano, rabbiosi, ma il fuoco li teneva a bada. Forza! Gridò silenziosamente Ander. C'è ancora una possibilità. Gli Uomini della Frontiera correvano, e la distanza fra loro e gli Elfi diminuiva. Alcune Furie impazzite si buttarono attraverso il fuoco per distruggerli. Ma Allanon le vide. Una mano bruna si alzò, stretta a pugno. I suoi strali si abbatterono su quelle creature, che scomparvero con una violenta esplosione, e una colonna di fuoco schizzò in alto, segnandone la fine. Nel cielo, Dancer lanciò il suo urlo di battaglia. E infine Stee Jans e i suoi uomini emersero dall'anello di fuoco e furono di nuovo al sicuro fra le linee elfe. Furono accolti da urla e acclamazioni, e gli stendardi di combattimento delle Quattro Terre si alzarono tutti insieme nell'aria del mattino. Sulla Carolan, il fuoco azzurro si era indebolito, ma i demoni non osavano ancora attraversarlo. Dopo che le Furie erano state così rapidamente distrutte, nessuno osava affrontare Allanon da solo. Brulicando dietro la barriera di fiamme, ringhiavano e agitavano gli artigli contro il solitario cavaliere nero. E aspettavano. Il Druido scivolò via, scrutandosi attentamente intorno. Sapeva cosa sarebbe accaduto ora. Aveva lanciato una sfida e uno dei demoni doveva raccoglierla. Soltanto il Dagda Mor era abbastanza forte per farlo, e l'avrebbe fatto, Allanon ne era convinto, perché non aveva alternative. Il Dagda Mor poteva percepire la magia delle Pietre Magiche quanto Allanon. Anche lui, dunque, sapeva che Wil Ohmsford le aveva usate, che il Fuoco di Sangue era stato trovato, e che quel che più temeva poteva ancora accadere: una rinascita dell'odiata Eterea e il ripristino del Divieto. Era un momento pericoloso per il Signore dei Demoni. Il suo Camaleonte era morto. Il suo Mietitore aveva fallito. La sua orda era bloccata. Anche se tutto il resto dell'Occidente era suo, se si fosse fermato ora, avrebbe perso. Per assicurarsi la sopravvivenza, i demoni dovevano colpire l'Eterea. La pianta-madre doveva essere distrutta e la terra in cui affondava le radici devastata in modo che non potesse più crescervi nulla. Dopodiché avrebbero avuto tutto il tempo per dare la caccia all'ultima Eletta e al seme che portava con sé. Soltanto allora i demoni avrebbero avuto la certezza di non essere mai più reclusi nelle tenebre. Ma nulla di tutto ciò poteva accadere
se prima Allanon non fosse stato distrutto. Il Dagda Mor lo sapeva, e ora avrebbe dovuto agire... Un grido spaventoso si levò dai demoni. Dall'orlo della Carolan, una massiccia ombra nera si alzò nel limpido cielo del mattino. Allanon si voltò. Era la creatura alata che per poco non aveva sopraffatto Wil Ohmsford e Amberle nella valle di Rhenn durante la loro fuga da Havenstead. Il Druido la vide chiaramente ora: un pipistrello mostruoso, viscido e membranoso, il muso piatto che rivelava zanne scintillanti, le zampe arcuate e artigliate. Aveva sentito delle voci su pipistrelli di quel genere, che vivevano nelle montagne del lontano Nord, ma nemmeno lui ne aveva visto uno fino a allora. Emettendo un grido stridulo, gracchiante, volteggiava sopra le orde demoniache, improvvisamente immobili. Allanon si irrigidì. Sul collo ricurvo della creatura era seduto il Dagda Mor. La sfida era stata raccolta. Il Druido fece voltare immediatamente Dancer. Il pipistrello stava calando su di lui, la forma ingobbita del demone china sulla bestia. Il Bastone del Comando cominciò a arroventarsi. Allanon aspettava, tenendo a freno Dancer. Il pipistrello stridette di piacere. Dal Bastone del Comando saettò il fuoco rosso, ma un istante troppo tardi. Guidato dal Druido, Dancer si abbassò di scatto, poi deviò bruscamente verso sinistra. Mentre il mostro alato calava, protendendo inutilmente gli artigli, e il fuoco del demone esplodeva sulla Carolan, Allanon fece voltare Dancer. Il pipistrello era pesante e lento; mentre si alzava, il Druido volò sotto di esso e lo colpì. Il fuoco azzurro colpì le ali e il corpo del mostro, bruciandone la pelle membranosa e quello stridette per il dolore. Ma ritornò e, di nuovo, il Dagda Mor brandì il Bastone del Comando. Il fuoco del demone fendette come una lama il cielo del mattino, diretto verso il Druido e il Roc. Una barriera di fiamme rimase sospesa nell'aria davanti a loro, e questa volta non c'era nessuna possibilità di voltarsi. Dancer non esitò. Con un grido, il gigantesco Roc balzò in alto, portando Allanon lontano dal fuoco, poi si raddrizzò e volò via sulla Carolan. Dai Giardini della Vita si levarono le acclamazioni degli Elfi e dei loro alleati. Il demone tornò all'attacco; il massiccio pipistrello si calò rapidamente. Ma di nuovo Dancer fu più veloce. Il gigantesco uccello volò sopra la Carolan. Il fuoco rosso scaturì dal Bastone del Comando, finendo oltre il Roc, riducendo in cenere la prateria. Dancer girò a destra, poi a sinistra, cambiando direzione così rapidamente che il Dagda Mor non riusciva a prendere la mira. Per tutto quel tempo, Allanon continuava a combattere,
colpendo più volte col suo fuoco azzurro il pipistrello finché dal corpo devastato del mostro si levarono spirali di fumo. La battaglia continuò: un duello terrificante nel corso del quale Druido e demone si spostavano avanti e indietro sopra l'altopiano devastato della Carolan, con continui mutamenti di direzione, ciascuno intento a superare l'altro in astuzia. Per un po', nessuno dei due riuscì a conquistare un vantaggio sull'altro. Il pipistrello era presente e vulnerabile, ma era anche forte e sembrava insensibile alle sue ferite. Dancer era estremamente veloce; il fuoco non lo sfiorava mai. Ma, man mano che i minuti passavano e la battaglia proseguiva, il Roc cominciò a stancarsi. Aveva volato per tre giorni e le sue forze stavano rapidamente venendo meno. Ogni volta che tornava sul dirupo, il fuoco del demone gli arrivava più vicino. Il silenzio calò fra le file dei difensori. Tutti pensavano la stessa cosa. Prima o poi il Roc avrebbe vacillato o il Druido avrebbe sbagliato una mossa. E allora sarebbero stati in balia del Signore dei Demoni. Qualche minuto dopo, le loro paure diventarono realtà. Il fuoco rosso lampeggiò, intercettando il Roc mentre piegava improvvisamente a sinistra, frantumando la grande ala dell'uccello. Istantaneamente Dancer vacillò e cominciò a perdere quota in direzione della Carolan. Inorriditi, gli Elfi gridarono. Di nuovo il Bastone del Comando lampeggiò, e di nuovo il fuoco investì il Roc. Il pipistrello si lanciò giù, gli artigli protesi. Mentre la creatura mostruosa scendeva verso di lui, Allanon si voltò, e alzò disperatamente le braccia, le mani strette a pugno. Il pipistrello gli era quasi addosso quando il fuoco azzurro esplose dalle dita del Druido. L'intera testa della bestia sembrò esplodere e scomparire. Ma il suo impeto lo portò contro Dancer. Una decina di metri sopra la Carolan, il pipistrello e il Roc si scontrarono, con terrificante violenza. Avvinghiati l'uno all'altro, caddero portando con sé i loro cavalieri. Piombarono a terra di schianto. Dancer ebbe un lungo brivido e rimase immobile. Il pipistrello non si mosse affatto. In quell'istante tutto sembrò perduto. Dancer e il pipistrello erano morti. Allanon giaceva per terra, immobile, coperto di bruciature. E il Dagda Mor si muoveva. Pur con una gamba rotta, si districò dalla bestia morta e si diresse verso il Druido. Allanon si agitò, muovendo debolmente la testa. Lentamente il Dagda Mor si trascinò finché si trovò a meno di tre metri dal Druido caduto. Col volto contorto dall'odio, il demone fece appello a tutte le sue forze. Nelle sue mani, il Bastone del Comando cominciò a lampeggiare.
