MICHAEL MOORCOCK L'AMULETO DEL DIO PAZZO (The Mad God's Amulet, 1969) PROFILO DELL'AUTORE MICHAEL MOORCOCK Credo che nes...
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MICHAEL MOORCOCK L'AMULETO DEL DIO PAZZO (The Mad God's Amulet, 1969) PROFILO DELL'AUTORE MICHAEL MOORCOCK Credo che nessuno dei grandi personaggi della fantascienza (forse in questo caso sarebbe meglio dire fantasy) sia più vicino al mondo della magia di Michael Moorcock; lo si potrebbe dire un discepolo di Gurdjiev o un adepto di quella famosa società iniziatica, fondata nel 1867 da Wentworth Little, che va sotto il nome di Golden Dawn. Tale conoscenza degli «esseri diversi», della magia nera, della morte e della nuova vita, di mondi antichi e perversi fa di Moorcock il più importante scrittore dei nostri giorni di romanzi fantastici. Moorcock nasce a Londra nel 1939 e ha il suo debutto ufficiale nel 1961. Grande ammiratore di Edgar Rice Burroughs, diresse in gioventù una fanzine a lui dedicata; questo fatto gli ha lasciato una traccia che si riscontra in molte sue opere. La fama arriva con la pubblicazione del ciclo di «Elric il Negromante», una serie di racconti che ha come personaggio principale Elric, il principe delle Tenebre. Il ciclo venne pubblicato fra il 1961 e il 1964 e poi riunito in unico volume. Nel 1963 intanto John Carnell, il fondatore della più importante rivista di fantascienza inglese, New Worlds, è costretto a cedere la rivista. Questa viene rilevata da una società con Valuto finanziario del Council of Arts inglese, e Moorcock ne assume la direzione. Sotto la sua guida sapiente New Worlds diventa la rivista della fantascienza d'avanguardia. Si deve a Moorcock il lancio definitivo di uno scrittore del calibro di J. G. Baliard e la nascita della speculative fiction inglese. Altri scrittori che conobbero il successo per merito di Moorcock e di New Worlds furono Thomas Disch, John Sladek, Charles Platt e tanti altri. Sulle pagine di New Worlds trovarono in seguito posto anche scrittori americani, fra cui Norman Spinrad e il suo Bug Jack Barron, per il quale Moorcock ebbe parecchi guai. Seguirono poi anni di intensissima attività che fecero della rivista New Worlds, il portavoce di tutti quegli scrittori che vedevano nella fantascienza un mezzo di denuncia sociale. Fra l'altro Moorcock pubblicò un estratto di Stand on Zanzibar di Brunner e la serie di Brian Aldiss «Acid Head War». Michael Moorcock lascia la direzione della rivista verso la fine del 1970, in seguito a diversi
problemi finanziari, la cui causa era principalmente la cattiva distribuzione. Tutto ciò non riguarda però il Moorcock autore, che nel frattempo ha continuato a scrivere. A lui si deve la creazione del personaggio di Jerry Cornelius, utilizzato poi anche da altri scrittori, e una serie di romanzi importanti quali: Behold the Man, dove il personaggio principale ritorna indietro nel tempo per assistere alla salita al Golgota e alla crocifissione, con finale a sorpresa; «Master of Caos», una trilogia che narra le vicende di Corum, il principe dal manto scarlatto, ultimo superstite di un popolo di nobili signori distrutto da una razza aliena; The Black Corridor, la lunga odissea di un essere umano, solo, su di una astronave in fuga da un mondo. Altri romanzi e racconti seguirono fino al presente ciclo, di quattro volumi, che è in corso di pubblicazione in questa collana. Si tratta della saga del conte Brass, intitolata «The History of the Runestaff» (La Grande Storia della Bacchetta Magica): quest'opera ha avuto un grande successo in Inghilterra e negli Stati Uniti; lo sta ottenendo anche in Italia. FEDERICO GOLDERER A Jim Cawthorn per avermi ispirato e per i suoi disegni LIBRO PRIMO Sappiamo adesso come Dorian Hawkmoon, l'ultimo duca di Köln, si liberò del potere della Gemma Nera e salvò la città di Hamadan dall'Impero Nero di Gran Bretagna. Una volta sconfitto il suo nemico per eccellenza, il barone Meliadus, Hawkmoon si diresse nuovamente a ovest, verso la Kamarg stretta d'assedio, ove la sua fidanzata Yisselda, figlia del conte Brass, lo stava aspettando. Con il suo generoso compagno Oladahn, dei Giganti delle montagne Bulgare, Hawkmoon cavalcò dalla Persia verso il mare di Cipro e il porto di Tarabulus, dove speravano di trovare una nave abbastanza coraggiosa da riportarli in Kamarg. Ma nel deserto siriano si smarrirono, e rischiarono di morire di sete e di sfinimento prima di scorgere le pacifiche rovine di Soryandum che si stendevano ai piedi di una catena di verdi colline, sulle quali pascolavano le pecore selvatiche... Nel frattempo, in Europa, l'Impero Nero estendeva il suo terribile domi-
nio, mentre altrove la Bacchetta Magica pulsava, esercitando la sua influenza su un raggio di migliaia di chilometri allo scopo di coinvolgere i destini di numerosi esseri umani, di diversa indole e disparate ambizioni... LA GRANDE STORIA DELLA BACCHETTA MAGICA CAPITOLO PRIMO SORYANDUM LA città era antica, segnata dal tempo. Un luogo in cui le pietre apparivano corrose dal vento e le costruzioni in muratura cadevano in rovina, le torri traballavano e le mura si sbriciolavano. Pecore selvatiche brucavano l'erba che cresceva fra le commessure sconnesse della pavimentazione stradale, uccelli dalle piume dai vivaci colori avevano nidificato tra le colonne rivestite da sbiaditi mosaici. La città era stata un tempo splendida e terribile, adesso era bella e tranquilla. I due viaggiatori la raggiunsero nella dorata nebbia del mattino, quando un vento malinconico sibilava nel silenzio delle antiche vie. Gli zoccoli dei cavalli avevano un suono soffocato mentre i viaggiatori li guidavano in mezzo alle torri, verdi per la muffa dei secoli, o passavano davanti alle rovine piene di fioriture color arancione, ocra e porpora. Si trattava di Soryandum, abbandonata dalla popolazione. Gli uomini e i cavalli avevano assunto una identica colorazione, conferita loro dalla polvere che li incrostava e li faceva somigliare a statue ridestate alla vita. Procedevano adagio, guardandosi attorno pieni di meraviglia dinanzi alla bellezza di quella città morta. Il primo dei due era alto e curvo e, sebbene fosse sfinito, si muoveva con l'andatura piena di grazia di un esperto guerriero. I suoi lunghi capelli biondi erano stati scoloriti dal sole fin quasi a sembrare bianchi, e l'espressione degli occhi di un pallido azzurro aveva una sfumatura di follia. Ma la cosa più notevole del suo aspetto rimaneva la strana gemma nera incastonata nella fronte, proprio al di sopra e in mezzo agli occhi, una stigmata che egli doveva al perverso miracolo operato dai maghi-scienziati della Gran Bretagna. Il suo nome era Dorian Hawkmoon, duca di Köln, costretto ad abbandonare il paese ereditato dagli avi a causa della conquista dell'Impero Nero, che si proponeva di dominare tutta la Terra. Dorian Hawkmoon, che aveva giurato di vendicarsi contro la più potente nazione del mondo.
La bassa creatura che lo seguiva, la sua testa arrivava alla spalla di Hawkmoon, portava un grosso arco d'osso e una faretra di frecce sulle spalle. Indossava soltanto un paio di pantaloni aderenti e stivali di pelle morbida e floscia, ma tutto il suo corpo, compreso il volto, era coperto da un pelo ispido e rosso. Si trattava di Oladahn, il frutto di un incrocio tra uno stregone e una gigantessa dei monti Bulgari. Oladahn si passava la mano sulla pelliccia per ripulirla della sabbia e sembrava sorpreso. «Non ho mai visto una città così bella. Perché l'hanno abbandonata? Chi potrebbe aver lasciato un posto simile?» Hawkmoon, com'era solito fare quando si sentiva interdetto, strofinò il gioiello nero sulla sua fronte. «Forse a causa di una epidemia... chi lo sa? Speriamo che, se si è trattato di una malattia, non sia più contagiosa. Mi preoccuperò di queste cose più tardi, non ora. Sono certo di udire un rumore di acque che scorrono in qualche posto... e la sete è la prima esigenza che intendo soddisfare. Poi mi occuperò del cibo, e in seguito cercherò di dormire... e di pensare, Oladahn, a un quarto desiderio, molto remoto...» In una delle piazze della città si trovarono di fronte a un muro di pietra azzurro-grigia scolpita con immagini di nuotatrici. Dagli occhi di una di quelle figure virginee sgorgava limpida acqua di sorgente che andava a cadere in una vasca posta li sotto. Hawkmoon si fermò e bevve, passandosi le mani bagnate sulla faccia coperta di polvere. Fece un passo indietro per consentire anche a Oladahn di dissetarsi, poi condusse là anche i cavalli affinché potessero abbeverarsi. Hawkmoon frugò in una delle borse della sella e ne trasse la mappa consunta e spiegazzata che gli era stata data ad Hamadan. Le sue dita la percorsero finché non raggiunsero quello che rimaneva della parola «Soryandum». Sorrise con sollievo. «Non ci siamo allontanati di molto dalla nostra primitiva direzione», disse. «Al di là di quelle colline scorre l'Eufrate e sull'altra sponda di esso giace Tarabulas, a circa una settimana di viaggio. Ci fermeremo qui oggi e trascorreremo la notte in questo luogo, poi ci rimetteremo in cammino. Quando ci saremo ristorati, potremo procedere più rapidamente.» Oladahn sogghignò. «Già, e darai un'occhiata alla città, prima che ce ne andiamo, immagino.» Si gettò acqua sulla pelliccia, poi si chinò per raccogliere l'arco e la faretra. «E adesso vediamo di accontentare la tua seconda esigenza... il cibo. Non dovrò andare lontano. Ho visto un montone selvatico sulle colline. Questa sera ceneremo con le sue carni arrostite.» Risalì a cavallo e si allontanò, cavalcando attraverso le mura crollate della città,
mentre Hawkmoon si strappava gli abiti di dosso e immergeva le mani nello zampillo gelido, trattenendo il fiato con una sensazione di profondo piacere mentre si faceva scorrere l'acqua sulla testa e sul corpo. Poi tirò fuori dalla bisaccia della sella degli abiti puliti e indossò una camicia di seta che gli era stata data da Frawbra, la regina di Hamadan, e un paio di pantaloni di cotone blu dal fondo svasato. Lieto di essersi liberato dell'opprimente abbigliamento di pelle e di ferro che aveva indossato durante la traversata del deserto nel caso di un incontro con gli uomini dell'Impero Nero, Hawkmoon per terminare calzò un paio di sandali. L'unica concessione ai suoi precedenti timori fu la spada, che si appese al fianco mediante una cintola. Era molto improbabile che qualcuno si fosse preso la briga di seguirli fin lì, e inoltre la città sembrava tranquilla; era impossibile credere che qualche pericolo potesse minacciarli anche in quel luogo. Hawkmoon si avvicinò al cavallo e gli tolse la sella, poi si avviò verso l'ombra proiettata da una torre in rovina e si mise a giacere con le spalle rivolte a essa, mentre aspettava Oladahn e il suo montone. Venne mezzogiorno, e di lì a non molto Hawkmoon incominciò a domandarsi che cosa fosse accaduto al suo amico. Lasciò che trascorresse ancora un'ora continuando a sonnecchiare, prima che un reale senso di preoccupazione incominciasse a impadronirsi di lui e lo inducesse ad alzarsi per rimettere la sella al cavallo. Era senz'altro assurdo, Hawkmoon lo sapeva bene, che un arciere dell'abilità di Oladahn ci impiegasse tanto per catturare una pecora selvatica. Eppure non sembravano esserci pericoli da quelle parti. Forse Oladahn si era sentito stanco e aveva deciso di dormire per un'ora o due prima di tornare con la preda. Anche se a trattenerlo fosse stato soltanto questo, decise Hawkmoon, avrebbe potuto pur sempre aver bisogno del suo aiuto. Balzò a cavallo e cavalcò lungo le strade verso le mura esterne della città e le colline al di là di esse. Il cavallo sembrava aver ricuperato molte delle sue energie e Hawkmoon era costretto a trattenerlo con le redini per mantenerlo a un piccolo trotto, mentre percorrevano le colline. Più avanti si scorgeva un gregge di pecore selvatiche, guidato da un grosso ariete dall'aria saggia, forse quello cui aveva accennato Oladahn, ma non si vedeva traccia del piccolo uomo bestia. «Oladahn!» gridò Hawkmoon, scrutandosi intorno alla sua ricerca. «Oladahn!» Ma soltanto un'eco soffocata gli rispose.
Hawkmoon si accigliò, poi spinse il cavallo al galoppo, su per il pendio di una collina più alta delle altre, con la speranza che da quella posizione vantaggiosa gli fosse possibile vedere l'amico. Le pecore selvatiche si dispersero davanti a lui, mentre il cavallo correva sull'erba soffice. Raggiunse la cima dell'altura e si fece schermo agli occhi per ripararli dalla luce del sole. Scrutò in tutte le direzioni, ma non esisteva traccia di Oladahn. Rimase alcuni momenti a guardarsi attorno, sperando di vedere qualche indizio della presenza del suo amico; poi, mentre scrutava nella direzione della città, scorse qualcosa che si muoveva nei pressi della piazza della fontana. I suoi occhi lo avevano forse ingannato, o aveva davvero visto un uomo entrare nell'ombra della via che conduceva sul lato orientale della piazza? Oladahn aveva forse fatto ritorno da un'altra strada? Se era così, perché non aveva risposto al richiamo di Hawkmoon? Hawkmoon provava adesso una tormentosa sensazione di terrore nel profondo della mente, ma ancora non riusciva a credere che la città stessa potesse presentare qualche pericolo. Spronò il cavallo di nuovo giù per il fianco della collina e gli fece superare con un balzo un tratto delle mura crollate. Soffocato dalla polvere sollevata dagli zoccoli del cavallo che calpestavano le vie cittadine, Hawkmoon si diresse verso la piazza, gridando il nome di Oladahn. Ma di nuovo gli rispose soltanto l'eco. Hawkmoon si accigliò, quasi certo ormai che lui e Oladahn non fossero soli, dopo tutto, nella città. Eppure lì non c'era traccia di abitanti. Voltò il cavallo verso la via. Mentre così faceva, le sue orecchie colsero un suono lieve provenire dall'alto. Alzò lo sguardo, scrutando il cielo, sicuro di riconoscere quel suono. E infine la vide... una lontana sagoma nera nell'aria sovrastante. Poi i raggi del sole lampeggiarono sul metallo, e il suono divenne più netto: un clangore e un ronzio prodotto da ali di bronzo gigantesche. Il cuore di Hawkmoon si fermò. La cosa che scendeva dal cielo era inequivocabilmente un adorno ornitottero, costruito a somiglianza di un gigantesco condor verniciato di blu, di rosso e di verde. Nessun'altra nazione sulla terra possedeva simili aerei. Si trattava di una macchina volante dell'Impero Nero di Gran Bretagna. Ormai la scomparsa di Oladahn era del tutto chiara. I guerrieri dell'Impero Nero si trovavano a Soryandum. Era anche più probabile, inoltre, che avessero riconosciuto Oladahn e che sapessero così che Hawkmoon non poteva essere molto lontano. E Hawkmoon era il più odiato nemico dell'Impero Nero.
CAPITOLO SECONDO HUILLAM D'AVERC Hawkmoon si portò nell'ombra della strada, sperando di non essere scorto dall'ornitottero. Gli uomini della Gran Bretagna lo avevano forse seguito per tutto il cammino attraverso il deserto? Era improbabile. Eppure come spiegare diversamente la loro presenza in un luogo così sperduto? Hawkmoon sguainò la pesante spada e poi smontò da cavallo. In quegli abiti di seta sottile e di cotone si sentiva più che mai vulnerabile, mentre percorreva di corsa le vie alla ricerca di un rifugio. L'ornitottero si librava adesso soltanto pochi metri più in alto delle più alte torri di Soryandum, quasi di certo nel tentativo di individuare Hawkmoon, l'uomo del quale il re imperatore Huon aveva giurato di vendicarsi per il suo «tradimento» nei confronti dell'Impero Nero. Hawkmoon poteva aver trucidato il barone Meliadus nella battaglia di Hamadan, ma senza dubbio il re Huon aveva inviato un nuovo incaricato per quel compito: dare la caccia all'odiato Hawkmoon. Il giovane duca di Köln non si era aspettato di compiere un viaggio esente da pericoli, ma non aveva previsto di essere individuato così in fretta., Si fece avanti verso un edificio scuro, cadente, il cui androne fresco offriva un valido riparo. Entrò nell'edificio e venne a trovarsi in un atrio dalle pareti di pietra chiara scolpite e in parte ricoperte da morbidi muschi e da licheni fioriti. Una scala saliva su un lato del vestibolo e Hawkmoon, con la spada in pugno, si inerpicò su per i gradini, coperti da un tappeto di muschio, percorrendone un tratto notevole; infine giunse in una piccola stanza, nella quale il sole penetrava attraverso uno squarcio nella parete, dove le pietre erano cadute. Appiattendosi contro il muro e scrutando all'esterno grazie alla fenditura, Hawkmoon riuscì a scorgere una vasta parte della città e vide l'ornitottero ruotare e abbassarsi, mentre il pilota dal volto coperto dalla maschera esaminava le vie in basso. Non troppo lontano da lì sorgeva una torre di granito sfumato di verde. Si trovava all'incirca al centro di Soryandum, e dominava la città. L'ornitottero volteggiò intorno a essa per qualche tempo e, sulle prime, Hawkmoon suppose che il pilota si fosse convinto di aver individuato il nascondiglio della sua preda; ma poi la macchina volante si abbassò sulla piatta sommità della costruzione, circondata da merli. Da qualche punto
sotto di essa, altre figure emersero per unirsi al pilota. Anche quegli uomini appartenevano alle armate della Gran Bretagna. Nonostante la calura, erano tutti rivestiti da pesanti armature e mantelli, con enormi maschere di metallo che coprivano loro il capo. Era talmente contorta la natura degli abitanti della Gran Bretagna che essi non potevano sbarazzarsi delle maschere in nessuna circostanza. Sembravano nutrire una fiducia profondamente radicata in quei camuffamenti. Le maschere erano rosse, con chiazze color giallo scuro per la ruggine, ed erano foggiate in modo da sembrare cinghiali selvaggi e rampanti, con feroci occhi fatti di gemme che splendevano nella luce del sole e grandi zanne d'avorio che si ripiegavano verso l'alto. Si trattava di uomini dell'Ordine del Cinghiale, tristemente noto in Europa per la sua crudeltà. Erano sei, e circondavano il loro capo, un uomo alto, magro, la cui maschera era d'oro e di bronzo, e foggiata con più accuratezza... quasi al punto da sembrare una caricatura della maschera dell'ordine. L'uomo si appoggiava alle braccia di due dei suoi compagni... uno tarchiato e massiccio, l'altro un gigante, dalle braccia e le gambe nude, e pelose in maniera quasi disumana. Il comandante di quegli uomini era ammalato o ferito? si domandò Hawkmoon. Sembrava esserci qualcosa di artificioso nel modo in cui si appoggiava ai suoi sostenitori... qualcosa di teatrale. Hawkmoon credette allora di sapere chi fosse il capo. Quasi sicuramente si trattava del rinnegato francese Huillam D'Averc, un tempo valente pittore e architetto, che aveva abbracciato la causa della Gran Bretagna molto prima della conquista della Francia. D'Averc rappresentava un enigma, ma era anche un uomo pericoloso, sebbene si fingesse ammalato. Adesso il capo parlò al pilota dalla maschera di avvoltoio, il quale scosse il capo. Evidentemente non aveva scorto Hawkmoon, ma indicò il punto in cui questi aveva abbandonato il cavallo. D'Averc... sempre che di D'Averc si trattasse... fece cenno languidamente a uno dei suoi uomini, il quale scomparve scendendo all'interno della torre per riemergerne quasi subito con Oladahn che si divincolava e si contorceva. Con sollievo, Hawkmoon stette a guardare, mentre due dei guerrieri dalla maschera di cinghiale trascinavano Oladahn vicino ai merli. Se non altro il suo amico era vivo. Poi il loro capo fece un altro cenno, e il pilota avvoltoio si chinò all'interno della carlinga della macchina volante e ne trasse un megafono dalla forma di campana, che tese al gigante al braccio del quale continuava ad appoggiarsi il comandante. Il gigante avvicinò lo strumento al grugno della
maschera del suo padrone. Subito il silenzio della città si colmò della voce annoiata e stanca del capo dell'Ordine del Cinghiale. «Duca di Köln, sappiamo che ti trovi in questa città, perché abbiamo catturato il tuo servo. Di qui a un'ora il sole tramonterà. Se non ti sarai consegnato entro questo termine, incominceremo a uccidere il piccolo uomo...» Adesso Hawkmoon sapeva di sicuro che si trattava di D'Averc. Nessun altro vivente avrebbe potuto avere quell'aspetto e parlare in quel modo. Hawkmoon vide il gigante restituire il megafono al pilota; poi, con l'aiuto del compagno tracagnotto, trasportò il suo padrone verso il parapetto a merli e in parte crollato, in modo da consentirgli di appoggiarvisi e di guardare in basso nelle vie. Hawkmoon dominò la propria ira e prese in esame la distanza fra l'edificio nel quale si trovava e la torre. Saltando attraverso lo squarcio nella parete, poteva raggiungere una serie di tetti piatti che lo avrebbero portato presso un mucchio di macerie, ammassate contro il muro della torre. Da quel punto, se ne rese conto, non gli sarebbe stato difficile raggiungere i merli. Ma sarebbe stato scorto non appena avesse lasciato il suo rifugio. Quell'itinerario poteva essere percorso soltanto di notte... e al cader della notte avrebbero incominciato a torturare Oladahn. Con aria perplessa, Hawkmoon sfiorò con le dita la nera gemma, simbolo della sua precedente schiavitù alla Gran Bretagna. Sapeva che qualora si fosse consegnato sarebbe stato ucciso immediatamente oppure portato in Gran Bretagna, dove lo avrebbero fatto morire con spaventosa lentezza per il piacere dei perversi signori dell'Impero Nero. Pensò a Yisselda alla quale aveva giurato di tornare, al conte Brass al quale aveva giurato di fornire il proprio aiuto nella lotta contro la Gran Bretagna... e pensò a Oladahn, al quale aveva promesso eterna amicizia dopo che il piccolo uomo bestia gli aveva salvato la vita. Poteva sacrificare quell'amico? Avrebbe mai potuto giustificare una simile azione, anche se la logica gli diceva che la sua stessa vita rivestiva un valore di gran lunga maggiore nella battaglia contro l'Impero Nero? Hawkmoon sapeva che la logica non sarebbe servita in quel caso. Ma sapeva anche che il suo sacrificio poteva essere inutile, dal momento che non esistevano garanzie circa il fatto che D'Averc avrebbe lasciato libero Oladahn una volta che lui si fosse consegnato. Hawkmoon si morse un labbro, stringendo spasmodicamente in pugno la spada, poi pervenne a una decisione; schiacciandosi entro la fenditura della
parete, si aggrappò al muro con una mano e agitò la spada splendente in direzione della torre. D'Averc alzò adagio lo sguardo. «Dovete liberare Oladahn prima che arrivi da voi», gridò Hawkmoon. «Perché so che tutti gli uomini della Gran Bretagna sono dei bugiardi. Avete la mia parola, comunque, che se lascerete libero Oladahn, mi consegnerò nelle vostre mani.» «Per quanto possiamo essere bugiardi», gli giunse la languida voce, a malapena udibile, «non siamo idioti. Come mi posso fidare della tua parola?» «Sono il duca di Köln», si limitò a dire Hawkmoon. «Noi non mentiamo.» Una risatina ironica uscì di sotto la maschera di cinghiale. «Tu puoi essere ingenuo, duca di Köln, ma Sir Huillam D'Averc non lo è. Comunque, posso suggerirti un compromesso?» «Di che si tratta?» domandò Hawkmoon cauto. «Ti proporrei di arrivare fino a metà strada, così da portarti entro il raggio del lanciafiamme del nostro ornitottero, poi lascerò libero il tuo servo.» D'Averc tossì con ostentazione e si appoggiò pesantemente ai merli. «Che ne dici?» «Non lo definirei proprio un compromesso», gridò Hawkmoon. «Infatti vi sarebbe possibile uccidere entrambi con poca fatica o pericolo.» «Mio caro duca, il re imperatore ti preferisce di gran lunga vivo. Certo la cosa ti è nota. È in gioco il mio stesso interesse. Se ti uccidessi subito, questo al massimo mi frutterebbe una nomina a baronetto. Impadronirmi di te vivo, per il piacere del re imperatore, mi farebbe senza dubbio conquistare un titolo di principe. Non hai mai sentito parlare di me, duca Dorian? Sono l'ambizioso Huillam D'Averc.» La tesi di D'Averc era convincente, ma Hawkmoon non poteva dimenticare la fama di D'Averc quale individuo dalla mente contorta. Sebbene fosse vero che egli valeva molto di più da vivo, D'Averc il rinnegato poteva benissimo decidere che sarebbe stato più vantaggioso non rischiare e uccidere perciò Hawkmoon non appena egli si fosse portato entro il raggio d'azione del lanciafiamme. Hawkmoon rifletté per un momento, poi sospirò. «Farò come tu proponi, Sir Huillam.» Si accinse a saltare al di là della viuzza che lo separava dai tetti sottostanti. E in quel momento Oladahn gridò: «No, duca Dorian! Lascia che mi uccida! La mia vita non ha alcun valore!»
Hawkmoon si comportò come se non avesse nemmeno udito le parole dell'amico e balzò in avanti, atterrando, sulle punte dei piedi, sul tetto sottostante. La vecchia costruzione tremò sotto l'urto e per un momento Hawkmoon pensò che sarebbe precipitato, mentre il tetto minacciava di cedere. Esso invece tenne, e il duca incominciò ad avanzare guardingo verso la torre. Oladahn gridò di nuovo e incominciò a dibattersi nella stretta dei suoi catturatori. Hawkmoon lo ignorò, facendosi avanti deciso, con la spada ancora stretta in pugno, ma senza alcuna energia. In quel momento Oladahn si liberò di coloro che lo trattenevano e si lanciò come una freccia attraverso la torre, inseguito dai due guerrieri imprecanti. Hawkmoon lo vide slanciarsi verso l'estremo opposto, esitare per un momento e poi gettarsi oltre il parapetto. Per un attimo Hawkmoon si irrigidì inorridito, riuscendo a fatica a rendersi conto del sacrificio del suo amico. Poi strinse più energicamente la spada e sollevò il capo per rivolgere uno sguardo truce a D'Averc e ai suoi uomini. Chinandosi il più possibile, si diresse verso l'orlo del tetto, mentre il lanciafiamme incominciava a essere puntato nella sua direzione. Si udì un soffio fragoroso e un'ondata di calore gli passò sopra il capo, mentre cercavano di aggiustare la mira; poi Hawkmoon volteggiò sopra l'orlo del tetto e vi si tenne sospeso con le mani, scrutando nella via, lontanissima sotto di lui. Vide una serie di pietre scolpite proprio accanto a sé, sulla sinistra. Si spostò adagio lungo il bordo finché non venne a trovarsi nella posizione di potersi afferrare alla più vicina. Correvano in diagonale, fin quasi al livello della strada, lungo la facciata della casa. Ma la pietra era evidentemente corrosa. Le sculture avrebbero retto il suo peso? Hawkmoon non esitò. Si aggrappò alla prima di tali sculture. Essa incominciò a cedere e a sbriciolarsi. Rapidamente, Hawkmoon si lasciò cadere sulla successiva, e poi su quella subito più in basso, mentre frammenti di pietra precipitavano lungo il fianco della casa, infrangendosi sul lastricato della strada molto più in giù. Hawkmoon riuscì infine a saltare sull'acciottolato e ad atterrare con facilità sulla soffice polvere che lo ricopriva. Incominciò allora a correre, non per allontanarsi dalla torre, ma proprio verso di essa. Non riusciva a pensare ad altro se non alla vendetta contro D'Averc, che aveva indotto Oladahn ai suicidio.
Trovò l'ingresso della torre e vi penetrò in tempo per udire lo scalpiccio dei piedi calzati di ferro, mentre D'Averc e i suoi guerrieri scendevano. Prese posizione sulla scala, incassata tra le pareti, in un punto in cui sarebbe stato in grado di affrontare gli uomini di D'Averc uno alla volta. Quest'ultimo comparve per primo, fermandosi di botto non appena scorse il minaccioso Hawkmoon, poi portò la mano guantata sull'elsa della sua lunga spada. «Devi essere impazzito per non aver approfittato della possibilità di fuga che ti offriva lo stupido sacrificio del tuo amico», disse in tono sprezzante il mercenario dalla maschera di cinghiale. «Adesso, ti piaccia o no, suppongo che ti uccideremo...» Incominciò a tossire, piegandosi in due, in apparenza soffrendo molto, appoggiandosi stancamente alla parete. Fece un debole cenno al tracagnotto che lo seguiva... uno di quelli che Hawkmoon aveva visto sorreggerlo contro i merli della torre. «Oh, mio caro duca Dorian, devo scusarmi... la mia malattia è solita manifestarsi nei momenti meno opportuni. Ecardo... vuoi...?» Il poderoso Ecardo balzò in avanti grugnendo e afferrò una scure da combattimento dal corto manico che portava alla cintola. Sguainò la spada con la mano libera e ridacchiò compiaciuto. «Grazie, padrone. E adesso vediamo come si comportano i senza maschera.» Si mosse come un gatto pronto a balzare sulla preda. Hawkmoon si mise in posizione, pronto a parare il primo colpo di Ecardo. L'uomo balzò allora con un gran ululato selvaggio, mentre l'ascia da combattimento fischiava nell'aria e si abbatteva con fracasso sulla lama di Hawkmoon. Poi la corta spada di Ecardo balenò verso l'alto, e Hawkmoon, già indebolito dalle fatiche e dalla fame, riuscì a stento a sottrarsi in tempo al fendente. Anche così, la spada lacerò la stoffa di cotone dei suoi pantaloni, ed egli ne sentì il freddo filo contro la carne. Anche la spada di Hawkmoon colpì l'avversario, abbattendosi sulla maschera da cinghiale di Ecardo, staccandogli una zanna e incidendo in profondità il grugno. Ecardo imprecò e affondò di nuovo l'arma che impugnava, ma Hawkmoon schivò il colpo e si appoggiò al braccio di Ecardo che reggeva la spada, intrappolandolo fra il proprio corpo e la parete. Poi lasciò pendere la propria spada dal laccio che gliela tratteneva al polso, afferrò l'altro braccio di Ecardo e tentò di fargli cadere l'ascia di mano. Il ginocchio di Ecardo, coperto dall'armatura, gli si puntò nell'inguine, ma Hawkmoon mantenne la presa, nonostante il dolore. Trascinò Ecardo
giù dalla scala, lo spinse e lo lasciò cadere sul pavimento, trascinato dal suo stesso impeto. Ecardo piombò sul lastricato con un tonfo che scosse l'intera torre. Non si mosse più. Hawkmoon guardò in alto verso D'Averc. «Ebbene, signore, ti sei ripreso?» D'Averc spinse all'indietro la maschera elaborata, scoprendo un volto pallido e gli occhi scialbi di un invalido. La bocca gli si contorse in un sorrisetto. «Farò del mio meglio», disse. E quando venne avanti si mosse velocemente, con i movimenti di un uomo anche più che sano. Questa volta Hawkmoon prese l'iniziativa, lanciandosi in un assalto che quasi colse di sorpresa il suo avversario, ma che fu parato con stupefacente sveltezza. La rapidità di quei riflessi smentiva gli atteggiamenti languidi. Hawkmoon si rese conto che D'Averc era pericoloso, a suo modo, quanto il poderoso Ecardo. Si rese conto, inoltre, che qualora Ecardo fosse stato soltanto stordito, lui stesso ben presto si sarebbe trovato preso fra due fuochi. Il gioco delle spade era tanto veloce che le due armi sembravano essere un solo mulinello metallico, mentre entrambi gli uomini mantenevano le proprie posizioni. D'Averc sorrideva, e una espressione di sereno godimento gli faceva splendere gli occhi. Affaticato dal viaggio attraverso il deserto, indebolito per la mancanza di cibo, Hawkmoon sapeva che non avrebbe potuto sostenere a lungo un combattimento di quel genere. Cercò disperatamente un varco nella magnifica difesa di D'Averc. A un certo punto il suo avversario incespicò leggermente su un gradino sconnesso. Hawkmoon tentò subito di approfittarne, ma il suo colpo venne parato e nello scambio egli riportò una scalfittura all'avambraccio. Alle spalle di D'Averc, i guerrieri del Cinghiale aspettavano impazienti, con le spade pronte, di finire Hawkmoon una volta che se ne fosse loro presentata l'opportunità. Hawkmoon si stava stancando in fretta e infine si trovò a combattere esclusivamente sulla difensiva, a malapena riuscendo a deviare i colpi della spada che miravano agli occhi, alla gola, al cuore o al ventre. Fece un passo indietro, poi un altro. Mentre indietreggiava per la seconda volta, udì un ruggito alle proprie spalle, e si rese conto che Ecardo stava riprendendo i sensi. Non ci sarebbe voluto molto ormai, prima che i cinghiali lo sbranassero.
Eppure non se ne curava più ormai, adesso che Oladahn era morto. La sua scherma divenne più confusa e il sorriso di D'Averc si fece più ampio, mentre egli si accorgeva che la vittoria era ormai prossima. Piuttosto che trovarsi Ecardo alle spalle, Hawkmoon preferì a un tratto saltare giù dai gradini senza voltarsi. La sua spalla andò a urtare la spalla di qualcun altro, ed egli piroettò su se stesso, pronto ad affrontare il brutale Ecardo. Poi per poco la spada non gli cadde di mano per lo stupore. «Oladahn!» Il piccolo uomo bestia stava per sollevare una spada... la spada del guerriero cinghiale stesso... sulla testa di Ecardo, mentre questi incominciava a riscuotersi. «Già... sono vivo. Ma non mi domandare come ho fatto. È un mistero per me.» E sferrò la spada di piatto sull'elmo di Ecardo, con un colpo fragoroso. Ecardo svenne di nuovo. Non c'era più tempo per le chiacchiere. Hawkmoon riuscì a malapena a bloccare il successivo fendente di D'Averc. Negli occhi del francese apparve un'espressione di sbigottimento quando scorse Oladahn ancora vivo. Hawkmoon cercò di penetrare la difesa di D'Averc, trapassando la spalla della sua armatura, ma di nuovo questi deviò di lato la stoccata e riprese l'attacco. Adesso Hawkmoon, però, aveva perduto il vantaggio della posizione. Le selvagge maschere da cinghiale sogghignarono, mentre i guerrieri si riversavano giù per le scale. Hawkmoon e Oladahn indietreggiarono verso la porta, sperando di riconquistare il vantaggio, ma esistevano poche possibilità che ciò si verificasse. Per altri dieci minuti tennero testa contro il sempre crescente numero degli avversari, uccidendone due, e ferendone altri tre. Ma perdevano rapidamente le forze: Hawkmoon riusciva a reggere a fatica la spada. Il suo sguardo vitreo vedeva confusamente gli assalitori, mentre si avvicinavano come bestie bramose di uccidere. Udì il trionfante grido di D'Averc: «Li voglio vivi!» Poi si accasciò travolto da una marea di metallo. CAPITOLO TERZO I FANTASMI Incatenati tanto strettamente da riuscire a malapena a respirare, Hawkmoon e Oladahn vennero trasportati giù per innumerevoli rampe di scale nelle profondità della grande torre, che, a quanto pareva, si estendeva
sotto il livello della strada quanto ne svettava. I guerrieri cinghiali raggiunsero infine una stanza che era evidentemente stata impiegata come magazzino, ma che adesso serviva da comoda prigione. Li avevano gettati a faccia in giù sulla roccia scabra. Erano rimasti lì a giacere finché un piede calzato di stivali non li aveva rivoltati, facendo sì che li abbagliasse la luce di una torcia sgocciolante retta dal massiccio Ecardo, la cui maschera ammaccata sembrava ghignare al colmo della gioia. La maschera di D'Averc, ancora sospinta indietro a mostrare la sua faccia, si trovava tra quella di Ecardo e quella dell'enorme guerriero peloso che Hawkmoon aveva già visto. D'Averc aveva una sciarpa di broccato sulle labbra, e si appoggiava con completo abbandono al braccio del gigante. D'Averc tossì in maniera teatrale e sorrise ai suoi prigionieri. «Temo di non potermi trattenere a lungo, signori. L'aria di questo sotterraneo non è affatto salutare per me. In ogni caso, però, non credo che riuscirà a fare molto danno a due individui robusti e giovani come voi. Non resterete qui per molto, poco più di una giornata al massimo, ve lo assicuro. Ho inviato la richiesta per ottenere un ornitottero di maggiori dimensioni che vi possa riportare in Sicilia, dove si trova ora accampato il grosso delle mie forze.» «Vi siete già impadroniti della Sicilia?» domandò Hawkmoon in tono inespressivo. «Avete conquistato quell'isola?» «Già. L'Impero Nero non perde tempo. In effetti», D'Averc tossì con scherzosa modestia entro la sciarpa, «sono io l'eroe della Sicilia. È stato al mio comando che l'esercito ha soggiogato l'isola tanto in fretta. Ma questo trionfo non è affatto qualcosa di eccezionale, perché l'Impero Nero ha molti comandanti abili come me. Abbiamo conquistato molti territori in Europa in questi ultimi mesi... e anche nell'Est.» «Ma la Kamarg continua a resistere», disse Hawkmoon. «Questa è la cosa che irrita maggiormente il re imperatore.» «Oh, la Kamarg non ce la farà ormai più per molto a sostenere l'assedio», disse D'Averc in tono disinvolto. «Abbiamo concentrato una attenzione particolare su quella minuscola provincia. In realtà, potrebbe addirittura aver già ceduto...» «Non finché vive il conte Brass», fece Hawkmoon con un sorriso. «Proprio così», disse D'Averc. «Ho saputo che è rimasto gravemente ferito e che il suo luogotenente von Villach è stato trucidato in una recente battaglia.» Hawkmoon non avrebbe potuto dire se D'Averc mentiva. Non lasciò che
il suo volto manifestasse quello che provava, ma la notizia l'aveva colpito. La Kamarg era davvero sul punto di cedere... e se così fosse stato, che cosa sarebbe accaduto a Yisselda? «È ovvio che questa notizia non può farti piacere», mormorò D'Averc. «Ma non temere, duca, perché quando la Kamarg cadrà, cadrà nelle mie mani, se tutto va bene. Mi propongo di dichiarare quella provincia la mia ricompensa per averti catturato. E nominerò questi miei generosi compagni», continuò indicando i suoi servi brutali, «al governo della Kamarg, non appena potrò. Hanno condiviso tutti gli eventi della mia vita... i miei segreti, i miei piaceri. È, come minimo, giusto che dividano anche il mio trionfo. Farò di Ecardo l'amministratore delle mie proprietà, e ho in animo di fate conte Peter». Di sotto la maschera del gigante giunse un grugnito animalesco. D'Averc sorrise. «Peter ha poco cervello, ma la sua forza e la sua fedeltà sono fuori questione. Forse lo metterò al posto del conte Brass.» Hawkmoon si dibatté irato nelle catene. «Sei una bestia astuta, D'Averc, ma non ti consentirò di spingermi a un accesso di rabbia, se è questo che vuoi. Aspetterò una occasione migliore. Forse riuscirò ancora a sfuggirti. E se così fosse... sarai costretto a vivere nel terrore del momento in cui i nostri ruoli si saranno invertiti e sarai tu a essere in mio potere.» «Temo che tu sia un po' troppo ottimista, duca. Riposati qui, goditi questa pace, perché non ne avrai più quando arriverai in Gran Bretagna.» Con un beffardo inchino, D'Averc se ne andò, seguito dai suoi uomini. La luce della torcia si affievolì, e Hawkmoon e Oladahn rimasero immersi nelle tenebre. «Ah», giunse di lì a poco la voce di Oladahn. «Trovo difficile prendere sul serio la mia posizione, dopo quello che è accaduto oggi. Non sono ancora ben sicuro che si tratti di un sogno, della morte o della realtà.» «Che cosa ti è successo, Oladahn?» domandò Hawkmoon. «Come hai potuto sopravvivere a un salto di quel genere? Ti immaginavo morto sfracellato ai piedi della torre.» «In realtà, sarei dovuto esserlo», convenne Oladahn. «Se non mi avessero fermato i fantasmi a metà caduta.» «I fantasmi? Stai scherzando!» «No. Quelle cose... simili a fantasmi... apparvero alle finestre della torre e mi trasportarono dolcemente a terra. Avevano l'aspetto e le dimensioni di uomini, ma si potevano a malapena toccare...» «Sei caduto, hai picchiato la testa e ti sei sognato queste cose!»
