ROGER ZELAZNY LE ARMI DI AVALON (The Guns Of Avalon, 1972) Questo libro è dedicato a Bob e Phyllis Rozman R.Z. 1 Mi ferm...
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ROGER ZELAZNY LE ARMI DI AVALON (The Guns Of Avalon, 1972) Questo libro è dedicato a Bob e Phyllis Rozman R.Z. 1 Mi fermai sulla spiaggia e dissi: «Addio, Farfalla,» e l'imbarcazione girò lentamente, e poi si diresse verso le acque profonde. Sarebbe ritornata in porto al faro di Cabra, lo sapevo, perché quel luogo era vicino all'Ombra. Mi voltai, e guardai la fila vicina di alberi neri; sapevo che mi attendeva una lunga camminata. Mi avviai in quella direzione, operando i necessari adattamenti, mentre avanzavo. Sulla foresta silenziosa si stendeva il freddo che precede l'alba: e questo era un bene. Ero una cinquantina di libbre al di sotto del mio peso forma, e qualche volta vedevo doppio, ma stavo migliorando. Ero fuggito dalle segrete di Ambra e mi ero un po' ripreso, grazie all'aiuto del pazzo Dworkin e dell'alcolizzato Jopin, rispettivamente. Ora dovevo trovarmi un luogo, un luogo simile a un altro... a un altro che non esisteva più. Trovai il sentiero. Mi avviai. Dopo qualche tempo, mi fermai davanti a un albero cavo di cui conoscevo l'esistenza, vi frugai, ne estrassi la mia spada argentea e me la legai alla cintura. Non aveva importanza che fosse stata chissà dove, in Ambra. Adesso era lì, perché la foresta che stavo attraversando era nell'Ombra. Proseguii per parecchie ore; il sole invisibile era dietro la mia spalla sinistra. Poi riposai per un poco, poi ripresi a camminare. Era bello vedere le foglie e le rocce e i tronchi degli alberi morti, e gli alberi vivi, l'erba, la terra scura. Era bello aspirare tutti i piccoli odori della vita, e udire i suoi suoni ronzanti e trillanti. Dio! Come amavo i miei occhi! Riaverli, dopo quasi quattro anni di tenebra, era indescrivibile. E camminare libero... Procedevo, con il mantello lacero che sventolava nella brezza del mattino. Dovevo dimostrare più di cinquant'anni, con il volto segnato dalle rughe, la figura scarna. Chi mi avrebbe riconosciuto? Mentre camminavo, entrai nell'Ombra, mi diressi verso un luogo, non raggiunsi quel luogo. Doveva essere così perché forse mi ero rammollito.
Ecco ciò che accadde... Mi imbattei in sette uomini sul bordo della strada, e sei erano morti; giacevano in vari stadi di sanguinoso smembramento. Il settimo era semigiacente, con il dorso appoggiato al tronco muscoso d'una antica quercia. Teneva la spada attraverso il grembo, e c'era una grande ferita umida al fianco destro, da cui scorreva ancora il sangue. Non portava armatura, sebbene alcuni dei morti l'avessero. Gli occhi grigi erano aperti, ma vitrei. Le nocche delle dita erano spellate, il respiro rallentato. Sotto le sopracciglia folte, guardava i corvi divorare gli occhi dei cadaveri. Sembrava che non mi vedesse. Mi rialzai il cappuccio e abbassai la testa per nascondere il viso. Mi avvicinai. Una volta l'avevo conosciuto: o lui, o qualcuno come lui. La sua lama sussultò, la punta si sollevò, quando avanzai. «Sono un amico,» dissi. «Vuoi un sorso d'acqua?» L'uomo esitò un momento, poi annuì. «Sì.» Aprii la mia borraccia e gliela porsi. Bevve e tossì, e bevve ancora un poco. «Signore, ti ringrazio,» disse, rendendomela. «Mi dispiace solo che non fosse qualcosa di più forte. Maledetta questa ferita!» «Ho anche qualcosa di più forte. Se sei certo di riuscire a reggerlo.» L'uomo tese la mano, ed io stappai una piccola fiasca e gliela porsi. Tossì per una ventina di secondi, dopo un sorso della roba che beve abitualmente Jopin. Poi sorrise con la metà sinistra della bocca e ammiccò, leggermente. «Molto meglio,» disse. «Ti dispiace se ne verso una goccia sul fianco? Detesto sprecare il buon whisky, ma...» «Usalo tutto, se è necessario. Tuttavia, pensandoci bene, mi sembra che ti tremi la mano. Forse è meglio che lo versi io.» Annuì; gli aprii il giaco di cuoio e con il pugnale gli tagliai la camicia, fino a scoprire la ferita. Era brutta, profonda, un paio di pollici sopra l'anca. Aveva altri tagli meno gravi sulle braccia, il petto e le spalle. Il sangue continuava a spicciare dalla ferita più grande; lo tamponai e lo ripulii con il fazzoletto. «Bene,» dissi. «Stringi i denti e guarda dall'altra parte.» E versai il liquore.
Il suo corpo sussultò in una convulsione violenta, poi si accasciò tra i brividi. Ma non gridò. Non avevo pensato che avrebbe gridato. Piegai il fazzoletto e lo premetti sulla ferita. Lo legai con una lunga striscia di stoffa strappata dall'orlo del mio mantello. «Vuoi un altro sorso?» gli chiesi. «D'acqua,» disse lui. «Poi, temo, dovrò dormire.» Bevve, e poi inclinò la testa in avanti fino ad appoggiare il mento sul petto. Si addormentò, ed io gli feci un guanciale e lo coprii servendomi dei mantelli dei morti. Poi sedetti al suo fianco e osservai i graziosi uccelli neri. Non mi aveva riconosciuto. Ma d'altra parte, chi avrebbe potuto? Se mi fossi rivelato, forse mi avrebbe riconosciuto. Non ci eravamo mai incontrati, credo, io ed il ferito. Ma, stranamente, ci conoscevamo. Camminavo nell'Ombra in cerca di un luogo, un luogo speciale. Era stato distrutto, una volta, ma io avevo il potere di ricrearlo, perché Ambra getta un'infinità di ombre. Un figlio d'Ambra può procedere tra esse: e quella era la mia eredità. Potete chiamarli mondi paralleli, se volete, oppure universi alternati, o se preferite prodotti d'una mente squilibrata. Io le chiamo ombre, come fanno tutti coloro che possiedono il potere di aggirarsi in esse. Scegliamo una possibilità e avanziamo fino a quando la raggiungiamo. Quindi, in un certo senso, la creiamo. Per il momento lasciamo stare. Io avevo navigato ed avevo incominciato la marcia verso Avalon. Secoli prima, ero vissuto là. È una vicenda lunga, complicata e fiera e dolorosa, e forse la racconterò più tardi, se vivrò abbastanza per terminare ciò che ho da dire. Mi stavo avvicinando alla mia Avalon quando mi ero imbattuto nel cavaliere ferito e nei sei morti. Se avessi deciso di passare oltre, avrei potuto giungere in un luogo dove i suoi uomini giacevano morti ed il cavaliere era illeso... oppure un luogo dove lui era morto ed i sei ridevano. Qualcuno potrebbe dire che non aveva molta importanza, poiché tutte queste cose sono possibilità, e perciò esistono tutte, da qualche parte, nell'Ombra. I miei fratelli e le mie sorelle — eccettuati forse Gérard e Benedict — non avrebbero neppure degnato la scena di una seconda occhiata. Ma io ero diventato un po' rammolito. Non ero stato sempre così; ma forse la Terra dell'Ombra, dove avevo trascorso tanti anni, mi aveva raddolcito un po', e forse il soggiorno nelle segrete d'Ambra mi aveva ricordato la sofferenza umana. Non so. So soltanto che non potevo passare oltre la sofferen-
za che vedevo nella forma di qualcuno tanto simile a qualcuno che un tempo era stato un amico. Se avessi pronunciato il mio nome all'orecchio di quell'uomo, forse mi sarei sentito insultare, e certamente avrei ascoltato una storia di dolori. Quindi, avrei pagato quel prezzo; lo avrei rimesso in piedi, e poi me ne sarei andato per i fatti miei. Non c'era nulla di male, e forse avrei fatto un po' di bene. Rimasi seduto a osservarlo e, dopo parecchie ore, si svegliò. «Salve,» dissi, stappando la borraccia. «Vuoi bere un altro sorso?» «Grazie.» L'uomo tese una mano. Lo guardai bere, e quando rese la borraccia disse: «Scusa se non mi sono presentato. Avevo dimenticato le buone maniere...» «Ti conosco,» dissi io. «Chiamami Corey.» Per un momento, mi parve che stesse per chiedere: «Corey di che cosa?» ma cambiò idea e annuì. «Benissimo, Sir Corey,» disse, dandomi un titolo inferiore a quello che mi spettava. «Desidero ringraziarti.» «Il miglior ringraziamento sta nel fatto che hai un aspetto migliore,» gli dissi. «Vuoi mangiare qualcosa?» «Sì, grazie.» «Ho un po' di carne secca, e un po' di pane che potrebbe essere più fresco,» dissi. «E un grosso pezzo di formaggio. Mangia quello che vuoi.» Gli passai il cibo, e lui mangiò. «E tu, Sir Corey?» chiese. «Ho già mangiato mentre tu dormivi.» Mi guardò con aria significativa. Sorrise. «... E li hai uccisi tutti e sei da solo?» domandai. Lui annuì. «Magnifico. E adesso, cosa devo fare con te?» Cercò di vedere il mio viso e non riuscì. «Non capisco,» disse. «Dove sei diretto?» «Ho amici cinque leghe più a nord,» disse lui. «Stavo andando in quella direzione quando è accaduto. E non credo che un uomo, o neppure il Diavolo stesso, ce la farebbe a portarmi sulla schiena per una lega. Se potessi reggermi in piedi, Sir Corey, ti faresti un'idea della mia statura.» Mi alzai, sguainai la spada, e tagliai un ramo del diametro di due pollici, con un colpo solo. Poi lo scortecciai e lo ridussi della lunghezza voluta.
Ripetei l'operazione e poi, con le cinture ed i mantelli dei caduti, improvvisai una barella. L'uomo restò a guardare fino a quando ebbi terminato, poi commentò: «Tu impugni una lama mortale, Sir Corey... una lama d'argento, si direbbe...» «Te la senti di viaggiare?» gli chiesi. Cinque leghe sono approssimativamente venticinque chilometri. «E i morti?» chiese lui. «Vorresti dar loro una sepoltura cristiana?» ribattei. «Al diavolo! Che provveda la natura. Andiamocene. Cominciano già a puzzare.» «Vorrei almeno vederli coperti di terra. Si erano battuti bene.» Sospirai. «E sta bene, se questo ti aiuterà a dormire tranquillo. Non ho un badile, quindi erigerò un tumulo. Comunque, sarà una tomba comune.» «Va bene,» disse lui. Adagiai i sei cadaveri fianco a fianco. Sentii che l'uomo mormorava qualcosa, e immaginai che fosse una preghiera per i defunti. Li circondai di pietre. C'erano molte pietre, nei dintorni, e perciò lavorai rapidamente, scegliendo le più grosse per sbrigarmi prima. E fu un errore. Uno di quei massi doveva pesare circa centosessanta chili, e io non lo feci rotolare. Lo sollevai e lo misi a posto. Lo udii soffocare un'esclamazione, e compresi che l'aveva notato. Allora imprecai: «Maledizione, per poco non mi sono spaccato la schiena!» dissi; e da quel momento scelsi pietre più piccole. Quando ebbi terminato, dissi: «Ecco fatto. Sei pronto a partire?» «Sì.» Lo sollevai tra le braccia e lo deposi sulla barella. Lui strinse i denti. «Dove dobbiamo andare?» domandai. L'uomo indicò con un gesto. «Ritorna sulla pista. Seguila, verso sinistra, fino alla biforcazione. Poi vai a destra. Come hai intenzione di...» Sollevai la barella tra le braccia, reggendolo come se fosse un bambino, con la culla e tutto. Poi tornai sul sentiero, trasportandolo. «Corey?» fece lui. «Sì?» «Sei uno degli uomini più forti che io abbia mai incontrato... e mi sembra che dovrei conoscerti.»
Non gli risposi immediatamente. Poi dissi: «Cerco di tenermi in forma. Vita sana e tutto il resto.» «... E la tua voce mi sembra familiare.» Teneva gli occhi rivolti verso l'alto, cercando di guardarmi in faccia. Decisi di cambiare argomento. «Chi sono i tuoi amici dai quali ti sto portando?» «Siamo diretti alla Fortezza di Ganelon.» «Quel fetente?» dissi, e per poco non lo lasciai cadere. «Sebbene non capisca la parola che hai usata, immagino sia un insulto,» disse lui, «a giudicare dal tono della tua voce. Se è così, devo difenderlo...» «Calmati,» dissi io. «Ho l'impressione che stiamo parlando di due uomini diversi che portano lo stesso nome. Ti chiedo scusa.» Attraverso la barella, sentii che una certa tensione lo abbandonava. «Senza dubbio è così,» disse. Perciò lo portai fino a quando arrivai al sentiero, e poi svoltai a sinistra. Lui si riaddormentò, e io procedetti più svelto, svoltando alla biforcazione che mi aveva indicato ed avanzando mentre dormiva. Cominciai a pensare ai sei che avevano cercato di ucciderlo e che per poco non c'erano riusciti. Mi augurai che non avessero compagni in giro per il bosco. Rallentai il passo quando il suo respiro cambiò. «Dormivo,» disse. «... E russavi,» aggiunsi io. «Per quanto mi hai portato?» «Per circa due leghe, direi.» «E non sei stanco?» «Un po',» dissi. «Ma non tanto da aver bisogno di riposo, per ora.» «Mon Dieu!» esclamò. «Sono lieto di non averti mai avuto come nemico. Sei certo di non essere il Diavolo?» «Sicuro, che lo sono,» dissi. «Non senti l'odore di zolfo? E il mio zoccolo destro mi fa male da morire.» Lui fiutò veramente l'aria un paio di volte, prima di ridacchiare, e questo mi offese un po'. In realtà, avevo percorso più di quattro leghe, secondo i miei calcoli. Speravo che si riaddormentasse e non pensasse troppo alle distanze. Cominciavo a sentirmi le braccia indolenzite. «Chi erano i sei uomini che hai ucciso?» gli chiesi. «Guardiani del Cerchio,» rispose lui. «E non erano più uomini, bensì
uomini posseduti. Prega Dio, Sir Corey, che le loro anime abbiano pace.» «Guardiani del Cerchio?» chiesi. «Che Cerchio?» «Il Cerchio tenebroso... il luogo dell'iniquità e delle bestie orrende...» Trasse un respiro profondo. «La fonte del male che si estende su questa terra.» «Questa terra non mi sembra particolarmente malsana,» ribattei. «Siamo lontani da quel luogo, e il regno di Ganelon è ancora troppo forte per gli invasori. Ma il Cerchio si espande. Sento che l'ultima battaglia verrà combattuta qui.» «Hai destato la mia curiosità.» «Sir Corey, se non sai nulla, sarebbe meglio che te ne dimenticassi, evitassi il Cerchio ed andassi per la tua strada. Anche se mi piacerebbe combattere al tuo fianco, questa non è la tua battaglia... e chi può predire il risultato?» Il sentiero cominciò a salire, tortuosamente. Poi, attraverso una breccia tra gli alberi, vidi qualcosa, in lontananza, che mi indusse a soffermarmi e mi fece ricordare un altro luogo molto simile. «Cosa...?» domandò il mio paziente, voltandosi. Poi: «Oh, ma hai camminato più svelto di quanto avessi immaginato. Quella è la nostra destinazione, la Fortezza di Ganelon.» Allora pensai ad un Ganelon. Non volevo, ma lo feci. Era stato un traditore e un assassino ed io l'avevo esiliato da Avalon secoli prima. L'avevo scagliato letteralmente attraverso l'Ombra, in un altro tempo e in un altro luogo, come più tardi aveva fatto con me mio fratello Eric. Speravo che non fosse quello, il luogo dove l'avevo mandato. Era possibile, anche se improbabile. Sebbene fosse un mortale, con una vita dalla durata limitata, e sebbene l'avessi esiliato in quel luogo circa seicento anni prima, era possibile che si trattasse solo di pochi anni, in questo mondo. Anche il tempo è una funzione dell'Ombra, e persino Dworkin non ne conosceva tutti i segreti. O forse li conosceva. Forse era questo che l'aveva fatto impazzire. La cosa più difficile per quanto riguarda il Tempo, l'ho scoperto, è crearlo. In ogni caso, sentivo che quello non poteva essere il mio vecchio nemico, il mio fido aiutante di un tempo, perché luì certamente non avrebbe resistito ad un'ondata d'iniquità che investiva il territorio. Si sarebbe precipitato a schierarsi a fianco delle bestie immonde, ne ero certo. L'uomo che stavo trasportando mi causava qualche difficoltà. Il suo equivalente era vissuto in Avalon al tempo della condanna all'esilio; e questo significava che l'intervallo di tempo poteva anche corrispondere.
Non ci tenevo ad incontrare il Ganelon che avevo conosciuto, non volevo che mi riconoscesse. Lui non sapeva nulla dell'Ombra. Sapeva solo che avevo operato su di lui una magia tenebrosa, invece di ucciderlo, e anche se era sopravvissuto all'alternativa, forse per lui era stata peggio della morte. Ma l'uomo che reggevo tra le braccia aveva bisogno di riposo e di un rifugio, perciò continuai a camminare. E tuttavia mi chiedevo... Sembra vi fosse in me qualcosa che si prestava al riconoscimento da parte di quest'uomo. Se c'era qualche ricordo di un'ombra di me, in quel luogo che non era ancora simile ad Avalon, quale forma assumeva? In che modo avrebbe condizionato l'accoglienza riservata al mio io reale, se fossi stato riconosciuto? Il sole incominciava a tramontare. Si levò una brezza fresca, che preannunciava una notte fredda. Il mio paziente aveva ripreso a russare, perciò decisi di correre per il resto della distanza. Non mi piaceva la sensazione che quella foresta, al calar della notte, potesse brulicare degli abitatori immondi di un Cerchio dannato di cui non sapevo nulla, ma che sembrava sul punto di travolgere quella parte del territorio. Perciò corsi, tra le ombre che si allungavano, scacciando ogni pensiero d'inseguimenti, d'imboscate, di sorveglianza, fino a che non potei più proseguire. Le sensazioni avevano acquisito la forza di premonizioni; e poi udii i rumori, dietro di me, un pat-pat-pat sommesso, come di passi. Deposi al suolo la barella, e sguainai la spada mentre mi giravo. Erano due: due felini. Avevano l'esatta pezzatura dei gatti siamesi, ma erano grandi come tigri. I loro occhi erano di un giallo solare, privi di pupille. Sedettero sulle zampe posteriori quando mi voltai, e mi fissarono senza sbattere le palpebre. Erano lontani una trentina di passi. Io stavo tra loro e la barella, con la spada alzata. Poi quello di sinistra aprì la bocca. Non sapevo se aspettarmi che facesse le fusa o che ruggisse. E invece parlò. Disse: «Uomo, quasi tutto mortale.» La voce non era umana. Era troppo acuta. «Eppure vive ancora,» disse il secondo, con una voce molto simile a quella del primo. «Uccidili qui,» disse il primo. «E colui che lo difende con la spada che non mi piace affatto?»
«Uomo mortale?» «Venite ad accertarlo,» dissi io, sottovoce. «È magro, e forse vecchio.» «Eppure ha trasportato l'altro dal tumulo fin qui, rapidamente e senza riposare. Aggiriamolo.» Balzai in avanti quando si mossero, e quello alla mia destra balzò verso di me. La mia lama gli spaccò il cranio ed affondò nella spalla. Mentre mi giravo, liberando la spada, l'altro mi passò oltre, velocissimo, dirigendosi verso la barella. Mulinai all'impazzata la spada. La lama gli piombò sul dorso e gli attraversò completamente il corpo. Lanciò un grido stridente come lo scricchiolio di un gesso sulla lavagna mentre cadeva, in due pezzi, e cominciava a bruciare. Anche l'altro stava bruciando. Ma quello che avevo tagliato in due non era ancora morto. Girò la testa verso di me, e gli occhi sfolgoranti fissarono i miei. «Muoio della morte finale,» disse, «e perciò ti riconosco, Creatore. Perché ci hai uccisi?» E poi le fiamme gli consumarono la testa. Mi voltai, pulii la spada e la rinfoderai, risollevai la barella, ignorai tutte le domande, e proseguii. Una piccola certezza aveva incominciato ad affermarsi dentro di me: cos'era quella cosa, che cosa aveva inteso dire. Ancora adesso, qualche volta, vedo in sogno quella testa di gatto in fiamme, e allora mi sveglio, sudato e tremante, e la notte mi sembra più buia, piena di forme che non riesco a definire. La Fortezza di Ganelon era cinta da un fossato; il ponte levatoio era alzato. C'erano quattro torri, agli angoli, dove s'incontravano le alte mura. All'interno di quelle mura, molte altre torri salivano ancora più in alto, solleticando il ventre delle nubi basse e scure che nascondevano le prime stelle, e gettavano ombre d'ebano sull'alta collina. Molte torri erano già illuminate, ed il vento mi portava un fioco suono di voci. Mi fermai davanti al ponte, deposi al suolo il mio paziente, mi feci portavoce con le mani alla bocca, e gridai: «Ehi! Ganelon! Ci sono due viandanti sperduti nella notte!» Udii il tintinnio del metallo sulla pietra. Sentivo di essere osservato dall'altro. Guardai, socchiudendo le palpebre, ma i miei occhi non erano anco-
ra ritornati normali. «Chi va là?» giunse una voce tonante. «Lance, che è ferito, ed io, Corey di Cabra, che l'ho portato qui.» Attesi, mentre l'uomo riferiva queste informazioni, e udii levarsi altre voci, via via che il messaggio veniva trasmesso. Dopo una pausa di parecchi minuti, arrivò la risposta, con lo stesso sistema. Poi la guardia mi gridò: «Allontanati un po'! Stiamo per calare il ponte! Potete entrare!» Lo scricchiolio incominciò mentre stava ancora parlando, e poco dopo il ponte levatoio toccò terra, rimbombando. Sollevai di nuovo tra le braccia il mio paziente e passai. Così portai Sir Lancelot du Lac nella Fortezza di Ganelon, di cui mi fidavo come di un fratello. Vale a dire, di cui non mi fidavo affatto. Vi fu un accorrere precipitoso intorno a me, e mi trovai circondato da uomini armati. Tuttavia, non erano ostili, ma solo preoccupati. Ero entrato in un grande cortile selciato, illuminato da torce e pieno di letti improvvisati. Sentivo l'odore del sudore, del fumo, dei cavalli, della cucina. Lì bivaccava un piccolo esercito. Molti si erano avvicinati, guardando e mormorando; poi sopraggiunsero due in pieno assetto da battaglia, ed uno di loro mi toccò la spalla. «Da questa parte,» disse. Lo seguii, e gli uomini mi fiancheggiarono. Il cerchio si aprì per lasciarci passare. Il ponte levatoio si stava già rialzando, tra gli scricchiolii. Ci dirigemmo verso il complesso principale di pietra scura. Percorremmo un corridoio, passando davanti ad una sala dei ricevimenti. Poi trovammo una scalinata. L'uomo alla mia destra mi accennò di salire. Al piano di sopra, ci fermammo davanti ad una pesante porta di legno: la guardia bussò. «Avanti,» disse una voce che, purtroppo, mi sembrava di conoscere benissimo. Entrammo. L'uomo sedeva accanto ad un massiccio tavolo ligneo accanto ad un'ampia finestra affacciata sul cortile. Portava un giaco di cuoio marrone su una camicia nera; anche i calzoni erano neri, a sbuffo sopra gli stivali scuri. Alla vita aveva un'alta cintura che reggeva un pugnale dall'elsa di corno. Una corta spada stava sul tavolo davanti a lui. Aveva i capelli e la barba di co-
lor rosso, con qualche filo bianco. Gli occhi erano scuri come l'ebano. Mi guardò, poi si rivolse alle due guardie che erano entrate portando la barella. «Mettetelo sul mio letto,» disse. Poi: «Roderick, occupati di lui.» Il suo medico, Roderick, era un vecchio che non aveva l'aria di poter fare molti danni, e questo mi diede un certo sollievo. Non avevo trasportato Lance per tutta quella distanza solo perché un medico lo salassasse. Poi Ganelon sì rivolse di nuovo a me. «Dove l'hai trovato?» chiese. «Cinque leghe più a sud.» «Tu chi sei?» «Mi chiamano Corey,» dissi. Mi scrutò troppo attentamente, e le labbra simili a vermi sì contorsero in un sorriso, sotto i baffi. «Che parte hai, in questa storia?» chiese. «Non capisco cosa vuoi dire,» risposi. Avevo piegato un po' le spalle. Parlavo lentamente, sommessamente, con una lieve balbuzie. La mia barba era più lunga della sua, e la polvere la faceva sembrare più chiara. Dovevo sembrare molto più vecchio. L'atteggiamento di Ganelon indicava che era convinto che lo fossi davvero. «Ti ho chiesto perché lo hai aiutato,» disse. «In nome della fratellanza umana, e tutto il resto,» risposi. «Sei un forestiero?» Annuii. «Bene, sei il benevenuto qui, per tutto il tempo che vorrai restare.» «Grazie. Probabilmente, domani proseguirò.» «Ora bevi un bicchiere di vino con me e raccontami in quali circostanze lo hai trovato.» Obbedii. Ganelon mi lasciò parlare senza interrompermi, e senza distogliere da me quei suoi occhi penetranti. Sebbene abbia sempre pensato che la frase «trapassare con lo sguardo» sia trita e banale, quella notte cambiai idea. Lui mi trafiggeva con gli occhi. Mi chiesi che cosa sapeva e cosa indovinava sul mio conto. Poi la stanchezza mi afferrò per la collottola. La fatica, il vino, il tepore della stanza, tutto congiurò, e all'improvviso ebbi la sensazione di starmene in un angolo ad ascoltare me stesso, a guardare me stesso: mi sentivo dissociato. Benché fossi capace di grandi sforzi, a brevi raffiche, mi rende-
vo conto di essere ancora scarso in fatto di energie. E mi accorsi che mi tremava la mano. «Chiedo scusa,» sentii la mia voce dire queste parole. «Le fatiche della giornata cominciano a pesarmi...» «Ma certo,» disse Ganelon. «Parlerò ancora con te domani. Ora dormi. Dormi bene.» Poi chiamò una delle guardie e le ordinò di condurmi in una stanza. Probabilmente barcollai, lungo il percorso, perché ricordo che la guardia mi sorreggeva per il gomito. Quella notte dormii il sonno dei morti. Fu un sonno lungo, nero, di quattordici ore. Al mattino, ero tutto indolenzito. Mi lavai. C'era un catino sul cassettone, e un sapone e un asciugamani che qualcuno, previdente, aveva posato lì vicino. Mi sentivo la gola ostruita da segatura e gli occhi pieni di sabbia. Sedetti e mi osservai. Un tempo avrei potuto trasportare Lance per la stessa distanza, senza andare a pezzi. Un tempo mi ero aperto la strada combattendo sulle pendici del Kolvir e nel cuore della stessa Ambra. Ma quei giorni erano passati. All'improvviso, sentii di essere effettivamente il relitto che sembravo. Dovevo fare qualcosa. Avevo riacquistato peso e forza, lentamente. Sarebbe stato necessario accelerare il processo. Un paio di settimane di vita tranquilla e di esercizi violenti poteva essere di grande aiuto, decisi. Ganelon non aveva mostrato di avermi riconosciuto. Benissimo. Avrei approfittato dell'ospitalità che mi aveva offerto. Dopo aver preso questa decisione, andai in cerca della cucina, e mangiai un'abbondante colazione. Per la verità era quasi ora di pranzo, ma chiamiamo le cose con il loro nome. Avevo una gran voglia di fumare, e provai una certa gioia perversa al pensiero di essere rimasto senza tabacco. I Fati cospiravano per costringermi ad essere fedele a me stesso. Uscii nel cortile; era una giornata luminosa. Restai a lungo ad osservare gli uomini che si addestravano. In fondo al cortile c'erano gli arcieri, che miravano a bersagli fissati a balle di fieno. Notai che portavano anelli al pollice e stringevano la corda all'orientale, con la mano intera, anziché con tre dita, secondo la tecnica che mi faceva sentire più a mio agio. Questo m'indusse a riflettere un po'
su quell'Ombra. Gli uomini armati di spada usavano le armi di punta e di taglio, e si vedevano vari tipi di lame e di tecniche di scherma. Cercai di fare un calcolo approssimativo, e stimai che fossero all'incirca ottocento... e non sapevo quanti altri potessero essere nella fortezza. La loro carnagione, gli occhi, i capelli, andavano dalle tinte più chiare a quelle più scure. Sentivo molti accenti strani, tra il sibilo delle frecce e il clangore delle spade, anche se quasi tutti parlavano la lingua di Avalon, che è poi quella di Ambra. Mentre guardavo, un uomo armato di spada alzò la mano, abbassò la lama, si terse la fronte ed arretrò. Il suo avversario sembrava sfiatato. Quella era l'occasione per fare un po' di esercizio: ne avevo bisogno. Mi feci avanti, sorrisi e dissi: «Sono Corey di Cabra. Ti stavo osservando.» Rivolsi l'attenzione all'uomo bruno, grande e grosso che sorrideva al compagno fermatosi per riposare. «Ti dispiace se mi esercito con te, mentre il tuo amico riprende fiato?» gli chiesi. L'uomo continuò a sorridere, e si indicò la bocca e l'orecchio. Provai con varie altre lingue, ma non servì a nulla. Perciò additai la lama, poi lui, poi di nuovo me stesso, fino a quando comprese. Il suo avversario parve pensare che fosse una buona idea, e mi offrì la sua spada. La presi tra le mani. Era più corta e molto più pesante di Grayswandir. (È il nome della mia spada: so di non averlo citato fino ad ora. Ha tutta una sua storia, e forse la racconterò, prima che voi sappiate ciò che mi ha portato a questo passo finale. Ma se doveste sentire che la nomino ancora, almeno saprete di cosa sto parlando). L'agitai un paio di volte per provarla, mi tolsi il mantello, lo gettai via, e mi misi en garde. L'uomo grande e grosso attaccò. Io parai ed attaccai. Lui parò e rispose. Io parai la risposta, fintai, e attaccai. E così via. Dopo cinque minuti, mi ero reso conto che sapeva il fatto suo. E sapevo di essergli superiore. L'uomo mi fece fermare due volte, perché gli insegnassi una manovra che avevo usato. Le imparò tutte e due, molto in fretta. Ma dopo una quindicina di minuti, il suo sorriso si allargò. Immagino che fosse più o meno a quel punto che piegava quasi tutti gli awersari, grazie alla maggiore resistenza, se erano abbastanza in gamba per sostenere i suoi attacchi fino a quel momento. Aveva molta energia, devo ammetterlo. Dopo venti minuti, un'espressione perplessa gli apparve sul volto. Il mio aspetto non doveva
averlo indotto a credere che potessi resistere così a lungo. Ma cosa può sapere un uomo di quello che sta in un figlio di Ambra? Dopo venticinque minuti, lui era coperto di sudore; ma continuò a battersi. Mio fratello Random, qualche volta, ha l'aspetto ed il comportamento di un teppista asmatico adolescente... ma una volta tirammo insieme di scherma per ventisei ore, per vedere chi avrebbe ceduto per primo. (Se siete curiosi, fui io a cedere. Avevo un appuntamento il giorno dopo, e volevo arrivarci in condizioni decenti.) Avremmo potuto continuare. Sebbene non fossi in grado di fare altrettanto, quella volta, sapevo che avrei potuto resistere più a lungo del mio avversario. Dopotutto, lui era soltanto umano. Dopo circa mezz'ora, quando lui ansimava e rallentava nel rispondere ai colpi, compresi che entro pochi minuti avrebbe potuto rendersi conto di qualcosa di strano; alzai la mano e abbassai la lama come avevo visto fare dal suo precedente avversario. Anche lui si fermò, poi si precipitò ad abbracciarmi. Non capii cosa diceva, ma dedussi che era soddisfatto. Lo ero anch'io. La cosa più orribile era che mi ero stancato. Mi sentivo un po' stordito. Ma avevo bisogno di continuare. Mi ripromisi di esercitarmi fino a crepare, quel giorno, e d'ingozzarmi di cibo, quella sera, per poi dormire profondamente e ricominciare daccapo. Raggiunsi gli arcieri. Dopo un po', mi feci prestare un arco e, tendendo la corda con tre dita, scagliai un centinaio di frecce. Non me la cavai troppo male. Poi, per un po', guardai gli uomini a cavallo che si esercitavano con le lance, gli scudi, le mazze. Quindi passai oltre. Andai ad assistere alle esercitazioni corpo a corpo. Finalmente, lottai con tre uomini, uno dopo l'altro. Poi mi sentii sfinito. Assolutamente. Completamente. Sedetti su una panchina all'ombra, sudando, respirando pesantemente. Pensai a Lance, a Ganelon, alla cena. Dopo una decina di minuti, tornai nella stanza che mi era stata assegnata e mi lavai di nuovo. Avevo una fame tremenda, perciò andai in cerca di cibo e d'informazioni. Non mi ero allontanato molto dalla porta, quando una delle guardie che avevo visto la sera prima — era quella che mi aveva accompagnato in camera mia — si avvicinò e disse: «Il Nobile Ganelon t'invita a mangiare con lui nel suo appartamento, allo squillo della campana della cena.» Ringraziai e promisi di presentarmi all'ora stabilita, poi tornai nella mia
stanza e riposai sul letto, fino a quando suonò la campana. Poi uscii di nuovo. Cominciavo a sentirmi tutto indolenzito ed ammaccato. Pensai che era meglio così; avrebbe contribuito a farmi sembrare più vecchio. Bussai alla porta di Ganelon e un giovane mi fece entrare, poi corse ad aiutare un altro ragazzo che stava apparecchiando la tavola accanto al camino. Ganelon indossava camicia e calzoni verdi, stivali e cintura pure verdi; stava seduto su uno scranno dall'alto schienale. Quando entrai si alzò e mi venne incontro. «Sir Corey, ho saputo ciò che hai fatto oggi,» disse, stringendomi la mano. «E questo rende più credibile il fatto che tu abbia trasportato Lance. Devo dire che sei più uomo di quanto sembri... senza offesa.» Ridacchiai. «Non sono offeso.» Mi offrì una sedia, mi porse un bicchiere di vino chiaro un po' troppo dolce per i miei gusti, poi disse: «A guardarti, direi che potrei rovesciarti a terra con una mano sola... eppure hai trasportato Lance per cinque leghe e lungo la strada hai ucciso due di quei gatti bastardi. E Lance mi ha detto del tumulo di grosse pietre che hai eretto...» «Come sta Lance, oggi?» l'interruppi. «Ho dovuto mettere una guardia in camera sua, per assicurarmi che riposasse. Quello sciocco voleva alzarsi e andare in giro. Per Dio, dovrà restare a letto per tutta la settimana!» «Allora si sente meglio.» Ganelon annuì. «Alla sua salute.» «Bevo ben volentieri.» Bevemmo. Poi: «Se avessi un esercito di uomini come te e Lance,» disse lui, «forse la storia andrebbe diversamente.» «Quale storia?» «Il Cerchio ed i suoi guardiani,» disse lui. «Non ne hai sentito parlare?» «Lance mi ha accennato qualcosa. Ecco tutto.» Un ragazzo badava ad un enorme pezzo di carne di bue infilato allo spiedo, su un fuoco basso. Di tanto in tanto l'innaffiava con un po' di vino, mentre lo faceva girare. Ogni volta che il profumo arrivava fino a me, il mio stomaco brontolava, e Ganelon rideva. L'altro ragazzo lasciò la stanza per andare a prendere il pane in cucina. Ganelon tacque a lungo. Finì il vino e se ne versò un altro calice. Io sta-
vo sorseggiando lentamente il mio. «Hai mai sentito parlare di Avalon?» chiese finalmente. «Sì,» risposi. «C'è una strofa, che ho udito molto tempo fa da un bardo itinerante: 'Oltre il Fiume dei Beati, là sedevano, sì, a piangere, ricordando Avalon. Le nostre spade s'infransero nelle nostre mani e appendemmo gli scudi alla quercia. Le torri argentee erano cadute in un mare di sangue? Quante miglia per giungere ad Avalon? Non una, io dico, e tutte. Le torri argentee sono cadute'.» «Avalon caduta...?» chiese lui. «Credo che quell'uomo fosse pazzo. Non conosco nessuna Avalon. Ma la strofa mi è rimasta impressa nella mente.» Genelon distolse il volto e tacque per parecchi minuti. Quando riprese a parlare, la sua voce era mutata. «C'era,» disse. «C'era, quel luogo. Vi vivevo io, anni fa. Non sapevo che fosse caduto.» «E come sei giunto qui?» gli chiesi. «Fui esiliato dal mago suo signore, Corwin di Ambra. Mi mandò attraverso la tenebra e la follia in questo luogo, perché vi soffrissi e morissi... e soffrii e molte volte giunsi vicino alla fine. Tentai di ritrovare la via del ritorno, ma nessuno la conosceva. Parlai con incantatori, e persino con una creatura del Cerchio che avevamo catturato, prima che la uccidessimo. Ma nessuno conosceva la strada per Avalon. È come ha detto il bardo: 'Neppure un miglio, e tutti,'» fece, citando in modo errato la mia lirica. «Ricordi il nome di quel bardo?» «Mi dispiace, ma non lo ricordo.» «Dov'è Cabra, il luogo da cui provieni?» «Lontano, a oriente, oltre le acque,» dissi io. «Molto lontano. È un regno isolano.» «C'è qualche speranza che possa fornirci truppe? Posso permettermi di pagare bene.» Scossi il capo. «È un piccolo regno con una piccola milizia, e occorrerebbero molti mesi di viaggio per andare e tornare... per terra e per mare. Non hanno mai combattuto come mercenari, e del resto non sono molto bellicosi.» «Allora tu sembri molto diverso dai tuoi compatrioti,» disse Ganelon, scrutandomi di nuovo. Sorseggiai il vino. «Ero istruttore d'armi,» dissi, «della Guardia Reale.»
«Allora forse sarai disposto ad accettare un ingaggio, per collaborare all'addestramento delle mie truppe?» «Potrei restare qualche settimana, per far questo,» dissi. Lui annuì, contraendo le labbra in un sorriso che durò un microsecondo, poi disse: «Mi rattrista sentire che la bella Avalon è caduta. Ma se è così, vuol dire che anche colui che mi ha esiliato è probabilmente morto.» Vuotò il calice. «Dunque anche per il demonio è venuto il momento in cui non ha più potuto difendere i suoi,» aggiunse, pensieroso. «È un pensiero incoraggiante. Ciò signifca che potremmo avere qualche possibilità, qui, contro questi demoni.» «Ti chiedo perdono,» dissi, arrischiandomi per quella che mi sembrava una buona ragione. «Se ti riferisci a Corwin di Ambra, non è morto, quando è accaduto ciò che è accaduto.» Il calice gli si spezzò nella mano. «Tu conosci Corwin?» «No, ma ne ho sentito parlare,» risposi. «Diversi anni or sono, incontrai uno dei suoi fratelli... si chiamava Brand. Mi parlò del luogo chiamato Ambra, e della battaglia in cui Corwin ed un altro suo fratello, di nome Bleys, guidarono un'orda contro il loro fratello, Eric, che teneva la città. Bleys precipitò dal monte Kolvir, e Corwin fu fatto "prigioniero. Dopo l'incoronazione di Eric, a Corwin vennero strappati gli occhi, e fu gettato in una segreta, sotto Ambra, dove forse si trova ancora, se non è morto.» Mentre parlavo, Ganelon era impallidito. «Tutti i nomi che hai menzionato... Brand, Bleys, Eric,» disse, «li ho sentiti pronunciare da lui, molto tempo fa. Quando hai saputo tutto questo?» «È stato circa quattro anni fa.» «Meritava una sorte migliore.» «Dopo quel che ha fatto a te?» «Ecco,» disse Ganelon, «ho avuto molto tempo per riflettere, e devo ammettere di avergli dato motivo di fare quel che fece. Era forte — più forte di te e persino di Lance — e intelligente. E sapeva essere gaio, quando se ne presentava l'occasione. Eric avrebbe dovuto ucciderlo subito, non così. Non provo affetto per lui, ma il mio odio si è placato. Il demone meritava di meglio, ecco tutto.» Il secondo ragazzo tornò con un canestro di pane. Quello che aveva preparato la carne la tolse dallo spiedo e la mise su un piatto, al centro della tavola.
Ganelon l'indicò. «Mangiamo,» disse. Si alzò e andò a tavola. Lo seguii. Non parlammo molto, durante il pasto. Dopo essermi rimpinzato fino a quando il mio stomaco non volle più saperne, e dopo aver bevuto un altro calice di vino troppo dolce, cominciai a sbadigliare. Ganelon imprecò, al terzo sbadiglio. «Dannazione, Corey! Smetti! È contagioso!» E soffocò a sua volta uno sbadiglio. «Andiamo a prendere un po' d'aria,» disse alzandosi. Passeggiammo lungo le mura, incontrando le sentinelle di ronda. Si mettevano sull'attenti e salutavano Ganelon appena lo riconoscevano, e lui gli rivolgeva qualche parola, poi passavamo oltre. Arrivammo a un bastione e ci fermammo a riposare, sedendoci sulla pietra ed aspirando a pieni polmoni l'aria della sera, fresca, umida e piena degli aromi della foresta, nel cielo che si oscurava. La pietra era fredda, sotto di me. In lontananza, mi sembrava di distinguere lo scintillio del mare. Udii il richiamo di un uccello notturno, sotto di noi. Ganelon tirò fuori una pipa ed un po' di tabacco dalla borsa che portava alla cintura. La riempì e l'accese. Il suo volto sarebbe sembrato satanico nella luce delle scintille, se non fosse stato per qualcosa che gli piegava la bocca verso il basso e sollevava i muscoli delle guance nell'angolo formato dagli angoli interni degli occhi e dalla radice del naso. Un diavolo deve avere un sogghigno malvagio, e Ganelon appariva troppo cupo. Fiutai il fumo. Dopo un po', lui cominciò a parlare, dapprima sottovoce, molto lentamente: «Ricordo Avalon,» disse. «Non ero di nascita ignobile, ma la virtù non era mai stata il mio forte. Sperperai presto la mia eredità e presi a tendere agguati ai viaggiatori. Più tardi, mi unii ad una banda di altri uomini come me. Quando scoprii che ero il più forte, il più idoneo a comandare, diventai il loro capo. C'erano taglie sulle nostre teste. La mia era la più alta.» Aveva preso a parlare più rapidamente; la voce si affinò, e le parole che sceglieva suonavano come un'eco del passato. «Sì, ricordo Avalon,» disse. «Un luogo d'argento e di ombre dolci e di acque fresche, dove le stelle brillavano di notte come falò ed il verde del giorno era sempre il verde della primavera. Gioventù, amore, bellezza... li ho conosciuti ad Avalon. Destrieri orgogliosi, metallo splendente, labbra morbide, birra scura. L'onore...»
Scosse il capo. «Più tardi,» disse, «quando nel regno incominciò la guerra, il sovrano offrì il condono totale a tutti i fuorilegge che fossero disposti a seguirlo in battaglia contro gli insorti. Era Corwin. Mi schierai dalla sua parte e andai in guerra. Diventai ufficiale e, più tardi, entrai a far parte del suo stato maggiore. Vincemmo le battaglie, domammo l'insurrezione. Poi Corwin riprese a regnare pacificamente, e io rimasi alla sua corte. Furono anni bellissimi. Poi, in seguito, vi furono certe scaramucce di confine, ma vincevamo sempre. Corwin si fidava di me, lasciava che sbrogliassi queste cose per lui. Poi concesse un ducato, per onorare la casata di un nobiluccio di cui voleva sposare la figlia. Io volevo quel ducato per me, e molte volte mi aveva lasciato capire che un giorno sarebbe stato mio. M'infuriai, e tradii, quando venni inviato a risolvere una disputa ai confini meridionali, dove c'erano sempre difficoltà. Molti dei miei uomini morirono, e gli invasori penetrarono nel regno. Prima che fosse possibile sconfiggerli, lo stesso Corwin dovette riprendere nuovamente le armi. Gli invasori erano affluiti in forze, e pensavo che avrebbero conquistato il regno. Lo speravo. Ma Corwin, ancora una volta, con le sue tattiche astute, ebbe la meglio. Fuggii, ma fui catturato e condotto in sua presenza. Lo maledissi e sputai contro di lui. Non volevo piegarmi. Odiavo la terra che calpestava, e un condannato non ha motivo di non comportarsi più fieramente che può, di finire da uomo. Corwin disse che avrebbe avuto pietà di me, in ricordo dei miei meriti di un tempo. Gli dissi cosa poteva farsene, della sua misericordia, e poi compresi che si stava burlando di me. Ordinò che mi lasciassero, e si avvicinò. Sapevo che poteva uccìdermi con le sue mani. «Cercai di lottare con lui, ma inutilmente. Mi colpì, una volta sola, e io caddi. Quando ripresi i sensi, ero legato sul dorso del suo cavallo. Lui era in sella, e rideva di me. Non rispondevo alle sue parole, ma passammo attraverso terre meravigliose ed a terre d'incubo, e così appresi i suoi poteri magici, perché non ho mai incontrato un viaggiatore che fosse passato attraverso i luoghi da me visti quel giorno. Poi mi annunciò che mi aveva esiliato, mi lasciò, girò il cavallo e se ne andò.» Ganelon s'interruppe per riaccendere la pipa che s'era spenta, sbuffò e proseguì: «In questo luogo ho subito percosse e morsi, ad opera di uomini e bestie, salvandomi a stento. Corwin mi aveva abbandonato nella parte peggiore del regno. Ma un giorno la mia fortuna cambiò. Un cavaliere in armatura mi ordinò di scostarmi dalla strada per lasciarlo passare. Ormai, non m'importava più di vivere o di morire; perciò gli dissi che era un figlio
di puttana vaioloso e gli intimai di andare al diavolo. Il cavaliere mi caricò; afferrai la lancia e spinsi la lancia nel terreno, disarcionandolo. Gli tagliai la gola con il suo pugnale, e così mi procurai armi e un cavallo. Poi cominciai a ripagare coloro che mi avevano trattato male. Tornai a fare il brigante, e mi trovai un'altra banda di seguaci. Diventammo sempre più numerosi. Quando fummo centinaia, le nostre esigenze divennero considerevoli. Entravamo in un villaggio e lo occupavamo. La milizia locale aveva paura di noi. Anche quella era una bella vita, anche se meno splendida della Avalon che non rivedrò più. Tutte le locande lungo le strade impararono a temere il rombo degli zoccoli dei nostri cavalli, e i viaggiatori se la facevano sotto quando ci sentivano arrivare. Ah! Durò parecchi anni. Schiere di armati vennero inviate sulle nostre tracce per annientarci, ma noi fuggivamo sempre, o tendevamo loro imboscate. Poi, un giorno, apparve il Cerchio tenebroso, e nessuno sa esattamente perché.» Soffiò più energicamente nella pipa, guardando lontano. «Mi hanno detto che cominciò come un piccolo cerchio di funghi velenosi, lontano, a occidente. Al centro, trovarono una bambina morta; e l'uomo che la trovò, suo padre, morì di convulsioni qualche giorno dopo. Subito corse voce che quel luogo era maledetto. Si ingrandì rapidamente nei mesi che seguirono, fino a raggiungere il diametro di mezza lega. L'erba diventava scura, all'interno, e luccicava come metallo, ma non moriva. Gli alberi si torcevano e le foglie annerivano. Ondeggiavano quando non c'era vento, e tra i rami danzavano e sfrecciavano i pipistrelli. Al crepuscolo, si scorgevano strane forme in movimento, sempre all'interno del Cerchio, bada, e per tutta la notte si vedevano luci, come minuscoli fuochi. Il Cerchio continuava a crescere, e tutti coloro che vivevano nelle vicinanze fuggirono... quasi tutti. Alcuni rimasero. Si disse che quanti erano rimasti avevano concluso un patto con gli esseri tenebrosi. E il Cerchio continuava ad allargarsi, diffondendosi come l'increspatura di un sasso gettato in uno stagno. La gente che restava, viva, all'interno, diventava sempre più numerosa. Ho parlato con costoro, li ho combattuti, li ho uccisi. È come se dentro tutti loro vi fosse qualcosa di morto. Le loro voci sono prive della vivacità degli uomini che addentano le parole e le assaporano. Raramente esprimono qualcosa, con i loro volti: sembrano maschere funebri. Cominciarono a lasciare il Cerchio in bande, compiendo scorrerìe. Uccidevano indiscriminatamente. Commettevano molte atrocità e profanavano i luoghi di culto. Quando se ne andavano, incendiavano tutto. Non rubavano mai oggetti d'argento. Poi, dopo molti mesi, cominciarono ad uscire altre crea-
ture, diverse dagli uomini... essere strani, come i gatti infernali uccisi da te. Allora la crescita del Cerchio rallentò, e quasi si arrestò, come se si avvicinasse ad una sorta di limite. Ma ormai ne uscivano scorridori di ogni genere — alcuni persino di giorno — e devastavano la campagna circostante. Quando ebbero messo a ferro e a fuoco tutto il territorio intorno all'intera circonferenza, il Cerchio si mosse per inglobare anche quelle aree. E in questo modo ricominciò a crescere. Il vecchio re Uther, che per molto tempo mi aveva dato la caccia, si dimenticò di me e inviò tutte le sue forze a pattugliare il maledetto Cerchio. Anch'io cominciavo a preoccuparmi, perché non mi andava l'idea di venir afferrato nel sonno da un succhiatore di sangue generato dall'inferno. Perciò radunai cinquantacinque dei miei uomini — tutti coloro che si offrirono volontari, perché non volevo i vigliacchi — e un pomeriggio andammo li. Trovammo un branco di quegli uomini dalla faccia morta che bruciavano un capro vivo su un altare di pietra. Piombammo loro addosso; prendemmo un prigioniero, lo legammo al suo altare e l'interrogammo. Ci disse che il Cerchio sarebbe cresciuto fino a coprire l'intero territorio, da un oceano all'altro. Un giorno si sarebbe saldato con se stesso, dall'altra parte del mondo. Noi avremmo fatto bene ad unirci a loro, se volevamo salvare la pelle. Allora uno dei miei uomini lo pugnalò, e quello morì. Morì veramente, perché so riconoscere un morto, quando lo vedo: ne ho uccisi abbastanza, in vita mia. Ma mentre il suo sangue cadeva sulla pietra, la sua bocca sì aprì e lasciò uscire la risata più sonora che avessi mai udito. Era come un tuono, intorno a noi. Poi l'uomo si sollevò a sedere, senza respirare, e cominciò a bruciare. Mentre bruciava, cambiava forma, fino a quando divenne simile al capro arso sull'altare... ma più grande. Poi una voce gli uscì dalla bocca, e disse: 'Fuggì, uomo mortale! Ma non lascerai mai questo Cerchio!' E credimi... fuggimmo! Il cielo si riempì di pipistrelli ed altre... cose, fino a diventare nero. Udimmo uno scalpitio di zoccoli. Cavalcavamo con le spade in pugno, uccidendo tutti gli esseri che si avvicinavano. C'erano gatti come quelli che tu hai ucciso, e serpenti, ed esseri che spiccavano balzi, e Dio sa che altro. Mentre ci accostavamo all'orlo del Cerchio, una delle pattuglie di re Uther ci vide e venne in nostro aiuto. Dei cinquantacinque che erano venuti con me, ne tornarono sedici. E la pattuglia perse una trentina d'uomini. Quando mi riconobbero, mi trascinarono a corte. Qui. Allora era il palazzo di Uther. Gli riferii ciò che avevo fatto, ciò che avevo visto ed udito. Si comportò con me come aveva fatto Corwin. Mi offrì il condono totale, per me e per i miei uomini, se l'avessimo aiutato contro i Guardiani del Cerchio. Dopo
quello che avevo passato, mi resi conto che era necessario farla finita. Accettai. Poi mi ammalai; mi dissero che avevo delirato per tre giorni. Dopo la guarigione ero debole come un bambino, e venni a sapere che erano stati colpiti dallo stesso male tutti coloro che erano entrati nel Cerchio. Tre erano morti. Andai a far visita agli altri miei uomini, raccontai tutto, e quelli si arruolarono. Le pattuglie intorno al Cerchio furono rafforzate. Ma era impossibile frenarlo. Negli anni che seguirono, il Cerchio crebbe. Combattemmo molte scaramucce. Io venni promosso, fino a quando diventai il braccio destro di Uther, come un tempo lo ero stato di Corwin. Poi le scaramucce diventarono qualcosa di più. Da quella tana d'inferno uscirono schiere sempre più numerose. Perdemmo alcune battaglie. Gli avversarii presero alcuni dei nostri avamposti. Poi, una notte, uscì un esercito, un esercito... un'orda di uomini e di altri esseri. Quella notte ci scontrammo con le schiere più numerose che avessimo mai visto. Lo stesso re Uther partecipò alla battaglia, nonostante il mio consiglio — perché era d'età avanzata — e cadde, e la terra restò senza sovrano. Avrei voluto che il mio capitano, Lancelot, diventasse reggente, poiché sapevo che era un uomo molto più degno di me... Ed è strano. Avevo conosciuto un Lancelot identico a lui, ad Avalon... ma quest'uomo non mi aveva riconosciuto, la prima volta che ci eravamo incontrati. È strano, davvero... Comunque rifiutò, e l'incarico fu assegnato a me. Non mi piace, ma eccomi qui. Li ho tenuti in scacco per tre anni, ormai. L'istinto mi suggerisce di fuggire. Cosa devo a questa gente? Che m'importa se il maledetto Cerchio si allarga? Potrei attraversare il mare e trovare una terra che il Cerchio non potrà raggiungere durante la mia vita; e allora potrei dimenticarmi dell'intera faccenda. Maledizione! Non volevo questa responsabilità! Ma adesso è toccata a me!» «Perché?» gli chiesi; e la mia voce suonava strana alle mie stesse orecchie. Vi fu un silenzio. Ganelon vuotò la pipa. Tornò a riempirla. La riaccese. Sbuffò una nube di fumo. Ancora silenzio. Poi: «Non so,» disse lui. «Pugnalerei un uomo alla schiena per un paio di sarpe, se lui le avesse ed io ne avessi bisogno per non congelarmi. Una volta lo feci, ecco perché lo so. Ma... questo è diverso. Questo fa del male a tutti, ed io sono l'unico che possa cercare di fermarlo. Dannazione! So che un giorno mi seppelliranno qui, insieme a tutti gli altri. Ma non posso tirarmene fuori. Devo tenere a bada il Cerchio finché potrò!»
