ED GREENWOOD IL TRONO VACANTE (The Vacant Throne, 2000) La Banda dei Quattro Volume 2 Dedicato a Sal, compagno di sogni,...
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ED GREENWOOD IL TRONO VACANTE (The Vacant Throne, 2000) La Banda dei Quattro Volume 2 Dedicato a Sal, compagno di sogni, per il quale il viaggio è sempre luminoso quanto lo è la meta ultima. Cos'è un re? Una figura grandiosa su un trono Da maledire e da riverire Oggetto di borbottii di biasimo E di intrighi sussurrati Da coloro che cercano di ottenere sempre di più. Inneggiato e fatto oggetto di pettegolezzi Amato soprattutto in retrospettiva Obbedito quando vicino e cinto di potere Colui che guida Colui che invia in missione Colui la cui parola più gentile può uccidere. Abbattete i re che non soddisfano o depredano, perché gli dei inviano sempre una scorta infinita di nuovi sovrani. Se avessi lo spazio e le ricchezze, ne porterei qualcuno a casa Per addestrarlo a dovere. Questo risparmierebbe molti dolori e lacrime al regno. Da Corone in Vendita Del Bardo Castlan di Lithrie Stilato al tempo di Re Morthrymm (così tanto tempo fa)
La cartina dell'edizione originale.
Prologo Il vecchio menestrello scosse il capo. «Sono cose difficili a credersi, perfino per gente come noi», disse, rivolto alle profondità del proprio boccale ormai vuoto. «Leggende che prendono vita, quattro avventurieri vagabondi, uno dei quali addirittura la Dama dei Gioielli, ammantata d'incantesimi di fuoco, che ridestano il Re Perduto e lo riconducono a noi». Flaeros Delcamper annuì, gli occhi che scintillavano. «Lo so», replicò, quasi balbettando, «ma è successo davvero, proprio come ho detto! Io ero là! Ero presente nella sala del trono dell'Isola della Corrente Spumosa, e ho visto i baroni inginocchiarsi di fronte al Re Ridestato!». Sapeva che la sua voce stava salendo di tono, ma non gli interessava. Che importanza aveva se il ricordo dell'emozione provata lo faceva balbettare? Adesso era a casa, a Ragalar, nella sala interna del Vecchio Leone, con le pareti coperte di boccali appesi, e l'uomo che sedeva di fronte a lui, dall'altra parte del tavolo, era stato il menestrello del Casato dei Delcamper per quasi un secolo, e il suo tutore fin da quando lui era un ragazzino con la faccia sporca di fango. Il vecchio Baergin sorrise e scosse ancora il capo con aria incredula, anche se ormai tutto Darsar aveva appreso che il re era tornato in Aglirta e che era possibile che un luminoso futuro di pace e di prosperità si stesse prospettando per ogni singolo uomo e donna viventi. Le mani che avevano guidato le dita impacciate di Flaeros nei loro primi, goffi tentativi di pizzicare le corde di un'arpa, e di scivolare lungo un flauto, posarono il boccale sul tavolo. «E cosa mi dici di questi famosi Quattro, ragazzo?» domandò in tono sommesso il loro proprietario. «Quand'è stato che li hai visti per l'ultima volta?». «Appena prima di lasciare l'Isola», rispose allegramente Flaeros, bevendo un sorso abbondante dal proprio bicchiere, «quando il Re Ridestato li ha convocati per un'udienza privata e li ha incaricati di una misteriosa missione». Baergin annuì ancora e si lanciò un'occhiata alle spalle, in direzione degli avventori del Leone, che si erano progressivamente avvicinati per ascoltare senza parere. «E hai già cominciato a comporre una ballata su tutto questo?» chiese quindi, con un accenno di asciutto sorriso.
«Non ancora», ammise Flaeros, con una sfumatura d'imbarazzo. «Lo farò presto, ma non ho ancora iniziato». Baergin scrollò le spalle con rammarico. «È un vero peccato», commentò, con voce che era poco più di un cupo sussurro. «Mi sarebbe piaciuto sentirla». E si alzò in piedi con un movimento fluido e pacato, protendendosi in avanti sul tavolo, una lunga daga affilata che scintillava nella mano sollevata all'altezza del fianco. Poi la daga calò verso il basso, e quasi per caso lo stupefatto Flaeros riuscì a deviarla con il proprio boccale. Il suo mentore di sempre tornò a colpire, con determinazione, e Flaeros si catapultò disperatamente di lato sulla sedia, sferrando un calcio contro le ginocchia di Baergin nel lanciare un'imprecazione sorpresa e sgomenta. La scintillante lama d'acciaio affondò nei pannelli di legno che rivestivano la parete, a pochi centimetri appena dall'orecchio del giovane bardo, e Flaeros scagliò il contenuto del proprio boccale contro la faccia del vecchio menestrello mentre questi cercava di liberare l'arma con uno strattone. Sputando birra, Baergin colpì ancora alla cieca, ma già il giovane bardo stava aggirando a precipizio l'estremità del tavolo, diretto verso la porta più vicina. E verso altri guai. Prima ancora che Baergin potesse gridare per chiamare rinforzi, alle sue spalle, Flaeros si allontanò con una deviazione improvvisa dagli unti tendaggi di cuoio che coprivano la porta, proprio mentre un armaragor dal volto cupo lì oltrepassava di corsa, la spada spianata. Alle spalle del primo c'era un secondo guerriero, ed entrambi erano in armatura completa, anche se la corazza non recava stemmi di sorta; intorno, alcuni dei clienti del Leone avevano snudato a loro volta la spada e stavano avanzando verso Flaeros con cautela e con un intento ostile dipinto sul volto. Dall'estremità più lontana della sala comune, in mezzo alle colonne che sostenevano il soffitto, era inoltre possibile vedere uno scintillare di armature e il sobbalzare degli elmi di altri armaragor che si stavano avvicinando. Per gli dei, stava per morire. Qualcosa saettò davanti agli occhi del giovane bardo, sfiorandogli la spalla con un tocco appena percettibile per poi oltrepassarlo e cadere rumorosamente sul pavimento davanti al naso di un contadino raggomitolato dietro al proprio boccale. Flaeros si girò con un ringhio, in tempo per ve-
dere Baergin estrarre un'altra daga, poi tornò a voltarsi di scatto verso la sola via di fuga ancora accessibile: le scale. A precipizio, salì i gradini scricchiolanti verso l'oscurità delle camere da affittare che occupavano il piano superiore del Leone, senza badare a chi travolgeva o spintonava nel fuggire, mentre nella sala sottostante gli armaragor si lanciavano all'inseguimento con grida allarmate. Ormai affannato, Flaeros continuò la corsa su per l'ultima rampa di scale, sentì con soddisfazione lo schianto prodotto dal primo armaragor che andava a sbattere dritto contro il bordo di una porta spalancata da uno sconcertato pensionante, e corse come il vento lungo il basso corridoio dell'ultimo piano del Leone. In fondo, lungo il muro esterno c'era una scala posteriore, e se solo fosse riuscito... La porta era sbarrata. Gemendo per il terrore, il giovane bardo sollevò freneticamente la sbarra, strappando la catena che la tratteneva, sollevò il chiavistello, e... E si trovò a contemplare il sorriso minaccioso di tre... anzi, cinque... armaragor che stavano salendo proprio allora l'ultima rampa delle scale esterne, la spada in pugno. Per un istante, Flaeros li fissò con sgomento, in preda alla disperazione, poi aggirò l'ultimo gradino e passò sulla piccola balconata dove Kessra era solita appendere il bucato. La corda per stendere era troppo vecchia, grigia e logora per poter reggere il suo peso, e si stendeva a una notevole altezza al di sopra del cortile delle stalle, coperto di acciottolato, ma la casa successiva aveva a sua volta un balcone, la cui ringhiera era molto più vicina del cortile, a circa tre metri e mezzo di distanza. O era più lontana? Nel fissare lo spazio che separava i due balconi, incalzato da un rumore di piedi in corsa che echeggiava alle sue spalle, Flaeros si chiese se avrebbe sofferto di più andando a sbattere contro l'acciottolato sporco di letame o ritrovandosi il ventre trapassato da alcune spade... Dietro di lui, un armaragor lanciò un grido esultante. Ringhiando un'imprecazione disperata, Flaeros balzò sulla ringhiera e si preparò a saltare... Mentre il grido di disperazione del giovane bardo echeggiava nel cortile posteriore del Leone, una figura incappucciata uscì su una balconata, più in alto rispetto allo sciame di armaragor e alle loro lame snudate, e guardò verso il basso con un sibilo pieno di anticipazione. La mano che l'osservatore chiuse intorno alla ringhiera della balconata, nel protendersi in fuori per assistere al compiersi del fato di Flaeros Del-
camper, era grigia e coperta di scaglie. 1. Non c'è scudo migliore della fedeltà Gli uccelli volavano, ciangottavano e spargevano abbondantemente i loro escrementi nel luogo devastato e sventrato che era stato fino a poco tempo prima una biblioteca dall'alto soffitto a cupola (anche se era passato molto tempo dall'ultima volta che i suoi scaffali avevano ospitato dei libri e i suoi corridoi erano stati percorsi da persone intenzionate a leggerli). La profonda foresta aveva chiuso di nuovo la propria verde morsa sulle rovine dell'abbandonata Indraevyn, ma lo aveva fatto quasi con disagio, come se si aspettasse di vedere altri guerrieri e maghi riversarsi da un momento all'altro fra quelle pietre coperte di vegetazione e soffocare i suoni sommessi della foresta con il clangore delle spade e le assordanti esplosioni prodotte dagli incantesimi di guerra. I giorni e le notti erano però trascorsi senza che giungessero altri invasori agguerriti; gli animali da preda avevano spolpato e rosicchiato i corpi dei caduti, sparsi qua e là, spezzando e sparpagliando le loro ossa, senza che ci fossero nuove occasioni di allarme. I rampicanti avevano di nuovo proteso i loro pazienti viticci, le creature che stridevano e strisciavano avevano ripreso il loro andirivieni, e la Foresta di Loaurimm aveva richiuso la propria mano intorno a Indraevyn. Quella foresta era esistita, inviolata, prima che gli uomini giungessero nella Valle del Fiumargento per segare e bruciare la vegetazione e arare la terra, e se fosse mai sorto il giorno in cui gli uomini fossero scomparsi tutti, essa avrebbe riconquistato, in modo lento ma inesorabile, le rive del Fiumargento, finendo a poco a poco per cancellare ogni strada e fagocitare ogni torre. A così poco tempo di distanza dalla sanguinosa battaglia, e dall'opera di disboscamento con le asce e con il fuoco che l'aveva preceduta, mettendo a nudo tanti muri e tante porte, Indraevyn continuava a somigliare più a un ammasso di rocce ammantato di vegetazione che a qualcosa che fosse stato edificato dall'uomo. L'occhio di un osservatore superficiale avrebbe scorto soltanto un luogo naturale e selvaggio, senza notare le tracce lasciate dalla mano fallace dell'uomo. O almeno lo avrebbe fatto se non fosse stato per sei strane e silenziose
