FERDINANDO MAURICI
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FERDINANDO MAURICI
L'EMIRATO SULLE MONTAGNE
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CENTRO DI DOCUMENTAZIONE F RICERCA PER LA SICILIA ANTICA
«PAOLO ORSI»
FERDINANDO MAURICI
L'EMIRATO SULLE MONTAGNE Note per una storia della resistenza musulmana in Sicilia nell'età di Federico II di Svevia
Introduzione di VITTORIO GIUSTOLISI
Fig. 1 — Monte Jato. Versante settentrionale.
"e non ti lascia il rumore dei carri rossi di saraceni e di crociati" (S. Quasimodo, Che lunga notte)
CENTRO DI DOCUMENTAZIONE E RICERCA PER LA SICILIA ANTICA
«PAOLO ORSI»
INTRODUZIONE
© Copyright 1987 by Centro di Documentazione e Ricerca per la Sicilia Antica «P. Orsi»
Durante le campagne di ricerca da me svolte nella Valle del Belice, svariate sono state le volte in cui mi sono imbattuto, quasi sempre sulla cima di alture, in stanziamenti medievali, le cui tracce di superficie più chiaramente leggibili (il cocciame sparso) suggerivano un'occupazione dei siti durante la prima metà del XIII secolo. Alcuni di tali siti sono stati segnalati nelle mie pubblicazioni, altri invece no, perché incompleti di dati sufficientemente congrui. La ribellione musulmana sotto Federico II, così come è possibile conoscerla dalle scarne notizie storiche rimaste, è stato il riferimento più plausibile a cui ho ritenuto dovere ricorrere per spiegare l'insorgere di alcuni fortilizi, posti in posizione esageratamente difensiva, specie quando a supporto della tesi ho potuto avvalermi di prove abbastanza eloquenti come ad esempio il ritrovamento di monete emesse dal capo dei rivoltosi, Ibn Abbad. Ma già nel 1974, quando conducevo un'esplorazione nei territori di Terrasini e Partinico, avevo percepito il ruolo strategico che nel Val di Mazara era stato assunto da una rocca sul Monte Palmeto ( la Montagnola), posta a guardia del litorale di S. Cataldo, il naturale sbocco a mare di Jato, notoriamente uno dei capisaldi dei ribelli musulmani. I ruderi di quest'ultima, ancora prima che venissero iniziati gli scavi ufficiali, mi avevano peraltro chiaramente suggerito la consistenza del problema storico, specie alla vista di un gruppo di sei monete d'argento di Ibn Abbad g 3), recuperate sulla superficie del terreno e consegnate al Museo Civico di Partinico (tali monete andate in un primo momento smarrite tra i materiali delle raccolte sono state finalmente ritrovate ed esposte). Occasione di ulteriore verifica della questione mi forniva poi l'esplorazione di Monte della Giudecca, da me effettuata nel 1983, dopo cioè che del sito, basandomi su presupposti topografici, avevo già proposto l'identificazione con Platano. L'indagine sul monte intrapresa soprattutto per accertare l'eventuale esistenza di insediamenti precedenti a quelli medievali, genericamente noti, mi aveva infatti permesso ;
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Stampato in Italia - Printed in Italy Stampatori Tipolitografi Associati - Via Maggiore Toselli, 21 - Palermo
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alcune precisazioni, purtroppo rimaste inedite, e tra queste la sicura ed intensa occupazione del sito tra le fine del XII e la prima metà del XIII secolo, epoca dopo la quale molto scarse apparivano le tracce di occupazione. Presento qui le immagini dei luoghi e dei ruderi a quel tempo ripresegg. 5-11) nonché quelle di alcuni campioni delle ceramiche (figg. 12-17) sparse nell'area dell'insediamento (attualmente presso il Museo civico di Partinico) e ciò al fine di mostrare le fasi principali di occupazione e la congruità dell'ipotesi proposta circa l'identificazione del sito con la fortezza di Platano. È stato però durante l'esplorazione di Rocca d'Entella (1978-1981), che tutta la problematica topografica relativa alla ribellione di Ibn Abbad ha acquistato ai miei occhi tanto interesse e fascino da indurmi a richiedere al dott. Ferdinando Maurici la redazione di un saggio sulle particolari vicende storiche, oltre che una sintesi delle acquisizioni archeologiche a queste collegabili. Tale lavoro ho ritenuto utile come primo passo verso lo studio di un punto nodale delle vicende siciliane no ad oggi trascurato dagli storici) dalla cui più corretta interpretazione penso dipenda una più valida opinione sul destino toccato ad un vasto territorio, recentemente, di nuovo colpito, da calamità naturali. Pur non essendo un esperto di storia medioevale, ma avendo studiato le fasi culturali più antiche del territorio in questione, allo scopo di fornire un'indicazione per future indagini, mi permetto di segnalare quella che ritengo sia una omissione nel lavoro di Maurici: il totale silenzio sulla popolazione locale di tradizione, cultura e religione non musulmana, dal cui comportamento, a mio avviso favorevole ai rivoltosi, potremmo forse evincere, quale peculiare manifestazione, un'ancestrale vocazione all'indipendenza (mi riferisco chiaramente a tutta la storia del popolo elimo). Altra obiezione a conclusioni di carattere particolare di Maurici, vorrei muovere riguardo alle sue vedute intorno alla fine di Ibn Abbad (vero `giallo" storico, difficilmente risolvibile in termini d/nitivi) nonché in merito all'opinione negativa espressa circa l'esistenza di una figlia del capo ribelle, apparsa alla luce della storia solo di recente, grazie alla fortunata scoperta di un testo del XIV secolo di al-Himyari. In merito alla prima questione, in seguito probabilmente allo scambio di opinioni intercorso, ho notato che F Maurici ha leggermente modificato la sua opinione (in un primo tempo del tutto aderente alla versione del Tariq Mansuri). Non sono riuscito a convincerlo invece circa l'effettiva esistenza di una `glia" di Ibn Abbad, che tiene Entella fino alla morte nonostante a tale proposito gli abbia anche prospettato l'esistenza di un'antica e significativa leggenda locale, che per sostanziare la mia tesi ho creduto opportuno fare rilevare in alcune sue varianti dalla dott.ssa Maria Carcasio e riprodurre in un libretto allegato al presente testo. Quel che mi ha convinto riguardo alla maggiore veridicità della versione di al-Himyari rispetto a quella del Tariq Mansuri, a parte naturalmente la
sopravvivenza delle tradizioni popolari, è stata: la precisa descrizione in alHimyari dei luoghi di Entella (descrizione che bisogna però adattare a situazioni cronologicamente successive); la considerazione che ben docilmente da una mentalità decisamente maschilista qual'è notoriamente quella della cultura araba sarebbe stato scambiato di sesso un personaggio che di tanta prodezza e coraggio aveva dato prova; la scarsa credibilità del Tariq Mansuri circa la resa spontanea di Ibn Abbad, quando cioè egli si trovava ancora provvisto di forze sufficienti per una resistenza, che nei fatti, anche dopo la sua morte, si è dimostrata tenace e di lunga durata. La morte di Ibn Abbad richiama alla mia mente quella molto recente del bandito Giuliano, disonoratamente ottenuta ed eroicamente travestita. Non mi meraviglierei in verità se l'uomo che Federico fece pubblicamente giustiziare fosse stato un sostituto di Ibn Abbad, oppure lo stesso Ibn Abbad proditoriamente catturato e forse già ucciso. Venendo ad Entella e considerando l'ampia estensione del suo altipiano, tutto interamente occupato dai rivoltosi (così come chiaramente indicano i ritrovamenti) è facile capire come sia accaduto che da tale consistenza difensiva abbia deciso di resistere la faglia di Ibn Abbad quando colse in inganno Federico, facendosi inviare trecento cavalieri. Tale episodio infatti sarebbe inspiegabile qualora lo si volesse riferire al castelletto arroccato sul picco più elevato dell'altipiano (Pizzo Regina), luogo verosimilmente di dimora del capo, capace di contenere, al massimo, un centinaio di persone e che dovette servire come ultimo baluardo di resistenza. A tale ultimo rifugio, a cui si oppose, dopo che l'altipiano era stato interamente preso dall'armata sveva, una torre di sorveglianza, dobbiamo ritenere alluda il racconto di al-Himyari quando riferisce della fiera e disperata risposta che la figlia di Ibn Abbad diede alla subdola proposta amorosa fatta da Federico. La torre in questione, da me intravista ancora sepolta, ritengo sia quella ormai messa del tutto allo scoperto dagli scavi della Scuola Normale di Pisa (figg. 18-19). In realtà sarebbe stato molto facile, per un'armata che era riuscita a prendere la vasta rocca, eliminare d'assalto la resistenza del castelletto, ancora del tutto interrato, che si trova sul picco da me indicato con la lettera L nella notizia preliminare che ne ho fornita. Cosa è stato che ha fatto indugiare chi conduceva le operazioni militari e lo ha indotto a costruire tale eventuale torre di guardia? Era solo la considerazione che gli occupanti il castelletto, in verità forse non più di cinquanta, completamente bloccati e senza via di scampo, in breve tempo sarebbero stati costretti ad arrendersi? Oppure fu la curiosità di Federico II a volerlo. Anche se sa di romantico, a me piace credere che sia stato così. È più che pensabile infatti che Federico volesse conoscere di persona la donna che gli aveva dato tanto filo da torcere. Da quale presupposto poteva sorgere d'altronde la storia dell'interesse amoroso 7
di Federico se non dalla constatazione della sua effettiva presenza nel luogo e nelle circostanze descritte! Come ho già detto in altra sede, non so come debbano interpretarsi le ossa umane che a varie riprese sono state ritrovate nella zona immediatamente adiacente al castelletto, visto che esse molto probabilmente non provengono da sepolture. Anche questa volta a me piace credere che sia stato in seguito ad una sortita disperata che si sia concluso l'ultimo atto dei ribelli di Entella, allo stesso momento in cui la figlia di Ibn Abbad spirava per la morte che lei stessa si era inflitta. È evidente che si sono fatte una serie di illazioni. Ma in tal modo spero lo stesso di aver potuto iniziare un dibattito nel quale è auspicabile che nuovi e più autorevoli contributi potranno aggiungersi per la scoperta di una verità storica che io considero tra le più affascinanti del medioevo siciliano. Soprattutto però spero d'aver potuto sollecitare l'interesse scientifico di chi predisporrà al più presto possibile lo scavo del castelletto, dove la tradizione popolare continua a riconoscere la tomba della "Regina': A questo ultimo scopo è finalizzata l'edizione dell'opuscolo che aggiungo al saggio di Maurici, dove insieme alle tradizioni popolari relative alla vicenda è riportata in tre lingue diverse il racconto di al-Himyari. Gli episodi di quest'ultimo, infine, ho dato ad illustrare ad alcuni artisti siciliani, tutto quanto come omaggio ad Entella, ma soprattutto allo spirito indomito di libertà, rimasto purtroppo anonimo, che nell'alto della sua rocca visse i suoi ultimi momenti di disperata agonia. Vittorio Giustolisi
8 Fig. 2 — Monte Jato. Versante settentrionale. Accesso alla sommità attraverso un sentiero scavato nella roccia. Foto eseguita nel 1968.
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Fig. 4 — Monte Jato. Fort ificazione medievale ancora interrata.
Fig. 3 — Monete di Ibn Abbàd rinvenute sul Monte Jato. Foggiate in una lega d'argento e rame esse recano n naskhi le scritte seguenti:
Muhammad figlio di Abbad principe dell'Islam. / Non vi è altro dio all'infuori di Allah e Maometto è il Suo prfeta. I loro rispettivi diametri e pesi sono i seguenti: 1 (mm. 16; gr. 0,35 c.); 2 (mm. 15; gr. 0,40 c.); 3 (mm. 12; gr. 0,40 c.); 4 (mm. 15; gr. 0,43 c.); 5 (mm. 17; gr. 0,55); 6 (mm. 16; gr. 0,66 c.). Si tratta di denari, ad eccezione della moneta di cui al n° 3, la quale probabilmente è invece un mezzo denaro. Il peso piuttosto basso dei denari potrebbe trovare spiegazione nelle particolari ristrettezze in cui vennero spesso a trovarsi i ribelli arabi. Pesi più alti troviamo in una rassegna fatta recentemente da Franco D'Angelo (in Studi Magrebini, VII, 1975, pp. 149-153). Come l'autore stesso mi avverte, però, la pesatura degli esemplari presentati non è stata fatta con bilance di precisione.
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Zona archeologica di Monte della Giudecca. La freccia indica la normale via d'accesso.
Fig. 6 — Monte della Giudecca ripreso dal letto del fiume Platani. Vers ante N.O. Il varco, al centro, difficilmente praticabile, era probabilmente difeso in alto da un muro, forse interrato, simile a quello visibile in cima ad un altro varco consimile sul vers ante N.E. I due varchi indicati, insieme all'accesso principale sul versante S.E. (fig. 8), sono le sole vie di penetrazione all'antico insediamento. Tutto il resto del contorno del monte, infatti, presenta pareti strapiombanti.
Fig. 9 — Monte della Giudecca. Veduta di un contrafforte (alt. m. 209 s.l.m.) che si protende verso Nord dando adito, ai due angoli della linea d'attacco alla massa del monte, a declivi ascendibili dalla valle. Nell'angolo di N.E. emergono dal terreno le tracce di un grosso muro di sbarramento. L'abitato vero e proprio di Monte della Giudecca comincia alle Case Giudecca (m. 223 s.l.m.), a partire dalle quali doveva estendersi un qua rt iere basso di Platano. A quest'ultimo si lega a Nord il contrafforte di cui sopra, la cui superficie pianeggante è probabile che fosse anch'essa abitata. È forse interessante notare che il viottolo proveniente dall'esterno del monte (fig. 8), dopo aver percorso il limite settentrionale di tale presunto qua rt iere basso, si avvia proprio verso di esso.
Figg. 7-8 — Monte della Giudecca. Vers an te S.E. La freccia nella fig. 8 indica il punto di accesso più agevole per pervenire alla sommità del monte. Attraverso tale passaggio, vero e proprio varco tra due rilievi ancora sovrastati da antichi muri, in senso sale un viottolo che sicuramente ricalca l'antica via di penetrazione. Questa si inoltra tra naturali terrazzamenti rocciosi dai quali in caso di attacco sarebbe stato facile approntare una difesa.
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Fig. 12
Egg. 10-11 — La parte più ampia dell'abitato si estende invece sul pendio posto intorno al cocuzzolo (m. 327 s.l.m.). Essa forma un ampio semicerchio il cui diametro è delineato dal ciglio roccioso sud-orientale del monte. La superficie del cocuzzolo, pianeggiante, è contenuta, lungo il vers ante del pendio, da un muro di difesa costituito da massi legati da malta cementizia. Nel suo interno essa presenta tracce di una struttura architettonica non facilmente interpretabile.
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Fig. 15 Fig. 17
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Figg. 12-17 — Frammenti ceramici raccolti sulla superficie del terreno di Monte della Giudecca e custoditi presso il Museo Civico di Partinico. La loro datazione per quanto attiene l'età normanno-sveva stata oggetto di scambio di opinioni col dott. Franco D'Angelo, i cui suggerimenti ho accolto, ad esempio, nel riferire genericamente al XII secolo le ceramiche ricoperte di vetrina verde brillante. Ritengo di dovere esprimere però l'impressione, e con ciò mi allineo con qu an ti ancora ricorrono ad ampi archi di secoli per datare le produzioni ceramiche del periodo in questione, che molto poco è stato finora acquisito sull'argomento e che bisognerà quindi attendere la pubblicazione di nuovi scavi sistematici perché si possano costituire i parametri valevoli per datazioni più certe.
Fig. 12 — Monte della Giudecca. Tegole solcate sulla superficie esterna. Sono tipiche dell'età bizantina dal V sec. d.C. in poi. Il tipo di impasto è assolutamente atipico in un esemplare (ultimo in alto a destra) in cui compare frammista della paglia. Tale ultima tecnica, normale nei coppi medievali, è probabile quindi che sia stata introdotta dagli Arabi o almeno al tempo della loro occupazione. Mi sembra difficile infatti che la tipologia bizantina possa essersi protratta di molto oltre tale epoca. Fig. 13 — Monte della Giudecca. Fr.ti di ceramica acroma con solcature orizzontali ricavate al tornio sulla superficie esterna (: 1-3, 5, 8-9, 11-12), appartenenti a contenitori vari (in genere anfore e brocche) di età bizantina (: 9 ?), araba, normanna, sveva e probabilmente di età successive. Sono presenti anche: un fr.to di anfora con decorazione a pettine (: 6); un fr.to di ansa (: 4) con scanalatura al centro (XI-XII sec.); un fr.to di bacino policromo (: 7) ricoperto di invetriatura verde chiara (XII sec.); un fr.to di un probabile supporto circolare modanato (: 10) costituito, all'interno, da un nucleo giallastro ricoperto da argilla rossiccia e rivestito, all'esterno, di un engobbio giallo paglierino. Fig. 14 — Monte della Giudecca. Fr.ti di bacini decorati con incisioni varie (reticoli e linee) e rivestiti di vetrina verde brill an te (: 1-2, 4-11). Sono databili intorno al XII secolo. Un fr.to (: 3), appartenente ad un orlo di bacino dall'engobbio eroso e decorato con motivo a reticolo entro due linee parallele, è databile invece tra il XIII e il XIV secolo. Fig. 15 — Monte della Giudecca. Fr.ti di bacini ricoperti di vetrina verde brillante (: 1-5; 7-11; 13-19) databili intorno al XII secolo; fr.to di ansa ricoperta di vetrina verde brill an te (: 6) appartenente a brocca del XII secolo; fr.to di bacino ricoperto di vetrina turchese (: 12) di probabile fabbrica nord-africana del XII secolo. Fig. 16 — Monte della Giudecca. Fr.ti di bacini ricoperti di vetrina verde brillante (: 1-13, 15-18, 20) databili intorno al XII secolo; fr.to di ciotola decorata a spirali brune (: 14) su fondo crema della medesima epoca; fr.to di coperchio (: 19) decorato da vetrina verde e bande brune di epoca probabilmente normanna. Fig. 17 — Monte della Giudecca. Fr.ti appartenenti a piccoli recipienti (brocchette) di ceramica acroma di età normanno-sveva (: 1-5); fr.to di selce bionda lavorata (: 6).
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Figg. 18-19 — Rocca d'Entella. Edificio medievale messo in luce dai recentissimi scavi condotti dalla Scuola Normale di Pisa. Trattasi verosimilmente di una torre di età sveva.