La fredda aria della notte mi aveva schiarito le idee; ebbi la sensazione di ritrovare una nuova energia, sebbene mi sentissi vagamente intorpidito. «Non potrebbe guidarli Lance?» chiesi. «Io direi di sì. È un valoroso. Ma c'è un'altra ragione. Credo che il Capro, qualunque cosa fosse, abbia un po' paura di me. Ero entrato nel Cerchio, e il Capro mi aveva detto che non ce l'avrei mai fatta ad uscire, e invece ce l'ho fatta. Sono sopravvissuto all'infermità che poi mi ha colpito. Il Capro sa di combattere sempre contro di me. Vincemmo quel tremendo scontro sanguinoso, la notte in cui morì Uther, ed io incontrai di nuovo quell'essere, in un'altra forma, e mi riconobbe. Forse è anche per questo che ora resta a distanza.» «Quale forma?» «Una cosa dall'aspetto umano, ma con corna di capro ed occhi rossi. Montava uno stallone pezzato. Combattemmo piuttosto a lungo, ma poi la marea della battaglia ci separò. E fu un bene, perché lui stava vincendo. Parlò di nuovo, mentre facevamo mulinare le spade, e mi disse che non potevo sperare di vincere. Ma quando venne il mattino, avevamo vinto: li ricacciammo nel Cerchio, uccidendoli mentre fuggivano. Il cavaliere dallo stallone pezzato si salvò. Da allora vi sono state altre sortite, ma nessuna come quella notte. Se dovessi lasciare questa terra, un altro esercito altrettanto forte — che già si sta preparando — uscirebbe dal Cerchio. L'essere verrebbe a sapere della mia partenza... come sapeva che Lance mi stava portando un altro rapporto sulla disposizione delle truppe entro il Cerchio; per questo ha inviato i Guardiani ad ucciderlo, al suo ritorno. Ormai sa anche di te, e sicuramente si stupisce di questo nuovo sviluppo. Deve chiedersi chi sei, data la tua forza. Io resterò qui, a combatterlo fino a quando cadrò. Lo devo. Non domandarmi perché. Spero soltanto che, prima di quel giorno, io possa scoprire almeno come questo è avvenuto... perché esiste il Cerchio.» Poi vi fu un batter d'ali vicino alla mia testa. Mi affrettai a chinarmi, per schivarlo. Ma non era necessario. Era solo un uccello. Un uccello bianco. Mi si posò sulla spalla sinistra e restò lì, tubando sommessamente. Alzai il polso, e l'uccello vi balzò sopra. C'era un biglietto, legato alla zampa. Lo staccai, lo lessi, lo appallottolai nella mano. Poi studiai qualcosa d'invisibile, in lontananza. «Che succede, Sir Corey?» esclamò Ganelon. Il biglietto, che avevo mandato a precedermi a destinazione, scritto di mia mano, trasmesso da un uccello del mio desiderio, poteva raggiungere
soltanto il luogo che doveva essere la mia prossima tappa. E quello non era esattamente il posto che avevo in mente. Tuttavia, sapevo leggere i presagi. «Che cos'è?» chiese Ganelon. «Che cos'hai in mano? Un messaggio?» Annuii e glielo porsi. Non avrei potuto gettarlo via, poiché mi aveva visto prenderlo. C'era scritto: «Sto arrivando,» e portava la mia firma. Ganelon soffiò nella pipa, e lesse, nel bagliore della brace. «Lui? È vivo? e verrebbe qui?» disse. «Così pare.» «È molto strano,» disse lui. «Non capisco...» «Sembra una promessa d'aiuto,» dissi, congedando l'uccello che tubò due volte, e poi mi volteggiò intorno alla testa e si allontanò. Ganelon scosse il capo. «Non capisco.» «Perché contare i denti di un cavallo che puoi avere per nulla? Finora sei riuscito soltanto a fermare il Cerchio.» «È vero,» disse Ganelon. «Forse lui potrebbe annientarlo.» «E forse è soltanto uno scherzo,» gli dissi. «Uno scherzo crudele.» Scosse di nuovo il capo. «No. Non è nel suo stile. Chissà che cosa cerca.» «Dormici sopra,» gli suggerii. «Non posso fare altro, per ora,» disse Ganelon, soffocando uno sbadiglio. Poi ci alzammo e ci avviammo lungo il muro. Ci scambiammo la buonanotte, e io mi diressi barcollando verso l'abisso del sonno, e vi piombai a capofitto. 2 Giorno. Altri dolori. Altre sofferenze. Qualcuno mi aveva lasciato un mantello nuovo, marrone, e pensai che era meglio così. Soprattutto se avessi riacquistato peso e se Ganelon si fosse ricordato dei miei colori. Non mi tagliai la barba, perché lui mi aveva conosciuto con il volto glabro. Avevo cura di cambiare voce, quando c'era lui. Nascosi Grayswandir sotto il letto. Durante la settimana che segui mi esercitai, implacabilmente. Lavorai e sudai e m'impegnai fino a quando i dolori si calmarono ed i miei muscoli
divennero di nuovo ben saldi. Quella settimana, credo, riacquistai quindici libbre. Poco a poco cominciavo a sentirmi di nuovo me stesso. Quella terra si chiamava Lorraine, e così si chiamava anche lei. Se fossi dell'umore adatto per comporre poesie, direi che c'incontrammo in un prato dietro il castello, mentre lei coglieva fiori ed io passeggiavo per prendere un po' d'aria. Fesserie. Penso che un termine eufemistico sarebbe «vivandiera». L'incontrai al termine d'una dura giornata di lavoro con la sciabola e la mazza. Lei stava un po' in disparte, in attesa del suo accompagnatore, quando la vidi per la prima volta. Sorrise e io ricambiai il sorriso, le rivolsi un cenno con il capo, le strizzai l'occhio e passai oltre. Il giorno dopo la rividi, e le dissi «Salve», mentre le passavo accanto. Ecco tutto. Be', continuavo ad imbattermi in lei. Alla fine della seconda settimana, quando i miei dolori erano scomparsi e pesavo ormai più di centottanta libbre e mi sentivo di nuovo a posto, combinai per trovarmi con lei, una sera. Ormai sapevo cosa faceva, e per quel che mi riguardava, andava benissimo. Ma quella notte non facemmo le solite cose. No. Parlammo, invece, e poi accadde qualcosa d'altro. Aveva i capelli color ruggine, con qualche filo grigio. Ma immaginavo che non avesse ancora trent'anni. Gli occhi, molto azzurri. Il mento leggermente appuntito. Denti candidi, regolari, in una bocca che mi sorrideva. La voce era un po' nasale, i capelli troppo lunghi, il trucco troppo pesante per nascondere la stanchezza, la carnagione troppo lentigginosa, gli abiti troppo chiassosi e aderenti. Ma mi era simpatica. Non credo che pensassi veramente così quando le chiesi di venire con me quella notte perché, come ho detto, non era a trovarla simpatica che stavo pensando. Non potevamo andare in nessun altro posto che in camera mia, e perciò ci andammo. Ero diventato capitano, e approfittai del mio grado per farmi servire in camera la cena per due, e una bottiglia di vino in più. «Gli uomini hanno paura di te,» mi disse lei. «Sostengono che non ti stanchi mai.» «Mi stanco,» dissi io. «Credimi.» «Certo,» disse, scuotendo i capelli troppo lunghi e sorridendo. «Non ci stanchiamo forse tutti?» «Direi,» risposi. «Quanti anni hai?» «Quanti anni hai tu?» «Un gentiluomo non farebbe una domanda simile.»
«E una signora?» «Quando sei arrivato qui, credevamo che avessi più di cinquant'anni.» «E adesso?» «E adesso non ne hanno un'idea. Quarantacinque? Quaranta?» «No,» dissi io. «Non lo credevo. Ma la tua barba ha ingannato tutti.» «Succede spesso.» «Migliori d'aspetto ogni giorno.» «Grazie. Mi sento meglio di quando sono arrivato.» «Sir Corey di Cabra,» disse lei. «Dov'è Cabra? Cos'è Cabra? Mi ci porterai, se te lo chiedo con garbo?» «Potrei promettertelo,» dissi. «Ma mentirei.» «Lo so. Ma sarebbe bello sentirmelo dire.» «E va bene. Ti condurrò là con me. È un posto schifoso.» «Sei davvero formidabile come dicono gli uomini?» «Temo di no. E tu?» «Non proprio. Vuoi andare a letto, adesso?» «No. Preferirei parlare. Prendi un bicchier di vino.» «Grazie... Alla tua salute.» «Alla tua.» «Perché sei uno schermitore così abile?» «Attitudine e buoni insegnanti.» «... E hai trasportato Lance per cinque leghe e hai ucciso quelle bestie...» «Certe storie si gonfiano passando di bocca in bocca.» «Ma ti ho osservato. Tu sei meglio degli altri. È per questo che Ganelon ti ha fatto le offerte che ti ha fatto. So riconoscere i pregi. Ho avuto molti amici schermitori, e li ho visti esercitarsi. Tu potresti farli a pezzi. Gli uomini dicono che sei un buon istruttore. Ti sono affezionati, anche se li spaventi.» «Perché li spavento? Perché sono forte? Vi sono molti uomini forti, al mondo. Perché posso tirare di spada a lungo?» «Loro pensano che ci sia in te qualcosa di sovrannaturale.» Io risi. «No. Sono soltanto il secondo schermitore. Scusami... forse il terzo. Ma m'impegno.» «Chi è meglio di te?» «Eric di Ambra, probabilmente.» «Chi è?»
«Un essere sovrannaturale.» «È il migliore?» «No.» «E chi lo è?» «Benedict di Ambra.» «Anche lui è sovrannaturale?» «Se è ancora vivo, sì.» «È strano,» disse lei. «E perché? Dimmi. Tu sei un essere sovrannaturale?» «Beviamo un altro bicchier di vino.» «Mi andrà alla testa.» «Bene.» Versai. «Tutti dobbiamo morire,» disse lei. «Alla fine, sì.» «Voglio dire qui, presto, combattendo questo Cerchio.» «Perché dici così?» «È troppo forte.» «E allora perché rimani?» «Non saprei dove andare. Per questo ti ho chiesto di Cabra.» «E per questo sei venuta qui stanotte?» «No. Sono venuta per scoprire come sei.» «Sono un atleta che ha interrotto l'allenamento. Sei nata da queste parti?» «Sì, nei boschi.» «Perché ti sei messa con costoro?» «Perché no? È meglio che sporcarmi tutti i giorni i piedi con lo sterco dei maiali.» «Non hai mai avuto un uomo... fisso, voglio dire?» «Sì. È morto. Era quello che trovò... il Cerchio Incantato.» «Mi dispiace.» «A me no. Si ubriacava sempre, tutte le volte che poteva rubare o farsi prestare qualcosa, e poi tornava a casa e mi picchiava. Sono stata contenta d'incontrare Ganelon.» «Dunque pensi che il Cerchio è troppo forte, che finiremo per soccombere?» «Sì.» «Forse hai ragione. Ma credo che ti sbagli.»
Lei scrollò le spalle. «Combatterai con noi?» «Temo di sì.» «Nessuno lo sapeva con certezza, o voleva dirlo se lo sapeva. Potrebbe essere interessante. Mi piacerebbe vederti combattere con l'uomo-capro.» «Perché?» «Perché sembra che sia il loro capo. Se lo uccidessi, avremmo qualche possibilità. Tu potresti riuscirci.» «Devo riuscirci,» dissi. «C'è una ragione speciale?» «Sì.» «Personale?» «Sì.» «Buona fortuna.» «Grazie.» Lei finì il vino, e gliene versai ancora. «So che lui è un essere sovrannaturale,» disse. «Cambiamo argomento.» «Va bene. Ma mi farai un favore?» «Sentiamo.» «Domani metti l'armatura, prendi una lancia, sali su un cavallo, e disarciona quel grosso ufficiale di cavalleria, Harald.» «Perché?» «La settimana scorsa mi ha picchiata, proprio come faceva Jarl. Puoi farlo?» «Sì.» «Lo farai?» «Perché no? Consideralo disarcionato.» Lei si avvicinò e si appoggiò a me. «Ti amo,» disse. «Fesserie.» «Sta bene. Ti va: 'Mi piaci'?» «Così va meglio. Io...» Poi un vento gelido mi soffiò lungo la spina dorsale. Mi irrigidii e resistetti a ciò che era venuto per annebbiare la mia mente. Qualcuno mi stava cercando. Era qualcuno della Casa d'Ambra, senza dubbio, e stava usando il mio Trionfo o qualcosa di molto simile. La sensazione era inconfondibile. Se era Eric, allora aveva più fegato di quanto
fossi disposto ad attribuirgli, perché gli avevo quasi disintegrato il cervello, l'ultima volta che eravamo stati in contatto. Non poteva essere Random, a meno che fosse stato liberato dal carcere, e ne dubitavo. Se erano Julian o Caine, potevano andare all'inferno. Bleys, probabilmente, era morto. E forse era morto anche Benedict. Quindi restavano Gérard, Brand, e le nostre sorelle. Solo Gérard poteva avere buone intenzioni nei miei confronti. Perciò resistetti, per non farmi scoprire. Impiegai circa cinque minuti, e quando fini, tremavo e sudavo; e Lorraine mi guardava in modo strano. «Cos'è successo?» mi chiese. «Non sei ancora ubriaco, e neppure io lo sono.» «È solo un attacco che mi prende qualche volta,» dissi. «È una malattia che ho preso sulle isole.» «Ho visto un volto,» disse lei. «Forse era sul pavimento, forse nella mia mente. Era un vecchio. Il colletto del suo abito era verde, e ti somigliava moltissimo, ma aveva la barba grigia.» Allora la schiaffeggiai. «Tu menti! Non puoi aver...» «Ti sto solo dicendo ciò che ho visto! Non picchiarmi! Non so cosa significasse! Chi era?» «Credo fosse mio padre. Dio, è strano...» «Cos'è successo?» ripeté lei. «Una crisi,» dissi io. «Mi capita, qualche volta, e la gente crede di vedere mio padre sulle pareti o sul pavimento. Non preoccuparti. Non è contagioso.» «Fesserie,» disse lei. «Sei tu che menti a me.» «Lo so. Ma per favore, dimentica tutto quanto.» «Perché?» «Perché ti piaccio,» le dissi. «Ricordi? E perché domani disarcionerò Harald per te.» «Questo è vero,» disse lei, e io ricominciai a tremare; Lorraine prese una coperta dal letto e me la mise sulle spalle. Mi porse il vino, e io bevvi. Sedette accanto a me e mi appoggiò la testa sulla spalla, e io la cinsi con un braccio. Un vento diabolico cominciò ad urlare, ed io udii il crepitio rapido della pioggia che portava con sé. Per un secondo, parve che qualcosa bussasse alle imposte. Lorraine piagnucolò sottovoce. «Non mi piace quello che sta succedendo stanotte,» disse. «Neppure a me. Vai a sbarrare la porta. Adesso è solo chiusa con il cate-
naccio.» Mentre lei andava a chiudere, spostai il sedile, mettendolo davanti all'unica finestra. Presi Grayswandir che stava sotto il letto e la sguainai. Poi spensi tutte le luci, lasciando solo una candela sul tavolo alla mia destra. Tornai a sedermi, con la spada sulle ginocchia. «Cosa stai facendo?» chiese Lorraine, sedendosi alla mia sinistra. «Aspetto,» le dissi. «Che cosa?» «Non ne sono sicuro; ma questa è certamente la notte adatta.» Lei rabbrividì e si fece più vicina. «Sai,» le dissi, «forse faresti meglio ad andartene.» «Lo so,» rispose lei. «Ma ho paura di uscire. Tu potrai proteggermi se resto qui, no?» Scossi il capo. «Non so neppure se riuscirò a difendere me stesso.» Lorraine toccò Grayswandir. «Che bella lama! Non ne ho mai vista una eguale.» «Non ce n'è un'altra così,» dissi; e ogni volta che mi spostavo un poco, la luce vi cadeva in modo diverso; per un attimo sembrava velata di sangue inumano, arancione, e poi dopo un istante era fredda e bianca come la neve o come il seno di una donna, e fremeva nella mia mano ogni volta che un brivido mi scuoteva. Mi chiesi come mai Lorraine aveva veduto qualcosa che io non avevo visto, durante il tentativo di contatto. Non poteva avere semplicemente immaginato una cosa tanto precisa. «C'è qualcosa di strano, in te,» dissi. Lei tacque per quattro o cinque guizzi della candela, poi disse: «Ho un po' la seconda vista. Mia madre l'aveva più di me. Dicono che mia nonna fosse una incantatrice. Non ne so molto, comunque. Non lo faccio più da anni. Finisco sempre per perdere più di quel che guadagno.» Poi tacque di nuovo e io le chiesi: «Cosa intendi dire?» «Avevo usato un incantesimo, per catturare il mio primo uomo,» rispose. «E guarda il risultato. Se non l'avessi fatto, sarebbe stato meglio per me. Volevo una bella bambina, e ho fatto in modo di averla...» S'interruppe di colpo; mi accorsi che piangeva. «Cosa succede? Non capisco...» «Credevo lo sapessi,» disse lei. «No, temo di no.»
«Era la bambina nel Cerchio Incantato. Credevo che lo sapessi...» «Mi dispiace.» «Vorrei non aver mai avuto il tocco. Non lo uso più. Ma non mi abbandona. Mi porta ancora sogni e presagi, ma non riguardano mai qualcosa che io posso cambiare. Vorrei che andasse a tormentare qualcun altro!» «È proprio quel che non farà, Lorraine. Purtroppo, credo che ti resterà addosso.» «Come lo sai?» «Ho conosciuto altra gente come te in passato, ecco tutto.» «Anche tu lo possiedi, vero?» «Sì.» «Allora senti che adesso c'è qualcosa là fuori, no?» «Sì.» «Anch'io. Sai cosa sta facendo?» «Sta cercando me.» «Sì. Questo lo sento anch'io. Perché?» «Forse per accertare la mia forza. Sa che sono qui. Se sono un nuovo alleato di Ganelon, deve chiedersi cosa rappresento, chi sono...» «È l'essere con le corna?» «Non so. Ma non credo.» «Perché no?» «Se sono veramente colui che può annientarlo, sarebbe sciocco a cercarmi qui, nella fortezza del suo nemico, quando sono circondato dalla forza. Direi che è uno dei suoi servitori a cercarmi. Forse, chissà come, è lo spettro di mio padre... Non so. Se il suo servitore mi trova e mi nomina, saprà quali preparativi dovrà compiere. Se mi trova e mi annienta, avrà risolto il problema. Se io anniento il servitore, ne saprà di più sulla mia forza. Comunque vadano le cose, il Capro acquisirà un vantaggio. Quindi, perché dovrebbe rischiare la testaccia cornuta in questa fase del gioco?» Attendemmo, nella stanza avvolta d'ombra, mentre la candela consumava i minuti. Lorraine mi chiese: «Cosa intendevi quando hai detto che se ti trova e ti nomina...? Come ti dovrebbe nominare?» «Quello che è quasi arrivato qui,» dissi. «Credi che potrebbe riconoscerti, in qualche modo, da qualche altro luogo?» chiese lei. «Credo di sì.» Lei si staccò da me.
«Non aver paura,» le dissi. «Non ti farò del male.» «Ho paura, e tu mi farai del male!» disse lei. «Lo so! Ma ti voglio! Perché ti voglio?» «Non so,» dissi io. «C'è qualcosa là fuori, adesso!» disse Lorraine, in tono quasi isterico. «È vicino! Vicinissimo! Ascolta! Ascolta!» «Taci!» esclamai, mentre un formicolio gelido mi colpiva la nuca e si avvolgeva intorno alla mia gola. «Vai dall'altra parte della stanza, dietro il letto!» «Ho paura del buio,» disse Lorraine. «Obbedisci, o dovrò metterti fuori uso e portarti di peso. Qui mi dai fastidio.» Sentivo un pesante sbatter d'ali, più forte del temporale, e vi fu uno stridore sulla pietra del muro, mentre lei si muoveva per obbedirmi. Poi mi trovai davanti a due rossi occhi ardenti, fissi nei miei. Abbassai fulmineamente lo sguardo. L'essere stava sul cornicione, oltre la finestra, e mi guardava. Era alto più di sei piedi, ed enormi corna ramose gli spuntavano dalla fronte. Era nudo, e la sua pelle era di un grigio-cenere uniforme. Sembrava asessuato, ed aveva ali grige, coriacee, che si estendevano all'indietro, fondendosi con la notte. Nella destra stringeva una spada corta e pesante di metallo scuro, e sulla lama erano incise rune. Con la mano sinistra si teneva stretto alla grata. «Entra, a tuo rischio e pericolo,» dissi a voce alta, ed alzai la punta di Grayswandir per indicare il suo petto. Ridacchiò. Rimase lì e ridacchiò, guardandomi. Cercò di nuovo i miei occhi, ma non glielo permisi. Se mi avesse guardato negli occhi troppo a lungo, mi avrebbe riconosciuto, come mi aveva riconosciuto il gatto infernale. Quando parlò, sembrò un controfagotto che lanciasse parole. «Non sei lui,» disse, «perché sei più piccolo e più vecchio. Eppure... Quella lama... Potrebbe essere la sua. Chi sei?» «Chi sei tu?» chiesi. «Il mio nome è Strygalldwir. Evocami con questo nome ed io ti divorerò il cuore e il fegato.» «Evocarti con quel nome? Non sono neppure capace di pronunciarlo,» dissi. «E la mia cirrosi ti procurerebbe l'indigestione. Vattene.» «Chi sei?» ripeté.
«Misti, gammi gra'dil, Strygalldwir,» dissi, e quello sobbalzò come se l'avessi scottato. «Cerchi di scacciarmi con un incantesimo così semplice?» chiese, calmandosi. «Io non sono uno dei minori.» «Mi è parso che ti abbia messo un po' a disagio.» «Chi sei?» chiese ancora. «Non è affar tuo, Charlie. Uccellino, uccellino, torna a casa...» «Per quattro volte devo chiederlo e per quattro volte devo ricevere un rifiuto, prima che io possa entrare e ucciderti. Chi sei?» «No,» dissi, alzandomi. «Entra e brucia!» Allora strappò via la grata, e il vento che accompagnò il suo ingresso nella stanza spense la candela. Mi avventai, e tra noi volarono scintille quando Grayswandir incontrò la scura spada runica. Ci scontrammo, poi io balzai indietro. I miei occhi si erano abituati alla semioscurità, e la scomparsa della luce non mi accecò. L'essere, a sua volta, ci vedeva abbastanza bene. Era più forte di un uomo; ma lo sono anch'io. Facemmo il giro della stanza. Un vento gelido spirava intorno a noi, e quando passammo di nuovo davanti alla finestra, gocce fredde mi sferzarono il volto. La prima volta che ferii l'essere — un lungo squarcio attraverso il petto — restò in silenzio, sebbene minuscole fiamme danzassero intorno ai labbri della ferita. La seconda volta — quando lo colpii al braccio — gridò, maledicendomi. «Questa notte succhierò il midollo delle tue ossa!» disse. «Le farò seccare e ne ricaverò strumenti musicali! E ogni volta che li suonerò, il tuo spirito disincarnato si contorcerà per la sofferenza!» «Bruci molto bene,» dissi io. Rallentò per una frazione di secondo: e quella era l'occasione che aspettavo. Deviai la lama scura, e il mio affondo fu perfetto. Il mio bersaglio era il centro del suo petto. Lo trapassai. Allora ululò, ma non cadde. Grayswandir mi fu strappata dalla mano, e intorno alla ferita fiorirono le fiamme. Rimase in piedi, avanzò di un passo verso di me, ed io afferrai una seggioletta, la tenni tra me e lui. «Io non ho il cuore dove l'hanno gli uomini,» disse. Poi balzò, ma io parai il colpo con la seggiola, e lo urtai all'occhio destro con una delle gambe. Poi gettai via la sedia, ed avanzando gli afferrai il polso destro e lo girai. Colpii il gomito con il taglio della mano, più forte che potei. Vi fu un crepitio secco, e la spada runica cadde sferragliando sul
pavimento. Poi la mano sinistra dell'essere mi colpì alla testa, e caddi. Si lanciò per prendere la spada, e gli afferrai la caviglia e tirai. Cadde lungo disteso, e mi buttai su di lui, gli strinsi la gola. Girai la testa nel cavo della spalla, con il mento contro il petto, mentre cercava di artigliarmi la faccia con la sinistra. Mentre la mia stretta mortale si faceva più forte, i suoi occhi cercarono i miei, e questa volta non li evitai. Avvertii una lieve scossa alla base del cervello: entrambi sapevamo quel che sapevamo. «Tu!» riuscì a singultare, prima che torcessi violentemente le mani e che la vita svanisse da quegli occhi rossi. Mi alzai, puntai il piede sulla carcassa, ed estrassi Grayswandir. L'essere prese fuoco quando la lama si liberò, e continuò ad ardere fino a quando non rimase altro che una chiazza carbonizzata sul pavimento. Poi Lorraine si accostò e io la cinsi con il braccio, e lei mi chiese di riaccompagnarla al suo alloggio, a letto. L'accontentai, ma non facemmo altro che giacere vicini, fino a quando lei si addormentò tra le lacrime. È così che incontrai Lorraine. Io e Lance e Ganelon eravamo in sella alle nostre cavalcature, su di un'alta collina, e il sole del mattino avanzato ci batteva sulle spalle. Guardavamo laggiù, nel Cerchio. Il suo aspetto mi confermò molte cose. Era simile al bosco deforme che riempiva la valle a sud di Ambra. Oh, padre mio! Che cos'ho fatto? dissi nel mio cuore; ma non c'era altra risposta che il Cerchio tenebroso, sotto di me, esteso a perdita d'occhio. Tra le barre della visiera, continuavo a guardarlo... carbonizzato, desolato, fetido di putredine. In quei giorni vivevo con la visiera abbassata. Gli uomini la consideravano un'affettazione, ma il mio grado mi dava diritto all'eccentricità. La portavo da due settimane, dopo la battaglia con Strygallswir. L'avevo messa la mattina dopo, prima di disarcionare Harald per mantenere la promessa fatta a Lorraine, ed avevo deciso che, mentre riacquistavo peso, avrei fatto meglio a nascondere il viso. Adesso pesavo poco meno di novanta chili, e mi sentivo di nuovo me stesso. Se avessi potuto contribuire a liberare la terra chiamata Lorraine, sapevo che avrei avuto almeno la possibilità di tentare ciò che più desideravo, e forse vi sarei riuscito. «È così,» dissi. «Non vedo truppe che si radunano.» «Credo che dovremo spingerci a nord,» disse Lance, «e senza dubbio le vedremo, dopo l'imbrunire.»
«Molto a nord?» «Tre o quattro leghe. Si muovono spesso.» Avevamo cavalcato per due giorni, per raggiungere il Cerchio. Quella mattina avevamo incontrato una pattuglia ed avevamo saputo che le truppe, all'interno, continuavano a radunarsi ogni notte. Svolgevano esercitazioni e poi se ne andavano — verso l'interno — verso il mattino. Sopra il Cerchio, venni a sapere, aleggiavano continuamente nubi temporalesche, sebbene la tempesta non scoppiasse mai. «Facciamo colazione qui e poi ci spingiamo verso nord?» domandai. «Perché no?» ribatté Ganelon. «Ho fame, e abbiamo tempo.» Smontammo e mangiammo carne secca e bevemmo attaccandoci alle borracce. «Non capisco ancora quel messaggio,» disse Ganelon, dopo aver ruttato, accarezzandosi lo stomaco e accendendo la pipa. «Sarà al nostro fianco nella battaglia decisiva, o no? Dov'è, se intende aiutarci? Il giorno dello scontro si fa sempre più vicino.» «Dimenticalo,» dissi io. «Probabilmente era uno scherzo.» «Non posso, dannazione!» esclamò. «C'è qualcosa d'immensamente strano, in questa storia!» «Di che si tratta?» chiese Lance, e per la prima volta mi resi conto che Ganelon non glielo aveva detto. «Il mio vecchio sovrano, il principe Corwin, ha mandato uno strano messaggio per mezzo di un uccello dicendo che stava arrivando. L'avevo creduto morto, ma ha mandato il messaggio,» spiegò Ganelon. «Ancora non so cosa pensarne.» «Corwin?» disse Lance, ed io trattenni il respiro. «Corwin di Ambra?» «Sì, Ambra ed Avalon.» «Dimentica il suo messaggio.» «Perché?» «È un uomo senza onore, e la sua promessa non vale nulla.» «Lo conosci?» «Ne ho sentito parlare. Molto tempo fa, regnava su questa terra. Non ricordi le leggende del principe demone? Era lui. Era Corwin, nei tempi prima che io nascessi. La cosa migliore che fece fu abdicare e fuggire, quando la resistenza contro di lui divenne troppo forte.» Questo non era vero! Oppure sì? Ambra getta una infinità di ombre, e la mia Avalon ne aveva gettate
molte a sua volta, a causa della mia presenza. Potevo essere conosciuto su molte terre dove non avevo mai posto piede, perché ombre di me stesso si erano aggirate laggiù, imitando imperfettamente le mie azioni ed i miei pensieri. «No,» disse Ganelon, «io non ho prestato molta attenzione alle vecchie leggende. Mi chiedo se poteva essere lo stesso uomo, colui che regnava qui. È interessante.» «Molto,» ammisi, per non farmi tagliar fuori dalla conversazione. «Ma se regnava tanto tempo fa, ormai dovrebbe essere morto o decrepito.» «Era un mago,» disse Lance. «Quello che ho conosciuto io lo era sicuramente,» disse Ganelon, «perché mi bandì da una terra che ora nessuna arte o artificio può scoprire.» «Non me ne avevi mai parlato,» disse Lance. «Come avvenne?» «Non ti riguarda,» disse Ganelon, e Lance tacque. Estrassi la mia pipa — me ne ero procurata una due giorni prima — e Lance fece altrettanto. Era di coccio, si scaldava molto e tirava moltissimo. Accendemmo, e tutti e tre restammo seduti a fumare. «Be', aveva fatto la cosa più intelligente,» disse Ganelon. «Adesso non pensiamoci più.» Naturalmente, continuammo a pensarci. Ma evitammo l'argomento. Se non fosse stato per il Cerchio tenebroso, dietro di noi, sarebbe stato piacevole restare lì seduti a riposare. All'improvviso, mi sentii molto vicino a quei due. Avrei voluto dire qualcosa, ma non sapevo che cosa. Ganelon risolse il problema affrontando di nuovo il nostro problema. «Dunque, vuoi attaccarli prima che loro attacchino noi?» chiese. «Infatti,» risposi. «Voglio portare il combattimento sul loro territorio.» «Il guaio è che si tratta del loro territorio,» disse Ganelon. «Lo conoscono meglio di noi, e chi sa quali poteri potrebbero utilizzare?» «Uccidi il Capro, e si disperderanno,» dissi io. «Forse. O forse no. Magari tu ci riusciresti,» disse Ganelon. «A meno di un colpo di fortuna, comunque, non so se io lo potrei. È troppo malvagio per morire facilmente. Sebbene sia convinto di essere ancora valente come qualche anno fa, forse m'illudo. Forse mi sono rammollito. Non ho mai aspirato a questo incarico!» «Lo so,» dissi io. «Lo so,» disse Lance. «Lance,» disse Ganelon, «dobbiamo fare come dice il nostro amico? Dobbiamo attaccare?»
Lance avrebbe potuto scrollare le spalle, equivocando. Ma non lo fece. «Sì,» disse. «L'ultima volta, è mancato poco che ci battessero. Molto poco, la notte in cui morì re Uther. Se non li attacchiamo ora, credo che la prossima volta potrebbero sconfiggerci. Oh, non sarebbe facile, e noi infliggeremmo loro gravi perdite. Ma credo che la spunterebbero. Vediamo cosa possiamo scoprire, adesso; e poi faremo i piani per l'attacco.» «D'accordo,» disse Ganelon. «Anch'io sono stanco di aspettare. Riparlamene quando saremo tornati, e decideremo.» E così facemmo. Quel pomeriggio ci spingemmo verso nord, e ci nascondemmo tra le colline e guardammo il Cerchio dall'alto. Erano là, e compivano i loro riti, e si esercitavano. Calcolai che fossero circa quattromila. Noi avevamo all'incirca duemilacinquecento uomini. E loro avevano anche strani esseri che volavano, balzavano, strisciavano e facevano rumore nella notte. Noi avevamo cuori saldi. Già. A me bastava soltanto avere qualche minuto a quattr'occhi con il loro capo, e la cosa si sarebbe risolta, in un modo o nell'altro. Tutto quanto. Non potevo dirlo ai miei compagni, ma era così. Vedete, ero io il responsabile di quella cosa laggiù. L'avevo creata io, e spettava a me annullarla, se potevo. E temevo di non poterlo fare. In uno slancio di passione, di rabbia, d'orrore e di sofferenza, avevo scatenato quella cosa, che si rifletteva su tutte le terre esistenti. Tale è la potenza della maledizione del sangue di un Principe di Ambra. Li osservammo per tutta la notte, i Guardiani del Cerchio, e al mattino ripartimmo. Il verdetto fu: attaccare! Perciò cavalcammo per tutta la giornata, senza che niente ci seguisse. Quando arrivammo alla Fortezza di Ganelon, cominciammo a preparare i piani. Le nostre truppe erano pronte — forse anche troppo — e decidemmo di attaccare entro due settimane. Mentre giacevo accanto a Lorraine, le riferii tutto questo. Sentivo che lei doveva saperlo. Avevo il potere di portarla via nell'Ombra... quella notte stessa, se lei avesse accettato. Ma non volle. «Rimarrò con te,» «D'accordo.» Non le avevo detto di avere la certezza che tutto era nelle mie mani; ma
ho la sensazione che lo sapesse e che, chissà per quale ragione, si fidasse di me. Non avrei dovuto: ma questo era affar suo. «Sai come potrebbero andare le cose,» dissi. «Lo so,» disse lei; e io sapevo che lo sapeva, e questo era tutto. Dedicammo la nostra attenzione ad altre cose, e più tardi dormimmo. Lei aveva fatto un sogno. Al mattino, mi disse: «Ho fatto un sogno.» «Che cosa hai visto?» chiesi. «La battaglia imminente,» rispose. «Ho visto te e il Capro impegnati in combattimento.» «Chi vince?» «Non so. Ma mentre dormivi, ho fatto una cosa che potrebbe aiutarti.» «Vorrei che non l'avessi fatto,» dissi io. «So badare a me stesso.» «Poi ho sognato la mia morte, nella stessa occasione.» «Lascia che ti porti in un luogo che conosco.» «No, il mio posto è qui,» mi disse. «Non pretendo di essere il tuo padrone,» obiettai. «Ma posso salvarti da ciò che hai sognato. Questo posso farlo, credimi. «Ti credo, ma non me ne andrò.» «Sei una sciocca.» «Lasciami restare.» «Se vuoi... Senti, ti manderò anche a Cabra...» «No.» «Sei una sciocca.» «Lo so. Ti amo.» «... e una stupida. Devi dire: 'Mi piaci'. Ricordi?» «Dillo tu,» fece lei. «Vai all'inferno!» dissi. Poi lei pianse, sommessamente, fino a quando la consolai. Lorraine era così. 3 Una mattina, ripensai a tutto ciò che era accaduto. Pensai ai miei fratelli ed alle mie sorelle come fossero carte da gioco, e sapevo che non era così. Ripensai alla clinica dove mi ero svegliato, ripensai alla battaglia per Ambra, al percorso del Disegno in Arbma, e a quella notte con Moire, che a-
desso forse era di Eric. Pensai a Bleys ed a Random, Deirdre, Caine, Gérard ed Eric, quel mattino. Era il mattino della battaglia, naturalmente, e noi eravamo accampati sulle colline nei pressi del Cerchio. Eravamo stati attaccati molte volte, lungo la strada, ma erano stati brevi episodi di guerriglia. Avevamo liquidato gli aggressori, ed eravamo andati avanti. Quando avevamo raggiunto la zona prestabilita, ci eravamo accampati, avevamo piazzato le guardie ed eravamo andati a dormire. Dormimmo indisturbati. Mi svegliai chiedendomi se i miei fratelli e le mie sorelle pensavano a me come io pensavo a loro. Era un pensiero molto triste. Al riparo in un boschetto, con l'elmo pieno d'acqua insaponata, mi tagliai la barba. Poi indossai, lentamente, i miei colori sbrindellati. Ero di nuovo duro come la pietra, scuro come la terra, e feroce come l'inferno. Quel giorno sarebbe stato decisivo. Misi l'elmo con la visiera abbassata, indossai un usbergo di maglia, mi affibbiai la cintura e mi appesi al fianco Grayswandir. Mi fissai il mantello alla gola con una rosa d'argento, e venni rintracciato da un messaggero che mi cercava per dirmi che tutto era quasi pronto. Baciai Lorraine, che aveva insistito per venire con me. Poi montai sul mio cavallo, un roano che si chiamava Astro, e mi avviai verso le prime file. Incontrai Ganelon e Lance. Dissero: «Siamo pronti.» Chiamai i miei ufficiali e impartii le istruzioni. Quelli salutarono, girarono i cavalli e si allontanarono. «Manca poco,» disse Lance, accendendo la pipa. «Come va il tuo braccio?» «Benissimo, adesso,» rispose lui. «Dopo l'esercizio che gli hai fatto fare ieri. Perfetto.» Alzai la visiera e accesi la mia pipa. «Ti sei tagliato la barba,» disse Lance. «Non riesco a immaginarti senza.» «Così l'elmo si adatta meglio,» dissi io. «Buona fortuna a tutti noi,» disse Ganelon. «Non conosco nessun dio, ma se qualcuno vuol schierarsi dalla nostra parte, gli do il benvenuto.» «C'è un solo Dio,» disse Lance. «Prego perché ci assista.» «Amen,» disse Ganelon, accendendo la pipa. «Per oggi.» «Vinceremo noi,» disse Lance. «Sì,» dissi io, mentre il sole schiariva l'oriente e gli uccelli del mattino facevano vibrare l'aria. «Ho anch'io questa impressione.»
Vuotammo le pipe, quando avemmo finito di fumare, e le infilammo nelle cinture. Poi allacciammo le ultime fibbie e gli ultimi fermagli delle armature e Ganelon disse. «Andiamo.» I miei ufficiali tornarono a far rapporto. Le mie truppe erano pronte. Scendemmo dalla collina e ci schierammo all'esterno del Cerchio. All'interno, non c'era nulla che si muovesse: le truppe erano invisibili. «Sto pensando a Corwin,» mi disse Ganelon. «È con noi,» gli dissi io, e lui mi guardò stranamente, sembrò notare la rosa per la prima volta, poi annuì con un cenno brusco. «Lance,» disse, quando ci fummo schierati. «Dai l'ordine.» E Lance sguainò la spada. Il suo grido «Carica!» echeggiò intorno a noi. Ci eravamo addentrati nel Cerchio per mezzo miglio, prima che succedesse qualcosa. Eravamo cinquecento all'avanguardia, tutti a cavallo. Apparve la cavalleria tenebrosa, e noi l'affrontammo. Dopo cinque minuti, le file degli avversari furono volte in rotta, e noi proseguimmo. Poi udimmo il tuono. Vennero i lampi, e la pioggia cominciò a cadere. Le nubi temporalesche si erano finalmente squarciate. Una fila di fanti, quasi tutti picchieri, ci sbarrava la strada, attendendo stoicamente. Forse tutti noi fiutammo la trappola, ma ci avventammo alla carica. Poi la cavalleria ci investì ai fianchi. Ci girammo, e incominciò il vero combattimento. Erano trascorsi forse venti minuti... Resistemmo, in attesa che sopraggiungesse il grosso delle forze. Poi proseguimmo: eravamo circa duecento... Uomini. Erano uomini, quelli che uccidevamo e che ci uccidevano... uomini dai volti grigi e lugubri. Ma io volevo di più. Cercavo un altro... Il loro doveva essere stato un problema di logistica semi-metafisico. Che cosa si poteva dirottare attraverso quella Porta? Non ero sicuro. Ben presto... Superammo un'altura; e lontano, sotto di noi, sorgeva una cittadella tenebrosa. Alzai la spada. Mentre scendevamo, attaccarono. Sibilavano e gracchiavano e svolazzavano. Per me, questo significava che lui stava per restare a corto di uomini. Grayswandir divenne una
fiamma nella mia mano, una folgore, una sedia elettrica portatile. Li uccidevo con la stessa rapidità con cui si avvicinavano, e mentre morivano, bruciavano. Alla mia destra, vedevo Lance che scatenava un caos quasi altrettanto violento, mentre mormorava sottovoce. Preghiere per i morti, senza dubbio. Alla mia sinistra, Ganelon faceva strage, ed una scia di fuochi seguiva il suo cavallo. Nel balenare dei lampi, la cittadella incombeva, più grande. Eravamo rimasti in cento o poco più: avanzammo tempestosamente, e le abominazioni cadevano lungo il nostro cammino. Quando arrivammo alla porta, ci trovammo di fronte ad una fanteria di uomini e di bestie. Caricammo. Erano più numerosi di noi, ma non avevamo scelta. Forse avevamo distanziato troppo la nostra fanteria. Ma io non lo pensavo. Il fattore tempo, secondo me, aveva adesso un'importanza decisiva. «Devo passare!» gridai. «Lui è la dentro!» «È mio!» esclamò Lance. «Potete tenervelo tutti e due!» disse Ganelon, menando colpi intorno a sé. «Passate quando potete! Sono con voi!» Uccidemmo e uccidemmo e uccidemmo, e poi la marea volse in favore dei nostri nemici. Premevano su di noi, tutte le cose orrende che erano più o meno umane, mescolate alle truppe umane. Ci rinserrammo in un gruppo, difendendoci da ogni parte: poi la nostra fanteria sopraggiunse e cominciò ad attaccare. Ci spingemmo di nuovo verso la porta, e questa volta vi riuscimmo: eravamo rimasti in quaranta o cinquanta. Passammo: e nel cortile c'erano altre truppe da sterminare. Quella dozzina che riuscì ad arrivare ai piedi della torre scura si trovò di fronte un ultimo contingente di guardie. «Va'!» gridò Ganelon, mentre balzavamo dai cavalli e ci avventavamo tra i nemici. «Va'!» gridò Lance: immagino che entrambi si riferissero a me, o forse l'uno all'altro. Pensai che si riferisse a me, e mi distaccai dalla mischia, salii le scale correndo. Lui doveva essere là, sulla torre più alta, lo sapevo; ed avrei dovuto affrontarlo, e abbatterlo. Non sapevo se vi sarei riuscito, ma dovevo tentare, perché ero l'unico a sapere da dove veniva... ed ero stato io a piazzarlo là dove si trovava. Giunsi ad una massiccia porta di legno, in cima alla scala. Provai ad a-
prirla, ma era bloccata dall'altra parte. Perciò presi a sferrare calci violenti. La porta si schiantò e cadde verso l'interno, con uno scroscio. Lo vidi accanto alla finestra: un corpo antropomorfo, rivestito di un'armatura leggera, la testa di capro sopra le spalle massicce. Varcai la soglia e mi fermai. Lui s'era voltato a guardare quando era caduta la porta, e adesso cercava di guardarmi negli occhi attraverso la visiera d'acciaio. «Mortale, ti sei spinto troppo oltre,» disse. «Ma sei mortale?» E c'era una spada, nella sua mano. «Chiedilo a Strygalldwir,» dissi. «Tu sei colui che l'ha ucciso,» disse l'essere. «E lui ti ha nominato?» «Forse.» Udii passi sulla scala, dietro di me. Mi portai sulla destra della soglia. Ganelon irruppe nella camera ed io gli gridai: «Fermati!» Si fermò. Si girò verso di me. «L'essere è questo,» disse. «Che cos'è?» «Il mio peccato contro qualcosa che amavo,» dissi. «Stai lontano. È mio.» «Te lo lascio volentieri.» Lui restò immobile. «Intendevi davvero ciò che hai detto?» chiese l'essere. «Scoprilo,» dissi, e mi avventai. Ma non incrociò la spada con me. Fece quello che qualunque schermitore umano avrebbe giudicato sciocco. Scagliò la spada contro di me, con la punta in avanti, come una folgore. E il suono del suo volo fu come un tuono. Gli elementi, all'esterno della torre, lo riecheggiarono, in una risposta assordante. Con Grayswandir, parai la lama come se fosse un normale affondo. Si piantò nel pavimento, e divampò. All'esterno, rispose il fulmine. Per un istante, la luce fu accecante come un lampo al magnesio, e in quel momento l'essere si scagliò su di me. Mi bloccò le braccia contro i fianchi, e le sue corna colpirono la mia visiera, una volta, due volte-Poi avventai la mia forza contro quelle braccia, e la loro stretta cominciò ad indebolirsi. Lasciai cadere Grayswandir, e con uno scatto finale spezzai la presa che mi teneva avvinghiato. In quel momento, i nostri occhi s'incontrarono. Poi colpimmo entrambi, ed entrambi indietreggiammo barcollando.
«Signore di Ambra,» disse lui, «perché lotti con me? Sei stato tu ad aprirci questo passaggio, questa via...» «Sono pentito di quell'atto avventato, e cerco di annullarlo.» «Troppo tardi... e questo è il posto meno adatto per incominciare.» Colpì di nuovo, così fulmineamente che superò la mia guardia. Venni scaraventato contro il muro. La sua sveltezza era tremenda. E poi levò la mano e tracciò un segno, ed io ebbi una visione delle Coorti del Caos... una visione che mi accapponò la pelle, gettò un vento gelido sulla mia anima, quando compresi ciò che avevo fatto. «... Vedi?» stava dicendo l'essere. «Tu ci hai dato questa Porta. Aiutaci, ora, e noi ti restituiremo ciò che ti appartiene.» Per un momento mi sentii tentato. Era possibile che potesse fare realmente ciò che aveva offerto, se l'avessi aiutato. Ma dopo sarebbe stata una minaccia eterna. Alleati per una breve fase, saremmo ridiventati nemici non appena avessimo ottenuto ciò che volevamo... e allora quelle forze tenebrose sarebbero state molto più forti. Eppure, se io avessi avuto la città... «Il patto è concluso?» La domanda fu brusca ed acuta, simile ad un belato. Pensai alle ombre, ed ai luoghi oltre l'Ombra... Lentamente, alzai le mani e slacciai l'elmo... Poi lo scagliai, proprio nell'attimo in cui l'essere parve rilassarsi. Credo che Ganelon stesse già avanzando, in quel momento. Attraversai d'un balzo la camera e lo spinsi contro la parete. «No!» gridai. Le sue mani umane toccarono la mia gola quasi nello stesso istante in cui le mie stringevano il suo collo. Strinsi, con tutte le mie forze, e torsi. Credo che l'essere facesse lo stesso. Udii qualcosa spezzarsi come un fuscello secco. Mi chiesi di chi era il collo che s'era schiantato. Il mio doleva. Aprii gli occhi e vidi il cielo. Ero disteso sul dorso, sopra una coperta gettata al suolo. «Temo che vivrà,» disse Ganelon, e io girai la testa, lentamente, in direzione della sua voce. Era seduto sul bordo della coperta, con la spada sulle ginocchia. Lorraine era con lui.