«Potresti anche avere ragione.» A un tratto Oladahn si interruppe. «Ma se così fosse, starei ancora sognando. Guarda alla tua sinistra.» Hawkmoon voltò la testa e rimase senza fiato per lo stupore, a causa di quello che vide. C'era là, senza dubbio, una figura d'uomo. Eppure aveva un aspetto lattiginoso, e Hawkmoon riusciva a vedere al di là dell'uomo e a distinguere il muro dietro di lui. «Un fantasma, del tipo classico», disse. «È strano condividere un sogno...» Una risata lieve, musicale, giunse dalla figura che li sovrastava. «Non state sognando, stranieri. Siamo uomini come voi. La massa dei nostri corpi è semplicemente un po' alterata, questo è tutto. Non esistiamo nella vostra esatta dimensione. Ma siamo abbastanza reali. Siamo gli abitanti di Soryandum.» «E così non avete abbandonato la vostra città», disse Oladahn. «Ma come avete fatto a raggiungere questa... particolare condizione di vita?» L'uomo-fantasma rise di nuovo. «Con il controllo della mente, con gli esperimenti scientifici, con una certa padronanza del tempo e dello spazio. Mi dispiace che non sia possibile spiegare come siamo pervenuti a queste condizioni, perché noi le abbiamo raggiunte, tra l'altro, mediante la creazione di un vocabolario interamente nuovo, e il linguaggio che sono solito usare non avrebbe alcun significato per voi. Comunque, siate certi di una cosa... possiamo ancora giudicare i caratteri degli uomini abbastanza bene e riconoscere in voi dei potenziali alleati e negli altri dei veri nemici.» «Vostri nemici? E com'è possibile?» domandò Hawkmoon. «Ve lo spiegherò più tardi.» L'uomo-fantasma scivolò in avanti fino a chinarsi su Hawkmoon. Il giovane duca di Köln sentì una strana pressione sul suo corpo, poi venne sollevato. L'uomo poteva avere un aspetto immateriale, ma sembrava di gran lunga più forte di un comune mortale. Dall'ombra, sbucarono altri due appartenenti al popolo dei fantasmi, uno di essi sollevò Oladahn e l'altro alzò la mano e in qualche modo riuscì a produrre una luminosità dolce, eppure sufficiente a illuminare l'intero locale. Hawkmoon si accorse che gli uomini-fantasma erano alti e magri, con volti dai lineamenti sottili e di bell'aspetto e con occhi che sembravano ciechi. Hawkmoon aveva supposto sulle prime che il popolo di Soryandum fosse in grado di passare attraverso le solide pareti, ma ora si rese conto che erano venuti dall'alto, poiché si scorgeva un'ampia galleria a circa metà altezza nella parete. Forse in un lontano passato era stato una specie di scivolo lungo il quale venivano convogliati verso il basso i sacchi di provvi-
ste. Gli appartenenti al popolo dei fantasmi si sollevarono adesso in aria verso la galleria e vi entrarono, percorrendola finché non si incominciò a scorgere un chiarore molto più in alto... la luce delle stelle e della luna. «Dove ci portate?» sussurrò Hawkmoon. «In un luogo sicuro, dove potervi liberare delle catene», gli rispose l'uomo che lo stava trasportando. Quando giunsero in cima alla galleria e sentirono l'aria gelida della notte, si fermarono, mentre quello che non aveva carichi li precedette per accertarsi che non ci fossero lì attorno guerrieri dell'armata della Gran Bretagna. Fece cenno agli altri di seguirlo, ed essi procedettero lungo le viuzze in rovina della città silenziosa, finché non giunsero a una modesta casa a tre piani, in condizioni migliori delle altre ma, a quanto parve, priva di ingressi a livello della strada. I due uomini-fantasma sollevarono di nuovo Hawkmoon e Oladahn fino al secondo piano e passarono attraverso un'ampia finestra per entrare nella casa. Giunsero in una stanza spoglia di qualsiasi decorazione e si fermarono per riposare, deponendo con gentilezza i due a terra. «Che cos'è questo posto?» domandò Hawkmoon, ancora incapace di credere a quel che vedeva e sentiva. «Qui è dove abitiamo», rispose l'uomo-fantasma. «Non siamo in molti. Siamo in grado di vivere per secoli, ma siamo incapaci di riprodurci. Questo è quello che abbiamo perduto diventando come siamo.» In quel momento attraverso la porta giunsero altri individui fra i quali numerose donne. Tutti avevano lo stesso aspetto leggiadro e pieno di grazia, tutti possedevano la stessa opacità lattescente; nessuno indossava abiti. I volti e i corpi erano privi di età, a malapena umani, ma irraggiavano un tale senso di serenità che Hawkmoon si sentì immediatamente sicuro e rilassato. Uno dei nuovi venuti portava con sé un minuscolo strumento, poco più largo del dito indice di Hawkmoon, che applicò ai diversi lucchetti delle catene. Uno dopo l'altro essi si aprirono, finché alla fine prima Hawkmoon e poi Oladahn si trovarono liberi. Hawkmoon si mise a sedere, strofinandosi i muscoli indolenziti. «Vi ringrazio», disse. «Mi avete salvato da un destino spiacevole.» «Siamo felici di esserti stati utili», rispose uno di loro, un po' più piccolo di statura degli altri. «Io sono Rinal, una volta capo del consiglio di Sor-
yandum.» Si fece avanti sorridendo. «E ci domandiamo se potrebbe interessarvi il fatto che anche voi potreste esserci di aiuto.» «Sarei lieto di offrirvi tutti i miei servigi per ripagarvi di quanto avete fatto per me», disse Hawkmoon con ardore. «Di che si tratta?» «Anche noi ci troviamo in grave pericolo a causa di quegli strani guerrieri dalle grottesche maschere bestiali», disse Rinal, «perché hanno in animo di radere al suolo Soryandum». «Radere al suolo? Ma perché? Questa città non rappresenta un pericolo per loro... e si trova troppo fuori mano perché possano pensare che valga la pena di annetterla.» «Le cose non stanno così», asserì Rinal. «Abbiamo ascoltato le loro conversazioni e sappiamo che Soryandum riveste una grande importanza per quel'la gente. Vogliono edificare qui un grande complesso che ospiti decine e centinaia delle loro macchine volanti. Tali macchine potranno poi essere inviate in tutti i territori circostanti per minacciarne e sconfiggerne i popoli.» «Capisco», mormorò Hawkmoon. «È una cosa sensata. Ed è questo il motivo per il quale è stato scelto D'Averc, un ex architetto. Il materiale da costruzione è già qui sul posto e può essere riutilizzato per edificare la base degli ornitotteri, inoltre la località è così remota che ben pochi, o addirittura nessuno, potrebbero accorgersi delle loro attività. L'Impero Nero avrebbe poi dalla sua l'elemento sorpresa, quando avessero intenzione di sferrare un attacco. Bisogna fermarli!» «Devono essere fermati, se non altro per il nostro bene», continuò Rinal. «Vedi, facciamo parte di questa città forse da più tempo di quanto tu possa immaginare. Noi e la città esistiamo come un tutto unico. Se essa venisse distrutta, potremmo perire a nostra volta.» «Ma come potremmo fermarli?» domandò Hawkmoon. «E come potrei esservi utile? Dovete avere a disposizione le risorse di una scienza sofisticata. Io ho soltanto una spada... e anche quella si trova nelle mani di D'Averc!» «Ti ho detto che siamo legati alla città», disse Rinal con pazienza. «E le cose stanno esattamente così. Non possiamo andarcene da questo luogo. Molto tempo fa ci siamo sbarazzati di oggetti tanto grossolani come le macchine. Sono seppellite nel fianco di una collina a molte miglia da Soryandum. Adesso ci servirebbe una macchina particolare, e non possiamo procurarcela di persona. Tu, invece, grazie alla tua mortale mobilità, potresti impadronirtene per noi.»
«Volentieri», disse Hawkmoon. «Se ci fornisci l'esatta ubicazione delle macchine, ve la porteremo. Sarà ancora meglio se ce ne andremo subito, prima che D'Averc si accorga della nostra fuga.» «Sono d'accordo con te che la cosa deve essere condotta a termine entro il più breve tempo possibile», convenne Rinal, «ma ho tralasciato di dirti una cosa. Le macchine sono state sistemate laggiù da noi mentre eravamo ancora in grado di allontanarci per brevi tratti da Soryandum. Per essere certi che non venissero toccate da nessuno, le abbiamo poste sotto la protezione di una bestia meccanica... un congegno spaventoso destinato a terrorizzare chiunque avesse scoperto quel deposito. Ma la bestia di metallo può anche uccidere... anzi ucciderà chiunque non sia della nostra razza e si azzardi a entrare nella caverna». «Allora come faremo a neutralizzare quella bestia?» domandò Oladahn. «Esiste soltanto un modo, per voi», disse Rinal con un sospiro. «Dovete combatterla... e distruggerla.» «Capisco.» Hawkmoon sorrise. «E così sono sfuggito a una situazione spiacevole per affrontarne un'altra non meno pericolosa.» Rinal sollevò una mano. «No. Non pretendiamo nulla da voi. Se siete convinti che la vostra vita potrebbe essere più utile al servizio di un'altra causa, dimenticateci subito e riprendete la vostra strada.» «Ti devo la vita», disse Hawkmoon. «E la mia coscienza non sarebbe senza macchia se mi allontanassi da Soryandum sapendo che la vostra città verrà distrutta, la vostra stirpe sterminata, e che l'Impero Nero avrebbe l'opportunità di scatenare ancora più grandi distruzioni di quante ne abbia già portate in Oriente. No... farò quanto sta in me, anche se senza armi non sarà certo un compito facile.» Rinal fece cenno a uno degli uomini-fantasma, che uscì dalla stanza per ritornare, infine, con la spada di Hawkmoon e l'arco, le frecce e la spada di Oladahn. «Non ci è stato difficile ricuperarle», fece Rinal con un sorriso. «E abbiamo un'altra arma, in un certo senso, da offrirvi.» Porse a Hawkmoon il sottile strumento che era servito loro in precedenza per aprire i lucchetti. «Abbiamo tenuto questo quando abbiamo sistemato la maggior parte delle nostre altre macchine nel magazzino. È in grado di aprire qualunque serratura... dovrete soltanto dirigerlo su di essa. Potrà esservi utile per entrare nel magazzino principale, dove la bestia meccanica sta di guardia alle antiche macchine di Soryandum.» «E qual è la macchina che desiderate avere?» domandò Oladahn. «Si tratta di un minuscolo strumento, grande all'incirca come la testa di
un uomo. Ha il colore dell'arcobaleno ed emette luce. Sembra di cristallo, ma si comporta come se fosse di metallo. Ha una base di onice e da essa si eleva un oggetto ottagonale. Devono essercene due, nel magazzino. Se vi sarà possibile, impossessatevi di entrambe.» «A che cosa servono?» si informò Hawkmoon. «Questo lo vedrete quando tornerete con quegli oggetti.» «Se riusciremo a tornare e a portarveli», disse Oladahn in tono di rassegnata malinconia. CAPITOLO QUARTO LA BESTIA MECCANICA Dopo essersi rifocillati con i cibi e il vino sottratti agli uomini di D'Averc dagli esseri fantomatici, Hawkmoon e Oladahn si assicurarono sulla persona le armi di cui disponevano e si accinsero a lasciare la casa. Con due degli uomini di Soryandum che li sorreggevano, vennero fatti scendere con dolcezza sul terreno. «Possa la Bacchetta Magica proteggervi», sussurrò uno di loro, mentre i due si avviavano verso le mura della città, «perché sappiamo che siete al suo servizio». Hawkmoon si voltò per domandargli come lo avessero saputo. Già per la seconda volta gli veniva detto che si trovava al servizio della Bacchetta Magica; eppure non gli risultava di esserlo. Ma prima che Hawkmoon fosse riuscito a formulare la domanda, l'uomo-fantasma era scomparso. Con un'espressione accigliata sul volto, Hawkmoon si incamminò lungo la strada che si allontanava dalla città. *
*
*
Molto addentro, in mezzo alle colline, a diversi chilometri di distanza da Soryandum, Hawkmoon si fermò per orientarsi. Rinal gli aveva detto di cercare un tumulo tagliato nel granito, che i suoi antenati avevano posto là secoli prima. Infine riuscì a scorgerlo; si trattava di un'antica pietra resa argentea dalla luce lunare. «Adesso ci dirigeremo a nord», disse, «e cercheremo la collina dalla quale il blocco di granito è stato estratto». Dopo un'altra mezz'ora avevano individuato l'altura. Sembrava che la spada di un gigante ne avesse affettato di netto un pendio e, dal momento
che la vegetazione era cresciuta sopra la ferita, quella caratteristica formazione aveva ora un aspetto del tutto naturale. Hawkmoon e Oladahn attraversarono le zolle erbose, fino a un punto in cui crescevano fitti cespugli contro il fianco della collina. Separandoli, scorsero una stretta apertura nel pendio. Era l'ingresso segreto al magazzino delle macchine degli uomini di Soryandum. Dopo aver superato a fatica lo stretto ingresso, i due amici vennero a trovarsi in una vasta caverna. Oladahn accese la torcia che aveva portato appositamente con sé, e la luce baluginante rivelò una vasta spelonca quadrata che era stata evidentemente creata con mezzi artificiali. Tenendo presenti le istruzioni ricevute, Hawkmoon attraversò la caverna fino alla parete più lontana e cercò un minuscolo segno che doveva trovarsi all'altezza di una spalla. Lo trovò infine... un segno tracciato con caratteri sconosciuti, e sotto di esso vide un piccolissimo foro. Hawkmoon trasse di sotto la camicia il sottile strumento che gli era stato consegnato e lo puntò sul foro. Provò una sensazione vibrante nella mano mentre esercitava una lieve pressione sullo strumento. La roccia davanti a lui incominciò a tremare. Un potente soffio d'aria fece ondeggiare la fiamma della torcia, minacciando di spegnerla completamente. La parete incominciò a emettere luce, divenne trasparente e poi scomparve del tutto. «Sarà sempre lì», aveva detto loro Rinal, «ma temporaneamente trasportata in un'altra dimensione». Con cautela, stringendo in pugno la spada, si fecero avanti e si trovarono in una grande galleria illuminata da una luce fredda e verde, proveniente dalle pareti simili a vetro fuso. Dinanzi a loro si trovava un altro muro. Su di esso brillava un unico punto rosso, e su questo Hawkmoon puntò adesso lo strumento. Di nuovo vi fu una improvvisa corrente d'aria e questa volta vennero quasi spazzati via. Poi la parete assunse un color bianco, e divenne infine di un azzurro lattiginoso prima di sparire completamente. Quella parte della galleria era dello stesso azzurro lattiginoso, ma la parete davanti a loro stavolta era nera. Quando anch'essa si dissolse, entrarono in una galleria di pietra gialla, e seppero così che la camera principale e il suo guardiano si trovavano davanti a loro. Hawkmoon si fermò, prima di avvicinare lo strumento alla parete bianca cui si trovavano di fronte. «Dobbiamo comportarci con astuzia e agire rapidamente», disse a Oladahn, «perché la creatura al di là di questo muro entrerà in funzione non
appena percepirà la nostra presenza...» Si interruppe, mentre un suono soffocato gli giungeva alle orecchie... un fantastico acciottolio e clangore. Il muro bianco tremò, come se qualcosa dall'altro lato della parete vi premesse contro con un enorme peso. Oladahn parve dubbioso di fronte al muro. «Forse dovremmo ripensarci. Dopo tutto se sprechiamo le nostre vite inutilmente...» Ma Hawkmoon aveva già fatto agire lo strumento e la parete protettiva aveva incominciato a cambiare colore, mentre lo strano vento gelido investiva i loro volti. Da dietro la parete giunse un terrificante gemito di dolore e di sbigottimento. La parete divenne rosa, si dissolse... e rivelò la bestia meccanica. La sparizione della parete parve averla turbata per un istante, poiché non si mosse per farsi loro incontro. Rimaneva accovacciata su piedi di metallo, torreggiante dinanzi ai due intrusi, mentre le sue scaglie multicolori quasi li accecavano. Il dorso, per tutta la sua lunghezza, a eccezione del collo, era coperto da una massa di aculei aguzzi come coltelli, il corpo somigliava grosso modo a quello di una scimmia con brevi zampe posteriori e lunghi arti anteriori, che terminavano con mani di metallo munite di artigli. Aveva occhi sfaccettati come quelli di una mosca, accesi da colori cangianti, e il muso era fornito di numerosissimi denti di metallo affilati come rasoi. Dietro la bestia meccanica si potevano scorgere grandi ammassi di macchinari, ordinatamente disposti in file lungo le pareti. Il locale era vasto. A un certo punto, in mezzo ai congegni, sulla sua sinistra, Hawkmoon scorse i due apparecchi di cristallo descritti da Rinal. Silenziosamente li indicò, poi si accinse a slanciarsi per oltrepassare il mostro ed entrare nel magazzino. I loro movimenti, mentre correvano, riscossero la bestia dal suo sopore. Essa lanciò un urlo e si accinse pesantemente a inseguire i due uomini, emettendo uno strano odore metallico che riuscì repellente alle narici di Hawkmoon. Con la coda dell'occhio, egli vide una mano gigantesca munita di artigli chiudersi su di lui. Scartò di lato, andando a sbattere contro un delicato congegno, che traballò e cadde a terra infrangendosi e facendo schizzare intorno a sé frammenti di vetro e parti metalliche spezzate. La mano artigliò l'aria a pochi centimetri dalla sua faccia, poi tentò di nuovo di afferrarlo, ma Hawkmoon si era già spostato. A un tratto una freccia colpì il muso della bestia con il clangore del me-
tallo contro il metallo, ma non scalfì nemmeno le scaglie nere e gialle. Con un ruggito, la bestia cercò il nuovo nemico, vide Oladahn e si avventò verso di lui. Oladahn se la svignò indietreggiando, ma non abbastanza in fretta, perché la creatura lo afferrò con la zampa. Stava portandoselo verso la bocca spalancata, quando Hawkmoon urlò e colpì con la spada l'inguine della creatura. Il mostro sbuffò e scagliò via la sua preda. Oladahn giacque supino in un angolo vicino alla porta, forse stordito o forse massacrato. Hawkmoon indietreggiò, mentre la creatura avanzava; poi a un tratto cambiò tattica, slanciandosi, piegato in due, tra le gambe della bestia, colta di sorpresa. Mentre essa incominciava a voltarsi, Hawkmoon si slanciò di nuovo tornando sui propri passi. Il mostro metallico sbuffò infuriato, mentre agitava frenetico gli artigli. Balzò in aria e ricadde con un fragore assordante, precipitandosi lungo il passaggio verso Hawkmoon, che si insinuò fra due macchine e, servendosi di esse come di un riparo, strisciò più vicino al congegno di cui doveva impadronirsi. In quel momento il mostro incominciò a distruggere i meccanismi nella sua insensata ricerca del nemico. Hawkmoon si fermò infine accanto a un dispositivo munito di un aggeggio a forma di campana. Alla fine di tale aggeggio c'era una leva. La macchina sembrava essere un'arma di qualche genere. Senza riflettere, Hawkmoon abbassò la leva. Un lieve rumore provenne dalla macchina, ma questo parve essere tutto. Ormai la bestia gli era di nuovo quasi addosso. Hawkmoon si preparò a prendere posizione, deciso a conficcare la spada in uno degli occhi del meccanismo, dal momento che quelle sembravano le parti più vulnerabili. Rinal gli aveva detto che la bestia meccanica non poteva essere uccisa nel senso comune della parola; ma se fosse riuscito ad accecarla avrebbe avuto qualche possibilità. In quel momento, però, la bestia, mentre veniva avanti direttamente verso il congegno messo in azione da Hawkmoon, vacillò e grugnì. Evidentemente qualche raggio invisibile l'aveva colpita, forse inceppando i suoi meccanismi complicati. Il mostro barcollò e Hawkmoon si sentì trionfante per un attimo, convinto di aver sconfitto il suo antagonista. Ma la creatura si scrollò e ricominciò ad avanzare con lenti e penosi movimenti. Hawkmoon si rese conto che stava a poco a poco ricuperando le forze. Doveva colpire adesso, se voleva avere qualche possibilità di riuscita. Corse verso la bestia. Essa voltò lentamente la testa. Ma ormai Hawkmoon era balzato sul suo tozzo collo e si stava arrampicando sulle scaglie per appol-
laiarsi sulle spalle della creatura. Con un ruggito, il mostro sollevò le braccia deciso a strapparsi di dosso l'intruso. In preda alla disperazione, Hawkmoon si protese in avanti, e servendosi dell'elsa della spada colpì prima uno degli occhi e poi l'altro. Con un crepitio tagliente, lacerante, entrambi gli occhi andarono in frantumi. La bestia urlò, e portò le zampe non già verso Hawkmoon bensì sugli occhi feriti, offrendo così al giovane duca la possibilità di balzare giù dal dorso del mostro e di slanciarsi verso i congegni dei quali intendeva impadronirsi. Afferrò il sacco che si era annodato intorno alla cintola e vi fece scivolare i due strumenti. Il mostro meccanico stava agitandosi lì attorno. Il metallo degli apparecchi si incurvava ed esplodeva sotto il suo impeto. Doveva essere ormai cieco, ma non aveva perduto nulla della sua forza. Saltellando intorno alla bestia urlante, Hawkmoon si precipitò dove giaceva Oladahn, sollevò l'ometto sopra la spalla e corse verso l'uscita. Dietro di lui la bestia aveva percepito il suono dei suoi passi e aveva incominciato a voltarsi per mettersi all'inseguimento. Hawkmoon affrettò il passo, con il cuore che sembrava volergli uscire dalla gabbia toracica per lo sforzo. Lungo i corridoi si mise a correre, percorrendoli uno dopo l'altro finché raggiunse la caverna e la stretta apertura che portava all'esterno. Il mostro di metallo non sarebbe stato in grado di seguirlo attraverso una così esigua fenditura. Non appena sgusciato fuori della spelonca e quando l'aria della notte gli giunse di nuovo nei polmoni, si rilassò e osservò il volto di Oladahn. Il piccolo uomo bestia aveva il respiro abbastanza regolare, e a quanto pareva non aveva riportato alcuna frattura. Soltanto una livida contusione sulla testa sembrava una cosa seria e giustificava la sua perdita della conoscenza. Mentre ancora stava esaminando il corpo di Oladahn alla ricerca di ferite più gravi, i suoi occhi incominciarono a socchiudersi, battendo le palpebre. Un debole suono gli sfuggì dalle labbra. «Oladahn, stai bene?» domandò Hawkmoon ansioso. «Uh... ho la testa in fiamme», borbottò Oladahn. «Dove siamo?» «Siamo in salvo. E adesso cerca di rimetterti in piedi. È quasi l'alba, e dobbiamo tornare a Soryandum prima che faccia giorno, altrimenti gli uomini di D'Averc ci vedranno.» Oladahn si alzò, dolorante e a fatica. Da dentro la caverna giunsero ulu-
lati selvaggi e violenti colpi, mentre la bestia meccanica cercava di raggiungerli. «In salvo?» disse Oladahn, indicando il fianco della collina dietro Hawkmoon. «Forse... ma per quanto?» Hawkmoon si voltò. Un grande squarcio era apparso nella parete rocciosa, mentre la bestia meccanica faceva sforzi per liberarsi e inseguire i propri nemici. «Dobbiamo cercare in tutti i modi di sbrigarci», disse Hawkmoon, raccattando il suo sacco e incominciando a correre verso Soryandum... Avevano già percorso circa un chilometro quando udirono un terribile fragore dietro di loro. Guardandosi alle spalle, videro la parete rocciosa crollare e da essa emergere la bestia di metallo, mentre il suo ululato echeggiava tra le colline, minacciando di giungere fino a Soryandum. «La bestia è cieca», gli spiegò Hawkmoon, «perciò non sarà in grado di trovare subito la strada per inseguirci. Forse, se riusciamo a raggiungere la città, potremo considerarci al sicuro dal mostro». Affrettarono il passo e ben presto giunsero nei sobborghi di Soryandum. Poco dopo, mentre spuntava l'alba, si insinuarono nelle sue vie, alla ricerca della casa degli uomini-fantasma. CAPITOLO QUINTO IL CONGEGNO Rinal e altri due si fecero loro incontro nei pressi della casa e rapidamente li sollevarono per farli entrare dalla portafinestra. Mentre il sole sorgeva e la luce si riversava attraverso le aperture, rendendo gli uomini-fantasma ancora più incorporei del solito, Rinal si fece consegnare impaziente gli oggetti contenuti nel sacco di Hawkmoon. «Sono come li ricordavo», mormorò poi, mentre il suo strano corpo si spostava verso la luce, così da rendergli possibile osservarli meglio. La sua mano fantomatica accarezzò l'ottagono posto sulla sua base di onice. «Adesso non dobbiamo più aver paura degli stranieri mascherati. Possiamo sfuggire loro quando vogliamo...» «Ma credevo che non vi fosse possibile lasciare la città», disse Oladahn. «È vero... ma con questi congegni possiamo portare l'intera città con noi, se siamo fortunati.» Hawkmoon stava per sottoporre a Rinal altre domande, quando udì dei clamori nella strada lì fuori e si avvicinò alla finestra per scrutare con cau-
tela nella via. Vide laggiù D'Averc, i suoi due brutali luogotenenti e una ventina di guerrieri. Uno dei guerrieri stava indicando la finestra. «Devono averci visti», ansimò Hawkmoon. «Ce ne dobbiamo andare tutti. Non possiamo combattere contro tutta quella gente.» Rinal si accigliò. «E neanche noi vi possiamo lasciare. Ma se ci serviamo del nostro congegno, questo significa lasciarvi alla mercé di D'Averc. Mi trovo in un dilemma.» «Serviti del congegno, allora», disse Hawkmoon, «a D'Averc ci pensiamo noi». «Non possiamo lasciarvi morire per la nostra salvezza! Non dopo quello che avete fatto per noi.» «Serviti del congegno!» Ma Rinal continuava a esitare. Hawkmoon udì un suono diverso all'esterno e sbirciò cautamente dalla finestra. «Hanno portato delle scale a pioli. Tra poco saranno qui. Serviti del congegno, Rinal.» Una donna del popolo dei fantasmi disse dolcemente: «Fa' funzionare il congegno, Rinal. Se è vero quello che abbiamo sentito dire, è improbabile che al nostro amico possa essere fatto gran danno da parte di D'Averc; non in questo momento, in ogni caso». «Che cosa intendi?» domandò Hawkmoon. «Come fai a saperlo?» «Abbiamo un amico che non appartiene alla nostra gente», gli rispose la donna, «che viene talvolta a farci visita e ci porta le notizie del mondo esterno. Anche lui è al servizio della Bacchetta Magica...» «Si tratta di un guerriero con una armatura di giaietto e oro?» la interruppe Hawkmoon. «Già, e ci ha detto...» «Duca Dorian!» gridò Oladahn, indicando la finestra. Il primo dei guerrieri cinghiali aveva raggiunto la finestra. Hawkmoon sguainò la spada dal fodero, balzò avanti e conficcò la spada nella gola del guerriero, proprio sotto la gorgiera. L'uomo cadde all'indietro con un grido gorgogliante. Hawkmoon afferrò la scala, cercando di toglierla di mezzo, ma era saldamente trattenuta dal basso. Un altro guerriero giunse all'altezza della finestra, e Oladahn gli sferrò un colpo alla testa, raggiungendolo lateralmente, ma l'uomo non lasciò la presa. Hawkmoon abbandonò la scala e sferrò un fendente alle dita guantate dell'uomo. Con un grido questi perse l'appiglio e precipitò al suolo. «Il congegno», urlò disperato Hawkmoon. «Fallo funzionare, Rinal. Non
possiamo tener loro testa per molto.» Da dietro le spalle gli giunse un suono musicale e ritmato, e Hawkmoon venne preso da un lieve capogiro mentre la sua spada si scontrava con quella di un nuovo assalitore. Poi tutto incominciò a vibrare rapidamente, e le pareti della stanza divennero di un rosso vivido. Fuori nella strada i guerrieri cinghiali stavano urlando... e non di sorpresa, ma in preda a un completo terrore. Hawkmoon non riusciva a capire perché quella vista li terrificasse tanto. Poteva vedere adesso che l'intera città era diventata dello stesso rosso vibrante e sembrava sussultare fino a ridursi a pezzi, in armonia con il ritmo del congegno. Poi, di colpo, il suono e la città svanirono e Hawkmoon si sentì cadere dolcemente verso il basso. Udì la voce di Rinal, debole e sul punto di spegnersi del tutto: «Vi abbiamo lasciato l'altro congegno identico al nostro. È il dono che vi facciamo per aiutarvi contro i vostri nemici. Ha la peculiarità di trasferire intere parti della terra in una dimensione lievemente diversa nello spazio e nel tempo. I nostri nemici non potranno più avere Soryandum ormai...» Poi Hawkmoon atterrò sul terreno roccioso, vicinissimo a Oladahn, e si accorse che non esisteva più traccia della città. Si trovò invece circondato da un territorio sconvolto che sembrava essere stato arato di recente. A qualche distanza si scorgevano i soldati della Gran Bretagna, con D'Averc in mezzo a loro, e Hawkmoon poté infine capire quale fosse stata la causa delle urla di terrore. La bestia meccanica aveva raggiunto la città e stava assalendo i guerrieri cinghiali. Dappertutto si scorgevano corpi feriti e sanguinanti. Sollecitati da D'Averc, che aveva estratto anch'egli la spada e si stava unendo a loro nella battaglia, i soldati della Gran Bretagna stavano cercando di distruggere il mostro. Con gli aculei metallici scossi dal furore, con i denti di metallo che battevano, con gli artigli di ferro in azione, la creatura dilaniava e lacerava armature e carni. «La bestia si occuperà di loro», disse Hawkmoon. «Guarda... i nostri cavalli.» Circa trecento metri più in là si scorgevano i due sbigottiti destrieri. Hawkmoon e Oladahn corsero verso di essi e ben presto si trovarono in sella, intenti ad allontanarsi al galoppo dal luogo in cui sorgeva Soryandum e dal massacro che la bestia meccanica stava facendo dei cinghiali di D'Averc.
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Adesso, con lo strano dono del popolo dei fantasmi accuratamente avvolto e posto nella sacca da sella di Hawkmoon, i due avventurieri continuarono il loro viaggio verso la costa. L'erba ruvida rendeva più agevole il cammino agli zoccoli dei cavalli, ed essi fecero rapidi progressi sulle colline, finché giunsero infine nell'ampia vallata in cui scorre l'Eufrate. Si accamparono sugli argini del grande fiume e discussero per stabilire dove fosse meglio attraversare, perché la corrente era impetuosa in quel punto e, stando alla mappa di Hawkmoon, sarebbero stati costretti a percorrere numerosi chilometri verso sud prima di trovare un punto adatto al guado. Hawkmoon scrutò, al di là delle acque, il sole al tramonto, di un colore rosso sangue. Un sospiro prolungato, non proprio silenzioso, gli sfuggì, e Oladahn sollevò lo sguardo incuriosito da dove stava accendendo il fuoco. «Che cosa ti turba, duca Dorian? Ci si aspetterebbe di vederti di buon umore dopo quello che siamo appena riusciti a sfuggire.» «È il futuro a turbarmi, Oladahn. Se D'Averc ha ragione e il conte Brass giace ferito, con von Villach morto e la Kamarg stretta da un assedio senza speranza, allora non è ingiustificato il mio timore: al nostro ritorno non troveremo altro se non la cenere e il fango in cui sarà stata ridotta la Kamarg, così come aveva promesso di ridurla una volta o l'altra il barone Meliadus.» «Aspettiamo finché non saremo giunti là», disse Oladahn, con un tentativo di allegria, «perché è probabile che D'Averc cercasse soltanto di rattristarti. È quasi certo che la tua Kamarg resiste ancora. Da quanto mi hai detto circa le poderose difese e il grande valore di quella provincia, non dubito affatto che stiano ancora tenendo testa all'Impero Nero. Vedrai...» «Ma riuscirò a vederlo?» Lo sguardo di Hawkmoon si rabbuiò. «Riuscirò a farcela, Oladahn? D'Averc aveva quasi certamente ragione quando parlava delle conquiste della Gran Bretagna. Se la Sicilia è nelle loro mani, deve allora essere così anche per altre parti dell'Italia e della Spagna. Ti rendi conto di che cosa significa questo?» «Al di fuori delle montagne Bulgare, le mie cognizioni geografiche sono scarse», disse Oladahn, imbarazzato. «Significa che tutte le strade per la Kamarg, sia per mare sia per terraferma, sono bloccate dalle orde dell'Impero Nero. Anche se raggiungiamo
il mare e troviamo una nave, che possibilità avremo di superare senza danno il canale di Sicilia? Quelle acque devono essere gremite di navi dell'Impero Nero.» «Ma dobbiamo viaggiare proprio per quella via? Che ne dici delle strade che hai percorso per giungere in Oriente?» Hawkmoon si accigliò. «Gran parte di quei territori li ho percorsi in volo, e ci vuole il doppio del tempo per seguire quell'itinerario. Inoltre la Gran Bretagna ha effettuato ulteriori conquiste anche da quella parte.» «Ma i territori sotto il loro controllo possono essere circumnavigati», disse Oladahn. «Se non altro, sulla terra possiamo avere qualche possibilità, mentre sul mare, da quanto affermi, non ne esiste nessuna.» «Già», disse Hawkmoon sovrappensiero. «Questo significa però attraversare la Turkia... un viaggio di diverse settimane. Ma allora, forse, potremmo attraversare il mar Nero che, a quanto ho saputo, è ancora discretamente libero dalle navi dell'Impero Nero.» Consultò la mappa. «Proprio così... Il mar Nero fino in Romania... anche se il viaggio diventerà sempre più pericoloso quanto più ci avvicineremo alla Francia, perché le forze dell'Impero Nero si trovano dovunque in quei paraggi. Eppure hai ragione... avremo maggiori probabilità percorrendo questa strada; potremmo anche far fuori un paio di uomini della Gran Bretagna e servirci delle loro maschere come travestimento. Uno svantaggio per quegli individui è rappresentato dal fatto che dalle loro maschere non possono essere riconosciuti né come nemici né come amici. Se non fosse per il linguaggio segreto dei diversi ordini, potremmo viaggiare abbastanza tranquillamente, se ci camufferemo con le maschere e le armature dell'Impero Nero.» «Allora cambiamo direzione», disse Oladahn. «Sì. Da domattina ci dirigeremo a nord.» *
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Per un certo numero di lunghi giorni seguirono il corso dell'Eufrate verso nord, attraversando la frontiera tra la Siria e la Turkia, e raggiungendo infine la bianca e tranquilla città di Birachek, dove l'Eufrate diventa il fiume Firat. A Birachek un prudente locandiere, sospettando che fossero servi dell'Impero Nero, disse loro sulle prime di non avere camere disponibili, poi Hawkmoon indicò la nera gemma che gli splendeva sulla fronte e disse: «Il mio nome è Dorian, ultimo duca di Köln, nemico giurato della Gran
Bretagna», e l'albergatore, che anche in quella remota città aveva sentito parlare di lui, acconsentì a dar loro alloggio. Più tardi quella sera si trattennero nella taverna della locanda, bevendo vino dolce e parlando con i membri di una carovana di mercanti giunta a Birachek poco prima di loro. I mercanti erano uomini dalla pelle scura, capelli nero-bluastri e barbe lucide di olio. Indossavano camicie di pelle e gonnellini aperti vivamente colorati, di lana; su quegli abiti portavano mantelli anch'essi di lana, a disegni geometrici purpurei rossi e gialli. Tali mantelli, spiegarono ai viaggiatori, li definivano uomini di Yenahan, un mercante di Ankara. Dalle loro cintole pendevano spade curve dalle impugnature riccamente decorate e lame incise, prive di fodero. Quei mercanti erano abituati a combattere come lo erano a commerciare. Il loro capo, Saleem, dal naso adunco e con penetranti occhi azzurri, si protese sopra la tavola per parlare lentamente con il duca di Köln e con Oladahn. «Avete saputo che inviati dell'Impero Nero si recano alla corte del califfo di Istanbul e pagano quel monarca scialacquatore per avere il permesso di far stazionare, entro le mura della città, un numeroso esercito di guerrieri dalla maschera di toro?» Hawkmoon scosse il capo. «Ho scarse notizie di quello che succede nel mondo. Ma ti credo. È questo il sistema di cui si serve la Gran Bretagna per le sue conquiste: impiega l'oro invece della forza. Soltanto quando l'oro non serve più, ricorre alle armi e agli eserciti.» Saleem annuì. «Come sospettavo. Allora non ritieni la Turkia al sicuro dai lupi occidentali?» «Nessuna parte del mondo, nemmeno l'Amarehk, è al sicuro dalle loro mire. Sognano di conquistare terre che potrebbero non esistere nemmeno, salvo che nelle favole. Progettano di impadronirsi dell'Asiacomunista, sebbene debbano prima trovarla. L'Arabia e l'Oriente sono semplici terreni di battaglia per i loro eserciti.» «Ma come fanno ad avere un tale potere?» domandò Saleem; strabiliato. «Hanno il potere», gli disse Hawkmoon in confidenza. «Inoltre sono in preda a un fanatismo che li rende astuti, scatenati... e pieni di inventiva. Ho visto Londra, la capitale della Gran Bretagna, e la sua grandiosa architettura è quella di un brillante incubo solidificatosi. Ho visto lo stesso reimperatore nel suo trono a forma di globo, pieno di liquido lattescente... un avvizzito essere immortale con la voce argentina di un giovane. Ho visitato
i laboratori degli scienziati stregoni... innumerevoli caverne ripiene di strani macchinari, le funzioni di molti dei quali devono ancora essere riscoperte dagli stessi sapienti della Gran Bretagna. E ho conversato con i loro nobili, ho conosciuto le loro ambizioni, mi sono reso conto che sono più pazzi di quanto chiunque di voi o qualunque uomo normale potrebbe immaginare. Sono privi di umanità, nutrono ben pochi sentimenti gli uni per gli altri e non ne nutrono affatto per tutti coloro che considerano specie inferiori... e cioè per chiunque non sia nato in Gran Bretagna. Crocifiggono uomini, donne, ragazzi e animali per decorare e contrassegnare le strade da e per le loro conquiste...» Saleem si abbandonò all'indietro con un cenno della mano. «Via, andiamo, duca Dorian, stai esagerando...» Hawkmoon pronunciò le parole in tono deciso, guardando con severità negli occhi il suo interlocutore: «Te lo assicuro, mercante turko... non potrei esagerare il male fatto dalla Gran Bretagna!» Saleem si accigliò, allora, e si strinse nelle spalle. «Io.... ti credo», disse, «ma vorrei poterlo non fare. Come, infatti, sarà in grado, una piccola nazione come la Turkia, di opporsi a tanto potere e a tanta crudeltà?» Hawkmoon sospirò. «Non posso offrirti alcuna soluzione. Potrei dirti di cercare di tenervi uniti, di non consentire loro di indebolirvi con l'oro e con la graduale invasione dei vostri territori... ma sprecherei la mia eloquenza se mi ci provassi, perché gli uomini sono avidi e non vogliono vedere la verità al di là dello scintillio delle monete. Opponete loro resistenza, potrei dirti, con onore e onesto coraggio, con saggezza e con idealismo. E tuttavia, quelli che si oppongono vengono vinti e torturati, vedono le loro donne violentate e squartate davanti ai loro occhi, i propri figli diventati trastulli per i guerrieri e accatastati sui fuochi, accesi per bruciare intere città. Ma se non resisterete, se sfuggirete alla morte in battaglia, allora le stesse cose potrebbero accadere a voi, oppure tu e i tuoi cari diventerete esseri umili, meno che umani, desiderosi di compiere qualsiasi indegnità, qualsiasi cattiva azione pur di salvare la pelle. Ti parlo di onestà... e l'onestà mi impedisce di incoraggiarti con fieri discorsi di nobili battaglie e morti da guerriero. Sto cercando di distruggerli... sono il loro nemico dichiarato... ma ho grandi alleati e una notevole fortuna, e anch'io ho la sensazione che non potrò sfuggire per sempre alla loro vendetta, sebbene lo abbia fatto ormai innumerevoli volte. Posso soltanto consigliare coloro che intendono salvare qualcosa di resistere ai protetti del re Huon... di ricorrere all'astuzia. Serviti dell'astuzia, amico mio. È l'unica arma della quale possiamo di-
sporre contro l'Impero Nero.» «Fingere di assecondarli, vuoi dire?» domandò Saleem in tono cogitabondo. «Io ho fatto così. Sono vivo, adesso, e relativamente libero...» «Ricorderò le tue parole, uomo dell'Occidente.» «Ricordale tutte», lo ammonì Hawkmoon. «Poiché il compromesso più difficile da mettere in pratica è quello che si vuol fare apparire di proposito come tale. Spesso l'inganno diventa realtà molto prima che tu te ne accorga.» Saleem si accarezzò la barba. «Ti capisco.» Si guardò attorno nella stanza. Le ombre danzanti delle torce apparvero a un tratto minacciose. «Fra quanto, mi domando, succederà?... Si sono impadroniti già di quasi tutta l'Europa.» «Hai sentito dire qualcosa di una provincia che si chiama Kamarg?» domandò Hawkmoon. «La Kamarg. Una terra di leggendari animali con le corna, vero? Dove mostri per metà umani, dotati di enormi poteri, sono in qualche modo riusciti a resistere contro l'Impero Nero. Sono comandati da un gigante di metallo, il conte Brass...» Hawkmoon sorrise. «Ti hanno raccontato molte leggende. Il conte Brass è di carne e ossa, e ci sono ben pochi mostri, in Kamarg. Le uniche bestie con le corna sono i tori delle paludi e i cavalli, anche. E stanno ancora resistendo all'Impero Nero? Hai sentito dire qualcosa di quello che fa il conte Brass, o il suo luogotenente, von Villach... o la figlia del conte Brass, Yisselda?» «Ho sentito dire che il conte Brass è morto e anche il suo luogotenente. Ma non ho mai sentito parlare di una ragazza... e a quanto mi risulta la Kamarg resiste ancora.» Hawkmoon strofinò la nera gemma. «Le tue informazioni non sono molto precise. Non posso credere che, se il conte Brass è morto, la Kamarg riesca ancora a resistere. Se il conte Brass non ci fosse più, non ci sarebbe più nemmeno la Kamarg.» «Ti riferisco notizie desunte da altre dicerie», disse Saleem. «Noi mercanti siamo sicuri soltanto dei pettegolezzi locali, ma la maggior parte di quello che sappiamo dell'Occidente è vago e oscuro. Vieni dalla Kamarg, vero?» «È la mia patria di adozione», convenne Hawkmoon. «Se ancora esiste.» Oladahn appoggiò la mano sulla spalla di Hawkmoon. «Non essere tri-
ste, duca Dorian. Hai detto tu stesso che le informazioni del mercante Saleem sono poco attendibili. Aspetta di essere giunto vicino alla meta, prima di perdere le speranze.» Hawkmoon fece uno sforzo per sbarazzarsi del cattivo umore, ordinando dell'altro vino e piatti di montone arrosto e pane azzimo caldo. E sebbene fosse riuscito ad apparire più allegro, la sua mente non aveva pace, per la paura che tutto quanto aveva a cuore fosse ormai morto: che la selvaggia bellezza delle paludi della Kamarg non esistesse ormai più e che esse si fossero trasformate in un deserto di cenere. CAPITOLO SESTO LA NAVE DEL DIO PAZZO Viaggiando con Saleem e i suoi mercanti verso Ankara e, oltre quella località, verso il porto di Zonguldak sul mar Nero, Hawkmoon e Oladahn riuscirono, con biglietti di presentazione forniti dal padrone di Saleem, a ottenere un passaggio a bordo della Fanciulla Sorridente, l'unica nave disposta a condurli a Simferopol, sulla costa di una terra chiamata Crimia. La Fanciulla Sorridente non era una bella imbarcazione, e non sembrava poi nemmeno così felice. Capitano ed equipaggio erano sudici, e i ponti inferiori puzzavano come cibarie in putrefazione. Eppure si trovarono costretti a pagare profumatamente il privilegio di un passaggio su quella tinozza e le loro cabine risultarono poco meno malsane della sentina sulla quale erano situate. Il capitano Mouso, con i suoi lunghi e unti mustacchi e gli occhi infidi, non ispirava loro alcuna fiducia, né la ispirava la bottiglia di vino forte che sembrava trovarsi in permanenza tra le zampe pelose del suo secondo. Hawkmoon si disse filosoficamente che, se non altro, la nave difficilmente avrebbe attratto l'attenzione di un pirata e, per la stessa ragione, l'attenzione di una nave dell'Impero Nero. Salì pertanto a bordo con Oladahn poco prima della partenza. La Fanciulla Sorridente salpò goffamente dal molo con la marea del mattino. Mentre le vele rappezzate prendevano il vento, ciascuna delle sue assi gemette e scricchiolò; fece pigramente rotta verso nord-nordest sotto un cielo che andava oscurandosi, gonfio di pioggia. La mattinata era fredda e grigia, e sembrava avere la prerogativa di sfumare l'aspetto di tutto, così da attenuare i suoni e da costringere a compiere uno sforzo per vedere con nitidezza.