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Nel panorama della più recente storiografia sulla Sicilia medievale, l'età sveva, da Enrico VI a Manfredi, continua a presentare, insieme al successivo periodo della dominazione angioina, vaste zone di vuoto; e ciò nonostante la ripresa degli studi di storia medievale dopo la tragica vicenda della seconda guerra mondiale, venisse inaugurata in Sicilia dal Convegno Internazionale di Studi Federiciani (1) svoltosi in occasione del VII centenario della morte di Federico. La medievistica del secondo dopoguerra non sembra però aver accolto il suggerimento di Palermo ed è stata caratterizzata, per ciò che concerne l'età sveva, più che da nuove ricerche, dalla ristampa di buona parte delle opere più significative apparse nel trentennio precedente in cui, per motivazioni cui è superfluo accennare, la figura di Federico II e la sua epoca avevano costantemente attratto l'attenzione degli studiosi. Hanno così conosciuto più di una riedizione lo studio di Gabriele Pepe (2) e le ricerche di Antonino De Stefano (3); l'opera di Morghen sull'età di Manfredi (4) e la notissima biografia federiciana di Kantorowicz (5), verso la quale dimostrano chiaramente il loro debito anche le più recenti ricostruzioni della vita dello Svevo (6). La cui personalità grandeggia a tal punto sullo sfondo della storia siciliana, italiana e mediterranea della prima metà del XIII secolo che ben difficilmente la storiografia ha saputo sfuggirne il fascino evitando, nel delineare a fortissimo rilievo il profilo di una vita e di una vicenda eccezionali, di lasciare nell'ombra la concreta realtà nella quale e sulla quale Federico si trovò a vivere ed agire. E ciò è tanto più vero per la terra che dell'eredità normanna di Federico costituiva, almeno formalmente, il centro ed il cuore, la Sicilia: per la quale si è a lungo adottato, all'interno di una visione a tutti i costi unitaria della storia meridionale (7), un criterio di omologazione 25
ed appiattimento sulle vicende e sulle realtà, a loro volta tutt'altro che uniformi, delle regioni continentali del regnum. Così, per Kantorowicz, il termine Sicilia, "diletta fra le terre", equivaleva alla totalità dei territori meridionali di Federico, mentre siciliani, "diletto popolo di Sicilia", "popolo eletto e suo fra tutti" (8) erano tutti i suoi sudditi `regnicoli'. E da tale equivoco non sembrano essersi liberati del tutto i più recenti biografi dello Svevo nelle cui opere l'isola stenta a trovare spazio ed individualità sufficienti, così che il termine Sicilia continua ad equivalere, in fondo, al regnum nella sua interezza territoriale (9). Non può quindi meravigliare il fatto che l'unica ricerca monograficamente dedicata alla Sicilia dell'età degli Hohenstaufen rimanga in pratica, a tutt'oggi, quella datata di W. Cohn (10), opera diligente e ben documentata ma sostanzialmente nè profonda nè originale, attenta più alla struttura politicoamministrativa dell'isola che non alla dinamica sociale economica politica e purtroppo deturpata, nella traduzione italiana, da numerosi errori di stampa e da sviste a volte decisamente irritanti. Anche lo stesso congresso siciliano del 1950, d'altra pa rt e, non aveva dedicato particolare spazio alle problematiche peculiari delle vicende isolane, con l'eccezione di alcuni contributi in campo storico-artistico; nè molto diversamente si è verificato, più di recente, nelle Giornate Federiciane di Oria o nelle quinte e seste Giornate Normanno-Sveve di Bari, nelle quali la Sicilia appare in primo piano quasi soltanto nelle relazioni di Salvatore Tramontana dedicate a ceti sociali, gruppi etnici e (nelle seste giornate), rivolte (11). Una lettura anche non molto attenta di questi contributi, che con insistenza si soffermano sulle vicende del gruppo etnico `diverso' per eccellenza costituito dai musulmani di Sicilia, basterebbe, da un lato, a porre in evidenza la fo rt e peculiarità della storia siciliana nell'età di Federico II, dall'altro, a rimarcare la notevole sperequazione esistente fra la produzione storiografica dedicata all'età normanna e quella sul periodo immediatamente successivo. La presenza nel tessuto etnico e sociale della Sicilia di una componente musulmana ancora forte ed in grado di portare avanti scelte politiche e culturali opposte a quelle dominanti e l'eliminazione di questa minoranza ad elevatissimo coefficente di pericolosità, costituiscono, a nostro giudizio, l'aspetto forse più rilevante della realtà siciliana della prima metà del XIII secolo, laddove non si voglia fare esclusivamente storia delle dinastie o degli uomini succedutisi sul trono. La lotta dei musulmani contro Federico II e la loro inevitabile sconfitta, d'altro canto, non furono che la conclusione tragica di un processo storico avviatosi con l'arrivo nell'isola dei primi
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contigenti normanni nell'XI secolo; l'epilogo violento e, allo stato attuale delle ricerche di non immediato ed agevole raccordo con la situazione precedente, di un problematico rapporto di convivenza che conferisce all'intera storia medievale siciliana un suggello di particolare originalità e fo rt e drammaticità. Misconosciuta a lungo o addirittura stemperata da tutta una tradizione storiografica se è vero, com'è vero, che la vicenda dei musulmani di Sicilia, dopo Amari (12), è stata troppo spesso piegata alle esigenze di un mito esaltante e difficile a tramontare come quello della monarchia siciliana del XII secolo, fo rt e, tollerante ed in grado di mediare e risolvere, sempre o quasi sempre in maniera brillante, aspri contrasti etnici, sociali, religiosi (13). Mito di cui in fondo, pur con una valenza propria ed un ambito indipendente e travalicante, fa parte integrante anche quello di Federico II, il cui rapporto con l'islamismo siciliano è stato in genere o fugacemente accennato come un semplice episodio dai biografi dello Svevo o dagli autori delle pochissime storie generali dell'isola, o positivamente risolto nella prospettiva, parziale e ristretta se considerata a se stante, di una Sicilia mediatrice di cultura fra Oriente ed Occidente grazie anche ad un sovrano appassionatamente attratto dalla cultura musulmana (14): un campo di ricerca, questo, in ogni caso meritevole di ulteriori approfondimenti e di nuove indagini. Se quindi si assume come presupposto essenziale che la fine dei musulmani di Sicilia non può esaminarsi e venir compresa se ridotta a semplice episodio della biografia di Federico e della sua lotta contro le forze centrifughe esistenti nel regnum (sul continente i baroni, in Sicilia i musulmani), si impone necessariamente una riconsiderazione dei rapporti instauratisi fra vincitori e vinti fin dall'atto della conquista normanna dell'XI secolo: un franco ritorno, in fondo, se non alle conclusioni (a tutte le conclusioni) certamente alle problematiche ed alle prospettive di Michele Amari. Che, se tralasciate non senza alcune significative eccezioni (15) dalla successiva medievistica, vedono confermata la loro modernità ed attualità dalle più recenti indagini che, grazie anche ai risultati ottenuti dall'archeologia medievale, dallo studio della cultura materiale, delle forme di organizzazione dello spazio urbano e rurale, pongono in primissimo piano, nella storia della Sicilia medievale, il problema del rapporto e del confronto fra gruppi etnici, tradizioni, fedi diverse; o, in altre parole, le dinamiche tipiche dei processi di acculturazione (16), raramente privi, accanto a possibili positivi sincretismi, di tensioni fortemente drammatiche. La conquista della Sicilia nella seconda metà dell'XI secolo costituisce un evento traumatico caratterizzato, in momenti e luoghi diversi,
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anche da fortissimi connotati di violenza. La resistenza musulmana alla penetrazione normanna, ancorchè spesso disorganica, fu lunga e caparbia costringendo i conquistatori, in alcuni casi, ad adottare soluzioni drastiche e sanguinose. Dopo l'avanzata relativamente agevole lungo la dorsale montuosa del Val Demone, facilitata dalla prevalenza, nella regione, di cristiani di lingua e rito greco-bizantino, le operazioni belliche si concentrarono nelle zone ove più profondo e radicale era stato il fenomeno di islamizzazione: il Val di Mazara ad occidente e, a Sud-Est, il Val di Noto. Il destino militare della conquista si risolse, in pratica, sotto le mura delle più importanti città e terre musulmane di questi due settori dell'isola: la storia della penetrazione normanna, di fatto, più che da scontri campali (che comunque non mancarono, specie nella prima fase), è caratterizzata dal blocco ed assedio di singoli abitati fortificati e dalla razzia nelle campagne finalizzata, oltre che al conseguimento di bottino ed all'instaurazione di un clima di insicurezza e terrore continui, a tagliare le fonti di approvvigionamento del nemico, riducendolo alla fame ed affrettandone così la resa. I cui termini vengono generalmente trattati fra i capi cristiani ed i maggiorenti musulmani (e, almeno in un caso, anche greci) dalle varie località, mentre più raro, come testimoniano Amato e Malaterra, è il caso di assalto finale a ferro e fuoco di una fortezza decisa a resistere ad oltranza. Ciò che si verificò nel 1064 alla rocca di Bugiamo, presso Girgenti, distrutta totalmente con la deportazione in massa dei superstiti a Scribla, in Calabria, è in fondo un'eccezione, anche se rappresenta un precedente significativo della soluzione finale adottata contro i saraceni da Federico II quasi due secoli dopo. La maggior pa rt e delle capitolazioni avviene, quindi, dietro la stipula di patti (scritti presumibilmente) dei quali, a differenza di ciò che si è verificato per la reconquista del regno di Valenza, non ci è pervenuto alcun esemplare. A patti si arrese Palermo nel 1072, quando già i musulmani si erano ridotti all'estrema difesa della cittadella; a patti cedette Mazara e così Taormina e Trapani dietro cui capitolarono una dozzina di munitissima castra che difendevano la regione circostante; a condizioni ancora cedette Girgenti la cui resa fu fatale ad un'altra decina di fortezze, fra cui anche Platano e Guastanella che nel XIII secolo saranno fra i centri della resistenza contro Federico II. A patti, accettando di corrispondere statutum, servitium et censum, si erano evidentemente arresi anche i centri fortificati di Jato e Cinisi che, ribellatisi nel 1079, assediati fortissime da Ruggero I e costretti nuovamente a componere foedum, saranno anch'essi fra le roccaforti dei ribelli saraceni nella prima metà del XIII secolo. A condizioni, infine, capitolarono Siracusa, Butera, Noto 28
e Malta, ultimi centri della resistenza musulmana alla conquista dell'XI secolo, caduti dopo la mo rt e del condottiero Ibn Abbad (17). Se l'espugnazione violenta di alcune località ostinatesi nella resistenza ad oltranza lasciava gli abitanti completamente alla mercè del vincitore, esponendoli alle rappresaglie, alle deportazioni ed anche all'eccidio di massa, il genocidio non era una soluzione possibile nè obiettivamente praticabile su larga scala nella Sicilia del tardo XI secolo: nè la conquista normanna avrebbe potuto rimanere allo stato iniziale, conservando i caratteri di un'occupazione militare di territorio nemico. In fondo, già la resa a condizioni stabiliva automaticamente un modus vivendi (o meglio convivendi) che, seppure non testimoniato direttamente da patti di resa eventualmente affidati alla garanzia della scrittura, può essere in pa rt e e non senza difficoltà ricostruito nei punti fondamentali: gli stessi su cui si baseranno i rapporti fra vinti e vincitori anche dopo la fase della conquista. Condizione prima della resa e caratteristica essenziale dello status dei musulmani nella Sicilia normanna è la totale sottomissione ai conquistatori, sancita dal pagamento di una tassa che assicurava ai vinti l'incolumità fisica, il rispetto delle usanze e del credo religioso, la protezione da parte dell'autorità: ciò nel momento stesso in cui ne cristallizzava la condizione di inferiorità, derivante dalla completa sconfitta militare, con un aggravio fiscale non lieve e certamente in maniera offensiva sul piano della dignità sociale e personale. La questione del pagamento della jizya nella Sicilia dei secoli XI e XII è stata a lungo oggetto di studio e polemica e se Michele Amari sostenne che ad essa fossero tenuti i so li ebrei (18), i risultati delle ricerche più recenti concordano pienamente sul fatto che il pagamento della capitazione accomunasse sotto gli Altavilla tutti i non cristiani e quindi, in primo luogo, i musulmani (19). La cui condizione, in pratica, non differiva molto da quella degli ahl al-dhimma (la `gente del patto') del diritto islamico, obbligati al versamento della jizya in cambio dell'aman (pace) loro accordata dai vincitori. L'inferiorità, che consisteva di fatto nella jizya, si esplicava per le popolazioni delle campagne nella condizione di villano, uno status giuridico e sociale che, come indicano recentissime indagini, poteva differire alquanto a secondo della zona e del tempo (20). Nella Sicilia citra Salsum ove la penetrazione latina fu più massiccia e più profonda l'importazione degli usi occidentali su una base meno compattamente islamizzata, le forme di sfruttamento del suolo e di organizzazione degli uomini appaiono più vicine alle forme tipiche del feudalesimo e del vilanage classico, contemplando la prestazione di servizi angarici sul 29
dominico: ma nella Sicilia occidentale profondamente islamizzata (e più precisamente nelle terre che costituiranno l'arcidiocesi di Monreale, per le quali disponiamo di documentazione eccezionale) la situazione presenta meno punti di contatto col feudalesimo latino, risultando in pratica un adattamento del modello musulmano dell'igta` (21). La presenza del dominico appare ridotta o addirittura nulla ed il signore (in moltissimi casi lo stesso sovrano e poi, dopo la fondazione dell'arcivescovado, l'abate-arcivescovo di Monreale) non richiede operae ai villani, esigendo da essi un canone in moneta e/o prodotti della terra coltivata, oltre al versamento della jizya. Sembra quindi che la conquista normanna abbia creato due principali categorie di villani fra la popolazione musulmana. Più numerosi furono i villani dotati di terra e vincolati in maniera indissolubile ed ereditaria ai fondi che coltivavano pagando su di essi un canone assimilabile al kharaj musulmano: erano veri e propri servi della gleba (22), registrati nelle jara'id e chiamati quindi, con espressione araba corrispondente al latino adscripticii, rijal al jara'id (`uomini del registro'). Meno cospicuo il secondo gruppo, cui appartenevano i muls, villani privi di terra e quindi `liberi' da vincoli giuridici che li legassero ereditariamente ad un fondo coltivato, ma anch'essi tenuti al pagamento della jizya (23) come i rijal al jara'id. Si potrebbe anche parlare di una terza categoria, costituita da mu/s che preferivano rinunciare alla loro `libertà' affidandosi ad un signore o ad una chiesa domandando in cambio favore e protezione, cioè, in altre parole, un minimo di sicurezza economica e forse anche fisica (e per essi era già pronto, e perfettamente adatto al caso, il termine latino oblat:). Nei confronti di queste masse di villani musulmani (come anche di quelli greci o ebrei), diversi per razza e per casta, feudatari e cavalieri francesi ed italiani, uomini di chiesa, semplici coloni e burgenses latini (spessissimo lombardi') costituivano un gruppo a parte, nettamente separato dai vinti dalla lingua, della fede religiosa, dalle usanze, ed in primissimo luogo dallo status giuridico caratterizzato dal godimento della libertà. Il potere comitale e poi reale, da pa rte sua, seguì nei confronti dei musulmani di Sicilia una politica variabile, oltre che nel tempo, anche da luogo a luogo, favorendo eclettismo ed acculturazione pacifica in alcune aree (Palermo sotto Ruggero II), ma intevenendo con violenza e determinazione altrove per sedare inquietudini o disordini e generalmente sostenendo, lontano dall'atmosfera orientaleggiante della corte, un regime di separazione, di apartheid giunge a scrivere Johns (24), destinato inevitabilmente a catalizzare la popolazione siciliana nelle due comunità reciprocamente ostili di cristiani e musulmani.