«Come va?» chiesi. «Abbiamo vinto,» mi disse Ganelon. «Hai mantenuto la promessa. Quando hai ucciso l'essere, tutto è finito. Gli uomini sono caduti esanimi, i mostri si sono consumati tra le fiamme.» «Bene.» «E io me ne stavo qui a sedere, chiedendomi perché non ti odio più.» «Sei giunto ad una conclusione?» «No, non proprio. Forse perché siamo tanto simili. Non so.» Io sorrisi a Lorraine. «Sono lieto che tu non sia una profetessa efficiente. La battaglia è finita, e tu sei ancora viva.» «La morte è già incominciata,» disse lei, senza ricambiare il mio sorriso. «Cosa voresti dire?» «Raccontano ancora che il Principe Corwin fece giustiziare mio nonno — impiccato e squartato sulla pubblica piazza — perché aveva guidato una delle prime insurrezioni contro di lui.» «Quello non ero io,» risposi. «Era una delle mie ombre.» Ma lei scosse il capo e disse: «Corwin di Ambra, io sono quella che sono.» E si alzò e mi lasciò. «Che cos'era?» chiese Ganelon, senza badarle. «Che cos'era l'essere nella torre?» «Era mio,» dissi. «Una delle cose che si scatenarono quando scagliai la mia maledizione su Ambra. Allora aprii la porta, in modo che ciò che sta oltre l'Ombra entrasse nel mondo reale. Questi esseri percorrono le vie della minor resistenza, attraverso le ombre, per giungere ad Ambra. Qui, la strada era il Cerchio. Altrove, potrebbe essere qualcosa di diverso. Ora ho chiuso loro la strada che passa da questo luogo. Potete stare tranquilli, qui.» «È per questo che sei venuto?» «No,» dissi. «Non esattamente. Stavo solo passando, diretto ad Avalon, quando ho trovato Lance. Non potevo lasciarlo lì, e dopo averlo portato da te mi sono lasciato coinvolgere in questa mia opera.» «Avalon? Allora mentivi, quando dicevi che era stata distrutta?» Scossi il capo. «No. La nostra Avalon è caduta, ma nell'Ombra posso ritrovare qualcosa che le somiglia.» «Portami con te.» «Sei pazzo?»
«No. Vorrei rivedere ancora la terra della mia nascita, a prezzo di qualunque pericolo.» «Non vi andrò per restare,» dissi, «ma per armarmi per la battaglia. In Avalon c'è una polvere rossa, che usano i gioiellieri. Una volta, in Ambra, ne accesi un pizzico. Vado ad Avalon solo per procurarmela e per costruire cannoni: così potrò assediare Ambra e riconquistare il trono che mi spetta.» «E gli esseri venuti da oltre l'Ombra?» «Dopo penserò anche a loro. Se questa volta dovessi perdere, allora toccherà ad Eric risolvere il problema.» «Hai detto che ti aveva accecato e ti aveva gettato in una segreta.» «È vero. Mi sono cresciuti occhi nuovi. Sono fuggito.» «Tu sei un demone.» «Questo viene detto spesso. Non lo nego più.» «Mi porterai con te?» «Se davvero desideri venire. Ma sarà diversa dalla Avalon che conoscevi.» «Ad Ambra!» «Sei pazzo!» «No. Da molto tempo desideravo vedere quella città favolosa. Dopo aver rivisto Avalon ancora una volta, voglio cercare qualcosa di nuovo. Non ero un buon generale?» «Sì.» «E allora tu m'insegnerai cosa sono quelli che chiami cannoni, e ti aiuterò nella battaglia più grande. Non mi restano troppi anni buoni, lo so. Prendimi con te.» «Forse le tue ossa imbiancheranno ai piedi di Kolvir, accanto alle mie.» «Quale battaglia ha un esito sicuro? Rischierò.» «Come vuoi. Puoi venire con me.» «Grazie, mio Signore.» Quella notte ci accampammo lì, e la mattina seguente ritornammo alla fortezza. Poi cercai Lorraìne. Venni a sapere che era fuggita con uno dei suoi precedenti amanti, un ufficiale che si chiamava Melkin. Sebbene fosse rimasta sconvolta, mi irritava che non mi avesse dato la possibilità di spiegare qualcosa che conosceva solo attraverso dicerie. Decisi di seguirli. Montai su Astro, girai il collo indolenzito nella direzione che dovevano aver preso, e partii. In un certo senso, non potevo biasimarla. Non ero stato accolto, alla fortezza, come sarebbe stato accolto l'uccisore del Capro, se
fosse stato un altro. Circolavano ancora le storie del loro Corwin, e tutte mi qualificavano come un demone. Gli uomini con cui mi ero esercitato e che avevano combattuto al mio fianco, ora mi lanciavano sguardi carichi di qualcosa che era più che paura... soltanto occhiate rapide, perché si affrettavano ad abbassare gli occhi o a volgerli verso qualcosa d'altro. Forse temevano che volessi restare e regnare su di loro. Dovettero provare un senso di sollievo, tutti, tranne Ganelon, quando partii. Ganelon, immagino, temeva che non sarei tornato a prenderlo come avevo promesso. Fu per quello, credo, che si offrì di venire con me. Ma era una faccenda che dovevo sbrigare da solo. Lorraine, ormai, significava qualcosa per me. Mi stupì scoprirlo, e mi sentii ferito dal suo gesto. Pensavo che avesse il dovere di darmi ascolto, prima di andarsene. Poi, se avesse preferito ancora il suo capitano mortale, avrei accordato loro la mia benedizione. Se no... sentivo che volevo tenerla con me. Avrei rinviato il viaggio alla bella Avalon per tutto il tempo che avessi impiegato a risolvere il problema, in un modo o nell'altro. Cavalcavo lungo il sentiero e gli uccelli cantavano tra gli alberi, intorno a me. Era una giornata luminosa, con il cielo azzurro, e gli alberi verdi, e una gran pace, perché il flagello era stato eliminato. Nel mio cuore, c'era una sorta di gioia al pensiero di aver annullato almeno una piccola parte dell'orrore che avevo scatenato. Il male? Diavolo, ne avevo fatto più della maggior parte degli uomini; ma lungo la strada avevo acquisito anche una specie di coscienza, e lasciai che si godesse uno dei suoi rari momenti di soddisfazione. E quando avessi preso Ambra, avrei potuto concederle più spazio. Ah! Ero diretto a nord, e quella zona mi era sconosciuta. Seguivo una pista ben nitida, che recava i segni del passaggio recente di due cavalieri. Li seguii per tutto il giorno, nel crepuscolo e nella sera, smontando di tanto in tanto per ispezionare il percorso. Finalmente, gli occhi mi giocarono troppi scherzi strani, perciò trovai una valletta — diverse centinaia di metri sulla sinistra della pista — e mi accampai per passare la notte. Furono i dolori al collo, senza dubbio, a farmi sognare il Capro e rivivere la battaglia. «Aiutaci ora, e noi ti restituiremo ciò che ti appartiene,» diceva. A questo punto mi svegliai all'improvviso, con un'imprecazione sulle labbra. Quando il mattino schiarì il cielo, montai a cavallo e proseguii. La notte era stata fredda, e il giorno mi teneva ancora stretto con mani gelide. L'erba luccicava di una leggera brina, e il mio mantello, che avevo usato come coperta, era bagnato.
A mezzogiorno, un po' di tepore era ritornato nel mondo, e le tracce erano più recenti. Stavo guadagnando terreno. Quando la trovai, balzai dal cavallo e corsi verso il punto dove giaceva, sotto un rosaio selvatico senza fiori; le spine le avevano graffiato la guancia e le spalle. Era morta, e non da molto tempo, perché il sangue era ancora umido sul seno, dov'era penetrata la lama, e il corpo era ancora caldo. Non c'erano pietre per erigerle un tumulo, perciò tagliai le zolle con Grayswandir e la deposi là. Lui le aveva rubato i braccialetti, gli anelli e i pettini ingemmati che erano stati tutta la sua ricchezza. Dovetti chiuderle gli occhi, prima di coprirla con il mio mantello; e mi tremò la mano, mi si offuscarono gli occhi. Impiegai molto tempo. Proseguii, e non impiegai molto a raggiungerlo, sebbene galoppasse come fosse inseguito dal Diavolo... e in effetti era così. Non pronunciai una parola, quando lo gettai da cavallo, e neppure dopo, e non usai la mia spada, sebbene lui avesse sguainato la sua. Scagliai il corpo schiantato tra i rami di un'alta quercia, e quando mi voltai a guardare era già coperto di corvi. Rimisi a Lorraine i suoi anelli, i suoi braccialetti ed i suoi pettini, prima di coprire la tomba. Tutto ciò che era stata o che aveva voluto essere era finito così, e questa è l'intera storia di come c'incontrammo e come ci separammo, Lorraine ed io, nella terra chiamata Lorraine, e somiglia alla mia vita, credo, perché un Principe d'Ambra è parte di tutta la putredine che esiste al mondo; ed è per questo che quando parlo della mia coscienza, qualcosa d'altro, dentro di me, deve rispondere «Ah!» Negli specchi di molti giudizi, le mie mani hanno il colore del sangue. Io faccio parte del male che esiste nel mondo e nell'Ombra. Talora, mi considero un male che esiste per opporsi ad altri mali. Anniento i Melkin, quando li incontro, e nel Grande Giorno di cui parlano i profeti senza credervi, il giorno in cui il mondo sarà completamente mondato dal male, allora anch'io scenderò nella tenebra, inghiottendo imprecazioni. O forse prima ancora, credo. Ma in ogni caso... Fino a quel momento, non mi laverò le mani e non le lascerò in ozio. Tornai alla Fortezza, da Ganelon, che sapeva ma non avrebbe mai compreso. 4 Per le vie strane e selvagge che portavano ad Avalon procedevamo, io e
Ganelon, per vie di sogno e d'incubo, sotto il sole bronzeo e le ardenti isole bianche della notte, fino a che queste divennero schegge d'oro e di diamante, e la luna nuotò nel cielo come un cigno. Il giorno fece squillare il verde della primavera; attraversammo un fiume immenso e le montagne davanti a noi erano coperte dalla brina della notte. Scagliai una freccia del mio desiderio, a mezzanotte, e quella s'incendiò nell'aria, si avventò bruciando come una meteora verso il nord. L'unico drago che incontrammo era claudicante, e si affrettò a fuggire zoppicando per nascondersi, bruciacchiando le margherite con i suoi ansiti. Uccelli colorati migranti indicavano la nostra destinazione, e voci cristalline che salivano dai laghi echeggiavano le nostre parole mentre passavamo. Io cavalcavo cantando, e dopo un po', prese a cantare anche Ganelon. Avevamo viaggiato per più di una settimana, e la terra ed il cielo e le brezze mi dicevano che eravamo ormai vicini ad Avalon. Ci accampammo in un bosco, presso un lago, mentre il sole calava dietro le pietre ed il giorno moriva. Scesi al lago a fare un bagno, mentre Ganelon scaricava la nostra roba. L'acqua era fredda, tonificante. Vi sguazzai a lungo. Mi parve di udire numerose grida, mentre facevo il bagno, ma non ne ero certo. Era uno strano bosco, e non me ne preoccupai eccessivamente. Tuttavia mi vestii in fretta e mi precipitai all'accampamento. Mentre camminavo, l'udii di nuovo: un lagno, una supplica. Quando mi avvicinai, mi accorsi che si stava svolgendo una conversazione. Poi entrai nella piccola radura che avevamo scelto. La nostra roba era sparpagliata intorno, ed era stato preparato un fuoco. Ganelon stava accosciato sotto una quercia. L'uomo era appeso all'albero. Era giovane, ed aveva la carnagione ed i capelli chiari. A parte questo, era difficile dire di più, così a prima vista. È difficile, scoprii, farsi un'idea iniziale del volto e della taglia di un uomo, quando è appeso a testa in giù a qualche metro dal suolo. Aveva le mani legate dietro la schiena, e pendeva da un ramo basso, fissato ad una corda annodata intorno alla caviglia destra. Stava parlando — frasi brevi e rapide in risposta alle domande di Ganelon — ed aveva il volto bagnato di saliva e di sudore. Non pendeva inerte, ma oscillava avanti e indietro. C'era un'abrasione sulla sua guancia, e molte chiazze di sangue sulla camicia. Mi fermai, per non interrompere il dialogo, e osservai. Ganelon non l'a-
vrebbe sistemato in quel modo senza una ragione, e quindi quell'individuo non mi ispirava molta compassione. Qualunque cosa avesse indotto Ganelon ad interrogarlo in quel modo, sapevo che anche a me sarebbe interessato conoscere quelle informazioni. E m'incuriosiva scoprire ciò che quel dialogo mi avrebbe rivelato sul conto di Ganelon, che adesso era una specie di alleato. E qualche altro minuto in quella posizione non poteva causare altri danni... Quando l'oscillazione del corpo rallentò, Ganelon gli pungolò lo sterno con la punta della spada, e lo fece oscillare di nuovo violentemente. La pelle si lacerò ed apparve un'altra chiazza rossa. Il ragazzo gridò. Adesso potevo vedere che era molto giovane. Ganelon protese la spada, e ne tenne la punta parecchi pollici oltre il punto in cui sarebbe venuta a trovarsi la gola del ragazzo, nella contro-oscillazione. All'ultimo momento, la ritrasse e ridacchiò, mentre il ragazzo si contorceva e gridava: «Ti prego!» «Il resto,» disse Ganelon. «Raccontami tutto.» «È tutto!» disse il ragazzo. «Non so altro!» «Perché no?» «Poi sono passati oltre! Non ho potuto vedere!» «Perché non li hai seguiti?» «Erano a cavallo. Io ero a piedi.» «Perché non li hai seguiti a piedi, allora?» «Ero stordito.» «Stordito! Avevi paura! Hai disertato!» «No!» Ganelon tese la spada, e ancora una volta la ritrasse all'ultimo istante. «No!» gridò il ragazzo. Ganelon mosse di nuovo la spada. «Sì!» urlò il ragazzo. «Ho avuto paura!» «E allora sei fuggito?» «Sì! Ho continuato a correre! Da allora non ho fatto altro che fuggire...» «E non sai come sono andate le cose, dopo?» «No!» «Tu menti!» Mosse di nuovo la lama. «No!» disse il ragazzo. «Ti prego...» Io mi feci avanti. «Ganelon,» dissi. Mi diede un'occhiata e sogghignò, abbassando la spada. Il ragazzo cercò
i miei occhi. «Chi è?» chiesi. «Ah!» disse Ganelon, battendo sull'interno della coscia del ragazzo, che gridò di nuovo. «Un ladro, un disertore... con una storia interessante da raccontare.» «Allora liberalo, e sentiamo,» dissi io. Ganelon si voltò e tagliò la corda con un colpo di spada. Il ragazzo cadde al suolo e cominciò a singhiozzare. «L'ho sorpreso mentre cercava di rubarci le provviste, e ho pensato di chiedergli notizie della zona,» disse Ganelon. «Proviene da Avalon... molto in fretta.» «Cosa vorresti dire?» «Era un fante, e ha preso parte a una battaglia che si è svolta due notti fa. Poi si è spaventato ed è fuggito.» Il giovane cominciò a mormorare una smentita, e Ganelon gli sferrò un calcio. «Silenzio!» disse. «Sto parlando io... e riferisco quello che mi hai detto tu!» Il ragazzo si spostò di traverso, come un granchio, e mi guardò con gli occhi spalancati, supplichevoli. «Una battaglia? Chi combatteva?» chiesi. Ganelon sorrise cupamente. «È una storia vecchia,» disse. «Le forze di Avalon erano impegnate nello scontro più grande, e forse decisivo, di una lunga serie di combattimenti contro esseri innaturali.» «Oh?» Scrutai il ragazzo; quello abbassò gli occhi, ma io ebbi il tempo di leggervi la paura. «... Donne,» disse Ganelon. «Furie pallide uscite da un inferno, bellissime e fredde. Armate e corazzate. Capelli lunghi, chiari. Occhi di ghiaccio. Montate su destrieri bianchi che alitano fiamme e si nutrono di carne umana, sono uscite di notte da un labirinto di caverne, tra le montagne, aperto da un terremoto diversi anni or sono. Saccheggiavano, si portavano via prigionieri gli uomini giovani, e uccidevano tutti gli altri. Molti sono ricomparsi, più tardi, come fanti privi d'anima. Mi ricorda gli uomini del Cerchio che abbiamo conosciuto.» «Ma molti degli uomini del Cerchio hanno ripreso a vivere, dopo essere stati liberati,» dissi io. «Non mi sembravano privi d'anima ma piuttosto in
preda all'amnesia, com'è accaduto anche a me, una volta. È strano,» continuai, «che non avessero bloccato le grotte durante il giorno, poiché quelle donne uscivano solo di notte...» «Il disertore mi ha detto che si era tentato di farlo,» disse Ganelon. «Ma quelle dopo qualche tempo uscivano di nuovo, più forti che mai.» Il ragazzo era cinereo in volto, ma annuì, quando mi volsi a guardarlo con aria interrogativa. «Il loro generale, che chiamano Protettore, le ha sconfitte molte volte,» continuò Ganelon. «Ha trascorso addirittura parte di una notte con la loro comandante, una strega pallida che si chiama Lintra... non so bene se per parlamentare o che altro. Ma non è servito a niente. Le incursioni sono continuate e le forze di Lintra sono diventate ancora più temibili. Alla fine il Protettore ha deciso di tentare un attacco decisivo, nella speranza di annientarle completamente. È stato durante la battaglia che costui è fuggito,» disse, indicando il giovane con un gesto della spada. «Ed è per questo che non sappiamo come è andata a finire la storia.» «È la verità?» chiesi. Il ragazzo distolse lo sguardo dalla punta della lama, mi guardò un momento negli occhi, e annuì lentamente. «Interessante,» dissi a Ganelon. «Molto. Ho la sensazione che il loro problema sia legato a quello che abbiamo appena risolto. Vorrei sapere com'è finita la battaglia.» Ganelon annuì, e cambiò la presa sull'arma. «Be', se abbiamo finito...» disse. «Aspetta. Immagino che cercasse di rubare qualcosa da mangiare.» «Sì.» «Liberagli le mani. Lo sfameremo.» «Ma ha cercato di derubarci.» «Non hai detto che una volta uccidesti un uomo per un paio di scarpe?» «Era diverso.» «In che senso?» «Nel senso che ci riuscii.» Risi. Non ce la facevo più a smettere. Ganelon mi guardò irritato, poi perplesso. Poi cominciò a ridere anche lui. Il ragazzo ci guardava come se fossimo pazzi. «Sta bene,» disse Ganelon alla fine. «Sta bene.» Si chinò, girò il giovane con una spinta, e tagliò la corda che gli legava i polsi. «Vieni, ragazzo,» disse. «Ti darò qualcosa da mangiare.» Andò dov'era-
no le provviste e aprì i pacchi dei viveri. Il ragazzo si alzò e lo seguì lentamente, zoppicando. Afferrò il cibo che gli veniva offerto e cominciò a mangiare, in fretta, rumorosamente, senza distogliere gli occhi da Ganelon. Le sue informazioni, se erano vere, presentavano parecchie complicazioni; la prima era che probabilmente mi sarebbe stato più difficile procurarmi ciò che volevo, in una terra devastata dalla guerra. E confermava le mie paure circa la natura e la portata dello schema d'alterazione. Aiutai Ganelon ad accendere il fuoco. «Questo influisce sui nostri piani?» chiese lui. Non avevo scelta. Tutte le ombre vicino a ciò che m'interessava potevano essere state colpite allo stesso modo. Potevo recarmi in una che non fosse coinvolta, ma in tal caso sarei arrivato nel posto sbagliato: non avrei trovato quello che mi serviva. Se le sortite del caos continuavano a ripetersi sulla mia strada del desiderio attraverso l'Ombra, erano legate alla natura del desiderio stesso, e prima o poi avrei dovuto affrontarle, in un modo o nell'altro. Era impossibile evitarle. Erano le regole del gioco, e non potevo lamentarmi, perché le avevo stabilite io. «Proseguiamo,» dissi. «È il luogo del mio desiderio.» Il giovane si lasciò sfuggire un breve grido e poi — forse perché si sentiva in debito verso di me, dato che avevo impedito a Ganelon di sforacchiarlo — ammonì: «Non andare ad Avalon, signore! Là non c'è nulla che tu possa desiderare! Finirai ucciso!» Gli sorrisi e lo ringraziai. Ganelon ridacchiò e disse: «Riportiamolo indietro con noi, perché lo processino come disertore.» Il ragazzo balzò in piedi e si mise a correre. Continuando a ridere, Ganelon sguainò il pugnale e alzò il braccio per lanciarlo. Gli urtai il gomito, e il lancio fallì il bersaglio. Il giovane sparì nel bosco, e Ganelon continuò a ridere. Raccattò il pugnale e disse: «Avresti dovuto lasciare che lo uccidessi, sai.» «Avevo deciso diversamente.» Lui scrollò le spalle. «Se quello ritorna e ci taglia la gola, stanotte, forse la penserai diversamente.» «L'immagino. Ma sai benissimo che non tornerà.» Ganelon scrollò di nuovo le spalle; infilò sul pugnale un pezzo di carne e lo scaldò sulle fiamme.
«Bene, la guerra gli ha insegnato a scappare,» ammise. «Forse ci sveglieremo vivi, domattina.» Addentò un boccone e cominciò a masticare. Mi parve una buona idea, e presi un po' di carne anche per me. Molto più tardi, mi destai da un sonno inquieto e fissai le stelle attraverso uno schermo di fronde. Una parte precognitiva della mia mente aveva afferrato il giovane, ed aveva trattato male lui e me. Dovette passare molto tempo prima che riuscissi a riaddormentarmi. Al mattino, coprimmo la cenere con il terriccio e ci rimettemmo in viaggio. Quel pomeriggio ci addentrammo tra le montagne e il giorno dopo le superammo. C'era qualche traccia di passaggi recenti sulla pista che stavamo percorrendo, ma non incontrammo nessuno. Il giorno seguente passammo davanti a numerose fattorie e casette, ma non ci fermammo. Avevo scartato il percorso selvaggio e demoniaco che avevo seguito quando avevo esiliato Ganelon. Sebbene fosse molto corto, sapevo che doveva essergli apparso molto sconcertante. Io avevo bisogno di tempo per pensare, e quello non era il viaggio più indicato per farlo. Adesso, però, la lunga strada stava per terminare. Quel pomeriggio raggiungemmo il cielo di Ambra, ed io l'ammirai in silenzio. Si sarebbe detto che stavamo attraversando la Foresta di Arden. Tuttavia, non c'erano suoni di corno, né Julian, né Morgenstern, né segugi delle tempeste ad aggredirci, come era avvenuto in Arden l'ultima volta che vi ero passato. C'erano soltanto i canti degli uccelli tra le chiome dei grandi alberi, il lamento d'uno scoiattolo, il latrato di una volpe, lo scroscio di una cascata, i bianchi e gli azzurri ed i rosa dei fiori sbocciati nell'ombra. Le brezze pomeridiane erano dolci e fresche, e mi cullavano, così che io non ero preparato alla vista della fila di tombe scavate da poco che vedemmo dopo aver superato una svolta. Nei pressi, c'era una valletta con l'erba calpestata ed i cespugli abbattuti. Ci soffermammo per un po', ma non scoprimmo nulla di più di quanto risultasse evidente a prima vista. Più avanti incontrammo un altro luogo come quello, e diversi boschetti carbonizzati dalle fiamme. Ormai la pista aveva l'aria di essere molto battuta, e gli arbusti che la fiancheggiavano erano spezzati e travolti, come dal passaggio di uomini e bestie. Talvolta si percepiva nell'aria odore di cenere, e ci affrettammo a passare oltre la carcassa semidivorata di un cavallo ormai putrefatto. Il cielo di Ambra non mi rincuorava più, anche se poi, per un lungo trat-
to, la via risultò sgombra. Il giorno stava declinando verso la sera, e la foresta si era considerevolmente diradata, quando Ganelon notò le tracce di fumo, a sud-est. Prendemmo il primo sentiero laterale che sembrava condurre in quella direzione, sebbene fosse tangenziale rispetto ad Avalon. Era difficile stimare le distanze, ma capivamo che non vi saremmo giunti prima del calar della notte. «Il loro esercito... ancora accampato?» chiese Ganelon. «O quello dei vincitori.» Scosse il capo e toccò l'elsa della spada. Verso il crepuscolo, lasciai il sentiero per seguire un mormorio d'acqua corrente. Era un ruscello limpido e pulito che scendeva dalle montagne e portava ancora in sé un po' del gelo delle nevi. Feci il bagno, tagliandomi la barba che era rispuntata e ripulendo i miei indumenti dalla polvere del viaggio. Ora che ci stavamo avvicinando alla conclusione del viaggio, volevo arrivare con quel po' di splendore che avrei potuto permettermi. Ganelon lo capì: si lavò la faccia e si soffiò rumorosamente il naso. Poi, sulla riva, levando verso il cielo gli occhi, vidi la luna mostrarsi nitida e chiara: i contorni non erano più sfuocati. Era la prima volta che accadeva. Mi si mozzò il respiro, e continuai a fissarla. Poi scrutai il cielo, in cerca delle prime stelle, seguii i contorni delle nubi, le montagne lontane, gli alberi più remoti. Tornai a guardare la luna: era ancora limpida e nitida. La mia vista era ridiventata normale. Ganelon arretrò, al suono della mia risata, e non ne chiese la causa. Reprimendo l'impulso di cantare, rimontai a cavallo e mi avviai di nuovo verso il sentiero. Le ombre si addensarono, mentre procedevamo, e grappoli di stelle fiorirono tra i rami. Aspirai una grande boccata della notte, la trattenni per un momento nei polmoni, l'esalai. Ero di nuovo me stesso, e questa era una sensazione piacevole. Ganelon si portò al mio fianco e disse, a voce bassa: «Senza dubbio, ci saranno sentinelle.» «Sì,» dissi. «Non sarebbe meglio abbandonare il sentiero?» «No. Preferirei non apparire furtivo. Per me non ha importanza, anche se arriviamo con una scorta. Siamo semplicemente due viaggiatori.» «Potrebbero chiederci la ragione del nostro viaggio.» «Diremo di essere mercenari che hanno sentito parlare dei combattimenti e sono venuti a cercare lavoro.»
«Sì. Ne abbiamo l'aspetto. Speriamo che se ne accorgano in tempo.» «Se non ci vedono così, allora siamo pessimi bersagli.» «È vero, ma questo pensiero non mi consola troppo.» Io ascoltai i suoni degli zoccoli dei cavalli sul sentiero. La via non era diritta. Si snodò tortuosamente, incurvandosi, per un lungo tratto, e poi prese a salire. Mentre procedevamo lungo l'erta, gli alberi continuarono a diradarsi. Poi giungemmo sulla cima di una collina, in una zona piuttosto aperta. Avanzando, vedemmo all'improvviso uno spettacolo che si estendeva per parecchie miglia. Tirammo le redini, di fronte ad una scarpata brusca che poi si addolciva in un pendio digradante verso una vasta pianura lontana circa un miglio, e poi continuava su una zona collinosa, cosparsa sporadicamente di boschi. La pianura era costellata di fuochi, e verso il centro c'erano alcune tende. Nei pressi pascolavano cavalli, in gran numero, e calcolai che dovevano esserci parecchie centinaia di uomini seduti intorno ai fuochi oppure in movimento, nel campo. Ganelon sospirò. «Almeno sembrano uomini normali,» disse. «Sì.» «... E se sono soldati normali, probabilmente in questo momento ci stanno osservando. Questa è una posizione strategica troppo favorevole, per lasciarla sguarnita.» «Sì.» Vi fu un rumore, dietro di noi. Ci accingemmo a voltarci, e in quel momento una voce disse: «Non muovetevi!» Continuai a girare la testa, e vidi quattro uomini. Due ci tenevano puntate contro le balestre, e gli altri due tenevano in pugno le spade. Uno di questi ultimi avanzò di due passi. «Smontate!» ordinò. «Da questa parte! Lentamente!» Scendemmo dalle nostre cavalcature e ci girammo verso di lui, tenendo le mani lontano dalle armi. «Chi siete? Da dove venite?» chiese l'uomo. «Siamo mercenari,» risposi. «Veniamo da Lorraine. Abbiamo sentito dire che qui si combatte, e cerchiamo un ingaggio. Eravamo diretti a quel campo laggiù. È il vostro, spero?» «E se dicessi di no? Se dicessi che siamo una ronda delle forze che stanno per invadere quell'accampamento?» Scrollai le spalle. «In tal caso, al vostro esercito interessa ingaggiare un
paio d'uomini?» Quello sputò. «Il Protettore non ha bisogno di gente come voi,» disse. «Da che direzione venite?» «Da est.» «Avete incontrato qualche... difficoltà... ultimamente?» «No,» risposi. «Avremmo dovuto incontrarne?» «È difficile dirlo,» fece lui. «Consegnate le armi. Vi manderò giù all'accampamento. Vorranno chiedervi se avete visto qualcosa ad est... qualcosa di strano.» «Non abbiamo visto nulla di strano,» dissi io. «Comunque, probabilmente vi daranno da mangiare. Ma non credo che vi ingaggeranno. Siete arrivati un po' tardi per combattere. Ora consegnate le armi.» Chiamò altri due uomini che uscirono dagli alberi mentre noi slacciavamo le cinture. Diede loro ordine di scortarci al campo, a piedi. Noi dovevamo condurre i nostri cavalli per le briglie. Gli uomini presero le nostre armi, e mentre ci voltavamo per andare, quello che ci aveva interrogati gridò: «Aspettate!» Mi girai verso di lui. «Tu. Come ti chiami?» mi chiese. «Corey,» dissi io. «Stai fermo.» Si avvicinò. Mi fissò, per una decina di secondi. «Cosa c'è?» chiesi. Invece di rispondere, l'uomo si frugò nella borsa appesa alla cintura. Ne estrasse una manciata di monete e se le accostò agli occhi. «Maledizione! È troppo buio,» disse. «E non possiamo far luce.» «Perché?» dissi. «Oh, non è molto importante,» disse lui. «Comunque il tuo viso mi sembrava familiare, e cercavo di capire perché. Somigli alla testa raffigurata su alcune delle nostre vecchie monete. Ce ne sono ancora in circolazione. «Non è vero?» chiese poi, rivolgendosi al balestriere più vicino. L'uomo abbassò l'arma e avanzò. Socchiuse gli occhi, scrutandomi da pochi passi. «Sì,» disse poi. «È vero.» «Che cos'era... quello cui stai pensando?» «Uno degli uomini antichi. Prima che io nascessi. Non ricordo.» «Neppure io. Be'...» Scrollò le spalle. «Non ha importanza. Vai, Córey.
Rispondi sinceramente alle loro domande, e non ti succederà nulla di male.» Mi voltai e lo lasciai là, nel chiaro di luna, intento a guardarmi ed a grattarsi la testa. Gli uomini che ci scortavano non erano loquaci. Forse era meglio così. Mentre scendevamo dalla collina, pensai al racconto del ragazzo e all'esito dello scontro che aveva descritto, perché avevo raggiunto l'analogo fisico del mondo del mio desiderio, ed ora avrei dovuto agire nell'ambito delle condizioni che vi prevalevano. L'accampamento aveva un odore piacevole d'uomo e di bestia, di fumo di legna, di carne arrosto, di cuoio e d'olio, nella luce del fuoco dove gli uomini parlavano, affilavano le armi, riparavano i finimenti, mangiavano, giocavano, dormivano, bevevano e ci osservavano mentre noi guidavamo in mezzo a loro le nostre cavalcature, scortati in direzione delle tre lacere tende centrali. Una sfera di silenzio si allargò intorno a noi, al nostro passaggio. Ci fermammo davanti alla seconda tenda, ed un uomo della nostra scorta parlò con una sentinella. Quella scosse il capo diverse volte e indicò con un gesto la tenda più grande. Il dialogo durò diversi minuti, poi la nostra guardia tornò indietro e parlò con l'altro soldato che attendeva al nostro fianco. Finalmente annuì e si avvicinò a me, mentre l'altro chiamava un soldato che stava accanto al fuoco. «Gli ufficiali si sono riuniti nella tenda del Protettore,» disse. «Impastoieremo i vostri cavalli e li metteremo a pascolare. Slegate la vostra roba e mettetela qui. Dovrete aspettare, per vedere il capitano.» Annuii, e incominciammo a slegare la nostra roba e a massaggiare i cavalli. Accarezzai il collo di Astro, poi restai a guardare mentre un ometto claudicante guidava lui e Dragodifuoco, il cavallo di Ganelon, verso gli altri animali. Sedemmo sulle selle e aspettammo. Una guardia ci portò tè bollente, ed accettò un po' del mio tabacco. Poi le guardie si sistemarono dietro di noi. Guardai la grande tenda, sorseggiando il tè, e pensai ad Ambra e a un piccolo night club in Rue de la Char et Pain a Bruxelles, nella Terra dell'Ombra dove avevo vissuto così a lungo. Quando mi fossi procurato il rouge da gioielliere che ero venuto a cercare, sarei andato a Bruxelles per trattare con i mercanti d'armi della Borsa dei Cannoni. La mia ordinazione sarebbe stata complicata e dispendiosa, questo lo sapevo, perché sarebbe stato necessario indurre qualche fabbricante di munizioni a dare inizio ad
una speciale linea di produzione. Su quella Terra conoscevo altri mercanti; e calcolavo che avrei impiegato qualche mese per attrezzarmi. Cominciai a pensare ai dettagli, e il tempo passò rapidamente e piacevolmente. Dopo circa un'ora e mezzo, nella grande tenda le ombre si mossero. Passarono altri minuti prima che il telo dell'entrata venisse scostato; e gli uomini cominciarono ad uscire lentamente, parlando tra loro, voltandosi a guardare all'interno. Gli ultimi due indugiarono sulla soglia, continuando a parlare con qualcuno che era rimasto dentro. Gli altri passarono nelle altre tende. I due che si erano fermati sulla soglia uscirono lentamente, restando sempre rivolti verso l'interno. Sentivo il suono delle loro voci, sebbene non comprendessi ciò che dicevano. Quando si scostarono ancora, l'uomo con cui stavano parlando si mosse a sua volta, e io riuscii a scorgerlo. Aveva la luce alle spalle e i due ufficiali me lo nascondevano quasi completamente, ma vidi che era magro e molto alto. Le nostre guardie non si erano ancora mosse, e questo mi fece capire che uno dei due ufficiali era il capitano menzionato in precedenza. Continuai a guardare: volevo che si spostassero ancora, permettendomi di vedere meglio il loro superiore. Dopo un po' si mossero, e dopo qualche momento, lui avanzò di un passo. Dapprima non potei capire se era solo uno scherzo della luce e delle ombre... Ma no! Si mosse ancora, e lo vidi chiaramente, per un attimo. Era privo del braccio destro, tranciato poco sotto il gomito. Era avvolto in bende così pesanti da indurmi a pensare che la mutilazione fosse molto recente. Poi la mano sinistra compì un movimento verso il basso, si fermò ad una certa distanza dal corpo. Nello stesso istante, il moncherino si agitò, e qualcosa fremette in fondo alla mia mente. Aveva i capelli lunghi, lisci e bruni, e la mascella sporgente... Poi uscì, e la brezza agitò il suo mantello, lo fece sventolare verso destra. Vidi che aveva la camicia gialla, i calzoni marroni. Il mantello era di un arancione fiammeggiante; e lui ne afferrò l'orlo con un movimento assurdamente rapido della mano sinistra, lo tirò per coprire il moncherino. Mi alzai di scatto, e lui girò la testa verso di me. I nostri sguardi s'incontrarono: rimanemmo immobili, per la durata di parecchi battiti del cuore. I due ufficiali si voltarono a guardare, e poi lui li spinse da parte e si av-
viò a grandi passi verso di me. Sentii Ganelon grugnire e alzarsi in piedi bruscamente. Anche le nostre guardie erano sbalordite. Si fermò a qualche passo da me, e mi guardò con gli occhi nocciola. Sorrideva di rado, ma questa volta sfoggiò un lieve sorriso. «Venite con me,» disse, e si girò verso la sua tenda. Lo seguimmo, lasciando la nostra roba dov'era. Lui congedò i due ufficiali con un'occhiata, si fermò accanto all'ingresso della tenda e ci accennò di entrare. Poi ci seguì, e si lasciò ricadere il telo alle spalle. Il suo sguardo corse sulla branda, il tavolino, le panche, le armi, la cassa. Sul tavolo c'era una lampada a olio, libri, mappe, una bottiglia e alcune tazze. Un'altra lampada lingueggiava sulla cassa. Mi strinse la mano e sorrise di nuovo. «Corwin,» disse. «Ancora vivo.» «Benedict,» dissi, sorridendo a mia volta. «E ancora in piedi. È passato tanto tempo.» «Davvero. Chi è il tuo amico?» «Si chiama Ganelon.» «Ganelon,» disse Benedict, rivolgendogli un cenno con il capo, ma senza tendergli la mano. Poi si accostò al tavolo e riempì di vino tre tazze. Ne porse una a me, un'altra a Ganelon, e alzò la terza. «Alla tua salute, fratello,» disse. «Alla tua.» Bevemmo. Poi: «Sedetevi,» disse lui, indicando una panca e sedendosi a tavola. «E benvenuti ad Avalon.» «Grazie... Protettore.» Benedict fece una smorfia. «Non è un soprannome immeritato,» disse seccamente, continuando a scrutarmi in volto. «Chissà se il loro precedente protettore poteva dire altrettanto?» «Non si trattava dello stesso luogo,» dissi io. «E credo che potesse affermarlo.» Lui scrollò le spalle. «Naturalmente,» disse. «Ma basta! Dove sei stato? Che cos'hai fatto? Perché sei venuto qui? Parlami di te. È passato tanto tempo.» Annuii. Era una sfortuna, ma l'etichetta familiare e l'equilibrio delle forze mi imponevano di rispondere alle sue domande prima di fargliene a mia
volta. Era più anziano di me ed io, sebbene inconsapevolmente, mi ero intrufolato nella sua sfera d'influenza. Non rimpiangevo di dovergli quella cortesia. Era uno dei pochissimi parenti che rispettavo, e provavo addirittura simpatia per lui. Ma smaniavo dalla voglia di interrogarlo. Come aveva detto lui, era passato troppo tempo. E cosa dovevo dirgli, adesso? Non sapevo da che parte stava. Non desideravo scoprire le ragioni del suo autoesìlio da Ambra con qualche allusione sbagliata. Avrei dovuto incominciare con qualche frase inoffensiva, e sondarlo via via. «Deve pure esserci un inizio,» disse lui. «Non mi piace la maschera dietro cui lo nascondi.» «Vi sono molti inizi,» dissi. «È difficile... Suppongo che dovrei tornare indietro e partire da lì.» Bevvi un altro sorso di vino. «Sì,» decisi. «Mi sembra la cosa più semplice... anche se solo in tempi relativamente recenti ho ricordato molte delle cose che sono accadute. «Parecchi anni dopo la sconfitta dei Cavalieri della Luna venuti da Ghenesh e dopo la tua partenza, io ed Eric avemmo un grave dissidio,» cominciai. «Sì, per la successione. Nostro padre aveva ricominciato a parlare d'abdicazione, e rifiutava ancora di nominare un successore. Naturalmente, ricominciarono le discussioni per stabilire chi di noi due aveva maggiori diritti. Naturalmente, tu ed Eric eravate entrambi più anziani di me, ma mentre Faiella, madre mia e di Eric, era diventata sua moglie dopo la morte di Clymnea...» «Basta!» gridò Benedict, battendo la mano sul tavolo, così forte da farlo scricchiolare. La lampada sobbalzò e crepitò, ma miracolosamente non si rovesciò. La falda dell'ingresso venne immediatamente spinta da parte, ed una guardia si affacciò, preoccupata. Benedict le lanciò un'occhiata, e quella si ritrasse. «Non ho nessuna intenzione di discutere le nostre rispettive origini di bastardi,» disse sottovoce Benedict. «Quel passatempo osceno fu una delle ragioni che mi spinsero ad allontanarmi dalla felicità. Ti prego, continua il tuo racconto senza troppi fronzoli.» «Sta bene,» dissi, con un colpo di tosse. «Come stavo dicendo, vi furono discussioni rabbiose. Poi una sera, non ci fermammo alle parole. Ci battemmo.» «Un duello?» «Non una cosa tanto formale. Una decisione simultanea di assassinarci a
vicenda, direi. Comunque, ci battemmo a lungo, e alla fine Eric ebbe la meglio e si accinse a polverizzarmi. A costo di alterare l'ordine cronologico del racconto, devo aggiungere che tutto questo l'ho ricordato solo circa cinque anni fa.» Benedict annuì, come se comprendesse. «Posso solo avanzare qualche congettura a proposito di quello che avvenne subito dopo che io persi conoscenza,» continuai. «Ma Eric non mi uccise. Quando mi svegliai, ero su una Terra dell'ombra, in un luogo chiamato Londra. A quel tempo dilagava un'epidemia, ed io ne ero stato colpito. Guarii senza ricordare nulla di quanto era accaduto prima che finissi a Londra. Rimasi in quel mondo dell'Ombra per secoli, cercando qualche indizio della mia identità. Viaggiai, spesso presi parte a campagne militari. Frequentai quelle università, parlai con alcuni degli uomini più sapienti, consultai medici famosi. Ma non riuscii a trovare la chiave del mio passato. Capivo di non essere come gli altri uomini, e mi sforzavo di nasconderlo. Ero furioso, perché potevo avere tutto ciò che volevo, tranne ciò che desideravo di più... la mia identità, i miei ricordi. «Passarono gli anni, ma la collera e il desiderio non passarono. Fu necessario un incidente che mi causò la frattura del cranio perché si operassero i cambiamenti che portarono al ritorno dei primi ricordi. Fu approssimativamente cinque anni fa; e la cosa più ironica è che ho buone ragioni per ritenere che fosse Eric, il responsabile dell'incidente. Flora, a quanto pareva, aveva continuato a risiedere per tutto quel tempo in quella Terra dell'Ombra, per sorvegliarmi. «Per ritornare alle mie congetture: Eric dovette fermarsi all'ultimo momento: desiderava la mia morte, ma non voleva che la si potesse ascrivere a lui. Perciò mi trasportò attraverso l'Ombra in un luogo di morte improvvisa, quasi certa... Senza dubbio per poter tornare annunciando che avevamo litigato ed io me ne ero andato. Quel giorno eravamo andati a caccia nella Foresta di Arden... noi due soli.» «Mi sembra strano,» interruppe Benedict, «che due rivali come voi avessero deciso di andare a caccia insieme, in simili circostanze.» Io bevvi un sorso di vino e sorrisi. «Forse è stato un po' più complicato di quanto ho detto,» feci. «Forse entrambi eravamo ben lieti di andare a caccia insieme... noi due soli.» «Capisco,» disse Benedict. «Quindi le vostre posizioni avrebbero potuto essere diverse?» «Be',» dissi io, «è difficile saperlo. Non credo che mi sarei spinto tanto
in là. Naturalmente, parlo oggi come oggi. La gente cambia, capisci. Allora...? Sì, forse mi sarei comportato con lui nello stesso modo. Non posso dirlo con sicurezza, ma è possibile.» Benedict annuì di nuovo, ed io provai un impulso di collera che si trasformò in divertimento. «Per fortuna, non sono tenuto a giustificare le mie motivazioni,» continuai. «Per continuare con le mie congetture, credo che da allora Eric mi abbia tenuto d'occhio; dapprima era deluso perché ero sopravvissuto, ma almeno era soddisfatto di avermi messo in condizioni di non nuocere. Si accordò con Flora perché mi sorvegliasse, e per molto tempo tutto procedette liscio. Poi, presumibilmente, nostro padre abdicò e sparì, senza che fosse stato risolto il problema della successione...» «No!» esclamò Benedict. «Non ci fu abdicazione. Scomparve, semplicemente. Una mattina, non era più nelle sue stanze. Non aveva neppure dormito nel suo letto. Non aveva lasciato messaggi. L'avevano visto entrare nell'appartamento, la sera prima, ma nessuno lo vide uscire. E per molto tempo, nemmeno questo venne giudicato strano. All'inizio, si credette semplicemente che fosse ritornato a soggiornare nell'Ombra, forse in cerca di un'altra sposa. Passò molto tempo prima che qualcuno osasse sospettare qualcosa di losco, o decidesse di considerarla una nuova forma di abdicazione.» «Questo non lo sapevo,» dissi io. «Sembra che le tue fonti d'informazione siano più qualificate delle mie.» Benedict si limitò ad annuire, e fece spuntare nella mia mente ipotesi inquietanti circa i suoi contatti con Ambra. A quanto ne sapevo io, adesso poteva essere favorevole ad Eric. «Quando sei stato là per l'ultima volta?» azzardai. «Un po' più di vent'anni fa,» mi rispose. «Ma mi tengo in contatto.» In contatto con qualcuno di cui preferiva non dirmi il nome! Senza dubbio se ne rendeva conto, mentre lo diceva, e quindi voleva che l'interpretassi come un avvertimento... o una minaccia? La mia mente turbinava. Naturalmente, lui aveva un mazzo di Arcani Maggiori. Li passai in rassegna, mentalmente, come un pazzo. Random aveva dichiarato di non sapere dove si trovava Benedict. Brand era scomparso da un pezzo. Io avevo avuto la prova che era ancora vivo, imprigionato in qualche luogo sgradevole, e non certamente in grado di fornire notizie di Ambra. Flora non poteva essere la sua informatrice, poiché fino a tempi recenti era stata virtualmente in esilio nell'Ombra. Llewella era ad Arbma. Anche Deirdre era ad Ar-
bma, e l'ultima volta che l'avevo veduta era in disgrazia presso Eric. Fiona? Julian mi aveva detto che era «da qualche parte, al sud». Ma non sapeva esattamente dove. Quindi, chi rimaneva? Lo stesso Eric, Julian, Gérard o Caine, secondo me. Potevo escludere Eric. Non avrebbe certamente comunicato i particolari della nonabdicazione di nostro padre in modo tale da permettere un'interpretazione come quella di Benedict. Julian appoggiava Eric, ma non era privo di altissime ambizioni personali. Sarebbe stato capace di passare le informazioni, se questo poteva tornargli utile. Lo stesso valeva per Caine. Gérard, d'altra parte, mi era sempre parso interessato più al bene di Ambra che all'identità di chi sedeva sul trono. Comunque, non era molto affezionato ad Eric, e una volta s'era mostrato disposto ad appoggiare me o Bleys. Credevo che avrebbe considerato le informazioni passate a Benedict come una sorta di polizza d'assicurazione in favore del regno. Sì, quasi sicuramente era uno di questi tre. Julian mi odiava, Caine non aveva per me né simpatia né antipatia, e Gérard ed io avevamo in comune molti piacevoli ricordi che risalivano alla mia infanzia. Avrei dovuto scoprire di chi si trattava e in fretta... e naturalmente Benedict non era disposto a dirmelo, poiché non conosceva le mie motivazioni attuali. Il collegamento con Ambra poteva venire usato per danneggiarmi o aiutarmi, a seconda dei suoi desideri e della persona che lo informava. Perciò per lui era una spada ed uno scudo, e mi feriva constatare che aveva scelto di mostrarmelo con tanta prontezza. Preferii pensare che la recente ferita avesse contribuito a renderlo eccezionalmente guardingo, perché non gli avevo mai dato motivo di diffidare. Tuttavia, questo mi ispirò un'eguale prudenza: ed era triste, quando si ritrovava un fratello per la prima volta dopo tanti anni. «È interessante,» dissi, facendo roteare il vino nella tazza. «In questa luce, dunque, potrebbe sembrare che tutti abbiano agito prematuramente.» «Non tutti,» disse lui. Mi sentii avvampare in volto. «Ti chiedo scusa,» dissi. Benedict annui seccamente. «Ti prego, continua il tuo racconto.» «Bene, per continuare la mia catena di ipotesi,» dissi, «quando Eric decise che il trono era rimasto vacante abbastanza a lungo, e che era venuto il momento di agire, deve aver stabilito che la mia amnesia non era sufficiente, e che sarebbe stato meglio se le mie pretese fossero tramontate definitivamente. E allora organizzò le cose in modo che io avessi un incidente, su
quella Terra dell'Ombra, un incidente che avrebbe dovuto essere fatale, ma che non lo fu.» «Come fai a saperlo? Quanto di ciò che dici è una tua convinzione non suffragata da prove?» «Flora lo ha ammesso, confessando anche la sua complicità, quando l'ho interrogata.» «Molto interessante. Continua.» «Il colpo in testa realizzò quello che neppure Sigmud Freud era stato capace di ottenere, in precedenza,» dissi. «Cominciarono a ritornare alcuni ricordi che divennero sempre più forti... soprattutto dopo che incontrai Flora ed ebbi esperienze che stimolarono la mia memoria. Riuscii a convincerla che l'avevo recuperata completamente, perciò lei mi parlò piuttosto apertamente. Poi comparve Random, che fuggiva per sottrarsi a qualcosa...» «Fuggiva? Da che cosa? Perché?» «Da alcuni strani esseri dell'Ombra. Non ho mai saputo il perché.» «Interessante,» disse ancora Benedict, e dovetti riconoscere che aveva ragione. Ci avevo pensato spesso, nella mia cella, chiedendomi perché Random era entrato in scena inseguito dalle Furie. Dal momento in cui ci eravamo incontrati fino a quello in cui ci eravamo separati, ci eravamo trovati di continuo in qualche pericolo; io avevo avuto da pensare ai miei guai, e lui non aveva detto nulla a proposito della sua improvvisa apparizione. Certo, al momento del suo arrivo mi era passato per la mente, ma non sapevo se si trattava di qualcosa di cui avrei dovuto essere a conoscenza, e avevo lasciato stare. Poi gli eventi avevano travolto ogni cosa, fino a quando mi ero ritrovato chiuso nella mia cella, e poi di nuovo, in quel momento. Interessante? Sì. E inquietante. «Riuscii ad ingannare Random circa le mie condizioni,» continuai. «Lui credeva che volessi il trono, quando in realtà stavo cercando di recuperare la memoria. Accettò di aiutarmi a ritornare ad Ambra, e ci riuscì. Be', quasi,» mi corressi. «Finimmo ad Arbma. Ormai, avevo rivelato a Random la verità sulle mie condizioni, e lui mi propose di ripercorrere di nuovo il Disegno per recuperare interamente la memoria. Era la mia occasione, e ne approfittai. Risultò efficace, e io usai il potere del Disegno per trasportarmi ad Ambra.» Benedict sorrise. «A questo punto, Random dovette sentirsi molto infelice,» disse. «Non cantava di gioia, se è per questo,» dissi io. «Aveva accettato il
giudizio di Moire, che gli aveva imposto di sposare una donna da lei scelta, una fanciulla cieca di nome Vialle, e di rimanere là con lei per un anno almeno. Lo lasciai ad Arbma, e più tardi venni a sapere ciò che aveva fatto. C'era anche Deirdre, ad Arbma. L'avevamo incontrata lungo la via: fuggiva da Ambra, e tutti e tre eravamo entrati in Arbma insieme. Anche lei vi rimase.» Finii il vino e Benedict mi indicò la bottiglia. Ma era quasi vuota, perciò andò a prenderne una intatta dalla cassa, e riempimmo di nuovo le tazze. Bevvi un lungo sorso. Era un vino migliore dell'altro: doveva appartenere alla sua riserva privata. «Nel palazzo,» continuai, «arrivai in biblioteca, e mi procurai un mazzo di Trionfi. Era la ragione principale per cui c'ero andato. Venni sorpreso da Eric prima che potessi fare di più; ci battemmo, lì nella biblioteca. Riuscii a ferirlo e credo che avrei potuto finirlo. Ma poi sopraggiunsero i rinforzi e fui costretto a fuggire. Mi misi in contatto con Bleys, che mi aiutò a raggiungerlo nell'Ombra. Il resto, forse, lo avrai saputo dai tuoi informatori. Io e Bleys ci alleammo, attaccammo Ambra e perdemmo. Lui precipitò dalle pendici del Kolvir; gli gettai i miei Trionfi e lui li afferrò. So che il suo corpo non è mai stato ritrovato. Ma era un bel salto... anche se credo che in quel momento vi fosse l'alta marea. Non so se quel giorno morì o no.» «Non lo so neppure io,» disse Benedict. «Venni imprigionato, ed Eric s'incoronò. Fui costretto ad assistere alla cerimonia, nonostante la resistenza da parte mia. Riuscii a incoronare me stesso prima che quel bastardo — genealogicamente parlando — riprendesse la corona e se la piazzasse sulla testa. Poi mi fece accecare e gettare nella segreta.» Benedict si sporse verso di me e mi scrutò. «Sì,» disse. «Questo l'avevo sentito. Come avvenne?» «Ferri roventi,» dissi, rabbrividendo involontariamente e reprimendo l'impulso di coprirmi gli occhi. «Svenni, durante il trattamento.» «Vi fu un effettivo contatto con i globi oculari?» «Sì,» dissi io. «Credo.» «E quanto tempo ha richiesto la rigenerazione?» «Sono passati quasi quattro anni, prima che potessi vedere di nuovo,» dissi. «E solo adesso la mia vista sta ritornando normale. Quindi... in tutto cinque anni, direi.» Benedict sospirò e sorrise lievemente.