colonne di luce disposte in una fila verticale nel cuore della biblioteca devastata, con un libro che fluttuava immoto all'interno di ciascuna di esse. Qualcosa si stava muovendo fra quelle colonne d'aria luminescente, avanzando con passo strascicato fino ad addentrarsi nel fascio di luce della colonna più vicina, dove spesso rimaneva a guardare invano verso l'alto per lunghe ore silenziose prima di spostarsi barcollando sulle pietre bruciate e crepate del pavimento, fino alla colonna successiva, e poi a quella dopo ancora. Quella cosa poteva forse un tempo essere stata un uomo, anche se somigliava maggiormente ai resti scuriti e chiazzati della statua grossolana di un essere umano, infranta e rimessa insieme alla meglio, con braccia dinoccolate di lunghezza differente, spalle storte e una testa troppo lunga, sottile e frastagliata. Nulla di tutto questo impediva però alla cosa di aggirarsi con passo lento e barcollante per le rovine, una presenza spettrale che tornava sempre alla biblioteca e alle sei silenziose colonne di luce, cosa che stava facendo anche adesso, avanzando all'interno della colonna di luce più settentrionale. Come sempre, la creatura si arrestò con la testa sollevata verso i libri che fluttuavano al di fuori della sua portata, quei libri che resistevano ai piccoli incantesimi che essa era in grado di compiere, così come parevano non poter essere colpiti da nessuno dei rami o dei sassi che la cosa era finora riuscita a scagliare contro di essi, ottenendo solo di attraversarli di netto con quei proiettili improvvisati. Tuttavia, la cosa non aveva altro luogo dove andare, non disponeva di altra magia che la sostentasse se non l'eterno bagliore nel cuore di Indraevyn e i pochi incantesimi su cui poteva fare affidamento quando usciva dalla biblioteca, quindi continuava a rimanere lì, aspettando con una pazienza che non era dovuta alla sanità mentale ma a una rovente bramosia. Lacere vesti che non le appartenevano le pendevano dalle spalle, a brandelli quanto il corpo che ricoprivano. Carne e tendini, avvizziti, scuri e secchi come vecchie foglie cadute, aderivano ancora alle ossa infrante, anche se qualcuno che avesse conosciuto quel mago quando era ancora in vita avrebbe dovuto fissare a lungo e attentamente quella malconcia creatura scheletrica per riconoscere in essa Phalagh di Ornentar, e questo sebbene lui fosse ora più vicino a ritrovare l'antico vigore di quanto lo fosse stato quando era morto ed era stato ridotto a lucenti frammenti di carne sanguinante, che erano ricaduti nella fossa in cui per tanto tempo era stata nascosta la Pietra della Vita. Essa vi era rimasta abbastanza a lungo da lasciarsi alle spalle strane emanazioni che avevano rimodellato un uomo da quei
frammenti, ricostruendo con agonizzante lentezza le ossa e la carne marcia, riunendo il tutto in un ammasso che un giorno si era alzato in piedi, aveva proteso le braccia e aveva cominciato ad arrampicarsi. Adesso quella cosa silenziosa era tornata nella sala devastata sovrastante la fossa in cui Phalagh era morto, per aggirarsi fra le macerie ombrose in un vagare dissennato e interminabile, esplorando, esaminando ogni angolo e fessura, ogni pietra caduta e scaffale crollato, un giorno dopo l'altro, fino a conoscere ogni singolo dettaglio. A volte, scopriva qualcosa di magico e si soffermava a crogiolarsi in quelle energie come se fossero state chiazze di calda luce solare, oppure protendeva di colpo le mani per operare esitanti incantesimi, rialzando un muro o facendo fluttuare verso l'alto le macerie come una pioggia invertita, per ripristinare un'arcata della cupola. La cosa stava ricostruendo il luogo dove era morta, come se stesse innalzando il proprio mausoleo, il tutto senza pronunciare parola o emettere suono, a parte lo strascicare dei suoi passi incerti. D'un tratto, la creatura silenziosa girò la testa, irrigidendosi come un cane che avesse fiutato qualcosa, e due freddi, minuscoli punti luminosi apparvero nelle orbite vuote: stava arrivando qualcosa, che aveva attivato gli incantesimi di allarme da essa predisposti. Lo scheletro non-morto che era stato Phalagh avanzò di qualche passo, poi si ritrasse nella zona d'ombra più vicina, come un ladro disturbato dal ritorno dei padroni di casa. Due uomini entrarono nella biblioteca priva di tetto, avanzando con passo quasi altrettanto silenzioso quanto quello della creatura scheletrica che li stava scrutando con occhi guardinghi dall'ombra. Uno dei due era un individuo di bassa statura, snello e aggraziato nei movimenti, l'altro era un massiccio armaragor, alto e largo di spalle quanto una porta, e impugnava una spada lunga quasi quanto il suo compagno era alto. Quell'avanguardia era seguita da altre due persone, e tutti e quattro stavano procedendo con cautela, scrutando le pareti in rovina e gli scaffali abbattuti nell'addentrarsi fra di essi. Tutti i membri della Banda dei Quattro ricordavano fin troppo bene la loro ultima visita in quel luogo. «Signora, il fatto che l'ultima volta siamo quasi riusciti a farci ammazzare non ti è bastato?» mormorò Craer, quando i Quattro arrivarono in un punto da cui potevano infine scorgere con chiarezza le colonne di luce. «Ci hai riportati qui per riprovarci, fino a quando non saremo in grado di farlo come si deve?».
Mentre la sola donna del gruppo contraeva le labbra in un asciutto sorriso, preparandosi a ribattere, il mago non-morto annidato nell'ombra sollevò le mani simili ad artigli, ammantate dei bagliori di un incantesimo che si andava formando. Quei bagliori erano rosso scuro e neri, colori che non lasciavano presagire nulla di buono, e mentre essi divampavano sempre più intensi, anche gli occhi lucenti assunsero la stessa tonalità. La cosa non-morta che era stata Phalagh parve crescere di dimensioni e farsi più alta, mentre le magie distruttive le scorrevano lungo le braccia e le dita scheletriche si allargavano per puntarsi contro i quattro intrusi... «Vostra Maestà», dichiarò il Tersept di Helvand, in tono secco e scandito, «non posso garantire la perdurante fedeltà dei mercanti di Helvand se non potremo... se non potranno ottenere l'assenso regio al progetto di varo delle nuove chiatte mercantili. Ogni giorno di attesa in più costituisce per Helvand una perdita di denaro!». «Peraltro», ringhiò il Tersept di Yarsimbra, dal lato opposto del Trono del Fiume, «Vostra Maestà non può certo aver fatto a meno di notare gli incendi che sono stati appiccati alle chiatte di Yarsimbra, ancorate ai loro moli, per tre notti di fila. Helvand sostiene che si è trattato di fulmini, ma in quelle notti non c'era traccia di tempesta nel cielo. Lampi a ciel sereno? E proprio quando il caso vuole che Helvand abbia aperto un nuovo cantiere navale? Personalmente, dubito che il Re Ridestato sia tanto stupido quanto Helvand sembra ritenere». «Maestà», sibilò il Tersept di Helvand, «dobbiamo proprio ascoltare le spudorate menzogne di quest'uomo? Il suo titolo gli arroga forse il diritto di deridere, calunniare e diffamare impunemente?». Re Snowsar stava mantenendo un'espressione neutra, calma e paziente quanto quella di una statua di pietra, spostando soltanto lo sguardo degli occhi scuri per fissare a turno ciascuno dei due tersept impegnati a litigare fra loro. Ira e desiderio di sbadigliare stavano insorgendo contemporaneamente dietro quella maschera imperturbabile, ma il re permetteva a quel tumulto interiore di affiorare soltanto nello sguardo. Il Tersept di Helvand non era però tipo da cogliere simili sottili avvertimenti. Come l'uomo di cui era al servizio, Ul... Ulgund, così si chiamava, era solito procedere dritto per la sua strada, calpestando o spingendo di lato chiunque gli intralciasse il passo. Helvand si trovava sulla riva settentrionale del Fiumargento, poco più a monte rispetto a Sirlptar, ed era costituito da una serie di tenute boschive di proprietà di mercanti abbastanza
ricchi da aver potuto permettersi di distaccarsi dall'affollamento della Città Scintillante per costruirsi ciascuno un ben protetto castello. Questo peraltro non significava che essi si fossero ritirati anche dalle lotte sotterranee tipiche dell'economia di Sirlptar, o che intendessero piegare il ginocchio al cospetto di un re emerso dalla leggenda per sedere su un trono polveroso. «Helvand ottiene sempre ciò che vuole», aveva ammonito pochi istanti prima il pomposo tersept, rivolto al sovrano, e la minaccia tutt'altro che trasparente implicita nel suo tono era risuonata abbastanza stentorea da strappare un visibile sussulto ad alcuni dei cortigiani presenti. L'altro tersept non era certo da meno del collega. Yarsimbra, un promontorio da tempo indipendente che sporgeva da Sart, verso nord, e costringeva il Fiumargento a descrivere un ultimo paio di curve prima di gettarsi nel mare, aveva già raggiunto da anni il livello di ricchezza e di sofisticatezza che adesso i mercanti di Helvand erano tanto ansiosi di ottenere, e pareva proprio che fosse decisa a fare qualsiasi cosa pur di conservare non solo le proprie abbondanti ricchezze, ma anche il proprio controllo dei traffici fluviali lungo il corso inferiore del Fiumargento. C'erano già stati alcuni avvelenamenti e si era perfino fatto ricorso a sicari prezzolati, e il re era certo che nessuno si fosse soffermato neppure per un momento a riflettere sul pericolo che comportamenti del genere costituivano per Aglirta. Una totale indifferenza per le conseguenze: questo costituiva un problema notevole per un re, quando si trattava di una malattia comune a quasi tutti i governanti da lui nominati, nonché a ogni singolo, prepotente membro della nobiltà. Probabilmente, quei due tersept avevano dimenticato che lui avrebbe potuto rimuoverli dalla loro carica a proprio piacimento, oppure erano pronti a ignorare qualsiasi provvedimento del genere che lui avesse potuto prendere, disposti a riconoscergli soltanto la stessa autorità che si poteva concedere a una zia vedova rinchiusa in qualche dimora remota e ridotta a inveire soltanto contro la servitù, mentre un tempo aveva potuto dettare legge sul barone suo consorte. Sentendosi improvvisamente molto stanco di tutta quella situazione, Re Kelgrael Snowsar si alzò in piedi in un singolo balzo aggraziato, come un leone rampante, allargò le mani e le calò verso il basso in un gesto secco e violento che fece piombare un subitaneo silenzio su tutta la sala. Questa, se non altro, era una cosa che riusciva ancora a fare: dominare la sua corte con il semplice impatto della propria presenza e la minaccia della propria ira. Adesso cento occhi erano fissi su di lui, impegnati a cercare di leggere il significato di ogni suo minimo movimento, gesto, parola o cam-