«Allanon!» gridò Ander, e l'eco risuonò nell'improvviso silenzio. Forse il Druido udì. Miracolosamente riuscì a alzarsi, schivando il lampo di fuoco che passò oltre, e si mosse così rapidamente che fu addosso al Dagda Mor prima che questi potesse infierire di nuovo col suo Bastone nodoso. Il demone cercò di brandirlo, ma le mani di Allanon erano già avvinghiate su di esso. Il bastone avvampò, e il Druido fu sommerso da un'ondata di dolore. Ma la sua magia si levò per difenderlo, e il fuoco azzurro si fuse con quello rosso. I due combattevano avanti e indietro, i corpi tesi, ciascuno cercando di strappar via il Bastone all'altro. Poi Allanon attinse a qualche sua intima forza, a una sua ultima riserva d'energia, e il fuoco azzurro esplose. Saettò dalle sue mani e si avviluppò tutto intorno al Bastone del Comando, spegnendo il fuoco rosso e penetrando nel corpo del Dagda Mor. Gli occhi del demone si spalancarono per l'orrore e un solo urlo gli sfuggì, altissimo, terribile. Allanon gli fu addosso, ricacciando indietro quel corpo ingobbito, costringendo lentamente il demone a cadere in ginocchio. Di nuovo questi urlò, traboccante d'odio. Disperatamente combatté il fuoco che l'avvolgeva, cercando di spezzare la presa del Druido. Ma le mani di Allanon stringevano le sue in una morsa d'acciaio intorno al Bastone consumato. Con un brivido violento il Dagda Mor si afflosciò; il suo urlo si spense in un sussurro e gli occhi terribili si pietrificarono. Allora, non più ostacolato, il fuoco del Druido investì il demone, avvolgendolo in un sudario di luce azzurra finché il suo corpo esplose in cenere e si dissolse. Sulla Carolan cadde il silenzio. Allanon si ergeva solo, sempre stringendo fra le mani il Bastone del Comando. Guardava in silenzio il legno contorto, carbonizzato e fumante. Poi lo spaccò e ne gettò i frammenti per terra. Voltandosi verso i Giardini della Vita, chiamò Artaq con un fischio. Solo, lo stallone nero uscì al trotto dalle linee elfe. Allanon sapeva che gli restavano pochi istanti. La sua magia si era esaurita, e si reggeva ancora in piedi per pura forza di volontà. Davanti a lui, la barriera di fuoco che aveva trattenuto i demoni stava smorzandosi. Già essi vi si ammassavano contro, gli occhi fissi avidamente su di lui, pronti a scattare in avanti. La distruzione del Dagda Mor non significava nulla per loro. Solo l'odio per gli Elfi contava. Il Druido li guardò, con un sorriso lento, beffardo. Tutto quel
che li frenava ora, era la paura che lui ispirava. Appena fosse venuta meno, avrebbero attaccato. Artaq gli strofinò il muso contro una spalla e nitrì piano. Senza mai distogliere lo sguardo dai demoni, Allanon indietreggiò prudentemente finché poté afferrare la criniera e i finimenti del cavallo. Poi, penosamente, si tirò in sella, quasi perdendo i sensi per lo sforzo. Prese le redini e fece voltare Artaq. Con calma apparente, si avviò verso le linee difensive elfe. Fu una fuga angosciosamente lenta. Teneva Artaq al passo, altrimenti non avrebbe potuto reggere. Pian piano i Giardini della Vita si avvicinavano. Con la coda dell'occhio captò dei movimenti fra le file dei demoni. Alcuni già stavano schizzando attraverso le fiamme morenti, urlando dietro di lui. Altri cominciarono a seguirli. Allanon afferrò le redini con entrambe le mani e non si voltò. Presto ora, pensò, presto. Poi improvvisamente l'intera massa irruppe, ululando e stridendo. I demoni convergevano su di lui da tutti i lati. Capì immediatamente che era ancora troppo lontano dai Giardini della Vita per evitarli a quell'andatura. Non aveva scelta. Spronò Artaq e lo stallone nero balzò avanti. Attraverso la Carolan correva il grande cavallo, il corpo potente tutto teso nello sforzo. Gli occhi del Druido si annebbiarono, e sentì che le redini gli sfuggivano. Stava per cadere. E, tuttavia non cadde. Misteriosamente riuscì a reggere finché, finalmente, le linee elfe furono davanti a lui. Con un grande balzo, Artaq le raggiunse, portandolo oltre le braccia protese di Elfi e Troll e Nani, pronti a raccoglierlo, verso i cancelli di ferro, davanti ai quali si fermò di botto. Nemmeno allora Allanon cadde. Lo sosteneva una volontà ferrea. Col volto madido di sudore, si voltò per guardare le orde demoniache che convergevano sui Giardini. I difensori presero posizione lungo le mura. Almeno ora hanno una possibilità di scampo, pensò. Almeno gli ho dato questo. Poi una raffica di grida si levò tutto intorno a lui e braccia si alzarono verso il cielo. Dayn era al suo fianco, incredulo. «Genewen! È Genewen!» Il Druido alzò gli occhi. A sud, in lontananza, quasi confuso nel bagliore del sole di mezzogiorno, un grande uccello dorato stava volteggiando giù verso Arborlon. 52
Wil Ohmsford guardò giù inorridito. Il sole era un'esplosione abbagliante di luce bianca che lo accecò. Debole, stordito, si sentiva ancora bruciare di febbre; il suo corpo era zuppo di sudore, che il vento asciugava. Genewen si librava in alto sopra il verde paesaggio boscoso delle Terre dell'Ovest, le ali dispiegate mentre scivolava dolcemente sulle correnti d'aria. Wil era legato al Roc da lacci di cuoio e il suo braccio rotto era stato bendato e steccato. Davanti a lui c'era Perk, che assecondava agevolmente i movimenti di Genewen, guidandolo con i gesti e la voce. Contro il Cavaliere Alato, quasi nascosta dai pesanti mantelli, era rannicchiata Amberle. Le braccia che stringevano la vita di Wil erano di Eretria. Lui si voltò, e gli occhi bruni stralunati della nomade incontrarono i suoi. Sotto di loro c'era la città elfa di Arborlon. La Carolan era coperta di cadaveri, il dirupo in fiamme, l'Elfitch in rovina. Intorno ai Giardini della Vita, come un anello di ferro, erano schierati cavalieri e lancieri, picche e arcieri. Tutto intorno a loro brulicava una marea di migliaia e migliaia di neri corpi contorti, e sembrava che da un momento all'altro avrebbero travolto i difensori. I demoni, mormorò Wil fra sé. I demoni! Improvvisamente sentì che Amberle si muoveva. Si era leggermente raddrizzata sempre rannicchiata contro Perk, e stava parlando al ragazzo. Una piccola mano strinse la spalla del Cavaliere Alato. Lui annuì. Poi Genewen cominciò a scendere, calando rapidamente verso la Carolan e i Giardini della Vita, simili a un'isola serena - le siepi curate e le aiuole intatte, ordinate - in un mare di prateria devastata e di demoni neri urlanti. Wil vide scintillare le armi al sole mentre i difensori combattevano contro le orde che si avventavano su di loro. Qualche demone era già oltre le mura. Sulla piccola altura al centro dei Giardini, rimanevano, ignorate, le spoglie senza vita dell'Eterea. Improvvisamente Genewen mandò un grido penetrante che risuonò sopra il fragore della battaglia. Per un istante tutti gli occhi si volsero verso il gigantesco Roc. L'uccello sfrecciava, simile a un raggio di sole. Gli Elfi lo riconobbero. Un Cavaliere Alato, gridarono, e scrutarono inutilmente il cielo alla ricerca di altri. Poi Genewen fu sopra i Giardini e scese lentamente ai piedi della piccola altura. Ripiegò le grandi ali e abbassò bruscamente la testa scarlatta. Perk smontò, affrettandosi a sciogliere le cinghie di cuoio strette intorno ai suoi compagni. Per prima liberò Amberle, che scivolò giù dal dorso di