Raggomitolato nel proprio mantello, Hawkmoon se ne stava nel castello di prua e guardava Zonguldak sparire dietro di loro. La pioggia aveva cominciato a cadere a grosse gocce quando il porto era ormai fuori vista, e Oladahn salì in coperta e percorse il ponte instabile verso Hawkmoon. «Ho rassettato le nostre cabine come meglio ho potuto, duca Dorian, sebbene non potremo liberarci del puzzo del resto della nave. E suppongo ci siano ben poche cose che riuscirebbero a toglierci di torno topi delle dimensioni di quelli che ho potuto vedere.» «Riusciremo a sopportare tutto ciò», disse Hawkmoon stoicamente. «Abbiamo sopportato di peggio, e il viaggio non durerà più di due giorni.» Sbirciò il secondo, che stava barcollando fuori del casotto del pilota. «Sarei più soddisfatto, però, se potessi ritenere gli ufficiali e l'equipaggio di questa nave un tantino più capaci.» Sorrise. «Se il secondo beve ancora un po' e il capitano continua a russare, potremmo trovarci costretti ad assumere il comando!» Invece di scendere sottocoperta, i due uomini rimasero insieme sotto la pioggia, scrutando verso nord e domandandosi che cosa sarebbe potuto loro accadere nel lungo viaggio verso la Kamarg. La miserevole nave veleggiò nella deprimente atmosfera di quella giornata, sballottata dal mare agitato, spinta dalle raffiche di un vento malevolo che minacciava di continuo di trasformarsi in un uragano, ma desisteva sempre appena in tempo dal proprio intento. Il capitano di tanto in tanto saliva, incespicante, in coperta per urlare contro i suoi uomini, per maledirli e spedirli tra il sartiame ad ammainare una vela o ad alzarne un'altra. A giudizio di Hawkmoon e di Oladahn, gli ordini del capitano Mouso erano del tutto arbitrari. Verso sera, Hawkmoon si avvicinò al capitano, sul ponte. Mouso alzò su di lui uno sguardo dall'espressione ambigua. «Buonasera, signore», disse, tirando su con il naso e asciugandosi quella lunga appendice su una manica. «Spero che il viaggio sia di vostro gradimento.» «Ragionevolmente, grazie. Abbiamo percorso un buon tratto di strada o no?» «Abbastanza, signore», rispose il comandante, voltandosi in modo da non essere costretto a guardare direttamente in faccia Hawkmoon. «Abbastanza. Vuole che le faccia preparare qualcosa dalla cucina di bordo per pran-
zo?» Hawkmoon annuì. «Sì.» Il secondo apparve da sottocoperta, canticchiando dolcemente fra sé, ubriaco fradicio. In quel momento un'ondata improvvisa investì la nave su un lato e lo scafo rollò in maniera allarmante. Hawkmoon si aggrappò al parapetto, con la sensazione che avrebbe potuto sbriciolarglisi in mano. Il capitano Mouso sembrava non accorgersi di alcun pericolo e il secondo giaceva bocconi; la bottiglia gli era sfuggita di mano, mentre egli stesso scivolava sempre più vicino alla fiancata della nave. «Sarà meglio dargli una mano», disse Hawkmoon. Il capitano Mouso rise. «Sta benissimo... ha la fortuna degli ubriachi.» Ma ormai il corpo del secondo si trovava contro la ringhiera di dritta, attraverso la quale erano già passate la testa e una spalla. Hawkmoon balzò giù dalla scaletta del boccaporto per afferrare l'uomo e portarlo in salvo, mentre lo scafo si sollevava di nuovo, questa volta nell'altra direzione, e ondate di acqua salata spazzavano il ponte. Hawkmoon abbassò lo sguardo sull'uomo che aveva soccorso. Il secondo giaceva sulla schiena, con gli occhi chiusi e le labbra che si muovevano pronunciando confusamente le parole della canzone intonata fino a un momento prima. Hawkmoon rise, scuotendo il capo e gridando mentre si rivolgeva al capitano: «Aveva ragione... ha la fortuna degli ubriachi». Poi, quando si voltò di nuovo verso sinistra, gli parve di vedere qualcosa nell'acqua. La luce andava svanendo rapidamente, ma lui era certo di aver scorto un'imbarcazione di qualche tipo, non troppo lontana. «Capitano... vede qualcosa laggiù?» urlò, avvicinandosi alla balaustra e scrutando nella massa delle acque agitate. «Sembra una zattera», gli gridò di rimando Mouso. Hawkmoon ben presto fu in grado di scorgere la cosa più da vicino, mentre un'ondata la spingeva verso la nave. Si trattava di una zattera e su di essa c'erano tre uomini. «Si direbbero naufraghi, a vederli», disse Mouso con indifferenza. «Poveri bastardi.» Si strinse nelle spalle. «Ah, be', non è affar nostro...» «Capitano, dobbiamo salvarli», disse Hawkmoon. «Non ci riusciremo mai con questa luce. Per di più, dovremmo sprecare del tempo. Non ho altro carico a bordo tranne voi, in questo viaggio, e devo arrivare a Simferopol abbastanza in fretta per riuscire a caricare prima
che qualcun altro lo faccia al mio posto.» «Dobbiamo salvarli», disse Hawkmoon con decisione. «Oladahn... una gomena.» Questi trovò un rotolo di corda nel casotto del timone e si precipitò verso di lui con esso. La zattera era ancora visibile, con gli occupanti bocconi su di essa, aggrappati al relitto con tutte le forze. Talvolta spariva in un grande avvallamento tra un'onda e l'altra, per riapparire dopo qualche secondo, a una certa distanza dalla nave. Il varco tra loro e i naufraghi andava ampliandosi sempre più, e Hawkmoon si rese conto che di lì a non molto la zattera si sarebbe venuta a trovare senza dubbio a una distanza eccessiva per poterla raggiungere. Dopo aver legato un capo della gomena al parapetto ed essersi fatto passare l'altro attorno alla vita, Hawkmoon si slacciò il mantello e la spada e si tuffò nell'oceano coperto di schiuma. Immediatamente si rese conto del pericolo al quale si esponeva. Era quasi impossibile nuotare in quel mare agitato e a ogni momento si correva il rischio di essere scagliati contro il fianco della nave, di perdere i sensi e di affogare. Ma continuò a lottare contro i marosi, battendosi per non venire sommerso e per non essere accecato, scrutandosi intorno per scorgere la zattera. Eccola! Anche i suoi occupanti ora avevano visto la nave e si erano alzati in piedi, agitando le braccia e gridando. Non avevano ancora scorto Hawkmoon che nuotava verso di loro. Mentre nuotava, Hawkmoon riusciva a intravedere di quando in quando i naufraghi, senza però poterli distinguere con chiarezza. Due sembravano adesso intenti a battersi, mentre il terzo, a quanto pareva, si era rimesso a sedere osservandoli. «Aspettate!» gridò Hawkmoon nel frastuono delle onde e nell'ululare del vento. Mettendocela tutta, nuotò ancora con più energia e ben presto si trovò quasi addosso alla zattera, mentre questa veniva scagliata in un selvaggio caos di acque scure e di schiuma candida. Poi Hawkmoon si afferrò all'orlo della zattera e vide che, in effetti, due degli uomini stavano lottando con accanimento. Si accorse inoltre che portavano le maschere grifagne dell'Ordine del Cinghiale. Gli uomini erano guerrieri della Gran Bretagna. *
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Per un momento Hawkmoon fu tentato di lasciarli al loro destino. Ma se
si fosse comportato così, si disse, non sarebbe stato migliore di loro. Doveva fare del suo meglio per salvarli, e poi avrebbe deciso che cosa farne. Gridò rivolto ai due che lottavano, ma quelli parvero non udirlo. Ruggivano e imprecavano, tutti presi dal loro combattimento, e Hawkmoon si domandò se non fossero ammattiti a causa della prova tremenda alla quale erano stati sottoposti. Hawkmoon cercò di issarsi sulla zattera, ma il mare e la corda legata intorno alla sua vita lo trascinarono di nuovo sotto. Vide l'uomo seduto volgere lo sguardo verso di lui e indicarlo quasi con indifferenza. «Aiutami», ansimò Hawkmoon, «o non sarò mai in grado di aiutare te». L'uomo si alzò e barcollò facendosi avanti sulla zattera, finché non si trovò bloccato dai due individui che lottavano. Li afferrò per il collo e rimase così un istante, finché la zattera si inclinò sull'acqua; poi scaraventò entrambi in mare. «Hawkmoon, mio caro amico!» gli giunse una voce di sotto la maschera di cinghiale. «Come sono felice di rivederti. Ecco... ti ho aiutato. Ho alleggerito il nostro carico...» Hawkmoon fece per afferrare uno degli uomini caduti in mare, che continuava a lottare con il compagno. Con le pesanti maschere e le armature sarebbero stati inevitabilmente trascinati sott'acqua nel giro di qualche secondo. Ma non riuscì a farcela. Rimase a guardare affascinato mentre, con apparente gradualità, le maschere scomparivano sotto le onde. Fissò torvamente il sopravvissuto, che si stava protendendo per dargli una mano. «Hai ucciso i tuoi amici, D'Averc! Sono tentato di lasciarti affogare insieme a loro.» «Amici? Mio caro Hawkmoon, non lo erano davvero. Servi, sì, certo, ma non amici.» D'Averc si aggrappò, mentre un'altra ondata spazzava la zattera, quasi costringendo Hawkmoon a perdere la presa. «Non amici. Erano abbastanza fedeli... ma spaventosamente noiosi. E si rendevano ridicoli. Una cosa che non potevo sopportare. Avanti, lascia che ti aiuti a salire sul mio modesto vascello. Non è granché, ma...» Hawkmoon lasciò che D'Averc lo aiutasse a salire sulla zattera, poi si voltò e fece cenno alla nave, appena visibile nelle tenebre. Sentì la corda tendersi, mentre Oladahn incominciava a far forza su di essa. «È stata una fortuna che siate passati di qui», disse D'Averc con freddezza, mentre venivano trascinati verso l'imbarcazione. «Credevo di essere già destinato ad affogare e a lasciare inadempiute tutte le mie gloriose speranze. E poi, chi ti vedo arrivare con questa splendida nave se non il nobile
duca di Köln? Il fato ci ha riuniti ancora una volta, duca.» «Già, ma mi affretterò a mandarti al diavolo di nuovo, come hai fatto tu con i tuoi amici, se non terrai a freno la lingua e non mi aiuterai con questa corda», ringhiò Hawkmoon. La zattera incominciò a procedere sulle onde, finché non andò a sbattere contro la fiancata mezza marcia della Fanciulla Sorridente. Venne calata una scaletta di corda e Hawkmoon vi si arrampicò; e si issò infine con sollievo sulla balaustra, ansimando per lo sforzo compiuto. Quando Oladahn vide la testa dell'altro uomo spuntare di sopra la murata, imprecò e fece il gesto di sguainare la spada, ma Hawkmoon lo trattenne. «È nostro prigioniero, e dobbiamo continuare a tenerlo in vita, perché potrebbe servirci per contrattare con l'avversario qualora dovessimo trovarci nei guai, in seguito.» «Quanta saggezza!» esclamò ammirato D'Averc; poi incominciò a tossire. «Non badarci... il naufragio mi ha terribilmente indebolito, temo. Quando mi sarò cambiato gli abiti, avrò bevuto qualcosa di caldo e dormito per una intera notte, sarò di nuovo quello di sempre.» «Potrai ritenerti fortunato se ti consentiremo di marcire nelle sentine», fece Hawkmoon. «Portalo di sotto nella nostra cabina, Oladahn.» *
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Accalcati nella minuscola cabina a malapena illuminata da una piccola lanterna appesa al soffitto, Hawkmoon e Oladahn osservarono D'Averc togliersi la maschera, l'armatura e gli altri indumenti fradici. «Come ci sei capitato, su quella zattera, D'Averc?» domandò il duca mentre il francese si dava da fare per asciugarsi. Anche Hawkmoon era perplesso di fronte all'evidente sangue freddo di quell'uomo. Ammirava quella dote e si domandò addirittura se anche lui, in qualche strano modo, non si comportasse in realtà come D'Averc. Forse si trattava della sincerità di D'Averc nell'ammettere le proprie ambizioni, la sua riluttanza a giustificare le proprie azioni, anche se, come poco fa, concernevano un occasionale assassinio. «È una storia lunga, amico mio. Noi tre... Ecardo, Peter e io... abbiamo lasciato gli uomini alle prese con quel mostro cieco che ci avete scatenato contro, e abbiamo cercato di trovare la salvezza sulle colline. Poco dopo, l'ornitottero che avevamo mandato a prendere per portarvi via è arrivato e ha incominciato a girare sul posto, evidentemente interdetto dalla sparizio-
ne di una intera città... come lo eravamo anche noi, devo ammetterlo; più tardi dovrete spiegarmelo. Bene, abbiamo fatto segnali al pilota, che è atterrato. Ci eravamo già resi conto di esserci cacciati in una posizione, in un certo senso, difficile.» D'Averc si interruppe. «Non si potrebbe avere qualcosa da mangiare?» «Il capitano ha ordinato la cena al cambusiere», disse Oladahn. «Continua.» «Eravamo in tre, senza cavalli e in una zona del mondo piuttosto arida. Inoltre non "eravamo riusciti a tenervi prigionieri dopo avervi catturati e, per quanto ci risultava, il pilota era il solo uomo vivo al corrente di quanto era accaduto...» «Hai ucciso il pilota?» disse Hawkmoon. «Proprio così. Era indispensabile. Poi siamo saliti a bordo della macchina con l'intenzione di raggiungere la base più vicina.» «E che cosa è successo?» domandò Hawkmoon. «Sapevate come pilotare un ornitottero?» D'Averc sorrise. «La tua domanda è pertinente. La mia competenza in materia è limitata. Siamo riusciti a levarci in volo, ma poi quel maledetto aggeggio non ha voluto saperne di lasciarsi manovrare. Prima ancora che ce ne fossimo resi conto, ci stava portando fuori strada... soltanto la Bacchetta Magica sapeva dove. Incominciavo a preoccuparmi per la mia incolumità, devo ammetterlo. Il mostro si comportava sempre più capricciosamente, finché in ultimo non incominciò a precipitare. Mi diedi da fare per guidarlo in modo che atterrasse su un soffice argine del fiume, e ne uscimmo soltanto con qualche contusione. Ecardo e Peter erano diventati isterici, litigavano fra loro, assumevano atteggiamenti insopportabili e diventavano difficili da controllare. Comunque, riuscimmo in qualche modo a costruire una zattera, con l'intenzione di lasciarci portare dalla corrente del fiume fino alla prima città...» «Quella stessa zattera?» domandò Hawkmoon. «Sì, proprio quella.» «E come ci siete arrivati al mare?» «Le maree, mio buon amico», disse D'Averc con un gesto noncurante della mano, «le correnti. Non mi ero reso conto che ci trovavamo così vicini a un estuario. Venimmo trascinati via a una velocità spaventosa, e fummo portati lontanissimi da terra. Su quella zattera... quella maledettissima zattera... abbiamo trascorso tutti gli ultimi giorni; e intanto Peter ed Ecardo si compiangevano a vicenda, si rimproveravano l'un l'altro per la
situazione in cui si trovavano, quando invece avrebbero dovuto rimproverarne me. Oh, non ci sono parole per descrivere un simile incubo, duca Dorian». «Ti saresti meritato anche di peggio», osservò Hawkmoon. Bussarono alla porta della cabina. Oladahn andò ad aprire e fece entrare un mozzo malandato, che fungeva da cameriere, con un vassoio sul quale si trovavano tre scodelle contenenti uno stufato grigiastro. Hawkmoon prese il vassoio e porse a D'Averc una scodella e un cucchiaio. Per un attimo D'Averc esitò; poi assaggiò un boccone. Sembrava mangiare studiando bene quello che portava alla bocca. Terminò la sua razione e rimise la scodella vuota sul vassoio: «Delizioso», disse, «assolutamente perfetto, per la cucina di una nave». Hawkmoon, che era rimasto nauseato da quella roba, tese a D'Averc la propria scodella, e anche Oladahn gli offrì la propria. «Vi ringrazio», disse D'Averc. «Sono un sostenitore della moderazione. Il sufficiente va bene quanto un festino.» Hawkmoon si consentì un fuggevole sorriso, una volta di più ammirato per la prontezza del francese. Evidentemente quel cibo era parso abominevole a lui quanto a loro, ma la sua fame era tanto grande da averlo indotto a trangugiarlo, e addirittura con gusto. Adesso D'Averc si stava stiracchiando, e l'inturgidirsi dei suoi muscoli smentiva le affermazioni di lui a proposito della pretesa invalidità. «Ah», sbadigliò. «Se volete scusarmi, signori, me ne andrei a dormire. Ho avuto alcuni giorni difficili e faticosi.» «Mettiti nel mio letto», disse Hawkmoon, indicando la propria scomoda cuccetta. Non accennò al fatto che in precedenza aveva notato quella che sembrava una intera tribù di cimici, annidata in essa. «Andrò a vedere se il capitano ha un'amaca.» «Te ne sono grato», disse D'Averc, e parve esserci una sorprendente serietà nel suo tono, tale da indurre Hawkmoon a voltarsi una volta arrivato alla porta. «Per che cosa?» D'Averc incominciò a tossire ostentatamente, poi alzò lo sguardo e disse, con la sua solita aria canzonatoria: «Ma, mio caro duca, per avermi salvato la vita, naturalmente». *
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Il mattino dopo la tempesta si era calmata e, sebbene il mare fosse ancora agitato, era pur sempre più calmo del giorno prima. Hawkmoon incontrò D'Averc sul ponte. L'uomo era abbigliato con mantello e pantaloni di velluto verde, ma non indossava l'armatura. Si inchinò quando scorse Hawkmoon. «Hai dormito bene?» gli domandò questi. «Magnificamente.» Gli occhi di D'Averc erano colmi di malizia, e Hawkmoon dedusse che doveva essere stato morsicato più di una volta. «Stanotte dovremmo raggiungere uno scalo», disse Hawkmoon. «Sarai mio prigioniero... il mio ostaggio, se preferisci.» «Ostaggio? Credi che l'Impero Nero si curi della mia vita o della mia morte, una volta che non gli sia più utile?» «Staremo a vedere», disse Hawkmoon, sfiorando con le dita la gemma sulla sua fronte. «Se cerchi di scappare, senza dubbio sarò costretto a ucciderti... con la stessa freddezza con la quale hai ucciso i tuoi uomini.» D'Averc tossì nel fazzoletto che aveva con sé. «Ti devo la vita», disse. «Perciò è nel tuo diritto riprendertela, se vuoi.» Hawkmoon si accigliò. D'Averc era di gran lunga troppo tortuoso perché lo potesse comprendere appieno. Incominciava a rammaricarsi della decisione presa. Il francese poteva dimostrarsi una responsabilità più grande di quanto si era aspettato. Oladahn giunse di corsa attraverso il ponte. «Duca Dorian», ansimò, indicando verso prua, «una vela... e viene proprio dalla nostra parte». «Corriamo ben poco pericolo», osservò sorridendo Hawkmoon. «Non abbiamo alcun valore, per un pirata.» Ma un attimo più tardi Hawkmoon notò segni di panico fra i membri dell'equipaggio e, quando il capitano gli passò davanti camminando a lunghi passi, lo afferrò per un braccio. «Capitano Mouso... che succede?» «Siamo in pericolo, signore», fece lui innervosito, «in un grave pericolo. Non riconosci quella vela?» Hawkmoon scrutò l'orizzonte e si accorse che la nave aveva un'unica vela nera. Su di essa si vedeva dipinto un emblema di qualche genere, ma egli non riuscì a interpretarne il significato. «Non ci daranno certo fastidio», disse. «Perché dovrebbero esporsi al rischio di un combattimento per una bagnarola come questa? E tu stesso hai detto che non abbiamo carichi di alcun genere.» «Quelli non si curano di ciò che stiamo o non stiamo trasportando, signore. Attaccano chiunque sia in vista sull'oceano. Sono come orche, duca
Dorian... Il loro piacere non consiste nell'impadronirsi di un tesoro, ma nel distruggere!» «Chi sono? Non si tratta di uno scafo della Gran Bretagna, a giudicare dall'aspetto», disse D'Averc. «Anche una di quelle navi non si darebbe la pena di aggredirci», balbettò il capitano Mouso. «No... quello è un veliero il cui equipaggio appartiene al culto del Dio Pazzo. Vengono dalla Muskovia e negli ultimi mesi hanno incominciato a diffondere il terrore in queste acque.» «Hanno davvero l'intenzione di aggredirci», disse D'Averc con noncuranza. «Con il tuo permesso, duca Dorian, andrei giù a indossare l'armatura e a prendere la spada.» «Anch'io mi procurerò le armi», disse Oladahn. «Prenderò la spada anche per te.» «Non vale la pena di combattere!» fece il secondo, gesticolando con la bottiglia. «Sarebbe meglio buttarci tutti a mare.» «Già», annuì il capitano Mouso, osservando D'Averc e Oladahn mentre si accingevano ad armarsi. «Ha ragione. Saremo sopraffatti e fatti a pezzi. Se ci cattureranno, continueranno a torturarci per giorni e giorni.» Hawkmoon stava per dire qualcosa al capitano, poi si voltò, udendo un tonfo nell'acqua. Il secondo si era tuffato... come aveva detto. Hawkmoon si precipitò alla murata, ma non riuscì a vedere nulla. «Non affannarti per aiutarlo... fa' come lui», disse il comandante, «perché è il più saggio, fra noi tutti». La nave si stava precipitando su di loro, ormai, con un paio di grandi ali rosse dipinte sulle vele nere, e al centro di esse spiccava un enorme muso bestiale, distorto da una smorfia, quasi fosse in preda a una risata satanica... Sul ponte si affollavano una ventina di uomini nudi, con indosso soltanto i foderi delle spade e collari coperti da bullette metalliche. Portato dal vento sull'acqua giungeva fino a loro un suono misterioso, che sulle prime Hawkmoon non riuscì a individuare. Poi guardò di nuovo le vele e si rese conto di che cosa si trattava. Era il suono di una risata folle, selvaggia, un suono simile a quello che potrebbe emettere il demonio, nell'inferno, in un momento di allegria. «La nave del Dio Pazzo», disse il capitano Mouso, i cui occhi incominciarono a riempirsi di lacrime. «Ormai siamo morti.» CAPITOLO SETTIMO L'ANELLO SUL DITO
Hawkmoon, Oladahn e D'Averc si trovavano spalla a spalla accanto al parapetto di sinistra della nave, mentre il vascello misterioso si avvicinava velocemente. I membri dell'equipaggio si erano assiepati tutti attorno al capitano, il più lontano possibile dagli attaccanti. Mentre guardava gli occhi roteanti e le bocche coperte di bava dei folli sulla nave, Hawkmoon si convinse che le loro speranze erano quasi inesistenti. Grappini d'arrembaggio di ferro partirono dalla nave del Dio Pazzo e vennero a conficcarsi nel legno tenero della Fanciulla Sorridente. All'istante i tre uomini incominciarono a sferrare fendenti alle corde, riuscendo a tranciarne la maggior parte. Hawkmoon urlò al capitano: «Fa' salire i tuoi uomini... cerca di far virare la nave». Ma i marinai terrorizzati non si mossero. «Sarete più al sicuro, sul sartiame!» gridò ancora Hawkmoon. Gli uomini incominciarono ad agitarsi, senza concludere nulla in ogni caso. Hawkmoon si trovò costretto a riportare la propria attenzione sugli attaccanti, e rimase inorridito nel vedere lo scafo apparire indistinto e incombere su di loro, mentre il suo folle equipaggio si ammassava contro il parapetto, e alcuni degli uomini già incominciavano a scavalcarlo, pronti a balzare sul ponte della Fanciulla Sorridente con le corte sciabole sguainate. Le loro risate colmavano l'aria, e una follia sanguinaria accendeva quei volti alterati. Il primo, il nudo corpo luccicante e la spada sollevata, librandosi in aria, si lanciò verso Hawkmoon. L'arma impugnata da Hawkmoon si alzò per infilzare come su uno spiedo l'uomo mentre cadeva; un'altra torsione della spada e il cadavere piombò in mare nello stretto varco tra le due navi. Di lì a un momento, l'aria si colmò di guerrieri nudi che ondeggiavano sulle gomene, che balzavano selvaggiamente, facendosi avanti aggrappandosi alle corde dei grappini. I tre uomini fermarono il primo scaglione, sferrando fendenti attorno a sé finché tutto non parve diventare rosso di sangue; ma a poco a poco vennero costretti a indietreggiare, allontanandosi dal parapetto, mentre i maniaci sciamavano sul ponte, battendosi senza abilità ma con una fredda noncuranza per le proprie vite. Hawkmoon venne separato dai compagni, senza che gli riuscisse di sapere se erano ancora vivi o se li avevano uccisi. I guerrieri balzarono contro di lui, che brandiva convulsamente con entrambe le mani la spada da combattimento, sferrando fendenti tutto attorno a sé, in un grande arco. Era
coperto di sangue dalla testa ai piedi; soltanto i suoi occhi lampeggiavano, azzurri e fermi, sotto la visiera dell'elmo. E per tutto il tempo gli uomini del Dio Pazzo continuarono a ridere... ridevano perfino mentre le loro teste venivano spiccate dal collo, o le loro membra dal corpo. Hawkmoon si rese conto che alla fine la stanchezza avrebbe avuto il sopravvento su di lui. Già la spada incominciava a pesargli nelle mani e le ginocchia gli tremavano. Con le spalle contro una paratia, colpì e sferrò fendenti alla marea in apparenza senza fine dei ridacchianti fanatici, le cui spade cercavano di strappargli la vita. Qua un uomo veniva decapitato, là un altro era smembrato, ma ognuno di quei colpi sottraeva una parte considerevole delle energie di Hawkmoon. Poi, mentre bloccava due spade che lo stavano per colpire insieme, le gambe gli cedettero ed egli cadde su un ginocchio. La risata crebbe di intensità, piena di trionfo, mentre gli uomini del Dio Pazzo si facevano avanti per uccidere. Colpì verso l'alto alla disperata, afferrando il polso di uno dei suoi assalitori e strappandogli la spada, per cui venne a trovarsi con due armi in pugno. Servendosi della spada del folle per colpire, e della propria per duellare, si affannò per rimettersi in piedi, si liberò di un altro avversario e si batté per allontanarsi, per correre su lungo la scaletta del boccaporto che portava sul ponte. In cima alla scaletta si voltò, deciso a continuare a combattere, questa volta con crescente vantaggio sugli schiamazzanti fanatici che si affollavano su per gli scalini verso di lui. Vide adesso che entrambi, sia Oladahn sia D'Averc, si erano arrampicati sul sartiame, cercando di tenere a bada gli aggressori. Lanciò un'occhiata nella direzione della nave del Dio Pazzo. Era ancora saldamente collegata alla nave di Mouso tramite le corde dei grappini, ma del tutto deserta. La sua ciurma al completo si trovava a bordo della Fanciulla Sorridente. Hawkmoon ebbe subito un'idea. Ruotò su se stesso, allontanandosi dagli inseguitori, balzò sulla balaustrata e afferrò una corda che pendeva dalla crocetta. Poi si lanciò nel vuoto. Pregò che la corda fosse lunga abbastanza, mentre si proiettava nello spazio tra le due imbarcazioni e si lasciava andare, precipitando contro la murata della nave. Le sue mani protese fecero appena in tempo ad aggrapparsi al parapetto del veliero nemico, mentre egli cadeva. Si issò sul ponte e incominciò a tranciare le corde dei grappini, mentre urlava: «Oladahn...
D'Averc! Presto... seguitemi!» Dal sartiame dell'altra nave i due uomini lo videro e incominciarono a salire più in alto, per camminare in precario equilibrio lungo il braccio del pennone di maestra, mentre gli uomini del Dio Pazzo sciamavano sotto di loro. La nave del Dio Pazzo stava già incominciando ad allontanarsi, mentre il varco tra essa e la Fanciulla Sorridente si allargava molto in fretta. D'Averc saltò per primo, tuffandosi verso le attrezzature del veliero dalla vela nera e, afferratosi a una corda con una mano, oscillò per un istante, minacciando di precipitare e di sfracellarsi sul ponte. Oladahn lo seguì, tranciando una corda e oscillando attraverso il varco, lasciandosi poi scivolare lungo la corda e atterrando sul ponte, dove cadde a braccia aperte lungo e disteso. Molti dei guerrieri folli tentarono di seguirli, e un certo numero di essi riuscì in effetti nell'intento, raggiungendo il ponte del loro stesso naviglio. Sempre sghignazzando, si diressero in gruppo verso Hawkmoon, poiché senza dubbio ritenevano morto Oladahn. Hawkmoon si trovò costretto a impiegare tutte le sue energie per difendersi. Una lama lo ferì al braccio, un'altra lo colpì al volto sotto la visiera. Poi, a un tratto, dall'alto, un corpo precipitò in mezzo ai guerrieri nudi e l'uomo incominciò a sferrare fendenti attorno a sé, quasi con lo stesso fanatismo dei suoi avversari. Si trattava di D'Averc, nella sua armatura dell'Ordine del Cinghiale, grondante del sangue di coloro che aveva trucidato. E nello stesso momento, alle spalle dei loro aggressori, si fece avanti anche Oladahn, palesemente soltanto stordito dalla caduta; lanciava un selvaggio grido di combattimento delle sue montagne. Ben presto ognuno dei pazzi che avevano fatto in tempo a raggiungere la nave venne ucciso. Gli altri erano balzati dal ponte della Fanciulla Sorridente nell'acqua, sempre ridendo in quello strano modo e cercando di nuotare dietro il loro veliero. Voltandosi per guardare la Fanciulla Sorridente, Hawkmoon si rese conto che la maggior parte dell'equipaggio, a quanto pareva, era miracolosamente sopravvissuto. All'ultimo istante quegli uomini si erano arrampicati verso la salvezza offerta dall'albero di mezzana. D'Averc corse avanti e afferrò il timone della nave del Dio Pazzo, tagliandone le legature e facendolo ruotare in modo da allontanarsi dagli uomini inutilmente intenti a nuotare.
«Bene», alitò Oladahn, rinfoderando la spada ed esaminandosi le ferite, «a quanto pare siamo riusciti a sfuggire... e con una imbarcazione migliore». «Con un po' di fortuna arriveremo in porto prima della Fanciulla Sorridente», disse ridacchiando Hawkmoon. «Spero che sia sempre diretta verso la Crimia, perché ha a bordo tutti i nostri averi.» D'Averc stava facendo virare con maestria lo scafo verso nord. L'unica vela si gonfiò e prese il vento, e la nave si lasciò indietro i fanatici che nuotavano. Anche mentre affogavano, continuavano a sghignazzare. *
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Dopo che ebbero aiutato D'Averc a fissare di nuovo il timone in modo che lo scafo continuasse grosso modo a seguire la rotta, incominciarono a ispezionare l'imbarcazione. Era piena zeppa di tesori, evidentemente saccheggiati da una ventina di navi, ma trasportava anche una quantità di oggetti inutili... armi e strumenti di navigazione fuori uso, mucchi di indumenti... e qua e là cadaveri in decomposizione o corpi smembrati, ogni cosa ammassata insieme nelle stive. I tre uomini decisero di sbarazzarsi innanzitutto dei cadaveri e dei corpi mutilati, avvolgendoli in mantelli o in brandelli di stracci e gettandoli in mare. Fu un compito disgustoso e li tenne occupati a lungo, perché alcuni dei cadaveri erano nascosti sotto cumuli di altri oggetti. A un tratto Oladahn interruppe il proprio lavoro, con gli occhi fissi su una mano umana amputata che si era quasi mummificata. Con riluttanza la sollevò, osservando un anello che brillava al suo mignolo. Sbirciò Hawkmoon. «Duca Dorian...» «Cosa c'è? Non preoccuparti di salvare l'anello. Limitati a buttar via quella roba.» «No... si tratta proprio di questo anello... ha un disegno particolare...» Con aria seccata, Hawkmoon attraversò la stiva scarsamente illuminata e osservò l'oggetto, rimanendo senza fiato nel riconoscerlo. «No! Non può essere!» L'anello apparteneva a Yisselda. Era l'anello che il conte Brass le aveva messo al dito come pegno del suo fidanzamento con Dorian Hawkmoon. Stordito per l'orrore, Hawkmoon prese la mano mummificata con un'espressione attonita sul volto.
«Che cosa significa questo?» sussurrò Oladahn. «Che cos'è a turbarti tanto?» «Appartiene a lei. È di Yisselda.» «Ma com'è possibile che si sia trovata a navigare in questo oceano, lontano centinaia e centinaia di chilometri dalla Kamarg? Non è una cosa pensabile, duca Dorian.» «L'anello è suo.» Hawkmoon osservò la mano, esaminandola ansiosamente mentre una certezza lo colpiva. «Ma... la mano no. Vedi, l'anello si adatta a malapena al mignolo. Il conte Brass glielo infilò al dito medio, e anche così le stava un po' largo. Questa è la mano di qualche ladro.» Strappò il prezioso anello dal dito e gettò via la mano. «Qualcuno che si trovava in Kamarg, forse ha rubato l'anello...» Scosse il capo. «È inverosimile. Ma quale altra spiegazione potrebbe esserci?» «Forse stava viaggiando da queste parti... alla tua ricerca probabilmente», suggerì Oladahn. «Sarebbe stata pazza a fare una cosa simile. Ma non è impossibile. Comunque, se fosse così, dove si trova adesso Yisselda?» Oladahn stava per dire qualcosa, quando si udì un basso e terribile ridacchiare che proveniva dall'alto. Alzarono tutti gli occhi verso l'ingresso della stiva. Una folle faccia ghignante li stava guardando. In qualche modo uno dei guerrieri pazzi era riuscito a raggiungere la nave. Adesso si preparava a balzare loro addosso. Hawkmoon fece appena in tempo a sguainare la spada, mentre il fanatico li aggrediva, con la spada che fendeva l'aria. Il metallo colti il metallo. Oladahn sguainò la propria arma e D'Averc si precipitò dalla loro parte, ma Hawkmoon urlò: «Prendetelo vivo! Lo dobbiamo catturare vivo!» Mentre Hawkmoon impegnava il fanatico, D'Averc e Oladahn riposero le spade e presero il guerriero alle spalle, afferrandolo per le braccia. Per due volte egli se li scrollò di dosso, ma infine cadde scalciando, mentre i suoi avversari gli avvolgevano una spira dopo l'altra di corda intorno al corpo. Poi egli giacque immobile, ridacchiando rivolto verso di loro, con gli occhi che non vedevano nulla e la bocca coperta di bava. «A cosa ci serve vivo?» domandò D'Averc, con compita curiosità. «Perché non gli tagliamo la gola e la facciamo finita con lui?» «Questo», disse Hawkmoon, «è un anello che abbiamo appena trovato». Lo sollevò in alto. «Appartiene a Yisselda, la figlia del conte Brass. Voglio sapere come questi uomini ne sono venuti in possesso.»
«Strano», disse D'Averc accigliandosi. «Credevo che la ragazza si trovasse ancora in Kamarg, a curare il padre.» «E così il conte Brass è stato ferito?» D'Averc sorrise. «Già. Ma la Kamarg resiste ancora. Ho cercato di turbarti, duca Dorian. Non so quanto gravemente sia stato ferito il conte Brass, ma è ancora vivo. E quell'uomo saggio che gli è vicino, Bowgentle, lo aiuta nel comando delle truppe. Le ultime notizie che mi sono giunte parlavano di una situazione di stallo tra l'Impero Nero e la Kamarg.» «E non hai saputo nulla di Yisselda? Non sai se abbia lasciato la Kamarg?» «No», disse D'Averc accigliandosi. «Ma mi sembra di ricordare... Ah, sì, un uomo che militava nell'esercito del conte Brass, credo che sia stato avvicinato e convinto a rapire la ragazza. Ma il tentativo non ebbe successo.» «Come fai a saperlo?» «Juan Zhinaga... quell'uomo scomparve. Con ogni probabilità il conte Brass ne scoprì la perfidia e lo trucidò.» «Mi riesce difficile credere che Zhinaga possa essere un traditore. Conosco un po' quell'uomo... era un capitano della cavalleria.» «E venne fatto prigioniero da noi durante la seconda battaglia contro la Kamarg.» D'Averc sorrise. «Credo che fosse un tedesco, e avevamo nelle nostre mani qualcuno della sua famiglia...» «Lo avete ricattato!» «Venne ricattato, ma non devi attribuirne a me il merito. Ho semplicemente sentito parlare di quel piano durante una riunione a Londra tra i vari comandanti che erano stati convocati dal re Huon perché lo informassero sulle campagne in corso in Europa.» Hawkmoon corrugò la fronte. «Ma supponendo che Zhinaga abbia avuto successo... senza riuscire in qualche modo a raggiungere le vostre schiere con Yisselda, perché fermato lungo il cammino dagli uomini del Dio Pazzo...» D'Averc scosse il capo. «Non sarebbero mai stati in grado di andare tanto lontano dalla Francia meridionale. Se lo avessero fatto, noi lo avremmo saputo.» «Allora qual è la spiegazione?» «Domandiamolo a questo gentiluomo», suggerì D'Averc pungolando il fanatico, le cui risatine si erano smorzate ormai, così da essere a malapena udibili. «Speriamo di riuscire a cavare qualcosa di sensato da questo individuo»,
osservò Oladahn dubbioso. «Credi che la tortura riuscirebbe a ottenere lo scopo?» domandò D'Averc. «Ne dubito», disse Hawkmoon. «Non sanno cosa sia la paura. Dobbiamo tentare con qualche altro sistema.» Guardò con disgusto il folle. «Lo lasceremo tranquillo un po', e speriamo che si calmi.» Risalirono sul ponte, chiudendo il coperchio del boccaporto. Il sole cominciava a tramontare, e la linea della costa della Crimia era ormai in vista... una serie di nere rocce scoscese contro un cielo purpureo. Le acque erano calme e baluginavano alla luce del sole morente, e il vento spirava teso verso nord. «Farei bene a correggere la rotta», osservò D'Averc. «A quanto pare stiamo veleggiando un po' troppo verso nord.» Si incamminò lungo il ponte per andare a liberare il timone, orientandolo di parecchi gradi a sud. Hawkmoon annuì con aria assente, osservando D'Averc, la grande maschera gettata all'indietro sul capo, mentre controllava con perizia la rotta della nave. «Ci dovremo ancorare al largo, stanotte», disse Oladahn, «e riprendere il viaggio domattina». Hawkmoon non rispose. La sua mente era occupata completamente da una serie di domande senza risposta. Le fatiche delle ultime ventiquattr'ore lo avevano quasi completamente sfinito, e il terrore che albergava nella sua mente minacciava di condurlo a una pazzia assoluta e spaventosa come quella dell'uomo chiuso nella stiva. *
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Più tardi, nella notte, alla luce delle lampade appese al soffitto, osservarono il volto dell'uomo da loro catturato e immerso nel sonno. Le lampade oscillavano mentre la nave rollava all'ancora, creando ombre mobili sui lati della stiva e sulle grandi cataste di bottino ammucchiate dovunque. Un topo squittì, ma gli uomini ignorarono quel suono. Erano riusciti tutti a riposare per qualche ora e si sentivano più rilassati. Hawkmoon si inginocchiò accanto al prigioniero legato e gli sfiorò la faccia. All'istante gli occhi di lui si spalancarono, guardando tutto attorno con un'espressione ottusa, ma non più folle. L'uomo sembrava perfino un po' interdetto. «Come ti chiami?» domandò Hawkmoon.