biamento d'espressione. E lui lasciò ben poco margine a una libera interpretazione. «Signori, entrambi avete sollevato valide obiezioni, sulle quali un saggio sovrano ha bisogno di meditare per poter amministrare una giustizia equa e lungimirante, come si addice a un re. L'arroganza non mi indurrà a decidere più in fretta, mio Signore di Yarsimbra...» esordì, fissando con occhi ancora più gelidi il tersept più anziano e più basso di statura, che sostenne il suo sguardo con un'aria impassibile che rivelava troppo poco timore... e rispetto. «Nello stesso modo, mio Signore di Helvand, minacciare il tuo re non servirà certo a costringerlo a pronunciarsi secondo la tua volontà», aggiunse. Il tersept più giovane stava manifestamente ribollendo di rabbia; il re non si era certo aspettato di scorgere traccia di vergogna o di deferenza nei suoi occhi roventi, e infatti non ne trovò. «Potete sostenere che non era vostra intenzione essere arroganti o minacciosi», continuò, con voce molto più calma rispetto al suo stato d'animo, «e che io sto sbagliando nel giudicarvi. Ricordate però che quella di sbagliare nel giudicare è una prerogativa reale, e soprattutto che entrambi siete miei nobili, che io posso nominare o rimuovere a mio piacimento. I baroni possono sostenere di avere un naturale diritto di discendenza che li autorizza a proteggere quella parte di Aglirta che è stata governata dai loro antenati, e anche il diritto di combattere per conservarla, ma voi, signori, non potete farlo. Siate i miei agenti nella vostra tenuta, e non il suo avvocato al mio cospetto. Siate questo... oppure non sarete più nulla». «Ma...» cominciò il Tersept di Yarsimbra, poi si accorse immediatamente che stava peccando di nuovo di eccessiva audacia e si costrinse a tacere, chinando il capo in un gesto di scusa, o forse di sottomissione. Il suo rivale non fu però altrettanto prudente. «Mio padre è stato Signore di Helvand prima di me», ringhiò, bianco in volto per l'ira, la voce scossa da un tremito furente, «e suo padre lo è stato prima di lui... e questo mentre Aglirta non aveva re, e baroni e briganti facevano in pari misura il bello e il cattivo tempo. Noi abbiamo fatto ciò che era necessario per il nostro popolo, senza chiedere a nessuno un "permesso reale" di qualsiasi tipo. Quindi adesso, prima di esigere che io implori e strisci al cospetto del tuo trono, Re di Aglirta, rispondi a questa domanda: cosa abbiamo da guadagnare, io e la brava gente di Helvand che rappresento, dal fatto di avere di nuovo qualcuno che siede sul Trono del Fiume? A
cosa mi serve un re?». Quelle ultime parole echeggiarono in una sala immersa nel silenzio più totale e pervaso di tensione, dove i guerrieri erano in attesa con la mano sulla spada, pronti alla battaglia che pareva imminente. In mezzo a loro, un ragazzino dagli occhi nerissimi, ora dilatati dalla meraviglia, pareva prossimo a scoppiare in lacrime. Ogni sguardo era appuntato sul re, pieno di aspettativa. Lentamente, Kelgrael Snowsar si erse al massimo della propria statura, torreggiando sul tersept che si trovava un gradino più in basso rispetto a lui; pur essendo indietreggiato di un passo, adesso il Signore di Helvand stava mantenendo la propria posizione con la mano posata sul pomo del lungo coltello che portava alla cintura, pronto a combattere. «Poni una domanda decisamente valida, Ulgund di Helvand», affermò infine il re, con un sorriso, nel silenzio sempre più pesante e profondo. «A cosa serve adesso un re ad Aglirta? È un interrogativo a cui tutto il regno ha diritto ad avere risposta... ma tu lo hai posto all'uomo sbagliato. Io sono un re, e lo ero prima che il tuo antenato di cui parli diventasse Tersept di Helvand...». Il Re Ridestato trapassò il tersept più giovane con uno sguardo tagliente e duro come l'acciaio, poi distolse l'attenzione da lui, abbracciando con lo sguardo l'intera sala. «Di conseguenza, la mia risposta non può essere vista dalla maggior parte di voi che come dettata dall'interesse personale», continuò. «Voi siete le persone più indicate a fornire una risposta... perché chi meglio della gente di Aglirta può dire a cosa possa servirle un re, adesso?». Sistemando lo Scettro di Aglirta nella piega del braccio, avanzò fino al limite della piattaforma del trono, dove si soffermò a braccia conserte a fissare tutti i presenti, alto e minaccioso quanto una spada snudata. «Di conseguenza, lascerò a tutti voi tempo per riflettere su questa domanda, da adesso fino alla fine dell'anno, quando in questa camera si terrà una cerimonia di reincoronazione. Spero che tutti gli Aglirtiani che ci avranno riflettuto sopra e avranno deciso di avere effettivamente bisogno di un re saranno presenti. In quel giorno, mi aspetto che tutti i baroni e i tersept del regno rinnovino il loro giuramento di fedeltà nei miei confronti. Quanti decideranno di non farlo, o di non presenziare alla cerimonia, potranno essere rimpiazzati». Re Snowsar lasciò vagare il proprio sguardo calmo e deciso sulla folla di sconcertati cortigiani, poi aggiunse:
«Naturalmente, se un numero elevato di Aglirtiani di alto rango dovesse scegliere di schierarsi contro di me invece di rinnovare il proprio giuramento di fedeltà al legittimo sovrano, sarà mio dovere, per il bene del regno, rinunciare al Trono del Fiume... e nominare il mio successore, perché fare qualsiasi altra cosa significherebbe far sprofondare Aglirta nella guerra. Quanti non vorrebbero avere nessun re, o comunque nessun re di mia scelta, faranno bene a riflettere su quest'ultimo punto e a decidere in che misura sarebbero in grado di difendere il regno, se essi stessi lo facessero precipitare in un rischioso stato di assenza di legalità. O meglio, se lo affidassero di nuovo alla selvaggia "legge" dei baroni, dei briganti e dei maghi che hanno detenuto il potere nel corso del mio lungo sonno». Quello che poteva forse essere un accenno di sorriso incurvò un angolo della bocca del re mentre questi contemplava la propria corte. Quegli stessi uomini che tanto lo avevano assediato con le loro parole piene di adulazione e i loro spietati intrighi, erano adesso uniti in uno sconvolto silenzio che, ne era certo, si sarebbe protratto almeno per qualche altro momento. A quanto pareva, li aveva sorpresi e sconcertati tutti. Uno dei due tersept che erano più vicini al trono si riscosse, aprì la bocca come per dire qualcosa, ma poi rimase in silenzio, con aria accigliata e perplessa. «Sì, Pelard di Yarsimbra?» lo interpellò con gentilezza Re Snowsar, lasciando che un effettivo sorriso gli affiorasse per la prima volta sul viso. Mentre il cortigiano si limitava a scuotere il capo, incapace di trovare parole che suonassero abbastanza diplomatiche in mezzo alla ridda dei propri pensieri confusi, il sorriso sul volto del Re Ridestato si andò intensificando sempre di più fino a risplendere luminoso quanto una delle gemme sfoggiate da uno qualsiasi degli eleganti, raffinati cortigiani dell'Isola della Corrente Spumosa. «Un posto davvero spettrale, questo è certo», mormorò Hawkril, indietreggiando di un passo e segnalando ai compagni di fare altrettanto. Qualcosa di nero e minuscolo sgusciò fuori da sotto una roccia caduta, poco più avanti, e saettò a nascondersi dietro un'altra vicina. «Può darsi che lo sia, ma preferisco trovarmi qui, anche con mostri o briganti in agguato dietro ogni arcata, piuttosto che in quella fossa di vipere che circonda il re», ribatté Craer. «Devo presumere che tu stia parlando della corte reale di Aglirta?» domandò Embra, inarcando un sopracciglio. «Proprio di quella. Mi chiedo quanti fra i maghi al servizio dei baroni
abbiano semplicemente alterato il loro aspetto e il loro nome e si siano precipitati a corte nei panni di altrettanti cortigiani, in modo da continuare a essere vicini alla fonte del potere quanto lo erano prima». «Questa sì che è una riflessione interessante», commentò Sarasper. «Da dove sono sbucati tutti quei damerini e quelle lingue di serpente? Non possono certo essere sbucati già vestiti di tutto punto dalle grotte e dalle capanne che si trovano sull'Isola della Corrente Spumosa, non se si considera che il Barone Sanguinario... ops, scusami, ragazza...». «Non c'è bisogno di scusarsi», mormorò Embra, invitandolo con un cenno a continuare a parlare. «Se si considera che il barone aveva eretto sul tutto una solida e ben difesa fortezza». «I Koglaur?» suggerì Hawkril. «Possibile che ce ne siano così tanti? E poi, perché mai avrebbero dovuto mettersi così audacemente in vista, quando il loro stile è invece quello di nascondersi e di lavorare nell'ombra?». «E per di più adottando ruoli improntati ad avidità, stupidità e intrigo a puro vantaggio personale», aggiunse Craer, poi intercettò un'occhiata significativa dell'armaragor e aggiunse con un sorriso: «Certo, per alcuni di noi sarebbe un vero e proprio paradiso degli dei, ma non credo sia il modo di fare dei Koglaur». «Allora da dove sono sbucati tutti quei cortigiani?» domandò in tono sommesso Embra Silvertree. «Ammetto che potremmo essere in errore nel ritenere che siano tutti alleati fra loro invece che avversari e rivali impegnati in interminabili lotte intestine», annuì Sarasper, «ma in realtà, ragazza, la tua domanda si suddivide in tre, più profondi interrogativi: chi sono, di chi sono effettivamente al servizio e quali sono i loro piani nei riguardi di Aglirta?». «Infatti», convenne Embra. «Comincio a pensare che trovare la risposta a quelle domande possa essere ciò che il re ha in effetti bisogno che noi si faccia per lui, piuttosto che questa ricerca dei Dwaer di cui ci ha incaricati». «Io, invece», ribatté Hawkril, riprendendo ad avanzare con cautela, la spada spianata, «penso che il nostro re non sia uno stolto, e che il compito di cui parli coincida con la missione che ci è stata affidata». 2. Non c'è mago senza segreti
Tutte le candele disposte nelle file di candelabri di legno lucido alti quanto un uomo erano ormai quasi consumate e minacciavano di spegnersi quando un uomo dal volto avvenente quanto quello di qualsiasi fanciulla passò rapido davanti a esse; l'ora era infatti tarda, tanto da rendere insolito che il Barone Audeman Glarond fosse ancora vestito e in circolazione, dato che il Signore di Glarond non era noto come un uomo dotato di particolare resistenza fisica o di un animo determinato. Adesso tuttavia i suoi grandi occhi scuri apparivano fin troppo decisi e duri, mentre lui regolava una lampada posta al di sopra di un leggio e posava sotto il suo raggio di luce il libro che aveva con sé, aprendolo in un punto contrassegnato. «"Invero l'inane chiacchiericcio si levava come lancia verso il sole, accompagnando quel suo volo lucente con un tal clangore da sopraffare gli occhi stessi di quanti miseramente ne contemplavano l'audace saettare"», borbottò ad alta voce, prima di richiudere con violenza il libro e aggiungere, quasi con rabbia: «Poteva anche essere un grande bardo, ma io non ci capisco una sola parola! Stupidaggini... tutt'intorno a me, solo stupidaggini!». Un alterarsi della luce alle sue spalle indusse il Barone di Glarond a girarsi di scatto, con una prontezza più adatta a un uomo di guerra che non a un amante della poesia. La sua aria tesa e guardinga non sfuggì all'attenzione della persona il cui avvicinarsi aveva bloccato la luce delle candele disposte nel corridoio. «Sono soltanto io, signore», si affrettò a dire in un mormorio rispettoso. «Margurpin». «Mio buon Mar, cosa ti conduce qui a quest'ora?» domandò con calma il barone, in tono tale da dare l'impressione che già conoscesse la risposta. Il maggiordomo badò a non inarcare un sopracciglio, nel rilevare il tono del suo signore, ma del resto quei due si conoscevano da molti anni e l'accurata mancanza di espressione nello sguardo di Margurpin, quando questi incontrò quello del padrone, equivalse al sorpreso inarcarsi di un sopracciglio. Margurpin si stava facendo sempre più sparuto e logoro, invecchiato anzitempo dagli anni trascorsi al servizio di Glarond, tormentato da un susseguirsi di piccoli problemi, come la questione che lo stava turbando attualmente. «Signore», annunciò, senza pause o esitazioni, «ha dei visitatori. Due uomini, incappucciati, la cui voce mi è sconosciuta. Attualmente si trovano