Genewen, e cadde in ginocchio non appena toccò terra. Wil si dibatté nel tentativo di raggiungerla, ma la febbre lo aveva indebolito e le cinghie non si allentavano. Al di là delle siepi e delle aiuole, il fragore della battaglia si avvicinava. «Amberle!» gridò Wil. Lei fu di nuovo in piedi, poco distante, sollevando verso di lui il volto di bambina. Per un istante i terribili occhi rosso sangue lo fissarono, e sembrò sul punto di parlare. Poi, silenziosamente, si voltò e cominciò a salire l'altura. «Amberle!» gridò Wil, continuando a dibattersi per liberarsi dalle cinghie. Genewen ebbe uno scarto, e Perk cercò di calmarlo. «Sta' fermo, Guaritore» lo ammonì Eretria, ma lui non la sentì nemmeno. Capiva soltanto che Amberle si stava allontanando da lui. Che la stava perdendo. Lo sentiva. Spaventato dai movimenti convulsi del giovane, Genewen cominciò a sollevarsi. Perk afferrò i finimenti e gli saltò in groppa, tentando inutilmente di controllarlo. Poi Eretria estrasse il suo coltello, recidendo le cinghie che legavano Wil e lei. Un istante dopo cadevano a capofitto in una fila di cespugli. Il giovane provò una fitta lancinante quando si tirò in piedi. Eretria lo chiamò, urlando, ma lui la ignorò, barcollando verso la figura di Amberle. Lei era già a metà dell'altura, e si dirigeva lentamente verso l'albero. Risuonarono degli ululati. Improvvisamente una mezza dozzina di demoni schizzò fuori dalle siepi. Perk aveva appena fatto atterrare Genewen e era smontato per seguire Wil. Subito i mostri gli si buttarono addosso. Ma il giovane li aveva visti. Levò in alto il pugno che stringeva le Pietre Magiche. Un fuoco azzurro investì i demoni, che scomparvero. «Vattene!» gridò a Perk. «Vattene, Cavaliere Alato!» Vacillando, Eretria fu al suo fianco. Altri demoni cominciarono a emergere dalle siepi e a avanzare stridendo. Un gruppo di Guardie Nere irruppe attraverso i cancelli per intercettarli, le picche abbassate. Ma i demoni si aprirono la strada fra i soldati, lanciandosi contro Wil. Il giovane si voltò per affrontarli e di nuovo le Pietre Magiche lampeggiarono. Perk era montato su Genewen, ma invece di volare via, il piccolo Cavaliere Alato aveva voltato il gigantesco Roc contro i demoni più vicini, ricacciandoli. Ma altri convergevano da tutte le parti, e nemmeno il fuoco delle Pietre Magiche poteva fermarli tutti.
Poi, un grido penetrante risuonò sopra le strida dei demoni e sembrò restare sospeso nel calore del mezzogiorno. Wil si voltò. In cima all'altura Amberle protendeva le braccia verso il tronco dell'Eterea, abbracciandolo. L'albero luccicò come le acque di un ruscello sotto la luce, poi si disintegrò in una pioggia di polvere argentea che cadde come neve intorno all'Elfa. E allora lei rimase sola, le braccia alzate, il fragile corpo eretto. E cominciò a trasformarsi. «Amberle!» gridò Wil, cadendo disperato in ginocchio. Il corpo di lei stava perdendo la sua forma umana: gli indumenti caddero via; le gambe si fusero insieme e dalle estremità uscirono viticci che affondarono nella terra; lentamente, le sue braccia alzate si allungarono e diramarono. «Oh, Wil!» mormorò Eretria, mentre crollava accanto a lui. Amberle era scomparsa. Al suo posto si ergeva l'Eterea, dalla forma perfetta, la corteccia argentea e le foglie scarlatte che scintillavano al sole, rinata nel mondo degli Elfi. Un terribile gemito di agonia si levò dai demoni. Il Divieto era stato ripristinato. Gridavano per tutta la Carolan, mentre esso li ricacciava. Correvano freneticamente, inciampando, cercando di sfuggire all'oscurità che calava inesorabile su di loro. Ma non avevano scampo. Uno dopo l'altro, si dissolsero nella luce, a centinaia, e poi a migliaia: le forme nere si contorcevano, finché anche l'ultimo svanì. Il silenzio scese sui difensori di Arborlon che si guardavano intorno, increduli. Era come se i demoni non fossero mai esistiti. Nei Giardini della Vita, Wil Ohmsford piangeva. 53 Gli Elfi lo trovarono qualche attimo dopo. Per ordine di Ander Elessedil lo portarono a Arborlon. Troppo sconvolto dalla perdita di Amberle per discutere, il corpo straziato dalla febbre, non si oppose. Lo portarono al palazzo degli Elessedil, lungo i suoi atri e i suoi corridoi silenziosi. Immersi nella penombra; infine lo posarono su un letto Guaritori elfi lavarono e curarono le sue ferite e steccarono il suo braccio rotto. Gli diedero da bere un liquido amaro che lo intontì, e lo avvolsero con cura in lenzuola e coperte. Poi lo lasciarono, chiudendo silenziosamente le porte dietro di loro. Qualche attimo dopo, era addormentato.
Mentre dormiva, sognò di vagare attraverso un'oscurità profonda, impenetrabile, inesorabilmente smarrito. Da qualche parte, in quell'oscurità c'era Amberle. Ma non poteva trovarla; quando la chiamò la sua risposta fu debole, distante. Gradualmente avverti un'altra presenza, fredda e maligna e stranamente familiare... una cosa che aveva già incontrato. Terrorizzato, cominciò a correre, sempre più veloce, aprendosi la strada attraverso ragnatele di nero silenzio. Ma la cosa continuava a inseguirlo; anche se era silenziosa, lui l'avvertiva, appena un passo dietro di lui. Infine le sue dita lo sfiorarono e lui gridò, impaurito. Poi, improvvisamente, l'oscurità scomparve. Tutt'intorno a lui c'erano dei giardini, splendidi e ricchi di colori, e la cosa era scomparsa. Si sentì invadere da un senso di sollievo: era salvo. Ma un istante dopo la terra cedette sotto i suoi piedi e fu sollevato in aria. Improvvisamente vide che un'onda nera oltre i giardini stava avanzando lentamente, chiudendosi intorno a lui, come un oceano in cui sarebbe sicuramente annegato. Angosciato, si voltò per cercare Amberle, e la vide, che correva come uno spettro senza voce attraverso il centro dei giardini: solo un istante e poi scomparve. La chiamò più volte, disperatamente, ma non ebbe risposta. Poi l'onda nera lo sommerse e cominciò a sprofondare... Amberle! Si svegliò di soprassalto, madido di sudore. Su un tavolino appoggiato contro una parete, bruciava una sola candela. La stanza era immersa nel buio e la notte era calata sulla città. «Wil Ohmsford.» Sentendo il proprio nome, si voltò, scrutandosi intorno. Una figura alta, avvolta in un mantello sedeva al suo capezzale, nera e senza volto contro il debole lucore della fiamma. Il giovane sbatté lentamente le palpebre, riconoscendola. Allanon. Poi tutto gli tornò alla memoria. Un'amarezza intensa si impadronì di lui, così tangibile che poteva quasi sentirne il sapore. Quando infine riuscì a parlare, la sua voce era bassa, sibilante. «Tu sapevi, Allanon. Tu hai sempre saputo.» Non ci fu risposta. Wil aveva gli occhi lucidi. Pensò a quella prima notte a Storlock, quando aveva incontrato il Druido. Aveva saputo allora che non poteva, che non doveva fidarsi di Allanon. Flick l'aveva messo in guardia; Allanon aveva molti segreti, e li teneva accuratamente nascosti. Ma questo... come aveva potuto nasconderlo!