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Questa separazione si tradusse e si espresse anche nelle forme di insediamento adottate dai nuovi dominatori dell'isola. La prospezione archeologica, lo spoglio della documentazione, la stessa toponomastica indicano, non senza eccezioni e casi ambigui o misti, che la divisione gerarchica della popolazione si concretizzò nella differenza fra abitato chiuso, le terre ed i castra ove si insediarono i conquistatori e gli immigrati latini, ed abitato aperto, i casali (in arabo rahal) privi di mura ed indifesi, residenza degli indigeni musulmani o greci ridotti allo status di villani (25). Così, i due capisaldi della resistenza musulmana alla conquista dell'XI secolo — il plateau orientale del Val di Noto e la zona collinare-montuosa al centro del Val di Mazara — vennero isolati fra loro da una catena di terre e castelli feudali popolati da colonie di `lombardi'. Questi ultimi sono immigrati in Sicilia in uno spirito di crociata che determina con gli indigeni musulmani un rapporto difficile e conflittuale, destinato a precipitare in aperta aggressione quando si saranno alterati gli iniziali rapporti numerici e la crisi della monarchia avrà sguarnito momentaneamente i saraceni anche della incerta protezione che proveniva loro dall'essere stanziati su terre del demanio reale. Le stragi consumate dai lombardi su istigazione di Tancredi di Lecce (il futuro re) e Ruggero Sclavo nel 1161, la fuga conseguente dei musulmani superstiti verso il Val di Mazara, ad tutiora Sarracenorum oppida(26), dovettero probabilmente infliggere il colpo definitivo alla comunità islamica del Val di Noto, certamente già trattata in maniera molto dura al tempo della conquista e della feroce resistenza opposta in quella regione dal primo Ibn Abbad. L'autorità reale, che con Guglielmo I vive il suo momento più critico, non appare in grado di arginare l'ondata di violenza antimusulmana; essa anzi si genera nella stessa capitale e finisce col coinvolgere anche l'esercito regio nei cui ranghi, com'è noto, militavano contingenti musulmani accanto alle truppe cristiane. Spia inquietante dell'intima fragilità di una costruzione statale contraddittoriamente basata su una conflittualità irrisolta ed in fondo irrisolvibile all'interno di un modello di convivenza in cui ineguaglianza e diversità religiosa, razziale, sociale, costituivano, de jure e forse ancor più de facto, aspetto caratterizzante e strutturale. Il regno del Malo è quindi il momento in cui gli equilibri delicatissimi della convivenza ineguale mostrano chiaramente tutti i limiti e si inceppano per la prima volta in maniera eclatante. Ed è certo che alle profonde motivazioni interne (l'accresciuto peso numerico dell'elemento cristiano, la potenza raggiunta dal clero latino, l'aggressività della feudalità, l'insofferenza e l'odio contro gli eunuchi musulmani di corte) si
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sommassero le tensioni ed i contraccolpi emotivi di quanto si verificava a livello mediterraneo. Il risentimento e le preoccupazioni per la crisi e la fine del dominio siciliano in Africa del Nord dovettero trovare sfogo facile ed immediato sui musulmani dell'isola, tanto più che Maione, fin dal 1160, aveva provveduto al loro disarmo (27); mentre, secondo la testimonianza di uno storico musulmano, lo stesso Guglielmo I avrebbe minacciato lo sterminio dei saraceni siciliani come rappresaglia del temuto eccidio della guarnigione reale di Al Mandiah (28). Una notizia che, se fosse possibile accreditare senza alcun dubbio, basterebbe da sola a gettare ombre cupe sul mito della `tollerante' dinastia degli Altavilla. Il clima di rancore ed odio reciproco, ulteriormente arroventato dalle sanguinose vendette consumate dal gaitus Martino approfittando dell'assenza di Guglielmo, era destinato a durare anche dopo la mo rt e del Malo: episodi come la fuga in Africa dell'altro gaitus di corte, Pietro, o le condanne per apostasia pronunciate contro musulmani convertiti e ancora il processo di Robe rt o di Calatabiano, protetto e, a quanto pare, complice di nefandezze dei saraceni di palazzo, costituiscono spie evidentissime dell'ulteriore deterioramento dei rapporti fra musulmani e cristiani avvenuto, anche all'interno dello stesso ambito di corte, nel periodo della reggenza di Margherita e del cancellierato di Stefano di Perche. Dopo le stragi, le fughe e le emigrazioni degli anni di Guglielmo I, l'unica zona della Sicilia dove l'elemento musulmano fosse rimasto numericamente forte e socialmente rilevante era il Val di Mazara e soprattutto la zona interna di esso che dalle montagne alle spalle di Palermo scende a Sud verso Girgenti, passando per Corleone e quindi sotto Castronovo e Cammarata a comprendere il bacino del Platani e spingendosi ad Ovest oltre il Belice. Qui si erano rifugiati quanti erano sfuggiti nel 1161 al massacro fomentato da Tancredi e Ruggero Sclavo; qui erano stati probabilmente trasferiti (e lo indicherebbero i numerosi nisbas d'origine magribina) contingenti di prigionieri catturati nelle guerre d'Ifriqiyya: in questa zona, infine, i saraceni avevano potuto vivere con una certa libertà, secondo i loro antichi costumi. La creazione dell'arcidiocesi di Monreale (29) che fra il 1174 ed il 1182 raggruppò queste aree, lungi ovviamente dall'essere legata esclusivamente alla nota rivalità fra Matteo d'Ajello e l'Offamilio, rappresentò un'evoluzione netta nella politica seguita dalla monarchia nei confronti dei saraceni e costituì il tentativo di dare al problema musulmano una soluzione definitiva. Il territorio dell'arcidiocesi (ca. 1200 km. 2 ) venne concepito come un native homeland (30), una sorta di grande riserva ove i musulmani potessero vivere e lavorare la terra al riparo dalle persecuzioni dei feudatari e 32
dall'immigrazione lombarda' che aveva già violentemente distrutto la comunità islamica del Val di Noto. E ciò sotto il controllo diretto dell'arcivescovo-abate, investito di eccezionali poteri amministrativi e giudiziari (31). Il sovrano in tal modo affidava al grande ente ecclesiastico la gestione agraria e fiscale di una vasta area in gran pa rt e già demaniale, delegando quindi ai monaci di Monreale il compito non facile di controllare la popolazione musulmana e, al tempo stesso, portarne a compimento la cristianizzazione così da neutralizzare una potenziale minaccia interna che negli anni appena trascorsi, sotto il peso delle persecuzioni, aveva probabilmente rischiato di precipitare in secessione aperta. Il `cantone saraceno' si configurò come un'isola musulmana in un mare cristiano e latino: ad Est lo fronteggiavano il castello demaniale di Vicari, Corleone e la terra feudale di Cammarata, mentre gli sbocchi sulla costa erano sorvegliati e virtualmente preclusi da tutta una catena di città portuali e di castelli demaniali o feudali: la stessa Palermo, Carini, Partinico, Castellammare, Trapani con la fortezza di Erice, Marsala, Mazara e Sciacca. La popolazione musulmana, quindi, sebbene non avesse contatto diretto con colonie di latini, veniva a trovarsi concentrata e chiusa all'interno di un vasto territorio, senza alcuna possibilità di allontanarsene. Il tentativo di re Guglielmo era destinato ad un fallimento completo: ben difficilmente, infatti, la condizione dei villani musulmani avrebbe potuto migliorare sotto l'amministrazione ecclesiastica che si sostituì a quella reale (32) e la documentazione monrealese, di fatto, indica la tendenza, evidentissima intorno al 1180, di legare ancora più strettamente gli uomini alla terra, riducendo anche i muls, originariamente liberi dal vincolo ereditario alla gleba, nella condizione in cui già si trovavano i rijal al-jara'id(33). È facile osservare, conoscendo gli avvenimenti successivi, come il territorio dell'arcidiocesi fosse destinato a divenire il centro dell'ultima resistenza musulmana, trasformandosi in pratica in uno stato islamico ribelle: se ne deve ragionevolmente argomentare che l'arcivescovado di Monreale non sia stato all'altezza del compito demandatogli dalla corona e che alla morte di Guglielmo II il vuoto di potere abbia permesso alla popolazione saracena, esasperata e seriamente minacciata dall'aggressività cristiana, di rendersi praticamente indipendente, al di fuori da ogni possibilità di controllo dell'autorità arcivescovile. Il regno del secondo Guglielmo, d'altra parte, al di là di una fragile facciata di tolleranza, non riuscì certo ad eliminare o sfumare i gravissimi motivi d'attrito esistenti, anche in ambiente cittadino, fra l'elemento cristianolatino e le comunità musulmane ancora consistenti a Palermo, a Termini, 33
a Trapani ed in altre terre del Val di Mazara: e lo testimonia significativamente il racconto di Ibn Giubayr che registrò con accorata partecipazione il presentimento inquieto avvertito dai musulmani di Sicilia di una prossima ed ineluttabile fine dell'islamismo isolano (34). In pratica, solo la presenza e l'azione del monarca e degli ultimi gaiti ancora inseriti nell'organigramma di corte riusciva a contenere una situazione fortemente carica di tensioni destinate inevitabilmente ad esplodere. Alla morte di Guglielmo II, infatti, a Palermo scoppiava un nuovo pogrom antimusulmano che rinnovava la caccia all'uomo del 1160-61 e si concludeva con la fuga dei superstiti verso le montagne, cioè verso i territori di Monreale e quelli della diocesi di Girgenti ove l'unica forma di potere riconosciuta era ormai quella dei gaiti saraceni. La situazione dovette venire ulteriormente compromessa dall'elezione di Tancredi del quale certamente i musulmani ricordavano le responsabilità nelle stragi perpetrate dai lombardi del Val di Noto nel 1161: i Gesta Regis Henrici, anzi, seguiti in ciò dal cronista Ruggero di Hoveden (35), affermano recisamente che la fuga dei saraceni con famiglie ed armenti verso i montana fosse motivata proprio dal rifiuto indignato di servire regi Tancredo. Guidati da cinque reguli (36) i saraceni (100.000 persone, secondo Ruggero di Hoveden) (37), entrarono in aperta secessione e in conflitto diretto con i cristiani, così come aveva lucidamente preconizzato l'autore della lettera a Pietro tesoriere della chiesa palermitana (38). Non sappiamo se i multa mala che Ruggero di Hoveden rimproverava ai saraceni in quell'occasione fossero stati commessi solo per odio e volontà di vendetta e non piuttosto dalla necessità di resistere a quella che anche Riccardo di San Germano, oltre al c.d. Falcando, prospetta come una vera e propria aggressione cristiana: è certo, in ogni caso, che le distruzioni, i danni, gli abbandoni e forse anche le distruzioni violente di casali dovettero essere ingenti fin da questo primo scontro aperto che, nella memoria dei posteri, verrà ricordato come l'inizio dei turbatio-
num tempora. La pace conclusa fra re Tancredi e Riccardo Cuor di Leone, liberando il monarca siciliano almeno dal difficile problema della presenza dei crociati a Messina, costrinse i ribelli saraceni alla ricerca dell'accordo, che venne concluso, ancora secondo Ruggero di Hoveden, con la consegna di ostaggi ed il ritorno dei villani ai casali ed alla loro condizione di inferiorità. In realtà, però, è improbabile che la situazione tornasse completamente alla normalità: la secessione del 1189-90 aveva determinato una rottura netta col passato, dimostrando il fallimento finale della formula di convivenza ineguale instaurata dalla conquista
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normanna della Sicilia. Anche se le scarne fonti a nostra disposizione non registrano per qualche anno episodi di aperta guerra civile ed anzi testimoniano la fedeltà dei contigenti saraceni dell'esercito della regina Sibilla contro i partigiani di Enrico VI (39), è molto probabile che gruppi numerosi di musulmani permanessero nelle campagne in uno stato oramai endemico di agitazione, pronti a prendere le armi e a rinchiudersi in munite roccaforti montane al primo segno di pericolo o al primo vuoto di potere. Nel periodo turbolento di Enrico VI e Costanza, d'altra parte, la creazione o più probabilmente il rafforzamento di signorie ecclesiastiche all'interno delle zone abitate da saraceni (40) dovette ulteriormente inasprire la contrapposizione, rappresentando un nuovo tentativo di imbrigliare la popolazione delle campagne, rinnovandone il legame alla terra ed al proprio status di inferiorità. Inoltre, nel 1198 Innocenzo III, appena eletto, bandiva la quarta crociata, "mettendo sossopra l'Europa — dice Amari — per adunar uomini e soprattutto denari che servissero al riacquisto di Terrasanta" (41). I commissari incaricati fin dal luglio di quell'anno di raccogliere denaro in Sicilia (42) incontrarono grandi difficoltà ad assolvere la commissio papale che veniva ribadita nuovamente il 5 gennaio 1199, con l'ordine di incamerare per un biennio in subsidium terre sante i redditi delle prebende vacanti e, ancora, tutto il denaro che fosse stato trovato indosso a quei monaci extra claustra vagantes che bisognava far tornare ai monasteri ed alla regola (43). A questo ordine, che indica quale fosse in quel momento lo stato di malessere del clero regolare siciliano ed il caos in cui era precipitata la grande proprietà monastica, Innocenzo III aggiungeva lo stesso giorno severi provvedimenti contro i musulmani di Sicilia che in grande numero, post susceptum sanctificationis lavacrum redire ad ritus Saracenicos presumpserunt. Il vescovo di Siracusa, commissario della crociata, veniva incaricato di comminare la scomunica agli apostati ed ai loro fautores, defensores et receptatores (44). Il fatto che i due documenti venissero emanati contemporaneamente ed indirizzati agli stessi destinatari (il primo, oltre al vescovo siracusano, era diretto an che all'abbate di Sambucina, secondo commissario), dimostra che il ritardo nella raccolta del sussidio per la crociata e la `apostasia' dei saraceni erano eventi strettamente connesi. Fin dalla morte di Costanza la irrequietezza dei musulmani dovette precipitare nuovamente in secessione e rivolta aperta contro il potere dell'arcivescovo di Monreale, sulla carta il maggior titolare di terre dotate di villani saraceni in tutta l'isola: alla ribellione musulmana si sommarono evidentemente le insofferenze e l'indisciplina di parte del clero regolare dell'abazia che prese posizione contro lo stesso
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arcivescovo nel momento in cui la mo rt e dell'imperatrice scatenava la rissa per il potere. Il risultato fu la completa perdita di controllo sulle campagne da pa rt e dell'arcivescovado e la conseguente difficoltà a far fronte alle richieste finanziarie per la crociata il cui bando avrà ulteriormente esasperato i villani sui quali sarebbe dovuta ricadere evidentemente la maggior pa rt e del contributo richiesto a Santa Maria la Nuova. La morte di Costanza segna quindi un cambiamento o, se vogliamo, un salto di qualità nella condotta dei musulmani del Val di Mazara che non si limitano più ad attendere sulla difensiva l'evolversi della complessa crisi in cui il regno era precipitato dopo Guglielmo II, ma coscienti della loro forza (ed anche della loro delicatissima condizione), possono giocare la carta della collaborazione militare, offerta a chi in quel momento rappresentava per essi il partito meno infido per il semplice fatto di trovarsi in lotta contro il papato ed i prelati della corte di Palermo. L'alleanza fra i saraceni e Marcovaldo d'Anweiler ebbe però risultati militari pessimi: saccheggiata Monreale e messo l'assedio alla stessa Palermo, l'inedita coalizione, della quale faceva pa rt e un contigente pisano, venne sanguinosamente sconfitta dall'esercito regio e pontificio nella battaglia combattuta sotto Monreale nel luglio 1200 (45). Mentre a Palermo veniva pagato il prezzo della fedeltà a quanti fossero rimasti dalla parte del papa e del cancelliere Gualtieri (46), Innocenzo III approfittò della vittoria militare per cercare di allontanare i saraceni dall'alleanza con Marcovaldo, tirandoli dalla sua parte o, quanto meno, assicurandosene la neutralità. Nell'ottobre del 1200, il pontefice scriveva ai familiares del piccolo re Federico perchè, pur continuando la lotta ad oltranza contro l'Anweiler, non tralasciassero l'opportunità di raggiungere un accordo coi saraceni, qualora essi offrissero garanzie sufficienti (47). Questa linea concili ante Innocenzo mantenne anche negli anni immediatamente successivi, perdurando in Sicilia ( e nel resto del regnum) lo stato di guerra intestina e il caos po litico sociale morale. Nel giugno 1203 il papa indirizzava una lettera ai monaci di Monreale, accusandoli aspramente d'essersi ribellati al loro abate - arcivescovo, d'aver stretto alleanza con Gugliemo Capparrone, d'essersi impadroniti dei castella di Jato e Calatrasi, commettendo scelera d'ogni tipo e vivendo luxuriose: con ogni probabilità l'azione dei saraceni (che di Jato e Calatrasi costituivano la maggioranza della popolazione) non era affatto estranea agli eventi stigmatizzati da Innocenzo ed è dimostrazione di scaltrita diplomazia aver evitato di attaccarli direttamente, limitandosi ad un accenno contro quelli che genericamente e vagamente venivano definiti complices dei
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monaci ribelli (48). Era necessario non irritare ulteriormente i musulmani che di fatto dominavano ormai tutto l'interno montagnoso della Sicilia occidentale, arroccati nei loro castelli di Jato, Entella, Celso e Platano. Ai cui gaiti direttamente il papa si rivolgeva nel 1206, con una missiva che è un capolavoro di eloquenza cancelleresca, invitandoli a mantenere la fedeltà alla chiesa ed al loro re Federico, rigettando ogni profferta e tentazione contraria (49). È evidentissimo, in definitiva, che i saraceni di Sicilia rappresentavano oramai una forza totalmente autonoma che tutti i contendenti cercavano di adescare e strumentalizzare per i propri fini. Sarebbe ingenuo, d'altra pa rt e, pensare che i musulmani riponessero particolari speranze nell'intesa con i tedeschi o si commuovessero per le paterne e rassicuranti parole del pontefice: la loro stessa alleanza con Marcovaldo e poi con Capparrone fu un connubio anomalo e disperato, dettato dalla necessità delle circostanze e che, in fondo, mascherava e preludeva l'elaborazione di un modello di liberazione totale, la rottura radicale e definitiva. Questa dovette divenire ineluttabile quando i contendenti in rissa per la reggenza non disdegnarono, in una pausa della lotta, la possibilità di un'intesa che impegnava come bottino da spartire le terre occupate dai saraceni: i quali definitivamente dovettero capire che per nessuna delle pa rt i essi rappresentavano soggetto politico con cui instaurare rapporti che andassero al di là della volontà di sfruttarne o contenerne la bellicosità, la rabbia, la disperazione. E gesto dettato da rabbia e disperazione fu il nuovo attacco contro i cristiani e la presa del castellum di Corleone, avvenuta nel 1208, mentre si trattava l'accordo fra i partigiani di Gualtieri e Capparrone e lo stesso Federico II approvava e ratificava la pace conclusa fra i monaci di Monreale e l'abate-arcivescovo (50). L'accordo fra i contendenti avrebbe ridotto le possibilità d'azione dei saraceni, divenendo di fatto una concreta minaccia alla loro stessa sopravvivenza: in questa prospettiva si può agevolmente accreditare la notizia, riferita dagli Annales Colonienses Maximi, dell'alleanza offerta dai musulmani all'imperatore eletto Ottone, venuto in Italia a cingere la corona e schiacciare il suo giovane rivale Hohenstaufer (51). Che avrebbe avvertito così prossimo il pericolo da tener pronta una galera per fuggire e porsi in salvo (52). Non fu necessario. Gli eventi immediatamente successivi segnarono anzi le tappe dell'ascesa di Federico: la spedizione in Germania, la sconfitta di Ottone regalatagli dai francesi a Bouvines, l'incoronazione a re di Germania, il ritorno in Italia per cingere anche la corona imperiale. Prima di partire per l'avventura tedesca, Federico aveva
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cercato in qualche modo di tamponare la ribellione saracena in Sicilia con misure che avevano già dimostrato la loro totale inadeguatezza al tempo di Guglielmo II. Nel gennaio del 1211 aveva concesso a Caro, arcivescovo di Monreale, la facoltà di far prendere, ovunque fossero, i villani e gli oblati di Jato e Celso che se exhibuerent perfidos in omnes et rebelles, rifiutando di riconoscere la loro dipendenza de jurisdictione ipsius ecclesiae Montis Regalis (53). Era una misura decisamente tardiva che comunque chiarisce i termini in cui Federico, fin da allora, intendeva affrontare la questione dei musulmani di Sicilia: essi erano villani ribelli, uomini del demanio reale e delle chiese che occorreva far tornare al loro status ed alle loro residenze; far discendere, come Federico ordinerà ripetutamente più tardi, dai monti della loro libertà ai casali del piano e della servitù. Naturalmente l'arcivescovo di Monreale non era assolutamente in grado, per il momento, di avvalersi della potestà conferitagli: i musulmani anzi minacciavano tanto da vicino la sua stessa chiesa (già saccheggiata in almeno un'occasione) da indurre Federico ad ordinare ripetutamente a tutti coloro che possedessero vigne e poderi nel monrealese, di fissare nel borgo la propria residenza per contribuire alla difesa dell'arcivescovado (54). Negli anni della lunga assenza di Federico la situazione divenne ancora più grave: completamente indisturbati i saraceni rafforzarono ulteriormente la loro presenza nel Val di Mazara, arrivando a costituire un vero e proprio stato islamico nel cuore del regnum e minacciando continuamente le popolazioni cristiane ridotte a vivere in condizioni di continua insicurezza. Nel 1216 era la stessa Palermo a subire le molestie saracene (55) e probabilmente in quell'occasione venivano inflitti gravi danni all'ospedale di San Giovanni dei Lebbrosi cui Federico nel 1219 confermava tutti i privilegi e le concessioni precedenti a titolo di ricompensa ed indennizzo (56). Ad Agrigento il vescovo Urso, già spogliato dalla diocesi da Enrico VI e poi da Guglielmo Capparrone, venne catturato dai saraceni e tenuto prigioniero nel castello di Guastanella per più di un anno, potendo recuperare la libertà solo dopo il pagamento di 5000 tarì di riscatto. Durante la sua prigionia i saraceni spadroneggiarono nella città, saccheggiando il tesoro e l'archivio della chiesa, occupando la stessa cattedrale ed impedendo ai cristiani di celebrare i battesimi (57). Nei fatti di Agrigento, non datati dalla documentazione esistente ma riconducibili al 1220-21, l'intervento brutale dei musulmani si innestava sulla rivalità che da tempo opponeva il vescovo ed una misteriosa comitissa, vedova di quel conte Bernardino che aveva ereditato la signoria sulla città già detenuta dal Capparro-
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ne (58). Evidentemente i saraceni continuavano a rappresentare alleati di pronto ed efficacissimo impiego per quanti avessero rivalità e conti aperti da regolare, specialmente se l'avversario da combattere era un alto prelato ed il bottino da spartire le spoglie d'un ricco vescovado, il tesoro d'una ' cattedrale, il predominio su una diocesi ed una città. Tanto più che Agrigento, prossima alla costa e dotata di un porto rilevante, costituiva un punto vitale per i collegamenti tra il mondo islamico ed i musulmani di Sicilia, per il momento vincitori ma pur sempre minoranza isolata e a sua volta potenzialmente assediata in terra cristiana. Questa quindi la grave situazione della Sicilia occidentale nel momento in cui Federico, dopo la lunga assenza, si accingeva a riportare la calma nel regno e nell'isola. Dove, come si è accennato, ristabilire l'ordine significava per l'imperatore imporre il ritorno ad una realtà che era andata in pezzi fin dalla mo rt e di Guglielmo II e che era possibile pensare di ripristinare, tanto de jure come de facto soltanto con moltissimo ottimismo o mancando totalmente di aderenza alla nuova e complessa situazione. Ma per Federico il problema musulmano si esauriva nei termini estremamente rigidi di un ritorno al passato: e ciò proprio mentre con Ibn Abbad, un immigrato dall'Africa che sposando la figlia del gaitus Ibn Fakhir ne aveva ereditato il potere (59), i saraceni delle montagne giungevano a battere moneta propria, irridendo il diritto reale di conio con lo sfregiare i denari di Federico e dei suoi genitori ed adottando per il loro capo la titolatura almoravide di amir al-musulmin (60). La rottura era completa, totale ed irreversibile: lo stato di inferiorità assegnato ai vinti dal regime di convivenza ineguale si era trasformato in opposizione rabbiosa e pienamente cosciente e questa aveva portato all'elaborazione di un modello politico, sociale e religioso in totale contrapposizione a quello `legittimo' E proprio sul piano giuridico (come a dire, in simili circostanze, puramente formale) Federico dette avvio alla sua azione repressiva. Nel marzo del 1221, da Brindisi, l'imperatore notificava ai prelati ed alla nobiltà di Sicilia di aver conferito (o meglio confermato ed ampliato) a Caro, arcivescovo di Monreale, su sua precisa richiesta, la potestà di impadronirsi di tutti i villani casalium sottrattisi a dominio ecclesie nel tempo delle turbationes, confermando inoltre tutti i bonos usos e le consuetudines che nell'arcidiocesi monrealese vigevano al tempo di Guglielmo II (61). Con un documento semplicissimo Federico ristabiliva sulla carta lo status quo ante: reintroduceva nel Val di Mazara il villanaggio oramai in pieno declino; ripopolava casali deserti da forse tre decenni; resuscitava nei termini più duri e .