«Bene,» disse. «Mi hai dato una piccola speranza. Altri di noi hanno perduto parti del loro organismo e hanno realizzato la rigenerazione, naturalmente; ma io non avevo mai perduto nulla d'importante... fino ad ora.» «Oh, sì,» dissi. «Una documentazione impressionante. L'ho esaminata e riesaminata per anni. Cose dimenticate da tutti, eccettuati i diretti interessati e me: polpastrelli, dita dei piedi, lobi delle orecchie. Direi che ci sono speranze per il tuo braccio. Tra molto tempo, naturalmente. «È un bene che tu sia ambidestro,» aggiunsi. Il suo sorriso si accese e si spense; bevve un sorso di vino. No, non era disposto a dirmi cosa gli era accaduto. Anch'io bevvi un altro sorso. Non volevo parlargli di Dworkin. Volevo tenere Dworkin di riserva, come un asso nella manica. Nessuno di noi conosceva i veri poteri di quell'uomo, che del resto era evidentemente pazzo. Ma lo si poteva manovrare. Persino mio padre, a quanto pareva, aveva finito per aver paura di lui, dopo un certo tempo, e l'aveva fatto rinchiudere. Era questo che mi aveva riferito, nella mia cella? Che mio padre l'aveva imprigionato, quando aveva scoperto un mezzo per distruggere Ambra. Se non si trattava del delirio d'uno psicopatico e se era la vera ragione per cui era finito dov'era finito, allora mio padre era stato molto più generoso di quanto sarei stato io. Quell'uomo era troppo pericoloso per lasciarlo vivere. D'altra parte, mio padre aveva cercato di guarirlo. Dworkin aveva parlato di medici, di uomini che lui aveva spaventato o annientato volgendo contro di loro i suoi poteri. Lo ricordavo soprattutto come un vecchio mite e saggio, devoto a mio padre e al resto della famiglia. Sarebbe stato difficile eliminare a cuor leggero uno come lui, se c'era qualche speranza. Era stato rinchiuso in quella che sarebbe dovuta essere una prigione sicura. Eppure, quando un bel giorno s'era stancato, se n'era andato, semplicemente. Nessuno può attraversare l'Ombra, ad Ambra, che è l'assenza dell'Ombra; perciò lui aveva fatto qualcosa che non comprendevo, qualcosa che riguardava il principio fondamentale dei Trionfi, ed aveva lasciato la sua prigione. Prima che vi ritornasse, ero riuscito a convincerlo a fornirmi un'analoga via d'uscita dalla mia cella, che mi aveva trasportato al faro di Cabra, dove mi ero un po' ripreso; e poi avevo intrapreso il viaggio che mi aveva portato a Lorraine. Molto probabilmente, Dworkin non era stato ancora scoperto. Secondo la mia opinione, la nostra famiglia aveva sempre posseduto speciali poteri; ma era luì che li analizzava e ne formalizzava le funzioni per mezzo del Disegno e dei Tarocchi. Spesso aveva cercato di discuterne, ma a noi era sembrato spaventosamente astratto e tedioso. Noi siamo una
famiglia molto pratica, dannazione! Brand era l'unico che sembrava dimostrare qualche interesse per quell'argomento. E Fiona. Io avevo quasi dimenticato. Talvolta Fiona ascoltava. E nostro padre. Nostro padre sapeva moltissime cose di cui non parlava mai. Non aveva mai molto tempo da dedicarci, e c'erano tante cose che non sapevamo, di lui. Ma probabilmente conosceva quei principi non meno di Dworkin. La differenza principale, tra loro, stava nell'applicazione. Dworkin era un artista. Non so esattamente cosa fosse mio padre. Non incoraggiava la confidenza, sebbene non fosse un cattivo padre. Ogni volta che si accorgeva di noi, era prodigo di doni e di svaghi. Ma lasciava il compito di educarci ai vari membri della sua corte. Ci tollerava, credo, come conseguenze inevitabili delle sue passioni. Per la verità, mi stupisce che la nostra famiglia non fosse molto più numerosa. Noi tredici, più due fratelli ed una sorella che erano morti, rappresentavamo quasi millecinquecento anni di attività riproduttiva. E c'erano stati altri di cui avevo sentito parlare, venuti molto prima di noi, e che non erano sopravvissuti. Non era una media straordinaria per un sovrano tanto concupiscente; ma nessuno di noi era risultato eccessivamente fecondo. Non appena eravamo in grado di arrangiarci da soli e di avventurarci nell'Ombra, nostro padre ci incoraggiava a farlo, per trovare luoghi dove avremmo potuto sistemarci ed essere felici. Questa era la mia relazione con l'Avalon che non c'è più. A quanto sapevo io, le origini di mio padre erano note solo a lui stesso. Non avevo mai conosciuto nessuno i cui ricordi risalissero ad un tempo in cui Oberon non esisteva. Strano? Non sapere da dove proviene il proprio padre, quando si hanno a disposizione secoli per cercare di soddisfare questa curiosità? Sì. Ma lui era astuto, potente, geloso dei suoi segreti... caratteristiche che tutti noi avevamo, in qualche misura. Voleva vederci ben sistemati e soddisfatti, credo... ma mai così dotati da rappresentare una minaccia per il suo regno. C'era in lui, lo sentivo, un disagio, un senso giustificato di cautela, il timore che venissimo a sapere troppo di lui e dei tempi passati. Non credo che avesse mai pensato seriamente ad un tempo in cui non avrebbe più regnato ad Ambra. Qualche volta, scherzosamente o cupamente, parlava di abdicare. Ma avevo sempre pensato che fosse una cosa calcolata, per vedere quali reazioni avrebbe provocato. Doveva rendersi conto della situazione che avrebbe prodotto la sua fine, ma rifiutava di credere che quell'eventualità si realizzasse. E nessuno di noi conosceva veramente tutti i suoi doveri e le sue responsabilità, i suoi impegni segreti. Per quanto giudicassi spiacevole l'ammissione, cominciavo a pensare che nessuno di noi fosse veramente idoneo ad occupare
il trono. Mi sarebbe piaciuto darne la colpa a mio padre, ma purtroppo avevo frequentato Freud troppo a lungo per non sentirmi turbato a questo riguardo. E poi, ora cominciavo a dubitare della validità delle nostre pretese. Se non c'era stata un'abdicazione e se nostro padre era ancora vivo, allora il massimo che potevamo sperare era la reggenza. Non sarei stato entusiasta dell'idea di sedere sul trono, se lui fosse tornato e avesse scoperto come stavano le cose. Siamo sinceri: avevo paura di lui, e non a torto. Solo uno sciocco non teme un potere autentico che non può capire. Ma i miei diritti al titolo di re o di reggente erano maggiori di quelli di Eric, ed ero ancora deciso ad assicurarmelo. Se un potere uscito dal passato tenebroso di mio padre, che nessuno di noi poteva veramente comprendere, serviva ad ottenerlo, e se Dworkin rappresentava quel potere, allora doveva restare nascosto fino a che avrei potuto servirmi di lui. Anche se il potere che rappresentava, mi chiesi, era il potere di distruggere la stessa Ambra, e di annientare insieme ad essa i mondi dell'Ombra, di sovvertire l'esistenza? Specialmente in quel caso, mi dissi. A chi altro poteva venire affidato un simile potere? Noi siamo veramente una famiglia molto pratica. Ancora un po' di vino; poi estrassi la pipa, la pulii, la ricaricai. «Questa, sostanzialmente, è la mia storia,» dissi, alzandomi per accendere la pipa alla lampada. «Dopo aver recuperato la vista, sono riuscito ad evadere; ho lasciato Ambra, sono rimasto per qualche tempo in un luogo chiamato Lorraine, dove ho incontrato Ganelon; e poi sono venuto qui.» «Perché?» Tornai a sedermi e guardai Benedict. «Perché è vicina all'Avalon che io conoscevo un tempo,» dissi. Mi ero astenuto volutamente dall'accennare ai miei precedenti rapporti con Ganelon, e mi auguravo che lui lo capisse. Quest'ombra era abbastanza vicina alla nostra Avalon perché Ganelon ne conoscesse la topografia e quasi tutte le usanze. Per quel che poteva contare, mi pareva buona politica nascondere a Benedict queste informazioni. Lui sorvolò, come avevo previsto, lasciando la cosa sepolta dov'era, accanto ad altri scavi più interessanti. «E la tua fuga?» chiese. «Come ci sei riuscito?» «Sono stato aiutato, naturalmente,» ammisi. «Per uscire dalla cella. Una volta uscito... Be', vi sono ancora alcuni passaggi che Eric non conosce.» «Capisco,» disse Benedict, annuendo... sperava, naturalmente, che fa-
cessi i nomi dei miei alleati, ma sapeva che non era il caso di chiedermeli. Trassi uno sbuffo di fumo dalla pipa e sorrisi. «È bello avere amici,» disse lui, come confermando un mio pensiero inespresso. «Credo che ognuno di noi ne abbia alcuni, in Ambra.» «Mi piace crederlo,» disse lui. Poi: «Mi risulta che tu abbia lasciato la porta parzialmente scassinata ancora chiusa, abbia dato fuoco al pagliericcio, ed abbia disegnato immagini sulla parete.» «Sì,» dissi io. «La reclusione prolungata influisce sulla mente di un uomo. Almeno, ha influito sulla mia. So che durante lunghi periodi non ero razionale.» «Non t'invidio questa esperienza, fratello,» disse Benedict. «Per nulla. E adesso che progetti hai?» «Sono ancora incerto.» «Credi che ti piacerebbe restare qui?» «Non lo so,» dissi. «Com'è la situazione?» «Comando io,» disse... una semplice constatazione, non una vanteria. «Credo di essere riuscito ad annientare l'unico grande pericolo per il regno. Se non m'inganno, dovrebbe aprirsi un periodo ragionevolmente tranquillo. Il prezzo da pagare è stato alto...» Diede un'occhiata a ciò che restava del suo braccio. «Ma ne sarà valsa la pena, quando tra poco tutto ritornerà normale.» Poi passò a riferirmi la situazione, sostanzialmente simile a quella descritta dal giovane disertore; e disse come avevano vinto la battaglia. La comandante delle figlie dell'Inferno era stata uccisa, e le sue amazzoni erano fuggite. Quasi tutte erano state massacrate, e poi le caverne erano state nuovamente bloccate. Benedict aveva deciso di mantenere un piccolo contingente sul campo per effettuare gli ultimi rastrellamenti, mentre i suoi esploratori battevano la zona alla ricerca delle superstiti. Non accennò al suo incontro con la comandante delle nemiche, Lintra. «Chi ha ucciso il loro capo?» domandai. «Io,» disse Benedict, facendo un movimento improvviso con il moncherino. «Anche se ho esitato un momento di troppo a sferrare il primo colpo.» Distolsi gli occhi, e Ganelon fece altrettanto. Quando tornai a guardare mio fratello, il suo volto era ridivenuto normale, ed aveva abbassato il braccio. «Ti abbiamo cercato. Lo sapevi, Corwin?» chiese. «Brand ha tentato di
ritrovarti in molte Ombre, ed anche Gérard. Tu hai intuito esattamente ciò che disse Eric dopo la tua scomparsa, quel giorno. Noi, tuttavia, eravamo propensi a dubitare della sua parola. Provammo parecchie volte con il tuo Trionfo, ma senza ottenere risposta. Può darsi che la lesione cerebrale impedisse la comunicazione. È interessante. Il fatto che tu non potessi rispondere al Trionfo e che noi ti credessimo morto. Poi Julian, Caine e Random parteciparono anch'essi alle ricerche.» «Tutti? Davvero? Mi sorprende.» Benedict sorrise. «Oh,» dissi io; e sorrisi anch'io. La loro partecipazione alle ricerche, a quel punto, significava che non si preoccupavano per me, ma della possibilità di procurarsi le prove del fratricidio da usare contro Eric, per spodestarlo o ricattarlo. «Io ti cercai nelle vicinanze di Avalon,» continuò lui. «E trovai questo luogo; ne fui colpito. Era in condizioni terribili, a quei tempi, e per molte generazioni mi adoperai per restituirlo al suo antico splendore. Sebbene avessi cominciato a farlo in tua memoria, finii per affezionarmi a questa terra ed alla sua gente. Tutti finirono per considerarmi il loro protettore, e anch'io feci lo stesso.» Queste parole mi commossero e mi turbarono. Voleva farmi capire che io avevo combinato un terribile guaio, e lui aveva indugiato lì per sistemare tutto... per rimediare un'ultima volta ai disastri del fratellino? Oppure intendeva dire di aver compreso che io avevo amato quel luogo — o un luogo molto simile — e che si era adoperato per rimetterlo in ordine perché io l'avrei desiderato? Forse stavo diventando ipersensibile. «È bello sapere che mi stavate cercando,» dissi. «E ancora più bello sapere che tu sei il difensore di questa terra. Mi piacerebbe vedere questo luogo, poiché mi ricorda l'Avalon che io conoscevo. Avresti obiezioni ad una mia visita?» «È tutto quello che vuoi? Compiere una visita?» «È tutto quello che avevo in mente.» «E allora sappi che l'ombra di te stesso che un tempo regnava qui non ha lasciato buoni ricordi. In questo luogo, nessuno dà ad un bambino il nome di Corwin; e qui io non sono fratello di Corwin.» «Capisco,» dissi. «Il mio nome è Corey. Possiamo essere vecchi amici?» Benedict annuì. «I miei vecchi amici sono sempre benvenuti, qui,» disse. Sorrisi ed annuii. Mi offendeva il fatto che lui pensasse che avevo qual-
che mira su quell'ombra di un'ombra; io che, fosse pure per un istante, avevo sentito sulla mia fronte il freddo fuoco della corona d'Ambra. Mi chiesi quale sarebbe stato il suo atteggiamento se avesse conosciuto la mia responsabilità per quanto riguardava l'invasione. Del resto, suppongo, ero responsabile anche della perdita del suo braccio. Tuttavia, preferivo fare un passo indietro, e ritenerne responsabile Eric. Dopotutto, era stata la sua azione a provocare la mia maledizione. Comunque, speravo che Benedict non lo scoprisse mai. Tenevo moltissimo a sapere quale era la sua posizione nei confronti di Eric. Lo avrebbe appoggiato, si sarebbe schierato dalla mia parte, oppure si sarebbe limitato a restare in disparte mentre io compivo la mia mossa? Ero certo che a sua volta si domandava se le mie ambizioni erano spente o covavano come brace sotto la cenere, e in quest'ultimo caso, quali erano i miei piani per realizzarle. Quindi... Chi dei due avrebbe affrontato l'argomento? Trassi qualche sbuffo di fumo dalla mia pipa, finii il vino, me ne versai dell'altro, fumai ancora. Ascoltai i suoni del campo, del vento, del mio stomaco... Benedict bevve un sorso di vino. Poi: «Quali sono i tuoi piani a lungo termine?» mi chiese, quasi distrattamente. Avrei potuto dire che non avevo ancora deciso, che ero semplicemente felice di essere vivo e libero e di aver riacquistato la vista... Avrei potuto dirgli che per il momento questo mi bastava, che non avevo piani particolari... ... E lui avrebbe capito che mentivo spudoratamente. Perché mi conosceva molto bene. Perciò: «Tu sai benissimo quali sono i miei piani,» dissi. «Se hai intenzione di chiedere il mio appoggio,» disse lui, «te lo negherò. Ambra è già abbastanza malridotta anche senza un'altra presa di potere.» «Eric è un usurpatore.» «Io preferisco considerarlo soltanto un reggente. A questo punto, chiunque di noi pretendesse al trono sarebbe colpevole di usurpazione.» «Allora credi che nostro padre sia ancora vivo?» «Sì. Vivo e angosciato. Ha compiuto diversi tentativi di comunicare.» Riuscii ad evitare che il mio volto tradisse qualche espressione. Dunque non ero stato il solo. A questo punto, rivelare le mie esperienze sarebbe
apparsa un'ipocrisia, un gesto opportunistico, oppure una menzogna... poiché nel nostro apparente colloquio di cinque anni prima mi aveva dato via libera al trono. Naturalmente, forse allora aveva alluso soltanto a una reggenza... «Non hai appoggiato Eric quando prese il trono,» dissi. «Lo aiuteresti adesso, se venisse effettuato un tentativo di spodestarlo?» «È come ho detto,» rispose Benedict. «Lo considero il reggente. Non dico di approvare tutto questo, ma non voglio altre lotte in Ambra.» «Allora lo appoggeresti?» «Ho detto tutto ciò che ho da dire al riguardo. Sei il benvenuto, se vuoi visitare la mia Avalon; ma non puoi usarla come base per preparare l'invasione di Ambra. Questo chiarisce la situazione riguardo ai tuoi progetti?» «Sì,» dissi io. «E in questo caso, desideri egualmente visitare questa Avalon?» «Non lo so,» dissi. «Il tuo desiderio di evitare altre lotte in Ambra vale in entrambe le direzioni?» «Cosa intendi dire?» «Intendo dire che se io fossi riportato ad Ambra contro la mia volontà, provocherei tutte le lotte possibili per evitare il riptersi di quanto mi è già accaduto.» Il volto di Benedict si distese; abbassò lentamente gli occhi. «Non intendevo sottintendere che ti tradirei. Mi credi senza cuore, Corwin? Non vorrei vederti di nuovo imprigionato, accecato... o peggio. Sei sempre il benvenuto, qui, e puoi lasciare al confine le tue paure, insieme alle tue ambizioni.» «Allora mi piacerebbe comunque visitare questo luogo,» dissi. «Non ho un esercito, e non sono venuto qui per reclutarlo.» «Allora sai di essere il benvenuto.» «Grazie, Benedict. Sebbene non mi aspettassi di trovarti qui, sono lieto di averti incontrato.» Lui arrossì leggermente e annuì. «Fa piacere anche a me,» disse. «Sono il primo della famiglia che tu hai visto... dopo la tua fuga?» Annuii. «Sì, e sono curioso di sapere come stanno tutti. C'è qualche notizia importante?» «Nessuna morte,» disse lui. Ridemmo entrambi, e io compresi che avrei dovuto scoprire da solo i
pettegolezzi di famiglia. Comunque, era valsa la pena di tentare. «Ho intenzione di continuare la campagna per qualche tempo,» disse Benedict, «e di proseguire il pattugliamento fino a quando avrò la certezza che degli invasori non è rimasto più nessuno. Potrebbe passare ancora una settimana, prima che ci ritiriamo.» «Oh? Allora non è stata una vittoria totale?» «Io credo di sì, ma non corro mai rischi inutili. Val la pena di impiegare un po' di tempo per assicurarmene.» «Sei prudente,» dissi, con un cenno del capo. «... Quindi, a meno che tu tenga moltissimo a restare qui all'accampamento, non vedo perché non dovresti procedere verso la città, per vedere qualcosa d'interessante. Io ho parecchie residenze sparse per Avalon. Stavo pensando di assegnarti un piccolo maniero che mi sembra simpatico. Non è lontano dalla città.» «Sono ansioso di vederlo.» «Domattina ti darò una mappa ed una lettera per il mio intendente.» «Grazie, Benedict.» «Ti raggiungerò non appena avrò finito qui,» disse lui. «Nel frattempo, ho messaggeri che passano tutti i giorni da quelle parti. Mi terrò in contatto con te per mezzo loro.» «Molto bene.» «Allora trovatevi un angoletto comodo,» disse lui. «Sono sicuro che sentirete l'annuncio della colazione.» «Mi sfugge molto di rado,» dissi io. «Possiamo dormire dove abbiamo lasciato la nostra roba?» «Certamente,» disse Benedict, e finimmo il vino. Quando uscimmo dalla tenda, sollevai in alto il telo, aprendolo, e lo spinsi parecchi centimetri a lato, quando lo gettai davanti a me. Benedict ci augurò la buonanotte e si voltò mentre lasciava ricadere il telo, senza notare il varco che avevo creato lateralmente. Mi preparai il letto ad una certa distanza dalla nostra roba, sulla destra, tenendomi in direzione della tenda di Benedict, e spostai anche i nostri zaini, mentre vi frugavo. Ganelon mi lanciò un'occhiata interrogativa, ma io mi limitai a chinare il capo e indicai con gli occhi la tenda. Ganelon sbirciò da quella parte, ricambiò il cenno, e cominciò a stendere le sue coperte ancora più a destra. Misurai con gli occhi, mi avvicinai e dissi: «Sai, preferirei dormire qui. Ti spiacerebbe se ci scambiassimo i posti?» E aggiunsi una strizzata d'oc-
chio, per farmi capire meglio. «Per me è lo stesso,» rispose Ganelon con una scrollata di spalle. I fuochi si erano spenti o si stavano spegnendo, e quasi tutti i soldati si erano addormentati. Le guardie ci degnarono appena di un'occhiata. Nell'accampamento c'era un gran silenzio, e non c'erano nubi che offuscassero lo splendore delle stelle. Ero stanco e gli odori del fumo e della terra umida mi giungevano graditi alle narici, ricordandomi altri tempi ed altri luoghi come quello, ed il riposo al termine della giornata. Invece di chiudere gli occhi, tuttavia, presi il mio zaino e vi appoggiai la schiena, riempii di nuovo la pipa e l'accesi. Cambiai posizione due volte, mentre Benedict camminava avanti e indietro dentro la tenda. Una volta sparì alla mia vista, e rimase nascosto per parecchi minuti. Ma poi la luce si mosse, e compresi che aveva aperto la cassa. Poi ricomparve e sgombrò il tavolo, tornò indietro per un momento, riapparve e sedette di nuovo nella posizione precedente. Mi mossi per poter tener d'occhio il suo braccio sinistro. Stava sfogliando un libro, o qualcosa delle stesse dimensioni. Carte, forse? Naturalmente. Avrei dato molto per poter vedere il Trionfo che scelse e mise davanti a sé. Avrei dato molto per avere Grayswandir a portata di mano, nel caso che un'altra persona fosse entrata nella tenda senza passare dall'ingresso che io spiavo. Mi sentivo un formicolio nella palme delle mani, nell'anticipazione della fuga o del combattimento. Ma Benedict rimase solo. Rimase seduto immobile per circa un quarto d'ora, e quando finalmente si mosse, fu solo per rimettere le carte nella cassa e spegnere la lampada. La guardia tornò, nel suo giro monotono, e Ganelon cominciò a russare. Vuotai la pipa e mi girai sul fianco. Domani, mi dissi. Se mi sveglio qui, domani, andrà tutto bene... 5 Succhiavo un filo d'erba e guardavo girare la ruota del mulino. Ero sdraiato sul ventre, dall'altra parte del ruscello, con la testa appoggiata alle mani. C'era un minuscolo arcobaleno nel pulviscolo che si levava sopra la spuma ribollente ai piedi della cascata, e di tanto in tanto qualche goccia arrivava fino a me. Lo scroscio incessante e il cigolio della ruota sommer-
gevano tutti gli altri rumori nel bosco. Il mulino era deserto, ed io lo contemplavo perché da secoli non avevo visto nulla di simile. Guardare la ruota e ascoltare l'acqua non era soltanto riposante. Era quasi ipnotico. Eravamo arrivati da tre giorni nella casa di Benedict, e Ganelon se ne era andato in città, a divertirsi. Il giorno prima l'avevo accompagnato, e avevo scoperto quello che volevo sapere. Adesso non avevo più tempo per fare il turista. Dovevo pensare ed agire in fretta. Non c'erano state difficoltà, al campo. Benedict aveva ordinato di darci da mangiare, e ci aveva consegnato la mappa e la lettera che aveva promesso. Eravamo partiti al levar del sole ed eravamo arrivati al maniero verso mezzogiorno. Eravamo stati accolti con tutte le premure e, dopo esserci sistemati nei nostri alloggi, eravamo andati in città, dove avevamo trascorso il resto della giornata. Benedict aveva intenzione di rimanere al campo ancora per diversi giorni. Avrei dovuto terminare il compito che mi ero proposto, prima del suo ritorno. Quindi dovevo sbrigarmi. Non c'era tempo per i viaggi tranquilli. Dovevo ricordare esattamente le ombre e mettermi presto in movimento. Sarebbe stato riposante, trovarmi in quel luogo tanto simile alla mia Avalon: ma ero praticamente ossessionato dai miei piani. Tuttavia, rendermi conto della situazione non significava che fossi in grado di controllarla. I panorami ed i suoni che ricordavo mi avevano distratto solo per poco tempo: poi ero ritornato ad occuparmi dei miei progetti. Come la vedevo io, doveva funzionare alla perfezione. Quel viaggio doveva risolvere due dei miei problèmi, se fossi riuscito a compierlo senza destare sospetti. Sarei sparito da un giorno all'altro; ma questo l'avevo previsto, e avevo dato istruzioni a Ganelon perché mi coprisse. La testa mi ciondolava ad ogni scricchiolio della ruota, ma scacciai ogni altro pensiero dalla mia mente, m'impegnai a ricordare la consistenza della sabbia, il suo colore, la temperatura, i venti, il sentore salmastro nell'aria, le nubi... Poi dormii e sognai, ma non sognai il luogo che cercavo. Vidi una grande ruota di roulette, e sopra c'eravamo tutti — i miei fratelli, le mie sorelle, me, ed altri che conoscevo o avevo conosciuto — e salivamo e scendevamo, e ciascuno aveva la sua sezione. Tutti gridavamo perché si fermasse, e gemevamo quando superavamo il culmine e cominciavamo a ridiscendere. La ruota aveva cominciato a rallentare, ed io stavo salendo. Un giovane biondo era appeso a testa in giù davanti a me, e gridava implorazioni e avvertimenti che venivano sommersi dalla cacofonia delle voci. Il suo viso si oscurò, si alterò, divenne una cosa orribile, ed io
tagliai la corda che gli legava la caviglia, e lui cadde e scomparve. La ruota rallentò ancora di più mentre mi avvicinavo al culmine, e allora vidi Lorraine. Mi rivolgeva gesti frenetici e mi chiamava per nome. Mi tesi verso di lei: la vedevo chiaramente, la volevo, volevo aiutarla. Ma scomparve, quando la ruota continuò a girare. «Corwin!» Cercai di ignorare il suo grido, perché ero quasi in cima. Il grido si ripeté, ma io mi tesi e mi accinsi a spiccare un balzo verso l'alto. Se non si fosse fermata per me, avrei tentato di bloccare quella maledetta ruota, anche se una caduta avrebbe significato la rovina totale. Mi preparai al balzo. Un altro scatto... «Corwin!» Il grido si disperse, ritornò, svanì, ed io stavo guardando di nuovo la ruota del mulino, mentre il mio nome mi echeggiava nelle orecchie e si mescolava e si disperdeva nel mormorio del ruscello. Sbattei le palpebre e mi passai le dita tra i capelli. Quando lo feci, innumerevoli pappi di dente di leone mi caddero sulle spalle, e in quell'istante sentii una risatina dietro di me. Mi affrettai a voltarmi e spalancai gli occhi. Lei stava ad una dozzina di passi da me; era una giovane donna alta, snella, con gli occhi scuri ed i capelli bruni, cortissimi. Portava un corsetto da schermitore e teneva un fioretto nella destra, una maschera nella sinistra. Mi guardava e rideva. Aveva i denti bianchissimi, regolari e un po' lunghi; una fascia di lentiggini le attraversava il nasetto e la parte superiore delle guance abbronzate. Aveva quell'aria di vitalità che attrae in modo diverso dall'avvenenza. Soprattutto, forse, quando viene osservata dall'alto di tanti anni. Lei mi salutò con il fioretto. «En garde, Corwin!» disse. «Chi diavolo sei?» chiesi, e in quel momento notai un corsetto, una maschera ed un fioretto accanto a me, sull'erba. «Niente domande, niente risposte,» disse lei. «Prima dobbiamo batterci.» Poi mise la maschera e attese. Mi alzai e presi il corsetto. Capivo che sarebbe stato più facile battermi che discutere con lei. Mi turbava il fatto che conoscesse il mio nome, e più ci pensavo e più mi sembrava vagamente di conoscerla. Era meglio assecondarla, decisi, mentre infilavo il corsetto e l'allacciavo.
Raccattai il fioretto, misi la maschera. «Sta bene,» dissi, abbozzando un breve saluto e avanzando. «Sta bene.» Poi lei venne avanti, e incominciammo. Lasciai che fosse lei ad attaccare. Attaccò molto rapidamente, con una battuta, una finta, una finta, un affondo. La mia risposta fu due volte più rapida, ma lei riuscì a pararla, e tornò ad attaccare con identica velocità. Poi cominciai a indietreggiare lentamente, per sbilanciarla. Lei rise e venne avanti, incalzandomi. Era formidabile e lo sapeva. Ci teneva a sfoggiare la sua bravura. Per due volte riuscì quasi a colpirmi, sempre allo stesso modo — un attacco in basso — e questo non mi piacque affatto. Appena potei, la bloccai con un arrestoaffondo. Lei imprecò sommessamente, gaiamente, e tornò ad attaccare. Di solito non mi piace tirar di scherma con le donne, per quanto siano abili; ma questa volta mi accorsi che mi divertivo. La bravura e la grazia con cui portava gli attacchi e li sosteneva mi davano piacere, e mi trovai a contemplare la mente che ispirava quello stile. All'inizio, avevo pensato di stancarla rapidamente, per concludere lo scontro e interrogarla. Ma adesso desideravo prolungare quel combattimento. Lei non si stancò presto. Non avevo motivo di preoccuparmi, per quello. Persi la nozione del tempo mentre ci muovevamo avanti e indietro lungo la riva del ruscello, e le nostre lame ticchettavano continuamente. Dovette trascorrere molto tempo, comunque, prima che lei battesse il piede e levasse il fioretto per un ultimo saluto. Poi si tolse la maschera e mi rivolse un altro sorriso. «Grazie,» disse, ansimando. Ricambiai il saluto e mi tolsi anch'io la maschera. Mi girai per slacciarmi le fibbie del corsetto, e prima che me ne accorgessi, lei si era avvicinata e mi aveva dato un bacio sulla guancia. Non dovette alzarsi in punta di piedi per riuscirci. Mi sentii confuso, per un momento, ma sorrisi. Prima che potessi dire qualcosa, lei mi aveva preso il braccio e mi aveva fatto girare nella direzione da cui eravamo venuti. «Ho portato un cesto per il picnic,» disse. «Benissimo. Ho fame. E sono anche curioso...» «Ti dirò tutto quello che vuoi sapere,» promise lei, allegramente. «Mi diresti il tuo nome?» chiesi. «Dara,» rispose. «Mi chiamo Dara, come mia nonna.» Mi guardò, dicendolo, come se sperasse in una reazione. Quasi mi dispiacque deluderla, ma annuii e lo ripetei e poi: «Perché mi hai chiamato
Corwin?» chiesi. «Perché è il tuo nome,» disse lei. «Ti ho riconosciuto.» «E dove mi avevi visto?» Dara mi lasciò il braccio. «Ecco qui,» disse, sporgendosi dietro un albero e sollevando un cesto che stava appoggiato sulle radici scoperte. «Spero che non ci siano entrate le formiche,» disse, portandosi in un tratto ombroso in riva al ruscello e stendendo al suolo una tovaglia. Io appesi i fioretti e il resto a un vicino cespuglio. «Mi sembra che ti porti in giro parecchia roba,» osservai. «Il mio cavallo è là dietro,» disse Dara, indicando con la testa verso valle. Poi fermò la tovaglia con qualche sasso e cominciò a vuotare il cesto. «Perché l'hai lasciato là?» chiesi. «Per poterti sorprendere, naturalmente. Se avessi sentito un cavallo, ti saresti svegliato, sicuro come l'inferno.» «Probabilmente hai ragione,» dissi. Lei si fermò, come se riflettesse intensamente, poi rovinò tutto con una risatina. «Ma la prima volta non l'avevi fatto. Comunque...» «La prima volta?» chiesi io; capivo che era quel che voleva lei. «Sì. Poco fa, ti ho quasi travolto,» dissi. «Eri addormentato profondamente. Quando ho visto chi eri, sono tornata a prendere il cesto del picnic e le armi.» «Oh, capisco.» «Vieni a sederti,» disse lei. «E stappa la bottiglia, ti dispiace?» Posò la bottiglia accanto a me e tolse dalla carta due calici di cristallo, li mise al centro della tovaglia. Andai al mio posto e sedetti. «Questa è la migliore cristalleria di Benedict,» notai, mentre aprivo la bottiglia. «Sì,» disse lei. «Attento a non rovesciarli, quando versi il vino... e non credo che dovremmo farli toccare per brindare.» «No, non credo,» dissi, e versai il vino. Lei alzò il bicchiere. «Alla riunione,» disse. «Che riunione?» «La nostra.»
«Non ti ho mai incontrata prima d'ora.» «Non essere così prosaico,» disse lei, e bevve un sorso. Scrollai le spalle. «Alla riunione.» Poi incominciò a mangiare, ed io la imitai. Sembrava godere tanto dell'atmosfera di mistero da lei creata che avevo voglia di collaborare, solo per accontentarla. «Dove potrei averti incontrata?» azzardai. «È stato in una grande corte? Forse in un harem...» «Forse in Ambra,» disse Dara. «Tu eri...» «Ambra?» feci, ricordando che avevo in mano un calice di Benedict e frenando l'emozione. «Ma tu chi sei, insomma?» «... Tu eri là... bello, presuntuoso, ammirato da tutte le dame,» proseguì lei. «E c'ero anch'io, una cosettina scialba, che ti ammirava da lontano. La piccola Dara... grigia, o pastello... sbocciata in ritardo, mi affretto ad aggiungere... che si rodeva il cuore per te...» Mormorai una blanda oscenità e lei rise di nuovo. «Non era così?» chiese. «No,» dissi, addentando un altro boccone di carne e pane. «Molto più probabilmente è stato in quel postribolo dopo che mi sono lussato la spalla. Quella notte ero ubriaco...» «Lo ricordi!» esclamò lei. «Ma era un impiego a tempo parziale. Durante il giorno domavo cavalli.» «Mi arrendo,» dissi, e versai altro vino. La cosa più irritante stava nel fatto che c'era in lei un'aria maledettamente familiare. Ma a giudicare dall'aspetto e dal comportamento, calcolai che doveva avere all'incirca diciassette anni. E questo tendeva ad escludere che le nostre strade si fossero mai incontrate. «È stato Benedict a insegnarti a tirare di scherma?» le chiesi. «Sì.» «Che cos'è per te?» «Il mio amante, naturalmente,» rispose Dara. «Mi copre di gioielli e di pellicce... e tira di scherma con me.» Rise di nuovo. Io continuai a scrutarla in volto. Sì... era possibile... «Sono offeso,» dissi alla fine. «Perché?» chiese lei.
«Bendict non mi ha offerto un sigaro.» «Un sigaro?» «Tu sei sua figlia, non è vero?» Arrossì, ma scosse il capo. «No,» disse. «Ma ti stai avvicinando.» «La nipote?» dissi. «Be',... una specie.» «Temo di non capire.» «Gli piace che io lo chiami nonno. Ma per la verità è il padre di mia nonna.» «Capisco. In famiglia ce ne sono altre come te?» «No. Ci sono soltanto io.» «E tua madre... e tua nonna?» «Morte, tutte e due.» «Come sono morte?» «Di morte violenta. Entrambe le volte avvenne mentre lui era tornato ad Ambra. Credo sia per questo che ormai non vi è più ritornato da molto tempo. Non vuole lasciarmi indifesa... anche se sa che sono capace di badare a me stessa. Lo sai anche tu, vero?» Annuii. Questo spiegava parecchie cose, in particolare perché lui era il Protettore di quella Avalon. Doveva tenere Dara in qualche luogo, e certamente non voleva condurla ad Ambra. Probabilmente non voleva neppure che noi fossimo informati dell'esistenza di Dara. Sarebbe stato facile servirci di lei per ricattarlo. E Benedict non avrebbe certamente desiderato che la conoscessi tanto presto. Perciò dissi: «Non credo che dovresti essere qui. E penso che Benedict si irriterebbe moltissimo se lo sapesse.» «Sei proprio come lui! Ma io sono adulta, maledizione!» «L'ho negato, forse? Ma dovresti essere altrove, non è vero?» Lei si riempì la bocca, invece di rispondere. La imitai. Dopo parecchi minuti durante i quali masticammo, imbarazzati, decisi di abbordare un altro argomento. «Come hai fatto a riconoscermi?» chiesi. Lei inghiottì il boccone, bevve un sorso di vino e sorrise. «Dal tuo ritratto, naturalmente,» disse. «Che ritratto?» «Sulla carta,» disse Dara. «Le usavamo spesso per giocare, quand'ero piccola. In quel modo ho imparato a riconoscere tutti i miei parenti. Tu ed
Eric siete gli altri schermitori più abili, lo sapevo. È per questo che...» «Tu hai un mazzo di Trionfi?» l'interruppi. «No,» rispose, facendo il broncio. «Lui non ha voluto darmelo... e so che ne ha parecchi.» «Davvero? Dove li tiene?» Lei socchiuse gli occhi, fissando i miei. Dannazione! Non avrei voluto mostrarmi tanto ansioso. Ma: «Ha quasi sempre un mazzo con sé,» disse Dara. «E non so dove tenga gli altri. Perché? Non vuole mostrarteli?» «Non gliel'ho chiesto,» dissi. «Ne conosci il significato?» «C'erano certe cose che non dovevo fare, quando c'era un mazzo a portata di mano. Immagino che servano a qualcosa di speciale, ma lui non mi ha mai spiegato di che si tratta. Sono molto importanti, vero?» «Sì.» «Lo pensavo. E tu vorresti usarli per qualcosa di complicato e sinistro.» Scrollai le spalle. «Se Benedict non vuole fartene ancora conoscere la funzione, non sarò certo io a dirtelo.» Lei brontolò, sottovoce. «Hai paura di lui,» disse. «Ho molto rispetto per Benedict, e anche un certo affetto.» Dara rise. «È uno schermitore superiore a te?» Distolsi lo sguardo. Dara doveva essere appena ritornata da un luogo molto lontano da quella realtà. Gli abitanti della città con cui avevo parlato sapevano del braccio di Benedict. Non era una di quelle notizie che circolano lentamente. Di sicuro, non sarei stato io il primo a dirglielo. «Pensala come vuoi,» dissi. «Dove sei stata?» «Al villaggio,» disse lei. «Tra le montagne. Il nonno mi ha condotta là da certi suoi amici chiamati Tecy. Tu conosci i Tecy?» «No, non li conosco.» «C'ero già stata, prima,» disse Dara. «Lui mi conduce sempre a stare con loro, al villaggio, quando qui c'è qualche guaio. È un luogo che non ha nome. Io lo chiamo il villaggio, semplicemente. È tutto molto strano... il villaggio e gli abitanti. Sembra che ci venerino, in un certo senso. Mi trattano come se fossi un oggetto sacro, e non mi dicono mai quello che voglio sapere. Il tragitto non è lungo, ma le montagne sono differenti, il cielo è differente... tutto! E sembra che, quando arrivo là, non vi sia più la strada
del ritorno. Ho tentato di tornare indietro da sola, certe volte, ma mi sono smarrita. Doveva sempre venire il nonno a prendermi, e allora il percorso era facile. I Tecy seguono tutte le sue istruzioni, per quanto riguarda me. Lo trattano come se fosse un dio.» «Lo è,» dissi. «Per loro.» «Hai detto che non li conosci.» «Non è necessario. Conosco Benedict.» «E come fa? Dimmelo.» Scossi il capo. «Tu come fai?» le chiesi. «Come hai fatto a ritornare qui, questa volta?» Dara finì il vino e tese il bicchiere. Quando glielo ebbi riempito e alzai gli occhi, lei teneva la testa reclinata sulla spalla destra: aveva le sopracciglia corrugate e sembrava fissare qualcosa di molto lontano. «Non lo so, esattamente,» disse, alzando il bicchiere e sorseggiando automaticamente. «Non so bene come ho fatto...» Con la sinistra cominciò a giocherellare con il coltello, poi lo prese. «Ero arrabbiata, arrabbiatissima di essere stata spedita via di nuovo,» disse. «Gli ho dichiarato che volevo restare qui a combattere, ma mi ha portato a fare una cavalcata con lui, e dopo un po' siamo arrivati al villaggio. Non so come. Non è stata una cavalcata lunga, e all'improvviso siamo arrivati. Conosco questa zona. Ci sono nata e cresciuta. L'ho girata tutta a cavallo, per centinaia di leghe in tutte le direzioni. Ma mi è sembrato che la cavalcata fosse breve, e all'improvviso ci siamo ritrovati fra i Tecy. Ma sono passati parecchi anni, e adesso che sono cresciuta so essere più volitiva. Ho deciso di ritornare da sola.» Cominciò a raschiare ed a scavare il terriccio con il coltello, come se non si rendesse conto di quello che stava facendo. «Ho atteso il calar della notte,» continuò. «E ho studiato le stelle per orientarmi. Era una sensazione irreale. Le stelle erano tutte diverse. Non riconoscevo neppure una costellazione. Sono rientrata e ho cominciato a pensare. Ero un po' impaurita e non sapevo cosa fare. Ho trascorso il giorno seguente cercando di carpire altre informazioni ai Tecy e all'altra gente del villaggio. Ma era come un brutto sogno. Erano stupidi, o facevano apposta per confondermi. Non soltanto non c'era una strada per venire da là a qui, ma loro non sapevano neppure dove era 'qui', e non erano troppo sicuri neppure dell'ubicazione di 'là'. Quella notte ho scrutato di nuovo le stelle, per essere ben sicura di ciò che avevo visto, e ho cominciato a credere un po' a quello che mi avevano detto.»
Mosse il coltello avanti e indietro come se lo affilasse, spianando il terreno. Poi cominciò a tracciarvi disegni. «Poi, per diversi giorni, ho cercato di trovare la via del ritorno,» continuò. «Credevo di poter ritrovare il sentiero e di ripercorrerlo, ma era svanito. Poi mi è venuta in mente un'altra cosa. Ogni mattina partivo in una direzione diversa, cavalcavo fino a mezzogiorno, e poi tornavo indietro. Non ho trovato nulla che potessi riconoscere. Era sconcertante. Tutte le sere andavo a dormire più infuriata e sconvolta... e più decisa a trovare la strada per tornare ad Avalon. Dovevo dimostrare al nonno che non poteva più scaricarmi in qualche posto come se fossi una bambina e pretendere che me ne stessi buona. «Poi, dopo circa una settimana, ho cominciato a sognare. Incubi. Hai mai sognato di correre e correre e correre senza arrivare mai in nessun posto? Era così... come la ragnatela ardente. Ma non era una ragnatela, non c'erano ragni, e non bruciava. Io però ero prigioniera, e giravo e giravo. In verità non mi muovevo. Non è completamente esatto, ma non saprei come dirlo, altrimenti. E dovevo continuare a tentare... nella realtà. Volevo... muovermi in quel disegno. Quando mi sono svegliata ero stanca, come se mi fossi affaticata per tutta la notte. È continuato così per molte notti, ed ogni volta la ragnatela sembrava più forte e più lunga e più reale. «Poi questa mattina mi sono alzata, con il sogno che mi danzava ancora nella testa, e ho capito che potevo tornare a casa. Sono partita a cavallo, e quasi continuavo a sognare, mi sembrava. Ho percorso l'intera distanza senza fermarmi neppure una volta, e senza badare a quello che mi circondava: continuavo a pensare ad Avalon... e mentre cavalcavo, l'ambiente diventava sempre più familiare, fino a quando sono arrivata qui. Solo allora, mi pare, mi sono svegliata completamente. Adesso il villaggio e i Tecy, quel cielo, quelle stelle, i boschi e le montagne mi sembrano tutto un sogno. Non sono sicura che saprei ritrovare la strada per tornarci. Non è strano? Sai dirmi che cos'è accaduto?» Mi alzai, e girai intorno alla tovaglia spiegata. Sedetti accanto a lei. «Ricordi com'era la ragnatela ardente che in realtà non era una ragnatela e non bruciava?» le chiesi. «Sì... in un certo senso,» disse lei. «Dammi il coltello,» le dissi. Dara me lo porse. Con la punta della lama cominciai a completare il suo scarabocchio, allungando le linee, cancellandone alcune, aggiungendone altre. Lei non dis-
se neppure una parola: ma seguiva attentamente ogni mio movimento. Quando ebbi terminato, deposi il coltello e attesi, in silenzio, a lungo. Poi finalmente lei parlò, sottovoce. «Sì, è esatto,» disse, distogliendo lo sguardo dal disegno per fissare me. «Come lo sapevi? Come sapevi quello che io ho sognato?» «Perché,» dissi io, «tu hai sognato qualcosa che è impresso nei tuoi geni. Come e perché, non lo so. Questo dimostra, comunque, che sei una vera figlia d'Ambra. Tu hai camminato nell'Ombra. Ciò che hai sognato era il Grande Disegno di Ambra. Grazie al suo potere, quelli della stirpe reale detengono il potere sulle ombre. Sai di cosa sto parlando?» «Non ne sono sicura,» disse lei. «Non credo. Ho sentito il nonno maledire le ombre, ma non ho mai capito che cosa intendesse.» «Allora non sai dove si trova Ambra.» «No. Lui era sempre evasivo. Mi parlava di Ambra e della famiglia. Ma non conosco neppure la direzione in cui si trova Ambra. So soltanto che è lontana.» «Si trova in tutte le direzioni,» dissi io. «O in qualunque direzione si scelga. È sufficiente...» «Sì!» m'interruppe Dara. «Avevo dimenticato, oppure credevo che facesse il misterioso: ma Brand ha detto esattamente la stessa cosa, molto tempo fa. Cosa significa, comunque?» «Brand? Quando è stato qui Brand?» «Anni fa,» disse Dara. «Quand'ero bambina. Veniva spesso a farci visita. Ero innamoratissima di lui e lo assediavo continuamente. Lui mi raccontava le storie, mi insegnava tanti giochi...» «Quando l'hai visto per l'ultima volta?» «Oh, otto o nove anni fa, direi.» «Hai conosciuto qualcuno degli altri?» «Sì,» disse Dara. «Julian e Gérard sono stati qui non molto tempo fa. Sono passati solo pochi mesi.» All'improvviso, mi sentii molto insicuro. Benedict mi aveva tenuto nascoste molte cose. Avrei preferito venire male informato, piuttosto che essere lasciato completamente all'oscuro. È più facile infuriarsi quando si scopre la verità. Ma il guaio era che Benedict era troppo sincero. Avrebbe preferito non dir nulla, piuttosto che mentirmi. Tuttavia, sentivo avvicinarsi qualcosa di spiacevole, e sapevo che non potevo perdere tempo; dovevo muovermi al più presto possibile. Sì, sarebbe stata una missione dura e precipitosa, per ottenere le pietre. Comunque, c'erano ancora molte cose da
imparare, qui, prima di tentare. Il tempo... maledizione! «È stata la prima volta che li hai incontrati?» chiesi. «Sì,» disse Dara. «E ci sono rimasta molto male.» S'interruppe e sospirò. «Il nonno non ha voluto che parlassi del nostro legame di parentela. Mi ha presentata come la sua pupilla. E ha rifiutato di spiegarmi il perché. Maledizione!» «Sono sicuro che aveva ottime ragioni per farlo.» «Oh, ne sono sicura anch'io. Ma non è servito a farmi sentire meglio. Per tutta la vita avevo atteso di conoscere i miei parenti. Tu sai perché il nonno mi ha trattata così?» «Questi sono tempi difficili, ad Ambra,» dissi., «E la situazione potrebbe peggiorare ancora. Meno sono coloro che conoscono la tua esistenza, e meno c'è pericolo che tu venga coinvolta o che ti capiti qualcosa di male. Lo ha fatto solo per proteggerti.» Dara sbuffò, sprezzante. «Non ho bisogno di protezione,» disse. «So badare a me stessa.» «Sei un'ottima schermitrice,» dissi. «Purtroppo, la vita è molto più complicata di uno scontro leale.» «Lo so. Non sono una bambina. Ma...» «Ma niente! Benedict ha fatto per te quello che avrei fatto io, se tu fossi mia. Intendeva proteggere se stesso, oltre te. Mi sorprende che abbia fatto sapere a Brand chi sei. Si infurierà moltissimo perché io l'ho scoperto.» Dara alzò la testa di scatto e mi fissò ad occhi sbarrati. «Ma tu non faresti mai nulla per danneggiarci,» disse. «Siamo... siamo parenti...» «Come diavolo fai a sapere perché sono qui, o che cosa sto pensando?» ribattei. «Potresti avere infilato in un cappio il tuo collo e quello di tuo nonno!» «Stai scherzando, vero?» disse lei, alzando lentamente la mano sinistra. «Non lo so,» dissi. «Non è certo... e io non ne parlerei, se avessi in mente qualcosa di brutto, non ti pare?» «No... credo di no.» «Ti dirò una cosa che Benedict avrebbe dovuto spiegarti molto tempo fa,» dissi. «Non fidarti mai di un parente. È molto peggio che fidarsi di un estraneo. Con un estraneo, c'è una possibilità che tu sia al sicuro.» «Questo lo pensi veramente, no?» «Sì.» «Te compreso?» Sorrisi.