«Perché non me l'hai detto?» mormorò. «Avresti potuto dirmelo.» Ci fu un movimento fra le ombre del cappuccio. «Saperlo non ti avrebbe aiutato, giovane della Valle.» «Non sarebbe servito a te... è questo che vuoi dire? Mi hai usato! Mi hai lasciato credere che avrei potuto proteggere Amberle dai demoni, e che, se fossi riuscito a portarla in salvo a Arborlon, tutto sarebbe andato bene. Tu sapevi che io ne ero convinto e sapevi anche che mi sbagliavo!» Il Druido rimase in silenzio. Wil scosse la testa, incredulo. «Non potevi dirlo almeno a lei?» «No, Wil. Non mi avrebbe creduto. Non l'avrebbe mai accettato. Sarebbe stato pretendere troppo da lei. Pensa a quel che successe quando parlai con Amberle a Havenstead. Non voleva nemmeno credere di essere ancora un'Eletta. La sua scelta era stata un errore, ripeteva. No, non mi avrebbe creduto. Non allora. Aveva bisogno di tempo per apprendere la verità su se stessa e per capirla. Io non potevo spiegargliela; doveva scoprirla da sola.» La voce di Wil tremava. «Parole, Allanon... tu sei molto abile a usarle. Sei tanto persuasivo. Mi hai convinto una volta, non è vero? Ma non ora. So cosa hai fatto.» «Allora devi sapere cosa non ho fatto» rispose piano Allanon. Si chinò sul giovane. «La decisione finale è stata sua, Wil... non mia. Io non ho mai influito su di lei, ho soltanto fatto in modo che lei potesse prenderla. Ho fatto questo e niente di più!» «Niente di più? Hai fatto in modo che Amberle prendesse la decisione che ti aspettavi da lei. Non mi sembra poco.» «Ho fatto in modo che lei capisse le conseguenze che sarebbero derivate dalla sua decisione, qualunque fosse stata. Questo è diverso...» «Conseguenze!» Wil alzò di scatto la testa dai cuscini e la sua improvvisa risata era sarcastica. «Che ne sai delle conseguenze, Allanon?» La sua voce si spezzò. «Sai quel che lei significava per me? Lo sai?» Le lacrime gli scorrevano sul volto. Lentamente si abbandonò di nuovo sui cuscini, con una strana sensazione di vergogna. Tutta l'amarezza se ne andò, lasciandolo con un doloroso senso di vuoto. Imbarazzato, distolse lo sguardo da Allanon, e entrambi rimasero zitti. Nell'oscurità della camera, il lucore della candela li sfiorava dolcemente. Solo dopo una lunga pausa, Wil guardò di nuovo il Druido. «Bene, è finita, ora. Se n'è andata.» Deglutì. «Mi spiegheresti almeno perché?» Il Druido tacque un istante, tutto curvo fra le ombre del mantello che lo occultavano. Quando alla fine parlò, la sua voce era quasi un sussurro.
«Ascolta, dunque, giovane della Valle. È una creatura meravigliosa... questa pianta, l'Eterea... un frammento vivente di una magia formata dalla fusione della vita umana col fuoco della terra. Fu creata prima delle Grandi Guerre. I maghi elfi la concepirono quando i demoni furono finalmente ridotti agli estremi e si presentò la necessità di impedire che minacciassero di nuovo il mondo di fiaba. Gli Elfi, ricorderai, non erano un popolo violento. Preservare la vita era il loro scopo, la loro opera. Persino di fronte a creature così malvagie e distruttrici come lo erano i demoni, non pensarono a un deliberato annientamento di quella specie. Bandire i demoni dalla terra sembrava l'alternativa più accettabile, ma sapevano che, a tale scopo, dovevano instaurare un divieto di tale potenza da tenere assoggettati alle sue leggi i demoni per tutti i millenni a venire. Questi dovevano venir imprigionati in un luogo in cui non potessero recar danno a nessun altro. Così i maghi elfi usarono la loro magia più potente, quella invocata per il massimo sacrificio, il volontario dono della vita. Fu questo dono che consentì di far nascere l'Eterea e di stabilire il Divieto.» Rimase in silenzio per un attimo. «Devi conoscere lo stile di vita elfo, la natura del codice che lo governa, per comprendere che cosa veramente rappresenta l'Eterea e quindi il motivo per cui Amberle scelse di diventare lei. Gli Elfi credono di avere un debito con la terra, poiché essa crea e nutre tutta la vita. Gli Elfi credono che, quando si prende alla terra, bisogna darle qualcosa in cambio. È una credenza tradizionale, un rituale. Essi ricevono il dono della vita; perciò devono restituirlo. Adempiono questo compito con un'esistenza al servizio della terra, sforzandosi, ciascuno a suo modo, di preservarla. L'Eterea non è che un'espansione di questa devozione. Essa impersona la credenza che la terra e gli Elfi sono reciprocamente dipendenti. L'Eterea è un'unione della terra con la vita degli Elfi, un'unione concepita per proteggerle da un male che le distruggerebbe entrambe. Alla fine Amberle lo capì. Capì che soltanto col suo sacrificio, diventando lei l'Eterea, poteva salvare le Terre dell'Ovest e il suo popolo. Capì che il seme da lei portato poteva prendere vita soltanto se lei avesse rinunciato alla propria.» Allanon si interruppe e si chinò lentamente, facendo ricadere la sua ombra sul giovane che ascoltava. «Avrai intuito che anche la prima Eterea era una fanciulla; non è un caso che chiamiamo l'albero al femminile. L'Eterea deve sempre essere una donna, perché soltanto una donna può riprodursi. I maghi previdero questa esigenza di procreazione, benché non potessero prevedere quante volte si sarebbe presentata. Scelsero una donna, una fan-
ciulla che, immagino, era molto simile a Amberle, e la trasformarono. Poi crearono l'ordine degli Eletti così che la pianta potesse essere accudita e, quando fosse giunto il momento, potesse scegliere chi doveva succederle. Ma furono uomini, e non donne, che lei scelse come Eletti nel corso dei secoli, tranne poche eccezioni. Le storie non ne spiegano il motivo... e nemmeno lei lo ricordava più. Le cose andarono così per lungo tempo; scelse le donne solo quando lo sentiva necessario. Forse ciò dipendeva dalla sua creazione all'epoca dei maghi elfi. Forse questi promisero ai giovani che l'avevano amata di servirla... forse fu lei a richiederlo. Forse la scelta di uomini come Eletti era più accettabile per gli Elfi. Non so. «In ogni caso, quando scelse Amberle, l'Eterea sospettava che la sua fine fosse imminente. Non poteva esserne certa, naturalmente, perché era la prima della sua specie, e nessuno poteva sapere quando la sua morte sarebbe giunta e quali segni l'avrebbero preannunciata. In verità, molti credevano che fosse immortale. E le caratteristiche fisiche di quella parte di lei che era stata umana si erano da tempo evolute in qualcosa di totalmente diverso, perciò non si poteva ricavare nessuna indicazione da esse. Altre volte, durante la sua vita, aveva pensato di poter morire, e quando aveva creduto di essere in tale periodo, aveva dovuto scegliere chi le succedesse. E sempre aveva scelto una donna... una dozzina di volte in tutto. L'ultima risale a cinque secoli fa. Non so cosa l'abbia indotta a farlo, perciò non chiedermelo. Non conta. «Quando Amberle fu scelta come Eletta, la prima donna dopo cinque secoli, la sorpresa fra gli Elfi fu notevole. Ma la scelta di Amberle aveva un significato assai più grande di quanto gli altri immaginassero, perché l'Eterea considerava la fanciulla come sua possibile erede. E ancor più. Per lei Amberle era come un bambino non ancora nato. Una strana similitudine potresti obiettare, ma considera le circostanze. Prima di morire, l'albero avrebbe prodotto un seme, e quel seme e Amberle sarebbero diventati tutt'uno, una nuova Eterea nata in parte da quell'antica. La scelta di Amberle fu fatta in base a questa preveggenza, e necessariamente comportava molti dei sentimenti che una madre avrebbe per un figlio atteso. Fisicamente la donna che l'Eterea era stata, era cambiata, ma emotivamente conservava molte delle sue primitive caratteristiche. E le avvertiva anche nella fanciulla elfa. Ecco perché erano tanto unite all'inizio.» Rifletté un istante. «Sfortunatamente fu questa vicinanza a causare problemi. Quando venni a Arborlon la prima volta, richiamato dall'erosione del Divieto e dalla minaccia di irruzione dei demoni, andai ai Giardini del-