«Coryanthum di Kerch... Chi siete? Dove sono?» «Dovresti saperlo», disse Oladahn. «A bordo della tua nave. Non te ne ricordi? Tu e i tuoi compagni avete assalito il nostro veliero. C'è stata una battaglia. Siamo riusciti a sfuggirvi, e tu ci hai inseguito a nuoto cercando di ucciderci.» «Ricordo di essermi messo in viaggio», disse Coryanthum con voce sbigottita, «ma niente altro». Poi incominciò a divincolarsi. «Perché sono legato?» «Perché sei pericoloso», disse D'Averc con noncuranza. «Sei matto.» Coryanthum rise, una risata del tutto naturale. «Matto? Che sciocchezza!» I tre si guardarono interdetti. Era vero che, in quel momento, l'uomo sembrava non essere affatto in preda neppure alla più lieve forma di pazzia. Hawkmoon gli chiese: «Cos'è l'ultimissima cosa che rammenti?» «Il capitano ci ha fatto un discorso.» «Che cosa vi ha detto?» «Che stavamo per prendere parte a una cerimonia... avremmo bevuto una bevanda particolare... Non ricordo molto dopo questo.» Coryanthum si accigliò. «Bevemmo quel liquido...» «Descrivi la vostra vela», disse Hawkmoon. «La nostra vela? Perché?» «C'era qualcosa di particolare in essa?» «No, che ricordi. Era di grossa tela di canapa... di un blu scuro. Questo è tutto.» «Sei il marinaio di un mercante?» si informò Hawkmoon. «Già.» «E questo è il tuo primo viaggio su questa nave?» «Proprio così.» «Quando ti sei arruolato?» Coryanthum parve spazientito. «La scorsa notte, amico. Era il giorno del Cavallo, secondo il calendario di Kerch.» «E secondo il calendario universale?» Il marinaio corrugò la fronte. «Oh... l'undicesimo giorno del terzo mese.» «Tre mesi fa», disse D'Averc. «Eh?» Coryanthum scrutò nelle tenebre il volto del francese. «Tre mesi? Che intendi dire?»
«Sei stato drogato», gli spiegò Hawkmoon. «Drogato e poi utilizzato per compiere le più pazzesche gesta di pirateria delle quali si sia mai sentito parlare. Non sai nulla del culto del Dio Pazzo?» «Ne ho sentito parlare. So che è nato in qualche posto in Ukrania e che i suoi aderenti si sono avventurati nel mondo in questi ultimi tempi... anche in alto mare.» «Lo sai che la tua vela porta adesso il simbolo del Dio Pazzo? E che poche ore fa tu deliravi e sghignazzavi in preda a una folle brama sanguinaria? Guardati...» Hawkmoon si chinò per tagliare la corda che lo teneva legato. «Toccati il collo.» Coryanthum di Kerch si alzò in piedi lentamente, meravigliandosi della propria nudità; le sue dita salirono lentamente a sfiorare il collo e toccarono il collare che lo cingeva. «Io... non capisco. È uno scherzo?» «Uno scherzo diabolico, che noi non abbiamo perpetrato», disse Oladahn. «Sei stato drogato finché non ti ha dato di volta il cervello; poi ti è stato ordinato di uccidere e di impadronirti di tutto il bottino di cui potevi impossessarti. Senza dubbio il tuo 'capitano mercante' era l'unico a sapere che cosa vi sarebbe accaduto, ed è quasi certo che non si trova a bordo, adesso. Non ricordi nulla? Qualche indizio su dove sareste dovuti andare?» «Niente.» «Senza dubbio il capitano intendeva raggiungere la nave in seguito e guidarla in quel qualsiasi porto dov'era solito recarsi», osservò D'Averc. «Forse esiste una nave in periodico contatto con le altre, se sono tutte affidate a individui fuori di senno come questa.» «Deve esserci una cospicua scorta di droga in qualche posto su questa nave», disse Oladahn. «Senza dubbio l'assumevano con regolarità. Soltanto perché lo abbiamo legato, questo tizio non ha potuto rifornirsene di nuovo.» «Come ti senti?» si informò Hawkmoon, rivolto al marinaio. «Debole... svuotato di ogni energia e della vita stessa.» «È comprensibile», disse Oladahn. «Senza dubbio quella droga ti avrebbe ucciso, alla fine. Un piano mostruoso. Prendere degli uomini innocenti, imbottirli di una droga che li fa diventare pazzi e infine distruggerli, per poi servirsene per uccidere, saccheggiare e raccogliere i proventi. Non ho mai sentito niente del genere prima d'ora. Sono convinto che i membri del culto del Dio Pazzo siano soltanto onesti fanatici, ma si direbbe che ci sia una mente più fredda a controllarli.» «In ogni caso, per quanto concerne i mari», asserì Hawkmoon. «Co-
munque, mi piacerebbe trovare l'uomo responsabile di tutto questo. Lui soltanto può sapere dove si trova Yisselda.» «Innanzitutto proporrei di ammainare la vela», disse D'Averc. «Ci faremo trascinare in porto dalla marea. Il modo in cui potremmo essere accolti potrebbe rivelarsi assai poco piacevole se la gente vedesse la nostra vela. Inoltre, possiamo servirci di questo tesoro. Ora siamo degli uomini ricchi!» «Tu sei sempre mio prigioniero, D'Averc», gli rammentò Hawkmoon. «Ma è vero, possiamo approfittare di una parte del tesoro, dal momento che i poveretti cui apparteneva sono ormai tutti morti. Affideremo il resto a qualche onest'uomo, perché ricompensi coloro i quali hanno perduto parenti e beni per mano dei marinai pazzi.» «E poi che faremo?» domandò Oladahn. «Isseremo di nuovo la vela... e aspetteremo che il padrone di questa nave venga a cercarla.» «Siamo sicuri che lo farà? Che cosa succederà se verrà a sapere della nostra visita a Simferopol?» domandò ancora Oladahn. Hawkmoon sorrise torvamente. «Allora senza dubbio sarà ancora più desideroso di scoprire dove siamo.» CAPITOLO OTTAVO L'UOMO DEL DIO PAZZO E così il bottino fu venduto a Simferopol; una parte venne impiegata per approvvigionare la nave e per acquistare nuovi equipaggiamenti e cavalli, e il resto affidato alla custodia di un mercante che tutti raccomandavano come il più onesto dell'intera Crimia. Non molto tempo dopo l'arrivo della nave catturata, la Fanciulla Sorridente giunse zoppicando in porto, e Hawkmoon si affrettò a comperare il silenzio circa la natura del vascello dalle vele nere. Ricuperò i propri averi, compresa la bisaccia da sella contenente il dono di Rinal, e insieme a Oladahn e a D'Averc tornò a imbarcarsi e salpò con la marea della sera. Affidarono Coryanthum alle cure del mercante, perché potesse rimettersi. *
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La nave nera andò alla deriva per più di una settimana,, con il mare per lo più in completa bonaccia, perché il vento era caduto tanto da scomparire quasi del tutto. Stando ai calcoli di Hawkmoon, stavano dirigendosi molto
vicino al canale che separa il mar Nero dal mare d'Azov, nei pressi di Kerch, dove Coryanthum era stato reclutato. D'Averc se ne stava a poltrire in una amaca che aveva appeso per sé al centro della nave, di tanto in tanto facendosi prendere da un teatrale accesso di tosse e sottolineando il fatto che si annoiava. Oladahn sedeva spesso in coffa, scrutando il mare, mentre Hawkmoon andava avanti e indietro sui ponti, incominciando a domandarsi se il suo piano avesse qualche importanza sotto qualsiasi altro riguardo, a parte la sua necessità di sapere che cosa fosse accaduto a Yisselda. Stava addirittura incominciando a dubitare che quell'anello fosse davvero appartenuto a lei, dicendosi che anelli del genere potevano essere stati prodotti in gran numero di esemplari, in Kamarg, nel corso degli anni. Poi, un mattino, all'orizzonte apparve una vela proveniente da nordovest. Oladahn la scorse per primo e gridò a Hawkmoon di salire sul ponte. Hawkmoon si precipitò su e scrutò da quella parte. Poteva trattarsi dello scafo che stavano aspettando. «Scendi di lì», gridò di rimando. «Tutti scendano sotto coperta.» Oladahn si calò lungo le attrezzature, mentre D'Averc, a un tratto pieno di vivacità, balzò dall'amaca e si avviò verso la scaletta che conduceva sottocoperta. Si incontrarono nelle tenebre della stiva centrale e rimasero in attesa... Un'ora parve trascorrere, prima che udissero il tonfo del legno rimbombare contro un'altra parete di legno, e si rendessero conto che la nave avvistata si era affiancata alla loro. Poteva sempre trattarsi di un innocente vascello, il cui equipaggio era stato incuriosito da un'altra imbarcazione alla deriva e, in apparenza, abbandonata. Di lì a non molto Hawkmoon udì un passo di piedi calzati di stivali sul ponte superiore; un passo misurato, lento, che percorse l'intera lunghezza del ponte e poi tornò indietro. Poi di nuovo silenzio, come se l'uomo là sopra fosse entrato in una cabina o si fosse arrampicato sul ponte. *
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La tensione si intensificò, mentre il suono dei passi si faceva riudire, questa volta diretto esattamente verso la stiva centrale. Hawkmoon scorse in alto una sagoma che scrutava giù nelle tenebre, dove se ne stavano acquattati loro tre. La figura esitò un momento, poi incominciò a scendere la scaletta. Mentre l'uomo scendeva, Hawkmoon stri-
sciò avanti. Quando il nuovo venuto ebbe raggiunto il fondo della scala, Hawkmoon balzò in piedi, passando un braccio attorno alla gola dell'uomo. Era un gigante, alto più di un metro e novanta, con un'enorme e ispida barba nera e capelli a trecce, e sul petto, sopra la camicia di seta nera, indossava una corazza di ottone. L'uomo grugnì per la sorpresa e ruotò su se stesso, trascinandosi dietro Hawkmoon. Il gigante era incredibilmente forte. Le sue dita enormi si portarono sul braccio di Hawkmoon e incominciarono a far leva per liberarsi. «Presto... venite ad aiutarmi a tenerlo», gridò Hawkmoon, e i suoi amici accorsero, scagliandosi contro il gigante per avere la meglio su di lui. D'Averc sguainò la spada. Con la maschera da cinghiale sul volto «e l'elaborata armatura della Gran Bretagna appariva pericoloso e terribile, mentre con delicatezza piazzava la punta della spada contro la gola del gigante. «Come ti chiami?» domandò D'Averc, con la voce che rimbombava sotto l'elmo. «Sono il capitano Shagarov. Dov'è il mio equipaggio?» Il gigante dal barbone nero rivolse loro uno sguardo torvo, imperturbabile nonostante la cattura. «Dov'è la mia ciurma?» «Intendi gli uomini pazzi che hai mandato a uccidere?» domandò Oladahn. «Sono affogati, tutti meno uno; e lui ci ha parlato della tua diabolica perfidia.» «Imbecilli!» imprecò Shagarov. «Siete tre uomini. Credete di riuscire a intrappolarmi... quando ho una nave gremita di marinai pronti a combattere qui a portata di mano?» «Ci siamo sbarazzati dell'intero equipaggio di una nave, come avrai notato», gli rispose D'Averc con una risatina. «Adesso che ci siamo familiarizzati con quel lavoro, senza dubbio riusciremo a sbarazzarci anche di quest'altro.» Per un momento la paura si insinuò negli occhi di Shagarov, poi la sua espressione si indurì. «Non vi credo. Quelli che viaggiavano su questa nave vivevano soltanto per uccidere. Come avete fatto...» «Bene, ci siamo riusciti», fece D'Averc. Voltò la testa ricoperta dal grande elmo verso Hawkmoon. «Saliamo sul ponte e mettiamo in pratica il resto del nostro piano?» «Un momento.» Hawkmoon si chinò, portandosi molto vicino a Shagarov. «Voglio interrogarlo. Shagarov... hanno mai catturato una ragazza, i tuoi uomini?»
«Hanno l'ordine di non uccidere nessuna ragazza, ma di consegnarle a me.» «Perché?» «Non lo so... mi è stato ordinato di mandargli le ragazze... e io gliele mando.» Shagarov rise. «Non potrete trattenermi a lungo, sapete? Sarete morti tutti e tre di qui a un'ora. Gli uomini incominceranno a insospettirsi.» «Perché non ne hai portato nessuno a bordo con te? Forse perché non sono fanatici? Perché anche loro potrebbero rimanere disgustati da quello che troverebbero?» Shagarov fece una spallucciata. «Arriveranno, quando griderò.» «Forse», disse D'Averc. «Alzati, prego.» «Queste ragazze», continuò Hawkmoon. «Dove le mandi... e da chi?» «Nell'interno, naturalmente, dal mio padrone... il Dio Pazzo.» «E così tu servi il Dio Pazzo. Tu non inganni la gente facendo loro credere che questi atti di pirateria siano compiuti dai suoi seguaci.» «Già... sono al suo servizio, sebbene non sia un membro del culto. I suoi agenti mi pagano bene per razziare i mari e mandare a lui il bottino.» «Perché si serve di questo sistema?» Shagarov sogghignò. «Il culto non dispone di marinai. E così uno di loro ha ideato questo piano per fare soldi... sebbene non sappia quali siano gli scopi ai quali è destinato il bottino. Così si sono rivolti a me.» Si alzò in piedi, torreggiando sopra di loro. «Andiamo... saliamo sul ponte. Mi divertirà vedere quello che farete.» D'Averc annuì rivolto agli altri due, che indietreggiarono nell'ombra dove si procurarono lunghi tizzoni spenti, uno per ciascuno di loro. D'Averc incitò Shagarov a seguire Oladahn su per la scaletta del boccaporto. Lentamente salirono sul ponte, per emergere infine nella luce del sole e scorgere un grande e meraviglioso tre alberi ancorato accanto alla loro nave. Gli uomini a bordo dell'altra imbarcazione si resero subito conto di quanto era accaduto e fecero il gesto di slanciarsi avanti, ma Hawkmoon piazzò la spada tra le costole di Shagarov e gridò: «Non muovetevi, altrimenti ammazzerò il vostro capitano». «Ammazzatemi e loro ammazzeranno voi», tuonò Shagarov. «Chi ci guadagnerà?» «Zitto», disse Hawkmoon. «Oladahn, accendi le torce.» Oladahn avvicinò l'acciarino e l'esca alla torcia, che fiammeggiò subito. Accese le altre servendosi della prima e le porse ai compagni.
«Ebbene», disse Hawkmoon, «questa nave è stata cosparsa di petrolio. Se lo sfioriamo con le torce, l'intero vascello si trasformerà in un rogo, e con ogni probabilità prenderà fuoco anche il vostro. Perciò vi avvertiamo di non prendere iniziative per soccorrere il vostro capitano». «E così bruceremo tutti», disse Shagarov. «Siete matti quanto quelli che avete trucidato.» Hawkmoon scosse il capo. «Oladahn, prepara la scialuppa.» Oladahn si diresse a poppa, verso il boccaporto più lontano, mise in funzione un argano sopra di esso, sollevandone il coperchio, poi scomparve sottocoperta, portando con sé il cavo. Hawkmoon vide gli uomini dell'altra nave incominciare ad agitarsi e mosse minacciosamente la torcia. Il calore della fiamma gli aveva arrossato il volto e il fuoco si rifletteva con fieri bagliori nei suoi occhi. In quel momento Oladahn riemerse e incominciò a far funzionare la manovella di quel particolare meccanismo con una mano, mentre con l'altra continuava a reggere la torcia. Lentamente qualcosa incominciò ad apparire nel boccaporto, qualcosa che poteva a malapena passare attraverso l'ampia apertura. Shagarov grugnì di sorpresa quando vide che si trattava di una grande scialuppa, nella quale trovavano posto tre cavalli bardati che sembravano spaventati e sbigottiti mentre venivano issati sul ponte e poi sospesi sulle acque del mare. Oladahn smise di girare la manovella e si appoggiò all'indietro contro il meccanismo, ansimando e sudando, ma fece attenzione a tenere ben lontana la torcia dal legname del ponte. Shagarov aggrottò le sopracciglia. «Un piano complicato ma continuate a essere soltanto in tre. Che cosa intendete fare adesso?» «Impiccarti», disse Hawkmoon, «e sotto gli occhi della tua ciurma. Sono stati due i motivi che mi hanno indotto a tenderti questa trappola. Il primo, perché avevo bisogno di informazioni. Il secondo, perché sono deciso a renderti giustizia». «Quale giustizia?» muggì Shagarov, con gli occhi colmi di terrore. «Perché vi immischiate degli affari altrui? Non vi abbiamo fatto alcun danno. Quale giustizia?» «La giustizia di Hawkmoon», disse il duca di Köln, con il volto teso. Sfiorata dai raggi del sole, la sinistra gemma nera sulla sua fronte parve emettere fiamme. «Uomini!» urlò Shagarov rivolto ai suoi marinai. «Uomini, venite a sal-
varmi. Attaccateli.» D'Averc gridò di rimando: «Se fate un movimento per avvicinarvi, lo ammazziamo e diamo fuoco alla nave. Non ci guadagnate niente. Se salvaguarderete le vostre vite e la vostra nave, potrete andarvene e allontanarvi da noi. Ce l'abbiamo soltanto con Shagarov». Come si erano aspettati, gli uomini comandati dal pirata non provavano affatto alti sentimenti di lealtà per il loro capitano, e quando le loro stesse vite erano minacciate, non si sentivano molto inclini ad andare in suo soccorso. Eppure non sganciarono i grappini di arrembaggio, ma aspettarono di vedere che cosa avrebbero fatto in seguito i tre uomini. In quel momento Hawkmoon stava volteggiando sulla crocetta. Portava con sé una corda con un nodo scorsoio già pronto. Quando ne raggiunse l'estremità, fece passare la corda sul pennone in modo da farla pendere sull'acqua, la legò saldamente e ridiscese adagio sul ponte. Regnava adesso un gran silenzio, mentre Shagarov si rendeva conto che non avrebbe ricevuto alcun aiuto dai suoi uomini. A poppa, la scialuppa con il suo carico dei cavalli e delle provviste oscillava lievemente nell'aria, mentre gli argani cigolavano. Le torce baluginavano e scoppiettavano nelle mani dei tre compagni. Shagarov urlò e cercò di liberarsi, ma tre spade lo indussero a calmarsi, con le punte appoggiate alla sua gola, al petto e al ventre. «Non potete...» incominciò Shagarov, ma poi desistette, scorgendo le facce decise dei tre. Oladahn si protese e agganciò il cappio con la spada, portandolo sulla balaustra. D'Averc spinse avanti Shagarov, Hawkmoon afferrò il capestro e lo allargò per metterlo intorno al collo di Shagarov. Poi, mentre esso veniva sistemato, Shagarov muggì e colpì Oladahn, che era appollaiato sulla balaustra. Con un grido di sorpresa, l'ometto vacillò e cadde nell'acqua. Hawkmoon trattenne il respiro e si precipitò a vedere che fine avesse fatto Oladahn. Shagarov si voltò verso D'Averc, sferrò un colpo alla spada cercando di fargliela cadere di mano, ma D'Averc fece un passo indietro e brandì la spada sotto il naso di Shagarov. Il comandante dei pirati gli sputò in faccia e balzò sulla balaustra, sferrando calci a Hawkmoon che aveva tentato di fermarlo; poi il capitano saltò nel vuoto. Il cappio si strinse, il pennone si curvò, quindi tornò a raddrizzarsi e il corpo del capitano Shagarov danzò selvaggiamente su e giù. L'osso del collo si spezzò, ed egli morì.
D'Averc si precipitò sulla fiaccola caduta, ma essa aveva già appiccato fuoco al ponte imbevuto di petrolio. Egli incominciò a calpestare le fiamme. Hawkmoon si precipitò a lanciare una fune a Oladahn, il quale, grondante, incominciò ad arrampicarsi sul fianco della nave, senza aver risentito affatto della nuotata. Adesso la ciurma dell'altro vascello stava incominciando a borbottare e ad agitarsi, e Hawkmoon si domandò perché non tagliassero le corde. «Andatevene!» gridò, mentre Oladahn raggiungeva di nuovo il ponte. «Non potete più salvare il vostro capitano, ormai... e siete in pericolo a causa del fuoco!» Ma quelli non si mossero. «Il fuoco, imbecilli!» Oladahn indicò D'Averc, il quale si stava allontanando dalle fiamme che ormai si levavano alte, raggiungendo l'albero e le sovrastrutture. D'Averc rise. «Andiamo alla nostra barchetta.» Hawkmoon gettò la propria torcia accanto a quella di D'Averc e si voltò. «Ma perché non se ne vanno?» «Il tesoro», disse D'Averc, mentre calavano la scialuppa in mare, con i cavalli che stronfiavano annusando l'odore del fuoco. «Sono convinti che a bordo ci sia ancora il tesoro.» Non appena la scialuppa fu in acqua, scesero lungo le funi entro la barca e le tagliarono, lasciandosi andare alla deriva. Ormai la nave era una massa di fiamme e di fumo. Contro l'incendio si stagliava il corpo oscillante di Shagarov, che girava da questa e da quella parte, quasi volesse evitare il calore infernale. I tre issarono la vela della scialuppa e la brezza la gonfiò, portandoli lontani dal vascello in fiamme. In quel momento, al di là di esso, riuscirono a scorgere la nave pirata con una vela che si stava annerendo dove erano cadute le scintille provenienti dall'imbarcazione incendiata. Alcuni uomini dell'equipaggio stavano dandosi da fare per allontanarsi, mentre altri erano riluttanti a tranciare i grappini di arrembaggio. Ancora non si poteva dire in quel momento se il fuoco si sarebbe appiccato anche alla loro nave. Ben presto la scialuppa venne a trovarsi troppo lontana perché i tre potessero vedere se la nave pirata fosse riuscita a cavarsela dall'incendio oppure no; nella direzione opposta si incominciava a scorgere la terraferma. La terra di Crimia e, al di là di essa, l'Ukrania. E in qualche luogo, in Ukrania, avrebbero trovato il Dio Pazzo, i suoi
seguaci, e forse Yisselda... LIBRO SECONDO In quel momento, mentre Dorian Hawkmoon e i suoi compagni veleggiavano verso le coste montagnose della Crimia, gli eserciti dell'Impero Nero premevano contro la piccola terra di Kamarg, con l'ordine del reimperatore Huon di non badare alle perdite in vite umane, di non risparmiare energie, risorse e fatiche: bisognava piegare, e infine distruggere, quei villani rifatti che osavano resistere alla Gran Bretagna. Attraverso il Ponte d'Argento, che sovrastava trenta chilometri di mare, arrivavano le orde dell'Impero Nero: maiali e lupi, avvoltoi e cani, mantidi e rane, con armature dagli strani disegni e armi di lucente metallo. E nel suo trono a forma di globo, raggomitolato come un feto nel fluido che gli garantiva l'immortalità, il re Huon ardeva di odio contro Hawkmoon, il conte Brass e gli altri che, in qualche modo, egli non poteva riuscire a influenzare come influenzava il resto del mondo. Era quasi come se una forza contraria li sostenesse... forse dominandoli come a lui non era possibile. E il reimperatore non riusciva a tollerare quel pensiero... Molto dipendeva dai pochi che si trovavano fuori dell'influenza di re Huon, i pochi spiriti liberi: Hawkmoon, Oladahn, forse D'Averc, il misterioso Guerriero in Giaietto e Oro, Yisselda, il conte Brass e un pugno di altri. Perché su questi la Bacchetta Magica faceva assegnamento per la attuazione dei suoi disegni riguardanti il destino... LA GRANDE STORIA DELLA BACCHETTA MAGICA CAPITOLO PRIMO IL GUERRIERO IN ATTESA Mentre si avvicinavano alle brulle rocce scoscese della costa, Hawkmoon guardò incuriosito D'Averc, che aveva spinto indietro il proprio elmo a forma di testa di cinghiale e fissava il mare aperto con un sorrisetto sulle labbra. D'Averc parve percepire lo sguardo di Hawkmoon e lo sbirciò. «Sembri interdetto, duca Dorian», disse. «Non sei compiaciuto, almeno un po', per la riuscita del nostro piano?» «Già», annuì Hawkmoon. «Ma mi sto ponendo qualche domanda su di
te, D'Averc. Ti sei unito a noi in questa avventura del tutto spontaneamente; eppure non c'era niente da guadagnare per te, in questa faccenda. Sono sicuro che tu non provassi grande interesse nel dare a Shagarov quello che si meritava, e senza dubbio non condividi la mia ansia nel voler conoscere il destino di Yisselda. Inoltre non hai fatto alcun tentativo, a quanto mi risulta, per fuggire.» Il sorriso di D'Averc si fece un poco più ampio. «Perché avrei dovuto? Tu non minacci la mia vita. In effetti te la devo. A questo punto le mie fortune sembrano più strettamente legate alle tue che non a quelle dell'Impero Nero.» «Ma la tua lealtà non è per me e per la mia causa.» «La mia lealtà, caro duca, come ho già spiegato altre volte, va alla causa che ha maggiori probabilità di assecondare le mie ambizioni. Devo ammettere di aver cambiato i miei punti di vista circa la inanità della vostra causa. Sembra favorita da una fortuna così mostruosa, da indurmi talvolta a pensare che tu possa riuscire a vincere contro l'Impero Nero. Perciò, se ritengo possibile una tale eventualità, non vedo perché non dovrei unirmi a te, e con grande entusiasmo.» «Non stai impiegando il tuo tempo, forse, nella speranza di rovesciare i ruoli un'altra volta e catturarmi per i tuoi padroni?» «Nessun diniego potrebbe convincerti», disse sorridendo D'Averc, «perciò non mi prenderò la briga di negare.» L'enigmatica risposta indusse Hawkmoon ad accigliarsi di nuovo. Come se avesse voluto por termine a quella conversazione, D'Averc a un tratto si piegò in due a causa di un accesso di tosse e giacque nella barca, ansimando. Oladahn gridò in quel momento dalla prua. «Duca Dorian! Guarda... sulla spiaggia!» Hawkmoon scrutò davanti a sé. Sotto le pareti rocciose che apparivano indistinte, riuscì a scorgere una stretta striscia di spiaggia ciottolosa. Un uomo a cavallo si stagliava sulla spiaggia, immobile, intento a guardare dalla loro parte come se li aspettasse con qualche particolare messaggio. La chiglia della scialuppa urtò contro i ciottoli della riva e Hawkmoon riconobbe il cavaliere che li aspettava all'ombra della scogliera. Hawkmoon balzò giù dalla barca e gli si avvicinò. Il cavaliere era completamente rivestito, dalla testa ai piedi, di un'armatura metallica e teneva il capo, coperto dall'elmo, abbassato come fosse immerso in profondi pensieri.
«Sapevi che sarei arrivato qui?» domandò Hawkmoon. «Sembrava che avresti potuto approdare in questo particolare luogo», rispose enigmatico il Guerriero in Giaietto e Oro. «E così ti ho aspettato.» «Capisco.» Hawkmoon lo fissò, incerto su quello che avrebbe detto in seguito. «Capisco...» D'Averc e Oladahn si fecero avanti verso di loro rumorosamente a causa dei ciottoli. «Conosci questo gentiluomo?» domandò D'Averc in tono noncurante. «È una mia vecchia conoscenza», disse Hawkmoon. «Sei Sir Huillam D'Averc», disse il Guerriero in Giaietto e Oro con voce sonora. «Ti vedo indossare ancora gli abiti che usano in Gran Bretagna.» «Si adattano ai miei gusti», rispose D'Averc. «Non ti ho sentito presentarti.» Il Guerriero in Giaietto e Oro ignorò D'Averc, sollevando una mano guantata e grave per indicare Hawkmoon. «Questi è l'unico con il quale possa parlare. Sei alla ricerca della tua fidanzata, Yisselda, duca Dorian, e potrai cercarla dal Dio Pazzo.» «Yisselda è prigioniera del Dio Pazzo?» «In un certo senso, sì. Ma tu devi cercare il Dio Pazzo per un'altra ragione.» «È viva? Yisselda è viva?» domandò con insistenza Hawkmoon. «È viva.» Il Guerriero in Giaietto e Oro si agitò sulla sella. «Ma devi distruggere il Dio Pazzo, prima che possa essere di nuovo tua. Devi distruggere il Dio Pazzo e strappargli l'Amuleto Rosso dal collo... perché l'Amuleto Rosso ti appartiene di diritto. Il Dio Pazzo ha rubato due cose, ed entrambe le cose ti appartengono: la ragazza e l'amuleto.» «Yisselda è mia, senza dubbio, ma non so niente di nessun amuleto. Non ne ho mai posseduto uno.» «Questo è l'Amuleto Rosso, ed è tuo. Il Dio Pazzo non ha il diritto di portarlo, e per questo motivo esso lo ha fatto impazzire.» Hawkmoon sorrise. «Se tale è il potere dell'Amuleto Rosso, allora il Dio Pazzo è la persona più indicata per quel talismano.» «Non è argomento sul quale si possa fare dello spirito, duca Dorian. L'Amuleto Rosso ha fatto impazzire il Dio Pazzo perché egli lo ha rubato a un servo della Bacchetta Magica. Ma se un servo della Bacchetta Magica lo porta, allora ne ricava il grande potere che la Bacchetta Magica trasmette mediante l'amuleto. Soltanto chi lo porta senza averne il diritto impazzi-
sce. Soltanto chi ha il diritto di portarlo può riconquistarlo una volta che qualcun altro lo porti. Perciò io non posso portarglielo via; non può farlo nessun uomo, tranne Dorian Hawkmoon von Köln, servo della Bacchetta Magica.» «Mi definisci sempre 'Servo della Bacchetta Magica', eppure non so nulla dei compiti che devo assolvere; talvolta penso che tutto ciò non sia che una costruzione fantastica e tu stesso una specie di fanatico.» «Pensa quello che vuoi. Comunque non ci sono dubbi; non è forse vero che stai cercando il Dio Pazzo e che il tuo più grande desiderio è quello di trovarlo?» «Di trovare Yisselda, la sua prigioniera...» «Se così preferisci. Bene, allora non ho bisogno di fare opera di convinzione per la tua missione.» Hawkmoon si accigliò. «C'è stata una serie di strane coincidenze da quando mi sono imbarcato per il viaggio da Hamadan. È stata una cosa a malapena credibile.» «Non esistono coincidenze per quanto riguarda la Bacchetta Magica. Talvolta il disegno è evidente, talvolta no.» Il Guerriero in Giaietto e Oro si voltò sulla sella e indicò un sentiero tortuoso tagliato nel fianco della scogliera. «Possiamo salire da quella parte, accamparci e riposare lassù. Nella mattinata incominceremo il viaggio verso il castello del Dio Pazzo.» «Sai dove si trova?» domandò Hawkmoon pieno di impazienza, dimentico di tutti i suoi altri dubbi. «Certo.» Poi Hawkmoon ebbe un'altra idea. «Non è... non è una tua macchinazione, questa cattura di Yisselda? Una macchinazione per costringermi a cercare il Dio Pazzo?» «Yisselda fu fatta prigioniera da un traditore appartenente all'esercito di suo padre, Juan Zhinaga, che progettava di portarla in Gran Bretagna. Ma fu ingannato dai guerrieri dell'Impero Nero, che volevano far credere di essere loro gli autori del rapimento. Mentre loro combattevano, Yisselda fuggì e si unì a una carovana di profughi che attraversavano l'Italia, facendo in modo di ottenere un passaggio, qualche tempo dopo, su un'imbarcazione in navigazione nel mar Adriatico, diretta in Provenza. Ma la nave era in realtà uno scafo negriero che portava fanciulle in Arabia, e nel golfo di Sidra venne assalito da un vascello pirata proveniente dai Karpathos.» «È una storia incredibile. E poi che cosa accadde?» «I karpatici decisero di chiedere un riscatto per lei, non sapendo che la
Kamarg era assediata; rendendosi poi conto dell'impossibilità di ottenere denaro da quella parte, decisero di portarla a Istanbul per venderla, ma quando vi giunsero trovarono il porto gremito dalle navi dell'Impero Nero. Per timore di queste ultime, ripresero il mare, ma nel mar Nero vennero aggrediti dalla nave che avete appena incendiato...» «Conosco il resto. La mano che ho trovato doveva appartenere a un pirata che rubò l'anello a Yisselda. Ma è un racconto confuso, e non ha davvero l'aria di corrispondere al vero. Le coincidenze...» «Te l'ho detto, non esistono coincidenze quando è coinvolta la Bacchetta Magica. Talvolta il disegno sembra più semplice che in altre circostanze.» Hawkmoon sospirò. «È illesa?» «Relativamente.» «Che cosa vuoi dire?» «Aspetta di essere giunto al castello del Dio Pazzo.» Hawkmoon cercò di interrogare ancora il Guerriero in Giaietto e Oro, ma l'enigmatico personaggio serbò un assoluto silenzio: restò in sella al suo cavallo, in apparenza immerso in profondi pensieri, mentre Hawkmoon andava a dare una mano a Oladahn e a D'Averc per far scendere dalla scialuppa i tre innervositi cavalli e scaricare il resto delle provviste che avevano portato con sé. Hawkmoon trovò la propria logora bisaccia da sella ancora intatta e se ne meravigliò, perché continuava a sopportare molto bene tutti i maltrattamenti dovuti alle loro avventure. Quando furono pronti, il Guerriero in Giaietto e Oro voltò il cavallo senza pronunciare una parola e li guidò verso il ripido sentiero sulla scogliera, incominciando a salirlo senza fermarsi. I suoi tre compagni furono invece costretti a smontare e a seguirlo a un passo più lento. Diverse volte uomini e cavalli incespicarono e parvero sul punto di precipitare, alcune pietre rotolarono sotto i loro passi finendo sulla spiaggia, che si trovava adesso molto più in basso rispetto ai quattro cavalieri. Ma infine raggiunsero la sommità della scogliera e si trovarono di fronte a una pianura ondulata che sembrava stendersi all'infinito. Il Guerriero in Giaietto e Oro indicò a ovest. «Domani mattina ci dirigeremo da quella parte, verso il Ponte Pulsante. Al di là di esso si stende l'Ukrania, e il castello del Dio Pazzo si trova a molti giorni di viaggio nell'interno. Siate cauti, perché le truppe dell'Impero Nero si aggirano in questa zona.» Rimase a guardarli mentre preparavano l'accampamento. D'Averc alzò gli occhi verso di lui: «Vuoi farci compagnia a cena, signore?» disse in to-
no quasi ironico. Ma la grande testa coperta dall'elmo rimase chinata, e sia il cavallo sia il cavaliere si mantennero immobili come una statua, e restarono così per tutta la notte. Hawkmoon giacque nella sua tenda, sbirciando la sagoma del Guerriero in Giaietto e Oro e domandandosi se quella creatura fosse in qualche modo un essere umano, se l'interesse che quell'individuo manifestava per lui fosse, in ultima analisi, benigno o maligno. Sospirò. Voleva soltanto trovare Yisselda, salvarla e riportarla in Kamarg, e laggiù rassicurarsi che la provincia continuava a tener testa all'Impero Nero. Ma la sua vita era complicata da quello strano mistero della Bacchetta Magica, e da qualche fato al quale doveva assoggettarsi e che si conciliava con lo «schema» della Bacchetta Magica. Eppure la Bacchetta Magica era un oggetto, non un essere intelligente. O lo era? Era il più grande potere che si potesse chiamare in causa quando si faceva un giuramento. Si riteneva che controllasse tutta la storia dell'umanità. Perché, allora, si domandò, aveva bisogno di «servi» se, in effetti, tutti gli uomini erano al suo servizio? Ma, forse, non tutti gli uomini lo erano. Forse si presentavano di tanto in tanto forze... come l'Impero Nero... che si opponevano allo schema della Bacchetta Magica per i destini umani. In quel caso, allora, forse la Bacchetta Magica aveva bisogno di servitori. Hawkmoon si sentì confuso. Non aveva la mente adatta per ragionamenti profondi di quel genere, non erano per lui le speculazioni filosofiche. Di lì a non molto si addormentò. CAPITOLO SECONDO IL CASTELLO DEL DIO PAZZO Per due giorni continuarono a cavalcare finché giunsero al Ponte Pulsante, il quale si stendeva su uno stretto del mare tra due alte scogliere distanti fra loro alcuni chilometri. Il Ponte Pulsante era uno spettacolo stupefacente, perché non sembrava fatto di alcun genere di sostanza solida, ma piuttosto da un gran numero di raggi di luce colorata che si incrociavano e che sembravano in qualche modo essersi intrecciati. Fra i colori si distinguevano l'oro, il blu vivido, un acceso e splendente scarlatto, il verde e un giallo luminoso. Tutto il ponte pulsava come un organo dotato di vita, e sotto di esso il mare schiumava sulle rocce taglienti.
«Che cos'è?» domandò Hawkmoon al Guerriero in Giaietto e Oro. «Senza dubbio non si tratta di una cosa normale.» «È una antica costruzione», disse il guerriero, «edificata da una scienza ormai dimenticata e da una altrettanto dimenticata razza che sorse in un certo periodo fra la caduta della Pioggia di Morte e il Principato. Chi erano quegli esseri e come vennero portati in vita e poi alla morte, non lo sappiamo». «Di certo tu lo sai», disse D'Averc scherzoso. «Mi deludi. Ti avevo creduto onnisciente.» Il Guerriero in Giaietto e Oro non rispose. Le luci emanate dal Ponte Pulsante si riflettevano sulle loro carnagioni e sulla sua armatura, macchiandola con un'infinità di colori. I cavalli incominciarono a impennarsi e divenne difficile controllarli, mentre si dirigevano verso il grande ponte di luce. Il cavallo di Hawkmoon incominciò a sgroppare e a stronfiare, ed egli accorciò le redini, costringendolo ad andare avanti. Infine gli zoccoli dell'animale toccarono le vibranti luci del ponte e la bestia si calmò, accorgendosi che il ponte avrebbe in realtà sostenuto senza sforzo il suo peso. Il Guerriero in Giaietto e Oro stava già attraversandolo e il suo corpo sembrava ardere in mezzo a una aureola multicolore, e anche Hawkmoon vide quelle strane luci serpeggiare intorno al corpo del cavallo e poi avvolgere lui stesso in una magica radiazione. Guardandosi indietro, vide Oladahn e D'Averc risplendere come esseri di un altro pianeta mentre procedevano adagio lungo il ponte di luce palpitante. Sotto di loro, indistinto attraverso l'intrico dei raggi, si scorgeva il mare grigio e gli scogli circondati di schiuma. Nelle orecchie di Hawkmoon, inoltre, crebbe e si intensificò un suono mormorante, musicale e piacevole, e inoltre sembrava che tutta la struttura del suo essere vibrasse dolcemente all'unisono con il ponte stesso. Giunsero infine al termine di esso e Hawkmoon si sentì pieno di rinnovate energie, come se avesse goduto di diversi giorni di riposo. Accennò al fenomeno con il Guerriero in Giaietto e Oro, il quale disse: «Già, è questa un'altra delle proprietà del Ponte Pulsante, mi è stato detto». Poi continuarono a cavalcare, e soltanto un tratto di terraferma li divideva ormai dal covo del Dio Pazzo. *
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Al terzo giorno di viaggio aveva incominciato a piovere, una pioggerella sottile che li raggelò e depresse i loro animi. I cavalli avanzarono faticosamente attraverso la vasta e fradicia pianura ukraniana, e sembrava che quel mondo grigio non dovesse più aver fine. Al sesto giorno di cammino, il Guerriero in Giaietto e Oro sollevò il capo e fermò il cavallo, facendo cenno anche agli altri di fermarsi. Sembrava che stesse ascoltando qualcosa. Ben presto anche Hawkmoon udì un rumore... un rombo come quello prodotto dagli zoccoli di cavalli in corsa. Poi un centinaio di cavalieri con copricapi e mantelli di pelle di pecora, con lunghe lance e sciabole assicurate alle spalle apparvero su una lieve altura alla loro sinistra. Sembravano in preda ai panico e, senza accorgersi dei quattro spettatori, li oltrepassarono cavalcando a una velocità fantastica, frustando le reni delle proprie cavalcature tanto da farle sanguinare. «Che succede?» gridò Hawkmoon. «Perché state fuggendo?» Uno dei cavalieri si voltò sulla sella, senza rallentare. «L'esercito dell'Impero Nero!» urlò, e continuò la sua corsa. Hawkmoon si accigliò. «Dovremo continuare in questa direzione?» domandò al guerriero. «Sarà bene trovare un'altra strada!» «Nessuna strada è sicura», gli rispose il Guerriero in Giaietto e Oro. «Possiamo benissimo continuare su questa.» Di lì a una mezz'ora scorsero del fumo in lontananza. Si trattava di un fumo denso, oleoso, che serpeggiava sul terreno e puzzava. Hawkmoon sapeva che cosa significasse quel fumo ma non disse nulla, finché, in seguito, giunsero a una città che stava bruciando e videro eretta nella piazza una enorme piramide di cadaveri tutti nudi. Uomini, donne e bambini, e anche animali, erano ammucchiati, senza discriminazione, gli uni sugli altri e bruciati. Era quella pira di carne a produrre il fumo dalla puzza infernale, ed esisteva una sola specie di individui, per quanto ne sapeva Hawkmoon, che potesse abbandonarsi ad atti del genere. I cavalieri avevano ragione; i soldati dell'Impero Nero si trovavano nei paraggi. Tutto stava a dimostrare che un intero battaglione di quelle truppe aveva conquistato la città e l'aveva saccheggiata. Aggirarono la città, dal momento che non avrebbero potuto fare niente, e con l'animo ancora più abbattuto continuarono il viaggio, facendo attenzione adesso a qualsiasi segno che denunciasse la presenza delle truppe della Gran Bretagna.
