FIONA MOUNTAIN LA BAMBINA CHE AMAVA LA MORTE (Pale As The Dead, 2002) Per Tim, Daniel e James e per mia madre Tre bacche...
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FIONA MOUNTAIN LA BAMBINA CHE AMAVA LA MORTE (Pale As The Dead, 2002) Per Tim, Daniel e James e per mia madre Tre bacche rosse ha trovato la mamma colte da un ramo di rosa canina nel fuoco le ha messe al canto del gallo perché il mio spirito in pace riposi. ELIZABETH SIDDAL, Finalmente O donna pallida, perché il tuo volto è pallido come la morte? Quali segreti temono di rivelare i tuoi occhi stanchi? Mi rispose la donna: Sono pallida come la morte, perché la morte mi ama e io sogno la morte. ARTHUR SYMONS, Donna pallida Prologo Loro pensano che sia troppo piccola per capire, ma sbagliano. Lei sa che Charlotte non tornerà più. È per questo che il papà e la mamma sono sempre tristi, che non si scambiano più baci come prima; è per questo che gridano, come in questo momento. Quando il papà le ha detto che sarebbero andati in vacanza e che tutto sarebbe tornato come prima, lei non gli ha creduto. I raggi del sole brillano danzando sul fiume. Ma lei ha imparato che le cose peggiori possono accadere nei giorni più belli. Ci sono più pratoline di quante sarà mai capace di raccogliere. Le punte rosate dei petali le ricordano quando Charlotte si dipingeva le unghie, di nascosto dalla mamma. Se Charlotte fosse qui la aiuterebbe a intrecciare una lunga catena di fiori, le mostrerebbe come unire i gambi per
fare una corona. Una volta le aveva detto: «Il tuo nome somiglia a quello della regina». «Come si chiama la regina?» «Elizabeth.» La mamma ha indossato il costume da bagno rosso e ha raccolto i lunghi capelli biondi sulla nuca. Va verso il fiume. È ancora arrabbiata. Non si ferma neppure per dirle "ciao". Ma forse, dopo la nuotata, le farà piacere un mazzolino di margherite per il vasetto di cristallo che tiene sul tavolo della cucina. Sorride sempre, anche ora, quando qualcuno le regala dei fiori. Sulla riva del fiume, un po' più a monte, crescono dei botton d'oro che starebbero bene assieme alle pratoline. Bianco e giallo. Niente azzurro. Come il vestito che Charlotte indossava quando la trovarono sdraiata sull'erba. Il papà ora è nel fiume con la mamma, ma è tutto vestito. Grida, ancora più forte di prima. Afferra la mamma per i capelli, le mani, il collo. Spinge, tira, trascina. Le braccia della mamma sono bianchissime. Ha gli occhi pieni di paura, non parla. Poi la testa va sott'acqua e i suoi capelli galleggiano come alghe d'oro. Il papà la guarda. Pensa che la bambina, in piedi sulla riva, con le mani sulle orecchie, sia troppo piccola per capire, ma si sbaglia. Lei capisce che la morte è venuta a trovarla di nuovo. Vuole andare a casa. Corre via con le margherite in pugno. La nonna dice che il papà starà via qualche giorno per lavoro, ma non è vero. Perché un poliziotto è venuto a prenderlo? Perché al funerale della mamma il poliziotto non lo lasciava un momento? A lei piacerebbe essere con Charlotte e la mamma, dovunque si trovino. Un giorno le raggiungerà. CAPITOLO 1 Natascia osservava la ragazza che a piedi nudi sull'erba umida si dirigeva verso il fiume Windrush. Indossava un abito antico di broccato scuro, ricamato con sottili fili d'argento. Aveva fiori di campo nei capelli, un mazzolino in mano, l'orlo della sua gonna strisciava sull'erba del prato. Sembrava una sposa dall'aria smarrita.
La ragazza entrò nell'acqua. La gonna si gonfiò attorno al suo corpo come una crinolina, mentre avanzava tra le canne, verso i rami di un salice che si protendevano sul fiume. L'acqua e il cielo erano plumbei, e non c'era alcun riparo dal vento pungente che scendeva dalle Cotswold Hills e da Little Barrington, il silenzioso paesino di cottage in pietra grigia. Il fiume era largo una dozzina di metri, con pozze di acqua ferma. D'estate si riduceva a un ruscello, ma ora, nella seconda settimana di dicembre, scorreva copioso. Sul filo della corrente si formavano mulinelli e gorghi. La ragazza era immersa nell'acqua sino quasi alla vita; il tessuto inzuppato dell'abito rendeva i suoi movimenti lenti, trasognati. Fece ancora un passo, più deciso. Improvvisamente si trovò immersa sino al collo. Quando si sdraiò, l'acqua le fece da cuscino, e i capelli, come quelli di una sirena, si aprirono a ventaglio attorno al suo viso pallido rivolto verso il cielo. «Presto tutto sarà finito, Bethany. Mai più dispiaceri, mai più dolori.» Adam Mason era sulla riva a pochi passi da Natascia. La sua voce era dolce, ipnotica. Bethany lasciò andare i fiori, margheritine, campanule, nontiscordardimé e papaveri, che vennero trascinati via dalla corrente. Alcuni si impigliarono tra i suoi capelli e tra le pieghe dell'abito. «Ora non invecchierai più.» Bethany inarcò il collo e dischiuse le labbra come per intonare un'ultima, muta canzone. Adam Mason si portò rapidamente dietro il cavalletto. Clic. Il suono metallico dell'otturatore spezzò l'incantesimo. Natascia si rese conto che stava trattenendo il respiro. Tenne Boris per il collare, nel caso gli fosse venuta voglia di buttarsi in acqua, rovinando la fotografia. «Non è il caso di avere paura» disse Adam. «La morte per annegamento è la più dolce che ci sia.» "E tu come fai a saperlo?" pensò Natascia. Bethany ora muoveva le mani sotto il pelo dell'acqua per contrastare la corrente e mantenersi nella stessa posizione, dando tuttavia l'illusione di essere trascinata a valle, di annegare. Natascia si chiese se non dovesse togliersi gli stivali, per ogni eventualità. Osservò Adam Mason che, con una calma che le sembrò eccessiva, si-
stemava la macchina fotografica sul cavalletto e metteva a fuoco l'obiettivo, prima di scattare un'altra sequenza di foto. Capelli biondi mossi, giacca e jeans neri, aveva l'aria di uno che va a letto all'alba e vive di caffeina. Era pallido quasi come Bethany. Anche il suo corpo era sottile come quello di lei, ma teso e scattante. «Magnifico» disse Adam Mason, mentre Bethany si rimetteva in piedi e lentamente riguadagnava la riva. Era certamente uno degli incontri più strani che Natascia avesse mai avuto con una potenziale cliente. Bethany Marshall aveva contattato Natascia una decina di giorni prima. Le aveva detto che sarebbe venuta nel Gloucestershire per un servizio fotografico e le aveva proposto un appuntamento. Per il momento Natascia non aveva ancora avuto modo di parlarle. Del resto non c'era fretta. Sulla sua scrivania giaceva una pila di documenti da studiare, di certificati e di genealogie da mettere in ordine, ma in quel momento preferiva di gran lunga star fuori all'aria aperta, il più lontano possibile dal suo cottage. Bethany emerse dall'acqua, con i capelli e l'abito grondanti e le labbra viola, simile allo spettro di un sopravvissuto a un antico naufragio. «Ce l'abbiamo fatta» disse Adam, alzando gli occhi dalla macchina fotografica. Lanciò un'occhiata a Bethany. «Eri bellissima.» Le sue parole avevano un tono intimo, come se fossero soli, come se nessun altro stesse ascoltando. Bethany gli rispose con un sorriso incerto. Sembrava turbata, come se la finzione si fosse avvicinata troppo alla realtà. Il freddo l'avrebbe certamente uccisa se non si fosse rivestita in fretta. Natascia afferrò da terra l'asciugamano e glielo passò. «Lascia che ti aiuti a togliere il vestito.» «Grazie.» Bethany si asciugò la punta dei capelli, poi si voltò lentamente. Mentre le slacciava le dozzine di bottoncini e di ganci, Natascia sentì che la ragazza tremava. «Pensavo che davanti a un obiettivo si dovesse soltanto dire "cheese".» «Adam dice che una foto riesce bene solo se la modella entra nel personaggio che deve interpretare, come farebbe un'attrice.» «È una riproduzione dell'Ofelia di Millais, vero?» «Sì.» Si tolse dai capelli un paio di pratoline. Con la punta dell'unghia fece una piccola incisione su uno stelo, come la cruna di un ago. «Frequenti l'università?» chiese Natascia.
«Devo ancora decidere cosa voglio fare: nel frattempo lavoro da un fiorista.» Intrecciò i due steli. «Mi piace come sorride la gente quando riceve dei fiori in regalo.» L'abito cadde ai piedi di Bethany. Indossava soltanto mutandine e reggiseno bianchi, e al collo portava una croce celtica d'argento, che pendeva da un cordoncino nero. Era minuta e fragile. Sotto la pelle candida si indovinavano le costole e il reticolo violetto delle vene. Si avvolse nell'asciugamano dicendo a Natascia: «Penserai che sono pazza come Ofelia». Natascia sorrise. «Grazie per essere venuta, e scusa se ti ho fatto aspettare tanto.» «Non c'è problema.» Bethany si chinò su un mucchietto di abiti spiegazzati, si infilò una gonna di velluto nero e una camicia dello stesso colore, poi tirò fuori la croce dalla scollatura. Anche Natascia si vestiva in quel modo quando frequentava l'università. «Dopo che mi hai chiamato ho fatto qualche ricerca sui diversi rami della famiglia Marshall» disse. «Soprattutto qui nel Gloucestershire.» Bethany strinse le braccia attorno alle spalle e, volgendo indietro il capo, diede un'occhiata ad Adam, poi si guardò i piedi nudi. «È necessario conoscere il nome completo di una persona per ricostruire la storia della sua famiglia?» chiese, abbassando la voce. «Direi proprio di sì. Ma potremmo cominciare dalle generalità della madre e del padre.» «In realtà il mio cognome non è Marshall.» Natascia restò in attesa. L'esperienza le aveva insegnato che a volte era più facile ottenere risposte con il silenzio. Ma Bethany non aggiunse altro. Scostò i capelli dal collo. Alzò il volto verso il cielo, nel quale era già apparsa una pallida falce di luna, anche se era soltanto metà pomeriggio. «Sai che "lunatico", alla lettera, significa "colpito dalla luna"? La gente credeva che la luna rendesse pazzi. Una cosa logica, se ci pensi, dal momento che la luna governa le maree e l'ottanta per cento del corpo umano è costituito da acqua.» «È un'idea interessante.» Natascia si chiese quanti anni avesse Bethany. Forse venti, più o meno l'età di sua sorella, Abby. «I pagani credevano che la luna avesse poteri curativi. Dunque è sano chi ha in sé un pizzico di follia.» Bethany sorrise debolmente. «E meglio che vada a prendere un maglio-
ne.» Infilò i piedi in un paio di espadrillas nere e si diresse verso la macchina, una Lancia Delta grigio antracite, parcheggiata sul sentiero. Adam Mason stava riponendo l'attrezzatura. Natascia sollevò da terra il vestito bagnato e lo distese con cura perché si asciugasse. Era un modello di primo Ottocento, ricamato con grande raffinatezza. Certamente era stato indossato per delle feste da ballo oppure per un matrimonio, prima che la regina Vittoria inaugurasse la moda dell'abito da sposa bianco. Avrebbe meritato di essere trattato con maggior rispetto. Natascia si avvicinò al fiume e, accucciandosi sui talloni, immerse le dita nell'acqua. Fu tentata dall'idea di spogliarsi e fare un bagno, senza preoccuparsi della presenza di Adam Mason, attratta dalla sensazione di benefico intorpidimento che si prova immergendosi nell'acqua gelida. Invece si alzò e tirò fuori dalla tasca la busta con il biglietto d'auguri di Natale che aveva scritto a Marcus, già con l'indirizzo e il francobollo. Lentamente la strappò a metà, mise un pezzo sopra l'altro e strappò ancora, e poi ancora, e ancora. Sparse i frammenti sull'acqua Move galleggiarono per qualche istante come petali di rosa, prima di sparire, travolti dalla corrente. Un sacrificio alle acque secondo un'antica usanza, un'offerta alle divinità fluviali. Era una settimana che si portava appresso quella busta. Era come avere un tizzone ardente in tasca, anzi, nel cuore. Ridurla a pezzetti le aveva dato una certa soddisfazione. Almeno per dieci secondi. Guardò l'acqua e i rami del salice che la lambivano. Le ricordavano un altro dipinto. Sopra il suo letto di adolescente aveva appeso una stampa di Waterhouse, La Signora di Shalott, che scivolava a valle, adagiata nella sua barca funebre. L'aveva vista in un negozio di Bakewell dove vendevano cartoncini d'auguri dipinti a mano e mappe antiche, e subito ne era stata sedotta. Il clic dell'otturatore la fece sussultare. «Rimani esattamente dove sei» le ordinò Adam. «Non muoverti.» Natascia fece un passo indietro e lo guardò irritata. «Puoi tenere il cane un po' più vicino?» «Si chiama Boris.» Di malavoglia Natascia frugò nella tasca alla ricerca di un biscotto e lo tenne sul palmo della mano, per attirare l'animale. «Fissa l'acqua come se fosse una finestra su un altro mondo.» Natascia ubbidiente chinò la testa. Clic. Adam posò la macchina fotografica sulla custodia metallica che aveva lasciato sull'erba. Tirò fuori dalla tasca della giacca l'accendino e un pac-
chetto di sigarette e ne offrì una a Natascia, che rifiutò scuotendo la testa. «Non ti piace farti fotografare?» «Esatto.» «È un peccato.» Adam scosse la cenere sull'erba. «Se ti incontrassi per la strada e ti chiedessi di venire a posare nel mio studio tu diresti di no, vero?» "Ci puoi scommettere." Lui le si fece più vicino e abbassò la voce. «È buffo, non credi, che i complimenti siano spesso scambiati per minacce?» Natascia alzò le spalle, cercando di non sembrare irritata. Adam le porse la macchina. «Da' un'occhiata.» Era una digitale dell'ultima generazione, con un piccolo schermo sul retro. Natascia si vide come era apparsa qualche secondo prima, alta e snella, avvolta nel suo cappotto preferito, lungo e nero con il collo alto, accanto a Boris, il suo setter rosso, una macchia di colore sullo sfondo del cielo bianco e del fiume d'argento. «Saresti ancora più bella se ti dessi meno arie.» Il respiro di lui le sfiorò l'orecchio e Natascia per un pelo non lasciò cadere la macchina. Adam Mason l'afferrò con un sorriso canzonatorio, come se l'imbarazzo di lei lo divertisse. «Scommetto che hai studiato in una scuola privata, vero? Sei cresciuta in una vecchia casa con un giardino grande come un parco, con campo da tennis e dei pony. Genitori affettuosi. Allora perché sei così arrabbiata?» «Tu non sai niente di me.» «Ma ho ragione o no, a proposito della scuola esclusiva? Volevo farti un complimento. Hai stile. Che giudizio scrivevano gli insegnanti sulle tue pagelle?» «Non ricordo.» «Sì che lo ricordi. Scommetto che eri sempre la prima della classe. Che cercavi l'approvazione degli altri. Che volevi piacere a tutti.» Natascia si sentiva i suoi occhi addosso, e la irritava il fatto che fosse andato così vicino alla verità. «Studentessa modello? Con un grande futuro davanti a sé? È questo che scrivevano?» continuò a incalzarla. Voleva zittirlo, costringerlo ad abbassare la cresta. Esibì il più sfolgorante dei sorrisi. «Dicevano che ero sveglia: "La ragazza è intelligente, ma un tantino presuntuosa". Come vedi tu e io abbiamo qualcosa in comune.»
Mason rivolse di nuovo l'attenzione alla macchina fotografica. «Allora, che cosa ti ha detto Bethany?» Istintivamente Natascia mentì. «Niente, per ora.» Mason selezionò la penultima foto, quella che aveva scattato all'insaputa di Natascia e le ripassò la macchina. Era un profilo, in primo piano. Non era male, anche se non si era truccata neppure quella mattina. Da che Marcus se ne era andato Natascia aveva avuto più problemi del solito a dormire. Anche mangiare era diventato soltanto un dovere. I pesanti capelli castano dorato erano raccolti sulla nuca e l'umidità le aveva incorniciato il viso di riccioli. Grandi occhi a mandorla, zigomi pronunciati, naso piccolo, fronte alta... Un viso che avrebbe sempre fatto fatica a riconoscere come proprio. CAPITOLO 2 Natascia sedeva accanto all'immenso camino del Fox Inn di Little Barrington. Adam era di fronte a lei. Nel locale, abbastanza fuori mano da non essere invaso dai festeggiamenti prenatalizi, c'erano soltanto tre escursionisti e una giovane coppia che mangiava patate fritte e beveva vino rosso. Sul tavolino davanti ad Adam e a Natascia c'erano una vodka and tonic e una pinta di birra, più un bianco frizzante per Bethany, che era in bagno ad asciugarsi i capelli. «Le foto sono per una rivista?» chiese Natascia. «No, per una mostra che si terrà a Oxford.» Adam fumava una sigaretta dopo l'altra, tenendo i gomiti appoggiati al tavolo. Le maniche della giacca di velluto nero gli arrivavano fin sulle dita ed erano lise ai polsi. «Voglio realizzare una sequenza di immagini nello stile dei Preraffaelliti, servendomi della tecnologia più moderna. Dai tempi di Julia Margaret Cameron, nessun fotografo si è cimentato in questa impresa. Ho pensato che sarebbe stato interessante ripetere quell'esperienza a distanza di oltre cent'anni.» Il suo tono saccente infastidiva Natascia. «A quali dipinti ti ispirerai?» gli chiese. «Bethany ha voluto interpretare Ofelia. È ossessionata da Lizzie Siddal, la modella dell'originale.» Adam si abbandonò sullo schienale della panca. «Se escludiamo Ofelia, non ci saranno vere e proprie copie. Solo scene suggerite dai temi mitologici o medievali che ispirarono i Preraffaelliti.» Adam bevve un lungo sorso della sua birra. «Mi è sempre piaciuta l'idea
della Confraternita Preraffaellita. Delle società segrete. All'università ne fondai una insieme ad alcuni amici. Ci riunivamo alla sera, a lume di candela, bevevamo caffè e vino, ascoltavamo musica e parlavamo di arte, di letteratura e di filosofia. Funzionava molto bene con le ragazze.» «Non stento a crederci» ironizzò Natascia. E aggiunse: «La mostra è un'idea fantastica. Oxford è il posto ideale, con tutti i suoi legami con i Preraffaelliti». Bethany riemerse dal bagno. Scivolò sulla panca accanto ad Adam e gli si rannicchiò contro. Lui ne osservò per un attimo il profilo, forse sperando che gli restituisse lo sguardo, ma lei continuò a guardare fisso davanti a sé, sorseggiando il vino. Adam finì la birra e andò al banco a ordinarne un'altra. Bethany lo guardò mentre si allontanava. Natascia riconobbe quello sguardo: amore e tristezza. Provò per la ragazza un sentimento di tenera protezione. «Avresti dovuto prendere un whisky per scaldarti.» Bethany sfregò le mani. «O una tazza di tè bollente. Anche se ho la sensazione che niente potrà scrollarmi questo freddo di dosso.» «Vuoi che ci scambiamo i posti? Così sarai più vicina al fuoco.» «Grazie.» Bethany andò a sedersi accanto al camino e Natascia sulla panca. «Che cosa dicevi a proposito del tuo cognome?» chiese Natascia con un tono intenzionalmente casuale. Bethany esitò, come se si fosse pentita di averle fatto quella confidenza. «Credo di discendere da una Marshall. Non conosco il suo nome di battesimo, so solo che comincia con la lettera "J". Suo padre era un medico, frequentava il circolo dei Preraffaelliti. Mia nonna mi ha regalato il diario di J. Marshall.» A Natascia, Bethany piacque ancora di più per via di quel fremito leggero nella sua voce. «È affascinante. Adam ha detto che tu ti interessi di Lizzie Siddal. Ha a che fare con il diario?» «Credo di sì. Ho intenzione di scrivere una sua biografia.» Bethany giocherellava nervosamente con lo stelo del bicchiere. «Ho incominciato a fare qualche ricerca.» «So che una delle impiegate all'Archivio di Stato ha studiato i primi anni della vita di Lizzie Siddal, utilizzando tutti i documenti disponibili. Dovresti telefonarle.» Bethany lanciò uno sguardo ad Adam che stava pagando la birra al banco. «Lui non sa... Promettimi di non dire niente a proposito del mio co-
gnome.» «Te lo prometto.» «È meglio così, credimi.» La gente cambiava il proprio nome per molte ragioni. C'erano persone che volevano fuggire da qualcosa o da qualcuno, altre che avevano compiuto un'azione di cui si vergognavano o che avevano commesso un delitto, altre ancora che, essendo state testimoni di un crimine, temevano per la propria vita. Per un motivo o per l'altro, tutte volevano sfuggire al proprio passato. Natascia ebbe la sensazione che Bethany fosse un caso a parte. Appoggiò il bicchiere sul tavolo. «Qualcosa non va?» le chiese, a un tratto preoccupata. Un pallido sorriso si disegnò sulle labbra della ragazza. «Va tutto benissimo» rispose. «Vorrei farti una domanda che potrà apparire strana...» Lasciò la frase a metà. «Sono abituata alle domande strane» la incoraggiò Natascia. «Pensi che... è possibile che... che certe famiglie possano essere perseguitate da una maledizione?» Natascia non sapeva cosa l'avesse spinta a porre quella domanda. Cercò una risposta che tenesse conto dell'angoscia di Bethany. «A volte» disse con cautela. Avrebbe voluto spiegarsi meglio, ma Adam era tornato e aveva posato la sua birra sul tavolo. Bethany cambiò argomento, domandando di quante generazioni fosse possibile risalire attraverso una ricerca genealogica. «Dipende» rispose Natascia. Adam si era buttato sulla piccola panca, spingendosi fin contro Natascia, a cui non restava spazio per scostarsi. Adam fingeva di non ascoltare la conversazione, ma era evidente che era interessato. «Nel caso di una famiglia di proprietari terrieri la documentazione può arrivare a coprire parecchi secoli.» «Quanto tempo ci vuole?» «In un mese di ricerche si può risalire di tre generazioni a partire dai nonni.» Bethany rimase pensierosa per un momento, poi chiese: «Perché, secondo te, la gente vuole conoscere i propri antenati?». Strana domanda per qualcuno intenzionato a indagare sul passato della propria famiglia. «Ci sono mille ragioni. Credo che nella maggioranza dei casi si tratti di persone che vogliono conoscere meglio se stesse.» «E questo è un bene?» Negli occhi della ragazza passò un'ombra di paura. Natascia conosceva
bene quella sensazione. «A mio avviso, a volte può essere di grande aiuto.» «Per favore!» esclamò Adam con impazienza. «Questo genere di ricerche serve solo a raccattare storie con cui intrattenere gli amici al pub. Così uno può vantarsi di uno zio defunto che scontò sei anni di galera per aver rubato un pezzo di pane. Che importanza può avere sapere cosa faceva il tuo trisavolo per vivere?» «Non saprei» disse Natascia in tono leggero. Non voleva che la conversazione prendesse una piega troppo seria. «Si dice che gli spettri non abbiano ombra, eppure alcuni proiettano ombre lunghissime.» «Spiegati meglio» la sollecitò Adam con aria provocatoria. «È la Sindrome dell'Antenato» proseguì Natascia, guardando Bethany negli occhi. «La teoria secondo cui tutto ciò che ti accade è in qualche modo determinato da un destino che hai ereditato.» «Magnifico!» esclamò Adam con una risatina canzonatoria. «Romanticherie gotiche. Fammi indovinare: l'unico modo per interrompere il perpetuarsi dello stesso scenario è capire che cosa lo abbia determinato all'origine. Lo slogan perfetto per un genealogista.» «Funziona sempre» rispose Natascia paziente. Bethany finì il vino e posò sul tavolo il bicchiere vuoto. «Ti chiamo dopo Natale» disse a Natascia. «Quando vuoi.» Natascia avrebbe scommesso che Bethany non si sarebbe più fatta sentire. Era un peccato. Provava simpatia per la ragazza. Istintivamente sentiva che aveva bisogno d'aiuto. Adam finì la sua seconda birra e si incamminò verso l'uscita. Di proposito Natascia si attardò con Bethany, lasciando che Adam le precedesse al parcheggio dietro il pub. «Tornate a Londra, adesso?» le chiese mentre si avviavano verso l'automobile. «Siamo ospiti di un amico di Adam a Oxford, fino alla fine della mostra.» Parlava in fretta, come se non desiderasse soffermarsi sull'argomento. Non c'era ombra di entusiasmo nella sua voce. «Credi davvero che si possa ereditare un destino?» «È solo una teoria. Ma ha un suo fondamento. Certamente aiuta a spiegare perché in alcune famiglie accadano più tragedie che in altre.» «Come?» «Ti farò un esempio. Quando un nostro antenato è stato vittima o protagonista di una tragedia, in qualche modo ci aspettiamo che la stessa cosa
accada anche a noi. Così, inconsciamente, rischiamo di più, ci deprimiamo, diventiamo autolesionisti, perfino le nostre difese immunitarie calano.» Sapeva d'aver catturato l'attenzione di Bethany. «Perciò quando un certo avvenimento si ripete viene interpretato come il segno di una maledizione. In realtà si tratta di una profezia che si autodetermina.» La Lancia era a pochi passi di distanza e Adam era già seduto al volante. «Prova a pensarci, non c'è neppure bisogno di conoscere l'evento originario. Metti che un tuo avo sia morto cadendo da una finestra. Se tu soffri di vertigini è possibile che la paura dell'altezza ti sia stata trasmessa inconsciamente, generazione dopo generazione.» «Capisco» disse Bethany in tono così grave che Natascia rimpianse di non aver tenuto la bocca chiusa. CAPITOLO 3 Il villaggio di Snowshill si dimostrava sempre all'altezza del suo nome, la "collina delle nevi". Nei mesi invernali, spesso rimaneva isolato per giorni e giorni. Negli avvallamenti, la neve si conservava a lungo, anche dopo che altrove era sparita da settimane. Quando nelle valli e nei pascoli più bassi spuntavano primule e giunchiglie, a Snowshill era ancora pieno inverno. Il cottage di Natascia era l'ultimo di una breve fila di case contadine che risalivano al Seicento. Al suo interno non c'era una sola linea diritta. Soffitti bassi con travi a vista bitorzolute, pareti spesse, fuori squadra o spanciate, finestre piccole, storte, con vetri piombati, pavimenti imbarcati e scricchiolanti. Si chiamava Orchard End, benché non ci fosse mai stato un frutteto in tutto il circondario. Tuttavia, dalle finestre del primo piano si scorgevano Littleworth Wood e la valle di Evesham, un tempo famosa per i suoi frutteti. Probabilmente il nome del cottage conservava il ricordo di quelle antiche fioriture. Natascia amava i posti piccoli, antichi, capaci di trasmettere una sensazione di continuità e di appartenenza. Per questo le piacevano sia la casa sia il villaggio. Ma da quando Marcus se ne era andato, Natascia non ci si era più sentita veramente a casa. Per tre anni il suo uomo aveva abitato con lei tra quelle mura, ma ogni volta che se ne era allontanato, per recarsi all'estero o sem-
plicemente all'Università di Manchester, dove lavorava, Natascia aveva pensato che non sarebbe più ritornato. Tuttavia si era sentita rassicurata dalla presenza delle sue cose in ogni stanza, dalle telefonate e dalle e-mail quotidiane. Da che lui l'aveva lasciata due settimane prima, nulla aveva più il potere di rassicurarla e nella casa c'erano soltanto vuoto e silenzio. Parcheggiò la sua Alpine davanti al cottage e fece saltar giù Boris dal sedile accanto. Aprì la porta ed entrò, chinando la testa sotto l'architrave. Ascoltò le telefonate registrate dalla segreteria. C'era un messaggio della sua amica Mary, che gestiva il pub Snowshill Arms con il marito James. Ricordava a Natascia l'invito a cena per la sera successiva. Il secondo messaggio era di suo padre, Steven, e l'ultimo di Will, un ex collega di Generazioni, con il quale aveva avuto una storia, anche se sembravano passati secoli da allora. La chiamava per invitarla a una festa di Capodanno. Per il sette di gennaio. Tipico di Will. Si mise in fretta una giacca a vento e infilò i pantaloni dentro gli stivali. Boris si mise ad abbaiare con entusiasmo, agitando la coda contro i suoi polpacci. Ora che la neve scendeva fitta, si sentiva eccitata quasi quanto il suo cane. Lo seguì all'esterno e subito Boris schizzò come una freccia in direzione della chiesa, per poi scendere lungo il ripido viottolo che portava verso il bosco. Il Maniero di Snowshill richiamava turisti da tutto il Regno Unito, dall'America e persino dal Giappone. Era incredibile quante persone conoscessero un luogo così piccolo. Quando diceva a qualcuno dove abitava, Natascia si sentiva spesso dire che era un posto spettrale, come se l'atmosfera del Maniero permeasse l'intero villaggio. Perfino alcuni abitanti del paese, le cui famiglie vivevano a Snowshill da secoli, non si sarebbero mai sognati di percorrere il viottolo che correva tra Orchard End e il Maniero dopo il tramonto. Natascia era rimasta affascinata sin dalla prima volta che aveva visitato la grande casa. Le stanze tetre erano piene degli straordinari oggetti collezionati dall'ex proprietario, Charles Paget Wade. Rivestimenti in legno di epoca Tudor e camini medievali creavano l'ambiente adatto per l'esposizione di macabre armature da samurai, di maschere balinesi, di lanterne persiane che proiettavano sulle pareti ombre inquietanti. Il Maniero era disabitato.
Tornando a casa, Natascia contemplò per qualche istante le sue finestre nere. Mentre si avvicinava al villaggio sentì nell'aria un meraviglioso profumo di legna bruciata, e lo sfavillio delle luci dello Snowshill Arms le sembrò molto invitante. Ma sapeva che rifugiarsi da Mary sarebbe stato solo un espediente per evitare la casa vuota. Il crepuscolo era il momento peggiore. Quella breve pausa tra il giorno e la notte, quando si accendono le luci ma le tende non sono ancora tirate, e chi è solo può vedere in ogni soggiorno un invidiabile quadretto di felicità familiare. La casa di Natascia era gelida. Da molto tempo l'impianto di riscaldamento funzionava male, ma lei non si era ancora decisa a chiamare qualcuno che lo riparasse. Accese le luci, aprì una bottiglia di vodka e se ne versò una dose generosa, senza aggiungere acqua tonica. Sdraiato sul vecchio tappeto persiano davanti al caminetto, Boris seguiva i suoi movimenti. Natascia appallottolò qualche foglio di giornale per accendere il fuoco. Non appena si mise a sedere su un mucchio di cuscini, il setter andò ad appoggiare la testa sul suo grembo, sdraiandosi con uno sbuffo soddisfatto. La stanza sembrò subito più accogliente con la luce delle fiamme che si riverberava sui mobili di noce scuro, sui candelieri di peltro, sui soprammobili che le piaceva acquistare ai mercatini dell'antiquariato e sulle stoffe dai toni caldi, marrone, rosso, oro. Accese il televisore. Ormai stava diventando un'abitudine, riempire la casa di voci e di facce sconosciute. Passò da un canale all'altro, incontrando solo spettacoli a quiz e soap opera; infine trovò un notiziario su un canale locale. «Ci sono più suicidi a Natale che in qualunque altro periodo dell'anno...» Spense l'apparecchio. Sentiva la vodka bruciarle nello stomaco. Spostò il muso di Boris e andò in cucina a riempirsi di nuovo il bicchiere. Era la terza vodka della giornata. Ma la prima l'aveva bevuta durante un incontro di lavoro, quindi non contava. Diede da mangiare al cane; si fece un piatto di pasta al pomodoro e lo portò alla scrivania, posandolo accanto al computer. Si collegò a Internet, entrò in un paio di chat sulla storia familiare, poi visitò un sito di
MP3 e scaricò un paio di tracce. "Fai qualcosa di utile." Andò agli scaffali del sottoscala. Aveva ordinato i suoi libri senza troppa sistematicità, un po' per argomento un po' in ordine alfabetico. Fece scorrere l'indice sui dorsi finché trovò il volume che cercava: Il sogno preraffaellita. Sulla copertina dal bordo dorato c'era una famosa immagine che era stata riprodotta sulle copertine di molte antologie di poesia vittoriana, ma anche sui biglietti d'auguri e sui poster. Una fanciulla dai capelli corvini avvolta in un abito di seta verde, con gli occhi ridenti e la bocca sensuale, teneva in mano un frutto maturo a cui era stato dato un morso. Proserpina di Rossetti. La modella era stata Janey Morris. Natascia sfogliò il volume per trovare Lizzie Siddal ritratta nell'Ofelia di Millais. Un bel dipinto, inquietante, i colori del ricco fogliame e del viso di Lizzie realistici come in una fotografia. Nessuna meraviglia che Bethany e Adam avessero voluto replicarlo. Sul retro della stessa pagina c'era Lizzie in Beata Beatrix. Lo stile era molto diverso da quello di Proserpina. L'immagine, pur essendo sensuale, aveva qualcosa di mistico. Con il viso rivolto al cielo, le labbra schiuse come in un canto e le palpebre abbassate in una muta preghiera, Lizzie era un'icona. Natascia scorse l'indice dei nomi in fondo al libro senza incontrare quello del dottor Marshall. Andò a letto soltanto dopo che il fuoco si fu ridotto a un mucchietto di braci e il freddo ebbe invaso il soggiorno. Lasciò che Boris la seguisse su per le scale e non lo sgridò quando, consapevole di fare una cosa proibita, il cane saltò sul letto. L'ultima volta che Natascia guardò l'orologio erano le due e mezza. CAPITOLO 4 Un paio di settimane più tardi, Natascia fu svegliata dall'arrivo della posta. C'erano biglietti d'auguri per il suo compleanno e per Natale. Li scorse rapidamente, provando una grande delusione nel non trovare la scrittura di Marcus. Aveva quasi rinunciato a sperare che si facesse vivo. Quasi. Aprì le buste.
Biglietti raffiguranti bottiglie di spumante e mazzi di fiori, pettirossi e slitte trainate da renne. Natascia, in realtà, avrebbe preferito dimenticare quel giorno. Tranne che per un unico particolare. Si inginocchiò di fronte al bauletto in legno di quercia scuro ai piedi del letto e sollevò il coperchio. Si concedeva di aprirlo solo una volta all'anno, nella mattina del suo compleanno. Era una sorta di rituale. Tirò fuori un fagotto avvolto in carta velina. Sfiorò lo scialle con la punta delle dita. Lo sentì freddo e soffice, come muschio ghiacciato o i fiori di brina che si formano sui vetri nelle mattine d'inverno. Scostò un angolo dello scialle per trovare la cartolina. Era un'immagine della vetrata di santa Caterina nella cattedrale di Oxford. Sul retro c'era una sola frase tracciata in inchiostro blu scuro. «Conserviamo ogni cosa che viene lasciata insieme ai bambini abbandonati» le aveva detto l'assistente dei Servizi Sociali, con ostentata partecipazione. «Restituiamo tutto, dopo che ai ragazzi è stata comunicata la storia della loro famiglia, quando sono abbastanza grandi per capire.» Quando si è abbastanza grandi per capire? Natascia aveva saputo a diciotto anni di essere stata adottata. La sua vera madre l'aveva abbandonata in una corsia d'ospedale. Non era riuscita a farsene una ragione. I neonati venivano abbandonati soltanto nei romanzi vittoriani. Trovatella. Un vocabolo che, negli anni Settanta, poteva sembrare obsoleto. Non era così. Nel Regno Unito il numero dei bambini abbandonati era in costante aumento. Le statistiche dicevano che in media veniva abbandonato un bambino alla settimana. Conserviamo ogni cosa che viene lasciata insieme ai bambini abbandonati. Tutto quello che rimane della loro storia familiare. Natascia aveva firmato la ricevuta e aveva preso possesso del fagotto. Poi aveva letto la frase scritta sul biglietto che aveva trovato dentro lo scialle. Si chiama Natascia. Il ricordo di quel giorno la colpì, improvviso e devastante come un maremoto. Era domenica mattina. Era seduta in cucina con i suoi genitori. Ann e Steven stavano discutendo sul nome da dare alla creatura che stava per nascere, nel caso si fosse trattato di una bambina. Steven aveva suggerito il nome Abigail. Ann, posando una mano sulla rotondità del suo ventre, aveva detto che Abigail andava benissimo. «Sei stato tu a scegliere il mio nome?» aveva chiesto Natascia a quello
che credeva suo padre. Lui l'aveva guardata con tenerezza mista a una tristezza che lei non aveva capito. «È stata tua madre.» Gli occhi di Natascia erano volati su Ann aspettandosi un sorriso. Ma Ann aveva distolto lo sguardo. Ecco la verità. La sola verità in mezzo a tante menzogne. La sua vera madre aveva scelto il suo nome. Per qualche ragione aveva voluto chiamarla Natascia e Steven e Ann avevano rispettato il desiderio della donna. Non avevano fatto come la maggior parte dei genitori adottivi, che scelgono un altro nome per il bambino. Fece scorrere le dita sulle lettere di quell'unica frase. Quanto avrebbe desiderato credere che la scrittura potesse rivelare il carattere di una persona. La "N" era elaborata, quasi un arabesco, e il trattino sulla "T" partiva largo e finiva appuntito come una spina. Infilò il cartoncino al suo posto sotto lo scialle, che riavvolse nella carta velina e rimise sul fondo del bauletto. «Natascia. Russo. Diminutivo di Natalya. Russo.» Ormai conosceva a memoria la voce del Dizionario dei nomi. «Natalya. Russo. Dal latino natalis, il giorno della nascita, in particolare di Cristo. Da qui la tradizione di attribuire questo nome ai nati nel periodo natalizio.» Forse era tutto lì. Dopo il tramonto, Natascia si avviò verso il cottage accanto allo Snowshill Arms. Sulla cucina a gas cuoceva uno stufato d'agnello e sul tavolo d'abete c'erano candele decorate di agrifoglio. Mary l'accolse con un bicchiere di vino speziato. Nuotava dentro una camicia troppo grande, probabilmente presa in prestito da James, e che comunque non riusciva a nascondere il suo ventre prominente. «Come ti senti?» chiese Natascia. «Oh, benissimo. Come una balena arenata.» Alta poco più di un metro e cinquanta, minuta, Mary di solito indossava vestiti per ragazzini sotto i quindici anni. Sembrava una bambina, troppo giovane per essere madre. «Ancora quattro settimane.» James stava controllando che lo stufato fosse pronto, con i guanti da forno gettati su una spalla. «Mi aspetto che la creatura arrivi il giorno di Natale, apposta per rovinarmi il pranzo» disse ridendo. Natascia diede un colpetto sulla pancia di Mary. «Bellezza, rimani lì più
a lungo che puoi, a meno che tu non voglia ricevere un solo regalo grosso invece di due, ogni anno, per il resto della vita.» Proprio nel momento in cui stavano mettendosi a tavola il cellulare di Natascia trillò. Frugò nella borsa per recuperarlo. «Pronto.» «Parlo con Natascia Blake?» «Sì, oh... salve Adam.» Natascia colse il sorrisetto d'intesa di Mary e le fece una smorfia. Non è quello che pensi. «Ho bisogno di parlarti» disse Adam. «Si tratta di Bethany.» CAPITOLO 5 Il giorno seguente Natascia si ritrovò ancora una volta ad aspettare sulla riva di un fiume. Adam aveva già mezz'ora di ritardo. Natascia odiava correre per essere puntuale agli appuntamenti, essere costretta a tenere d'occhio l'orologio, ma questo non le impediva di essere spesso in ritardo. Perciò cercò di non essere troppo indispettita. Il Tamigi, ingrossato dai corsi d'acqua che scendevano dalle colline, resi vorticosi dalle recenti piogge torrenziali, correva tumultuoso sotto gli archi in pietra del Folly Bridge di Oxford. A Natascia era sembrata una città favolosa quando, a diciotto anni, era arrivata dal Derbyshire con due grosse valigie e una borsa piena di libri. Vide Adam venirle incontro scendendo veloce i gradini di pietra. La salutò con una stretta di mano breve e decisa. «Spiacente per l'attesa.» Lo disse senza alcuna convinzione. «Non preoccuparti. Capita anche a me di essere in ritardo» ammise Natascia. «Odio portare l'orologio.» Lui guardò Boris, del tutto indifferente al rapporto di Natascia con il tempo, e s'infilò tra le labbra una sigaretta. Non ne offrì una a lei, né le chiese se il fumo le desse fastidio. «Possiamo cominciare subito? Non ho molto tempo.» Natascia si rammaricò di essere troppo ben educata per mandarlo al diavolo. Adam aveva approfittato della sua curiosità per attirarla a Oxford la vigilia di Natale. Le aveva detto che si trattava di una cosa urgente e ora, evidentemente, non sentiva nemmeno il bisogno di essere gentile. Adam fissava il turbinio dell'acqua attorno ai piloni del ponte. Una ragazza entrò nel pub lì accanto. Dal locale arrivò un'ondata di chiasso. Na-
tascia sapeva che il pub sarebbe stato affollatissimo, tuttavia propose ad Adam di entrare. Lui invece indicò le panche da picnic sparse sulla riva del fiume, deserte in quella giornata di fine dicembre. «Non mi dispiacerebbe rimanere qui fuori.» «Come vuoi.» Natascia andò a comprare qualcosa da bere al bar. Quando ritornò, Adam stava accendendo un'altra sigaretta. Gli tremavano le mani. «Hai detto che volevi parlarmi di Bethany.» «Se n'è andata.» La cosa non la sorprese più di tanto. «Dove?» «Voglio che sia tu a dirmelo.» «Aspetta un minuto.» Negli occhi di Adam c'era un'espressione disperata. «Sarei felice di aiutarti se potessi, ma temo che ti sia rivolto alla persona sbagliata. Io non cerco persone viventi. E poi, sei sicuro che lei desideri farsi rintracciare?» Come se non avesse sentito la domanda, Adam raccolse la sua valigetta metallica, la posò sulla panca, fece scattare la serratura e sollevò il coperchio. Estrasse un libro dalla copertina di tela color verde oliva e glielo porse. «L'ho trovato sul tavolo della cucina la mattina in cui se ne è andata. Pochi giorni dopo che ci siamo incontrati sul Windrush. Nessun biglietto. Solo questo e dei fiori in un vasetto.» Con cautela, Natascia prese in mano il libro, come se si trattasse di una reliquia. Ancora prima di aprirlo aveva intuito che doveva trattarsi del diario di cui le aveva parlato Bethany. Le pagine apparivano fragili, punteggiate di macchie scure; erano scritte in una grafia rozza, irregolare ed erano piene di cancellature e sbavature. Non c'era una data, ma il manoscritto era senza dubbio antico. Mentre Natascia lo sfogliava con estrema cura, le punse le narici quel vago sentore di muffa che non mancava mai di farle correre un brivido per la schiena: l'odore dei vecchi libri, delle lettere e delle fotografie conservate per anni, delle case antiche, degli abiti sbiaditi chiusi nei cassettoni da tempo immemorabile. La sua attenzione fu catturata da alcune frasi: I pazienti di papà. I dipinti all'Accademia. Tornò alla prima pagina del volume, dove notò le iniziali "J.M." Bethany aveva lasciato Adam, ma gli aveva affidato il diario, che era stato tramandato per generazioni nella sua famiglia. Un ricordo certa-
mente prezioso, forse addirittura un oggetto di valore. Natascia chiuse il libro. «Non vedo come potrei esserti d'aiuto.» Adam estrasse dalla tasca un foglietto e glielo passò. Natascia lo spiegò e vide il proprio nome, indirizzo, telefono ed e-mail, scritti in un corsivo molto elegante. «L'ho trovato tra le prime pagine del diario» spiegò Adam. «Bethany voleva che io ti contattassi, che ti chiedessi di trovarla. Attraverso il diario, voglio dire. Se fosse effettivamente appartenuto a una sua antenata, pensi che potrebbe condurci a lei, o almeno ai suoi parenti? Saresti in grado di trovare il loro indirizzo e numero di telefono?» «È troppo presto per saperlo.» Natascia credeva di capire Bethany. Volere l'amore di qualcuno più di ogni altra cosa al mondo, e nello stesso tempo respingerlo, nella speranza che l'amato non ti permetta di andartene, che faccia qualsiasi cosa pur di riaverti. Lei stessa non stava forse mettendo alla prova Marcus nello stesso modo? «Non c'è un sistema più semplice per trovarla?» chiese Natascia. «Non ha mai voluto dirmi niente della sua famiglia. Non mi ha mai detto neppure dove abitava. A meno di telefonare a tutti i Marshall dell'elenco, non saprei che fare.» Natascia non gli disse che non avrebbe funzionato comunque. Aveva promesso a Bethany che non avrebbe rivelato la faccenda del cognome fittizio. Una promessa era una promessa. «Hai idea del perché se ne sia andata?» Osservò il viso di Adam attentamente. Lui esitò per un attimo, e rispose senza guardarla negli occhi. «Nessuna» affermò con una sicurezza che a Natascia sembrò sospetta. «Dunque Bethany è da considerarsi scomparsa. La polizia ha certamente più possibilità di ritrovarla di quante ne abbia io.» «Non posso andare alla polizia.» Natascia sentì che qualcosa non andava. «Perché non puoi?» «Non farebbero niente.» «Fammi capire. Bethany aveva ogni diritto di lasciarti, se era questo che desiderava. Tu non hai alcun reale motivo di essere preoccupato per la sua sicurezza... Avete litigato?» «È stato un litigio stupido. Io le ho chiesto di venire ad abitare con me e lei si è arrabbiata moltissimo. Ha detto che non aveva intenzione di dedi-
carmi tutto il suo tempo e che non dovevo aspettarmi nulla da lei.» Adam alzò il viso e la guardò negli occhi. «Penserai che tutto ciò rende ancora più inutile tentare di trovarla.» Ci fu un minuto di silenzio, poi lui riprese a parlare come se continuasse ad alta voce il corso dei suoi pensieri. «Se non avesse lasciato il diario, sarei d'accordo con te. Ma ci teneva tanto. E il tuo nome e indirizzo sul foglietto. È ovvio quello che vuole da me.» Natascia non ebbe il coraggio di dirgli che il foglietto poteva essere stato dimenticato nel diario per caso. «Da quanto tempo state insieme?» «Sei settimane.» C'era un'espressione di sfida nei suoi occhi. «So che può sembrare strano che io sappia così poco di lei. Non voleva domande. In qualche modo il suo silenzio mi affascinava. Lo capisci?» «Francamente no.» In genere, pensò, la gente che amava la segretezza non meritava fiducia. Come la ragazza che aveva dato un nome falso prima di scomparire dall'ospedale dove, la vigilia di Natale di ventotto anni prima, aveva dato alla luce una bambina. Faceva freddo. Natascia aveva le unghie blu. Infilò le mani nelle maniche del cappotto sperando che Adam capisse che desiderava entrare nel pub. «Non c'è bisogno di sapere tutto sul passato di una persona per sentire di conoscerla. Quello che è accaduto prima che ci incontrassimo non è importante, appartiene a un'altra vita. Solo il presente conta, e il futuro.» La voce di Adam aveva perso il tono angosciato di poco prima. «I sogni sono molto più importanti dei ricordi. Non credi?» «Il mio lavoro sarebbe superfluo se tutti la pensassero come te.» E tuttavia lei stessa, recentemente, era arrivata a pensare che a volte il passato potesse rappresentare un bagaglio scomodo, un impedimento ad affrontare una vita nuova. Una serie di domande su Bethany le turbinava per la mente, anche se, dopo il discorso di Adam, le apparivano in qualche modo fuori luogo. «Dove l'hai incontrata per la prima volta?» «A Londra. In un caffè vicino allo studio che allora frequentavo.» «Bethany mi ha detto di lavorare da un fiorista. Hai provato a cercarla là?» «Non mi ha mai raccontato dove si trovasse esattamente il fiorista. Sono andato con una sua fotografia in tutti i negozi di fiori dei dintorni, ma nessuno l'ha mai vista.»
Adam posò una mano sul diario come se stesse facendo un giuramento. «Al momento abito a Oxford e ci rimarrò fino alla conclusione della mostra. Volevo entrare nell'atmosfera della città, capisci? Bethany veniva per il fine settimana. Venerdì sera abbiamo cenato in un ristorante italiano. Come ti ho detto, abbiamo litigato. Ma non pensavo che fosse una cosa seria. Siamo andati a casa, abbiamo bevuto una bottiglia di vino, poi siamo andati a letto e abbiamo fatto l'amore.» Rimase in silenzio per un attimo, fissando l'acqua limacciosa del fiume. «Quando al mattino mi sono svegliato, lei non c'era più. Ha portato via tutte le sue cose, tranne questo.» Si guardò la mano, ancora appoggiata sul libro verde oliva. «Non mi sono messo in contatto con te subito, perché speravo che tornasse. Pensavo che avremmo trascorso il Natale insieme...» «Hai provato con i suoi amici?» «Non mi ha mai parlato di nessun amico.» «Sai di qualche posto che le piacesse in particolar modo?» Adam fece un gesto d'impazienza con la mano, come se trovasse la domanda estremamente fastidiosa. «Gallerie, parchi, case antiche.» «Per essere di qualche aiuto devo sapere qualcosa di lei.» «Diceva che le piaceva viaggiare, perché ogni viaggio offre un punto di vista nuovo. Perché fa sembrare le giornate più lunghe. Di recente era stata in Francia e in Italia. Io speravo che prima o poi saremmo partiti insieme, ma lei non voleva parlare del futuro. Si rifiutava categoricamente. Pensavo che tra noi ci fosse qualcosa di importante» disse come a se stesso. «Vorrei soltanto poterle parlare.» Natascia osservò le sue dita tormentare il pacchetto di sigarette. «Capisco.» «Allora mi aiuterai?» C'era una sfumatura di risentimento nella sua voce, come se quella richiesta gli costasse fatica. Natascia guardò Boris accucciato ai suoi piedi, sull'orlo del cappotto. Istintivamente sentiva che non era giusto cercare la ragazza. D'altra parte, scoprì di provare pena per Adam, e doveva riconoscere che il caso la intrigava. Al momento aveva abbastanza lavoro per riempire le lunghe serate invernali. Sembrava che l'arrivo del nuovo millennio avesse spinto le persone a ricercare i legami con il proprio passato, e tutti i genealogisti che conosceva erano sommersi di richieste. Ma cercare una persona viva era un compito insolito, che la incuriosiva, anche se avrebbe potuto rivelarsi impossibile. Del resto, Natascia amava le sfide.
Quel tipo di ricerca avrebbe richiesto parecchio tempo, ne era sicura. Per fortuna poteva permetterselo. Grazie a una piccola eredità lasciatale dalla nonna, saggiamente investita da sua madre Ann, che l'aveva fatta quadruplicare in quindici anni, Natascia aveva potuto acquistare Orchard End. La sicurezza economica le consentiva una certa libertà nella scelta dei progetti. Quando aveva ricevuto l'eredità, Natascia avrebbe voluto che andasse interamente a sua sorella Abby. Ne aveva diritto, per nascita. Ma Ann si era dimostrata ostinatamente imparziale e aveva insistito che la metà andasse a lei. E Steven aveva sentenziato che non era il caso di darsi la zappa sui piedi. «Se mi presti il diario, gli do un'occhiata durante le vacanze di Natale e provo a fare qualche ricerca. Non ti prometto niente, ma vedrò che cosa posso fare.» «Grazie.» Adam le chiese quanto gli sarebbe venuto a costare. «Di questo parleremo quando saprò se ho qualche possibilità di ottenere quel che mi hai chiesto.» Natascia infilò con ogni cura il diario in una delle tasche interne della borsa. «Bethany mi ha detto di averlo avuto da sua nonna» disse Adam. «È la sola persona della sua famiglia di cui mi abbia parlato. Quando era una bambina, credo avesse otto anni, sua nonna le raccontò di come Rossetti avesse fatto esumare il corpo di Lizzie Siddal per recuperare il manoscritto delle sue poesie, che era stato sepolto assieme a lei.» Natascia conosceva molto bene quella storia. Alla morte di Lizzie, Rossetti aveva deposto nella bara della moglie l'unica copia completa delle sue poesie, dichiarando di non sapere che farsene ora che lei se n'era andata. Ma qualche anno dopo aveva cambiato idea. Quando la tomba fu aperta, videro che la fragile bellezza di Lizzie si era perfettamente conservata. Si sarebbe detto che fosse morta da qualche ora, non da qualche anno. Natascia aveva sempre trovato l'episodio affascinante, anche se macabro. «Questo racconto deve aver avuto un effetto sconvolgente sulla fantasia di una bambina, non credi?» chiese Adam. «Forse.» Da quando era piccola, Natascia aveva sempre sentito parlare di cadaveri. Sorrise al ricordo dei racconti di Steven, il suo padre adottivo. Quello del cadavere di una principessa, per esempio, conservato, con tanto di pelle e di capelli, per mille anni tra i ghiacci delle montagne della Mongolia. O quello delle torbiere del nord d'Europa, che avevano restituito i corpi di vittime umane, dalle gole squarciate, sacrificate dalle tribù celtiche. Steven le aveva parlato delle tombe egizie, dove i faraoni mummifica-
ti avevano dormito per secoli, finché non erano andati a disturbarli gli archeologi e i ladri, spinti dall'ambizione e dall'avidità. A Natascia quelle storie non avevano fatto alcun male. «Parlavamo di fiori.» Adam abbassò la voce. «Io le dicevo che è sbagliato credere, come fa certa gente, che i fiori recisi siano brutti, perché sono morti. C'è della bellezza nella morte. Quello che videro dopo aver dissepolto il cadavere di Lizzie Siddal lo dimostra.» «Hai una foto di Bethany da prestarmi?» «Certo.» Prese dalla tasca interna della giacca una piccola stampa in bianco e nero, e con qualche esitazione gliela passò. Natascia ebbe la sensazione che Adam fosse riluttante a separarsene. In un primo momento non riconobbe Bethany. Il color seppia e i bordi sciupati della foto, l'abito che la ragazza indossava e la sua espressione solenne, facevano pensare a una fotografia dell'Ottocento. Bethany era in piedi sotto un portale di pietra ricoperto di edera. La foto doveva essere stata scattata usando il flash. Il portone alle sue spalle era aperto, ma non era possibile vedere all'interno. Dietro la figura c'era solo oscurità. Bethany indossava un abito diafano lungo fino al suolo. Sembrava il personaggio di un racconto medievale. L'acconciatura era elaborata: due trecce sottili partivano da sotto le tempie ed erano arrotolate sulla nuca. Aveva una bellezza grave, con il capo leggermente inclinato da un lato e gli occhi bassi. L'immagine era leggermente sfocata. «È una delle prime che abbiamo scattato per la mostra» spiegò Adam. «È una bella foto.» Natascia pensò che ci fosse qualcosa di incongruo nel fatto che una persona così riservata, così desiderosa di tenere segreta la propria identità, non avesse nulla da obiettare sul fatto che le proprie fotografie venissero esposte al pubblico. «A Bethany piaceva l'idea di questa esposizione?» «Sì.» Natascia ne dubitava. Ricordava perfettamente la mancanza di entusiasmo con cui la ragazza aveva accennato alla mostra. «Era un progetto comune.» Adam si passò le dita tra i capelli. «Sapeva quanto fosse importante per me. L'occasione di realizzare un'idea a cui tenevo molto. Basta con le foto di pacchetti di patatine fritte e di confezioni di lacca per capelli. Ho investito tutto in questo progetto. Non posso credere che sia andata via, che non sia rimasta almeno sino all'inaugurazione.» A meno che non avesse provato l'impulso di sparire prima che le sue immagini diventassero di pubblico dominio. Natascia fece scivolare la foto dentro il diario. «Ti chiamo all'inizio del-
l'anno nuovo.» Si alzò per andarsene e con un balzo Boris fu accanto a lei. «Natascia e Boris» disse Adam con aria meno cupa. «Immagino che nel tuo albero genealogico ci sia del sangue russo.» Era un'osservazione a cui Natascia era abituata, eppure ogni volta apriva dentro di lei un vuoto abissale. «Mi piace crederlo.» CAPITOLO 6 Le parole di Adam sull'origine russa di Natascia le risuonarono nelle orecchie, mentre quella sera si versava un bicchiere di vodka. Forse avrebbe dovuto passare a qualcos'altro, whisky o gin. Tutto era iniziato per ribellione, un'affermazione adolescenziale di indipendenza, ma alla fine era diventato uno stupido scherzo, un'ironia contro se stessa. Ma non era il momento di cambiare vecchie abitudini. Nessun altro liquore andava giù così facilmente, dandole un senso di profondo benessere. Eppure, quella sera, neppure la vodka riusciva a rilassarla. Era la vigilia di Natale. I suoi genitori e sua sorella sarebbero arrivati dal Derbyshire il giorno dopo per passare il Natale con lei. Ed era ancora troppo presto per andare al pub senza correre il rischio di sembrare disperata. Si sedette al computer. Sullo schermo era aperta la sua agenda, con una lunga lista di cose da fare, nomi e date da controllare, problemi la cui soluzione avrebbe richiesto tempo. Un rapido clic del mouse fece sparire tutto, come per magia. Per il momento. C'erano centinaia di siti web su famiglie e su singoli individui con il cognome Marshall. Natascia diede una scorsa ai principali. I primi Marshall di cui si avesse notizia erano stati medici e veterinari. Nonostante le origini non aristocratiche, nel medioevo una delle famiglie più influenti del paese portava il cognome Marshall. Il suo fondatore, John Marshall, padre del terzo conte di Pembroke, era stato per un periodo reggente d'Inghilterra. Poi la dinastia aveva subito un declino, dovuto al fatto che tutti coloro che avevano ereditato il titolo erano morti di morte violenta o prematura. Secondo l'autore di una cronaca, sul nome dei Marshall incombeva una maledizione. Natascia sentì risuonare dentro di sé la voce di Bethany. Ebbe un brivido, suo malgrado. Pensi che sia possibile che a siano famiglie perseguitate da una maledizione? Bethany aveva detto che in realtà il suo cognome non era Marshall. Tuttavia, era convinta di essere la discendente di qualche Marshall, anche se non ne aveva le prove.
Per la verità, non tutti i membri del clan avevano fatto una brutta fine. Molti, tra i quali artisti e medici, erano stati uomini di successo. Come Charles Marshall, scenografo e illusionista, che per primo aveva introdotto le luci della ribalta. E due dottor Marshall, Henry, nato nel 1775, promotore di una riforma delle caserme, e John, anatomista e chirurgo, uno dei primi a dimostrare la connessione tra il colera e l'acqua infetta. Si diceva che quest'ultimo fosse stato amico del preraffaellita Ford Maddox Brown. Era morto il giorno di Capodanno del 1891 ed era sepolto a Ely, nel Cambridgeshire. Ecco il suo uomo, forse. John Marshall. "J.M.", le stesse iniziali dell'autrice del diario. Natascia inserì il cd-rom della Ricerca familiare. Mentalmente calcolò la presumibile data di nascita degli eventuali figli di John Marshall. Morto nel 1891, amico dei Preraffaelliti, dunque metà del XK secolo. Controllò i nomi femminili più comuni con l'iniziale "J": Jennifer e Jane, Joanna Marshall, con data di nascita tra il 1830 e il 1870, e padre di nome John. Ottenne un centinaio di risultati. Troppo bello per essere vero. Tolse il disco e andò a prendere il diario dalla borsa. Nonostante le sue conoscenze paleografiche, Natascia impiegò diversi minuti a decifrare una sola pagina. Aveva iniziato a leggere il manoscritto sul treno, tornando da Oxford. Alcune annotazioni dell'autrice l'avevano fatta ridere ad alta voce. «Questa è la verita, sia detto senza vanità o falsa modestia. Il mio aspetto in genere è ordinano, ma talvolta non è male.» J.M. aggiungeva che da piccola tutti la chiamavano Gioia, perché rideva molto. Natascia si era fatta subito un'immagine di lei. Semplice, ma dotata di spirito. Una donna piacevole, fintanto che la si prendeva per il verso giusto. Leggere il diario non poteva essere considerato lavoro vero e proprio, ma Natascia aveva bisogno di trovare un indizio qualsiasi che le permettesse di arrivare all'identità di J.M. Un punto di partenza sicuro per rintracciare Bethany o i suoi genitori attraverso i documenti. Il tono del diario era vivace, talvolta perfino mordace, pieno di interessanti annotazioni sugli abiti, la musica, i viaggi e i corteggiamenti. Nello spazio di venti pagine, J.M. raccontava di due flirt finiti male. In entrambi i casi, in principio si era sentita ferita, ma poi era riuscita stoicamente a scrollarsi di dosso la delusione. Buon per lei. La prima liaison era stata con un certo John Wood, che continuava a regalare alla famiglia biglietti per l'opera, con l'obiettivo di approfittare della
vicinanza dei posti per approfondire la conoscenza con J.M. Finché la madre di questa non si era accorta dell'astuzia del corteggiatore e gli aveva restituito il successivo mazzetto di biglietti, con il pretesto di un precedente impegno. Nella pagina seguente veniva citata una certa zia Julia: «Il perfetto chaperon. Sta seduta accanto al fuoco e tiene gli occhi chiusi». Natascia sfogliò le pagine in fretta. J.M. aveva avuto altri corteggiatori. Per fortuna aveva fatto un riassunto delle sue avventure amorose. «Primo, John Wood. Trentenne. Mi chiamava "cara", finché la mamma non gli ha messo i bastoni tra le ruote. Si dilegua e si sposa nel giro di un anno e mezzo. Secondo, Harold Harcher. Oltre la trentina, piccolo e fedele. Ha ballato con me sei volte e questo e quanto. Terzo, Archibald Leslie Innes, sottotenente del reggimento del Cambridgeshire, ventiquattro anni circa. Sembrava che gli piacessi molto. Partito per Ceylon. Senza soldi, in ogni caso. Quarto, Herbert Thomas, alto, capelli rossi, molto intelligente, quarantenne. Squadra la gente con uno sguardo intenso e fa discorsi imbarazzanti, molto nervoso e goffo. Per farla breve, tutti cattivi sintomi. A papà non piaceva e non l'ha incoraggiato. Ammogliato dieci mesi dopo. Ecco fatto.» A volte un vecchio documento sapeva di stantio, altre volte sembrava che le parole fossero state scritte il giorno prima. Natascia aveva l'impressione che J.M., stesse parlando direttamente a lei, quasi ne sentiva la voce. Era una sensazione piacevole. «Questo basta a dimostrare che strane creature siano gli uomini» concludeva J.M. Natascia pensò, come del resto le capitava spesso svolgendo il suo lavoro, che in fondo la gente non era cambiata molto, nonostante il passare dei secoli. Le situazioni differivano solo in superficie. Nel profondo i caratteri delle persone rimanevano gli stessi, le emozioni e i drammi si ripetevano tali e quali. Era una cosa rassicurante o deprimente? Natascia fece scivolare fuori dal libro la foto di Bethany e la osservò sotto la luce della lampada. Nell'angolo di destra, dove di solito gli artisti firmano le proprie opere, c'erano delle iniziali in negativo. "IC". Strano. Adam aveva detto che la foto era opera sua. Forse nemmeno lui era la persona che diceva di essere. Mentre riponeva la foto nel diario, Natascia notò un altro particolare.