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categorici la formula della convivenza ineguale; riconfermava infine il ruolo e la potenza dell'arcivescovo di Monreale nei termini stessi in cui erano stati concepiti da Guglielmo II. La resa dei saraceni d'altra parte, ed il loro reinserimento nel contesto socio-politico-economico dell'isola e del regno, con l'incondizionata perdita d'ogni bene ed il ritorno al servaggio, erano obiettivi che Federico ben poteva ritenere necessari per conservare il favore ed il consenso di quei beneficiari, soprattutto ecclesiastici, senza il cui appoggio non sarebbe stato possibile avviare la lotta contro il baronaggio recalcitrante e contro lo stesso papato (62). I musulmani reagirono preparandosi alla resistenza ad oltranza: arroccati nelle loro fortezze montane, Ibn Abbad ed i suoi erano in grado di difendersi a lungo ed efficacemente, potendo anche sperare di ricevere aiuto dai correlligionari d'Africa e da occasionali alleati cristiani, uniti nell'odio contro Federico. Al quale non rimase che la prova di forza contro un nemico perfetto conoscitore delle tecniche di guerriglia e padrone dei punti chiave del territorio. Le roccaforti musulmane erano tutte poste su montagne altè ed accidentate. Jato, Entella, Celso (M. Cangialeso) e Platano (M. della Giudecca) sono rilievi aspri ed isolati, con difficili sentieri di accesso che potevano esser presidiati anche da pochi uomini; al tempo stesso le cime di queste montagne presentano dei vasti pianori o dei terreni in pendenza ov'era possibile condurre al pascolo il bestiame o addirittura seminare qualche tumulo di grano, assicurandosi un minimo di scorte alimentari. La difficoltà maggiore per gli abitanti era forse la scarsezza d'acqua, perché su questi rilievi di calcare la principale fonte di approvvigionamento idrico restavano le cisterne scavate nella pietra: le riserve dovevano quindi consentire di resistere ad un'estate di blocco, dal momento che la bella stagione rimaneva il tempo propizio a guerre ed assedi. Nell'estate del 1222, infatti, Federico, ottenuta dal papa una proroga per la crociata, torna in Sicilia dopo una prima permanenza l'anno precedente, con un esercito che una fonte araba stima (certo con esagerazione) in 2000 cavalieri e ben 60000 fanti (63). Le notizie sull'andamento di questa e delle altre campagne condotte contro i musulmani di Sicilia sono estremamente frammentarie e in pa rt e contrastanti. Non sappiamo neanche con certezza dove Ibn Abbad avesse fissato il proprio qua rt ier generale: le fonti musulm an e che riportano l'episodio indicano Entella (64), mentre alcuni documenti latini potrebbero far pensare ad Jato come residenza del condottiero musulmano (65). In ogni caso è contro Jato che Federico concentrò nel 1222 il proprio sforzo militare. Dal giugno all'agosto di quell'anno egli dirige personal-
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mente le operazioni d'assedio (66) e la sua presenza fisica al campo, oltre a testimoniare la grande importanza che l'imperatore attribuiva alla repressione della rivolta, potrebbe indirettamente confermare che a Jato si fosse asserragliato l'amir al-musulmin. Quest'ultimo, a Jato od Entella che fosse, resistette con valore ma ad un certo momento si trovò contro una parte dei suoi capitani: non si conosce con certezza la causa dell'attrito ma è verosimile che le difficoltà dell'assedio avessero creato un partito disponibile alla trattativa ed alla resa. I capitani dissenzienti spedirono al caid un messaggio pieno — afferma il Tariq Mansuri — di "spiacevoli parole" (67). Ibn Abbad, sempre secondo questa fonte, rispose uccidendo il messo ed ordinando seccamente ai suoi di tornare alle mura e continuare la resistenza. La durezza di questo comportamento trasformò il dissenso in opposizione netta e tradimento: i capitani, indossate le armature, si presentarono a Federico II, invitandolo ad insignorirsi del paese. Abbandonato da una pa rt e consistente dei suoi seguaci, Ibn Abbad avrebbe dapprima deciso di continuare la lotta ma poi, cedendo alle insistenze del figlio, scelse di consegnarsi all'imperatore. Federico agi con con quel misto di rabbia e determinazione che caratterizzarono altre sue azioni: all'emiro inginocchiatosi al suo cospetto ad offrirgli la resa avrebbe sferrato un violentissimo calcio con lo stivale armato di sperone, ferendolo; di lì ad una settimana lo fece giustiziare con i due figli. Insieme ad essi, aggiunge un'altra fonte, salirono sul patibolo anche due avventurieri mezzo rinnegati, Ugo Fer e Guglielmo Porcu (68): marsigliese e di vocazione pirata il primo, responsabile della so rt e toccata ai partecipanti alla crociata dei fanciulli; genovese l'altro, già ammiraglio del regno, rimosso da Federico e quindi suo nemico giurato. La presenza fra i musulmani di questi due personaggi si può spiegare facilmente, oltre che con personali motivi di rancore, tenendo in considerazione la necessità, vitale per Ibn Abbad ed i suoi, di mantenere qualche collegamento via mare con il mondo islamico e forse an che con i nemici cristiani di Federico; ed è molto probabile che i due complici avessero avviato un lucroso traffico da cui dipendevano per i saraceni assediati, rifornimenti di armi e forse anche rinforzi di guerrieri provenienti dal magrib. Della mo rt e di Ibn Abbad esiste anche una seconda versione (nota a partire dal 1954) che dalla prima differisce notevolmente su alcuni punti, aggiungendo inoltre particolari inediti. Secondo al-Himyari, un autore del XIV secolo (69), Ibn Abbad asserragliato ad Entella sarebbe sceso a patti con Federico, accettando di arrendersi in cambio della vita,
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ilei beni e della facoltà di passare in Africa incolume e sotto scorta imperiale. La figlia di Ibn Abbad, il cui nome resta ignoto, avrebbe però rifiutato la resa, rimanendo in armi ad Entella per garantire in qualche modo il rispetto dei patti e vendicare il padre se Federico avesse mancato alla parola data. La prudenza della donna si sarebbe dimostrata ben motivata perchè, durante la traversata verso l'Africa, Ibn Abbad sarebbe stato annegato dalle guardie preposte alla sua custodia. La resa dell'amir e la sua mo rt e sarebbero avvenuti nel 616 dell'egira, (19 marzo 1219 - 7 marzo 1220). Alcuni anni dopo, nel 619 dell'egira, (15 febbraio 1222 - 3 febbraio 1223), la figlia di Ibn Abbad, sempre asserragliata sulla Rocca d'Entella, avrebbe inviato a Federico un'ambasceria segreta fingendo di volere sottomettersi e chiedendo l'invio di trecento cavalieri da introdurre nella fortezza con un finto colpo di mano che le permettesse di chiedere la resa senza che i saraceni potessero sospettare il tradimento. Federico avrebbe accettato, mandando i trecento uomini a farsi massacrare in un'imboscata abilmente preparata dai guerrieri musulmani. Dopo lo scacco subito Federico avrebbe cercato di rispondere all'astuzia con l'astuzia, invitando la figlia di Ibn Abbad, che si era dimostrata così abile e degna di lui, ad avere una relazione e generargli un figlio. Per tutta risposta la virago di Entella si dichiarò pronta a resistere sino al limite delle forze e Federico fu allora costretto ad edificare un castello davanti alla fortezza d'Entella, avvicendandovi continuamente un forte presidio per tenere definitivamente bloccati i saraceni ed ottenerne la resa per fame. Infatti, stretta da ogni parte, senza più via di salvezza o speranza di soccorso, la figlia di Ibn Abbad si sarebbe data la mo rt e col veleno. Le differenti versioni ruotano intorno a due fatti principali che costituiscono evidentemente il nucleo storico degli avvenimenti: la morte di Ibn Abbad ed il proseguimento della rivolta anche dopo il supplizio dell'amir al-musulmin. Ciò che nella discordanza parziale fra i due testi rimane poco chiaro è, in primo luogo, il modo in cui Federico riuscì ad avere in suo potere il nemico e, conseguentemente, le circostanze della morte di quest'ultimo. Non sembra realistico ritenere, accogliendo acriticamente il racconto del Tariq Mansuri, che Ibn Abbad abbia deciso di consegnarsi, sia pure non senza esitazioni, semplicemente gettandosi ai piedi dell'imperatore per implorarne la misericordia. Se Ibn Abbad effettivamente si arrese a Federico lo fece quasi certamente dietro precise assicurazioni sulla propria sorte, così come riferito da al-Himyari: quindi, se i fatti si svolsero effettivamente in tal modo, Federico tradì la parola
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data, sia che abbia fatto impiccare il caid con i figli, sia che lo abbia fatto annegare in alto mare. Ma il rilievo che il Tariq Mansuri attribuisce al dissenso sorto fra Ibn Abbad e pa rt e dei suoi e al cambiamento di fronte di questi ultimi potrebbe anche fare ipotizzare che l'amir almusulmin venisse catturato proprio in seguito al tradimento di qualcuno dei comandanti musulmani: in questo caso, non vincolato da alcun patto precedente, Federico avrebbe agito, in pieno diritto, con l'inflessibilità del giudice e del sovrano, prima ancora che con la durezza del soldato e del politico, consegnando al boia perché fosse messo a mo rt e in modo pubblico, osceno ed infamante, un uomo reo, dal suo punto di vista, di insubordinazione, tradimento, ribellione. Come terza ipotesi si potrebbe pensare alla cattura di Ibn Abbad armi in pugno nel corso di un attacco decisivo contro la sua roccaforte, ma è possibilità che le fonti a nostra disposizione non suggeriscono e che riteniamo quindi di potere scartare. In definitiva la ricostruzione dei fatti più convincente è quella presentata dalla prima parte del racconto di al-Himyari che, a prescindere dalla cronologia confusa, fa esplicito riferimento ad una resa a condizioni, totalmente e proditoriamente disattese da Federico. Il quale probabilmente, con un calcolo che doveva rivelarsi totalmente errato, ritenne di colpire alla radice la ribellione eliminandone il capo carismatico: al contrario, la mo rt e di Ibn Abbad, quasi certamente consegnato al boia in aperta violazione di patti precedentemente stabiliti, ebbe un risultato politicamente disastroso per l'imperatore, rinvigorendo la volontà di resistenza dei gruppi di saraceni che ancora restavano in armi in qualche castello montano, o perche non avessero accolto e condiviso la decisione di resa o perchè nei patti eventualmente stipulati fra Federico e Ibn Abbad fosse stato previsto esplicitamente (ed al-Himyari lo riferisce con chiarezza) che alcune roccaforti restassero sotto il controllo dei ribelli a garanzia degli impegni assunti da Federico. All'interno di questa ipotetica ricostruzione degli eventi, la figura della figlia di Ibn Abbad che avrebbe eroicamente continuato la resistenza vendicando la morte del padre, sembrerebbe frutto di una successiva trasfigurazione leggendaria dei fatti in senso chiaramente filomusulmano, dal momento che le sue stesse gesta (ad esclusione del suicidio) vengono attribuite dal Tariq Mansuri ad un condottiero di cui sono indicati con precisione il nome e la dignità, il caid Marzuq, "affine" del defunto Ibn Abbad (70). Tra le due versioni non sembra sussistere ragione di preferire su questo punto quella di al-Himyari tanto più che altri particolari del suo racconto (l'ammirazione di Federico II per l'astuzia della donna e le sue profferte di unione sessuale) presentano un carattere
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di elaborazione letteraria abbastanza evidente, come del resto la stessa ultima lettera inviata a Federico. Al di là di questo, però, le parole che al-Himyari fa pronunciare all'eroina d'Entella prima del suicidio non potrebbero esprimere più crudamente la situazione ed il destino dei musulmani in Sicilia di fronte all'attacco a fondo sferrato contro di essi da Federico II. "Io sono come una donna senza figli, ristretta in un colle di terra, priva di qualsiasi soccorso": è la disperazione dell'isolamento che gli scarsi aiuti provenienti dall'Africa non possono più modificare. Ma, derivante da questa, sorge anche la volontà rabbiosa e caparbia di resistere ed infliggere al nemico odiato tutto il danno possibile: "ti combatterò e ti renderò insidie sino alla consumazione di ogni provvista in questa rocca e fino a che i miei difensori non ce la facciano più". Per Federico, d'altra parte, l'impegno bellico contro i saraceni delle montagne aveva assunto proporzioni certamente non preventivate, distogliendone l'attenzione da altri gravi problemi: " questo tuo soffermati ad assediarmi — continua la donna nel racconto di al-Himyari — ti ha preso e distratto dai più alti tuoi affari politici. Io ti ho arrecato maggiori danni di quanti tu hai arrecato a me, ti ho inflitto perdite maggiori di quanto tu a me. E ti tengo ben testa nelle perfidie" (71). Considerazioni esattissime, il cui valore aumentava ulteriormente attribuendole, insieme ad eroiche gesta guerresche, non ad un capo guerriero ma ad una donna "senza figli" e "priva di qualsiasi soccorso". La guerra, quindi, era destinata a continuare. Il contingente militare lasciato in Sicilia a controllare la situazione (parvissima acies, secondo un annalista genovese) (72) dovette essere sopraffatto dai saraceni: lo comandava forse Enrico conte di Malta che per l'insuccesso militare avrebbe allora perduto la contea ed il favore di Federico (73), il quale fu costretto ad accorrere di nuovo in Sicilia e prendere personalmente il comando delle operazioni. Nel luglio 1223 Federico era in castris ante fatum (74) che appare ancora come il centro principale della resistenza. A pagare le spese della nuova guerra vennero chiamati a collaborare anche i sudditi della pa rt e continentale del regnum, come gli abitanti delle terre di Monte Cassino, tassati per 300 o 350 onze d'oro (75). I feudatari, dal canto loro, vennero invitati a prestare contro i ribelli saraceni il servizio militare dovuto: la richiesta, naturalmente, non dovette ricevere accoglienza positiva ed alcuni fra i più importanti signori del regno (fra cui Tommaso di Case rt a, Jacobo di San Severino, Ruggero dell'Aquila) che si presentarono all'adunata con schiere esigue, vennero arrestati e subirono la confisca dei beni (76). La campagna del
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1223 non dovette risultare meno dura di quella dell'anno precedente; Federico ottenne nuovi successi parziali ma non riuscì ad estinguere definitivamente tutti i focolai di resistenza. Questo secondo, difficile, anno di guerra segnò un cambiamento notevole dell'impostazione data dall'imperatore al problema musulmano: se prima di scendere direttamente in campo contro i ribelli, non conoscendone le forze nè il disegno politico, Federico aveva potuto progettare di ristabilire lo status quo ante, ora, di fronte ad una resistenza sempre più accanita e feroce, fu necessario per lui adeguare i piani alla gravità della situazione. L'imperatore decise di privare i ribelli dell'ambiente stesso che aveva loro permesso di spingersi così avanti sul cammino dell'insubordinazione, trasferendo in Puglia contigenti cospicui di saraceni (77), evidentemente i più retrivi alla sottomissione o quelli che l'isolamento del luogo di residenza rendeva praticamente incontrollabili (era il caso dei musulmani di Malta) (78). E questo mentre ancora alcuni gruppi resistevano in armi sulle montagne ed altri si rassegnavano invece a tornare allo stato di villani scendendo ad inferiora et plana loca. Nacque così, verso il 1223, il primo nucleo della colonna militareagricola saracena di Lucera (79), destinata a sopravvivere oltre mezzo secolo alla fine della resistenza islamica in Sicilia. La prassi di trasferire con la forza intere popolazioni non era certo un'invenzione di Federico, dal momento che già i normanni l'avevano adottata, certo su scala più ridotta, nei confronti di alcune comunità musulmane particolarmente riluttanti alla sottomissione: nè Federico mise in atto una simile risoluzione soltanto in quel caso, come dovettero più tardi sperimentare gli abitanti (cristiani) di Capizzi, Centorbi o Celano. Neanche l'impiego di musulmani come corpo specializzato dell'esercito regio fu una trovata originale dello Svevo che non fece altro che continuare una tradizione inaugurata dai suoi predecessori normanni. Ciò che caratterizzò l'esperimento di Lucera fu quindi la fusione delle due realtà: trasferimento coatto di intere popolazioni lontano dal luogo d'origine ed impiego di contingenti militari reclutati al loro interno. Ed è qui la spiegazione della sopravvivenza relativamente lunga della colonia musulmana in terra pugliese: totalmente circondati da cristiani, del tutto isolati dal mondo islamico, i saraceni di Lucera sapranno sempre di dovere la loro sopravvivenza come comunità e la loro stessa esistenza alla fedeltà incondizionata ed al valore posto nel servire il sovrano sul campo di battaglia. Anche dopo la prima ondata di trasferimenti forzati, però, l'impegno contro i musulmani ribelli non venne meno e nel luglio del 1224