«Naturalmente, non vale per me. Io sono l'incarnazione dell'onore, della bontà, della misericordia e della gentilezza. Fidati di me, completamente.» «Lo farò,» disse, e io risi. «Lo farò,» insistette Dara. «Tu non ci faresti mai del male. Lo so.» «Parlami di Gérard e Julian,» dissi. Mi sentivo inquieto, come sempre, di fronte ad una fiducia non richiesta. «Qual era la ragione della loro visita?» Dara tacque per un momento, continuando a studiarmi, poi: «Ti ho già detto molte cose,» fece. «No? Hai ragione. Non si è mai abbastanza prudenti. Credo che adesso tocchi a te parlare.» «Bene. Stai imparando come comportarti con noi. Che cosa vuoi sapere?» «Dov'è il villaggio, realmente? Ed Ambra? Sono piuttosto simili, non è vero? Cosa intendevi quando hai detto che Ambra si trova in tutte le direzioni, o in qualunque? Che cosa sono le ombre?» Mi alzai e la guardai. Tesi la mano. Sembrava molto giovane, e in quel momento aveva anche l'aria spaventata, ma l'accettò. «Dove...?» chiese, alzandosi. «Da questa parte,» dissi io, e la condussi nel punto dove avevo dormito e contemplato la cascata e la ruota del mulino. Lei fece per dire qualcosa, ma l'interruppi. «Guarda. Guarda soltanto,» ordinai. Restammo lì a guardare lo scroscio e il turbinio mentre io riordinavo i miei pensieri. Poi: «Vieni,» dissi, guidandola per il gomito in direzione del bosco. Mentre procedevamo tra gli alberi, una nube oscurò il sole e le ombre si addensarono. Le voci degli uccelli divennero più stridule e dal suolo salì una zaffata di umidità. Mentre passavamo da un albero all'altro, le foglie diventavano sempre più grandi. Quando il sole riapparve, la sua luce era più gialla, e superata una svolta incontrammo una cortina di liane. Le grida degli uccelli divennero più rauche e più numerose. Il sentiero prese a salire, e io guidai Dara oltre uno sperone di selce, su per l'erta. Dietro di noi sembrava levarsi un rombo lontano, appena percettibile. Il cielo era di un azzurro diverso quando attraversammo uno spiazzo scoperto, e spaventammo una grossa lucertola bruna che stava prendendo il sole su una roccia. Mentre giravamo intorno ad un altro sperone di pietra, Dara disse: «Non sapevo che ci fosse tutto questo, qui. Non ero mai passata da queste parti.» Ma non le risposi, perché ero impegnato a spostare la sostanza del-
l'Ombra. Poi ci volgemmo di nuovo verso il bosco, ma adesso il percorso era in salita. Gli alberi erano colossi tropicali, inframmezzati da felci, e si udivano nuovi rumori... latrati, sibili e ronzii. Mentre salivamo per il sentiero, il rombo divenne più forte intorno a noi, e il terreno cominciò a vibrare. Dara si aggrappava al mio braccio e non diceva nulla, ma scrutava ogni cosa. C'erano grandi fiori piatti e pallidi, e pozze formate dall'acqua che sgocciolava dall'alto. La temperatura era salita notevolmente, e stavamo sudando. Il rombo divenne un ruggito poderoso, e quando uscimmo di nuovo dal bosco, il suono era divenuto un tuono costante che scendeva intorno a noi. La guidai sul ciglio del precipizio e indicai. Precipitava per più di trecento metri: una possente catarratta che colpiva il fiume grigio come un'incudine. Le correnti erano rapide e forti, e trasportavano bolle e fiocchi di spuma per un lungo tratto, prima che si dissolvessero. Di fronte a noi, a circa mezzo miglio di distanza, in parte nascosta dall'arcobaleno e dalla nebbia, come un'isola schiaffeggiata da un Titano, una ruota gigantesca girava lentamente, ponderosa e lucente. Lassù in alto, uccelli enormi andavano alla deriva come crocifissi sulle correnti d'aria. Restammo lì a lungo. Era impossibile parlare, e forse era meglio così. Dopo qualche tempo, quando lei si voltò a guardarmi socchiudendo gli occhi con aria interrogativa, annuii e indicai con lo sguardo il bosco. Poi ci voltammo e ritornammo nella direzione da cui eravamo venuti. Il nostro ritorno fu lo stesso processo, a rovescio, e io riuscii a percorrerlo con maggiore facilità. Quando ridivenne possibile parlare, Dara rimase in silenzio: ormai aveva compreso che io facevo parte del processo di mutamento in atto intorno a noi. Solo quando fummo tornati in riva al nostro ruscello, a guardare la piccola ruota del mulino che girava, lei riprese a parlare. «Quel luogo era come il villaggio?» «Sì. Un'ombra.» «E come Ambra?» «No. Ambra getta l'Ombra. Può venire modellata in qualunque forma, se sai come fare. Quel luogo era un'ombra, il tuo villaggio era un'ombra... e questo posto è un'ombra. Ogni luogo di cui puoi immaginare l'esistenza esiste nell'Ombra.» «... E tu e il nonno e gli altri potete aggirarvi nelle ombre, scegliendo quella che volete?»
«Sì.» «E io ho fatto la stessa cosa, quando sono ritornata dal villaggio?» «Sì.» Il suo viso si illuminò. Abbassò le sopracciglia quasi nere e dilatò le narici in una rapida aspirazione. «Dunque posso farlo anch'io...» disse. «Posso andare dovunque, fare tutto ciò che voglio!» «La capacità è dentro di te,» dissi. Allora Dara mi baciò, all'improvviso, d'impulso, poi si allontanò, girando su se stessa. I capelli le volteggiavano intorno al collo snello, mentre cercava di guardare tutto nello stesso istante. «Allora posso fare qualunque cosa,» disse, fermandosi. «Vi sono limiti, pericoli...» «Questa sì che è vita,» disse lei. «Come ho imparato a farlo?» «La chiave è il Grande Disegno di Ambra. Devi percorrerlo per acquisire la facoltà. È tracciato sul pavimento di una sala sotto il palazzo di Ambra. È molto grande. Devi incominciare dall'esterno e dirigerti verso il centro, senza fermarti. C'è una notevole resistenza, ed è un'impresa difficile. Se ti fermi, se cerchi di lasciare il Disegno prima di averlo completato, ti annienta. Ma se lo completi, il tuo potere sull'Ombra sarà sottomesso alla tua volontà cosciente.» Dara corse accanto alla tovaglia e studiò il motivo che io avevo tracciato per terra. La seguii, più lentamente. Quando mi avvicinai, lei disse: «Devo andare ad Ambra e percorrerlo!» «Sono certo che Benedict ha disposto perché tu lo faccia, un giorno,» dissi. «Un giorno?» esclamò lei. «Subito! Devo percorrerlo subito! Perché non mi parla mai di queste cose?» «Perché non puoi ancora farlo. La situazione, ad Ambra, è tale che sarebbe pericoloso per entrambi permettere che là si sappia della tua esistenza. Ambra ti è vietata, temporaneamente.» «Non è giusto!» esclamò, voltandosi per guardarmi sdegnata. «Non è giusto, infatti,» ammisi. «Ma ora le cose stanno così. Non dare la colpa a me.» Quelle parole mi uscirono a fatica dalle labbra. In parte, naturalmente, la colpa era mia. «Sarebbe quasi meglio se non mi avessi parlato di queste cose,» disse
Dara, «se non posso averle.» «Non è poi così terribile,» le dissi io. «La situazione ritornerà stabile ad Ambra... e presto.» «E come ne sarò informata?» «Benedict lo saprà. E allora te lo dirà.» «Non ha ritenuto opportuno farmi sapere molte cose!» «A che scopo? Solo per farti soffrire? Sai che è stato sempre buono con te, che ti vuol bene. Quando verrà il momento, agirà per te.» «E se non lo farà? Mi aiuterai tu, allora?» «Farò ciò che posso.» «Come potrò trovarti? Per fartelo sapere?» Sorrisi. Ero arrivato al punto decisivo quasi senza sforzarmi. Non era necessario parlarle di quello che importava veramente. Solo quello che avrebbe potuto tornarmi utile più tardi... «Le carte,» dissi. «I Trionfi di famiglia. Sono ben più di una semplice affettazione sentimentale. Sono un mezzo di comunicazione. Prendi il mio, fissalo, concentrati, cerca di escludere dalla mente tutti gli altri pensieri, fingi che sia veramente me e comincia a parlarmi. Scoprirai che è davvero me, e che io ti sto rispondendo.» «Sono proprio le cose che il nonno mi ha detto di non fare, quando maneggio le carte!» «Naturalmente.» «Come funziona?» «Un'altra volta,» dissi io. «Una cosa in cambio di un'altra cosa. Ricordi? Ti ho parlato di Ambra e dell'Ombra. Tu parlami della visita di Gérard e di Julian.» «Sì,» disse Dara. «Ma non c'è molto da raccontare. Una mattina, cinque o sei mesi fa, il nonno si è interrotto all'improvviso. Stava potando gli alberi, nel frutteto... gli piace farlo personalmente e io lo aiutavo. Era su una scala, e all'improvviso ha smesso di potare, ha abbassato le cesoie, e non si è mosso per diversi minuti. Ho pensato che stesse riposando, e ho continuato a rastrellare. Poi l'ho sentito parlare... non mormorava: parlava veramente, come se conversasse. In un primo momento ho creduto che parlasse con me, e gli ho chiesto cos'aveva detto. Ma lui non mi ha badato. Adesso che so a che servono i Trionfi, capisco che doveva parlare con uno di loro, in quel momento. Probabilmente Julian. Comunque, è sceso dalla scala molto in fretta, mi ha detto che dovevo andarmene per un giorno o due, e si è avviato verso il maniero. Ma poi si è fermato, ed è tornato indie-
tro. E mi ha detto che se Julian e Gérard fossero venuti a farci visita, dovevo presentarmi come la sua pupilla, la figlia orfana di un fedele servitore. Dopo un po' se ne è andato, portando con sé altri due cavalli. Aveva la sua spada. «È ritornato nel cuore della notte, conducendoli tutti e due con sé. Gérard era semisvenuto. Aveva la gamba sinistra fratturata, e tutta la parte sinistra del corpo molto malconcia. Anche Julian era malridotto, ma non aveva fratture. Sono rimasti con noi per quasi un mese, e sono guariti in fretta. Poi si sono fatti prestare due cavalli e se ne sono andati. Non li ho più rivisti.» «E hanno detto com'erano stati feriti?» «Solo che c'era stato un incidente. Non hanno voluto parlarne, con me.» «Dove? Dov'era successo?» «Sulla strada nera. Ho sentito che ne parlavano più volte.» «Dov'è la strada nera?» «Non lo so.» «Cosa dicevano?» «La maledicevano. Ecco tutto.» Abbassai lo sguardo e vidi che nella bottiglia era rimasto un po' di vino. Mi chinai e lo versai nei bicchieri, gliene porsi uno. «Alla riunione,» dissi con un sorriso. «... La riunione,» ripeté lei. Bevemmo. Dara cominciò a rimettere a posto la roba, ed io l'aiutai; mi sentivo riprendere dalla necessità di affrettarmi. «Per quanto tempo dovrò attendere prima di cercare di mettermi in contatto con te?» chiese Dara. «Tre mesi. Concedimi tre mesi.» «E allora dove sarai?» «Ad Ambra, spero.» «Per quanto resterai qui?» «Non molto. Anzi, devo partire subito per un breve viaggio. Ma dovrei essere di ritorno domani. Probabilmente, dopo mi fermerò solo per pochi giorni.» «Vorrei che restassi più a lungo.» «Anch'io lo vorrei. Mi piacerebbe, ora che ti ho incontrata.» Dara arrossì, e rivolse la sua attenzione al cesto. Io andai a prendere i fioretti, le maschere e i corsetti. «Torni al maniero, adesso?» chiese lei.
«Alle stalle. Partirò immediatamente.» Riprese il canestro. «Allora andremo insieme. Il mio cavallo è da questa parte.» Annuii e la seguii verso un sentiero, sulla destra. «Immagino,» disse Dara, «che sarebbe meglio per me non parlarne con nessuno, soprattutto con il nonno?» «Sarebbe più prudente.» Lo scroscio e il gorgoglio del ruscello che scorreva verso il fiume, verso il mare, svanì, svanì, si dileguò, e per qualche tempo restò nell'aria solo lo scricchiolio della ruota del mulino. 6 Molto spesso, un movimento costante è più importante della velocità. Purché vi sia una progressione regolare di stimoli cui agganciarsi mentalmente, c'è spazio per un movimento laterale. Quando si procede così, la velocità è a nostra discrezione. Perciò mi muovevo lentamente, ma costantemente, usando la mia discrezione. Non era il caso di stancare inutilmente Astro. I mutamenti rapidi sono già abbastanza duri per gli esseri umani. Gli ammali, che non sono altrettanto abili a mentire a se stessi, soffrono di più e qualche volta s'imbizzarriscono. Attraversai un piccolo ponte di legno sul ruscello e poi procedetti parallelamente al corso d'acqua, per qualche tempo. Avevo intenzione di evitare la città, e di seguire la direzione generale del fiume fino a quando fossi giunto in prossimità della costa. Il percorso era fresco ed ombroso. Grayswandir mi pendeva al fianco. Procedetti verso occidente, e finalmente arrivai alle colline che sorgevano laggiù. Per iniziare il mutamento attesi di aver raggiunto un punto da cui si scorgeva la città, il più grosso agglomerato urbano di quel regno così simile alla mia Avalon. La città portava lo stesso nome, e vi vivevano parecchie migliaia di persone. Mancavano molte torri d'argento, e il corso d'acqua tagliava l'abitato con un'angolazione un po' diversa, e più a sud, dopo essersi allargato notevolmente. Il fumo si levava dalle taverne e dalle fucine, agitato lievemente dalle brezze del sud; gente a cavallo, a piedi, sui carri e sulle carrozze percorreva le strette vie, entrava ed usciva dalle botteghe, dalle locande, dalle case; stormi d'uccelli volteggiavano nell'aria, scendevano e salivano intorno alle piazze dov'erano legati i cavalli; ban-
diere e striscioni colorati si agitavano nell'aria; l'acqua scintillava, e c'era un po' di foschia. Ero troppo lontano per udire i suoni delle voci, dei martelli, delle seghe, i cigolii e gli scricchiolìi: sentivo solo un brusio generalizzato. Sebbene non percepissi neppure un odore distinto, se fossi stato ancora cieco avrei capito, fiutando l'aria, che ero vicino a una città. Nel vederla da lassù, mi prese una certa nostalgia, il malinconico residuo di un sogno, accompagnato dal rimpianto per il luogo che era l'omonimo di questo, in una terra dell'Ombra svanita tanto tempo prima, dove la vita era stata altrettanto semplice, ed io ero stato più felice di quanto fossi in quel momento. Ma non si vive a lungo quanto ho vissuto io senza acquisire quel tipo di coscienza che strappa via le emozioni ingenue, e generalmente detesta creare sentimentalismi. Quei giorni erano passati, tutto era finito, e adesso era Ambra che mi teneva completamente in suo potere. Mi voltai e proseguii verso sud, più che mai deciso a riuscire. Ambra, non ho dimenticato... Il sole divenne abbagliante sopra la mia testa, ed i venti cominciarono ad urlare intorno a me. Il cielo divenne sempre più giallo e minaccioso, mentre cavalcavo, e poi fu come se un deserto si estendesse da orizzonte ad orizzonte, lassù. Le colline diventarono più rocciose, mentre scendevo verso i bassopiani, e mostrarono forme scolpite dal vento, grottesche e scure. Una tempesta di polvere mi investì, quando giunsi ai piedi delle colline, e dovetti proteggermi il volto con il mantello e socchiudere le palpebre. Astro nitrì, sbuffò ripetutamente, proseguì. Sabbia, pietra, vento, il cielo ancora più arancione, una massa di nubi color ardesia verso cui si dirigeva il sole... Poi lunghe ombre, la caduta del vento, il silenzio... Solo lo scalpiccio degli zoccoli sulla roccia ed i suoni del respiro... Semioscurità, mentre il sole veniva nascosto dalle nubi... le mura del giorno squassate dal tuono... Una chiarezza innaturale degli oggetti lontani... Un sentore fresco, azzurro, elettrico nell'aria... Di nuovo il tuono... Poi, una cortina increspata e vitrea sulla mia destra, mentre la pioggia avanzava... Azzurre crepe tra le nuvole... La temperatura che scendeva di colpo, la nostra andatura costante, mentre il mondo era diventato un fondale monocromo... Il tuono scrosciante, il biancore dei lampi, la cortina che avanzava verso di noi... Duecento metri... Centocinquanta... Basta! L'orlo inferiore che scavava e schiumava... L'odore della terra bagnata...
il nitrito di Astro... Uno scatto di velocità... Piccoli rivoli d'acqua che serpeggiavano, chiazzando il suolo... ora ribollivano fangosi, ora sgocciolavano... Ora diventavano un flusso costante... Rivoletti che scrosciavano tutto intorno a noi... Davanti a noi c'era un'altura, ed i muscoli di Astro si contraevano e si distendevano, si contraevano e si distendevano sotto di me, mentre il cavallo superava a balzi i rigagnoli, si lanciava a corsa sotto la pioggia torrenziale, e saliva sul pendio, con gli zoccoli che traevano scintille dalle pietre, e la voce del flusso gorgogliante, sotto di noi, diventava più profonda, diventava un rombo... Poi ancora più in alto, all'asciutto, e mi fermai per torcere i bordi del mantello... Più in basso, dietro di me e sulla destra, un mare grigio agitato dalla tempesta lambiva i piedi dello strapiombo... E poi verso l'entroterra, verso prati di trifoglio e la sera, con il tuono della risacca dietro di me... Inseguire stelle cadenti nell'oriente che si oscurava e nel silenzio e nella notte. Chiaro il cielo e fulgide le stelle, ma c'era ancora qualche nube sfioccata... Un branco ululante di esseri dagli occhi rossi che si aggiravano intorno al nostro percorso... Ombra... Occhi verdi... Ombra... Gialli... Ombra... Spariti... Ma vette scure ammantate di neve si ammassavano intorno a me... Neve ghiacciata, arida come polvere, sollevata a ondate dalle raffiche gelide delle montagne... Neve polverosa, farinosa... Qui un ricordo delle Alpi italiane, di discese sugli sci... Ondate di neve che aleggiavano su pareti di pietra... Un fuoco bianco nell'aria notturna... I piedi che s'intirizzivano rapidamente negli stivali bagnati... Astro, sbigottito, sbuffava, appoggiando cautamente gli zoccoli ad ogni passo, e scrollava la testa, come incredulo... E ombre oltre le rocce, un pendio più dolce, un vento più asciutto, meno neve... Un sentiero tortuoso, serpentino, un soffio di tepore... Giù, giù, giù nella notte, sotto le stelle mutevoli... Le nevi di un'ora prima erano lontane, ora c'erano cespugli e terreno pianeggiante... Lontano, gli uccelli notturni volteggiavano nell'aria sopra le carogne da divorare, lanciando rauche note di protesta al nostro passaggio... Di nuovo adagio, verso il luogo dove ondeggiavano le erbe, agitate da
una brezza meno fredda... Il ringhio di un felino in caccia... La fuga indistinta di un animale veloce, simile a un cervo... Stelle che si insinuavano nel cielo, ed i miei piedi che riacquistavano la sensibilità... Astro che s'impennava, nitriva, si avventava a corsa fuggendo da qualcosa che non avevo visto... Poi il lungo tempo necessario per calmarlo, e un tempo ancora più lungo in attesa che passassero i brividi... Poi i ghiaccioli d'una falce di luna che cadevano sulle cime di alberi lontani... La terra umida esalava una nebbia luminescente... Falene che danzavano nel chiarore notturno... Il suolo sussultò e si scosse, per qualche momento, come se le montagne spostassero i piedi... Un doppio per ogni stella... Un alone intorno alla luna... La pianura, l'aria che vi aleggiava sopra, piena di forme fuggevoli... La terra, come un orologio semiscarico, ticchettò e si fermò... Stabilità... Inerzia... Le stelle e la luna si riunirono ai loro spiriti... Intorno ad una frangia d'alberi, verso occidente... Impressioni d'una giungla addormentata: delirio di serpenti sotto un telo incerato... A occidente, a occidente... Da qualche parte un fiume dalle sponde ampie e pulite, per facilitare la mia discesa verso il mare... Tonfi di zoccoli, fremiti d'ombre... L'aria notturna sul mio volto... Una visione di esseri luminescenti su pareti altissime, torri scintillanti... L'aria si addolciva... La vista si offuscava... Ombre... Eravamo fusi insieme come un centauro, Astro ed io, sotto un'unica epidermide di sudore... Aspiravamo l'aria e la espiravamo in scoppi di fatica... Il collo avvolto nel tuono, il terribile fulgore delle narici... Divorando il terreno... Ridendo, nell'odore delle acque, gli alberi vicinissimi alla nostra sinistra... Poi tra gli alberi... Cortecce lisce, liane pendute, larghe foglie, gocciole d'umidità... Ragnatele nel chiaro di luna, e forme che vi si dibattevano... Il suolo spugnoso... funghi fosforescenti sugli alberi caduti... Uno spazio libero... Alte erbe fruscianti... Altri alberi... Di nuovo l'odore del fiume... Suoni, più tardi... Suoni... il ridacchiare erboso dell'acqua... Più vicino, più forte, e finalmente.. I cieli che si piegavano nel suo ventre, e gli alberi... Acqua pulita, con un sentore freddo, umido... A sinistra, costeggiandola... la seguimmo nel suo fluire... Bere... sguazzare nei fondali bassi, e poi avanti, a testa bassa; Astro,
immerso in quell'acqua, che beveva come una pompa, lanciando sbuffi di vapore dalle narici... Più avanti, l'acqua mi lambiva gli stivali... Mi sgocciolava dai capelli, scorreva lungo le mie braccia... Astro che girava la testa nell'udire la risata... Poi di nuovo verso valle, il fiume pulito, lento, tortuoso... Poi diritto, più largo, ancora più lento... Gli alberi che si infittivano, e poi si diradavano... Il fiume lungo e lento... Una luce fievole, a oriente... Una discesa, adesso, e meno alberi... Il suolo più sassoso, e la tenebra reintegratali primo, fioco presagio del mare, un odore perduto più tardi... Avanti, avanti, nel freddo della notte... Ancora una volta, per un attimo, l'aroma salmastro... Rocce, e niente alberi... Una discesa dura, ripida, scivolosa... Sempre più ripida... Via, tra muraglie di pietra... Sassi smossi che precipitavano nella corrente ormai fortissima, ed i loro tonfi sommersi dagli echi del rombo... La gola più profonda, più ampia... Giù, giù... Ancora più avanti... E poi di nuovo il pallore ad oriente, il pendio più dolce... Di nuovo il sentore di sale, più forte... Schisto e sabbia... Oltre una svolta, giù, e la luce cresceva... Il terreno soffice ed elastico... La brezza e la luce, la brezza e la luce... Oltre un ammasso di rocce... Tirai le redini. Sotto di me si stendeva la costa, dove file e file di dune ondulate, aggredite dai venti di sudovest, sollevavano spume di sabbia che cancellavano in parte i contorni lontani del cupo mare mattutino. Guardai la pellicola rosea dilagare sull'acqua, da oriente. Qua e là, le sabbie, spostandosi, rivelavano scure chiazze di ghiaia. Masse tormentate di roccia s'innalzavano sopra le acque. Tra le dune massicce, alte decine di metri, e me, lassù, al di sopra di quella lugubre costa, si stendeva una pianura tormentata di pietre angolose e di ghiaia, emersa dall'inferno o dalla notte nel primo chiarore dell'alba, e popolata d'ombre. Sì, era esatto. Smontai e guardai il sole che imponeva un giorno squallido e tetro sul paesaggio. Era la luce dura e bianca che avevo cercato. Lì, dove non c'era-
no umani, era il luogo necessario, come l'avevo veduto decenni prima, sulla Terra d'Ombra del mio esilio. Non c'erano bulldozer, né impianti di setacciatura, né negri armati di scope; non c'era la città di Oranjemund. Niente apparecchi per radiografie, né filo spinato, né guardie armate. Non c'era nulla di tutto questo, lì. No. Perché questa ombra non aveva mai conosciuto Sir Ernest Oppenheimer, e non c'erano mai state né la Consolidated Diamond Mines dell'Africa del Sud-Ovest, né un governo che aveva approvato la fusione delle società minerarie della costa. Lì c'era il deserto chiamato Namib, quattrocento miglia a nord-ovest di Città del Capo, una fascia di dune e di rocce ampia da due a dodici miglia, che correva lungo quella dimenticata linea costiera per trecento miglia circa, tra il mare e i Monti Richtersveld, nella cui ombra mi trovavo in quel momento. Lì, a differenza di tutte le miniere tradizionali, i diamanti erano sparpagliati casualmente come escrementi di uccelli sulla sabbia. Io, naturalmente, avevo portato un rastrello ed un setaccio. Aprii le razioni dei viveri e preparai la colazione. Sarebbe stata una giornata calda e polverosa. Mentre lavoravo fra le dune, pensai a Doyle, il piccolo gioielliere dai capelli sottili, con la carnagione color mattone e cisti sebacee sulle guance, ad Avalon. Il rouge da gioielliere? Perché volevo tutto quel rouge da gioielliere, tanto da bastare ad un esercito di orafi per una dozzina di generazioni? Io avevo scrollato le spalle. Che cosa gli importava la ragione per cui lo volevo, purché potessi pagarlo? Bene, se c'era una nuova utilizzazione per quella roba e se c'era da guadagnarci, sarebbe stato uno sciocco se... In altre parole, non sarebbe stato in grado di fornirmi quel quantitativo entro una settimana? Piccole risa squadrate gli erano sfuggite tra i varchi nel suo sorriso. Una settimana? Oh, no! No, naturalmente! Era ridicolo, non se ne parlava neppure... Avevo capito. Bene, grazie, e forse il suo concorrente più avanti sarebbe stato capace di fornirmi il materiale, e forse si sarebbe interessato anche ai diamanti grezzi che dovevo ricevere di lì a qualche giorno... Diamanti, avevo detto? Un momento. I diamanti interessavano sempre anche a lui... Sì, ma purtroppo non era ben fornito di rouge da gioielliere. Una mano ievata. Forse aveva parlato troppo in fretta, circa la possibilità di procurarmi il materiale richiesto. La quantità l'aveva sconcertato. Ma gli ingredienti non mancavano, e la formula era piuttosto semplice. Sì, non c'era motivo perché non si potesse combinare qualcosa. Entro una settimana. In quanto ai diamanti...
Prima che uscissi dalla sua bottega, avevamo concluso un accordo. Ho conosciuto molte persone convinte che la polvere da sparo esploda: ma questo è inesatto. Brucia rapidamente, accumulando una pressione di gas che espelle fulmineamente un proiettile dalla bocca di un bossolo e lo spinge attraverso la canna di un'arma, dopo essere stata accesa dall'innesco, che è quello che esplode al contatto. Con la tipica preveggenza della mia famiglia, nel corso degli anni avevo fatto esperimenti con una quantità di combustibili. La delusione per la scoperta che la polvere da sparo non prendeva fuoco, ad Ambra, e che tutti gli inneschi da me provati erano egualmente inerti, era stata mitigata dalla consapevolezza che neppure i miei parenti avrebbero potuto portare ad Ambra armi da fuoco. Solo molto più tardi, durante una visita ad Ambra, dopo aver lucidato un braccialetto che avevo portato per Deirdre, avevo scoperto la meravigliosa proprietà del rouge da gioielliere di Avalon, quando avevo gettato in un camino lo straccio appena usato. Per fortuna, la quantità era minima, e in quel momento ero solo. Era un ottimo innesco, e tagliato con una quantità sufficiente di materiale inerte, poteva anche bruciare nel modo giusto. Tenni per me questa informazione, pensando che un giorno sarebbe stata utile per risolvere una vertenza decisiva, ad Ambra. Purtroppo, io ed Eric c'eravamo scontrati prima che venisse quel giorno, e la scoperta era finita insieme a tutti gli altri miei ricordi. Quando finalmente la situazione si era chiarita, per me, ormai avevo legato affrettatamente la mia sorte a quella di Bleys, che preparava un attacco contro Ambra. Non aveva avuto veramente bisogno di me, ma mi aveva associato all'impresa, penso, per potermi tener d'occhio. Se gli avessi fornito i cannoni, sarebbe stato invincibile, ed io sarei diventato inutile. E soprattutto, se fossimo riusciti ad impadronirci di Ambra secondo i suoi piani, la situazione sarebbe diventata molto tesa, dato che il grosso delle forze d'occupazione e la devozione degli ufficiali sarebbero stati tutti per lui. Allora avrei avuto bisogno di qualcosa per ristabilire l'equilibrio. Qualche bomba e qualche arma automatica, diciamo. Se fossi stato veramente me stesso anche soltanto un mese prima, le cose forse sarebbero andate diversamente. In quel momento avrei potuto essere ad Ambra, invece di lasciarmi bruciare e disidratare, con un'altra cavalcata infernale che mi attendeva e poi un groviglio di problemi da risolvere. Sputai sabbia, per non soffocarmi mentre ridevo. Diavolo, siamo noi a fabbricarci i nostri «se». Avevo altre cose cui pensare. Per esempio Eric... Ricordo quel giorno, Eric. Io ero in catene ed ero stato costretto a ingi-
nocchiarmi davanti al trono. Mi ero già incoronato, per farmi beffe di te, e per questo mi avevano percosso. La seconda volta che ebbi la corona nelle mani, la scagliai contro di te. Ma tu l'afferrasti e sorridesti. Fui lieto che non fosse rimasta danneggiata, dato che non era servita a ferirti. Una cosa tanto bella... Tutta d'argento, con le sette punte altissime, costellata di smeraldi più splendidi di tutti i diamanti. Due grossi rubini sulle tempie... E tu t'incoronasti quel giorno, nella tua arroganza, nella pompa frettolosa. Le prime parole che pronunciasti le mormorasti a me, poi, prima che gli echi di «Viva il re!» si fossero spenti nella sala. Le ricordo esattamente. «I tuoi occhi hanno veduto la cosa più bella che mai potranno vedere,» dicesti. Poi: «Guardie!» ordinasti. «Portate Corwin nei sotterranei, e bruciategli gli occhi! Che ricordi ciò che ha visto in questo giorno come l'ultima cosa che mai vedrà! Poi gettatelo nella tenebra della più profonda segreta sotto Ambra, e che il suo nome sia dimenticato!» «Ora tu regni in Ambra,» dissi, a voce alta. «Ma io ho gli occhi, e non ho dimenticato e non sono stato dimenticato.» No, pensai. Ammantati della tua regalità, Eric. Le mura di Ambra sono alte e solide. Resta entro la loro protezione. Circondati dell'inutile acciaio delle lame. Come una formica, tu corazzi la tua casa con la polvere. Ora sai che non sarai mai al sicuro finché vivrò, e ti ho annunciato che tornerò. Sto arrivando, Eric. Porterò cannoni da Avalon, e abbatterò le tue porte e annienterò i tuoi difensori. E poi sarà com'è stato un'altra volta, per breve tempo, prima che i tuoi uomini accorressero a salvarti. Quel giorno ho avuto solo poche gocce del tuo sangue. Questa volta l'avrò tutto. Scoprii un altro diamante grezzo, il sedicesimo, e lo gettai nel sacco che portavo alla cintura. Mentre guardavo il sole che tramontava, pensai a Benedict, a Julian ed a Gérard. Che rapporto c'era? In ogni caso, non mi piaceva nessuna combinazione che coinvolgesse Julian. Gérard mi stava bene. Ero riuscito a dormire, all'accampamento, quando avevo creduto che Benedict si fosse messo in contatto con lui. Ma se adesso era alleato di Julian, avevo crescenti motivi d'inquietudine. Se c'era qualcuno che mi odiava più ancora di Eric, era Julian. Se sapeva dov'ero, ero in grave pericolo. Non ero ancora preparato ad un confronto. Immaginavo che Benedict potesse trovare qualche giustificazione morale, se mi avesse venduto, a questo punto. Dopotutto, sapeva che qualunque cosa facessi — e sapeva che avrei fatto qualcosa — avrebbe portato la
guerra in Ambra. Poteva capirlo. Era votato alla conservazione del regno. A differenza di Julian, era un uomo dotato di saldi principi, e mi dispiaceva di dover dissentire da lui. Speravo che il mio colpo di mano fosse rapido e indolore come l'estrazione di un dente sotto anestesia, e che dopo ci saremmo ritrovati dalla stessa parte. Adesso che avevo incontrato Dara, volevo che andasse tutto bene, anche per lei. Benedict mi aveva detto troppo poco. Non potevo sapere se aveva intenzione di restare veramente accampato per l'intera settimana, o se già adesso collaborava con le forze di Ambra per prepararmi la trappola, per erigermi una prigione o scavarmi la fossa. Dovevo affrettarmi, quindi, anche se mi sarebbe piaciuto fermarmi ad Avalon. Invidiavo Ganelon, dovunque fosse, in una taverna o in un postribolo dove beveva, andava a donne o si azzuffava in quel momento, o su una collina, a caccia. Dovevo lasciarlo ai suoi piaceri, sebbene si fosse offerto di accompagnarmi ad Ambra? Ma no, l'avrebbero interrogato, dopo la mia partenza — e in malo modo, se vi fosse stato di mezzo Julian — e poi sarebbe diventato un reietto in quella che doveva apparirgli come la sua terra, se mai l'avessero lasciato andare. E allora senza dubbio sarebbe ridiventato un fuorilegge, e la terza volta probabilmente sarebbe stata la sua rovina. No, avrei mantenuto la promessa. Sarebbe venuto con me, se lo voleva ancora. Se aveva cambiato idea, bene... gli invidiavo persino la prospettiva di diventare brigante ad Avalon. Mi sarebbe piaciuto rimanere ancora, cavalcare con Dara tra le colline, vagare per la campagna, navigare sui fiumi... Pensai a Dara. La conoscenza della sua esistenza cambiava un po' le cose, anche se non sapevo bene come. Nonostante i nostri grandi odii e le meschine animosità, noi di Ambra abbiamo un forte senso della famiglia; siamo sempre ansiosi di avere notizie l'uno dell'altro, di conoscere le posizioni di ognuno nel mutare del quadro. Tra noi, una pausa per spettegolare ha senza dubbio interrotto molti scontri mortali. Talvolta penso che siamo un branco di vecchiette maligne, in un ambiente che è una via di mezzo tra una casa di riposo ed una corsa ad ostacoli. Non riuscivo ancora ad inquadrare Dara nella situazione perché lei stessa non sapeva quale fosse il suo posto. Oh, avrebbe finito per scoprirlo. Avrebbe ricevuto un'istruzione superba, non appena si fosse saputo che esisteva. Ora che le avevo rivelato la sua eccezionaiità, era solo questione di tempo prima che questo avvenisse e lei partecipasse al gioco. Mi ero sentito un po' serpente, in certi momenti, durante la nostra conversazione nel
bosco... ma, diavolo, lei aveva il diritto di sapere. L'avrebbe scoperto, prima o poi; e prima l'avesse saputo, prima avrebbe potuto cominciare ad organizzare le difese. Era per il suo bene. Naturalmente, era possibile — addirittura probabile — che sua madre e sua nonna fossero vissute ignare della loro eredità... E a cosa era servito? Erano morte di morte violenta, aveva detto Dara. Era possibile, mi chiesi, che la longa manus di Ambra si fosse protesa dall'Ombra per colpirle? E che potesse colpire ancora? Benedict sapeva essere duro e spietato quanto tutti noi, quando voleva. Persino più duro. Avrebbe combattuto per proteggere i suoi cari, e senza dubbio avrebbe anche ucciso uno di noi, se l'avesse ritenuto necessario. Doveva aver pensato che, tenendo segreta l'esistenza di Dara e continuando a farle ignorare la verità, l'avrebbe protetta. Si sarebbe infuriato con me, quando avesse scoperto ciò che avevo fatto; e questa era un'altra buona ragione per andarmene in fretta. Ma non era stato per malvagità che avevo detto a Dara ciò che avevo detto. Volevo che sopravvivesse, ed ero convinto che Benedict non agisse nel modo migliore. Al mio ritorno, lei avrebbe avuto il tempo di riflettere. Avrebbe avuto molte domande da farmi, ed io ne avrei approfittato per metterla in guardia. Digrignai i denti. Non sarebbe stato necessario. Quando io avessi regnato in Ambra, le cose sarebbero cambiate. Era inevitabile... Perché nessuno ha mai trovato il modo di cambiare la natura fondamentale dell'uomo? La cancellazione dei miei ricordi ed una nuova vita in un mondo nuovo avevano prodotto egualmente il solito, vecchio Corwin. Se non fossi stato lieto di essere quel che ero, sarebbe stato un pensiero sconvolgente. In un angolo tranquillo, in riva al fiume, mi ripulii della polvere e del sudore, pensando alla strada nera che aveva ridotto così male i miei fratelli. C'erano molte cose che dovevo sapere. Mentre mi lavavo, Grayswandir non era mai lontana dalla mia mano. Uno di noi è in grado di seguire gli altri attraverso l'Ombra, quando la pista è ancora calda. Feci il bagno indisturbato, anche se usai Grayswandir per tre volte, durante la via del ritorno, contro esseri meno terreni dei miei fratelli. Ma c'era da aspettarselo, dato che avevo accelerato di molto l'andatura... Era ancora buio, sebbene l'alba non fosse lontana, quando entrai nelle scuderie, al maniero di mio fratello. Curai Astro, che era diventato nervo-
sissimo, e lo calmai mentre lo massaggiavo, poi gli portai biada ed acqua in abbondanza. Dragodifuoco, il cavallo di Ganelon, mi salutò dallo stallo di fronte. Mi pulii alla pompa dietro la scuderia, cercando di decidere se era il caso che dormissi un po'. Avevo bisogno di riposo. Qualche ora di sonno mi avrebbe rinvigorito, ma non volevo saperne di dormire sotto il tetto di Benedict. Non ero disposto a lasciarmi prendere tanto facilmente, e sebbene avessi detto spesso che volevo morire nel mio letto, in realtà intendevo che volevo morire in tardissima età, calpestato da un elefante mentre facevo l'amore. Tuttavia, ero disposto a bere i liquori di Benedict, e avevo bisogno di qualcosa di forte. Il maniero era buio. Entrai senza far rumore e raggiunsi la dispensa. Mi versai una dose abbondante, la trangugiai, ne versai un'altra, e la portai alla finestra. Potevo vedere a grande distanza. Il maniero si trovava su una collina, e Benedict aveva curato bene la disposizione dei giardini. «Bianca si stende la lunga strada sotto la luna,» recitai, sorpreso dal suono della mia voce. «Lassù brilla ignara la luna...» «È vero. È proprio vero, Corwin, ragazzo mio,» disse Ganelon. «Non avevo visto che eri lì seduto,» dissi sottovoce, senza scostarmi dalla finestra. «Perché sto immobile,» disse lui. «Oh,» feci. «Sei molto sbronzo?» «Non lo sono affatto,» disse lui. «Adesso. Ma se volessi essere gentile e portarmi da bere...» Mi girai. «Non puoi prenderlo da solo?» «Muovermi mi fa male.» «D'accordo.» Andai a riempirgli un bicchiere, glielo portai. L'alzò lentamente, con un cenno di ringraziamento, bevve un sorso. «Ah, che buono!» sospirò. «Forse mi calmerà un po' i dolori.» «Ti sei azzuffato,» decisi. «Sì,» disse lui. «Parecchie volte.» «E allora sopporta le tue ferite da buon soldato e non pretendere la mia pietà.» «Ma ho vinto!» «Dio! Dove hai lasciato i cadaveri?» «Oh, non erano poi così malconci. È stata una ragazza a ridurmi in que-
ste condizioni.» «Allora direi che hai speso bene il tuo danaro.» «Non è andata affatto così. Credo di aver fatto fare una brutta figura a tutti e due.» «A tutti e due? E come?» «Non sapevo che lei era la padrona di casa. Ero entrato di buonumore, e ho pensato che fosse una domestica...» «Dara?» feci io, tendendomi. «Proprio lei. Le ho dato una manata sul di dietro e ho provato a baciarla...» Ganelon gemette. «Allora lei mi ha sollevato di peso da terra, e mi ha tenuto sospeso in aria. Poi mi ha detto che era la padrona di casa. Poi mi ha lasciato cadere... peso duecentocinquanta libbre, caspita, e la botta è stata dura.» Bevve un altro sorso, e io ridacchiai. «Anche lei ha riso,» disse malinconicamente Ganelon. «Poi mi ha aiutato a rialzarmi, ed è stata gentile, e naturalmente mi sono scusato... Tuo fratello deve essere un bel tipo. Non avevo mai incontrato una ragazza così forte. Quello che sa fare...» C'era quasi reverenza nella sua voce. Scosse lentamente il capo e trangugiò il resto del liquore. «È stato spaventoso... per non parlare dell'imbarazzo,» concluse. «Ha accettato le tue scuse?» «Oh, sì. L'ha presa molto bene. Mi ha detto di non pensarci più, e ha aggiunto che anche lei l'avrebbe dimenticato.» «E allora perché non sei a letto a dormirci sopra?» «Sono rimasto alzato ad aspettarti, nel caso che arrivassi ad ore strane. Volevo parlarti subito.» «Be', lo hai fatto.» Ganelon si alzò lentamente e prese il bicchiere. «Usciamo,» disse. «Buona idea.» Mentre usciva, prese la caraffa del brandy, e mi parve che anche questa fosse una buona idea; percorremmo un vialetto del giardino, dietro la casa. Finalmente, Ganelon sedette su una vecchia panchina di pietra ai piedi d'una grande quercia; riempì di nuovo i nostri bicchieri e bevve qualche sorso. «Ah! Ha buon gusto anche in fatto di liquori, tuo fratello,» disse. Mi sedetti accanto a lui e caricai la pipa. «Dopo essermi scusato con Dara ed essermi presentato abbiamo parlato
per un po',» disse lui. «Appena ha saputo che ero con te, mi ha tempestato di domande su Ambra e le ombre e te e il resto della tua famiglia.» «Le hai detto niente?» chiesi, accendendo la pipa. «Non avrei potuto farlo neppure se l'avessi voluto,» disse Ganelon. «Non so niente.» «Bene.» «Comunque, mi ha dato da pensare. Non credo che Benedict le racconti molte cose, e capisco il perché. Io sarei molto prudente se dovessi parlare di fronte a lei, Corwin. Mi sembra troppo curiosa.» Annuii, sbuffando. «C'è una ragione,» dissi. «È un'ottima ragione. Sono lieto di sapere, comunque, che conservi la lucidità anche quando hai bevuto. Grazie per avermelo detto.» Ganelon scrollò le spalle e bevve. «Una battuta di quel genere fa tornare sobrio. E poi, il tuo interesse è il mio interesse.» «È vero. Questa versione di Avalon incontra la tua approvazione?» «Versione? È la mia Avalon,» disse lui. «C'è una nuova generazione, ma è la stessa terra. Oggi sono andato a visitare il Campo delle Spine, dove, al tuo servizio, liquidai la banda di Jack Hailey. Era lo stesso posto.» «Il Campo delle Spine...» dissi, ricordando. «Sì, questa è la mia Avalon,» continuò Ganelon. «E tornerò qui a trascorrervi la vecchiaia, se usciremo vivi da Ambra.» «Vuoi ancora venire con me?» «Per tutta la vita ho desiderato di vedere Ambra... be', almeno da quando ho cominciato a sentirne parlare. Me ne parlasti tu, in tempi più felici.» «Non ricordo esattamente che cosa ti dissi. Devo avertene parlato bene.» «Quella notte eravamo tutti e due meravigliosamente ubriachi, e ricordo che parlavi, piangendo, del grande monte Kolvir e delle guglie verdi e dorate della città, delle passeggiate, delle terrazze, dei fiori, delle fontane... Mi sembrò che durasse poco, ma continuasti per quasi tutta la notte... perché prima che andassimo a dormire barcollando era già mattina. Dio! Quasi sarei capace di disegnarne la pianta! Devo vederla prima di morire.» «Non ricordo quella notte,» dissi lentamente. «Dovevo essere molto, molto ubriaco.» Ganelon ridacchiò. «Ci siamo divertiti, qui, ai bei tempi,» disse. «E qui si ricordano di noi. Ma come persone vissute tanto tempo fa... E molti episodi li rammentano
male. Ma diavolo! Quanta gente è capace di ricordare esattamente una cosa da un giorno all'altro?» Non dissi nulla, continuai a fumare, e pensare. «... E questo mi spinge a farti un paio di domande,» disse. «Sentiamo.» «L'attacco contro Ambra ti metterà in dissidio con tuo fratello Benedict?» «Vorrei saperlo anch'io,» dissi. «Credo di sì, inizialmente. Ma la mia mossa dovrebbe essere completata prima che lui possa raggiungere Ambra, in risposta alle invocazioni d'aiuto che riceverà. Cioè, raggiungere Ambra con i rinforzi. Lui potrebbe arrivarci in un attimo, personalmente, se qualcuno lo aiutasse dalla città. Ma servirebbe a poco. No. Piuttosto di vedere Ambra andare a pezzi, appoggerà chiunque sia in grado di tenerla insieme, ne sono certo. Quando avrò spodestato Eric, Benedict vorrà che la lotta s'interrompa e accetterà che io resti sul trono, tanto per farla finita. Naturalmente, in un primo momento non approverà la mia presa del potere.» «È a questo che volevo arrivare. Dopo ci sarà cattivo sangue tra voi, per questa faccenda?» «Non credo. È una questione politica, e ci conosciamo da molto tempo, lui ed io, e siamo sempre stati in rapporti migliori di quanto lo siamo mai stati con Eric.» «Capisco. Poiché io e te siamo nella stessa barca, e adesso sembra che Avalon sia di Benedict, mi chiedevo cosa penserebbe se ritornassi qui, un giorno. Mi odierebbe per averti aiutato?» «Ne dubito. Non è mai stato un tipo del genere.» «E allora lasciami continuare. Dio sa se sono un esperto di cose militari, e se riusciremo a prendere Ambra, ne avrai le prove. Con il braccio destro ridotto in quel modo, pensi che potrebbe prendere in considerazione l'eventualità di accettarmi come comandante della sua milizia? Conosco benissimo questa zona. Potrei condurlo sul Campo delle Spine e descrivergli quella battaglia. Diavolo! Lo servirei bene... come ho servito te.» Risi. «Perdonami. Meglio di quanto abbia servito te.» Ridacchiai e sorseggiai il liquore. «Non so,» dissi. «Naturalmente, l'idea mi piace. Ma non sono sicuro che potresti ottenere la sua fiducia. Sembrerebbe un intrigo troppo scoperto da parte mia.» «Accidenti alla politica! Non è questo che intendevo. Non so far altro
che il soldato, e amo Avalon!» «Io ti credo. Ma lui?» «Dato che ha un braccio solo, avrà bisogno di un uomo efficiente al suo fianco. Potrebbe...» Cominciai a ridere e mi affrettai a frenarmi, perché il suono della risata giungeva molto lontano. E poi, non volevo offendere Ganelon. «Mi dispiace,» dissi. «Scusami, ti prego. Non hai capito. Non hai compreso veramente con chi abbiamo parlato quella notte, nella tenda. A te potrà essere sembrato un uomo comune... e mutilato, per giunta. Ma non è così. Io temo Benedict. È diverso da tutti gli altri esseri nell'Ombra e nella realtà. È il Maestro d'Armi di Ambra. Sei capace di immaginare un millennio? Mille anni? Molti millenni? Puoi capire un uomo che, per quasi ogni giorno di una vita tanto lunga, ha trascorso un po' di tempo ad occuparsi di armi, tattiche, strategie? Perché lo vedi in un piccolo regno, al comando di una modesta milizia, con un frutteto ben potato dietro casa sua, ti lasci ingannare. Ma lui ha nella mente tutto ciò che costituisce la scienza militare. Spesso ha viaggiato da un'ombra all'altra, assistendo a innumerevoli varianti della stessa battaglia, con circostanze lievemente diverse, per controllare le sue teorie militari. Ha comandato eserciti così immani che potresti guardarli sfilare per giorni e giorni senza vedere la fine della colonna. Sebbene abbia perduto il braccio, non vorrei battermi con lui, né con le armi né a mani nude. È una fortuna che non miri al trono, altrimenti in questo momento sarebbe lui ad occuparlo. E in tal caso, credo che rinuncerei immediatamente e gli renderei omaggio. Benedict mi fa paura.» Ganelon tacque a lungo, e io bevvi un altro sorso, perché mi sentivo la gola arida. «Naturalmente non me ne ero reso conto,» disse lui. «Mi accontenterò che mi permetta di tornare ad Avalon.» «Questo lo farà. Lo so.» «Dara mi ha detto di aver ricevuto un suo messaggio, oggi. Ha deciso di abbreviare la sua permanenza al campo. Tornerà probabilmente domani.» «Maledizione!» dissi, alzandomi. «Allora dovremo muoverci in fretta. Spero che Doyle abbia preparato la roba. Dobbiamo recarci da lui, domattina, e sbrigare tutto. Voglio andarmene di qui prima del ritorno di Benedict!» «Allora hai i gingilli?» «Sì.» «Posso vederli?»