la Vita per parlare con l'Eterea. Mi disse che, dopo aver scelto Amberle come Eletta, aveva tentato di rafforzare i legami fra lei e la fanciulla. Lo aveva fatto perché sentiva che la malattia si impadroniva di lei. La sua vita, si era resa conto, stava giungendo alla fine; il seme che già stava cominciando a formarsi dentro di lei doveva essere consegnato a Amberle. Il suo comportamento nei confronti della fanciulla fu dettato dal suo istinto materno. Voleva prepararla a quel che doveva succedere, trasmetterle la bellezza, la grazia e la pace che aveva goduto nella sua vita. Voleva che Amberle potesse apprezzare che cosa significava diventare una cosa sola con la terra, vederne l'evoluzione nel corso degli anni, sperimentarne i cambiamenti... in breve, immagino, illustrare cosa significa crescere - come fa una madre con un bambino.» Wil annuì lentamente. Pensava al sogno che lui e Amberle avevano condiviso dopo che il re del Fiume Argento li aveva salvati dai demoni. Nel sogno si erano cercati... lui in un bellissimo giardino, così stupendo da commuoverlo; lei nel buio, chiamandolo, ma senza ottenere risposta. Nessuno dei due aveva capito che il sogno era profetico. Nessuno dei due aveva capito che il re del Fiume Argento gli aveva fatto intravvedere il futuro. Il Druido proseguì: «L'Eterea era ben intenzionata, ma troppo zelante. Spaventò Amberle con le sue visioni e le sue costanti cure materne, offuscando inoltre l'identità della ragazza. La giovane non era ancora pronta per la transizione che l'Eterea era così ansiosa di farle compiere. Si spaventò e incollerì, e se ne andò da Arborlon. L'Eterea non capì; continuava a aspettare il ritorno di Amberle. Quando la malattia divenne irreversibile e il seme fu completamente formato, chiamò a sé gli Eletti». «Ma non Amberle?» Ora Wil ascoltava attentamente. «No, non Amberle. Era convinta che Amberle sarebbe arrivata spontaneamente. capisci. Non voleva mandarla a chiamare perché, quando l'aveva fatto, la fanciulla si era allontanata ancor di più. Era certa che, appena avesse saputo della sua morte imminente, Amberle sarebbe venuta. Sfortunatamente le restava meno tempo di quanto pensasse. Il Divieto cominciò a erodersi, e lei non poté preservarlo. Alcuni demoni lo varcarono e gli Eletti furono massacrati... tutti, tranne Amberle. Quando le apparvi davanti, l'Eterea era disperata. Mi disse che bisognava trovare Amberle, così io andai a cercarla.» Un'ombra di rinnovata amarezza oscurò il volto del giovane. «Allora a Havenstead tu sapevi già che l'Eterea considerava ancora Amberle un'Eletta.»
«Sì.» «E sapevi che le avrebbe dato il seme.» «Ti risparmierò il fastidio di farmi ulteriori domande. Io sapevo tutto. Le storie druide a Paranor mi rivelarono la verità sulla creazione dell'Eterea... e sulla sua rinascita.» Ci fu una breve esitazione. «Cerca di capire una cosa, giovane della Valle. Anch'io le volevo bene. Non desideravo affatto ingannarla, se vuoi definire inganni le mie omissioni. Ma era indispensabile che Amberle scoprisse da sola la verità su se stessa, e non l'apprendesse da me. Le ho dato un percorso da seguire, non una carta particolareggiata. Ho pensato che sarebbe toccato a lei fare le scelte necessarie. Né tu né io né nessun altro aveva il diritto di farle al suo posto. Soltanto lei lo aveva.» Wil Ohmsford abbassò gli occhi. «Forse è così. Ma forse sarebbe stato meglio se avesse saputo fin dall'inizio dove l'avrebbe condotta quel cammino che tu le hai fatto imboccare.» Scosse lentamente la testa. «Strano. Credevo che sapere la verità su tutto quel che è accaduto mi avrebbe dato sollievo. Ma non è così. Affatto.» Ci fu un lungo silenzio. Poi Wil alzò nuovamente gli occhi. «In ogni caso, non ho il diritto di biasimarti per quel che è successo. Tu hai fatto quel che dovevi fare... lo so. So anche che soltanto Amberle poteva decidere. Ma perderla così... è terribile...» La sua voce si spezzò. Il Druido annuì. «Mi dispiace, giovane della Valle.» Fece per alzarsi, ma Wil improvvisamente gli domandò: «Perché mi hai svegliato ora, Allanon? Per raccontarmi tutto ciò?». L'alta figura si raddrizzò, nera e senza volto. «Sì, e per dirti addio, Wil Ohmsford.» Wil lo guardò, incredulo. «Addio?» «Forse ci rivedremo, un giorno.» «Ma... dove stai andando?» Non ebbe risposta. Wil si sentì riassalire dal torpore; il Druido lo lasciava nuovamente scivolare nel sonno dal quale lo aveva svegliato. Ostinatamente vi oppose resistenza. C'erano altre cose da dire, e lui voleva dirle. Allanon non poteva lasciarlo così, scomparendo inaspettatamente nella notte così come era comparso, tutto avviluppato nel suo mantello come un ladro, timoroso che anche soltanto una fuggevole visione del suo volto potesse tradirlo... In quell'istante un improvviso sospetto attraversò la mente di Wil. Debolmente allungò una mano e afferrò un lembo del mantello.
«Allanon.» Il silenzio cadde nella piccola camera. «Allanon... lasciami vedere il tuo volto.» Per un attimo pensò che il Druido non lo avesse sentito. Era rimasto immobile al suo capezzale, scrutandolo fra le ombre del suo mantello. Il giovane aspettava. Poi, lentamente, le lunghe mani emersero e tirarono indietro il cappuccio. «Allanon!» esclamò Wil, con voce soffocata. I capelli e la barba del Druido, un tempo neri come il carbone, erano striati di grigio. Allanon era invecchiato! «Il prezzo che si paga per l'uso della magia.» Il sorriso di Allanon era lento, ironico. «Questa volta temo di aver esagerato; ha prosciugato le mie energie più di quanto immaginassi.» Si strinse nelle spalle. «Ognuno di noi non ha che una vita... soltanto quella.» «Allanon!» Wil piangeva in silenzio. «Allanon, perdonami. Non andartene.» Il Druido si rimise il cappuccio, e si chinò per stringere la mano di Wil. «È ora che vada. Entrambi abbiamo bisogno di riposare. Dormi bene, Wil Ohmsford. Cerca di non serbarmi rancore; credo che Amberle non lo farebbe. Trova conforto in questo: tu sei un Guaritore, e un Guaritore deve preservare la vita. E tu l'hai fatto... per gli Elfi, per le Terre dell'Ovest. E anche se ti sembrerà di aver perso Amberle, ricorda che lei sarà sempre qui. Avvicinati all'albero, e lei sarà con te.» Indietreggiò nel buio e spense la candela. «Non andare» lo supplicò Wil, assonnato. «Addio, Wil.» La voce profonda giungeva da molto lontano. «Di' a Flick che aveva ragione per quanto mi riguardava. Ne sarà soddisfatto.» «Allanon» mormorò il giovane, e poi si addormentò. Attraverso i corridoi appena illuminati del palazzo, il Druido scivolò via, silenzioso come le ombre della notte. La Guardia Reale sorvegliava i corridoi. Cacciatori elfi che erano sopravvissuti alla battaglia sull'Elfitch, uomini duri, rudi. Eppure si fecero di lato al passaggio di Allanon; li indusse a farlo qualcosa nello sguardo del Druido. Un attimo dopo egli si trovava nella camera del re elfo, chiudendo piano la porta dietro di sé. La luce delle candele spandeva nella sala un lucore nebuloso che filtrava attraverso l'oscurità negli angoli e nei recessi bui come la mano di un cieco. Alle finestre sbarrate erano drappeggiate le ten-
de, che racchiudevano la stanza nel silenzio. Su un grande letto alla parete in fondo giaceva Eventine, tutto avvolto in bende e in lenzuoli di lino. Al suo capezzale, Ander sonnecchiava, agitato, su una seggiola di vimini dall'alto schienale. Silenziosamente Allanon si fermò ai piedi del letto. Il vecchio re dormiva, il respiro lento e faticoso, la pelle color pergamena. La sua vita stava per spegnersi. Un'era stava per morire, pensò il Druido, presto sarebbero tutti scomparsi. Tutti coloro che avevano combattuto il Signore degli Inganni, tutti coloro che avevano partecipato alla ricerca della elusiva Spada di Shannara... tutti tranne gli Ohmsford, Shea e Flick. Un sorriso ironico, cupo, gli increspò lentamente le labbra. E lui, naturalmente. Lui c'era ancora. Lui c'era sempre. Sotto le lenzuola di lino, Eventine si agitò. Accadrà ora, si disse Allanon. Per la prima volta, quella notte, l'amarezza trapelò dal suo volto duro. Silenziosamente indietreggiò fra le ombre in fondo alla stanza, e attese. Ander Elessedil si svegliò di soprassalto. Con occhi annebbiati dal sonno, si scrutò intorno, circospetto, alla ricerca di spettri inesistenti. Fu invaso da uno spaventoso senso di solitudine. Tanti di quelli che dovevano essere lì, con lui, non c'erano più: Arion, Pindanon, Crispin, Elhron Tayn, Kerrin. Tutti morti. Si abbandonò sulla sedia di vimini, intorpidito dalla stanchezza al punto che sentiva soltanto il dolore di giunture e muscoli. Quanto aveva dormito? si domandò. Non lo sapeva. Presto sarebbe tornato Gael, portando cibo e bevande. e insieme avrebbero vegliato sul re morente. In attesa. I ricordi lo assalirono, ricordi di suo padre e di quel che era stato, immagini fantastiche del passato, di tempi e luoghi e eventi che non sarebbero mai più tornati. Erano dolci e tristi allo stesso tempo, riportando alla memoria la felicità trascorsa e la sua transitorietà. Se avesse potuto scegliere, avrebbe preferito che quella notte i ricordi lo lasciassero in pace. Pensò improvvisamente a suo padre e a Amberle, all'affetto particolare che li aveva legati, all'attaccamento che era stato perso e poi ritrovato... tutto dissolto. ormai. Persino ora era difficile comprendere la trasformazione che aveva subito Amberle. Doveva continuare a ripetersi che era reale, non immaginaria. Gli pareva ancora di sentire il piccolo Cavaliere Alato, Perk, mentre gli raccontava la sua testimonianza, il volto infantile intimorito, impaurito, tanto era preoccupato che si dubitasse di lui, e deciso a farsi credere.