Sulla copertina sporgeva in modo quasi impercettibile un piccolo quadrato, come se qualcosa fosse stato inserito tra la tela della fodera e il cartone cui era incollata. Sollevò un angolo della tela. Si staccò molto facilmente. Natascia pensò che non dovesse essere la prima volta che veniva rimossa. Sotto c'era un foglietto a righe strappato da un blocco a spirale. Era largo una decina di centimetri, piegato in due, simile a quello che Adam le aveva mostrato, sul quale Bethany aveva scritto l'indirizzo di Natascia. Anche la scrittura era la stessa. Elegante, inclinata, con grandi occhielli. Il testo pareva vergato da un amanuense medievale, ma con una penna blu. Una mano leggera che non aveva impresso solchi sulla carta. Uno dei primi clienti di Natascia l'aveva fatta rabbrividire quando le aveva detto: «Lei ha fatto rivivere i morti». Da allora quella frase le era stata ripetuta molte volte. Era l'aspetto più gratificante del suo lavoro, quello di rendere vivi il passato e gli antenati di una persona, riportandoli alla memoria dopo che erano stati sepolti e dimenticati. Mentre fissava il biglietto le tornarono alla mente le sue stesse parole: Io non cerco persone viventi. Le attraversò la mente l'immagine di Bethany nella parte di Ofelia, che, impazzita per essere stata rifiutata dall'amante, si annega nel fiume. La scritta sul biglietto diceva: «Non dire addio, sono partita per la terra sconosciuta, dove finalmente sarai mio». CAPITOLO 7 La mattina di Natale, Natascia fu svegliata da un sole luminoso, ma ingannevole. Non era caldo, anche se bastò a sciogliere un po' di neve. Portò Boris a fare una passeggiata sulla Broadway Road. Una pioggia di goccioline cadeva dai rami scuri, raccogliendosi in rivoli ai bordi dei viottoli scoscesi. Dai tetti, blocchi di neve piombavano al suolo con tonfi sordi. Vide due ragazzine che vivevano all'altra estremità del villaggio risalire il sentiero saltellando. Portavano stivali coperti di lustrini, corone dorate e ali di carta fissate alle spalle. Le seguiva il padre che, incrociando Natascia, le augurò buon Natale. Tornando a casa si fermò in chiesa. Era un piccolo edificio quadrato con
un campanile simile a una torre, basso per meglio resistere al vento che da quelle parti soffiava senza posa. Permise a Boris di seguirla all'interno. Non le sembrava giusto che le creature di Dio non fossero ammesse nella casa del Signore. Il setter si incamminò lungo la navata, poi improvvisamente si arrestò con i muscoli contratti e il naso per aria. Natascia vide il signor Nicholson, il sagrestano, intento a preparare l'altare per la messa di Natale. «Zitto!» bisbigliò Natascia a Boris che si era messo a ringhiare. «Seduto.» Boris non le prestò alcuna attenzione. Con la lingua penzoloni, fissava il crocifisso d'argento senza mostrare il minimo rispetto. Natascia era sempre stata affascinata dalle chiese, dall'atmosfera carica di spiritualità, dalle vetrate colorate, dalle candele, dai crocifissi e dalle statue, dagli alti archi gotici e dalle sepolture. Da quando aveva lasciato la casa dei suoi genitori non aveva più frequentato la chiesa regolarmente; tuttavia le piaceva il fatto che il suo lavoro la portasse spesso a esplorare cappelle abbandonate, sagrestie umide, cimiteri invasi dalla vegetazione. Luoghi di culto piccoli, isolati dove si poteva ancora sentire il sussurro di antiche preghiere. In luoghi simili Natascia si sentiva in pace, provava la sensazione che non si fosse mai completamente soli, la certezza che le angosce e le paure non espresse avessero un valore universale. Chiuse gli occhi per un momento. Attenta a ciò che chiedi, potrebbe avverarsi. Valeva anche per le preghiere? Il concetto stesso di fortuna era di natura superstiziosa, sacrilega. Ma, senza dubbio, nella ricerca genealogica la fortuna giocava la sua parte. Talvolta ci volevano anni per rintracciare una persona, in altri casi le capitava di imbattersi immediatamente negli indizi cruciali. Si augurava le accadesse anche nel caso di Bethany. Così pregò che le venisse accordata un po' di fortuna. C'era qualcos'altro per cui desiderava pregare, qualcosa che non avrebbe saputo esprimere a parole. Che le cose tra lei e Marcus potessero tornare a posto. Come? "Se lo sai, per favore, dimmelo." Le sembrò quasi di sentire la risposta. I credenti erano pronti a giurare che Dio rispondeva sempre alle preghiere. Solo che a volte la risposta era "no".
Guardò i raggi di luce che filtravano attraverso i pannelli blu, verdi e rossi delle vetrate che rappresentavano Maria Maddalena, la Crocifissione e l'Ascensione. Forse per deformazione professionale, lesse la targa dedicata a una delle famiglie più importanti di Snowshill, i Marshall. Erano i donatori delle vetrate. John Marshall morto il primo luglio 1864. Naturalmente non si trattava dello stesso John Marshall. Si dice che ogni essere umano sia collegato a tutti gli altri attraverso una catena di non più di sei conoscenti o parenti reciproci. I Marshall di Snowshill erano legati agli antenati di Bethany? C'erano dozzine di iscritti nell'albo dell'Associazione dei Genealogisti e centinaia pubblicizzavano i loro servizi sulle riviste specializzate. Natascia si chiese come mai Bethany avesse scelto proprio lei, se potesse avere qualcosa a che fare con i Marshall di Snowshill. A un tratto rimpianse che Adam non avesse trovato il nome di un altro genealogista nel diario. "Grazie, Dio. Grazie molte per avermi immischiato in questa storia. Era proprio quello di cui avevo bisogno." Uscì dalla chiesa e si appoggiò al muro di pietra, stranamente tiepida al tatto. «Non dire addio, sono partita per la terra sconosciuta, dove finalmente sarai mio.» Certamente era stata la vista di Bethany nel ruolo di Ofelia a suggerire a Natascia l'idea del suicidio. Autosuggestione. Il suicidio avrebbe spiegato il perché Bethany non aveva portato con sé il ricordo più prezioso che possedeva. Ma forse il diario non le serviva più. Oppure voleva indurre Adam a pensare che si fosse tolta la vita. Secondo Adam, Bethany non aveva lasciato alcun messaggio. A meno che i versi trovati sotto la copertina del diario non fossero da interpretare come un addio. Forse erano soltanto una minaccia, un grido d'aiuto, come molti messaggi lasciati dagli aspiranti suicidi. Ma perché Bethany aveva insistito sulla possibilità che un destino avverso si tramandasse di generazione in gene-
razione? L'ipotesi più probabile era che la ragazza avesse lasciato il diario con dentro il foglietto perché voleva essere rassicurata, perché desiderava una maggior dedizione da parte di Adam, perché voleva costringerlo a occuparsi di lei, a ritrovarla e a riconquistarla. Bethany aveva chiesto a Natascia quanto tempo avrebbe richiesto la ricerca. Lei le aveva risposto che per risalire di quattro generazioni era necessario circa un mese. Il che significava arrivare a metà Ottocento, il periodo in cui con ogni probabilità J.M. aveva scritto il suo diario. Bethany era sparita qualche giorno dopo l'incontro con Natascia sul fiume, verso la metà di dicembre. Forse calcolava che la genealogista l'avrebbe rintracciata entro la metà di gennaio. Purtroppo non c'era molto che Natascia potesse fare prima della fine delle festività. Naturalmente il messaggio poteva essere interpretato come una piccola provocazione. Che Adam avrebbe potuto spiegare. Natascia aveva lasciato un messaggio sulla segreteria dello studio, ma lui non l'aveva richiamata. Doveva andare alla polizia? La polizia avrebbe indagato, forse avrebbe trovato la ragione per cui Bethany non usava il suo vero cognome. Natascia non era sicura d'avere il diritto di violare quel segreto. No, doveva aspettare che Adam la richiamasse. Cercare di non pensarci. Più facile a dirsi che a farsi. Quando tornò a casa, riprese a leggere qualche altra pagina del diario, mentre si asciugava i capelli dopo la doccia. Lanciò un piccolo grido di stupore e di gioia: aveva trovato l'indizio che cercava. J.M. parlava di una visita ai parenti di Ely. «Qui le domeniche sono tranquille. La gente è piccina (non solo di statura) e di vedute ristrette» Era la conferma che il padre di J.M. era il John Marshall che aveva trovato su Internet, la cui famiglia era originaria di Ely e che a Ely era sepolto. CAPITOLO 8 Natascia sentì bussare alla porta. Andò ad aprire portando con sé il diario. Era Mary, con una bottiglia di Smirnoff in confezione regalo e un boccale d'argento decorato. «Sono venuta solo per augurarti buon Natale.» «Hai tempo per un caffè?» «No, ma lo prendo lo stesso.»
Mentre passava accanto a Natascia nell'ingresso, Mary le tolse il diario dalle mani. «E questo che cos'è? Non mi dire che stai lavorando. Ma non smetti proprio mai?» «Ti ricordi quel tizio che mi ha chiamato al cellulare mentre ero a cena da voi? Mi ha chiesto di usare questo diario per rintracciare la sua ragazza scomparsa. Apparteneva a un'antenata di lei.» Natascia discuteva con Mary la maggior parte dei casi. Non riteneva di venir meno ai suoi principi di riservatezza fornendo all'amica i dati essenziali. Le opinioni di Mary, che di solito finiva per dare una mano nelle ricerche, erano sempre preziose. Ripeteva sempre di non essere stata "brava" a scuola. Aveva abbandonato gli studi a sedici anni, con un diploma in economia domestica e voti mediocri. Suo padre, un falegname, grande appassionato di calcio, le aveva sempre detto che la cosa importante nella vita era saper usare le mani e giocare bene al pallone. Mary per qualche anno aveva seguito le indicazioni paterne, giocando nella squadra di pallamano del Gloucestershire, mentre frequentava la scuola per parrucchieri. Nel tempo libero faceva esperimenti gastronomici. Poi aveva conosciuto James e si era sposata; ora gestivano insieme lo Snowshill Arms. A Mary piaceva moltissimo dirigere la cucina e occuparsi del bed & breakfast. Si interessava alla ricerca genealogica per una strana forma d'amore per il passato. Il suo locale era stato costruito sul sito di un antico monastero e si diceva fosse frequentato dallo spettro di un frate cappuccino, lo stesso che faceva le sue apparizioni lungo la stradina del Maniero. Da quando Mary abitava a Snowshill aveva avuto il "privilegio" di incontrare il fantasma una mezza dozzina di volte e questo, sosteneva, le aveva instillato un profondo interesse per la storia. E, quindi, per la genealogia. Da parte sua Natascia era arrivata ad avere un rapporto molto pragmatico con gli spettri. Credeva che esistessero così come credeva nell'esistenza di Dio, un paragone che le sembrava appropriato, dal momento che non aveva mai visto né l'uno né gli altri, nonostante avesse frequentato molti cimiteri, cripte e case notoriamente infestate da spiriti. Si chiedeva come avrebbe potuto svolgere il suo lavoro se, riguardo al soprannaturale, avesse avuto la stessa sensibilità di Mary che, appena entrava ih una stanza, era in grado di "sentire" se fosse presente qualcuno "dell'altro mondo". L'interesse di Mary per la storia era stato stimolato e nutrito dal rapporto
con Natascia, che aveva scoperto nell'amica un desiderio di conoscenza simile a quello di un bambino. Mary aveva il fiuto che serviva per le indagini genealogiche. Spesso offriva punti di vista originali, sgombri da pregiudizi accademici. «Se una persona sparisce oggigiorno,» disse Mary «non è compito della polizia cercarla?» «Non è proprio sparita, semplicemente ha piantato il suo ragazzo. Non credo che la polizia ci tenga particolarmente a immischiarsi in una lite tra fidanzati.» «Il caso però mi sembra interessante. C'è qualcosa che io possa fare per darti una mano...?» «Pensavo che per un po' intendessi dedicarti esclusivamente al bambino.» «Come osi? Una ragazza non può passare la vita a sferruzzare scarpine e cuffiette.» Per un attimo Natascia pensò che sarebbe stata perfettamente felice di starsene seduta accanto al fuoco con un bimbo nella pancia e un marito devoto che le serviva il tè. «E lui com'è?» chiese Mary. «Un tipo da avventura di una notte?» «Non proprio.» «Hai detto che hanno litigato, vero?» «Qualcosa del genere.» «Meglio andarci cauti, allora.» «Non preoccuparti. Da lui non ho niente da temere.» Natascia strinse nervosamente tra le mani la sua tazza di caffè. «Ma che cosa vuoi dire con "andarci cauti''?» «È evidente che tu non guardi i film polizieschi in televisione. Quando una persona sparisce o si verifica una morte inspiegabile, i sospetti cadono su chi ha lanciato l'allarme per primo.» Con sua grande meraviglia Natascia si rese conto che non poteva liquidare facilmente le parole di Mary. Si sentiva a disagio. Nonostante gli avesse lasciato un messaggio in segreteria, non aveva affrontato Adam con la franchezza necessaria, anzi continuava a rimandare il momento in cui gli avrebbe rivelato la scoperta del biglietto infilato nella copertina del diario. Perché non si fidava di lui. «Allora, com'è?» «Un artista. Interessante. Carino. Ma non è il mio tipo» aggiunse. «Un artista. Interessante e certamente stravagante. A me sembra proprio
il tuo tipo.» Quasi le dieci. Se non si fosse sbrigata sarebbe arrivata tardi al pranzo di Natale con i suoi. Si vestì in fretta. Gonna lunga di velluto nero, stivali neri stringati, corpino rosso scuro. Si spazzolò in fretta i capelli ribelli e li raccolse sulla nuca con un fermaglio d'argento. Intorno al viso le si formò una corona di riccioli che cercò inutilmente di pettinare all'indietro. Boris si avviò verso la porta, passando accanto a Natascia e lasciando sulla sua gonna nera una striscia lucente di peli color rame pallido. «Be', penso proprio che tu possa venire.» Aprì la portiera della Alpine e lo fece salire. Boris non avrebbe potuto entrare nell'albergo, ma era abituato ad aspettarla per ore in macchina quando la seguiva nelle sue spedizioni di lavoro. Chipping Campden aveva sempre un'aria accogliente con qualsiasi tempo, in qualunque momento del giorno o dell'anno. La strada principale disegnava una grande curva, fiancheggiata da negozi e grandi case un tempo appartenute a ricchi drappieri. Natascia era d'accordo con chi la definiva la più bella strada urbana di tutta la Gran Bretagna. Maestosa ed elegante, per niente altezzosa. Era mattino inoltrato, ma la città era deserta. Non c'era neve, però il gran freddo aveva formato lastre di ghiaccio sui marciapiedi. L'hotel, al contrario del villaggio, era molto rumoroso. Una scelta di Ann. Natascia sapeva che Steven avrebbe preferito rintanarsi sotto le antiche travi di un tranquillo pub, ma Ann preferiva il Cotswold House Hotel, con l'ingresso grandioso, l'architettura stile Reggenza e la famosa scalinata a spirale. Alla vista di Steven, Natascia provò un tuffo di felicità al cuore. Più alto dei presenti di tutta la testa, abbronzato e atletico, indossava pantaloni cachi stropicciati e una camicia scura. Una figura notevole fra le pallide facce invernali e gli abiti formali degli altri clienti. La avvolse in un grande abbraccio. «Buon Natale, tesoro.» La gente li guardava. Steven, con la sua sola presenza, monopolizzava l'attenzione, ovunque si trovasse. Non faceva alcuno sforzo per abbassare il volume della sua voce stentorea. Natascia inspirò il suo odore, un misto di terra, aria aperta, di dopobarba, di birra e di caffè amaro. Era un profumo che la riportava sempre all'infanzia, quando gli correva incontro al ritorno dai suoi viaggi e lui la prendeva in braccio al volo, sollevandola in alto.
«Buon Natale» gli augurò Natascia. Aveva smesso di chiamarlo papà quando aveva scoperto la verità sul suo passato, una forma di protesta che ora le appariva crudele. Era certa tuttavia che non gli dispiacesse essere chiamato per nome. Lui stesso ora si firmava con il nome quando le scriveva: «Con tutto il mio affetto, Steven». «Ann e Abby saranno qui tra un momento. Si stanno facendo belle.» La esaminò da capo a piedi. «Sei uno schianto, come sempre.» Si sentì attraversare da un'ondata di piacere. Aveva sempre provato una sensazione particolare al pensiero che Steven l'avesse vista crescere sapendo che lei non era carne della sua carne. Ora, quando lui le faceva un complimento o diceva di volerle bene, non sapeva esattamente cosa pensare. Steven mise da parte la lista dei cocktail senza degnarla di uno sguardo. «Per me whisky. So che non dirai di no a un vodka and tonic.» «Naturalmente» disse Natascia con un sorriso. Andarono al bar e ordinarono. «Mandalo giù in fretta,» le disse Steven, brindando «se ci sbrighiamo riusciamo a farcene un altro, prima di essere costretti a comportarci come si deve.» «Quando mai ti sei comportato come si deve?» «Sempre. Sei tu ad avere una cattiva influenza su di me.» «Da qualcuno devo pur aver imparato.» «Be', sono contento di averti insegnato qualcosa di utile.» Natascia guardò la grande mano di Steven che teneva il bicchiere. Era ruvida, callosa, con le unghie spezzate. Non sarebbe mai riuscita a fidarsi di uomini con le mani ben curate. Abby arrivò, allegra e abbronzata. «Ciao.» Abbracciò stretta Natascia e le consegnò un regalo con un biglietto. Natascia lo scartò. Era un libro sul sogno presso gli aborigeni australiani. «È davvero magnifico. Grazie.» Natascia la baciò sulle guance. «Ho pensato che fosse il tuo genere di lettura.» Natascia aprì la busta e Abby aggiunse: «Anche il biglietto viene dall'Australia». Babbo Natale su una slitta che correva lungo una spiaggia assolata. Ann fece la sua apparizione, serena e bella come sempre nel suo abito blu mare attillato, con uno scialle di chiffon sulle spalle e una cintura molto alta attorno alla vita sottile, i capelli biondo cenere legati con un nastro color zaffiro. Ann era stata una madre perfetta e tutto attorno a lei doveva essere perfetto. Anche il suo matrimonio era stato perfetto. Probabilmente perché, così
pensava Natascia, aveva chiuso un occhio sulle storie extraconiugali di Steven, e non si era mai lamentata quando il marito tornava a casa dopo un viaggio di sei settimane per andare subito fuori a bere. Forse perché Ann aveva già ottenuto ciò che desiderava. Oppure, semplicemente, perché lo amava. Steven attirava la gente come una calamita, era difficile sottrarsi al fascino della sua personalità. Si cresce pensando che i propri genitori siano persone normali. Finché non si conoscono altre famiglie e ci si rende conto che la propria è strana. Più tardi si arriva alla conclusione che la propria famiglia è normale in quanto strana. Ann e Steven stavano bene assieme proprio perché erano due persone assolutamente male assortite. A Steven piacevano le donne colte e intelligenti. Ma aveva un lato tradizionalista, per cui benché sostenesse Natascia nella scelta della sua carriera, diceva scherzando che non avrebbe mai sposato una donna come lei. Ann si era laureata in storia, aveva studiato architettura d'interni, poi per un certo periodo aveva lavorato come curatrice in un museo. Poteva fregiarsi di una serie di titoli accademici, ma la nonna, morta ormai da quindici anni, amava raccontare a Natascia che la sola ambizione di Ann, fin da piccola, era stata avere un marito e una casa con una grande cucina e un giardino. E un sacco di bambini. Le parole della nonna si erano impresse nella memoria di Natascia in modo indelebile. Dopo che Ann era rimasta incinta di Abigail, Natascia aveva sentito con assoluta chiarezza di essere diventata per la madre un elemento di disturbo, un memento vivente del tempo in cui credeva di aver fallito come donna. «Parlami dell'Italia» disse Natascia a Steven, mentre tutti e quattro sedevano attorno a un basso tavolino in un angolo del salone. Era stato via per due mesi. «È stata una campagna di scavi affascinante. Abbiamo trovato le fondamenta di un tempio con una tomba collettiva.» Steven si interruppe quando arrivò il cameriere con il menu. «Ci ritornerai?» chiese Natascia. Steven guardò Ann. Sembrava che a lei non importasse la durata delle assenze del marito. Natascia ebbe l'impressione che lui le fosse grato, ma allo stesso tempo ne fosse deluso. «Perché? Pensi di venire anche tu?» Da sempre il lavoro di Steven la interessava molto. Sin da bambina gli aveva chiesto di portarla con sé sugli scavi. Alle vacanze estive sulla spiaggia, Natascia aveva sempre preferito trovarsi in una buca con il fango sino alle ginocchia, a lavorare di cazzuola e di setaccio.
«Ho troppo da fare.» «Allora, di chi sono gli armadi in cui hai trovato i soliti, scheletri, ultimamente?» le chiese. Aveva appena iniziato a spiegare a grandi linee la storia di Adam e Bethany quando il cameriere ritornò per prendere le ordinazioni. Quindi si avviarono verso il ristorante illuminato da grandi portefinestre. Un coretto disposto intorno a un pianoforte a coda, in abiti natalizi in bianco e rosso, cantava In the Bleak Midwinter. Ogni corista reggeva un'asta dalla cui estremità dondolava una lanterna. «Non sono di Christina Rossetti i versi di questo canto?» chiese Ann. «Sì, sono sicura» aggiunse dopo un istante. Evidentemente Ann aveva prestato al suo racconto maggior attenzione di quanto Natascia pensasse. Era sempre stato uno dei suoi canti natalizi preferiti. «Non lo sapevo» ammise. Steven le porse il loro regalo, una collana vittoriana di ambra nera e argento. Natascia sapeva che era stato lui a sceglierla. La aiutò ad allacciarla attorno al collo, sollevando i capelli sfuggiti al fermaglio. Quando Steven disse che le stava molto bene, Natascia si sentì gli occhi di Ann addosso. Sapeva che Steven era molto più vicino a lei che non ad Abby e di questo Ann si era sempre dispiaciuta. Lui non l'aveva mai notato oppure aveva scelto di ignorare la cosa. In fondo al cuore Natascia si chiedeva se Ann non fosse gelosa del loro rapporto. Distribuì in fretta ì suoi regali, una sciarpa di seta per Abby, una delle prime edizioni dei Sette pilastri della saggezza per Steven e, per Ann, una statuina di vetro veneziano, che aveva trovato al mercatino dell'antiquariato di Stow. Ann disse che era deliziosa, ma la mise subito da parte. A Natascia rimase il dubbio che in realtà non le fosse piaciuta. «Abby ti ha parlato del suo nuovo lavoro?» chiese Ann. «Lavorerò in una agenzia di pubbliche relazioni a Londra.» Natascia si voltò verso la sorella: «Davvero?». «È una delle più prestigiose» spiegò Ann. «Non è stupendo?» La nota d'orgoglio nella voce della madre ferì Natascia, come sempre determinata a non lasciar trapelare i propri sentimenti. Però non seppe trattenersi dal commentare: «Pensavo desiderassi che Abby trovasse un lavoro più vicino a casa». «Nel Derbyshire fa troppo freddo» replicò sua sorella. «La scorsa setti-
mana io e la mamma siamo andate a Londra a vedere qualche appartamento in affitto. Ne abbiamo trovato uno a Wimbledon, molto bello. La prossima volta che vieni a Londra devi fermarti qualche giorno da me.» «Mi piacerebbe molto. Sono contenta che tu abbia deciso di non cercare un lavoro all'estero.» «Non lo farebbe mai» disse Ann in tono risentito. Quando finalmente arrivò in tavola il dolce coronato dalle fiamme del brandy, Natascia era accaldata, e si sentiva stanca e assonnata. Con il pretesto che Boris doveva fare una passeggiata lasciò la tavola. Ann annunciò che sarebbe andata a rinfrescarsi. Abby disse che aveva voglia di fare un pisolino. Come Natascia si aspettava Steven si offrì di accompagnarla. Aveva bisogno di parlargli. CAPITOLO 9 Natascia fece scendere Boris dalla macchina e si diresse verso il parco con Steven. Il sole era una sfera rossa che sfiorava l'orizzonte, rivestendo di riflessi vermigli le banderuole in cima al campanile della chiesa. «Marcus ha raggiunto il nostro gruppo per l'ultima settimana di scavo in Italia» disse Steven mettendosi al passo con Natascia. «Davvero?» Cercò di avere un tono disinteressato, tenendo gli occhi fissi davanti a sé, ma sapeva che Steven non si sarebbe lasciato ingannare. «Stava bene?» «Così sembrava, ma con lui non si può mai dire. È uno riservato. Di sicuro stava meglio prima... che accadesse tutto questo.» C'era un'inconfondibile nota di rimprovero nella voce di Steven. Ma non ce l'aveva con Marcus. Non gli importava dei problemi personali di qualcuno, purché non interferissero con il lavoro. «Naturalmente io sono l'ultimo con cui si confiderebbe» disse. «Speriamo solo che la comunicazione tra noi due non ne soffra.» Natascia fu urtata dal tono di Steven. Innegabilmente la rottura tra la figlia e il collega lo metteva in una posizione difficile, ma che cosa poteva farci lei? Le venne il sospetto che in fondo a Steven non dispiacesse che la sua storia con Marcus fosse finita. Sembrava che volesse dirle: «Te l'avevo detto io!». Steven e Marcus avevano collaborato a parecchi progetti. Natascia aveva assistito a una loro conferenza, mentre si trovava a Manchester per una ricerca. Erano andati a cena insieme in un ristorante indiano di Rusholme.
Dopo quella sera Marcus aveva cominciato a capitare spesso a casa dei suoi genitori. Poi, un giorno, dato che era a Oxford per lavoro, era passato da Snowshill. Ormai erano trascorsi tre anni, e lei non si sentiva la stessa persona di allora. «Ha chiesto di te, se è questo che vuoi sapere.» «Davvero?» esclamò Natascia, senza quasi lasciargli finire la frase. Moriva dalla voglia di sapere se Marcus avesse un'altra donna, ma una parte di lei non voleva conoscere la risposta. E non l'avrebbe mai chiesto a Steven. «Andrà in Canada la prima settimana di gennaio per uno scambio con l'Università di Vancouver. Ci rimarrà sei mesi.» Natascia sentì le lacrime pungerle gli occhi. «Senti, Natascia. Se vuoi parlarne...» Non era facile, dal momento che lei stessa non aveva chiaro che cosa fosse accaduto con Marcus. «Forse eravamo troppo uguali.» Mentre pronunciava questa frase si rese conto di quanto fosse banale. Steven era sempre stato l'eroe di Natascia. Inconsciamente paragonava al padre ogni uomo che conosceva. E ora anche Marcus era diventato un termine di paragone. Steven era stato il maestro di Marcus e questo spiegava perché fossero così simili, persino fisicamente. Entrambi erano alti e magri, con occhi espressivi, tratti spigolosi e folti capelli scuri. «Allora tra voi è tutto finito?» «Sì.» Avvertì che in qualche modo Steven ne era sollevato, nonostante le ripercussioni che la cosa avrebbe avuto sui suoi rapporti con il discepolo. «Mi stavi dicendo di quella ragazza del diario.» Steven cambiò discorso. Il motto "Diligenza e segretezza" dell'Istituto di Araldica, dove Natascia aveva lavorato quando era alle prime armi, andava contro la sua natura. Non le piacevano i segreti. Naturalmente con i suoi clienti ubbidiva scrupolosamente ai dettami della sua professione. Ma con Steven era diverso. Avevano sempre discusso gli intricati dettagli del suo lavoro, ritenendo di non contravvenire alla deontologia professionale. «Ho trovato un biglietto nel diario» disse Natascia, dopo qualche esitazione. «Scritto da Bethany. Potrebbe essere un messaggio di suicidio.» «Signore iddio! E che cosa hai fatto?» «Nulla, sinora. Volevo prima parlare al suo ragazzo. È un messaggio ambiguo. Potrei sbagliarmi.» «Devi denunciare la cosa alla polizia.»
«Lo farò. Presto.» "Dopo aver parlato con Adam" pensò. «Una volta ho incontrato una ragazza di nome Bethany. Minuta, molto graziosa. Era un'amica di Marcus, ora che ci penso.» Natascia ignorò l'osservazione. Steven parve continuare ad alta voce un suo pensiero: «Questa tua Bethany posa per una fotografia nei panni di Lizzie Siddal e poi si uccide. La storia si ripete. Intenzionalmente o no.» «Nessuno sa con certezza se Lizzie Siddal si sia veramente suicidata. A suo tempo il verdetto fu di overdose involontaria, o mi sbaglio?» «Molto probabilmente era una versione di comodo. Oggi togliersi la vita non è più considerata un'azione vergognosa come lo era in passato, anche se per noi inglesi è tuttora impossibile parlare di suicidio senza ricorrere al verbo "commettere".» Bisognava fare ritorno all'hotel. «Così Lizzie Siddal fu sepolta in terra consacrata, garanzia di riposo eterno. Ma Rossetti non lasciò che riposasse in pace, vero?» osservò Steven. «Pensi che quello che fece fosse sbagliato?» «Sì, certo.» Natascia era sconcertata. Di mestiere Steven non faceva altro che violare sepolture. «Come fai a dire una cosa del genere? È quello che fai tu da sempre.» «I corpi che io disturbo hanno migliaia di anni. Be', diciamo centinaia, almeno.» «Non vedo che differenza faccia.» Le schermaglie con Steven l'avevano sempre divertita. «Invece fa una grande differenza» sentenziò lui. Natascia sapeva dove voleva arrivare. Il lavoro di Marcus consisteva nel ricostruire un viso a partire dal teschio. Era inquietante assistere alle trasformazioni di un volto mentre prendeva lentamente forma sotto le sue mani. Era il processo opposto a quello della decomposizione. Per prima cosa alle ossa venivano applicati i muscoli e poi la pelle. I resti di uno scheletro acquistavano un significato del tutto diverso, una volta ricostruita la fisionomia della persona cui erano appartenuti. Steven disse: «Si dice che quando aprirono la bara il volto di Lizzie fosse bello come il giorno in cui era morta».
CAPITOLO 10 Di ritornò dalla piscina del Lygon Arms Hotel, Natascia vide che la spia della segreteria telefonica lampeggiava. Poche parole: «Adam. Ho ricevuto il tuo messaggio». Le dispiaceva non aver potuto rispondere di persona. Chiamò il servizio telefonico per sapere a che ora e da dove avesse chiamato: alle sei, dallo studio di Oxford. Ormai erano quasi le nove, ma decise di provare lo stesso. «Pronto?» Era una bella voce maschile, ma non era quella di Adam. «Posso parlare con Adam?» Ci fu un momento di silenzio. «Adam non c'è.» «Ma questo è il suo numero, vero?» «Chi devo dire che l'ha cercato?» «Natascia Blake. Lui...» «Ciao, Natascia. Devi essere un'altra di cui non mi ha detto niente.» «Scusi?» «È un piacere parlare con te. Spero che prima o poi avremo occasione di conoscerci.» «Io non...» «Perché non dici a me di che cosa si tratta?» Quel tono disinvolto la infastidiva. «Non credo che...» Ancora una volta non la lasciò finire. «Prova sul cellulare» e snocciolò in fretta un numero. La linea si interruppe. Natascia riagganciò, interdetta. Provò il numero di cellulare che lo sconosciuto le aveva dato. Lasciò squillare a lungo. Infine una voce rispose: «Sì?». Si sentiva musica in sottofondo. «Sono Natascia. Blake.» Aggiunse il cognome, perché Adam le sembrava il tipo da conoscere più di una ragazza con lo stesso nome. «Allora mi aiuti o no a trovarla?» La comunicazione era disturbata e la voce di Adam le giungeva a stento. Natascia si era del tutto dimenticata che ufficialmente non aveva ancora accettato l'incarico. Be', a quel punto non poteva più tirarsi indietro. Ma non voleva parlargli del messaggio di Bethany per telefono, tanto più che Adam si trovava sicuramente a una festa di Capodanno. Sentì risuonare
una risata femminile. «Ho già cominciato a lavorare» disse cercando di sembrare ottimista. «Sono quasi sicura d'aver scoperto l'identità del padre di J.M.» Aveva la sensazione che Adam non avesse nessun interesse per i dettagli, ma continuò: «Andrò al Centro di Documentazione lunedì, appena riaprono. Potrò scoprire il nome della moglie del dottor Marshall e se hanno avuto una figlia con un nome che inizia per J. Poi dovrò scoprire se J.M. si è sposata, se ha avuto figli. Mi occuperò di questi figli e dei loro matrimoni e così via sino ad arrivare al presente. Attraverso i vari rami della famiglia, se necessario. Solo così possiamo risalire fino a Bethany». «Capisco.» «Il tizio che mi ha risposto al tuo studio mi è parso un po' strano.» «Che cosa ti ha detto?» Improvvisamente udiva la voce di Adam molto chiaramente. «Niente. Che non gli hai parlato di me.» «Perché avrei dovuto?» La linea era nuovamente disturbata, poteva essere interrotta da un momento all'altro. «Ascolta, avrò bisogno di vederti dopo aver concluso le ricerche preliminari.» «Va bene.» Ci fu un momento di silenzio. «Sarò a Oxford per le prossime due settimane.» «Ottimo. Potremmo incontrarci all'Opium Den.» Mentre usciva dalla doccia, Natascia sentì squillare il telefono. Si avvolse in un asciugamano, corse in camera da letto e sollevò la cornetta. Era Mary. «Volevo solo essere sicura che arriverai prima della mezzanotte. Altrimenti ti trasformi in una zucca.» «Era la carrozza a trasformarsi in zucca.» «Ah, già.» «Visto che sei una mamma in attesa faresti bene a ripassare la trama delle favole.» «Lo farò. Adesso vado, perché ho lasciato James da solo al bar. Stiamo facendo scommesse su chi riuscirà a mantenere i buoni propositi per il nuovo anno. Ognuno deve metterli per iscritto. La casa offre da bere a chi saprà mantenerli sino alla fine di febbraio.» «Rinunciare all'alcol non è un proposito accettabile allora.» «Certamente no. Pessimo per gli affari.» Natascia aveva passato un periodo piacevole dopo Natale. Aveva fatto
lunghe passeggiate a piedi, era uscita a pranzo con un paio di amici, aveva bevuto innumerevoli tazze di tè nella cucina di Mary e finalmente era riuscita a mettersi alla pari con lavori e letture arretrati. Quella sera infilò uno stupendo abito di raso color rame, comprato per l'occasione, con la vita bassa e una gonna tagliata in sbieco che le arrivava quasi ai piedi. Avvolse le spalle in uno scialle nero all'uncinetto con inserti di perline e lustrini e raccolse i capelli. Era straordinario come ci si potesse sentire diversi solo cambiando d'abito. Natascia si chiese se la sua passione per i vestiti d'epoca e gli oggetti d'antiquariato dipendesse dal fatto che essi erano impregnati della personalità di altre persone, che lei poteva prendere in prestito per qualche tempo. CAPITOLO 11 Il pub di Snowshill era più affollato e rumoroso del solito. Fuori faceva freddo, ma nel locale il bagliore delle lanterne di ottone che pendevano dal soffitto e le luci multicolori decorate con ghirlande di agrifoglio creavano un'atmosfera di calda allegria. Tra la folla Natascia vide il padre di James, Arnold Hyatt, una presenza fissa nel pub. Se ne stava appollaiato su uno sgabello accanto al caminetto. Boris si precipitò verso il fuoco insinuandosi nella foresta di gambe, e Arnold salutò Natascia alzando il suo boccale di birra. Era il vecchio saggio di Snowshill. Non si era mai mosso dal villaggio, eppure conosceva il mondo. «Salve, straniera» le disse. Era una vecchia battuta. La famiglia di Arnold aveva coltivato la terra nei dintorni di Snowshill per almeno quattro generazioni, così lui considerava uno straniero chiunque non avesse genitori e nonni sepolti nel cimitero di St Barnabus. Natascia si aprì la strada a gomitate per raggiungere il bancone del bar, dove Mary e James cercavano di tenere sotto controllo la situazione. James, che stava riempiendo un boccale, alzò la voce per farsi sentire al di sopra del frastuono. «Il solito?» Natascia scosse la testa. Aveva voglia di qualcosa di più forte. «Whisky, grazie.» Con grande abilità Mary reggeva otto boccali vuoti nei quali aveva infilato le dita. Li posò sul ripiano dietro il banco facendoli tintinnare. Mentre le versava una dose generosa di whisky, Natascia frugò nella tasca alla ricerca dei soldi, ma Mary scosse la testa. «Bevilo per me» disse.
James sgusciò tra la gente per riempire il boccale di Arnold e Natascia notò che passando aveva posato fuggevolmente la mano sulla pancia di Mary, un gesto protettivo e allo stesso tempo pieno d'orgoglio. Natascia sentì una fitta di dolore. Si era ripromessa di non chiedersi dove fosse e che cosa facesse Marcus la sera di Capodanno. Era a Manchester, o in qualche pub di campagna come quello, con un'altra donna? «La persona che ti cercava, ti ha poi trovato?» chiese James. Natascia ebbe un guizzo di speranza: «No; di chi stai parlando?». «Di una ragazza. Mai vista prima. Un po' ossuta e pallida, ma molto bella. Con i capelli lunghi. È venuta qui qualche ora fa e ha chiesto di te. Portava un vestito grigio poco adatto a questo tempaccio.» Natascia pensò subito a Bethany con apprensione. «Non ti ha lasciato il suo nome?» «No, non gliel'ho chiesto per non spaventarla. Sembrava che avesse appena incontrato un fantasma. È entrata, ha chiesto dove fosse Orchard End, ha detto che cercava Natascia Blake ed è sparita.» «Sembra una cosa molto misteriosa da come la racconti, tesoro» disse Mary, passando uno strofinaccio umido sulla superficie del banco e riordinando i sottobicchieri. «Da me non è venuta» disse Natascia. «Eppure sono stata a casa quasi tutto il giorno.» «In questo caso, non credo che fosse una cosa importante.» Mary passò a Natascia un foglio di carta e una penna. «Avanti, scrivi qual è il tuo proponimento per l'anno nuovo.» Mary sbirciò per leggere sopra la spalla di Natascia: «Mi ripropongo di non fare più buoni propositi che so di non poter mantenere». «Non vale!» esclamò Mary, delusa. A mezzanotte Mary e James offrirono champagne con vol-au-vent e pizzette. Poi James afferrò la mano di Natascia e la trascinò all'aperto, seguito da tutti gli altri. Tenendosi per mano cantarono vecchie canzoni. L'aria fredda portava il profumo del falò che i vicini di Natascia avevano acceso in giardino. Il cielo si illuminò di fuochi d'artificio. All'una tutti andarono a casa. Natascia si sentiva un po' alticcia e aveva sonno. Non appena aprì la porta di casa, Boris si mise ad abbaiare e a ringhiare freneticamente. «Pazzo d'un cane, perché fai tutto questo chiasso?» Boris divenne più tranquillo, ma non la lasciò un attimo, quasi cammi-
nandole sui piedi e tenendo la coda bassa. Prima di spegnere la luce Natascia vide la spia della segreteria telefonica che lampeggiava. Marcus? Si precipitò ad ascoltare il messaggio. Al bip fece seguito un inquietante silenzio interrotto da fruscii. La voce registrata del servizio telefonico la informò che la chiamata risaliva alle dieci e un quarto, ma che il numero era riservato. Tornò nell'ingresso per verificare se per caso fosse stato lasciato un biglietto nella cassetta della posta. Ma non c'era niente. CAPITOLO 12 Il treno delle sette e un quarto da Moreton a Paddington era meno affollato del solito. La prima settimana di gennaio era una sorta di limbo. Natascia si sentiva piena di ottimismo, felice di aver ripreso il lavoro e di essere diretta a Londra. Per chi abita altrove, è un posto fantastico da visitare. La Società dei Genealogisti aveva sede nell'ultimo di una fila di edifici tutti uguali. Una targa di ottone scintillante dava una falsa impressione di prestigio. L'interno assomigliava a un edificio della Londra dickensiana: tetro, un po' malandato, con locali angusti. Qui Natascia si sentiva a casa propria. Nelle biblioteche e negli archivi che frequentava abitualmente incontrava facce familiari che le infondevano un senso di sicurezza. Frank Sills era uno dei suoi colleghi preferiti. Lavorava nella piccola libreria della Società dove erano in vendita i ferri del mestiere: guide alle biblioteche, software specializzati e via discorrendo. Salutò Natascia con un allegro cenno del capo, mentre lei attraversava il guardaroba. Aveva l'aria di un capitano di marina a riposo e amava vestirsi in modo eccentrico. «Non trovi che sia un po' esagerata?» chiese indicando la propria cravatta rosso fuoco con un'insegna araldica nera e oro completa di leoni rampanti. «È splendida, Frank» lo prese in giro Natascia. «Un raro esempio di discrezione.» La risata di Frank la seguì su per le scale fino alla biblioteca con le pareti foderate di libri e di schedari. Natascia andò direttamente agli scaffali dei registri medici dal 1858 al 1920, disposti in ordine cronologico lungo il corridoio centrale. Seduto a un lungo e stretto tavolo, notò un giovane con i capelli lunghi, che indossava un cappotto verde muschio, intento a sfogliare un opuscolo dalle pagine ingiallite con immagini in bianco e nero di treni a vapore. Na-
tascia estrasse l'annuario del 1861 e fece scorrere il dito sulla colonna della "M". C'erano solo tre medici a Londra con cognome Marshall e di nome John. Il primo era vissuto al 27 di Aldeman Street, il secondo al 21 di Princes Street. Il terzo era un membro del Reale Istituto di Chirurgia: John Marshall di Savile Row, numero 10. Annotò i dati sul suo quaderno degli appunti, e rimise l'annuario al suo posto, saltò un'intera decade e prese quello del 1871. Era più voluminoso. Più medici e più Marshall, ma il suo John Marshall c'era ancora. Più vecchio di dieci anni. Abitava ancora al 10 di Savile Row. Le premeva tracciare lo schema generale della sua vita, in cui inserire i dettagli in un secondo tempo. A quanto pareva, John Marshall aveva seguito un cammino lineare. Per almeno vent'anni non aveva cambiato casa. Nel 1881 abitava ancora in Savile Row. Non di rado, Natascia si lasciava distrarre dalla storia di personaggi secondari in cui si imbatteva nel corso della ricerca. Dovette quindi ricordare a se stessa che non era John Marshall di cui doveva occuparsi, bensì di sua figlia: J.M. Nel cucinino della Società dei Genealogisti Toby Curtis, un ricercatore amico di Natascia, stava facendo il caffè. Quando la vide le si avvicinò baciandola sulle guance. «Sei bellissima» le disse guardandola da sotto una lunga frangia di capelli castano chiaro. Toby aveva una passione adolescenziale per lo spazio e per i giochi elettronici. Qualunque tipo di gadget lo appassionava. Vestiva in modo informale, con maglioni di lana spessa e pantaloni di velluto sbiaditi. Quando la invitava a una cena nel suo appartamento di Hampstead, le offriva sempre un paio di bicchieri di Porto dopo mangiato. Sembrava un bambino che giocasse a fare l'adulto. Toby aveva due anni meno di Natascia ed era bello come può esserlo un ragazzino. Natascia lo prendeva in giro, dicendo che era il fratellino che non aveva mai avuto. In parte era vero, ma era anche un modo gentile per tenerlo a distanza, evitando di ferirlo. Toby spesso la aiutava nelle fasi di ricerca che avrebbero richiesto la sua presenza a Londra. «Allora, che cosa ti porta nella capitale?» chiese Toby versando l'acqua bollente sul caffè solubile.
«L'odore del caffè.» Natascia si lasciò cadere su una sedia. «Sto cercando di dare un'identità alla misteriosa autrice di un diario del XIX secolo, nella speranza che mi aiuti a trovare una ragazza ancora più misteriosa scomparsa nel XXI secolo.» «Perché non è la polizia a cercarla?» «Vorrei che tutti la smettessero di farmi la stessa domanda. È una storia lunga.» «Be', di caffè ce n'è in abbondanza...» «Grazie, magari un'altra volta. E tu, che fai di bello?» «Me ne sto qui a perder tempo nella speranza che arrivi il grande amore.» Le chiese come avesse passato il Natale e poi la intrattenne con divertenti aneddoti sulle sue vacanze sciistiche con un gruppo di amici. Mesi prima Toby l'aveva invitata ad andare in montagna con lui. Ora, ascoltando i suoi racconti, Natascia rimpianse di non aver accettato. «Dunque, per trovare questa ragazza devi seguire una linea di "ascendenza" piuttosto che di discendenza, per così dire» commentò Toby con aria pensierosa. «È lo stesso procedimento che si seguirebbe in un'azione civile per l'accertamento degli aventi diritto a un'eredità.» «Penso di sì.» Toby le offrì una caramella alla menta: «Se c'è qualcuno in grado di trovarla, sei tu». «Vorrei avere la tua stessa fiducia» rispose Natascia, mettendosi in bocca la mentina. CAPITOLO 13 Per andare a piedi dalla Società dei Genealogisti al Centro di Documentazione Familiare a Clerkenwell non si impiegava più di un quarto d'ora. Natascia non provava simpatia per il nuovo edificio che ospitava il Centro in mattoni rossi, con grandi finestre dai vetri a specchio, in una anonima strada suburbana. Ai tempi di Shakespeare, Clerkenwell era stato un quartiere malfamato, dove per tradizione abitavano orologiai ugonotti e immigrati italiani. Ma Clerkenwell non aveva conservato nulla della sua antica atmosfera esotica. I censimenti erano conservati al primo piano dell'Archivio di Stato, in un'enorme sala che ospitava anche le raccolte dei registri dei testamenti e delle tasse di successione. Contro le pareti erano allineati i contenitori dei microfilm, mentre gli schedati cartacei occupavano il centro del locale.
Natascia per prima cosa controllò il censimento del 1861. Il registro era stato ritrovato soltanto pochi anni prima ed era incompleto. Senza nutrire grandi speranze, verificò la lista delle strade di Londra di cui non era rimasta alcuna documentazione per gli anni 1861-1870. Naturalmente Savile Row era tra quelle. Per fortuna i Marshall non avevano cambiato casa nel decennio successivo. Natascia consultò quindi lo schedario del 1871. Prese nota della segnatura del microfilm relativo alla famiglia di John Marshall. Qui trovò i dati di tutti i componenti. John Marshall. Stato civile: vedovo. Età: cinquantadue anni. Luogo di nascita: Ely, Cambridge, Inghilterra. Capofamiglia. Professione: chirurgo. Nella casa al 10 di Savile Row la sera del 2 aprile 1871 c'erano tre persone di servizio: Sarah Morris, cuoca; Emily Cooper, domestica e Alfred Dunkley, cameriere. Erano presenti anche quattro figli del dottor Marshall. Tre figlie, Ellen, ventinove anni, Ada, ventun anni ed Eleanor, dieci anni. Il solo nome con iniziale "J" era quello del figlio del dottor Marshall, anche lui di nome John, che allora aveva venticinque anni. Nessuna figlia con un nome che iniziasse con "J". Natascia ne fu delusa. Per qualche momento fissò lo schermo con tutta l'intensità di cui era capace, come se la sua forza di volontà potesse far comparire per magia il nome della persona che cercava. Alla fine decise di tentare un'altra strada. Era comune nell'età vittoriana attribuire ai primogeniti il nome di un genitore; tuttavia, per evitare confusioni, nella vita quotidiana si usava rivolgersi al bambino o alla bambina con il suo secondo nome. Era perciò plausibile ipotizzare che la moglie del dottor Marshall si chiamasse Ellen, come la sua primogenita. Era anche possibile che Ellen junior avesse un secondo nome con iniziale "J". Tuttavia non si doveva trascurare l'ipotesi che il nome della signora Marshall non fosse affatto Ellen e che esistesse invece una figlia maggiore, Jane, Jenny o Joanna, già sposata, che quindi non si trovava nella casa dei genitori al momento del censimento del 1871. Natascia fece una fotocopia della pagina che le interessava e si diresse verso la sala di lettura dell'Istituto Nazionale di Statistica, al pianterreno. Nella sala regnava sempre un silenzio tombale, forse in segno di rispetto per i morti. Era impossibile dimenticare che si era circondati da migliaia di
nomi, da migliaia di vite e di storie. Come al solito c'erano numerosi ricercatori intenti a consultare voluminosi indici. Il solo rumore di sottofondo era prodotto dai pesanti registri dalla copertina con gli angoli d'ottone che venivano appoggiati con cura sui tavoli, o sistemati sugli scaffali metallici. Natascia fece una serie di rapidi calcoli. Ellen junior aveva ventinove anni nel 1871, perciò doveva essere nata nel 1842 o nel 1843. Da quando Natascia aveva studiato araldica, non riusciva a guardare un codice cromatico senza riflettere sul valore simbolico, intenzionale o meno, di ogni colore. I registri delle nascite erano rossi, il colore della forza, della magia, ma anche del sangue. Gli indici matrimoniali erano verdi, il colore più appropriato, dal momento che sugli stemmi il verde significa amore. I registri delle morti erano naturalmente neri, il colore del lutto, ma anche della saggezza. In un angolo, accanto ai registri dei decessi, e non a quelli delle nascite, come sarebbe stato logico, stavano i registri delle adozioni, rilegati in rosso con il dorso giallo. Natascia li aveva aperti una volta sola, trovandovi ciò che sapeva già. Non li aveva guardati mai più. Estrasse a fatica il primo volume delle nascite relativo al 1842. La tela della copertina era leggermente sbiadita e logora sul dorso. Appoggiò il pesante registro su un leggio. Sfogliò le pagine spesse e lucide. Le voci erano vergate in inchiostro nero con mano ferma e nitida. Nessuna Ellen Marshall era stata registrata nel distretto di Westminster Saint James. Uno dopo l'altro controllò tutti i volumi del 1843. Decisa a non demordere, passò all'anno successivo. Nell'Ottocento non c'era una legge che obbligasse a una tempestiva notifica delle nascite, perciò poteva passare molto tempo prima che un genitore registrasse la nascita di un figlio. Infatti, Natascia trovò J.M. nel volume del primo trimestre del 1844: Marshall, Ellen J. Era sempre una grande emozione per lei trovare il nome della persona che cercava sulla pagina di un indice o di un antico manoscritto. Capiva perfettamente perché alcuni colleghi sviluppassero una vera e propria ossessione per la genealogia. A causa dello squisito piacere che lo studioso sentiva rinnovarsi a ogni nuova scoperta. Ma a Natascia non bastava: cercava di infondere un soffio vitale in quei nomi, ricostruendo attraverso i documenti la loro personalità, la loro storia, con le gioie e con i dolori che la vita aveva loro riservato.
Il nome completo di J.M. era dunque, con ogni probabilità, Ellen J. Marshall. Ma non bisognava correre troppo se non si volevano commettere errori. Per esperienza, Natascia sapeva che era facile convincersi di aver trovato ciò che si voleva trovare, inseguendo una pista sbagliata. Questa volta non aveva davanti a sé mesi di ricerca. Bethany aveva dato ad Adam solo un mese per ritrovarla, se l'interpretazione di Natascia era corretta. Non c'era tempo da perdere. "Ammesso che non sia già troppo tardi." Si affrettò a compilare il modulo per la richiesta del certificato di nascita di Ellen J. Marshall e lo consegnò all'addetto. Ora doveva verificare che E.J. Marshall e l'autrice del diario fossero davvero la stessa persona. Chiamò sul cellulare il Reale Istituto di Chirurgia e chiese che le passassero la biblioteca. L'archivista, come Natascia si aspettava, le rispose che sarebbero stati felici di intraprendere una ricerca sulla biografia di un loro antico membro. Nel caso fosse stato un chirurgo famoso c'erano buone probabilità che la biblioteca conservasse il necrologio, ma al momento erano sommersi dalle richieste. Le consigliava di inviare i dati del chirurgo che le interessava, con i soldi per le fotocopie: avrebbe ricevuto il materiale richiesto non appena possibile. «Oh, capisco» disse Natascia con tono avvilito. «Farò come lei dice. È solo che speravo tanto di trovare qualcosa prima che mio zio tornasse in America. Non c'è proprio nulla che lei possa fare?» Un istante di esitazione. «Be', se è urgente, potremmo accelerare la procedura. Provi a chiamarmi domani mattina.» Un momento dopo aver chiuso la comunicazione, il cellulare trillò. Era Steven. Natascia lo immaginò nel suo studio all'università che spostava montagne di carte per appoggiare i piedi sulla scrivania. «La mia ragazza preferita! Hai trovato la tua ragazza?» «No.» «Immagino che ti sia ben guardata dal seguire il mio consiglio.» Il tono di Steven adesso era serio. Natascia non rispose. «Di ostinati ne ho incontrati tanti in vita mia, ma tu li batti tutti. Pensavo che, portandoti con me sui siti degli scavi, ti avrei insegnato, se non altro, il valore del lavoro di gruppo.» Era arrabbiato e lei non lo sopportava. Detestava le prediche, soprattutto se sospettava che avessero un fondamento. «Sai che non mi piace il gioco
di squadra. È per questo che me ne sono andata dall'Istituto di Araldica e da Generazioni. Mi piace lavorare in proprio.» «So che credi di essere più brava di chiunque altro. Di solito è così... Ma hai riflettuto su che cosa potrebbe succedere nel caso la tua interpretazione del biglietto fosse corretta? Se la ritrovassero morta? Sarà colpa tua, se non avrai chiesto aiuto a chi di dovere. Comunque, è inutile che stia a discutere con te, se hai già preso una decisione. Spero che tu sappia quel che fai.» Natascia portò il discorso sull'Italia. «La prossima settimana sarò a Londra per una serie di incontri, alla ricerca di fondi» la informò. «Mi piacerebbe vederti prima di ripartire.» «Se posso.» Mentre mangiava un panino alla mensa del Centro, Natascia cercava di dominare le emozioni suscitate dalla telefonata di Steven. Le tornavano in mente i continui litigi con Ann e con Steven, perché, da adolescente, si rifiutava di accettare i loro consigli. Litigi che in genere finivano con una frase che Natascia sapeva ingiusta, ma che li metteva a tacere: «Non avete il diritto di dirmi quello che devo fare. Voi non siete i miei veri genitori». A casa avrebbe trovato una e-mail di Steven che si scusava per averle fatto la predica. Era arrabbiato solo perché si preoccupava per lei. Perché le era così difficile accettare le critiche? Natascia dava l'impressione di credersi la più brava, ma la sua sicurezza era spesso soltanto apparente. «È bello sentirsi sicuri. Basta che la sicurezza non si trasformi in arroganza» le diceva Steven, e Natascia si chiedeva se stesse parlando davvero di lei. Ma apparire sicuri significava aver vinto metà della battaglia. Sfogliò il suo quaderno degli appunti fino alla pagina con i dati sui Marshall. Due figlie. Ellen ed Eleanor. Natascia era pronta a scommettere che la sua ipotesi circa il nome della signora Marshall si sarebbe rivelata esatta. Le due ragazze erano state chiamate rispettivamente con il primo e il secondo nome della madre. C'erano quattro donne in casa e tre di loro avevano nomi simili, due Ellen e una Eleanor. Che confusione! Del resto c'erano anche due John, padre e figlio. Nessuna meraviglia dunque se la figlia Ellen venisse chiamata con il secondo nome. Eleonor era molto più giovane dei fratelli e delle sorelle. Una gravidanza tardiva non prevista? E se la signora Marshall fosse morta di parto? La piccola era stata chiamata Eleanor in ricordo della madre? CAPITOLO 14
«La sua intuizione era corretta. La moglie del dottor Marshall si chiamava proprio Ellen» disse l'archivista del Reale Istituto di Chirurgia quando Natascia lo chiamò il giorno successivo. Avrebbe voluto dargli un bacio. «Fantastico. Non so dirle quanto le sono grata.» «Sono felice di esserle stato utile. Ci sono due pagine delle Vite dei membri del Reale Istituto di Chirurgia inglese del Plarr che riguardano il dottor Marshall. Vuole che le faccia le fotocopie e gliele invii per posta?» «Sì, grazie.» In realtà a Natascia non serviva altro. La moglie del dottor Marshall si chiamava Ellen, quindi era molto probabile che Ellen J. fosse la figlia maggiore e che non ci fossero altre ragazze Marshall con le iniziali J.M. Natascia avrebbe scommesso che Ellen J. era l'autrice del diario. Il censimento del 1881 offriva una miniera di informazioni facilmente accessibili. Era l'unico riversato su cd-rom, completo di indici dei cognomi e dei distretti. Natascia inserì il quinto disco con i dati relativi a Londra e digitò i criteri di ricerca. Marshall: capofamiglia. Ce n'erano duecento. Fece scorrere il cursore lungo la pagina e trovò il suo John Marshall. Il 3 aprile 1881 la cameriera Emily era ancora in servizio. Anche Eleanor viveva in Savile Row, mentre John, Ada ed Ellen avevano lasciato la casa paterna. Perfetto. Per un genealogista alcuni aspetti della vita ottocentesca erano di grande aiuto. Il fatto che allora la gente traslocasse raramente e che le figlie rimanessero nella casa paterna fino al momento del matrimonio semplificava la ricerca. Ma c'erano anche complicazioni: in assenza di strumenti per il controllo delle nascite, era comune che le ragazze avessero un figlio poco prima o subito dopo il matrimonio. Anche di questo si doveva tener conto. Chiamò Toby e sul sottofondo di musica pop mista a un ciottolio di stoviglie sentì la sua voce che diceva: «So che vuoi che ti aiuti a trovare la tua ragazza scomparsa». «No, Toby, oggi mi interessa una ragazza di nome Ellen J. Marshall. Viveva nella casa del padre in Savile Row nel 1871, ma nel 1881 non c'era più.» «Se capisco bene, mi stai chiedendo di spulciare dieci anni di registri matrimoniali per scoprire dove è andata a finire e con chi. Un lavoro crea-
tivo, non c'è che dire. Immagino che tu ne abbia bisogno per ieri.» «Non esageriamo. Entro la mattinata andrebbe benissimo. E il certificato di nascita di J.M. dovrebbe essere già pronto...» Spesso le famiglie si tramandano le medesime professioni, generazione dopo generazione. Natascia ripensò a quanto Bethany le aveva detto a proposito del suo lavoro. Nell'attesa di decidere che strada prendere lavorava presso un fioraio. Stava forse considerando la possibilità di studiare medicina? Forse suo padre era un medico e faceva pressioni in questo senso, spingendola verso una carriera che Bethany non si sentiva di intraprendere? Conoscere la vita del dottor Marshall l'avrebbe aiutata a prendere una decisione? Natascia sapeva per esperienza quale importanza le persone attribuissero a ogni pezzetto di carta che riguardasse un antenato, come se fosse un amuleto in grado di cambiare la loro vita. Per questo era sicura che Bethany sarebbe stata felice di conoscere i dettagli della vita del dottor Marshall e della sua famiglia. Alle due Toby la richiamò. «Temo di doverti dare una brutta notizia.» «Non l'hai trovata?» «L'ho trovata, ma non dove mi avevi chiesto di cercarla.» «Non ha lasciato la casa del padre per sposarsi?» «No.» Natascia sentì un nodo in gola. «Hai controllato i registri mortuari?» «Sì. È nel primo trimestre del 1873. Ho richiesto una copia del certificato di morte, anche se sappiamo già quello che ci serve. È morta zitella. Come pensi di procedere?» «Indagherò sul fratello e sulle sorelle. John, Ada e la piccola Eleanor.» Rintracciare i discendenti di ciascuno avrebbe richiesto tempo. Natascia aveva la netta sensazione di aver imboccato una strada sbagliata, di aver trascurato un elemento essenziale, ma non avrebbe saputo dire quale. «Ho ritirato il certificato di nascita. Mi piace essere preciso nelle commissioni che mi vengono affidate. La "J" sta per Jeanette» disse Toby. Quindi J.M. aveva il nome di entrambi i genitori, dal momento che Jeanette era il femminile di Jean, la versione francese di John. La telefonata di Toby aveva rimescolato le carte. Natascia aveva sbagliato. Prese il diario e tornò a osservare la fotografia di Bethany. Il suo viso appariva piccolo, tragico, spettrale. "Chi sei? Dove sei? Stai bene?" Poi ad alta voce disse: «Non rinuncio. Non ancora. Te lo prometto».