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ritroviamo Federico, per la terza estate consecutiva, in castris in obsidione Jati (80). Le fonti non permettono di sapere se, nel corso delle campagne precedenti, Jato fosse stata presa e quindi nuovamente perduta dalle forze imperiali; si potrebbe anche pensare che la fortezza resistesse da tre anni e che puntualmente, con l'arrivo della bella stagione, le truppe imperiali riprendessero attivamente le operazioni d'assedio. Il prolungarsi della guerra, in ogni caso, permise all'imperatore di tergiversare ancora sul problema della crociata e rimandarne nuovamente la partenza adducendo al pontefice motivazioni ben giustificate: l'allontanamento dal fronte siciliano avrebbe infatti potuto incoraggiare i saraceni al la resistenza e permettere loro di sata colligere; e questo proprio mentre il blocco posto dalle truppe imperiali aveva ridotto alla fame gli assediati, inducendo i loro gaiti et seniores a presentarsi al cospetto di Federico per trattare la resa (81). Che, comunque, non avvenne nel 1224 ma soltanto l'anno successivo, quando Federico ritornò decisamente all'attacco chiamando al servizio militare barones omnes et milites infeudatos regni sui e creando inoltre alcuni capitani che coordinassero le operazioni belliche al fine di far descendere de montanis nolentes (82). Non abbiamo ulteriori particolari sulla campagna del 1225 ma gli accenni trionfalistici di qualche cronista alle vittorie conseguite da Federico (83) ed il silenzio seguito per qualche anno testimoniano un successo abbastanza netto delle truppe imperiali. Fra 1229 e 1230, in ogni caso, la Sicilia occidentale dovette precipitare nuovamente in stato di guerra. Secondo il già citato Tariq Mansuri, in quel torno di tempo lo shaik siciliano Ahmad ibn abu al Qasim compi un'ambasceria presso il sultano d'Egitto Malik al Kamil, informandolo delle penose condizioni in cui sopravviveva la superstite comunità di Sicilia. I saraceni dell'isola si erano ridotti ad occupare soltanto una decina di roccaforti montane praticamente tenute sotto assedio ed erano nuovamente vittime delle persecuzioni di Federico II, responsabile della morte di 170.000 musulmani e del trasferimento sulla `Gran Terra' di altrettanti. Al Qasim pregò quindi il sultano di intervenire presso l'imperatore in favore dei correlligionari siciliani , ottenendo che gli esiliati potessero tornare alle loro antiche residenze o, almeno, che venisse loro data facoltà di optare per l'emigrazione in Egitto. Al di là dei riferimenti numerici al le vittime di Federico, evidentemente e macroscopicamente esagerati, il Tariq Mansuri testimonia che anche dopo le pesanti sconfitte subite, le perdite sanguinose e la prima ondata di massicci trasferimenti, gli ultimi musulmani di Sicilia non avevano rinunziato a difendere la propria identità culturale e religiosa e la loro dignità, reagendo con la forza della disperazione alla reiterata minaccia
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di assorbimento forzato o di eliminazione. Il testo fa riferimento ad un `inganno' meso in atto contro di essi da Federico: non è assolutamente possibile precisare cosa possa significare realmente questa espressione nel racconto di al Qasim ma si può ipotizzare fosse allusione ad un accordo stabilito dopo la guerra del 1222-1225 e violato da Federico con il diritto del più fo rt e. Ciò che è certo è che l'imperatore non avrà risposto positivamente alle sollecitazioni del sultano in favore dei musulmani di Sicilia: il ritorno nell'isola dei disterrati di Lucera non era eventualità seriamente proponibile e neanche l'esodo verso l'Egitto era soluzione che potesse incontrare il favore di Federico, un uomo che, come riferisce non senza animosità Salimbene da Parma, si vantava "di non aver mai nutrito un maiale se non per ricavarne anche la sugna" (84). Il destino dei saraceni siciliani era ormai definitivamente deciso: o servi del re di Sicilia, dispersi nelle campagne e nelle città dell'isola; o servi dell'imperatore a Lucera, pronti a combattere e morire per lui sui campi di battaglia di tutta Italia. Ed in uno stato di umiliante sottomissione ritroviamo gli ultimi musulmani prima della rivolta finale del 1243-46 e del definitivo trasferimento a Lucera. Nell'ottobre 1 239 Federico cercò di convincere per bona verba alcuni gruppi di saraceni a lasciare gli ultimi casali abitati e stabilirsi a Palermo, nel quartiere di Seralcadi dove si prometteva che sarebbero stati trattati con favorem et gratiam (85). A pa rt e i buoni propositi espressi, non sappiamo come l'imperatore intendesse sfruttare questi uomini inurbandoli coattamente: è comunque certo che un'esigua presenza musulmana in quella che da urbs inimica Deo e populo dotata trilingui si era da tempo trasformata in urbs christianissima, non avrebbe potuto assolutamente costituire una minaccia; il pericolo di nuovi disordini, anzi, veniva rimosso allontanando i saraceni dai casali e trasferendoli là dove il loro controllo sarebbe risultato più agevole e la loro assimilazione si sarebbe ridotta sola ad una questione di tempo. È sempre del 1239 un documento che potrebbe far ipotizzare una nuova ondata di trasferimenti a Lucera avvenuta durante quell'anno o poco prima: il giorno di Natale Federico ordinò agli ufficiali del regno citra farum di concentrare nella cittadina pugliese tutti i saraceni quos dudum venire mandavimus de Sicilie partibus (88): dove il dudum lascia margine al dubbio sul periodo in cui l'esodo forzato fosse stato condotto a termine. Se fosse possibile provare con certezza la nuova ondata di trasferimenti del 1239, se ne dovrebbe ragionevolmente concludere che l'invito rivolto nello stesso anno agli abitanti dei casali perchè si stabilissero nel
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Seralcadi fosse solo una manovra tendente a concentrare i saraceni a Palermo per facilitare l'invio coatto in terraferma: un abilissimo inganno nel quale potrebbero esser caduti gruppi consistenti di musulmani. Un altro documento del novembre 1239 presenta la condizione miserabile di alcuni pastori saraceni che avevano preso in extalium armenti della corte e non furono in grado di pagare puntualmente le gabelle stabilite. Federico, in quella occasione, non smentì il pesante giudizio di Salimbene ed ordinò seccamente al giustiziere della Sicilia ultra Salsum di sequestrare i beni dei morosi, condannandoli, se ciò non fosse bastato ad estinguere il debito, ai lavori forzati per opera marammarum curie nostre; e questo perchè, in exemplo eorum, ceteri doceantur non debere a curia nostra cabellas recipere quas solvere sine dicultate non possint86). Con ogni probabilità i pastori indebitati furono costretti ad unirsi ai loro correlligionari che già prestavano servizio (come operai o muratori più probabilmente che come soldati), nei castra demaniali di Lentini e Siracusa (87). In ogni caso, il trasferimento definitivo in terra di Puglia degli ultimi resti dell'islamismo siciliano era ineluttabile e prossimo. Rancore ed esasperazione sfociarono nuovamente in rivolta aperta nel 1243 e la successione degli eventi fu quella che oramai si ripeteva da mezzo secolo ogni volta che la convivenza ineguale diveniva un aggravio intollerabile: fuga dei saraceni sulle montagne ed asserragliamento nelle roccaforti dove già aveva resistito Ibn Abbad. Eodem anno, mense julii eiusdem indictionis — raccontano gli Annales Siculi — omnes Saraceni de Sicilia tamquam rebelles ascenderunt in montana et ceperunt Jatum et Antellam (89). La nuova secessione musulmana corrispose al momento più drammatico dello scontro fra l'imperatore, il papa ed i comuni ed è ipotesi molto verosimile che i ribelli ricevessero dall'esterno, oltre ad incoraggiamento, an che aiuti concreti, se non diretta istigazione. L'ultima rivolta si protrasse per tre anni. Secondo gli Annales nel 1245 l'imperatore spedì contro i musulmani Riccardo di Caserta che, vinte le ultime resistenze e domata definitivamente la rivolta, de mandato domini imperatoris eiecit omnes saracenos de Sicilia et misit illos apud Noceriam in Apulia (90). In realtà, la sconfitta dei ribelli e il trasferimento definitivo a Lucera non dovettero avvenire prima dell'autunno del 1246. Nel corso dell'estate di quell'anno Federico inviò un ultimatum ai gruppi di guerriglieri che ancora restavano in armi sulle alture: la prima parte della missiva contiene accenti durissimi nel condannare senza appello la rivolta; nel disposto, però, l'imperatore si mostrava meno duro, non escludendo la possibilità di trattare con una certa indulgenza quanti si fossero sottomessi entro
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il mese (non conosciamo la data esatta del documento), scendendo de montanis ad planitiem (91). Probabilmente Riccardo di Case rt a cercò di sedare gli ultimi sussulti di ribellione impegnando al minimo, per quanto possibile, le proprie forze militari; si limitò forse, seguendo una tattica già sperimentata, a tenere bloccati i saraceni sulle montagne, riducendoli alla fame, mentre se ne sollecitava la resa anche con un uso scaltrito della retorica cancelleresca. Nel luglio di quell'anno l'imperatore annunziava al primogenito del re di Castiglia la discesa dei saraceni dai castelli montani (92). Forse vi fu ancora qualche sporadico focolaio di resistenza che, in ogni caso, venne eliminato entro l'autunno 1246; e nel novembre Federico scriveva trionfalmente ed Ezzelino da Romano comunicandogli che anche gli ultimi saraceni erano finalmente discesi al piano timore
nostre potentie perterriti, nec fortune cesaree volentes ultrius, quin potius non valentes, obsistere (93). Dove il gioco di parole, con la sua carica di compiacimento, è riferimento chiaro ad una condizione di impotenza totale e di materiale impossibilità a continuare la lotta da pa rt e degli assediati. Con la resa degli ultimi ribelli ed il loro trasferimento a' Lucera si concludeva definitivamente la plurisecolare storia dei musulmani di Sicilia, perché quanti allora restarono nell'isola vennero facilmente assorbiti ed andarono a confondersi col resto della popolazione siciliana nella quale ormai sfumavano le originarie distinzioni. In venticinque anni di guerre durissime e sanguinose, Federico II aveva portato a termine il processo di unificazione linguistica ed etnoculturale in senso occidentale e latino che i normanni avevano lentamente avviato. Dopo il 1250, con l'eccezione della minoranza ebrea e degli ultimi resti di grecità bizantina, la Sicilia fu tutta, e definitivamente, neolatina nella lingua e nella cultura, cristiana e cattolica nella religione. Fu un risultato che Federico non raggiunse in virtù d'un possente sforzo demiurgico ma a prezzo dell'eliminazione diretta, brutale e completa della più cospicua minoranza siciliana. E, d'altra pa rt e, il problema musulmano aveva assunto proporzioni e caratteristiche ta li che la sua soluzione difficilmente avrebbe potuto passare per vie diverse. Federico si trovò davanti, certamente senza averne coscienza immediata, alla crisi totale ed irreversibile dell'ordine sociale e razziale instaurato dai normanni. I meccanismi della convivenza ineguale avevano a lungo andare scavato un solco incolmabile fra latini e musulmani, creando uno stato di conflittualità totale. Negli anni seguiti alla morte di Guglielmo II i saraceni passarono rapidamente da una tattica di pura difesa contro la
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rinnovata aggressività cristiana alla partecipazione attiva, ma ancora
subordinata, alle lotte civili, per giungere infine ad un'indipendenza di fatto totale che prendeva a proprio modello non una mitica terra promessa ma il ricordo di un passato cronologicamente non remoto e la realtà di un mondo spazialmente prossimo. Fra due posizioni rigide ed in fondo entrambe antistoriche — il redivivo emirato siciliano di Ibn Abbad ed il progetto federiciano di ritorno al regno normanno — non poteva esservi alcuna possibilità di dialogo ma solo lo scontro senza quartiere fino alla capitolazione del più debole. Ed è quindi molto agevole prevenire le perplessità ed i dubbi retorici che potrebbero eventualmente sorgere dal confronto fra l'inflessibilità di Federico nei confronti dei saraceni di Sicilia e la sua simpatia nei confronti della cultura e del mondo arabo. A parte il fatto che anche questo aspetto del mito federiciano meriterebbe una revisione del tutto scevra da preconcetti e luoghi comuni (94), bisogna chiarire definitivamente che il rapporto fra Federico e la comunità musulmana di Sicilia fu in primissimo luogo un problema d'ordine essenzialmente politico. Per l'Hohenstaufer, in ciò veramente ultimo re normanno, si trattò da principio di ricondurre all'ordine antico una componente ribelle della popolazione siciliana e quindi, davanti all'inutilità di perseguire questo obiettivo, di neutralizzarne la pericolosità, sfruttandone anzi al massimo la posizione del tutto precaria all'interno del regno e del mondo cristiano. Che poi i ribelli del Val di Mazara fossero maomettani di religione, arabi (o berberi) di origine, lingua e cultura, per Federico doveva costituire fatto secondario, tranne quando non si trattò di far passare la guerra contro di essi come un'altra crociata, meritevole dell'approvazione e dell'incoraggiamento papale quanto il passaggio ultramarino. Per il re di Sicilia i saraceni erano in primo luogo dei villani fuggitivi da recuperare e reinserire nell'organizzazione economica e sociale della Sicilia e, quindi, dei ribelli da sconfiggere, punire e neutralizzare, non diversi in questo dagli abitanti di Capizzi e Centorbi o delle altre terre e città che conobbero quanto potesse costare la rivolta ed il tradimento. Ma diversi i musulmani del Val di Mazara lo erano, naturalmente: diversa era la loro storia, la loro causa, il loro dramma. E diversa fu la Sicilia alla svolta del 1250, dopo più di mezzo secolo di lotte durissime che avevano accelerato il passaggio traumatico ad una realtà nuova. La fine dei musulmani di Sicilia comportò un impoverimento demografico impressionante, con la sparizione di decine e decine di luoghi abitati
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perchè abbandonati dai saraceni che si rifugiavano sui monti, o perche distrutti e spopolati dalle truppe di Federico. E, ancora, il declino di terre un tempo intesamente coltivate e la perdita irreparabile di un'antica e preziosa sapienza tecnica, agricola, artigianale. La sconfitta dei villani saraceni significò inoltre il trionfo delle `libe rt à latine': i corpi municipali, dopo la feroce repressione fra 1231 e 1232 delle loro velleità comunali, concentreranno tutte le loro ambizioni sul piano economico e approfitteranno della sparizione dei casali e della contemporanea debolezza della feudalità per assicurarsi il libero accesso a vasti territori agricoli rimasti deserti, senza che ciò significasse l'inizio di un processo di reale sviluppo (95). Sarà anzi l'avvio di quel compromesso stabile fra nobiltà feudale ed elementi `borgesi' che sanzionerà il fallimento precoce dell'intrapresa agricola signorile ed il ripiegamento dell'economia agraria sulla rendita del latifondo granario. E veramente, allora, dalla lunga lotta contro i musulmani portata a compimento da Federico, usciranno parzialmente forgiati alcuni fra i caratteri più distintivi della Sicilia tardo-medievale e moderna.
NOTE
(1) Cfr. Atti del Convegno Internazionale di Studi Federiciani, Palermo 1952. (2) Lo stato ghibellino di Federico II, Bari 1938, 1952 2 ; Firenze 1963 3 . (3) L'Idea imperiale di Federico II, Firenze 1927; La cultura alla corte di Federico II, Palermo 1938, Bologna 1950 2. (4) Ii tramonto della potenza sveva in Italia, Roma-Milano 1936; L'età degli Svevi in Italia, Palermo 1974 (in pratica una riedizione con titolo differente). (5) Kaiser Friedrich der Zweite, Berlin 1927-31; Dusseldorf-Munchen 1963-64 2; trad. it.: Federico II imperatore, Milano 1940, 1976 2. (6) Cfr. T.C. VAN CLEVE, The Emperor Frederick II of Hohenstaufen Immutator Mundi, Oxford 1972; E. HORST, Friedrich der Staufer, Dusseldorf 1976, trad. it. Federico II di Svevia, Milano 1981; G. MASSON, Frederick II, London 1957, trad. it.: Federico II di Svevia, Milano 1978. Per un visione critica d'insieme della più recente storiografia sulla Sicilia sveva cfr. F. GIUNTA, Studi sulla Sicilia sveva, in L'ultimo Medioevo, Roma 1981, pp. 1-10. (7) Cfr. M. DEL TREPPO, Medioevo e Mezzogiorno: appunti per un bilancio storiografico, proposte per un interpretazione, in Forme di potere e struttura sociale in Italia nel Medioevo, a c. di G. Rossetti, Bologna 1977, p. 250. (8) Cfr. E. KANTOROWICZ, op. cit., Milano 1976, p. 206. (9) Cfr. F. GIUNTA, Studi, cit., p. 5.