Appoggiò la testa sullo schienale della sedia e chiuse gli occhi. Pochi conoscevano la verità. Non aveva ancora deciso se rivelarla o no pubblicamente. «Ander.» Si tirò su di scatto; i penetranti occhi azzurri di suo padre incontrarono i suoi. Fu così sorpreso che, per un istante, semplicemente guardò il vecchio. «Ander, cosa è successo?» La voce del re elfo era un sussurro rauco, appena percettibile nel silenzio. Rapidamente Ander si inginocchiò accanto a lui. «È finita» rispose piano. «Abbiamo vinto. I demoni sono nuovamente imprigionati dietro il Divieto. L'Eterea...» Non poté completare la frase. Non trovava le parole. La mano di Eventine scivolò fuori dalle coperte, cercando la sua. «Amberle?» Ander inspirò a fondo; gli salirono le lacrime agli occhi. Si costrinse a sostenere lo sguardo del padre. «È salva» mormorò. «Ora riposa.» Ci fu una lunga pausa. L'ombra di un sorriso apparve sul volto del re. Poi chiuse gli occhi. Un attimo dopo era morto. Allanon rimase nell'oscurità diversi minuti prima di muoversi. «Ander» chiamò a bassa voce. Il principe si alzò lasciando la mano del padre. «Se n'è andato, Allanon.» «E tu sei re. Sii degno di lui.» Ander si voltò, lanciandogli uno sguardo penetrante. «Tu sapevi, Allanon? Me lo sono chiesto spesso dopo la battaglia al Baen Draw. Tu sapevi che tutto ciò sarebbe accaduto, che io sarei diventato re?» I tratti del Druido sembrarono pietrificarsi per un attimo, il suo volto bruno divenne totalmente inespressivo. «Non avrei potuto impedire nulla di quanto è accaduto, principe elfo» rispose lentamente. «Potevo soltanto cercare di prepararti a quel che doveva venire.» «Allora sapevi?» Allanon annuì. «Sapevo. Sono un Druido.» Ander inspirò a fondo. «Farò del mio meglio, Allanon.» «Così sarà, Ander Elessedil.»
Rimase a osservare il principe elfo mentre ritornava accanto al re morto, lo ricopriva come se fosse stato un bambino addormentato, poi si inginocchiava di nuovo al suo capezzale. Allanon si voltò e se ne andò silenziosamente dalla stanza, dal palazzo, dalla città. dalle Terre dell'Ovest. Nessuno lo vide. Era l'alba quando qualcuno dolcemente lo svegliò. Una luce grigioargento filtrava attraverso le tende delle finestre disperdendo l'oscurità. Lentamente aprì gli occhi e si ritrovò a guardare Perk. «Wil?» Il volto del piccolo Cavaliere Alato era grave. «Salve, Perk.» «Come stai?» «Un po' meglio, credo.» «Bene.» Perk si sforzò di sorridere. «Ero veramente preoccupato.» «Anch'io» fece Wil, sorridendo a sua volta. Perk sedette sull'orlo del letto. «Mi dispiace averti svegliato, ma non volevo partire senza salutarti.» «Te ne vai?» Il ragazzo annuì. «Dovevo partire ieri sera, ma Genewen aveva bisogno di riposare. Era piuttosto stanco dopo quel lungo volo. Ma ora devo proprio andarmene. Ero atteso a Rifugio Alato due giorni fa. Probabilmente mi staranno cercando.» Fece una pausa. «Ma capiranno, quando spiegherò quel che è successo. Non saranno in collera con me.» «Lo spero. Altrimenti mi dispiacerebbe.» «Anche mio zio Dayn glielo spiegherà. Lo sapevi che era qui, Wil? L'ha mandato mio nonno. Zio Dayn ha detto che mi sono comportato come un vero Cavaliere Alato. Ha detto che quel che abbiamo fatto Genewen e io è stato molto importante.» Wil si tirò su un poco, appoggiandosi ai cuscini. «È proprio così, Perk. È stato molto importante.» «Non me la sentivo di lasciarvi così. Sapevo che potevate avere bisogno di me.» «Tu ci sei stato di grande aiuto.» «E ho pensato che mio nonno non se la sarebbe avuta a male se per una volta gli avessi disubbidito.» «Non credo che se l'avrà a male.» Perk abbassò lo sguardo. «Wil, mi dispiace per la signora, Amberle. Veramente.»
Wil annuì lentamente. «Lo so, Perk.» «Era una creatura incantata, vero? Era una creatura incantata e la magia l'ha trasformata in albero.» Alzò rapidamente gli occhi. «Era quel che desiderava, vero? Trasformarsi in albero in modo da far scomparire i demoni? Era così che doveva essere?» Il giovane inspirò a fondo prima di rispondere: «Sì». «Ero davvero sgomento, sai?» mormorò Perk. «Non sapevo se quella cosa doveva accadere oppure no. E stato così improvviso. Lei non mi aveva avvertito di niente, così quando è successo, mi sono spaventato.» «Non credo che volesse spaventarti.» «No, nemmeno io.» «Soltanto non ha avuto il tempo di spiegarti.» Perk si strinse nelle spalle. «Oh, lo so. E accaduto tutto così in fretta.» Rimasero in silenzio un attimo. Poi il piccolo Cavaliere Alato si alzò. «Volevo solo salutarti, Wil. Verrai a trovarmi qualche volta? Oppure potrei venire io da te... ma dovrò aspettare di essere adulto. La mia famiglia non mi permetterà di volare fino alle Terre dell'Ovest.» «Verrò io a trovarti» promise Wil. «Presto.» Perk agitò la mano nel congedarsi e si diresse verso la porta. Aveva già afferrato la maniglia quando si fermò e si voltò a guardare il giovane. «Io le volevo bene, Wil... davvero.» «Anch'io, Perk.» Sorridendo, il piccolo Cavaliere Alato scomparve. 54 Coloro che erano venuti a Arborlon per combattere al fianco degli Elfi ritornarono tutti a casa. Tutti, tranne due. I Cavalieri Alati furono i primi a partire, all'alba del giorno in cui cominciò il regno di Ander Elessedil, nuovo re degli Elfi di Terra: erano tre dei cinque che erano volati insieme verso il nord e il ragazzo di nome Perk. Partirono in silenzio, quasi senza salutare nessuno all'infuori del giovane re, e scomparvero prima che il sole splendesse in pieno sulle foreste dell'est, sui loro Roc dorati che cacciavano la notte morente come i primi raggi del sole. A mezzogiorno partirono i Troll delle Montagne con Amantar in testa, fieri e combattivi come quando erano arrivati, levando in alto le armi per salutare il popolo elfo che affollava le strade e i viali, acclamandoli. Per la prima volta da oltre un millennio, Troll e Elfi si separavano da amici.