Rimise la foto nel diario. Pensò alla personalità vivace che quelle antiche pagine restituivano. J.M., Jeanette, aveva da poco passato i vent'anni quando scriveva il diario, era piena di brio, pronta ad abbracciare la vita e l'amore. Ma dopo qualche anno sarebbe morta. Trent'anni, nubile, senza figli. CAPITOLO 15 Natascia aveva deciso di recarsi all'appuntamento con Adam in treno. L'Opium Den era a cinque minuti dalla stazione di Oxford. Si incamminò lungo Station Road e, man mano che si avvicinava al ristorante, sentiva le gambe che si facevano sempre più pesanti, come se avesse corso per ore. Il locale era affollato di studenti e di coppie di giovani professionisti. Adam fumava, seduto a un tavolo per non fumatori accanto alla finestra. Sul tavolo c'erano alcune riviste, una bottiglia di Shiraz e due bicchieri, di cui uno pieno a metà. Non sorrise e non la salutò, limitandosi a guardarla mentre gli si avvicinava. «Ciao» disse Natascia. Adam non smise di osservarla. «Cammini come una ballerina.» Versò del vino nel bicchiere vuoto. «Ho studiato danza classica fino a quindici anni.» Natascia si tolse il cappotto e lo gettò sulla spalliera della sedia. «Le foto di Bethany sono venute bene?» chiese. «Potrebbero essere molto più belle. Non so che cosa non abbia funzionato, forse l'esposizione. Troppe ombre. Nessuna delle foto in bianco e nero è venuta come speravo.» «È un peccato. Quando viene inaugurata la mostra?» «Il 16 gennaio.» La scadenza che Natascia si era data per trovare Bethany. Adam sembrava profondamente scontento. Sotto la giacca di velluto nero indossava una maglietta bianca stropicciata. I capelli erano in disordine, come se si fosse appena alzato dal letto. Non si era fatto la barba. «Allora, a che punto sei?» le chiese. Purtroppo, quello che Natascia aveva da dire non poteva che aumentare il suo malumore. «L'autrice del diario si chiamava Ellen Jeanette Marshall. Suo padre, John, aveva uno studio in Savile Row.» «Bene. Che altro?»
«Jeanette morì a trent'anni, nubile.» Adam aspirò rabbiosamente la sigaretta, guardando fisso fuori dalla finestra. «Evidentemente aveva un bastardo.» «È possibile.» Il fatto che Jeanette fosse morta nubile, infatti, non escludeva che avesse discendenti diretti ai quali lasciare il suo diario. Era un errore comune per i genealogisti inesperti cercare un figlio dopo, piuttosto che prima del matrimonio. In epoca vittoriana, infatti, il dieci per cento dei matrimoni veniva celebrato dopo la nascita del primo figlio e molte coppie non si sposavano affatto. «Il problema è che i figli illegittimi di solito non venivano registrati. Come del resto quelli adottivi. È praticamente impossibile rintracciare un figlio nato fuori dal matrimonio.» Adam afferrò il menu e lo aprì, ponendolo tra sé e ciò che non voleva sentire. Trovare Bethany non sarebbe stato facile. Natascia sapeva che la rabbia sul volto di Adam non era che una maschera per nascondere il dolore. Tuttavia, doveva ammettere di provare la vaga sensazione che lui le tenesse nascosto qualcosa, che la realtà non fosse esattamente quella che le voleva far credere. Adam lasciò cadere il menu sul tavolo. «Se le cose stanno così, non ti resta che dirmi quanto ti devo.» «Senti, ci sono altre strade che possiamo seguire. È improbabile che Jeanette, in quanto donna, abbia lasciato un testamento, ma qualcuno deve pur aver ereditato i suoi beni. Forse il fratello o una delle sorelle. Posso continuare le ricerche su loro tre.» Adam non mostrò alcun entusiasmo a questa proposta. «Senti, anche se non ci fossero legami diretti di sangue tra Bethany e Jeanette, non è detto che il diario sia del tutto inutile. Voglio rileggerlo e vedere se riesco a trovare qualche altro indizio.» Arrivò la cameriera a prendere le ordinazioni. Natascia scelse gamberoni in salsa di cocco e riso al vapore. Adam ordinò lo stesso piatto, ostentando indifferenza. «E se io mi fossi completamente sbagliato?» Dal tono della domanda Natascia capì che doveva prepararsi ad ascoltare qualcosa di spiacevole. «Rossetti mise le sue poesie nella bara di Lizzie Siddal come un gesto d'addio, come un sacrificio. Giusto? Bene, io mi chiedo: non può essere che il diario sia il modo scelto da Bethany per imitare la storia di Lizzie e di Rossetti? Che abbia voluto lasciarlo a me come un ricordo, come un pe-
gno?» Natascia riempì i bicchieri, cercando di non pensare alle implicazioni di quanto Adam aveva appena detto. «Apprezzo che tu ti sia data tanto da fare, ma forse è meglio lasciar perdere.» Natascia gli passò il bicchiere. «Temo di non aver ancora imparato a rinunciare. Devi aiutarmi a ricostruire un quadro meno sfuggente di Bethany e della sua vita. Dimmi qualcos'altro di lei.» «Che cosa vuoi sapere?» chiese Adam con voce atona. «Qualsiasi cosa. Che musica le piaceva?» «I Doors. Jim Morrison.» Fantastico. Jim Morrison era morto d'infarto nella vasca da bagno. Secondo alcuni, suicida. Ma non significava niente, anche Natascia aveva tutti i suoi album. «Le piaceva il suo lavoro?» «Molto, credo. Sapeva parecchie cose interessanti sui fiori.» Natascia appoggiò i gomiti sul tavolo e si sporse verso di lui. «Per esempio?» Adam alzò le spalle. «Mi parlava dei funerali degli zingari. Sembra che intreccino corone di fiori a forma di cuori spezzati, con uno zigzag di rose rosse nel mezzo a simboleggiare la ferita. Mi ha raccontato che durante la seconda guerra mondiale era proibito trasportare fiori per ferrovia, ma qualcuno aveva escogitato un sistema per introdurre clandestinamente anemoni a Covent Garden, nascondendoli dentro le cassette di broccoli. Io non sapevo che certi fiori avessero nomi tanto poetici: nontiscordardimé, cuore di donna, trombe degli angeli, fiore della passione.» Si accese un'altra sigaretta, misurando i gesti con grande lentezza. «Conservava tutto: i biglietti delle mostre che avevamo visto assieme, il pezzetto di carta che le avevo dato con il mio numero di telefono, persino lo scontrino di un cappuccino che aveva preso il giorno in cui ci siamo conosciuti.» Natascia la capiva. Anche lei aveva conservato un palloncino a forma di stella che Marcus aveva comperato alla fiera di Stow il primo fine settimana in cui si era trasferito da lei. Si sentiva stupida, però non riusciva a buttarlo via. «Mi ha dato una fotografia che aveva scattato a dodici anni.» Adam frugò nella tasca alla ricerca del portafogli e le porse un'istantanea a colori di un canale con delle barche. Natascia la girò. Sul retro lesse Bethany X, scritto con una grafia nitida
in inchiostro nero. Era la foto di un canale vicino a dove abitava, oppure del luogo dove si trovava ora? Poteva essere Oxford? Il Cambridgeshire, la regione d'origine dei Marshall? Ma quanti canali esistevano in Gran Bretagna? Migliaia. «Le ho chiesto chi le avesse insegnato a usare la macchina fotografica» riprese Adam. «Se fosse stato suo padre. Lei mi ha risposto che suo padre non le aveva insegnato niente che lei desiderasse imparare. Eravamo in un ristorante e Bethany si è rifiutata di finire la cena e ha insistito perché ce ne andassimo via subito, ma non ha voluto dirmi perché fosse tanto sconvolta. Da parte mia ho imparato la lezione. Non ho più cercato di sapere altro sulla sua famiglia.» Che cosa poteva spingere una persona a rifiutarsi di parlare della propria famiglia, a sconfessarla al punto di cambiare il proprio cognome? «Come è cominciata la vostra storia? So che vi siete incontrati in un caffè, ma che cosa...» «Le ho offerto un altro cappuccino, poi le ho chiesto di venire a casa mia. Lei ha accettato.» «È andata così?» «È andata così?» le fece il verso Adam. «Lei si fidava di me.» Tacque per qualche istante. «È una persona contraddittoria. A volte tira fuori delle idee assurde. Ma per tanti aspetti è all'antica. Le piace avere abitudini regolari. Per esempio, le piaceva andare allo stesso ristorante il venerdì sera, fare colazione con me prima che io andassi in studio. Non ama i progetti a lunga scadenza, e inoltre non sopportava che io cambiassi programma all'ultimo minuto, cosa che a me capita spesso. Quando litigavamo non voleva che ci separassimo senza aver fatto pace... Si arrabbiava moltissimo se arrivavo in ritardo, e io sono quasi sempre in ritardo. Si infuriava, la trovavo in lacrime, in uno stato d'isteria.» Angoscia da separazione. Natascia sapeva benissimo di che cosa si trattava. Uno dei problemi di cui si dice che soffrano i bambini adottati. Bevve qualche sorso di vino. «Una volta ha cercato di picchiarmi, un'altra è persino svenuta.» Adam continuò: «Dopo queste scenate non la finiva più di chiedermi scusa, e prometteva di non arrabbiarsi mai più. Io le dicevo di non fare promesse che non avrebbe saputo mantenere, le assicuravo che era tutto passato, che non importava. Ma le mie parole non riuscivano mai a tranquillizzarla del tutto». «Il giorno in cui se ne è andata, hai forse notato qualcosa di diverso?»
«No, tranne...» «Tranne cosa?» «Il pomeriggio precedente si è chiusa in camera da letto ed è stata al telefono a lungo. Le ho chiesto con chi chiacchierasse tanto e lei mi ha risposto "Nessuno". "Parlare da soli è un primo segno di follia" le ho detto, ma lei non ha afferrato la battuta.» Arrivarono i gamberoni e la conversazione si interruppe. Un tizio raggiunse il loro tavolo, evidentemente un amico di Adam. Natascia ebbe l'impressione di averlo già visto, ma per un attimo non riuscì a ricordare dove. Poi le venne in mente. La Società dei Genealogisti. Indossava lo stesso cappotto verde muschio, pantaloni militari e maglietta nera. I capelli erano raccolti in una coda di cavallo, questa volta. Non mostrò di averla riconosciuta. «Be', Adam, non ci presenti?» «Jake Romilly» sibilò Adam a denti stretti. «Natascia Blake.» «Ah, la donna segreta di Adam!» Tese la mano. «Felice di conoscerti, finalmente.» La sua voce aveva qualcosa di familiare. Era lui che le aveva risposto al telefono dello studio? Era alto, ben piantato, con inquietanti occhi verdi. Si guardò attorno: «Magnifico locale». Si rivolse ad Adam che si era messo a sfogliare una rivista con aria seccata. «Aspettavo un'amica, ma pare che sia in ritardo.» «O ti ha fatto il bidone» lo corresse Adam acidamente. «Potrei sedermi al vostro tavolo.» «Ci vediamo dopo, Jake» replicò Adam, secco. «Un tuo amico?» chiese Natascia, dopo che Jake si fu allontanato. «Una specie di socio.» «Non sembra che tu nutra una grande simpatia per lui.» «Non andiamo granché d'accordo. Non è privo di talento, ma non si dà da fare. È stato sbattuto fuori da Eton per droga. Pensa che gli altri lo debbano mantenere. Non tollera che qualcuno abbia più successo di lui, nel lavoro, con le ragazze, in qualunque cosa.» «Giurerei d'averlo visto alla Società dei Genealogisti l'altro giorno.» Adam scoppiò a ridere. «Jake? Ne dubito.» Natascia rimase convinta del contrario. Si servì un altro po' di riso, cercando di riportare la conversazione su Bethany. «Hai detto che i ricordi non sono importanti quanto i sogni. Bethany ti parlava dei suoi sogni?» «Diceva di non avere tempo per i sogni. Tu hai sorelle o fratelli?» «In genere sono io che faccio ai clienti questo tipo di domande.» «Ti capita mai di rispondere in modo diretto?»
«No, se posso evitarlo.» Non aveva più molto appetito, ma prese qualche gamberone. La salsa cremosa emanava un profumo dolce. «Ho una sorella più giovane. I miei genitori vivono nel Derbyshire.» «Secondo te il loro è un matrimonio felice?» «Funziona. Mio padre è spesso via per lavoro. Perché ti interessa la mia famiglia?» «Dove trascorrevi le vacanze quando eri una ragazzina?» «Ultima domanda, d'accordo?» Aveva la sensazione di non dovergli parlare di sé, anche se non avrebbe saputo spiegarne il motivo. «Andavamo in campeggio nel sud della Francia oppure affittavamo un cottage sulla costa, a Whitby». «Un'infanzia idilliaca.» «In un certo senso. E tu?» «Nessun idillio.» Adam accese un'altra sigaretta. «Immagino che normalmente il tuo lavoro non sia così complicato.» «Infatti.» «Bethany diceva che la storia familiare è diventata il passatempo più diffuso nel Regno Unito.» «Gli appassionati sono più di mezzo milione.» «Immagino che voi professionisti consideriate con sufficienza tutti questi dilettanti.» «Il Titanic fu costruito da professionisti, ma furono dei dilettanti a costruire l'Arca. Non li disprezzo affatto, costituiscono la mia principale fonte di reddito. Quando non sanno più come proseguire una ricerca oppure hanno bisogno di consigli, ricorrono a noi. In genere chi si occupa di genealogia lo fa sul serio, perché una volta che si comincia se ne è totalmente catturati.» «In questo caso è meglio che io ne stia alla larga.» Studiò la brace della sigaretta. «Ho già abbastanza vizi.» «Hai mai provato a smettere di fumare?» Scosse la testa. «La vecchiaia non ha alcuna attrattiva per me. Godi finché puoi e al diavolo le conseguenze.» «Mi sembra un atteggiamento irresponsabile.» «No, se quello che fai non nuoce agli altri.» «Nuoce sempre.» CAPITOLO 16
Era quasi mezzanotte quando Natascia tornò a casa, ma non si sentiva affatto stanca. Tirò le tende, accese il camino, si sdraiò sul divano e aprì il diario. Era un'altra cosa, ora che conosceva il nome dell'autrice. I nomi sono parte dell'identità, non meno dei cognomi. Doveva essere strano per le donne sposate prendere il cognome del marito, in qualche modo diventavano una persona diversa. Nascose la foto di Bethany in fondo al diario. Non se la sentiva di guardarla adesso. Si immerse nella lettura. Ada, la sorella di Jeanette, a un certo punto si ammalava. La diagnosi del dottor Marshall era tifo. Jeanette aveva assistito la sorella. «Papà è sceso per dirmi che Ada chiedeva di me. Sono entrata nella sua stanza e mi sono accostata alla lampada, perché il mio viso fosse bene in luce, come mi aveva consigliato papà. Le ho detto: "Sono qui, tesoro". Ada ha spalancato gli occhi, ma non avevano nessuna espressione, come se non mi vedesse. Quando l'ho baciata, la sua pelle era fredda e sudata. Piangevamo tutti. Alle sette e mezza di sera la mamma è scesa gridando: "Se n'è andata". Ho cercato di consolarla come meglio potevo e le ho fatto bere un po' di vino Questa mattina è venuto il signor Watkins per fare delle fotografie ad Ada nella bara. Era bellissima.» Un altro ramo dell'albero si era spezzato. Nel mondo occidentale, tranne che per gli infermieri e per i becchini, la morte era un'astrazione, fin tanto che non ci si avvicinava all'inevitabile traguardo. Natascia conosceva molte persone della sua età che non avevano esperienza diretta della morte, che non avevano mai partecipato a un funerale. Del resto fino a cinque anni prima, quando erano morti i suoi nonni, lei stessa aveva visto morire soltanto una zia molto anziana. La signora Marshall, invece, metteva in conto l'eventualità di perdere almeno uno dei suoi figli. Jeanette aveva dovuto affrontare la morte ben prima della sua scomparsa prematura a soli trent'anni. Natascia continuò la lettura del diario. «Il coperchio della bara è stato sigillato con la cera e non con chiodi o con viti.» Jeanette parlava di questi dettagli in modo oggettivo, senza morbosità, come avrebbe fatto il padre medico.
Ada era stata sepolta nel cimitero di Ely. A quei tempi le donne non andavano ai funerali, perciò Jeanette, la sorella e la madre erano rimaste a casa. Natascia sperava che, prima di morire, Jeanette avesse trovato la felicità nell'amore. La ragazza era tornata ben presto ad avere corteggiatori. Scriveva: «Ho sognato di ballare in modo molto sconveniente con il signor Brown. Per fortuna non si è responsabili dei propri sogni!». Un paio d'anni prima, dopo la fine catastrofica di una relazione, Natascia era tornata da uno psicologo cui era stata affidata dai suoi genitori quando aveva scoperto di essere una figlia adottiva. Era stata un'esperienza orribile. Più di ogni altra cosa l'aveva ferita il fatto che lo psicologo continuasse a ripeterle che era un caso da manuale: una bambina adottata che nutriva aspettative non realistiche, che sentiva il bisogno di sottoporre a esame l'affetto di chiunque le si avvicinasse, sempre in cerca di quell'amore incondizionato che solo una persona nella vita era disposta a dare. Una persona possessiva, che nello stesso tempo aveva paura dell'amore, perché era stata abbandonata proprio da colei che più di tutte avrebbe dovuto amarla. Una bambina adottata che in fondo sentiva di non meritare amore. E che provava attrazione per uomini impossibili. Tutto chiaro... Tranne il modo per venirne fuori. Uomini impossibili e inadatti... Adam Mason ne era un esempio lampante. Natascia riprese la lettura. C'era una divertente descrizione di un nuovo ammiratore, il signor Sandwell, le cui attenzioni non erano affatto gradite a Jeanette. La ragazza riassumeva il contenuto di una lettera che lo spasimante le aveva inviato. «La mamma ha letto ad alta voce la lettera con sommo orrore della vittima, moi, facendo morire dal ridere il resto della famiglia. Inizia con un "Cara signorina Marshall", si scusa per non aver scritto prima e ammette di sentirsi molto inferiore per condizione sociale (cosa di cui io sono perfettamente consapevole). Poi continua affermando che sono mesi che mi osserva. Mi paragona a una stella del firmamento e dice di non essere alla mia altezza (ha proprio ragione); ma si offre di indossare
una livrea e di trasformarsi in mio servitore. E (orrore degli orrori!) propone un compromesso: essere il mio lacché e al tempo stesso mio marito. Dopo ulteriori farneticazioni conclude: "Il vostro umile servo", le uniche parole sensate di tutta la lettera!» Natascia immaginò la piccola Bethany che riceveva il diario della nonna, con la raccomandazione di trattarlo con ogni cura. La vedeva con il libro in grembo, timorosa anche solo di sfiorarlo, immobile come una statua, come fanno i bambini quando temono di rovesciare l'acqua dal bicchiere o di rompere qualcosa. Agli occhi della bambina le lettere sulle pagine dovevano apparire come tanti geroglifici. Bethany aveva cercato di leggere il diario da sola, oppure la nonna l'aveva aiutata raccontandole altre storie di famiglia? Sènza dubbio gli atteggiamenti di Jeanette dovevano averla interessata molto di più da che aveva incominciato a uscire con i ragazzi. Forse aveva paragonato la sua vita a quella di Jeanette, forse era arrivata a sentirla come un'amica. Perché non aveva portato con sé il diario? Ma prima ancora, perché esso si trovava in suo possesso? Se il diario non era legato a lei tramite un'antenata diretta, doveva pur esserci una ragione per la quale la famiglia di Bethany se lo tramandava di generazione in generazione. Una cinquantina di pagine più avanti Natascia scoprì quale avrebbe potuto essere quella misteriosa ragione. Un accenno che le fece trattenere il fiato. «Sono andata all'Accademia per l'esposizione dei quadri di Rossetti. Ho incontrato Fanny, quella creatura malvagia e ordinaria che ora vive con Rossetti e a causa della quale la sua povera moglie si è suicidata. Papà è diventato il medico curante di Rossetti. Giusto l'altra notte il signor Maddox Brown l'ha chiamato alle due del mattino, perché Rossetti aveva avuto un collasso. Da quando sua moglie si è suicidata con il veleno, ha avuto una vita disgraziata. Erano sposati solo da due anni quando Lizzie si è vista rimpiazzata nel cuore di lui. Senza dubbio il dolore di Rossetti è dovuto al rimorso. Sono due anni che ogni notte vede lo spettro della moglie. Gli sta bene.» La nonna di Bethany doveva averle parlato di Lizzie Siddal. Adam aveva detto di temere che Bethany stesse cercando di imitarne l'esempio. E
Lizzie si era uccisa. Almeno questo era ciò che credeva Jeanette. Per qualche ragione, a differenza dei suoi contemporanei, non riteneva che la morte di Lizzie fosse stata accidentale. "In fondo il suicidio è una vendetta perfetta." Natascia rivide Bethany che si inoltrava nel fiume, recitando la parte di Lizzie Siddal che a sua volta posava nel ruolo di Ofelia. Entrambe si erano suicidate. Forse Bethany aveva in mente un'uscita di scena clamorosa: uccidersi, o essere trovata morta, il giorno dell'inaugurazione della mostra, il cui pezzo forte era la fotografia dell'annegamento. Mentre Natascia toglieva dallo scaffale Il sogno preraffaellita, le cadde l'occhio su un volumetto di schizzi che si era scordata di avere. Era il catalogo di una mostra che aveva visto a Sheffield, intitolata Elizabeth Siddal nei ritratti di Rossetti. Prese i due libri, li posò sulla scrivania e consultò l'indice del primo. Trovò il nome di Lizzie citato due volte, nel capitolo intitolato Il fiore della morte. «Elizabeth Siddal, nella concezione dei Preraffaelliti, rappresentava l'archetipo della bellezza. Fu immortalata in alcune delle opere più significative del movimento. Era una figura enigmatica e tragica. Silenziosa, sofferente, il viso pallido dall'espressione malinconica incorniciato da una massa di capelli rosso rame, morì due anni dopo il matrimonio con Rossetti, per una overdose di laudano che prendeva per alleviare i suoi dolori.» Natascia osservò a lungo Ofelia e Beata Beatrix. I due dipinti per certi versi erano simili. In Beata Beatrix, l'omaggio di Rossetti a Lizzie dopo la morte, un uccello lasciava cadere nelle sue mani aperte un papavero da oppio, simbolo della droga che l'aveva uccisa. Ma lo stesso fiore era rappresentato anche nel quadro più famoso, Ofelia morente, dipinto anni prima. Tra le dita di Lizzie, come un presagio di morte. Il testo sotto l'illustrazione recitava: «"La sua espressione conosceva soltanto sfumature di tristezza, come se sulla sua vita incombesse una premonizione di morte", scriveva Sharp, mentre Ricketts la chiamava: "Un delicato fantasma, uno spettro in mezzo ai vivi". Secondo Waugh: "La sua bellezza evanescente lasciava trasparire un che di morboso. Evocava l'alito gelido della corruzione della carne e
della mortalità".» L'ultima citazione dava credito alla leggenda secondo cui, all'esumazione di Lizzie, il suo volto non era cambiato. Anche in vita la sua era sempre stata una bellezza cadaverica. Natascia chiuse il libro e sfogliò la raccolta di ritratti. Erano delicati disegni a matita, centinaia di versioni di Lizzie: seduta in poltrona con le mani sul grembo; con la testa china su un libro; seduta sul pavimento con le gambe incrociate; su una sedia di vimini con il profilo in controluce, davanti a una finestra. Indossava sempre la stessa camicetta con il collo alto e una semplice gonna grigia. I ritratti sembravano rivelare molto più dell'artista che non della modella. Erano inquietanti. Forse perché, come per il diario di Jeanette, la fine della storia era nota. Ma non era Lizzie Siddal a ossessionare Natascia. Era Bethany Marshall. O qualunque fosse il suo nome. CAPITOLO 17 Da bambina, Natascia soffriva di sonnambulismo. Steven la sorprendeva a girovagare in camicia da notte per i corridoi bui della loro casa e la riportava a letto. Talvolta, al risveglio, vedendosi i piedi sporchi e graffiati, Natascia si rendeva conto di aver camminato in giardino scalza. Ma ormai erano anni che simili episodi non si verificavano più. Tuttavia quando, poco prima delle sette, scese in cucina per farsi una tazza di tè, le venne il dubbio di aver ripreso a fare la sonnambula. Non appena si trovò nel corridoio fu investita da una folata d'aria fredda. Udì un rumore metallico provenire dal soggiorno. Aprì la porta con circospezione. Il vento gelido che scendeva dalle colline entrava dalla finestra spalancata facendo ondeggiare le tende e trascinando avanti e indietro sull'asta gli anelli di ferro. Fuori era ancora completamente buio. Il libro dei disegni di Lizzie Siddal era aperto sulla scrivania e il vento ne sfogliava capricciosamente le pagine. Natascia rabbrividì. La maniglia della finestra si era misteriosamente aperta. Era vecchia, arrugginita, massiccia. Come diavolo aveva potuto aprirsi da sola? Chiuse la finestra e tirò le tende. Guardò il ritratto di Lizzie e con un gesto d'irritazione chiuse anche il libro. Sentendosi ridicola prese un grosso candeliere di peltro dal davanzale e
si avviò lentamente verso la cucina, guardando con apprensione dietro tutte le porte. Poi salì al primo piano. In casa non c'era nessuno. Si sentì come il personaggio di un melodramma, in camicia da notte con un candeliere in mano. Ormai era completamente sveglia, ma si sentiva ancora inquieta e spaventata. Ritornò in cucina, si fece un tè, lo portò alla scrivania e accese il computer. La luce dello schermo le parve rassicurante. Mentre aspettava che si avviasse scrisse sul suo quaderno degli appunti il nome di Margaret Wood, la responsabile dell'Archivio di Stato a Kew, che, come Natascia aveva detto a Bethany, aveva condotto una ricerca approfondita sulla vita e sulla famiglia di Lizzie Siddal, usando i censimenti e i documenti d'archivio. Forse valeva la pena di telefonare a Margaret, ma a quell'ora nessuna persona sana di mente era già al lavoro. Lesse le e-mail che aveva ricevuto. Adorava ricevere lettere e cartoline da Steven mentre lui era in viaggio. Anche controllare l'e-mail le procurava una sensazione di trepida aspettativa. Quando stava con Marcus si inviavano continuamente messaggi, con aneddoti sulla loro giornata e barzellette. Ora, ogni volta che nella posta elettronica non trovava una lettera di Marcus, provava una fitta di delusione. Appena avuto l'incarico di cercare Bethany, come d'abitudine, Natascia aveva consultato per prima cosa un sito specializzato nella ricerca genealogica, dove aveva trovato l'indirizzo e-mail dei genealogisti interessati al cognome Marshall. Ne aveva contattati una decina. Due avevano risposto: il primo era un tizio di Canterbury che diceva di aver fatto una ricerca sui Marshall del Gloucestershire e di non aver trovato alcun legame tra questi e i Marshall di Savile Row, dei quali, peraltro, non gli risultava esistesse attualmente alcun discendente. La seconda risposta era firmata Sue Mellanby e veniva da Cambridge. Salve, Natascia. Sono felice d'aver ricevuto il suo messaggio. Mia madre ha superato i novant'anni e purtroppo non è più lucida come un tempo. Da giovane ha passato molti anni a ricostruire l'albero genealogico della nostra famiglia. Conservo un ricordo molto preciso di quando, da bambina, fui accompagnata al cimitero di Ely, dove mi mostrarono la tomba del dottor John Marshall. Uno della famiglia, mi dissero. Sfortunatamente mia madre non ricorda questo episodio. Solo da poco ho ripreso la ricerca dal punto in cui mia madre l'aveva interrotta, quindi
per ora non posso aggiungere altro. Comunque la mamma mi ha riferito che a suo tempo aveva contatti con diversi rami della famiglia Marshall. Sostiene di aver sentito parlare di una bambina di nome Bethany. Devo tuttavia far presente ancora una volta il suo stato di salute. Al vedere sullo schermo il nome di Bethany, Natascia sentì il cuore battere più forte. Ho scritto ad alcuni dei contatti che ho trovato negli appunti della mamma, benché siano decisamente vecchi. In ogni caso, se dovesse venirne fuori qualcosa, glielo farò sapere. Natascia inviò a Sue Mellanby un messaggio di ringraziamento. Boris mugolava davanti alla porta: reclamava la sua passeggiata mattutina. Natascia si vestì in fretta e mise in tasca una mela che avrebbe mangiato per strada. Un freddo sole invernale brillava nella luce pallida del mattino e all'orizzonte, oltre gli alberi, si scorgeva una minuscola macchia di cielo azzurro. La foschia che nascondeva la vallata dava l'impressione che Snowshill fosse sospeso nel vuoto. Quando Natascia riusciva ad addormentarsi a un'ora decente, le piaceva alzarsi presto al mattino per godere delle prime ore di una nuova giornata. Ma adesso, come spesso accadeva negli ultimi tempi, vedere l'alba significava aver dormito male, soffrire di mal di testa e provare la sgradevole sensazione di essere stata strappata a forza al calore e alla sicurezza della casa. Anche Lizzie Siddal aveva avuto problemi di insonnia. Sonno e morte erano da sempre considerati affini. Il sonno era un eufemismo per la morte sulle epigrafi tombali, nelle preghiere e nelle poesie. Il sonno come una breve morte e la morte come un lungo sonno, da cui un giorno ci si sarebbe risvegliati. Un tempo si credeva che durante il sonno l'anima lasciasse il corpo e si unisse agli spiriti nel loro vagabondare. Boris inseguì il frisbee lanciato da un ragazzino che stava portando a spasso un pastore tedesco. I due cani si azzuffarono qualche minuto per contendersi il disco di plastica, finché Natascia richiamò Boris. Il setter lasciò la presa e saltò allegro dentro una grande pozzanghera, dando zampate al riflesso della propria immagine. Natascia non aveva tempo di aspettare le informazioni che aveva richie-
sto ai colleghi tramite il sito sulla ricerca genealogica. Doveva pur esserci un'altra strada da percorrere. Mentre camminava nell'aria frizzante del primo mattino, prese una serie di decisioni. Avrebbe telefonato a Margaret Wood per fissare un appuntamento. Poi avrebbe chiesto a Mary se se la sentiva di andare al Centro di Documentazione di Gloucester per raccogliere notizie sul fratello e sulla sorellina di Jeanette, attraverso i quali, in via ipotetica, il diario poteva essere giunto nelle mani di Bethany. Avrebbe quindi inviato una e-mail a Toby per chiedergli di controllare negli archivi dei Preraffaelliti, alla British Library, se esistesse una qualche documentazione dei rapporti tra i Marshall e Lizzie Siddal. A quel punto, si sarebbe concessa una nuotata nella piscina del Lygon Arms Hotel. Forse avrebbe invitato Mary e James a cena. Anzi, avrebbe chiesto a Mary se prima avesse voglia di unirsi a lei per la nuotata. Programmato l'immediato futuro, Natascia si sentì meglio. Appena tornata a casa chiamò Margaret, fissando un appuntamento per il giorno successivo, alle dieci. La spia della segreteria telefonica lampeggiava. "Qualcun altro che si alza al canto del gallo" pensò Natascia. Premette il pulsante play. Si sentì raggelare. Una voce maschile, giovane, aggressiva, camuffata come se parlasse tenendo un fazzoletto davanti alla bocca. «Non vuol più stare con lui. Sparisci, chiaro? Lasciala in pace.» CAPITOLO 18 Natascia si immerse nell'acqua trattenendo il respiro. Riemerse alla luce e al rumore. Era spaventata. Doveva tirarsene fuori, ora. Dire ad Adam che non poteva aiutarlo. In che razza di guaio si era cacciata? Un litigio fra innamorati, un presunto suicidio, che cosa? Forse la risposta era semplice. Bethany aveva lasciato Adam per qualcun altro e aveva paura di dirglielo. Sembrava logico, ma non abbastanza. Qualcuno non voleva che Natascia ficcasse il naso nella faccenda, che trovasse Bethany. La telefonata era un avvertimento. Ricordò le parole di Mary. Era una trama da poliziesco. Il messaggio di suicidio era una copertura, Bethany
era stata uccisa e ora l'assassino voleva farlo apparire un suicidio. Era ridicolo. Allora, perché aveva paura? Mary nuotava rasente il bordo della piscina, il pancione nascosto dall'acqua. Raggiunse il punto dov'era più profonda, si voltò e tornò indietro, il suo viso pallido contro l'azzurro, gli occhi aperti, i capelli come una nuvola. Adam aveva detto che l'annegamento era il modo più dolce per morire. Lo sguardo stravolto di Bethany quando era uscita dal fiume. Forse l'esperienza l'aveva spinta a domandarsi come sarebbe stato morire davvero. Era una domanda che tutti, prima o poi, si facevano. Natascia provò a trattenere il fiato sott'acqua, contando, tentando di resistere qualche secondo dopo aver esaurito l'aria, fino a che la pressione sul suo petto non aumentava e la testa le diventava leggera. Si fermava appena prima che le facesse male. Fu improvvisamente curiosa di vedere la fotografia che Adam aveva scattato a Little Barrington. Se abbandonava ora, lo avrebbe fatto per paura. Non sapeva come si sarebbe sentita se avesse lasciato, anche soltanto per una volta, che la paura la sopraffacesse. Avrebbe preferito essere arrabbiata, un sentimento più utile. Tentò di infuriarsi: come avevano osato minacciarla? Come avevano potuto pensare di spaventarla? Chiamò lo studio dalla hall dell'albergo. Le rispose una voce femminile, sicura. Disse di essere Angie, l'assistente di Adam. «Mi dispiace, ma non c'è.» «Sa se posso trovarlo domani?» «Sarà occupato per i prossimi due giorni.» «Venerdì?» «È prevista una sessione fotografica che non finirà prima delle cinque.» L'ultimo scatto per la mostra. «Potrebbe dirgli che vorrei vederlo dopo quell'ora?» «Ho detto le cinque, ma con Adam non si sa mai.» Aveva un tono ostile. «Non si preoccupi. Verrò comunque.» «Chi devo dire?» «Natascia Blake.» Ci fu un attimo di silenzio in cui la ragazza attese che lei aggiungesse qualcosa, ma Natascia la ringraziò e la salutò. Si chiese se Angie e Bethany si fossero mai incontrate allo studio. Per
qualche motivo si rispose che Adam doveva aver fatto il possibile perché non accadesse. Normalmente Natascia andava a Londra un paio di volte al mese. Cercava di accumulare il maggior numero di impegni possibile, in modo da sfruttare al massimo il suo tempo. Di questi tempi invece si sentiva una vera e propria pendolare. Quella mattina era arrivata presto alla stazione, in modo da trovare un parcheggio vicino alla biglietteria. La vista dei pendolari le fece tornare alla mente una battuta di Arnold: «La gente va a lavorare in città per guadagnare abbastanza da potersi permettere di comprare una casa in campagna. Il mondo è proprio impazzito». Mentre beveva il caffè nella carrozza ristorante, Natascia guardava il paesaggio passare dai campi agricoli ai sobborghi urbani. Le torri per la raccolta dell'acqua di Didcot nella nebbia sembravano una stazione spaziale fantascientifica. Sentì il trillo del cellulare. Un numero sconosciuto. Ripeté più volte: «Pronto». Silenzio. Aspettò qualche secondo, poi interruppe la comunicazione. Si chiese se fosse la stessa persona che aveva lasciato il misterioso messaggio sulla segreteria telefonica. Un altro tentativo di intimidazione. «No, non la conosco» disse Margaret Wood, studiando la fotografia che Natascia le mostrava. Erano sedute su una panchina dei giardini dell'Archivio di Stato, con in mano panini e cioccolata in tazze di plastica. Guardavano i cigni, le oche, le anatre e le buffe gallinelle d'acqua che becchettavano nel canneto. Il Tamigi scorreva dall'altro lato della ferrovia, oltre la siepe, vicino, ma invisibile. Gli edifici in mattoni chiari, dove erano conservati i documenti dell'Archivio, erano costruiti attorno a un laghetto artificiale circondato da prati ben curati. Margaret le aveva ricordato che all'interno c'erano ben centoquaranta chilometri di documenti. La tranquillità del luogo era turbata dal costante rombo dei jet in arrivo e in partenza dall'aeroporto di Heathrow. «Si chiama Bethany Marshall. Ti ha per caso scritto o telefonato di recente?» «Be', il nome mi dice qualcosa. Non le ho parlato personalmente, ma un collega mi ha trasmesso i suoi dati. È stato prima di Natale. Voleva che le inviassi...» «Informazioni su Lizzie Siddal.»
Margaret la guardò sorpresa. «Infatti.» Natascia non riuscì a nascondere la propria gioia. «Allora ti ha lasciato un indirizzo.» «Un indirizzo e-mail.» Naturalmente. Nello spazio cibernetico l'identità poteva essere occultata. «Me lo daresti?» «Non vedo perché no.» Margaret socchiuse gli occhi. «Di te mi fido. Le ho proposto di chiamarmi per prendere un appuntamento, se desiderava maggiori informazioni, ma non mi ha mai telefonato. Sono indiscreta se ti chiedo...» «In realtà volevo informazioni su Lizzie Siddal.» «Neppure lei ha telefonato.» Natascia sorrise. «Che cosa ti ha spinto a fare una ricerca sulla sua vita?» Margaret bevve un sorso di cioccolata fumante. «Anni fa un amico mi portò a una mostra dei Preraffaelliti alla Tate Gallery. Tra i quadri esposti ce n'era uno di Lizzie Siddal che rappresentava una scena tratta da una ballata di Walter Scott, in cui una donna incontra lo spettro dell'amante assassinato. Era molto impressionante. Le figure erano rigide e spigolose, ma, a loro modo, belle e molto intense. Mi colpì il fatto che, tra i pittori preraffaelliti esposti, Lizzie Siddal fosse la sola donna. Lessi il catalogo della mostra, poi qualche altro libro. Nessuno la pensava allo stesso modo su Lizzie Siddal, sia come donna sia come artista. Un vero enigma. La cosa mi parve intrigante. Secondo me, i dipinti della Siddal occupano senza ombra di dubbio un posto significativo nel quadro della pittura vittoriana. Perciò ho pensato che fosse giusto che qualcuno tentasse di sollevare il velo di mistero che circonda la sua vita. Non credi?» «Certo.» «Sono partita dai certificati di nascita, di matrimonio e di morte, la procedura di sempre. Suo padre figura negli annuari dei commercianti. Era un fabbricante di coltelli di Sheffield, trasferito a Londra. Lizzie compare nei censimenti. Abitava in Old Kent Road, poi, da sposata, al 14 di Chatham Place. Professione: pittrice.» Margaret si interruppe al passaggio del treno della metropolitana per Richmond. «Naturalmente, prima che le ricerche di storia familiare conoscessero la popolarità di oggi, nessuno aveva pensato di consultare i registri parrocchiali e le schede dei censimenti, per quanto possa sembrare incredibile. Ho scritto un articolo con i risultati della mia ricerca per la rivista "Storia familiare". Lo stesso che ho inviato a Bethany.
Se pensi che ti possano servire, ho ancora gli appunti che avevo raccolto per l'articolo» disse Margaret. «Devi solo darmi un paio di giorni. So dove li ho messi, ma devo avere il tempo di recuperarli. È venuta a trovarmi mia figlia con i suoi bambini. Rimangono sino a domenica. Puoi immaginare la confusione quando torno a casa la sera.» Natascia gettò un pezzo di pane nell'acqua. Un'anatra lo inghiottì avidamente. Ne arrivarono altre dalla sponda opposta del laghetto. «Non è stato particolarmente difficile ricostruire la vita di Lizzie Siddal» riprese Margaret. «Mi sono meravigliata che nessuno si fosse preso la briga di fare una piccola indagine prima di me. E tu, Natascia, perché ti interessi a lei? Questa Bethany è una tua cliente?» «Non proprio. È ossessionata da Lizzie Siddal e io mi chiedo se, conoscendo meglio la musa di Rossetti non possa arrivare a capire meglio lei.» CAPITOLO 19 «In epoca vittoriana la morte veniva celebrata con funerali sontuosi, persino dalla gente comune. I dolenti indossavano abiti neri, veli e nastri di seta neri, il carro funebre era trainato da cavalli neri con la testa decorata di enormi piume di struzzo nere.» La guida fece una pausa. Il gruppo era costituito solo da Natascia e da un'altra persona. Si trovavano in un grande spiazzo lastricato, la parte più antica del cimitero di Highgate. Erano giunti all'imponente ingresso che fungeva da quinta a Swain's Lane. Davanti a loro si ergevano cappelle in stile neogotico, con balaustre merlate, torrette, finestre a ogiva con vetrate colorate. Sotto una torre campanaria a pianta ottagonale, si apriva un grande arco d'ingresso con un'elegante cancellata in ferro. Un tempo il percorso dei cortei funebri passava sotto quell'arco. La guida era un uomo sulla quarantina, dai capelli color sabbia. Si chiamava Michael. L'altro visitatore era un giovane con un lungo cappotto di tweed, che si era presentato come Nigel Moore. Si era appena laureato in medicina e lavorava al Middlesex Hospital. Portava occhiali dalle lenti rotonde e aveva un viso gentile che ispirava fiducia. Seguirono la guida verso l'ampia scalinata di pietra che portava alla zona delle sepolture, ombreggiata da alberi secolari. «I cimiteri come oggi li conosciamo, non esistevano sino agli anni Venti dell'Ottocento.» Michael dava le sue spiegazioni mentre camminavano. «I
camposanti attorno alle chiese erano ormai sovraffollati. Con la popolazione in continuo aumento, le tombe letteralmente straripavano. C'era il pericolo che i cadaveri, che talvolta riaffioravano, diffondessero malattie. La causa dell'epidemia di colera del 1865 fu attribuita appunto all'acqua contaminata da corpi in decomposizione. Il cimitero di Highgate non fu il primo a essere costruito, ma fu il solo a essere progettato da architetti e paesaggisti.» Natascia era abituata a vagabondare tra le tombe e a leggere le lapidi. Lo faceva per lavoro, ma più spesso per scelta. Le piacevano le storie raccontate dalle epigrafi e amava perdersi nei pensieri che le suscitava la peculiare bellezza dei cimiteri. Non le dispiaceva trovarsi sola in mezzo alle sepolture, neppure quando scendeva l'oscurità. Ma quel posto era diverso da tutti gli altri che aveva visitato. Solenne, misterioso, inquietante. I sempreverdi avevano assunto dimensioni gigantesche. Dominava il verde scuro dell'edera e degli altri rampicanti, che avevano invaso ogni superficie. Il sottobosco era un groviglio inestricabile. Statue di angeli custodi con ali tese, croci celtiche e guglie gotiche si ergevano in precario equilibrio, con le basi sollevate dal proliferare di tronchi e di radici. Era come se gli occupanti delle tombe si fossero svegliati dal loro sonno eterno e cercassero di fuggire. Michael si lamentò di come la crescente popolarità della cremazione provocasse gravi difficoltà finanziarie al cimitero e di come l'assenza di manutenzione avesse lasciato le tombe in un pietoso stato di abbandono. Non solo. Si erano verificati diversi episodi spiacevoli: alcuni monumenti erano stati devastati da vandali e da allegre compagnie che celebravano Halloween tra le tombe al chiaro di luna. Come se non bastasse, ignoti si erano introdotti nelle cripte e avevano profanato le bare. Highgate era diventato un centro d'attrazione per gli appassionati d'occultismo, di voodoo, di stregoneria e di caccia ai vampiri. «Le autorità avevano deciso di chiudere il cimitero, di trasportare altrove i cadaveri e di trasformare la zona in terreno edificabile» aggiunse Michael. «Ma a quel punto si è fatto avanti un gruppo di volontari e, grazie al loro impegno, oggi Highgate è diventato una riserva naturale, l'habitat ideale per centinaia di insetti, farfalle rare, fiori spontanei e felci. Ecco perché è aperto al pubblico solo nelle ore delle visite guidate.» Mentre camminavano, il giovane medico consultava scrupolosamente la sua guida, leggendo a fatica nell'oscurità incipiente. Il suo interesse si concentrava sui medici illustri che erano sepolti a Hi-
ghgate. «Sì, qui riposano molti dottori. È il posto ideale per ammalarsi una volta morti» commentò Michael sorridendo. Natascia disse di essere una genealogista che stava facendo una ricerca sulla famiglia del dottor Marshall, il medico di Rossetti. Michael sentenziò senza esitazione: «Il viale degli Egizi». Completamente invaso dall'edera, l'ingresso al viale ricordava un tempio esotico. Era costituito da un arco fiancheggiato da due giganteschi obelischi scanalati, che sembravano provenire dalla terra dei faraoni. Aveva il desolato splendore di un palazzo abbandonato. Il cuore di Natascia cominciò a battere più veloce mentre passavano sotto l'arco per inoltrarsi nella lunga e stretta Via dei Morti. La strada era quasi buia sotto il denso fogliame e sui due lati, in una ininterrotta sequenza, si aprivano pesanti porte di ferro che davano accesso alle cripte. Natascia lesse i nomi dei defunti. Era il sogno di un genealogista divenuto realtà. In una sorta di spettrale convegno si trovavano riuniti interi clan familiari, dozzine di persone che portavano lo stesso cognome, generazioni che coprivano cento anni di storia. «Highgate è speciale» disse Michael notando l'interesse di Natascia. «Qui si coglie il senso profondo della continuità familiare, qui tutte le generazioni sono finalmente riunite.» Natascia gli chiese da quanto tempo lavorasse come guida al cimitero. «Dieci anni. Sono il direttore ora. Prima lavoravo nella City.» «La gente viene ancora sepolta in questo cimitero?» chiese Nigel Moore. «Sì, ma raramente.» Percorsero un viale che si biforcava, lambendo un grande prato di forma ovale, poi presero per un sentiero che si inoltrava nella vegetazione sempre più fitta. Dopo qualche minuto Michael si fermò e disse: «Eccola». Natascia rimase delusa. Si era aspettata una tomba più sontuosa. Invece era piccola e semplice, senza statue e senza alcun elemento monumentale. Riuscì a stento a leggere il nome di Lizzie Siddal, consunto dal tempo, scolpito sulla pietra sepolcrale. Per Natascia era sempre commovente vedere il luogo dove giaceva il corpo di una persona di cui aveva studiato la vita. Per un attimo pensò a Lizzie, cercando di separare la donna dalla leggenda. «Questo luogo è stato teatro di uno dei più famosi e romantici episodi della storia dell'arte» disse Michael.
Aspettando l'orario di visita, Natascia aveva letto nella sua guida il racconto della esumazione di Lizzie Siddal. C'erano cinque uomini attorno alla tomba, quella notte di ottobre del 1869. Senza dubbio erano turbati dal compito che si erano assunti. Doveva essere buio pesto. Le sole luci provenivano dalle lanterne e da un piccolo falò che avevano acceso accanto alla tomba per riscaldarsi. Dante Gabriel Rossetti, che aveva ordinato l'esumazione, non era presente. Era comprensibile. Doveva aver rimpianto mille volte la decisione avventata, dettata dall'amore e dal dolore, di seppellire con la moglie l'unico manoscritto completo delle sue poesie. L'aveva posato accanto alla guancia di Lizzie, sui famosi capelli rosso dorati, annunciando di non sapere che farsene della poesia, ora che lei non c'era più. Erano passali sette lunghi anni dalla morte di Lizzie, e Rossetti era ritornato sulla sua decisione. Gli addetti delle pompe funebri, inviati a recuperare il manoscritto, si chiedevano in che stato avrebbero trovato sia il libro sia il corpo. Scavarono per molto tempo prima di raggiungere la bara. Una volta verificato che si trattava di lei grazie alla targa di ottone che portava il suo nome, vennero calate le funi e la bara fu issata in superficie. Poi si dovette affrontare il compito più macabro: sollevare il coperchio. Qualcuno dovette infilare una mano dentro la bara per recuperare il libro. Si diceva che i capelli di Lizzie avessero mantenuto il loro meraviglioso colore e la loro lucentezza, che avessero continuato a crescere sottoterra. E che, insieme al libro, fosse stata estratta una ciocca rosso fiammante. Di certo la bellezza incontaminata di Lizzie doveva essere stata una vista ben più sconvolgente di un mucchietto di ossa nude. Ma l'incorruttibilità del suo corpo era certamente una leggenda. Rossetti si era giustificato dicendo che, se Lizzie avesse potuto, avrebbe sollevato lei stessa il coperchio della propria bara per restituirgli il manoscritto. Che cosa aveva pensato il poeta, quando finalmente si era trovato fra le mani quel piccolo libro grigio, fradicio, mangiato dai vermi, in decomposizione? Lizzie era morta l'11 febbraio 1862. Involontariamente Natascia strinse tra le dita il foglietto giallo su cui Margaret aveva scritto l'indirizzo e-mail di Bethany. Forse non sarebbe servito a niente, ma finalmente aveva qualcosa di tangibile, un possibile contatto con la ragazza. L'attenzione di Natascia fu interamente catturata dalle epigrafi sulle pietre tombali. Alcune date erano recenti. Gabriele Rossetti, il padre di Dante
Gabriel. Frances Lavinia Rossetti, la madre. Christina Rossetti, la sorella. William Michael Rossetti, il fratello. Una Gabrielle del ventesimo secolo, una ragazzina cui era stato dato il nome del famoso antenato. Un altro Gabriel Rossetti, morto nel 1974. Erano tutti qui. Tutta la famiglia. E qui il poeta aveva fatto portare la moglie, una parente acquisita, legata agli altri solo grazie a un breve matrimonio. Ma c'era qualcosa di ancora più sorprendente. L'assenza del più illustre membro della famiglia. «È un gran peccato che Rossetti non sia sepolto qui» disse Michael. «Tutti i visitatori si meravigliano che non ci sia.» «Dov'è sepolto?» «A Birchington, nel Kent. Sembra che abbia dato indicazioni molto precise affinché non venisse sepolto qui, per nessuna ragione. Mi sembra una richiesta comprensibile.» Comprensibile perché Rossetti aveva paura del fantasma di Lizzie? Perché si sentiva colpevole per la sua morte o perché aveva violato la sua tomba? Perché era stato ossessionato da lei per il resto della vita e temeva che non avrebbe riposato in pace, sepolto vicino a lei? O perché, dopo quello che aveva fatto, Highgate era diventato per lui un luogo da incubo? Natascia notò che il nome di Lizzie sulla pietra tombale era in parte nascosto da un vasetto di papaveri freschi. Le mancò il respiro. «Si sente bene?» le chiese Nigel Moore con aria preoccupata. «Sto bene, grazie» rispose con un sorriso forzato. Presa dalla drammatica vicenda di Lizzie, aveva quasi dimenticato la ragione per cui aveva voluto visitare Highgate. Estrasse dalla tasca la fotografia di Bethany e la porse a Michael. «Si ricorda se in uno dei suoi gruppi c'era questa ragazza?» L'uomo aggrottò la fronte. «Lei è la seconda persona che mi chiede di lei negli ultimi giorni.» «Si spieghi meglio, per favore.» «L'altro giorno si è presentato un giovane che mi ha mostrato una foto identica a questa.» «Che aspetto aveva?» Michael alzò le spalle. «Giovane, appunto. Moro. Un po' trasandato. Con jeans e berretto da baseball.» Tornò a osservare la fotografia. «Che cos'ha di così speciale questa ragazza?» «Vorrei saperlo anch'io.» «Be', come ho detto all'altra persona, non la ricordo, ma questo non significa che non sia stata qui. Tutti i visitatori chiedono di vedere la tomba
di Lizzie. Come vede, molti portano fiori. Anche se nella bella stagione non è proprio necessario. Dovrebbe vedere che cosa diventano questi prati in primavera. È un unico tappeto di bocche di leone e di primule.» Ma in gennaio non c'erano fiori spontanei, soltanto recisi. CAPITOLO 20 Natascia era seduta davanti allo schermo vuoto del computer da quasi un'ora, pensando a cosa scrivere a Bethany. Aveva digitato un paio di messaggi che aveva subito cancellato. Infine decise di scrivere semplicemente: «Stai bene?». Non ricevette alcuna risposta. Non c'era niente nella sua casella, neppure da parte di Sue Mellanby di Cambridge, la cui madre ricordava una bambina di nome Bethany. Era già buio quando Natascia partì in macchina per Oxford. Era venerdì e le strade erano affollate di studenti chiassosi, in cerca di un ristorante, di un bar o di un cinema dove passare la serata. Talvolta, soprattutto la sera, Natascia rimpiangeva la vita di città. Sola sul marciapiede di Beaumont Street, per un attimo desiderò fare ancora parte di quella folla spensierata, con la vita davanti a sé, traboccante di infinite possibilità. Era pur vero che quando era all'università spesso aveva desiderato essere più vecchia, più saggia, meno instabile. Be', più vecchia lo era diventata. L'edificio che cercava era a pochi metri dalla Playhouse, in mezzo a una fila di case tutte uguali in stile Reggenza. La porta giallo canarino che si trovava dinanzi recava la targa «Bennett & Gibson Architetti». Si chiese se non avesse sbagliato indirizzo. La porta si aprì e ne uscì una ragazza che teneva precariamente in equilibrio su un braccio un'enorme pila di buste. Mentre si voltava per chiudere la porta dietro di sé, le buste caddero, sparpagliandosi sui gradini e sul marciapiede. La ragazza imprecò. Natascia si precipitò ad aiutarla, ricevendo in cambio un sorriso di gratitudine. «Grazie, devono partire assolutamente oggi» spiegò la ragazza. «Ho un sacco di cose da fare e dovrò restare qui ancora per ore.» Natascia l'aiutò a portare le buste e a infilarle nella cassetta delle lettere in fondo alla strada. Mentre tornavano indietro le chiese se nell'edificio dove lavorava ci fosse uno studio fotografico. La ragazza chiese con aria sospettosa: «Cerchi Jake o Alex?».
«Per la verità cerco Adam.» «Sei una modella?» «No, purtroppo.» «Nel seminterrato.» Natascia scese una stretta scala di pietra. Da una finestra sotto il livello stradale proveniva una luce fioca. Notò sul muro una striscia di carta bianca con la parola "Studio" scritta a macchina. Suonò il campanello. Rispose al citofono una secca voce femminile dal timbro metallico: «Chi è?». «Natascia Blake. Cerco Adam Mason.» Ci fu qualche secondo di silenzio, poi la voce ordinò: «Avanti». Natascia sentì lo scatto della serratura ed entrò spingendo con fatica la porta. Provò un attimo di disorientamento. La stanza era immersa nell'oscurità, con un'unica macchia di luce accecante nel centro. Giganteschi ombrelli diffusori riflettevano la luce in modo da eliminare le ombre. Una modella, dal viso innaturalmente pallido e dalle labbra rosso fuoco, indossava un mantello di velluto nero con cappuccio. I lunghi capelli biondi le scendevano in disordine sul viso. Adam stava in disparte, nascosto dall'oscurità. Sembrò non notare l'arrivo di Natascia. «È notte» sussurrò alla modella. L'ampiezza della stanza vuota conferiva alla sua voce una risonanza teatrale. «Sono tornato dai morti per rivederti.» Si sentì il clic dell'otturatore. «Tu non sai se essere contenta oppure aver paura, se corrermi incontro o fuggire da me.» Una serie velocissima di clic. «Poi scompaio. Tu sai che non mi rivedrai più finché anche tu non sarai morta.» Una ragazzina con cortissimi capelli color cenere era appoggiata contro una parete. Probabilmente era Angie, la segretaria che una volta le aveva risposto al telefono. Senza neppure un cenno da parte di Adam, la ragazza entrò nel cerchio di luce, tolse il cappuccio dal capo della modella, aggiustò le pieghe del mantello, spruzzò un po' di lacca sui capelli, mise un velo di cipria sulle guance di porcellana, si allontanò per studiare l'effetto del suo intervento, tornò ad aggiustare una ciocca dei lunghi capelli biondi e si ritirò. «Ora voltati, ma tieni gli occhi fissi su di me. Guardami al di sopra della spalla. Ferma. Guarda qui.» Adam indicò con due dita i propri occhi. «Un po' più avanti. Così. Come se stessi allontanandoti da qualcosa di pauroso.»
Adam si avvicinò alla modella, si fermò dietro di lei, le mise le braccia attorno alle spalle e aderì con il corpo a quello di lei, spingendola in avanti. Alzò il braccio della ragazza, lo piegò, mise la propria mano su quella di lei e la guidò verso il lembo del mantello. «Fa molto freddo. Avvolgilo stretto.» Poi mise le mani sulle guance di lei e con delicatezza le piegò il viso nell'angolazione desiderata. Disse qualcos'altro che Natascia non sentì, ma che fece sorridere la ragazza. Adam tornò alla macchina fotografica. Angie gli si avvicinò per sussurrargli qualcosa all'orecchio. Lui annuì. L'assistente sparì per un minuto e ricomparve con un giglio bianco che mise in mano alla modella. «È notte» riprese Adam, in tono più freddo. «Stai fuggendo attraverso il bosco. Sei inseguita. Mi hai dato un bacio, ma tu sai che non avresti dovuto farlo. Volgiti a guardare al di sopra della spalla. Benissimo. Ora scorgi il mio volto nelle tenebre. Ti sto raggiungendo.» La faccia incipriata, parzialmente nascosta dalle pieghe del mantello di velluto, si immobilizzò nel bagliore del flash. «Okay, Diana. È finita» disse Adam. «Oh, non dire così, tesoro. Non lo sopporterei.» Scivolò verso di lui, seguita dal lungo strascico del mantello. Si voltò e Adam glielo tolse dalle spalle. Angie comparve silenziosa accanto a lui, prese la massa di velluto nero e la appese a una gruccia in fondo alla stanza. Natascia tossicchiò. «Mi spiace» balbettò Angie rivolta ad Adam. «Ho dimenticato di dirtelo.» «Volevo parlarti, se non disturbo» disse Natascia. «Sono da te tra un minuto. Siediti.» Natascia si era abituata al buio. Vide una poltrona addossata alla parete in fondo, ma preferì rimanere in piedi. Si chiese se Bethany avesse frequentato lo studio e se fosse stata presente a sessioni fotografiche simili a quella appena conclusa. Era stata gelosa di Angie che conosceva Adam così bene da anticipare ogni sua richiesta e che condivideva una parte molto importante della sua vita? Del resto, capitava a tutti di passare la maggior parte del proprio tempo con i colleghi. Chissà, forse Bethany era un'anima libera, non incline alla gelosia. Si poteva amare e non essere gelosi? A giudicare dalle apparenze, Bethany aveva buone ragioni di essere gelosa, più della maggior parte delle ragazze. Forse, suo malgrado, era stata costretta a replicare anche quell'aspetto della vita di Lizzie? Si era messa con qualcuno non troppo diverso da Ros-
setti: un artista, un uomo inafferrabile, un donnaiolo, che non le dava pace? Forse il suo cuore aveva conosciuto la disperazione. Che altro significato dare al verso del messaggio "dove finalmente sarai mio"? Adam le si avvicinò. Angie si mise una giacca di jeans sulle spalle e porse ad Adam la guancia da baciare, gettandogli per un attimo le braccia al collo. Si staccò da lui e palesemente controvoglia si diresse verso la porta dicendo: «Vi auguro una bella serata». Lanciò a Natascia un'occhiata che esprimeva esattamente l'opposto. «È stato magnifico» disse Diana, riapparendo dal bagno e avanzando nello studio con passo ondeggiante, come un'indossatrice in passerella. Adam le afferrò una mano. «Sei stata grande.» «Anche tu. Mi chiami appena le foto sono pronte?» «Naturalmente.» «È un'idea straordinaria la tua. Mi meraviglia che nessuno ci abbia pensato prima.» «Grazie.» La voce di Adam si fece improvvisamente atona. «Sono così felice che tu abbia deciso di continuare dopo che...» guardò Natascia e abbassò la voce. «Be', Jake mi ha raccontato come stanno le cose. Per quanto mi riguarda, non è cambiato niente. Mi spiace per Bethany. Mi stava simpatica. Ma la mostra avrà un successo incredibile. Ne sono sicura.» Gli strinse il braccio, sbatté le ciglia e con voce sensuale disse: «Verrai a trovarmi presto, vero?». Si incamminò verso la porta da cui era appena uscita Angie, lasciando soli Adam e Natascia. CAPITOLO 21 «Sono contento di vederti» disse Adam a Natascia. La stanza buia e la luce del faretto creavano un'atmosfera fastidiosamente intima. «Hai l'aria stanca. Ti dona.» Stese un braccio oltre la spalla di Natascia che si sentì intrappolata tra il corpo di lui e il muro. Adam premette un interruttore e il faretto si spense, gettando la stanza nella più completa oscurità. Si sentì paralizzata da un brivido di paura. Anche se avesse gridato nessuno l'avrebbe sentita. Si accese una luce più debole, proprio sopra le loro teste. «Non c'è niente tra me e Diana. Volevo solo ottenere il massimo da lei. Questo è tutto.»