Oladahn, che non aveva ancora assistito a simili atrocità perpetrate dall'Impero Nero, era l'unico visibilmente scosso da quanto avevano appena visto. «Senza dubbio», disse, «i comuni mortali non possono... non possono...» «Non si considerano comuni mortali», disse D'Averc. «Si considerano semidei, e i loro governanti veri dei.» «Ciò giustifica ai loro occhi tutti gli atti immorali ai quali si abbandonano», osservò Hawkmoon. «E per di più, amano lasciare dietro di sé la distruzione, diffondere il terrore, torturare e uccidere. Proprio come certi animali, il ghiottone ad esempio, per il quale l'impulso di uccidere è più forte perfino dell'impulso alla vita; e così è per i sudditi dell'Impero Nero. Le isole hanno dato origine a una razza di fanatici, le cui azioni e i cui pensieri sono del tutto estranei a chi non sia nato in Gran Bretagna.» La deprimente pioggerella continuò a cadere, mentre si allontanavano dalla città e dalla sua puzzolente pira. «Non ci vuole ancora molto per arrivare al castello del Dio Pazzo», disse il Guerriero in Giaietto e Oro. *
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Il mattino seguente giunsero in un'ampia e poco profonda vallata e a un piccolo lago, sul quale si alzava una grigia nebbia. Oltre il lago si scorgeva la sagoma nera, cupa di un edificio, costruito con pietre rozzamente tagliate, che sorgeva sull'altro lato dello specchio d'acqua. A circa metà strada tra il punto in cui si trovavano e il castello, poterono scorgere una massa di tuguri cadenti, assiepati sulla riva, e qualche imbarcazione tirata in secco nelle vicinanze. Alcune reti erano state appese fuori per asciugare, ma non c'era traccia dei pescatori che le adoperavano. La giornata era buia, fredda e deprimente e una atmosfera spaventosa avvolgeva il lago, il villaggio e il castello. I tre uomini seguirono riluttanti il Guerriero in Giaietto e Oro mentre questi avanzava, aggirando il lago, diretto al castello. «Che cosa ne sai di questo culto del Dio Pazzo?» sussurrò Oladahn. «Quanti sono gli uomini agli ordini del dio? E sono feroci come quelli che abbiamo combattuto sulla nave? Il guerriero non avrà mica sottovalutato le loro forze e sopravvalutato il nostro coraggio?» Hawkmoon si strinse nelle spalle, mentre tutti i suoi pensieri andavano a Yisselda. Scrutò il grande castello nero, domandandosi dove fosse impri-
gionata. Quando giunsero al villaggio di pescatori, si resero conto del perché fosse tanto silenzioso. I suoi abitanti erano stati tutti trucidati, fino all'ultimo, e fatti a pezzi con le spade o con le scuri. Alcune delle armi erano ancora conficcate nei crani degli uomini e anche delle donne. «L'Impero Nero!» disse Hawkmoon. Ma il Guerriero in Giaietto e Oro scosse il capo. «Non è opera loro. Non sono loro le armi. Né il metodo.» «Allora... che cosa...?» mormorò Oladahn rabbrividendo. «Il culto?» Il guerriero non rispose. Trattenne invece con le redini il proprio cavallo e smontò, dirigendosi poi con gravità verso il cadavere più vicino. Gli altri lo imitarono, guardandosi prudentemente attorno. Il guerriero indicò il cadavere. «Tutti questi facevano parte del culto. Qualcuno veniva impiegato per la pesca, per procurare i viveri al castello. Altri vivevano nel castello stesso. Alcuni di questi vengono dal castello.» «Hanno combattuto fra loro?» suggerì D'Averc. «In un certo senso, può darsi», rispose il guerriero. «Che cosa intendi?...» incominciò a dire Hawkmoon, ma poi si voltò, mentre un grido raggelante provenne da dietro le baracche. Sguainarono tutti le spade, disponendosi a semicerchio,' pronti a un attacco proveniente da un punto qualsiasi. Ma quando l'attacco venne sferrato, la natura degli attaccanti fece sì che Hawkmoon abbassasse la spada, momentaneamente sbigottito. Giunsero correndo in mezzo alle case, con le spade e le asce sollevate. Erano abbigliati con pettorali di metallo e gonnellini di pelle, e nei loro occhi brillava una fiamma di ferocia. Le labbra si ritraevano sui denti in un ringhio bestiale. I denti luccicavano candidi e la bava fuoriusciva dalle loro labbra. Ma non era questo a lasciare attoniti Hawkmoon e i suoi compagni. Era il loro sesso; perché tutti i fanatici guerrieri urlanti che si stavano precipitando su di loro erano donne di incredibile bellezza. Mentre lentamente riassumeva la sua posizione di difesa, Hawkmoon cercò disperatamente con lo sguardo fra quei volti quello di Yisselda, e si senti sollevato quando non lo scorse. «E così questa è la ragione per la quale il Dio Pazzo pretendeva che gli venissero inviate le ragazze», ansimò D'Averc. «Ma perché?» «È un dio malvagio, a quanto ho capito», disse il Guerriero in Giaietto e Oro, mentre sollevava la spada per fronteggiare l'assalto della prima delle
donne guerriere. Sebbene difendesse se stesso disperatamente contro le armi delle donne dalla faccia stravolta, Hawkmoon non trovò il coraggio di contrattaccare. Esse lasciavano molte possibilità alla sua spada, e ne avrebbe potuto trucidare molte, ma ogni volta che aveva la possibilità di colpire, si tirava indietro. E la stessa cosa sembrava verificarsi per i suoi tre compagni. In un momento di respiro, si guardò attorno e gli venne un'idea. «Ritiriamoci lentamente», disse ai suoi amici. «Seguitemi. Ho un piano per conseguire la vittoria... e senza spargimento di sangue.» A poco a poco i quattro indietreggiarono, finché non furono arrestati dai pali sui quali erano state stese ad asciugare le reti dei pescatori. Hawkmoon ne aggirò il primo e afferrò un estremo della rete, continuando a battersi. Oladahn intuì le sue intenzioni e afferrò l'estremo opposto; poi Hawkmoon gridò: «Adesso!» e insieme lanciarono la rete sopra le teste delle donne. Essa piombò sul capo della maggior parte delle fanciulle, intralciandole. Ma alcune riuscirono a liberarsi, lacerandola, e ricominciarono a combattere. Ormai anche D'Averc e il Guerriero in Giaietto e Oro avevano capito lo scopo di Hawkmoon, e anche loro gettarono una delle reti su quelle che erano riuscite a sfuggire. Hawkmoon e Oladahn scagliarono un'altra rete sopra il gruppo che avevano in un primo momento intrappolato. In effetti le donne erano del tutto bloccate dalle maglie di diverse robuste reti, e i quattro riuscirono ad avvicinarsi guardinghi, afferrando le loro armi e rendendole a poco a poco inermi. Hawkmoon ansimava quando sollevò una spada e la scagliò nel lago. «Forse il Dio Pazzo non è poi così matto. Allena le donne al combattimento ed esse godranno sempre di un momentaneo vantaggio sui soldati di sesso maschile. Senza dubbio tutto ciò fa parte di un più vasto schema...» «Intendi dire che il suo far denaro con la pirateria serve a finanziare un esercito di conquista femminile?» disse Oladahn, imitandolo nello scagliare le armi nell'acqua mentre il dibattersi delle donne diminuiva dietro di loro. «Sembra possibile», convenne D'Averc, osservando il loro lavoro. «Ma perché le donne uccidono gli altri?» «Questo potremo scoprirlo quando arriveremo al castello», disse il Guerriero in Giaietto e Oro. «Noi...» si interruppe mentre la rete cedeva in un punto e una guerriera urlante sbucava fuori, precipitandosi contro di loro
con le unghie pronte a colpire come artigli. D'Averc l'afferrò, circondandole la vita con un braccio, mentre quella strillava e scalciava. Oladahn sopraggiunse e la colpì con l'elsa della spada alla base del cranio. «Per quanto questo offenda il mio senso della cavalleria», disse D'Averc, adagiando la donna a terra, «credo che tu abbia studiato il sistema migliore per trattare queste graziose assassine, Oladahn». Si diresse verso la rete e incominciò languidamente e con metodo a colpire le donne guerriere che continuavano a dibattersi. «Se non altro non le abbiamo uccise e... loro non hanno ucciso noi. Un equilibrio eccellente.» «Mi domando se erano tutte qui», disse Hawkmoon in tono cogitabondo. «Stai pensando a Yisselda?» domandò Oladahn. «Già, sto pensando a Yisselda. Andiamo.» Hawkmoon balzò in sella con un volteggio. «Andiamo al castello del Dio Pazzo.» Partì a un veloce galoppo, lungo la spiaggia, verso la gran mole nera. Gli altri furono più lenti a seguirlo, scaglionati alle sue spalle. Per primo veniva Oladahn, poi il Guerriero in Giaietto e Oro e infine, a un galoppo pigro, Sir Huillam D'Averc, che si guardava intorno con l'aspetto di un giovane spensierato a spasso per una cavalcata mattutina. Il castello andava avvicinandosi, e Hawkmoon rallentò la sua folle andatura, trattenendo il cavallo con le redini e inducendo l'animale a una brusca fermata, mentre raggiungevano il ponte levatoio. Entro il castello regnava il silenzio. Il ponte levatoio era abbassato e su di esso giacevano i cadaveri delle guardie. Da qualche punto sulla sommità di una torre fra le più alte un corvo gracchiò e volò via. Il sole rimaneva nascosto al di sopra di nuvole grigie. Sembrava quasi che nessun sole avesse mai illuminato quel luogo, né avesse intenzione di illuminarlo in futuro. Era come se si fossero lasciati il mondo alle spalle per recarsi su qualche altro pianeta, dove la disperazione e la morte avessero avuto il sopravvento per l'eternità. Il buio ingresso al cortile del castello si spalancava davanti a Hawkmoon. La nebbia creava forme grottesche e il silenzio regnava dovunque, in maniera opprimente. Hawkmoon trasse un profondo sospiro, respirando quell'aria gelida e umida, sguainò la spada, spronò il cavallo e si fece avanti attraverso il ponte levatoio, al di là dei cadaveri, per entrare nel covo del Dio Pazzo.
CAPITOLO TERZO IL DILEMMA DI HAWKMOON Il grande cortile del castello era ingombro di cadaveri. Taluni appartenevano a donne guerriere, ma per la maggior parte erano salme di uomini che portavano il collare del Dio Pazzo. Sangue disseccato incrostava i ciottoli non coperti dai corpi privi di vita. Il cavallo di Hawkmoon stronfiò terrorizzato, mentre il fetore delle carni in decomposizione gli colmava le narici, ma il duca lo spronò a proseguire, temendo di vedere il volto di Yisselda fra quelli dei morti. Smontò, voltò i cadaveri irrigiditi delle donne scrutandoli da vicino, ma nessuno apparteneva a Yisselda. Il Guerriero in Giaietto e Oro entrò nel cortile, seguito da Oladahn e D'Averc. «Non è qui», disse il guerriero. «È viva... là dentro.» Hawkmoon sollevò il volto disperato. La sua mano tremò, mentre prendeva le briglie del suo cavallo. «Le ha fatto tutto quello che le poteva fare... guerriero?» «Questo potrai vederlo tu stesso, duca Dorian.» Il Guerriero in Giaietto e Orò indicò la porta principale del castello. «Al di là di essa si trova la corte del Dio Pazzo. Un breve corridoio conduce al salone ed egli è là ad aspettarti...» «Sa della mia esistenza?» «Sa che un giorno colui al quale è consentito per diritto di portare l'Amuleto Rosso può arrivare per reclamare quanto gli appartiene...» «Non m'importa niente dell'amuleto, mi sta a cuore soltanto Yisselda. Dov'è, guerriero?» «Là dentro. Si trova là dentro. Va' e reclama entrambi i tuoi diritti... la tua donna e il tuo amuleto. Sono entrambi importanti per i disegni della Bacchetta Magica.» Hawkmoon si voltò e corse verso la porta d'ingresso, sparendo nelle tenebre del castello. *
*
*
All'interno il castello era incredibilmente gelido. Acqua fredda colava dal soffitto del corridoio, e il muschio cresceva sulle pareti. Con la spada in pugno, Hawkmoon si appiattì, avanzando lungo di esse, aspettandosi di essere aggredito.
Ma non accadde nulla. Raggiunse una grande porta di legno, che si innalzava per sei metri sopra il suo capo, e si fermò. Da dietro la porta giungeva uno strano rumore, una voce profonda e mormorante che sembrava colmare il salone al di là di essa. Cautamente Hawkmoon spinse la porta, che cedette. Introdusse il capo nel varco e si trovò davanti uno strano spettacolo. La sala aveva dimensioni stranamente distorte. In certi punti il soffitto era molto basso, in altri si innalzava fino a una altezza di quindici metri. Non c'erano finestre, e la luce proveniva da torce infisse a caso nelle pareti. Al centro della sala, sul pavimento, dove giacevano un paio di cadaveri che sembravano essere stati sgozzati di recente, si trovava una grande sedia di legno nero, guarnita da placche a intarsio di ottone. Di fronte a essa ondeggiava, appesa al soffitto in un punto relativamente basso, una vasta gabbia, di enormi dimensioni, simile per forma a quelle impiegate di solito per un uccello domestico. Dentro, Hawkmoon vi scorse una figura umana raggomitolata. Per il resto la bizzarra sala era deserta, e Hawkmoon si fece avanti, furtivamente, attraversando il locale in direzione della gabbia. Era di là, egli se ne rese conto, che proveniva quell'angosciato mormorio; eppure sembrava impossibile, perché il rumore era troppo intenso. Hawkmoon stabilì che la cosa era dovuta alla particolare acustica del luogo, che amplificava il suono. Raggiunse la gabbia e riuscì a scorgere soltanto vagamente la figura rannicchiata, perché la luce era scarsa. «Chi sei?» domandò Hawkmoon. «Un prigioniero del Dio Pazzo?» Il gemito si interruppe, e la figura si mosse. Da essa provenne una profonda voce malinconica. «Già... puoi dirlo. Il più infelice prigioniero del mondo.» Adesso Hawkmoon poteva distinguere meglio quella creatura. Aveva un lungo collo esile, e il suo corpo era alto e molto striminzito. Aveva il capo coperto da lunghi capelli grigi a ciuffi, coperti di sudiciume, e una barba a punta, anch'essa tutta sozza, che gli pendeva dal mento per almeno trenta centimetri. Il naso era largo e aquilino e gli occhi, profondamente infossati, splendevano di un bagliore di malinconica demenza. «Posso salvarti?» domandò Hawkmoon. «Posso far leva sulle sbarre e allargarle?» La figura si strinse nelle spalle. «La porta della gabbia non è chiusa a
chiave. Le sbarre non sono la mia prigione. Sono stato imprigionato nel mio cranio lamentoso. Ah, commiserami!» «Chi sei?» «Una volta ero conosciuto come Stalnikov, della grande famiglia di Stalnikov.» «E il Dio Pazzo ha usurpato i tuoi diritti?» «Già. È stato l'usurpatore. Proprio così, è esatto.» Il prigioniero voltò l'enorme, lugubre testa per fissare Hawkmoon. «E tu chi sei?» «Sono Dorian Hawkmoon, duca di Köln.» «Un tedesco?» «Köln faceva parte una volta del paese chiamato Germania.» «Ho una gran paura dei tedeschi.» Stalnikov scivolò indietro nella gabbia, il più lontano possibile da Hawkmoon. «Non hai nessuna ragione di temermi.» «No?» Stalnikov ridacchiò, e il suono insensato riempì la sala. «No?» Frugò entro il giustacuore e ne tirò fuori qualcosa che era attaccato a un cordone che gli girava intorno al collo. L'oggetto splendette di una luce profondamente rossa, come un enorme rubino, illuminato dall'interno, e Hawkmoon si accorse che recava il segno della Bacchetta Magica. «No? Allora tu non sei il tedesco che deve venire a sottrarmi il mio potere?» Hawkmoon trattenne il respiro. «L'Amuleto Rosso! Come lo hai avuto?» «Ecco», disse Stalnikov, alzandosi in piedi e ghignando orribilmente mentre guardava Hawkmoon, «l'ho avuto trent'anni fa, togliendolo al cadavere di un guerriero che i miei seguaci fermarono e trucidarono mentre passava da queste parti». Giocherellò con l'amuleto, e la sua luce colpì gli occhi di Hawkmoon, quasi accecandolo. «Questo è il Dio Pazzo. Questa è la fonte della mia pazzia e del mio potere. Questo è ciò che mi tiene prigioniero!» «Sei tu il Dio Pazzo! Dov'è la mia Yisselda?» «Yisselda? La ragazza? La nuova ragazza con i capelli biondi e quella pelle soffice e bianca? Perché me lo domandi?» «Mi appartiene.» «Non vuoi l'amuleto?» «Voglio Yisselda.» Il Dio Pazzo scoppiò a ridere, e la sua risata colmò il salone e riecheggiò in tutti gli anfratti di quel luogo deforme. «Allora l'avrai, tedesco!» Batté le mani simili ad artigli, e tutto il suo corpo si agitò come un burattino dinoccolato, mentre la gabbia si scuoteva con violenza. «Yisselda, ra-
gazza mia! Yisselda, vieni avanti e servi il tuo padrone!» Dalle profondità di un angolo del salone, dove il soffitto quasi toccava il pavimento, sbucò una ragazza. Hawkmoon la intravedeva appena, ma non poteva essere del tutto certo che si trattasse di Yisselda. Rimise la spada nel fodero e si avvicinò a lei. Sì... il modo di muoversi, l'atteggiamento... erano quelli di Yisselda. Un sorriso di sollievo incominciò a incurvargli le labbra, mentre tendeva le braccia per stringerla a sé. Poi gli giunse un grido stridulo, animalesco, e la fanciulla gli si avventò contro, con le dita munite di artigli metallici protese per raggiungere i suoi occhi, il volto sfigurato dalla brama sanguinaria, ogni parte del corpo avvolta da un abito coperto da aculei con la punta rivolta verso l'esterno. «Uccidilo, graziosa Yisselda», fece con un sogghigno il Dio Pazzo. «Uccidilo, mio fiore, e ti ricompenseremo con i suoi visceri.» Hawkmoon sollevò le mani per parare gli artigli, e il dorso di una di esse rimase malamente ferito. Egli si affrettò a indietreggiare. «Yisselda, no... sono il tuo fidanzato, Dorian...» Ma i folli occhi non accennarono a riconoscerlo, e dalla bocca colò della bava mentre la ragazza cercava ancora di colpirlo con gli artigli di metallo. Hawkmoon si allontanò di nuovo con un balzo, mentre con lo sguardo la supplicava di riconoscerlo. «Yisselda...» Il Dio Pazzo ridacchiò, afferrandosi alle sbarre della gabbia e guardando avidamente. «Squartalo, pollastrella mia. Tagliagli la gola.» Hawkmoon stava quasi piangendo, adesso, mentre spiccava salti qua e là per evitare gli artigli scintillanti di Yisselda. Hawkmoon gridò rivolto a Stalnikov. «Che razza di potere è questo, al quale ella obbedisce, e che è riuscito a soppiantare il suo amore per me?» «Obbedisce al potere del Dio Pazzo, come gli obbedisco io», rispose Stalnikov. «L'Amuleto Rosso rende tutti suoi schiavi!» «Soltanto nelle mani di una creatura diabolica...» Hawkmoon si gettò di lato, mentre gli artigli di Yisselda cercavano di lacerargli le carni. Si rialzò e sfrecciò verso la gabbia. «Fa diventare diabolici tutti quelli che lo portano», ribatté Stalnikov, ridacchiando, mentre gli artigli di Yisselda laceravano la manica di Hawkmoon. «Tutti...» «Tutti tranne i servi della Bacchetta Magica!» La voce giunse dall'ingresso del salone e apparteneva al Guerriero in Giaietto e Oro. Era sonora e grave.
«Aiutami», disse Hawkmoon. «Non posso», disse il Guerriero in Giaietto e Oro, restando in piedi dov'era, immobile, la sua enorme spada diretta verso il suolo davanti a lui, mentre la mano guantata rimaneva appoggiata all'elsa. In quel momento Hawkmoon barcollò e sentì gli artigli di Yisselda affondargli nella schiena. Sollevò le mani per afferrarle i polsi e urlò per il dolore causatogli dagli aculei che gli affondavano nei palmi, ma riuscì a liberarsi degli artigli, a scagliare lontano la ragazza e a slanciarsi verso la gabbia dove il Dio Pazzo farfugliava deliziato. Hawkmoon spiccò un balzo per raggiungere le sbarre, mandando Stalnikov a gambe levate. La gabbia oscillò irregolarmente e incominciò a girare su se stessa. Yisselda danzava sotto di essa, cercando di raggiungere con gli artigli il giovane. Stalnikov era indietreggiato fino al lato opposto della gabbia, con gli occhi folli colmi di terrore ormai, e Hawkmoon riuscì a spalancarne lo sportello e a insinuarvisi, richiudendolo poi dietro di sé. Fuori, Yisselda ululava la sua brama delusa di sangue, mentre la luce dell'amuleto le faceva brillare di rosso gli occhi. In quel momento Hawkmoon stava piangendo apertamente, mentre scoccava occhiate alla donna che amava; poi volse la faccia devastata dall'odio verso il Dio Pazzo. La voce profonda di Stalnikov, ancora lamentosa, echeggiò nel salone. Sfiorò con le dita l'amuleto, dirigendo la sua luce negli occhi di Hawkmoon. «Va indietro, mortale. Obbediscimi... obbedisci al potere dell'amuleto...» Hawkmoon rimase accecato, e si sentì all'improvviso molto debole. Il suo sguardo incominciò a non potersi staccare dall'amuleto splendente, ed egli si fermò, mentre era consapevole che il potere di quell'oggetto stava avendo il sopravvento su di lui. «Adesso», disse Stalnikov, «adesso ti consegnerai a chi ti distruggerà». Ma Hawkmoon radunò tutta la propria forza di volontà e fece un passo avanti. Il Dio Pazzo rimase a bocca aperta, mentre la faccia lunga dalla barba fluente gli si allungava ancora di più. «Ti ordino in nome dell'Amuleto Rosso...» Dalla soglia giunse la voce sonora del Guerriero in Giaietto e Oro. «Egli è colui che l'amuleto non può controllare. L'unico. È lui quello che ha il diritto di portarlo.» Stalnikov incominciò a tremare e a spostarsi intorno alla gabbia, mentre
Hawkmoon, ancora debole, si faceva avanti con decisione. «Indietro!» urlò il Dio Pazzo. «Esci dalla gabbia!» In basso, gli artigli di Yisselda avevano afferrato le sbarre ed ella stava sollevando il corpo coperto dagli aculei metallici, fissando la gola di Hawkmoon con una espressione assassina. «Indietro!» Questa volta la voce di Stalnikov aveva perduto in parte la forza e la fiducia. Egli raggiunse la porta della gabbia e la spalancò con un calcio. Yisselda, con i bianchi denti scoperti, il bel viso distorto in una espressione di terrificante follia, si era issata ormai in modo da trovarsi aggrappata all'esterno della gabbia. Il Dio Pazzo le voltava le spalle, il bagliore dell'Amuleto Rosso ancora diretto negli occhi di Hawkmoon. Gli artigli di Yisselda straziarono la nuca di Stalnikov. Egli urlò e balzò a terra. In quel momento Yisselda scorse di nuovo Hawkmoon e fece per entrare nella gabbia. Hawkmoon si rendeva conto di non avere il tempo per cercare di ragionare con la sua fidanzata, che aveva perduto il senno. Radunò tutte le proprie forze e si lanciò, evitando gli artigli protesi di Yisselda, per atterrare sulle pietre irregolari che lastricavano il salone. Vi giacque per un momento, senza fiato. Si rimise poi in piedi dolorante, mentre anche Yisselda balzava giù dalla gabbia. Il Dio Pazzo si era intanto portato, barcollando, fino al grande seggio, al lato opposto rispetto al punto in cui si trovava la gabbia. Arrampicatosi sullo schienale, vi rimase appollaiato, con l'Amuleto Rosso che gli pendeva dal collo e continuava a proiettare la sua strana luce sulla faccia di Hawkmoon. Il sangue gli colava lungo le spalle dalla ferita infertagli da Yisselda. Stalnikov farfugliò in preda al terrore, mentre Hawkmoon giungeva accanto al seggio e si arrampicava sul bracciolo. «Ti prego, lasciami... Non ti farò alcun male.» «Mi hai già fatto molto male», disse Hawkmoon torvo, sguainando la spada. «Molto male. Abbastanza per rendere il gusto della vendetta veramente dolce, Dio Pazzo...» Stalnikov si inerpicò più in alto che poteva. Gridò, rivolto alla ragazza. «Yisselda... basta! Riprendi il tuo carattere di un tempo. Te lo ordino, per il potere dell'Amuleto Rosso!» Hawkmoon si voltò e vide che Yisselda si era fermata, con un'aria con-
fusa. Le sue labbra si dischiusero per l'orrore, scorgendo quello che portava sulle mani e gli aculei metallici che le coprivano il corpo. «Che cosa è accaduto? Che cosa mi hanno fatto?» «Sei stata ipnotizzata da questo mostro», disse con voce stridula Hawkmoon, agitando la spada nella direzione di Stalnikov che aveva assunto adesso un atteggiamento servile. «Ma vendicherò il male che ti ha fatto.» «No», urlò Stalnikov. «Non è giusto!» Yisselda scoppiò in lacrime. Stalnikov si guardò attorno. «Dove sono i miei schiavi... dove sono i miei guerrieri?» «Hai fatto in modo che si sterminassero a vicenda per il tuo pervertito diletto», gli disse Hawkmoon. «E quelli che non si sono massacrati, li abbiamo fatti prigionieri noi.» «Il mio esercito di donne! Volevo che la bellezza conquistasse tutta l'Ukrania. Ridatemi l'eredità degli Stalnikov...» «Eccola quell'eredità», disse Hawkmoon, sollevando la spada. Stalnikov balzò dallo schienale del seggio e incominciò a correre verso la porta, ma deviò di lato quando vide che era bloccata dal Guerriero in Giaietto e Oro. Si eclissò, approfittando delle tenebre della sala, in una fessura e scomparve alla vista. Hawkmoon scese dal seggio e si voltò per guardare Yisselda che giaceva rannicchiata per terra, singhiozzando. Le si avvicinò e le tolse dolcemente dalle dita morbide e sottili gli artigli macchiati di sangue. Ella alzò lo sguardo. «Oh, Dorian. Come hai fatto a trovarmi? Oh, amore mio...» «Grazie alla Bacchetta Magica», disse la voce del Guerriero in Giaietto e Oro. Hawkmoon si voltò, ridendo per il sollievo. «Sei tenace nelle tue pretese, guerriero.» Il Guerriero in Giaietto e Oro non disse nulla, ma rimase immobile come una statua, senza volto e imponente, sulla soglia. Hawkmoon trovò la chiusura del sinistro abito coperto di aculei e incominciò a sfilarlo dal corpo della ragazza. «Cerca il Dio Pazzo», disse il guerriero. «Ricorda, l'Amuleto Rosso ti appartiene. Ti darà il potere.» Hawkmoon si accigliò. «E mi farà impazzire, forse?» «No, sciocco, è tuo di diritto.» Hawkmoon rimase in silenzio, impressionato dal tono del guerriero.
Yisselda gli sfiorò la mano. «Posso fare da sola il resto», disse. Hawkmoon sollevò la spada e scrutò nelle tenebre da quale parte Stalnikov, il Dio Pazzo, fosse sparito. «Stalnikov!» Da un punto imprecisato nei recessi più profondi della sala splendette un lieve bagliore rosso. Hawkmoon chinò il capo e penetrò nell'alcova. Udì un suono di singhiozzi. Quel suono gli riempì le orecchie. Hawkmoon si insinuò sempre più vicino alla sorgente del bagliore rosso. E sempre più forte divenne il suono dello strano pianto. Infine, il punto luminoso splendette molto vivido, e a quella luce egli scorse colui che portava l'amuleto: si teneva appoggiato a una parete di pietre rozzamente sgrossate, con in pugno una spada. «Ti ho aspettato trent'anni, tedesco», disse Stalnikov a un tratto, con la voce calma. «Sapevo che potevi giungere a rovinare i miei piani, a distruggere i miei ideali, a demolire tutto quello al quale mi ero dedicato. Eppure ho sempre sperato di allontanare la minaccia. Forse posso ancora farlo.» Con un grido terribile sollevò la spada e sferrò un fendente contro Hawkmoon. Hawkmoon bloccò il colpo con facilità, e fece ruotare la spada in modo che essa sfuggì dalla presa del Dio Pazzo; portò poi avanti la propria lama, che venne a trovarsi proprio sul cuore di Stalnikov. Per un momento Hawkmoon contemplò con gravità il pazzo terrorizzato. La luce dell'Amuleto Rosso chiazzava di rosso i volti dei due uomini. Stalnikov si schiarì la gola come per pronunciare una supplica; poi, lentamente, le sue spalle si abbassarono. Hawkmoon affondò la punta della spada nel cuore del Dio Pazzo. Poi girò sui talloni e abbandonò tanto il cadavere quanto l'Amuleto Rosso là dove si trovavano. CAPITOLO QUARTO IL POTERE DELL'AMULETO Hawkmoon gettò il proprio mantello sulle spalle nude di Yisselda. La ragazza rabbrividiva e singhiozzava per la reazione, ma a tali sentimenti si mescolava la gioia di aver rivisto Hawkmoon. Accanto a loro si trovava il Guerriero in Giaietto e Oro, ancora immobile. Mentre Hawkmoon stringeva tra le braccia Yisselda, il guerriero incominciò a muoversi; la sua enorme figura attraversò la sala ed entrò nell'an-
golo tenebroso dove giaceva il cadavere di Stalnikov, il Dio Pazzo. «Oh, Dorian, non so dirti quanti orrori ho sopportato in questi ultimi mesi. Sono stata fatta prigioniera di questo e quel gruppo, e ho viaggiato per centinaia di chilometri. Non so nemmeno dove si trovi questo maledetto paese. Non ricordo niente dei giorni appena trascorsi, a parte qualche vaga impressione di certi incubi nei quali lottavo con me stessa contro il desiderio di trucidarti...» Hawkmoon la strinse a sé. «Un incubo, ecco quello che è stato. Vieni, ce ne andremo di qui. Torneremo in Kamarg, al sicuro. Dimmi, che cosa ne è stato di tuo padre e degli altri?» I suoi occhi si spalancarono. «Non lo sai? Credevo che tu fossi tornato laggiù, prima di venire a cercarmi.» «Non ho sentito che semplici voci. Come stanno Bowgentle, von Villach e il conte Brass?» Ella abbassò gli occhi. «Von Villach è rimasto ucciso da un lanciafiamme, in una battaglia contro le truppe dell'Impero Nero sui confini settentrionali. Il conte Brass...» «Che cosa gli è accaduto?» «Quando lo vidi per l'ultima volta, mio padre giaceva ammalato e perfino i poteri curativi di Bowgentle sembravano incapaci di ridargli la salute. Era come se avesse perduto ogni facoltà... come se non desiderasse più vivere. Diceva che la Kamarg avrebbe ben presto capitolato. Ti credeva morto.» Gli occhi di Hawkmoon lampeggiarono. «Devo tornare in Kamarg al più presto... se non altro per ridare al conte Brass la volontà di vivere. Con la tua sparizione, sarà riuscito a malapena a conservare un minimo delle sue energie.» «Sempre che sia ancora vivo», disse lei con voce sommessa, senza voler ammettere una simile possibilità. «Deve essere vivo. Se la Kamarg resiste ancora, il conte Brass è vivo.» Dal corridoio al di là della sala giunse il suono dei passi di qualcuno che correva. Hawkmoon tenne Yisselda al riparo dietro di sé e di nuovo sguainò la sua grande spada di guerra. La porta venne spalancata e Oladahn apparve ansimando sulla soglia. D'Averc lo seguiva da vicino. «Guerrieri dell'Impero Nero», disse Oladahn. «Più di quanti ne possiamo affrontare. Devono essere venuti a esplorare il castello e i dintorni alla ricerca di sopravvissuti e di bottino.»
D'Averc spinse da parte il piccolo uomo bestia. «Ho cercato di ragionare con loro, asserendo di avere il diritto di comandarli perché sono di rango superiore rispetto al loro comandante, ma», si strinse nelle spalle, «a quanto pare D'Averc non ha più alcun rango nelle legioni della Gran Bretagna. Il maledetto pilota dell'ornitottero deve essere vissuto abbastanza a lungo per aver riferito a una squadra di soccorso la mia inefficienza per averti lasciato fuggire. Sono una specie di fuorilegge adesso, come te...» Hawkmoon si accigliò. «Venite dentro, tutti e due, e sbarrate quella grande porta. Dovrebbe essere in grado di trattenerli, se dovessero attaccare.» «È l'unica via d'uscita?» domandò D'Averc, osservando la porta. «Credo di sì», fece Hawkmoon. «Ma ci preoccuperemo più tardi di questo.» Il Guerriero in Giaietto e Oro riemerse dall'ombra. Da una delle sue mani guantate pendeva l'Amuleto Rosso appeso al cordone. Il cordone era macchiato di sangue. Il guerriero lo reggeva con cautela, senza toccare la pietra stessa, e lo porse a Hawkmoon, mentre D'Averc e Oladahn si affrettavano a chiudere la porta e a sbarrarla. «Ecco», disse il Guerriero in Giaietto e Oro. «È tuo.» Hawkmoon indietreggiò. «Non lo voglio... non lo porterò. È un oggetto diabolico. Ha causato la morte di molti, ha fatto impazzire altri... perfino quella povera creatura di Stalnikov è una delle sue vittime. Tientelo. Trova qualcun altro stupido abbastanza per metterselo addosso!» «Tu sei quello che deve averlo», disse la voce di sotto l'elmo. «Soltanto tu lo puoi portare.» «Non lo voglio!» Hawkmoon agitò una mano per indicare Yisselda. «Quell'oggetto ha fatto diventare questa dolce fanciulla una bestia servile, assassina. Tutto quello che abbiamo visto al villaggio dei pescatori... tutta quella gente massacrata grazie al potere dell'Amuleto Rosso. Tutti quelli che ci hanno assalito... fatti impazzire dal suo potere. Tutti quelli che giacciono morti nel cortile... distrutti dall'Amuleto Rosso.» Fece cadere l'oggetto dalle mani del guerriero. «Non lo accetterò. Se questo è quanto ha creato la Bacchetta Magica, non voglio averci niente a che fare!» «Questo è quello che gli uomini... stupidi come te... hanno fatto con esso, quello che lo ha reso corrotto nel suo influsso», disse il Guerriero in Giaietto e Oro, sempre con la voce grave e inespressiva. «È tuo dovere, come lo è dei servi scelti dalla Bacchetta Magica, accettare il dono. Non. ti
danneggerà. Non farà altro se non conferirti il potere.» «Il potere di distruggere e di far impazzire gli uomini!» «Il potere di fare del bene... il potere di combattere le orde dell'Impero Nero!» Hawkmoon sorrise beffardo. Si udì un gran colpo contro la porta, ed egli si rese conto che i guerrieri della Gran Bretagna li avevano trovati. «Le nostre forze sono spaventosamente inferiori alle loro», disse Hawkmoon. «L'Amuleto Rosso ci darà la facoltà di fuggire, anche se qui c'è soltanto un'uscita, attraverso quella porta?» «Vi aiuterà», disse il Guerriero in Giaietto e Oro, chinandosi per raccogliere l'amuleto caduto e di nuovo afferrandolo per il cordone. La porta scricchiolò sotto la pressione dei colpi di coloro che si trovavano dall'altra parte. «Se l'Amuleto Rosso può fare tanto», osservò Hawkmoon, «perché non lo tocchi tu stesso?» «Non sta a me toccarlo. Potrebbe avere su di me gli stessi effetti che ha avuto su quel miserabile Stalnikov.» Il guerriero si fece avanti. «Prendilo. Sei venuto qui per questo.» «Sono venuto qui per Yisselda... per soccorrere lei. Ormai l'ho fatto.» «Per questo lei si trovava qui.» «E così è stato tutto un trucco per adescare me...?» «No. Faceva parte dei disegni. Ma hai detto di essere venuto qui per salvarla, e adesso rifiuti il mezzo per fuggire sano e salvo con lei da questo castello. Una volta che quegli uomini siano riusciti a irrompere qui dentro, e si tratta di una ventina di feroci guerrieri, vi distruggeranno tutti. E il destino di Yisselda sarà anche peggiore del vostro...» Adesso la porta stava incominciando a cedere. Oladahn e D'Averc indietreggiarono, con le spade pronte e, negli occhi, uno sguardo di rassegnata disperazione. «Tra un momento saranno qui», disse D'Averc. «Addio, Oladahn, e addio anche a te, Hawkmoon. Siete stati compagni meno noiosi di molti altri...» Hawkmoon sbirciò l'amuleto. «Non so...» «Fidati delle mie parole», disse il Guerriero in Giaietto e Oro. «Ti ho salvato altre volte in passato. Perché avrei fatto tutto ciò? Semplicemente per distruggerti proprio adesso?» «Distruggermi no... ma quell'oggetto potrebbe pormi in balia di qualche diabolico potere. Come faccio a sapere che sei il messaggero della Bac-
chetta Magica? Ho soltanto la tua parola che io sto servendo Lei e non invece qualche più oscura causa.» «La porta sta cedendo!» urlò Oladahn. «Duca Dorian, abbiamo bisogno del tuo aiuto. Di' al guerriero che fugga con Yisselda, se è ancora in tempo!» «Presto», disse il guerriero, porgendo di nuovo l'amuleto a Hawkmoon. «Prendilo, e porta in salvo la ragazza, se non altro.» Ancora per un istante, Hawkmoon esitò; poi accettò l'oggetto. Esso si sistemò nella mano di lui come un cagnolino in quella del suo padrone... ma un cagnolino dai poteri eccezionali. La sua luce rossa parve aumentare di intensità, finché sembrò dilagare in tutta la grande stanza dal grottesco aspetto. Hawkmoon sentì il potere fluire in lui. Tutto il suo corpo divenne preda di una intensa sensazione di benessere. Quando si mosse, lo fece con grande sveltezza. La sua mente non parve più essere stordita dagli avvenimenti della giornata. Sorrise e si pose il cordone macchiato di sangue intorno al collo, chinandosi per baciare Yisselda; provò una deliziosa sensazione che lo pervase tutto, e si voltò, con la spada sguainata, per fronteggiare la torma ululante che aveva quasi demolito del tutto la grande porta. Poi questa si abbatté verso l'interno. Dall'altra parte si trovavano rannicchiati gli ansimanti cani della Gran Bretagna, maschere di tigre splendenti di metalli smaltati e gemme semipreziose, armi pronte a massacrare il gruppetto dall'aspetto patetico che li aspettava. Il comandante si fece avanti. «Tanta fatica per così poco. Fratelli, dobbiamo far loro pagare i nostri sforzi.» E poi la carneficina ebbe inizio. CAPITOLO QUINTO IL MASSACRO NEL SALONE «Oh, per la Bacchetta Magica», mormorò Hawkmoon con voce roca, «a me il potere!» Poi balzò avanti, con la grande spada da combattimento che sibilava nell'aria. Spezzò il collo rivestito di metallo del primo dei guerrieri, colpì con violenza di rovescio l'uomo sulla sua sinistra, che si allontanò barcollante, ruotò infine la spada in un ampio cerchio e questa penetrò attraverso l'armatura dell'uomo alla sua destra. A un tratto dovunque ci fu sangue e pezzi di metallo. La luce emessa
dall'amuleto coprì di ombre scarlatte le facce dei guerrieri, mentre Hawkmoon guidava i compagni a sferrare un attacco... l'ultima cosa che i soldati dell'Impero Nero si sarebbero aspettati. Ma la luce dell'amuleto li abbagliò, ed essi sollevarono le braccia, impacciate dall'armatura, per farsi schermo agli occhi, con le armi tenute in posizione di difesa, sbalorditi dall'impeto con il quale Hawkmoon, Oladahn e D'Averc si facevano avanti verso di loro. Dietro gli altri tre avanzava il Guerriero in Giaietto e Oro, con la sua enorme spada sibilante in ampi cerchi di morte, muovendosi in apparenza senza sforzo alcuno. Si udirono un acciottolio e delle urla tra gli uomini della Gran Bretagna mentre, con Yisselda alle loro calcagna per tutto il tempo, i quattro li sospingevano entro il salone. Hawkmoon venne assalito da ben sei imprecanti uomini armati di scuri che cercavano di sopraffarlo e di impedirgli di maneggiare la sua spada implacabile; ma il giovane duca di Köln sferrò un calcio a uno di loro, colpì con il gomito un altro scagliandolo da parte e affondò la spada entro la maschera-elmo di un altro ancora, spaccando sia questa sia il cranio dell'avversario. La spada perse rapidamente il filo, con tutto quel lavoro, finché infine Hawkmoon si trovò a servirsene più che altro come una scure. Strappò una nuova spada dalla mano di uno degli avversari, ma non abbandonò la propria. Con la spada della quale si era appena impadronito colpiva di taglio, mentre con l'altra lavorava d'ascia. «Ah», mormorò Hawkmoon. «L'Amuleto Rosso vale il suo prezzo.» L'oggetto gli oscillava sul petto, trasformando la sua faccia sudata e distorta dalla brama di vendetta nella rossa maschera di un demone. In quel momento i soldati superstiti cercarono di fuggire verso la porta, ma il Guerriero in Giaietto e Oro e D'Averc li bloccarono, abbattendoli mentre tentavano di irrompere all'esterno. Tra tutta quella confusione, Hawkmoon riuscì a scoccare un'occhiata a Yisselda. Teneva il volto nascosto fra le mani, come se si rifiutasse di assistere alla rossa carneficina provocata da Hawkmoon e dai suoi compagni. «Oh, è dolce massacrare queste carogne», disse Hawkmoon. «Non rifiutarti di guardare, Yisselda... questo è il nostro trionfo!» Ma la fanciulla non sollevò lo sguardo. In molti punti del salone, sul pavimento, si ammucchiavano i corpi smembrati degli uomini trucidati. Hawkmoon ansimava, alla ricerca di qualcun altro da massacrare, ma non era rimasto nessuno. Lasciò cadere la spada presa a prestito e ripose la propria nel fodero, mentre l'eccitazione
della battaglia lo abbandonava completamente. Osservò accigliato l'Amuleto Rosso, sollevandolo per guardarlo meglio: oltre al simbolo della Bacchetta Magica vi era scolpita una breve iscrizione runica. «E così», mormorò, «il tuo primo aiuto è consistito nel facilitarmi l'uccisione dei miei simili. Te ne sono grato, ma continuo a domandarmi se tu non sia una forza più incline a fare il male che il bene...» La luce proveniente dalla Bacchetta Magica baluginò e incominciò ad attenuarsi. Hawkmoon guardò il Guerriero in Giaietto e Oro. «L'amuleto si sta offuscando. Che cosa significa?» «Niente», disse il guerriero. «Trae il proprio potere da molto lontano e non può mantenerlo per sempre. Ritornerà a splendere in seguito, se sarà necessario.» Si interruppe, inclinando il capo in direzione del corridoio. «Sento altri passi... i soldati che abbiamo sconfitto non erano l'intero contingente.» «Allora andiamo incontro agli altri», disse D'Averc con un breve inchino, facendo cenno a Hawkmoon di precederlo. «Dopo di te, amico mio. Sembri meglio dotato per essere il primo.» «No», disse il guerriero. «Andrò io. Il potere dell'amuleto si è ormai attenuato, per il momento. Andiamo.» Oltrepassarono cautamente la porta sfondata. Per ultimi venivano Hawkmoon e Yisselda. Ella alzò gli occhi su di lui con uno sguardo fermo. «Sono contenta che tu li abbia uccisi», disse, «sebbene mi riesca odioso vederli morire in maniera tanto scellerata». «Vivono in modo scellerato», disse Hawkmoon dolcemente, «e meritano di morire da scellerati. È l'unico sistema per trattare coloro che si sono asserviti all'Impero Nero. Adesso dovremo affrontarne degli altri. Sii coraggiosa, amore mio, perché abbiamo di fronte un pericolo ancora maggiore». In testa al piccolo corteo, il Guerriero in Giaietto e Oro aveva già impegnato il primo uomo delle nuove forze combattenti, e stava esercitando il peso del suo gran corpo racchiuso entro l'armatura metallica contro tutti gli altri; questi si trovarono costretti a barcollare indietro nello spazio ristretto del corridoio, resi meno aggressivi, più che da tutto il resto, dal fatto che nessuno dei loro avversari sembrava essere stato ferito, mentre ben venticinque dei loro compagni avevano incontrato là dentro la morte. I soldati dell'Impero Nero irruppero di nuovo nel cortile dove si ammucchiavano i cadaveri, urlando e cercando di riprendere coraggio. Tutti e quattro gli uomini che avanzavano verso di loro erano coperti di sangue e di materia cerebrale e costituivano uno spettacolo terrificante mentre usci-
vano alla luce del giorno. La grigia pioggerella continuava a cadere e l'aria era ancora gelida, ma rianimò Hawkmoon e gli altri; inoltre la recente vittoria aveva fatto sì che si sentissero invincibili. Hawkmoon, D'Averc e Oladahn si rivolsero ai loro nemici... ridacchiavano con tanta soddisfazione, che i guerrieri dell'Impero Nero esitarono prima di attaccare, sebbene le loro forze superassero di gran lunga per numero quelle di Hawkmoon e dei suoi compagni. Il Guerriero in Giaietto e Oro sollevò un dito per indicare il ponte levatoio. «Andatevene», disse in tono grave e con voce profonda, «altrimenti vi distruggeremo come abbiamo distrutto i vostri fratelli». Hawkmoon si domandò se il guerriero stesse bluffando o se quell'essere misterioso credesse davvero che sarebbero stati in grado di battere un così gran numero di avversari senza il potere dell'Amuleto Rosso a loro sostegno. Ma, prima che avesse potuto decidere, un altro gruppo di guerrieri si precipitò sul ponte levatoio. Stavano impadronendosi delle armi che ancora giacevano vicino ai cadaveri ed erano inferociti. Le guerriere del Dio Pazzo si erano liberate delle reti. «Mostra loro l'Amuleto Rosso», sussurrò il Guerriero in Giaietto e Oro a Hawkmoon. «Erano abituate a obbedire a esso. Era questo a soggiogarle senza scampo, non il Dio Pazzo.» «Ma la sua luce si è attenuata», protestò Hawkmoon. «Non importa. Mostra loro l'amuleto.» Hawkmoon si strappò l'amuleto dal collo e lo resse alto davanti alla turba delle donne ululanti. «Fermatevi. In nome dell'Amuleto Rosso, vi comando di non aggredire noi... ma costoro...» e indicò i tentennanti soldati dell'Impero Nero. «Andiamo, seguitemi!» Hawkmoon balzò avanti, con la spada spuntata che fendette l'aria per colpire il primo dei guerrieri e trucidarlo, prima ancora che questi potesse accorgersi di quello che gli stava succedendo. Le donne superavano di molto il numero dei soldati dell'Impero Nero e si diedero da fare con entusiasmo per distruggerli, tanto che D'Averc gridò: «Lasciamo che ci pensino loro a finirli. Possiamo andarcene, ormai». Hawkmoon si strinse nelle spalle. «Questi di certo sono soltanto una parte dei furfanti dell'Impero Nero. Ce ne devono essere moltissimi nei paraggi, perché non è loro abitudine allontanarsi di molto dal grosso delle loro forze.»