alla porta del giardino, affermano di essere attesi e di voler parlare con te, ma si rifiutano di aggiungere altro. Per arrivare fin lì, devono aver superato con l'astuzia o con la forza tre punti di guardia, il tutto senza il minimo grido o allarme». Gli occhi grigi del maggiordomo avevano quasi un'espressione d'accusa, mentre questi sollevava la mano in un gesto dettato dall'abitudine, per accarezzarsi i baffi sottili. «Mio buon maggiordomo, falli entrare, accompagnali in questa stanza e ritirati pure per la notte», replicò il barone, limitandosi ad annuire. «È tutto a posto, e così continuerà ad essere». Quelle ultime parole non significavano nulla, era una frase che scaturiva dalle labbra del barone decine di volte nell'arco di una giornata, ma Margurpin parve confortato dalla sicurezza dimostrata dal suo signore. «È tutto a posto, e così continuerà a essere», ripeté, con un aggraziato inchino. I tre cigni in volo, stemma di Glarond, ricamati con eleganza sulla spalla del suo tabarro catturarono il chiarore delle candele mentre lui si girava per andarsene. Il barone intanto raccolse con una mano il libro di poesia che lo aveva irritato e diede un particolare impercettibile segnale con le dita dell'altra mano; immediatamente, una tenda sul lato opposto della stanza si spostò di lato, rivelando un vecchio dal volto affilato e dal lungo naso aguzzo, abbigliato in splendide vesti; per quanto il suo aspetto potesse apparire elegante e sfarzoso, nel venire avanti il vecchio risultò furtivo nei modi e nell'andatura, il che spiegava come mai Rustal Faulkron, Mago di Corte di Glarond, venisse da alcuni (alle sue spalle e in angoli bui) definito il «Vecchio Ratto». «Mar appare turbato», commentò il barone, con una vaga nota di divertimento nella voce. «Lo è sempre, e tuttavia l'indomani il sole continua a sorgere, imperturbato dalle sue preoccupazioni», replicò Faulkron, muovendo agilmente nell'aria le dita in una serie di gesti che fecero splendere brevemente un alone di scintille intorno alle sue mani. Nel parlare, il mago cominciò a rimpicciolire, riducendosi a qualcosa di grigio e peloso, una sagoma bassa e sinuosa che si stiracchiò con mosse feline, mentre il barone assisteva alla trasformazione con aria affascinata. Nell'arco di pochi momenti, un gatto grigio si soffermò a contemplare pensosamente Audeman Glarond, prima di sgusciare sotto la sua poltrona. Il bastone magico che il mago aveva preventivamente posato là stava bril-
lando di una miriade di minuscole luci magiche, ma il gatto vi si raggomitolò sopra come se fosse stato una morbidissima coperta di pelliccia e finse di dormire, gli occhi ridotti a due fessure. Nel frattempo, anche il barone aveva effettuato i necessari preparativi in attesa di ricevere i suoi importanti ospiti. Il volume di poesia era stato posato di piatto sull'ampio bordo vuoto di un alto scaffale, e da dietro i libri disposti su di esso il barone aveva prelevato un piccolo oggetto irto di punte che gli si annidava facilmente nel palmo. Nascondendo quella mano dietro la schiena, Audeman Glarond si volse quindi a fronteggiare il corridoio rischiarato dalle candele. Le fiammelle stavano già cominciando a spegnersi, e il volto composto di Mar parve quasi galleggiare in mezzo a esse quando lui fece ritorno, mentre le teste incappucciate che procedevano alle sue spalle sembravano fluttuare con una grazia sinistra, ricordando a Glarond troppi preti pieni di sé che gli era capitato di vedere. Poi il maggiordomo entrò nella stanza, e si trasse da un lato. «Signori», annunciò, «contemplate Lord Audeman Glarond, sole di tutti i nostri giorni, in questa bella baronia». Due teste s'inclinarono brevemente in un cenno di saluto, senza però che venisse proferita alcuna parola, mentre il maggiordomo si rivolgeva al suo padrone, aggiungendo in tono blando: «Mio signore, due ospiti per te». Detto questo, girò disinvoltamente sui tacchi e si allontanò lungo il passaggio. Una delle due teste incappucciate si volse per osservarlo, l'altra indugiò invece a squadrare il Barone Glarond, vedendo un uomo alto e muscoloso che indossava una splendida veste da sera di seta verde con la grazia disinvolta di un leone consapevole del proprio splendido aspetto. La pelle era perfetta, i capelli ramati formavano una lunga, fluente massa ricciuta e profumata che incorniciava un volto dominato da grandi occhi scuri quasi femminei che distraevano l'attenzione dalle labbra incurvate in un sorriso consapevole e vagamente beffardo. Poi l'ospite che si era tenuto più indietro distolse infine lo sguardo dal corridoio, e lui e il suo compagno abbassarono contemporaneamente il cappuccio. «Maerlin», salutò cortesemente il Barone Glarond, rivolto al primo dei due uomini. I due condivisero un accenno di sorriso che non trovò riscontro nei rispettivi sguardi, poi il Barone Urwythe Maerlin sollevò in un gesto quasi
indifferente la mano adorna di numerosi anelli. «Il mio Mago di Corte, Corloun», disse. Il mago era un individuo massiccio, con capelli del colore della paglia sporca e pallidi occhi grigi gelidi come schegge di ghiaccio. Il suo saluto fu una brusca domanda. «Sei solo?» chiese. «Non direi proprio», ribatté Glarond, con un tenue sorriso. Le mani del mago si mossero in una serie di gesti affrettati, modellando un incantesimo di schermatura che avrebbe vanificato gli sforzi di spiarli da parte di chi si fosse trovato in una stanza vicina o stesse origliando mediante magia, da lontano, ma nel formarsi, l'incantesimo si trasformò in un improvviso vorticare di emanazioni luminose simili a fiamme nell'aria intorno a Corloun, segno che la sua magia stava attaccando invano un altro incantesimo di schermatura già in atto che le impediva di attivarsi. Infine, il mago sollevò il capo e fissò il Barone Glarond con espressione accigliata. «Tu sai usare la magia?» chiese. «Evidentemente», rispose il barone, in tono quasi gentile, e con lo stesso accenno di sorriso di prima. Incupendosi in volto per l'irritazione, Corloun aprì la bocca per ribattere, ma il Barone Maerlin gli posò una mano sul braccio in un gesto che era un evidente ordine di tacere; il pizzo e i baffi ben curati che incorniciavano il volto rotondo conferivano ai suoi tratti un aspetto felino mentre lui avanzava di un passo, chiedendo: «Devo presumere che tu abbia sentito le ultime notizie, giusto?». «Gli occhi che ho a corte sono attenti quanto i tuoi», annuì Glarond. «Sono stato contattato mediante magia appena pochi secondi dopo che il Re Ridestato aveva finito di sconvolgere i presenti». «Come sono stato contattato anch'io», annuì Maerlin, prendendo a camminare avanti e indietro per la stanza. «Nuovi giuramenti da parte di tutti noi... il che equivale a un rinnovato insulto... e una reincoronazione che non si deve permettere possa avvenire». Intanto, il suo mago si trasse di lato con un passo fluido, posizionandosi in modo da poter fronteggiare entrambi gli uomini; Corloun stava tenendo le mani nascoste nelle pieghe della veste, senza dubbio pronto a ricorrere a qualche incantesimo, ma nessuno dei due baroni lo stava degnando di un'occhiata. «Il che ha reso ancora più urgente questo incontro», commentò con cal-
ma il Signore di Glarond, incrociando le braccia sul petto. Maerlin scosse il capo, più un gesto d'ira crescente che di dissenso, e lasciò che l'amarezza che provava gli trapelasse dalla voce. «Piazzerà i suoi leccapiedi a Silvertree, Blackgult, Brightpennant, e probabilmente anche a Phelinndar e a Tarlagar, e intimidirà Adeln e Loushoond in modo da costringerli a piegarsi alla sua volontà... e noi non avremo mai lo spazio o il denaro sufficienti per levare delle truppe contro di lui», infuriò. «Eppure dovremo radunarne», obiettò Glarond, poi sfoggiò un sorriso sardonico mentre aggiungeva: «Come dovrà fare immediatamente ogni prudente governante della Valle, considerato che i sacerdoti del Serpente sono di nuovo in movimento e che stanno seminando zizzania qui e in ogni altro luogo, con sicari a pagamento e oscuri incantesimi. Difendere la nostra terra è un nostro dovere». «Una scusa più che sufficiente», convenne Maerlin, con un sorriso privo di divertimento, «considerato che è fondata sulla verità di fatto. Se non ci fossero i seguaci del Serpente, la nostra vigilanza sarebbe molto minore, e il reclutamento di mercenari da parte di chiunque fra noi suonerebbe come una chiara dichiarazione di guerra, mentre le suppliche disperate di Ornentar indicano con chiarezza che uno di noi ha già assoldato in segreto le famose Spade di Sirlptar, una notizia che peraltro non desta la minima sorpresa». Interrompendosi, fissò per un momento l'altro barone, poi chiese: «Credi forse che fra noi ci sia qualcuno abbastanza stolto, o abbastanza disperato, da accettare i seguaci del Serpente come alleati?». «Ornentar, forse», replicò Glarond, scrollando le spalle. «Privato di tutti i suoi maghi e i suoi guerrieri, potrebbe preferire di impugnare una lama traditrice piuttosto che affrontarci a mani nude». «I seguaci del Serpente vanno e vengono, ma prima d'ora non li avevo mai sentiti affermare che il Serpente stesso tornerà a vagare per la Valle», osservò Maerlin, riprendendo a camminare. «Credi che stiano semplicemente usando la paura come un'arma?». «Le leggende sostengono che se il Re Dormiente è desto, così deve esserlo anche il Serpente», replicò Glarond, scrollando ancora le spalle. «Che sia vero o meno, questo costringe comunque tutti noi ad assoldare, e addestrare uomini, e ad accendere i fuochi delle fucine delle armerie, e in questo generale stato di sovraeccitazione, i nostri orecchi finiranno per aprirsi ai sussurri dei preti che cercheranno di scagliarci gli uni alla gola degli altri».