«Non sono affari miei. Piuttosto, mi piacerebbe vedere le fotografie di Bethany che hai scattato sul fiume.» Adam esitò un attimo, poi le fece strada verso il fondo dello studio. Aprì una porta con la scritta «Camera oscura». A Natascia era capitato di assistere al restauro e alla ristampa di vecchie foto, le sembrava che nel processo ci fosse qualcosa di magico. Era il modo in cui l'immagine, affiorando dalla soluzione, andava lentamente materializzandosi sulla carta bianca. Il sistema digitale non era in grado di competere. Si guardò attorno. Notò che sulla scrivania c'era un computer e che nel muro di fronte si apriva un'altra porta, chiusa con un catenaccio. «Anche Jake usa questo studio?» chiese. «Non per molto.» Adam tolse un raccoglitore dal cassetto superiore di uno degli schedarii. Prese una manciata di foto e le sparse sulla scrivania. «Da' un'occhiata a queste, prima.» La zona di luce, molto circoscritta, li costringeva a stare vicini. Natascia sentì i capelli di Adam sfiorarle la guancia. Avevano un lieve profumo di limone. Si scostò da lui. Adam colse il suo imbarazzo e si allontanò rifugiandosi nell'ombra. Natascia prese una delle foto. Era l'ingrandimento di quella che Adam le aveva dato. Non era esattamente in bianco e nero, ma piuttosto un'immagine in vari toni di grigio, dai contorni imprecisi, immersa in un'atmosfera onirica. Posò la foto e ne prese un'altra. Un'istantanea del viso di Bethany che emergeva dall'oscurità, avvolto in una luce crepuscolare. La semplicità della composizione ne faceva un'immagine senza tempo. La foto successiva era quasi identica, ma il volto di Bethany era ancora più indistinto, come se la ragazza stesse svanendo nel nulla. Gli occhi erano fissi, come in trance. Natascia sapeva che Adam usava la parola per suscitare nelle sue modelle le emozioni che voleva rappresentare. Si chiese che cosa avesse detto a Bethany per farle assumere un'espressione del genere. «Sono molto belle.» Nell'angolo in basso a destra Natascia riconobbe le iniziali che aveva notato sulla sua copia della foto di Bethany. «Che cosa significa la sigla "IC"?» Adam le tolse di mano la foto. «È un codice. Nient'altro.»
«Ci saranno immagini maschili alla mostra?» Natascia pensò alle foto di Julia Margaret Cameron esposte alla National Portrait Gallery: Lord Tennyson con barba e capelli arruffati, il fratello di Rossetti, William, con lo sguardo allucinato. «La Cameron è famosa per i suoi ritratti maschili, vero?» «Vero. I Preraffaelliti, però, sono famosi per i loro ritratti femminili. Le modelle che sceglievano, non solo dovevano assomigliare ai personaggi che interpretavano, ma ne dovevano condividere le esperienze di vita.» «A Bethany piace ciò che tu hai visto in lei?» «Non ti capisco.» «Pensi che ci sia il rischio che Bethany compia qualche atto irreparabile?» Si voltò di scatto: «Assolutamente no». La risposta le sembrò troppo perentoria, come se in realtà volesse soltanto convincere Natascia della verità delle sue parole. Oppure se stesso. «Mi dispiace. Era una domanda che dovevo rivolgerti prima o poi.» Riprese a guardare le foto con molta attenzione. Tutte erano caratterizzate da una certa mancanza di definizione. Era questo ciò che Adam aveva visto in Bethany? La stessa qualità che gli artisti vittoriani avevano percepito in Lizzie Siddal, qualcosa di spettrale, come un presagio di morte prematura? «Io pensavo che la foto che mi hai dato fosse sfocata per un errore tecnico, non per una scelta stilistica.» «Di fatto è più o meno così. La Cameron raggiunse questo effetto per caso, in un primo momento.» Si appoggiò alla scrivania per tirar giù dallo scaffale in alto un grosso libro. Le mostrò il ritratto di una ragazza in un giardino. «Vedi, aveva iniziato con un obiettivo con scarsa profondità di campo. Questo le permetteva di mettere a fuoco solo un primo piano molto ristretto.» Indicò una zona sfocata attorno alla cascata di capelli della modella, poi passò un dito sul profilo nettamente definito. «Anche l'emulsione che usavano allora contribuiva a dare all'immagine un che di indistinto. Tuttavia il risultato era dovuto soprattutto ai lunghi tempi d'esposizione. I minimi movimenti, invisibili a occhio nudo, venivano comunque registrati sulla pellicola...» Adam era diventato improvvisamente una persona diversa, vitale, entusiasta. Le ricordava il modo in cui Steven parlava di archeologia. C'era qualcosa di affascinante nelle persone che nutrivano una passione
e che desideravano comunicarla agli altri. «In genere, per ottenere quell'effetto uso un metodo molto semplice» aggiunse. «Stendendo una stoffa sulla fonte di luce, una finestra o una lampada, si ottiene una illuminazione diffusa che conferisce al soggetto un lucore magico.» Chiuse il libro e lo rimise sullo scaffale. «Ti sto annoiando.» «Al contrario» disse Natascia con aria seria. Si scambiarono un sorriso. «Che cosa vedi di speciale nella ragazza che stavi fotografando prima?» «Diana? È una regina delle nevi, glaciale, predatoria.» «È una tua amica?» «Non nel senso in cui credi tu. Vorrebbe fare l'attrice. Pensa che la mostra sia una buona occasione per farsi pubblicità. Noi... l'ho conosciuta a una festa un anno fa. E la prima cosa che mi ha colpito di lei è stata quella sua bocca rosso fuoco. Sembra che gridi anche quando è muta. I vittoriani credevano che il carattere di una persona ne modellasse i tratti del volto. Penso che ci sia del vero.» Adam la stava di nuovo osservando. «Non mi chiedi che cosa vedo in te?» «Non credo di volerlo sapere.» «Non è facile spiegarlo. Penso che tu sia una specie di camaleonte che cambia pelle a seconda delle circostanze.» «Davvero?» Gli restituì le foto. «Sono convinta che il bianco e nero sia molto più bello del colore.» «Volevi vedere le foto che abbiamo scattato a Little Barrington.» Aprì un altro cassetto dello schedario e ne estrasse un nuovo raccoglitore. «Come ti ho detto, il bianco e nero è venuto male, per cui alla mostra esporrò solo il colore.» Il formato era molto più grande rispetto alle altre. Su carta lucida, con colori violenti. Il viso di Bethany era intenzionalmente decolorato. Natascia si chiese che cosa si aspettasse di scoprire in quelle fotografie. Posò la fotografia sulla scrivania. «Continuo a pensare alla lunga telefonata di Bethany il giorno prima della sua scomparsa. Mi piacerebbe sapere con chi stesse parlando. Suppongo che tu non abbia una bolletta telefonica "trasparente"...» Come evocato dalla parole di Natascia, il telefono squillò facendoli sobbalzare entrambi. Adam afferrò la cornetta. «Sì. Posso spedirle per corriere domani?» Posò il raccoglitore per prendere un blocco d'appunti e una pen-
na. Natascia vide sporgere l'angolo di un'altra fotografia. D'istinto la estrasse dal raccoglitore. Ci volle qualche istante prima che il suo cervello riuscisse a comprendere il senso dell'immagine. Adam riagganciò. «L'ho scattata la sera prima che mi lasciasse» disse. «Adorava la favola della Bella Addormentata.» Natascia non riusciva a distogliere lo sguardo dalla foto. Bethany giaceva supina su una superficie stretta che assomigliava più a un catafalco che non a un letto. Teneva gli occhi chiusi, con la testa leggermente piegata di lato e i capelli sparsi sul cuscino. Le mani erano morbidamente incrociate sul petto. Indossava un abito d'organza, vaporoso e diafano. Le pieghe del drappeggio e la tonalità esangue della carnagione le conferivano una grazia scultorea. Sembrava una statua di marmo stesa su un sarcofago. «Dove l'hai scattata?» «A casa. Per lei era importante che io la vegliassi mentre si addormentava. Diceva che nessuno può conoscere l'aspetto che assume nel sonno, a meno che qualcun altro non gli faccia una fotografia.» C'era qualcosa di straordinariamente intimo in quell'immagine. Erano gli amanti o i genitori a vegliare sui dormienti. Ma non era stato l'occhio di un innamorato a vegliare su Bethany, bensì quello gelido e indiscreto di un obiettivo fotografico. Adam tolse la foto di mano a Natascia. Il suo sguardo aveva una luce fredda, ma la voce risuonò triste e nostalgica, quasi un sussurro, come per non svegliare qualcuno che stesse dormendo. «Diceva che sarebbe stato interessante vedere la propria espressione mentre sognava.» Natascia si sforzò di mettere in parole una sensazione che la inquietava. «Sembra che sia...» «Lo so» la interruppe Adam. «È stato intenzionale. Conosci l'origine della fotografia commerciale?» Senza lasciarle il tempo di rispondere, continuò: «I primi fotografi a essere pagati per il proprio lavoro facevano il ritratto ai defunti. Molto prima della moda delle fotografie dei matrimoni e dei ritratti in studio, quando qualcuno moriva, soprattutto nel caso di bambini o di giovani, la famiglia faceva fare il loro ritratto, per ricordo. Si chiamano fotografie mortuarie. Suona macabro, ma ne ho viste alcune incredibilmente belle». Infilò la foto nel raccoglitore e guardò Natascia dritto negli occhi. «I vit-
toriani erano ossessionati dalla morte. Quasi quanto noi dal sesso. Solo che ormai il sesso ha perso la sua componente mistica. La morte è il solo tabù che ci sia rimasto. Non trovi?» Natascia ripensò alle parole pronunciate da Adam durante le sessioni fotografiche. Era affascinato dalla morte, e in un certo senso lo capiva. Ma allora perché alla vista di quelle foto si sentiva prendere dal panico? «Ritengo che questa sia una delle ragioni per cui i Preraffaelliti sono ancora tanto famosi» disse Adam. «Nelle loro opere c'è tutto. Il sesso, la morte, perfino la droga. Vedi, comunemente si crede che Rossetti abbia dipinto Beata Beatrix molto dopo la morte di Lizzie, ma la nonna di Bethany le ha raccontato che in realtà usò come modello il cadavere di Lizzie, il che fa del dipinto una sorta di ritratto mortuario. In realtà lo trovo ironico.» «Cosa?» chiese Natascia con voce troppo alta. Poi in tono più basso, sperando che Adam non avesse colto la sua inquietudine, ripeté: «Che cosa è ironico?». «Se fossi stato in grado di distinguere tra sonno vero e sonno simulato, Bethany potrebbe essere qui, ora.» «Che cosa vuoi dire?» «La notte in cui se n'è andata ha fatto finta di dormire, in modo da sgattaiolare fuori di casa senza che io me ne accorgessi. Se non avessi bevuto, non avrei dormito così profondamente.» Evidentemente si sentiva in colpa. «È facile ingannare qualcuno facendogli credere di essere addormentati. Lo facevo anch'io» disse Natascia. «Perché?» «Ho sempre sofferto di insonnia. Mia madre non ne capiva la ragione e si arrabbiava. Quando veniva in camera mia, io fingevo di dormire, così non mi sgridava.» «Immagino che ci si debba sentire estremamente soli, quando non si riesce ad addormentarsi.» «È così.» Adam aprì lo schedario per riporre il raccoglitore. Natascia allungò il collo per leggere le altre etichette. Anne. Christine. Emma. Frances. Almeno una dozzina di altri nomi femminili. Adam stava parlando di come si possa torturare una persona impedendole di dormire, ma Natascia non ascoltava. Doveva vedere le altre foto, sapere che cosa contenevano gli altri due schedali. Retrocedendo lentamente si accostò alla porta che aveva alle spalle. Vi
si appoggiò tenendo le mani dietro la schiena. Mosse le dita finché incontrarono il metallo freddo del catenaccio. Lo afferrò stretto e con estrema cautela lo fece scorrere. Disse ad Adam che doveva tornare a casa. Sentì la pressione delle dita di lui sulla schiena, mentre l'accompagnava all'uscita. Pioveva. Il traffico era intenso. I fari delle macchine, i lampioni e le finestre illuminate si riflettevano sull'asfalto bagnato. Sul marciapiede, sotto gli ombrelli, scorreva un flusso continuo di gente, abbigliata per la sera. «Mi piacerebbe fotografarti come si deve» disse Adam. La frase le suonò ambigua. Natascia si allontanò da lui pensando a Bethany: "Scordatelo". CAPITOLO 22 Arrivata alla rotonda di Pear Tree, Natascia decise di tornare indietro. Lei stessa non capiva con chiarezza quali fossero le proprie intenzioni. Nello studio degli architetti le luci erano ancora accese e, attraverso le veneziane, si intravedeva la ragazza dai capelli biondi che lavorava al computer, il volto azzurrino per il riflesso dello schermo. Il seminterrato era completamente buio. Natascia, per sicurezza, suonò il campanello. Nessuna risposta. Ritornò sul marciapiede e suonò alla porta gialla. La ragazza aprì. Aveva dei fogli in una mano, la cucitrice nell'altra e sul volto un sorriso forzato. «Salve, sono ancora io» disse Natascia cercando di recitare la parte della svanita. «Mi spiace disturbarti, ma ho dimenticato il cellulare giù nello studio. A quanto pare Adam ha chiuso tutto e se n'è andato. C'è modo di entrare nello studio dal pianterreno?» «Solo se non hanno chiuso a chiave l'uscita di sicurezza.» «Ti spiace se scendo a vedere?» La ragazza ebbe un attimo di «esitazione. «Sai com'è. Senza il cellulare mi sento perduta.» La bionda alzò stancamente le spalle. Aveva troppo da fare per stare a discutere. Fece passare Natascia attraverso un elegante ufficio. Aprì una porta con la scritta «Uscita di sicurezza». Le indicò una breve rampa di scale in cemento. «È laggiù, sulla destra, sempre che sia aperta.» «Grazie.» Nessuno aveva toccato il catenaccio che lei aveva fatto scorrere. All'interno il buio era completo. Avanzò tenendo le mani avanti. Cercò a tentoni
la lampada e l'accese. Appoggiò il cellulare su uno degli scaffali. "Non si sa mai." Il cuore le batteva forte. Sulla scrivania trovò un'agenda sulla cui copertina c'era un disegno in bianco e nero elaborato al computer. Sfogliò velocemente le pagine. C'erano indirizzi di gallerie, di ditte di cosmetici, di case di moda, di fornitori di costumi teatrali. Rimise l'agenda dove l'aveva trovata e aprì un cassetto della scrivania. Graffette, nastro adesivo, elastici. Secondo cassetto. Un'altra agenda, più piccola, rilegata in pelle nera con il taglio delle pagine in argento. C'erano i numeri di telefono di una serie di ragazze. Mancava la lettera "B". La pagina che avrebbe dovuto contenere i dati di Bethany era stata strappata. Prese una matita e la passò delicatamente sulla pagina bianca che seguiva quella mancante. Guardò il foglio con la luce radente. Ancora una volta il trucco aveva funzionato. Si distingueva chiaramente la parola "Blackfriars", ma nient'altro. Blackfriars. Era lì che viveva Bethany? Adam aveva detto di non conoscere il suo indirizzo. Accese il computer. Controllò la posta elettronica in arrivo. Nessun messaggio per Bethany. Non era su questo computer che aveva ricevuto le informazioni di Margaret Wood. Natascia rivolse la sua attenzione agli schedari. Ne aprì uno a caso. La foto di una giovane donna in abito lungo, sugli spalti di un castello. In un'altra foto riconobbe Christine, la ragazza del piano di sopra. Indossava un abito di velluto e suonava un liuto. C'era un'altra inquadratura, molto suggestiva, di Christine in un cerchio di fuoco, con i capelli scarmigliati, come una strega. Nell'angolo di ciascuna foto le lettere "IC". Ispezionò gli altri cassetti. Carta da stampa in uno, negativi in un altro. Li guardò in controluce. Immagini di giardini e di animali. Nello schedario accanto, il cassetto in basso era pieno di negativi e di stampe di macchine sportive. C'erano sofisticate foto di bottiglie di vino e bibite gassate. Sul retro di una di queste c'era un'etichetta con il nome di Jake Romilly. In un'altra cartelletta trovò delle stampe di un aitante modello a cavallo. Sul retro, la stessa etichetta. Provò il cassetto di mezzo. Stampe in bianco e nero di una motocicletta che sfrecciava su una spiaggia; la statua di una fontana sotto una cascata d'acqua; orme di piedi nudi sulla neve.
Nel cassetto in alto erano archiviati raccoglitori con i nomi delle ragazze. Gli stessi nomi dell'agenda. Christine su una barca nelle vesti della Signora di Shalott; Diana sulla riva di un lago, immerso nella nebbia, drappeggiata in una tunica, come una dea greca. Ancora Diana con una corona di rose e di spine sulla testa e i capelli pettinati all'indietro. Natascia scrisse sul dorso della mano i numeri telefonici di Christine e di Diana. Avrebbe pensato a qualche pretesto per chiamarle. Ricordava la frase di Diana: «Jake mi ha raccontato come stanno le cose. Io gli ho detto che, per quanto mi riguarda, non è cambiato niente». Chissà che cosa aveva voluto dire. Natascia tornò a osservare le fotografie. Lo stile era diverso, le immagini più nitide, anche se i soggetti e le ambientazioni erano simili. Adam non aveva specificato se la mostra fosse individuale. Forse vi partecipava anche Jake Romilly. Non c'erano etichette, ma ricorreva la sigla "IC". Adam aveva detto che era un codice. Forse per la mostra? Estrasse il raccoglitore con l'etichetta "Beth": Bethany. Era rigonfio e il cartoncino era strappato attorno al gancio metallico per il peso. Natascia fu colpita dal grande numero di repliche di una stessa inquadratura. Sottili modulazioni di espressioni e di pose di Bethany. Era inquietante vedere lo stesso viso in decine di atteggiamenti che differivano solo per minimi dettagli. C'era una sequenza in controluce. L'ultima serie era stata scattata presso il Ponte dei Sospiri di Oxford. Bethany era diventata una ossessione per Jake Romilly? Era suo il messaggio di avvertimento in cui si diceva che Bethany non voleva più stare con Adam? Era la verità? Udì voci maschili fuori dallo studio. Rumore di passi. Natascia rimise in fretta le foto dentro il raccoglitore che ripose nel cassetto. Afferrò il cellulare nel momento in cui la porta si apriva. Jake Romilly era in compagnia di un giovane vestito da motociclista con i capelli biondi, corti e sporchi. Jake aveva in mano una bottiglia di Jack Daniel's. Anche a distanza Natascia sentì l'odore d'alcol del suo alito. Jake squadrò Natascia dall'alto in basso, incrociò le braccia sul petto e con un sorriso di sfida aspettò di sentire come Natascia avrebbe giustificato la propria presenza nello studio. «Ho dimenticato il cellulare» disse mostrandolo. Persino a lei la scusa sembrò patetica.
«Davvero? Sei stata qui con Adam, suppongo. Ho l'impressione che vi incontriate spesso, oppure mi sbaglio?» «Sono un'amica di Bethany» disse, pur sapendo che non le avrebbe creduto. «Ah sì?» Jake bevve un sorso di Jack Daniel's. «Non la conosco bene. L'ho vista solo un paio di volte.» Era una palese menzogna, come dimostravano le fotografie. «Quando?» Ci fu un attimo di silenzio. «L'ultima volta è stato poco prima di Natale.» Natascia ebbe l'impressione di averlo innervosito. Forse Jake si chiedeva che cosa Bethany potesse averle detto sul suo conto. «Be', io vado.» «Se vuoi rimanere per la festa sei la benvenuta.» Jake agitò la bottiglia: «Fatti un goccio». «Grazie, un'altra volta.» Era sulla porta quando Natascia lo sentì dire: «Sei una gattina curiosa, non è così? Lo sai che la curiosità uccide?». Tornata a casa, Natascia andò subito a letto. Cercò di leggere qualche pagina de Il nome della rosa di Umberto Eco, ma non riusciva a concentrarsi. Spense la luce e rimase a fissare il soffitto. Si girò su un fianco, provando a dormire. L'immagine di Bethany, sdraiata sulla schiena, con le mani incrociate sul petto, le occupava ancora la mente. Era un vero ritratto mortuario oppure Bethany fingeva di dormire? Era stata lei a volere quella fotografia prima di andarsene? La Bella Addormentata. Un altro tema preraffaellita. Si mise un maglione, accese tutte le luci e scese in cucina per farsi una tazza di latte caldo. Tremava di freddo. Ecco il guaio delle vecchie case, gli spifferi! Aggiunse al latte un po' di whisky, guardando incantata le gocce dorate che sprofondavano nel liquido bianco simili a zucchero caramellato. Con la tazza calda in pugno, si trascinò in soggiorno. Vide, per terra, dove lo aveva lasciato, il Sogno preraffaellita Guardò le immagini di Lizzie Siddal dipinte da Deverell, da Millais e da Rossetti. Forse non c'era niente di strano nel fatto che Adam e i suoi amici si scambiassero le modelle. Forse Bethany non era stata la sola modella con cui Adam era andato a letto. C'era un nesso tra la sua sparizione e i rapporti un po' particolari tra le modelle e i fotografi?
Natascia avrebbe desiderato avere qualcuno con cui parlare, qualcuno cui poter telefonare alle due del mattino. Chissà se Marcus era già a Vancouver. Una volta lo chiamava nel cuore della notte e a lui non dispiaceva. Sentì il passo felpato di Boris sulle scale di legno. Veniva a controllare dove fosse. «Ciao, amico» gli disse Natascia mentre il setter si sdraiava accanto a lei, guardandola come per assicurarsi che stesse bene. Natascia lo abbracciò, pensando che era l'unico che la capiva e che l'avrebbe sempre amata. Quando l'aveva visto al canile era un cucciolo seduto in un angolo della gabbia con un'aria infelice. «Mollato sull'autostrada» le aveva detto la donna che si occupava del centro di raccolta degli animali abbandonati. Natascia si era chinata per accarezzarlo e gli aveva sussurrato nell'orecchio: «Siamo nella stessa barca». Affondò la guancia nella rossa pelliccia di Boris. CAPITOLO 23 Natascia era consapevole del fatto che ormai la ricerca di Bethany si era trasformata in qualcosa di personale. Come se una conclusione felice della vicenda della ragazza scomparsa potesse riparare gli errori del suo passato, in qualche modo ristabilire un equilibrio, dimostrando che la gente non poteva semplicemente sparire nel nulla. Natascia aveva ostinatamente cercato Diana al telefono e soltanto dopo parecchi tentativi ci era riuscita. «Salve. Sono Natascia Blake. Ci siamo conosciute nello studio di Adam Mason.» «Ah, sì.» «Adam ha chiesto anche a me di posare per delle fotografie. Mi sembra divertente, ma non l'ho mai fatto. Mi chiedevo se avessi voglia di darmi qualche suggerimento.» «Non è difficile.» «Tutte le ragazze trovano la cosa così naturale?» «Non saprei.» «Adam mi ha mostrato le foto di Bethany. Sono così belle!» «Davvero?» «Tu che la conosci, com'è?» «È un tipo che sta sulle sue.» «Hai posato anche per Jake?» Diana ebbe un attimo di esitazione. «Un sacco di volte» disse, poi, fa-
cendosi sospettosa, aggiunse: «Più mi esercito, meglio è». «Dunque pensi che dovrei dire di sì?» «Dipende dalla domanda.» Natascia capì che da Diana non avrebbe ricavato nulla. La festa si teneva nell'appartamento di Will, a Cheltenham. Natascia sapeva che tra gli invitati avrebbe certamente incontrato Emily e altri ex colleghi di Generazioni. Le avrebbe fatto piacere rivederli. Erano quasi le sette. Si fece la doccia e decise di mettere il vestito color rame e lo scialle che erano ancora appesi all'anta dell'armadio dalla notte di Capodanno. Prese la strada per Toddington e, una volta uscita da Winchcombe, premette sull'acceleratore. Erano segnalati banchi di nebbia e tratti ghiacciati sulle strade. Eppure una Celica rossa le stava alle calcagna. La disturbava il fatto che non rispettasse la distanza di sicurezza. Se avesse dovuto frenare all'improvviso, la Celica l'avrebbe tamponata di sicuro. A Natascia piaceva guidare anche con cattive condizioni atmosferiche. La faceva sentire viva, in contatto con gli elementi. Accelerò. Il vecchio motore dell'Alpine rispose coraggiosamente alla sfida. A tratti sentiva le ruote slittare sul ghiaccio, per poi ritrovare stabilità. La strada piegava in una stretta curva. Aderì con la schiena alla spalliera del sedile e cercò di tenere ben fermo lo sterzo. La stramaledetta Celica le stava ancora attaccata. Arrivata alla periferia della città mise la freccia a destra per svoltare in Prestbury Road. La Celica fece altrettanto. Natascia accelerò, sorpassando una macchina che si frappose per qualche istante tra lei e la Celica, poi nello specchietto retrovisore la vide di nuovo a pochi centimetri dal suo parafango. Il volto della persona al volante era invisibile dietro il parabrezza, protetto dalla luce abbacinante dei fari. Natascia vide un'enoteca sulla destra. Sterzò all'ultimo momento e vide con soddisfazione la Celica schizzare via a tutta velocità. "Spiacente, amico, ma ora te la dovrai cavare da solo." Comprò una bottiglia di Cabernet australiano, la infilò sotto il sedile e si immise di nuovo nel traffico. Prima di un semaforo guardò nello specchietto retrovisore. Strinse il volante e sfrecciò oltre l'incrocio con il giallo. La Celica era di nuovo dietro di lei. Era stata da Will solo una volta, per la festa d'inaugurazione del suo
nuovo appartamento. Non doveva essere molto lontano. La Celica continuava a tallonarla. Si inerpicò su per Montpellier Promenade, superando una serie di bar, di ristoranti e di boutique eleganti. Parcheggiò il più vicino possibile alla casa di Will, e vide la Celica proseguire per la strada principale. Rimase seduta in macchina, impietrita. Cercò di ricomporsi, chiuse la macchina e attraversò di corsa la strada. Mentre aspettava che qualcuno le aprisse la porta non poté fare a meno di guardarsi più volte alle spalle. Emily, con la quale Natascia aveva condiviso per qualche tempo l'ufficio a Generazioni, le aprì con una coppa di champagne in mano, stupenda nel suo vestito di seta bianco. «Ciao. Sono felice di vederti» disse, abbracciando Natascia, che le passò la bottiglia e il cappotto L'ultima volta che si erano incontrate, Emily le aveva parlato del suo desiderio di andare a vivere con Will. Quella sera l'aveva accolta come se fosse già la padrona di casa. Natascia entrò nel grande soggiorno. Circondata da facce familiari, nell'atmosfera calda di una casa amica, lo spavento per l'incidente della Celica le apparve ridicolo. Era stata una pura coincidenza che quella macchina andasse esattamente nella sua direzione. Will venne ad abbracciarla. Lavorava a Generazioni, nel dipartimento specializzato nella ricerca genealogica associata alla genetica. Studiava l'ereditarietà di alcune malattie, come l'Alzheimer e la fibrosi cistica. Un ramo utile al progresso della medicina e a quanti volevano sapere quali malattie genetiche rischiassero di trasmettere ai propri figli, o conoscere il futuro della propria salute attraverso la lettura del passato biologico della famiglia. Era un'area d'indagine che Natascia aveva sempre accuratamente evitato. Tuttavia ascoltava Will con interesse quando le parlava di come la genetica avrebbe aperto un capitolo completamente nuovo per la genealogia. Di come si potessero colmare vuoti genealogici partendo dalla genetica, grazie alla quale ciascuno sarebbe stato in grado di risalire ai propri progenitori non solo per centinaia, ma per migliaia di anni, sino ad arrivare ai vichinghi e ai celti. Emily riempì di nuovo la coppa di Natascia che disse «Buon anno nuovo» brindando a un anno che ormai non era più nuovo. «Buon anno» le augurò Emily con un sorriso. Passarono ai pettegolezzi sui loro colleghi e sui conoscenti comuni. Emily aggiornò Natascia sui nuovi contatti internazionali di Generazioni. «Non è più la stessa cosa senza di te» le disse Will. «Ci mancano i tuoi
battibecchi con i grandi capi e il tuo modo improbabile di vestire. Sappi che da quando non ci sei più, non bevo neppure la metà del tè e del caffè di un tempo.» «Non vorresti tornare?» chiese Emily. Will rispose al posto di Natascia: «Mai e poi mai». C'era una punta di acrimonia nella sua voce. Natascia ne conosceva la causa. La fine della loro relazione. Anche con Will era stata lei a prendere l'iniziativa di rompere definitivamente. Assorbiti ciascuno nel proprio lavoro, a poco a poco si erano allontanati. Prima che comparisse Marcus, Will le aveva chiesto un paio di volte di riprovarci, ma Natascia gli aveva risposto che non avrebbe funzionato. Era meglio averlo come amico. Era strano ritrovarsi con tutte quelle persone che appartenevano al suo passato. Se da un lato se ne sentiva ormai lontana, dall'altro provava una grande nostalgia. Aveva dimenticato le difficoltà di lavorare in una grande azienda, la burocrazia, la routine. Ricordava soltanto le chiacchiere al distributore del caffè e alla fotocopiatrice, gli scherzi goliardici, la solidarietà. Se Adam l'avesse contattata quando lavorava ancora a Generazioni o all'Istituto di Araldica, Natascia avrebbe potuto condividere le sue preoccupazioni a proposito del messaggio di Bethany con almeno una dozzina di colleghi. Le sarebbe piaciuto parlarne a Will o a Emily, ma non le sembrava il momento opportuno. Alle nove, gli ospiti erano già passati ai superalcolici. Natascia si scusò di dover lasciare presto la festa, ma doveva tornare a casa in macchina e le strade erano ghiacciate. Fuori, nell'aria gelida, Natascia lanciò un'occhiata verso il parco, una macchia buia sul lato opposto della via. Controllò lo specchietto retrovisore prima di avviare il motore e poi ancora quando raggiunse la periferia della città. Era sola. Si sentì inondare da una profonda sensazione di sollievo. Abbassò il finestrino, lasciando entrare folate d'aria gelida perché la tenessero sveglia. Il trillo fastidioso del cellulare la scosse dal torpore in cui era scivolata. Guardò il telefono appoggiato sul sedile accanto e lo lasciò suonare. Non aveva voglia di rispondere. Ma perché è così difficile ignorare un telefono che suona? «Allora, hai cambiato idea?» Era Adam. «A quale proposito?» «Farti fotografare.» Natascia capì immediatamente che cosa le avrebbe
chiesto. Incominciò a pensare in gran fretta a un modo per uscire dal garbuglio in cui si era ficcata. Rallentò per concentrarsi meglio. «Diana mi ha detto che l'hai chiamata per chiederle consiglio.» «È vero.» «Dove sei?» «A metà strada tra Cheltenham e Broadway.» «Vieni qui, adesso.» CAPITOLO 24 Natascia prese la direzione sud verso Burford, per immettersi sull'autostrada. Si chiese che senso avesse accettare di andare da sola, nel cuore della notte, nello studio di Adam. Il guaio era che non sapeva di chi non dovesse fidarsi, se di Adam o di se stessa. Cercò di scandagliare il proprio animo. Bethany aveva piantato Adam, liberandolo da ogni obbligo. Ma le cose non erano mai così semplici. Non poteva mentire a se stessa, non ci andava perché lui aveva scoperto la sua conversazione con Diana. No, lei voleva posare per Adam. Quando entrò nello studio vide che Adam aveva già sistemato le luci. Sotto le lampade c'era una semplice panca di legno. Natascia pensò a Jake, alla voce minacciosa sulla segreteria telefonica, alla Celica, ma associarli ad Adam, adesso, era impensabile. Le offrì un bicchiere di vino rosso. «Ho già bevuto abbastanza.» «In questo caso un bicchiere in più non ti farà alcun male. Anzi, ti aiuterà a scioglierti.» Natascia ne aveva bisogno, ma d'altra parte voleva rimanere lucida. "Che diavolo ci faccio qui?" Negli ultimi tempi questa era diventata una domanda ricorrente. Il vino le avrebbe dato una sensazione di benessere. Non resistette alla tentazione e prese il bicchiere che Adam le offriva. «Nella camera oscura c'è un abito. Ti puoi cambiare lì.» Lo disse in modo freddo e distaccato. Natascia si chiese se avesse parlato con Jake, oltre che con Diana, e se quindi sapesse che lei era andata di nascosto nello studio a ficcare il naso tra le sue cose. Avrebbe potuto piantare tutto e andarsene subito... ammesso che lui glielo avesse permesso. Si avviò verso la camera oscura. «Devo avvertirti,» aggiunse Adam «che la stoffa è umida. Poi ti spiego.»
Chiamare "umido" quell'abito era un eufemismo. Era appeso sul retro della porta. Un peplo di cotone bianco, sottilissimo. Dall'orlo del vestito cadevano fitte goccioline, che avevano già formato una pozza sulle assi del pavimento. Sarebbe stato come posare nuda, l'abito bagnato avrebbe aderito al suo corpo, evidenziandone ogni curva. Lo portò nello studio tenendolo a distanza. «Vorrai scherzare» disse. «Ho usato acqua calda e le lampade manterranno inalterata la temperatura. Non sei neanche curiosa di sapere che cosa voglio da te?» «Mi sono fatta un'idea.» «Tuo padre è un archeologo. Ti ha portato al British Museum quando eri una ragazzina?» «Sì.» «Hai visto i marmi del Partenone?» «Certo.» «Quindi sai che Lord Elgin li ha portati a Londra dalla Grecia nell'Ottocento, e che da allora i Greci hanno ingaggiato una vera e propria battaglia per riaverli indietro?» «Certo.» «Sai come venivano scolpite le statue classiche?» Le si avvicinò lentamente. «Lo scultore rivestiva il modello di una stoffa bagnata.» Si fermò, il viso a pochi centimetri da quello di Natascia. «Voglio fotografarti come una statua del Partenone.» «Spiegati.» «Solo se mi prometti di non scappare.» Natascia incrociò le dita dietro la schiena. «Okay. Promesso.» Lo seguì all'interno della camera oscura. Adam prese il libro della Cameron dallo scaffale e le mostrò la fotografia di uno dei famosi marmi, un frammento di un gruppo statuario. Due figure femminili sopra un piedistallo. Acefale. Accanto c'era la fotografia della Cameron nella quale le modelle su una panca replicavano la posa delle statue. Adam passò il libro a Natascia. «È una scultura che proviene dal frontone orientale del Partenone» le disse. «La Cameron l'ha scelta proprio per il fatto che mancano le teste. Sono figure che appartengono al mito e alla leggenda. Ma dal momento che sono incomplete, non è possibile stabilirne l'identità. È perfetto, capisci? Le puoi far diventare ciò che vuoi.» Non stava parlando di Bethany, stava parlando di lei.
«La seconda volta che ci siamo visti, quando ti ho chiesto se avevi sangue russo nelle vene, tu mi hai risposto: "Mi piacerebbe che fosse così". Ho capito che tu non conosci le tue origini. Io ti vedo sulla Piazza Rossa, avvolta in una pelliccia, mentre attorno a te volteggiano i fiocchi di neve. Ma questa immagine sarebbe troppo banale.» Le passò il peplo. «Quindi, torniamo ai marmi del Partenone.» Rimossi dalla loro naturale collocazione. Salvati da un archeologo. Identità sconosciuta. Perfetto. «Mi hai convinta.» «Mi fa piacere.» Natascia prese l'abito e Adam uscì dalla stanza dicendole: «Fai con comodo». Natascia chiuse la porta della camera oscura e si tolse il vestito e le scarpe. Decise di togliersi anche la biancheria intima. Si sarebbe vista in trasparenza. Nuda, rimase per un momento ad ascoltare, ma dallo studio non arrivava alcun rumore. Indossò il peplo bagnato. Il contatto del cotone fresco sulla pelle era gradevole. Non sapeva che cosa fare dei capelli. Si guardò attorno alla ricerca di uno specchio, poi le venne in mente che ce n'era uno sulla parete di fondo dello studio. Si osservò: la stoffa bagnata aderiva alla vita sottile, segnava le anche, evidenziava i capezzoli. Scoprì che non le importava. Aggiustò la stoffa e aprì la porta. Adam era seduto sulla panca, come se si trovasse in un parco. Con i gomiti sulle ginocchia e un giornale aperto fra le mani. Quando la vide venire verso di sé, piegò lentamente il giornale e la esaminò dalla testa ai piedi. Si alzò, le andò incontro. «Posso?» le chiese, toccandole i capelli. Natascia annuì. Adam si mise dietro di lei. Prese la massa dei capelli con entrambe le mani e con grande destrezza li avvolse in un morbido nodo sulla nuca. Poi sistemò il panneggio dell'abito, aggiustandone con cura le pieghe. Natascia sentiva il calore delle sue dita sulla pelle. Adam prese una matita di kohl dalla tasca della sua giacca. «Chiudi gli occhi.» Natascia sentì la pressione della matita sulle palpebre. «Okay.» Adam indicò la panca sotto le lampade. «Quando sei pronta...» Entrò nel cerchio di luce. Sentiva gli occhi di lui che la seguivano mentre camminava sul pavimento freddo. Si sedette sulla panca. Non vedeva Adam, nascosto dalla macchina fotografica. Le sembrò che
l'attesa durasse ore. Se fosse rimasta ancora immobile sarebbe diventata veramente rigida come una statua. Però le faceva piacere il calore delle lampade sulle spalle nude. Il cotone leggero si asciugava rapidamente. Adam sistemò la macchina, puntandola contro di lei come un'arma. Natascia si sentì all'improvviso inerme, vulnerabile. «Piegati un po' all'indietro. Appoggia un piede sulla panca, come nel libro della Cameron, ricordi? Perfetto.» Sparì nuovamente. Poi arrivò il lampo del flash, accecante. Era sicura di aver sbattuto le palpebre. «Sposta la testa leggermente indietro. Okay. Ora metti un braccio davanti al petto. Rilassati.» Di nuovo il flash. «Ora guarda da un lato.» Flash. «Mi sembra una versione inedita del gioco delle belle statuine. Non impartisci anche a me istruzioni per mettermi nello stato d'animo adatto? Pensavo facesse parte del tuo stile di lavoro.» «Non ne hai bisogno. Queste statue non hanno identità. Puoi interpretarle come ti pare.» Dopo il bagliore accecante del flash Natascia faticava a vederlo. Adam staccò la macchina dal cavalletto. Venne verso di lei, si chinò per mettersi al suo livello e le toccò il mento spingendole la testa leggermente all'indietro. «Dagli originali voglio prendere solo l'idea della bellezza classica, della nobiltà, un riflesso di tempi eroici. Bellezza e nobiltà ti appartengono naturalmente.» Tenne gli occhi fissi in quelli di Natascia, mentre alzava lentamente la macchina. Sistemò l'obiettivo con cura, come se dovesse riprendere un uccello raro e non volesse fargli paura. «Dimmi di tua madre.» Natascia abbassò lo sguardo, poi fissò nuovamente l'obiettivo. Era tentata di allontanarlo dal suo viso. «Non so niente di lei.» Clic. «Tranne che una sera del 1973 era al Jessop Hospital di Sheffield.» Non riusciva a credere di aver trovato tanto facilmente le parole. La macchina si avvicinò ancora. «Che cosa vuoi da lei? Amore?» «Comprensione.» La macchina si spostò di lato. Clic. «Quando te l'hanno detto?» «Preferirei non parlarne.»
«Non te l'hanno detto e tu l'hai scoperto da sola?» «Sì.» «Quanti anni avevi?» «Diciotto.» Non ne aveva mai parlato prima d'ora. Con nessuno. Sentire la propria voce risuonare nello studio vuoto ebbe su di lei uno strano effetto catartico. Avrebbe dovuto sentire la presenza della macchina fotografica come invadente, invece provava una sensazione opposta, di distanza, di rassicurante anonimato. Solo ora capiva perché la gente andasse in televisione a raccontare i suoi problemi più intimi. «Mi serviva il certificato di nascita per ottenere il passaporto. Mi ero iscritta a una gita sciistica in Francia, organizzata dalla scuola. Tutti i miei compagni avevano il loro certificato, un foglio lungo e stretto, piegato in tre, con i dati della madre e del padre, la loro professione e l'indirizzo.» «E tu non avevi il tuo.» «No, dovetti richiederlo attraverso una procedura particolare. La mia amica Rachel, per scherzo, mi disse che significava che ero stata adottata. Ci scherzavamo spesso. L'essere state adottate avrebbe spiegato le continue incomprensioni con i nostri genitori. Ci divertivamo a enumerare le differenze che ci separavano da loro. Confrontavamo i nasi, le abitudini. Ci inventavamo degli antenati affascinanti. Fantasticavamo sulle nostre vere madri, inventando che ci avessero abbandonato per inseguire una carriera prestigiosa.» Fece una pausa. «Quando arrivò il mio certificato, vidi che era lungo la metà di quello dei miei compagni e che non era piegato. C'era solo il mio nome con la mia data di nascita.» Prendi l'iniziativa. Cavati d'impaccio da sola. Questo era ciò che le aveva insegnato Steven. Così, si era recata alla biblioteca locale. L'addetto l'aveva indirizzata alla piccola sezione di genealogia, sistemata sugli scaffali dove erano conservati i libri di storia. C'era un libro sui bambini adottati, con una copertina azzurra e rosa. Conteneva un capitolo sui certificati di nascita. Tutto era spiegato molto chiaramente. I documenti di solito erano firmati dal segretario dell'ufficiale di stato civile, ma i certificati dei figli adottivi dovevano essere rilasciati da un'autorità superiore. Inoltre i bambini adottivi, a differenza di tutti gli altri, erano registrati in un libro speciale del servizio sanitario nazionale. Il testo forniva esempi su come richiedere i documenti sia nel caso di un figlio naturale sia di uno adottivo. Natascia aveva fatto le fotocopie delle pagine che le interessavano e a casa le aveva confrontate con il suo certificato. La cosa strana era che non aveva provato niente di particolare. Era la
conferma di qualcosa che aveva saluto da sempre. Il clic dell'otturatore la fece sobbalzare. La voce di Adam: «Allora confrontasti i due tipi di certificati». Raddrizzò le spalle, mentre l'occhio dell'obiettivo la seguiva. «Sì.» Erano tutti giù in cucina. Ann era ai fornelli. Abigail stava studiando fisica e Steven era seduto accanto a lei per aiutarla. C'era un bicchiere di whisky e soda sul tavolo davanti a lui. Erano così vicini che avrebbe potuto toccarli, ma era come se li vedesse attraverso un telescopio, da chilometri di distanza, da un altro pianeta. Le ci era voluto qualche minuto per rendersi conto che anche loro la guardavano. Natascia aveva appallottolato il documento che aveva in mano. «Mio padre mi sorrise. Per lui non era cambiato niente, non sapeva che un attimo prima avevo cessato di essere la sua bambina.» Nel silenzio innaturale che era seguito alla rivelazione, gli oggetti familiari le erano sembrati particolarmente vividi, il grande orologio della cucina sul quale aveva imparato a leggere le ore, le tende a fiori, l'altalena in giardino che si vedeva attraverso la finestra. Sua madre, che non era veramente sua madre, l'aveva guardata attraverso un sottile velo di vapore e non aveva detto nulla. Steven le era venuto vicino e l'aveva stretta forte. Natascia avrebbe voluto liberarsi dal suo abbraccio, ma non ne aveva avuto la forza. «Te lo avremmo detto. Al tuo ventunesimo compleanno.» Come se il solo problema fosse stato non averglielo detto. Natascia aveva visto Abigail sorridere, senza capire. Un'estranea. Era sempre stata la preferita dei genitori. Adesso Natascia capiva. Poi le si era presentato alla mente il libro azzurro e rosa della biblioteca. Qualcosa a cui appigliarsi. C'erano interi capitoli su come rintracciare i genitori scomparsi. «Volevo bene a mia madre, alla mia madre adottiva. E le voglio bene ancora. Ma non si stancava mai di dirmi che quand'ero piccola di notte piangevo per ore e ore. Che, quando mi prendeva in braccio, scalciavo e gridavo ancora più forte. Che ho sempre respinto il suo affetto. Pensavo che fosse esattamente il contrario. La mia vera madre sarebbe stata diversa.» Poi Steven le aveva tolto anche quell'illusione. L'aveva portata nel freddo salotto azzurro di Ann, sottraendola al calore della cucina. Si erano seduti una di fronte all'altro.
«Quando la mia vera madre fuggì dall'ospedale, la polizia la cercò. TV e giornali diffusero appelli perché si mettesse in contatto con le autorità. Non si è mai fatta viva. Ann e Steven fecero domanda d'adozione in gennaio e io fui affidata loro due mesi dopo, il 12 marzo. I miei genitori non organizzavano mai niente di particolare per il mio compleanno, in dicembre. Dicevano che era troppo vicino a Natale. Invece il 12 marzo facevamo sempre qualcosa di speciale, andavamo al ristorante o al cinema. L'ho verificato nei miei diari. Loro non mi hanno mai detto che cosa festeggiassimo il 12 marzo.» «Il giorno in cui ti abbiamo portato a casa...» le aveva detto Steven, «è stato il più bel giorno della nostra vita.» Natascia era poi venuta a sapere che l'avevano adottata perché pensavano di non poter avere figli. «Qual è la tua paura più grande?» La voce di Adam era così bassa che la udiva appena. Natascia guardò nell'obiettivo. «Ciò di cui potrei essere capace. Quello che mi porto nel sangue senza saperlo.» Adam abbassò leggermente la macchina fotografica. Natascia capì che aveva smesso di osservarla attraverso l'obiettivo, teneva la macchina di fronte agli occhi soltanto affinché continuasse a parlare liberamente. «Per questo non ti lasci mai andare?» «Forse.» «Non abbassi mai la guardia...» «Non lo so. Forse quando bevo.» «Ci sono modi migliori...» Ora, faccia a faccia con Adam, non poteva credere di avergli confidato tanto. Si alzò. Si sentiva stranamente leggera, fluttuante. Il peplo, che nel frattempo si era completamente asciugato, le dava una sensazione particolare sulla pelle. Prese la macchina dalle mani di Adam. La portò agli occhi e gli scattò una foto. Poi la mano di lui coprì l'obiettivo, oscurandolo. Adam le tolse la macchina e la posò, sempre continuando a guardarla negli occhi. Era come se avesse dimenticato, dopo aver passato tanto tempo sotto lo sguardo dell'obiettivo, quanto potesse essere imbarazzante farsi guardare così intensamente da lui. Era come se la stesse sfidando. Chi avrebbe distolto lo sguardo per primo? Natascia perse deliberatamente. Ma sentiva di aver vinto un'altra battaglia. Rientrò nella camera oscura per cambiarsi. Tolse il peplo e si allacciò il
reggiseno. Mentre si chinava per infilarsi il collant, il suo sguardo fu attratto da qualcosa nel cestino della carta straccia. Stampe e negativi. Le foto in bianco e nero di Bethany nelle vesti di Ofelia. Quelle che Adam aveva giudicato mal riuscite. Con cautela le estrasse dal cestino. Ancora una volta la sfocatura creava un'atmosfera misteriosa. Ma questa volta un particolare inquietante le gelò il sangue nelle vene. L'ombra di cui aveva parlato Adam. L'immagine, indistinta, ma chiaramente visibile, di una ragazza con i capelli lunghi, distesa sull'acqua accanto a Bethany, che in parte la nascondeva. Come un'aura. Come uno spettro, invisibile a occhio nudo, che il processo fotografico aveva catturato. Natascia si chiese che cosa avesse effettivamente davanti agli occhi. Lo spettro di Bethany? O lo spettro di qualcun altro? CAPITOLO 25 Natascia trovò una mail di Toby che le comunicava di aver "spulciato" le carte dei Preraffaelliti alla British Library. Le chiedeva un appuntamento per mercoledì. Avrebbero preso un caffè insieme. Lo stesso mercoledì Steven sarebbe andato a Londra per i suoi incontri con gli sponsor. Così avrebbero potuto fare due chiacchiere. Erano appena passate le nove quando ricevette una telefonata di Abby che la chiamava dal suo nuovo ufficio per darle il suo numero diretto. «Come va?» «Mi diverto tantissimo. Sto organizzando un torneo di tennis con persone famose.» «Come mai?» «Una promozione. Una ditta che produce cemento.» Natascia non cercò neppure di capire in che cosa consistesse il divertimento. Il torneo era mercoledì, per cui Abby non avrebbe potuto partecipare all'incontro con Steven. Si ripromisero di vedersi presto, ma rimasero sul vago quanto alla data. Poi chiamò Mary, di ritorno da Gloucester. «John junior è morto tra i quaranta e i cinquant'anni. Ha fatto testamento lasciando tutti i suoi beni alla moglie Helen. Avevano una sola figlia, anche lei di nome Helen, che ha sposato un Davies, purtroppo. Ci sono milioni di Davies. Spero in un colpo di fortuna, ma non prometto niente.» «Grazie, Mary. Sei stata bravissima.»
«Se non ho fortuna, proverò con Eleanor, la sorella minore di Jeanette. Ho dato un'occhiata per vedere se esiste il suo certificato di nascita, ma non l'ho trovato.» «Non è necessario raccogliere tutti i dati» disse Natascia. «Scopri solo chi ha sposato.» Prima della gravidanza, Mary non solo ci sarebbe arrivata da sola, ma si sarebbe impegnata a trovare nuove strade per procedere nella ricerca. Natascia si rimproverò di provare fastidio e delusione, nel constatare che per Mary il lavoro non fosse più una priorità. «Ho fatto un salto da te l'altro ieri sera, ma non c'eri» disse Mary. «Infatti.» «E allora?» «...niente. Ho accettato di posare per Adam Mason.» Mary fece un gridolino. «Hai accettato cosa? No... aspetta un minuto. Quando dici posare...?» «Nel ruolo di una dea greca. Senza la testa.» «Era ora che tu la perdessi. E...?» «Come ti ho già detto. Niente.» Mary sospirò. Mentre parlava, Natascia si ritrovò a disapprovare il modo in cui si era comportata. «È un cliente» disse ad alta voce. «E con questo?» «Mi ha ingaggiato per ritrovare la sua ragazza, ti ricordi?» «Non dovresti prendertela tanto a cuore. Perché non gli dici che hai fatto del tuo meglio, ma che non intendi continuare?» «A questo punto, non credo di avere altra scelta che portare avanti la ricerca.» «Senti, Nat. So che tu ti lasci sempre coinvolgere dal lavoro, ma questa volta è diverso. Perché?» Natascia si sfregò gli occhi, alla ricerca di una risposta. Forse perché Bethany era sparita, come trent'anni prima era sparita sua madre, ma questa volta Natascia era abbastanza adulta per fare qualcosa. «Sono abituata ad avere a che fare con gente che è morta da molto tempo. È molto più facile. Il passato non lo si può cambiare.» «Oh, non ne sarei così sicura. In ogni caso, voi storici lo fate per abitudine.» Dopo aver riagganciato, Natascia mise in ordine la casa, poi riprese il diario di Jeanette. Nel caso ci fosse qualcos'altro di utile.
«Voglio descrivere un signore affascinante che abbiamo incontrato oggi in Hyde Park È un avvocato. Ha un portamento molto elegante. Alto più di un metro e ottanta, capelli castani ondulati e baffi un po' più chiari. Occhi grigio-azzurri, molto belli. Il naso non è proprio perfetto, ma l'insieme è decisamente gradevole, anche se si chiama Brown, un cognome di certo poco romantico.» Jeanette si dilungava su come il signor Brown facesse in modo di incontrare i Marshall nelle loro passeggiate domenicali, finché la signora Marshall si era decisa a dirgli come poteva procurarsi il biglietto per le conferenze che suo marito teneva all'Accademia. In seguito il signor Brown era stato invitato per il tè a Savile Row. «La mamma oggi mi ha chiesto che cosa penso delle attenzioni del signor Brown. Non oso ancora formulare un giudizio preciso, anche se ieri sera sembrava veramente felice di vedermi. Ma quel che sarà, sarà e non è il caso di preoccuparsi in anticipo. La piccola Eleanor è stata a letto con la febbre, che però le è passata verso la fine della mattinata, grazie a Dio.» Natascia si rese conto che era uno dei pochissimi casi in cui Jeanette parlava della sorella. «Siamo stati tutti invitati a un ricevimento a casa dei Ford Maddox Brown. È stato impressionante vedere come i comportamenti più riprovevoli venissero mascherati da intenzioni artistiche. Le signore avevano un'aria triste e gli uomini un'espressione folle. C'erano Janey Morris e le sue figlie. Janey stava molto bene con il vestito con il collo alto, di seta color crema con bordure dorate e uno scialle indiano, bianco, sulle spalle. Il suo viso è bello e affascinante, ma solo quando non parla.» Gli storici dei Preraffaelliti sarebbero stati deliziati di mettere le mani su quel materiale. Se mai Bethany avesse tenuto fede all'intenzione di scrivere la biografia di Lizzie, il diario le avrebbe offerto degli spunti straordinari.
«Il papà, la mamma e io siamo stati invitati a visitare lo studio del signor Gabriel Rossetti. I dipinti erano diversi da quelli che conoscevo e nell'insieme mi sono piaciuti molto. Anche se non riesco a capire la sua attrazione per le regine assassine, le streghe e simili. Il quadro più bello era Proserpina. Papà ha detto che è un ritratto trasfigurato di Janey Morris. Il viso è dipinto meravigliosamente, ma il corpo non mi piace. La vita è troppo lunga. Rossetti è stato molto gentile e brillante nella conversazione, ma era più trasandato e sciatto del solito, e sembrava molto più vecchio. Se non fosse per gli occhi, sempre vivi e indagatori, non lo si potrebbe credere un genio. Una volta lasciato lo studio, papà mi ha comunicato una notizia strabiliante. Rossetti gli ha detto che vorrebbe ritrarre il mio viso per un quadro di Giovanna d'Arco, se papà e io siamo d'accordo. Gli ho fatto una grande impressione, pare. Dai sorrisi di mamma e di papà, ho capito che deve aver detto qualcosa di molto lusinghiero nei miei confronti, che però non mi è stato riferito. Personalmente avrei pensato che il mio umore non fosse abbastanza malinconico per fargli da soggetto.» Qualche pagina dopo Jeanette spiegava perché il suo ritratto non fosse stato mai eseguito. «Purtroppo il signor R. si è ammalato. Papà ha accompagnato il fratello del signor R., William, a Birchington, da dove è tornato il giorno successivo. Ci ha detto di aver trovato Rossetti cianotico, agonizzante per un avvelenamento del sangue, dovuto a un blocco dei reni. Papà l'ha avvolto in lenzuola bagnate e nel giro di cinque ore è riuscito a fargli riprendere conoscenza, benché dubiti che possa rimettersi completamente. È più di là che di qua, poveretto...» «È arrivato un telegramma con la notizia della morte del signor Rossetti. Che spreco... È molto triste pensare che, se avesse condotto una vita normale, avrebbe potuto essere felice. Speriamo che lo sia ora.» «Sono stata così stupida da versare lacrime amare per il fatto che mi sia stato proibito di assistere alla conferenza di questa sera. Papà descriverà i muscoli del tronco e ascoltare un argomento tanto disdicevole, in presenza del signor Brown, è stato giudicato decisamente indecente per una ragaz-
za.» Natascia chiuse il diario. Non c'era da meravigliarsi che Jeanette trovasse il comportamento delle modelle dei Preraffaelliti tanto scandaloso. Nell'Ottocento quelle giovani donne passavano ore intere chiuse negli studi in compagnia degli artisti, mentre gli innamorati dovevano essere fidanzati prima di potersi tenere per mano. Natascia guardò lo schermo del computer. La pagina degli appuntamenti della sua agenda era ancora aperta. Caffè con Toby per il 10 gennaio. Steven aveva detto che Marcus sarebbe partito per il Canada la prima settimana di gennaio. Certamente non l'avrebbe chiamata prima della partenza. Lo squillo del telefono. Lasciò che la segreteria registrasse la telefonata. Era Adam. «Devo farti vedere una cosa. Sei libera questa sera?» Afferrò la cornetta. «Mi dispiace, sono occupata.» Era una bugia. «Peccato.» «Che cosa vuoi farmi vedere?» «È una sorpresa.» «Odio le sorprese.» «Allora non venire.» CAPITOLO 26 L'appuntamento con Adam era fissato per le sette davanti all'Exeter College. Natascia parcheggiò in Broad Street, poi s'incamminò per Turl Street verso l'ingresso principale, un gigantesco portale in pietra. Appena arrivata vide Adam che la stava aspettando. Nella luce fioca della sera i suoi capelli sembravano più biondi del solito, una massa chiara che contrastava con il nero della giacca. «Spero che tu mi abbia fatto venire fin qui per qualcosa per cui valga la pena» disse Natascia. «Lo spero anch'io.» Si incamminarono lungo un sentiero di ghiaia che girava attorno a un prato perfettamente rasato; l'erba simile a velluto nell'oscurità Superarono una serie di costruzioni del Seicento coperte d'edera, diretti alla cappella in stile gotico francese. Entrarono nell'edificio principale da un portoncino che conduceva a una breve rampa di gradini in pietra. Percorsero un corri-
doio coperto di moquette. Una freccia indicava la "Sala Morris". «Chiudi gli occhi» le ordinò Adam, come se fossero nel suo studio. Le mise una mano sul braccio e Natascia si lasciò condurre per qualche passo in avanti, poi a sinistra, finché sentì la pressione della mano di lui che le indicava di fermarsi. Una porta si aprì cigolando sui cardini. L'interno delle palpebre divenne rosa per effetto della luce. «Aprili.» Erano sulla soglia di una lunga sala. Sulla parete di fondo si aprivano grandi finestre a ogiva con tendaggi in velluto rosso. Le pareti erano candide. Agli angoli della sala erano state disposte bellissime poltrone, dei veri e propri troni in ferro battuto, con lo schienale ad arco acuto, decorato con motivi floreali, e sontuosi sedili nello stesso velluto dei tendaggi. Al posto dei faretti che ci si sarebbe aspettati in una sala d'esposizione, a illuminare la galleria c'erano solo candele. Lampadari in ferro battuto pendevano alle due estremità del soffitto, e alti candelieri erano stati disposti sul pavimento. C'era un'atmosfera gotica, non priva di una sfumatura macabra. Le fotografie erano appese una di seguito all'altra. La luce incerta delle candele accentuava il loro elemento di inquietante mistero. I ritratti di Bethany, in semplici cornici d'argento, occupavano metà di una parete. Di fronte c'erano le foto di Diana. Natascia riconobbe altre foto che aveva visto negli schedari dello studio: la ragazza con il liuto, la Signora di Shalott, Christine nel cerchio di fuoco. «Che cosa ne pensi?» Sentiva gli occhi di Adam su di sé. «È stupefacente.» Si volse per guardarlo in viso. «Davvero. Non ho mai visto niente di simile.» Adam la prese per le spalle e le fece compiere una leggera rotazione. Natascia incontrò i propri occhi, neri come la notte, che la guardavano da una fotografia. La loro espressione era assorta, pensosa, pericolosamente seducente. L'abito bagnato era come una seconda pelle. «L'allestimento non è ancora finito. Devo aggiungere altre fotografie e mettere le didascalie. Ma volevo che tu vedessi la mostra per prima.» Natascia si sentì lusingata, ma allo stesso tempo turbata. Si allontanò da lui. I suoi passi rimbombavano e le ftammelle delle cento candele danzavano al suo passaggio. Quanto tempo c'era voluto per accenderle tutte? Mancava una settimana all'inaugurazione ed erano passate tre settimane
dalla sparizione di Bethany. Si voltò e gli chiese: «Dov'è...?». Adam si avvicinò alla porta, la chiuse e vi si appoggiò come per sbarrarle il passo. Natascia vide la fotografia che cercava. Bethany nelle vesti di Ofelia. Era nascosta dietro la porta. Una stampa grande il doppio delle altre, i cui colori vivaci contrastavano in modo vistoso con il bianco e nero delle altre immagini. «L'idea è che la si veda solo quando si esce dalla sala» disse Adam. Natascia si ripeté una domanda che si era fatta altre volte. Perché qualcuno avrebbe dovuto nascondersi dietro una falsa identità per poi lasciare che la propria immagine fosse esposta in una mostra aperta al pubblico? Mentre guardava la fotografia, si ricordò di come Bethany avesse evitato di parlare della mostra. Aveva accettato solo per compiacere Adam, perché voleva aiutarlo nella sua carriera? Perché lo amava? In fondo aveva aspettato che lui finisse con le foto prima di lasciarlo. Natascia fece scorrere lo sguardo intorno alla sala. «Sono tutte tue?» «No. Andiamo?» Lo aiutò a spegnere le candele. L'odore pungente del fumo le ricordò i falò di Capodanno. Rimasero nella semioscurità, soltanto una debole luce proveniva dal corridoio. Mentre scendevano le scale Adam bussò a una porta con la scritta "Amministrazione". Avvertì la persona all'interno dell'ufficio che lasciava la galleria. «Arrivederci a domani, Adam.» La voce era educata, giovane, femminile. Sotto il portale incrociarono Jake Romilly avvolto in un lungo cappotto svolazzante. Li superò ignorandoli entrambi. «Vieni a bere qualcosa con me.» Attraversarono Castle Street e si avviarono lungo il grande viale St Giles. Adam si accese una sigaretta. Faceva così freddo che il loro fiato si trasformava subito in vapore bianco, come se tutti e due stessero fumando. Gruppi di adolescenti bighellonavano mangiando hamburger e bevendo Coca-Cola, giovani coppie passeggiavano mano nella mano, cercando di leggere i cartelli nelle vetrine ormai buie delle agenzie immobiliari. «Ti va bene l'Eagle & Child?» «Perfetto.» «Stavo per dimenticarlo. Ho portato qualcosa per te.» Adam pescò un foglio dalla tasca. «Sbaglio o ti interessava la mia bolletta del telefono?»