«Seguimi», disse il Guerriero in Giaietto e Oro. «È il momento, credo, di sguinzagliare le bestie del Dio Pazzo...» CAPITOLO SESTO LE BESTIE DEL DIO PAZZO Il Guerriero in Giaietto e Oro li guidò in una parte del cortile ove un paio di grandi botole di ferro erano state sistemate nel lastricato di pietra. Furono costretti a trascinare via i cadaveri prima di poter afferrare le enormi maniglie di ottone e sollevare i coperchi delle botole. Essi ricaddero con fragore sulle lastre di pietra e rivelarono una lunga rampa, anch'essa di pietra, che portava giù nelle tenebre. Da lì sotto giunse un violento odore, che era a un tempo familiare e sconosciuto per Hawkmoon e lo indusse a esitare in cima alla scala, perché era certo che tale odore significava pericolo. «Non temere», disse con fermezza il guerriero. «Va' avanti. Si trova lì sotto il modo per fuggire da questo luogo.» Hawkmoon incominciò a scendere lentamente, seguito dagli altri. La debole luce che proveniva dall'alto gli consentì di intravedere una lunga stanza, con un voluminoso oggetto a una delle estremità. Non riuscì a stabilire di che cosa si trattasse, e stava per indagare al riguardo quando il Guerriero in Giaietto e Oro disse alle sue spalle: «Non adesso. Prima le bestie. Si trovano nelle loro stalle». Hawkmoon si rese allora conto che la lunga stanza era in effetti una specie di scuderia, con stalle su entrambi i lati. In quel momento da alcune di esse giunsero suoni di esseri che si muovevano e brontolii di animali, e a un tratto una delle porte tremò mentre una massa enorme si proiettava contro di essa. «Non sono cavalli», disse Oladahn. «E nemmeno tori. Per me, duca Dorian, puzzano di gatto.» «Già, è così», convenne Hawkmoon, sfiorando con le dita l'elsa della spada. «Gatto... ecco a chi appartiene quest'odore. Come possono dei gatti aiutarci a fuggire?» D'Averc aveva staccato una torcia dalla parete e stava strofinando una pietra focaia per accendere l'esca. Ben presto la torcia fiammeggiò e Hawkmoon si rese conto che l'oggetto all'estremità più lontana della stalla era un grosso carro, ampio a sufficienza per ospitare un gruppo di passeggeri ben più numeroso del loro. Tra le stanghe potevano trovar posto quattro
animali. «Apri le stalle», disse il Guerriero in Giaietto e Oro, «e attacca i gatti al giogo». Hawkmoon si voltò. «Attaccare dei gatti a un carro? Senza dubbio un capriccio degno del Dio Pazzo. Ma noi siamo mortali e inoltre sani di mente, guerriero. E questi gatti sono selvaggi, a giudicare dal rumore che fanno muovendosi. Se apriamo le stalle, sicuramente ci salteranno addosso.» Quasi a confermare queste parole, giunse da una delle stalle uno strano miagolio, simile piuttosto a un ruggito, e a esso risposero i versi delle altre bestie; la stalla echeggiò in breve di quel frastuono bestiale e fu impossibile farsi udire al di sopra della gazzarra. Quando lo strepito incominciò a decrescere, Hawkmoon si strinse nelle spalle e si avviò verso la rampa. «Troveremo dei cavalli qua sopra: ci converrà affidarci, per trovare scampo, a cavalcature più familiari di queste.» «Non hai ancora imparato a fidarti della mia saggezza?» disse il guerriero. «Non ti ho detto la verità a proposito dell'Amuleto Rosso è del resto?» «Devo ancora verificare appieno questa verità», rispose Hawkmoon. «Quelle donne folli non hanno forse obbedito al potere dell'amuleto?» «Sì, lo hanno fatto», convenne Hawkmoon. «Le bestie del Dio Pazzo sono state addestrate, nello stesso modo, a obbedire a colui che possiede l'Amuleto Rosso. Che cosa ci guadagnerei, Dorian Hawkmoon, a mentire con te?» Hawkmoon si strinse nelle spalle. «Sono diventato sempre più sospettoso su ogni cosa da quando ho avuto a che fare con l'Impero Nero. Non so se tu hai qualcosa da guadagnare o no. In ogni caso...» si avviò verso la stalla più vicina e appoggiò le mani sulla pesante sbarra di legno «... sono stanco di stare a discutere e voglio mettere alla prova le tue affermazioni». Mentre toglieva la sbarra, la porta della stalla venne spinta indietro dall'interno da una zampa gigantesca. Poi emerse una testa più larga di quella di un bue e con un'aria più feroce di quella di una tigre; una arruffata testa di gatto con occhi a mandorla gialli e con lunghe zanne dello stesso colore. Sulla schiena aveva una serie di aculei lunghi trenta centimetri, dello stesso colore e aspetto delle zanne, che correvano fino all'estremità della coda, una coda dall'aspetto insolito per un gatto, perché terminava a lancetta. «Una leggenda che diventa realtà», disse con il fiato mozzo D'Averc, dimenticando per un momento i suoi modi distaccati. «Una delle varietà dei giaguari da guerra dell'Asiacomunista. Li ho visti raffigurati su un anti-
co bestiario, il quale affermava che, se mai erano esistiti, doveva essere stato un migliaio di anni fa e che, essendo il risultato di qualche pervertito esperimento biologico, non potevano riprodursi...» «In effetti non possono», disse il Guerriero in Giaietto e Oro, «ma la durata della loro vita è in pratica quasi senza fine». L'enorme testa si voltò adesso verso Hawkmoon e la coda a lancetta si agitò avanti e indietro, mentre gli occhi rimanevano fissi sull'amuleto al collo di Hawkmoon. «Digli di accovacciarsi», disse il guerriero. «Accucciati!» ordinò Hawkmoon e, quasi subito, la bestia si acquattò sul pavimento, con la bocca chiusa e gli occhi che avevano perduto in parte la loro ferocia. Hawkmoon sorrise. «Ti chiedo scusa, guerriero. Benissimo, facciamo uscire anche gli altri tre. Oladahn, D'Averc...» I suoi amici si fecero avanti per togliere le sbarre alle altre stalle, e Hawkmoon mise un braccio attorno alle spalle di Yisselda. «Quel carro», disse, «ci riporterà a casa, amore mio». Poi ricordò qualcosa. «Guerriero, le mie bisacce da sella... si trovano ancora sul cavallo, a meno che quei cani non me le abbiano rubate!» «Aspetta qui», disse il guerriero, girando sui talloni e incominciando a salire la rampa. «Andrò a vedere.» «Andrò a vedere io stesso», disse Hawkmoon. «Conosco il...» «No», disse il guerriero. «Andrò io.» Hawkmoon si sentì vagamente insospettito. «Perché?» «Soltanto tu, con l'amuleto, hai il potere di controllare le bestie del Dio Pazzo. Se non rimanessi qui, potrebbero avventarsi sugli altri e distruggerli.» Con riluttanza, Hawkmoon tornò sui propri passi e restò a guardare il Guerriero in Giaietto e Oro farsi avanti con grave accortezza verso la sommità della rampa e scomparire. Fuori delle loro stalle vagavano adesso altri tre gatti, simili al primo. Oladahn si schiarì innervosito la gola. «Sarà meglio rammentare loro che sei tu quello al quale devono obbedire», disse a Hawkmoon. «Accucciatevi!» ordinò Hawkmoon, e lentamente le bestie obbedirono. Egli si avvicinò a quella che gli era più vicina e posò una mano sul collo possente, sentendo la ruvida e tenace pelliccia e i muscoli duri sotto di essa. Le bestie avevano la statura di un cavallo, ma erano notevolmente più massicce e infinitamente più impressionanti. Non erano state addestrate
per trascinare carri, questo era evidente, bensì per uccidere in battaglia. «Prendiamo il carro», disse, «e attacchiamo queste creature». D'Averc e Oladahn trascinarono avanti il carro. Era di ottone brunito e di oro verde e sapeva di antico. Soltanto il cuoio delle stanghe era relativamente nuovo. Fecero scivolare i finimenti sopra le teste e le spalle delle bestie, che si limitarono ad abbassare le orecchie di tanto in tanto quando gli uomini stringevano le cinghie con troppa energia. Quando tutto fu pronto, Hawkmoon fece cenno a Yisselda di salire sul carro. «Dobbiamo aspettare il ritorno del guerriero», disse. «Poi potremo partire.» «Dov'è andato?» si informò D'Averc. «A cercare il mio equipaggiamento», gli spiegò Hawkmoon. D'Averc si strinse nelle spalle e abbassò il grande elmo sul viso. «Gli ci vuole un bel po' di tempo. Quanto a me, sarò contento non appena ci saremo lasciati alle spalle questo posto. Puzza di morte e di malvagità.» Oladahn indicò verso l'alto, e contemporaneamente sguainò la spada. «Era quello che fiutavi, D'Averc?» In cima alla rampa si trovavano diversi soldati dell'Impero Nero dell'Ordine della Donnola; le loro maschere dal lungo muso sembravano quasi vibrare per la smania di trucidare gli uomini là sotto. «Sul carro, presto», ordinò Hawkmoon, mentre le donnole cominciavano a scendere. Sul davanti del carro si trovava un sedile sopraelevato sul quale poteva accomodarsi il guidatore, e di fianco a esso, in una rastrelliera che un tempo era servita per contenere le frecce, c'era una frusta dalla lunga impugnatura. Hawkmoon balzò in serpa, afferrò la frusta e la fece schioccare sopra la testa degli animali. «Su, bellezze! Su!» Il tiro balzò in piedi. «E adesso... via!» Il carro scattò in avanti con un gran sobbalzo, mentre i possenti animali lo trascinavano su per la rampa. I guerrieri dalla maschera di donnola urlarono mentre il gigantesco gatto crestato si precipitava verso di loro. Qualcuno riuscì a spiccare un salto e a togliersi dalla rampa, ma la maggior parte di essi si attardò troppo: le donnole vennero travolte e straziate dagli artigli delle zampe e dalle ruote dal bordo di ferro. Lo strano carro sbucò fuori nella grigia luce del giorno, disperdendo un gran numero di guerrieri donnola che si avvicinavano per curiosare nella botola aperta. «Dov'è il guerriero?» gridò Hawkmoon di sopra l'urlio degli uomini.
«Dove sono le mie bisacce da sella?» Ma il Guerriero in Giaietto e Oro non si vedeva da nessuna parte e nessuno poteva loro indicare il cavallo di Hawkmoon. In quel momento gli uomini dell'Impero Nero si scagliarono contro il carro e Hawkmoon li prese a scudisciate mentre, dietro di lui, Oladahn e D'Averc li tenevano a distanza con le loro spade. «Guidalo fuori di qui!» gridò D'Averc. «Presto... possono sopraffarci da un momento all'altro!» «Dov'è il guerriero?» Hawkmoon si guardò selvaggiamente attorno. «Senza dubbio ci aspetta fuori!» strepitò D'Averc disperato. «Portaci via, duca Dorian, o siamo perduti!» A un tratto Hawkmoon vide il proprio cavallo al di là delle teste dei guerrieri che si agitavano. Gli erano state strappate le bisacce della sella, ed egli non aveva modo di sapere chi le avesse prese. In preda al panico, gridò di nuovo: «Dov'è il Guerriero in Giaietto e Oro? Devo trovarlo! Il contenuto di quelle bisacce può significare la vita o la morte per la Kamarg!» Oladahn lo afferrò per una spalla e disse in tono pressante: «E se non ci porti fuori di qui, sarà la morte per noi... e per Yisselda forse anche qualcosa di peggio!» Hawkmoon era quasi fuori di sé per l'indecisione, ma poi, quando finalmente le parole di Oladahn penetrarono nella sua mente, egli esplose in un possente grido e frustò le bestie. Queste si precipitarono fuori dei cancelli e sul ponte levatoio, per passare al galoppo lungo le rive del lago con quelle che sembravano tutte le orde dell'Impero Nero di Gran Bretagna lanciate al loro inseguimento. Avanzando a una velocità di gran lunga superiore a quella consentita a un cavallo, le bestie del Dio Pazzo trascinarono il sobbalzante veicolo lontano dal castello tenebroso e dal lago coperto di nebbia, lontano dal villaggio di tuguri e dal luogo dove giacevano i cadaveri, tra le basse colline ai piedi delle montagne al di là del lago, lungo una strada fangosa che correva tra minacciose pareti di roccia, e infine di nuovo nell'aperta pianura. «Se ho qualcosa di cui lamentarmi», osservò D'Averc, mentre si afferrava, per non essere sbalzato fuori, al fianco del carro e veniva orribilmente sballottato di qua e di là, «è del fatto che stiamo procedendo a una velocità un tantino eccessiva...» Oladahn cercò di ridere a dènti stretti. Era accovacciato sul fondo del veicolo, reggendo Yisselda e cercando di proteggerla dai sobbalzi peggiori.
Hawkmoon non rispose. Serrava con forza le redini tra le mani e non diminuì la velocità della corsa. Aveva il volto pallido e gli occhi lampeggianti per la collera, perché era sicuro di essere stato ingannato dall'uomo che si dichiarava il suo principale alleato contro l'Impero Nero... ingannato dall'apparentemente incorruttibile Guerriero in Giaietto e Oro. CAPITOLO SETTIMO L'INCONTRO IN UNA TAVERNA «Hawkmoon, fermati, per amore della Bacchetta Magica! Fermati, amico! Sembri un ossesso!» D'Averc, più turbato di quanto chiunque lo avesse mai visto, lo stava scrollando per una manica, mentre egli frustava le bestie ansanti. Il carro aveva continuato nella sua folle corsa per ore, aveva guadato a tutta velocità due fiumi, senza mai fermarsi, e adesso, mentre calava la notte, procedeva sempre con lo stesso impeto in mezzo a una foresta. Da un momento all'altro Hawkmoon avrebbe potuto mandarlo a sbattere contro un albero, rischiando di ammazzare tutti i suoi compagni di viaggio. Perfino i poderosi giaguari erano stanchi, ma Hawkmoon continuava a sferzarli senza pietà. «Hawkmoon, sei pazzo!» «Sono stato ingannato!» gli rispose Hawkmoon. «Ingannato! Avevo la salvezza per la Kamarg, in quelle bisacce da sella, e il Guerriero in Giaietto e Oro me le ha rubate. Mi ha giocato. Mi ha dato una cianfrusaglia dai poteri limitati in cambio di un meccanismo i cui poteri sono illimitati! Avanti, bestie, avanti!» «Dorian, dagli retta. Vuoi farci morire tutti!» disse Yisselda in lacrime. «Finirai per ucciderti... e allora come ti sarà possibile aiutare il conte Brass e la Kamarg?» Il carro balzò in aria e ricadde con uno scricchiolio fragoroso. Nessun veicolo comune avrebbe superato un urto simile, e i passeggeri ne furono scossi fino alle ossa. «Dorian, devi essere diventato pazzo. Il guerriero non ti ha tradito. Ci ha sempre aiutati. Forse è stato sopraffatto dagli uomini dell'Impero Nero... e le Bisacce gli sono state rubate!» «No... ho avuto la sensazione di un inganno, quando ci trovavamo nelle stalle e lui se n'è andato... il dono che mi ha fatto Rinal lo ha lui.» Ma la collera di Hawkmoon e la sua delusione incominciavano a decrescere, ed egli non frustava più i dorsi delle bestie affaticate.
A poco a poco l'andatura del carro rallentò, mentre le stanche bestie, non più pungolate dalla frusta, si abbandonavano all'istinto che le induceva al riposo. D'Averc tolse le redini dalle mani di Hawkmoon e il giovane guerriero non oppose resistenza, limitandosi a lasciarsi cadere sul fondo del carro nascondendo il viso tra le mani. D'Averc fece fermare le bestie, ed esse crollarono subito a terra, ansando rumorosamente. Yisselda accarezzò i capelli di Hawkmoon. «Dorian, la Kamarg ha soltanto bisogno che tu la salvi. Non so cosa fosse quest'altra cosa, ma sono certa che non ci servirebbe. E poi, tu hai l'Amuleto Rosso. Questo ci sarà senza dubbio di grande aiuto.» Ormai era notte, e la luce della luna filtrava appena attraverso un intrico di rami d'albero. D'Averc e Oladahn scesero dal carro, strofinandosi le membra ammaccate, e si avviarono per andare a procurare legna per il fuoco. Hawkmoon alzò lo sguardo. La luce della luna si rifletté sul suo volto pallido e sulla nera gemma incastonata nella sua fronte. Guardò Yisselda con una espressione malinconica, sebbene le sue labbra cercassero di sorridere. «Grazie, Yisselda, per la fede che riponi in me, ma temo che ci voglia qualcosa di più grande di Dorian Hawkmoon per vincere la battaglia contro tutta la Gran Bretagna. E la perfidia del Guerriero in Giaietto e Oro mi ha gettato nella più profonda disperazione...» «Non abbiamo nessuna prova che si tratti di perfidia, tesoro.» «No... ma sapevo per istinto che aveva intenzione di abbandonarci, portando con sé quel meccanismo. Anche lui ha intuito che me n'ero accorto. Sono convintissimo che se ne è impadronito e si trova ormai ben lontano da noi. Non sospetto necessariamente che lo abbia fatto per un proposito ignobile. Forse i suoi intenti sono più importanti dei miei, ma non posso per questo scusare il suo comportamento. Mi ha deluso. Mi ha tradito.» «Se è al servizio della Bacchetta Magica, può saperne più di te. Potrebbe voler salvaguardare quell'oggetto, potrebbe pensare che rappresenti un pericolo per te.» «Non ho prove che sia al servizio della Bacchetta Magica. Per quanto ne so, potrebbe essere al servizio dell'Impero Nero e io potrei costituire il suo strumento!» «Stai diventando sospettoso, amore mio.» «Sono stato costretto a diventarlo», sospirò Hawkmoon. «Continuerà a
essere così per me finché la Gran Bretagna non sarà sconfitta o io distrutto.» La strinse a sé, affondando il capo stanco sul suo seno, e riposò così per tutta la notte. *
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Il mattino dopo il sole splendeva nell'aria fredda. L'umore tetro di Hawkmoon era svanito con il profondo e lungo sonno, e tutti loro sembravano in migliori condizioni di spirito. Erano tutti famelici, comprese le bestie, le cui lingue pendevano dalla bocca e i cui occhi erano avidi e feroci. Oladahn si era costruito un arco e qualche freccia, e di buon mattino si era recato nei più profondi recessi della foresta alla ricerca di selvaggina. D'Averc tossì teatralmente mentre lucidava, con un lembo di stoffa trovato sul fondo del carro, l'enorme elmo a forma di testa di cinghiale. «Quest'aria occidentale non giova affatto ai miei polmoni», disse. «Preferirei essere di nuovo all'est, magari nell'Asiacomunista, dove, ho sentito dire, esiste un alto grado di civiltà. Potrebbe darsi che una tale civiltà apprezzi i miei talenti, conferendomi la nomina a qualche rango elevato.» «Hai rinunciato alla speranza di una qualsiasi ricompensa da parte del re-imperatore?» domandò Hawkmoon con un risolino. «La ricompensa che otterrò sarà la stessa che ha promesso a te», disse D'Averc in tono luttuoso. «Se quel dannato pilota non fosse vissuto... e poi il fatto di essere stato visto combattere con te al castello... No, Hawkmoon, amico mio, temo che le mie ambizioni, finché la Gran Bretagna continuerà a essere com'è ora, siano del tutto lontane dalla realtà.» In quel momento comparve Oladahn, barcollante sotto il peso di due cervi, uno su ciascuna spalla. I due balzarono in piedi per aiutarlo. «Due con due soli colpi», disse orgoglioso. «E le frecce erano state fatte frettolosamente, oltretutto.» «Non riusciremo a mangiarne nemmeno uno, figuriamoci due», gli fece osservare D'Averc. «Le bestie», disse Oladahn, «hanno bisogno di essere nutrite; altrimenti, ve lo garantisco io, Amuleto Rosso o no mangeranno noi prima che finisca la giornata». Squartarono il più grosso dei due cervi e lo diedero in pasto ai gatti, che trangugiarono la carne con grande rapidità, brontolando dolcemente. Poi i tre uomini si diedero da fare per fabbricare uno spiedo sul quale arrostire l'altro animale.
Quando finalmente si misero a mangiare, Hawkmoon sospirò e sorrise. «Si dice che il buon cibo scaccia tutte le altre preoccupazioni», disse, «ma non lo avevo mai creduto fino a questo momento. Mi sento un uomo nuovo. Questo è il primo pasto decente che abbia consumato da mesi. Selvaggina appena uccisa e mangiata nel bosco... che piacere impagabile!» D'Averc si stava asciugando meticolosamente le dita e, a quanto pareva, aveva divorato con grande compitezza un'enorme quantità di carne; in quel momento disse: «Ammiro la gente dalla salute come la tua. Vorrei avere il tuo robusto appetito». «E io vorrei avere il tuo», disse Oladahn ridendo, «perché hai mangiato tanto da averne abbastanza per una settimana». D'Averc lo guardò con aria di rimprovero. Yisselda, che, come unico indumento, aveva avvolto intorno al corpo soltanto il mantello di Hawkmoon, rabbrividì lievemente e gettò l'osso che aveva terminato di rosicchiare. «Mi domando», disse, «se riusciremo presto a trovare una città. Ci sono alcune cose che vorrei acquistare...» Hawkmoon parve imbarazzato. «Ma certo, Yisselda, tesoro, però sarà difficile... Se i guerrieri dell'Impero Nero sono numerosi da queste parti, sarebbe meglio dirigersi ancora più a sud e poi a ovest, verso la Kamarg. Forse nella Carpathia potremo incontrare una città. Dovremmo quasi essere giunti ai suoi confini, ormai.» D'Averc indicò con il pollice il carro e le bestie: «Ci riserverebbero accoglienze ben poco entusiastiche, se arrivassimo in una città su quel pericoloso veicolo», disse. «Forse se uno di noi si recasse nel più vicino insediamento... Ma allora, che cosa potremmo usare come denaro?» «Possiedo l'Amuleto Rosso», disse Hawkmoon. «Si potrebbe trattare...» «Pazzo», disse D'Averc, a un tratto terribilmente serio, rivolgendogli uno sguardo torvo. «Da questo amuleto dipende la tua vita... e la nostra. È la nostra unica protezione, l'unico mezzo per controllare le bestie. Mi sembra che tu sia incline a odiare non l'amuleto, ma le responsabilità che esso implica.» Hawkmoon si strinse nelle spalle. «Può darsi. Forse sono stato stupido a fare una proposta del genere. Eppure questo oggetto non mi piace. Ho visto quello che voi non avete veduto... quello che ha fatto di un uomo, il quale lo ha portato su di sé per trent'anni.» Oladahn lo interruppe. «Non è necessario che stiate a discutere, amici, perché ho previsto in anticipo quali sarebbero stati i nostri bisogni, e mentre voi, con grande ferocia, stavate finendo i nemici nel salone del Dio
Pazzo, ho cavato alcuni occhi agli uomini dell'Impero Nero...» «Occhi!» esclamò Hawkmoon inorridito; ma poi si calmò e sorrise, mentre Oladahn gli mostrava una manciata di gioielli, dei quali si era impossessato ricavandoli dalle maschere dei guerrieri della Gran Bretagna. «Bene», fece D'Averc, «abbiamo un disperato bisogno di provviste e Lady Yisselda necessita di abiti. Chi se la sente di esporsi al rischio di attirare l'attenzione recandosi in una città, quando raggiungeremo la Carpathia?» Hawkmoon gli rivolse uno sguardo ironico. «Ma come?! Tu, naturalmente, Sir Huillam, senza le tue insegne dell'Impero Nero. Perché io, come sono sicuro che avrai notato, ho sulla fronte questa dannata Gemma Nera che mi etichetta, e Oladahn ha quella faccia barbuta. Ma tu sei ancora mio prigioniero...» «Mi sento offeso, duca Dorian. Credevo che fossimo alleati, uniti contro un comune nemico, uniti da un legame di sangue per esserci vicendevolmente salvata la vita...» «A quanto ricordo, tu non hai salvato la mia.» «Non esattamente, suppongo. Eppure...» «E non sono disposto a darti una manciata di gioielli e a lasciarti libero», continuò Hawkmoon, continuando poi in tono più serio: «Inoltre, oggi non sono d'umore fiducioso». «Ti darò la mia parola, duca Dorian», asserì D'Averc in tono noncurante, anche se i suoi occhi parvero assumere un'espressione più dura. Hawkmoon si accigliò. «Ha dimostrato di esserci amico in numerose battaglie», disse in tono sommesso Oladahn. Hawkmoon sospirò. «Perdonami, D'Averc. Benissimo, quando giungeremo nella Carpathia, andrai ad acquistare quello che ci serve.» D'Averc incominciò a tossire. «Questa maledetta aria. Sarà la mia morte.» *
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Continuarono a procedere, mentre i gatti crestati avanzavano a balzi più moderati del giorno prima, ma sempre a una velocità superiore a quella di qualsiasi cavallo. Uscirono dalla grande foresta verso mezzogiorno e, prima di sera, incominciarono a scorgere in distanza le montagne della Carpathia, proprio mentre Yisselda indicava le minuscole figure di alcuni cava-
lieri che si avvicinavano a loro da nord. «Ci hanno veduti», disse Oladahn, «e, a quanto pare, si propongono di tagliarci la strada». Hawkmoon fece schioccare la frusta sui fianchi delle enormi bestie che trainavano il carro. «Più in fretta!» gridò, e quasi subito il veicolo incominciò ad aumentare la velocità. Poco dopo D'Averc gridò al di sopra del rombo e del cigolio delle ruote: «Si tratta di cavalieri dell'Impero Nero... su questo non ci sono dubbi. Dell'Ordine del Tricheco, se non mi sbaglio». «Il re-imperatore deve progettare la completa invasione dell'Ukrania», disse Hawkmoon. «Niente altro può giustificare una così massiccia presenza delle bande dei guerrieri dell'Impero Nero da queste parti. Ciò significa quasi sicuramente che ha consolidato tutte le conquiste effettuate all'estremo ovest e sud.» «Eccettuata la Kamarg, spero», osservò Yisselda. La corsa continuò, mentre i cavalieri a poco a poco si avvicinavano. Hawkmoon sorrise torvamente, lasciando che i cavalieri fossero convinti di riuscire a raggiungerli. «Tienti pronto con il tuo arco, Oladahn», disse. «Ti si offre la possibilità di fare un po' di allenamento nel tiro al bersaglio.» Quando i cavalieri con le grottesche maschere da tricheco ghignante si avvicinarono, Oladahn incoccò la freccia sulla corda e la fece partire. Uno dei cavalieri cadde, e alcuni giavellotti vennero scagliati contro il carro, ma il tiro non lo raggiunse. Altri tre appartenenti all'Ordine del Tricheco persero la vita a causa delle frecce di Oladahn, prima che il gruppo venisse distanziato e i giaguari portassero il carro sulle prime pendici delle montagne della Carpathia. Di lì a due ore scese la notte, ed essi decisero di essere sufficientemente al sicuro per accamparsi. Tre giorni dopo si trovarono a contemplare il fianco roccioso di una montagna, e si resero conto che avrebbero dovuto abbandonare sia le bestie che il carro, se volevano superarla. Dovevano procedere a piedi; non esisteva altra alternativa. Il terreno era diventato sempre più difficile per gli animali, e la parete della montagna che si levava davanti a loro era inaccessibile sia alle bestie sia al carro. Avevano cercato di trovare un passo e avevano sprecato due giorni in quella ricerca, ma senza alcun risultato. Nel frattempo, se erano inseguiti, i loro inseguitori dovevano ormai a-
verli quasi raggiunti. Hawkmoon era stato senza dubbio riconosciuto come l'uomo che il re-imperatore Huon aveva giurato di distruggere. Perciò i guerrieri dell'Impero Nero, avendo interesse ad apparire bravi agli occhi del loro signore, sarebbero stati ansiosi di andare alla ricerca dei fuggiaschi. Incominciarono perciò a scalare il pendio, incespicando su per i fianchi scoscesi della montagna, lasciando dietro di sé le bestie libere dei finimenti. Quando si trovarono nei pressi di una cornice, che sembrava estendersi per una certa ampiezza attorno alla montagna e offrire un sentiero relativamente più facile, udirono un fragore di armi e di zoccoli e scorsero gli stessi cavalieri dalla maschera di tricheco, che già li avevano inseguiti sulla pianura, sbucare cavalcando da dietro alcune rocce più in basso. «Siamo a tiro delle loro frecce», disse torvamente D'Averc, «e non ci sono ripari». Ma Hawkmoon fece un lieve sorriso. «C'è ancora una cosa», osservò, e alzò la voce: «Addosso, bestie mie, ammazzateli, miei gatti! Obbeditemi, in nome dell'amuleto!» I grossi felini rivolsero i loro sguardi maligni sui nuovi venuti, i quali erano tanto trionfanti nel vedere le proprie vittime allo scoperto, da non accorgersi quasi della presenza dei giaguari. Il comandante sollevò il giavellotto. E i gatti spiccarono il balzo. Urla terribili colmarono l'aria e ruggiti da gelare il sangue echeggiarono tra le montagne silenziose, mentre le bestie del Dio Pazzo uccidevano e poi divoravano le vittime. Il giorno dopo i fuggitivi si trovarono al di là delle montagne e raggiunsero una verde vallata con una piccola città. Regnava la pace più assoluta. *
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D'Averc guardò in basso la città e tese la mano a Oladahn. «Le gemme, per piacere, Oladahn, amico mio. Per la Bacchetta Magica, mi sento nudo con indosso solo questa camicia e i pantaloni!» Prese le pietre preziose e le scosse nel pugno, strizzò l'occhio a Hawkmoon e si avviò verso il villaggio. Gli altri sedettero sull'erba e lo osservarono, mentre camminava giù per il pendio fischiettando, entrava poi nella cittadina e spariva.
Aspettarono per quattro ore. La faccia di Hawkmoon incominciava ad assumere un'espressione sempre più truce, ed egli guardò risentito Oladahn, che sporse le labbra e si strinse nelle spalle. E poi D'Averc riapparve, ma in compagnia di altri. Trasalendo, Hawkmoon si rese conto che erano soldati dell'Impero Nero. Uomini appartenenti al temuto Ordine del Lupo, il vecchio ordine del barone Meliadus. Avevano riconosciuto D'Averc e lo avevano fatto prigioniero? Ma no... al contrario, D'Averc sembrava in ottimi rapporti con quella gente. Agitò la mano, girò sui talloni e incominciò a salire il pendio della collina dove loro si trovavano nascosti, con un grosso fagotto sulle spalle. Hawkmoon era interdetto, perché le maschere di lupo erano tornate indietro nel villaggio, lasciando che D'Averc se ne andasse liberamente. «Con la sua parlantina», ridacchiò Oladahn, «D'Averc può averli convinti di essere un innocente viaggiatore. Senza dubbio l'Impero Nero sta ancora ricorrendo agli approcci amichevoli, in Carpathia.» «Può darsi», disse Hawkmoon, non del tutto convinto. Quando D'Averc fu di ritorno, lasciò cadere il fagotto e lo aprì, mostrando diverse paia di pantaloni e altrettante camicie, insieme a un certo numero di differenti cibarie: pane, formaggio, salsicce, carne fredda e altro. Restituì a Oladahn la maggior parte dei gioielli. «Ho acquistato tutta questa roba abbastanza a buon mercato», disse, poi si accigliò vedendo l'espressione di Hawkmoon. «Cosa c'è, duca Dorian? Non sei soddisfatto? Non ho potuto procurare una gonna per Lady Yisselda, e me ne dispiace, ma i pantaloni e le camicie dovrebbero andarle bene.» «Gli uomini dell'Impero Nero», disse Hawkmoon, accennando con il pollice verso il villaggio. «Sembravi in rapporti molto amichevoli con loro.» «Ero preoccupato, lo devo ammettere», disse D'Averc, «ma sembrano andarci piano con la violenza. Si trovano nella Carpathia per comunicare alla gente i vantaggi del governo dell'Impero Nero. A quanto pare il re della Carpathia sta intrattenendo uno dei loro nobili. La solita tecnica... l'oro prima della violenza. Mi hanno fatto qualche domanda, ma non si sono mostrati eccessivamente sospettosi. Hanno detto di essere in guerra con la Shekia, hanno conquistato quasi tutto il paese tranne una o due cittàchiave.» «Non hai accennato a noi?» domandò Hawkmoon. «Naturalmente no.» A metà soddisfatto, Hawkmoon si rilassò un poco.
D'Averc prese il mantello nel quale aveva avvolto i suoi acquisti. «Guarda... quattro mantelli con cappuccio, come quelli che portano i santi uomini da queste parti. Ci nasconderanno abbastanza bene le facce. Ho sentito dire che c'è una grande città a circa due giorni di cammino, più a sud. È una città dove commerciano cavalli. Potremmo arrivarci domani e comperare delle cavalcature. Non è una buona idea?» Hawkmoon annuì lentamente. «Già. Abbiamo bisogno di cavalli.» *
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La città si chiamava Zorvanemi, ed era gremita di gente di ogni genere venuta a vendere o ad acquistare cavalli. Proprio fuori della città c'erano i recinti per il bestiame, e vi si potevano trovare vari tipi di cavalli, dai purosangue ai cavalli da tiro. Giunsero troppo tardi quella sera per poter fare gli acquisti, e si sistemarono in una locanda alla periferia della città, nei pressi dei recinti, in modo da poter acquistare quello che volevano ed essere pronti ad allontanarsi presto, nella stéssa mattinata. Qua e là scorsero piccoli gruppi di soldati dell'Impero Nero, ma questi non fecero caso ai monaci incappucciati, mescolati tra la folla; c'erano diverse deputazioni provenienti da vari monasteri della zona, e una di più passava inosservata. Nel calduccio della locanda ordinarono vino caldo e cibo, e consultarono una carta geografica che avevano comperato, discutendo a voce bassa su quale fosse la strada migliore per arrivare nella Francia meridionale. Poco più tardi la porta della locanda si spalancò e la gelida aria della notte si insinuò all'interno. Al di sopra del suono delle conversazioni e delle occasionali risate, udirono la voce dal tono volgare di un uomo che strepitava per avere vino per sé e per i suoi compagni e chiedeva all'oste di trovare per loro anche delle ragazze. Hawkmoon alzò lo sguardo e subito si allarmò. Gli uomini appena entrati erano soldati dell'Ordine del Cinghiale, l'ordine del quale aveva fatto parte D'Averc. L'oste si era evidentemente innervosito, e si schiarì la gola diverse volte domandando loro quale vino preferissero. «Un vino forte e abbondante», gridò il capo. «E lo stesso vale per le donne. Dove sono le vostre donne? Spero che siano più graziose dei vostri cavalli. Avanti, uomo, sbrigati. Abbiamo trascorso tutta la giornata acquistando cavalli e incrementando la prosperità della tua cittadina. Adesso siete voi che ci dovete favorire.»
I guerrieri cinghiali si trovavano lì evidentemente per acquistare cavalli per le truppe dell'Impero Nero... probabilmente per quelle impegnate nella conquista della Shekia, che si stendeva proprio al di là del confine. Hawkmoon, Yisselda, Oladahn e D'Averc abbassarono furtivamente il cappuccio sulla faccia e sorbirono il vino senza alzare lo sguardo dal bicchiere. C'erano tre giovani cameriere nella sala, insieme a due garzoni e allo stesso oste. Mentre una di esse gli passava accanto, il guerriero cinghiale l'afferrò e premette il muso della maschera contro la guancia di lei. «Da' un bacio al vecchio porco, ragazzina», ruggì. La ragazza si divincolò, cercando di liberarsi, ma l'uomo la teneva saldamente. In quel momento si fece silenzio in tutta la taverna, e l'atmosfera divenne tesa. «Vieni fuori con me», continuò il comandante dei cinghiali. «Mi sento in fregola.» «Oh, no, ti prego, lasciami andare», singhiozzò la ragazza. «Mi devo sposare la prossima settimana.» «Sposare, eh?» sghignazzò il guerriero. «Bene, lascia che ti insegni una o due cose che potrai poi a tua volta insegnare al maritino.» La ragazza gridò e continuò a resistere. Nessuno si mosse nella taverna. «Andiamo», disse il guerriero con voce rauca. «Fuori...» «Non voglio», disse piangendo la ragazza. «Non voglio, finché non sarò maritata.» «Tutto qui?» sghignazzò l'uomo dalla maschera di cinghiale. «Bene, allora... ti sposerò, se è questo che vuoi.» Si voltò a un tratto e fissò i quattro che sedevano nell'ombra. «Voi siete monaci, vero? Uno di voi ci può sposare.» E prima che Hawkmoon e gli altri potessero rendersi conto di quello che stava succedendo, l'uomo aveva afferrato Yisselda, che sedeva nella parte esterna della panca, e l'aveva alzata in piedi. «Sposaci, monaco, altrimenti... per la Bacchetta Magica, che razza di monaco sei?» Il cappuccio di Yisselda era caduto, rivelando i suoi bellissimi capelli. Hawkmoon si alzò in piedi. Non c'era altro da fare ormai se non battersi. Anche Oladahn e D'Averc balzarono in piedi. Come un sol uomo, sguainarono le spade nascoste sotto i mantelli. Come un sol uomo, si slanciarono contro i guerrieri rivestiti delle armature, urlando alle donne di allontanarsi. I guerrieri cinghiali erano ubriachi e sorpresi. La lama di Hawkmoon si insinuò tra il pettorale della corazza e la gorgiera del comandante e lo ucci-
se prima che egli potesse sguainare la propria spada, mentre quella di Oladahn colpì le gambe sommariamente protette di un altro, azzoppandolo. D'Averc fece in modo da tagliare la mano di un terzo che si era tolto i guanti. Nella taverna intanto uomini e donne si affrettavano verso le porte e le scale, mentre molti indugiavano, accalcandosi nella galleria in alto per guardare. Oladahn, rinunciando a una scherma più normale in quello spazio ristretto, era saltato sulle spalle di un enorme avversario e, con il pugnale in mano, stava cercando di conficcarlo attraverso le fessure della maschera, negli occhi dell'uomo, mentre questi tentava goffamente di liberarsi di lui, barcollando qua e là mezzo accecato. D'Averc tirava di scherma con uno spadaccino di una certa abilità che era riuscito a sospingerlo inesorabilmente verso le scale, mentre Hawkmoon si difendeva alla disperata contro un antagonista armato di un'ascia enorme, che, ogniqualvolta lo mancava, staccava schegge di dimensioni incredibili dai mobili di legno. Hawkmoon, ostacolato dal mantello, stava cercando di sbarazzarsene e, nello stesso tempo, di schivare i colpi della scure. Scartò di lato, inciampò in una piega del mantello e cadde. Sopra di lui, l'uomo dall'ascia sbuffò e sollevò l'arma per sferrare il colpo finale. Hawkmoon rotolò su se stesso appena in tempo per evitare l'ascia che piombava giù e lacerava la stoffa del suo indumento. Si rimise di scatto in piedi, mentre l'altro cercava di estrarre la scure dal legno duro del pavimento, e vibrò la spada in modo da colpire l'avversario sulla nuca. L'uomo grugnì e cadde, stordito, sulle ginocchia. Hawkmoon sollevò con un calcio la maschera, scoprendo una faccia paonazza e distorta, e affondò l'arma nella bocca spalancata, facendola penetrare nella gola tanto da tranciare la giugulare e da far sprizzare il sangue fuori dell'elmo. Hawkmoon tirò indietro la spada e l'elmo si richiuse rumorosamente. Lì accanto Oladahn stava lottando, quasi disarcionato dal suo avversario che era ormai riuscito ad afferrargli il braccio ed era sul punto di scaraventarlo via dal proprio collo. Hawkmoon si lanciò avanti e, impugnata la spada con entrambe le mani, l'affondò nel ventre dell'uomo. L'altro urlò e crollò sul pavimento, dove giacque contorcendosi. Poi insieme Oladahn e Hawkmoon assalirono l'antagonista di D'Averc alle spalle, sferrando entrambe le spade contro di lui finché non giacque morto sull'assito.