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(10) W. COHN, Die Zeitalter der Hohenstaufen in Sizilien, Breslau, 1925, trad. it. Leta degli Hohenstaufen in Sicilia, Catania 1932; cfr. il giudizio datone da I. PERT, Studi e problemi di storia siciliana, Palermo 1973, p. 47. (11) S. TRAMONTANA, Ceti sociali e gruppi etnici, in Potere, società e popolo tra età normanna ed età sveva, "Atti delle Quinte Giornate Normanno -Sveve", (Bari- Conversano, 26-28 ott. 1981), Bari 1983, pp. 147-163; Id., Ceti sociali, gruppi etnici e rivolte in Potere, società e popolo nell'età sveva, "Atti delle Seste Giornate Normanno- Sveve" (Bari-Castel del
Monte-Melfi, 17-20 ott. 1983), Bari 1985, pp. 151-166. (12) M. AMARI, Sto ria dei Musulmani di Sicilia, a c. di C. A. Nallino, 3 voll., Catania 1933-39. (13) L'interpretazione tradizionale del regno e dell'età normanna è sottoposta da alcuni anni ad una profonda revisione: cfr. G. GALASSO, Il regno normanno, in Dal comune medievale all'Unità. Linee di storia meridionale, Bari, 1969; S. TRAMONTANA, I Normanni in Sicilia: direttrici di ricerca per nuove p rospettive di lavoro, in "Archivio Storico per la Sicilia Orient ale", a. LXXI, 1975, pp. 207-286; M. DEL TREPPO, Medioevo, cit.; M. SCARLATA, Temi sto riografici su i Normanni d'Italia. Note in margine a recenti studi con un postilla, in "Aevum", a. 58, 2, maggio-agosto 1984, pp. 158-205. (14) Cfr., a tal proposito, F. GABRIELI, Federico II e la cultura musulmana, in Atti del Convegno Internazionale di Studi Federiciani, cit., pp. 435-447; U. RT77ITANO, Federico II `al-imbiratur"; in Storia e Cultura nella Sicilia Saracena, Palermo 1975, pp. 319-334; ID. La cultura araba normanna e sveva, in Storia della Sicilia, vol. IV, Palermo 1980, p. 134 e sgg.. (15) Cfr. I. PERI, Città e campagna in Sicilia. Dominazione Normanna, 2 voll., Palermo 1953-56, "Atti dell'Accademia di Scienze lettere e arti di Palermo", s. W, vol. XIII, parte II, fasc. 1 e 4; ID., Uomini, città e campagne in Sicilia dellXI al XII secolo, Bari 1978. (16) "L'acculturazione sarà il movimento di un individuo, di un gruppo, di una società e anche di una cultura verso un'altra cultura; dunque un dialogo, un insegnamento, un confronto, una mescol anza, e più spesso una prova di forza. Due culture o due civiltà sono presenti. La loro interreazione — tutto ciò che esprime il prefisso ad — è acculturazione". (A. DUPRONT, L'acculturazione. Storia e scienze umane, Torino 1966, p. 35). (17) Il Benaveth delle fonti latine, omonimo dell'altro Ibn Abbad, il nemico di Federico II, ma quasi cert amente non discendente da lui, come invece ritenne A. Nallino (cfr. Storia dei Musulmani, cit., vol. III, parte 1, p. 151, nota 1). (18) Cfr. M. AMARI, Storia dei Musulmani, cit., vol. III, parte 1, pp. 261-262. (19) Cfr. I. PERI, Uomini, città e campagne, cit., p. 85; J. JOHNS, The Muslims of Norman Sicily (1060 - 1194), A Thesis submitted to the University of Oxford for Degree of Doctor of Philosophy, ds., Oxford 1983, p. 31 e passim. (20) Cfr. ivi, p. 231 e sgg.. (21) Cfr. ivi, p. 236. (22) Cfr. ivi, p. 241. (23) Secondo Johns (ivi, p. 241), "The form of `viltainage' prevalent amongst the Muslim peasants of Norman Sicily was essentially an adaptation of an Islamic model — dhimmi peasants liable to the jizya as well as to the kharaj — by the Christian rulers of Sicily. As the twelfth century progressed, however, particulary under Roger II, attemps were made to rationalize the system by introducing principles derived from Roman law such as the fundamental distinction between service intuitu personae and service respectu teumenti. Amongst the Muslim peasants of Siciliy, however, economic and social circumstances combined to frustate this process and by c. 1180 we see instead a de facto reduction of all classes of Muslim peasants to the status of ryal al jara id".
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(24) Ivi, p. V. (25) Cfr. H. BRESC, Terre e castelli: le fort/cationi nella Sicilia araba e normanna, in Castelli, storia ed archeologia, Relazioni e comunicazioni al Convegno di Cuneo (6-8 dicembre 1981), a c. di R. Comba e A.A. Settia, Torino 1984, pp. 73 e 77-84. (26) [PS.-] FALCANDO, La Historia o Liber de regno Sicilie, a c. di G.B. Siragusa, Roma 1897, p. 70. (27) Cfr. ivi, p. 57. (28) Cfr. IBN AL ATHIR, in Biblioteca Arabo-Sicula, a c. di M. AMARI, vol. I, Torino 1880, rist. anast. Bologna 1981, p. 490. (29) La bibliografia sull'arcivescovado-abazia di Monreale e sul suo territorio è relativamente cospicua. Cfr. G.L. LELLO, Descrizione del real templio e monasterio di Santa
Maria Nuova di Monreale, vite de' suoi Arcivescovi, Abati et Signori col sommario de' privilegi, ed. Del Giudice, Palermo 1702; V. DI GIOVANNI, I casali esistenti nel territorio della chiesa di Monreale nel secolo XII, in "Archivio Storico Siciliano", XVII, 1982, pp. 438-496; G. LA CORTE, Appunti di toponomastica nel territorio della chiesa di Monreale nel secolo XII, in "Arch. St. Sic.", n.s., XXVII, 1902, pp. 336-345; C.A. GARUFI, Catalogo illustrato del tabulario di Santa Maria Nuova in Monreale, Palermo 1902. Più recenti sono alcuni contributi dedicati specificatamente all'archeologia medievale ed alla storia dell'insediamento nel territorio monrealese: cfr. F. D'ANGELO, Sopravvivente classiche nell'ubicazione dei casali medievali del territorio della chiesa di Monreale, in "Sicilia Archeologica", XI II, 1971, pp. 54-62: ID. I casali di Santa Maria la Nuova di Monreale nei secoli XII-XIV, in "Bollettino del Centro Studi filologici e linguistici siciliani", XXI, 1973, pp. 333-339; ID. Curbici di Camporeale: un problema di insediamento, in "Archeologia Medievale", II, 1975, pp. 455-461; J. JOHNs, The Monreale Survey: indigenes and invaders in Medieval West Sicily, in Paper in Italian Archaeology IV, part W, Classical and Medieval Archaeology, B.A.R., 246, Oxford 1985, pp. 215-223 (primo resoconto delle prospezioni di superficie che da alcuni anni una missione archeologica dell'Università di Newcastle, guidata da Jeremy Johns, conduce sul territorio monrealese); ID., Nota sugli insediamenti rupestri musulmani nel territorio di S. Maria di Monreale nel dodicesimo secolo, in La Sicilia rupestre nel contesto delle Civiltà Mediterranee, Atti del sesto Convegno Internazionale di studio sulla Civiltà Rupestre Medievale nel Mezzogiorno d'Italia (Cat aniaPantalica-Ispica, 7-12 settembre 1981), Galatina 1986, pp. 227-234. Sulla storia agraria del territorio monrealese nel XII secolo e la condizione dei musulmani in esso stanziati cfr. M. BERCHER, A. CORTEAUX, J. MOUTON, Une abbaye latine dans la sociètè musulmane: Monreale au XII, siècle, in "Annales E.S.C.", XXXV, 3, mai-juin 1979, pp. 525-547; e, soprattutto, J. JOHNS, The Muslims, cit., p. 186 e sgg. (30) La definizione è di Johns (ivi, p. III). (31) Cfr. ivi, p. 251. (32) Secondo Michele Amari i musulmani delle campagne monrealesi furono "spinti a disperazione dalle avanzie de' loro nuovi signori tonsurati, più ingordi e più duri al certo che gli uffiziali mezzo musulmani della corte" (Storia dei Musulmani, cit., vol. III, parte 2, p. 559). (33) Cfr. J. JoHNs, The Muslims, cit., p. 241. (34) "E qui gli uomini che veggono innanzi nelle cose loro, temon che avvenga all'universale dei Musulmani di Sicilia ciò che segui ne' tempi andati a que' dell'isola di Creta; dove tanto lavorò la tirannide de' Cristiani e tanti fatti particolari accadero successivamente, oggi una cosa domani un'altra, che gli abitanti alla fine furono costretti a farsi cristiani dal primo fino all'ultimo; scampando soltanto que' pochi che Iddio
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decretò di far salvi. Che la parola della dannazione piombi addosso agli infedeli!" (in
Biblioteca Arabo-Sicula, cit., vol. I, pp. 178-179). (35) Cfr. Gesta Regis Henrici, ed. Stubbs, London 1867, vol. II, p. 141; RUGGERO DI HOVEDEN, in G.B. CARUSO, Bibliotheca Historica Regni Siciliae, Palermo 1723, II, p. 965. I disordini del 1189-1190 sono ricordati anche dall'ANONIMO CASSINESE, ivi, I, p. 514; dalla Chonica S. Bartholomaei de Carpineto, in UGHELLI, Italia Sacra, tomo X, col. 378; da PIETRO DA EBOLI, De rebus Siculis Carmen, a c. di E. Rota, RR.II.SS., XXXI, Città di Castello 1904-1909, p. 12, vv. 48-51; p. 19, vv. 84-89; RICCARDO DI SAN GERMANO, Chronica, a c. di A. Gaudenzi, Napoli 1888, p. 64. E ancora da una fonte musulmana, il Kitab ar-Rawdatayn (cfr. M. AMARI, St. dei Mus., III, p. 558 nota 4). (36) Cfr. RICCARDO DA SAN GERMANO, op. cit., p. 64. (37) In G.B. CARUSO, op. cit., I, p. 965. La cifra è certamente esagerata ma indica senza dubbio la gravità della secessione. (38) Cfr. [PS.-] FALCANDO, Epistola ad Petrum Panormitane Ecclesie thesaurarium de calamitate Sicilie a c. di G.B. Siragusa, Roma 1897, p. 173. (39) Cfr. Annali Genovesi di Cafiaro e de' suoi continuatori, vol. II, Genova 1901, pp. 50-51 (Ottobonus Scriba). (40) Cfr. la conferma concessa da Federico II nel 1211 del privilegio di Costanza che assegnava alla chiesa di Palermo tutto il tenimento di Platano e Captedis e rinnovava il possesso di vari altri casali, fondi e villani (in J.L.A. HUILLARD - BREHOLLES, Historia diplomatica Friderici Secundi, torno I, parte 1, Parigi 1852, rist. anast. Torino 1963, pp. 191-195. L'opera sarà citata d'ora in av an ti con la sigla HB). (41) M. AMARI, St. Mus., vol. III, parte 2, p. 584. (42) Cfr. PL, CCIXIV, lettere di Innocenzo III, libro I, n. 302, coll. 263-65. (43) Cfr. ivi, n. 508, coll. 470-71. (44) Cfr. ivi, n. 509, coll. 471-72. (45) Cfr. il resoconto della battaglia fatto ad Innocenzo III dall'arcivescovo di Napoli Anselmo, in HB, I, 1, pp. 46-49. (46) Cfr. ivi, pp. 53-4: Federico concede ai canonici di Vicari di poter estrarre liberamente 100 salme di gr an o l'anno, come ricompensa per l'aiuto finanziario prestato , durante il turbationis tempus (doc. dell'agosto o settembre 1200). Ivi, pp. 55-7: Federico concede ai cittadini di Palermo, per ricompensa dei servigi prestati quando rara fides erat in aliis et fere singuli titubabant, di importare ed esportare liberamente qualsiasi sorta di beni, tranne le vettovaglie (settembre 1200). Ivi, pp. 64-67: Federico concede ai Genovesi immunità doganali e consolati a Messina, Siracusa, Trapani e Napoli (dicembre 1200). Ivi, p. 63: Federico concede a Stefano vescovo di Patti, che aveva prestato al cancelliere Gualtieri di Palearia 17.000 tari, metà della terra di Naso, già appartenuta ai traditori Abbo Barresi e Pisanello Pisano (novembre 1200). (47) Cfr. HB, I, 1, pp. 57-58 (ottobre 1200). (48) Cfr. ivi, pp. 100-102. (49) Cfr. ivi, pp. 118-119. (50) Cfr. Gesta Innocentii, in G.B. CARUSO, Bibliotheca, cit., II, p. 658 e HB, I, 1, pp. 135-137. (51) Cfr. MGH, Scriptores, XVIII, p. 825. (52) Cfr. HB, I, 1, p. XCLXXXI. (53) Cfr. E. WINKELMANN, Acta imperli inedita saeculi XIII, Innsbruck 1880, vol. I, p. 93. (54) Cfr. ivi, p. 94.
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(55) Cfr. H. BRESC, F. D'ANGELO, Structure et évolution de 'habitat dans la région de Termini Imerese (XII -X V siècles), in «Mélanges de l'École franaise de Rome», moyen âge-temps modernes, t. 84, II, 1972, p. 378. (56) Cfr. A. MONGITORE, Monumenta Historica Sacrae Domu Mansionis SS. Trinitatis, Palermo 1721, pp. 25-26. (57) Cfr. G. PICONE, Memorie storiche agrigentine, Girgenti 1861, pp. IX -XXII; P. COLLURA, Le più antiche carte dell'archivio capitolare di Agrigeto, Palermo 1961, pp. 100-102. (58) Il conte Bernardino è ricordato da un documento (fobabilmente del 1233) che riferisce un episodio accaduto quando eg li pro turbationis tempre era dominas Agrigenti (cfr. P. COLLURA, op. cit., p. 107). La rivalità fra la vedova df conte ed il vescovo è testimoniata da un lungo documento del 1260 già citato (cfr. s. PICONE, op. cit., pp. XVIII-XXI). (59) Cfr. M. AMARI, Biblioteca Arabo -Sicula, Appendice Torino 1889, p. 12 (traduzione del Tariq Mansur). (60) Cfr. F. D'ANGELO, La monetazione di Muhammad Ibn Abid emiro ribelle a Federico II di Sicilia, in «Studi Magrebini», vol. VII, 1975, pp. 149-15; ID., Aspetti della vita materiale in epoca normanna in Sicilia, Palermo 1984, pp. 61-63. (61) Cfr. HB, II, 1, pp. 149-152. (62) Cfr. S. TRAMONTANA, Ceti sociali, gruppi etnici, rivolte, it., p. 161. (63) Cfr. supra, nota 59. (64) Cfr. B. MORITZ, Ibn Said beschreibung von Sicilien, in léntenario della nascita di Michele Amari, Palermo 1910, vol. I, pp. 293-305; E. LEVY-PRVENÇAL, Une héroine de la resistance musulmane en Sicilie au début du XIII' siècle, in «Oriere Moderno», XXXIV, 1954, pp. 283-288. (65) Cfr. Annales Siculi, appendice a Malaterra, RR.II.SS., VBologna 1928, p. 117. (66) Cfr. HB, II, 1, pp. 255-265. (67) Cfr. supra, nota 59. (68) Cfr. supra, nota 65. Cfr. anche la Chronica Albrici nnachi Trium fontium, i n MGH, SS., XXIII, p. 894. (69) Cfr. E. LEVY-PROVENÇAL, op. cit., pp. 286-288. (70) Cfr. supra, nota 59. (71) Trad. di F. Gabrieli, in Gli arabi in Italia, Milano 198, p. 748. (72) Cfr. Annali genovesi, cit., II, p. 193. (73) Cfr. ibidem. (74) Cfr. E. W INKELMANN, Acta, cit., p. 17. (75) Cfr. RICCARDO DI SAN GERMANO, Chronica, cit. pp., 11-112. (76) Cfr. ibidem. (77) Cfr. ibidem. (78) Il trasferimento dei musulmani di Malta è narratoda Ibn Khaldun; cfr. Biblioteca Arabo -Sicula, cit., II, p. 213. (79) Sulla colonia di Lucera cfr. P. EGIDI, La colonia sarvena di Lacera e la sua distruzione, in «Archivio Storico per le province Napoletane; XXXVI, 1911, pp. 664-694; XXXVII, 1912, pp. 71 -89 e 664-696; XXXVIII, 1913, pp. 115-144 e 681-707; XXXIX, 1914, pp. 132-171 e 697-766. Cfr. anche L., Codice diplomatico dei saraceni di Lacera dall'anno 1285 al 1343, Napoli 1917. (80) Cfr. E. WINKELMANN, Acta, cit., I, p. 244. (81) Cfr. HB, II, 1, pp. 411.
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(82) Cfr. RICCARDO DI SAN GERMANO, Chronica, cit., p. 115. (83) Cfr. la Chronica Emonis, in MGH, SS, XXIII, p. 499 e, soprattutto, la Chronica Albrici monaci (cit., p. 916), secondo la quale, nel 1225, Fredericus imperator de Sarracenis
qui montanas tenebant in Sicilia nobiliter triumphavit. (84) SALIMBENE DE ADAM, Chronica, a c. di G. Scalia, 2 voll., Ba ri 1966, I, p. 47. (85) Cfr. HB, V, 1, pp. 427.
(86) Ivi, p. 505; 1239, nov. 7. (87) Cfr. ivi, p. 509; nov. 17. (88) Cfr. ivi, p. 626. (89) Cfr. Annales Siculi, cit., p. 118. Il testo po rt a Alicatam ma si tratta chiaramente di lectio facilior per Antellam o Entellam. (90) Cfr. ivi, p. 119. (91) Cfr. HB, VI, 1, p. 456. (92) Cfr. E. WINKELMANN, Acta, cit., I, p. 339. (93) Cfr. HB, VI, 1, p. 472. (94) Cfr. a tale proposito, N. DANIEL, Gli arabi e l'Europa nel Medioevo, Bologna 1981, pp. 243-262. (95) Cfr. H. BRESC, Un monde méditerranéen. Economie et société en Sicile 1300-1450, Palermo-Roma 1986, tomo I, pp. 15-16.
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d Ustica
MAR
TIRRENO
Le rivolte musulmane fra storia ed archeologia
Pantelleria
40/ Gozo
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Fig. 20 — I centri delle rivolte musulmane. I triangoli pieni indicano i siti identificati con certezza, quelli vuoti i siti probabili: 1) Jato; 2) Entella; 3) Platano-Monte della Giudecca; 4) Guastanella; 5) Cinisi; 6) monte Palmeto, la Montagnola; 7) Cautall-Pizzo di Gallo (Gallo?); 8) monte Cangialeso (galatgalsu, Celso?).