Natascia diede un'occhiata al foglio mentre camminavano. Non più di una quarantina di numeri. «Di solito uso il telefono dello studio» spiegò Adam. «E la lunga telefonata di Bethany?» «C'è una sola telefonata di mezz'ora il 14 dicembre.» Natascia riconobbe immediatamente il numero della British Library. Quella notizia andava ad aggiungersi alle altre, ricomponendo il quadro della vita di Bethany nei giorni precedenti la sua scomparsa. Vestita di un abito antico, si stende in un fiume simulando un annegamento. Chiama l'Archivio di Stato per avere notizie su Lizzie Siddal. Barricata in camera da letto telefona alla British Library. Ancora a proposito di Lizzie Siddal? Qual era il legame con i Marshall? Per fortuna Natascia avrebbe saputo tra non molto quali documenti riguardanti Lizzie fossero conservati alla British Library. Forse, dopo tutto, era sulla strada giusta. Il pub rigurgitava di studenti e di tipi eccentrici. Nonostante la grande ressa, Adam riuscì a trovare posto in uno dei séparé vicini al camino. Con il tramezzo di noce e vetro assomigliava a un salottino vittoriano. Natascia si infilò nell'esiguo spazio libero accanto ad Adam. Una coppia di ragazze venne a sedersi di fronte a loro. Erano vestite in modo da sembrare più grandi. Bambine truccate. Portavano al collo pendenti che sembravano amuleti degli indiani d'America: piume, ossa, denti. Adam le salutò con un cenno del capo. «Vieni qui spesso?» chiese Natascia. «Al momento è il mio pub preferito. Mi piace.» «Anche a me.» «Immaginavo fosse il tipo di locale adatto a te.» «Tolkien e C.S. Lewis hanno frequentato questo locale» osservò Natascia. «Anche Rossetti e Morris ci saranno certamente venuti più volte.» «Non ti sarebbe piaciuto vivere cent'anni fa?» le chiese Adam. «A volte.» «A me sì.» Natascia si aspettava che Adam, come tutti, parlasse del suo disgusto per la tecnologia, della fretta cui tutti erano costretti, della crisi della famiglia. Invece aggiunse: «Doveva dare una visione del mondo del tutto diversa. Crescere con i versi di Shakespeare e di Lord Byron nella testa piuttosto che con le parole delle canzoni pop.» «Che cosa ti ha spinto a diventare un fotografo?»
«Il desiderio di conservare la bellezza che altrimenti andrebbe perduta per sempre.» Si voltò a fissarla. «Mia nonna aveva una scatola piena di cristalli, di ogni forma e dimensione. Erano gocce di lampadari di Boemia. Li appendeva all'albero di Natale al posto dei palloncini di vetro. Erano bellissimi sullo sfondo verde scuro dei rami d'abete, come fiocchi di neve o gocce di pioggia che non cadevano mai. Mio nonno faceva l'imbianchino. È un mistero come la nonna fosse entrata in possesso di quei cristalli. Mi raccontava di essere una fata che andava in giro a portar via tutte le lacrime dei bambini.» «È una storia affascinante.» Adam la guardò. «Solo che io non ci ho mai creduto. Quando avevo sei o sette anni chiesi in prestito la macchina fotografica di mio padre e provai a immortalare l'albero di Natale, ma non riuscii a ottenere l'effetto desiderato, per quanto mi sforzassi. Le foto non corrispondevano all'immagine che io ne avevo. Mia nonna dichiarò che quella era una prova di quanto fosse intelligente Dio. Nessuno scienziato, per quanto eccezionale, poteva creare una macchina fotografica perfetta come l'occhio umano. Decisi che nelle mie foto sarei riuscito a rappresentare un mondo più bello di quello che vediamo. O, almeno, diverso.» Allungò una mano per togliere un capello dalla spalla di Natascia. «Rossetti era ossessionato dai capelli» disse. «Per lui erano la cosa più sensuale, più erotica. Io, invece, sono affascinato dai visi. Dagli occhi, dalle labbra. Perché sei venuta questa sera?» «Non avevo voglia di andare a casa.» «Non c'è nessuno che ti aspetta?» «Solo Boris.» Si sentì improvvisamente vulnerabile. Afferrò il bicchiere di vodka, per far qualcosa. Adam fece scorrere un dito sulla sua bottiglia di birra, seguendo la traiettoria di una gocciolila. «Abito giusto dietro l'angolo.» Natascia finì la vodka. «Devo andare.» «Non era una proposta, solo un'informazione.» Natascia si sentì attraversare da una vampata di rabbia. Sperava solo che non si trasformasse in rossore sul viso. «Non mi pare.» Prese la borsa. «Che fretta c'è? Nessuno sentirà la tua mancanza.» Nessuno sentirà la tua mancanza. La scelta delle parole o forse semplicemente la verità che esprimevano la fece arrabbiare ancora di più. Provò paura. In quelle parole era implicita la domanda: "Chi verrebbe a cercarti
se tu non tornassi?". «Domani devo alzarmi presto. Devo prendere un treno.» «Per dove?» «Londra.» Lo guardò e aggiunse: «Ho chiesto a un amico di fare una ricerca sui Marshall alla British Library». «E ha trovato qualcosa?» «Domani sarò in grado di rispondere alla tua domanda.» «Ti accompagno alla macchina.» «Non preoccuparti. Me la cavo da sola.» Uscirono dal pub. «Grazie per avermi fatto vedere le fotografie. Buona notte» disse Natascia allontanandosi. Lui la seguì. Si trovavano in un vicolo buio vicino al Merton College. Adam la attirò a sé. «Cosa stai...?» Le mise una mano sulla bocca. Poi le labbra. Natascia sentì il suo braccio cingerla, le sue dita sulla nuca. I muscoli le cedettero, si sciolsero. La baciò, insinuando una gamba fra le sue, si strofinò contro di lei, le prese le mani, intrecciandole alle sue. Poi con una mano si fece strada dentro il cappotto, sotto la camicia, accarezzandole dolcemente la schiena e la pelle sotto il reggiseno. Lei lo abbracciò, sentendo la magrezza estranea del suo corpo. Si tirò indietro, si voltò e si allontanò in fretta, sforzandosi di non voltarsi a guardarlo. Non avrebbe saputo dire se fosse fuggita per buon senso o per istinto di autoconservazione, o perché sapeva come sarebbe stato penoso, il mattino dopo, se avesse lasciato che le cose seguissero il loro corso. Puntò la sveglia alle sette e mezza. Si era appena addormentata quando sentì suonare il telefono. Si strofinò gli occhi e cercò di leggere l'ora. Erano appena passate le cinque. «Ti ho svegliata?» Era Adam. «No di certo» rispose in tono sarcastico. «Sono in piedi da ore.» «Anch'io.» «Spero non diventi un'abitudine chiamarmi nel cuore della notte.» «Ti avevo avvertito che ho una personalità incline al vizio e all'ossessione. Che treno hai detto avresti preso?» «Non ho parlato di orari.» «C'è qualcosa che non ti ho detto. Ho bisogno di vederti ancora.» «Vado alla stazione alle sette» mentì.
«Chiamami quando sei per strada.» Le diede il numero dell'appartamento di Oxford. Natascia osservò le lancette dell'orologio, accese la radio e ascoltò le previsioni del tempo per i naviganti. Burrasche in arrivo. CAPITOLO 27 Non era facile sentire il segnale di libero in mezzo allo sferragliare del treno, alla musica che sfuggiva agli auricolari di un ragazzo, alla conversazione tra un uomo e una donna seduti di fronte a Natascia. Cinque, sei, otto, dieci squilli. Adam evidentemente non era in casa. Il treno aveva passato Reading, quindi dovevano essere circa le nove e mezza. Forse Adam era già allo studio. Stava per chiudere quando Adam rispose con tono irritato. «Sono Natascia. Mi spiace disturbarti, ma avevi detto che...» «Sei sul treno?» Adam aveva cambiato tono. Ora era gentile. «Pensavo di venire anch'io a Londra. Devo prendere un cambio di abiti. A che ora pensi di essere libera?» «Ho un appuntamento alle undici. Per l'una dovrei aver finito.» Dopo un breve silenzio Adam disse: «Vediamoci fuori dalla Tate alle due». Natascia sapeva che avrebbe trovato Toby al ristorante della British Library, davanti a una teiera e a un piatto di dolci. Per molti aspetti la biblioteca era l'ambiente perfetto per Toby, una sorta di estensione della sua personalità, un misto di vecchio e di nuovo. Una moderna cattedrale del sapere, un'oasi di silenzio dove si percepiva l'importanza del materiale che vi era custodito. Grandi sale, pilastri dipinti di bianco, legno scuro e tappeti ovunque, file di computer che ammiccavano dalle scrivanie con il piano in pelle verde. La struttura era concepita in modo che dall'ultimo piano si potesse guardare giù nell'atrio e ammirare l'imponente scalinata. Nel centro dell'edificio, per tutta la sua altezza, si ergeva una colonna di vetro contenente libri antichi, simboli incongruamente antiquati della funzione della biblioteca. In realtà, tuttavia non tutti i dati erano stati informatizzati, e non sempre la ricerca risultava semplice. Spesso era necessario fare laboriose verifiche incrociate con i cataloghi cartacei, e si era costretti a richiedere permessi speciali per consultare i documenti più preziosi. Ecco perché qualche volta Natascia chiedeva aiuto a Toby, che conosceva la biblioteca come le sue
tasche e aveva accesso a quasi tutti i materiali. Era seduto alla caffetteria del secondo piano, fra mobili cromati e luci soffuse. Sui tavoli erano posati vasi con una sola rosa rossa dal lungo stelo. Quando vide arrivare Natascia gli occhi gli si illuminarono. La baciò sulle guance, offrendole cavalierescamente una sedia. «Sei magnifica.» Natascia si sentì in colpa sapendo di aver scelto gli abiti pensando a qualcun altro. Sotto la giacca di pelle indossava una gonna viola e una camicetta di mussola nera ricamata. Attorno al collo un boa di piume nere. Moriva dalla voglia di sapere che cosa Toby avesse trovato sui Preraffaelliti, ma sapeva che non amava essere incalzato. Lui ordinò il tè, mise una noce di burro su un piattino con dei dolci e lo offrì a Natascia, dicendole con aria paterna: «Su, mangia». «Bene,» esordì Natascia con la bocca piena «che c'è di nuovo?» «La tua Jeanette e John Marshall erano dei personaggi interessanti» disse Toby, posando sul tavolo la vecchia e consunta cartella in pelle. Ne estrasse un computer portatile, un mazzo di fogli e un blocco per appunti con le pagine a quadretti. Natascia lo osservò con tenerezza battere sulla tastiera e sfogliare freneticamente gli appunti, come se non riuscisse a trovare quello che cercava. Sembrava disorganizzato, ma in realtà era molto efficiente. «La corrispondenza di Rossetti e della sua cerchia di amici e colleglli è nota sotto il nome di "Carte Ashley"» le spiegò Toby. «È stata raccolta da un certo Thomas Wise, un cultore dei Preraffaelliti, che però aveva fama di essere un falsario. Pare che sia riuscito a mettere le mani su un foglio autentico del quaderno esumato dalla tomba di Lizzie Siddal. Il nome del dottor Marshall appare frequentemente in queste lettere. Per molti anni fu il medico personale di Rossetti oltre che amico di Ford Maddox Brown e del fratello di Rossetti, William. Sembra che Rossetti fosse un paziente difficile e che non pagasse i conti con puntualità. La storia di sempre: un artista che fatica a tirare avanti e che trova riconoscimenti e fama solo dopo la morte.» «Deve essere veramente dura» commentò Natascia. «Avere la certezza di valere più da morti che da vivi? Ce n'è abbastanza per decidere di farla finita.» Natascia deglutì. «Non si può sapere se ad aspettarci ci sarà la gloria o l'oblio.»
«Noi comuni mortali sappiamo fin troppo bene che c'è solo l'oblio. Ma forse il povero dottor Marshall sarebbe stato ben felice di essere dimenticato» disse Toby con un sorriso. «In ogni caso, sembra che ci fosse rispetto reciproco tra il medico e il suo illustre paziente. C'è una lettera di condoglianze di Rossetti a Marshall, in occasione della morte di sua figlia Ada. In un'altra Rossetti si offre di sostenere la candidatura di Marshall alla cattedra di anatomia presso l'Accademia Reale. La sua domanda dovette essere stata accolta, perché c'è una lettera di congratulazioni di Rossetti.» Toby si sporse leggermente in avanti. «Marshall era il medico che Ford Maddox Brown chiamò la notte in cui morì Lizzie Siddal.» Alzò gli occhi dallo schermo del portatile. «Lo sapevi?» Natascia scosse la testa senza commentare, aspettando che Toby continuasse. «Marshall fu richiamato a distanza di due giorni per esaminare il cadavere di Lizzie, perché Rossetti si era messo in testa che non fosse affatto morta, ma che fosse caduta in uno stato catalettico indotto dalla droga... poveraccio. Mi è sempre sembrato veramente macabro che nell'Ottocento tenessero i cadaveri in casa per giorni e giorni.» Natascia si disse d'accordo. «Il dottor Marshall si pronunciò circa la causa del decesso?» «Purtroppo non ho trovato niente a questo proposito. Però è ben documentato il suo parere sullo stato di salute di Lizzie poco prima della morte. Il dottor Marshall scrisse a Rossetti che, a suo avviso, Lizzie era sana e che la sua grande debolezza era dovuta a quello che oggi noi chiameremmo stress. La spedì in Riviera e alle terme di Matlock, perché si riprendesse. In una lettera Georgina Burne-Jones si chiede come sia possibile che Lizzie soffra tanto, in assenza di una malattia specifica. Un altro medico le diagnosticò una malformazione della spina dorsale. Io penso che avesse ragione il dottor Marshall, circa la natura psicosomatica dei disturbi di Lizzie. Il suo stato di stress, o la sua depressione, o comunque lo si voglia chiamare, si aggravò con la nascita della bambina morta.» Natascia annuì. «Anche in quel frangente entrò in scena il dottor Marshall. Dopo essere stato presente al parto, il dottore venne chiamato per assistere Lizzie. C'è un'altra lettera di Georgina Burne-Jones che racconta di come Lizzie vegliasse la culla vuota e pregasse tutti di fare silenzio per non svegliare la bambina. Tenendo conto di tutti questi elementi, mi pare plausibile che Lizzie si sia suicidata. Evelyn Waugh, Violet Hunt e Hall Caine ritengono che Lizzie si sia uccisa. Ma sono dei romanzieri, quindi amano i colpi di
scena... Quel che è certo è che Lizzie era diventata così paranoica da immaginare che quando Rossetti non era con lei, fosse con un'altra donna. Si dice che lasciò un messaggio accanto al letto o appuntato alla camicia da notte.» Toby si interruppe per dare un morso alla sua torta e si mise a masticare lentamente. La mente di Natascia era in ebollizione. Erano queste le informazioni che Bethany aveva ottenuto con la sua telefonata alla British Library? Natascia non voleva credere che Lizzie avesse lasciato un messaggio, la prova che l'overdose non era stata accidentale. Un messaggio d'addio avrebbe costituito un parallelo inquietante tra Lizzie e Bethany. «Che cosa diceva?» «Nessuno lo sa con certezza, il che mi sembra una dimostrazione del fatto che nessuno, in realtà, l'abbia mai visto. Tuttavia, secondo alcuni, Lizzie incolpava Rossetti di essere la causa del suo gesto, secondo altri gli chiedeva di occuparsi di suo fratello. Hall Caine riferisce una confidenza di Rossetti. L'artista gli avrebbe detto che il messaggio di Lizzie gli aveva procurato una ferita al cuore che non si sarebbe mai rimarginata.» Toby aspettava la sua reazione. Natascia allungò il braccio sul tavolo e posò una mano su quella di lui. «Sei un tesoro. Non posso credere che tu abbia trovato tante notizie in così poco tempo.» Il viso di Toby si illuminò per un attimo, poi assunse un'espressione preoccupata. «Non vedo come tutto questo possa aiutarti a trovare la ragazza che stai cercando.» Natascia sospirò. «Nell'immediato non mi serve. Ma, ponendo che Bethany sia davvero una discendente diretta di John Marshall, c'è un fatto interessante.» Dal momento che gli aveva chiesto una collaborazione professionale, Natascia si era sentita in dovere di ragguagliarlo per sommi capi sulla sua indagine. Ora gli riferì la storia che Bethany aveva ascoltato da sua nonna, secondo la quale Rossetti aveva dipinto Beata Beatrix avendo per modello il cadavere di Lizzie. Toby fece una smorfia di disgusto: «Questa poi, non l'avevo mai sentita. Che orrore!». «Ma spiegherebbe molte cose. Marshall era presente la notte in cui Lizzie morì. Tu stesso hai detto che due giorni dopo Rossetti ancora non credeva alla sua morte. Marshall fu richiamato e forse vide Rossetti che la ritraeva, nell'illusione che fosse ancora viva. Se Bethany fosse imparentata con Jeanette Marshall, il racconto potrebbe essere stato tramandato di ge-
nerazione in generazione da qualcuno che aveva visto di persona Rossetti dipingere Lizzie già cadavere. Forse Rossetti la fece imbalsamare. Il che spiegherebbe come mai, sette anni dopo la morte, quando la sua bara fu aperta, Lizzie apparisse immutata.» Natascia parlava in fretta, come inseguendo le ipotesi che le si affacciavano alla mente. Toby la guardava con aria scettica. «Mi chiedo se la follia non sia contagiosa» disse sorridendo. «Non scherzo. Anche Rossetti dopo la morte di Lizzie soffrì di una qualche forma di pazzia. Il dottor Marshall gli prescrisse cloralio e laudano, gli stessi farmaci che avevano portato Lizzie alla tomba.» Si mise a frugare tra le sue carte. «Capisci quello che voglio dire? C'è una lettera di Rossetti a Marshall in cui lo "perdona" di averlo riportato in vita dopo che lui stesso aveva tentato di uccidersi.» Toby rimase in silenzio un istante, poi disse: «Forse anche il suicidio è contagioso». CAPITOLO 28 Natascia prese la metropolitana e scese alla stazione di Embankment. Si incamminò per Millbank, lungo la riva del fiume. Vide Adam che guardava scorrere il Tamigi, appoggiato al parapetto, proprio come aveva fatto lei quando si erano incontrati a Oxford. Era difficile credere che fosse lo stesso fiume. La luce del sole era così debole che l'acqua color acciaio non la rifletteva neppure. Nella giungla di grattacieli che sorgeva sulla riva opposta, alcune finestre erano già illuminate. L'aria era quasi tiepida nonostante fosse gennaio, e la gente passeggiava come se fosse primavera. Steven le aveva spiegato che le grandi città creavano i propri microclimi. Un esempio sinistro di come l'uomo riuscisse a sovvertire l'ordine naturale delle cose... Natascia aveva portato con sé Il sogno preraffaellita, che aveva ripreso a leggere in treno. Forse si era lasciata coinvolgere un po' troppo dalle idee di Rossetti, di Morris e degli altri membri del gruppo. Dalla loro sfiducia nel mondo moderno, dalla loro visione delle città, delle fabbriche e delle macchine come entità maligne, dal loro desiderio di fuga in un mondo di cavalleria medievale e di arcane religioni misticheggianti. Anche Natascia era sempre stata attratta dal passato. Si chiedeva se fosse possibile studiare storia senza desiderare un ritorno a un mondo che non c'è più. A patto di poter portare con sé l'auto, il computer, il lettore di cd e il cellulare.
Si fermò accanto ad Adam. Sul fiume, una piccola barca si muoveva lentamente verso il London Bridge. Il motore continuava a spegnersi. Adam si voltò, la abbracciò e la baciò. La sorpresa fu come una scossa elettrica, che la lasciò frastornata. «Sono in ritardo?» gli chiese. Adam scosse la testa. «Ero in anticipo. Non volevo farti aspettare.» La guardò dritto negli occhi. Sarebbe stato facile credere di essere la sola beneficiaria di quello sguardo, se non avesse visto Adam comportarsi esattamente nello stesso modo con Angie e con Diana. Era un esperto nell'arte di far sentire ogni donna l'unica al mondo. Natascia si ripromise di non cascarci. Si incamminarono verso la Tate. Gruppi di giovani seduti sulla scalinata della galleria mangiavano panini che avevano comperato alla bancarella sul marciapiede di fronte. Adam mise un braccio attorno alle spalle di Natascia e la guidò lungo uno dei corridoi. Natascia sapeva dove la stava conducendo. Senza dubbio Adam pensava che sarebbe stata curiosa di vedere i dipinti che avevano ispirato le sue fotografie. Vide subito Ofelia. Ma prima si fermò in fondo alla sala, davanti a Beata Beatnx. Dal dipinto emanava un'aura che produceva un effetto simile alla leggera sfocatura delle fotografie di Adam, quasi la luce vi filtrasse come attraverso una vetrata policroma. Lizzie, o Beatrice, teneva gli occhi chiusi, il viso leggermente rivolto verso l'alto in un atteggiamento di resa, con le mani aperte, pronte a ricevere i papaveri bianchi. Natascia non riusciva a distogliere l'attenzione dalle palpebre pesanti, dal pallore della pelle e dal completo abbandono del corpo, nonostante la posizione eretta. Immaginava Rossetti che metteva a sedere il cadavere di Lizzie, volgendole la testa verso l'alto e sistemando le mani senza vita sul grembo. «Avrebbe dovuto dipingere asfodeli, non papaveri» le sussurrò Adam all'orecchio, facendola trasalire. «Perché?» «"Il mio rimpianto ti segue nella tomba".» Natascia gli rivolse uno sguardo interrogativo. «È il linguaggio dei fiori. Bethany è un'esperta in materia.» Natascia tornò a osservare il dipinto, ma davanti agli occhi aveva i papaveri sulla tomba di Lizzie a Highgate. Papaveri freschi. Improvvisamente le tornò alla mente il mazzetto di fiori che Bethany a-
veva lasciato accanto al diario la mattina in cui era andata via. «Che fiori ti ha lasciato Bethany?» chiese cercando di non far trapelare un eccessivo interesse. «Fiori viola con attorno erbe e foglie. Bello. Non c'è da meravigliarsi, è il suo lavoro.» «Ma che fiori erano, lo sai?» «Non mi intendo di fiori. Violette africane, forse.» La guardò cercando di indovinare dove volesse arrivare. «Semplice curiosità» disse Natascia. Adam accennò con il capo al quadro. «C'è un particolare inquietante in questa immagine, hai notato? Beatrice prega, contemplando il paradiso. Ma c'è un simbolo fallico puntato verso il suo viso.» Natascia non l'aveva notato, ma ora lo vedeva chiaramente. La meridiana sullo sfondo era di una allusività imbarazzante. Raggiunse Ofeha. Una madre spiegava il quadro ai figli, sussurrando come se stesse raccontando loro una favola per farli addormentare. «Mentre l'artista dipingeva, la modella era sdraiata in una vasca piena d'acqua. Sotto c'erano delle candele che avrebbero dovuto mantenere l'acqua calda, ma purtroppo si spensero prima che il quadro fosse finito, e l'acqua divenne così fredda che la povera Lizzie prese la polmonite. Suo padre si arrabbiò moltissimo e fece causa al pittore.» «Quanti soldi prese?» chiese il ragazzino. «Non lo so esattamente. Forse meno di quello che hai nel salvadanaio. È successo molto tempo fa.» «Perché lei non ha detto che aveva freddo?» chiese la figlia. «Non voleva rovinare il dipinto.» Natascia lanciò un'occhiata ad Adam che la stava osservando dal divano in mezzo alla sala. Solo ora, davanti agli originali, si rendeva conto dell'abilità con cui aveva saputo replicarne l'atmosfera nelle sue fotografie. Bethany, con ogni probabilità, era venuta alla Tate per studiare lo sguardo di Lizzie. Doveva essere un'attrice di talento, perché era riuscita a imitare esattamente quell'espressione di follia e di infinito dolore. A meno che Bethany non avesse avuto bisogno di fingere. La didascalia del quadro citava il nome delle piante e dei fiori che Millais aveva riprodotto con estrema accuratezza, spiegandone il simbolismo. Il salice, amore tradito; l'ortica sotto gli alberi, dolore; le margherite vicino alla mano destra di Ofelia, innocenza; le viole del pensiero che galleggia-
vano sull'abito, amore non corrisposto; la collana di violette attorno al collo, morte prematura... Violette di campo, non violette africane! Ma forse in dicembre la seconda varietà era l'unica disponibile. Bethany e Adam erano stati alla Tate insieme. Natascia sentiva la presenza della ragazza insinuarsi tra loro due. Lizzie, Elizabeth, Beth, Bethany. Perché non ci aveva pensato prima? Forse neppure Bethany era il suo vero nome. «È chiaro perché abbiano messo i due quadri uno accanto all'altro.» Adam indicò il dipinto appeso sopra Ofelia. Era l'immagine di un giovane steso su un giaciglio dalle lenzuola spiegazzate, in una soffitta, con la testa e un braccio che pendevano da un lato. Indossava una camicia bianca e un paio di calzoni attillati di seta azzurra, che conferivano al dipinto una luce bluastra, spettrale e sinistra. Il viso esangue era incorniciato di riccioli rossi. La didascalia diceva: «Chatterton di Henry Wallis. Il poeta Thomas Chatterton fu autore di racconti medievali apocrifi, che lui stesso copiava su antiche pergamene, imitando la scrittura degli amanuensi. La sua vita disperata e il suicidio in giovane età affascinarono artisti e scrittori del diciannovesimo secolo. Wordsworth lo definì "l'anima insonne che perì nel proprio orgoglio"». Quando Bethany era stata lì, doveva aver letto quelle parole, e contemplato le due immagini di suicidio, belle, ma sconvolgenti... «Entrambe le opere celebrano il fascino del morire da giovani» disse Adam a bassa voce. «Rossetti era ossessionato dall'idea dell'amore terreno spezzato da una morte prematura, dell'essere amato da adorare in cielo. Come Dante adorava Beatrice.» Che cosa voleva dire? Che anche lui era affascinato da quell'idea? «La fantasia è diventata realtà per lui. Mi chiedo se si sia dimostrata all'altezza delle sue aspettative.» Disturbata da quelle parole, Natascia fece per allontanarsi, ma Adam le afferrò la mano. Le sue dita si strinsero attorno al polso di lei. «C'è una cosa che ti volevo dire.» «Lasciami andare. Mi fai male.»
Le lasciò il polso. Natascia andò a sedersi, scossa. Cercò di ignorarlo, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé. Fu allora che notò il piccolo acquerello alla sinistra di Ofelia. Era il Ponte dei Sospiri di Venezia, un dipinto di Turner. Jake Romilly aveva scattato una foto di Bethany sotto il ponte di Oxford che portava lo stesso nome. Doveva essere stato l'acquerello a ispirarlo. Probabilmente erano venuti qui tutti e tre. Bethany, Adam, Jake Romilly. Adam aveva seguito lo sguardo di Natascia. «Per un certo periodo hanno chiamato il ponte di Waterloo con il nome di Ponte dei Sospiri, perché molti suicidi hanno scelto di annegare nel Tamigi gettandosi da lì.» Natascia lo guardò senza capire. Poi ripensò alla conversazione di poco prima. Adam le stava solo spiegando la ragione per cui il grazioso acquerello del ponte era stato collocato accanto ai ritratti di due suicidi. Eppure non riusciva a scacciare il pensiero che lui sapesse e avesse sempre saputo del messaggio che Bethany aveva lasciato nel diario. Le aveva teso una trappola. Stava giocando con lei un gioco orribile e crudele, di cui non capiva la ragione. La voce di Adam le giunse come da lontano: «Quando sono venuto qui con Bethany, mi ha detto una frase che non ho dimenticato. Parlavamo dell'idea del male secondo i Preraffaelliti. Ritenevano che la sua origine fosse da ricercare nella donna e che le belle donne portassero alla perdizione gli uomini che le amavano. Bethany mi disse: "È quello che io farò con te. Non posso farci niente. Ho un cuore inaffidabile".». CAPITOLO 29 «Andiamo» disse Natascia, lasciando la galleria e dirigendosi verso il bar-ristorante nel sotterraneo. Si sedettero al bancone. Ordinarono due birre che apparvero immediatamente. Adam accese una sigaretta. «Che cosa voleva dire con quelle parole?» «Non ne ho idea» rispose Natascia, ma in realtà pensava alla mania di segretezza di Bethany, alla sua improvvisa scomparsa. Che cosa aveva da nascondere? Natascia fin dall'inizio aveva sospettato di Adam. Tuttavia, non era detto che, se c'era un delitto o un enigma dietro la sparizione di Bethany, lui ne fosse responsabile. A meno che Adam non fosse estremamente abile e quanto le aveva appena riferito non fosse che un'altra menzogna, una nuova mossa del misterioso gioco che stava conducendo. «Sei sicuro che Bethany non intendesse semplicemente scherzare?»
Adam stava staccando l'etichetta dalla sua bottiglia di birra, con cura, come se fosse il prezzo su un regalo. «Parliamo d'altro» disse. «Pensavo di dovertelo dire. Tutto qui.» «C'è altro che dovrei sapere?» Lui scosse il capo. Suo malgrado, Natascia sentì attenuarsi dentro di sé il sospetto nei confronti di Adam, anche se aveva radici troppo tenaci perché potesse essere completamente sradicato. Dalla borsa che aveva appoggiato sul tavolo sporgeva il dorso del suo libro. Adam lesse il titolo: «Il sogno preraffaellita. Ti impegni sempre così seriamente in tutti i tuoi lavori?». «Mi interesso dei Preraffaelliti da quando ero una adolescente.» «Allora questa ricerca ti appassiona.» Adam teneva lo sguardo fisso negli occhi di Natascia. Marcus aveva gli occhi molto scuri, come quelli di Steven. Forse per questo a Natascia non piacevano gli occhi azzurri, il colore del ghiaccio e del gelo. Ma ora non c'era niente di freddo nello sguardo di Adam. Erano occhi mutevoli come l'acqua che riflette il colore del cielo: blu, grigio, verde, o nero come la notte. Natascia aveva bevuto la sua birra troppo in fretta. Le era andata alla testa. Distolse lo sguardo da Adam. «Una cosa c'è» disse lui a un tratto. Infilò la mano in tasca e ne estrasse una busta marrone piegata in due. «È arrivata questa mattina. È indirizzata a lei.» Sulla busta Natascia riconobbe il logo del Centro di Documentazione Familiare. Dentro c'era il certificato di morte di un uomo di nome Harold Leyburn, di Dorchester, nel Dorset. Morto nel gennaio del 1921 all'età di trentacinque anni. L'ovvia conclusione era che Bethany avesse iniziato una ricerca sulla propria storia familiare e che Harold Leyburn fosse un suo antenato, forse un bisnonno. «Farò un tentativo di rintracciare i discendenti di questo Leyburn ancora in vita» disse Natascia. Ci sarebbe voluto tempo. Perché diavolo la lettera non era arrivata prima? Adam non aveva fatto nessun commento. «Forse dovremmo lasciar perdere» disse. «No, non possiamo rinunciare a cercarla a questo punto.» Adam giocherellava con il fiore di carta infilato in un vasetto di acciaio.
Una rosa rossa. «Il solo simbolo nel linguaggio dei fiori che tutti conoscono» disse. Non c'erano rose tra i fiori che Bethany aveva lasciato ad Adam, eppure, lavorando da un fioraio certamente avrebbe potuto scegliere tutti i fiori che voleva. "Molte persone portano fiori" aveva detto la guida al cimitero di Highgate. Dove li compravano? CAPITOLO 30 Steven aveva dato appuntamento a Natascia in una taverna buia e alla buona, non lontano da Chancery Lane. Era in compagnia di un terzetto che faceva parte del gruppo con cui avrebbe lavorato in Italia. Avevano passato il pomeriggio a bere birra, a giudicare dal numero di bicchieri vuoti che avevano accumulato sul tavolo e dal volume delle loro voci. Steven, che pareva perfettamente sobrio, si alzò per abbracciare Natascia. La presentò ai colleghi, che lei aveva già incontrato di sfuggita in occasioni analoghe. «V and T?» le chiese Steven, avvicinando un altro sgabello al tavolo. «Tocca a me offrire.» Tornò con una doppia vodka and tonic. «Parti svantaggiata. Devi metterti in pari.» Non c'era modo di tenere il passo con quella combriccola. «Mi pare di capire che sei riuscito a raccogliere i fondi per le tue campagne di scavo» gridò Natascia per farsi sentire al di sopra del frastuono. Steven alzò il bicchiere come per brindare e trangugiò in un lungo sorso metà del contenuto. «Qualche sterlina in meno di quanto sperassimo. Ci arrangeremo anche così.» «Quando partì?» «Prima possibile, vero?» Fred, uno dei tre, gli fece l'occhiolino. «Mi tieni nascosto qualcosa?» chiese Natascia. «Qualcuno, sarebbe più corretto» insinuò Fred. «Grazie, Freddie» disse Steven. «Basta così.» Natascia strizzò l'occhio a Freddie, perché non si illudesse, neanche per un secondo, di saperne più di lei. Ai figli normalmente non piaceva sentir parlare delle prodezze sessuali dei propri genitori, ma Natascia ci era abituata e non riusciva a indignarsi per le avventure paterne. Le cotte di Steven non erano niente di serio. Era come un marinaio: una ra-
gazza a ogni scavo. «Che cosa fai questa sera?» gli chiese Natascia. «Sono aperto a ogni proposta. Dipende però da chi la fa.» «Io. Ho bisogno di un letto per la notte.» «Stiamo in un alberghetto di Piccadilly. Sono sicuro che troveremo una sedia» disse Steven. «Che gentiluomo!» esclamò Freddie. «Per me, idiota.» L'albergo era vicino a Soho. La stanza era piccola e squallida. Il letto singolo era abbastanza comodo, ma le lenzuola erano rigide come se fossero state inamidate. Una volta a letto, Natascia ebbe l'impressione di indossare una camicia di forza. «Tutto bene?» le chiese Steven. «Benissimo, grazie.» Una mezza verità. Era ancora buio. Il tassametro segnava già diciassette sterline. Un pino profumato pendeva dallo specchietto retrovisore. Le esalazioni del deodorante e il mal di testa procuratole dalla vodka della sera precedente le davano nausea. Le sembrava di essere in viaggio per Highgate da ore. Attraversare il West End a quell'ora del mattino era stato laborioso. Diciotto sterline, adesso. Ma almeno si muovevano. Le prime volte che Natascia aveva preso un taxi a Londra era rimasta colpita dal fatto che si pagasse sia in base alla distanza sia al tempo impiegato per la corsa. Quando le capitava di restare bloccata nel traffico, fissava con orrore il tassametro che girava. Questo le ricordò che non le piaceva farsi pagare quando riteneva di non aver svolto un buon lavoro. Adam aveva fatto una richiesta: trovare Bethany, ma finora non ci era riuscita. Per il momento non aveva un solo indizio sicuro cui appigliarsi. Quasi venti sterline. Stava espiando l'attrazione che sentiva per lui, lavorando come una matta, e gratis, per trovare la sua ragazza? Sperava di avere soldi a sufficienza. Forse l'autista avrebbe accettato un assegno. Ammesso che si fosse ricordata di prendere con sé il libretto. Swain's Lane assomigliava a una strada di campagna, spettrale, buia e tortuosa, con un paio di lampioni, nessuna casa, nessun negozio, nessuna macchina. Sui due lati solo il cimitero. «Ne fa di strada per comperare un mazzo di fiori» aveva scherzato il taxista a inizio corsa, nel suo forte accento cockney.
Senza perdere di vista la strada, l'uomo allungò un braccio per aprire il vetro divisorio. A Natascia arrivò un'ondata di musica country. «È troppo presto per entrare» le disse senza voltarsi. Parlava del cimitero, pensando che lei volesse acquistare i fiori per una tomba. «Sa che ore sono?» gli chiese Natascia. «Neanche le otto.» Implicito il suggerimento che non era il caso di affrettarsi. «È questo il posto?» le chiese dopo qualche minuto, lanciandole un'occhiata nello specchietto retrovisore. Natascia vide un'insegna dipinta. Il fioraio di Highgate. «Sì, grazie.» Il negozio, con la vetrina colma di cesti e di vasi di fiori, sembrava una vecchia pasticceria. Le luci erano accese, ma all'interno, dalla maniglia della porta pendeva un cartellino con la scritta «Chiuso». Accanto alla porta non c'era il campanello. Bussò con discrezione sul vetro. Mentre aspettava che le aprissero, studiò la disposizione dei fiori nella vetrina. Le ghirlande e i bouquet erano di buon gusto, ma discreti, come se alludessero alla vicinanza del cimitero; erano fiori per i morti, non destinati a matrimoni o a innamorati. Venne ad aprire una bella donna sui quarant'anni. Alta, con le spalle larghe e con lunghi capelli castano ramato, indossava una gonna a fiori multicolori. I suoi movimenti erano accompagnati dal tintinnio di collane e di orecchini d'argento. «Mi dispiace di doverle rubare qualche minuto» disse Natascia. «Sto cercando una persona.» La donna sorrise. «Non è quel che facciamo tutti?» Si ritrasse per lasciar entrare Natascia, poi chiuse la porta facendo tintinnare delle piccole canne a vento. Il negozio era saturo di profumi, come un giardino estivo. Sul banco c'era una brocchetta di vetro con un mazzolino di violette. Natascia si presentò e la donna le strinse la mano, dicendo: «Rosie. Può sembrare strano, ma mi chiamo proprio così». Natascia si chiese quante volte Rosie avesse ripetuto quella battuta. «Che cosa posso fare per lei?» Natascia le passò la fotografia di Bethany. «Questa ragazza ha mai lavorato da lei?» Rosie diede un'occhiata alla foto, poi, con aria improvvisamente sospettosa, chiese a Natascia: «Lei è della polizia?». A Natascia non era mai passato per la mente di poter essere scambiata per un'agente. «No, no. Sono una genealogista.»
«Mi scusi.» Rosie guardò nuovamente la fotografia. «Bethany» disse. «Ha lasciato il lavoro un mese fa, più o meno.» «Mi potrebbe dire il suo nome completo?» «Marshall. Bethany Marshall.» Quindi Bethany mentiva anche ai suoi datori di lavoro. «Sa dove abita?» La donna esitò. «Non credo che...» «So che non è corretto dare l'indirizzo di una ex dipendente a un'estranea.» Rosie sorrise disarmata. «Appunto.» Dare voce ai dubbi inespressi delle persone spesso ha il potere di scioglierli. Sta di fatto che Rosie si chinò e, da uno scaffale sotto la cassa, estrasse un grosso libro nero simile a un registro. «I dati di Bethany sono nel libro paga. Paghiamo il personale alla fine della settimana, con un assegno o, nel caso di Bethany, se ricordo bene, in contanti. Ci aveva detto di non avere un conto corrente. Dovrebbe esserci un numero di telefono. La chiamo e le chiedo se non ha niente in contrario che le dia il suo numero. Eccolo.» Rosie scrisse il numero su un blocchetto. «È più di un mese che ha lasciato il lavoro. Potrebbe aver cambiato indirizzo. Il telefono è nel retro. Torno in un attimo.» Chiuse il libro e lo ripose sotto il banco. Stupita che Rosie non avesse portato con sé il registro, Natascia si sporse e lo estrasse da sotto il banco. Lo sfogliò rapidamente: metà dicembre. Bethany Marshall, Chatham Place, n. 14, Londra E17. Rimise il libro al suo posto. Sentì i passi di Rosie. «Mi dispiace. Il numero risulta inesistente.» «Grazie comunque della sua gentilezza.» Bethany aveva dato un nome falso, quindi non c'era da meravigliarsi che anche l'indirizzo fosse falso. Ma l'aveva scelto secondo una logica. Così come aveva preso in prestito l'identità dell'autrice del diario adottando il cognome Marshall, si era scelta come indirizzo l'appartamento in cui Rossetti e Lizzie avevano vissuto per la durata del loro infelice matrimonio. Il luogo dove Lizzie era morta e dove Rossetti aveva messo nella bara della moglie il manoscritto delle sue poesie. Chatham Place. Blackfriars. «Non so perché se ne sia andata» stava dicendo Rosie. «Ha lavorato qui solo due mesi, mezza giornata. Un pomeriggio è entrata e ha chiesto se poteva lavorare nel negozio. In quel momento avevo bisogno di una persona in più e così l'ho assunta immediatamente. Poi una sera mi ha detto che
non sarebbe più venuta. Nient'altro. Anche se in effetti il tragitto per arrivare sin qui ogni mattina da casa sua era lungo.» «La conosce bene?» «Non proprio. Non vengo spesso al negozio. Sembrava una ragazza per bene. Un po' strana e con la testa tra le nuvole. Ma ci sa fare con i fiori, pur non avendo ricevuto una formazione specifica, per quanto ho potuto capire. Ha uno spiccato senso artistico, un gusto istintivo del colore. Katherine, la mia assistente, la conosce meglio. È lei che gestisce il negozio.» «Potrei parlarle?» «La trova qui lunedì prossimo.» «Non c'è modo di mettersi in contatto con lei prima di lunedì?» «È in vacanza per qualche giorno. Per questo oggi sono venuta io.» Rosie mostrava segni di impazienza, ora. Aveva fatto la sua parte. «Ha detto che sarebbe andata via per il fine settimana. Se vuole, posso chiamarla a casa e vedere se è già partita.» Senza aspettare la risposta sparì nuovamente nel retro. Tornò dopo un minuto, scuotendo la testa. «Non ho fortuna con il telefono oggi. C'era la segreteria telefonica. Ho lasciato un messaggio. È meglio che lei mi lasci il suo numero. La farò chiamare.» «Grazie. Lei è stata veramente gentile.» Natascia diede a Rosie il suo biglietto da visita, la ringraziò ancora e si avviò alla porta. Poi, seguendo un impulso improvviso, comperò un mazzolino di violette. «Immagino che lei conosca il suo ragazzo» disse Rosie, come se quel pensiero le fosse venuto solo allora. «Non mi piace molto. Un tipo sfuggente e, per i miei gusti, troppo arrogante. Veniva a prenderla dopo il lavoro. È stato qui un paio di volte dopo che Bethany ha lasciato il negozio. Per sapere se avessi notizie della ragazza.» CAPITOLO 31 Natascia prese la Northern Line per la stazione di Embankment. In mano teneva il mazzolino di violette. Si sentiva angosciata al pensiero di non capire niente del mondo e della gente, visto quanto si era sbagliata nel giudicare sia Adam sia Bethany. Di tanto in tanto le giungeva alle narici la fragranza delle violette, nonostante le folate di aria stantia che entravano dai finestrini del treno. Ma la freschezza di quel profumo rendeva più acuto il suo malessere.
Però il mal di testa, sommato alla rabbia, la aiutava a scacciare la sensazione di paura. Maledetto bugiardo. Adam le aveva detto di non sapere dove lavorava Bethany. Prese la Circle Line in direzione ovest. L'avrebbe portata direttamente a Paddington. Lì avrebbe preso il treno per Moreton-in-Marsh che partiva mezz'ora dopo. All'ultimo momento cambiò idea e prese un treno che andava nella direzione opposta, verso est. Uscì dalla stazione della metropolitana di Blackfriars, attraverso un labirinto di gallerie e di sottopassaggi mal illuminati e sporchi, con muri ricoperti di graffiti. Natascia si muoveva in senso opposto alla fiumana di gente diretta verso la City. Quando uscì all'aperto, si ritrovò lungo il Tamigi. Procedette lentamente, guardando il fiume. Provava un vago senso di vertigine, come quando ci si trova in cima a un grattacielo. Chatham Place era un'incongrua oasi residenziale sepolta in mezzo a decine di centri commerciali. Il numero 14 faceva parte di un gruppo di quattro case vittoriane in mattoni, alte e strette. Nulla distingueva quella dei Rossetti dalle altre, neppure la targa blu che segnala gli edifici storici inglesi. Natascia osservò la facciata e vide una sola finestra illuminata da un pallido chiarore ambrato, all'ultimo piano, dietro le tende tirate. Suonò il campanello di ottone. Aspettò. Sulla porta c'era uno spioncino e sul gradino una bottiglia per il latte vuota. Sentì lo stridio di una catenella e la porta si aprì di qualche centimetro. «Mi spiace disturbarla» disse Natascia. «Potrei parlarle per un momento?» «Naturalmente.» Chiuse la porta e sganciò la catenella. «Entri, entri, non stia al freddo.» La proprietaria della casa era una signora anziana. Il suo piccolo viso era accuratamente truccato. Aveva occhi azzurri dallo sguardo curioso, una crocchia di capelli biondo chiaro e orecchini di perle. Natascia entrò in uno stretto corridoio piastrellato, pieno di piante in vaso. La signora le fece strada su per una rampa di scale molto ripida. C'era un odore forte e dolce, un misto di cera per mobili e di pot-pourri. «Il primo piano è affittato» le spiegò l'anziana signora, mentre la faceva
entrare in un soggiorno con i muri tappezzati di raso color crema a strisce dorate. Nelle vetrine dei mobili in noce scintillavano porcellane, cristalli e argenti. «Questa è la stanza dove è morta.» Natascia ebbe un sussulto, si voltò verso la padrona di casa, i cui occhi erano fissi su un punto all'altro capo della stanza. Ne seguì lo sguardo e sentì un tuffo al cuore. Sul muro, accanto alla finestra, c'era uno dei ritratti di Lizzie Siddal dipinto da Rossetti. Per un attimo Natascia ebbe l'impressione che Lizzie in persona la stesse guardando. «La prego, si sieda. Mi chiamo Marion.» Le indicò una poltrona accanto al camino di marmo con inserti di piastrelle gialle e blu cobalto. Al posto del fuoco, c'era un cesto di fiori secchi. «Non è il caso che si preoccupi tanto, cara» aggiunse, vedendo che Natascia non si era mossa. «So che cosa pensa. Devo essere pazza a lasciare che perfetti sconosciuti entrino in casa mia. Forse sono pazza. Ma alla mia età penso di potermi permettere qualsiasi follia.» Era piccola e magra, dritta come un fuso. La gonna, di seta blu come il foulard che le avvolgeva il collo, lasciava scoperte le caviglie sottili. La voce le tremava leggermente, come le mani. «A mio parere è molto più saggio essere imprudenti da vecchi che da giovani. Qualsiasi cosa succeda, la tua vita l'hai vissuta. Ho una sola regola: quando scende il buio, niente ragazzi in casa.» Fece un sorriso sbarazzino, a cui Natascia non poté fare a meno di rispondere. «E poi, sono armata» e brandì uno spillone dall'aspetto agghiacciante. Involontariamente Natascia indietreggiò, poi si mise a ridere quando la signora fece sparire la sua arma segreta infilandola nuovamente nel foulard. «I giovani che vengono a vedere la casa di Lizzie sono i miei unici ospiti ormai» disse, dando per scontato che Natascia sapesse esattamente di che cosa stesse parlando. «Non rinuncerei a loro per nulla al mondo.» Natascia fece uno sforzo per concentrarsi sul motivo della sua visita. «Ha detto che le stanze del primo piano sono affittate, non è vero?» «Al signor Braithwaite. È un funzionario di banca. Ha casa e famiglia nell'Herefordshire. Arriva il lunedì mattina e riparte il venerdì sera, silenzioso come un gatto.» «È molto che abita qui?» «Un paio d'anni.» «A parte il signor Braithwaite, lei vive da sola?» «Da quando mio marito è scomparso. Tranne che per i fantasmi, naturalmente.»
Natascia si chiese se gli "ospiti" e i "fantasmi" non fossero in realtà la stessa cosa. Concluse che Marion era deliziosamente pazza. La vecchia signora sprimacciò un cuscino, lo sistemò dietro la schiena e vi si appoggiò. «Non lo dico per compiacere i visitatori, mi creda.» Fissò Natascia con i suoi allegri occhi azzurri. «A volte si ha una percezione molto precisa della loro presenza. Anche lei, probabilmente riuscirebbe a sentirli, se si lasciasse andare. Personalmente, non mi hanno mai infastidito. Anzi, devo dire che ho comperato questa casa proprio perché era piena di fantasmi. Ero affascinata da lei.» «Da Lizzie Siddal?» Marion annuì. «E i suoi ospiti...?» «Ce ne sono di tutti i tipi. Soprattutto pittori e studenti d'arte. Ma anche attrici e musicisti. Gente che si interessa a lei. Io offro loro il te, mentre si chiacchiera di poesia, di pittura... Da giovane volevo fare la pittrice. Ma ai miei tempi una donna pittrice non era vista di buon occhio. Come ai tempi di Lizzie, del resto. Ma io mi sono preoccupata troppo della rispettabilità, cosa che ora non faccio più. Purtroppo, lo spirito è pronto, ma la carne è stanca.» Natascia si ricredette. Marion era una delle persone più sane che avesse mai incontrato. L'anziana signora si mise un dito sulle labbra e osservò Natascia attentamente. «Mi lasci indovinare. Studia arte anche lei?» Scosse la testa. «Una ballerina, allora.» «Sono una genealogista.» «Interessante!» Marion piegò il capo di lato e, fissandola, insistette: «Lei ha l'aria di un'artista, mi creda». Natascia aprì la borsa, prese la fotografia e la passò a Marion. «Ha mai visto questa ragazza?» L'anziana signora cercò sul cassettone dietro la poltrona un paio di piccoli occhiali, poi studiò attentamente l'immagine di Bethany. «È stata scattata un paio di mesi fa» spiegò Natascia, nel caso Marion cadesse nel suo stesso errore e la ritenesse una fotografia antica. «Questa ragazza si interessa a Lizzie?» «Sì.» «Non saprei. Non sono certa di averla conosciuta. L'immagine ha qualcosa di familiare. Ma, come le ho detto, vedo tanta gente. Magari si è limi-
tata a osservare la casa dall'esterno. Molta gente lo fa. Alcuni scattano foto, altri semplicemente si fermano un attimo e poi se ne vanno.» Picchiettò la foto con il dito. «Sì, forse è per questo che ho l'impressione di averla conosciuta da qualche parte. È una ragazza graziosa.» «Sì». «Una sua amica?» Natascia guardò il viso gentile e sereno di Marion. «Non so chi sia» le disse, colpita dalla verità della sua affermazione. Si sentì sopraffatta da un senso di profondo sconforto. Ripose la foto nella borsa. Bethany aveva dato un falso nome al suo ragazzo e un falso indirizzo ai suoi datori di lavoro e aveva fatto di tutto per mantenere segreta la sua identità. E ci era riuscita. La fiorista aveva subito pensato che Natascia fosse della polizia. Pensandoci bene, Rosie non si era mostrata per niente sorpresa da quella eventualità, come se, in un certo senso, se lo fosse aspettato. C'era qualcosa nel comportamento di Bethany che aveva reso Rosie sospettosa? Ho un cuore inaffidabile. I Preraffaelliti erano affascinati dall'idea della femme fatale. Forse Adam aveva visto in Bethany qualcosa di pericoloso che l'aveva sedotto. Marion la stava osservando con interesse. Natascia si rese conto che il suo comportamento doveva apparire strano. Le aveva mostrato la foto di una ragazza che diceva di non conoscere. Ma il bello della gente un po' svitata era che non si preoccupava della stranezza degli altri. Marion sembrava perfettamente a suo agio con lei. «Beve una tazza di tè?» «Sì, grazie.» Marion scomparve lasciandola sola. Lizzie la guardava dalla cornice dorata. La sua bara aperta era stata posta accanto alla finestra. Il suo corpo finalmente in pace, il suo viso pallido e bellissimo come quand'era in vita. Aveva esalato l'ultimo respiro in quella stanza, testimone di molti dolori e di poche, brevi gioie. Lì era nata la sua bambina morta. Era la stanza dove si era recato il dottor Marshall, convocato da Rossetti, alcuni giorni dopo il decesso, perché il pittore credeva che Lizzie potesse essere riportata in vita. Natascia si avvicinò alla finestra e guardò la grande massa nera del fiume. Stava scendendo una densa foschia che formava aloni luminosi attorno ai lampioni, non ancora spenti.
La vista sul fiume aveva qualcosa di stranamente familiare, come se l'avesse già ammirata in passato. Compariva in uno dei quadri nel libro sui Preraffaelliti. Lizzie, nella stanza con il balcone, in piedi dietro lo schienale di una sedia, si sporgeva in avanti per osservare un dipinto sul cavalletto. E dietro di lei, attraverso la finestra, si scorgevano il Tamigi e il ponte di Blackfriars. La vista sul fiume, ai tempi di Lizzie, non era insidiata da grattacieli, ma offuscata dall'aria resa fumosa dalle esalazioni dei comignoli. Blackfriars era il cuore della Londra di Dickens, con i vicoli stretti, le strade acciottolate, le bettole buie. L'età vittoriana aveva coinciso con il momento di massima prosperità del fiume, che anche nei dipinti appariva pieno di barche, con le rive fiancheggiate da magazzini brulicanti di umanità. Oggi il Tamigi sembrava molto più tranquillo. Giù nel cortile un uomo portava a spasso il cane. Natascia lo vide attraversare, passare sotto un lampione solitario e sparire dietro l'angolo, lasciando la strada deserta... Non proprio. Natascia trattenne il fiato. C'era qualcuno giù nel cortile. Una ragazza con i capelli lunghi e un vestito grigio. Si teneva fuori dal cerchio di luce, nell'ombra. Natascia si sforzò di distinguere i suoi lineamenti, ma era troppo lontana. Cercò di aprire la finestra, ma non ci riuscì: era bloccata. Forse con la luce spenta avrebbe visto meglio l'esterno. Cercò l'interruttore. Ma la ragazza era sparita. Doveva essere una delle visitatrici di cui le aveva parlato Marion, venuta a fare una fotografia, a rendere omaggio a Lizzie, in una sorta di pellegrinaggio. La sola luce rimasta nella stanza era posizionata sotto il quadro di Lizzie, e lo rendeva simile a un altare. «Mi dispiace, cara.» Marion riaccese la luce, tenendo in equilibrio il vassoio con il tè. «È l'abitudine. Sa com'è quando si vive soli. Non volevo lasciarla al buio.» Ma io brancolo nel buio. Mezz'ora dopo Natascia decise che era venuto il momento di congedarsi. Raccolse la borsa e il mazzolino di viole. Era ormai sulla porta quando si voltò per offrirlo a Marion. «Grazie, cara.» Aspirò il profumo dei fiori. «Mi dica, che cosa le ha fatto pensare che potessi conoscere quella ragazza?» «Ha detto alla persona per cui lavorava che abitava qui.» Marion sorrise misteriosa. «Forse abita davvero qui. In un modo o nell'altro.»
CAPITOLO 32 Mentre camminava lungo Queen Victoria Road, Natascia si chiese che ora fosse. Forse le dieci e mezza. Edward Deerhurst, che era stato il capo di Natascia all'Istituto di Araldica, probabilmente era alla scrivania da almeno tre ore. Salì i gradini di pietra, firmò il registro dei visitatori all'ingresso e si diresse verso gli uffici del presidente. Natascia si era sentita affascinata e allo stesso tempo intimidita da quel luogo carico di storia e di tradizioni. Qui erano ufficialmente conservati gli scudi araldici e le discendenze delle famiglie inglesi, gallesi, nordirlandesi e del Commonwealth. Natascia, a distanza di tempo, pensava ancora con ammirazione e rispetto ai genealogisti pionieri negli studi araldici, che qui avevano affinato i loro metodi d'indagine sin dal quattordicesimo secolo. La porta dell'ufficio di Edward era spalancata. Natascia bussò comunque. «Avanti.» Edward si alzò dalla scrivania e le andò incontro a braccia aperte. «Mia cara Natascia, che meravigliosa sorpresa!» Spettava ai membri dell'Istituto arredare il proprio ufficio e quello di Edward era pieno di mobili antichi che non avrebbero sfigurato in un museo. Ci si sedeva su sedie del Seicento, le riunioni si tenevano attorno a un tavolo di ciliegio dalle gambe scolpite, e si leggeva alla luce di lampade dallo stelo dorato. Natascia non avrebbe potuto immaginare Edward Deerhurst in nessun altro ambiente. Era tutt'uno con il suo ruolo, che aveva ereditato dai primi araldi, che assieme ai cavalieri medievali erano stati al servizio della famiglia reale. Lo circondava la speciale aura dei funzionari dell'Istituto, che avevano il compito di organizzare le cerimonie ufficiali, l'incoronazione, i funerali di stato e l'apertura annuale del parlamento. In quelle occasioni gli araldi indossavano la caratteristica uniforme, con lo stemma reale ricamato sul davanti, sul dietro e sulle maniche. L'abbigliamento quotidiano di Edward era ovviamente meno elaborato, ma non per questo meno formale: panciotto nero e camicia bianca immacolata. Era alto, con una capigliatura folta e scura, brizzolata sulle tempie, un viso affilato dominato da un naso prominente, occhi grigio ferro dallo sguardo profondo, come la voce. Si sedettero in un angolo della stanza per prendere il caffè con la panna
che Edward aveva appena preparato. «Ieri pomeriggio mi ha chiamato un signore che voleva verificare le tue credenziali. È una pura coincidenza che a distanza di poche ore tu sia venuta a illuminare la mia giornata?» le chiese. A Natascia venne la pelle d'oca. «Che cosa voleva sapere?» «Per quanto tempo avevi lavorato da noi, quando avevi lasciato l'incarico, di quali casi ti eri occupata. Voleva anche sapere quale fosse il tuo grado di preparazione, quali metodi adottiamo, in particolare come facciamo a rintracciare qualcuno ancora in vita partendo dagli antenati. Poi mi ha chiesto del tuo passato, della tua famiglia, ma a questo punto io l'ho bloccato, dicendogli che queste informazioni non erano di nessuna pertinenza. Naturalmente gli ho fornito le migliori referenze, insistendo sulle tue qualità di ricercatrice brillante e coscienziosa.» Deerhurst guardò Natascia negli occhi. «Voglio sperare che torneresti da noi, se fossi stanca della libera professione.» «Non sto cercando un posto di lavoro. Saresti il primo a saperlo, Edward.» «Allora che cosa...?» «Ne so quanto te.» Bevve un sorso di caffè e rimise la tazza sul piattino. «Che cosa faresti se a un certo punto di una ricerca avessi il sospetto che il tuo cliente, o la persona che stai cercando, abbia commesso un'azione scorretta, se non addirittura un delitto?» Quando Edward aggrottava le sopracciglia assomigliava a un gufo. «Noi custodiamo segreti. Ci vengono affidate informazioni su questioni familiari riservate, abbiamo accesso a carte molto delicate, sulla base del presupposto che qualsiasi cosa troviamo verrà trattata con la massima discrezione.» Natascia vide le pile di documenti ordinatamente disposte sulla scrivania, con lo stemma e il motto dell'Istituto. «Diligenza e segretezza» disse. Edward annuì. «Diligenza e segretezza, appunto. Ma c'è un limite.» La fissò. «Noi non siamo preti nel confessionale. Il nostro è solo un lavoro. Anche se so che per te è difficile accettarlo.» Natascia sorrise. «Non potresti verificare se per caso hai qualcosa in archivio su un certo Harold Leyburn di Dorchester?» Mentre pronunciava il nome, ebbe la netta impressione di averlo già sentito, anche prima che Adam le mostrasse il certificato. Lo estrasse dalla borsa e lo porse a Edward. «Ah, allora non sei venuta qui soltanto per farmi un saluto.» Si alzò e uscì dalla stanza. «Dammi qualche minuto.»