«Sono forse pazzi?» ringhiò Maerlin. «Perché distruggere Aglirta? In che modo questo può permettere loro di conquistare qualcosa su cui valga poi la pena di esercitare potere?». Invece di rispondere, Glarond si rivolse al guardingo Corloun. «Mago», chiese, «perché voi operatori di incantesimi vi sforzate continuamente di elaborare nuove e più potenti magie, quando potreste lavorare senza rischi con quelle che già conoscete?». Il mago gli scoccò un'occhiata velenosa e non rispose. Fu invece Maerlin a riempire il silenzio che si era creato. «Ci riporti alla tradizionale, folle gara per il predominio nella Valle», affermò in tono gioviale. «Gli uomini non diventano forse maghi perché desiderano gestire grandi poteri, e uomini del genere non hanno forse sempre un atteggiamento di sfida nei confronti degli altri? Io sto bene attento a fare in modo che il mio mago benefici dal servire Maerlin nello stesso modo in cui io beneficio dal trovare riparo sotto il manto dei suoi incantesimi, ma altri non hanno usato la stessa cautela». «Attualmente, chi non si è ancora dichiarato a favore di un barone o di un tersept?» domandò Glarond, annuendo. «Dubito che le informazioni dei miei agenti differiscano da quelle dei tuoi», sorrise Maerlin. Nonostante quell'affermazione, Glarond gli segnalò in silenzio di continuare, e Maerlin riprese a camminare nervosamente. «Se ti riferisci ai maghi che appartengono effettivamente alla Valle, e che sono di comprovato potere, lasciando da parte tutti quei maghi da strapazzo che circolano nelle strade di Sirlptar eseguendo trucchetti da niente per una manciata di monete, ci sono soltanto Tharlorn il Tonante e Bodemmon Sarr. Oh, sì, ed Embra Silvertree». «Cosa puoi dirmi di questa "Banda dei Quattro"?» chiese ancora Audeman Glarond, inarcando un elegante sopracciglio. «Un raccogliticcio gruppetto di armigeri, sicari e operatori di magia agli ordini del re», sogghignò con disprezzo Maerlin. «Una manciata di zotici assoldati dall'elegante figlia di Silvertree, nella speranza di riuscire così a insinuarsi nel letto reale e di conservare la testa attaccata alle spalle». «Non ne sono certo», obiettò Glarond, accigliandosi, poi si mosse per la prima volta, dirigendosi lentamente verso lo scaffale dei libri e tornando indietro. «Silvertree era il più forte fra tutti noi, sia come numero di armigeri che nel campo della magia, e tuttavia sua figlia ha ucciso sia lui sia il suo Maestro d'Incantesimi, dopo che i Quattro si sono aperti un varco fino
a loro, combattendo contro tutte le guardie del Castello di Silvertree». «Bah!» sbuffò Maerlin. «Lei deve aver usato la magia per portarsi al di là delle guardie e in qualche modo deve aver colto quei due alla sprovvista. Probabilmente, avrà usato dei bastoni, o altri oggetti magici nascosti in questa o quella stanza. Che hanno fatto dopo di allora lei e i suoi tre compagni di letto, eh?». «Hanno intrapreso questa segretissima missione per conto del re», replicò Glarond. «Missione che, se si deve credere a determinati osservatori, attualmente dovrebbe condurli nelle terre di Glarond». Le sopracciglia del Barone Maerlin scattarono verso l'alto, poi si aggrottarono in un'espressione accigliata al di sopra degli occhi socchiusi con aria sospettosa. «È stato per questo che mi hai contattato?» chiese. «Hai paura di quei quattro stolti vagabondi?». «Piuttosto», rispose con calma Glarond, «l'ho fatto perché ritengo che il segreto forgiato dal tuo mago servirà a distruggerli con la stessa rapidità con cui tu speri possa annientare il Re Ridestato». «E di quale segreto si tratterebbe, esattamente?» chiese ancora Maerlin, in tono ancora più sommesso, mentre alle sue spalle Corloun sfilava le mani dalle vesti, sollevandole in piena vista nel fissare il Signore di Glarond con un'espressione decisa e rovente negli occhi scuri. Avidi bagliori di magia già attivata stavano scorrendo lungo le mani del mago, lambendogli le dita. Tremolanti bagliori magici presero a scorrere lungo le mani della Dama dei Gioielli: qualcosa si era mosso nell'oscurità cosparsa di macerie... un suono appena percettibile, certo, ma che tradiva indubbiamente un movimento di qualche tipo. «Non mi piace», borbottò Hawkril, con voce profonda e contrariata. «Le cose non sono come le avevamo lasciate. Il tetto è stato restaurato, e gran parte di ciò che era crollato è di nuovo al suo posto. Qui dentro qualcuno ha usato una notevole quantità di magia...». «Forse questo posto si rigenera da solo», osservò lentamente Sarasper, cercando di sbirciare nell'oscurità, al di là delle sei silenziose colonne di luce. «Però sarei più contento se credessi davvero che sia così». «Lo sarei anch'io», annuì Craer, cupo, avanzando come un'agile, snella ombra, la scura daga da lancio già pronta in mano. Non molto lontano, nel buio, due mani scheletriche eseguirono un ulti-
mo gesto: i bagliori rosso scuro che le avviluppavano furono improvvisamente sopraffatti da una ribollente ondata di fuoco nero, e le fredde fiamme oscure di un incantesimo ultimato si dissolsero nel nulla. Quello era il secondo incantesimo che scaturiva in rapida successione da quelle dita ossute. Un improvviso rombo spettrale risuonò nella biblioteca in rovina, echeggiando contro ogni parete e ogni cumulo di macerie, e i quattro intrusi si arrestarono pieni di tensione, lanciando occhiate in ogni direzione. Lingue di fuoco rosso scuro e nero fiammeggiarono minacciose mentre Phalagh ascoltava echeggiare tutt'intorno il fragore prodotto dal suo primo incantesimo, che aveva avuto soltanto quello scopo, generare un frastuono che mascherasse gli inevitabili rumori che la sua seconda magia avrebbe causato. Era il momento. Lo scheletro avvolto in lacere vesti avanzò con passo strascicato per affrontare gli intrusi, mentre le ossa dei molti che erano periti nella biblioteca si spostavano e si univano in mezzo alle pietre franate, avvolte nelle fiamme rosse e nere generate dal suo incantesimo. Sì, gli occhi degli intrusi erano fissi su di lui, e non sulle due mani scheletriche, vagamente luminescenti, che si stavano levando dalla polvere e dai detriti, alle loro spalle, alte quasi quanto il ladro che si trovava all'avanguardia del gruppo... mani gigantesche formate dalle ossa dei morti, pronte a scattare in avanti per colpire, le dita allargate... Lo scheletro spalancò le braccia in un gesto elaborato quanto drammatico, e i Quattro videro i bagliori magici che gli scorrevano lungo le ossa. «Corna!» imprecò Craer, lanciando la daga e gettandosi da un lato, perché non conveniva mai rimanere fermi in un punto quando un mago stava per scagliarti contro un incantesimo, anche se il mago in questione era ridotto a un sacco di ossa. «Bebolt!» gli fece eco Hawkril, schivando nella direzione opposta. Entrambi videro la lama del procacciatore attraversare senza danno la cassa toracica dello scheletro, per poi cadere tintinnando al suolo, nell'oscurità. Poi entrambi udirono un debole rantolo soffocato, unito a uno strisciare di piedi, che proveniva da un punto alle loro spalle. Sorpresi, armaragor e procacciatore si girarono di scatto, all'unisono. Sarasper stava soffocando nella stretta ossea di una mano fluttuante le cui dita erano formate da un insieme di ossa che gli si stavano serrando intorno alla testa, al petto e alla gola.