Slacciai il sacchetto che portavo alla cintura e glielo porsi. L'aprì ed estrasse parecchie pietre, tenendole nel cavo della mano sinistra e girandole lentamente con i polpastrelli. «Non sembrano gran cosa,» disse, «a quanto posso vedere in questa luce. Aspetta! Uno scintillio! No...» «Sono grezzi, naturalmente. Hai nelle mani una fortuna.» «Sorprendente,» disse Ganelon, rimettendo le pietre nel sacchetto e richiudendolo. «È stato così facile, per te.» «Non è stato poi tanto facile.» «Comunque, raccogliere una simile fortuna' così in fretta mi sembra quasi ingiusto.» Mi rese il sacchetto. «Farò in modo che anche tu abbia abbondanti ricchezze, quando avremo terminato le nostre fatiche,» dissi. «Potrebbe essere una consolazione, se Benedict non ti offrisse una carica.» «Adesso che so chi è, sono più deciso che mai a lavorare per lui, un giorno.» «Vedremo cosa si può fare.» «Sì. Grazie, Corwin. Come ci mettiamo d'accordo, per la partenza?» «Voglio che tu riposi un po', perché ti butterò dal letto molto presto. Astro e Dragodifuoco non saranno entusiasti, temo, ma prenderemo a prestito uno dei carri di Benedict, li attaccheremo e andremo in città. Prima, cercherò di combinare una buona cortina fumogena, per ritirarci in buon ordine. Poi passeremo da Doyle, il gioielliere, caricheremo la merce, e ce ne andremo nell'Ombra al più presto possibile. Più grande sarà il nostro vantaggio iniziale, e più sarà difficile per Benedict rintracciarci. Se riusciremo ad assicurarci mezza giornata di vantaggio nell'Ombra, per lui sarà praticamente impossibile.» «Ma perché dovrebbe avere tanta smania d'inseguirci?» «Non si fida di me... e giustamente. Aspetta che io esegua la mia mossa. Sa che qui c'è qualcosa di cui ho bisogno, ma non sa di che si tratta. Ci tiene a scoprirlo, per eliminare una minaccia contro Ambra. Appena si accorgerà che ce ne siamo andati definitivamente, capirà che abbiamo trovato quel che cercavamo, e ci inseguirà.» Ganelon sbadigliò, si stirò, finì di bere. «Sì,» disse poi. «Faremo meglio a riposare, adesso, per essere in forma. Ora che mi hai detto di più sul conto di Benedict, sono meno sorpreso dell'altra cosa che volevo riferirti... anche se non sono meno sconcertato.»
«E cioè?» Lui si alzò, prese la caraffa poi indicò il sentiero. «Se continui in quella direzione,» disse, «passando oltre la siepe che segna il termine di questo pergolato, ed entri nel bosco là sotto... e poi prosegui per altri duecento passi... troverai un boschetto sulla sinistra, sopra un declivio improvviso, circa un braccio più in basso del sentiero. Laggiù, coperta di foglie e di ramoscelli, c'è una tomba scavata da poco. L'ho scoperta mentre prendevo un po' d'aria, prima, quando mi sono fermato per un bisogno naturale.» «E come fai a sapere che è un tomba?» Ganelon ridacchiò. «Quando in una fossa c'è un cadavere, di solito viene chiamata così. Era poco profonda, e ho frugato un po' con un bastoncino. Ci sono quattro corpi, là dentro: tre uomini e una donna.» «Morti da poco?» «Sì. Qualche giorno, direi.» «Li hai lasciati come li hai trovati?» «Non sono uno sciocco, Corwin.» «Scusami. Ma questo mi sconvolge, soprattutto perché non lo capisco.» «Evidentemente davano fastidio a Benedict, e lui ha ricambiato il favore.» «Forse. Com'erano? Come sono morti?» «Non hanno niente di speciale. Erano di mezza età, e qualcuno ha tagliato loro la gola... a parte un uomo che ha il ventre squarciato.» «Strano. Sì, è meglio che ce ne andiamo presto. Abbiamo già abbastanza problemi senza cercarne altri.» «D'accordo. Andiamo a dormire.» «Tu vai. Io ho ancora da fare.» «Segui il tuo consiglio e riposa,» disse Ganelon, avviandosi verso il maniero. «Non stare alzato a preoccuparti.» «Non lo farò.» «Ci vediamo domattina.» Lo guardai avviarsi lungo il vialetto. Aveva ragione, naturalmente, ma non ero ancora disposto a rinunciare alla mia coscienza. Riesaminai i miei piani, per essere certo di non esagerare; finii di bere e posai il bicchiere sulla panchina. Poi mi alzai e passeggiai, trascinandomi dietro spire di fumo di tabacco. C'era un po' di chiaro di luna, sopra la mia spalla, e mancava qualche ora all'alba, secondo i miei calcoli. Ero deciso a passare all'a-
perto il resto della notte, e pensai di trovarmi un posto adatto per dormire. Naturalmente, finii per scendere il sentiero ed entrai nel boschettto. Sondai il terreno e vidi che era stato scavato di recente; ma non me la sentivo di riesumare cadaveri al chiaro di luna, ed ero disposto a credere a quel che me ne aveva detto Ganelon. Non so neppure perché ci andai. Per morbosità, immagino. Tuttavia decisi di non dormire nelle vicinanze. Mi diressi verso l'angolo nord-occidentale del giardino, e trovai una zona che era fuori dalla visuale del maniero. C'erano siepi alte, e l'erba era soffice e profumata. Stesi il mantello, sedetti, e mi sfilai gli stivali. Appoggiai i piedi sull'erba fresca e sospirai. Ormai mancava poco, pensai. Ombre ai diamanti e cannoni ad Ambra. Ormai ero deciso. Un anno prima stavo a marcire in una cella, attraversando e riattraversando il confine tra la ragione e la follia così spesso da cancellarlo. Adesso ero libero, forte, avevo gli occhi ed un piano. Adesso ero una minaccia che cercava di concretarsi di nuovo, una minaccia più tremenda di quanto fossi stato in precedenza. Questa volta non avevo legato la mia sorte ai piani di un altro. Adesso sarei stato responsabile della riuscita o del fallimento. Era una sensazione piacevole, come il contatto con l'erba, come l'alcol che era filtrato nel mio organismo e mi riscaldava d'una fiamma piacevole. Pulii la pipa, la riposi, mi stirai, sbadigliai, e mi accinsi a sdraiarmi. Scorsi un movimento in distanza, mi appoggiai sui gomiti e rimasi in attesa. Non dovetti aspettare molto. Una figura stava passando lentamente sul sentiero, muovendosi senza far rumore. Sparì sotto l'albero dove c'eravamo seduti io e Ganelon, e non ne uscì per molto tempo. Proseguì per alcune decine di passi, si fermò e sembrò guardare nella mia direzione. Poi avanzò verso di me. Mentre girava intorno a un gruppo di arbusti ed emergeva dall'ombra, il chiaro di luna le illuminò improvvisamente il volto. Se ne accorse e sorrise verso di me, rallentando nell'avvicinarsi, fermandosi quando mi fu davanti. Disse: «Devo dedurre che il tuo appartamento non ti piaccia, Principe Corwin.» «Mi piace,» dissi io. «Ma la notte è così bella che mi ha indotto a dormire all'aperto.» «Qualcosa deve averti indotto a lasciare il tuo appartamento anche la scorsa notte,» disse lei. «Nonostante la pioggia.» Sedette accanto a me, sul mantello. «Hai dormito in casa o no?» «Ho passato la notte fuori,» dissi. «Ma non ho dormito. Anzi, non ho
dormito dall'ultima volta che ti ho vista.» «Dove sei stato?» «In riva al mare, a setacciare la sabbia.» «Mi sembra deprimente.» «Lo era.» «Io ho riflettuto molto, da quando sono stata nell'Ombra.» «L'immaginavo.» «E neppure io ho dormito molto. Per questo ti ho sentito rientrare e parlare con Ganelon; ho capito che eri rimasto fuori, quando è rientrato da solo.» «È esatto.» «Devo andare ad Ambra, lo sai. E percorrere il Disegno.» «Lo so. E lo farai.» «Presto, Corwin! Presto!» «Tu sei giovane, Dara. C'è tutto il tempo.» «Maledizione! È tutta la vita che sto aspettando... senza eppure saperlo. Non posso andare ora?» «No.» «Perché no? Potresti condurmi attraverso le ombre, portarmi ad Ambra, lasciarmi percorrere il Disegno...» «Se non verremo uccisi immediatamente, potremmo avere la fortuna di finire rinchiusi in celle adiacenti, per qualche tempo... prima dell'esecuzione.» «Perché? Tu sei un principe della Città. Hai il diritto di fare ciò che vuoi.» Io risi. «Sono un fuorilegge, cara. Se ritorno ad Ambra, finirò giustiziato, ammesso che abbia tanta fortuna. Altrimenti, sarà qualcosa di molto peggio. Ma considerando come sono andate le cose l'ultima volta, direi che si affretterebbero ad uccidermi. E senza dubbio, questa cortesia verrebbe usata anche ai miei compagni.» «Oberon non farebbe mai una cosa simile.» «Credo che lo farebbe, se venisse provocato. Ma la questione non si pone neppure. Oberon non c'è più, e mio fratello Eric siede sul trono e si proclama sovrano.» «Quand'è avvenuto?» «Parecchi anni fa, secondo il modo di misurare il tempo ad Ambra.» «Perché dovrebbe volerti morto?»
«Per impedirmi di ucciderlo, naturalmente.» «Lo faresti?» «Sì, e lo farò. E presto, credo.» Dara si voltò a guardarmi. «Perché?» «Per occupare il trono. È mio di diritto, capisci. Eric lo ha usurpato. Sono sfuggito recentemente alle torture ed alla prigionia. Tuttavia lui aveva commesso un errore, prendendosi il lusso di tenermi in vita, per godersi la mia sofferenza. Non aveva mai pensato che mi sarei liberato e sarei tornato a sfidarlo. Non lo prevedevo neppure io, se è per questo. Ma poiché ho avuto la fortuna di trovare una seconda occasione, avrò cura di non commettere il suo identico errore.» «Ma è tuo fratello.» «Ben pochi ne sono consapevoli quanto me e lui, ti assicuro.» «E tra quanto prevedi di realizzare... il tuo scopo?» «Come ho detto l'altro giorno, se potrai impadronirti dei Trionfi, mettiti in contatto con me fra tre mesi. Se non puoi, e se le cose andranno secondo i miei piani, sarò io a mettermi in contatto con te, fin dall'inizio del mio regno. Avrai la possibilità di percorrere il Disegno entro un anno.» «E se fallirai?» «Allora la tua attesa sarà più lunga. Fino a quando Eric avrà rinsaldato il suo dominio, e fino a quando Benedict lo avrà riconosciuto come sovrano. Vedi, Benedict non è disposto a farlo. È rimasto lontano da Ambra per molto tempo, ed a quanto ne sa Eric, non è più tra i vivi. Se dovesse ricomparire adesso, dovrebbe prendere posizione, pro o contro Eric. Se si schierasse al suo fianco, la continuità del regno di Eric sarebbe assicurata... e Benedict non vuole addossarsi questa responsabilità. Se si schierasse contro di lui, vi sarebbe la guerra... e non vuole neppure questo. Non vuole la corona per sé. Solo restando completamente estraneo può assicurare quella poca tranquillità che c'è. Se ricomparisse e rifiutasse di prendere posizione, lui probabilmente se la caverebbe: ma equivarrebbe a rifiutare la sovranità di Eric, e questo potrebbe causare guai. Se ricomparisse insieme a te, in pratica si consegnerebbe, perché Eric si servirebbe di te per premere su di lui.» «Quindi, se tu perdessi, io non potrei andare mai ad Ambra!» «Ti sto solo descrivendo la situazione come la vedo io. Senza dubbio vi sono molti fattori che non conosco. Sono rimasto fuori circolazione troppo a lungo.»
«Tu devi vincere!» disse lei. Poi, all'improvviso: «Il nonno ti appoggerebbe?» «Ne dubito. Ma la situazione sarebbe molto diversa. Sono al corrente della sua esistenza e della tua. Non chiederò il suo appoggio. Mi basta che non si opponga a me. E se sarò svelto, efficiente, e vincerò, allora non si opporrà. Non gli farà piacere che io abbia scoperto la verità sul tuo conto, ma quando vedrà che non intendo farti del male si tranquillizzerà.» «Perché non ti sei servito di me? Mi sembra la cosa più logica.» «Infatti. Ma ho scoperto che mi sei simpatica,» dissi io. «Quindi non se ne parla.» Dara rise. «Ti ho incantato!» disse. Risi anch'io. «Nel tuo modo delicato, con la spada in pugno... sì.» Ridivenne seria, di colpo. «Il nonno tornerà domani,» disse. «Ganelon te l'ha detto?» «Sì.» «E questo influisce sulle tue decisioni?» «Ho intenzione di andarmene prima del suo arrivo.» «E lui cosa farà?» «Innanzi tutto, si arrabbierà moltissimo di trovarti qui. Poi vorrà sapere come hai fatto a tornare, e che cosa mi hai detto di te.» «Cosa dovrei rispondergli?» «Digli la verità circa il modo in cui sei tornata. Questo lo farà riflettere. In quanto alla tua posizione sociale, l'intuito femminile ti ha suggerito di diffidare di me, e hai raccontato la stessa cosa che avevi detto a Julian e Gérard. Per ciò che riguarda me, io e Ganelon ci siamo fatti prestare un carro e siamo andati in città, dicendo che saremmo tornati molto tardi.» «Dove andrete, in realtà?» «In città, ma non ci fermeremo. E non torneremo qui. Voglio assicurarmi un buon vantaggio, perché Benedict potrebbe rintracciarci nell'Ombra, fino ad un certo punto.» «Lo tratterrò il più a lungo possibile. Non avevi intenzione di vedermi, prima di partire?» «Volevo parlarti domani mattina. Mi hai preceduto, con la tua inquietudine.» «Allora sono lieta di questa... inquietudine. Come hai intenzione di conquistare Ambra?»
Scossi il capo. «No, Dara. Tutti i principi intriganti devono serbare qualche piccolo segreto. Questo è uno dei miei.» «Mi stupisce sapere che in Ambra ci sono tanti intrighi e tanta diffidenza.» «Perché? Gli stessi conflitti esistono dovunque, in varie forme. Li hai sempre intorno, perché ogni luogo prende forma da Ambra.» «È difficile capire...» «Un giorno capirai. Lascia stare, per ora.» «Allora dimmi un'altra cosa. Poiché sono in grado di muovermi tra le ombre, senza aver percorso il Disegno, dimmi più esattamente come si fa. Voglio imparare meglio.» «No!» esclamai. «Non voglio che tu scherzi con l'Ombra, prima di essere pronta. È pericoloso anche dopo aver percorso il Disegno. Tentare prima è pazzesco. Sei stata fortunata, ma non provartici più. Sono addirittura disposto ad aiutarti, ma non ti dirò altro.» «Sta bene!» disse lei. «Scusami. Credo che potrò aspettare.» «Credo di sì. Senza rancore?» «Sì. Ecco...» Dara rise. «Non servirebbe a niente, tanto. Tu devi sapere quello che dici. Sono lieta che ti preoccupi per me.» Io borbottai, e lei tese la mano e mi sfiorò la guancia. Girai di nuovo la testa: il suo viso si avvicinava lentamente al mio, senza più sorridere, con le labbra semiaperte, gli occhi semichiusi. Quando ci baciammo sentii le sue braccia cingermi il collo e le spalle, e le mie braccia la cinsero. Il mio stupore si smarrì nella dolcezza, lasciò il posto al calore e all'eccitazione. Se Benedict l'avesse scoperto, giustamente si sarebbe infuriato con me... 7 Il carro cigolava, monotono, ed il sole era già avviato verso occidente, sebbene continuasse a riversare su di noi caldi torrenti di luce. Ganelon era dietro, fra le casse, e russava: gli invidiavo quell'occupazione rumorosa. Stava dormendo da parecchie ore, e quello, per me, era il terzo giorno senza riposo. Eravamo circa a quindici miglia dalla città, diretti verso nord-est. Doyle non aveva potuto completare l'ordinazione, ma Ganelon ed io l'avevamo convinto a chiudere la bottega per accelerare la produzione. E questo aveva causato un ritardo di parecchie ore. Io mi ero sentito troppo teso per dormire, e non ne avevo voglia neppure adesso, mentre avanzavo lenta-
mente tra le ombre. Scacciai la stanchezza e trovai qualche nube che mi diede un po' di frescura. Percorrevamo una strada di terra battuta, arida e piena di solchi. Era di una sgradevole sfumatura gialla, e si screpolava e si sgretolava al nostro passaggio. L'erba bruna pendeva inerte ai lati della strada, e gli alberi erano bassi e contorti, con la corteccia spessa e pelosa. Passammo davanti a vari depositi di schisto. Avevo pagato bene Doyle, ed avevo acquistato anche un bel braccialetto, che doveva venire consegnato a Dara il giorno seguente. Avevo i miei diamanti nella cintura, Grayswandir a portata di mano. Astro e Dragodifuoco procedevano energicamente. La mia avventura era incominciata. Mi chiesi se Benedict era già arrivato a casa, e per quanto tempo si sarebbe lasciato ingannare circa la mia ubicazione. Era ancora un pericolo, per me. Era capace di seguire una pista attraverso l'Ombra per grandi distanze, e io stavo lasciando una traccia molto evidente. Comunque, non potevo far altro. Avevo bisogno del carro, dovevo accontentarmi di quella velocità, e non ero in grado di addossarmi un'altra cavalcata infernale. Provvedevo ai mutamenti adagio, cautamente, consapevole di avere i sensi annebbiati dalla crescente stanchezza; speravo che l'accumularsi dei cambiamenti e della distanza ergesse una barriera tra me e Benedict, e che presto diventasse impenetrabile. Passai dal tardo pomeriggio al mezzogiorno entro le due miglia successive, ma feci in modo che fosse un meriggio nuvoloso, perché era solo la sua luce che desideravo, non il suo calore. Poi riuscii ad individuare una lieve brezza. Aumentava le probabilità di pioggia, ma ne valeva la pena. Non si può avere tutto. Ormai stavo lottando con la sonnolenza, e provavo la tentazione di svegliare Ganelon e di aggiungere altre miglia al nostro percorso, semplicemente, lasciandolo guidare mentre io dormivo. Ma avevo paura di fare una cosa simile all'inizio del viaggio. C'erano ancora troppe cose da fare. Volevo ancora la luce del giorno, ma avevo anche bisogno d'una strada migliore, ed ero nauseato di quella stramaledetta creta gialla, e dovevo far qualcosa per via di quelle nuvole, e dovevo pensare continuamente alla destinazione... Mi soffregai gli occhi, trassi qualche profondo respiro. Le idee cominciavano a sobbalzare nella mia testa, e il costante clop-clop degli zoccoli dei cavalli e lo scricchiolio del carro avevano un effetto soporifero. Ero già intontito dagli scossoni e dal dondolio. Le redini mi pendevano lente tra le
mani, e già mi ero assopito, una volta, lasciandomele sfuggire. Fortunatamente, i cavalli sembravano sapere benissimo quello che dovevano fare. Dopo qualche tempo, salimmo un lungo, facile pendio, che discese in un mattino. Ormai il cielo era scuro, e ci vollero parecchie miglia e mezza dozzina di svolte della strada per dissipare la coltre di nubi. Un temporale avrebbe potuto trasformare il percorso in un fiume di fango, e molto in fretta. Rabbrividii a quel pensiero, lasciai in pace il cielo, e concentrai di nuovo l'attenzione sulla strada. Arrivammo ad un ponte diroccato che scavalcava il letto di un torrente in secca. Dall'altra parte, la strada era più spianata, meno gialla. Via via che avanzavamo, divenne più scura, più piatta, più dura, e l'erba verde cominciò a fiancheggiarla. Ma intanto aveva preso a piovere. Lottai per qualche tempo, deciso a non rinunciare alla mia erba ed alla strada scura e facile. Mi doleva la testa, ma l'acquazzone cessò dopo quattrocento metri, ed il sole tornò ad affacciarsi. Il sole... oh, sì, il sole. Procedemmo sferragliando, e giungemmo ad un avallamento dove la strada scendeva tortuosamente tra alberi più colorati. Arrivammo così in una valle fresca, e attraversammo un altro ponticello: sotto c'era uno stretto nastro d'acqua che scorreva al centro del letto sassoso. Mi ero avvolto le redini intorno al polso, perché rischiavo continuamente di assopirmi. Come da grande distanza, mettevo a fuoco le mie facoltà di concentrazione, raddrizzando, scegliendo... Gli uccelli interrogavano il giorno, incerti, dai boschi alla mia destra. Gocce lucenti di rugiada aderivano all'erba, alle foglie. L'aria si raffreddò, ed i raggi del sole del mattino scesero obliqui tra gli alberi... Ma il mio organismo non si lasciò ingannare dal risveglio entro quell'ombra, e provai un senso di sollievo quando sentii finalmente Ganelon che si muoveva imprecando. Se non si fosse svegliato, presto sarei stato costretto a chiamarlo io. Meno male. Tirai dolcemente le redini, ed i cavalli capirono e si fermarono. Tirai il freno, poiché eravamo ancora su un pendio, e presi una bottiglia d'acqua. «Ehi!» disse Ganelon, mentre bevevo. «Lasciane un goccio anche a me!» Gli passai la bottiglia. «Adesso guida tu,» gli dissi. «Io devo dormire un po'.»
Lui bevve per mezzo minuto, poi esalò un respiro esplosivo. «Giusto,» disse, saltando dal carro. «Ma aspetta un momento. La natura ha le sue esigenze.» Si allontanò dalla strada, ed io strisciai verso il pagliericcio e mi stesi al suo posto, piegando il mantello per farmene un cuscino. Dopo qualche istante, lo sentii salire a cassetta, e vi fu uno scossone quando tolse il freno. Schioccò la lingua e batté leggermente le redini. «È mattina?» mi chiese, girando la testa. «Sì.» «Dio! Ho dormito tutto il giorno e tutta la notte!» Ridacchiai. «No: io ho spostato un po' le ombre,» dissi. «Hai dormito solo sei o sette ore.» «Non capisco. Ma non importa, ti credo. Dove siamo, adesso?» «Ancora diretti verso nord-est,» dissi io. «A circa venti miglia dalla città, una dozzina dalla residenza di Benedict. Ci siamo mossi attraverso l'Ombra.» «Cosa devo fare?» «Continua a seguire la strada. Dobbiamo accumulare la distanza.» «Benedict potrebbe ancora raggiungerci?» «Credo di sì. È per questo che non possiamo fare ancora riposare i cavalli.» «Sta bene. Devo tenere gli occhi aperti per via di qualcosa di speciale?» «No.» «Quando devo svegliarti?» «Mai.» Poi Ganelon tacque, e mentre attendevo che la mia coscienza si dileguasse, pensai a Dara, naturalmente. Avevo continuato a pensare a lei tutto il giorno. Era stato un atto senza premeditazione, da parte mia. Non l'avevo neppure considerata una donna, fino a quando lei si era buttata tra le mie braccia e mi aveva fatto cambiare idea in proposito. Dopo un attimo, i miei nervi spinali avevano preso il sopravvento, riducendo l'attività cerebrale alla sua funzione fondamentale, come mi aveva detto una volta Freud. Non potevo dare la colpa all'alcol, perché non avevo bevuto molto e non mi aveva fatto neppure molto effetto. Perché volevo darne la colpa a qualcosa, del resto? Perché mi sentivo un po' colpevole, ecco perché. Lei era una parente troppo alla lontana per considerarla veramente tale. Non si trattava di questo.
Non pensavo di aver approfittato slealmente di lei, perché lei aveva saputo quello che faceva quando era venuta a cercarmi. Erano le circostanze che mi inducevano a dubitare delle mie motivazioni, anche al momento cruciale. Io avevo desiderato qualcosa di più che conquistare la sua fiducia e la sua amicizia, quando le avevo parlato per la prima volta e l'avevo condotta con me nell'Ombra. Stavo cercando di alienare un po' della sua devozione, dell'affetto e della fiducia che provava per Benedict, e di volgerlo a mio favore. Avevo desiderato di tirarla dalla mia parte, quale possibile alleata in quello che poteva diventare un campo nemico. Avevo sperato di potermi servire di lei, se se ne fosse presentata la necessità. Tutto questo era verissimo. Ma non volevo credere che avevo approfittato di lei solo per questa ragione. Sospettavo che fosse parzialmente vero, comunque, e questo mi faceva sentire inquieto, ignobile. Perché? Ai miei tempi avevo fatto molte cose che la maggior parte della gente avrebbe considerato ben peggio, e non ne ero particolarmente turbato. Lottai con quel pensiero: non mi andava di ammetterlo, ma conoscevo già la risposta. Quella ragazza mi stava a cuore. Era molto semplice. Era diverso dall'amicizia che avevo provato per Lorraine, con quel fattore di stanca comprensione tra due veterani disgustati del mondo, o l'atmosfera di disinvolta sensualità che era esistita tra me e Moire prima che percorressi il Disegno per la seconda volta. Era molto diverso. La conoscevo da così poco tempo che era quasi illogico. Ero un uomo con molti secoli alle spalle. Eppure... non mi ero sentito così da centinaia d'anni. Avevo dimenticato quella sensazione. Non volevo innamorarmi di lei. Non adesso. Forse più tardi. O meglio ancora mai. Non andava bene per me, Dara. Era una bambina. Io avevo già fatto tutto ciò che lei voleva fare, tutte le cose che lei avrebbe giudicate nuove e affascinanti. No, era un errore. Non avevo motivo d'innamorarmi di lei. Non dovevo permettermelo... Ganelon canticchiava una canzone scollacciata, e stonava. Il carro sobbalzava e scricchiolava; poi svoltò, in salita. Il sole mi colpì il volto e mi coprii gli occhi con l'avambraccio. Più o meno in quel momento, l'oblio mi afferrò e mi strinse. Quando mi svegliai era passato mezzogiorno, e mi sentivo sudicio. Bevvi una lunga sorsata d'acqua, ne versai un po' nel cavo della mano e mi soffregai gli occhi. Mi pettinai i capelli con le dita. Diedi un'occhiata intorno. Intorno a noi c'era la vegetazione: piccoli gruppi d'alberi e tratti scoperti, dove cresceva l'erba alta. Stavamo percorrendo ancora una strada sterrata,
compatta e abbastanza liscia. Il cielo era sereno, c'erano soltanto alcune nuvolette, e l'ombra si alternava abbastanza regolarmente alla luce del sole. C'era una leggera brezza. «Siamo tornati tra i vivi, eh? Bene!» disse Ganelon, mentre io scavalcavo la sponda divisoria e gli sedevo accanto. «I cavalli cominciano ad essere stanchi, Corwin, e vorrei sgranchirmi un po' le gambe,» disse. «E ho anche una gran fame. Tu no?» «Sì. Fermati in quel posto ombroso, sulla sinistra. Riposeremo per un po'.» «Io preferirei anche un po' più lontano,» rispose lui. «Per qualche ragione speciale?» «Sì. Voglio mostrarti qualcosa.» «Prosegui.» Continuammo per circa mezzo miglio, poi una curva della strada ci portò in direzione nord. Poco dopo arrivammo ad una collina, e quando la salimmo trovammo un'altra collina, che portava ancora più in alto. «Hai intenzione di andare ancora molto lontano?» chiesi. «Dobbiamo salire sulla prossima altura,» rispose. «Da lassù, dovremmo poterlo vedere.» «Sta bene.» I cavalli faticarono a salire l'erta dell'altra collina, ed io scesi a spingere il carro. Quando arrivammo finalmente in cima, mi sentivo ancora più sporco di sudore e di polvere, ma ero di nuovo perfettamente svéglio. Ganelon tirò le redini e mise il freno. Tornò nella parte posteriore del carro e montò su una cassa. Si girò verso sinistra, facendosi solecchio con la mano. «Vieni qui, Corwin,» chiamò. Scavalcai la sponda del carro, e lui si chinò per tendermi la mano, mi aiutò a salire sulla cassa. Poi tese il braccio, e io seguii il suo gesto. A una distanza di circa tre quarti di miglio, c'era un'ampia fascia nera, che si stendeva da sinistra a destra fino a perdita d'occhio. Eravamo diverse centinaia di metri più in alto, e potevamo vedere piuttosto bene un tratto di mezzo miglio circa. Era larga alcune decine di metri; e sebbene vedessi due curve, l'ampiezza sembrava restare costante. C'erano alberi, entro quella striscia, ed erano completamente neri. Sembrava che vi fosse un certo movimento. Non avrei saputo dire di che si trattasse. Forse era solo il vento che increspava l'erba nera sul bordo della fascia. Ma mi dava la sensazione che scorresse, come la corrente di un fiume piatto e scuro.
«Che cos'è?» chiesi. «Credevo che potessi dirmelo tu,» rispose Ganelon. «Pensavo che facesse parte delle tue stregonerie delle ombre.» Scossi il capo, lentamente. «Ero insonnolito, ma me lo ricorderei se avessi portato ad esistere una cosa tanto strana. Come te ne sei accorto?» «L'abbiamo sfiorata diverse volte mentre tu dormivi, e poi ce ne siamo allontanati di nuovo. Non mi piaceva l'atmosfera che irradia: è familiare. Non ti rammenta qualcosa?» «Sì. Sì. Sfortunatamente.» Ganelon annuì. «E come quel dannato Cerchio, a Lorraine. Ecco a che cosa somiglia.» «La strada nera...» dissi. «Cosa?» «La strada nera,» ripetei. «Non sapevo a cosa si riferisse, quando lei me ne ha parlato, ma adesso incomincio a capire. Brutto segno.» «Un altro presagio maligno?» «Temo di sì.» Ganelon bestemmiò, poi: «Ci causerà qualche difficoltà immediata?» chiese. «Non credo, ma non ne sono sicuro.» Lui scese dalla cassa e io lo seguii. «Allora cerchiamo un po' di foraggio per i cavalli,» disse. «E pensiamo anche al nostro stomaco.» «Sì.» Passammo a cassetta, e lui prese le redini. Trovammo un posto adatto ai piedi della collina. Indugiammo per quasi un'ora, parlando soprattutto di Avalon. Non parlammo più della strada nera, sebbene io continuassi a pensarci. Dovevo andare a vederla più da vicino, naturalmente. Quando fummo pronti a proseguire, presi di nuovo le redini. I cavalli, un po' ristorati, procedettero a buon passo. Ganelon sedeva alla mia sinistra ed aveva ancora voglia di parlare. Solo allora cominciavo a capire cosa significava per lui quello strano ritorno in patria. Aveva rivisitato molti dei luoghi che gli erano stati familiari al tempo in cui era un bandito, e quattro campi di battaglia su cui si era distinto dopo aver acquisito la rispettabilità. Mi sentivo commosso dalle sue reminiscenze. Quell'uomo era uno strano miscuglio d'oro e di fango. Avrebbe
dovuto essere un Amberita. Le miglia si snodavano rapide; ci stavamo avvicinando di nuovo alla fascia nera, quando provai una fitta mentale che conoscevo benissimo. Passai le redini a Ganelon. «Prendile!» disse. «Guida tu!» «Cosa c'è?» «Più tardi! Guida!» «Devo affrettare il passo?» «No. Continua normalmente. Non dire niente, per un po'.» Chiusi gli occhi e appoggiai la testa fra le mani, svuotando la mente ed erigendo un muro intorno a quel vuoto. Non c'è nessuno in casa. Sono uscito a pranzo. Questa proprietà è abbandonata. Non disturbare. Vietato l'accesso. Attenti al cane. Caduta massi. Edifici pericolanti... La fitta si attenuò, poi ritornò, più forte, e la bloccai di nuovo. Poi venne una terza ondata. Arrestai anche quella. Poi svanì. Sospirai, soffregandomi gli occhi. «Tutto a posto, adesso,» dissi. «Cos'è accaduto?» «Qualcuno ha cercato di mettersi in contatto con me in un modo molto speciale. Quasi sicuramente era Benedict. Ormai deve aver scoperto molte cose che gli avranno messo addosso la smania di fermarci. Posso riprendere io le redini, adesso. Temo che presto si metterà sulle nostre tracce.» Ganelon mi passò le redini. «Che speranze abbiamo di sfuggirgli?» «Piuttosto buone, ormai, direi, dato che siamo piuttosto lontani. Appena la mia testa avrà smesso di girare, cambierò ancora qualche ombra.» Continuai a guidare, e la strada si snodò tortuosa, parallela per un tratto alla fascia nera; poi si avvicinò. Finalmente, ci trovammo a poche centinaia di metri. Ganelon studiò la strada nera a lungo, in silenzio, quindi disse: «Mi ricorda troppo il Cerchio. Le piccole lingue di vapore che lambiscono gli oggetti, la sensazione che qualcosa si muova continuamente al limite della visuale...» Mi morsi le labbra. Cominciai a sudare. Adesso stavo cercando di compiere uno spostamento per allontanarmi da quella strada, e incontravo una certa resistenza. Non era la sensazione di inamovibilità monolitica che si prova quando si cerca di muoversi attraverso l'Ombra, ad Ambra. Era del
tutto diversa. Era una sensazione di... ineluttabilità. Ci muovemmo attraverso l'Ombra. Il sole sali più alto, avviandosi di nuovo verso il meriggio — non mi andava l'idea di incontrare la notte accanto a quella fascia nera — ed il cielo perse un po' del suo azzurro e gli alberi divennero più alti intorno a noi, e in lontananza apparvero le montagne. La strada tagliava attraverso l'Ombra? Doveva essere così. Altrimenti, perché Julian e Gérard avevano potuto scoprirla, lasciandosi indurre ad esplorarla per curiosità? Era un guaio, ma temevo che avessimo molte cose in comune, io e quella strada. Maledizione! La costeggiammo per un lungo tratto, avvicinandoci gradualmente. Poi, solo una trentina di metri ci separarono dalla strada. Quindici... ... E poi, come avevamo previsto, le due strade s'intersecarono. Tirai le redini. Riempii la pipa e l'accesi, e fumai mentre studiavo la strada nera. Evidentemente, Astro e Dragodifuoco non provavano nessuna simpatia per la fascia nera che ci tagliava il cammino. Avevano nitrito e cercato di tirarsi in disparte. Se volevamo proseguire, dovevamo tagliare diagonalmente quella striscia tenebrosa. E parte del terreno era nascosto alla nostra vista da una serie di basse colline di pietra. Sul limitare cresceva fitta l'erba, e chiazze nere si estendevano qua e là ai piedi delle colline. Spire di vapore vi aleggiavano nel mezzo, e nubi fioche erano librate su tutte le depressioni. Il cielo, visto attraverso l'atmosfera che circondava quel luogo, era molto più scuro, e sembrava quasi sporco, fuligginoso. Un silenzio che non era un vero silenzio incombeva sulla fascia, come se un'entità invisibile fosse presente e trattenesse il respiro. Poi udimmo un urlo. Era una voce femminile. Il vecchio trucco della donzella nei guai? Giungeva dalla destra, non lontano, oltre quelle alture. Mi puzzava d'imbroglio. Ma all'inferno! Poteva anche essere reale. Gettai le redini a Ganelon e balzai a terra, impugnando Grayswandir. «Vado a controllare,» dissi, avviandomi verso destra e scavalcando il fossato che fiancheggiava la strada. «Sbrigati a tornare!» Mi avventurai tra i cespugli e m'inerpicai su per un pendio sassoso. Poi mi feci largo tra altri arbusti, scendendo, e salii un'altra erta, ancora più al-
ta. L'urlo si ripeté mentre mi arrampicavo, e questa volta udii anche altri suoni. Poi arrivai in cima e potei vedere per una certa distanza. La zona nera incominciava una dozzina di braccia sotto di me, e la scena che stavo cercando con lo sguardo era all'incirca a una cinquantina di metri. Era una scena monocromatica, escludendo le fiamme. Una donna, tutta vestita di bianco, con i neri capelli sciolti fino alla cintola, era legata ad uno di quegli alberi scuri, ed ai suoi piedi erano ammucchiati rami fumanti. Sei uomini, albini e villosi, quasi completamente nudi ed intenti a finire di svestirsi, si aggiravano intorno a lei, borbottando e ridacchiando, attizzando il fuoco, colpendo la donna con i bastoni stretti nei pugni, e stringendosi ripetutamente l'inguine. Le fiamme erano ormai abbastanza alte da strinare gli abiti della donna. La lunga veste era scompigliata e lacera, e mi permetteva di vedere che aveva un corpo incantevole e voluttuoso, sebbene il fumo l'avvolgesse impedendomi di scorgere il suo volto. Mi precipitai, penetrando nell'area della strada nera, balzando sopra l'erba lunga ed aggrovigliata, e mi avventai alla carica in mezzo al gruppo: decapitai l'uomo che mi stava più vicino e ne trapassai un altro prima che quelli si rendessero conto della mia presenza. Gli altri si girarono, mulinando i bastoni e gridando. Grayswandir inferse loro tremende ferite, fino a quando gli albini caddero e tacquero. Il loro sangue era nero. Mi voltai, trattenendo il respiro, e scostai a calci i rami fiammeggianti. Poi mi avvicinai alla donna e tagliai i legami. Mi cadde tra le braccia, singhiozzando. Solo allora notai il suo volto... o meglio, mi accorsi che non aveva un volto. Portava una maschera d'avorio, ovale e curvilinea, senza lineamenti; c'erano solo due minuscole fenditure rettangolari per gli occhi. La trascinai lontano dal fumo e dalla carneficina. Si aggrappò a me, ansimando, appoggiandosi di peso. Dopo quello che mi parve un indugio decente, cercai di liberarmi. Ma lei non voleva lasciarmi andare, ed era sorprendentemente forte. «Ormai è tutto sistemato,» dissi, o qualcosa di altrettanto banale e giustificato; ma lei non rispose. Continuava a tenermi avvinto, con movimenti bruschi e carezzevoli dall'effetto piuttosto sconcertante. Mi appariva sempre più desiderabile ad ogni momento che passava. Mi sorpresi ad accarezzarle i capelli... e anche il
resto. «È tutto a posto, ormai,» ripetei. «Chi sei? Perché volevano bruciarti? Chi erano?» Ma la donna non rispose. Non singultava più, ma il suo respiro era ancora pesante, sebbene in modo diverso. «Perché porti questa maschera?» Feci per toglierla, e lei ributtò la testa all'indietro. Comunque, non mi pareva una cosa troppo importante. Benché una parte di me, fredda e logica, sapesse che la passione era irrazionale, ero incapace di resistere, come gli dei degli epicurei. La volevo, ed ero pronto a prenderla. Poi sentii Ganelon gridare il mio nome, e cercai di voltarmi in quella direzione. Ma lei mi trattenne. La sua forza mi sconcertava. «Figlio di Ambra,» disse con quella voce che mi pareva vagamente di riconoscere. «Ti dobbiamo questo per ciò che tu ci hai dato, ed ora ti avremo interamente.» Mi giunse di nuovo la voce di Ganelon, in un torrente incessante di bestemmie. Usai tutte le mie forze per liberarmi dalla stretta, e la sentii indebolirsi. La mia mano scattò e strappai via la maschera. Vi fu un breve grido di rabbia mentre mi liberavo, e quattro parole decise, mentre la maschera cadeva. «Ambra deve essere distrutta!» Non c'era volto, dietro la maschera. Non c'era nulla. La veste si afflosciò e rimase appesa al mio braccio. La donna — o l'essere — era svanita. Mi affrettai a voltarmi, e vidi Ganelon disteso sul bordo della strada nera, con le gambe contorte in modo innaturale. La sua spada si alzò e si abbassò lentamente: ma non riuscii a vedere cosa cercasse di colpire. Corsi verso di lui. L'erba nera, che io avevo superato a balzi, s'era avvinghiata intorno alle sue caviglie ed alle gambe. Mentre Ganelon la recideva, altre si dibattevano sferzando, come cercassero di imprigionare il braccio che reggeva la spada. Era riuscito a liberarsi parzialmente la gamba destra, ed io mi protesi e riuscii a completare l'opera. Mi misi dietro di lui, lontano dalla portata delle erbe, e gettai via la maschera, accorgendomi in quel momento di averla ancora in mano. Cadde a
terra, oltre l'orlo nero, e immediatamente cominciò a fumigare. Afferrai Ganelon per le ascelle, e cercai di trascinarlo via. L'erba resistette rabbiosamente, ma alla fine lo liberai. Poi lo trasportai, superando a balzi i ciuffi d'erba nera che ci separavano dalle erbe verdi e più docili oltre la strada. Si rimise in piedi e continuò ad appoggiarsi contro di me; poi si piegò e cominciò a massaggiarsi le gambe. «Sono intorpidite,» disse. «Non me le sento più.» Lo aiutai a ritornare al carro. Si strinse i fianchi e cominciò a battere i piedi. «Mi prudono,» dichiarò. «Il sangue ricomincia ad affluire... Oooh!» Finalmente, si diresse zoppicando verso la parte anteriore del carro. Lo aiutai a salire a cassetta, poi lo seguii. Ganelon sospirò. «Così va meglio,» disse. «Adesso comincio a sentirmi di nuovo le gambe. Quell'erbaccia mi aveva tolto le forze... e non solo alle gambe, ma a tutto il corpo. Che cos'è accaduto?» «Il nostro cattivo auspicio si è concretato.» «E adesso?» Ripresi le redini e tolsi il freno. «Attraversiamo,» dissi. «Devo scoprirne di più, su questa faccenda. Tieni la spada a portata di mano.» Ganelon grugnì e si posò la lama sulle ginocchia. I cavalli non erano entusiasti dell'idea di proseguire, ma io li toccai leggermente sui fianchi con la frusta, e cominciarono a muoversi. Entrammo nell'area nera; e fu come penetrare in un documentario della seconda guerra mondiale. Remota eppure vicina, cruda, deprimente, lugubre. Persino lo scricchiolio e i battiti degli zoccoli erano attutiti e sembravano distanti. Un lieve ronzio insistente incominciò nelle mie orecchie. L'erba che fiancheggiava la strada si agitava al nostro passaggio, sebbene io me ne tenessi lontano. Attraversammo diversi banchi di nebbia: erano inodori, ma il nostro respiro si appesantiva, ogni volta. Quando ci avvicinammo alla prima collina, incominciai il mutamento che ci avrebbe portati attraverso l'Ombra. Girammo intorno alla collina. Nulla. Il panorama tenebroso e miasmatico era immutato. Mi infuriai. Tracciai il Disegno a memoria, lo tenni, sfolgorante, davanti
all'occhio della mente. Tentai di nuovo di operare il cambiamento. Subito, cominciò a dolermi la testa. Una fitta saettò dalla fronte alla parte posteriore del cranio e vi rimase, come un filo metallico arroventato. Ma questo servì solo ad alimentare la mia rabbia, m'indusse a sforzarmi ancora di più per cambiare la strada nera che portava nel nulla. Tutto oscillò. La nebbia s'infittì, ondeggiò a spire attraverso la strada. I contorni divennero indistinti. Scossi le redini, e i cavalli affrettarono il passo. La mia testa cominciò a pulsare, come se stesse per andare a pezzi. E invece, per un attimo, andò a pezzi tutto il resto... Il suolo tremò, spaccandosi in molti punti. Tutto parve sconvolto da un brivido spasmodico, e la spaccatura divenne ben più che le crepe del terreno. Era come se qualcuno avesse improvvisamente preso a calci le gambe di una tavola su cui stavano i pezzi di un rompicapo. Apparvero squarci nella prospettiva: qui un ramo verde, là lo scintillio dell'acqua, un brandello di cielo azzurro, un nero assoluto, un nulla bianco, la facciata di un edificio di mattoni, volti dietro una finestra, fiamme, un tratto di cielo pieno di stelle... Ormai i cavalli galoppavano, ed io dovevo sforzarmi per non urlare di dolore. Un frastuono di rumori frammisti — umani, animali, meccanici — ci investì. Mi parve di sentire Ganelon imprecare, ma non ne ero sicuro. Pensai che sarei svenuto per il dolore, ma decisi, per pura rabbia ostinata, di insistere egualmente. Mi concentrai sul Disegno, come un moribondo invocherebbe il suo Dio, e scagliai tutta la mia volontà contro l'esistenza della strada nera. Poi la pressione cessò ed i cavalli, galoppando furiosamente, ci trascinarono in un prato verde. Ganelon fece per afferrare le redini, ma le tirai io stesso e gridai fino a quando i cavalli si fermarono. Avevamo attraversato la strada nera. Immediatamente mi voltai a guardare. La scena appariva tremula, come se la vedessi attraverso acque inquiete. Ma la traccia del nostro passaggio spiccava come un ponte od una diga, e l'erba che lo fiancheggiava era verde. «È stato,» disse Ganelon, «molto peggio della cavalcata in cui mi trascinasti per esiliarmi.» «Lo penso anch'io,» dissi. Parlai ai cavalli, dolcemente, e alla fine li convinsi a ritornare sulla strada sterrata ed a proseguire.
Qui il mondo era più vivido, e gli alberi fra cui ci addentrammo poco dopo erano grandi pini. L'aria era carica della loro fragranza. Uccelli e scoiattoli si muovevano tra i rami. Il suolo era più scuro, più ricco. Sembrava che ci trovassimo ad una quota più elevata di quella che avevamo raggiunto prima della traversata. Ero soddisfatto perché avevamo veramente compiuto la transizione... e nella direzione che volevo. La nostra strada curvò, tornò indietro per un tratto, si raddrizzò. Di tanto in tanto, scorgevamo la strada nera. Non era troppo lontana, sulla nostra destra, e stavamo ancora procedendo parallelamente ad essa. Senza alcun dubbio, tagliava l'Ombra. A giudicare da quel che vedemmo, era tornata al suo solito aspetto sinistro. Il mal di testa si placò, e mi sentii il cuore un po' più leggero. Raggiungemmo una zona ancora più alta, e vedemmo uno splendido panorama di colline e foreste; mi ricordava certi angoli della Pennsylvania che avevo attraversato in macchina molti anni prima. Mi stirai, poi: «Come vanno adesso le tue gambe?» chiesi. «Benissimo,» rispose Ganelon, voltandosi indietro a guardare. «Riesco a vedere a grande distanza, Corwin...» «Sì?» «Vedo un cavaliere che si sta avvicinando rapidamente.» Mi alzai e mi girai. Forse mi lasciai sfuggire un gemito, quando tornai a sedermi e scossi le redini. Era ancora troppo lontano perché potessi esserne certo... era dall'altra parte della strada nera. Ma chi altri poteva essere, se ci inseguiva a quella velocità? Imprecai. Ci stavamo avvicinando alla cresta dell'altura. Mi rivolsi a Ganelon e dissi: «Preparati ad un'altra galoppata infernale.» «È Benedict?» «Credo. Abbiamo perduto troppo tempo, laggiù. Lui può muoversi con rapidità tremenda — soprattutto attraverso l'Ombra — dato che è solo.» «Credi che potremo fargli perdere le nostre tracce?» «Lo scopriremo fra poco,» dissi. Incitai i cavalli e scossi di nuovo le redini. Raggiungemmo la cima e un soffio d'aria gelida c'investì. Il terreno divenne pianeggiante e l'ombra di un macigno, alla nostra sinistra, oscurò il cielo. Dopo che l'avemmo superato, l'oscurità rimase e cristalli di neve finissima ci punsero il volto e le mani.
Dopo pochi istanti, eravamo diretti nuovamente verso il basso, e la nevicata divenne una tormenta accecante. Il vento ci urlava nelle orecchie e il carro sferragliava e scivolava. Mi affrettai a riportarlo in piano. Ormai c'erano vortici di neve, intorno a noi, e la strada era bianca. Il nostro respiro fumava, e il ghiaccio scintillava sugli alberi e sulle rocce. Un movimento, uno sconvolgimento temporaneo dei sensi. Ecco quel che occorreva... Proseguimmo la corsa, e il vento ci schiaffeggiò e morse e urlò. La neve incominciò a coprire la strada. Superammo una svolta ed uscimmo dalla tormenta. Il mondo era ancora ghiacciato, e qualche fiocco di neve continuava a cadere, ma il sole si era liberato dalle nubi, e riversava la sua luce sulla terra. Ancora una volta riprendemmo a scendere... ... Passando attraverso una nebbia ed emergendo in una distesa spoglia di rocce e di terreno accidentato, dove tuttavia non c'era più la neve... ... Ci portammo sulla destra, ritrovammo il sole, seguimmo un percorso tortuoso su di una pianura, serpeggiando tra alte pareti di pietra grigiazzurra... ... E lontano, sulla nostra destra, la strada nera ci fiancheggiava. Ondate di calore c'investirono; il suolo fumigava. Una fanghiglia bollente riempiva i crateri, e aggiungeva i suoi fumi all'umidità dell'aria. C'erano pozzanghere poco profonde che sembravano manciate di vecchie monete bronzee. I cavalli correvano, quasi imbizzarriti, mentre i geyser cominciavano ad eruttare lungo il percorso. Acque caldissime piovevano sulla strada, mancandoci di pochissimo, e scorrendo in rigagnoli fumiganti e lucidi. Il cielo era di rame, e il sole sembrava una mela spappolata. Il vento era. un cane ansimante con l'alito cattivo. Il suolo tremò, e lontano, alla nostra sinistra, una montagna scagliò i frammenti della vetta verso il cielo, eruttando fiamme. Uno schianto da spaccare i timpani ci assordò temporaneamente, e le ondate dello spostamento d'aria ci investirono. Il carro barcollava e sussultava. Il terreno continuò a tremare, e i venti ci aggredirono con violenza d'uragano mentre ci precipitavamo verso una fila di colline dalle vette nere. Lasciammo la strada quando svoltò nella direzione che non m'interessava e procedemmo, a sobbalzi e scossoni, attraverso la pianura. Le colline continuarono a diventare più alte ed a danzare nell'aria perturbata. Mi voltai, sentendo sul braccio la mano di Ganelon. Stava gridando
qualcosa, ma non riuscivo a sentirlo. Poi tese il braccio indietro, ed io seguii quel gesto. Non vidi nulla che non mi aspettassi. L'aria era turbolenta, piena di polvere, di ceneri. Scrollai le spalle e rivolsi nuovamente l'attenzione alle colline. Alla base dell'altura più vicina apparve un'oscurità più fonda. Mi avviai da quella parte. Crebbe davanti a me, mentre il terreno riprendeva a scendere: l'imboccatura di una caverna enorme, velata da una cascata incessante di polvere e di ghiaia. Schioccai la frusta nell'aria, e coprimmo al galoppo gli ultimi cinque o seicento metri, precipitandoci verso quell'apertura. Immediatamente cominciai a trattenere i cavalli, lasciando che procedessero al passo. Continuammo a scendere, girammo ad un angolo, ed entrammo in una grotta ampia ed alta. La luce filtrava dalle brecce della volta, screziando le stalattiti e spiovendo su verdi stagni frementi. Il terreno tremava ancora, e l'udito mi aiutò a trovare la svolta esatta, quando vidi una massiccia stalagmite che si sgretolava e sentii il tintinnio fioco della sua caduta. Varcammo un crepaccio nero su un ponte che poteva essere di calcare, e che si frantumò e svanì dietro di noi. Dall'alto piovevano frammenti di roccia, e talvolta cadevano grosse pietre. Chiazze di funghi verdi e rossi lucevano negli angoli e nelle crepe, vene di minerali scintillavano e s'incurvavano, grossi cristalli e piatti fiori di pietra arricchivano quel luogo umido di una bellezza strana. Attraversammo di corsa caverne che sembravano concatenazioni di sfere e seguimmo un torrente bianco fino a quando svaniva in una breccia nera. Una lunga galleria a spirale ci portò di nuovo verso l'alto, e udii la voce di Ganelon, fievole ed echeggiante: «Mi sembrava di aver visto un movimento... poteva essere un cavaliere... sulla cresta della montagna... più indietro... giusto per un istante.» Entrammo in una grotta un poco più luminosa. «Se era Benedict, faticherà a seguirci,» gridai, e poi vennero altre scosse e schianti soffocati, mentre dietro di noi le rocce continuavano a crollare. Procedemmo, in salita, fino a quando nella volta apparvero squarci ed aperture, mostrandoci tratti di cielo azzurro e sereno. Lo scalpitio degli zoccoli e gli scricchiolii del carro assunsero gradualmente un volume normale, e finalmente ne captammo gli echi. Le scosse cessarono, minuscoli uccellini sfrecciarono sopra di noi, e la luce crebbe d'intensità.