Riapparve con un'aria scontenta. «Temo di aver fatto un buco nell'acqua. C'è almeno una dozzina di Harold Leyburn nel censimento del 1891, ma nessuno di loro viveva a Dorchester e neppure nel Dorset. Tra qualche mese saranno resi pubblici i dati del censimento del 1901, dove potresti trovare le risposte che cerchi. Immagino che la cosa al momento non ti sia di alcun aiuto. L'Istituto non ha nient'altro sotto il cognome Leyburn. Ma, non so perché, sono sicuro di averlo già sentito.» «Anch'io ho questa impressione. Posso usare un momento il tuo computer?» «Prego.» Il computer era sistemato in una nicchia della stanza, in una posizione di sublime isolamento. Raramente utilizzato. Natascia si collegò a Internet, selezionò un motore di ricerca e digitò "Harold Leyburn". Fissò la clessidra girare e rigirare per qualche secondo. Cinque risultati. Notizie di cronaca di sei settimane prima. «Il ventiquattrenne velocista Harry Leyburn, giovane promessa olimpionica, è morto improvvisamente ieri durante gli allenamenti. Il coroner è stato incaricato dell'inchiesta, ma al momento la polizia ritiene che si tratti di morte naturale, probabilmente dovuta a un attacco cardiaco.» Nient'altro. Probabilmente i risultati dell'autopsia non erano ancora stati resi noti. «Lavori per un suo parente?» chiese Edward, mentre raccoglieva i fogli stampati e leggeva la notizia della morte di Leyburn. «Non lo so.» Harold Leyburn era forse un antenato di Harry? Che cosa aveva a che fare Bethany con i Leyburn? «Non lo so proprio, Edward» ripeté. Prese la stampata che le porgeva. «Grazie per la collaborazione.» «È stato un piacere.» Natascia si incamminò per il corridoio. «Natascia.» Si fermò e si voltò, preoccupata per il tono ansioso nella voce di Edward. «Ti sei messa nei guai?» La telefonata intimidatoria, la Celica che l'aveva seguita, qualcuno che andava in giro a far domande, precedendola di qualche ora, prima al fiorista di Highgate, poi a Edward.
Per non parlare dei suoi dubbi a proposito di Adam e della velata minaccia di Jake Romilly. Avrebbe potuto rispondergli di sì. Ma non avrebbe saputo dire che tipo di pericolo corresse, né perché. Qualcuno stava forse cercando di scoprire di quali informazioni disponesse e in quale direzione intendesse muoversi per la sua ricerca? «Non ti preoccupare. Tutto a posto» rispose, ostentando sicurezza. «Sarai prudente, vero?» Lo salutò agitando la mano, mentre già imboccava la grande scalinata. Quando finalmente tornò a casa, dopo essere passata dallo Snowshill Arms per riprendere Boris, Natascia trovò sullo zerbino dell'ingresso la posta di due giorni. Un paio di bollette, una grande busta bianca con il logo del Centro di Documentazione Familiare. Di certo conteneva i certificati di nascita e di matrimonio che aveva richiesto all'Archivio di Stato. C'era anche una busta marrone cui diede soltanto un'occhiata distratta. Non aveva voglia di affrontare problemi di lavoro. Non c'era niente di così urgente che non potesse aspettare il giorno seguente. La sua mente continuava a correre ai suoi amici, James e Mary. Quando era passata da loro, James le aveva detto che Mary stava riposando. Aveva avuto delle contrazioni, ma la levatrice aveva sentenziato che si era trattato di un falso allarme. Avevano assicurato a Mary che, se anche il bambino fosse nato con due settimane di anticipo, non avrebbe corso alcun pericolo. Natascia cercò di immaginarsi nei panni di Mary, ma si rese conto che, in quel periodo, la sua vita non avrebbe potuto essere più lontana da quella dell'amica. Ancora una volta aveva saltato il pranzo ed era arrivata al punto di non sentire neppure più lo stimolo della fame. Mangiò una ciotola di cereali con il latte. La colazione era il suo pasto preferito, soprattutto fuori orario. Fece scaldare dell'altro latte per prepararsi una cioccolata. Mentre aspettava che bollisse, vide la busta marrone che sporgeva da sotto la pila della posta che aveva lasciato sul tavolo della cucina. Lesse l'intestazione: "Reale Istituto di Chirurgia". Era la biografia di John Marshall. Non aveva voglia di leggerla. Era stanca dei Marshall. John, Jeanette e Bethany, o comunque si chiamasse. Ma alla fine fu vinta dalla curiosità. Si ricordò delle parole di Jake Romilly: "La curiosità uccide". Natascia non sapeva resistere alla tentazione di scoprire nuovi particolari sulle persone oggetto delle sue ricerche.
Aprì la busta e ne estrasse due fogli fotocopiati e pinzati. Nonostante il corpo di stampa fosse piccolo, la biografia del dottor Marshall occupava due pagine. «Dott. prof. MARSHALL JOHN (1818-1891) Nato a Ely, Cambridgeshire, l'11 settembre 1818, secondo figlio di William Marshall, avvocato ed eccellente naturalista. John Marshall entrò nella Clinica Universitaria di Londra nel 1838. In quell'anno andò ad abitare in Savile Row dove rimase fino a che non si ritirò dalla professione. Nel 1887 subentrò a Sir Henry Acland come presidente del Consiglio di Sanità. Perfezionò la tecnica dell'escissione delle vene varicose. L'intervento, all'inizio violentemente criticato, fa oggi parte della comune pratica chirurgica di ogni angiologo. Fu uno dei primi a mettere in relazione le epidemie di colera con la qualità dell'acqua e a sostenere il sistema delle corsie circolari negli ospedali. Tenne il suo primo corso di anatomia agli studenti d'arte a Marlborough House nel 1853 e portò avanti l'insegnamento anche quando le scuole d'arte vennero trasferite a South Kensington. I promotori della Fondazione Marshall nel 1887 offrirono all'Università un suo busto, opera dello scultore Thomas Brock. Una replica dello stesso si trova nel collegio universitario. Il dottor Marshall figura nel dipinto di Jamyn Brookes che ritrae il gruppo dei componenti del Consiglio. La moglie di Marshall, Ellen, morì nel 1859. Il primo gennaio del 1891 suo marito la seguì nella tomba.» Natascia in un primo momento non fece caso alle date. La sua mente era altrove. Marshall aveva insegnato disegno anatomico nelle scuole d'arte. Marcus sarebbe stato molto interessato al lavoro pionieristico del dottor Marshall. Forse lo conosceva già. Era stata la forza dell'abitudine a farla pensare a lui, ma ormai aveva perso il diritto di condividere con Marcus i particolari della sua vita. Udì uno sfrigolio alle sue spalle. Si voltò giusto in tempo per vedere il latte che traboccava dal pentolino. L'afferrò per il manico, tenendolo con A braccio teso, imprecando contro la schiuma che gocciolava sul pavimento. Versò nella tazza il latte superstite, poi vi sciolse una cucchiaiata di cacao in polvere. Portò la cioccolata nel soggiorno. Mentre si sedeva al computer le ritornò in mente l'ultima riga della biografia. Il nome della signora Marshall, Ellen, era stata una delle prime cose che aveva dovuto scoprire. Appoggiò la tazza sul davanzale della finestra, tornò in cucina e prese la
biografia. La data della morte della signora Marshall. Era sbagliata. Doveva essere sbagliata. Prese la borsa che aveva lasciato nell'ingresso quando era rincasata. Ne estrasse le fotocopie delle schede del censimento. Al momento del censimento del 1871 la piccola Eleanor Marshall aveva dieci anni. Il che significava che era nata nel 1861. Due anni dopo la morte della moglie del dottor Marshall. Eleanor non era sua figlia. Era dunque possibile che Ellen Jeanette fosse morta nubile, ma non vergine e senza figli. Natascia si sarebbe presa a schiaffi. Avrebbe dovuto pensarci prima. In un'epoca in cui avere un figlio illegittimo era considerato un marchio d'infamia terribile, non era raro che un bambino fosse allevato in famiglia come fratello della propria madre. Ritornò in soggiorno per chiamare Adam. La segreteria telefonica lampeggiava. Con qualche apprensione premette il tasto per ascoltare la registrazione. Era una voce femminile, giovane, cordiale. «Sono Katherine. Rosie mi ha detto che voleva parlarmi. Mi piacerebbe molto venire a trovarla. Domani è il mio giorno libero, quindi posso essere da lei per le due. Mi chiami se ha qualcosa in contrario. Altrimenti ci vediamo nel primo pomeriggio.» Seguiva il numero di telefono. Natascia ascoltò una seconda volta il messaggio. Nel caso le fosse sfuggito qualcosa. Sono Katherine. Nessun cognome. Come se si conoscessero già. Natascia si chiese perché la ragazza fosse tanto ansiosa di parlarle, a costo di venire fin nel Gloucestershire. CAPITOLO 33 Forse Jeanette si era portata il proprio segreto nella tomba. Ma questo non significava che la piccola Eleanor non potesse aver intuito la verità. "Ci sono cose che sappiamo, senza che ci siano state dette esplicitamente." Natascia, tuttavia, non si fidava delle proprie intuizioni finché non erano provate dai dati, da un certificato. Non era nella sua natura lasciare le cose in sospeso. Era soddisfatta soltanto quando trovava l'ultimo frammento del puzzle, quello che dava un senso a tutti gli altri. Ma l'incontro con Katherine poteva rivelarsi più importante di qualsiasi documento rinvenibile nei registri delle nascite, dei matrimoni e delle morti. La ragazza avrebbe potuto fornirle informazioni in grado di condurla di-
rettamente a Bethany, rendendo superflue le sue indagini sul periodo vittoriano. Si stava avvicinando alla verità. Appena in tempo. Era già il 12 gennaio. Ma c'erano informazioni che Katherine non avrebbe saputo darle: chi era il padre di Eleanor? Era forse lo sfuggente signor Brown? E qual era il nesso con Harold Leyburn? In soggiorno, Natascia, spingendo Boris da un lato, si stese sul tappeto a pancia in giù, e con la testa appoggiata alle mani si mise a leggere il diario di Jeanette. «Papà pensa che ci debba essere un motivo per il silenzio del signor Brown. Aveva un'aria così "sincera", era così "educato" con la mamma, così "deferente" con lui, era senza dubbio così "preso" di me, che papà proprio non riesce a capacitarsi del suo comportamento. Ma così è. Quanto a me, voglio dimenticarlo. Papà mi ha chiesto se desidero che gli sia inviato un biglietto per l'Accademia, ma io ho risposto subito di no. Non farei più nulla per lui, anche se non mi sposerò mai con nessun altro.» Tre pagine dopo Jeanette parlava di abiti, della sfumatura del colore rosso rame chiamato Etna, tanto di moda tra le signore dell'epoca. Ma per lei il colore era un semplice marrone, un Brown... «Tutte le donne che incontro sono vestite di marrone (è il mio destino!). Sto sistematicamente eliminando ogni cosa marrone in mio possesso. È un colore che ho sempre odiato.» Quella era l'ultima pagina del diario. Un finale assolutamente deludente. Una vita interrotta. Natascia mangiò una fetta di pane con burro d'arachidi e uscì con Boris per fare una passeggiata sotto una pioggerellina sottile. Ben presto il freddo penetrò attraverso il tessuto dei suoi jeans. Una volta un escursionista di grande esperienza le aveva detto che i jeans erano i pantaloni meno adatti per camminare, perché in caso di cattivo tempo il tessuto intriso d'acqua poteva arrivare a bloccare la circolazione. Natascia non poteva credere a una cosa simile, ma quando arrivò al Maniero decise di tornare indietro. Giunta alla curva all'altezza di St Barnabus vide che la porta del cottage era spalancata. Quando era uscita non si era preoccupata di chiuderla a
chiave, perché sapeva che sarebbe rimasta fuori solo pochi minuti, ma era sicura di non averla lasciata aperta. Si mise a correre verso casa, felice di avere Boris accanto, anche se non faceva molto affidamento sulle sue doti di cane da guardia. Entrò nell'ingresso. Silenzio. Spalancò la porta del soggiorno con una spinta. Il portafoglio e il libretto degli assegni erano sul tavolo, vicino al caminetto. Televisore e computer erano al loro posto. Ma qualcuno aveva frugato tra le carte accumulate sulla scrivania. C'erano fogli dappertutto, la pila dei certificati di nascita e di morte era sconvolta e molti documenti erano sparsi sul pavimento. Il suo quaderno degli appunti era aperto alla pagina con i dati dei Marshall. Afferrò il pesante candeliere di peltro dal davanzale della finestra e salì le scale, cercando di evitare i gradini che scricchiolavano. Dal pianerottolo poteva vedere l'interno della stanza da letto. Il piumone era in disordine, il pavimento era disseminato di abiti e di asciugamani. Tutto come l'aveva lasciato. La collana che Steven le aveva regalato per Natale era ancora lì, accanto al fermacapelli d'argento. La sua casa non era stata visitata da un ladro qualunque, ma da qualcuno alla ricerca di qualcosa in particolare. Chiunque fosse ora non era più in casa, Natascia ne era sicura. Si sedette sul letto, si mise in grembo il telefono e digitò il numero della polizia. Le risposero che entro un'ora avrebbero mandato qualcuno. Si versò un whisky con le mani che le tremavano. Andò in soggiorno in attesa della polizia. Le venivano i brividi al pensiero che qualcuno avesse messo le mani nelle sue cose. Una violazione. Cercò di rimettere in ordine le carte. Ci sarebbero volute almeno un paio d'ore. In un impeto di rabbia, le raccolse tutte in un fascio e le ammucchiò sulla scrivania. Avrebbe desiderato pulire, per togliere i segni di quella presenza estranea, ma non le sembrò una buona idea. Bisognava aspettare la polizia. Prove, impronte digitali. Forse aveva sbagliato a spostare le carte. Le venne in mente di controllare il computer. Selezionò gli ultimi file che aveva aperto. Bethany. I Marshall. Ci aveva lavorato il giorno precedente. Gli ultimi cambiamenti portavano quella data. Dunque nessuno aveva manipolato i dati, anche se era possibile che fossero stati consultati. Come tutti gli episodi inquietanti che le erano capitati di recente, anche quell'irruzione aveva a che fare con Bethany, ne era certa. Forse, quanto
più si avvicinava a scoprire il nascondiglio di Bethany, tanto più disperato diventava il comportamento del suo persecutore. L'irruzione significava che Natascia stava per arrivare alla verità? Allora perché se ne stava in piedi in soggiorno, tremante, sperduta, spaventata e sola? Era stata in grado di dare una spiegazione razionale per la Celica e le altre stranezze che le erano capitate. Ma non c'era modo di ignorare il fatto che qualcuno era venuto a frugare tra le sue cose, dentro la sua casa. Arrivò l'agente Walker insieme a una giovane collega. Walker era un uomo di mezza età, con una grossa pancia, occhiali spessi, doppio mento e calvizie incipiente. Natascia lo conosceva bene. Consigliava alle persone anziane come difendersi dai ladri e veniva spesso al villaggio di Snowshill per insegnare agli scolari l'educazione stradale e a non parlare con gli sconosciuti. Qualche volta lo si vedeva allo Snowshill Arms con una birra in mano. Non in servizio, naturalmente. Natascia fece il tè e offrì dei biscotti. «Se mi permette, do un'occhiata in giro.» Walker si alzò continuando a mangiare il suo biscotto, seminando briciole sul suo cammino, seguito da Boris che faceva da aspirapolvere. «È sicura che non sia stato rubato niente?» «Sì, sono perfettamente sicura.» «Solo le carte sono state toccate, secondo lei? Lì in mezzo c'è qualcosa che lei ritiene possa essere di particolare interesse per qualcuno? È sicura di non aver lasciato in giro, che so, un testamento? Magari qualche bisnonna è tornata dall'altro mondo per verificare che lei non abbia alterato le sue ultime volontà...» Walker sorrise alla propria battuta. Natascia si sforzò di sorridere. Walker stilò la denuncia. «Forse lei ha disturbato i ladri, l'hanno vista tornare e sono scappati prima di avere il tempo di portare via qualcosa.» Squillò il telefono. «Vuole rispondere?» chiese Walker. «Può aspettare.» Si udì lo scatto della segreteria telefonica. «Bene, abbiamo finito.» L'agente infilò in tasca il taccuino. «Probabilmente si tratta di ragazzi. Si sono spaventati e se la sono data a gambe.» Natascia gli raccontò di aver trovato la finestra aperta qualche giorno
prima, quando si era alzata all'alba perché non riusciva a dormire. Walker studiò la finestra, un'elegante bifora con un pilastrino centrale. «Bisogna essere scheletrici per passare lì in mezzo.» Si guardò la pancia generosa con un risolino. «Potremmo prendere le impronte digitali e verificare i soliti sospetti. Ma dal momento che non è stato prelevato nulla e che la porta non era chiusa a chiave...» «Colpa mia. Sono certa che lei ha cose ben più importanti cui badare.» «In ogni caso, è meglio che chiuda la porta a chiave quando esce. La prudenza non è mai troppa. I reati sono in aumento nelle zone rurali. I ladri di città sanno che in campagna la gente non è sospettosa e quindi lascia la porta aperta, evitando loro il disturbo di compiere un'effrazione. Bottino ricco. Che li ripaga del viaggio.» «Grazie per il consiglio.» «Grazie a lei per il tè.» Ascoltò la segreteria telefonica, tenendo gli occhi fissi alla finestra da cui poteva osservare l'agente Walker che saliva in macchina con tutta calma. «Probabilmente lei non si ricorda di me. Sono il dottor Moore. Nigel Moore. Ci siamo conosciuti a Highgate.» Lasciava il suo numero di telefono e le chiedeva di richiamarlo, per cortesia. Per un attimo Natascia si chiese come Moore fosse riuscito a mettersi in contatto con lei. Ricordava di aver detto di essere una genealogista. Forse aveva trovato il suo indirizzo su Internet. Era una telefonata professionale? Sperava che fosse così. CAPITOLO 34 Mancavano pochi minuti alle due. Katherine stava per arrivare. Natascia prese il catalogo dei ritratti di Lizzie Siddal. Le ricordava quei vecchi libri per ragazzi con l'immagine di un uomo in corsa o di un uccello in volo su ciascuna pagina, che sfogliati in fretta producevano un effetto di animazione. In un ritratto Lizzie aveva gli occhi abbassati, nel successivo era come se li avesse alzati per incontrare lo sguardo di Natascia. «Che cosa vuoi dirci?» sussurrò Natascia. Sentì il motore di una macchina spegnersi davanti alla casa. Dalla finestra vide una ragazza sull'altro lato della strada. Dopo un attimo sentì bussare alla porta. Era slanciata e graziosa, sui venticinque anni. Carnagione olivastra, oc-
chi di un blu quasi viola, due trecce di capelli scuri con fermagli a forma di farfalla. Aveva qualcosa di familiare. Era forse una delle ragazze di cui aveva visto le foto nello studio di Adam? «Katherine?» Per un attimo la ragazza parve studiarla come per confrontarla con l'immagine che si era fatta di lei. Poi sorrise. «In persona.» Quando Natascia invitava qualcuno a casa, aveva l'impressione di mettere a nudo la propria anima. Vivendo da sola, l'arredamento, i mobili, gli oggetti, i libri, tutto parlava di lei e soltanto di lei. Come la polvere sulle cornici e la cenere nel camino. Del disordine sulla scrivania, però, non era responsabile. Almeno per quella volta. Andò in cucina a preparare il caffè. Quando tornò in soggiorno, la ragazza, con la testa piegata di lato, stava studiando i titoli dei libri sugli scaffali accanto alla finestra. «Mi scusi, non so resistere alla tentazione di vedere che cosa leggono gli altri.» «Non si preoccupi. Lo faccio sempre anch'io.» Natascia diede alla ragazza la tazza di caffè. Si sedette sulla sedia a dondolo vicino al camino, mentre l'ospite si accomodava sul divano. Katherine per qualche secondo sostenne lo sguardo di Natascia, poi lo distolse. «Tanto vale che ti dica subito come stanno le cose. Certamente ti sarai chiesta che cosa ci faccia qui. Sono io che ho dato a Bethany il tuo nome e indirizzo. L'ho avuto da Marcus.» Il nome di Marcus, pronunciato in un contesto così imprevedibile, le fece venire i brividi. Avrebbe voluto buttar fuori di casa quella ragazza. La sua presenza le sembrava ancora più invadente di quella del ladro. Perché era venuta da lei? «Sono sua sorella» disse Katherine. Natascia imprecò contro se stessa per essersi lasciata andare a deduzioni affrettate. Marcus non parlava spesso della sua famiglia, ma Natascia sapeva che aveva una sorella di nome Katie. Ecco perché la fisionomia della ragazza le era sembrata tanto familiare. Gli occhi di Marcus erano intensi, scuri, quelli della sorella erano blu, grandi e luminosi. Ma la bocca era la stessa, generosa e con le labbra piene. C'era qualcosa di Marcus anche nell'espressione, nel modo di fare, e nel sorriso un po' triste. Katherine disse: «Ora capisci perché desideravo vederti». Aveva due orecchini all'orecchio sinistro, un piccolo diamante a forma di stella e un anellino. «È incredibile che non ci siamo mai conosciute» sorrise. «Ma Marcus ci ha detto tutto di te.»
«Davvero?» Le aveva parlato molto raramente della sua famiglia e non le aveva mai chiesto di incontrarla. Solo grazie alla sua perseveranza era riuscita a strappargli qualche informazione generica. Vivevano sulla costa della Cornovaglia, il padre era ingegnere elettronico e la madre casalinga. Aveva tre fratelli e una sorella. Le aveva raccontato delle vacanze passate a pescare gamberi e a fare surf. «La mamma e io gli abbiamo chiesto mille volte di invitarti da noi. Tutti volevamo conoscerti.» Marcus le aveva sempre dato l'impressione di non essere legato alla famiglia e di non tornare da loro se non per i compleanni e per il Natale. Le aveva sempre fatto credere di sentirsi più legato a Steven. Quando si era trasferito da lei, Natascia non l'aveva mai sentito parlare al telefono né con la madre né con la sorella. Perché ora si sentiva ingannata? «Tornava spesso a casa e io andavo a trovarlo a Manchester» disse Katherine. «Ma quando cominciò a frequentare te, cambiò. Si comportava in modo strano.» Nella sua voce non c'era traccia di risentimento. «Non lo trovavo mai a casa e per molto tempo non volle darmi il tuo numero di telefono. Sembrava che non avesse più tempo per noi e quando insistevo per incontrarlo, mi diceva di essere occupato. Mi ero fatta l'idea che tu fossi una strega possessiva e manipolatrice che lo voleva allontanare dalla sua famiglia. Ma dopo che vi siete lasciati, Marcus sembrava distrutto. Credevo che la colpa della separazione fosse tua, perciò ho parlato con Freddie, con Jack, con altri del suo gruppo di lavoro, e anche con tuo padre. Tutti quanti hanno detto che sei una persona meravigliosa e che con te Marcus rideva molto. Non sapevo più che cosa pensare.» «Neanch'io» disse Natascia, più a se stessa che a Katherine. Era davvero possessiva e manipolatrice? Sicuramente in qualche occasione lo era stata. Tuttavia, perché Marcus aveva cercato di tenerla lontana dai suoi? Si vergognava di lei? Non era mai stata importante per lui? «Presa tutta assieme, la mia famiglia può far paura» disse Katherine. «Ma tu non sembri il tipo che si lascia intimidire. Ce l'avresti fatta a tenerci testa.» Natascia inghiottì un sorso di caffè. Sentiva un dolore che le attraversava la fronte. Capire le faceva male. Marcus aveva temuto che lei non ce l'avrebbe fatta, che si sarebbe sentita esclusa, un'estranea. Aveva pensato che per lei sarebbe stato doloroso
vederlo con la sua famiglia, così unita, con i fratelli, così simili a lui. Dunque pensava che lei fosse una persona fragile? Boris si avvicinò a Katherine, strofinandole il muso contro una mano. Lei gli accarezzò la testa. «È un peccato che vi siate lasciati.» Le tornò alla mente un episodio dimenticato. Marcus che chiacchierava al telefono, rideva e scherzava, credendo che Natascia fosse di sopra in bagno. Aveva controllato la bolletta del telefono non appena era arrivata. Una telefonata di venti minuti a un numero di Londra a lei sconosciuto. Non aveva resistito alla tentazione di comporre quel numero, ma aveva subito riattaccato quando dall'altra parte le aveva risposto la voce di una giovane donna. Era stata Katherine a rispondere? «L'estate prossima ritorno in Cornovaglia» disse Katherine. «Sono stata ospite dei miei zii a Londra. Mi sono divertita, ma ora ne ho abbastanza. Voglio tornare a casa. Potresti venire a trovarci, una volta o l'altra.» Stava gettando un ponte. Voleva assumersi il ruolo di Cupido, e Natascia ne fu commossa. «Marcus non mi ha detto cosa è successo tra di voi.» «Non credo che lo sappia neanche lui.» Natascia sentì che nel suo petto qualcosa si era spezzato. «Avrei voluto venire a trovarti prima e quando ho trovato il messaggio di Rosie con il tuo nome ho pensato che fosse un segno del destino.» A un tratto Natascia si ricordò la ragione per cui si era messa in contatto con Rosie. Bethany. «Aveva tutta l'aria di essere una coincidenza, non trovi?» proseguì Katherine. «Tu cerchi qualcuno che, guarda caso, lavorava con la sorella del tuo ex ragazzo.» Natascia sorrise. Solo le adolescenti avevano dei "ragazzi". «In realtà sei stata coinvolta in questa storia solo perché io ho dato a Bethany il tuo numero.» «Perché gliel'hai dato?» Katherine alzò le spalle. «A volte al negozio capitano delle persone che stanno facendo ricerche sulla loro storia familiare e che vanno a Highgate per visitare la tomba di qualche antenato. Parlandone con Bethany, le ho detto che la ragazza di mio fratello era una genealogista. La prima volta che Marcus mi ha raccontato della tua professione ho pensato che fosse un lavoro insolito, interessante. Non l'ho più dimenticato. A ogni modo, Bethany ha voluto a tutti i costi che le procurassi il tuo indirizzo e numero di
telefono. Dunque ti ha contattato?» «Sì. Anche se... al momento ho un incarico da parte del suo ragazzo. Tu, per caso, hai notizie di Bethany?» «Non siamo rimaste in contatto dopo che ha lasciato il negozio.» «Ti devo fare una domanda che potrà sembrare bizzarra. Ti ha mai parlato di Lizzie Siddal?» «Non a me. Ma qualche mese fa è entrato nel negozio un ragazzo con cui Bethany si è messa a parlare di arte. Aveva sempre la matita in mano. Alcuni dei suoi disegni erano molto inquietanti. Disegnava fate, ma non le belle fate delle favole. Avevano serpenti tra i capelli, erano piuttosto angeli caduti o spettri delle foreste... Ho sentito che parlava di Lizzie Siddal con quel ragazzo, gli diceva che la gente dovrebbe rispettarla come artista. Lui le ha proposto di andare insieme sulla tomba di Lizzie, ma Bethany ha rifiutato. Era un tipo attraente, con una lunga coda di capelli neri e la carnagione scura. Be', tu lo conosci.» Natascia aggrottò la fronte. «Lo conosco?» «Hai detto che il suo ragazzo...» «Adam. È biondo, con la carnagione molto chiara.» Katherine scosse la testa. «Non è il ragazzo che aveva quando lavorava con me. A meno che non avesse due storie contemporaneamente.» «Ti ricordi come si chiamava?» Katherine cercò di ricordare. «Forse non me l'ha mai detto.» Poteva trattarsi di Jake Romilly. «Scusami, ti ho interrotto. Dicevi che quando questo tizio è venuto in negozio...» «Ah, sì. Sembrava che andassero molto d'accordo. Ho detto a Bethany che Rosie non avrebbe avuto niente in contrario se fosse uscita prima per andare a pranzo con lui, ma è stata irremovibile. Lo ha mollato li come un allocco ed è sparita nel retro, lasciando che fossi io a sbrigarmela con lui. Alla fine non ha comprato niente. È tornato il giorno dopo e lei ha accettato di andare al bar con lui. Si sono frequentati in modo saltuario, ma penso che litigassero moltissimo. Bethany era spesso nervosa. Una volta gli ha ordinato di andare via, dicendogli che non voleva più vederlo.» «Quando è successo?» «Direi alcune settimane prima di Natale.» Natascia si sentiva stanca, prosciugata, come se avesse perso sangue. «Andavi d'accordo con lei?» «Sì, ma a volte mi faceva un po' pena. Il negozio non era il luogo adatto a lei. Bethany è troppo sensibile. Quando qualcuno chiedeva una corona
per una tomba, capitava che le venisse da piangere. Ma era molto gentile con i clienti.» Katherine sorrise. «Si vestiva sempre come se dovesse andare a un funerale. Non l'ho mai vista in abiti che non fossero neri, gonne lunghe e maglioni sformati.» Appoggiò la tazza sul tavolo. «Ora devo andare.» «Rimani a mangiare qualcosa con me.» Continuarono a chiacchierare, mentre Natascia preparava la cena. Pasta con i funghi, insalata e pane francese. Per fortuna la dispensa era abbastanza fornita. Katherine si offrì di aiutarla. «Apri una bottiglia di vino, se vuoi. Il cavatappi è nella credenza, primo cassetto a sinistra.» Katherine si sedette a tavola con un bicchiere di vino in mano. «Ti è sempre piaciuto lavorare con i fiori?» «Credo di sì. Ho sempre amato il giardinaggio e l'arte. Fare la fiorista è un modo perfetto per mettere assieme le due cose. Mia nonna era un'artista. Disegnava silhouette. Porto il suo nome. Mio padre la ricorda come una donna bella ed elegante. Un modello difficile da eguagliare.» «Mi sembra che te la cavi benissimo.» Natascia apparecchiò la tavola e servì la pasta. Era felice di essere in compagnia, ora che stava scendendo il buio. Katherine confessò che le sarebbe piaciuto conoscere meglio la propria storia familiare e Natascia si offrì di aiutarla a muovere i primi passi in genealogia. Anche se avrebbe significato addentrarsi nella storia della famiglia di Marcus, la storia dei figli che avrebbero potuto avere. Fantasmi di un futuro che non si sarebbe mai realizzato. «Mi è tornata in mente una cosa» disse Katherine mentre si stava mettendo il cappotto. «Il giorno in cui Bethany se ne è andata, mi ha chiesto se conoscessi un buon medico e io le ho dato il numero di telefono del mio, il dottor Wilkinson. È un amico di famiglia. Bethany ha preso un appuntamento, ma non si è mai presentata alla visita. Pensi che questo possa essere importante?» «Non lo so.» Natascia ricordò che il giorno di Natale Steven le aveva detto di aver conosciuto una ragazza di nome Bethany. Minuta, molto graziosa. «Conosci mio padre?» «L'ho visto una sola volta. Per caso, in un pub vicino a Oxford Circus. Era con Marcus e il gruppo con cui lavorano. Siamo andati insieme in un ristorante di Chinatown. Ora che mi ci fai pensare...»
«C'era anche Bethany. Lo so.» Sulla porta di casa Katherine abbracciò Natascia. «Sono felice di averti conosciuto.» «Anch'io.» «Dovresti chiamarlo, sai. Marcus, intendo.» CAPITOLO 35 Partita Katherine, Natascia riordinò la scrivania. Poi andò in cucina a lavare i piatti. Pulì il ripiano della credenza e passò la cera d'api sul tavolo. Infilò i guanti di gomma per disinfettare il lavello con la varechina. Riempì un sacco della spazzatura di dépliant pubblicitari e di vecchi giornali e riviste che non aveva trovato il tempo di leggere. Fece pulizia negli armadietti della cucina, buttando via vecchi barattoli di erbe secche e un vasetto appiccicoso di miele. Dopo di che, passò l'aspirapolvere, infilando il tubo in tutti gli angoli e i pertugi, dietro le porte, spostando i mobili e non girando loro intorno come faceva di solito. Quando si rese conto che i suoi vicini di casa, i signori Wilson, a quell'ora certamente volevano dormire, spense l'aspirapolvere. Portò di sopra la varechina per lavare la vasca da bagno e il lavandino. Mettere ordine, pulire, buttare via roba vecchia era terapeutico. Se si fosse fermata avrebbe dovuto pensare. Quindi riordinò tutti i cassetti in camera da letto, piegò gli abiti e mise a posto i suoi gioielli. Sul fondo di una scatoletta d'argento, in cui teneva i braccialetti, trovò lo schizzo del viso di un ragazzo dell'età del bronzo. I tratti erano attraversati da strane linee simili a meridiani. Marcus l'aveva disegnato per spiegarle come si svolgeva il suo lavoro. Era il settembre di tre anni prima. Il secondo fine settimana che passavano assieme. Marcus sarebbe ripartito per Manchester la mattina seguente. Erano seduti sul pavimento davanti al camino, con un piatto di formaggio, un filone di pane francese e una bottiglia di vino rosso. Marcus le aveva tolto di mano il bicchiere e le aveva preso il viso tra le mani. «Nessuno sarà mai in grado di ricreare il tuo viso dopo che te ne sarai andata.» «Perché?» «Il mio lavoro si basa su valori medi. Facce standard di diverse età, razza e sesso.» Parlava con una cadenza armoniosa, come se stesse recitando una poesia, invece di una tecnica scientìfica. «Si prendono l'ampiezza media della bocca e del naso, la distanza tra il mento e gli zigomi e quella tra
gli occhi. Poi si apportano delle correzioni sulla base delle misure e delle irregolarità del teschio e in questo modo si crea una fisionomia individuale. Ma la tua faccia... Non si adatterebbe a nessun modello predeterminato.» Come uno scultore Marcus aveva passato il pollice lungo la linea dello zigomo di Natascia. «Queste ossa sono fragili come quelle di un passero. Eppure il tuo è un viso forte. E gli occhi...» le aveva toccato le palpebre «da un punto di vista statistico i tuoi occhi sono troppo grandi se confrontati con gli altri tratti del tuo volto. Il loro taglio è anomalo. Non si potrebbe mai ricostruire un dettaglio simile. E nessuno potrebbe sapere che hai queste piccole lentiggini sul naso, né che i tuoi capelli sono così folti e luminosi e che si arricciano in quel modo attorno alle orecchie.» Natascia aveva pensato che fosse il complimento più strano e più bello che avesse mai ricevuto. Aveva baciato Marcus e aveva sentito l'odore del fumo del camino imprigionato nei suoi capelli. Gli aveva chiesto di parlarle ancora del suo lavoro e lui aveva preso una penna e un foglio e aveva disegnato per lei il ragazzo dell'età del bronzo... Natascia si coricò, ma non tirò le tende. Era sveglia. La luna piena era così luminosa che si scorgevano i crateri sulla sua superficie. Una faccia d'argento con pozzi neri per occhi. Il minimo rumore la metteva in allarme. Lo scricchiolio delle vecchie travi, il gorgogliare dell'acqua che riempiva lo scaldabagno, il vento che faceva sbattere le imposte. Nella sua fantasia questi rumori diventavano porte che venivano aperte, passi di qualcuno che entrava in casa strisciando attraverso la finestra, che sollevava il chiavistello, che saliva furtivamente le scale. Per distrarsi pensò a Katherine. Era curioso che la sorella di Marcus si chiamasse come la sua vera madre. Catherine era infatti il nome che quest'ultima aveva dato all'ospedale. La donna che dopo averla portata dentro di sé per nove mesi, l'aveva abbandonata. Perché non la amava. Non riusciva a crederlo. Per questo aveva inventato la storia di una madre che l'aveva lasciata perché desiderava qualcosa di meglio per lei perché l'amava Dunque l'amore implicava l'abbandono. Un circolo vizioso. Che ti spingeva a non dare a nessuno l'occasione di abbandonarti. La voce di Marcus era arrivata attraverso le assi dell'impiantito, bassa e
familiare. Parlava con dolcezza, prendeva in giro qualcuno, in un tono che Natascia pensava usasse solo con lei. Era uscita senza far rumore sul pianerottolo in cima alle scale e lo aveva sentito dire: «Ci vediamo presto, te lo prometto». Senza riflettere era saltata a quella che le sembrava l'unica conclusione possibile. Una voce interiore le diceva di non fidarsi, perché alla fine tutti l'avrebbero lasciata sola. Così l'aveva allontanato, prima che lui la lasciasse. Era venuto a letto, aveva cercato di toccarla, ma lei si era voltata dall'altra parte. Era rimasta sdraiata accanto a lui a fissare il soffitto, finché non l'aveva sentito respirare in modo regolare e profondo. A quel punto si era alzata e aveva raccolto tutte le sue cose, in modo sistematico, stanza per stanza. Al mattino Marcus non aveva trovato il suo spazzolino da denti. «Perché non provi a cercarlo nel bagagliaio della tua macchina?» Lui l'aveva guardata sbigottito. «Pensavo che tu fossi diverso, invece sei esattamente come gli altri.» Non gli aveva dato modo di mentire. O di spiegare. E ora era troppo tardi. A causa di uno stupido malinteso. Non riusciva a dormire. Scese in soggiorno e accese il computer. Digitò l'indirizzo e-mail di Marcus. Scrisse: «Katherine oggi è venuta a trovarmi». Poi cancellò il messaggio e lo sostituì con: «Mi sono sbagliata. Avrei dovuto fidarmi di te. Mi dispiace». Non c'era altro da dire. Aprì il quaderno degli appunti a una nuova pagina. Avrebbe voluto fare lo stesso con la propria mente. Una pagina nuova. Immaginò diversi scenari possibili. Adam che tradiva Bethany, con Angie o con Diana. Bethany che tradiva Adam con il suo socio, Jake Romilly. Bethany aveva preso un appuntamento con un medico prima di sparire. Forse era incinta, e sapeva che Adam non avrebbe voluto il bambino. Non era neppure sicura che fosse di Adam. Bethany e Jeanette, a un secolo e mezzo di distanza, unite dallo stesso dilemma. Avere un figlio illegittimo non era più considerato una vergogna come ai tempi di Jeanette, ma non era certo una cosa facile, e le ragazze madri spesso non erano viste di buon occhio. Alla fine era sempre la madre a portare il peso di una decisione difficile. Allevare un bambino da sola, oppure interrompere la gravidanza. Una prova dura, crudele. Si capiva perché
alcune donne scegliessero di portare avanti la gravidanza per poi dare via il bambino, abbandonandolo all'ospedale o sulla soglia di una casa sconosciuta. CAPITOLO 36 Prima di uscire, Natascia non poté trattenersi dal verificare più volte che tutte le finestre del cottage fossero ben chiuse. Era piacevole essere fuori di casa. La luce del sole filtrava attraverso un ammasso di nuvoloni neri, bella ma sinistra. Decise di portare Boris con sé all'Archivio di Gloucester. Avrebbe dovuto rimanere chiuso in macchina per un paio d'ore, ma Natascia non voleva lasciarlo solo a Orchard End, per paura che chiunque si fosse introdotto in casa sua decidesse di tornare per un'altra visita. Durante la notte la temperatura era scesa all'improvviso e il parabrezza dell'Alpine era coperto da uno strato di ghiaccio. Non aveva nulla per toglierlo, così prese la custodia di un cd e grattò per qualche minuto il vetro, nel tentativo di liberare un piccolo spazio davanti al posto di guida. Dovette tornare in casa a prendere dell'acqua calda. Quando finalmente fu in grado di partire, guidò con estrema cautela, finché il ghiacciò si sciolse interamente. A Winchcombe guardò nello specchietto retrovisore prima di superare un camion. Vide una Celica rossa un paio di veicoli dietro la sua Alpine. Ci sono centinaia di Celica sulle strade. Cercò di leggere la targa, ma era troppo lontana. Dopo qualche minuto non c'era più. Alla periferia di Gloucester, si fermò a una rotonda. Mise la freccia per svoltare a sinistra, dando uno sguardo veloce allo specchietto prima di ripartire. La Celica la seguiva a due macchine di distanza. Natascia si lasciò superare da un furgone, poi accelerò per infilarsi tra due macchine che la precedevano. La Celica fece esattamente la stessa manovra. La strada era a due corsie. Verificò che non arrivasse nessuno nella direzione opposta, superò una Mondeo e spinse a fondo sull'acceleratore. Il motore dell'Alpine andò su di giri. Con le strade ancora ghiacciate nessuno sarebbe stato così pazzo da seguirla a quella velocità. Tranne la Celica. In un attimo la vide infilarsi tra la Mondeo e l'Alpine. Il vetro posteriore appannato impediva a Natascia di scorgere il viso del guidatore. Era sicura che ci fosse un uomo al volante. All'altezza del monastero di Saint Oswald, svoltò. La Celica la seguì. Poi, senza mettere la freccia, Natascia improvvisamente curvò a destra per
immettersi nel parcheggio municipale di fronte all'Archivio. La Celica proseguì. Spense il motore. Tenne le mani sul volante, le braccia tese davanti a sé, finché il respiro riprese un ritmo regolare. Chi diavolo era il suo inseguitore? Per due volte si era accorta di lui, ma questo non significava che non l'avesse pedinata altre volte. Forse l'uomo non era un professionista. Però aveva saputo cogliere il momento giusto per insinuarsi in casa sua. Le vennero i brividi al pensiero di essere stata osservata per giorni a sua insaputa. Fece una breve passeggiata con Boris, perché si sgranchisse le zampe, poi lo chiuse in macchina ed entrò nell'edificio dell'Archivio, una ex scuola vittoriana che ancora portava segni evidenti della sua funzione originaria. Alle pareti erano appese fotografie in bianco e nero di ragazze in grembiule e ragazzi con berretti a visiera. Sulle cornici delle porte delle antiche aule, ora trasformate in biblioteche, si vedevano ancora i nomi che gli studenti avevano inciso nel legno. L'archivio custodiva le copie in microfilm di quasi tutti gli indici dell'Istituto Nazionale di Statistica. Will l'aspettava nell'atrio. Natascia era riuscita a convincerlo a darle una mano nella pausa per il pranzo, dal momento che non poteva contare su Mary. L'abbracciò, poi si allontanò di un passo per osservarla meglio. «Stai bene? Hai l'aria scossa.» «Troppa gente fuori di testa al volante. Qualcosa di dolce mi rimetterà in sesto.» Natascia gli offrì una cioccolata calda con panna montata in un caffè vicino all'Archivio, dove si suddivisero il lavoro. Si trattava di scorrere gli indici per verificare se e quando la piccola Eleanor si fosse sposata. Per scoprire chi fosse il marito ci sarebbe stato bisogno di fare un altro tipo di ricerca, perché fino al ventesimo secolo gli indici non registravano contemporaneamente la moglie e il marito. Avrebbe dovuto aspettare il certificato di matrimonio di Eleanor per conoscere il nome dello sposo, e poi risalire a quello degli eventuali figli. Ma forse non sarebbero neppure arrivati a quello stadio dell'indagine. Natascia si sarebbe occupata dei primi sette anni in cui era possibile che Eleanor si fosse sposata, mentre Will avrebbe iniziato la ricerca dall'ottavo. Se avessero avuto tempo avrebbero controllato anche i Leyburn. Natascia sapeva che sarebbe stato più logico partire dai Leyburn, ma il suo istinto le diceva che il personaggio chiave era Eleanor. Questa convinzione si rafforzava, mentre, seduta al lettore di microfilm,
Natascia controllava sistematicamente gli anni dal 1882 al 1886, vedendo scorrere centinaia di nomi. Sentiva che il diario, la fragile traccia che Bethany aveva lasciato dietro di sé, finalmente stava per condurla fino a lei. «L'ho trovata!» annunciò Will. Eleanor Marshall si era sposata a Londra nel distretto di Westminster Saint James, nel secondo trimestre del 1882. Natascia si sentì pervadere dall'euforia della scoperta. «Magnifico!» esclamò. «Allora, per il momento, abbiamo finito.» Natascia era impaziente di avere in mano il certificato di matrimonio di Eleanor. «Non proprio.» Era quasi l'una. L'archivio si stava riempiendo di persone che conducevano ricerche sulla propria famiglia durante l'intervallo per il pranzo. Will disse che doveva tornare al proprio lavoro. Natascia lo ringraziò e lo seguì nell'atrio, dove con il cellulare telefonò all'Archivio Metropolitano di Londra. Chiese di parlare con Stuart Russell, un ex collega dell'Istituto di Araldica. Gli fornì il numero del volume e della pagina, perché potesse rintracciare in fretta il certificato. In un quarto d'ora avrebbe dovuto farcela. Uscì per fare un rapido spuntino e bere un caffè, poi tornò all'Archivio. Dopo pochi minuti ricevette la chiamata di Stuart. «Lo sposo si chiamava Samuel George Miller.» Natascia lo ringraziò con la promessa che avrebbe ricambiato il favore. Chiamò Toby, ma il suo telefono era spento. Forse stava ancora lavorando. Natascia accompagnò Boris in una passeggiata attorno all'isolato, reprimendo l'impulso di controllare la sua casella di posta elettronica. Lo avrebbe fatto soltanto al suo ritorno a casa. Se Marcus non avesse risposto subito, avrebbe continuato a scrivergli. Toby rispose al suo messaggio mezz'ora dopo. Natascia gli chiese di cercare il testamento di Samuel Miller e nell'attesa bevve un altro caffè al distributore automatico dell'archivio. Toby la richiamò e le comunicò che i principali eredi erano il figlio di Miller e i suoi due nipoti John e Charles. Alla figlia, Frances Leyburn, aveva lasciato solo pochi oggetti personali. «Hai detto Leyburn?» «Sì, Leyburn. Ma c'è un emendamento apportato al testamento, due anni dopo la redazione dell'originale. Charles diventa erede unico, perché l'altro nipote nel frattempo è morto. Dalle date penso che dovesse avere circa vent'anni. Ho controllato il testamento di Charles Miller, perché sapevo
che mi avresti chiesto di farlo. Ha lasciato tutti i suoi beni alla moglie May e ai figli, Elaine e Jack.» «Stupendo!» Con i dati che le aveva fornito poteva risparmiarsi la fatica di frugare nei registri delle nascite alla ricerca dei figli e dei nipoti di Eleanor, e dei loro figli e nipoti. Ringraziò Toby e riagganciò. Il diario doveva essere stato tramandato per linea femminile. May e poi Elaine. Tornò agli indici matrimoniali recenti, scritti a macchina, dove apparivano sia il nome dello sposo sia quello della sposa. Dopo circa un'ora, Natascia trovò il matrimonio di Elaine con Andrew Wilding, a Stratfordupon-Avon nell'autunno del 1967. I genitori di Bethany. Forse. Stratford. La fotografia del canale che Bethany aveva dato ad Adam. L'aveva trovata. Quasi. Ma doveva esserne certa. I registri delle nascite. Li sfogliò, partendo dal presupposto che Bethany avesse circa vent'anni. Mentre faceva scorrere sul video i dati di tutte le bambine con il cognome Wilding nate a Stratford negli anni Ottanta, Natascia considerò l'ipotesi che Bethany non fosse il vero nome della ragazza. In questo caso l'ultima fase della ricerca avrebbe potuto dimostrarsi lunga, laboriosa, e anche costosa. Avrebbe dovuto richiedere verifiche incrociate su tutti i certificati per appurare quali bambine avessero genitori che rispondevano ai nomi di Elaine e Andrew. Per fortuna Wilding non era un cognome particolarmente comune, ma comunque ce n'erano almeno una dozzina in ciascun registro. Non le piaceva l'idea di contattare Andrew ed Elaine Wilding per chiedere loro se per caso avessero una figlia che corrispondeva alla descrizione di Bethany. Una preoccupazione che risultò superflua. Infatti trovò che «Wilding: Bethany, E.» era registrata nel terzo trimestre del 1981. I Wilding avevano dunque dovuto aspettare alcuni anni la nascita della loro figlia. Uscì per prendere una boccata d'aria e per chiedere il numero di telefono dei Wilding al servizio informazioni. La strada era deserta. Un ragazzino con la maglia dell'Inghilterra prendeva a calci un pallone contro un muro di mattoni, nello spazio che doveva corrispondere all'antico cortile della scuola. Il cielo era di un giallo sgradevole. I lampioni stradali erano già accesi. L'operatore le rispose che c'era un solo Wilding a Stratford e le dettò il numero di telefono. Tutto tornava, tutto procedeva liscio come l'olio.
I Wilding avrebbero potuto essersi trasferiti, o avere un cognome comunissimo. Invece no. Incominciò a digitare il numero dei Wilding, ma si fermò. Non voleva chiamare i genitori di Bethany da un cellulare, perché la ricezione non sempre era buona. Trovò in tasca delle monete e raggiunse il telefono pubblico. Le rispose Andrew Wilding. Natascia ascoltò la voce dell'uomo con grande attenzione, cercando di cogliere la presenza di una sfumatura di dolore o di angoscia, ma era una voce pacata e gentile, che non rivelava nessun sentimento particolare. Natascia si presentò dicendo di essere una genealogista che stava facendo una ricerca sul cognome Wilding. «Mi piacerebbe fare quattro chiacchiere con lei, se non ha nulla in contrario.» Fece uno sforzo per dominare l'ansia che sentiva. Perplesso, Andrew Wilding le chiese quando intendesse recarsi a Stratford e fu sorpreso di sentire che sarebbe stata disposta a fargli visita il giorno successivo. Le domandò se non potesse rispondere alle sue domande per telefono. Natascia gli disse che aveva in programma una visita a Stratford, per cui un incontro sembrava la cosa più logica. «Domani sono impegnato tutto il giorno, ma dopodomani andrebbe benissimo.» Il padre di Bethany le era sembrato una persona gentile, normale. Eppure quando Adatti aveva fatto cenno al padre, la ragazza si era turbata. Perché non voleva parlare della sua famiglia? Sarebbe stato utile trovare un risposta a quella domanda prima di incontrare i Wilding. Studiò i suoi appunti. Il nipote di Eleanor era morto giovane, come Harry Leyburn. Che cosa aveva detto Katherine a proposito di Bethany? Quando qualcuno chiedeva una corona per una tomba, capitava che le venisse da piangere. Meccanicamente, quasi senza rendersene conto, Natascia si ritrovò a consultare ancora una volta i registri. Inserì il microfilm relativo ai decessi degli anni Ottanta. Il nome di Elaine Wilding, la madre di Bethany, apparve sullo schermo. Era morta nell'estate del 1985, quando Bethany aveva circa quattro anni. Natascia chiamò Will. «Tutto bene? Dalla voce non si direbbe.» «Ascolta, Will. Per favore, controlla il giornale locale di Stratford-uponAvon, estate del 1985. Sto cercando notizie sulla morte di Elaine Wilding.»
«La madre della ragazza?» «Esatto.» Per ingannare l'attesa Natascia andò a prendere un tè. «Cara ragazza, questa volta hai scoperto un verminaio» disse Will quando richiamò per comunicarle i risultati della sua indagine. «C'è un articolo in prima pagina. Elaine Wilding è morta mentre nuotava. Non sarebbe stato meglio dire chiaro e tondo che è morta annegata?» «Leggi, per favore.» «Va bene, ho capito. Leggo: "Una nuova, terribile disgrazia ha colpito la famiglia Wilding, reduce dalla tragica perdita della figlia maggiore, Charlotte, morta improvvisamente l'anno scorso, pochi giorni prima del suo tredicesimo compleanno. Andrew Wilding, padre di Charlotte e marito di Elaine, recentemente scomparsa, sta collaborando all'inchiesta della polizia".» Will fece una pausa. «Un modo delicato per dire che pensano che l'abbia ammazzata lui.» Natascia non riuscì a rispondere. «Per il momento non ho trovato altro» disse Will. «Nessuna notizia di una condanna o di un'assoluzione. Probabilmente il caso è passato rapidamente in qualche trafiletto delle pagine interne. Se trovo qualcosa ti faccio sapere.» Natascia chiamò Adam per dirgli che aveva bisogno di parlargli. Lui non le chiese di che cosa si trattasse, disse semplicemente che l'avrebbe raggiunta a casa sua a Snowshill. Natascia voleva dargli qualche indicazione, ma Adam la interruppe dicendo che non ne aveva bisogno. Queste parole le tornarono in mente quando al parcheggio vide la Celica posteggiata un paio di file oltre l'Alpine. Dentro c'era un uomo seduto al posto di guida, con un berretto da baseball calato sul viso. Dal finestrino aperto uscivano volute di fumo di una sigaretta. Era troppo. Natascia si diresse velocemente verso la Celica, ma quando si trovò a una decina di metri di distanza, vide la macchina uscire dal parcheggio in retromarcia e sparire in tutta fretta oltre la barriera d'uscita. Natascia aveva memorizzato il numero di targa. Si sedette al volante e chiamò la stazione di polizia. Chiese di parlare con l'agente Walker. «Credo di essere pedinata. Anzi sono certa di essere pedinata.» Gli riferì quello che era successo e gli diede il numero della targa. Walker le disse che l'avrebbe richiamata dopo aver controllato il database. «Non potrei dirle niente. Sa, per la storia della privacy. A meno che lei non sia in pericolo.»
«Secondo lei è possibile essere pedinati e non trovarsi in pericolo?» Natascia avrebbe desiderato essere smentita, ma l'agente Walker disse: «Il nome di Jake Romilly le dice qualcosa?». CAPITOLO 37 Natascia si diresse verso Oxford prendendo una scorciatoia per strade di campagna. Ascoltò un messaggio alla casella vocale del cellulare. «Sono Peter Deacon dell'"Ox£ord Times". Stiamo preparando un servizio sulla mostra fotografica che si terrà all'Exeter College. Vorrei rivolgerle qualche domanda.» Suonò a lungo al campanello dello studio di Adam. Nessuna risposta. Le venne voglia di prendere a calci la porta. Ritornò sulla strada. Nell'ufficio degli architetti, attraverso le veneziane abbassate, si intravedeva qualcuno. Suonò il campanello. Venne ad aprire una donna grassoccia con i capelli grigi. «Cerca qualcuno?» «Vorrei parlare con Christine.» La donna la fece entrare nell'ingresso. Quando vide Natascia, Christine le rivolse un sorriso professionale. Circospetto. Era vestita in modo ricercato, come se, dopo l'ufficio, fosse invitata a una festa. Una gonna nera corta con un top rosa, stessa marca del rossetto, e orecchini d'argento. «Sai dove posso trovare Jake?» Christine scosse la testa, sospettosa. «Tu sai qualcosa, vero?» «So chi sei e che cosa fai. So che mi hai messo nei guai. Jake si è infuriato con me quando gli ho detto che ero stata io a lasciarti entrare. Non voglio aver niente a che fare con te, chiaro?» Si voltò per andarsene. Natascia la trattenne per un braccio. «Jake mi sta pedinando. Credo che sia entrato in casa mia. Sono furibonda e anche spaventata. Se hai idea di che cosa stia succedendo, per favore dimmelo.» Natascia colse un momento di esitazione nella ragazza. Le lasciò il braccio. «Non ho ancora pranzato. Perché non mangiamo qualcosa assieme?» C'era un bar dietro l'angolo. Christine disse che non voleva niente. Natascia ordinò una bottiglia di bianco e due bicchieri. Christine se ne stava seduta in silenzio, mordendosi l'interno del labbro.
«Tutto quello che so l'ho sentito per caso mentre loro stavano discutendo.» «Loro chi?» «Jake e uno degli altri.» «Adam?» «Sì, credo fosse lui. Quel pomeriggio c'era anche lui nello studio. Aveva visto Alex il mattino, mentre lasciava lo studio. Lo usa anche lui.» Natascia fremeva, ma sapeva che doveva aver pazienza. «Sono uscita con Jake per tre mesi. Quella sera ero rimasta a lavorare fino a tardi, per aspettare che lui tornasse. L'ho visto scendere nello studio. Pioveva a dirotto e io non volevo rovinarmi i capelli, così sono passata dalla scala di servizio, decisa a bussare finché non mi avessero aperto. Ho sentito Jake. Parlava a voce molto alta, in modo concitato. Non so se con Alex o con Adam.» Natascia lasciò passare un minuto di silenzio. «Che cosa diceva?» Christine si agitò sul suo sgabello, abbassò gli occhi e prese a rosicchiarsi le unghie, dove ormai non c'era più nulla da mordere. «Ha detto: "Stava sdraiata. Immobile come se fosse morta". Poi si è messo a gridare: "Giuro che non le ho fatto niente". L'ha ripetuto un paio di volte. "Non l'ho nemmeno toccata".» Natascia si sentiva come se fosse stata presa a calci nello stomaco. «Alex, o Adam, ha detto "Cristo!" Poi ha chiesto a Jake se le avesse sentito il polso. Jake ha detto che in quel momento era fuori di sé. Pensava che respirasse ancora, ma non ne era sicuro. Ha chiesto se potevano andare là insieme, ma l'altro ha detto: "Neanche per sogno".» «Andare dove?» «Non lo so.» «Quando è successo tutto questo?» «Prima di Natale. Una decina di giorni prima di Natale.» Quindi dopo le foto di Ofelia. Quando Adam le aveva detto che Bethany se ne era andata. «Pensi che parlassero di Bethany?» «Jake usciva con lei quando... prima di me. Alex si diverte a ricordarmelo. Come ti ho detto, quella mattina l'ho visto. Mi ha detto che Bethany aveva lasciato Adam, che era venuta a prendere le sue cose. Jake era nello studio e l'aveva invitata a prendere un caffè con lui. Lei aveva rifiutato, ma lui l'aveva seguita...» Proseguì con voce rotta: «L'ho incontrata nello studio un paio di volte. Non le ho mai parlato. Ma capisco perché piacesse a Jake. Era perfetta per le loro foto. Con quella sua espressione triste». Alzò gli occhi e disse con tono implorante: «Non sapevo che cosa fare. Jake ha detto che respirava, perciò ho pensato che...». «Ne hai parlato con qualcuno?»