I Nani rimasero diversi giorni ancora, per mettere a disposizione degli Elfi le loro notevoli capacità tecniche e contribuire ai progetti per la ricostruzione dell'Elfitch. Un compito estremamente difficile, perché non solo occorreva rifare la quinta rampa demolita, ma anche puntellare gran parte della struttura. Era quel tipo di sfida che il formidabile Browork prediligeva; con l'aiuto dei suoi genieri ancora in grado di lavorare, elaborò un piano per gli Elfi. Quando infine si congedò da Ander e dal suo popolo. promise di mandare subito un'altra compagnia di Genieri Nani - in condizioni migliori di quella - per fornire tutto l'aiuto necessario. «Sappiamo di poter contare su di voi» disse Ander, stringendo energicamente la ruvida mano di Browork quando si congedarono. «In ogni momento» rispose il rude Nano con un breve cenno del capo. «Ricordatevene quando noi avremo bisogno di voi.» Infine furono gli uomini di Callahorn a partire: i pochi soldati del Libero Battaglione della Legione e della Vecchia Guardia che erano sopravvissuti alla feroce battaglia sull'Elfitch. Non erano nemmeno dodici, e di questi soltanto sei avrebbero potuto combattere ancora. Il Battaglione aveva praticamente cessato di esistere: i corpi dei suoi soldati erano rimasti fra i passi del Confine e sulla terra di Arborlon. Eppure, per l'ennesima volta, l'alto uomo della Frontiera di nome Stee Jans era sopravvissuto. All'alba del sesto giorno successivo alla vittoria sulle orde demoniache, andò da Ander Elessedil sul suo gigantesco roano. Il re elfo stava sul bordo della Carolan a esaminare con i tecnici i progetti elaborati dai Genieri Nani. Dopo essersi scusato in gran fretta, Ander si diresse rapidamente verso il Comandante del Libero Battaglione, che nel frattempo era smontato da cavallo e lo aspettava. Ignorando il saluto rispettoso dell'altro, Ander gli strinse energicamente la mano. «Ti sei ristabilito, comandante?» gli chiese, sorridendo. «Abbastanza, mio signore» rispose Stee Jans, sorridendo a sua volta. «Sono venuto per ringraziarti e per dirti addio. La Legione torna a Callahorn.» Ander scosse lentamente la testa. «Non sei tu che devi ringraziarmi. Ma io... e con me il popolo elfo. Nessuno ha aiutato questo paese più degli uomini del Libero Battaglione. E quanto a te, Stee Jans... cosa avremmo fatto senza di te?» Prima di rispondere, l'uomo della Frontiera rimase in silenzio un attimo. «Mio signore, io credo che abbiamo trovato nel tuo popolo e nella tua terra
una causa per la quale valeva la pena lottare. Tutto quel che abbiamo dato, l'abbiamo dato liberamente. E tu non hai perso... è questo che conta.» «Come potevamo perdere con te al nostro fianco?» Ander gli strinse nuovamente la mano. «Che farai ora?» Stee Jans si strinse nelle spalle. «Il Libero Battaglione non esiste più. Forse lo riformeranno. Forse no. In tal caso, forse ci sarà un nuovo battaglione della Legione. Ne chiederò il comando.» Ander annuì lentamente. «Stee Jans... chiedimi il comando delle mie truppe. Io sarei onorato di affidartelo. E anche il popolo elfo lo sarebbe. Tu sei uno di noi. Prenderai in considerazione la mia proposta?» Sorridendo, l'uomo della Frontiera si voltò e montò in sella. «La sto già prendendo in considerazione, re Ander.» Lo salutò. «A presto, mio signore... e che la forza sia con te e col popolo elfo.» Fece voltare il grande roano, il mantello grigio al vento, e si diresse a est lungo la Carolan. Ander rimase a guardarlo mentre si allontanava, salutandolo. A presto, uomo della Frontiera, rispose. Così, tutti i valorosi che erano venuti a Arborlon per combattere al fianco degli Elfi, tornarono a casa. Tutti, tranne due. Uno era il giovane della Valle, Wil Ohmsford. Il sole inondava la Carolan in una coltre di calore e nebulosa luminosità mentre si avvicinava il mezzogiorno e Wil Ohmsford si avviava verso i Giardini della Vita. Imboccò il sentiero di ghiaia a un'andatura tranquilla, misurata, senza traccia di esitazione. Eppure quando, infine, si ritrovò davanti ai cancelli, non seppe più se avrebbe avuto la forza di proseguire. Gli era occorsa una settimana per arrivare a questo punto. Aveva passato nel palazzo degli Elessedil i primi tre giorni successivi al suo crollo in quegli stessi Giardini, e aveva dormito quasi sempre; altri due li aveva trascorsi nel parco silenzioso che racchiudeva l'antica dimora, dibattendosi nel groviglio di emozioni che lo laceravano al ricordo di Amberle, e durante gli ultimi due aveva cercato di eludere con cura quel che ora si accingeva a fare. Rimase a lungo davanti ai cancelli, scrutando le volute argentee e i frammenti d'avorio, le mura ricoperte di edera, i pini e le file di siepi. Entrando e uscendo dai Giardini, gli abitanti della città gli lanciavano occhiate stupite, perplesse. Venivano per il suo stesso scopo e si chiedevano se lui fosse ancor più intimorito e imbarazzato di loro. Le sentinelle della Guardia Nera se ne stavano rigide, impassibili a ciascun lato dell'ingresso;
di tanto in tanto i loro occhi scivolavano per un istante sulla figura del giovane. Ma Wil Ohmsford non si muoveva. Eppure doveva decidersi. Ci aveva riflettuto a lungo. Doveva rivederla ancora una volta. Un'ultima volta. Altrimenti non avrebbe mai potuto ritrovare la pace. Quasi senza accorgersene, varcò i cancelli, seguendo la curva del sentiero che lo avrebbe portato all'albero. Si sentiva stranamente sollevato mentre camminava, come se la decisione di andare da lei fosse non solo necessaria, ma giusta. Un barlume della determinazione che lo aveva aiutato a superare quelle ultime settimane travagliate gli ritornò... una determinazione che lo aveva abbandonato quando aveva perso Amberle, così forte era stata la sua convinzione di esserle venuto meno. Ora pensava di capire meglio quel sentimento. Non era tanto un senso di fallimento, quello che aveva sperimentato, quanto un senso dei propri limiti. Non sempre puoi fare quel che desideri, gli aveva detto una volta zio Flick. E così, pur essendo riuscito a salvare Amberle dai demoni, non aveva potuto risparmiarle il suo destino di Eterea. Ma questo non era mai stato in suo potere. Soltanto lei poteva decidere. Era stata sua, la scelta, gli aveva detto... e Allanon l'aveva ribadito. Né la collera, né l'amarezza, né i rimorsi avrebbero potuto cambiare la realtà o restituirgli la pace di cui aveva bisogno. Doveva riconciliarsi con quanto era accaduto in un altro modo. E ora sapeva quale. La visita a lei non era che il primo passo. Attraversò un varco fra un'alta fila di sempreverdi e lei gli fu davanti. L'Eterea si delineava nell'azzurro limpido del cielo, col suo tronco argenteo e le foglie scarlatte che frusciavano nella luce del mattino, così squisitamente bella che in quell'istante Wil si sentì salire le lacrime agli occhi. «Amberle...» mormorò. Ai piedi della piccola altura sulla quale si ergeva la pianta erano raccolte famiglie elfe provenienti dalla città, gli occhi fissi sull'Eterea, le voci sommesse e rispettose. Wil Ohmsford esitò, poi si avvicinò a loro. «Vedi, non è più malata» stava spiegando una madre a una bambina. «Sta di nuovo bene.» E la sua terra e il suo popolo sono al sicuro, aggiunse fra sé il giovane. Perché Amberle... si era sacrificata per entrambi. Inspirò a fondo, guardando verso la pianta. Era qualcosa che lei aveva voluto fare, che aveva dovuto fare... non semplicemente perché era necessario, ma perché, alla fine, era arrivata a considerarlo lo scopo della sua esistenza. L'etica elfa,