Non rimaneva altro da fare se non finire l'uomo senza la mano che era rimasto appoggiato contro una panca, piangendo e cercando di riattaccarsela al moncherino. Ansimante, Hawkmoon si guardò attorno nella taverna considerando il massacro che avevano compiuto. «Niente male come lavoro di una notte, per dei monaci», osservò. D'Averc rimase a guardare con aria cogitabonda. «Forse», disse in tono sommesso, «è il momento di cambiare il nostro travestimento in un altro più confacente». «Che cosa intendi?» «Ci sono qui sufficienti parti di armature da cinghiale per rifornirci tutti e quattro, soprattutto dal momento che io ho ancora la mia. Parlo il linguaggio segreto dell'Ordine del Cinghiale e, con un po' di fortuna, ci sarà possibile viaggiare travestiti come quelli che maggiormente temiamo... come uomini dell'Impero Nero. Ci siamo domandati come fare per attraversare le terre dove la Gran Bretagna ha consolidato le sue conquiste. Ebbene... ecco qui il modo.» Hawkmoon rifletté intensamente. Il suggerimento di D'Averc era audace ma presentava dei vantaggi, dal momento, soprattutto, che D'Averc conosceva tutti i rituali dell'ordine. «Già», disse Hawkmoon. «Forse hai ragione, D'Averc. Potremmo in effetti viaggiare dove le forze dell'Impero Nero sono più concentrate e assicurarci la possibilità di raggiungere più in fretta la Kamarg. Benissimo, facciamo così.» Incominciarono a togliere le armature ai cadaveri. «Possiamo essere certi del silenzio dell'oste e della gente della città», disse D'Averc, «perché nessuno di loro ci tiene a far sapere che sei guerrieri dell'Impero Nero sono stati uccisi proprio qui». Oladahn osservò la loro opera, strofinandosi il braccio maltrattato. «È un vero peccato», disse con un sospiro. «Era un'impresa degna di essere tramandata.» CAPITOLO OTTAVO L'ACCAMPAMENTO DELL'IMPERO NERO «Stirpe dei Giganti della Montagna, morirò soffocato prima di aver percorso un chilometro!» La voce soffocata di Oladahn giunse di sotto il grottesco elmo mentre egli cercava di liberarsi del suo peso opprimente. Sede-
vano tutti e quattro, nella loro camera sopra la taverna, misurandosi le armature delle quali si erano impadroniti. Anche Hawkmoon trovava quella roba molto scomoda. A parte il fatto che non gli si adattava alla perfezione, lo faceva nettamente soffrire di claustrofobia. Aveva già indossato qualcosa del genere in precedenza, quando si era travestito con l'armatura da lupo dell'ordine del barone Meliadus; ma, come se non bastasse, l'armatura del cinghiale era ancor più pesante e di gran lunga meno confortevole. La cosa doveva essere anche peggiore per Yisselda. Soltanto D'Averc era avvezzo a quella roba, e aveva indossato la propria armatura con un certo piacere e piuttosto divertito dal loro primo scontro con le divise del suo ordine. «Non c'è da stupirsi se ti lamenti per la tua cattiva salute», gli disse Hawkmoon. «Non conosco niente di più malsano di questi aggeggi. Sono tentato di mettere da parte l'intero piano.» «Ti abituerai meglio man mano che procederemo», lo rassicurò D'Averc. «Un po' di irritazione, un lieve senso di soffocamento, ma poi finirai per sentirti nudo senza quella roba.» «Preferisco essere nudo», protestò Oladahn, strappandosi di dosso infine la bieca maschera da cinghiale. Essa cadde con fracasso sul pavimento. «Sta' attento con quell'elmo», disse D'Averc, agitando un dito. «Non abbiamo intenzione di averne uno danneggiato.» Per soprammercato, Oladahn sferrò alla maschera anche un calcio. *
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Un giorno e una notte più tardi stavano cavalcando, ormai profondamente, all'interno della Shekia. Non potevano esserci dubbi sul fatto che l'Impero Nero avesse conquistato l'intera provincia, poiché città e villaggi erano stati distrutti dovunque, cadaveri crocifissi pendevano lungo ogni strada, gli avvoltoi ruotavano numerosi nel cielo e ancora più numerosi erano quelli che banchettavano a terra. La notte era luminosa, come se il sole stazionasse in permanenza all'orizzonte, e ciò era dovuto alle pire funebri costituite dai villaggi, dalle fattorie, dalle città e dalle ville incendiate, e le orde dell'Impero Nero, con le torce in una mano e la spada nell'altra, cavalcavano come demoni dell'inferno, urlando e strepitando, per il territorio devastato. I sopravvissuti si nascondevano, acquattandosi, mentre i quattro passavano, cavalcando nel loro travestimento, in quel mondo di terrore, galop-
pando più in fretta che potevano perché nessuno potesse sospettare di loro. Erano soltanto un piccolo gruppo di assassini in mezzo ai tanti, e né gli amici né gli avversari nutrivano sia pur vaghi dubbi circa la loro identità reale. Al mattino, lungo la strada trasformata in un rigagnolo di fango rimescolato, un gruppo di cavalieri avanzò verso di loro. Erano avvolti in ampi mantelli di grossa tela per la notte, che coprivano loro le teste rivestite dalle maschere e tutto il resto del corpo. Montavano poderosi cavalli neri e si tenevano ingobbiti sulle selle, come se avessero cavalcato per molti giorni di seguito. Mentre si avvicinavano Hawkmoon mormorò: «Uomini dell'Impero Nero, senza dubbio, e sembra siano interessati a noi...» Il comandante gettò indietro il cappuccio di tela e rivelò una enorme maschera da cinghiale, più grande e ricca di ornamenti, se possibile, di quella di D'Averc. Trattenne per le redini il suo stallone nero e i suoi uomini si fermarono dietro di lui. «Voi tre fate silenzio», mormorò D'Averc, guidandoli verso i guerrieri in attesa. «Parlerò io.» In quel momento il comandante dei guerrieri cinghiali emise un particolare tipo di suono sbuffante e aspirante e una voce lamentosa che, pensò Hawkmoon, doveva essere un modo di parlare il linguaggio segreto dell'Ordine del Cinghiale. Rimase sorpreso udendo suoni simili venire emessi dalla gola di D'Averc. La conversazione continuò per qualche tempo. D'Averc indicò la strada alle sue spalle, il comandante dei cinghiali accennò con la maschera-elmo nella direzione opposta. Poi spronò il cavallo e lui e i suoi uomini sfilarono davanti all'innervosito terzetto, continuando per la loro strada. «Che cosa voleva?» domandò Hawkmoon. «Voleva sapere se avevamo visto qualche capo di bestiame. Sono un gruppo che si occupa degli approvvigionamenti e vanno in cerca di viveri per l'accampamento più avanti.» «Di che accampamento si tratta?» «Di un grosso accampamento, ha detto, circa quattro chilometri più oltre. Si stanno preparando a sferrare un attacco contro una delle ultime città che ancora oppongono resistenza, Bradichla. La conosco bene. Vi si trovano notevoli opere architettoniche.» «Allora siamo vicini all'Osterland», disse Yisselda, «e dopo l'Osterland c'è l'Italia, la Provenza... casa nostra».
«È vero», fece D'Averc. «Conosci benissimo la geografia. Ma non siamo ancora a casa, e la parte più pericolosa del viaggio deve ancora venire.» «Come ci comporteremo a proposito di questo acquartieramento?» domandò Oladahn. «Lo aggireremo o lo attraverseremo?» «È un accampamento molto vasto», gli rispose D'Averc. «La soluzione migliore sarebbe quella di attraversarlo, trascorrendovi forse anche la notte e cercando di venire a conoscenza di qualcosa che riguardi i piani dell'Impero Nero... Dove ritengono che ci dovremmo trovare in questo momento, per esempio.» La voce soffocata di Hawkmoon provenne di sotto l'elmo. «Non sono ben sicuro che questo non risulti troppo pericoloso», disse in tono dubbioso. «Eppure se cercassimo di aggirare l'accampamento potremmo suscitare dei sospetti. Benissimo, lo attraverseremo.» «Non dovremo toglierci le maschere, Dorian?» gli domandò Yisselda. «Non temere niente del genere», disse D'Averc. «I nativi della Gran Bretagna vanno spesso anche a dormire con la maschera. Non sopportano di mostrare la faccia.» Hawkmoon aveva notato la stanchezza nella voce di Yisselda e sapeva che dovevano poter riposare entro breve tempo; lo avrebbero fatto all'accampamento delle truppe della Gran Bretagna. *
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Si aspettavano che l'acquartieramento si estendesse su una superficie enorme, ma quello che videro superava ogni aspettativa. Al di là di esso, in distanza, si trovava Bradichla, una città circondata da mura: le sue guglie e le facciate delle sue case erano visibili fin dall'accampamento. «Sono molto belle», disse D'Averc con un sospiro. Scosse il capo. «Peccato che domani debbano crollare. Sono pazzi a resistere a questo esercito.» «È di proporzioni incredibili», disse Oladahn. «Di sicuro non indispensabili per sconfiggere quella città.» «L'Impero Nero mira alla rapidità nelle conquiste», gli spiegò Hawkmoon. «Ho visto eserciti più numerosi di questo impiegati nella conquista di città più minuscole. Ma l'accampamento si estende molto e l'organizzazione non sarà perfetta. Credo che potremmo nasconderci qui.» Vi si trovavano baldacchini, tende, addirittura baracche costruite qua e là, cucine da campo di tutti i generi, sulle quali venivano preparati cibi di
ogni specie, e recinti per i cavalli, per i buoi e per i muli. Degli schiavi stavano trasportando grandi macchine da guerra attraverso il fango del campo, pungolati dagli uomini appartenenti all'Ordine della Formica. Le bandiere garrivano nel vento e gli stendardi di una ventina di ordini militari erano conficcati qua e là nel terreno. Da una certa distanza tutto ciò aveva l'aspetto di un primordiale raduno di animali, mentre una fila di lupi si aggirava per un campo devastato o un assembramento di talpe (uno degli ordini degli ingegneri) borbottava intorno a una cucina da campo; e dovunque si potevano scorgere vespe, corvi, furetti, topi, volpi, tigri, cinghiali, mosche, cani, tassi, capre, ghiottoni, lontre e addirittura qualche mantide, le guardie scelte delle quali era gran conestabile il re Huon in persona. Lo stesso Hawkmoon riconobbe molte delle bandiere: quella di Adaz Promp, il grasso gran conestabile dell'Ordine del Cane; la bandiera riccamente ornata di Brenal Farnu, che, dimostrava come egli fosse un barone di Gran Bretagna e il gran conestabile dell'Ordine del Topo; lo stendardo ondeggiante di Shenegar Trott, conte del Sussex. Hawkmoon suppose che quella città fosse l'ultima rimasta di una campagna militare ormai al termine, e che proprio per quel motivo l'esercito aveva dimensioni tanto notevoli ed era comandato da generalissimi di grado tanto elevato. Individuò lo stesso Shenegar Trott, mentre veniva trasportato in una lettiga a dorso di cavallo verso la propria tenda, con gli abiti coperti di gemme e la pallida maschera d'argento foggiata come una parodia del volto umano. Shenegar Trott aveva tutta l'aria dell'aristocratico che fa la dolce vita, che ha poco cervello ed è stato rovinato dalla vita comoda; ma Hawkmoon aveva visto Shenegar Trott battersi al guado di Weizna sul Reno, e lo aveva scorto immergersi deliberatamente insieme al cavallo sotto la superficie delle acque del fiume e cavalcare sul letto del corso d'acqua per emergere sulla riva nemica. E questa era una cosa che lasciava interdetti: i nobili dell'Impero Nero sembravano molli, pigri e intemperanti; eppure erano forti come gli animali con cui si identificavano e spesso anche più coraggiosi. Shenegar Trott era inoltre l'uomo che aveva amputato con un colpo di spada la gamba di un bambino che strillava e ne aveva mangiato un pezzo, mentre la madre del piccolo era costretta ad assistere alla scena. «Bene», disse Hawkmoon, traendo un profondo respiro, «attraversiamo l'accampamento e cerchiamo di portarci quanto più è possibile vicini al lato opposto. Spero di poter essere in grado di sgattaiolar via, senza dar nell'occhio, già domani mattina». Cavalcarono lentamente attraverso il campo. Di tanto in tanto qualche
cinghiale li salutava e D'Averc era solito rispondere. Giunsero finalmente alla estremità opposta dell'accampamento e smontarono. Avevano portato con sé l'attrezzatura sottratta agli uomini che avevano ucciso nella taverna, e adesso la sistemarono senza suscitare sospetti, perché non portava distintivi particolari. D'Averc osservò gli altri mentre lavoravano. Non sarebbe stato accettabile, aveva detto, che un individuo del suo rango si facesse vedere aiutare i propri uomini. Alcuni operai dell'Ordine del Tasso si avvicinarono con una carrettata di teste di scure di riserva, else di spade, punte di freccia e di lancia e roba del genere. Avevano anche una macchina per affilare. «Possiamo fare qualcosa per voi, fratelli cinghiali?» borbottarono, fermandosi vicino a loro. Hawkmoon arditamente sguainò la propria spada spuntata. «Questa ha bisogno di un'affilatina.» «Già, e io ho perduto un arco e una faretra di frecce», intervenne Oladahn, adocchiando un mazzo di archi sul fondo del carretto. «E cosa vuole il vostro garzone?» disse l'uomo con la maschera da tasso. «Non porta nessuna spada.» Indicò Yisselda. «E allora dagliene una, stupido», abbaiò D'Averc con il suo tono più autoritario, e il tasso si affrettò a obbedire. Quando ebbero di nuovo completato il proprio equipaggiamento e riottenuto le armi affilate di fresco, Hawkmoon sentì tornargli la fiducia. Era compiaciuto per come aveva sostenuto con freddezza quella finzione. Soltanto Yisselda sembrava depressa. Sollevò la grande spada che era stata costretta ad appendere alla cintola intorno alla vita. «Ancora dell'altro peso», osservò, «e finirò per crollare in ginocchio». «Sarà meglio che tu vada sotto la tenda», disse Hawkmoon. «Lì dentro, se non altro, potrai liberarti di una parte dell'equipaggiamento.» D'Averc sembrava turbato, mentre osservava Oladahn e Hawkmoon intenti a preparare una cucina da campo. «Che cosa ti affligge, D'Averc?» domandò Hawkmoon, guardando in su e scrutandolo attraverso le aperture dell'elmo. «Siediti. Il pranzo sarà subito pronto.» «Ho la sensazione che qualcosa non vada», mormorò D'Averc. «Non sono del tutto persuaso che non stiamo correndo alcun pericolo.» «Perché? Pensi che i tassi ci abbiano sospettato?» «No, affatto.» D'Averc scrutò l'accampamento. La sera stendeva il suo velo di tenebre nel cielo e i guerrieri incominciavano a sistemarsi per il ri-
poso; adesso c'era meno movimento. Sulle mura della lontana città, i soldati si allineavano sui merli pronti a resistere a un esercito al quale nessuno aveva potuto opporsi fino a quel momento, a parte la Kamarg. «No, affatto», ripeté quasi fra sé D'Averc, «ma mi sentirei sollevato se...» «Se cosa?» «Penso che farò una passeggiata nel campo, per vedere quali pettegolezzi riuscirò a intercettare.» «È opportuna una cosa simile? Inoltre, se ci avvicinerà qualcuno dell'Ordine del Cinghiale, non saremmo in grado di parlare il loro linguaggio.» «Non starò via molto. Ritiratevi nella tenda non appena potrete.» Hawkmoon avrebbe voluto fermare D'Averc, ma non sapeva come fare senza attirare una indesiderata attenzione. Rimase a osservarlo, mentre si allontanava a grandi passi attraverso l'accampamento. Proprio in quel momento udì un voce dietro di sé: «Ha un bellissimo aspetto la salsiccia che avete lì, fratelli». Hawkmoon si voltò. Era un guerriero con la maschera dell'Ordine del Lupo. «Già», disse Oladahn in fretta. «Già... ne vuoi un pezzo... fratello?» Tagliò una fetta della salsiccia e la porse all'uomo dalla maschera di lupo. Il guerriero si voltò, sollevò la maschera, si cacciò il cibo in bocca, riabbassò subito la maschera e si voltò di nuovo. «Grazie», disse. «Ho viaggiato per giorni e giorni senza mangiare quasi niente. Il nostro comandante ci fa correre. Siamo appena arrivati. E cavalcando più in fretta di un francese che vola.» Scoppiò in una risata. «Tutto d'un fiato dalla Provenza.» «Dalla Provenza?» disse Hawkmoon senza volerlo. «Già. Ci sei stato?» «Una o due volte. Abbiamo già sconfitto la Kamarg?» «Quasi. Il comandante ritiene che sia questione di giorni. In pratica sono ormai privi di un capo e hanno esaurito le riserve di viveri. Quelle armi di cui dispongono hanno ucciso un milione dei nostri, ma non ne ammazzeranno ancora molti prima che riusciamo a sopraffarli!» «Che cosa ne è stato del loro comandante, il conte Brass?» «È morto, ho sentito dire... o quasi. Il loro morale peggiora ogni giorno. Quando torneremo, sarà tutto finito laggiù. Ne sarei contento. Sono rimasto bloccato là per mesi. Questo è il primo cambiamento di scena da quando è cominciata quella dannata campagna. Grazie per la salsiccia, fratelli.
Buone uccisioni, per domani!» Hawkmoon osservò il guerriero lupo andarsene a grandi passi nella notte, splendente ormai a causa di migliaia di fuochi da campo. Sospirò ed entrò nella tenda. «Hai sentito?» domandò a Yisselda. «Ho sentito.» Si era tolta l'elmo e i gambali e stava pettinandosi. «A quanto pare mio padre è ancora vivo.» Si espresse con un tono molto controllato e Hawkmoon, anche nelle tenebre della tenda, poté scorgere le lacrime nei suoi occhi. Le prese il viso fra le mani e disse: «Non temere, Yisselda. Ancora pochi giorni e saremo al suo fianco.» «Se riuscirà a rimanere in vita fino a quel momento...» «Ci aspetta. Vivrà.» *
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Più tardi Hawkmoon uscì di nuovo. Oladahn sedeva accanto al fuoco ormai languente, con le braccia allacciate intorno alle ginocchia. «D'Averc se n'è andato da troppo tempo», disse Oladahn. «Già», fece Hawkmoon assorto, fissando le lontane mura della città. «Gli sarà capitato qualcosa? Me lo domando.» «Ci ha abbandonati, più probabilmente...» Oladahn si interruppe, mentre diverse figure emergevano dall'ombra. Hawkmoon si accorse, con una stretta al cuore, che erano guerrieri dalla maschera di cinghiale. «Nella tua tenda, presto», sussurrò a Oladahn. Ma era ormai troppo tardi. Uno dei cinghiali si stava già rivolgendo a Hawkmoon, parlandogli nella gutturale lingua segreta del suo ordine. Hawkmoon annuì e sollevò una mano come se rispondesse a un saluto, sperando di avere correttamente interpretato quanto gli veniva detto, ma il tono del cinghiale divenne più insistente. Hawkmoon cercò di entrare nella tenda, ma un braccio lo trattenne. Di nuovo il cinghiale gli rivolse la parola. Hawkmoon tossì fingendo di star male, indicando la propria gola. Poi però il cinghiale disse: «Ti ho chiesto, fratello, se vuoi bere con noi. Togliti quella maschera!» Hawkmoon sapeva che nessun membro di qualsiasi ordine avrebbe mai chiesto a un altro di togliersi la maschera... a meno che non lo sospettasse di portarla illecitamente. Fece un passo indietro e sguainò la spada. «Mi dispiace di non aver gradito di bere con te, fratello. Ma mi batterò con gioia contro di te.»
Oladahn balzò in piedi al suo fianco, con la spada pronta. «Chi sei?» ringhiò il cinghiale. «Perché porti l'armatura di un altro ordine? Che senso ha il tuo modo di fare?» Hawkmoon gettò all'indietro l'elmo, mostrando il pallido viso e la nera gemma che vi splendeva. «Sono Hawkmoon», disse semplicemente, e balzò avanti in mezzo al gruppo di sbigottiti guerrieri. I due tolsero la vita a cinque uomini dell'Impero Nero prima che il chiasso del combattimento inducesse altri a precipitarsi lì da ogni parte dell'accampamento. Giunsero anche cavalieri. Hawkmoon era conscio delle grida e del mormorio delle voci tutto intorno a lui. Il suo braccio si alzava e si abbassava nelle tenebre della calca ma, di lì a non molto, si sentì afferrare da una decina di mani e si rese conto di essere stato sopraffatto. Il manico di una lancia gli inferse un colpo alla nuca, ed egli cadde nel fango del campo. Ancora stordito, venne rimesso in piedi e portato davanti a una figura alta, rivestita di un'armatura nera, che aspettava a cavallo a qualche distanza dal gruppo più numeroso. La maschera di Hawkmoon era gettata all'indietro, ed egli fissò il cavaliere. «Ah, è molto piacevole, duca di Köln.» Da sotto l'elmo giunse una voce profonda e musicale, una voce che sfumava nel diabolico e nella malignità; una voce che Hawkmoon riconobbe vagamente, ma senza riuscire a credere a un tale riconoscimento. «Il mio lungo viaggio non è stato compiuto invano», continuò il cavaliere, rivolto al proprio compagno anch'egli a cavallo. «Ne sono lieto, signore», fu la risposta. «Confido che ora potrò essere riabilitato agli occhi del re-imperatore?» Hawkmoon sollevò il capo di scatto per guardare l'altro uomo. I suoi occhi lampeggiarono quando riconobbe l'elaborato elmo a forma di maschera di D'Averc. Con voce roca Hawkmoon gridò: «E così ci hai traditi? Un altro tradimento! Sono forse tutti traditori, gli uomini, per la causa di Hawkmoon?» Cercò di liberarsi, di afferrarsi con le mani a D'Averc, ma i guerrieri lo trattennero. D'Averc rise. «Sei ingenuo, duca Dorian...» Incominciò a tossire debolmente. «Avete catturato anche gli altri?» domandò il cavaliere. «La ragazza e l'uomo bestia?» «Sì, eccellenza», rispose uno degli uomini.
«Allora portateli nella mia tenda. Voglio esaminarli da vicino. È un giorno davvero soddisfacente questo, per me.» CAPITOLO NONO IL VIAGGIO VERSO SUD Un temporale aveva cominciato a rumoreggiare sull'accampamento mentre Hawkmoon, Oladahn e Yisselda venivano trascinati, nel fango e nel sudiciume, dinanzi agli occhi luccicanti e curiosi dei guerrieri, in mezzo al chiasso e alla confusione, verso una grande bandiera che si agitava nel vento appena levatosi. Un lampo squarciò a un tratto il cielo, e il tuono brontolò, poi esplose. Ci furono molti altri lampi, seguiti immediatamente da tuoni, che illuminarono la scena davanti a loro. Hawkmoon rimase senza fiato quando riconobbe la bandiera, cercò di parlare con Oladahn o con Yisselda, ma si trovavano ormai legati in una vasta tenda dove un uomo mascherato sedeva su una sedia scolpita, con a fianco D'Averc. L'uomo sulla sedia portava la maschera dell'Ordine del Lupo. La bandiera lo proclamava grande conestabile di quell'ordine, uno dei nobili di rango più elevato di tutta la Gran Bretagna, comandante supremo degli eserciti dell'Impero Nero sotto il reimperatore Huon, un barone di Kroiden... un uomo che Hawkmoon credeva morto, che era certo di aver trucidato di persona. «Barone Meliadus!» borbottò. «Non sei morto ad Hamadan.» «No, non sono morto, Hawkmoon, per quanto tu mi abbia ferito gravemente. Sono riuscito a cavarmela in quella battaglia.» Hawkmoon sorrise lievemente. «Pochi dei tuoi uomini sono riusciti a farlo. Vi abbiamo sconfitti... messi in fuga.» Meliadus voltò la propria elaborata maschera da lupo verso il capitano che gli stava accanto e gli parlò. «Porta delle catene. Delle grosse catene, forti e pesantissime* Accumulale su questi cani e ribadiscile con cura. Non voglio lucchetti che potrebbero essere spezzati. Questa volta voglio essere certo che arrivino in Gran Bretagna.» Lasciò la sedia e discese per scrutare attraverso le fessure della sua maschera il volto di Hawkmoon. «Hanno parlato spesso di te alla corte del re Huon, hanno stabilito torture elaborate, splendide, squisite al massimo grado per il tuo tradimento. La tua morte impiegherà un anno o due a giungere, ma ogni momento di quel periodo sarà una terribile agonia per lo spirito, per la mente e per il corpo. Tutta la nostra capacità di inventiva,
Hawkmoon, l'abbiamo prodigata per te.» Fece un passo indietro e tese una mano sotto il mento di Yisselda, sollevandole il volto devastato dall'odio. Ella voltò il capo, con gli occhi colmi di rabbia e di disperazione. «Quanto a te... ti avevo offerto l'onore di diventare mia moglie. Ormai non avrai più alcun onore, ma sarò tuo marito finché non mi stancherò o finché il tuo corpo non cederà.» La testa di lupo si mosse lentamente per guardare Oladahn. «E per quanto riguarda questa creatura non umana, eppure divenuta abbastanza evoluta da riuscire a camminare su due gambe, striscerà e uggiolerà da quell'animale che è, le sarà insegnato a comportarsi come una vera bestia...» Oladahn sputò sulla maschera ingioiellata. «Avrò in te un eccellente modello», disse. Meliadus girò sui talloni, con il mantello ondeggiante, e zoppicò pesantemente verso la sua sedia. «Vi lascerò tranquilli finché non vi sarete presentati dinanzi al globo del trono», disse Meliadus, con la voce lievemente malferma. «Sono stato paziente, e lo sarò ancora per qualche giorno. Partiremo alle prime luci per tornare in Gran Bretagna. Ma ci consentiremo una piccola deviazione, perché possiate assistere alla distruzione definitiva della Kamarg. Sono rimasto laggiù per un mese, e ho osservato i suoi uomini morire giorno per giorno, ho visto le torri crollare una dopo l'altra. Non ne sono rimaste più molte. Ho detto ai miei uomini di aspettare, a sferrare l'ultimo attacco, fino al mio ritorno. Penso che vi farà piacere rivedere la vostra madrepatria... saccheggiata.» Rise, inclinando la grottesca testa coperta dalla maschera da una parte, per guardarli di nuovo. «Ah! Ecco qui le catene.» Stavano arrivando alcuni membri dell'Ordine del Tasso, portando enormi catene di ferro, un braciere, martelli e rivetti. Hawkmoon, Yisselda e Oladahn si divincolarono, mentre i tassi li incatenavano, ma ben presto furono costretti a lasciarsi cadere sul pavimento a causa del peso delle catene. Poi gli anelli incandescenti dei rivetti vennero fissati in sede con i martelli e Hawkmoon si rese conto che nessun essere umano poteva sperare di liberarsi di quei vincoli. Il barone Meliadus venne a guardarlo, quando il lavoro fu portato a termine. «Viaggeremo lungo la terraferma per recarci in Kamarg, e di lì fino a Bordeax, dove ci sarà una nave ad aspettarci. Mi dispiace di non potervi offrire una macchina volante... ne stiamo impiegando molte per spianare la Kamarg.»
Hawkmoon chiuse gli occhi, la sola cosa che ancora potesse fare per manifestare il suo disprezzo per il suo aguzzino. *
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Ammucchiati in un carro scoperto, il mattino successivo i tre non ricevettero cibo finché la carovana, strettamente sorvegliata, del barone Meliadus non si mise in cammino. Di tanto in tanto Hawkmoon riusciva a scorgere per un momento il suo nemico, che cavalcava quasi in testa alla colonna con Sir Huillam D'Averc al fianco. Il tempo continuava a essere tempestoso e opprimente, e qualche grossa goccia di pioggia cadde sul volto di Hawkmoon. Era così gravato dal peso delle catene da riuscire a malapena a scuotere il capo per scrollarsi l'acqua dal viso. Il carro sobbalzava e si scuoteva, e in distanza le truppe dell'Impero Nero stavano marciando sulla città. A Hawkmoon sembrava di essere stato tradito da tutti. Si era fidato dei Guerriero in Giaietto e Oro ed era stato derubato delle sacche da sella; si era fidato di D'Averc, e questi lo aveva consegnato nelle mani del barone Meliadus. Adesso, sospirò, non si sentiva sicuro neppure di Oladahn. Si trovò a scivolare in maniera quasi confortevole nello stato d'animo che si era impadronito di lui mesi prima, dopo la sua sconfitta e la cattura da parte della Gran Bretagna, quando aveva comandato un esercito contro il barone Meliadus in Germania. Il suo viso si irrigidì, gli occhi persero ogni espressione, ed egli smise di pensare. Di tanto in tanto Yisselda gli rivolgeva la parola ed egli le rispondeva compiendo uno sforzo, senza riuscire a trovare le parole per confortarla, perché si rendeva conto che non ce ne sarebbe stata nessuna capace di convincerla. Talvolta Oladahn cercava di fare qualche commento scherzoso, ma gli altri non lo assecondavano, e anch'egli infine rimase silenzioso. Soltanto allorché, a intervalli regolari, il cibo veniva ficcato loro in bocca, essi davano qualche segno di vita. Trascorsero così alcuni giorni, mentre la carovana procedeva verso sud, verso la Kamarg. Avevano tutti atteso quel ritorno a casa per mesi, ma adesso guardavano al futuro senza alcuna gioia. Hawkmoon si rendeva conto di aver fallito nella missione intrapresa, fallito nel tentativo di salvare la Kamarg, ed era pieno di disprezzo per se stesso.
Ben presto si trovarono ad attraversare l'Italia, e un giorno il barone Meliadus gridò: «Raggiungeremo la Kamarg prima che siano trascorse un paio di notti. Abbiamo appena attraversato i confini della Francia!» E scoppiò in una risata. CAPITOLO DECIMO LA CADUTA DELLA KAMARG «Tirateli su», disse il barone Meliadus, «così potranno vedere». In groppa al cavallo, si chinò per guardare nel carro. «Fateli stare diritti», disse agli uomini che si davano da fare, affannandosi con i tre corpi ancora chiusi nelle armature e appesantiti dalle grevi catene avvolte intorno a essi. «Non hanno un bell'aspetto», soggiunse. «E io che li credevo tanto coraggiosi!» D'Averc cavalcava a fianco del barone Meliadus, tossendo e un po' ingobbito sulla sella. «Sei sempre in condizioni poco buone, D'Averc. Il mio farmacista non ti ha ancora preparato la medicina che gli avevi chiesto?» «Lo ha fatto, barone», disse debolmente D'Averc, «ma mi ha portato ben poco giovamento». «Avrebbe dovuto risanarti quella mistura di erbe che aveva escogitato.» Meliadus riportò la propria attenzione sui tre prigionieri. «Vedete, ci siamo fermati su questa collina così da consentirvi di guardare la vostra patria.» Hawkmoon ammiccò nella luce del giorno pieno, riconoscendo i terreni paludosi della sua amata Kamarg stendersi baluginanti fino all'orizzonte. Ma, più vicino, vide le grandi e scure torri di guardia della Kamarg, la forza della Kamarg, con le loro strane armi dall'incredibile potere, i cui segreti erano noti soltanto al conte Brass. E, accampata accanto a esse, una nera massa di uomini, simili a diversi milioni di formiche pronte a distruggere tutto: le armate riunite dell'Impero Nero. «Oh!» singhiozzò Yisselda. «Non riusciranno mai a resistere a un tale numero di uomini!» «Un giudizio intelligente, mia cara», disse il barone Meliadus. «Hai del tutto ragione.» Lui e la sua gente si erano fermati a riposare sulle pendici di un colle che degradava verso la pianura, nella quale si ammassavano le truppe della Gran Bretagna. Hawkmoon poteva scorgere reparti di fanteria, cavalleria, genio, inquadrati fila su fila: vide macchine da guerra dalle dimensioni enormi e mastodontici lanciafiamme, mentre nel cielo svolazzavano ornitot-
teri in tale numero che le loro sagome, quando passavano sopra le teste degli spettatori, offuscavano il sole. Tutti i tipi di metallo erano stati lanciati contro la pacifica Kamarg: ottone e ferro, bronzo e acciaio, leghe resistenti che potevano opporsi al getto di un lanciafiamme, oro e argento, platino e piombo. Gli avvoltoi marciavano a fianco delle rane, e i cavalli accanto ai muli; c'erano lupi e cinghiali, cervi e gatti selvatici, aquile e corvi, tassi e donnole. Bandiere di seta con i colori di una quarantina di nobili giunti da tutti gli angoli della Gran Bretagna garrivano splendenti nella tiepida aria umida. Ce n'erano di gialle e color porpora, nere e rosse, blu, verdi e rosa sgargiante. «Aha», disse ridendo il barone Meliadus. «Ecco l'armata che io comando. Se il conte Brass non avesse rifiutato di aiutarci, quel giorno, potreste essere onorati alleati dell'Impero Nero di Gran Bretagna. Ma poiché vi siete opposti a noi... sarete puniti. Credevate che le vostre armi, le torri e il coraggio stoico dei vostri uomini potessero bastare per tener testa alla potenza della Gran Bretagna. Non bastano, Dorian Hawkmoon, non bastano! Guarda... il mio esercito, messo insieme da me per compiere la mia vendetta. Guarda, Hawkmoon, e renditi conto di quanto siete stati pazzi tu e gli altri!» Gettò indietro il capo e rise a lungo. «Trema, Hawkmoon... e anche tu, Yisselda... trema, mentre i tuoi uomini stanno tremando adesso entro le torri, perché sanno che quelle torri devono cadere, si rendono conto che la Kamarg diventerà cenere e fango prima del sorgere del sole. Distruggerò la Kamarg, anche se ciò dovesse significare il sacrificio di tutto il mio esercito!» E Hawkmoon e Yisselda tremarono, sebbene lo facessero per la sofferenza causata dalla minaccia della distruzione prevista dal folle barone Meliadus. «Il conte Brass è morto», disse il barone Meliadus, voltando il cavallo per mettersi alla testa della sua compagnia, «e adesso morirà la Kamarg!» Agitò il braccio: «Avanti, mostriamo loro la carneficina!» Il carro ricominciò a procedere, rotolando giù per la strada della collina verso la pianura, con i prigionieri sballottati da tutti i lati che mostravano facce stravolte e occhi addolorati. D'Averc continuò a cavalcare a fianco del carro tossendo con ostentazione. «La medicina del barone non è male», disse infine. «Potrebbe curare i mali di tutti questi uomini.» E con quella enigmatica dichiarazione, spronò il cavallo al galoppo per raggiungere la testa della colonna e procedere a fianco del suo padrone.
Hawkmoon scorse strani raggi lampeggiare sulle torri della Kamarg e colpire le schiere assiepate che avanzavano verso di esse, lasciando tratti di terreno fumigante dove prima si erano trovati uomini. Vide la cavalleria della Kamarg incominciare a farsi avanti per prendere posizione, una fila esile di malconce guardie che cavalcavano con i lanciafiamme sulle spalle. Vide comuni cittadini dell'insediamento, armati di spade e di asce, avanzare al seguito della cavalleria. Ma non vide il conte Brass, non vide von Villach, e non vide nemmeno il filosofo Bowgentle. Gli uomini della Kamarg marciavano privi di un capo verso la loro ultima battaglia. Udì il debole suono delle loro grida di battaglia giungergli al di sopra delle urla e dei ruggiti degli attaccanti, del rombo dei cannoni e dello stridere dei lanciafiamme; udì il clangore delle armature e lo strepito del metallo; sentì l'odore delle bestie, degli uomini e delle armi che avanzavano nel fango. Poi vide le nere orde fermarsi, mentre una parete di fuoco sorgeva davanti a loro, i fenicotteri rosa si levavano in volo sopra di essa e i cavalieri dirigevano il getto dei lanciafiamme verso gli sferraglianti ornitotteri. Hawkmoon soffriva perché non era libero, perché non aveva la sensazione di stringere una spada nel pugno e un cavallo fra le gambe, perché non si poteva schierare con gli uomini della Kamarg, i quali, pur non avendo un comandante, riuscivano ancora a resistere all'Impero Nero, sebbene il loro numero rappresentasse soltanto una frazione di quello del nemico. Si dibatté nelle catene, e imprecò in preda alla rabbia e alla frustrazione. Scese la sera, e la battaglia continuò. Hawkmoon vide una antica torre nera colpita da un milione di getti provenienti dai lanciafiamme dell'Impero Nero, la vide oscillare, inclinarsi e cadere, riducendosi a un tratto in briciole. E le nere orde rallegrarsi. Cadde la notte, e la battaglia continuò. Il calore da essa sprigionato raggiunse anche i tre sul carro e fece sì che le loro facce si coprissero di sudore. Lì attorno i lupi ridevano e chiacchieravano, certi della vittoria. Il loro padrone aveva spinto il proprio cavallo nel grosso delle truppe, per meglio accertarsi dell'andamento della battaglia, ed essi tirarono fuori un otre di vino con lunghe cannucce che consentiva agli uomini di succhiare attraverso le maschere la bevanda in esso contenuta. Con il procedere della notte, le loro chiacchiere e le loro risate cessarono, finché, stranamente, si addormentarono tutti. Oladahn lo fece notare. «Non è nelle abitudini delle guardie lupo dormi-
re così sodo. Devono essere piene di fiducia.» Hawkmoon sospirò. «Già, ma per noi questo non è di alcun vantaggio. Le maledette catene sono saldate così solidamente da non consentirci alcuna speranza di fuga.» «Ma come?» La voce era quella di D'Averc. «Non sei più ottimista, Hawkmoon? Non riesco a crederci!» «Vattene, D'Averc», fece Hawkmoon, mentre l'uomo emergeva dalle tenebre accanto al carro. «Torna a leccare gli stivali del tuo padrone.» «Ho portato questo», disse D'Averc in un tono fra lo scherzoso e l'offeso, «per vedere se potrebbe servirvi». Mostrò un oggetto massiccio. «Dopo tutto è stata la mia medicina a drogare le guardie.» Gli occhi di Hawkmoon si socchiusero: «Che cosa hai in mano?» «Una rarità che ho trovato sul campo di battaglia. Apparteneva a qualche alto comandante, direi, perché se ne possono trovare pochi, di questi tempi. È un lanciafiamme, anche se è abbastanza piccolo da essere contenuto in una mano.» «Ne ho sentito parlare», convenne Hawkmoon. «Ma quale uso potrei farne? Sono incatenato, come puoi vedere.» «Già, l'ho notato. Se hai intenzione di rischiare, però, potrebbe darsi che riesca a liberarvi.» «È una nuova trappola, D'Averc, che tu e Meliadus avete tramato insieme?» «Sono offeso, Hawkmoon. Perché pensi una cosa del genere?» «Perché ci hai traditi consegnandoci nelle mani di Meliadus. Devi aver preparato la trappola molto tempo fa, quando hai parlato con quei guerrieri lupi nel villaggio della Carpathia. Li hai mandati dal loro padrone e hai fatto in modo da condurci all'accampamento dove potevamo facilmente essere catturati.» «Già, sembrerebbe possibile», convenne D'Averc. «Per quanto si possa vedere la cosa anche sotto un altro punto di vista. I guerrieri lupi mi hanno riconosciuto e ci hanno seguito, per andare poi ad avvertire il loro padrone. Ho sentito dire tutto questo nell'accampamento; Meliadus era venuto per impadronirsi di voi e perciò ho deciso di dire a Meliadus di avervi cacciato in questa trappola di modo che almeno uno di noi potesse restare libero.» D'Averc si interruppe. «Che te ne pare di questa versione?» «Ben studiata.» «Ebbene, sì, può sembrare ben studiata. E adesso, Hawkmoon, non ci rimane molto tempo. Cercherò di fondere le catene risparmiandovi l'epi-
dermide, o preferite non muovervi per il timore di perdervi una delle fasi della battaglia?» «Taglia queste dannate catene», disse Hawkmoon, «perché, se non altro, quando avrò le mani libere, potrò sempre strozzarti se hai mentito!» D'Averc afferrò il minuscolo lanciafiamme e ne diresse il getto verso le mani incatenate di Hawkmoon. Poi premette un pulsante e un raggio caldissimo sprizzò dall'ugello. Hawkmoon sentì la sofferenza bruciargli le braccia, ma strinse i denti. Il dolore si intensificò, finché si rese conto che avrebbe potuto mettersi a urlare, ma si udì proprio allora uno strepito; uno degli anelli cadde sul fondo del carro ed egli provò la sensazione che una parte del peso lo avesse abbandonato. Aveva una mano libera, la destra. Se la massaggiò e per poco non si lasciò sfuggire un grido, quando sfiorò il punto in cui l'armatura si era fusa fino a bucarsi. «Spicciati», mormorò D'Averc. «Avanti, reggi un altro pezzo di catena. Sarà più facile adesso.» Hawkmoon fu infine libero delle catene, ed entrambi si diedero da fare per sbarazzare dai ceppi Yisselda e poi Oladahn. D'Averc stava diventando palesemente nervoso, nel frattempo, finché non ebbero terminato. «Ho qui le vostre spade», disse, «e altre maschere e i cavalli. Dovete seguirmi. E in fretta, prima che Meliadus sia di ritorno. Per la verità, me lo aspetto da un momento all'altro, ormai». Scivolarono via nelle tenebre, verso il punto in cui i cavalli erano stati impastoiati, si misero le maschere, cinsero le spade e balzarono in sella. Poi udirono altri destrieri giungere al galoppo su per la strada della collina nella loro direzione, udirono grida confuse e un rabbioso muggito che poteva essere stato emesso soltanto dalla gola di Meliadus. «Presto», sibilò D'Averc. «Dobbiamo correre... correre verso la Kamarg!» Spronarono i cavalli a un galoppo sfrenato e incominciarono a precipitarsi giù dalla collina a gran velocità, verso il campo di battaglia. «Fate strada!» urlava D'Averc. «Fate strada! Lasciate passare il drappello. Siamo rinforzi per il fronte!» Gli uomini si facevano da parte con un balzo per lasciar passare i cavalli, mentre le bestie galoppavano con gran fragore attraverso il grosso dell'accampamento, seguite dalle imprecazioni scagliate contro i quattro che correvano con tanta sventatezza. «Fate passare!» urlava D'Averc. «Un messaggio per il comandante in capo!» Trovò il tempo di voltarsi e di gridare a Hawkmoon: «Sono stufo di
ricorrere sempre alla stessa bugia!» Riprese a strepitare: «Lasciate libero il passo! La medicina per gli uomini colpiti dalla peste!» Dietro di loro udirono altri cavalli: Meliadus e i suoi uomini si erano posti al loro inseguimento. Più avanti potevano adesso vedere che la battaglia continuava, ma non più con l'intensità di prima. «Lasciateci passare!» tuonava D'Averc. «Fate strada al barone Meliadus!» I cavalli saltarono grovigli di uomini, sgusciarono in mezzo alle macchine di guerra, galopparono attraverso i fuochi, portandosi sempre più vicini alle torri della Kamarg, mentre alle loro spalle continuavano a udire le urla di Meliadus. In quel momento avevano raggiunto un punto in cui i cavalli correvano sui cadaveri degli uomini di Gran Bretagna, e il grosso dell'esercito si trovava ormai alle loro spalle. «Toglietevi le maschere», gridò D'Averc. «È la nostra unica possibilità. Se quelli della Kamarg riconoscono in tempo te e Yisselda, smetteranno di far fuoco. Altrimenti...» Dall'oscurità giunse il vivido getto di un lanciafiamme, che mancò di poco D'Averc. Dietro di loro, altri lanciafiamme, senza dubbio puntati dagli uomini di Meliadus, scagliarono una morte di fuoco. Hawkmoon lottò con le cinghie della sua maschera-elmo, riuscendo infine a slacciarla e a scagliarla alle proprie spalle. «Fermi!» la voce di Meliadus giungeva fino a loro con chiarezza, adesso. «Finirete per farvi uccidere dai vostri stessi compagni! Pazzi!» Diversi lanciafiamme avevano aperto il fuoco dalla parte della Kamarg, illuminando la notte di raggi scarlatti. I cavalli correvano sopra i morti, che intralciavano loro il passo. D'Averc teneva il capo abbassato sul collo del cavallo, e anche Yisselda e Oladahn si tenevano bassi il più possibile, ma Hawkmoon sguainò la spada e gridò: «Uomini della Kamarg, sono Hawkmoon! Hawkmoon è tornato!» I lanciafiamme non smisero di funzionare, ma ormai i quattro si stavano avvicinando sempre più a una delle torri. D'Averc si raddrizzò sulla sella. «Gente della Kamarg! Vi porto Hawkmoon, chi farà...» e il fuoco lo investì di striscio. Egli alzò di colpo le braccia, urlò e incominciò a precipitare dalla sella. Hawkmoon si affrettò ad andargli vicino, raddrizzandone il corpo. L'armatura era diventata incandescente, in parte si era fusa, ma D'Averc sembrava ancora vivo. Un debole risolino gli uscì dalle labbra gonfie.