Il territorio delle diocesi di Agrigento e Monreale, epicentro delle rivolte musulmane del XII e XIII secolo, è una vastissima area collinare e montagnosa all'interno della quale lo spoglio della documentazione, l'indagine toponomastica e la prospezione archeologica hanno permesso di localizzare ed in molti casi identificare sul terreno decine di insediamenti d'età musulmana e normanna la cui esistenza non sembra protrarsi oltre la fine del XII secolo o la prima metà del XIII (1). Fra di essi vi sono le località che le fonti indicano quali capisaldi e roccaforti dei ribelli: Jato, Entella, Platano e Celso, nominate fin dal 1206 nella lettera di Innocenzo III ai gaiti; Gallo ed un'altro luogo nella cui ince rt a grafia Amari, traducendo il Tariq Mansuri, propose di identificare Cinisi (2); ed ancora Guastanella, ricordata dai documenti dell'archivio capitolare di Agrigento che riferiscono l'episodio della prigionia del vescovo Urso. In tutto, quindi, conosciamo il nome di sette fortezze tenute dai ribelli del `cantone musulmano'; certamente le più importanti anche se non le uniche, come espressamente notato dal Tariq Mansuri. Di esse Jato, Entella, Guastanella e Platano sono note da tempo ed identificate sul terreno con assoluta certezza: nel caso dei primi due siti, inoltre, sono attualmente in corso dei programmi di scavo che, pur nascendo da uno specifico interesse per la fase antica dei centri, stanno apportando un contributo notevolissimo an che dal punto di vista dell'archeologia medievale. Delle rimanenti località, Celso e Gallo, identificabili con sufficiente probabilità, attendono ancora uno studio particolare, mentre sull'abitato medievale di Cinisi è possibile affermare con certezza solo che non sorgesse sul sito dove, a partire dal XVII secolo, si sviluppò l'attuale comune.
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JATO
Già Fazello accennò alle rovine del centro antico e medievale di Jato, ubicandolo correttamente sulla cima del monte omonimo (3), un massiccio rilievo calcareo che si innalza per circa 400 metri rispetto alla vallata ove sorgono i comuni di S. Giuseppe Jato e S. Cipirrello. Monte Jato risulta quasi inaccessibile su tre lati (se si escludono alcuni difficili sentieri): solo il versante E, costituito da un'estesa dorsale, permette un'accesso relativamente agevole ed è per questo che l'abitato venne difeso fin da età antica su questo lato con l'erezione di un muro di cinta rinforzato da torri e `bastioni' (4). Il carattere di fortezza naturale di questo sito montano doveva però essere in parte compromesso dall'assoluta mancanza di sorgenti d'acqua, circostanza già notata da Idrisi (5) e rimarcata ancora da Fazello (6). La cima del monte presenta un vasto terrazzo inclinato verso S che prima dell'inizio degli scavi era adibito al pascolo e punteggiato da cumuli di spietramento realizzati quando la zona era coltivata a frumento. Le campagne di scavo che l'Istituto di Archeologia dell'Università di Zurigo ha effettuato a partire dagli inizi degli anni '70, hanno mostrato una continuità apparentemente ininterrotta dell'abitato dall'VIII-VII secolo a.C. (se si escludono le tracce di un precedente insediamento d'età castellucciana) fino al momento della sua definitiva distruzione alla fine del regno di Federico II. Le ricerche hanno interessato fino a questo momento soprattutto tre distinti edifici della città classica, tutti oggetto di fitta rioccupazione in epoca medievale: il teatro, una casa a peristilio ed il tempio di Afrodite. La càvea del teatro, realizzato verso il 300 a.C. (7), fu densamente occupata da casette medievali (sec. XII — prima metà del XIII), costituite da un solo vano, costruite apparentemente in fretta con materiali di fortuna e disposte in maniera radiale su tre file (8). Dagli strati medievali della càvea del teatro provengono, oltre a reperti ceramici, anche monete di Federico II, un gettone vitreo del califfo Hafiz (1131-1149 d.C.; 526-544 H) ed una moneta argentea di Ibn Abbad, il capo della resistenza musulmana eliminato da Federico (9). Il qua rt iere era delimitato verso N da un grosso muro al di là del quale gli scavi hanno individuato una necropoli con scheletri deposti in posizione supina in senso Ovest-Est (la testa ad O) e a volte parzialmente coperti con una lastra calcarea o frammenti di tegole. Nessuna delle sepolture presentava corredo. Anche l'area della casa a peristilio venne occupata da modeste costruzioni medievali da cui proviene una moneta di Enrico VI e 60
Federico II del 1196 (10); abitazioni medievali vennero realizzate anche sulle strutture dell'antico tempio di Afrodite (11) e nell'area dell'agorà dove le case medievali utilizzarono ampiamente resti di costruzioni antiche. All'interno di una di queste case fu rinvenuta la sepoltura di un bambino scavata nel pavimento antico e realizzata con lastre di pietra di cui una disposta a protezione del capo dell'inumato: anche questa tomba era totalmente priva di corredo. Le case medievali dell'agorà presentano un chiaro strato di distruzione con monete di Federico II, corrispondente senza dubbio al momento della definitiva rovina del centro abitato (12). Sempre nell'agorà è stata scavata una serie di tombe a cassa di pietre con inumazione disposta in senso Ovest-Est (testa a O) e prive di corredo, anch'esse relative, con tutta probabilità, all'ultima fase di occupazione del centro. Le mura dell'abitato, le cui tracce sono visibili lungo il versante E del terrazzo di sommità, non sono state fino ad ora oggetto di indagini specifiche, se si esclude un saggio di scavo che ha rivelato un tratto del primo impianto murario d'età antica imprecisata sul quale venne edificata una casa medievale da cui provengono una moneta di Enrico VI e Costanza del 1195 ed una di Enrico e Federico del 1196; a sua volta sopra la casa venne innalzato un nuovo muro d'apparecchiatura semplice e scadente, realizzato quasi certamente in tutta fretta all'epoca dell'ultima sollevazione contro Federico II (13). Né sono stati eseguiti scavi nell'area dove con moltissima probabilità è da localizzare il castello che alloggiava forse la prigione sotterranea "nella quale è richiuso chiunque incorra nella collera del re" ricordata da Idrisi (14). Il sito fortificato si trova ed E dell'area della città classica e medievale fino ad ora scavata, sulla cima più orientale del monte, ed è protetto verso N dalla conformazione naturale del rilievo che presenta una parete rocciosa sulla quale si inerpica un solo sentiero agevolmente controllabile da un pugno di uomini. Attualmente è possibile individuare tratti delle mura che cingevano il castello verso S ed E e tre probabili torri o altri edifici interni che occupavano, rispettivamente, la cima ed i due gradoni in cui declina il monte lungo il fianco E: su tutta l'area si raccolgono numerosi frammenti ceramici fra cui predominano quelli dell'età medievale (secc. XI-XII). Un'altra fortificazione medievale (fig. 4) si trova su una cima distante da monte Jato sole alcune centinaia di metri in linea d'aria verso E (15). Si distinguono attualmente tratti interrati delle mura di cinta e due cumuli di pietrame e terra (somiglianti nell'aspetto alla forma classica della motta) che evidentemente costituiscono i crolli di edifici interni del castello, forse due torri. Su tutta l'area 61
abbondano i frammenti di coppi medievali, di invetriata e di ceramica acroma con solcature orizzontali ricavate al tornio sulla superficie esterna delle forme. Soltanto lo scavo dei due siti fortificati, naturalmente, potrà fornire dati più precisi e significativi, ma la prossimità del secondo fortilizio al castello sito sulla cima di monte Jato, da lì perfettamente controllabile, potrebbe indurre a pensare ad un siege castle edificato contro la roccaforte dei musulmani ribelli: si avvalorerebbe così la testimonianza di Fazello che segnalò le rovine di un fortilizio eretto davanti Jato da Robe rt o conte di Caserta (16) cui Federico, come si è visto, affidò il comando dell'ultima repressione fra 1245 e 1246. ENTELLA Anche il sito di Rocca d'Entella fu segnalato già da Fazello che ne pose in rilievo il carattere di bastione naturale, di luogo "per sua natura fo rt issimo e quasi inespugnabile" (17). La Rocca, infatti, si innalza totalmente isolata per 557 m. sul livello del mare e presenta ripide pareti sui versanti S, O ed E, così da risultare accessibile in modo relativamente agevole (se si esclude una ripida stradella che si inerpica sui gradoni della parete S) solo dal lato N. La sommità del rilievo calcareo è costituita da un esteso pianoro la cui utilizzazione agricola, anche con l'impiego di aratri pesanti, ha senza dubbio apportato gravi danni al patrimonio archeologico della Rocca. Da pochi anni il sito è oggetto di scavi archeologici condotti dalla Scuola Normale di Pisa ma i risultati delle prime campagne non sono ancora stati pubblicati: il contributo più rilevante alla conoscenza archeologica della Rocca d'Entella resta quindi un saggio di Vittorio Giustolisi (18) basato sulla ricognizione di superficie e sull'esame di reperti occasionali o appartenenti a collezioni private. Il materiale archeologico mostra una continuità probabilmente ininterrotta di abitazione a partire almeno dal VII sec. a.C. fino ad età imperiale romana e, d'altra parte, la potenza raggiunta della città elima di Entella, soprattutto nel corso del IV sec. a.C., è ben nota attraverso le fonti storiche ed epigrafiche. I reperti di superficie, sino a questo momento, non sembrerebbero provare una continuità d'insediamento di età bizantina (19), anche se solo i risultati delle prime campagne di scavo e ricerche ulteriori potranno confermare o meno questa impressione. Al momento della conquista normanna sulla Rocca esiste una fortezza musulmana: è il castrum Antilium ricordato da Malaterra, contro cui si diresse nel 1062 62
Ibn Thumna (il caudillo musulmano alleato degli Altavilla), finendo ucciso per mano degli abitanti (20). Il castrum è da localizzare con ogni probabilità sulla cima più elevata della Rocca, ove esistono resti murari, fra i quali una volta a sesto acuto, forse d'epoca normanna o federiciana (21). Dopo Malaterra le fonti narrative o documentarie d'età normanna tacciono su Entella, con l'eccezione del celebre privilegio della chiesa di Monreale del 1182 che ricorda l'esistenza dei dirroiti de Hantella (22), di hedificia diruta que sunt subtus castellum Hantelle (23), ed ancora di un fiume d'Entella presso il quale esisteva un balneum (24). Sono evidentemente notizie troppo scarne per trarre conclusioni definitive sulla storia e la tipologia di questo insediamento nel XII secolo: si potrebbe ipotizzare, però, anche tenendo in corisiderazione il silenzio assoluto di Idrisi, una certa decadenza o addirittura la sparizione dell'abitato (i cui dirroita si sarebbero così confusi con q u elli della città classica), nel cui sito sarebbe rimasto unicamente un castello isolato. Entella riacquista importanza nel periodo delle rivolte divenendo con Jato la più impo rt ante roccaforte dei ribelli e forse la residenza dello stesso Ibn Abbad. Contro il castrum Hantelle, come racconta al-Himyari, Federico II avrebbe fatto costruire un fortilizio che potrebbe identificarsi con le rovine medievali segnalate da Giustolisi in un altro luogo della Rocca, una cresta rocciosa sul vers an te S, a poca distanza dal castello della cima (25). Potrebbe quindi verificarsi ad Entella la stessa situazione che si è ipotizzata per Jato: la presenza di due fortilizi contrapposti, uno dei quali costruito su ordine di Federico per tenere sotto controllo la rocca occupata dai saraceni ribelli. Una conferma archeologica di questa ipotesi basterebbe da sola a testimoniare la rilevanza dello sforzo bellico messo in atto dall'imperatore per piegare la resistenza dei musulmani di Sicilia. GUASTANELLA Anche Guastanella, come Jato, Entella, Platano e Cinisi, compare già come uno dei centri della resistenza musulmana alla conquista normanna: nel racconto di Malaterra figura fra e fortezze musulmane del retroterra agrigentino che si arresero nel 1086, dopo la capitolazione di Girgenti (26). Guastanella non ricompare in nessuna successiva fonte d'età normanna ma l'argomento ex silentio, anche in questo caso, non è sufficiente, da solo, a provare la decadenza o addirittura l'abbandono del luogo. Durante le rivolte il castello servì da car:ere per il vescovo di Agrigento Urso, tenutovi prigioniero dai saraceni per più di un anno. 63
Guastanella sembra essere l'unica roccaforte dei ribelli musulmani che in qualche modo sopravvisse alla repressione federiciana: a metà del XIV secolo esisteva ancora un castrum Guastanelle (27) e nel 1374-75 gli esattori del sussidio per la revoca dell'interdetto papale vi trovarono ancora un villaggio con domus coperte palearum (28). Castello e villaggio dovettero essere abbandonati alla fine del '300 o nel corso del secolo successivo ma il toponimo Guastanella si è conservato, non lasciando dubbi sull'identificazione del luogo, già noto a Fanello (29). Sul sito non sono stati compiuti fino ad ora scavi scientifici ma esso è stato oggetto di una accurata ricognizione di superficie da pa rt e di J. Johns (30). Anche monte Guastanella possiede le caratteristiche di una vera e propria fortezza naturale: è un rilievo di scisti gessosi che si eleva ripido ed isolato fino a 609 m. sul livello del mare, sovrastando di circa 250 m. le vallate sottostanti. Il castello venne costruito sulla cima del monte e grazie alla friabilità della roccia gessosa alcune delle sue strutture vennero realizzate scavando la montagna. Il muro di cinta, che delimita una superficie di ca. 1200 mq. 2, corre sui lati N ed E della cima, dal momento che verso S e SO la parete a picco rendeva superflua l'erezione di fortificazioni artificiali. È realizzato con pietre non squadrate o poco squadrate, legate con malta e rinzeppate con frammenti di coppi: il suo spessore varia molto ma, in media, si aggira sui 75 cm. (31). Seguendo la conformazione della cima, il castello si dispone su quattro livelli collegati fra loro da sentieri; le strutture più notevoli del complesso sono due grandi camere scavate nel gesso con alcove e anelli di pietra per legare animali, forse ad un tempo stalle ed abitazioni. Il rifornimento idrico del castello era assicurato da una cisterna in muratura coperta da volta a botte le cui dimensioni (metri 4 X 5 x 7 di profondità) permettevano la conservazione di ca. 120.000 litri d'acqua, riserva sufficiente an che alle necessità di una numerosa guarnigione (32). Sotto il castello, su un contrafforte roccioso ad E della cima, la notevole presenza in superficie di frammenti di tegolame e ceramica dei secoli XI-XIII rivela il sito del villaggio medievale: a giudicare dall'estenzione dell'area di frammenti doveva trattarsi di un insediamento abbastanza grosso, privo di per se di opere difensive ma protetto dalla vicinanza del castello. PLATANO Dell'insediamento fortificato di Platano si hanno notizie fin dall'epoca della conquista musulmana: la resistenza della rocca venne 64
piegata una prima volta fra 839 e 840 (33); essa si ribellò, insieme ad altri centri, nell'860-861 e fu nuovamente costretta alla resa (34); più tardi, nel 939-40, fu ancora una volta sottoposta ad assedio durante una fase delle guerre che insanguinarono la Sicilia musulmana nel X secolo (35). Idrisi descrive Platano come "abitazione in sito alto, dominato da un'eccelsa rocca" (36), dicendolo inoltre dotato di terreni da semina; orti, frutteti ed ubicandolo a ponente del fiume Platani (37), particolare che, invece che facilitare, ha reso più difficile l'identificazione del sito. Nel 1211 il possesso di Platano venne da Federico II confermato alla chiesa palermitana cui era stato concesso dall'imperatrice Costanza (38): il privilegio doveva però restare lettera morta dal momento che la rocca era sotto il controllo dei musulmani ribelli almeno fin dal 1206 (39). Platano non sembra sopravvivere oltre la prima metà del XIII secolo anche se ancora nel 1292 ne vengono ricordate le pertinenze (40). La `riscoperta' della località si deve con ogni probabilità a Fazello che descrisse lungo il corso del fiume Platani, a circa sette miglia dalla foce, le rovine di una città e, poco lontano da questo primo sito, un rilievo (chiamato Platanella) "tutto tagliato intorno" che sulla sommità, costituita da un terrazzo di un miglio di perimetro, mostrava altre ingenti rovine archeologiche (41). Fazello non avanzò esplicitamente alcuna ipotesi di identificazione dei due siti ma è molto verosimile che il monte chiamato Platanella dallo storico saccense fosse in realtà la sede della rocca di Platano e cioè l'attuale Monte della Giudecca. In ogni caso, la scarsa precisione topografica delle fonti, il parziale cambiamento della toponomastica e, quindi, la non agevole interpretazione del passo di Fazello, hanno fatto sì che intorno all'identificazione di Platano nascesse uno di quei bella topographica tanto cari alla cultura erudita del secolo scorso e oggi non completamente passati di moda. Ne dette l'avvio lo stesso Michele Amari che propose dapprima di localizzare Platano sul monte Sara, un rilievo ad occidente del comune di Cattolica Eraclea, ma successivamente, in base ad un semplice esame cartografico, escluse l'ipotesi, proponendo come sito dell'abitato medievale il monte Millaga o, più cautamente, limitandosi ad ubicarlo all'interno dell'area compresa fra i paesi di Cianciana e Cattolica ed il fiume Macasoli (42). L'identificazione con monte Sara, proposta e scartata dall'Amari, venne nuovamente ripresa da Gaetano Di Giovanni (43) le cui poco convincenti conclusioni furono però rigettate da Giovanni Caruselli che ubicò Platano sul Monte della Giudecca, sempre nei pressi di Cattolica (44). Le considerazioni di questo studioso erano abbastanza corrette per ciò che riguardava l'interpretazione delle fonti e, soprattutto, si 65
basavano su una diretta conoscenza dei luoghi che gli permetteva di escludere l'esistenza, su monte Sara, di rovine relative ad un insediamento medievale fortificato quali invece venivano segnalate sulla Giudecca. Questa montagna, inoltre, alta sopra un'ansa del fiume Platani, con pareti rocciose su tutti i versanti, un solo sentiero d'accesso ed un vasto pianoro sulla sommità, presentava quei requisiti di fortezza naturale in qualche modo accennati nella descrizione di Idrisi e tipici del qalat musulmano; caratteristiche che invece mancano totalmente al monte Sara, accessibile abbastanza facilmente da tutti i versanti, senza considerare che la morfologia di Monte della Giudecca ben corrisponde anche alla descrizione della Platanella di Fazello. Alla garbata e ben documentata critica Di Giovanni reagì con un polemicissimo libello, ribadendo astiosamente la identificazione già proposta con argomentazioni, ancora una volta, scarsamente' consistenti, soprattutto perchè prive di verifica archeologica (45). L'erudito insisteva soprattutto sulla testimonianza di Idrisi che poneva il corso del fiume Platani ad oriente della rocca, condizione rispettata dall'identificazione di Platano sul monte Sara ma evidentemente del tutto insufficiente dal momento che su questa montagna non sono presenti reperti archeologici d'età medievale. Caruselli tornò a proporre con argomenti validissimi la sua ipotesi qualche anno dopo, questa volta senza neanche prendersi cura di citare direttamente l'avversario (46): nonostante tutto, però, l'identificazione di Platano con Monte della Giudecca venne accolta, e non senza perplessità, soltando da Salvatore Raccuglia (47), mentre Ignazio Scaturro (48) e lo stesso Carlo Alfonso Nallino, nell'edizione catanese della Storia dei Musulmani di Amari (49), tributarono un immeritato omaggio a Di Giovanni, condividendone la poco fondata tesi. Più di recente, Monte della Giudecca è stato oggetto di una sommaria ricognizione archeologica da pa rt e di Ernesto De Miro che vi ha segnalato la presenza di un complesso fortificato senza però avanzarne una datazione nè un'eventuale identificazione (50). La tesi di Caruselli è stata invece ribadita da V. Giustolisi che oltre ad avere effettuato una prospezione diretta del sito, ha giustamente notato come la posizione di Monte della Giudecca non contrasti affatto con l'ubicazione di Platano ad occidente del fiume indicata da Idrisi, dal momento che il rilievo sorge su un'ampia ansa del Platani che, quindi, gli scorre tanto ad oriente che ad occidente (51). Una recentissima nuova proposta di identificazione di Platano su Colle Rotondo (52) non va presa in considerazione per la scarsa altezza di questo rilievo (m. 262), del tutto contrastante con la descrizione di Idrisi, e per la superficie relativamente
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esigua della cima ove esistono comunque i resti di un modesto insediamento fortificato medievale, forse una vedetta avanzata di PlatanoMonte della Giudecca (53). Su questa identità non lasciano ormai più margine ragionevole di dubbio le indagini archeologiche effettuate da Vittorio Giustolisi nel 1983 (delle quali è fornita una relazione sommaria nell'introduzione del presente testo), nonchè quelle svolte da J. Johns (54), ancora inedite.