l'ideale che aveva governato la sua vita... bisogna restituire alla terra qualcosa di sé. Persino quando se n'era andata in esilio da Arborlon, non aveva dimenticato quel credo, ma l'aveva praticato nel suo lavoro con i bambini di Havenstead. E infine l'aveva indotta a tornare con Wil per scoprire la verità sul suo destino. Bisogna restituire alla terra qualcosa di sé. E, alla fine, lei aveva dato tutto. Wil sorrise, triste. Ma non aveva perso tutto. Diventando l'Eterea, aveva conquistato un mondo intero. «Terrà i demoni lontani da noi, mamma?» stava chiedendo la bambina. «Sì, sì, certo.» La donna sorrideva. «E ci proteggerà sempre?» «Sì... sempre.» Gli occhi della bambina passavano rapidamente dalla madre all'albero. «È così bella.» La sua vocina era piena di stupore. Amberle. Wil la fissò ancora un istante, poi si voltò e si allontanò lentamente dai Giardini. Aveva appena attraversato i cancelli posteriori quando scorse Eretria. Se ne stava a un lato del sentiero che arrivava dalla città, e i suoi occhi bruni si spostarono rapidamente verso di lui. Le variopinte sete nomadi erano scomparse, sostituite da comuni indumenti elfi. Eppure non c'era niente di comune in Eretria. Era bellissima come la prima volta che Wil l'aveva vista. I suoi capelli neri, lunghi fino alla vita, scintillavano alla luce; appena lo vide, gli rivolse il suo solito sorriso abbagliante. Silenziosamente, le si avvicinò per salutarla, sorridendo appena. «Ora ti sei rimesso» disse lei, allegra. Lui annuì. «Il merito è tutto tuo. Sei tu che mi hai salvato.» Lei si illuminò ancor più a quel complimento. Ogni giorno, nelle ultime settimane, era venuta da lui... per nutrirlo, curargli le ferite, fargli compagnia quando sentiva che Wil ne aveva bisogno, lasciandolo in pace quando avvertiva che lui voleva star solo. La sua guarigione, fisica e psichica, era dipesa in gran parte da Eretria. «Mi hanno detto che eri uscito.» Lanciò una breve occhiata verso i Giardini. «Non occorreva molta immaginazione per capire dove eri andato. Così ho pensato di seguirti e aspettarti.» Lo guardò di nuovo, con un sorriso luminoso. «Tutti gli spettri si sono finalmente placati, Guaritore?»
Wil capì che era preoccupata. Lei sapeva meglio di tutti quel che aveva significato per lui la perdita di Amberle. Ne avevano parlato costantemente per tutto il tempo che avevano trascorso insieme durante la sua convalescenza. Spettri, li chiamava lei... tutti quegli assurdi sentimenti di colpa che lo avevano ossessionato. «Sì, forse si sono placati» rispose Wil. «Venir qua mi ha aiutato, e fra un po' di tempo, forse...» Si interruppe stringendosi nelle spalle, e sorrise. «Amberle credeva di essere debitrice alla terra per la vita che le era stata data. Mi disse una volta che questa sua convinzione faceva parte della sua eredità elfa. Che quindi è anche mia, penso volesse suggerire. Vedi, lei mi considerò sempre fondamentalmente un Guaritore. E sarà quel che farò. Un Guaritore dà alla terra attraverso la cura delle persone che la preservano. Quello sarà il mio dono, Eretria.» Lei annuì, solenne. «Così ora tornerai a Storlock?» «Prima a casa, a Valle d'Ombra... poi a Storlock.» «Presto?» «Sì. Penso che dovrei partire subito.» Si schiarì la gola, a disagio. «Sai che Allanon mi ha lasciato lo stallone nero... Artaq? Un dono. Forse ha voluto in parte ricompensarmi per la perdita di Amberle.» Lei guardò altrove. «Forse. Possiamo tornare insieme, ora?» Senza aspettare una risposta, cominciò a percorrere il sentiero nella direzione da cui era venuta. Confuso, lui esitò un istante, poi si affrettò a seguirla. Insieme, camminavano in silenzio. «Hai deciso di tenere le Pietre Magiche?» chiese lei poco dopo. Una volta, al culmine della sua depressione, Wil le aveva detto che intendeva cederle. La magia elfa aveva lasciato una traccia su di lui, lo sapeva. Così come aveva fatto invecchiare Allanon, aveva influito su di lui... Anche se, finora, non sapeva come. Tale potere lo spaventava ancora. Tuttavia la responsabilità che esso comportava restava sua: non poteva semplicemente trasmetterla a un altro. «Le terrò» le rispose. «Ma non le userò. Mai più.» «No» mormorò lei. «A un Guaritore non servono le Pietre.» Oltrepassate le mura dei Giardini, imboccarono il sentiero verso Arborlon. Nessuno dei due parlava. Wil percepiva la distanza che li separava, un abisso sempre più profondo provocato in lei dalla certezza che lui l'avrebbe lasciata di nuovo. Eretria voleva seguirlo, naturalmente. Aveva sempre voluto seguirlo. Ma non gliel'avrebbe chiesto nuovamente... non questa
volta. Il suo orgoglio glielo avrebbe impedito. Rimuginò la questione fra sé. «Dove andrai ora?» le chiese Wil un attimo dopo. Lei si strinse nelle spalle, con aria indifferente. «Oh, non lo so. A Callahorn, forse. Ora posso andare dove voglio, fare quel che voglio.» Fece una pausa. «Forse verrò a trovarti. Ho l'impressione che tu abbia bisogno di qualcuno che si occupi di te.» Ecco: la frase era stata casuale, quasi scherzosa, ma l'intento era inequivocabile. Io sono per te, Wil Ohmsford, aveva detto quella notte nel Tirfing. E ora lo stava ripetendo. Wil guardò il suo volto bruno, pensando rapidamente a tutto quel che lei aveva fatto per lui, a tutti i rischi che aveva corso. Se la lasciava ora, sarebbe rimasta sola. Non aveva casa, famiglia, popolo. Prima, quando lei gli aveva chiesto di accompagnarlo, lui aveva avuto un motivo valido per respingerla. Quale motivo aveva adesso? «Era soltanto un'idea» aggiunse lei, liquidando rapidamente la questione. «Un pensiero gentile» rispose lui piano. «Ma forse ti farebbe piacere venire con me ora.» Aveva parlato quasi prima di rendersi conto della sua decisione. Rimasero a lungo in silenzio, mentre camminavano, senza guardarsi, come se nulla fosse stato detto. «Forse lo farò» disse lei alla fine. «Se tu lo vuoi veramente.» «È proprio così.» Poi vide il suo sorriso... quel sorriso meraviglioso, abbagliante. Eretria si fermò e si voltò verso di lui. «È rassicurante vedere, Wil Ohmsford, che sei finalmente tornato in te stesso.» Gli prese una mano e gliela strinse forte. Ritornando a cavallo lungo la Carolan verso la città, tutto assorto nei progetti per ricostruire l'Elfitch, Ander Elessedil intravide il giovane della Valle e la nomade che ritornavano dai Giardini della Vita. Fermando il suo cavallo per un istante, osservò i due che non erano ancora tornati a casa, li vide fermarsi, poi vide la ragazza prendere la mano di Wil. Un lento sorriso gli increspò il volto mentre voltava il cavallo per allontanarsi. Dunque, ora anche Wil Ohmsford sarebbe tornato a casa. Ma non da solo.
FINE