Poi un'altra svolta della via, e l'uscita apparve davanti a noi: una bassa, ampia apertura sul chiarore del giorno. Dovemmo chinare la testa quando passammo sotto l'architrave dentellato. Superammo tra i sobbalzi un cornicione sporgente di pietra coperta di muschio, e vedemmo sotto di noi il letto di un torrente, pieno di ghiaia, che scendeva in una linea falcata dal pendio, passando tra alberi giganteschi, e svaniva in mezzo alle chiome verdeggianti. Schioccai la lingua, incoraggiando i cavalli. «Sono molto stanchi,» osservò Ganelon. «Lo so. Presto dovranno riposare, in un modo o nell'altro.» La ghiaia scricchiolava sotto le ruote. L'odore degli alberi era piacevole. «L'hai notata? Laggiù, a destra?» «Cosa...?» incominciai, girando la testa. Poi: «Oh,» conclusi. L'infernale strada nera era ancora con noi, alla distanza di un miglio circa. «Quante ombre attraversa?» mi chiesi. «Tutte, si direbbe,» suggerì Ganelon. Scossi il capo, lentamente. «Spero di no,» dissi io. Continuammo la discesa, sotto il cielo azzurro ed il sole d'oro che tramontava normalmente. «Avevo quasi paura di uscire da quella caverna,» disse Ganelon, dopo un po'. «Non sapevo che cosa avremmo trovato da questa parte.» «I cavalli non avrebbero potuto resistere ancora per molto. Ho dovuto rinunciare. Se quello che abbiamo visto era Benedict, doveva avere un cavallo in ottime condizioni. Lo stava spingendo al massimo. E poi, se ha dovuto affrontare tutti i crolli... Immagino che sia stato costretto a tornare indietro.» «Forse il suo cavallo c'è abituato,» disse Ganelon, mentre superavamo una svolta verso destra e perdevamo di vista l'imboccatura della grotta. «È possibile,» dissi io, e pensai di nuovo a Dara, chiedendomi che cosa stava facendo in quel momento. Continuammo a scendere, spostandoci lentamente e impercettibilmente. Il percorso slittava incessantemente verso destra, ed io imprecai quando mi accorsi che ci stavamo avvicinando alla strada nera. «Maledizione! È ostinata come un assicuratore!» dissi, mentre la mia rabbia si trasformava in qualcosa di molto simile all'odio. «Quando verrà il momento, la distruggerò!»
Ganelon non rispose. Stava bevendo una lunga sorsata d'acqua. Mi passò la bottiglia: bevvi anch'io. Finalmente raggiungemmo una zona pianeggiante, e la via continuò a snodarsi e ad incurvarsi al minimo pretesto. I cavalli potevano affrontarla tranquillamente, e sarebbe servita a far rallentare il nostro inseguitore. Circa un'ora dopo, cominciai a sentirmi più a mio agio, e ci fermammo per mangiare. Avevamo appena terminato il pasto quando Ganelon — che non aveva mai distolto lo sguardo dalle pendici della collina — si alzò e si schermò gli occhi. «No,» dissi io, balzando in piedi. «Non ci credo.» Un cavaliere solitario era uscito dall'imboccatura della caverna. Lo vidi soffermarsi un momento, e poi procedere lungo il sentiero. «E adesso che facciamo?» chiese Ganelon. «Prendiamo la nostra roba e ci rimettiamo in cammino. Possiamo almeno procrastinare l'inevitabile. Ho bisogno di un po' di tempo per riflettere.» Ripartimmo, ad andatura moderata, sebbene la mia mente turbinasse alla massima velocità. Doveva esserci un modo per fermarlo. E senza ucciderlo, preferibilmente. Ma non me ne veniva in mente nessuno. Se si escludeva la strada nera, che adesso tornava ad avvicinarsi, eravamo entrati in un bellissimo pomeriggio e in una zona amena. Sarebbe stato un peccato sporcarla di sangue, soprattutto se quel sangue doveva essere il mio. Anche se doveva impugnare la spada con la sinistra, avevo paura di affrontarlo. Ganelon non mi sarebbe stato d'aiuto. Benedict quasi non si sarebbe accorto di lui. Operai uno spostamento, quando giungemmo ad un'altra svolta. Dopo qualche istante, mi giunse alle narici un lieve odore di fumo. Operai un altro lieve mutamento. «Sta arrivando!» annunciò Ganelon. «L'ho appena visto... Il fumo! Le fiamme! I boschi bruciano!» Risi e mi voltai indietro. Metà della collina era sommersa dal fumo, e lingue arancione correvano tra il verde: il crepitio mi giunse all'orecchio in quel momento. I cavalli allungarono il passo, senza che fosse necessario incitarli. «Corwin? Sei stato tu...?» «Sì! Se il pendio fosse stato più ripido e non ci fossero gli alberi, avrei provato con una frana.» Per un momento l'aria si riempì di uccelli in volo. Ci avvicinammo alla
strada nera. Dragodifuoco scrollò la testa e nitrì: aveva il muso coperto di fiocchi di bava. Tentò di fuggire via, poi s'impennò, raspando l'aria con gli zoccoli. Astro lanciò un nitrito di paura e tirò verso destra. Lottai per un momento, ripresi il controllo, e decisi di lasciarli correre per un po'. «Continua a seguirci!» gridò Ganelon. Imprecai. Corremmo. Alla fine, giungemmo a fianco della strada nera. Ci trovavamo su una lunga dirittura, ed un'occhiata lanciata dietro di noi mi mostrò il pendio in fiamme: la strada serpeggiava tra il fuoco, come una cicatrice ripugnante. Fu allora che vidi il cavaliere. Era quasi a metà della discesa, e correva come se stesse partecipando al Derby del Kentucky. Dio! Che razza di cavallo doveva avere! Mi chiesi quale ombra l'aveva generato. Tirai le redini, dapprima dolcemente, poi con maggior forza, e finalmente cominciammo a rallentare. Eravamo ormai a un centinaio di metri dalla strada nera, ed avevo fatto in modo che, un poco più avanti, la distanza si riducesse a non più di una dozzina. Quando vi arrivammo, riuscii a fermare i cavalli, che si bloccarono tremando. Porsi le redini a Ganelon, sguainai Grayswandir, e balzai a terra. Perché no? Era una zona pianeggiante e sgombra, e forse quella fascia di terra nera e maledetta, che contrastava con i colori della vita, destava in me qualche istinto morboso. «E adesso?» chiese Ganelon. «Non riusciamo a liberarci di lui,» disse. «E se passa oltre le fiamme arriverà qui tra pochi minuti. È inutile continuare a fuggire. L'affronterò qui.» Ganelon avvolse le redini intorno alla sbarra e fece per sfoderare la sua spada. «No,» dissi io. «Tu non puoi influire sul risultato. Ecco ciò che devi fare: porta il carro più avanti, sulla strada, e aspetta. Se le cose andranno per il meglio, proseguiremo. Altrimenti, arrenditi subito a Benedict. È me che vuole; e resterà soltanto lui, per ricondurti ad Avalon. E lo farà. Almeno, potrai andare a vivere tranquillo nella tua patria.» Ganelon esitò. «Vai,» gli dissi. «Fai come ho detto.» Abbassò lo sguardo al suolo. Sciolse le redini. Mi fissò. «Buona fortuna,» disse, e fece avanzare i cavalli. Lasciai il sentiero, mi portai davanti a un gruppetto di giovani alberelli, e attesi. Tenendo Grayswandir stretta in pugno, guardai di nuovo la strada
nera, poi fissai lo sguardo sulla pista. Poco dopo, lui apparve lassù, vicino alla linea delle fiamme, circondato dal fumo e dal fuoco e dai rami incendiati che cadevano. Era Benedict, con il volto parzialmente protetto dal mantello, il moncherino del braccio destro sollevato per ripararsi gli occhi: e avanzava come un fuggiasco dell'inferno. Irrompendo tra la pioggia di scintille e cenere, uscì allo scoperto e continuò a galoppare giù per il sentiero. Ben prestò, sentii lo scalpitio degli zoccoli. La correttezza mi avrebbe imposto di rinfoderare la spada mentre attendevo. Ma se l'avessi fatto, forse non avrei avuto neppure il tempo di sguainarla di nuovo. Mi chiesi in che modo Benedict portava la sua arma, e di che tipo poteva essere? A lama diritta? Curva? Lunga? Corta? Sapeva usarle tutte con la stessa facilità. Era lui che mi aveva insegnato a tirare di scherma... Forse sarebbe stata una mossa intelligente, e non solo corretta, rinfoderare Grayswandir. Forse lui sarebbe stato disposto a parlare, prima... e tenendo in pugno la spada sarei andato in cerca di guai. Ma quando lo scalpitio si fece più vicino, mi resi conto che avevo paura di riporre l'arma nel fodero. Mi asciugai il palmo della mano, prima che lui comparisse. Aveva rallentato per affrontare la svolta, e dovette vedermi nello stesso istante in cui vidi lui. Avanzò verso di me, rallentando. Ma sembrava che non avesse intenzione di fermarsi. Era un'esperienza quasi mistica. Non so come descriverla, altrimenti. La mia mente corse più veloce del tempo, mentre lui si avvicinava, e mi parve di avere a disposizione un'eternità per valutare l'appressarsi di quell'uomo che era mio fratello. Le sue vesti erano sudice, il suo volto annerito, il moncherino del braccio destro si agitava, gesticolando. La bestia enorme che montava era striata di rosso e di nero, con la criniera e la coda rosse e scompigliate. Ma era veramente un cavallo, e roteava gli occhi, e aveva la bava alla bocca, e il suo respiro era terribile ad udirsi. Poi vidi che Benedict portava la spada appesa sulla schiena, perché l'elsa gli sporgeva sopra la spalla destra. Rallentò ancora, tenendo gli occhi fissi su di me, abbandonò la strada, dirigendosi un po' verso la mia sinistra: tirò le redini e le lasciò, continuando a guidare il cavallo con le ginocchia. Levò la mano sinistra in un movimento quasi di saluto, e afferrò l'elsa della spada. L'arma si liberò senza un suono, descrivendo un arco perfetto sopra di lui, fermandosi in una posizione minacciosa, un po' inclinata, come un'ala di acciaio scuro con un filo sottile che brillava come uno specchio. L'immagine di
Benedict s'impresse a fuoco nella mia mente con una sorta di magnificenza, uno splendore che era quasi commovente. La spada era lunga, falcata, e l'avevo visto usarla altre volte, in passato. Ma allora eravamo alleati contro un nemico comune che avevo incominciato a ritenere imbattibile. Quella notte, Benedict aveva dimostrato che non lo era. Adesso, nel vedere quella spada levata contro di me, mi sentii sopraffare dalla sensazione della mia mortalità... e non l'avevo mai provata. Mi parve che un velo fosse stato strappato dal mondo: all'improvviso, ebbi un'intuizione piena e assoluta della morte. Quel momento passò. Arretrai nel boschetto. Mi ero fermato in quel punto per poter trarre vantaggio dalla posizione degli alberi. Indietreggiai per poco più di tre metri e mi spostai di due passi sulla sinistra. Il cavallo s'impennò all'ultimo istante e sbuffò e nitrì, dilatando le nari umide. Girò, sollevando ciuffi d'erba. Il braccio di Benedict si mosse a velocità incredibile, come la lingua di un rospo, e la lama tranciò il tronco di un alberello, che doveva avere un diametro di sette, otto centimetri. L'alberello restò diritto ancora per un istante, poi si rovesciò lentamente. Gli stivali di Benedict colpirono il suolo. Avanzò a grandi passi verso di me. Anche per questo avevo bisogno del boschetto: per costringerlo a venire verso di me in un luogo dove la sua lunga spada sarebbe stata ostacolata da rami e tronchi. Ma mentre avanzava, Benedict faceva mulinare l'arma, quasi distrattamente, avanti e indietro, e gli alberi cadevano intorno a lui, al suo passaggio. Se almeno non fosse stato così diabolicamente abile. Se almeno non fosse stato Benedict... «Benedict,» dissi, con voce normale, «lei è adulta, ormai, ed è in grado di decidere da sola.» Ma lui non mostrò di avermi udito. Continuò ad avanzare, vibrando la grande spada, che emetteva un suono quasi canoro nel fendere l'aria, seguito da un thukk! sommesso quando tranciava un altro albero, rallentando appena. Sollevai Grayswandir e la puntai verso il suo petto. «Non venire più avanti di così, Benedict,» dissi. «Non voglio battermi con te.» Portò la spada in posizione di attacco e disse una sola parola: «Assassino!» Poi la sua mano fremette, e quasi nello stesso istante, sentii spingere a lato la mia lama. Parai l'affondo che seguì, e Benedict deviò la mia rispo-
sta, attaccò di nuovo. Questa volta non mi presi neppure la briga di eseguire la risposta. Parai, semplicemente, indietreggiai, e passai dietro un albero. «Non capisco,» dissi, deviando la sua lama che guizzò accanto al tronco e per poco non mi trafisse. «Non ho assassinato nessuno, in questi ultimi tempi. E certamente, non ad Avalon.» Un altro thukk! e l'albero cadde verso di me. Mi scostai e indietreggiai, parando. «Assassino,» ripeté Benedict. «Non so di cosa stai parlando, fratello.» «Bugiardo!» Allora mi fermai, deciso a resistere. Dannazione! Era assurdo morire per un equivoco! Risposi più fulmineamente che potei, cercando un varco nella sua difesa. Non c'era. «Dimmelo, almeno!» gridai. «Ti prego!» Ma evidentemente, Benedict aveva deciso di non parlare più. M'incalzò, e io dovetti indietreggiare di nuovo. Era come cercare di duellare con un ghiacciaio. Poi mi convinsi che era fuori di sé, anche se questo non poteva tornarmi utile. Se fosse stato un altro, la pazzia gli avrebbe fatto perdere l'autocontrollo. Ma Benedict aveva forgiato i suoi riflessi nel corso dei secoli, ed ero certo che neppure l'asportazione della corteccia cerebrale avrebbe alterato la perfezione dei suoi movimenti. Continuò a ricacciarmi indietro, ed io schivavo i suoi colpi passando tra gli alberi, e lui li abbatteva e continuava ad avanzare. Commisi l'errore di attaccare e riuscii appena a parare il suo controaffondo a pochi centimetri dal mio petto. Dominai la prima ondata di panico che m'invase quando vidi che mi stava sospingendo verso il limitare del boschetto. Presto mi avrebbe ricacciato allo scoperto, dove non c'erano alberi che lo costringessero a rallentare. La mia attenzione era concentrata così completamente su di lui che non mi accorsi di quel che stava per accadere. Con un grido possente, Ganelon balzò fuori, avvinghiando Benedict e inchiodandogli contro il fianco il braccio che reggeva la spada. Anche se l'avessi voluto veramente, però, non avrei avuto la possibilità di ucciderlo, in quel momento. Era troppo svelto, e Ganelon non immaginava neppure quanto fosse forte. Benedict si torse sulla destra, mettendo Ganelon tra noi, e nello stesso tempo mosse il braccio mutilato, e lo colpì alla tempia sinistra. Poi liberò il
braccio sinistro, afferrò Ganelon per la cintura, lo sollevò e lo scagliò contro di me. Mentre io mi scostavo, riprese la sua spada che era caduta, e si avventò di nuovo. Ebbi appena il tempo di vedere che Ganelon era finito al suolo una decina di passi dietro di me. Parai e ripresi a indietreggiare. Mi restava da tentare un unico trucco, e mi rattristava pensare che, se fosse fallito, Ambra sarebbe stata privata del suo legittimo sovrano. È più difficile battersi con un buon mancino, e anche questo tornava a mio svantaggio. Ma dovevo tentare l'esperimento. C'era una cosa che dovevo scoprire, anche se questo comportava la necessità di correre un rischio. Indietreggiai di un lungo passo, portandomi momentaneamente fuori tiro, poi mi tesi in avanti e attaccai. Fu una mossa calcolata, e fulminea. Il risultato inatteso — e almeno in parte dovuto a un colpo di fortuna — fu che riuscii a superare la sua guardia, sebbene mancassi il bersaglio. Per un istante, Grayswandir superò una delle parate di Benedict, e gli scalfì l'orecchio sinistro. Per qualche istante lui rallentò: ma non abbastanza. Anzi, questo servì a rinsaldare la sua difesa. Io proseguii l'attacco, ma ormai era impossibile superare la sua guardia. Era solo un taglietto, ma il sangue gli colava dal lobo, a poche gocce per volta. Mi avrebbe addirittura distratto, se non mi fossi limitato a prenderne nota. Poi feci ciò che temevo: ma dovevo tentare. Gli lasciai una piccola apertura, solo per un momento, sapendo che lui ne avrebbe approfittato per cercare di trapassarmi il cuore. Infatti lo fece, ed io parai il colpo all'ultimo istante. Preferisco non pensare a quel momento. Poi cominciai di nuovo a cedere, uscendo a ritroso dal boschetto. Parando e indietreggiando, passai oltre il punto dove giaceva Ganelon. Arretrai ancora di quattro o cinque metri, difendendomi con cautela. Poi offrii a Benedict un'altra apertura. Lui si avventò, come prima, e anche questa volta riuscii a bloccarla. Insistette ancora più violentemente nell'attacco, respingendomi al limitare della strada nera. Mi fermai e resistetti, mettendomi in posizione nel punto che avevo scelto. Avrei dovuto trattenerlo ancora per qualche momento, per prepararmi... Furono momenti terribili, ma mi battei furiosamente e mi preparai. E poi gli offrii ancora la stessa apertura. Sapevo che avrebbe attaccato nello stesso modo di prima; spostai la
gamba destra dietro la sinistra, e poi mi raddrizzai, mentre Benedict attaccava. Sferrai un colpo lievissimo alla sua lama, lateralmente, mentre spiccavo un balzo indietro sulla strada nera, e tendevo immediatamente il braccio. Poi Benedict fece ciò che avevo sperato. Batté sulla mia lama ed avanzò normalmente, quando io l'abbassai in quarta... ... e mise il piede sul ciuffo d'erba nera che avevo scavalcato con un balzo. Non osai abbassare immediatamente lo sguardo. Restai immobile, semplicemente, lasciando che l'erba facesse quel che poteva. Bastarono pochi istanti. Benedict se ne accorse appena tentò di muoversi. Vidi un'espressione sconcertata balenargli sul volto: poi la tensione. Compresi di averlo in pugno. Ma dubitavo che l'erba potesse trattenerlo a lungo, perciò mi mossi prontamente. Balzai verso destra, fuori della portata della sua spada, mi avventai, scavalcando d'un balzo l'erba e lasciando di nuovo la strada nera. Lui tentò di girarsi, ma l'erba gli si era avvinghiata intorno alle gambe, fino alle ginocchia. Barcollò per un istante, ma conservò l'equilibrio. Passai dietro di luì, sulla sua destra. Sarebbe bastato un affondo per ucciderlo; ma naturalmente adesso non avevo motivo di farlo. Lui girò il braccio dietro il collo, voltando la testa e puntandomi contro la spada. Poi cominciò a tirare per liberarsi la gamba sinistra. Ma io fintai verso destra, e quando lui si mosse per parare, lo colpii alla nuca, di piatto, con Grayswandir. Il colpo lo stordì, ed io potei avvicinarmi e sferrargli un pugno alle reni con la mano sinistra. Benedict si piegò leggermente, e gli bloccai il braccio che reggeva la spada, lo colpii di nuovo alla nuca, questa volta con il pugno, violentemente. Cadde, privo di sensi, e gli strappai l'arma dalla mano, la gettai lontano. Il sangue che gli colava dal lobo sinistro scendeva lungo il collo come un bizzarro orecchino. Gettai via Grayswandir, afferrai Benedict sotto le ascelle e lo trascinai fuori dalla strada nera. L'erba resistette, ma io tirai e riuscii finalmente a liberarlo. Intanto, Ganelon si era rimesso in piedi. Si avvicinò zoppicando e si fermò al mio fianco, guardando Benedict. «Che uomo,» disse. «Che uomo... Cosa intendi fare di lui?» Sollevai Benedict fra le braccia e mi rialzai.
«Per ora, lo porto al carro,» dissi. «Vuoi prendere le spade?» «Va bene.» Mi avviai per la strada; Benedict era ancora privo di sensi... ed era un bene, perché non volevo essere costretto a colpirlo ancora. Lo deposi ai piedi di un grosso albero, vicino al carro. Rinfoderai le due spade, quando Ganelon mi raggiunse, poi gli dissi di prendere le corde che legavano alcune casse. Nel frattempo, perquisii Benedict e trovai quel che cercavo. Poi lo legai all'albero, mentre Ganelon andava a prendere il suo cavallo. Annodammo le redini ad un arbusto, lo stesso cui avevo appeso la spada di Benedict. Poi montai a cassetta e Ganelon prese posto al mio fianco. «Hai intenzione di lasciarlo lì?» mi chiese. «Per ora sì,» dissi. Procedemmo per la strada. Io non mi voltai indietro, ma Ganelon si girò. «Non si è ancora mosso,» riferì. Poi: «Nessuno mi aveva mai sollevato e scagliato a terra in quel modo. E con una mano sola.» «Per questo ti avevo detto di aspettare al carro, e di non batterti con lui se avessi perduto.» «E adesso che ne sarà di lui?» «Farò in modo che qualcuno se ne occupi, e presto.» «Non gli succederà niente, vero?» Annuii. «Bene.» Proseguimmo per altre due miglia, poi fermai i cavalli e scesi. «Non impressionarti, qualunque cosa succeda,» dissi. «Devo prender accordi per Benedict, adesso.» Abbandonai la strada e mi fermai all'ombra degli alberi, estraendo il mazzo di Trionfi che avevo sottratto a Benedict. Li esaminai, trovai Gérard e lo tolsi dal mazzo. Rimisi le altre carte nell'astuccio ligneo foderato di seta e intarsiato d'osso. Tenni davanti a me il Trionfo di Gérard e lo fissai. Dopo un po', divenne caldo e reale, e sembrò muoversi. Sentivo la presenza di Gérard. Era ad Ambra. Stava percorrendo una via che riconobbi. Mi somiglia molto, ma è più massiccio e pesante. Vidi che portava ancora la barba. Si fermò, spalancando gli occhi. «Corwin!» «Sì, Gérard. Hai un ottimo aspetto.»
«I tuoi occhi! Puoi vedere?» «Sì, posso di nuovo vedere.» «Dove sei?» «Vieni con me, e te lo mostrerò.» Gérard socchiuse gli occhi. «Non so se posso farlo, Corwin. In questo momento sono molto occupato.» «Si tratta di Benedict,» dissi io. «Tu sei l'unico di cui possa fidarmi: so che lo aiuterai.» «Benedict? È nei guai?» «Sì.» «E perché non mi ha chiamato lui stesso?» «Non può. È legato.» «Perché? Come?» «È una storia troppo lunga e complessa per raccontartela adesso. Credimi, ha bisogno del tuo aiuto, e subito.» Gérard strinse i denti. «E non puoi farlo tu?» «Assolutamente no.» «E credi che possa farlo io?» «Ne sono certo.» Gérard smosse la spada nel fodero. «Non vorrei pensare che si tratta di un trucco, Corwin.» «Ti assicuro che non lo è. Con tutto il tempo che ho avuto a disposizione per pensare, avrei escogitato qualcosa di più sottile.» Sospirò. Poi annuì. «Sta bene. Vengo da te.» «Vieni pure.» Si fermò per un istante, poi avanzò di un passo. Era al mio fianco. Tese la mano e mi strinse la spalla. Sorrise. «Corwin,» disse. «Sono lieto che abbia di nuovo i tuoi occhi.» Distolsi lo sguardo. «Anch'io. Anch'io.» «Chi è l'uomo sul carro?» «Un amico. Si chiama Ganelon.» «Dov'è Benedict? Cos'è successo?» Tesi il braccio. «È laggiù,» dissi. «Circa due miglia più indietro, sulla strada. È legato a
un albero. Il suo cavallo è legato lì vicino.» «E allora perché tu sei qui?» «Sto fuggendo.» «Da cosa?» «Da Benedict. Sono stato io a legarlo.» Gérard aggrottò la fronte. «Non capisco...» Scossi il capo. «C'è stato un malinteso tra noi. Non sono riuscito a farlo ragionare e ci siamo battuti. L'ho messo fuori combattimento e l'ho legato. Non posso liberarlo, o mi attaccherà ancora. E non posso neppure lasciarlo così. Può capitargli qualcosa di male, prima che riesca a liberarsi da solo. Perciò ti ho chiamato. Vai da lui, ti prego, scioglilo, e riportalo a casa.» «E intanto tu cosa farai?» «Me ne andrò in tutta fretta, perdendomi nell'Ombra. Farai un favore ad entrambi, se gli impedirai di seguirmi ancora. Non voglio essere costretto a battermi con lui un'altra volta.» «Capisco. E adesso vuoi dirmi cos'è successo?» «Non lo so. Mi ha chiamato assassino. Ti dò la mia parola che non ho ucciso nessuno per tutto il tempo che sono rimasto ad Avalon. Ti prego di riferirglielo. Non ho motivo di mentire con te, e ti giuro che è vero. C'è un'altra cosa che forse lo ha sconvolto. Se ne parla, digli che dovrà credere alla spiegazione di Dara.» «E qual è?» Scrollai le spalle. «Lo saprai se te ne parlerà lui. Se non ne parla, lascia perdere.» «Dara, hai detto?» «Sì.» «Benissimo, farò quello che mi hai chiesto... E adesso, vuoi dirmi come sei riuscito a fuggire da Ambra?» Sorrisi. «È interesse accademico? Oppure pensi che un giorno anche tu potrai avere bisogno di passare per la stessa strada?» Gérard rise. «Mi sembra un'informazione utile.» «Purtroppo, caro fratello, il mondo non è ancora pronto per conoscerla. Se dovessi dirlo a qualcuno, lo direi a te... ma non potrebbe esserti utile, mentre il segreto potrebbe servire a me, in futuro.»
«In altre parole, tu hai un passaggio segreto personale per entrare ed uscire da Ambra. Che intenzioni hai, Corwin?» «Tu cosa pensi?» «La risposta è ovvia. Ma i miei sentimenti, al riguardo, sono confusi.» «Ti dispiace parlarmene?» Gérard indicò un tratto della strada nera, visibile dal punto in cui stavamo. «Quella cosa,» disse. «Passa ai piedi del Kolvir, adesso. Molti pericoli la percorrono per attaccare Ambra. Noi ci difendiamo, e vinciamo sempre. Ma gli attacchi diventano sempre più forti, e più frequenti. Non sarebbe il momento migliore per la tua mossa, Corwin.» «O forse è il momento ideale,» dissi io. «Forse per te, ma non per Ambra.» «Ed Eric? Come fronteggia la situazione?» «In modo efficiente. Come ho detto, vinciamo sempre.» «Non mi riferisco agli attacchi. Mi riferisco all'intero problema... alla sua causa.» «Io stesso ho percorso la strada nera, per un lungo tratto.» «E allora?» «Non sono riuscito a percorrerla tutta. Tu sai che le ombre diventano sempre più strane e selvagge, via via che ci si allontana da Ambra?» «Sì.» «... Fino a quando la mente si altera e viene spinta verso la follia?» «Sì.» «... e da qualche parte, più oltre, stanno le Coorti del Caos. La strada prosegue, Corwin. Sono convinto che copra l'intera distanza.» «E allora è come temevo,» dissi. «È per questo che, indipendentemente dai miei sentimenti nei tuoi confronti, non ti consìglio di tentare, per il momento. La sicurezza di Ambra deve venire prima di ogni altra cosa.» «Capisco. Allora non c'è altro da dire, per ora.» «E i tuoi piani?» «Poiché non sai quali sono, è superfluo dirti che sono immutati. Ma sono immutati.» «Non so se augurarti buona fortuna: ma ti auguro ogni bene. Sono lieto che tu abbia recuperato la vista.» Mi strinse la mano. «Ora è meglio che io raggiunga Benedict. Immagino che non sia ferito gravemente.» «Io non l'ho ferito. L'ho solo colpito un paio di volte. Non dimenticare di
riferirgli il mio messaggio.» «Non lo dimenticherò.» «E riportalo ad Avalon.» «Cercherò.» «Allora addio, per ora, Gérard.» «Addio, Corwin.» Poi si voltò e si avviò per la strada. Lo guardai fino a quando scomparve, prima di risalire sul carro. Rimisi il suo Trionfo nel mazzo, e proseguii per Anversa. 8 Dalla cima del colle, guardai la casa. Ero circondato da arbusti, e non sarebbe stato facile scorgermi. Non so, esattamente, che cosa mi aspettassi di vedere. Macerie bruciate? Un'automobile sul viale? Una famiglia seduta nel patio? Guardie armate? Vidi che il tetto aveva bisogno di riparazioni, e che il prato era incolto da molto tempo. Mi sorprese notare che c'era solo una finestra rotta. Quindi quel luogo appariva deserto. Ma ne dubitavo. Stesi la giacca al suolo e vi sedetti sopra. Accesi una sigaretta. Non c'erano altre case, nelle vicinanze. Avevo ricavato quasi settecentomila dollari, vendendo i diamanti. Avevo impiegato una settimana e mezzo, per concludere. Da Anversa eravamo andati a Bruxelles, passando molte serate in un night-club della Rue de Char et Pain prima che l'uomo che m'interessava mi trovasse. Arthur rimase molto sconcertato. Era un uomo magro, con i capelli bianchi e i baffi ben curati, ex ufficiale della RAF, ex studente di Oxford. Aveva cominciato a scuotere il capo dopo i primi due minuti, e aveva continuato a interrompermi per farmi domande circa la consegna. Sebbene non fosse Sir Basii Zaharoff, si preoccupava sinceramente quando le idee di un cliente gli sembravano troppo strane. Non gli andava che qualcosa andasse storto subito dopo la consegna: sembrava convinto che si ripercuotesse sulla sua reputazione. Per questo, molto spesso era più premuroso degli altri, quando doveva provvedere alle spedizioni. Era preoccupato per i miei progetti di trasporto, perché sembrava che non ne avessi. In un accordo del genere, è necessario di solito un certificato d'uso. In sostanza si tratta di questo: una dichiarazione che il paese X ha ordinato le armi in questione. È necessario per ottenere il permesso d'esportazione dal
paese del fabbricante. Serve loro per salvare la faccia, anche se il carico, poi, viene consegnato al paese Y appena varcato il confine. La consuetudine impone di comprare la collaborazione di un rappresentante diplomatico del paese X — preferibilmente qualcuno che ha qualche amico o parente in buoni rapporti con il Ministero della Difesa — per ottenere i documenti. Costano parecchio, e credo che Arthur conoscesse a memoria il tariffario. «Ma come farà a spedirli?» continuava a chiedermi. «Come farà a portarli dove le interessa?» «Questo problema lo risolverò io,» dissi. «Lasci che sia io ad occuparmene.» Ma lui continuò a scuotere il capo. «È inutile cercare di prendere scorciatoie del genere, colonnello,» disse (Per lui, ero sempre stato colonnello, fin da quando c'eravamo conosciuti, una dozzina d'anni prima; non ho mai capito il perché.) «È inutile. Se cerca di risparmiare qualche dollaro in questo modo, rischia di perdere l'intero carico e di mettersi nei guai. Posso sistemare tutto tramite una di quelle giovani nazioni africane, a un prezzo ragionevole...» «No. Basta che mi procuri le armi.» Durante il nostro colloquio, Ganelon era rimasto lì a bere birra, con la sua barba rossa e l'aria sinistra, annuendo appena io dicevo qualcosa. Poiché non parlava inglese, non capiva come andavano ì negoziati. E del resto, non gli interessava neppure. Comunque, seguiva le mie istruzioni, e di tanto in tanto mi parlava in thari: ci scambiavamo alcune frasi in quella lingua, a proposito della prima cosa che ci passava per la mente. Una pura cattiveria. Il povero vecchio Arthur era un buon linguista, e avrebbe voluto conoscere la destinazione delle armi. Sentivo che si sforzava di identificare la lingua ogni volta che noi parlavamo. Alla fine, cominciò ad annuire come se capisse. Dopo altre discussioni, decise di arrischiare e disse: «Ho letto i giornali. Sono sicuro che quelli possono permettersi di pagare l'assicurazione.» Per me, quello valeva quasi il prezzo dell'ammissione. «No,» dissi. «Mi creda, appena entrerò in possesso di quei fucili automatici, spariranno dalla faccia della Terra.» «Un bel trucco,» disse lui, «considerando che non so ancora dove li prenderemo.» «Non importa.» «La sicurezza è una gran bella cosa. Ma l'ostinazione...» Scrollò le spalle. «Faccia come preferisce, allora. Sono affari suoi.»
Poi gli parlai delle munizioni; probabilmente si convinse che ero del tutto squilibrato. Mi fissò a lungo, e questa volta non scosse neppure il capo. Passarono dieci minuti buoni prima che riuscissi a indurlo a dare un'occhiata alle istruzioni. Fu allora che cominciò a scuotere la testa e a borbottare qualcosa a proposito dei proiettili d'argento e degli inneschi inerti. L'arbitro supremo, il danaro, lo convinse comunque che bisognava fare a modo mio. Non c'erano problemi per i fucili e per i camion: ma indurre una fabbrica d'armi a produrre le mie munizioni sarebbe costato parecchio, mi disse. Non era neppure sicuro di trovarne una disposta ad accontentarmi. Quando gli dissi che il prezzo non era un problema, mi sembrò ancora più sconvolto. Se potevo permettermi di ordinare strane munizioni sperimentali, la spesa per un certificato d'uso non avrebbe dovuto spaventarmi... No. Gli dissi di no. Bisognava fare a modo mio, gli rammentai. Arthur sospirò e si tirò i baffi. Poi annui. Benissimo, avremmo fatto a modo mio. Naturalmente, mi fece pagare uno sproposito. Poiché ero razionale in tutto il resto, lui pensava che, se non ero psicopatico, dovevo essere coinvolto in qualche imbroglio dispendioso. Anche se le ramificazioni dovevano averlo sconcertato, aveva evidentemente deciso di non approfondire troppo quella strana faccenda. Era disposto ad approfittare di tutte le occasioni, pur di dissociarsi dal progetto. Quando trovò i fabbricanti di munizioni — una ditta svizzera — fu ben lieto di mettermi in contatto con loro e di lavarsi le mani di tutto... eccettuato il danaro. Ganelon ed io andammo in Svizzera con documenti falsi. Lui era tedesco ed io portoghese. Non m'interessava molto quello che dicevano i miei documenti, purché la falsificazione fosse perfetta; ma avevo pensato che il tedesco fosse la lingua più adatta da far imparare a Ganelon, poiché doveva impararne una, ed i turisti tedeschi sembravano presenti dappertutto. L'imparò molto in fretta. Gli avevo detto di raccontare ai tedeschi ed agli svizzeri che incontrava, se glielo avessero chiesto, che era stato allevato in Finlandia. Passammo tre settimane in Svizzera prima che io fossi soddisfatto dei controlli della qualità delle mie munizioni. Come avevo sospettato, in quest'ombra la sostanza era totalmente inerte. Comunque, io avevo scoperto la formula, e a questo punto era la sola cosa che contava. L'argento costò carissimo, naturalmente. Forse peccavo d'eccesso di prudenza. Comunque, c'erano certi esseri, intorno ad Ambra, che sarebbe stato meglio liquidare con quel metallo, e io potevo permettermelo. E del resto, quale proiettile
sarebbe stato più indicato per un re... escludendo l'oro? Se avessi sparato ad Eric, non avrei commesso un reato di lesa maestà, in quel modo. Compatitemi, fratelli. Poi abbandonai Ganelon a se stesso per un po', dato che si era buttato nel ruolo di turista in modo degno di Stanislavski. Lo feci partire per l'Italia, con una macchina fotografica al collo e un'espressione sognante negli occhi, e tornai in volo negli Stati Uniti. Tornai? Sì. Quel luogo malridotto, sulla collina, era stato la mia casa per quasi un decennio. Era là che mi stavo dirigendo quando ero stato spinto fuori strada e avevo avuto l'incidente che aveva provocato tutto il resto. Aspirai il fumo della sigaretta e guardai la casa. A quei tempi non era malridotta. L'avevo sempre tenuta bene. L'avevo pagata completamente. Sei stanze e un garage per due macchine; e intorno, sette acri in terreno. In pratica, tutto il fianco della collina. Avevo vissuto quasi sempre solo, là. Mi piaceva. Avevo trascorso gran parte del mio tempo nello studio e in laboratorio. Mi chiesi se nel mio studio c'era ancora la silografia di Mori, raffigurante due guerrieri impegnati in un duello a morte. Sarebbe stato bello riaverla. Ma sentivo che doveva essere sparita. Probabilmente tutto quello che non era stato rubato era stato venduto per pagare le tasse arretrate. Immaginavo che lo Stato di New York avesse fatto proprio questo. Mi stupiva, anzi, che la casa non avesse trovato un nuovo proprietario. Continuavo ad osservare per assicurarmene. Diavolo, non avevo nessuna fretta. Non dovevo andare in nessun posto. Mi ero messo in contatto con Gérard poco dopo il mio arrivo in Belgio. Avevo deciso di non tentare di parlare con Benedict, per il momento. Temevo che avrebbe cercato di attaccarmi di nuovo, in un modo o nell'altro. Gérard mi aveva scrutato attentamente. Si trovava in aperta campagna e sembrava che fosse solo. «Corwin?» disse poi. «Sì...» «Proprio io. Com'è andata con Benedict?» «L'ho trovato come avevi detto tu, e l'ho liberato. Era deciso a inseguirti di nuovo, ma sono riuscito a fargli credere che era passato molto tempo da quando ti avevo visto. Poiché avevi detto che l'avevi lasciato svenuto, ho pensato che fosse la linea migliore da seguire. E il suo cavallo era stanchissimo. Siamo tornati ad Avalon insieme. Sono rimasto con lui per i funerali, poi mi sono fatto prestare un cavallo. Adesso sto tornando ad Ambra.» «I funerali? Che funerali?»
Mi rivolse di nuovo quell'occhiata indagatrice. «Davvero non lo sai?» chiese. «Se lo sapessi, maledizione, non lo domanderei!» «I suoi servitori. Sono stati assassinati. Benedict dice che sei stato tu.» «No,» dissi. «No. È ridicolo. Perché avrei dovuto uccidere i suoi servitori? Non capisco...» «Poco dopo il suo ritorno, è andato a cercarli, dato che non si erano presentati per riceverlo. Li ha trovati assassinati e ha scoperto che tu e il tuo compagno ve ne eravate andati.» «Adesso ho capito com'è nato l'equivoco,» dissi. «Dov'erano i cadaveri?» «Sepolti, non troppo profondamente, nel boschetto in fondo al giardino, dietro la casa.» Proprio così, proprio così... Era meglio non dire che avevo visto la tomba. «Ma per quale ragione Benedict pensa che io possa aver fatto una cosa simile?» protestai. «È sconcertato, Corwin. Molto sconcertato, adesso. Non ha capito perché tu non lo abbia ucciso quando ne hai avuto la possibilità, e perché abbia chiamato me, quando avresti potuto abbandonarlo.» «Ora capisco perché continuava a chiamarmi assassino mentre ci battevamo, ma... Gli hai riferito che ti ho detto di non aver ucciso nessuno?» «Sì. All'inizio ha scrollato le spalle. Gli ho detto che mi eri sembrato sincero, e molto sconcertato anche tu. Immagino che lo turbasse un po' l'idea che avevi insistito tanto. Mi ha chiesto parecchie volte se ti credevo.» «Mi credi?» Gérard abbassò gli occhi. «Maledizione, Corwin! Che cosa dovrei credere? Mi ci sono trovato in mezzo all'improvviso. Siamo rimasti separati per tanto tempo...» Incontrò il mio sguardo. «C'è dell'altro,» disse. «E cioè?» «Perché hai chiamato me ad aiutarlo? Tu avevi portato via un mazzo completo. Avresti potuto chiamare chiunque altro.» «Vorrai scherzare,» dissi io. «No, voglio una risposta.» «Benissimo. Tu sei l'unico di cui mi fido.» «Tutto qui?»
«No. Benedict non vuole che ad Ambra sappiamo dove si trova. Tu e Julian siete gli unici due che, a quanto so per certo, conoscono la sua ubicazione. Non mi piace Julian, e non mi fido di lui. Perciò ho chiamato te.» «Come sapevi che io e Julian eravamo al corrente della sua ubicazione?» «Benedict vi ha aiutato entrambi quando vi siete messi nei guai sulla strada nera, qualche tempo fa; e vi ha ospitati durante la vostra convalescenza. Me l'ha detto Dara.» «Dara? Ma chi è questa Dara?» «La figlia orfana di una coppia che un tempo lavorava per Benedict,» dissi. «Era presente quando siete arrivati tu e Julian.» «E tu le hai mandato in dono un braccialetto. Mi avevi parlato di lei anche per la strada, quando mi hai chiamato.» «Esatto. Perché?» «Niente. Ma non la ricordo, comunque. Dimmi, perché te ne sei andato all'improvviso? Dovrai ammettere che poteva sembrare il gesto di un colpevole.» «Sì,» dissi io. «Ero colpevole... ma non di omicidio. Ero andato ad Avalon per procurarmi qualcosa che mi serviva; l'ho avuto, e me ne sono andato. Hai visto il carro, e hai visto che era carico. Me ne sono andato prima che Benedict tornasse, per non dover rispondere alle sue eventuali domande. Diavolo! Se avessi voluto semplicemente fuggire, non mi sarei trascinato dietro un carro! Avrei viaggiato a cavallo.» «Cosa c'era sul carro?» «No,» dissi. «Non volevo rivelarlo a Benedict e non voglio rivelarlo a te. Oh, lui potrà scoprirlo, immagino. Ma che ci riesca da solo, se proprio ci tiene. Comunque, non ha importanza. Dovrebbe bastare il fatto che ero andato là per procurarmi qualcosa, e me lo sono procurato. Ad Avalon non ha molto valore, ma ne ha in un altro luogo. Ti basta?» «Sì,» disse Gérard. «Mi sembra che abbia senso.» «Allora rispondi alla mia domanda. Pensi che li abbia assassinati io?» «No,» disse lui. «Ti credo.» «E Benedict, adesso? Che cosa pensa?» «Non ti attaccherebbe senza prima discutere. Adesso ha dei dubbi, lo so.» «Bene. È già qualcosa. Grazie, Gérard. Ti lascio.» Mi mossi per interrompere il contatto. «Aspetta Corwin! Aspetta!» «Che c'è?»
«Come hai tagliato la strada nera? Ne hai distrutto un tratto, nel punto in cui l'hai attraversata. Come ci sei riuscito?» «Il Disegno,» dissi. «Se mai ti trovassi in difficoltà con la strada nera, colpiscila con il Disegno. Sai che qualche volta bisogna tenerlo in mente, se le ombre cominciano a sfuggirti e la situazione si fa complicata?» «Sì. Avevo provato anch'io, ma non è servito a nulla. Ci ho guadagnato solo un mal di testa. Non è dell'Ombra.» «Sì e no,» dissi. «Io so cos'è. Non ti sei impegnato abbastanza. Io ho usato il Disegno fino a quando ho avuto la sensazione che mi scoppiasse la testa, fino a quando il dolore mi ha accecato e mi sono sentito sul punto di svenire. Poi la strada si è aperta intorno a me. Non è stato piacevole, ma ha funzionato.» «Lo ricorderò,» disse Gérard. «Vuoi parlare con Benedict, ora?» «No,» dissi. «Sa già tutto quello che abbiamo discusso. Adesso che si sta calmando, comincerà a rimuginarci sopra. Preferirei che lo facesse da solo... e non voglio rischiare un altro scontro. Quando avrò interrotto la comunicazione, questa volta, tacerò a lungo, e resisterò a tutti i tentativi di comunicare con me.» «E Ambra, Corwin? E Ambra?» Abbassai gli occhi. «Non metterti sulla mia strada quando tornerò, Gérard. Credimi, sarebbe inutile.» «Corwin... Aspetta. Vorrei chiederti di ripensarci. Non attaccare Ambra, ora. È troppo debole.» «Mi dispiace, Gérard. Ma sono certo di aver pensato al problema, negli ultimi cinque anni, più di quanto ci abbiate pensato tutti voi messi insieme.» «Dispiace anche a me.» «Ora sarà meglio che io vada.» Gérard annuì. «Addio, Corwin.» «Addio, Gérard.» Dopo aver atteso per diverse ore che il sole scomparisse dietro la collina, lasciando la casa immersa in un crepuscolo prematuro, spensi l'ultima sigaretta, sbattei la giacca e tornai ad indossarla; mi alzai in piedi. Non avevo visto segno di vita intorno alla casa, e nessun movimento dietro le finestre sporche, la finestra sfondata. Lentamente scesi dalla collina. La casa di Flora a Westchester era stata venduta qualche anno prima;
non era stata una sorpresa, per me. Avevo controllato per pura curiosità, dato che ero in città. Una volta ero passato in macchina davanti alla villa. Flora non aveva motivo di restare in questa Terra dell'Ombra. La sua lunga missione s'era conclusa con un successo e l'ultima volta che l'avevo vista, aveva ricevuto la sua ricompensa, in Ambra. Era esasperante pensare che l'avevo avuta vicina per tanto tempo, senza neppure accorgermi della sua presenza. Mi ero chiesto se era il caso di mettermi in contatto con Random, ma avevo deciso di non farlo. L'unico modo in cui poteva rendersi utile sarebbe stato fornirmi informazioni sulla situazione di Ambra. Sarebbe stato utile averle, ma non era assolutamente essenziale. Ero quasi sicuro di potermi fidare di lui. Dopotutto, in passato mi era stato d'aiuto diverse volte. Certo, non per altruismo... ma aveva fatto anche più del necessario. Però erano passati cinque anni, e da allora erano accadute molte cose. Adesso era nuovamente tollerato, ad Ambra, e aveva moglie. Forse era ansioso di riguadagnare un po' di prestigio. Non lo sapevo. Ma valutando i possibili benefici e i possibili svantaggi, pensai che fosse meglio attendere e vederlo personalmente, appena fossi tornato nella città. Avevo mantenuto la parola, e avevo resistito a tutti i tentativi di stabilire un contatto con me. Si erano ripetuti quasi ogni giorno, nelle prime due settimane dopo il mio ritorno sulla Terra dell'ombra. Ma poi erano passate altre settimane, e non ero più stato disturbato. Perché dovevo permettere che qualcuno potesse approfittarne? No, grazie, fratelli. Mi avvicinai alla parte posteriore della casa, mi accostai ad una finestra e la pulii con il gomito. Avevo sorvegliato quel posto per tre giorni, e mi sembrava molto improbabile che dentro ci fosse qualcuno. Però... Sbirciai all'interno. C'era un gran disordine, naturalmente, e molta della mia roba era scomparsa. Ma qualcosa era rimasto. Mi avviai sulla destra e provai ad aprire la porta. Chiusa a chiave. Ridacchiai. Raggiunsi il patio. Il nono mattone dalla porta, il quarto dal basso. La chiave c'era ancora. La ripulii sulla giacca mentre tornavo indietro. Entrai. C'era polvere dappertutto, ma in certi punti era smossa. C'erano tazze di caffè, involti di sandwich, e nel camino i resti di un hamburger pietrificato. Durante la mia assenza, la pioggia era entrata spesso dal comignolo. Mi avvicinai e chiusi la valvola di tiraggio. Vidi che la porta d'ingresso era stata sfasciata intorno alla serratura. Provai a smuoverla. Sembrava che fosse stata inchiodata. C'era una frase o-
scena scarabocchiata sulla parete dell'ingresso. Andai in cucina. Era un caos. Tutto ciò che era sopravvissuto al saccheggio era finito sul pavimento. La stufa e il frigorifero erano spariti, il pavimento era graffiato. Tornai indietro e andai a controllare il mio laboratorio. Sì, era stato svuotato. Completamente. Passai oltre, e mi stupii di trovare intatti, nella mia stanza, il letto ancora sfatto e due preziose poltrone. Il mio studio fu una sorpresa più piacevole. La grande scrivania era coperta di carte d'ogni genere, ma era sempre stata così. Accesi una sigaretta e andai a sedermi. Forse era troppo pesante e ingombrante perché qualcuno potesse portarsela via. I miei libri erano ancora sugli scaffali. Nessuno ruba i libri, tranne gli amici. E là... Non potevo crederlo. Mi alzai e attraversai la stanza per andare a vedere da vicino. La bellissima silografia di Yoshitoshi Mori era appesa dov'era sempre stata, pulita, cruda, elegante, violenta. Pensare che nessuno avesse portato via una delle mie cose più preziose... Pulita? La scrutai. Passai il dito lungo la cornice. Troppo pulita. Non c'era la polvere che copriva tutto il resto, in casa. Controllai, per scoprire se c'era qualche filo: non ne trovai, la staccai dal gancio, l'abbassai. No, la parete, sotto, non era più chiara. Era dello stesso colore del resto. Posai l'opera di Mori sul sedile accanto alla finestra e tornai alla scrivania. Ero turbato, come era senza dubbio nelle intenzioni di qualcuno. Era evidente che quel qualcuno aveva portato via la silografia e ne aveva avuto cura — e di questo gli ero anche riconoscente — e poi, recentemente, l'aveva rimessa al suo posto. Sembrava che il mio ritorno fosse stato previsto. E quella sarebbe stata una ragione sufficiente per fuggire subito, penso. Ma era sciocco. Se si trattava di una trappola, era già scattata. Estrassi dalla tasca della giacca la pistola automatica e me l'infilai alla cintura. Io stesso non avevo previsto di ritornare. Era una decisione che avevo preso perché mi ero trovato con un po' di tempo a disposizione. Non sapevo neppure perché avessi desiderato di rivedere quella casa. Quindi era stato combinato tutto in fretta. Se fossi capitato di nuovo a casa mia, lo avrei fatto per riprendermi l'unica cosa che poteva starmi a cuore. Perciò qualcuno l'aveva conservata, e messa in mostra in modo che lo notassi. Benissimo, era andata così. Non ero stato ancora attaccato, e quindi non sembrava una trappola. E allora che cos'era?