Embra era stata afferrata a sua volta da numerosi agglomerati di ossa più piccoli, che la stavano strattonando come dozzine di mani; la loro morsa l'aveva sollevata da terra e ora lei si stava dibattendo nell'aria, lottando freneticamente e scalciando con le gambe, impotente a liberarsi. «Sargh!» sussultarono contemporaneamente Craer e Hawkril, e si lanciarono in aiuto dei loro amici. Alle loro spalle, il sorriso scheletrico di Phalagh si accentuò, e lui sollevò le mani ossute per intessere un nuovo incantesimo... 3. Un segreto che fonde Il Barone Audeman Glarond si protese in avanti con un sorriso disinvolto; se pure nutriva qualche timore di poter essere abbattuto da un incantesimo, non lo diede a vedere. «È un segreto di cui almeno altri quattro baroni sono a conoscenza», precisò con calma, rivolto a Maerlin, «per cui distruggermi non servirebbe a nulla. Parlo di fiamme, e di uomini che fondono». I suoi due visitatori s'irrigidirono e il mago Corloun sibilò come una vipera infuriata. «E cosa sai, esattamente, riguardo al fuoco e a uomini che fondono?» chiese invece con freddezza il suo signore. «Si tratta di un fuoco creato in parte dagli incantesimi di Corloun», rispose il Signore di Glarond, scrollando le spalle. «Le sue fiamme sono blu e verdi, e gli uomini costretti a entrarvi non vengono carbonizzati o cotti; invece, la loro carne si fonde come cera... ed essi sembrano cadere sotto il controllo del mago, come se fossero dominati da un incantesimo». Il barone allargò la mano che teneva davanti a sé in un gesto che faceva eco alla precedente scrollata di spalle, e aggiunse: «Questo è tutto quello che so, ma mi piacerebbe apprendere qualcosa di più». Seguì una breve pausa di silenzio, durante la quale i suoi visitatori lo fissarono con occhi roventi, pallidi in volto per l'ira e il timore; poi, quasi con riluttanza, essi si fissarono a vicenda. «Se lui sa...» sibilò il mago, quando il silenzioso linguaggio degli sguardi non risultò sufficiente. Quelle parole indussero Maerlin a girarsi di scatto per trapassare Glarond con uno sguardo rovente. «Quali altri quattro baroni sanno di... degli uomini che fondono?» chie-
se. «No», rispose Glarond, scuotendo il capo con fare rammaricato. «Attualmente, quel piccolo segreto è la mia sola protezione contro voi due. Se dobbiamo fidarci reciprocamente, permettetemi di conservarlo». Un accenno di sorriso gli affiorò quindi sul volto e aggiunse: «Ci sono quindi cinque baroni che vi possono tradire entrambi con il Re Ridestato. Spero che la nostra piccola cospirazione possa colpire in fretta, quale che sia la mossa che intendiamo attuare contro Snowsar». «Come hai appena detto, sei protetto contro di noi», obiettò Maerlin, con un bagliore furente nello sguardo, «ma noi che protezione abbiamo contro di te?». «Nessuna che possa bloccare contemporaneamente altri quattro baroni», replicò il Signore di Glarond. «Per come la vedo io, per voi la linea d'azione migliore consiste nel rivelarmi tutto adesso, in quanto questo mi renderebbe un traditore tanto quanto voi, se un mago del re dovesse sbirciarci nella mente con i suoi incantesimi». Questa volta, lo scambio di occhiate fra i due visitatori durò più a lungo, ma fu altrettanto silenzioso. Esso si concluse infine con un brusco cenno di assenso da parte di Maerlin, in reazione al quale il mago Corloun avanzò di un passo. «Non aspettarti di apprendere le specifiche dei miei incantesimi, né adesso né mai», esordì in tono brusco, rivolto a Glarond. «Esse sono la mia protezione». Il Signore di Glarond annuì in silenzio. «L'incantesimo del fuoco funziona come tu hai detto», proseguì allora il mago. «Per quanto mi risulta, a parte illusioni modellate specificatamente in modo da imitarne i colori, esso è il solo in grado di creare fiamme così intense, verdi e azzurre». Nel parlare, il mago avanzò con disinvoltura, sfregandosi le mani come se fosse stato immerso nelle proprie riflessioni; se pure notò un gatto che si era mosso leggermente sotto una sedia, non lo diede a vedere. «Invece di morire e di ridursi in cenere, gli uomini che bruciano in quel fuoco diventano ciò che io definisco i "Fusi". La carne si fonde loro sulle ossa e scorre su di esse assumendo forme grottesche, le ossa diventano gommose e molto resistenti... e gli individui in questione vengono assoggettati alla mia volontà». «Quando dormi, vagano a loro piacimento?». «No», rispose in tono secco il mago, e invece di fornire ulteriori spiega-
zioni, aggiunse: «In qualsiasi momento io lo desideri, posso "bruciare" da lontano uno dei miei Fusi. Esso arde come una torcia quando gli invio l'incantesimo: la magia passa nel Fuso e viene liberata dalla punta delle sue dita quando lui tocca la persona giusta. Poi il Fuso si riduce a un mucchietto di polvere e di cenere, e la furia della mia magia si riversa su chi è stato toccato... per esempio il re, o uno dei membri della sua preziosa Banda dei Quattro». «O un barone traditore, magari?» mormorò con pacatezza Audeman Glarond, studiandosi le unghie. «L'avvertimento è stato doverosamente colto, più scaltro fra i maghi». Oh, davvero scaltri. Mentitori, traditori e vigliacchi. Il Re Ridestato di Aglirta sfoggiò un cupo sorriso mentre i cortigiani splendidamente abbigliati oltrepassavano uno dopo l'altro i battenti dorati delle porte ad arco per unirsi alla folla sempre più vasta che già si agitava lungo le pareti della sala del trono. Nessuno di essi osava però avvicinarsi al Trono del Fiume, e lui sedeva in solitudine su di esso, al centro di un lungo tratto di pavimento vuoto, con la sola compagnia dei giovani paggi che, nascosti alla sua vista, sedevano a ridosso dei cavalieri di pietra inginocchiati ai lati del trono stesso. Re Kelgrael Snowsar flesse le braccia e soffocò l'impulso di girarsi di lato sul trono per appoggiare i piedi su uno dei massicci braccioli di marmo intagliato, una posizione che ricordava essere più comoda del sedere rigido ed eretto, fissando dall'alto la gente radunata al suo cospetto. Più difficile fu soffocare il desiderio di sbadigliare. Avrebbe dovuto essere in uno stato d'animo più vivo... in preda all'ira, o divertito, o impaziente di affrontare ciò che stava per succedere; invece il Re di Aglirta provava soltanto un po' di stanchezza, una sfumatura di disgusto per ciò che sapeva stava per accadere, e un grande, cupo senso di vuoto. La sua stretta sullo scettro che teneva poggiato di traverso sulle ginocchia si era già allentata, le dita che posavano lievi sul vecchio metallo levigato. Con fermezza, si costrinse a bloccare sul nascere l'inizio di un ritmico tamburellare delle dita sullo scettro e tornò ad accentuare la propria stretta su di esso. Ovviamente, alcuni degli occhi che lo stavano osservando avrebbero visto in quel gesto un segno di paura, un segno di debolezza... no, un altro segno di debolezza. Dopo aver dormito per così tanti anni, forse era diventato troppo vecchio
per quel genere di cose. Kelgrael sorrise appena in reazione a quel pensiero e sfiorò l'impugnatura della spada che portava al fianco, reprimendo il desiderio di estrarla per controllare che fosse pronta all'uso (del resto lo aveva già fatto in precedenza, in privato, e ripetere quel gesto adesso sarebbe servito soltanto a trasmettere una serie di avvertimenti e di messaggi che non voleva condividere con quella folla sempre più numerosa di cortigiani che mormoravano pieni di eccitazione); impassibile, rimase a guardare il sopraggiungere di un numero sempre più elevato di pomposi nobili mercanti e di quanti si autodefinivano «nobili di corte», che nell'entrare nella sala scoccavano una rapida occhiata nella sua direzione e subito distoglievano lo sguardo, senza avvicinarsi al Trono del Fiume, dove un singolo uomo sedeva in assoluta solitudine. Come sempre, la sola persona che stesse contemplando il suo re con espressione ammirata era quel ragazzo dagli intensi occhi neri, il figlio del defunto bardo Helgrym Castlecloaks... Raulin, così si chiamava. Vedendo il ragazzo rivolgergli un esitante sorriso, il Re Ridestato gli sorrise a sua volta, e il ragazzo quasi si precipitò al suo posto abituale, a ridosso della parete, apparentemente imbarazzato. Per gli dei, l'Isola della Corrente Spumosa poteva davvero essere un posto affollato e tuttavia solitario! Non era sempre stato così, ma Aglirta era stata frammentata mentre lui dormiva, la terra ricca e orgogliosa dei suoi ricordi era diventata leggenda e si era lasciata alle spalle troppe persone spaventate che tremavano sotto il dominio di troppi feroci, crudeli baroni e tersept. Come quello che stava sopraggiungendo in quel momento. Quel giorno, infatti, il re aveva radunato la corte per giudicare il Tersept di Rithrym, un uomo noto per la capacità di fare quello che voleva, spesso con brutali conseguenze per chiunque si trovasse sulla sua strada. Quei cortigiani, una massa di perdigiorno, di sciacalli e di opportunisti, a cui si mescolavano poche persone per bene e quanti erano semplicemente attratti dal potere, erano presenti per assistere al confronto, per vedere se l'uomo leggendario che sedeva sul trono era un vecchio rimbambito o un debole, o se davvero Aglirta aveva di nuovo un re. Con il passare dei mesi, si erano susseguite così tante prove di quel genere! Uno dopo l'altro, i baroni si erano presentati sull'Isola della Corrente Spumosa in tutta la loro arroganza, pompa e potenza militare, per accordarsi separatamente con quell'uomo uscito dalla leggenda e tornato così inopportunamente in vita. Essi non avevano potuto ignorare la sua convocazione a causa della speranza che la sua sola presenza aveva acceso negli
abitanti sofferenti di Aglirta, ma nessuno di essi era ansioso di perdere il proprio arrogante potere, e notevoli ricchezze, in cambio di una giustizia che nessuno di loro era disposto a riconoscere e di una pace di cui non si fidavano. Alcuni avevano assunto un aperto atteggiamento di sfida, ma del resto perché non avrebbero dovuto farlo? Quali maghi aveva il re a sua disposizione, e quali truppe, a parte coloro che erano troppo vecchi o deboli per essere accettati altrove, e quanti erano ancora troppo giovani e inesperti per possedere qualsiasi cosa tranne la speranza e, se fossero sopravvissuti, molti altri anni di vita da godere? Il Tersept di Rithrym si chiamava Augrath Naerimdon, ma per lui «Sfida» o «Tracotanza» sarebbero stati nomi altrettanto adeguati. Quel giorno, era stato convocato a corte per rendere conto dell'appropriazione dei beni di alcuni mercanti, atto che i commercianti di Sirlptar avevano definito «tirannico» e che Re Snowsar aveva già etichettato in tono cupo come una «ruberia» al cospetto della sua corte. Non dubitava che quel suo giudizio fosse giunto già da tempo agli orecchi degli agenti di Rithrym, e non ne dubitavano neppure i membri della sua corte, il che spiegava perché si erano radunati tutti per assistere allo spettacolo imminente. Un tonfo sonoro giunse dalle porte principali, in fondo alla sala: a giudicare dal suono, qualcuno doveva aver bussato percuotendo addirittura i battenti con l'asta di una lancia: a quanto pareva, il Tersept Augrath non aveva intenzione di sgusciare di soppiatto nella sala per unirsi alla folla. Nell'arco di un istante, il mormorio prodotto dalle voci dei cortigiani salì di tono per l'eccitazione, cedendo poi il posto a un mortale silenzio. Quella quiete improvvisa fu infranta dallo schianto delle porte che venivano spalancate e rimbalzavano contro la parete, in aree che i più esperti fra i cortigiani avevano già, saggiamente, sgomberato; quel suono fragoroso fu accompagnato dalle urla e poi dai gemiti di altri ospiti più sprovveduti che si erano venuti a trovare sulla traiettoria dei pesanti battenti e giacevano ora accasciati al suolo, sulla scia delle massicce porte dorate. Con calma, il Re di Aglirta diresse lo sguardo lungo il tratto di spazio vuoto che separava il suo trono dai nuovi arrivati: una mezza dozzina di alti guerrieri, scintillanti e impassibili nell'armatura completa da battaglia, che procedevano affiancati davanti ad altri compagni; privi di scudo, quei guerrieri avevano la spada e la daga riposte nel fodero, ma tenevano abbassata la visiera dell'elmo e non accennarono a inginocchiarsi davanti al loro re, né a rivolgergli anche solo un saluto.