«No. Io...» Christine aveva gli occhi pieni di lacrime. Natascia le mise una mano sul braccio e le versò del vino. «Calmati, ora.» «Io non volevo... i miei genitori mi ammazzerebbero se sapessero che... frequento gente come Jake. Non volevo che lo scoprissero.» Natascia, nonostante tutto, sentiva pietà per Christine. «Non è che mi piacesse stare con Jake. Mi piaceva come mi sentivo quando stavo con lui, non so se capisci. Le foto che mi faceva. Non ero più solo l'impiegatuccia che sa battere novanta parole al minuto e sa usare Excel e Power Point. Pensavo che avrei invitato i miei capi alla mostra. Non vedevo l'ora di guardare le loro facce. Così, quando mi avrebbero chiesto di portar loro il caffè, avrebbero saputo con chi avevano a che fare. Uscire con Jake era meglio di una serata con le amiche, di una festa con i colleghi, delle solite cose che fanno tutti.» Natascia pagò e uscirono. «Che cosa hai intenzione di fare?» chiese Christine. «Non lo so ancora.» «Dovresti chiederlo ad Adam» le suggerì Christine. Natascia pensò con un moto di paura che presto le si sarebbe presentata l'occasione. Adam era in viaggio per Snowshill. «Chiedigli chi sono I Corvi.» CAPITOLO 38 Chiedigli chi sono I Corvi. Che cosa significava? I Corvi. Era questo il senso della sigla "IC" sulle fotografie? Le tornarono in mente le parole di Adam: "Mi è sempre piaciuta l'idea della Confraternita Preraffaellita. Confraternita. Società segrete". I Corvi, un nome perfetto. Natascia era in cucina. Sentì sbattere la portiera di una macchina, ma non si mosse finché Adam bussò. «Ciao.» Indossava jeans e un maglione nero con il collo a "V". I capelli appena lavati avevano le punte ancora bagnate e sembravano più scuri del solito. «Ho pensato che potremmo andare al pub» gli disse. Le mise in mano una bottiglia di vino. «E io ho pensato che potremmo stare qui.» Gli indicò senza parlare la porta del soggiorno e si rifugiò in cucina. Appoggiò le mani sul tavolo. Sentiva il sangue pulsare nei polpastrelli. Improvvisamente si rese conto
che non era preparata ad affrontare una situazione simile. Aveva sempre condotto una vita piccolo borghese, protetta, circondata da gente per bene, e il suo solo contatto con criminali e assassini era avvenuto attraverso documenti ingialliti dal tempo e liste di galeotti morti da decenni. Fece un lungo respiro, tirò indietro i capelli e prese la bottiglia di vino francese che Adam aveva portato. Cercò il cavatappi. In soggiorno trovò Adam inginocchiato sul pavimento davanti al contenitore dei cd. «Ti spiace se metto un disco?» «Fai pure.» Boris, che era sdraiato di fronte al fuoco, si alzò pigramente e andò ad annusarle la mano, poi tornò sul tappeto e si lasciò cadere vicino ad Adam. Chiaramente Boris non sapeva giudicare le persone. Natascia si sentiva confusa, furiosa e spaventata. «Non hai dimenticato qualcosa?» Non aveva portato i bicchieri. Adam la seguì in cucina. Natascia lo vide fermarsi sulla porta bloccandole ogni via d'uscita. «Carina la tua casa.» Natascia versò il vino, rovesciandone un po' sul tavolo. Aveva la bocca secca e il vino le sembrò amaro. «Ti sei pentita di avermi permesso di venire? Hai dei sospetti su di me, vero?» Natascia non rispose. «Hai ragione a sospettare di me.» Natascia si sedette al tavolo. Adam prese una sedia di fronte a lei. Sentiva i nervi scoperti. Nella sua mente si era fatta improvvisamente luce... «Sì, ho dei dubbi su di te.» La sua voce risuonò innaturalmente calma. «Sin dall'inizio ho avuto la sensazione che mi nascondessi qualcosa. Ma del resto anch'io non ti ho detto tutto. Ho trovato un biglietto. Sotto la copertina del diario. Sembra la scrittura di Bethany. Dapprima ho pensato che potesse essere un messaggio di suicidio. Ora mi chiedo se non sia stato tu a nasconderlo lì perché io lo trovassi.» Adam fece una risata che non aveva niente di allegro. «Parli sul serio?» C'era una nota di profonda incredulità nella sua voce, come se si trovasse di fronte a uno scherzo grossolano. Poi la guardò con aria costernata. Natascia cercò di interpretare quello sguardo. Le parve di sentire la voce di Adam dare a se stesso delle istruzioni come quando scattava fotografie. Hai scoperto che la tua amante potrebbe essere morta e che qualcuno ti ritiene responsabile. Sei devastato, ma una parte di te non può accettare che tutto questo sia vero. Stava recitando. «Avrei dovuto dirtelo prima» gli disse, cercando le parole. «Ma pensavo, stupidamente, che sarebbe stato crudele. Volevo ritrovare Bethany,
prima.» «Che cosa dice il biglietto?» Natascia attraversò il soggiorno per prendere il diario sulla scrivania. Gli allungò il foglietto. Adam lesse e rilesse le parole più volte. Fissava lo scritto come ipnotizzato. «Che cosa ti ha fatto pensare che fosse un messaggio di suicidio?» «Tu pensi che non lo sia?» «Veramente, no.» Natascia provò un grande sollievo, misto a un acuto senso di imbarazzo. Poi sentì il dubbio insinuarsi di nuovo. Ovvio che dicesse di no. «Scriveva sempre cose di questo genere. Copiava versi che le piacevano, lei stessa componeva brevi poesie.» Era convincente, bisognava ammetterlo. «Per me non significa niente.» Guardò di nuovo il foglietto e scosse la testa. «"Finalmente sarai mio." Sono sempre stato suo. Se solo mi avesse voluto.» «Ne sei proprio sicuro?» Adatn si appoggiò alla spalliera della sedia. «Tu non ti fidi di me.» «Sbaglio?» Adam prese il bicchiere e lo vuotò. «No. Come ho già detto, forse hai ragione.» «Allora dimmi chi sono I Corvi». Adam non sembrò particolarmente sorpreso o innervosito dalla domanda. «La tua società segreta?» Adam si riempì il bicchiere e bevve un lungo sorso, pulendosi la bocca con il dorso della mano. «È stata una mia idea. È il titolo di una poesia di Edgar Allan Poe. Conosci Il corvo? "Senza un nome in terra... sognando sogni che nessun mortale ha mai osato sognare." Abbiamo adottato il verso come una sorta di manifesto artistico. Sembrava riassumere quello che andavamo cercando. "Senza un nome." La nostra società segreta e il nostro lavoro dovevano restare rigorosamente anonimi. "Sognando sogni che nessun mortale ha mai osato sognare." Il giusto tocco di inquietante mistero. Fantasticavamo un futuro di fama e di fortuna. E la temerarietà del sogno ci autorizzava alla sperimentazione più sfrenata e alle fantasie sessuali più tenebrose.» Bevve un altro sorso di vino. «Tutto è cominciato all'università. Eravamo una mezza dozzina. Il nostro modello erano i Preraffaelliti, naturalmente. Prendevamo la cosa molto seriamente. Stilammo un codice di comportamento. I nuovi membri della società erano ammessi per votazione e c'erano cerimonie di iniziazione in cui scorrevano fiumi di vino. Distribuivamo biglietti d'invito con la silhouette di un corvo, ci ubria-
cavamo e fumavamo erba. Si sparse la voce sulle feste, e tutti volevano sapere chi fossimo. Solo gli invitati sapevano di noi, ma erano tenuti a mantenere il più assoluto segreto. L'idea era che ciascuno di noi convincesse le ragazze più belle a posare per tutti i membri della società, a turno. Ci prendevano gusto anche loro. Le fotografavamo nei boschi di notte, nelle rovine di castelli. Nude sulle pietre tombali, in stazioni ferroviarie deserte. Le foto erano fantastiche. Ma spesso andavamo oltre...» «I Corvi non si sono sciolti quando avete finito l'università?» «In un primo momento abbiamo perso i contatti, poi un anno fa ho incontrato per caso Jake e Alex. Li conosci, credo.» Natascia stava per dire qualcosa, ma Adam continuò. «Ci è venuta l'idea di lanciare il progetto preraffaellita e abbiamo deciso di chiamarci I Corvi. Per creare attorno a noi un po' di mistero. Una trovata pubblicitaria. Solo che... la cosa ci è sfuggita di mano.» «A causa di Bethany?» Adam annuì. «Bethany ha scelto me. Jake l'ha presa male. La voleva solo perché non poteva averla. Tra di noi c'è sempre stata una certa rivalità professionale, sana, stimolante. Ma dopo Bethany... si è trasformata in qualcosa di diverso.» Non era necessario che aggiungesse altro. «È stato Jake a farla entrare nel vostro giro, vero?» Jake che per ripicca non aveva mai detto ad Adam di sapere dove Bethany lavorava. «Mi hai mentito su come tu e Bethany vi siete conosciuti.» «No. Le ho offerto veramente un cappuccino in un bar vicino allo studio.» «Sì, ma quella non era la prima volta che la vedevi.» «L'avevo vista con Jake, quando lui la fotografava.» «E a quel punto hai deciso di non ubbidire più alle regole che voi stessi vi eravate dati. Volevi Bethany solo per te.» Adam annuì. «Lui non la lasciava in pace, veniva a casa mia, le telefonava, la seguiva...» «Pensi che sia questa la ragione per cui se n'è andata?» «No. Si era stancata di tutta la storia, ma... in un certo senso ne era lusingata. Sono certo che posare le piaceva.» Eppure, Bethany si era identificata con Lizzie Siddal. Lizzie che aveva voluto solo Rossetti, che non aveva tollerato di condividerlo con altre, che si era uccisa pensando che lui stesse con un'altra donna. Bethany aveva dovuto competere con altre ragazze per avere l'amore di Adam?
«E Alex che ruolo ha avuto in questa vicenda?» Natascia sperava che la voce che Christine aveva sentito quella sera nello studio fosse di Alex, che Adam non ne sapesse nulla. Lui si premette la punta delle dita sulle tempie. «Prima di Bethany, le mie relazioni duravano al massimo un paio di settimane. Pensavo di non essere tagliato per un rapporto monogamico. Tu hai detto che possiamo dare la colpa dei nostri problemi alle generazioni passate, a quelli che sono morti prima della nostra nascita. Non so se sia vero, ma in un certo senso sono d'accordo con te. È vero quello che si dice. Alla radice dei nostri problemi ci sono i nostri genitori. I miei litigavano sempre. Non lo sopportavo. All'inizio cercavano di non farlo davanti a me e aspettavano che andassi a letto. Per tutto il giorno vedevo le occhiate che si scambiavano, come rasoiate. Voci come sibili di serpenti. E poi le loro urla mi tenevano sveglio per ore, la notte. Sono rimasti assieme per amor mio. Avrebbero fatto meglio a separarsi.» Si interruppe, come se quei ricordi rinnovassero un dolore antico. «È come se non volessi andare oltre il primo stadio dell'innamoramento, quando si farebbe qualsiasi cosa l'uno per l'altra, e tutto sembra perfetto. Appena il rapporto cambia, e si diventa una coppia normale, che va al supermercato insieme, io comincio a guardarmi attorno. Mi è sempre successo, tranne che con Bethany. Lei era diversa, non so perché. Aveva attenzione per le piccole cose. La amavo anche quando sapevo che mi mentiva. Mi aveva detto che abitava a Chatham Place. Jake aveva scritto l'indirizzo nell'agenda dello studio. Un giorno sono andato lì per farle una sorpresa. Ma la padrona di casa mi ha detto che il suo unico inquilino era un signore di mezza età. Quando l'ho raccontato a Bethany, si è messa a ridere. Per la rabbia ho strappato la pagina dell'agenda e l'ho fatta a pezzettini davanti a lei. Ma l'episodio non ha cambiato i miei sentimenti nei suoi confronti.» Tacque per qualche istante. «Tu sai ascoltare. Scommetto che le persone finiscono sempre per aprirti il loro cuore. Avrei voluto dirti tutto sin dall'inizio, ma non potevo. Temevo che non mi avresti aiutato.» «Penso di aver trovato suo padre» disse Natascia. «Vado da lui dopodomani alle undici.» Adam la guardò stupefatto. In fondo non aveva mai pensato che ce l'avrebbe fatta. «Ho scoperto alcune cose sulla sua famiglia» disse Natascia. «La madre è morta quando Bethany era una bambina. Aveva una sorella maggiore, Charlotte, anche lei morta improvvisamente.»
«Voglio venire con te.» «La tua mostra apre tra un paio di giorni.» «Non rimane molto da fare.» «Ci sarà Jake all'inaugurazione?» «Credo di sì. Avevo deciso di lasciar perdere la mostra. Ma Bethany mi ha spinto a continuare. Quando poi se ne è andata... Non voglio più lavorare con Jake.» «Ti devo fare una domanda.» Natascia scelse le parole con cura. «Pensi che sia possibile che Jake le abbia fatto del male?» «No.» Scosse la testa lentamente. «Perché me lo chiedi?» «Io...» Non era pronta a dirgli ciò che le aveva raccontato Christine. Il giorno successivo, a casa dei Wilding, tutto si sarebbe chiarito. Se Bethany e Adam avessero ripreso la loro relazione, sarebbe stata la ragazza a decidere se e come parlargli di ciò che era accaduto tra lei e Jake. «Dopo che Bethany mi ha lasciato, una volta che non era più la mia ragazza, Jake ha smesso di interessarsi a lei» disse Adam. «Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.» Forse Christine si era sbagliata. «Tu la conosci meglio di me» disse Natascia. "E spero che tu conosca bene anche Jake." Era tardi. Adam raccolse le chiavi della macchina che aveva buttato sul tavolo. Natascia avrebbe voluto dirgli di fermarsi, ma qualcosa glielo impedì. Aprì la porta e una folata di vento gelido le tolse il respiro. «Non capivo perché fossi più determinata di me a continuare la ricerca di Bethany. È incredibile che tu abbia fatto tutto questo per un'estranea. Ho passato la vita pensando di non poter trovare una donna da amare per sempre. E poi ne incontro due contemporaneamente.» CAPITOLO 39 Il mattino seguente Natascia stampò gli appunti sul caso di Bethany. Rileggendoli, finalmente capì perché la ragazza le avesse chiesto se esistessero famiglie perseguitate da una maledizione. Il nipote di Eleanor era morto a ventun'anni. Harry e Harold Leyburn, con ogni probabilità parenti lontani, erano morti giovani. La sorella di Bethany non era arrivata ai tredici anni. Sua madre non era vissuta abbastanza per vedere la figlia più piccola andare a scuola. Una maledizione vecchio stile, oppure la sua versione medico-
scientifica? Chiamò Will. «Hai letto di Harry Leyburn, il giovane atleta morto qualche settimana fa di un attacco cardiaco?» «Non mi dire che hai una tua scriteriata teoria secondo la quale l'avrebbe ucciso una malattia ereditaria.» Will, per quanto riluttante, aveva accettato di vedere Natascia al Centro di Ricerche Genetiche, un moderno edificio di vetro e cemento armato alla periferia di Oxford. L'aveva avvertita che non le avrebbe concesso più di mezz'ora, perché doveva tornare a Cheltenham per una riunione. Si incontrarono nel grande atrio e presero l'ascensore per salire alla caffetteria del Centro. Riempirono due tazze di tè al distributore automatico. «Ho parlato con il professor Holmes» esordì Will mentre si sedevano accanto a una parete di vetro. «È uno dei più grandi specialisti di malattie cardiache ereditarie a livello mondiale, in particolare di cardiomiopatia ipertrofica.» Le passò un fascio di fogli. «Una lettura da far accapponare la pelle.» Natascia sfogliò il fascicolo. Le prime pagine mostravano una serie di diagrammi, poligoni con dentro dei punti, allineati orizzontalmente a formare file ordinatamente sovrapposte. In uno dei diagrammi i poligoni erano sparsi sul foglio, disposti alcuni verticalmente o in diagonale, altri sovrapposti gli uni agli altri. Patologia miocardica, diceva la didascalia. Seguivano immagini cardiografiche ottenute con gli ultrasuoni, ed esempi di alberi genealogici che davano un quadro, all'interno della stessa famiglia, dei membri portatori della patologia: i maschi erano rappresentati da un cerchietto, le femmine da un quadrato. I simboli retinati indicavano gli individui ammalati. Natascia disse: «Ti ascolto». «La malattia è stata individuata per la prima volta negli anni Cinquanta. Spesso non viene diagnosticata correttamente, neppure in sede di autopsia. Stando così le cose, si calcola che almeno il settanta per cento degli ammalati non sappia di essere portatore di questa patologia, che viene trasmessa ai figli. Il figlio di un genitore ammalato, padre o madre che sia, ha il cinquanta per cento delle probabilità di ereditare la malattia. Vuoi un elenco dei sintomi?» «Prosegui.» Will lesse ad alta voce. «La cardiomiopatia ereditaria è caratterizzata da un ispessimento del cuore senza una causa apparente, provocato da un'anomalia genetica. I pazienti possono accusare difficoltà di respirazione, in-
tolleranza all'esercizio fisico, oppressione al petto, dolore, svenimenti. Ma possono anche non evidenziare alcun sintomo.» Natascia osservava gli occhi di Will che scorrevano le righe. «La CME è insidiosa. A volte simula una arteriopatia coronarica, a volte si presenta come una malattia delle valvole cardiache. A volte il cuore appare normale. La malattia può evidenziarsi alla nascita oppure nell'infanzia. Talvolta è causa della nascita di bambini morti, ma generalmente il cuore appare normale nella prima età. L'ipertrofia si sviluppa perlopiù con la crescita e si manifesta di solito nella tarda adolescenza, attorno ai vent'anni.» «Che cosa dice delle morti improvvise?» Will scorse su un paio di pagine. «Ecco. "Gli adolescenti e i giovani, anche se non hanno mai manifestato sintomi di alcun genere, possono morirne improvvisamente. La CME è la causa di morte cardiaca improvvisa più comune tra i giovani atleti e tra le persone sotto i trent'anni."» «Che cure ci sono?» Will scosse il capo. «Non esiste alcuna cura che possa risolvere la malattia. Se la disfunzione è scoperta per tempo è possibile controllare il ritmo cardiaco con un pace-maker o con dei farmaci.» Voltò pagina. «Conclusioni. "Si auspica che in futuro i progressi della genetica consentano di sviluppare una terapia valida."» Will smise di leggere, posò i fogli sul tavolo e bevve il suo tè. «Come per ogni malattia ereditaria, si cominciano a utilizzare le storie familiari nella ricerca, per quantificare il rischio per i singoli individui. Si usano alberi familiari estesi per scoprire le persone a rischio e metterle in guardia. Che cosa ti fa pensare che la ragazza che stai cercando sia affetta da questa malattia?» «Penso che sia imparentata con i Leyburn.» «E sua madre e sua sorella sono morte tutte e due prematuramente, se ricordo bene. Dopotutto il padre potrebbe non avere alcuna colpa. Non ho avuto tempo di fare ulteriori verifiche sui giornali di Stratford, io...» «Non importa.» Ripeté mentalmente i sintomi di cui aveva parlato Will. «Il fidanzato di Bethany mi ha detto che le è capitato di svenire.» Will fece un breve cenno d'assenso. «Se ci hai azzeccato, allora può dirsi fortunata di averti incontrato. Come ti ho detto, molto spesso la morte è improvvisa e la diagnosi è sempre attacco cardiaco. Così i parenti continuano a non sapere che cosa abbia effettivamente causato il decesso. Quando la trovi, assicurati che vada subito a fare degli esami. È possibile che sia stato effettuato uno screening sui componenti della famiglia.»
«Vuoi dire che i dati relativi ai suoi famigliati potrebbero essere stati raccolti e catalogati? Tu non potresti...?» Will la interruppe. «No, decisamente no. I documenti medici sono assolutamente riservati.» «Ovvio, ma...» «Niente ma.» «Va bene. Messaggio ricevuto.» Natascia rimase per un attimo soprappensiero. «Che cosa dicevano i certificati di morte prima che la malattia fosse individuata?» «Stenosi subaortica. Attacco cardiaco. Arresto cardiaco. In fondo è quello di cui moriamo tutti.» Natascia pensò a Lizzie. «Quello che nell'Ottocento veniva definito malessere generale, esaurimento o debolezza, e che non consentiva di diagnosticare una vera e propria malattia, potrebbe essere riconducibile alla CME?» «È possibile, immagino.» E la bambina di Lizzie, nata morta. Natascia guardò la strada sotto di loro. Una madre spingeva una carrozzina, un vecchio attraversava sulle strisce pedonali appoggiandosi a un bastone. «Qual è la percentuale delle morti tra le persone ammalate?» «La stessa di sempre» disse Will con un sorriso disincantato. «Una morte per ogni persona.» «Grazie, Will.» Ritornarono verso l'ascensore. Natascia indicò il fascio di fogli che Will teneva sottobraccio. «Potrei averne una copia?» «Possiamo fermarci alla fotocopiatrice mentre scendiamo.» Scesero al terzo piano. «Aspettami un secondo» le disse Will. Appena le voltò le spalle, Natascia si precipitò nella direzione opposta, sbirciando dietro le porte socchiuse, alla disperata ricerca di un ufficio vuoto. Ne trovò uno. Il computer era acceso. Pregò che chi lo stava usando fosse andato a bersi un tè, e che non fosse necessaria una password per avere accesso ai dati. Fu fortunata. Nella casella dei "Dati dei pazienti" digitò "Wilding". Nessun risultato. "Leyburn". Nessun risultato. La sua fortuna si era esaurita. Stava per alzarsi quando le tornò in mente la e-mail che aveva ricevuto da Sue Mellanby, la donna che ricordava di
essere stata accompagnata da bambina sulla tomba del dottor Marshall. Digitò "Mellanby". Apparvero quattro nomi. Due del Cambridgeshire. Malattia genetica: CME. Natascia cliccò su uno dei nomi. Rachel Mellanby. Età: 22 anni. Fece scorrere lo sguardo sullo schermo, poi con il mouse indirizzò la freccia sulla casella "Membri ammalati". Premette l'invio e sullo schermo apparve un albero genealogico, simile a quelli che aveva visto sui fogli di Will, che evidenziava i membri della famiglia morti, probabilmente a causa della malattia ereditaria, e quelli che non ne erano stati colpiti. Natascia non riconobbe nessun nome, fino a quando sulla destra dello schermo non vide il nome di John Miller. Uno dei personaggi che aveva incontrato nei documenti dell'archivio di Gloucester. Era uno degli antenati dei Mellanby. Ma era anche un antenato di Bethany. Sue Mellanby le aveva parlato della vecchia madre che in gioventù aveva cercato di ricostruire l'albero genealogico della famiglia e che diceva di aver sentito parlare di una ragazzina di nome Bethany. Sue non figurava nell'albero. Ma Mellanby era un cognome piuttosto raro e la maggior parte dei membri della famiglia erano originari del Cambridgeshire. Significava semplicemente che fino a quel momento non si era ancora arrivati a lei. Di fronte a quell'albero familiare pieno di lacune e punti interrogativi, Natascia sentì il peso di una disperante corsa contro il tempo: riempire tutte le caselle, individuare tutti i membri dispersi della famiglia e metterli sull'avviso, prima che fosse troppo tardi. Will aveva ragione quando diceva che la ricerca genetica avrebbe conferito alla genealogia un'importanza scientifica del tutto nuova. I Mellanby che apparivano nell'albero erano stati colpiti da CME. Ed erano imparentati con la famiglia di Bethany. Nell'arco di una generazione cinque erano morti in età adolescenziale. Premette il tasto per uscire dal programma. Guardò furtivamente nel corridoio. Non c'era nessuno. Sgattaiolò fuori e con calma tornò all'ascensore. Will la stava aspettando con impazienza. «Ho dovuto fare un salto in bagno» disse Natascia con un sorriso. «Te la sei presa con calma.» Le passò il plico delle fotocopie. «Queste sono per te.»
«Grazie. Non disturbarti. So trovare l'uscita da sola, se hai da fare.» Will la prese sottobraccio. «Non so perché, ma mi sentirò più tranquillo sapendo di averti accompagnato fuori dal Centro.» CAPITOLO 40 Natascia dovette fermarsi a una stazione di servizio sulla strada di Stratford per fare il pieno. Mentre aspettava comprò una copia dell'«Oxford Times» e si ricordò del giornalista che l'aveva chiamata per intervistarla sulla mostra di Adam. Parcheggiò fuori dalla piccola stazione ferroviaria di Stratford-uponAvon, in attesa del treno. Sfogliò il giornale, cercando la firma di Peter Deacon. Nella pagina della cultura vide una fotografia sgranata, in bianco e nero, di Bethany nelle vesti di Ofelia, sotto il titolo «La scomparsa della modella misteriosa». La didascalia diceva: «Chi conosce questa ragazza?». «La mostra fotografica, che si aprirà domani all'Exeter College, è al momento al centro di una vivace polemica. Gli autori fanno capo a un gruppo di giovani artisti anonimi, conosciuto sotto il nome di I Corvi. La modella, Bethany Marshall, star della mostra, qualche settimana fa è scomparsa dopo un litigio con il suo fidanzato, che, per rintracciarla, ha assoldato l'investigatore privato Natascia Blake. Ad accrescere il mistero di questa scomparsa c'è il fatto che nessuno conosce la famiglia della ragazza né ha informazioni su dove possa trovarsi. Finora le ricerche non hanno dato alcun risultato.» Chi gli aveva fornito quelle notizie stupide, oltre che sbagliate, e una copia della fotografia di Bethany? Forse Jake Romilly era disposto a tutto, pur di vedere il proprio nome su un giornale. Il treno era arrivato. Natascia notò che Adam aveva fatto qualche sforzo per apparire elegante. Sbarbato di fresco, una camicia bianca ben stirata sotto la giacca nera. Si sedette in macchina accanto a lei. Natascia gli passò il giornale. Adam non lo guardò neppure. «Non sono stato io, chiaro? Angie si è offerta di farci da ufficio stampa per la mostra. È stata lei a inviare al giornale il provino di Ofelia.» Afferrò il giornale, lo strappò, lo appallottolò e andò a buttarlo in un cestino della spazzatura. «Schifezze» disse quando fu di nuovo a bordo della Alpine. «Bethany potrebbe vederlo...» «E anche la sua famiglia.» «Per fortuna tra poco li conosceremo.» Il suo sguardo era duro. «La-
sciamo perdere quella robaccia, d'accordo?» Erano in anticipo e decisero di prendere un caffè. Imboccarono Greenhill Street, passando accanto alla torre, poi svoltarono in High Street. Trovarono un caffè vicino al Nine Arch Bridge. Natascia si sentiva oppressa. Avevano deciso che sarebbe stata lei a parlare, ma non aveva idea di cosa avrebbe detto al padre di Bethany. Sperava soltanto che nel frattempo la ragazza fosse tornata a casa. Le avrebbe detto ciò che aveva scoperto sui suoi antenati, e poi sarebbe uscita di scena. Ma sentiva che non sarebbe stato tutto così semplice. Adam sfogliava impaziente una rivista. Poi si alzò per andare in bagno. Era troppo nervoso per riuscire a stare fermo. Il locale era quasi vuoto, c'era soltanto una giovane coppia accanto a loro, che beveva con calma il caffè e divideva una fetta di torta al cioccolato. Per un attimo Natascia vide se stessa e Adam come dovevano apparire dall'esterno, una coppia di innamorati che passava il fine settimana assieme. Invece fra poco avrebbero incontrato il vero amore di Adam, una normale ragazza di vent'anni, che ascoltava un cd o parlava al telefono con un'amica, mentre si metteva lo smalto sulle unghie. O forse no. Il numero 19 di Elsinor Road era una casa unifamiliare in finto stile elisabettiano, con un vialetto di ghiaia e due garage, alla periferia occidentale di Stratford. Era dipinta di bianco, con tende di pizzo alle finestre. Una Audi nuova di zecca era parcheggiata di fianco alla porta d'ingresso laccata di rosso. Il batacchio di ottone brillava come se fosse stato appena lucidato. Natascia si fece subito un'immagine dell'infanzia di Bethany, che non doveva essere stata molto diversa dalla sua. Ma la familiarità del contesto l'angosciava. Provò a immaginare la reazione di Ann e di Steven se una persona come lei, accompagnata da un giovane come Adam, si fosse presentata per discutere la loro storia familiare. Ann si sarebbe arrabbiata, di fronte a quella che avrebbe giudicato un'intrusione indebita. Da parte sua, Steven avrebbe dubitato della sincerità di Adam, anche di fronte alle palesi menzogne della figlia. «Incontrare i genitori della propria ragazza è sempre una sorta di esame» disse Adam. «Figuriamoci in questo caso, viste le circostanze...» Natascia gli sorrise cercando di infondergli coraggio. Il padre di Bethany aprì la porta. Alto, curato, sulla sessantina, l'uomo era vestito con eleganza. Pantaloni
di flanella grigio scuro e maglione blu. «Natascia Blake» si presentò tendendogli la mano. «Andrew Wilding.» Adam a sua volta gli tese la mano: «Adam Mason». Andrew Wilding aggrottò leggermente le sopracciglia, sorpreso. Attraverso il corridoio coperto di moquette blu furono introdotti in un salotto molto ordinato, con un divano e due poltrone di velluto rosa, tappeti beige e pareti color crema decorate da acquerelli con mulini a vento, castelli e fiumi. Le poltrone erano disposte ai lati di un caminetto in cui ardevano delle fiamme finte. Andrew Wilding li fece accomodare. «Pensavo che fossero solo le famiglie aristocratiche ad assoldare genealogisti per la ricerca dei propri antenati.» Natascia sorrise imbarazzata. Wilding andò in cucina a mettere su l'acqua per il tè prima che lei avesse modo di cominciare a spiegare. «Deve essere stupendo vivere a Stratford» disse Adam, seduto rigidamente sul bordo della poltrona, quando Wilding ritornò nel salotto. Volendo rompere il ghiaccio, non aveva trovato nulla di meglio che un commento banale sulla cittadina di Shakespeare, proprio come se fosse venuto per essere presentato ai genitori di Bethany. «Sono così abituato a Stratford che do per scontata la sua eccezionaiità. Ho diretto lo Swan Theatre per sette anni.» Natascia cercò di conciliare le due immagini. Il direttore teatrale e il borghese di mezza età che viveva in quella casa ordinata, dall'arredamento convenzionale. Ma la gente cambiava nel corso della vita, anche al punto di diventare irriconoscibile. Come far coincidere quel conservatore riservato con l'uomo sospettato di aver ucciso sua moglie? Forse l'aspetto degli assassini non era diverso da quello di chiunque altro. «Ho conosciuto mia moglie Elaine al teatro. Faceva la costumista.» Wilding guardò gli acquerelli e una fotografia posata sullo stereo vicino alla finestra. «Scusatemi un minuto. Sento il fischio del bollitore.» Adam si alzò per guardare la fotografia. Una donna giovane, con lunghi capelli chiari raccolti da un nastro nero in una coda di cavallo, teneva in grembo una bambina ridente di circa due anni, vestita con un costume teatrale. Andrew Wilding ritornò in salotto portando un vassoio con tazze di porcellana e un piatto di biscotti. «È sua figlia?» chiese Adam tenendo in mano la fotografia. Un'ombra passò sul viso di Wilding. «Sì, Bethany. Le piaceva farsi foto-
grafare.» «Lo so» disse Adam. Natascia lanciò un'occhiata a Andrew Wilding. «Lei conosce Bethany?» chiese incredulo. «Sì.» Il padrone di casa offrì il tè e i biscotti. «Immagino che lei si interessi alla famiglia di mia moglie.» Natascia si rese conto che Wilding aveva scambiato Adam per un suo collaboratore che aveva conosciuto Bethany nel corso della ricerca. Adam la guardava, aspettando che fosse lei a chiarire la situazione. «Per la verità, Adam mi ha chiesto di aiutarlo a rimettersi in contatto con Bethany. Sua figlia gli ha lasciato un antico diario, che lui ritiene essere appartenuto a una vostra antenata.» Natascia fu sorpresa dal fatto che Andrew Wilding non si mostrasse per nulla turbato da quella notizia. «Il diario apparteneva alla madre di Bethany, ma non credo che Elaine ne conoscesse la storia. Mia moglie è morta quando Bethany era ancora molto piccola.» Rivolgendosi ad Adam chiese: «Non glielo ha detto, vero?». Adam scosse la testa. «No.» «È già tanto che le abbia dato questo indirizzo.» «Non è stata Bethany a darmi questo indirizzo. L'ha rintracciato Natascia attraverso il diario.» Andrew Wilding la guardò ammirato: «Non avrei mai pensato... Interessante!». Poi il suo sguardo corrucciato tornò a posarsi su Adam. «Bethany portava sempre il diario con sé. Non posso credere che l'abbia lasciato a qualcun altro. Può dirmi come vi siete conosciuti?» «Sono un fotografo. Io... le ho fatto delle fotografie...» «Lei è molto bravo.» Un sorriso di sincero apprezzamento si dipinse sul viso di Wilding. «Me ne ha spedite alcune. Ho fatto incorniciare quella in cui Bethany indossa un lungo abito bianco. La tengo in camera da letto. È la più bella, anche se sono tutte di grande qualità. Lei ha talento.» «Grazie. Sono felice che le piacciano.» «Naturalmente ho chiesto a Bethany di lei, ma è stata molto evasiva. Il che mi ha fatto subito pensare che ci fosse qualcosa tra di voi.» «Io amo sua figlia» disse Adam con semplicità. «Capisco.» La voce di Adam era un sussurro. «È qui?» Andrew Wilding scosse la testa. «Ma lei sa dove si trova?»
Negli occhi dell'uomo apparve un'espressione d'angoscia. «No, purtroppo.» Natascia era preparata perfino a sentirsi dire che Bethany era morta. Ma davanti alle risposte del padre non sapeva se provare sollievo o una preoccupazione ancora maggiore. «Signor Wilding, perché ha detto che Adam poteva ritenersi fortunato che Bethany gli avesse dato questo indirizzo?» L'uomo tenne lo sguardo fisso sulla sua tazza di tè. «Non voglio sembrarle indiscreta» continuò Natascia. «Ma siamo arrivati qui da molto lontano. Non sto parlando di chilometri, ma di generazioni.» «Non saprei da dove cominciare» disse Wilding. «Da sua moglie?» suggerì Natascia con dolcezza. Andrew Wilding si rivolse ad Adam. «Bethany non avrebbe mai dimenticato il diario. Per lei ha un significato speciale. Certamente l'ha lasciato a lei di proposito. Perciò penso che abbia il diritto di sapere.» Si portò la mano alla bocca e tossì. «Mia moglie è morta a trentatré anni. Bethany ne aveva appena compiuti quattro. Era giugno. Avevamo preso qualche giorno di vacanza. La nostra prima vacanza da...» Si interruppe e il suo sguardo si perse nel vuoto. «Bethany aveva una sorella più grande, Charlotte...» Ancora una volta lasciò la frase in sospeso. «Elaine e io avevamo avuto una piccola discussione su qualcosa di irrilevante. Dopo la morte di Charlotte, le cose tra noi si erano fatte un po' difficili. Elaine voleva fare il bagno nel fiume. Bethany era nei paraggi a raccogliere fiori. Lo ricordo perché quando mi sono precipitato in acqua per aiutare Elaine... sulla riva ho visto Bethany che teneva in mano un mazzetto di margherite e botton d'oro.» Natascia sentì che gli tremava la voce. Wilding parlava più a se stesso che a loro due. «Naturalmente intervenne la polizia. Rimasi in stato di fermo per qualche giorno. Mi parvero mesi. Interrogatori a non finire. Credevo di impazzire. Rivangarono la vicenda di Charlotte. Che cosa potevo dire? Mia figlia stava giocando a tennis, e un attimo dopo l'ho trovata stesa per terra, immobile. Mia moglie stava nuotando: è morta tra le mie braccia. Una coincidenza sospetta. Due morti improvvise in una sola famiglia.» Fece un lungo sospiro. «Ma alla fine hanno dovuto rilasciarmi. Alla fine mi hanno lasciato in pace.» Natascia ebbe l'impressione che fosse la prima volta che Wilding ne parlava, e che ormai non sapesse come fermarsi. «A volte vorrei che mi aves-
sero chiuso in prigione, lontano dagli sguardi diffidenti, dalle tende che si sollevavano furtivamente quando passavo per strada. Mi sono rifiutato di cambiare casa. Troppi ricordi buoni, insieme a quelli cattivi. La gente alla fine ha dimenticato, ma Bethany... lei no. Le ho sempre detto la verità, non le ho mai nascosto niente. Eppure spesso la sorprendo a guardarmi con odio. Peggio, ha paura di me. Provo a immaginare la scena attraverso i suoi occhi. Sua madre nell'acqua e io accanto a lei che grido terrorizzato, cercando di trascinarla a riva, come se stessi lottando con lei, come se l'avessi uccisa io. A volte penso che sia colpa mia.» Disse l'ultima frase in un soffio. Poi proseguì con voce più ferma. «Naturalmente ci fu un'autopsia e il responso fu di arresto cardiaco. Come per Charlotte. E il fratello di Elaine, Jack, dieci anni prima. Elaine non fumava e beveva poco. Charlotte aveva fatto parte della squadra di atletica della scuola. Avrebbero dovuto vivere almeno fino a ottant'anni.» Natascia posò una mano su quella che l'uomo aveva abbandonato sul bracciolo della poltrona. «Signor Wilding, credo di sapere perché Elaine e sua figlia sono morte.» La guardò stupefatto, poi scosse la testa, come per scacciare la confusione che la ingombrava. «Come è possibile che lei...?» «Conosce Harry Leyburn?» Wilding sospirò. «Poco. È lontano parente di Elaine. Bethany e io abbiamo seguito i suoi successi atletici sui giornali, una volta abbiamo assistito a una sua gara e alla fine siamo andati a salutarlo. Questo è tutto.» «Lei sa che è morto?» «Sì.» «Penso che soffrisse di una malattia cardiaca ereditaria. Come Elaine.» Natascia deglutì. «Si possono prendere delle precauzioni per tenere sotto controllo la malattia. La cosa importante è diagnosticarla per tempo.» Gli riferì ciò che aveva saputo da Will e le informazioni che aveva scoperto nel database. Lo sguardo di Wilding era pieno di angoscia. «Signor Wilding, spero che lei non pensi che abbiamo sbagliato a informarla di...» Afferrò la mano di Natascia tra le sue. «Sbagliato?» La sua voce si spezzò. Le lasciò la mano e rovistò nella tasca alla ricerca del fazzoletto. Si soffiò il naso e si asciugò gli occhi. «La cosa più terribile era non sapere perché, non poter fare niente... Penso che Elaine fosse ossessionata da quello che era successo al fratello. Aveva paura di mettere al mondo dei
figli perché, diceva, che non si sa mai che cosa gli puoi trasmettere. E a Bethany, la madre ha trasmesso paura. Paura e rabbia. È terrorizzata all'idea di una morte improvvisa. È terrorizzata all'idea che suo padre sia un assassino. Non ha mai detto una parola, ma glielo leggo negli occhi.» Cercò di nuovo il fazzoletto. «Bethany ha mai fatto degli esami clinici?» La voce di Adam era rauca. «È sempre stata fragile. Prende facilmente il raffreddore e talvolta si lamenta di dolori al petto. Un paio di volte è svenuta. Pensavo che la causa fosse un po' di stanchezza, lo stress per gli esami. Né Charlotte, né Elaine...» Si prese la testa tra le mani. Poi si riprese, mise una zolletta di zucchero nel tè e mescolò lentamente, facendo tintinnare il cucchiaino nella tazza. «Bethany ha fatto qualche elettrocardiogramma e angiogramma, ma non è stato rilevato nulla di anormale.» Alzò gli occhi su Natascia. «Sono stato io a suggerirle di fare una ricerca sui suoi antenati. Pensavo che se avesse verificato che erano vissuti fino in tarda età, si sarebbe tranquillizzata. Per questo non mi ero sorpreso quando lei ha telefonato.» «Bethany mi ha contattato ma non ho ricevuto da lei un incarico preciso.» Wilding annuì e riprese a parlare con foga. «Paura di sapere, credo.» Lasciò cadere una seconda zolletta di zucchero nel tè e si rimise a mescolare come se si fosse dimenticato di averlo già fatto. «Rimprovera a sua madre di averla lasciata tanto presto. Ho cercato di convincerla che vivere una vita breve è sempre meglio che non vivere affatto. Che perdere una persona amata è meglio che non aver amato mai. Il guaio è che nemmeno io ne sono del tutto convinto. L'ho assicurata che avrei sposato sua madre anche sapendo che l'avrei persa così presto. Ma lei non mi ha mai creduto. Talvolta, che Dio mi perdoni, non ci credo neanch'io. Dovetti lasciare il mio lavoro al teatro, cercarmi un impiego con orari decenti. Ho finito col dirigere un ufficio invece di un teatro. Ho vissuto solo per Bethany. Una scelta che si è trasformata in un peso terribile per lei. Lo sarebbe stato per chiunque. Ho cercato di non lasciar trapelare i miei sentimenti, ma lei li ha intuiti. Ha giurato che non avrebbe mai permesso a qualcuno di innamorarsi di lei. Ha mantenuto questo impegno con determinazione.» Si rivolse ad Adam: «Il ragazzo che Bethany aveva al liceo mi ha scritto lunghe lettere per mesi, dopo che lei si è trasferita a Londra senza lasciare un indirizzo. Non sono mai riuscito a capire perché Bethany non gli abbia detto che aveva incontrato qualcun altro. Ogni volta che cerco di parlarle
di rapporti sentimentali lei si chiude a riccio. Non è facile per un uomo solo allevare una ragazza». Sorrise stancamente. «Ho persino imparato a cucinare e a interessarmi di moda. Ma non basta. Sapevo che un giorno si sarebbe innamorata e mi preoccupavo di quale sarebbe stata la sua reazione. Non mi ha raccontato di lei, Adam, ma io ho avuto subito la sensazione che tra voi ci fosse qualcosa di speciale...» Natascia ascoltava con crescente disagio. «Ha idea di dove possa trovarla?» chiese Adam. Wilding scosse la testa. «Non desidero altro che vederla felice, mi creda. Ma è più di un mese che non la sento. So che ha lasciato l'appartamento che aveva affittato a Highgate. Da quando se ne è andata di casa si fa viva più raramente. Se davvero si è innamorata, questo potrebbe spiegare la sua sparizione. Forse vuole soltanto un po' di tempo per riflettere. Non sarebbe la prima volta che agisce così. Prima o poi riceverò una cartolina o una telefonata da qualche luogo sperduto, oppure si presenterà a casa nel cuore della notte, chiedendo un bagno caldo o un pasto decente. È fatta così.» Rivolgendosi a Natascia continuò: «Ho sempre cercato di lasciarla libera di scegliere la vita che voleva». Natascia lesse una domanda negli occhi di Adam, ma sapeva che per il momento non dovevano aggiungere altro. «Immagino che quando Bethany tornerà, lei vorrà saperlo» disse Wilding ad Adam. «Non posso promettere niente. È possibile che non voglia neanche incontrarla. È ostinata come sua madre.» Se le cose stavano veramente come diceva il padre, Natascia non avrebbe più avuto motivo di interessarsi alla vicenda, forse non avrebbe nemmeno saputo come sarebbe andata a finire. Anche se, prima di chiudere con quella storia, doveva parlare con Jake Romilly. «Signor Wilding, le posso assicurare che molti degli antenati di Bethany hanno vissuto sino a tarda età. Potrei inviarle copie dei certificati da mostrare a, Bethany.» «Davvero? Sarebbe veramente una cosa gentile da parte sua.» Il signor Wilding non aveva bisogno di essere convinto di quanto il passato potesse influenzare il presente. «Vorrei farle una domanda che potrà sembrarle strana. La nonna di Bethany, quella che le ha regalato il diario, le ha per caso lasciato qualcos'altro?» «Cianfrusaglie. È tutto in soffitta. May è morta ormai da dieci anni, ma non ho mai trovato il tempo o la voglia di mettere ordine tra le cose che ha
lasciato.» «Le spiacerebbe se dessi un'occhiata?» CAPITOLO 41 Andrew Wilding la accompagnò al piano superiore, aprì una botola nel soffitto e ne estrasse una scala retrattile. «L'interruttore è sul pavimento, a destra.» Quando vide accendersi la luce le disse: «La lascio sola». «Grazie.» La soffitta era uno spazio rettangolare con travi a vista e pannelli isolanti sul soffitto. C'era un lucernario coperto di ragnatele. Era difficile camminare tra pile di scatoloni, valigie, borse di plastica e sacchi di abiti e di coperte. Vide decorazioni natalizie, due bauli, un piccolo cassettone dipinto. Il cassetto in alto era semiaperto. All'interno c'erano gioielli, pesanti spille e collane di granati. C'era un vecchio giradischi, una pila di lp, scatole da scarpe piene di biglietti di auguri, cartoline, lettere. Ciò che restava di una vita. Di molte vite. In un angolo erano impilati alcuni album di fotografie. Natascia ne prese uno e lo sfogliò. Immagini in bianco e nero, infilate in triangolini di carta nera, con didascalie in inchiostro bianco. Una donna in pantaloni e maglione di lana, con capelli biondi mossi teneva per mano una bambina. Una ragazzina con un cono gelato fra le mani e un cappello di paglia sulla testa, a cavallo di un asinelio. Nel secondo album la bambina era cresciuta, e nel successivo ancora indossava l'uniforme della scuola, calzini bianchi e cravatta. In fondo all'album c'erano le fotografie di una giovane donna. Una delle didascalie diceva: «Elaine, il giorno del suo diciottesimo compleanno». In ginocchio sul pavimento, Natascia aprì uno dei bauli. Era colmo di vecchi indumenti. C'erano abiti da sera con lustrini, una stola nera, sandali dorati, una tiara di strass degli anni Venti. Sul fondo del baule c'erano due scatole, una conteneva cartoline di vedute della Scozia datate 1987 e 1989, la seconda, invece, cartoline della valle della Loira. Tutte indirizzate alla nonna e firmate «Andrew e Bethany». Natascia aprì l'altro baule, più grande del primo. Era pieno di giocattoli ordinatamente imballati, di disegni, di blocchi per costruzioni in legno. C'era un'arca con coppie di leoni, di cigni e di fenicotteri, dalla vernice qua e là scrostata, una sciarpa fatta a maglia con i colori dell'arcobaleno, vestitini per bambole cuciti a mano con grande cura, una
racchetta da tennis, un paio di pattini arrugginiti. Bambole di pezza e puzzle con l'immagine di un mulino ad acqua, di re Artù e Ginevra e di Lizzie Siddal nell'Ofelia di Millais. E sotto altri giocattoli, altri disegni. Decine di fogli scarabocchiati con matite colorate. Erano tutti puntigliosamente datati sul retro. Risalivano agli anni Cinquanta. Dunque erano di Elaine. Poi venivano disegni più maturi, eseguiti da una mano esperta. May aveva conservato ogni foglietto sul quale sua figlia aveva scritto, disegnato o dipinto qualcosa. Natascia chiuse il coperchio e rivolse la sua attenzione a una delle valigie rigonfie, dove May aveva conservato gli abiti di sua figlia. Tutte le madri si comportavano così? Ann certamente no. Selezionava gli oggetti da conservare. Era come se May, inconsciamente, avesse saputo che avrebbe perso sua figlia prematuramente. Ma in quella soffitta non c'era niente che fosse appartenuto a Jeanette o a Eleanor. Natascia era già sulla scala, quando vide una porta con una targhetta in ceramica decorata di fiori rosa che diceva: «La stanza di Bethany». Entrò in una piccola stanza con un letto in abete coperto da una trapunta bianca e lilla, e sulle pareti le riproduzioni ormai sbiadite di Ofelia e di Amore primaverile di Arthur Hughes. C'erano una collezione di conchiglie, una serie di smalti iridescenti per unghie, una fotografia di Bethany con un mantello di ermellino e una corona in testa, forse scattata durante una recita scolastica. Avrebbe potuto essere la stanza di Natascia a casa dei suoi genitori. Qualche minuto dopo, Adam fu visibilmente contento di vedere Natascia rientrare in salotto. Evidentemente la conversazione con Wilding era stata faticosa. «Trovato qualcosa?» chiese quest'ultimo. «Non so esattamente che cosa sperassi di trovare.» «Forse ho io qualcosa che le può interessare.» Aprì il cassetto di uno scrittoio e tornò con un medaglione d'argento appeso a una catenella. Sul coperchio erano incisi dei fiori. Un gioiello vittoriano. Natascia lo aprì. Nella parte destra era custodito un ricciolo di capelli rosso rame legati da un nastrino di seta nera. «May diceva che era appartenuto alla sua bisavola o trisavola, non ricordo. Forse l'autrice del diario.»
Natascia non ricordava se nel diario Jeanette avesse mai fatto cenno al colore dei suoi capelli. Sfiorò il ricciolo con la punta delle dita. Immaginò la ragazza che aveva spazzolato quei riccioli, davanti allo specchio, a lume di candela, prima di andare a letto. La domenica forse li aveva raccolti in un cappellino. Li aveva ripartiti in due trecce e ornati di fiori per andare all'opera e per incontrare il signor Brown. Poi si era ammalata, e qualcuno aveva accarezzato quelle trecce sparse sul cuscino. Infine era morta e quella stessa persona, forse Eleanor, aveva preso un paio di forbici e con le lacrime agli occhi aveva tagliato una ciocca, che aveva gelosamente custodito nel ciondolo. Natascia se ne separò a fatica, restituendolo ad Andrew Wilding. «Grazie di avermelo mostrato.» «Grazie a lei.» La salutò con un bacio e rimase alla finestra a guardarli mentre si allontanavano. Una figura solitaria sullo sfondo di tendine di pizzo. «Non so come ringraziarti» le disse Adam mentre in macchina si avviavano alla stazione di Stratford. La sua voce era formale e distante. Natascia teneva gli occhi inchiodati alla strada. «Mi sarebbe piaciuto ritrovarla.» Si fece forza. «Senti, Adam, c'è qualcosa che...» Lui non la udì. «Il biglietto che Bethany ha lasciato... Pensi che abbia qualcosa a che fare con la morte della madre? Che Bethany abbia voluto...?» «No.» Erano arrivati alla stazione. Natascia provava un profondo turbamento. Non gli aveva riferito ciò che aveva appreso da Christine. Forse era meglio così. Avrebbe fatto ciò che rimaneva da fare da sola. Non aveva bisogno dell'aiuto di Adam, né desiderava che si intromettesse, magari affrontando Jake Romilly. Fermò la macchina. «Ti auguro ogni fortuna» gli disse. Sentiva il viso irrigidito, incapace di sciogliersi in un sorriso. «Spero che la mostra sia un successo.» La portiera dalla parte di Adam era aperta. Lui, piegandosi sulla spalliera, raccolse le sue riviste dal sedile posteriore. Si risedette e la baciò sulle labbra, tenendole una mano dietro la testa. Natascia sentì un dolore breve, ma acuto, attraversarle la fronte nel momento in cui Adam liberò le dita dal groviglio dei suoi capelli. «Buona fortuna anche a te» le augurò. Natascia rimase seduta in macchina ad ascoltare lo sferragliare del treno in arrivo, poi lo stesso rumore le giunse sempre più lontano. Come un ri-
cordo del passato. CAPITOLO 42 Natascia riaccese il cellulare mentre guidava. Trovò un messaggio di Mary. «Niente di nuovo su questo fronte. Tu che cosa combini?» La richiamò per un rapido aggiornamento. «Povera bambina.» La voce di Mary era fievole. Natascia si pentì subito di aver aperto bocca senza riflettere. La storia di una madre che muore lasciando la sua bambina non era il genere di racconto che l'amica poteva apprezzare, nelle sue condizioni. «Dunque il caso è chiuso» sospirò Mary. Il lavoro era finito, ma il caso non era risolto. «Non proprio. Ho promesso al padre che gli avrei inviato informazioni sugli antenati di Bethany.» «Posso procurartele io.» «Non dovresti stare a riposo?» Mary si lamentò: «Sei come James e come mia madre. Continua a telefonare, mi sfinisce di raccomandazioni». «È carina a preoccuparsi per te.» «Vuoi dire per il bambino. Aspetta un nipotino dal momento in cui io sono stata concepita. Non ti so dire quante volte mi abbia detto di aver conservato il mio vestito del battesimo.» Natascia pensò che Ann non aveva mai fatto cenno a matrimoni o nipoti. Non sapeva se fosse il caso di dispiacersene, visto che al momento non aveva neppure un fidanzato. «Se pensi di farcela, potresti procurarmi i certificati di morte dei genitori di Elaine e dei suoi nonni, almeno.» «Contaci.» Adam le aveva detto che Bethany amava viaggiare, perché in viaggio le giornate sembravano più lunghe. Rifiutava di parlare del futuro. Non aveva tempo per i sogni. Trovava eccitante essere inseguita da Jake Romilly. Perché voleva vivere una vita piena, aprirsi al maggior numero di esperienze possibile. Si presentava con un falso nome in modo da essere libera di sparire quando desiderava. Non solo, un nome diverso le permetteva di sentirsi una persona diversa e di sfuggire alla maledizione della sua famiglia. Ho un cuore inaffidabile. Quando aveva sentito che Adam stava per innamorarsi, era sparita, perché temeva di finire come sua madre, o sua sorella, o come Harry Leyburn. Forse s'immaginava addirittura capace di compiere un delitto, come ritene-
va, a torto, avesse fatto suo padre. Si era fissata sul personaggio di Lizzie Siddal, la tragica eroina suicida. Sua madre era morta mentre nuotava nel fiume e lei aveva voluto posare nelle vesti di Ofelia. Alla fine, Bethany era arrivata a considerare la morte non come una minaccia, bensì come una risposta, una via d'uscita. Natascia decise di tornare a casa passando da Oxford. Nello studio non c'erano segni di vita e l'ufficio degli architetti era chiuso per il fine settimana. Per non insospettirlo, non aveva chiesto ad Adam l'indirizzo di Jake. Avrebbe dovuto farselo dare da Christine lunedì mattina, come prima cosa. Casa. Natascia infilò la chiave nella toppa e scoprì che la porta era aperta. Si impose di rimanere calma. Se Jake Romilly fosse tornato le avrebbe risparmiato il disturbo di scoprire dove trovarlo. Entrò. Boris non venne a darle il benvenuto. L'aria era calda. Natascia sentì odore di legna bruciata. Dal soggiorno le giunse lo scoppiettio del fuoco. Si precipitò nella stanza. Il camino era acceso, Boris era placidamente sdraiato davanti al fuoco e Marcus era seduto in poltrona, intento a leggere Il sogno preraffaellita, come se non si fosse mai allontanato da Orchard End. Natascia sentì le lacrime salirle agli occhi. Marcus chiuse il libro. «Scusa se ho fatto come se fossi a casa mia, ma fuori si muore dal freddo.» Si alzò e Natascia volò tra le sue braccia. Non c'erano parole per dirgli quanto fosse felice di rivederlo. Dalla cucina si diffondeva per la casa un delizioso profumo di arrosto. «Ho pensato che saresti tornata affamata» le disse guardandola negli occhi. «Niente di speciale. Soltanto quello che sono riuscito a racimolare nella tua dispensa sguarnita.» Marcus le propose di fare una passeggiata prima di cena. Avrebbero avuto luce ancora per un paio d'ore. Salirono sull'Alpine. «Strano nome, Fish Hill» disse Marcus mentre cercavano di riprendere fiato dopo la salita. «Senza un lago, un fiume o il mare in vista.» Era un posto affascinante, un tempo sepolto sotto l'oceano. Natascia gli spiegò che il nome derivava dal fatto che in una cava ora dismessa, vicino alla sommità della collina, era stato trovato il fossile di un pesce. Anche il calcare su cui camminavano era pieno di conchiglie fossili. «Ci troviamo a duecentocinquanta metri sul livello del mare, perciò non fa meraviglia che
i pesci...» Marcus scoppiò a ridere. «...siano pietrificati dallo spavento.» Rimasero in silenzio. Natascia continuava a osservarlo con la coda dell'occhio. Le sarebbe piaciuto sapere che cosa pensava, ma era felice anche solo della sua presenza. Non aveva mai visto i jeans blu scuro e il pesante pullover marrone che indossava. La giacca di camoscio, invece, un tempo era stata appesa nel suo armadio. Marcus inspirò a lungo l'aria gelida, tenendo le mani allacciate dietro la schiena, mentre, come il capitano di una nave, scandagliava con i suoi occhi scuri il paesaggio, che Natascia sentiva di conoscere meglio di quanto non conoscesse se stessa. Era come se gli antichi campi e i muretti a secco fossero stati creati assieme alle colline e alle vallate del Severn e dell'Avon. Senza tempo, carichi di mistero e di storia. A pochi chilometri da Snowshill gli archeologi avevano trovato le ossa di un guerriero morto tremila anni prima. Dovunque nella zona c'erano testimonianze della presenza celtica e a pochi passi da dove si trovavano era stato individuato l'incrocio degli antichi percorsi che correvano lungo la dorsale delle colline. «Stando qui,» disse Marcus «sembra possibile ritornare al passato, tanto lo senti vicino. Pensi che sia un'illusione?» Natascia sapeva di quale passato Marcus stesse parlando. Ma in quel momento non se la sentiva di affrontare l'argomento. Preferì fingere di non aver capito. «Ho fatto il calcolo» gli disse. «Mia nonna ricordava il funerale della regina Vittoria. I suoi bisnonni erano nati al tempo della Rivoluzione Francese. Se torni indietro di novanta generazioni ti ritrovi all'epoca di Gesù. Visto così il tempo si restringe, non trovi?» Marcus si fece scorrere le dita nella frangia scompigliata dal vento. «Eppure un mese può sembrare un'eternità.» Ripresero a camminare e Marcus fece scivolare la sua mano in quella di Natascia. Si trovavano esattamente nel luogo dove erano venuti il primo fine settimana che avevano trascorso assieme. Il passato, il presente e il futuro si confondevano. Allora si erano portati un thermos di caffè che avevano bevuto passandosi l'unica tazza, seduti al riparo di un muro di pietra coperto di licheni. Dal cielo arrivavano gli strepiti lamentosi delle pavoncelle e i trilli degli storni.
Giù nella valle due ragazzi facevano volare aquiloni variopinti: un uccello del paradiso e una nave spaziale. «Vuoi dei figli?» le aveva chiesto Marcus. «Qui, adesso?» Lui aveva sorriso. «Sto parlando seriamente.» L'aveva conosciuto cinque giorni prima ed era solo la seconda volta che si vedevano, eppure quella domanda le era sembrata del tutto naturale. «Sì» aveva risposto, mentre i suoi pensieri volavano più in alto degli aquiloni, sognando vacanze con castelli di sabbia sulla spiaggia e alberi di Natale. «La mia preoccupazione,» gli aveva detto sulla via del ritorno «è che se avessi dei figli potrei...» Spesso un bambino che aveva subito violenza diventava un uomo violento a sua volta. E chi era stato abbandonato? «Sono sicuro che faresti qualsiasi cosa per avere con i tuoi figli il rapporto che a te è mancato.» Marcus la liberava dalle paure, dai fantasmi, permettendole di dormire bene la notte. «Se avessi una bambina, come la chiameresti?» «Catherine.» Lui l'aveva guardata sorpreso, come se quel nome fosse una rivelazione. Aveva strappato dei fili d'erba ai suoi piedi e li aveva gettati in aria come per determinare la direzione del vento. «Perché?» «È il nome di mia madre. È regale, forte. Caterina d'Aragona, Caterina la Grande. Un nome sia inglese sia russo. Mi sembra appropriato.» La voce di Marcus la riportò al presente: «Katie mi ha raccontato del vostro incontro. Mi spiace di non essere riuscito a presentarvi prima». «Sono io che dovrei chiederti scusa.» «Scuse accolte.» Ma forse ormai troppe parole erano state dette e fraintese... Tornarono al cottage. Natascia si occupò della cena e Marcus del ramino. Come ai vecchi tempi. Nel momento in cui posava il piatto dell'arrosto sulla tavola, vide che Marcus aveva disposto la sua corrispondenza in una pila ordinata. Notò una busta imbottita, ma la ignorò. Non era il momento. Finita la cena portarono la bottiglia di vino in soggiorno. Nel camino il fuoco ardeva vigoroso. Si sedettero sul tappeto e rimasero ammaliati dalle fiamme. Come ai vecchi tempi. «Vuoi che ti parli della mia famiglia?» le chiese prendendole la mano.
Le aprì il palmo, osservandolo come avrebbe fatto una chiromante e vi depose qualcosa, poi la richiuse nascondendo l'oggetto all'interno. Natascia aprì le dita e vide un cammeo in un castone d'oro. «È l'autoritratto di mia nonna Catherine. Era un'artista con un forte interesse per il passato.» Proprio come lui. «Si specializzò in una tecnica che non era più di moda ai suoi tempi. Nel Settecento la silhouette era il modo più facile e più a buon mercato per avere un'immagine dei propri cari. Una sorta di ritratto a olio dei poveri. Finché non si è affermata la fotografia.» Abbandonata tra le braccia di Marcus, Natascia pensava all'ironia della propria scelta professionale: ricostruire alberi genealogici, mentre lei stessa non avrebbe mai potuto risalire all'identità dei propri antenati. Mentre Marcus la baciava, slacciando i bottoni della sua camicetta, avvolgendole i seni nei palmi delle mani, facendole scorrere le dita lungo la spina dorsale, provò un senso di tristezza. Sentiva che per lui era soltanto un esorcismo, un modo per liberarsi definitivamente di lei. La teneva stretta a sé, ma nello stesso tempo la respingeva. Non poté impedirsi di pensare che era tornato soltanto per concludere il loro rapporto in modo elegante. Per voltare pagina e passare ad altro. Quando si separarono, sentì il sudore di lui che le si asciugava sulla pelle, dandole brividi di freddo. Per un istante le balenò nella mente il volto di Adam. Si svegliò alle sette e automaticamente stese il braccio per cercarlo. Si era già alzato. Le portò il caffè a letto come aveva sempre fatto. Solo che questa volta si era già lavato e vestito. Le disse che era in partenza per il Canada con un volo alle quattro del pomeriggio. «Mi raccomando, stai bene.» A fatica Natascia trovò la voce per dirgli: «Anche tu». «Ciao.» Il nodo che le si formò in gola le impedì di rispondere. Dalla finestra della camera da letto lo vide salire in macchina e partire. Si chiese se, dopo averle detto addio nel modo che aveva scelto, si sentisse meglio. Andò a lavare le tazze del caffè. Non riuscì a lavare quella da cui aveva bevuto Marcus. La mise da parte e non pensò più a nulla. CAPITOLO 43
Natascia posò la posta sulla scrivania e aprì la busta imbottita. All'interno trovò una seconda busta, marrone, e un foglio bianco con l'intestazione del Saint Mary's Hospital di Norwich. Attraverso la lente deformante delle lacrime il logo dell'ospedale le fluttuò davanti agli occhi. La scrittura era talmente inclinata da essere quasi orizzontale, praticamente illeggibile. Una scrittura da medico. Cara Natascia, ho avuto il suo indirizzo da Nigel Moore, che qualche tempo fa ha cercato di contattarla senza riuscirci. Ora ci provo io. Ho conosciuto Nigel quando eravamo entrambi tirocinanti a Edimburgo. Mi ha rintracciato perché sono un discendente di John Marshall, il chirurgo che, a quanto ho saputo, è oggetto di una sua ricerca. Il figlio di John Marshall, anche lui di nome John, era il mio bisnonno. Il mondo è piccolo e quello dei medici è ancora più piccolo. Come vede, ho seguito le orme dei miei antenati. Spero che la lettera che allego possa interessarle. Fu inviata al mio bisnonno da sua sorella, he sarei molto grato se potesse illuminarmi circa il suo significato, o meglio circa l'identità della misteriosa signora di cui si parla. L'altro foglietto mi è stato tramandato assieme alla lettera. Non so assolutamente che senso possa avere. Spero che vorrà essere così gentile da rispondermi. Non c'è alcuna fretta. Cordiali saluti, John Marshall. P.S. Recentemente ho ricevuto una mail da una signora di Cambridge che sta facendo, anche lei, una ricerca sulla nostra famiglia (mi vergogno di non aver ancora trovato il tempo di risponderle). Si chiama Sue Mellanby. Sarei felice di metterla in contatto con lei, se pensa che possa esserle di aiuto. Natascia aprì la busta piccola. Era una lettera di due pagine. Dalla calligrafia capì immediatamente che era stata scritta dall'autrice del diario, Jeanette. La scrittura tuttavia era un po' tremolante, come se la mano che reggeva la penna fosse stata malferma.