Un messaggio. Una specie di messaggio. Quale? Come? E chi era stato? Il posto più sicuro della casa doveva essere la cassaforte, se non era stata scassinata. Non era un'impresa che esorbitasse dalle capacità dei miei fratelli. Mi accostai alla parete, spostai il pannello. Feci girare la manopola secondo la combinazione, indietreggiai, aprii lo sportello con un righello. Niente esplosioni. Bene. Ma questo l'avevo immaginato. Dentro non c'era stato niente d'importante... qualche centinaio di dollari in contanti, qualche buono del tesoro, ricevute, corrispondenza. Una busta. Una busta bianca messa lì, in bella vista. Non la ricordavo. C'era scritto il mio nome, in una grafia elegante. E non era stato tracciato con una biro. Dentro c'era una lettera e una carta. Fratello Corwin, diceva la lettera, se stai leggendo questa, allora vuol dire che pensiamo ancora in modo abbastanza simile perché io possa anticipare le tue azioni. Ti ringrazio per la silografia che mi hai prestato... una delle due possibili ragioni, secondo me, che potrebbero indurli a tornare in quest'ombra squallida. Mi dispiace lasciarla, poiché anche i nostri gusti sono abbastanza simili, e perché per diversi anni ha abbellito il mio appartamento. C'è qualcosa, nel suo tema, che mi sembra familiare. La restituzione deve essere intesa come una prova di buona volontà e come un mezzo per attirare la tua attenzione. Devo essere sincero con te, se voglio avere la speranza di convincerti. Non mi scuserò per quello che è stato fatto. Il mio unico rimpianto, per la verità, è che non ti ho fatto uccidere quando avrei dovuto. È stata la vanità ad indurmi a comportarmi da sciocco. Forse il tempo ha guarito i tuoi occhi, ma non credo che potrà mai modificare sensibilmente i nostri reciproci sentimenti. La tua lettera — «Tornerò» — in questo momento si trova sul mio scrittoio. Se l'avessi scritta io, so che io sarei tornato. Poiché abbiamo certe cose in comune, prevedo il tuo ritorno, e con una certa apprensione. So che non sei uno sciocco, e immagino che arriverai in forze. E la vanità del passato viene pagata con l'orgoglio del presente. Vorrei che vi fosse pace tra noi, Corwin; per il bene del regno, non per me. Forze potentissime uscite dall'Ombra assediano regolarmente Ambra, e non ne comprendo interamente la natura. E contro queste forze, le più formidabili che, a quanto ricordo, abbiano mai assalito Ambra, l'intera famiglia si è unita al mio fianco. Vorrei avere il tuo appoggio in questa lotta. Se non è possibile, ti chiedo di rimandare per qualche tempo l'invasione. Se deciderai di aiutarci, non li
chiederò alcun atto di omaggio, ma solo il riconoscimento che il comando tocca a me per tutta la durata della crisi. Ti verranno accordati gli onori che ti spettano. È importante che tu ti metta in contatto con me, perché possa renderti conto della verità di ciò che dico. Poiché non sono riuscito a comunicare con te per mezzo del tuo Trionfo, accludo il mio, affinché tu possa servirtene. Anche se probàbilmente penserai che ti sto mentendo, ti dò la mia parola che non è così. Eric, Signore di Ambra. Rilessi la lettera e ridacchiai. A cosa pensava che servissero le maledizioni, comunque? Inutile, fratello mio. Sei stato gentile a pensare a me nel momento del bisogno — e ti credo, senza alcun dubbio, poiché siamo tutti uomini d'onore — ma il nostro incontro avverrà secondo il mio programma, non secondo il tuo. Hai commesso l'errore di considerarti necessario, Eric. I cimiteri sono pieni di uomini che si credevano insostituibili. Comunque aspetterò di potertelo dire faccia a faccia. Infilai la lettera e il Trionfo nella tasca della giacca. Spensi la sigaretta nel portacenere sporco, sulla scrivania. Poi presi un lenzuolo in camera da letto, per avvolgere i miei combattenti. Questa volta mi avrebbero atteso in un luogo più sicuro. Mentre attraversavo di nuovo la casa, mi chiesi perché ero tornato, in realtà. Pensai ad alcune delle persone che avevo conosciuto quando abitavo lì, e mi domandai se avevano mai pensato a me, se si erano chieste che fine avevo fatto. Non l'avrei mai saputo, naturalmente. Era scesa la notte, e il cielo era limpido, e le prime stelle brillavano quando uscii e chiusi a chiave la porta. Girai intorno alla casa e rimisi a posto la chiave, nel patio. Poi risalii la collina. Quando mi voltai a guardare, dall'alto, mi parve che la casa fosse rimpicciolita, nell'oscurità, e facesse parte della desolazione, come una lattina di birra vuota abbandonata sul ciglio della strada. Scesi dall'altro pendio, attraversai un prato per tornare dove avevo parcheggiato la macchina, pentito di essermi voltato a guardare. 9 Io e Ganelon partimmo dalla Svizzera con due camion. Li avevamo guidati fin lì dal Belgio, e sul mio avevo caricato i fucili. Calcolando quattro chili e mezzo l'uno, i trecento fucili pesavano circa una tonnellata e mezzo, niente male. Dopo aver caricato anche le munizioni, avevamo ancora spa-
zio per il carburante e le provviste. Avevamo preso una scorciatoia attraverso l'Ombra, naturalmente, per evitare la gente che se ne sta ai confini con il solo scopo di rallentare il traffico. Partimmo allo stesso modo: io viaggiavo sul primo camion: per aprire la strada, diciamo così. Passai attraverso una zona di colline scure e di piccoli villaggi, dove gli unici veicoli che incontrammo erano trainati da cavalli. Quando il cielo divenne di un vivido color limone, le bestie da soma che vedemmo erano striate e piumate. Proseguimmo per ore, e finalmente incontrammo la strada nera, costeggiandola per un lungo tratto, attraverso una dozzina di mutamenti, ed il panorama cambiò, le colline divennero pianure, e le pianure ridiventarono colline. Avanzammo lentamente su strade dissestate e slittammo su distese lisce e dure come il vetro. Attraversammo la parete d'una montagna e aggirammo un mare scuro come vino. Passammo tra temporali e nebbie. Impiegai mezza giornata per ritrovarli: o almeno per ritrovare un'ombra così simile che quasi non c'era differenza. Sì, erano coloro che avevo usato già una volta. Erano bassi, molto villosi, molto scuri, con incisivi lunghissimi ed artigli retrattili. Ma avevano una buona mira e mi adoravano. Furono felici del mio ritorno. Poco contava che cinque anni prima avessi mandato i loro maschi migliori a morire in una terra sconosciuta. Gli dei non si discutono: bisogna amarli, onorarli e obbedirli. Furono molto delusi perché avevo bisogno di poche centinaia di soldati. Dovetti respingere migliaia di volontari. Questa volta, il problema morale non mi turbava molto. In un certo senso, potevo dire che, impiegando questo contingente avrei fatto in modo che gli altri non fossero morti invano. Naturalmente io non la pensavo così: ma i sofismi mi piacciono. Forse avrei potuto anche considerarli mercenari pagati in moneta spirituale. Che differenza faceva se combattevano per la paga o per una fede? Io ero in grado di fornire l'una e l'altra, quando avevo bisogno di truppe. Ma in realtà, costoro non avrebbero corso grandi pericoli, poiché sarebbero stati i soli a disporre di armi da fuoco. Le mie munizioni, però, erano tuttora inerti nella loro patria, e ci vollero parecchi giorni di marcia attraverso l'Ombra per raggiungere una terra abbastanza simile ad Ambra perché funzionassero. L'unico guaio era che le ombre seguono una legge di congruenza delle corrispondenze, e quel luogo era effettivamente vicino ad Ambra. Questo mi tenne sulle spine durante l'intero periodo dell'addestramento. Era improbabile che un mio fratello capitasse per caso in quell'ombra. Ma si erano verificate coincidenze anche peggiori.
Ci esercitammo per quasi tre settimane, prima che io decidessi che eravamo pronti. Poi, in un mattino fresco e luminoso, togliemmo il campo e passammo nell'Ombra. Le colonne dei fanti seguivano i camion. I veicoli avrebbero smesso di funzionare quando ci fossimo avvicinati ad Ambra — già adesso ci causavano qualche difficoltà — ma potevano venire usati per trasportare l'equipaggiamento, finché era possibile. Questa volta, intendevo salire in vetta a Kolvir da nord, anziché affrontare ancora la parete rivolta verso il mare. Tutti gli uomini avevano un'idea della topografia, e il piazzamento delle squadre di fucilieri era già stato deciso, provato e riprovato durante le manovre. Ci fermammo per pranzare, mangiammo bene, e proseguimmo, mentre le ombre si allontanavano gradualmente da noi. Il cielo divenne di un azzurro scuro ma brillante: il cielo di Ambra. La terra era nera tra le rocce ed il verde fulgido dell'erba. Gli alberi ed i cespugli avevano foglie d'una lucentezza umida. L'aria era dolce e pulita. Al cader della notte, stavamo passando tra gli alberi enormi al limitare della Foresta di Arden. Bivaccammo lì, disponendo un imponente servizio di guardia. Ganelon, che adesso indossava una divisa cachi e un berretto, restò a lungo con me, ad esaminare le mappe che avevo disegnato. Dovevamo percorrere ancora quaranta miglia prima di arrivare alle montagne. Il pomeriggio seguente, i camion si bloccarono. Subirono varie trasformazioni, si imballarono più volte, e alla fine rifiutarono di avviarsi. Li spingemmo in un burrone e tagliammo rami per coprirli. Distribuimmo le munizioni e il resto delle razioni e proseguimmo. Poi lasciammo la strada di terra battuta e procedemmo attraverso la foresta. Poiché la conoscevo ancora bene, non vi furono grossi problemi. Dovemmo rallentare, naturalmente, ma questo riduceva le possibilità di venir sorpresi da una delle pattuglie di Julian. Gli alberi erano giganteschi, poiché ormai ci eravamo addentrati in Arden, e la topografia mi ritornava alla mente via via che avanzavamo. Non incontrammo nulla di più pericoloso delle volpi, i cervi, i conigli e gli scoiattoli, quel giorno. Gli odori della foresta ed i suoi colori, verde, oro e bruno, mi portavano pensieri di tempi più felici. Verso il tramonto, mi arrampicai su una pianta colossale e riuscii a distinguere la catena che comprendeva Kolvir. Un temporale ne incoronava le vette, in quel momento, e le nubi nascondevano le parti più elevate. A mezzogiorno del giorno dopo c'imbattemmo in una delle pattuglie di Julian. In realtà, non so chi fu a sorprendere l'altro, né chi rimase più sor-
preso. La sparatoria cominciò quasi immediatamente. Diventai rauco a furia di gridare per far smettere i miei fucilieri: erano tutti ansiosi di provare le loro armi contro bersagli viventi. Era un piccolo gruppo — circa diciotto uomini — e li liquidammo tutti. Noi non subimmo perdite: uno dei nostri uomini ne ferì un altro, o forse si ferì da solo. Non venni mai a sapere come fossero andate esattamente le cose. Poi procedemmo più rapidamente, perché avevamo fatto parecchio chiasso, e non avevo idea della disposizione delle altre forze nelle vicinanze. Al cader della notte eravamo già ad una quota piuttosto elevata, e le montagne apparivano nitide. Le nubi temporalesche aleggiavano ancora intorno alle vette. I miei uomini erano eccitati dal massacro, e quella notte faticarono ad addormentarsi. Il giorno seguente arrivammo ai piedi delle colline, e riuscimmo ad evitare due pattuglie. Proseguimmo anche dopo il calar del sole, per raggiungere un posto abbastanza protetto che avevo in mente. Ci accampammo ad una quota superiore di circa mezzo miglio, rispetto alla notte precedente. Eravamo al di sotto della coltre nuvolosa; ma non pioveva, nonostante la costante tensione atmosferica che preannunciava un temporale. Non dormii bene, quella notte. Sognai la testa fiammeggiante del gatto, e Lorraine. Al mattino, partimmo sotto un cielo grigio, e feci marciare implacabilmente le mie truppe, sempre più in alto. Udivamo il rombo dei tuoni lontani, e l'aria era carica d'elettricità. Verso metà mattina, mentre guidavo la colonna lungo un percorso sassoso e tortuoso, udii un grido dietro di me, seguito dal crepitio di parecchie armi da fuoco. Tornai immediatamente indietro. Un gruppetto d'uomini, tra i quali c'era Ganelon, guardava in basso, parlando a bassa voce. Mi feci largo in mezzo a loro. Non potevo crederlo. Mai, a quanto ricordavo, se ne era vista una così vicino ad Ambra. Era lunga circa dodici piedi, e portava quell'orribile parodia di un volto umano sulle spalle da leone, le ali d'aquila ripiegate sui fianchi insanguinati, la coda ancora fremente simile a quella d'uno scorpione. Avevo intravvisto una manticora, una volta, sulle isole a sud: una bestia spaventosa che aveva sempre occupato uno dei primi posti nel mio elenco delle cose immonde. «Ha fatto a pezzi Rall, ha fatto a pezzi Rall,» continuava a ripetere uno degli uomini. A una ventina di passi di distanza, vidi quel che restava di Rall. Lo coprimmo con un telo, e l'appesantimmo con alcune pietre. Non potevamo
fare altro. Questo servì, almeno, a ridestare una certa prudenza, che era svanita dopo la facile vittoria del giorno precedente. Quando ci rimettemmo in cammino, gli uomini erano silenziosi e guardinghi. «Incredibile,» disse Ganelon. «Ha l'intelligenza di un uomo?» «Non so.» «Ho un'impressione strana, Corwin. Come se stesse per accadere qualcosa di terribile. Non saprei come esprimermi, altrimenti.» «Lo so.» «Lo senti anche tu?» «Sì.» Ganelon annuì. «Forse è il tempo,» dissi io. Annuì di nuovo, più lentamente. Il cielo continuò ad oscurarsi durante la nostra ascesa, e il tuono non taceva mai. Lampi di calore balenavano a occidente, e i venti diventavano più forti. Alzando la testa, potevo vedere grandi masse di nubi intorno ai picchi più alti. Nere sagome simili ad uccelli apparivano di continuo su quello sfondo. Incontrammo un'altra manticora, più avanti, ma l'uccidemmo senza subire perdite. Circa un'ora dopo, fummo attaccati da uno stormo di grandi uccelli dal becco tagliente, come non ne avevo mai visti. Riuscimmo a scacciarli: ma anche questo mi turbò. Continuammo a salire, chiedendoci quando sarebbe incominciato il temporale. I venti divennero più forti. Il cielo diventò molto buio, benché sapessi che il sole non era ancora tramontato. L'aria era nebbiosa: ormai ci stavamo avvicinando alle nubi. L'umidità compenetrava ogni cosa. Le rocce erano più scivolose. Provai l'impulso di ordinare l'alt, ma eravamo ancora lontani da Kolvir e non volevo consumare troppo presto le razioni, che avevo calcolato meticolosamente. Percorremmo ancora quattro miglia, continuando a salire, prima che fossimo costretti a fermarci. Ormai c'era un buio pesto; l'unica luce era quella intermittente dei fulmini. Ci accampammo in un ampio cerchio su un pendio duro e spoglio, piazzando intorno le sentinelle. Il tuono sembrava una musica marziale. La temperatura precipitò. Anche se avessi permesso di accendere i fuochi, in giro non c'era nulla che si potesse bruciare. Ci rassegnammo a passare la notte al freddo, nell'umidità e nel buio. Le manticore attaccarono parecchie ore dopo, all'improvviso, silenzio-
samente. Morirono sette uomini, e noi uccidemmo sedici mostri. Non so quanti altri fuggirono. Maledissi Eric mentre mi fasciavo le ferite e mi chiesi da quale ombra aveva evocato quegli esseri. Durante il mattino, avanzammo di circa cinque miglia verso Kolvir, prima di deviare verso occidente. Era una delle tre strade possibili che potevamo percorrere, e l'avevo sempre considerata la più adatta per un eventuale attacco. Gli uccelli tornarono ad attaccarci, parecchie volte, sempre più numerosi e insistenti. Ma bastò abbatterne alcuni per mettere in fuga l'intero stormo. Finalmente aggirammo la base di un'enorme scarpata, salendo tra i tuoni e la nebbia fino a quando, all'improvviso, potemmo vedere per una dozzina di miglia attraverso la Valle di Garnath che si estendeva alla nostra destra. Ordinai l'alt, e andai avanti ad osservare. L'ultima volta che avevo visto quella valle un tempo bellissima, era una devastazione atroce. Adesso era anche peggio. La strada nera la tagliava, fino alla base di Kolvir: e là si arrestava. Nella valle infuriava una battaglia. Schiere di cavalieri turbinavano, si scontravano, arretravano. File di fanti avanzavano, si battevano, ripiegavano. Il fulmine continuava a balenare. Gli uccelli scuri volteggiavano intorno ai combattenti come ceneri al vento. L'umidità era una coltre fredda. Gli echi del suono rimbalzavano tra i picchi. Sconcertato, osservai il conflitto. La distanza era troppo grande perché potessi riconoscere i combattenti. In un primo momento pensai che qualcun altro avesse avuto le mie stesse intenzioni... che Bleys, magari, fosse sopravvissuto e fosse tornato con un nuovo esercito. Ma no. Questi arrivavano da occidente, lungo la strada nera. E adesso potevo vedere che gli uccelli li accompagnavano, ed altre forme che balzavano e che non erano né uomini né cavalli. Forse erano manticore. I fulmini cadevano su di loro mentre avanzavano, disperdendoli, bruciandoli. Quando notai che non colpivano mai i difensori, ricordai che Eric aveva evidentemente acquisito il dominio di quella che veniva chiamata la Gemma del Giudizio, grazie alla quale nostro padre aveva imposto la sua volontà alle condizioni meteorologiche intorno ad Ambra. Eric l'aveva impiegata contro di noi cinque anni prima, e con considerevole successo. Dunque le forze uscite dall'Ombra erano ancora più formidabili di quanto avessi immaginato. Avevo previsto scontri, ma non una battaglia campale ai piedi di Kolvir. Guardai i movimenti nella tenebra. La strada sem-
brava quasi brulicare. Ganelon mi venne accanto. Rimase a lungo in silenzio. Non avrei voluto che me lo chiedesse; ma non mi sentivo in grado di dirlo, se non come risposta ad una domanda. «E adesso, Corwin?» «Dobbiamo affrettare la marcia,» dissi. «Voglio essere ad Ambra, stanotte.» Tornammo a muoverci. Per un tratto fu più facile procedere, e questo ci favorì. Il temporale senza pioggia continuò, e i fulmini e i tuoni crebbero di luminosità e di volume. Procedevamo in un continuo crepuscolo. Quando, quel pomeriggio, raggiungemmo un posto che sembrava sicuro — a cinque miglia dalla periferia settentrionale di Ambra — diedi nuovamente l'ordine di fermare, per riposare e per consumare un pasto. Dovevamo urlare per farci udire, perciò non potei tenere un discorso ai miei uomini. Feci semplicemente passare parola, per avvertire che eravamo vicini, e che dovevamo tenerci pronti. Portai con me le mie razioni e andai avanti in ricognizione, mentre gli altri riposavano. Un miglio più avanti, salii una ripida scarpata, e mi fermai quando giunsi in cima. Sui pendii era già in corso una battaglia. Mi tenni nascosto e osservai. Un contingente di Ambra era impegnato con una schiera ancora più numerosa di assalitori, che dovevano averci preceduti, o forse erano arrivati là con altri mezzi. Sospettavo che quest'ultima ipotesi fosse esatta, poiché non avevamo visto segni di un transito recente. Lo scontro spiegava perché non avevamo incontrato pattuglie difensive durante la salita. Mi avvicinai ancora. Anche se gli attaccanti potevano essere arrivati da una delle altre due strade, vidi altre conferme che non era andata così. Continuavano ad arrivare, ed era uno spettacolo spaventoso, perché venivano in volo. Piombavano da occidente, come grandi raffiche di foglie portate dal vento. Il movimento aereo che avevo scorto da lontano non era stato causato solo dagli uccelli dai becchi taglienti. Gli assalitori arrivavano sul dorso di esseri bipedi, simili a draghi, che mi ricordavano un animale araldico, il wyvern. Non avevo mai visto un wyvern che non fosse puramente decorativo, ma non avevo mai provato il desiderio di andare a cercarne uno. Tra i difensori c'erano numerosi arcieri, che facevano strage degli esseri in volo. E i fulmini lampeggiavano e divampavano, bruciandoli, scagliandoli al suolo ormai ridotti in cenere. Ma continuavano ad arrivare, e atter-
ravano, in modo che uomo e bestia potessero attaccare i difensori. Individuai lo splendore pulsante irradiato dalla Gemma del Giudizio, sintonizzato per agire. Si irradiava dal centro della schiera più consistente dei difensori, insediata presso la base di un'alta parete rocciosa. Scrutai, cercando con lo sguardo colui che portava la gemma. Sì, non c'erano dubbi. Era Eric. Mi distesi sul ventre, e mi spinsi ancora più oltre. Vidi il comandante della schiera di difensori più vicina decapitare un wyvern che atterrava, con un unico colpo di spada. Con la mano sinistra, afferrò il cavaliere e lo scagliò una decina di metri più lontano, oltre il ciglio del precipizio. Quando si voltò per gridare un ordine, vidi che era Gérard. Sembrava che guidasse un attacco sul fianco della massa degli attaccanti lanciati contro le forze ai piedi del precipizio. Dall'altra parte, una seconda schiera stava facendo altrettanto. Un altro dei miei fratelli? Mi chiesi da quanto tempo era incominciata la battaglia, nella valle e lassù. Da parecchio, pensai, considerando la durata di quell'uragano innaturale. Mi portai sulla destra, volgendo l'attenzione verso occidente. La battaglia nella valle continuava, implacata. Da quella distanza era impossibile distinguere i combattenti, e ancor più capire chi stava vincendo. Comunque, vidi che da occidente non arrivavano altre forze in aiuto degli attaccanti. Non sapevo che cosa mi convenisse fare. Chiaramente, non potevo attaccare Eric mentre era impegnato nella difesa di Ambra. Forse era più saggio aspettare e raccogliere i cocci. Tuttavia, sentivo già i denti aguzzi del dubbio rodere quell'idea. Anche senza altri rinforzi per gli attaccanti, l'esito dello scontro non era chiaro. Gli invasori erano forti, numerosi. Non sapevo quali fossero le riserve di Eric. In quel momento, mi era impossibile valutare se il prestito di guerra era un buon investimento, ad Ambra. Se Eric avesse perduto, avrei dovuto affrontare io stesso gli invasori, dopo che i difensori di Ambra fossero stati sterminati in gran parte. Se fossi intervenuto subito con le armi automatiche, ero certo che avremmo potuto schiacciare rapidamente i cavalieri dei wyvern. Del resto, nella valle dovevano esserci alcuni dei miei fratelli. Per mezzo dei Trionfi, sarebbe stato possibile aprire una porta alle mie truppe. E se Ambra avesse messo improvvisamente in campo i fucilieri, avrebbe colto di sorpresa gli avversari.
Rivolsi nuovamente l'attenzione allo scontro che si svolgeva più vicino a me. No, non andava affatto bene. Mi chiesi quale sarebbe stato il risultato del mio intervento. Eric non sarebbe stato certamente in condizioni di scagliarsi contro di me. A parte la simpatia che mi avrebbe assicurato tutto quello che lui mi aveva fatto passare, avrei tolto le castagne dal fuoco per conto suo. Mi sarebbe stato riconoscente, ma non sarebbe stato troppo contento dei sentimenti che questo avrebbe suscitato nell'opinione pubblica. No davvero. Sarei rientrato in Ambra con una guardia del corpo temibilissima e molte simpatie dalla mia parte. Un pensiero affascinante. Questo mi avrebbe spianato la strada, molto meglio di un assalto frontale culminante in un regicidio, come avevo pianificato. Sì. Mi accorsi di sorridere. Stavo per diventare un eroe. Tuttavia, devo concedermi qualche attenuante. Se dovevo scegliere tra Ambra con Eric sul trono e la caduta di Ambra, senza dubbio la mia decisione sarebbe stata la stessa: attaccare. Le cose non andavano abbastanza bene per esserne sicuro, e anche se sarebbe tornato a mio vantaggio vincere la battaglia, il mio vantaggio, nel complesso, non era essenziale. Non potrei odiarti tanto, Eric, se il mio amore per Ambra non fosse più forte. Tornai indietro e mi affrettai a ridiscendere il pendio, mentre i bagliori dei fulmini gettavano la mia ombra in tutte le direzioni. Mi fermai sul limitare del mio accampamento. Dall'altra parte, Ganelon stava urlando per farsi capire da un cavaliere: e io riconobbi il cavallo. Avanzai, e a un cenno del cavaliere il cavallo avanzò fra le truppe, dirigendosi verso di me. Ganelon scosse il capo e lo seguì. Il cavaliere era Dara. Appena mi fu vicino, le gridai: «Cosa diavolo sei venuta a fare?» Smontò, sorridendo, si fermò davanti a me. «Volevo venire ad Ambra,» disse. «E ci sono venuta.» «Come sei arrivata?» «Ho seguito il nonno,» rispose. «È più facile seguire qualcuno attraverso l'Ombra, piuttosto che farlo da sola.» «Benedict è qui?» Dara annuì. «Laggiù. Sta guidando le forze impegnate nella valle. C'è anche Julian.» Ganelon si avvicinò. «Ha detto che ci ha seguiti fin quassù,» mi gridò. «Ci stava seguendo da un paio di giorni.»
«È vero?» chiesi io. Dara annuì di nuovo, continuando a sorridere. «Non è stato difficile.» «Ma perché l'hai fatto?» «Per entrare in Ambra, naturalmente! Voglio percorrere il Disegno. È là che stai andando, vero?» «Naturalmente. Ma si dà il caso che sia in corso una guerra!» «Cos'hai intenzione di fare?» «Vincerla, naturalmente!» «Bene, aspetterò.» Imprecai per qualche istante, per avere il tempo di pensare, poi: «Dov'eri quando Benedict è tornato?» chiesi. Il sorriso svanì. «Non lo so,» disse. «Ero uscita a cavallo dopo la tua partenza, e sono rimasta lontana per tutto il giorno. Volevo restare sola, per riflettere. Quando sono tornata, la sera, lui non c'era. La mattina dopo, sono ripartita a cavallo. Ho percorso parecchia strada, e quando si è fatto buio ho deciso di accamparmi. Lo faccio spesso. Il pomeriggio seguente, mentre stavo tornando a casa, sono salita su una collina e l'ho visto passare sotto di me, diretto verso oriente. Ho deciso di seguirlo. La strada passava attraverso l'Ombra, questo l'ho capito... e avevi ragione: è più facile, quando si segue un altro. Non so quanto tempo è durato: il tempo si confonde. Lui è venuto qui, e ho riconosciuto il posto. L'avevo visto su una delle carte. Si è incontrato con Julian in un bosco, più a nord, e poi sono tornati insieme per prendere parte alla battaglia.» Dara indicò la valle. «Sono rimasta nella foresta diversi giorni, non sapendo che fare. Temevo di perdermi, cercando di tornare indietro. Poi ho visto il tuo esercito che scalava la montagna. Ho visto te e ho visto Ganelon. Ho capito che Ambra era da quella parte, e vi ho seguiti. Ho aspettato fino ad ora, prima di avvicinarmi, perché volevo che tu fossi troppo vicino ad Ambra per rimandarmi indietro.» «Non credo che tu mi stia dicendo tutta la verità,» obiettai. «Ma non ho il tempo di preoccuparmene. Adesso proseguiremo, e ci sarà da combattere. È meglio che tu resti qui. Ti assegnerò un paio di guardie del corpo.» «Non le voglio!» «Non m'interessa quello che vuoi. Te le terrai. Quando la battaglia sarà finita, ti manderò a prendere.» Poi mi voltai e scelsi due uomini a caso, ordinando di restare a proteggerla. Non sembravano entusiasti della prospettiva.
«Cosa sono le armi portate dai tuoi uomini?» chiese Dara. «Più tardi,» dissi io. «Ho da fare.» Impartii rapidamente le istruzioni e schierai le mie squadre. «Sembra che tu abbia pochi uomini,» disse Dara. «Basteranno,» risposi. «Ci vediamo più tardi.» La lasciai con le sue guardie. Ci avviammo per la stessa strada che avevo percorso poco prima. Il tuono cessò mentre avanzavamo, e il silenzio mi causò più tensione che sollievo. Il crepuscolo tornò ad addensarsi intorno a noi, ed io sudavo nella coltre umida dell'atmosfera. Ordinai l'alt prima che raggiungessimo il primo punto da cui avevo osservato il combattimento. Poi vi tornai, accompagnato da Ganelon. I cavalieri dei wyvern erano dappertutto, e le loro bestie combattevano al loro fianco. Stavano ricacciando i difensori contro la parete a strapiombo. Cercai Eric o almeno lo splendore della sua gemma, ma non vidi nulla. «Quali sono i nemici?» mi chiese Ganelon. «Quelli montati sui mostri.» Stavano tutti atterrando, ora che le artiglierie del cielo tacevano. Appena si posavano al suolo, caricavano. Cercai tra i difensori, ma non vidi più Gérard. «Porta qui le truppe,» dissi, alzando il mio fucile. «Di' che sparino alle bestie e ai loro cavalieri.» Ganelon si allontanò, e io presi di mira un wyvern che stava scendendo, sparai, e vidi la sua planata trasformarsi in un violento turbinio di ali. Piombò sul pendio, e cominciò a dibattersi. Sparai di nuovo. La bestia cominciò a bruciare, mentre moriva. Ben presto accesi altri tre falò. Mi portai alla seconda delle mie posizioni precedenti. Presi la mira e sparai di nuovo. Uccisi un altro wyvern, ma alcuni si stavano già voltando verso di me. Sparai il resto delle munizioni, e mi affrettai a ricaricare. Ormai parecchi wyvern si avviavano verso di me. Erano spaventosamente veloci. Riuscii a fermarli. Stavo ricaricando di nuovo quando sopraggiunse la prima squadra di fucilieri. Cominciammo a sparare tutti insieme, e prendemmo ad avanzare, mentre sopraggiungevano anche gli altri. Finì tutto in dieci minuti. Entro i primi cinque, i nostri avversari capirono che non c'era niente da fare, e fuggirono verso il cornicione, per lanciarsi nel vuoto e riprendere il volo. Li abbattemmo mentre correvano, e tutto intorno a noi c'erano corpi in fiamme e ossa fumanti.
La roccia umida saliva verticalmente alla nostra sinistra: la sommità si perdeva tra le nubi, e sembrava che torreggiasse all'infinito sopra di noi. I venti sferzavano ancora il fumo e le nebbie, e le rocce erano chiazzate di sangue. Mentre avanzavamo, sparando, le forze di Ambra compresero prontamente che eravamo venuti in loro aiuto e cominciarono a spingersi in avanti dalla postazione alla base dello strapiombo. Vidi che al comando c'era mio fratello Caine. Per un momento i nostri occhi s'incontrarono, da lontano: poi lui si avventò nella mischia. I gruppi sparsi di ambenti si unirono formando un secondo contingente, mentre gli attaccanti si ritiravano. In realtà, ci costrinsero a limitare il nostro campo d'azione quando attaccarono sull'altro fianco gli uomini-bestia ed i loro wyvern; ma non potevo farglielo capire. Ci avvicinammo ancora, e il nostro fuoco divenne più preciso. Alla base dello strapiombo era rimasto un piccolo gruppo di uomini. Ero convinto che proteggessero Eric, e che lui fosse rimasto ferito, poiché l'uragano era cessato all'improvviso. Mi avviai in quella direzione. La sparatoria cominciava già a cessare quando mi avvicinai al gruppo, e non mi accorsi di quello che stava succedendo, se non quando fu ormai troppo tardi. Qualcosa di grosso sopraggiunse precipitosamente e mi passò accanto in un attimo. Piombai al suolo e rotolai: mirai, automaticamente. Non premetti il dito sul grilletto, comunque. Era Dara, che mi aveva appena superato in sella al suo cavallo. Si voltò e rise mentre le gridavo: «Torna laggiù! Maledizione! Ti farai uccidere!» «Ci vedremo ad Ambra!» gridò lei. Si lanciò attraverso le rocce verso il sentiero che stava oltre. Ero furioso. Ma non potevo far nulla, per il momento. Ringhiando, mi rialzai in piedi e proseguii. Mentre avanzavo verso il gruppo, sentii ripetere parecchie volte il mio nome. Le teste si giravano verso di me. Gli uomini si scostavano per lasciarmi passare. Ne riconobbi molti, ma non badai a loro. Vidi Gérard, credo, nello stesso istante in cui lui vide me. Stava inginocchiato in mezzo al gruppo: si alzò e attese. Il suo volto era privo d'espressione. Quando fui più vicino, mi accorsi che le cose erano andate come sospettavo. Si era inginocchiato per assistere un ferito disteso al suolo. Eric. Rivolsi un cenno del capo a Gérard quando gli passai vicino, e abbassai lo sguardo su Eric. Non sapevo che cosa provavo. Il sangue sgorgato dalle
numerose ferite al petto era vivido. La Gemma del Giudizio gli pendeva ancora al collo, e ne era coperta. Stranamente, continuava a pulsare debolmente, come un cuore, sotto tutto quel sangue. Eric teneva gli occhi chiusi, con la testa appoggiata su una coperta arrotolata. Respirava a fatica. M'inginocchiai, incapace di distogliere lo sguardo da quel viso cinereo. Cercai di allontanare un poco il mio odio, poiché stava per morire, tentando di capire meglio l'uomo che era mio fratello, per quei pochi istanti che gli restavano. Scoprii che potevo provare solo una certa comprensione per lui, considerando ciò che stava per perdere, insieme alla vita, e pensando che forse sarei stato io a giacere lì al suo posto, se avessi avuto la meglio cinque anni prima. Cercai di pensare qualcosa in suo favore, e trovai solo poche parole, come un epitaffio: Morto combattendo per Ambra. Era già qualcosa, comunque. La frase continuava a turbinarmi nella mente. Strinse le palpebre, le riaprì. Il suo volto restò inespressvo, quando i suoi occhi fissarono i miei. Mi chiesi se mi riconosceva. Ma pronunciò il mio nome e poi: «Sapevo che dovevi essere tu.» Tacque per un paio di respiri, e proseguì: «Ti hanno risparmiato qualche fastidio, no?» Non dissi nulla. Lui conosceva già la risposta. «Un giorno verrà il tuo turno,» continuò. «E allora saremo pari.» Ridacchiò e, troppo tardi, si accorse che non avrebbe dovuto farlo. Fu preso da un attacco convulso di tosse sanguinosa. Quando passò, Eric mi guardò cupamente. «Potevo sentire la tua maledizione,» disse. «Tutto intorno a me. Sempre. Non è stato neppure necessario che morissi, per renderla efficace.» Poi, come se mi leggesse nel pensiero, sorrise debolmente e disse: «No, non scaglierò contro di te la mia maledizione di morente. L'ho riservata per i nemici di Ambra...» Li indicò con gli occhi. Poi la pronunciò, in un bisbiglio, ed io rabbrividii nell'udirla. Volse di nuovo lo sguardo sul mio volto e mi fissò per un momento. Poi tirò la catena che portava al collo. «La Gemma...» disse. «Portala al centro del Disegno. Tienila alta. Vicinissima... a un occhio. Guardala... e considera un luogo. Cerca di proiettarti... nell'interno. Non vi entrerai. Ma c'è... un'esperienza... Dopo, saprai come usarla...» «Come...?» incominciai, ma m'interruppi. Mi aveva già detto come sintonizzarmi. Perché chiedergli di sprecare il fiato per spiegarmi come l'aveva capito?
Ma Eric mi sentì e riuscì a dire: «Gli appunti di Dworkin... sotto il camino... la mia...» Fu preso da un altro attacco di tosse, e il sangue gli sgorgò dal naso e dalla bocca. Trasse un profondo respiro e riuscì a sollevarsi a sedere, roteando gli occhi. «Assolvi te stesso come ho fatto io... bastardo!» disse. Poi mi crollò fra le braccia ed esalò l'ultimo respiro. Lo tenni stretto per alcuni istanti, poi lo adagiai di nuovo. Aveva ancora gli occhi aperti, e io glieli chiusi. Quasi automaticamente, gli congiunsi le mani sulla gemma ormai spenta. Non avevo il coraggio di prenderla, in quel momento. Mi alzai, mi slacciai il mantello e l'usai per coprirlo. Mi voltai, e vidi che tutti mi stavano fissando. Molti erano visi noti. Ce n'erano anche alcuni completamente sconosciuti. Tanti erano presenti la notte in cui ero stato condotto al pranzo in catene... No. Non era il momento per quel pensiero. Lo scacciai dalla mente. La sparatoria era cessata, e Ganelon stava richiamando le truppe, disponendole in una specie di formazione. Mi mossi. Passai tra gli ambenti. Passai tra i morti. Passai a fianco delle mie truppe e mi spinsi sull'orlo del precipizio. Nella valle, sotto di me, il combattimento continuava. La cavalleria fluiva come acqua turbolenta, si fondeva e recedeva, mentre i fanti sciamavano ancora come insetti. Estrassi le carte che avevo sottratto a Benedict. Presi il suo Trionfo dal mazzo. Luccicava davanti a me: e dopo qualche tempo si stabilì il contatto. Montava lo stesso cavallo rosso e nero con cui mi aveva inseguito. Era in movimento, e si combatteva tutto intorno a lui. Perché vidi che stava affrontando un altro cavaliere, tacqui. Lui pronunciò una sola parola. «Aspetta,» disse. Liquidò l'avversario con due rapidi movimenti della spada. Poi fece girare il cavallo e cominciò a ritirarsi dalla mischia. Vidi che le redini del suo cavallo erano state allungate, ed erano legate intorno al moncherino del braccio destro. Impiegò più di dieci minuti per portarsi in un luogo di relativa calma. Quando vi riuscì, mi guardò, e compresi che stava studiando anche la scena alle mie spalle. «Sì, sono sulle alture,» gli dissi. «Abbiamo vinto. Eric è morto in combattimento.» Continuò a fissarmi, in attesa che proseguissi. Il suo volto non tradiva la
minima emozione. «Abbiamo vinto perché io ho portato i miei fucilieri,» dissi. «Ho trovato finalmente un esplosivo che agisce anche qui.» Benedict socchiuse gli occhi e annuì. Sentii che aveva compreso immediatamente di quale sostanza si trattava e da dove era venuta. «Sebbene vi siano molte cose che voglio discutere con te,» proseguii, «prima voglio liquidare il nemico. Se manterrai il contatto, ti manderò qualche centinaio di fucilieri.» Benedict sorrise. «Affrettati,» disse. Gridai per chiamare Ganelon, e lui mi rispose da pochi passi di distanza. Gli dissi di far schierare gli uomini, in fila per uno. Annui e si allontanò, gridando ordini. Mentre attendevamo, dissi: «Benedict, Dara è qui. È riuscita a seguirti attraverso l'Ombra quando sei arrivato da Avalon. Voglio...» Lui scoprì i denti e gridò; «Chi diavolo è questa Dara di cui continui a parlare? Non l'ho mai sentita nominare prima che tu ricomparissi! Dimmelo, ti prego! Vorrei proprio saperlo!» Sorrisi, debolmente. «È inutile,» dissi, scuotendo il capo. «So tutto di lei, sebbene non abbia detto a nessun altro che tu hai una pronipote.» Benedict socchiuse le labbra, involontariamente, e spalancò di colpo gli occhi. «Corwin,» disse, «sei pazzo, o ti hanno ingannato. Non ho pronipoti, che io sappia. In quanto al fatto che mi avrebbe seguito fin qui attraverso l'Ombra... ebbene, sono venuto per mezzo del Trionfo di Julian.» Naturalmente. La sola ragione per cui non l'avevo capito subito era perché ero troppo preso dal conflitto. Benedict doveva essere stato informato della battaglia per mezzo dei Trionfi. Perché avrebbe dovuto sprecar tempo viaggiando quando aveva a disposizione un mezzo di trasporto immediato? «Maledizione!» gridai. «Adesso lei è ad Ambra! Ascolta, Benedict! Chiamerò qui Gérard o Caine per organizzare il trasporto delle truppe. Verrà da te anche Ganelon. Dai gli ordini per mezzo suo.» Mi guardai intorno, vidi Gérard che parlava con alcuni nobili. Lo chiamai, urlando. Girò subito la testa, poi venne verso di me. «Corwin! Cosa succede?» Benedict stava gridando. «Non lo so! Ma c'è qualcosa che non va!» Consegnai il Trionfo a Gérard, appena mi raggiunse.
«Provvedi a trasferire le truppe da Benedict!» dissi. «Random è nel palazzo?» «Sì.» «Libero o prigioniero?» «Libero... più o meno. Ci sarà qualche guardia, attorno a lui. Eric non si fida ancora... non si fidava ancora di lui.» Mi voltai. «Ganelon!» chiamai. «Fai ciò che ti dirà Gérard. Ti manderà da Benedict... laggiù.» Indicai. «Fai in modo che gli uomini eseguano gli ordini di Benedict. Io devo andare subito ad Ambra.» «Sta bene,» gridò lui, di rimando. Gérard si avviò nella sua direzione, e io estrassi di nuovo i Trionfi. Scelsi quello di Random e cominciai a concentrarmi. In quel momento, cominciò finalmente a piovere. Stabilii il contatto quasi immediatamente. «Salve, Random,» dissi, non appena la sua immagine prese vita. «Ti ricordi di me?» «Dove sei?» chiese lui. «Tra le montagne,» gli dissi. «Abbiamo appena vinto parzialmente la battaglia, e sto mandando a Benedict l'aiuto di cui ha bisogno per ripulire la valle. Ma adesso ho bisogno di te. Portami lì.» «Non so, Corwin. Eric...» «Eric è morto.» «E allora chi comanda?» «Chi credi che comandi? Portami lì!» Random annuì e tese la mano. L'afferrai. Mossi un passo. Stavo accanto a lui su una balconata che guardava su uno dei cortili. La balaustrata era di marmo bianco, e là sotto non c'erano molti fiori. Eravamo al secondo piano. Barcollai, e Random mi afferrò per un braccio. «Sei ferito!» esclamò. Scossi il capo, e solo in quel momento mi accorsi di essere sfinito. Non avevo dormito molto, in quelle ultime notti. E tutto il resto... «No,» dissi, abbassando lo sguardo sulle macchie di sangue sulla mia camicia. «Sono solo stanco. Il sangue è di Eric.» Random si passò una mano tra i capelli color paglia e sporse le labbra. «Dunque, finalmente sei riuscito a inchiodarlo...» disse sottovoce. Scossi di nuovo il capo.
«No. Stava già morendo quando l'ho raggiunto. Vieni con me, ora! Presto! È importante!» «Dove? Cos'è successo?» «Al Disegno,» dissi io. «Perché? Non ne sono sicuro, ma so che è importante. Vieni!» Entrammo nel palazzo, dirigendoci verso la scala più vicina. C'erano due guardie, ma si misero sull'attenti quando ci avvicinammo e non cercarono di ostacolarci. «Sono lieto che tu abbia di nuovo gli occhi,» disse Random, mentre scendevamo. «Vedi perfettamente?» «Sì. Ho saputo che sei ancora sposato.» «Sì.» Quando giungemmo al pianterreno, ci precipitammo sulla destra. C'era un altro paio di guardie ai piedi della scala; ma non ci fermarono. «Sì,» ripeté Random, mentre ci dirigevamo verso il centro del palazzo. «Sei sorpreso, no?» «Sì. Pensavo che, passato l'anno, avresti troncato tutto.» «Sono accadute cose anche più strane.» Attraversammo la sala da pranzo marmorea ed entrammo nel lungo corridoio che si addentrava tra ombre e polvere. Repressi un brivido quando pensai a quando ero passato di lì per l'ultima volta. «Mi vuole veramente bene,» disse Random. «Come nessun'altra me ne aveva mai voluto.» «Ne sono lieto per te,» dissi. Raggiungemmo la porta che dava sulla piattaforma sotto cui stava la lunga scala a chiocciola. Era aperta. La varcammo e prendemmo a scendere. «Io non ne sono affatto lieto,» disse Random, mentre procedevamo in fretta. «Non volevo innamorarmi. Non allora. Siamo stati prigionieri per tutto il tempo, capisci? Come può esserne orgogliosa, lei?» «Adesso è finita,» dissi. «Eri diventato un prigioniero perché mi avevi seguito ed avevi cercato di uccidere Eric, non è così?» «Sì. E mia moglie mi ha raggiunto.» «Non lo dimenticherò,» dissi. Continuammo in fretta la discesa. Era lunga, e c'era una lanterna ogni dieci, dodici metri appena. Era un'enorme grotta naturale. Mi domandai se qualcuno sapeva quante gallerie e corridoi conteneva. All'improvviso mi sentii sopraffatto dalla pietà per tutti gli sventurati che marcivano nelle sue
segrete, per qualunque ragione. Decisi di liberarli tutti, o di trovare comunque una soluzione migliore. Passarono lunghi minuti. Poi vidi il lingueggiare delle torce e delle candele, là sotto. «C'è una ragazza,» dissi io. «Si chiama Dara. Mi ha detto di essere la pronipote di Benedict, e mi ha dato qualche motivo per crederle. Io le ho parlato dell'Ombra, della realtà e del Disegno. Possiede qualche potere sull'Ombra, ed era ansiosa di percorrere il Disegno. Quando l'ho vista l'ultima volta, era diretta qui. Adesso, Benedict giura di non conoscerla neppure. Ho paura. Voglio impedirle di percorrere il Disegno. Voglio interrogarla.» «Strano,» disse Random. «Molto strano. Sono d'accordo con te. Credi che possa essere là, adesso?» «Se non c'è, penso che arriverà presto.» Arrivammo finalmente in fondo, e cominciai fra le ombre, verso la galleria. «Aspetta!» gridò Random. Mi fermai e mi voltai. Impiegai un attimo per ritrovarlo, perché era ancora dietro la scala. Tornai indietro. La domanda che volevo rivolgergli non mi uscì dalle labbra. Vidi che Random era inginocchiato accanto ad un grosso uomo barbuto. «Morto,» disse. «Una lama molto sottile. Ottimo affondo. Deve essere accaduto poco fa.» «Vieni!» Corremmo entrambi verso la galleria e l'imboccammo. Il settimo corridoio laterale era quello che c'interessava. Quando ci avvicinammo sguainai Grayswandir, perché la grande porta scura, fasciata di metallo, era socchiusa. Varcai la soglia, d'un balzo. Random mi seguì. Il pavimento di quell'enorme camera è nero e sembra levigato come il vetro, sebbene non sia sdrucciolevole. E sopra vi arde il Disegno, un labirinto intricato e confuso di linee curve, lungo all'incirca centocinquanta metri. Ci arrestammo sul bordo, ad occhi sbarrati. Qualcosa era là, e lo stava percorrendo. Provai il vecchio brivido che sempre mi dà guardare il Disegno. Era Dara? Era difficile, per me, distinguere la figura tra i getti di scintille che le scaturivano continuamente intorno. Chiunque fosse, doveva appartenere alla stirpe reale, perché tutti sanno che il Disegno annienterebbe chiunque altro, e quella persona aveva già superato la Grande Curva e stava affrontando la complessa serie d'archi
che conduceva oltre il Velo Finale. La figura luminescente pareva cambiare forma, mentre si muoveva. Per qualche tempo, i miei sensi continuarono a rifiutare le balenanti visioni subliminali che, lo sapevo, dovevano giungere fino a me. Sentii Random soffocare un grido, al mio fianco: e questo parve squarciare la diga nel mio subconscio. Un'orda d'impressioni dilagò nella mia mente. La figura sembrava torreggiare enorme in quella camera che appariva sempre priva di sostanza. E poi pareva contrarsi, rimpicciolire, ridursi a nulla. Per un momento sembrò una donna snella... probabilmente Dara, con i capelli illuminati dal chiarore, tesi e crepitanti d'elettricità statica. Poi vidi che non erano i capelli, ma grandi corna ricurve che spuntavano da un'ampia fronte indistinta; e l'essere dalla gambe storte lottava per trascinare gli zoccoli lungo il fulgido percorso. Poi qualcosa d'altro... Un gatto enorme... Una donna senza volto... Un essere dalle ali splendenti e dalla bellezza indescrivibile... Una torre di ceneri... «Dara!» gridai. «Sei tu?» La mia voce riecheggiò, e fu tutto. Chiunque fosse, qualunque cosa fosse, ora stava lottando con il Velo Finale. I miei muscoli si tesero in una reazione involontaria a quello sforzo. E finalmente, ne irruppe. Sì, era Dara. Era alta e magnifica, adesso. Bellissima e nel contempo stranamente orribile. La sua vista lacerò la struttura della mia mente. Teneva le mani levate in un gesto d'esultanza, e dalle labbra le usciva una risata disumana. Avrei voluto distogliere lo sguardo, ma non potevo muovermi. Avevo veramente abbracciato, accarezzato, amato... quella? Ero inorridito, e simultaneamente affascinato come non lo ero stato mai. Non riuscivo a comprendere quella sconvolgente ambivalenza. Poi lei mi guardò. La risata s'interruppe. La sua voce risuonò, alterata. «Principe Corwin, ora sei sovrano d'Ambra?» Non so come, riuscii a rispondere. «Sì, a tutti gli effetti pratici,» dissi. «Bene! E allora guarda la tua nemesi!» «Chi sei? Cosa sei?» «Non lo saprai mai,» disse lei. «Ormai è troppo tardi.» «Non capisco. Cosa intendi dire?» «Ambra,» disse lei, «sarà annientata.» E svanì.
«Cosa diavolo era?» chiese Random. Scossi il capo. «Non so. Davvero, non so. E sento che la cosa più importante al mondo, per noi, è scoprirlo.» Mi strinse il braccio. «Corwin,» disse. «Lei... lei diceva sul serio. Ed è possibile, lo sai.» Annuii. «Lo so.» «E adesso cosa facciamo?» Rinfoderai Grayswandir e mi volsi verso la porta. «Raccattiamo i cocci,» dissi. «Adesso ho quel che ho sempre creduto di volere, e devo assicurarmene. E non posso attendere quello che dovrà venire. Devo cercarlo e arrestarlo prima che raggiunga Ambra.» «Allora sai dove cercare?» chiese Random. Risalimmo la galleria. «Credo si trovi all'altra estremità della strada nera,» dissi. Proseguimmo attraverso la caverna, verso la scala dove giaceva il morto, e salimmo, salimmo nell'oscurità. FINE