Poi, in risposta a un segnale silenzioso che Kelgrael Snowsar non fu in grado di sentire, i sei guerrieri si divisero in due gruppi di tre e si girarono di lato per fronteggiare i cortigiani, estraendo contemporaneamente la spada, e dalla folla di uomini splendidamente abbigliati si levò un mormorio di timore mentre essi si ritraevano di fronte all'acciaio snudato. I guerrieri però non accennarono ad avanzare e rimasero invece di guardia al loro posto mentre altri uomini in armatura, che recavano sul petto lo stemma di Rithrym, uno scudo d'oro attraversato diagonalmente da una freccia nera, avanzavano in mezzo a loro. I cortahar di Rithrym non entrarono all'unisono nella sala del trono, ma avanzarono come combattenti che si addentrassero su un campo di battaglia, con passo guardingo e con le armi in pugno, scrutandosi intorno per prevenire gli avversari o i pericoli che potevano attenderli più avanti. In mezzo a loro procedeva il solo uomo che non portasse l'elmo, i capelli simili a una fiamma arancione, i duri occhi scuri sovrastati da sopracciglia accigliate, fissi sul re. Quell'uomo doveva essere Augrath Naerimdon, il Tersept di Rithrym, perché a Rithrym non c'era nessun mago capace di modellare con la magia i lineamenti del suo governante sul volto di un altro uomo. No, Rithrym non aveva maghi, ma disponeva di guerrieri in abbondanza, e adesso oltre un centinaio di essi era assiepato nella sala del trono, mentre i cortigiani si stavano ritraendo a ridosso delle pareti, la voce pervasa di un crescente e sempre più concreto timore. Così tante spade, in mano a uomini impazienti di usarle... Quegli stessi uomini che su ogni lato della stanza si stavano facendo largo a spallate fra i cortigiani in risposta a un imperioso segnale impartito loro dal tersept, mettendosi con le ampie spalle addossate alle porte per bloccarle e tenendo la spada spianata, pronti a minacciare chiunque si fosse avvicinato troppo. Echeggiarono alcune parole spaventate, simili allo stridere di un topo, quando questo o quel cortigiano cercò di lasciare la sala del trono e si trovò la via sbarrata, e intanto il Tersept di Rithrym si concesse un cupo sorriso nel veder scattare la trappola da lui predisposta. Un momento più tardi sollevò le mani, e il suo esercito, forte di parecchie centinaia di guerrieri, cessò ogni movimento. Avanzando di un'altra dozzina di passi, il tersept si arrestò a gambe larghe, le braccia incrociate sul petto, una posa che non era certo quella di un supplice, di un suddito fedele o di un uomo spaventato. «Tu mi hai etichettato come un brigante, Snowsar», disse, senza preavviso, «e mi hai convocato qui. Non sono venuto per inginocchiarmi, ma
per vedere che sorta di uomo osa definirsi "re" e sostenere di essere il Dormiente della leggenda tornato in vita. Io ti guardo, e vedo un uomo solo...» continuò, alzando la voce in modo che quell'ultima parola echeggiasse per la sala silenziosa, prima di aggiungere in un ringhio più basso: «E non sono impressionato da ciò che vedo». «Non richiedo che tu sia impressionato», replicò con calma il Re Ridestato, «ma esigo la tua obbedienza. Nessun tersept può conservare la propria carica se non in virtù di una concessione reale, e tu non hai altra autorità se non quella che io ti attribuisco». «Ah, ma invece ce l'ho», replicò il Tersept di Rithrym, con un sorriso privo di divertimento, allargando le mani guantate. «Le mie spade sono la mia autorità, e costituiscono tutta l'autorità di cui ho bisogno, una cosa che qualsiasi Aglirtiano comprende e che nessuno osa discutere. Sono più affidabili dei maghi e più forti e meno aperti a controversie di qualsiasi pretesa di essere "reale" o di fare qualcosa di "giusto". Guarda, uomo che sostiene di essere re. Vedi i guerrieri che mi accompagnano?». Interrompendosi, spinse lo sguardo oltre il trono, e sfoggiò un sorriso ancora più rilassato e disinvolto. «Vedo soltanto dei bambini al tuo fianco, e due lancieri che tremano di paura negli angoli più lontani», continuò. «Aggiungendo quei due agli altri che ho oltrepassato nel venire qui dal fiume, disponi al massimo di una dozzina di armigeri. Inoltre, non si vede in giro nessun mago degno di nota, certo nessuno che possa tenere testa ai maghi di Sirl che ho assunto per contrastare i maghi baronali, nei mesi che verranno, il che è comunque più di quanto tu abbia pensato di fare. Tutto considerato, l'Isola della Corrente Spumosa dispone di forze decisamente misere rispetto al mio contingente molto più nutrito. Per dirla con tutta chiarezza, Re Ridestato, puoi scegliere se rinunciare alla tua corona, in questo preciso momento... o morire». Nel parlare, agitò quasi pigramente una mano, e in risposta a quel segnale, il cortahar che si trovava vicino alla parete meridionale vibrò con noncuranza un fendente con la spada, squarciando la gola al cortigiano più vicino. Ci fu uno zampillo di sangue e l'uomo mosse qualche passo barcollante, gorgogliando, prima di accasciarsi sulle piastrelle del pavimento, soffocando nel proprio sangue. Urla di terrore si levarono da ogni parte della sala del trono, che si trasformò improvvisamente in un caos di cortigiani spaventati che correvano in tutte le direzioni come conigli in preda al panico. «Fermi!» tuonò il tersept, con voce che echeggiò come un tuono contro
l'alta volta della sala. «State fermi, tutti quanti... altrimenti morirete!». Il suo grido fu seguito da un'improvvisa immobilità generale, e nel silenzio da essa generato Augrath Naerimdon rivolse a Re Snowsar un sorriso compiaciuto quanto freddo, prima di dare un altro segnale con le dita. Due guerrieri che impugnavano una balestra già carica e pronta all'uso si staccarono dalla calca di armaragor per affiancarsi al tersept, puntando le armi contro il re, mentre il sorriso beffardo di Augrath di Rithrym si faceva sempre più accentuato. Il Re di Aglirta reagì a esso sorridendo a sua volta, gelido in volto, e sollevò appena lo scettro che stringeva in mano. L'antico metallo emise un breve getto di luci abbaglianti, in risposta al quale si sentì un suono stridente... e una piastrella del pavimento cedette, facendo precipitare uno dei due balestrieri nel vuoto con un urlo di sorpresa. Echeggiarono poi altri rumori roboanti, accompagnati dalle grida di terrore dei paggi, e i due cavalieri di pietra inginocchiati ai lati del Trono del Fiume si levarono in piedi con mosse rigide. La pietra stridette come una cosa viva mentre essi si raddrizzavano, rabbrividivano e prendevano ad avanzare con passo pesante, facendo tremare le piastrelle sulla loro scia. L'improvviso coro di imprecazioni sorprese da parte dei guerrieri di Rithrym fu poi sovrastato da urla provenienti dall'esterno della sala, lanciate da altri cortahar di Rithrym e da quei cortigiani che non avevano osato entrare nella sala, grida che annunciarono il ridestarsi di altri cavalieri di pietra, disseminati qua e là lungo i corridoi. Continuando a fissare negli occhi il tersept, Re Kelgrael Snowsar lo vide sbiancare lentamente in volto; intanto, il balestriere che ancora affiancava il Signore di Rithrym lanciò affrettatamente la propria quadrella contro il re, che non si era mosso di un millimetro, ma il volo sibilante del dardo s'interruppe in un istante con un secco crepitio accompagnato da un'esplosiva pioggia di schegge, quando la quadrella urtò contro una barriera invisibile, andando in frantumi. «È schermato dalla magia!» ringhiò in tono spaventato uno dei guerrieri, prendendo a indietreggiare. Con mosse calme e prive di fretta, Re Snowsar si alzò in piedi, posò sul trono lo scettro le cui estremità scintillavano ancora di energia magica, ed estrasse lentamente la spada. Il balestriere girò sui tacchi e si diede alla fuga, la balestra che cadeva rumorosamente sul pavimento. Il Tersept di Rithrym lo guardò allontanar-
si, riportò lo sguardo sul re che stava avanzando verso di lui, poi prese a indietreggiare, e solo dopo alcuni passi infine si volse per darsi alla fuga. I guerrieri in armatura si stavano spintonando a vicenda con un clangore di corazze che sbattevano, nel cercare di sciamare fuori dalle porte a doppi battenti che così poco tempo prima avevano spalancato in modo tanto rude. Ci furono imprecazioni, spinte, perfino pugni... finché qualcosa di scuro non si mosse nella pietra dell'arcata della porta, trasformandosi nelle braccia protese, nella testa e nelle spalle di un altro cavaliere di pietra. Quelle braccia si levarono in alto, e calarono con violenza, schiacciando al suolo alcuni guerrieri e trasformandoli in una poltiglia sanguinante. Grida di terrore e urla di dolore gareggiarono fra loro per intensità, mentre i cortahar di Rithrym cercavano disperatamente di girarsi e di allontanarsi dalle porte. Impotente a procedere oltre, il tersept fu costretto ad arrestarsi davanti a quel caos di uomini che correvano e si calpestavano a vicenda. Girandosi a guardare in direzione del re, che stava avanzando a grandi passi verso di lui, alto e terribile, si gettò in ginocchio. «Misericordia, o re!» gridò. «Risparmiami!». «La misericordia», ribatté Kelgrael Snowsar, in tono quasi rattristato, avanzando di un lento passo e facendo descrivere alla spada un arco che avrebbe decapitato di netto Augrath Naerimdon, «è al di fuori di ciò che ora mi posso permettere. Non mi hai lasciato scelta: ho troppo bisogno di fare di te un esempio», continuò, le parole accompagnate dal tonfo umido della spada che colpiva il bersaglio, «o idiota di Rithrym». Ci fu uno zampillo di sangue, e il corpo in armatura crollò al suolo dibattendo le braccia. Spingendo lo sguardo al di là del cadavere, il Re Ridestato lo appuntò sulla calca impazzita di guerrieri che stavano fuggendo dalle porte laterali e così facendo si trovò a fissare il volto spaventato di numerosi cortigiani tremanti. Sollevando la mano, puntò il dito verso uno di essi, che in precedenza aveva colto a sogghignare. Trattenendo il suo sguardo con il proprio, abbassò lentamente il dito fino a indicare il corpo accasciato sul pavimento, davanti ai suoi piedi. «Ripulisci questa roba», ingiunse in tono secco. Il cortigiano esitò, umettandosi le labbra pallide. «È un ordine reale», aggiunse il re, in tono pacato. L'uomo deglutì a fatica, avanzò con esitazione e crollò in ginocchio in
preda a violenti conati di vomito; quando infine il suo sguardo torturato tornò a incrociare quello del re, il sovrano indicò la polla di vomito sulle piastrelle. «Anche quello», aggiunse. L'uomo si fece grigiastro in volto e crollò svenuto a faccia in avanti nel proprio vomito. Sospirando, Re Snowsar puntò il dito verso il più vicino degli altri cortigiani. 4. La spada sistema tutto Fredde dita simili ad artigli le stavano scalando le guance, ed entro pochi istanti l'avrebbero privata per sempre della vista, affondandole crudelmente nelle orbite. Le lacrime che le scorrevano copiose dagli occhi appannati quasi la stavano già accecando, e il mondo circostante pareva vorticare in modo folle mentre dozzine di mani la pizzicavano, la graffiavano e cercavano di soffocarla. Embra si stava dibattendo impotente in un mare di sofferenza, e intorno a lei tutto si stava oscurando a poco a poco, con l'accentuarsi della stretta di quelle dita scheletriche. Poteva anche essere una maga potente, ma in quel momento non era neppure in grado di posare i piedi per terra, di afferrare qualsiasi cosa e di mantenere la presa su di essa. Non poteva neppure... Debolmente, continuò a lottare contro le dita che la bloccavano, cercando di sollevare le braccia in modo da poter raggiungere quelle ossa che, simili a ragni, le si stavano arrampicando su per la faccia, e da potersele staccare di dosso prima che... prima che... Nel momento stesso in cui un urlo impotente le saliva in gola, nel sentire la prima di quelle dita ossute che cercava di agganciarle una palpebra, Embra prese a dibattersi violentemente e sfiorò con le dita il Dwaer che portava sul petto. Un'ondata di potere la pervase e si riversò da lei in un fiotto di magia accecante, prima ancora che si fosse resa conto di cosa stava facendo. Un velo di aria dorata si allargò ribollendo sulla scia di quell'impeto magico da lei scatenato, un incantesimo di schermatura che spazzò via tutte le ossa davanti a sé, frantumandole e sbriciolandole come sabbia percossa da un mare in burrasca. Dita scheletriche vorticarono nell'aria, disintegrando la mano gigantesca, composta da molteplici ossa, che era serrata intorno al corpo convulso di Sarasper.