«Un serio esempio di errore di giudizio, quello di legare alle tue le mie sorti, Hawkmoon...» Gli altri due si fermarono, mentre i loro cavalli scalpitavano in preda alla confusione. Dietro di loro, il barone Meliadus e i suoi uomini si andavano avvicinando sempre più. «Prendi le redini del cavallo, Oladahn», disse Hawkmoon. «Cercherò di rimetterlo saldamente in sella, e vedremo di avvicinarci ancora di più alla torre.» Altre fiamme si sprigionarono, questa volta dalla parte della Gran Bretagna. «Fermati, Hawkmoon!» Hawkmoon ignorò quell'ordine e continuò ad avanzare, aprendosi il passo lentamente nel fango e in mezzo ai cadaveri, sforzandosi di sostenere D'Averc. Hawkmoon urlò, mentre un grande raggio di luce scaturiva dalla torre. «Uomini della Kamarg! Sono Hawkmoon... e con me c'è Yisselda, la figlia del conte Brass.» La luce si attenuò. I cavalli di Meliadus erano giunti adesso molto vicini. Anche Yisselda stava vacillando sulla sella a causa della stanchezza. Hawkmoon si preparò ad affrontare i lupi di Meliadus. Poi, al galoppo giù da un pendio, giunsero una ventina di guardiani chiusi nelle armature, a cavallo dei bianchi destrieri della Kamarg, e quegli uomini circondarono i quattro. Uno dei guardiani scrutò attentamente in viso Hawkmoon, poi nei suoi occhi brillò la gioia. «È il mio signore Hawkmoon! E c'è anche Yisselda! Ah... adesso le nostre sorti cambieranno!» A qualche distanza da lì, Meliadus e i suoi uomini si erano fermati non appena avevano scorto i soldati della Kamarg. Poi voltarono i cavalli e scomparvero al galoppo nelle tenebre. *
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Giunsero al Castello di Brass nella mattinata, mentre un pallido sole si rifletteva sulla laguna e i tori selvaggi levavano il capo dai luoghi dell'abbeverata per guardarli passare. Il vento faceva ondeggiare le canne, e le colline sovrastanti la città erano ricche di vigneti opulenti e di altri frutti che incominciavano proprio allora a maturare. Sulla sommità del colle si trovava il Castello di Brass, antico e solido, e sembrava non essere cambiato nonostante le guerre che avevano infuriato lungo i confini della provin-
cia che esso proteggeva. Cavalcarono su per la tortuosa strada bianca verso il castello, giunsero nel cortile, dove giubilanti castaidi si precipitarono a prendere i loro cavalli, e poi entrarono nel salone, pieno dei trofei del conte Brass. Era stranamente freddo e silenzioso, e accanto al grande camino si trovava un'unica persona ad aspettarli. Sebbene sorridesse, i suoi occhi erano colmi di spavento e il suo volto era molto invecchiato dall'ultima volta che Hawkmoon lo aveva visto: il saggio Sir Bowgentle, il poeta filosofo. Bowgentle abbracciò Yisselda, poi afferrò la mano di Hawkmoon. «Come sta il conte Brass?» domandò Hawkmoon. «Bene, fisicamente, ma ha perduto la voglia di vivere.» Bowgentle fece cenno ai castaidi di aiutare D'Averc. «Portatelo nella stanza della torre settentrionale... nella camera per gli ammalati. Mi occuperò di lui non appena mi sarà possibile. Venite», disse. «Potrete constatare con i vostri occhi...» Lasciarono Oladahn con D'Averc e salirono la scala che conduceva al pianerottolo, dove si trovavano gli appartamenti del conte Brass. Bowgentle apri una porta ed essi entrarono in una camera da letto. Vi si trovava un semplice lettino militare, grande e quadrato, con lenzuola candide e semplici guanciali. Sui guanciali giaceva una grande testa, che sembrava scolpita nel metallo. I capelli rossi erano leggermente incanutiti, il volto dalla pelle bronzea era po' più pallido, mentre i baffi rossi rimanevano sempre gli stessi. E anche le folte sopracciglia che sporgevano lunghe sopra le orbite degli infossati occhi bruno dorati non erano affatto cambiate. Ma gli occhi fissavano il soffitto senza battere ciglio e le labbra immobili avevano una piega dura. «Conte Brass», mormorò Bowgentle. «Guarda.» Ma gli occhi rimasero fissi. Hawkmoon dovette farsi avanti, scrutando direttamente in volto il conte, e indusse Yisselda a fare altrettanto. «Conte Brass, tua figlia Yisselda è tornata, e anche Dorian Hawkmoon.» Dalle labbra giunse adesso un borbottante mormorio. «Ancora visioni! Credevo che la febbre fosse passata, Bowgentle.» «È così, infatti, signore... questi non sono fantasmi.» Gli occhi si mossero ora, per guardarli. «Sono finalmente morto e mi sono riunito con voi, ragazzi miei?» «Sei sulla terra, conte Brass!» disse Hawkmoon. Yisselda si chinò e baciò il padre sulle labbra. «Ecco, padre... un bacio terreno.» A poco a poco la dura piega delle labbra incominciò ad addolcirsi, fin-
ché apparve un sorriso che si ampliò in una risata. Poi il conte Brass si agitò sotto le coltri e a un tratto si trovò seduto sul letto. «Ah, è vero! Avevo perduto tutte le speranze! Che pazzo sono stato a indurmi a perderle!» Rise di nuovo, all'improvviso, pieno di vitalità. Bowgentle era stupefatto. «Conte Brass... ti credevo ormai sulla soglia della morte!» «E così era, Bowgentle... ma sono balzato indietro, come vedi. E ho già fatto molta strada per allontanarmi da essa. Come va l'assedio, Hawkmoon?» «Male per noi, conte Brass; ma andrà meglio adesso, che siamo tutti e tre insieme. Sono pronto a scommetterci!» «Già! Bowgentle, fammi portare l'armatura. E dov'è la mia spada?» «Conte Brass... sei ancora debole...,» «Allora fammi portare del cibo... una gran quantità di cibarie... e vedrò di rinforzarmi mentre discorriamo.» E il conte Brass balzò dal letto per abbracciare la figlia e il suo promesso sposo. *
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Pranzarono nella grande sala, mentre Dorian Hawkmoon raccontava al conte Brass tutto quello che gli era accaduto da quando aveva lasciato il castello tanti mesi prima. Il conte Brass, a sua volta, gli parlò delle tribolazioni che aveva sopportato per combattere con l'intera potenza dell'Impero Nero. Gli narrò l'ultima battaglia di von Villach e di come il vecchio fosse morto da coraggioso causando una ventina di vittime tra i soldati dell'Impero Nero, di come lui stesso fosse rimasto ferito, di come fosse venuto a conoscenza della sparizione di Yisselda e avesse perduto la voglia di vivere. Oladahn entrò in quel momento e venne presentato. Disse che D'Averc era gravemente ferito, ma che Bowgentle non disperava di salvarlo. In complesso fu un allegro ritorno a casa, guastato però dalla consapevolezza che sui confini i guardiani stavano battendosi per le loro vite, quasi certamente in una battaglia già perduta. Il conte Brass aveva nel frattempo indossato l'armatura di ottone e cinto la sua enorme spada. Torreggiava sugli altri, quando si alzò in piedi dicendo: «Andiamo, Hawkmoon. Sir Oladahn, dobbiamo recarci sul campo di battaglia e guidare i nostri uomini alla vittoria». Bowgentle sospirò. «Due ore fa pensavo che fossi sul punto di spirare...
adesso ti rechi in battaglia. Non stai ancora abbastanza bene per questo, signore.» «La mia malattia concerneva soltanto lo spirito, non il corpo, e lo spirito è ormai guarito», ruggì il conte Brass. «I cavalli! Fa' portare i nostri cavalli, Sir Bowgentle!» Sebbene stanco, Hawkmoon ritrovò il perduto vigore mentre seguiva l'uomo anziano fuori del castello. Lanciò un bacio a Yisselda, poi si trovarono nel cortile; montarono i cavalli che li avrebbero portati sul campo di battaglia. Cavalcarono veloci, tutti e tre, lungo i segreti sentieri delle paludi, mentre enormi nuvole di fenicotteri giganti volteggiavano sulle loro teste e mandrie di cavalli selvaggi si allontanavano da loro al galoppo. Il conte Brass agitò una mano guantata. «Una terra come questa merita di essere difesa con tutte le forze sulle quali possiamo contare. Un luogo come questo deve essere protetto.» Ben presto udirono i suoni della battaglia e giunsero nel luogo ove l'Impero Nero stava scagliando l'attacco contro le torri. Trattennero per le redini i cavalli, quando si trovarono di fronte al peggio. Il conte Brass parlò in un sussurro sbigottito. «È impossibile!» disse. Ma era la realtà. Le torri erano crollate. Ognuna giaceva distrutta, un mucchio di macerie fumanti. I sopravvissuti erano anche in quel momento sottoposti alla pressione del nemico e indietreggiavano, per quanto si battessero con coraggio. «È la fine della Kamarg», disse il conte Brass con la voce di un vecchio. CAPITOLO UNDICESIMO IL RITORNO DEL GUERRIERO In quel momento uno dei capitani li vide e cavalcò verso di loro. La sua armatura era a brandelli e la spada spezzata, ma il volto di lui rispecchiava la gioia. «Conte Brass! Finalmente! Avanti, signore, dobbiamo radunare gli uomini... respingere quei cani dell'Impero Nero!» Hawkmoon vide il conte Brass sforzarsi di sorridere e sguainare la grande spada, e lo udì dire: «Già, capitano. Vedi di trovare uno o due araldi per annunciare che il conte Brass è tornato!» Un applauso scoppiò fra gli uomini della Kamarg, pur sottoposti a un così arduo sforzo, non appena videro apparire il conte Brass, seguito da Hawkmoon e da Oladahn, che cavalcavano dove più fitti si accalcavano i
soldati. «Fatevi da parte, ragazzi!» gridò. «Fatevi da parte e lasciatemi andare incontro al nemico!» Il conte Brass strappò di mano al cavaliere più vicino il proprio malconcio stendardo, e con quello equilibrato nella piega del gomito, agitando la spada, si gettò avanti, verso la massa di maschere bestiali che aveva dinanzi a sé. Hawkmoon gli cavalcò al fianco; insieme formavano una coppia minacciosa, quasi sovrannaturale: l'uno nella fiammante armatura di ottone e l'altro con la nera gemma incastonata nella fronte, ed entrambi con le spade che si alzavano e ricadevano sulle teste della fanteria della Gran Bretagna, ammassata in quel punto. E allorché un'altra figura si unì a loro, un uomo tozzo, con il volto coperto di pelo e una spada lampeggiante che colpiva qua e là come la folgore, essi parvero un terzetto uscito dalla mitologia, capace di fiaccare la resistenza dei guerrieri bestie della Gran Bretagna al punto da farli indietreggiare. Hawkmoon si guardò attorno alla ricerca di Meliadus, giurando che quella volta lo avrebbe ucciso, ma non gli riuscì di scorgerlo per il momento. Mani guantate tentarono di disarcionarlo, ma la sua spada si insinuò nelle aperture per gli occhi, spaccò elmi e tranciò le braccia degli assalitori. La giornata trascorse lentamente e il combattimento continuò senza tregua. Hawkmoon vacillò sulla sella, stanco della battaglia e quasi intontito dal dolore di una decina di ferite di poco conto e da un gran numero di contusioni. Il suo cavallo era stato ucciso, ma la calca degli uomini che lo circondavano era così fitta che egli rimase in arcione per una mezz'ora, prima di rendersi conto che l'animale era morto. Scese allora dal cavallo e continuò a combattere a piedi. Sapeva che non aveva importanza il numero degli uomini uccisi da lui e dagli altri: erano ormai inesorabilmente decimati e male equipaggiati. A poco a poco venivano spinti sempre più indietro. «Ah», mormorò fra sé, «se soltanto potessi avere delle truppe fresche, poche centinaia di uomini, potremmo riportare la vittoria, oggi. Per la Bacchetta Magica, abbiamo bisogno di aiuto!» A un tratto una strana sensazione elettrizzante dilagò nel suo corpo, ed egli ansimò, rendendosi conto di quanto gli stava accadendo, accorgendosi di avere inconsciamente invocato la Bacchetta Magica. L'Amuleto Rosso, che ora gli splendeva al collo diffondendo una luce scarlatta sulle armature
dei nemici, stava in quel momento trasmettendo il potere al suo corpo. Egli rise e incominciò a sferrare fendenti attorno a sé con una forza fantastica, respingendo e facendo a pezzi i guerrieri che lo accerchiavano e lo stavano assalendo. La sua spada si spezzò, ma egli strappò una lancia dalle mani di un cavaliere che veniva verso di lui, disarcionò colui che l'aveva impugnata, balzò sul cavallo e ricominciò ad attaccare. «Hawkmoon! Hawkmoon!» gridò, servendosi dell'antico grido di guerra dei suoi antenati. «Ehi... Oladahn... Conte Brass!» Si aprì una strada, combattendo, attraverso i guerrieri dalle maschere bestiali per raggiungere i suoi amici. Lo stendardo del conte Brass continuava a sventolare nelle mani di quest'ultimo. «Respingiamoli!» urlò Hawkmoon. «Respingiamoli dai nostri confini!» Poi Hawkmoon giunse dovunque, un turbinoso portatore di morte. Si precipitò fra i ranghi dei soldati della Gran Bretagna e, dopo il suo passaggio, non rimasero che cadaveri. Un fragoroso mormorio si levò allora dal nemico e le truppe incominciarono a esitare. Di lì a poco stavano indietreggiando, taluni addirittura correndo per allontanarsi dal campo di battaglia. E poi apparve la figura del barone Meliadus, che gridava ai suoi uomini di tornare ai loro posti e di combattere. «Indietro!» gridò. «Non potete aver paura di così pochi avversari!» Ma la marea era ormai del tutto in rotta e lui stesso venne travolto e trascinato indietro dagli uomini in ritirata. Fuggivano terrorizzati davanti al cavaliere dal volto pallido, la cui spada si abbatteva dovunque; un cavaliere nel cranio del quale splendeva una nera gemma, mentre dal collo gli pendeva un amuleto di fuoco scarlatto, e il cui cavallo focoso si impennava sulle loro teste. Avevano inoltre udito che gridava il nome di un uomo morto... sapevano che lui stesso era un uomo morto, Dorian Hawkmoon, il quale aveva combattuto contro di loro a Köln e per poco non li aveva sconfitti laggiù, un uomo che aveva sfidato lo stesso re-imperatore e quasi massacrato il barone Meliadus. Hawkmoon! Era il solo nome che i fedeli sudditi dell'Impero Nero temessero. «Hawkmoon! Hawkmoon!» L'uomo sollevò di nuovo la spada e il cavallo si impennò ancora una volta. «Hawkmoon!» In possesso del potere dell'Amuleto Rosso, Hawkmoon inseguì l'esercito in rotta e rise selvaggiamente, con un senso di folle trionfo. Dietro di lui veniva il conte Brass, terribile nella sua armatura rossa e oro, l'enorme spada sgocciolante del sangue dei suoi nemici; Oladahn ridacchiava, gli occhi accesi e splendenti, la spada lustra di sangue rappreso; e alle loro
spalle venivano le forze esultanti della Kamarg, un pugno di uomini che si beffavano del potente esercito da essi messo in fuga. In quel momento il potere dell'amuleto incominciò ad attenuarsi, sottraendosi a Hawkmoon, ed egli sentì le sofferenze riassalirlo, risentì la stanchezza, ma ormai non aveva importanza, perché erano riusciti a raggiungere il confine, segnato dalle torri crollate, e vedevano il loro nemico in fuga. Oladahn rise. «Abbiamo vinto, Hawkmoon!» Il conte Brass si accigliò. «Già... ma non è una vittoria che durerà a lungo. Dobbiamo ritirarci, riunirci, trovare un terreno sicuro sul quale attestarci, perché non riusciremo a batterli di nuovo in campo aperto.» «Hai ragione», convenne Hawkmoon. «Adesso che le torri sono crollate dobbiamo trovare un altro punto ben difeso. E ce n'è uno solo al quale posso pensare.» Sbirciò il conte. «Già... il Castello di Brass», fece il vecchio. «Dobbiamo avvertire tutte le città e i villaggi della Kamarg, perché le popolazioni prendano i propri beni e le provviste e si rechino ad Aigues-Mortes, per mettersi sotto la protezione del castello...» «Saremo in grado di mantenere un così gran numero di persone nel corso di un lungo assedio?» domandò Hawkmoon. «Vedremo», rispose il conte Brass, osservando l'esercito in lontananza incominciare a raggrupparsi. «Ma, se non altro, godranno di una certa protezione quando le truppe dell'Impero Nero invaderanno la Kamarg.» Negli occhi gli brillavano le lacrime, quando voltò il cavallo e incominciò ad avviarsi di nuovo verso il castello. *
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Dal balcone della sua camera, nella torre orientale, Hawkmoon rimase a guardare la gente che guidava il bestiame all'interno della vecchia città di Aigues-Mortes perché vi fosse protetta. La maggior parte di esso era ospitato nell'anfiteatro, a una delle estremità della città. I soldati trasportavano entro le mura i rifornimenti e aiutavano la popolazione a caricare i materiali sui carri. Prima di sera quasi tutto, a parte poche cose, era stato messo al sicuro entro le mura, e la gente gremiva le case o si era accampata per le vie. Hawkmoon pregò che non si verificassero pestilenze o episodi di panico, perché, con una simile ressa di persone, difficilmente si sarebbero potuti tenere sotto controllo. Oladahn lo raggiunse sul balcone, indicando verso nordest. «Guarda»,
disse. «Macchine che volano.» E Hawkmoon vide le forme spaventose degli ornitotteri dell'Impero Nero stagliarsi contro l'orizzonte, una indicazione sicura che gli eserciti della Gran Bretagna stavano per mettersi in cammino. Quando scese la notte, riuscirono a scorgere i fuochi dell'accampamento delle truppe più vicine. «Domani», disse Hawkmoon, «potrebbe essere la nostra ultima giornata di battaglia». Scesero nel salone, dove Bowgentle conversava con il conte Brass. Era stato preparato il cibo, con la consueta abbondanza. I due uomini si voltarono, mentre Hawkmoon e Oladahn entravano nel salone. «Come sta D'Averc?» domandò Hawkmoon. «Sta meglio», disse Bowgentle. «Ha una costituzione eccezionale. Afferma che gli piacerebbe alzarsi per mangiare, questa sera. Gliene ho dato il permesso.» Yisselda entrò dalla porta che dava all'esterno. «Ho parlato con le donne», disse, «e mi hanno comunicato che ormai tutto è stato trasportato entro le mura. Abbiamo provviste sufficienti per resistere almeno un anno, se macelliamo il bestiame...» Il conte Brass fece un triste sorriso. «Ci vorrà meno di un anno, per decidere le sorti di questa battaglia. E com'è l'umore della gente?» «Ottimo», ella disse, «adesso che hanno saputo della vittoria di oggi e sanno che entrambi siete vivi». «È una bellissima cosa», disse il conte Brass con gravità, «che non sappiano che domani sono destinati a morire. O, se non domani, dopodomani. Non possiamo resistere alla pressione di un tal numero di soldati per lungo tempo, mia cara. La maggior parte dei nostri fenicotteri è stata uccisa, perciò in pratica non abbiamo alcuna protezione dall'aria. Anche la maggior parte dei nostri guardiani sono morti, e le truppe di cui disponiamo adesso sono quasi prive di addestramento». Bowgentle sospirò. «E noi che pensavamo che la Kamarg non sarebbe mai caduta...!» «Siete troppo sicuri che cadrà», disse una voce dalle scale. Era quella di D'Averc, che scendeva zoppicando e visibilmente affaticato, abbigliato in una veste ampia e di un colore fulvo. «In un simile stato d'animo non potete che perdere. Dovete cercare di parlare di vittoria, se non altro.» «Hai ragione, Sir Huillam.» Il conte Brass mutò d'umore con uno sforzo di volontà. «E mangeremo un po' di questo buon cibo per procurarci le e-
nergie necessarie alla battaglia di domani.» «Come stai D'Averc?» domandò Hawkmoon, mentre si mettevano a tavola. «Abbastanza bene», disse D'Averc disinvolto. «Penso di potermi dare da fare con qualcuno di quei piatti», e incominciò a riempire di carne il proprio. Mangiarono in silenzio, godendosi la cena che sarebbe potuta essere la loro ultima. *
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Quando Hawkmoon guardò fuori della finestra il mattino successivo, si accorse che le paludi erano gremite di uomini. Nella notte, i soldati dell'Impero Nero avevano strisciato fin sotto le mura e adesso si apprestavano a sferrare l'attacco. In fretta e furia, Hawkmoon indossò gli abiti e l'armatura e scese nel salone, dove trovò D'Averc già rivestito della sua rattoppata armatura, Oladahn intento a ripulire la spada e il conte Brass che discuteva di qualche aspetto della prossima strategia con due dei comandanti rimastigli. C'era un'atmosfera tesa nel salone, e gli uomini si rivolgevano la parola l'un l'altro in un sussurro. Yisselda comparve e lo chiamò dolcemente. «Dorian...» Egli si voltò e si precipitò su per le scale, verso il pianerottolo ove si trovava la fanciulla; la prese fra le braccia e, tenendola stretta a sé, le baciò con dolcezza la fronte. «Dorian», ella disse, «sposiamoci, prima...» «Già», fece lui in tono sommesso. «Andiamo a cercare Bowgentle». Trovarono il filosofo nel suo appartamento, intento a leggere un libro. Alzò lo sguardo, quando essi entrarono, e rivolse loro un sorriso. Gli dissero che cosa volevano e l'uomo posò il volume. «Contavo su una grande cerimonia», disse, «ma capisco». Unì le loro mani, facendoli inginocchiare davanti a sé mentre pronunciava le parole di una sua composizione, che erano sempre state usate come formula matrimoniale da quando lui e il suo amico conte erano giunti al Castello di Brass. Quando tutto fu compiuto, Hawkmoon si alzò in piedi e baciò Yisselda ancora una volta. Poi disse: «Veglia su di lei, Bowgentle», e lasciò la stanza per raggiungere i suoi amici, che stavano già uscendo dal salone.
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Mentre montavano a cavallo, una grande ombra oscurò a un tratto il cortile e udirono gli scricchiolii e lo sferragliare, su in alto, sopra le loro teste, di un ornitottero dell'Impero Nero. Una vampa di fuoco scaturì da esso e andò a infrangersi sulle pietre, mancando di poco Hawkmoon e facendo sì che il suo destriero indietreggiasse, con le narici dilatate e gli occhi arrovesciati. Il conte Brass sollevò il lanciafiamme con il quale si era equipaggiato e premette il pulsante; subito una rossa fiamma si sprigionò verso l'alto, nella direzione della macchina volante. Udirono il pilota urlare e videro le ali del meccanismo smettere di funzionare. Il velivolo perse quota, scomparendo alla vista, ed essi lo udirono infine fracassarsi sul fianco della collina. «Devo far appostare dei lanciafiamme sulle torri», disse il conte Brass. «Si troverebbero nella posizione migliore per rispondere al fuoco degli ornitotteri. Andiamo, signori, andiamo a combattere!» E mentre lasciavano le mura del castello e si avviavano giù nella città, scorsero l'enorme marea di uomini che già stava assaltando le mura, sulle quali i guerrieri della Kamarg lottavano disperatamente per respingerla. Alcuni ornitotteri volavano sulla città, rovesciando fuoco nelle strade, e l'aria si riempiva delle grida degli abitanti, del ruggito dei lanciafiamme e dello strepito del metallo che colpiva il metallo. Fumo nero si levava da Aigues-Mortes, e alcune case si erano già incendiate. Hawkmoon guidò la carica giù verso la città e si aprì la strada in mezzo a donne e bambini spaventati, per raggiungere le mura e unirsi alla battaglia. Dovunque giungevano, il conte Brass, D'Averc e Oladahn davano il loro aiuto per resistere alle forze che tentavano di distruggere la città. Da un punto delle mura giunse un suono disperato, subito accompagnato da un coro di trionfo, e Hawkmoon si diresse subito da quella parte, accorgendosi che il nemico si era aperto un varco nelle difese e che i guerrieri dell'Impero Nero, che indossavano gli elmi del lupo e del cinghiale, si stavano insinuando attraverso di esso. Hawkmoon li affrontò, ed essi si fermarono subito, ricordando quanto era accaduto il giorno prima. Non disponeva più di una forza sovrumana, ma sfruttò quell'attimo di incertezza per lanciare il proprio ancestrale grido
di guerra: «Hawkmoon! Hawkmoon!» balzando poi su di loro e ricacciando gli invasori attraverso la breccia. Combatterono in tal modo per tutto il giorno, continuando a tenere la città anche se il loro numero calava rapidamente, e quando scese la notte e le truppe dell'Impero Nero si furono ritirate, Hawkmoon si rese conto, come se ne resero conto tutti gli altri, che il mattino successivo avrebbe portato con sé la sconfitta. Stancamente Hawkmoon, il conte Brass e i loro compagni guidarono i cavalli di nuovo su per la strada tortuosa che portava al castello; con il cuore greve, pensavano a tutti gli innocenti massacrati quel giorno e a tutti gli altri che sarebbero stati massacrati l'indomani. Sempre che fossero tanto fortunati da rimanere uccisi! Poi udirono un cavallo che galoppava alle loro spalle e si voltarono, a metà pendio, con le spade pronte, per scorgere la strana figura di un aitante cavaliere che saliva la collina verso il castello. L'elmo che gli copriva tutto il volto, e la sua armatura era completamente ornata di giaietto e oro. Hawkmoon si accigliò. «Che cosa vuole quel ladro traditore?» disse. Il Guerriero in Giaietto e Oro fece avvicinare ancora di più il proprio enorme cavallo. La sua voce profonda e vibrante si fece udire allora di sotto l'elmo. «Vi saluto, difensori della Kamarg. A quanto vedo la giornata non è stata troppo buona per voi. Il barone Meliadus vi sconfiggerà, domani.» Hawkmoon si asciugò la fronte con uno straccio. «Non c'è bisogno che tu venga a farci notare le cose ovvie, guerriero. Che cosa sei venuto a rubare, questa volta?» «Nulla», disse il guerriero. «Sono venuto a portarvi qualcosa.» Frugò sotto di sé e tirò fuori le malconce bisacce da sella di Hawkmoon. Il cuore di Hawkmoon esultò, ed egli si protese per afferrare le bisacce; poi ne aprì una e vi guardò dentro. E lì, avvolto in un mantello, si trovava l'oggetto che gli era stato dato tanto tempo prima da Rinal. Era ancora intero. Scostò il mantello e vide il cristallo intatto. «Innanzi tutto, perché le avevi portate via?» domandò. «Andiamo al Castello di Brass, e là vi spiegherò ogni cosa», disse il Guerriero in Giaietto e Oro. *
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Nel salone, il guerriero rimase in piedi accanto al camino, mentre gli altri sedevano in svariate posizioni attorno a lui, ascoltando.
«Nel castello del Dio Pazzo», incominciò il guerriero, «vi ho abbandonati perché sapevo che, con l'aiuto delle bestie del Dio Pazzo, ben presto vi sareste allontanati sani e salvi da quel luogo. Ma sapevo inoltre che altri pericoli vi aspettavano e sospettavo che avreste potuto essere catturati. Decisi così di portare con me l'oggetto che Rinal ti aveva dato, per conservarlo al sicuro finché non sareste tornati nella Kamarg». «E io che ti avevo creduto un ladro!» disse Hawkmoon. «Mi dispiace, guerriero.» «Ma che cos'è, questo oggetto?» domandò il conte Brass. «Una antica macchina», disse il guerriero, «costruita da una delle civiltà scientificamente più progredite mai apparse sulla terra». «È un'arma?» si informò il conte Brass. «No. È un congegno grazie al quale intere porzioni di spazio e di tempo possono essere alterate e spostate in altre dimensioni. Finché la macchina esiste, può esercitare il suo potere; ma quando, per disgrazia, venga distrutta, allora la zona di territorio viene immediatamente riportata indietro nel suo originario contesto di tempo e spazio.» «E come funziona?» domandò Hawkmoon, ricordando a un tratto di non sapere nulla, a quel proposito. «È difficile da spiegare, dal momento che non riconoscereste nessuna delle parole delle quali mi servirei», disse il Guerriero in Giaietto e Oro. «Ma Rinal mi ha insegnato come si può adoperare, e quindi posso metterla in funzione.» «Ma a che scopo?» domandò D'Averc. «Per far scivolare quel seccatore del barone e dei suoi uomini in qualche specie di limbo dove non potranno più infastidirci?» «No», disse il guerriero. «Vi spiegherò...» La porta si spalancò con impeto, e un malconcio soldato irruppe nel salone. «Padrone», gridò, rivolgendosi al conte Brass, «c'è il barone Meliadus con una bandiera di tregua. Vuol parlamentare con te alle mura della città». «Non ho nulla da dirgli», asserì il conte Brass. «Ha detto che intende attaccare nottetempo. Dice di potersi impadronire delle mura di qui a un'ora, perché ha in serbo truppe fresche che sono state tenute lontane dal campo di battaglia proprio a questo scopo. Ha detto che se gli consegnerai tua figlia, Hawkmoon, D'Averc, e se tu stesso li accompagnerai, sarà clemente con gli altri.» Il conte Brass meditò per un momento, ma Hawkmoon intervenne. «È
inutile prendere in considerazione tale proposta, conte Brass. Entrambi conosciamo l'inclinazione di Meliadus per gli inganni. Sta soltanto cercando di demoralizzare la gente per rendere la vittoria più facile.» Il conte Brass sospirò. «Ma se invece quanto afferma fosse vero? E, anche se non accettassi, entro breve tempo riuscirebbe a demolire le mura e a ucciderci tutti.» «Se non altro moriremmo con onore», disse D'Averc. «Già», fece il conte Brass, con un sorrisetto piuttosto ironico. «Se non altro, con onore.» Si rivolse al messaggero. «Di' al barone Meliadus che ancora non abbiamo alcun desiderio di parlare con lui.» Il soldato si inchinò. «Lo farò, mio signore», e uscì dal salone. «Faremmo meglio a tornare sulle mura», disse il conte Brass alzandosi stancamente, proprio nel momento in cui Yisselda entrava nella stanza. «Ah, padre, Dorian, siete entrambi salvi.» Hawkmoon l'abbracciò. «Ma adesso dobbiamo accorrere là di nuovo», disse con dolcezza. «Meliadus sta per sferrare un ultimo attacco.» «Aspetta», disse il Guerriero in Giaietto e Oro. «Devo ancora descrivervi il mio piano.» CAPITOLO DODICESIMO LA FUGA NEL LIMBO Il barone Meliadus sorrise, quando udì la risposta del messaggero. «Benissimo», disse al proprio ufficiale, «distruggiamo l'intera città, e tutti gli abitanti che verranno catturati vivi costituiranno il nostro divertimento nel giorno della vittoria». Voltò il cavallo e si diresse verso le truppe fresche che lo stavano aspettando. «Avanti», disse, e le osservò mentre incominciavano a marciare verso la città condannata e il castello al di là di essa. Vide i fuochi sulle mura della città e i pochi soldati in attesa; di lì a poco sarebbero morti! Scorse le linee piene di grazia del castello, che una volta aveva protetto tanto bene la città, e ridacchiò. Sentiva entro di sé un'ondata di calore, perché aveva anelato a questa vittoria fin da quando era stato scaraventato fuori del castello, circa due anni prima. Ormai le sue truppe avevano quasi raggiunto le mura, ed egli spronò il cavallo per farlo scendere dall'altura e assistere meglio al combattimento. Poi si accigliò. Sembrava che ci fosse qualcosa che non andava nella luce, perché i contorni della città e del castello, a quanto pareva, stavano on-
deggiando in maniera sempre più allarmante. Sollevò la maschera e si stropicciò gli occhi, poi guardò di nuovo. La forma del Castello di Brass e di Aigues-Mortes sembrò risplendere: dapprima rosea, poi di un pallido rosso, e infine di un vivido scarlatto. Il barone Meliadus si sentì stordito. Si passò la lingua sulle labbra aride e si impensierì per il proprio equilibrio mentale. Le truppe avevano interrotto l'attacco e, borbottando fra loro, si allontanavano da quei luoghi. L'intera città, i pendii della collina e il castello erano adesso circondati da un alone di un intenso azzurro. L'azzurro incominciò ad attenuarsi, e con esso svanirono il Castello di Brass e la città di AiguesMortes. Soffiava un vento tanto impetuoso, che costrinse il barone Meliadus a piegarsi sulla sella. Egli incominciò a gridare. «Guardie! Che cosa è accaduto?» «È... è sparito tutto, signore», gli rispose una voce innervosita. «Svanito!? È impossibile. Come possono scomparire una collina e un'intera città? Sono ancora qui. Hanno eretto una specie di schermo intorno alla località.» Il barone Meliadus cavalcò a spron battuto nella direzione del luogo in cui si era trovata la cinta delle mura della città, aspettandosi di incontrare una barriera, ma niente gli ostacolò il cammino e il cavallo vagabondò su una semplice distesa di fango che sembrava essere stata arata di recente. «Mi sono sfuggiti!» ululò. «Ma come? Da quale scienza sono aiutati? Che razza di potere possiedono, più grande del mio?» Le truppe avevano cominciato a tornare indietro. Alcuni stavano correndo. Il barone Meliadus smontò da cavallo, urlò in preda alla rabbia e pianse, squassato da un'ira impotente. Cadde infine in ginocchio nel fango, percuotendo il terreno dove fino a poco prima si era trovato il Castello di Brass. «Ti ritroverò, Hawkmoon... insieme ai tuoi amici. Mi servirò di tutti gli scienziati della Gran Bretagna, impegnandoli in questa ricerca. E ti seguirò, se sarà necessario, dovunque tu possa essere fuggito, su questa terra o al di là di essa, e alla fine conoscerai la mia vendetta. Lo giuro sulla Bacchetta Magica!» Poi alzò lo sguardo, mentre udiva i tonfi degli zoccoli di un cavallo che gli passava davanti, inducendolo a pensare di aver visto balenargli dinanzi una figura in una armatura di giaietto e oro e di aver udito una fantomatica risata piena di ironia; nello spazio di un secondo anche il cavaliere si era volatilizzato.
Il barone Meliadus si alzò in piedi, guardandosi attorno e cercando il proprio cavallo. «Oh, Hawkmoon», disse con i denti serrati. «Oh, Hawkmoon, ti acciufferò!» Aveva giurato ancora sulla Bacchetta Magica, come in quel fatale mattino di due anni prima. E, allora, la sua azione aveva messo in moto un nuovo disegno della storia. Il suo secondo giuramento rafforzò quel disegno, sia a favore di Meliadus sia a favore di Hawkmoon, e rese ancora più definitivi i loro destini. Il barone Meliadus ritrovò il proprio cavallo e tornò all'accampamento. L'indomani sarebbe partito per la Gran Bretagna e si sarebbe rintanato nei labirintici laboratori dell'Ordine del Serpente. Presto o tardi sarebbe riuscito a trovare una strada per raggiungere lo scomparso Castello di Brass, si disse. *
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Yisselda guardò attraverso la finestra. Hawkmoon la guardò sorridendo e la strinse a sé. Dietro di loro il conte Brass tossì e disse: «Per dirvi la verità, ragazzi miei, sono un po' turbato da tutta questa... questa scienza. Dove ha detto che ci troviamo, quell'individuo?» «In qualche altra Kamarg», rispose Yisselda. La vista dalla finestra era confusa. Sebbene la città e la collina avessero una soddisfacente consistenza, non era così per tutto il resto. Al di là di esse potevano scorgere, come attraverso una radiazione azzurrina, scintillanti lagune e ondeggianti canneti, ma erano iridescenti e privi della consistenza del castello e dei suoi dintorni. «Ha detto che potevamo aggirarci ed esplorare i dintorni», osservò Hawkmoon. «Devono essere, perciò, più consistenti di quel che sembrano.» D'Averc si schiarì la gola. «Io resterò qui e nella città, credo. Tu che ne dici, Oladahn?» Oladahn ridacchiò. «Credo che sarà così anche per me... almeno finché non ci avrò fatto l'abitudine.» «Bene, sono dalla vostra parte», disse il conte Brass. Rise. «Eppure, siamo salvi, no? E anche la popolazione. Dobbiamo essere grati per questo.» «Già», disse Bowgentle pensieroso. «Ma non dobbiamo sottovalutare i
progressi scientifici della Gran Bretagna. Se c'è un modo per raggiungerci qui, lo troveranno... siatene certi.» Hawkmoon annuì. «Hai ragione, Bowgentle.» Indicò il dono di Rinal, che si trovava adesso al centro del tavolo, circondato dalla strana luce azzurrina che penetrava dalle finestre. «Dobbiamo conservarlo nel nostro più sicuro forziere. Ricordate quello che ha detto il guerriero: se verrà distrutta ci ritroveremo di nuovo nel nostro spazio e nel nostro tempo.» Bowgentle si avvicinò alla macchina e la prese. «Mi preoccuperò io di metterla in salvo», disse. Quando se ne fu andato, Hawkmoon si voltò di nuovo a guardare dalla finestra, accarezzando l'Amuleto Rosso. «Il guerriero ha detto che sarebbe ritornato con un messaggio e una missione per me», disse. «Non dubito più, adesso, di essere al servizio della Bacchetta Magica; e quando egli verrà, dovrò lasciare il Castello di Brass, lasciare questo santuario e tornare nel mondo. Devo essere preparato a ciò, Yisselda.» «Non parliamo di queste cose, adesso», disse lei, «ma celebriamo, invece, il nostro matrimonio». «Già, dedichiamoci a questo», disse con un sorriso. Ma non riuscì ugualmente a escludere del tutto dai propri pensieri la consapevolezza che in qualche luogo, separato da lui da esili barriere, il mondo continuava a esistere e continuava a essere in pericolo a causa dell'Impero Nero. Per quanto apprezzasse quella tregua e il tempo che essa gli consentiva di trascorrere con la donna amata, sapeva che presto sarebbe dovuto tornare in quel mondo per combattere, una volta di più, contro le armate della Gran Bretagna. Ma, per il momento, sarebbe stato felice. FINE