15 novembre 1872 Mio caro fratello, temo che dovrai assumerti una responsabilità che ho sempre sperato di risparmiarti. Mi limiterò a raccontarti i fatti, certa che saprai prendere la decisione più giusta, una volta che io non ci sarò più. Si tratta della nostra piccola, cara, Eleanor. Mi sono sempre stupita del fatto che voi uomini ci chiamiate il sesso debole, quando spesso basta uno sguardo perché vi ritroviate alla nostra mercé. Non sono la sola a credere che una delle pazienti di papà abbia gettato un sorta di maleficio su molti uomini, compreso il suo stesso marito, forse non intenzionalmente. Senza dubbio questa donna attribuì alla naturale coscienziosità, e alla dedizione professionale di papà l'estrema angoscia in cui precipitò quando si rese conto di non saper individuare la causa delle sue sofferenze. Papà le fu certamente di grande conforto, dal momento che il marito non era in grado di affrontare adeguatamente la sua malattia, lasciando a nostro padre il ruolo di protettore e di confidente. A lui la poveretta si affidava, nella speranza che potesse alleviarle il dolore, sia fisico sia psichico. I tentativi di papà di trovare una cura sono la prova del suo grande altruismo. Se fosse guarita, infatti, non avrebbe più avuto bisogno delle sue prescrizioni e lui non avrebbe più avuto un pretesto plausibile per farle visita quotidianamente. Credo che papà fosse vittima di uno strano sortilegio la notte in cui la donna partorì. Mi mandò a chiamare. Quando arrivai nell'appartamento, lo trovai fuori di sé, il viso sconvolto, i capelli in disordine, con un patetico fagotto tra le braccia. Nelle settimane precedenti papà aveva espresso i suoi timori per lo stato di salute della creatura che doveva nascere. Non appena la vidi, non dubitai che la bambina fosse nata morta. Era cianotica e non emetteva nessun vagito. Ma, temendo per lo stato mentale di papà, feci come mi ordinava, mi precipitai a casa e avvolsi la neonata in coperte calde in attesa che lui rientrasse. Al suo ritorno assistetti a quello che ancora oggi non posso che definire un miracolo. Papà strofinò quelle piccole membra finché a poco a poco il corpicino non riprese colore. Pregò Dio che gli desse il potere di guarire. In seguito mi disse di aver sentito quel potere scorrere nella punta delle sue dita. Nella convinzione che una speranza frustrata potesse risultare più peri-
colosa della stessa assenza di speranza, papà aveva subito detto alla madre che la bambina era nata morta. Non riteneva di averla ingannata, poiché al momento del parto il battito cardiaco della neonata era debolissimo ed era più che probabile che sarebbe morta ben presto. Giudicò che fosse meglio per la madre non vedere la bambina e non sprecare le poche energie che le rimanevano, poiché l'avrebbe curata e nutrita solo per vederla morire entro poche ore o pochi giorni. Ho sempre creduto che papà avesse intenzione di curare la bambina per rimetterla in salute e poi restituirla alla madre, la quale, a suo avviso, sarebbe stata così grata e felice da non mettere in discussione le decisioni del suo medico. Desidero che si sappia che io non ero affatto d'accordo con questa scelta e che lo scongiurai di tornare sui suoi passi. Ma non lo fece. Era così sicuro di sé, così determinato. Lo aiutai nella cura della neonata e ben presto mi affezionai moltissimo a lei. Papà naturalmente fu vittima di un secondo incantesimo. Non avrebbe potuto essere diversamente, tanto la bambina, sin dall'inizio, assomigliava alla madre. Lo stesso viso delicato, gli stessi occhi sognanti, la stessa espressione. Temevo che papà non sarebbe mai stato capace di separarsi da lei e devo ammettere che anche per me l'idea di una separazione era dolorosa. Preoccupazione inutile. La sera dell'11 febbraio, mentre, seduta davanti al caminetto, davo da mangiare alla bimba, papà fu chiamato al capezzale della madre. Tornò qualche ora dopo, e prese la piccola Eleanor, così l'avevamo chiamata, tra le braccia. Non disse nulla e i suoi occhi erano pieni di lacrime. Andai a prendergli un bicchiere di brandy, ma quando tornai in soggiorno lui non c'era più e neppure la bambina. Fui colta dal timore che papà fosse stato scoperto e avesse dovuto restituire Eleanor a sua madre. Con il cuore in subbuglio, mi sedetti davanti al camino e aspettai. Fu allora che vidi un pezzetto di carta vicino al fuoco, appallottolato, come se vi fosse stato gettato dentro per bruciarlo. Non capii il senso delle parole scritte sul biglietto, finché non ricevetti la notizia il mattino successivo. Non saprei spiegare la ragione per cui papà fosse in possesso di quel biglietto. Suppongo che il povero marito, disperato com'era, non l'avesse notato. Papà non sa che io l'ho visto e che l'ho conservato. Forse si sentiva in colpa per la morte della donna. Tuttavia io credo che, se un colpevole c'è, quello sia il marito. Ma forse nessuno avrebbe mai potuto renderla
felice, tanto meno una bambina malaticcia e bisognosa di cure. Non era certo la prima volta che papà si trovava ad affrontare un caso di suicidio, ma io ho il sospetto che non avrebbe tollerato di vedere la reputazione della poveretta macchiata da una simile infamia. Così papà certificò la sua morte accidentale e distrusse la prova del suicidio, in omaggio alla sua memoria, come una sorta di espiazione. Naturalmente non posso raccontare tutto questo alla piccola Eleanor, almeno fintanto che papà è vivo. La morte mi risparmierà almeno di prendere questa decisione. La tua affezionata sorella, Jeanette. L'antenata di Bethany. Il ricciolo di capelli nel medaglione. Forse non apparteneva affatto a Jeanette Marshall, ma alla chioma rosso rame più famosa della storia dell'arte. Natascia sentì un brivido percorrerle la schiena. L'ombra nelle foto di Little Barrington dove Bethany posava come Ofelia. Come Lizzie Siddal. Imprecò contro se stessa per non averle prese dallo studio, quando aveva avuto la possibilità di farlo. Qualcuno bussava alla porta con insistenza. Con la lettera ancora in mano, Natascia andò ad aprire. «Sei diventata sorda?» Era James. Ci volle qualche secondo prima che il volto non sbarbato, distrutto di stanchezza, ma sorridente dell'amico, la riportasse al presente. «Ieri sera le doglie sono cominciate non appena Mary è ritornata dall'Archivio.» Natascia gli gettò le braccia al collo. «Congratulazioni!» Ridendo di gioia lo fece entrare. «Su, raccontami tutti i dettagli.» «È nato alle otto, a casa. Pesa tre chili e ottocento grammi.» «E Mary?» «Sta benissimo.» «Posso vederli?» «Subito, se vuoi.» Mary era seduta nel letto, con un golfino attorno alle spalle e i capelli raccolti in una coda di cavallo. Aveva l'aria stanca ed era pallida. Il bambino dormiva tra le sue braccia. Le tende erano tirate e la lampada sul comodino diffondeva nella stanza una luce rosata simile a quella dell'alba. Natascia in punta di piedi si avvicinò al letto e ammirò il faccino rosso e
grinzoso, mezzo nascosto nella camicia da notte di Mary, e le minuscole, perfette manine chiuse a pugno. Con un dito accarezzò la testa coperta da una lanugine piumosa... «È magnifico» sussurrò guardando Mary con tenerezza, poi si chinò e le diede un bacio sulla guancia. Il bambino si mosse con uno sbuffo e rivolse il faccino verso di lei. «Ciao, piccolino.» Mentre guardava quegli occhi dallo sguardo sfocato Natascia non poté fare a meno di pensare: "Da dove vieni?". Era difficile credere che quell'esserino fosse solo il prodotto dei geni e della moltiplicazione delle cellule. Certamente era un bambino accolto con amore da entrambi i genitori, che entrava nel mondo sotto i migliori auspici. «Come si chiama?» «Kieren.» Il piccolo incominciò a piangere e Mary gli infilò in bocca la punta del mignolo. Si zittì subito, mettendosi a succhiare. Natascia si sedette accanto al letto e rimase a contemplarli mentre si guardavano negli occhi, facendo uno sforzo per non sentirsi esclusa. Una madre con il suo bambino, una scena che si ripeteva da migliaia di anni in tutti i continenti, in tutti i popoli. Un'esperienza che a Lizzie Siddal era stata negata. Il giovane John Marshall non aveva raccontato a Eleanor la sua storia. Infatti era morto poco dopo Jeanette, molti anni prima del padre. Natascia teneva ancora fra le mani la lettera. La ripiegò per infilarla nella busta. Sul fondo vide un foglietto fragile, e mezzo bruciacchiato. Era vergato in una scrittura tondeggiante che Natascia non conosceva. Le parole, però, le erano familiari e la lasciarono con il cuore in gola. «Non dire addio. Sono partita per la terra sconosciuta, Dove finalmente sarai mio.» CAPITOLO 44 Natascia si diresse verso il centro di Oxford, cercando di evitare l'Exeter College. Era il giorno dell'inaugurazione della mostra. A quell'ora del mattino c'era poca gente per strada. Attraversò Beaumont Road proprio nel momento in cui l'Ashmolean Museum apriva le porte al pubblico. Mentre saliva sulla scalinata di pietra fra le colonne doriche, in-
crociò qualche altro visitatore mattiniero. Doveva fare uno sforzo per contenere il proprio entusiasmo. La sua era una di quelle scoperte che ogni storico sogna di fare. La risposta a un mistero che era rimasto sepolto per oltre un secolo. L'atrio di marmo era quasi deserto. Al banco delle informazioni venne a sapere che i manoscritti e i disegni di Lizzie Siddal erano conservati nella Sala delle Stampe e che per visionarli era necessario un apposito permesso. Attese che l'impiegata ottenesse l'autorizzazione ad accedere al prezioso materiale e la seguì per le sale del museo. Salirono al primo piano, attraversarono la sezione dell'arte egizia, le sale con i vasi greci antichi, quelle con i manufatti dell'Europa medievale, quindi percorsero uno stretto corridoio sul quale si aprivano numerose porte. La ragazza ne aprì una e fece entrare Natascia in una sala dove regnava un grande silenzio. Lungo le pareti correvano scaffali con libri antichi, grandi scatole di cartone e stampe incorniciate. In fondo alla stanza, Natascia vide Lizzie che la guardava dalla sua cornice dorata, come se la stesse aspettando affacciata a una finestra. Era un ritratto originale, un tempo appeso nella stanza di Blackfriars. Al lungo tavolo che occupava il centro della sala, alcuni studiosi erano già al lavoro. Con delicatezza toglievano i documenti dalle scatole e li appoggiavano sui leggii per esaminarli. Si trattava di manoscritti e schizzi, acquerelli e carte geografiche. Un addetto all'archivio salì sulla scaletta, prese dallo scaffale una scatola e la passò a Natascia, assieme a un paio di guanti di cotone bianchi. Natascia si sedette al tavolo e con la più grande cautela ne sollevò il coperchio. Poter toccare i dipinti e gli schizzi era molto più emozionante che ammirarli sotto vetro, appesi alle pareti di un museo. Solo così si poteva cogliere l'immediatezza del segno, una certa asperità del disegno. Erano certamente lavori che Lizzie non aveva inteso esporre al giudizio del pubblico. Davano l'impressione di assistere al processo creativo di Lizzie. Osservò un disegno dopo l'altro: la figura a matita di una ragazza sdraiata al suolo con un fantasma che emergeva dal suo corpo; un altro della stessa ragazza in barca. Il segno rivelava un'esecuzione dettata da una urgenza frenetica. Sotto gli schizzi c'erano i manoscritti delle poesie. La grafia variava, riflettendo con impressionante chiarezza lo stato mentale ondivago di Lizzie, spesso sotto l'effetto del laudano. C'erano due fogli listati a lutto, incollati assieme lungo il margine inter-
no, sui quali Lizzie aveva scritto alcuni versi. «Mi sono stesa nell'erba alta che si inchina sopra il mio capo e il mio viso esangue nasconde al mondo. Con amorosa tenerezza mi avvolge nella sua verde alcova, come l'erba che aesce sulle tombe.» Erano quasi illeggibili, le linee seguivano un andamento obliquo. Natascia aveva portato con sé il foglietto con il messaggio di Lizzie, ma non c'era alcun bisogno di confrontare i due scritti. La verità era sotto i suoi occhi. Lizzie Siddal si era tolta la vita. Aveva lasciato un messaggio. Un frammento del puzzle, tuttavia, non trovava collocazione. Bethany, la discendente di Lizzie, aveva scritto le stesse parole della sua antenata, pur senza averle mai lette. Sul fondo della scatola, sotto le poesie, c'era un dipinto di formato più grande. Natascia lo estrasse con estrema delicatezza. Era un acquerello intitolato Madonna con bambino. Ma al posto del bambin Gesù, la Madonna teneva in grembo una bambina. Da una finestra aperta accanto a loro si vedeva un roseto in fiore. La bambina allungava la piccola mano per cogliere una rosa. Era un'immagine di innocenza, eppure inquietante. La Madonna teneva le mani sotto le braccia della bambina, che erano aperte come in croce. Ma ciò che colpiva di più erano i capelli della piccola, di un rosso fiammeggiante. Chissà se Lizzie aveva dipinto quell'acquerello quando era incinta? Natascia lesse sul retro: «Collezione W.M. Rothenstein. Esposto alle Gallerie di Leicester Square. Acquistato da J.N. Bryson nel giugno 1946. Donato all'Ashmolean Museum nel 1977». Nessun'altra data. Nell'angolo a destra in basso, sotto la cornice, si scorgevano le iniziali con cui l'artista aveva firmato l'opera: "EES". Natascia ripensò alla pietra tombale, corrosa dal tempo, al cimitero di
Highgate. EES. Elizabeth Eleanor Siddal. Tutto le sembrava così ovvio, ora. Aveva perso tempo a preoccuparsi dei nomi dei figli del dottor Marshall, della somiglianza dei nomi Bethany e Lizzie. Ma la scelta del nome per la bambina che il dottor Marshall aveva cresciuto come una figlia era scontata e nello stesso tempo commovente. Eleanor aveva preso il nome della madre, non quello di Ellen Marshall, la moglie del dottore, né quello di sua figlia, Ellen Jeanette. Elizabeth Eleanor Siddal. CAPITOLO 45 Natascia telefonò ad Andrew Wilding per chiedergli di avvertirla quando Bethany fosse tornata. «Naturalmente.» Gli diede il numero di telefono di casa. «Non mi ero reso conto di quanti amici avesse mia figlia» disse Wilding. «L'altro giorno, appena voi siete partiti, è venuto a cercarla un ragazzo.» «Jake Romilly?» «Esatto.» Natascia cercò di mantenere un tono normale. «Che cosa voleva?» «Notizie di Bethany. Sapere dove si trovasse. Se stava bene. Quando gli ho chiesto come faceva a conoscere il mio indirizzo lui ha risposto che l'aveva avuto da Bethany. Una cosa strana. È la prima volta, a quanto ne so, che dice a qualcuno dove abita.» Natascia sapeva che le cose non erano andate così. Jake Romilly doveva averli seguiti. Era un esperto pedinatore. Andrew Wilding rilesse ad alta voce il numero di telefono di Natascia. «Non conosco questo prefisso.» «Snowshill. Sulle Cotswold Hills.» «Un bellissimo posto. La madre di Elaine viveva a Kelmscott. Conosce il villaggio?» «Certo.» «Bethany lo adora. A dire la verità a me non è mai piaciuto molto, ma ho tenuto la vecchia casa dopo la morte di May per andarci nei fine settimana e a Natale. L'ho fatto per Bethany.» «Chi ci abita adesso?» «Nessuno. È vuota da molti anni. Finalmente mi sono deciso e l'ho messa in vendita.»
Quando era partita c'era ancora luce, ma era inverno e a metà pomeriggio il buio calava rapidamente. Sulla terra arata dei campi scorrevano banchi di nebbia, che si avvolgevano attorno ai tronchi degli alberi come fumo. L'indicazione per Kelmscott apparve all'improvviso, costringedola a una svolta repentina. In prossimità del villaggio diminuì la velocità. Ricordava di aver visitato il paese un'estate, quando era all'università. Un luogo tranquillo, isolato, circondato da marcite, pittoresco. Quando abbassò il vetro del finestrino per vederci meglio, una folata di vento gelido le tolse il respiro. Nell'oscurità incipiente, le sagome di eleganti ville si levavano accanto alle fattorie in abbandono. Sul lato opposto della strada c'erano aree recintate e prati dove pascolavano pecore e mucche. In quel periodo i campi erano parzialmente allagati e le distese d'acqua mandavano bagliori d'argento nella sera. Natascia era certa che la nonna di Bethany fosse vissuta in una di quelle belle ville, ma come avrebbe potuto scoprire quale? Si pentì di non aver chiesto indicazioni più precise ad Andrew Wilding. Tuttavia, sarebbe bastato rivolgersi a qualcuno del luogo per sapere quale fosse la casa di May. Ammesso che incontrasse anima viva. Il villaggio pareva deserto. Passò accanto alla chiesa, un piccolo edificio senza pretese, con un campanile quadrato e un cimitero dove erano sepolti William Morris, sua moglie Jane e le loro figlie. La strada curvava a sinistra e proseguiva oltre una taverna dall'aspetto caratteristico. «L'aratro», diceva l'insegna. Le luci erano accese. Se non fosse riuscita a trovare la casa o qualcuno cui chiedere, sarebbe tornata lì. Dopo un tratto di strada allagato, Natascia si trovò di fronte a un bivio con l'indicazione per il castello da un lato e per il sentiero che conduceva al Tamigi dall'altro. Tornò indietro. Dietro l'edificio del municipio notò una casa circondata da un giardino invaso dalle erbacce. Vicino al cancello, infisso nel terreno, c'era il cartello di un'agenzia immobiliare. Era un edificio di medie dimensioni, con finestre bipartite da colonnine e un portico in pietra davanti all'ingresso. Non si vedevano luci e alle finestre non c'erano tende. La casa sembrava completamente abbandonata. Natascia lasciò la macchina e spinse il cancello arrugginito, che si aprì cigolando sui cardini. In una nicchia accanto alla porta c'era un campanello antiquato, azionato da una cordicella. Natascia la tirò e all'interno risuonò un breve scampanellio, seguito dal silenzio. Riprovò. Ancora niente. Cercò
di sbirciare all'interno attraverso la fessura per la posta. Nell'oscurità riuscì a scorgere un atrio con una grande scalinata che portava al piano superiore. Tornò alla macchina per prendere la torcia. Sul pavimento dell'atrio c'era un vecchio tappeto liso e la tappezzeria sulle pareti era a tratti staccata, scolorita e macchiata d'umidità. La porta era chiusa a chiave. Natascia girò attorno alla casa. Sul retro, il giardino versava in uno stato di assoluto abbandono. Un tempo, forse, era stato un frutteto. Davanti alla porta di servizio il selciato era tutto sconnesso e tra le pietre era cresciuta l'erba. Anche quella porta era chiusa, ma le imposte di una delle finestre del pianterreno erano aperte di qualche centimetro. Natascia diede una spinta e la finestra si aprì completamente. Si issò sul davanzale e sgusciò nel varco tra la colonnina e l'intelaiatura. All'interno premette un interruttore. Niente luce. Ricorse ancora alla torcia. Si trovava in una cucina. C'era un forte odore di umidità. L'odore tipico delle vècchie case. Non sgradevole. C'erano un tostapane e vari utensili appesi al muro. Tutto in ordine, ma polveroso. Non c'era alcun indizio che la casa fosse abitata. Nell'atrio provò un altro interruttore, nel caso la lampadina della cucina fosse fulminata. Anche qui nessuna luce. Evidentemente avevano staccato la corrente. Il lavandino in cucina era macchiato sotto il rubinetto. Una perdita, ma vecchia. Il lavandino infatti era asciutto. Provò a far scorrere l'acqua. Niente. Doveva essere la casa di cui le aveva parlato Andrew Wilding. Ufficialmente disabitata. Faceva molto freddo. Dalla bocca le uscivano nuvolette di vapore. La temperatura all'interno era di qualche grado inferiore a quella esterna. Nessuno avrebbe potuto vivere in quel gelo. Natascia tornò verso la finestra, ma inciampò in qualcosa. Diresse la torcia verso i propri piedi e si rese conto di aver rovesciato un piccolo bidone metallico per la spazzatura. Il contenuto si era sparpagliato sul pavimento. Una bottiglia d'acqua minerale di plastica, due involucri di tavolette di cioccolato e una buccia di banana, ancora gialla e morbida. Se fosse stata gettata via anche solo un paio di giorni prima si sarebbe annerita. Ritornò nell'atrio. Di fronte alla cucina c'era una porta. La aprì e ispezionò il locale alla luce della torcia. Un soggiorno. L'intonaco del soffitto si era gonfiato qua e là. Lunghe crepe correvano parallelamente alla grossa trave centrale. Una porta conduceva in un'altra stanza, una sala da pranzo,
con un tavolo ovale di mogano coperto da un velo di polvere. Una vecchia casa di bambola era appoggiata sul ripiano. Aveva la parte anteriore divelta. Sembrava un oggetto scampato a un terremoto. Natascia si sentiva un'intrusa, ma questo non le impedì di salire al piano superiore. A ogni passo i gradini della scala scricchiolavano paurosamente. La porta in cima al pianerottolo era aperta. Natascia vide una stanza vuota con le pareti imbiancate e con un tappeto consunto poggiato sulle assi grezze del pavimento. In un angolo una pesante tenda nascondeva una scala a chiocciola, molto stretta, che verosimilmente conduceva a una soffitta. C'erano altre due porte. Una, appena accostata, rivelò un bagno. La seconda era ermeticamente chiusa. Natascia ebbe la tentazione di bussare, ma le sembrò assurdo. Posò una mano sulla maniglia e, vincendo una certa esitazione, l'abbassò. La figura stesa sul letto di ferro era esile e minuta. Giaceva supina, su un copriletto di ciniglia rosa sbiadito, avvolta in una coperta grigia. Un braccio era sollevato sopra la testa, l'altro era appoggiato sopra la coperta. Quando la luce della torcia le passò sul viso, rivelando il biancore cadaverico della pelle, Bethany non si mosse e le sue palpebre rimasero sigillate. Natascia si chinò su di lei e sussurrò: «Ciao». Non ottenendo risposta, ripeté il saluto a voce più alta. Bethany restò del tutto immobile. Con grande cautela Natascia scostò un poco la coperta. Indossava un golfino nero lavorato all'uncinetto sopra una camicetta anch'essa nera, di un tessuto leggero. Natascia le toccò la mano. Era ghiacciata. Le sentì il polso. Non c'era battito. "Ho passato ogni giorno della mia vita con i morti, ma non ho mai visto un cadavere." Ricordava di aver sentito che, per verificare se una persona respirasse ancora, bisognava metterle davanti alla bocca uno specchio. Staccò dal muro uno specchietto e lo accostò alle labbra della ragazza. Poi lo guardò. Vide il riflesso del proprio viso, con gli zigomi messi in evidenza dalla luce che proveniva dal basso. Sulla superficie c'era un velo di vapore appena percettibile. Tenendo il fascio della torcia puntato contro il pavimento, Natascia scostò la coperta. Il collo e le braccia di Bethany erano piene di lividi giallognoli. Natascia si chinò, e appoggiò la testa sul suo petto. Sentì un battito così debole che sembrava provenire da molto lontano. Prese il cellulare dalla tasca del cappotto. Per fortuna prendeva. Prima di chiamare l'ambulanza, si tolse il cappotto e lo stese sopra Bethany. Scese
per aprire la porta d'entrata. Tremando per il freddo, rimase a guardare i minuti che passavano sul quadrante dell'orologio sopra il camino. Era un orologio meccanico, il che significava che qualcuno recentemente si era preso la briga di caricarlo. Chiamò Andrew Wilding e gli disse di andare immediatamente all'ospedale John Radcliffe, dove era sicura che avrebbero portato Bethany. L'uomo parve non capire il senso delle sue parole. Non le era difficile immaginarne le mosse: avrebbe preparato una borsa con un paio di calzini puliti e il rasoio, avrebbe disdetto il latte per il giorno seguente, avrebbe chiuso la porta, verificando che tutte le finestre fossero ben chiuse, e si sarebbe diretto a Stow con la sua Audi lucida come uno specchio. Avrebbe rispettato i limiti di velocità. "Poi mentre prendeva lentamente coscienza della realtà, il dolore, che per vent'anni aveva cercato di nascondere alla figlia, sarebbe finalmente esploso. Dalla finestra della camera da letto, Natascia contemplava il giardino. Quando Bethany era piccola, doveva esser stato molto bello e curato. Si sedette sul bordo del letto e osservò il volto esangue della ragazza. Non riusciva a scacciare la sensazione che avesse agito secondo un piano, di cui doveva far parte anche il suo ritrovamento nella casa della nonna. Nulla era stato lasciato al caso. Una camera male illuminata con un piccolo letto di ferro, un'ambientazione scenografica in puro stile preraffaellita. Natascia si chiedeva se Bethany fosse consapevole della presenza di qualcuno nella stanza. Nei film e alla televisione i medici consigliavano sempre di parlare ai pazienti privi di sensi, come se potessero sentire le parole che venivano loro rivolte. Era vero? O era solo un espediente per accrescere l'effetto drammatico, per consentire ai personaggi di esprimere i loro pensieri più reconditi? Natascia prese la mano di Bethany tra le sue. Era piccola, come quella di una bambina. Sembrava riposare in pace. Natascia scacciò dalla mente quelle parole, un trito eufemismo per indicare la morte. E la morte aleggiava nella stanza, era un odore dolciastro, una presenza imponderabile, in attesa. Gli spiriti si erano dati convegno in quel luogo per portare via una di loro. Lizzie, Eleanor, Bethany. Nella sua mente, le loro identità si erano fuse al punto che Natascia non avrebbe più saputo dire a chi appartenesse la mano che stringeva tra le sue. Aveva sentito dire che quanti venivano in contatto con la morte in tenera età, ne restavano segnati per sempre, come se una parte di loro fosse già nell'altro mondo. Bethany aveva visto morire sua sorella e sua madre.
Mentre le strofinava dolcemente la mano, Natascia ebbe la sensazione che il sangue della ragazza avesse ripreso a circolare. Pensò a Gabriel Rossetti, che aveva fatto la stessa cosa con il cadavere della moglie, cercando di convincersi che il sangue scorreva ancora nelle sue vene. Ho un cuore inaffidabile. I lividi sul suo corpo. Lividi vecchi di almeno una settimana. Forse risalivano a prima di Natale. La luce della torcia vacillò, come una candela colpita da una corrente d'aria. Dopo un attimo si stabilizzò, ma era decisamente più debole. La batteria si stava scaricando. Sul pavimento accanto al letto c'erano una scatola di fiammiferi e una candela mezzo consumata in un candeliere di legno. Natascia pregò che la torcia non si spegnesse. Le vennero i brividi alla prospettiva di aspettare l'ambulanza al lume di candela. «Devi svegliarti. Devi guarire» mormorò. Finalmente sentì il suono della sirena in lontananza, sostituita dalla luce blu intermittente, quando l'ambulanza entrò nel villaggio. Una voce maschile le giunse dall'atrio. «C'è qualcuno?» «Quassù.» Ombre gigantesche invasero la tromba delle scale prima che la luce intensa delle potenti torce di due infermieri, un uomo e una donna, le riducessero a dimensione umana. Con efficienza e destrezza controllarono le condizioni fisiche di Bethany, mentre rivolgevano a Natascia una raffica di domande cui non sapeva rispondere. Li informò di aver parlato con il padre, Andrew Wilding, che da Stratford si era messo in viaggio per l'ospedale di Stow. La sola cosa che Natascia potesse fare era mettersi da parte e osservare. Slacciarono la camicetta di Bethany, mettendo a nudo due piccoli seni da adolescente, una fragile gabbia toracica e spalle ossute. E altri lividi. Gli infermieri si scambiarono uno sguardo eloquente. Le fecero un elettrocardiogramma e le misurarono la pressione. «Ottanta di massima, cinquanta di minima» disse la donna. Natascia sapeva che erano valori molto bassi, ma ignorava se fossero tanto bassi da costituire un pericolo. Stesero Bethany su una barella e le misero una maschera a ossigeno davanti al viso, fissata dietro la testa con elastici. «Si riprenderà?» La donna rispose con un sorriso di sincera partecipazione. «Difficile dir-
lo al momento.» Trasportarono la barella giù per le scale. Il villaggio era ancora deserto. Se qualche membro della invisibile popolazione di Kelmscott aveva sentito la sirena dell'ambulanza, aveva deciso di ignorarla. La luce blu continuava le sue silenziose pulsazioni. L'infermiera salì a bordo dal portellone posteriore, seguita da Natascia. Usciti dal villaggio, riaccesero le sirene. «Che cosa ci faceva in quella casa?» Questa era l'unica domanda a cui Natascia sapesse rispondere. Bethany era venuta nella casa della nonna in cerca di un posto dove riflettere in pace. Su Adam e su quello che avrebbe fatto nella vita che le rimaneva da vivere, lunga o breve che fosse. Ma Jake Romilly glielo aveva impedito. CAPITOLO 46 Al pronto soccorso Natascia riferì il poco che sapeva sul conto di Bethany. Fu poi accompagnata nel reparto dove era stata ricoverata, in fondo a una lunga corsia. Le tende attorno al letto erano chiuse. Natascia le scostò e la vide, il viso ancora nascosto dalla maschera a ossigeno. Sul monitor dell'elettrocardiografo pulsava il diagramma del suo debole battito. Un giovane medico stava inserendo l'ago di una flebo nel braccio della ragazza. Quando le lasciò il polso per scrivere i dati sulla cartella clinica, la mano ricadde inerte sul letto. «Qual è la diagnosi?» chiese Natascia. «Polmonite. Ma ci potrebbero essere delle complicazioni.» Natascia avvertì un'infermiera che si sarebbe allontanata, ma che sarebbe tornata presto. Prese un taxi in sosta davanti all'ingresso principale e si fece portare all'Exeter College. Pregò l'autista di aspettarla, perché avrebbe dovuto riportarla all'ospedale. La galleria aveva un aspetto del tutto diverso dal giorno in cui Adam gliela aveva mostrata. L'ufficio stampa aveva fatto un ottimo lavoro. Una folla di visitatori era assiepata davanti alle fotografie. Abiti firmati e capigliature fresche di parrucchiere, coppe di champagne; ma anche giacche di pelle e bottiglie di birra scura. Natascia chiese a un paio di persone se avessero visto Adam Mason. Risposero di sì, ma non avrebbero saputo dirle dove si trovava in quel momento. In fondo alla sala vide Jake Romilly impegnato a parlare con un giovane
uomo, che prendeva appunti su un taccuino. Un giornalista. Che scoop avrebbe fatto se avesse saputo la verità! Christine era avviticchiata al braccio di Jake. Dunque la loro relazione non era finita. Lo guardava con occhi adoranti e tutti i suoi timori sembravano essersi dissolti. In quel momento, Jake alzò lo sguardo per scandagliare la sala, come se l'intervista lo stesse annoiando, e cercasse qualcuno di più interessante o di più importante con cui parlare. Incontrando gli occhi di Natascia, assunse un'espressione dura. Anche Christine la vide, e il suo viso si oscurò. A quel punto Natascia capì come stavano le cose. Dopo il suo incontro con la ragazza, questa evidentemente aveva parlato con Jake. Senza dubbio gli aveva confessato di aver raccontato a Natascia la conversazione tra lui e il misterioso interlocutore cui, senza volere, aveva assistito. Qualcuno richiamò l'attenzione di Natascia con un colpetto sulla spalla: «Il signor Mason è laggiù». Adam era dietro la porta, sotto la foto di Ofelia, e stava parlando con Angie. Quando la scorse le venne incontro, piacevolmente sorpreso che fosse venuta. Nel vedere la sua espressione, però, smise di sorridere. «L'ho trovata. È in ospedale. Se la caverà. Se vuoi venire c'è un taxi che mi aspetta fuori.» Adam annuì con un brusco cenno del capo. Tornò da Angie e le disse qualcosa in gran fretta. Natascia osservò Jake Romilly che concludeva la sua intervista. Avrebbe certamente notato Adam che lasciava la galleria insieme a lei. Avrebbe capito che si trattava di una questione importante. All'ospedale, mentre si allontanava per lasciare Adam da solo con Bethany, Natascia lo vide chinarsi sul letto e deporre un bacio prima sulle labbra e poi su ciascuna delle palpebre della malata. Proprio come un principe azzurro. Solo che i suoi baci non svegliarono la bella. Natascia andò a bere un orribile caffè al distributore automatico nella sala d'attesa. C'era molta confusione. I soliti incidenti del venerdì sera in città. Nasi sanguinanti, ferite da taglio, un giovane che puzzava d'alcol con la fronte squarciata e una madre con in braccio un bimbo con una mano avvolta nel cotone idrofilo. Come era possibile lavorare in un ospedale? Immersi ogni giorno nella tragedia, nella sofferenza, nel dolore? In nessun cimitero Natascia si sentiva a disagio quanto in un pronto soccorso.
Quando Adam riapparve gli andò incontro e l'abbracciò. Le sue braccia, che conservavano il ricordo del corpo di Marcus, si sorpresero della magrezza di Adam. «Ho bisogno di una sigaretta» disse. Fuori, si appoggiò al muro accanto alle porte automatiche e inspirò profondamente. «Grazie a Dio l'hai trovata.» Andrew Wilding arrivò mezz'ora dopo. Parlò con i medici, poi raggiunse Natascia e Adam nella sala d'aspetto. Avvicinò una sedia al loro tavolo. Le rughe sul suo viso sembravano più profonde e i suoi capelli più grigi di qualche giorno prima. «Ha la polmonite» disse scuotendo la testa. «È disidratata e ha ancora la febbre alta. Non è mai stata forte, e si è chiusa in quella casa, al gelo, senza mangiare e senza bere come si deve. Il dottore dice che è andata avanti per giorni in questo stato.» Rivolgendosi a Natascia, chiese: «Voleva suicidarsi?». Lo disse con incredulità, come se l'idea stessa fosse inconcepibile. Il fatto che Bethany non si fosse gettata da un ponte o non si fosse tagliata le vene dei polsi, non significava affatto che non intendesse morire. Si poteva porre fine alla propria vita anche soltanto trascurandola. Tuttavia, era evidente che la responsabilità maggiore dello stato di Bethany ricadeva su Jake Romilly. «Se lei non l'avesse trovata...» Andrew Wilding lasciò la frase in sospeso. Quando Andrew ritornò da Bethany, Adam si prese la testa tra le mani. Natascia provava molta pena per lui. Si alzò per portargli un altro caffè. Lui le afferrò un mano. «Non andare via.» «Torno subito.» Chiamò James. Gli spiegò dove si trovava e lo pregò di portare fuori Boris. Quando rientrò, il reparto era stranamente tranquillo. Le luci erano state abbassate e stavano arrivando gli infermieri del turno di notte. Adam si era spostato nella sala di soggiorno dei pazienti. Il televisore era acceso. Davano un film western. L'audio era al minimo. Sdraiato su una poltrona, un gomito appoggiato al bracciolo, si sosteneva la testa con la mano. Natascia pensò che dormisse, ma i suoi occhi erano aperti, anche se persi nel vuoto. Gli parlò a voce bassa. «L'altro giorno ho fatto una scoperta. La bambina di Lizzie Siddal non è nata morta, come si è sempre creduto. Il medico di Rossetti, il dottor Marshall, l'ha presa con sé e l'ha chiamata Eleanor. Be-
thany è una sua discendente.» «Sei sicura?» «C'è una lettera della figlia del dottor Marshall, Jeanette, l'autrice del diario, che spiega come sono andate le cose.» «Non ci posso credere.» Adam si mise a fissare il soffitto. Poi scosse la testa. «No, mi sbaglio, in realtà è plausibile.» Natascia stava per dirgli del biglietto con i versi di Lizzie, ma decise che era più giusto che fosse Bethany a saperlo per prima. «Glielo dirai?» chiese Adam. «Se vuoi, ma questo non mi sembra il posto adatto.» «Andrew dice che starà bene circondata da medici e che si interesserà a tutto ciò che le faranno. Sono certo che al suo posto preferirei di gran lunga non sapere.» «È l'eredità che ha ricevuto dai Marshall» disse Natascia. «Anche se non le è stata trasmessa per via genetica.» «Avevi ragione, a proposito dell'importanza del passato» ammise Adam. «Ce lo portiamo addosso, in ogni cellula del nostro corpo. La Sindrome dell'Antenato, come la chiami tu. Pensavo che fosse una sciocchezza, invece è tutto vero. È possibile ereditare un destino.» Adam tolse i piedi dal tavolino. «Ho capito che cosa ha di speciale Bethany. Non dà niente per scontato. Ha vissuto tutta la vita con la consapevolezza che ogni giorno avrebbe potuto essere l'ultimo.» «Forse non tutta la vita. Dicono che la paura della morte ci prende soltanto quando amiamo qualcuno tanto da non poter tollerare l'idea di abbandonarlo.» «Mi spaventa.» Natascia lo capiva. In un certo senso per lui era stato tutto più facile, finché Bethany era introvabile. Rossetti desiderava un'amante da idolatrare in cielo. Anche Adam avrebbe desiderato fare di Bethany una donna ideale, non rischiare che la loro relazione diventasse scontata. Ma non era una buona ragione per rinunciare. Natascia andò a salutare Andrew. Teneva tra le sue la mano inerte di Bethany, che giaceva appoggiata ai cuscini, nella posizione innaturale tipica degli ammalati. Le avevano tolto la maschera a ossigeno e sulle guance le era tornato un po' di colore. Il suo respiro si era fatto più regolare. Andrew sorrise a Natascia. «Mi sembra di essere tornato a quando era bambina e la sera stavo con lei finché si addormentava. Anche allora se ne stava supina, mai su un fianco come fanno tutti. Non sopportava di sentire
il battito del proprio cuore.» Per paura che si fermasse. Natascia appoggiò una mano sulla spalla dell'uomo. «Ha bisogno di qualcosa?» «No, grazie. Sto bene così.» Poi aggiunse: «Sarebbe bello se lei tornasse quando si sveglierà. Sono certo che sarebbe felice di vederla. Il medico dice che i farmaci dovrebbero fare effetto entro ventiquattro ore». Bethany sarebbe tornata nel mondo dei vivi. Ma Natascia non si sentiva pronta per incontrarla. Non ancora. CAPITOLO 47 Quando Natascia riuscì finalmente a trovare un taxi che la riportasse a Kelmscott a riprendere l'Alpine, si era ormai fatto giorno. Un sole freddo trasformava i banchi di foschia in un pulviscolo opalescente. Nella pianura allagata dal Tamigi, i campi sommersi erano effimeri laghi, strani e belli a vedersi, con ciuffi d'erba e alberi che emergevano dalle scintillanti distese d'acqua. Sull'orizzonte, dove il cielo si abbassava a toccare i campi, si stagliava la sagoma solitaria di un cavaliere in groppa al suo cavallo. All'altezza dell'indicazione per il castello di Kelmscott. Natascia pagò il taxi e proseguì a piedi. Al di sopra di un alto muro le apparvero le due torri e il frontone della grande casa elisabettiana con le tegole del tetto coperte di licheni. Molto tempo prima Natascia l'aveva visitata. I mobili scuri, gli arazzi, i cofanetti preziosi sui davanzali delle finestre le erano rimasti impressi nella memoria. "Una casa fuori dal mondo" l'aveva definita Morris prima di prenderla in affitto, condividendo con Rossetti l'abitazione, oltre che la donna. Come nei migliori poemi cavaliereschi, i due avevano rivaleggiato per il possesso del maniero e per l'amore della stessa dama. Natascia si incamminò per una strada disseminata di pozzanghere, resa scivolosa dal fango. A un certo punto incontrò una sbarra, oltre la quale un sentiero pedonale portava al fiume. La scavalcò e si diresse verso la riva procedendo con difficoltà sul terreno accidentato e coperto di ghiaccio. Il Tamigi scorreva sotto il Folly Bridge, dove nell'antichità c'era stato un guado importante e dove Adam per la prima volta le aveva chiesto di aiutarlo nella ricerca di Bethany. A Oxford, tuttavia, il Tamigi era solo l'ombra dell'immenso fiume che passava sotto il ponte di Blackfriars, dove Lizzie era morta e dove Bethany aveva detto di abitare. Quassù, vicino alla
sorgente, il Tamigi aveva fatto da sfondo a un altro episodio della stessa storia. Un nastro d'argento che univa ogni cosa. Ma anche una scia di morte. I Celti gettavano i corpi dei defunti nel fiume, disseminando il suo letto di teschi. Elaine voleva fare il bagno nel fiume. A me quel posto non è mai piaciuto. Era qui che Bethany aveva visto morire sua madre. Natascia ricordò di aver lasciato la finestra sul retro aperta e di non aver chiuso a chiave la porta d'entrata. Alla luce del giorno la casa aveva un aspetto accogliente, anche se il tetto era pericolosamente imbarcato. Era bellissima, proprio il tipo di casa dove un tempo lei e Marcus avevano progettato di abitare. Aprì la porta e chiuse dall'interno il pesante catenaccio. Andò in cucina e uscì, issandosi sul davanzale della finestra, e chiudendosi alle spalle le imposte. Quando tornò alla porta d'ingresso, Natascia vide Jake Romilly appoggiato alla sua Alpine. Cercò con gli occhi la Celica, ma non la vide. Attraversò il giardino senza affrettare il passo e richiuse con cura il cancello. Prese di tasca le chiavi e si avvicinò alla macchina cercando di sembrare il più calma possibile. «Ti aspettavo» disse Jake, infilando le mani nelle tasche del suo lungo cappotto. «Come sta?» Le passarono davanti agli occhi le immagini dei lividi sulla pelle di Bethany. «Tu che ne dici?» «Ho telefonato all'ospedale. Dicono che si riprenderà.» «Il tuo interessamento è commovente. Come facevi a sapere che sarei venuta qui?» «Ho chiesto a suo padre dove potevo trovarti perché volevo parlare con te e lui, molto gentilmente, mi ha informato che eri andata a recuperare la tua macchina.» Natascia vedeva i suoi pugni chiusi nelle tasche. O forse aveva un'arma? «Che ne diresti di fare una passeggiata?» suggerì Jake. Natascia si guardò attorno. Le strade nel chiarore dell'alba erano deserte, le pozzanghere erano ancora ricoperte da una crosta di ghiaccio, nelle case nessuno aveva aperto le tende. Adam e Andrew Wilding sapevano che lei era lì. Il che non rappresentava un grande conforto... «Non sono nella condizione di spirito adatta.» Jake ridacchiò. «In questo caso arrivederci.» Poi si girò e le chiese:
«Non è che per caso sai gli orari di visita dell'ospedale? Vorrei fare un salto a porgere i miei omaggi». Non avrebbe mai lasciato Bethany in pace. «Aspetta.» Il tono determinato della voce di Natascia lo costrinse a ubbidire. Era incerta se lasciar perdere o andare sino in fondo. Vinse la componente caparbia del suo carattere. «Come pensi di mettere a tacere il tuo amico Alex?» Jake si guardò attorno sbuffando. «Alex ha qualche conto in sospeso con la giustizia. Credimi, so di lui quanto basta per essere sicuro che non fiaterà.» «Con amici così...» Lentamente ritornò verso di lei. «Non l'ho neanche toccata.» La faccia di Jake era a pochi centimetri dalla sua. Natascia non si lasciò intimidire. «Davvero?» «Non le ho fatto niente.» «Tranne tormentarla per settimane. Seguirla fino a qui. Spaventarla a morte. Imporle le tue attenzioni finché...» «Se andrà alla polizia non crederanno a una sola parola.» La sua voce si era fatta stridula. Maligna. «Siamo stati amanti per tre mesi. Dirò che è stata lei a darmi un appuntamento qui. Verrà fuori tutto. I Corvi. Tutto. Alex e Christine giureranno che Bethany era più che contenta di essere coinvolta nel progetto. A ogni livello. Quando vedranno le foto che mi ha permesso di scattarle in privato, qualsiasi cosa dica contro di me non sarà creduta.» Natascia lo inchiodò con un'occhiata. «Ci sono tanti modi di usare le fotografie. I lividi sul petto di Bethany. Ho pensato che valesse la pena di conservarne l'immagine per i posteri.» Jake fece un passo indietro. Tolse una mano di tasca. Nascondeva qualcosa. Un riflesso metallico. Un mazzo di chiavi. Nello stesso anello un coltello a serramanico. Con aria incurante fece scattare la lama, poi la richiuse. Fuori. Dentro. Natascia decise di non smettere di parlare. «Una società segreta è una cosa, ma irrompere in una casa, pedinare qualcuno e mettere le mani nelle sue carte è un altro paio di maniche. Sono reati e tu lo sai. La polizia ha rilevato le tue impronte digitali sulla mia scrivania. All'inizio credevo che tu mi stessi alle calcagna perché la volevi ancora, volevi che io ti conducessi da lei. Ma le cose non stavano esattamente così, vero? Quando lei è svenuta in seguito alle tue percosse hai avuto paura. Temevi che quello che non le avevi fatto l'avesse uccisa. Lei non ti aveva detto un bel niente della sua famiglia, come ad Adam del resto, il che ti ha mes-
so in un bel pasticcio, vero? Dovevi avere sue notizie e scoprire ciò di cui avrebbe potuto accusarti. Devo ammettere che mi ci è voluto qualche tempo a capire perché non sei tornato qui. Avevi visto il cartello dell'agenzia e pensavi che ci fossero in giro agenti immobiliari e potenziali acquirenti che venivano a dare un'occhiata alla casa. Evidentemente non hai mai messo in vendita una casa, altrimenti sapresti che il mercato è fermo nel periodo di Natale. Quando Adam mi ha affidato l'incarico di cercarla, ti si è offerta un'opportunità insperata. Hai deciso di seguirmi per scoprire dove abitavano i suoi genitori. Poi quando è uscito quell'articolo in cui si diceva che Bethany era scomparsa, tu non hai capito più niente, ti sei introdotto in casa mia alla ricerca di notizie. Che te ne pare della mia ricostruzione?» Dopo un attimo di silenzio Jake fece scivolare in tasca il coltello e si diresse verso la sua macchina. Natascia si appoggiò al muro del giardino e tirò il fiato. La legge avrebbe seguito il suo corso. Ma Jake Romilly aveva ragione. Se anche Bethany l'avesse denunciato probabilmente sarebbero mancati gli estremi per un processo. Natascia non aveva scattato alcuna foto dei lividi e la polizia non aveva trovato impronte digitali sulla scrivania che non fossero di Natascia. Ma fintanto che Jake Romilly temeva che quelle prove contro di lui esistessero effettivamente, si sarebbe tenuto alla larga da Bethany. CAPITOLO 48 Bethany, Adam e Natascia passeggiavano nel parco di Broadway Hill. Non c'era nessun altro visitatore. Le pecore delle Cotswold Hills brucavano vagando per la collina e i cervi, immobili come statue, fissavano i tre intrusi per poi scomparire all'improvviso tra i cespugli. Il custode era un ragazzo di Snowshill che Natascia conosceva bene. Gli aveva chiesto il permesso di entrare nel parco con il Land Rover di James, in modo che anche Bethany potesse ammirare il panorama dalla cima della collina. Bethany era uscita dall'ospedale quella mattina. Sarebbe dovuta tornare al reparto di cardiologia per degli esami entro un paio di settimane. Indossava il cappotto nero di Natascia, così lungo per lei da strisciare a terra. Aveva una grande sciarpa rossa avvolta attorno alle spalle e le mani infilate in guanti di grossa lana nera. Era magrissima, ma l'aria fresca le
aveva colorito le guance e reso luminoso lo sguardo. La visita al parco era stata un'idea di Natascia. Era una di quelle rare giornate dalla luce perfetta per ammirare il panorama dalla torre. Il cielo era di un blu brillante, punteggiato di cumuli bianchi e vaporosi. Soffiava una brezza forte, ma non fredda, e sotto gli alberi erano già spuntati i bucaneve. L'edificio sembrava la torre di una gigantesca scacchiera, una sagoma spoglia, costruita con una pietra più scura dei materiali locali. In alto la bandiera di san Giorgio sventolava al di sopra dei merli di stile sassone. «Che cos'è?» chiese Bethany. Natascia sorrise. «Una stravaganza architettonica realizzata nell'Ottocento per il conte di Coventry.» «Non c'è da stupirsi che a Morris e a Rossetti piacesse passare le loro vacanze in questo luogo» commentò Adam. Entrarono nella torre, dove era allestita una piccola mostra che illustrava la storia dell'edificio. Comperarono i biglietti e iniziarono l'ascesa, salendo per una stretta scala a chiocciola con un corrimano di corda fissato alla parete. Natascia faceva da guida. Bethany teneva per mano Adam che la seguiva un gradino più sotto. «Tutto bene?» chiese Natascia, voltandosi a osservare la ragazza che si arrampicava lentamente su per i gradini. «Benissimo.» «Solo quando arriverai alla sommità ti renderai conto che ne valeva la pena, coraggio!» Emersero nel vento. La bandiera che sventolava sopra le loro teste produceva suoni secchi che parevano frustate. Tutto intorno si estendevano campi, vallate e colline. «Dicono che da qui si possano vedere tredici contee» spiegò Natascia studiando il viso di Bethany, mentre la ragazza confrontava il paesaggio con i punti di riferimento segnati sulla carta geografica che correva lungo la circonferenza della torre. Quando Natascia aveva osservato le fotografie di Bethany, le era sembrato di scorgere una somiglianza con Lizzie, molto prima di scoprire la verità sulla sua discendenza. Ma, osservandola di persona, di quella somiglianza non vedeva traccia, anche se l'estrema magrezza faceva apparire gli occhi troppo grandi e il capo troppo pesante per il suo collo esile. Nei capelli castani non c'era
neppure il ricordo delle mitiche trecce rosse di Lizzie. Adam si avvicinò a Natascia e le disse a bassa voce: «Quel foglietto nel diario. Dice che sono versi che le ronzavano sempre per la testa. Per questo li ha scarabocchiati su un pezzetto di carta. Pensava che facessero parte di una canzone o di qualche poesia. Dice che non avevano un significato particolare». Versi che le ronzavano sempre per la testa. Un segreto, un messaggio in codice, tramandato di generazione in generazione, come accadeva alle leggende, alle favole e alle parole che le madri sussurravano o cantavano ai loro bambini. «Non dire addio. Sono partita per la terra sconosciuta, Dove finalmente sarai mio.» Natascia raggiunse Bethany, che stava contando sulla punta delle dita le contee che riusciva a individuare. «Credi davvero che l'autrice del diario sia una tua antenata?» «Me lo ha detto mia nonna.» «Non è con lei che sei imparentata.» Natascia tolse di tasca la lettera di Jeanette e gliela porse. Quando Bethany ebbe finito di leggere, guardò Natascia con occhi increduli. «Parla di Lizzie?» «Sì, è lei la tua antenata.» I suoi occhi volarono verso Adam, poi tornarono su Natascia pieni di emozione e di gratitudine, come se le dovesse la realizzazione dei suoi sogni. Si scostò una ciocca di capelli dal viso. «Ne ero sicura» sussurrò. «Mi sembrava di conoscerla come conosco me stessa.» Si mise una mano stretta a pugno sul petto. «Come se lei fosse qui con me, tutto il tempo.» «Infatti.» Adam passò un braccio attorno alla vita di Bethany, che lo abbracciò, sempre tenendo in mano la lettera. Si appoggiò a lui, sorrise e scosse la testa con incredulità. «Domani, quando mi sveglierò, scoprirò che è stato tutto un sogno.» Poi, rivolgendosi ancora a Natascia: «Papà avrebbe voluto chiamarmi Elizabeth, ma alla mamma non piaceva. Lizzie e i Preraffaelliti non le interessavano». «Per te è diverso» disse Natascia con dolcezza. «Lizzie era una madre
che aveva perso la sua bambina e tu sei una bambina che ha perso la madre.» Vedendo l'espressione che si era dipinta sul viso di Bethany, Natascia desiderò rimangiarsi quelle parole. «Alla nascita, la bambina di Lizzie era cianotica» riprese. «Il suo cuore non funzionava come avrebbe dovuto.» «Questo noi non possiamo saperlo, a distanza di un secolo...» disse Adam, intromettendosi nella conversazione. «Ma Eleanor visse sino a sessant'anni» continuò Natascia. «Ho una copia del suo certificato di morte che lo dimostra. E tua nonna ne aveva ottanta quando è mancata. La tua bisnonna e tuo nonno avevano passato i cinquant'anni. Una bella età per quei tempi. Anche Lizzie avrebbe potuto vivere a lungo se... la sua vita fosse stata più felice.» «Natascia ha ragione» disse Adam. «Se Rossetti non avesse avuto storie con altre donne, se fossero riusciti a creare una vera famiglia...» «Finora la tua vita è stata simile a quella di Lizzie.» Natascia sorrise incontrando gli occhi di Adam. «Anche tu ti sei innamorata di un artista per il quale hai posato come modella. Ma il tuo futuro dipende da te.» Le diede il foglietto con le parole scritte da Lizzie. «I segreti possono essere una maledizione. Finalmente la storia di Lizzie e di Eleanor non è più un segreto.» Rimasero in silenzio per qualche minuto, con lo sguardo perso nel tramonto, inseguendo ciascuno i propri pensieri. La mente di Natascia vagava su un'altra collina. La Fish Hill. Quando Marcus le aveva chiesto se fosse possibile tornare al passato, avrebbe dovuto rispondere di sì. Avrebbe dovuto dirgli che il passato era sempre con lei. «Laggiù c'è il Warwickshire» disse infine Bethany indicando un punto imprecisato dell'orizzonte. «Chissà dov'è la casa di papà.» Poi si volse verso Natascia. «Il villaggio dove vivi è da queste parti, vero?» «Meno di un chilometro su per quella strada.» Natascia era sconcertata. «Non sei venuta a Snowshill a cercarmi la sera dell'ultimo dell'anno?» Bethany scosse il capo. «No, ero a Kelmscott. Stavo male.» «Allora era qualcun altro» disse Natascia, fingendo di non dar peso alla cosa. Una ragazza vestita di grigio, pallida, con i capelli lunghi. "Un fantasma?" Una nuvola nascose per un attimo il sole. Bethany rabbrividì. Osserva-
rono in cielo il volo circolare di un'allodola che si abbandonava ad ali spiegate alle correnti d'aria. La ragazza all'improvviso si avvicinò al muretto di cinta, come per lanciarsi nel vuoto. Natascia vide la mano di Adam afferrarla per un braccio e tirarla indietro. Bethany si appoggiò al parapetto, sporgendosi per guardare, giù in basso, una famiglia, composta da padre, madre e due ragazzine. Da quella altezza sembravano pupazzi. Quando Bethany tornò a voltarsi, Natascia ebbe la certezza che i fantasmi erano spariti per sempre dai suoi occhi. In controluce, illuminati dai raggi dorati del sole al tramonto, i capelli di Bethany brillavano rossi come il fuoco. Epilogo Una settimana dopo l'apertura della mostra, Bethany chiamò l'«Oxford Times» per offrirsi di essere intervistata. Le sue rivelazioni suscitarono grande interesse. Il giorno seguente il giornale uscì con due pagine, illustrate dalle fotografie di Adam. La storia fu ripresa dalla stampa nazionale e dalla televisione. La gente faceva la fila per visitare la mostra. Tutti volevano vedere la pronipote di Lizzie Siddal che posava nella reinterpretazione del quadro che aveva reso immortale la sua antenata. Anche Bethany ne avrebbe ricavato la sua parte di fama e di immortalità. Tutti volevano sapere del fotografo che l'aveva scoperta. Così, pensò Natascia, Jake Romilly alla fine aveva perso. Nel modo per lui più amaro. Postfazione I personaggi di questo romanzo si collocano a metà strada tra la realtà e la fantasia. Sono personaggi storici Lizzie Siddal e Dante Gabriel Rossetti, naturalmente, ma anche alcuni dei Marshall. John Marshall fu veramente il medico di Rossetti. Aveva uno studio in Savile Row e sua moglie si chiamava Ellen. Ebbero una figlia di nome Jeanette che ha lasciato una serie di diari. Il dottor Marshall seguì costantemente Lizzie Siddal durante la sua lunga malattia.
La storia di Lizzie e di Gabriel è vera in ogni sua parte, tranne per quanto riguarda la loro bambina, che nacque morta. Veri sono gli episodi della esumazione nel cimitero di Highgate e della convocazione del dottor Marshall nell'appartamento di Blackfriars due giorni dopo la morte di Lizzie, perché Rossetti non voleva credere che la moglie fosse veramente morta. Storica è anche la richiesta di Rossetti di essere sepolto a Birchington e non a Highgate. Al tempo corse voce che Lizzie avesse lasciato un messaggio d'addio, ma questo documento, ammesso che sia esistito, non è mai stato trovato. Mi sono presa un'altra libertà artistica a proposito di Chatham Place, la casa dove Lizzie visse con Rossetti e dove morì. Purtroppo l'edificio è stato distrutto per far posto alla rotonda di Blackfriars. Le schede del censimento del 1861 per il distretto di Westminster St James sono andate veramente perdute. Ringraziamenti Nella scrittura di questo romanzo si sono dimostrati essenziali alcuni libri sia di genealogia sia di storia del movimento preraffaellita. In particolare, The Legend of Elizabeth Siddal di Jan Marsh (Quartet Books, 1989) e Dante Gabriel Rossetti Painter and Poet (Weidenfeld and Nicolson, 1999) sono stati di importanza cruciale. Naturalmente mi assumo ogni responsabilità per gli eventuali errori presenti nella mia versione romanzata dei fatti storici. Questo libro non avrebbe potuto essere scritto senza l'accurato lavoro di ricerca di Jan Marsh. Ho trovato una fonte importante in Ancestor Syndrome: Transgenerational Psychothempy and the Hidden Link in the Family Tree (Routledge, 1998) di Anne Ancelin Schutzenberger. Le notizie sull'opera di Julia Margaret Cameron sono desunte da Julia Margaret Cameron's Women di Sylvia Wolf (Art Institute of Chicago, 1998). I diari di Jeanette Marshall e la vita dei membri della sua famiglia sono oggetto di indagine nel lavoro di Zuzanna Shonfield, The Precariously Priviledged: A Professional Family in Victorian London (Oxford University Press, 1987). A Marion Edwards va il merito di esser stata la prima studiosa a utilizzare i documenti d'archivio per ricostruire la storia di Lizzie. Mi sono servita di numerosi testi di genealogia, in particolare di: Never
Been Here Before di Stella Colwell (PRO Publications, 1998); dell'Oxford Companion to Local and Family History (Oxford University Press, 1996) e della Good Web Guide to Genealogy di Caroline Peakock (The Good Web Guide Limited, 2000). Per la storia delle Cotswold Hills e di Snowshill le fonti sono state The Cotswolds di Rod Talbot e Robin Whiteman (Weidenfeld & Nicolson, 1986); Snowshill: Portrait of a Village di Caroline Mason (Thornhill Press, 1987) e Spirit of the Cotswolds di Susan Hill (Michael Joseph, 1988). Altre fonti utili comprendono: The Primal Wound: Understanding the Adopted Child di Nancy Newton Verrier (Gateway Press Ine, 1999); Making Faces: Using Forensis and Archaeological Evidence di John Prag e Richard Neave (British Museum Press, 1997); Highgate Cemetery: Victorian Valhalla di John Gay e Felix Baxter (John Murray Publishers Ltd, 1984); The Victorian Celebration of Death di James Stevens Curl (Sutton Publishing Ltd, 2000) e Love Beyond Death: The Anatomy of Myth in the Arts di Rudolph Binion (New York University Press, 1993). Un ringraziamento particolare devo a William George Hunt, dell'Istituto di Araldica e a Kathy Wilshaw, che, proprio come Natascia, vive nelle Cotswold Hills ed è una genealogista di professione. Senza Andrew Wilkie, professore di Genetica all'Università di Oxford, che mi ha dato preziose informazioni sulla cardiopatia ipertrofica e mi ha impartito un corso intensivo sulla genetica, non mi sarebbe stato possibile creare il personaggio di Bethany, la cui psicologia è modellata sulla sua storia genetica. A questo proposito devo ringraziare anche il dottor Richard Winsley dell'Unità di ricerca cardiologica dell'Università di Exeter. Un grazie al sergente Rebecca Mountain per le informazioni che mi ha elargito sulle procedure della polizia investigativa. Sono debitrice a Geoff Woolf del Club dei Proprietari di Sunbeam Alpine per avermi illuminato sullo straordinario mondo di questa macchina sportiva. Infine ringrazio per l'indefesso sostegno e per lo stimolo che mi hanno offerto - dimostratisi indispensabili nella realizzazione del personaggio di Natascia - Jane Wood, Eachei Leyshon, Sophie Wills, Laura Morris, Carole Blake e Julian Friedmann. Fiona Mountain dicembre 2001
FINE