CELSO Il toponimo Celso è da riconoscere senza dubbio come una volgarizzazione dell'originario arabo galcu (55): la località ricordata dalla lettera di Innocenzo III del 1206 corrisponde quindi alla "città interna dell'isola di Sicilia" menzionata da Yaqut (56) ed al Calatialci della versione latina del Rollo di Monreale del 1182 (57). Quest'ultimo documento permette di localizzare Celso non lontano da Corleone e Raia e nelle immediate vicinanze del monte Barrachu (58) che ha mantenuto praticamente inalterato il toponimo dal XII secolo fino ad oggi (59). Sembra quindi estremamente probabile la localizzazione proposta da Johns di Celso sul monte Cangialeso (distante poche centinaia di metri in linea d'aria dal Barracù) la cui attuale denominazione è un'ulteriore storpiatura dell'arabo qalat jalru. Una prima rapidissima ricognizione archeologica su monte Cangialeso non ha portato risultati apprezzabili, ma è prevedibile che un'esplorazione completa del rilievo potrà condurre all'individuazione del sito della fortezza (60). GALLO Gallo è ricordata fra le roccaforti dell'emirato ribelle solo da un passo del Tariq Mansuri che, oltre a descrivere il sito come già abbandonato dai suoi abitanti, sembra escludere possa trattarsi dell'omonimo casale di Gallo ubicato presso la costa fra Mondello e Sferracavallo (61), il cui toponimo è stato ereditato dal monte che chiude a ponente il golfo di Mondello. Bisogna pertanto cercare questo secondo insediamento chiamato Gallo all'interno del Val di Mazara, in prossimità dei siti musulmani già identificati. Un toponimo Gallo è pe rtinente oggi ad una montagna (prossima alla Rocca d'Entella) alle cui pendici N e S si trovano le due contrade rispettivamente dette Cautalì Piccolo e Cautalì Grande (62). Ciò permetterebbe di ipotizzare che la fortezza che il Tariq Mansuri chiama Gallo possa corrispondere al Kalatahali ricordato dal
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privilegio di Monreale del 1182 (63), di cui l'attuale toponimo Cautalì non è evidentemente che una storpiatura. Qualunque valore voglia darsi a questa proposta di identificazione, monte Gallo-Cautalì non è stato fino ad ora oggetto di un'attenta prospezione archeologica ma è da prevedere che essa verrà effettuata nel quadro del `Monreale survey'.
CINISI Cinisi, ricordata fra le roccaforti dei ribelli dal Tariq Mansuri, era già stata con Jato nel 1079 centro di una rivolta contro la dominazione normanna. L'attuale comune di Cinisi sorge in pianura a pochissima distanza dal mare ed è quindi da escludere che si sia sviluppato sul sito dell'insediamento medievale che Idrisi descrive come "fabbricato sulla costa di un monte" e lontano dal mare quattro miglia (64). Secondo la tradizione locale il casale medievale sorgeva nella località attualmente chiamata Castellaccio (65): l'identificazione manca però fino ad oggi di validi riscontri archeologici ed il problema resta quindi aperto. Non sembra comunque probabile che il casale di Cinisi dell'XI-XIII secolo sia da identificarsi con l'abitato medievale esistente sul monte Palmeto, in contrada Montagnola, dal quale proviene una moneta di Ibn Abbad (66): la distanza relativamente notevole fra questo sito ed il comune attuale porterebbe a escludere l'ipotesi e a far considerare l'insediamento della Montagnola come un'altro anonimo centro dell'emirato ribelle. La cui importanza (e quella di Cinisi, se si escluderà con certezza la corrispondenza fra i due luoghi) era legata evidentemente alla prossimità al mare da cui solo potevano giungere aiuti, rifornimenti e notizie alle fortezze musulmane dell'interno.
*** Il bilancio dell'archeologia è del tutto provvisorio ed alle località elencate se ne potrebbero aggiungere altre che con molta probabilità fecero pa rt e anch'esse dell'emirato ribelle e vennero abbandonate o distrutte dopo la sconfitta definitiva dei musulmani .ed il loro trasferimento in Puglia: forse Khasu, che sembra cessare di esistere prima del 1244 ed è stata identificata sul terreno con certezza (67); forse l'anonima fortezza ritrovata in contrada Casale, presso la Rocca Busambra (68); e Calatabusammara, al Khazan, Qalat at-Tariq, altri siti incastellati che non compaiono più nella documentazione successiva al XII secolo. O ancora
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SegestaQalat Barbari (69), da dove pare provenga almeno una moneta di Mohammed Ibn Abbad (70), Calatrasi, ed anche Qalat al-hamma-Bagni Segestani, nota grazie agli scavi dell'équipe di J.M. Pesez. I siti archeologicamente meglio conosciuti, Jato, Entella, Guastanella, grossi insediamenti in posizione naturale eminente e difesi da forti castelli, sono già ricordati come luoghi strategicamente importanti al momento della conquista normanna o (è il caso di Platano) di quella musulmana del IX secolo. Il proseguimento degli scavi ad Entella permetterà di meglio conoscere le vicende di questo sito nel corso del XII secolo, dal momento che il silenzio quasi completo delle fonti insinua, quanto meno, il dubbio di un periodo di decadenza fra le due fasi guerriere dell'XI e del XIII secolo. Il problema si pone esattamente negli stessi termini per Guastanella, totalmente dimenticata dalle fonti del XII secolo. Una dinamica che abbia portato a valorizzare nuovamente negli anni delle rivolte siti incastellati d'origine antica, bizantina o musulmana declassati dopo la conquista normanna è ipotizzabile anche sulla base di testimonianze documentarie ma, allo stato attuale delle conoscenze, non è interamente dimostrabile: solo lo scavo potrà fornire a tal proposito risposte più complete. Ma informazioni importanti potranno venire anche dalla prospezione di superficie: Celso e Gallo attendono di essere localizzate con certezza e non sappiamo ancora se Platano fosse un castello isolato o, come sembra molto più probabile, un grosso abitato difeso da una fortezza che lo sovrastava, non diversamente da Jato o Guastanella (ed è l'immagine suggerita da Idrisi). Anche rinvenimenti sporadici di monete permetteranno eventualmente di fissare con maggiore precisione geografica i limiti territoriali dell'emirato costituito sulle montagne del Val di Mazara da Ibn Fakhir e Mohammed Ibn Abbad; mentre lo studio dell'abitato aperto (i rihal ed i manazil) potrà meglio chiarire tempi e fasi degli abbandoni, da coniugarsi possibilmente in sincronia con eventuali fasi di rivitalizzazione ed incremento dei siti d'altura. In questo senso gli scavi di Jato ed Entella e soprattutto l'esperienza (per la Sicilia assolutamente pionieristica) del `Monreale survey' potranno ancora dirci moltissimo sulla vita — e sulla morte — degli ultimi musulmani di Sicilia.
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(27) Cfr. E. LIBRINO, Rapporti fra Pisani e Siciliani a proposito d'una causa di rappresaglie nel sec. XIV, in "Archivio Storico Siciliano", n.s., XLIX, 1928, p. 208. (28) Cfr. J. GLENISSON,.Documenti dell'Archivio Vaticano relativi alla collettoria di Sicilia,
NOTE (1) Cfr. la bibliografia citata supra, nota 29. (2) Cfr. Biblioteca Arabo-Sicula, Appendice, cit., p. 17. (3) FAZELLO, I, X, 3 (p. 620 della trad. it., Palermo 1817). (4) Cfr. H. BLOESCH, H. P. ISLER, Ricerche archeologiche sul Monte lato, in "Sicilia Archeologica", a. IV, 15, 1971, p. 14. (5) Cfr. Biblioteca Arabo-Sicula, cit., I, p. 86. (6) Cfr. supra, nota 3. (7) Cfr. H. BLOESCH, H. P. ISLER, Monte Iato: la seconda campagna di scavo, in "Sic. Arch.", a. V, 18-19-20, 1972, p. 23. (8) Cfr. H. P. ISLER, Monte lato: la sesta campagna di scavo, in "Sic. Arch.", a. IX, 32, 1976, p. 10. (9) Cfr. H. P. ISLER, Monte Iato: la quinta campagna di scavo, in "Sic. Arch.", a. VIII, 28-29, 1975, p.32. (10) Cfr. H. BLOESCH, H. P. ISLER, Ricerche, cit., pp. 17-18. (11) Cfr. H. ISLER, Monte lato: la sesta campagna, cit., p. 18. (12) Cfr. H. ISLER, Monte Iato: la nona campagna di scavo, in "Sic. Arch.", a. XII, 41, 1979, p. 49. (13) Cfr. H. ISLER, Monte Iato: la sesta campagna, cit., pp. 21-23. (14) Biblioteca Arabo-Sicula, cit., I, p. 86. (15) Monte Pagnocco, IGM, F. 258 I NO, Piana degli Albanesi, 33 SUC 422043. La prima ricognizione del sito è stata effettuata nell'estate 1987 da J. Johns e da alcuni collaboratori del `Monreale survey'. (16) Cfr. FAZELLO, I, X, 3, p. 620. (17) Ivi, p. 621. (18) V. GIUSTOLISI, Nakone ed Entella, Palermo 1985, pp. 138-173. (19) Cfr. ivi, p. 142. (20) Cfr. G. MALATERRA, De rebus, cit., II, XXII, p. 36. (21) Cfr. V. GIUSTOLISI, Nakone, cit., fig. 151. (22) Cfr. S. CUSA, I diplomi greci ed arabi di Sicilia, vol. I, Palermo 1868, p. 198. (23) Cfr. ivi, p. 199. (24) Cfr. ivi, p. 202. (25) Cfr. V. GIUSTOLISI, Nakone, cit., fi g. 159. (26) Cfr. G. MALATERRA, De rebus, cit., IV, V, p. 88.
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in "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", II, 1948, p. 285. (29) Cfr. FAZELLO, I, X, 3, p. 616. (30) Cfr. J. JOHNS, Monte Guastanella: un insediamento musulmano nell'agrigentino, in "Sic. Arch." a. XVI, 51, 1983, pp. 33-51. (31) Cfr. ivi, p. 38. (32) Cfr. ivi, p. 39. (33) Cfr. M. AMARI, Storia dei Musulmani, cit., I, p. 443. (34) Cfr. ivi, p. 472. (35) Cfr. ivi, II, p. 226. (36) Cfr. Biblioteca Arabo-Sicula, cit., I, p. 91. La distanza di Platano dal mare è indicata da Idrisi in sei miglia. (37) Cfr. ivi, p. 94. (38) Cfr. HB, I, 1, p. 194. (39) Cfr. ivi, pp. 118-119. (40) Cfr. G. LA MANTTA, Codice diplomatico dei re aragonesi di Sicilia, vol. II, a c. di A. De Stefano e F. Giunta, Palermo 1956, doc. CCXC, p. 290. (41) Cfr. FAZELLO, I, X, 3, p. 616. (42) Cfr. M. AMARI, St. dei Mus., cit. III, 2, pp. 616-617, nota 3. (43) Cfr. G. DI GIOVANNI, Notizie storiche su Casteltermini e suo territorio, vol. I, Agrigento 1869, rist. anast. Bologna 1980, p. 27 nota 2 e passim. (44) Cfr. G. CARUSELLI, Platani, Pecuario, Platanella. Osservazioni storiche, Sciacca 1887, pp. 12-13. (45) G. DI GIOVANNI, Il kala't Iblatanu, Palermo 1888. (46) Cfr. G. CARUSELLI, Sulla storia della Sicilia antica. Osservazioni e ricerche, Vasto 1892, pp. 14-26. (47) Cfr. S. RACCUGLIA, Camico. Ricerche storico geografiche, Acireale, 1913, pp. 56-57. I dubbi di Raccuglia erano dovuti al fatto che la posizione di Monte della Giudecca apparentemente contrasta con l'ubicazione di Platano ad occidente del fiume fornita da Idrisi. (48) Cfr. I. SCATURRO, Storia della città di Sciacca, vol. I, Napoli 1925, p. 309. (49) Cfr. M. AMARI, St. dei Mus., cit., III, 2, p. 617 nota 3. (50) Cfr. P. GRIFFO, Sull'identfcazione di Camico con l'odierna S. Angelo Muxaro a nord-ovest di Agrigento, in "Archivio Storico per la Sicilia Orientale", s. IV, a. VII, 1954, p. 77 nota 1. (51) Cfr. V. GIUSTOLISI, Camico Triocala Caltabellotta, Palermo 1981, p. 114. (52) Cfr. G. SPOTO, Katat Iblatanu. La rocca di Platani, Agrigento 1983, p. 20. (53) Cfr. V. GIUSTOLISI, Camico, cit., p. 113. (54) Un primo accenno in J. JOHNS, Guastanella, cit., p. 33. (55) Cfr. G.B. PELLEGRINI, Gli arabismi nelle lingue neolatine, vol. I, Brescia 1972, 317. P• (56) Cfr. Biblioteca Arabo-Sicula, cit., I, p. 189 e nota 2. (57) Cfr. S. CUSA, I diplomi, cit., I, p. 197. (58) Cfr. ivi, p. 198. (59) Si tratta dell'attuale monte Barracù, ben visibile dal monte Cangialeso (IGM, F. 285 II SE, Prizzi).
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(60) La ricognizione è stata effettuata nell'estate del 1987 da J. Johns che ringraziamo per le preziose informazioni. Sull'identificazione di Celso a monte Cangialeso cfr. J. JOHNS, The Muslims, cit., p. 229. (61) Il Tariq Mansuri definisce Gallo "luogo de' monti di Sicilia, non però della regione di quel promontorio dell'isola che sovrasta al mare" (Biblioteca Arabo-Sicula, Appendice, cit., p. 17). La specificazione non sembra trovare altra giustificazione se non quella di evitare confusione con il casale di Gallo prossimo alla costa. Su quest'ultimo cfr. V. AMICO, Dizionario topografico della Sicilia, vol. I, Palermo, 1858, pp. 486-487 s.v. Gallo; V. GIUSTOLISI, Topografia storia e archeologia di Monte Pellegrino (Palermo), Palermo 1979, p. 7, nota 3. (62) IGM, F. 258 III NO, Gibellina. (63) Cfr. S. CUSA, I diplomi, cit., pp. 198-202. (64) Cfr. Biblioteca Arabo-Sicula, cit., I, p. 82. (65) Cfr. V. MANGIAPANI, Cinici. Memorie e documenti, Palermo 1910, p. 9. (66) Cfr. V. GIUSTOLISI, Le navi romane di Terrasini, Palermo 1975, p. 51, tav. XLI; F. D'ANGELO, La monetazione, cit., p. 149. (67) A Pizzo di Casi, sopra Mezzoiuso (PA). Cfr. F. MAURICI, Chifala e Chasum. Approccio storico-topografico ad una campagna medievale siciliana, in "Atti dell'Accademia di Scienze Lettere e Arti di Palermo", s. V, vol. II, a.a. 1981-82, pa rt e II Lettere, Palermo 1983, pp. 7-62 ed in particolare pp. 29 e 49. Cfr. inoltre F. MAURICI, S. VASSALLO, Pizzo di Casi, in corso di stampa su "Sicilia Archeologica". (68) Cfr. F. MAURICI, S. VASSALLO, Due insediamenti medievali nel territorio di S. Maria la Nuova di Monreale, in corso di stampa su "Sicilia Archeologica". (69) Cfr. G. ed H. BRESC, Ségestes Médiévales: Calathamet, Calatabarbaro, Calatafimi, in "Mel an ges de l'Ecole Fran ç aise de Rome", moyen âge — temps modernes, tome 83, I, 1977, pp. 341-370. (70) Cfr. F. D'ANGELO, La monetazione, cit., p. 150.
Fig. 21 — Carta archeologica dei territori di Cinisi, Terrasini, Partinico, Borgetto, Montelepre e 1>
Carini. Da Nakone ed Entolla, di V. Giustolisi, Palermo 1985.
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Fig. 22 — Carta dell'I.G.M., 1 : 25.000 (dal F. 258 I N.O. e IV N.E.). Zona archeologica di M. Jato.
INDICE DEL TESTO Introduzione di Vittorio Giustolisi L'emirato sulle montagne di Ferdinando Maurici Note
pp. pp. pp.
5-21 23-51 51-56
pp. pp.
57-69 70-72
Appendice:
Le rivolte musulmane tra storia e archeologia di Ferdinando Maurici
Note
F. 258 III N.E.). Zona archeologica
INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI
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2, 9 pp. pp. 10, 13-19, 21 11 p. 12, 73-76 pp. 58 p.
Foto di Jacob De Vries (1968) Figg. 1-2 Foto di Vittorio Giustolisi Figg. 3, 6-19 Foto di Ferdinando Maurici Fig. 4 Figg. 5, 21-25 Carte dell.I.G.M. Disegno di Ferdinando Maurici Fig. 20
Copertina: Torre di età sveva, in primo piano. Fortificazione medievale di Pizzo Regina, nello sfondo. Foto di Vittorio Giustolisi
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Didascalie delle illustrazioni di Vittorio Giustolisi Fotoliti di Calogero Sciascia Redazione editoriale e impaginazione di Vittorio Giustolisi
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Fig. 25 — Carta dell'LG.M., 1: 25.000 (dal F. 258 U S.E.).
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