L'ondata di magia da lei generata continuò a diffondersi ululando in un raggio d'azione sempre più vasto, generata dalla paura, dal disgusto e dall'urgente necessità che l'avevano animata. Embra Silvertree si era venuta a trovare in maniera così improvvisa sul punto di essere uccisa o sfigurata per sempre, e in modo quanto mai doloroso, che tutto ciò che le stava accadendo intorno non le sembrava quasi reale. Mettendo a fuoco a fatica la vista con gli occhi ancora velati di pianto, vide le ossa ridursi in polvere e schegge, e la ruggente ondata di magia investire anche Sarasper e Craer, catapultandoli attraverso i rottami di una serie di scaffali. Hawkril fu investito in pieno dall'impatto dell'onda di schermatura, e le ossa martellarono contro la sua corazza con un ticchettare rabbioso prima che lui venisse scaraventato lontano attraverso l'aria, finendo per crollare proprio addosso allo scheletro che li aveva messi tutti in pericolo con la sua magia. Le ossa marroni artigliarono disperatamente l'aria mentre il guerriero in armatura rotolava in mezzo a esse, poi d'un tratto due gambe scheletriche si trovarono separate dal resto, ancora erette e unite dalle ossa pelviche, ma barcollanti come un ubriaco. Intanto, l'armaragor rotolò imprecando sulle pietre cosparse di detriti, un paio di braccia ossute che tremavano sotto di lui e un teschio che cercava inutilmente di azzannargli la faccia. Nel frattempo, Embra tornò a sentire la solida pietra sotto gli stivali, e avanzò con sollievo di qualche passo barcollante, costringendosi a ergersi sulla persona e a pronunciare i necessari incantesimi. Si sentiva la gola escoriata e dolente, come se quelle dita avide la stessero ancora serrando, ma in qualche modo riuscì a sussurrare le parole necessarie, lasciando che la paura e il disgusto che provava infondessero in esse la forza necessaria, mentre allargava le mani e desiderava che in quel luogo non ci fossero più ossa che si muovessero da sole. Questa volta non ci furono ruggiti né ondate di luce, solo un coro di fievoli sussurri quando le ossa si ridussero in polvere, qua e là: gli ammassi di ossa che avevano strisciato, saltato e che si erano modellate a formare delle mani si sgretolarono e furono spazzati via. Sarasper tossì debolmente e cominciò a imprecare, in modo abbastanza vigoroso da far capire a Embra che sarebbe sopravvissuto senza che lei avesse bisogno di girarsi a guardare, e il mezzo scheletro con cui Hawkril stava ancora lottando si trasformò di colpo in un agglomerato di ossa separate che si dibattevano e saltellavano di qua e di là in una dozzina di distinti tentativi di fuga. Ringhiando, l'armaragor si alzò in piedi in mezzo a esse e prese a colpire con i pugni, gli stivali e la spada, cercando di ridurre in polvere ogni singo-
lo osso che riusciva a vedere. Alle sue spalle, a poca distanza da lui, Embra notò le mani scheletriche che si stavano muovendo come se stessero cercando di comporre un ultimo, disperato incantesimo, e aprì la bocca per lanciare un grido di avvertimento. Un momento più tardi, però, tornò a richiuderla e rinunciò a gridare quando vide la spada di Hawkril abbattersi su quelle dita, già avvolte da una luce magica. Lanciandosi in avanti, l'armaragor piombò sui resti che stavano ancora cadendo al suolo e prese a rotolarsi sulle antiche pietre, schiacciando e colpendo con i pugni rivestiti di metallo. Ben presto, i tremolanti bagliori neri e rossi si spensero, e sulla biblioteca scese il silenzio, infranto soltanto dal respiro rapido e affannoso dei Quattro, impegnati a prendere cupamente nota di quell'ennesimo avvertimento della rapidità con cui in Aglirta la morte poteva protendersi ad afferrare gli incauti. Mentre ancora i quattro avventurieri ansanti si cercavano a vicenda con lo sguardo nella più grande camera che ancora si poteva trovare in Indraevyn, bagliori di luce rossa e nera fiorirono in un punto non lontano della città in rovina, in un luogo buio, profondo e gocciolante. I chiarori magici apparvero nell'aria come stelle oscure e iniziarono a pulsare e a danzare al di sopra di un paio di occhi che dapprima si dilatarono con fare allarmato, e poi si socchiusero in un'espressione furente. Quegli occhi luminosi e dorati appartenevano a una bestia dalla testa di lupo e grossa quanto un cavallo, che si teneva aggrappata come un ragno a una sporgenza di quella che era stata un tempo una cantina. Le lunghe zampe possenti erano rivestite da uno spesso strato di pelo fra il grigio e il rossiccio, crudeli speroni ossei sporgevano dalle articolazioni che in un umano sarebbero potute essere i gomiti e le ginocchia. Perfino nelle storie narrate dai bardi figuravano ben pochi zannelunghe grossi quanto quell'esemplare che si stava ora ritraendo di fronte alle luci nere e rosse, ringhiando nel vano tentativo di spaventarle e di farle fuggire. Invece, esse scesero in picchiata e si posarono sulla belva: i grandi occhi dorati del tremante zannelunghe si offuscarono, poi due freddi, minuscoli punti di luce si affacciarono sul mondo dalle orbite oscurate. Lo zannelunghe si era nutrito da non molto tempo, e non aveva avuto intenzione di lasciare la sua tana prima che l'oscurità della notte fosse scesa ad ammantare il mondo, ma la creatura che adesso lo controllava era invece impaziente di andare a caccia. Il predatore dalla testa di lupo e dal corpo simile a quello di un ragno sti-
racchiò come un gatto gli arti pelosi, inarcò la schiena e cominciò ad avanzare con passo costante: per essere tanto massiccio, si muoveva con una silenziosità innaturale e quasi assoluta, le grosse zampe che si posavano sulle pietre con morbidezza vellutata e con una delicatezza che rasentava la pignoleria. Attraversata una cantina, svoltò senza esitazione per addentrarsi in un'altra, senza perdere tempo con i ragni in fuga o con i pallidi serpenti del sottosuolo. Era infatti alla ricerca di una preda decisamente più rara: alcuni esseri umani. Quattro umani in particolare, che si trovavano in una camera devastata, da qualche parte sulla superficie. Con pazienza, lo zannelunghe cominciò la sua ricerca... «Allora, Gurkyn, non è ancora pronto?». «Quando lo sarà, te lo farò sapere, Mararr», ribatté l'uomo chino sul fuoco, fissando con espressione acida le fiamme che minacciavano di annerirgli il naso. «Te lo farò sapere». «Senza dubbio è morto, Gurk», commentò Mararr, chinandosi a scrutare la carne che sfrigolava. «Presto dovrebbe essere anche cotto». Gurkyn Oblarram reagì con un sibilo d'irritazione. Dei genitori poco attenti potevano anche avergli dato un nome il cui suono faceva pensare a un ubriaco che stesse vomitando un pasto a base di rospi vivi, ma non era un comportamento da amico ricordargli quello sgradevole particolare. Una lingua rapida e tagliente non poteva mai compensare un fisico alto e possente e un bell'aspetto. «Perché non vai da qualche parte a conquistarti un regno, eh?» ribatté, senza distogliere lo sguardo dal coniglio che stava tenendo sul fuoco e che si stava rapidamente carbonizzando. «Questo sarà cotto fra breve... hai giusto il tempo necessario!». L'armaragor, che portava indosso un balteo a cui erano appese numerose spade corte, si affrettò a indietreggiare di un passo, in modo da mettersi fuori dalla portata di un eventuale affondo sferrato con il forchettone da cucina rovente. «Se non fossi più qui a sentirla, avvertirei la mancanza di quella tua lingua tagliente», ridacchiò, sollevando lo sguardo per fissare il cuoco con aria pacata, poi aggiunse: «Se fossi in te, lo lascerei raffreddare un poco. Anche dopo tutto quel vino che hai bevuto a Sirl, è improbabile che le tue labbra e la tua gola siano diventate di cuoio».
«Per logorarmi la bocca ci vorrebbe un numero più elevato di banchetti rispetto a quelli di cui abbiamo goduto da quando abbiamo rivisto Aglirta. Graul e bebolt, un numero decisamente più elevato». Dalle forme scure che si stavano venendo a radunare intorno al fuoco, su ogni lato, si levarono cupi mormorii di assenso, a cui fecero eco i sonori mormorii di protesta di parecchi stomaci vuoti, i cui proprietari erano impegnati a stringersi maggiormente il mantello intorno al corpo e a scrutare la notte circostante, per abitudine derivante dall'esperienza. Quegli uomini avevano lasciato la Valle come orgogliosi e possenti soldati di Blackgult, e tutti quanti avevano conosciuto sanguinose battaglie e amare sconfitte sulle Isole contro cui il loro signore li aveva scagliati, e quando infine erano stancamente riusciti a far ritorno in patria, riemergendo dalla rovina dei sogni di conquista di Blackgult, avevano scoperto che il loro signore era morto o era fuggito, e che loro stessi erano stati dichiarati fuorilegge dal principale nemico di Blackgult, il Barone Silvertree. Nel momento stesso in cui avevano messo piede in Sirlptar, una città affollata e costosa in cui la borsa di un onesto guerriero non riusciva a rimanere piena a lungo, ogni baronia aveva prontamente dato loro la caccia. Dozzine di compagni erano andati incontro a una morte rapida in altrettanti giorni, e gli altri avevano imparato a nascondersi e a spostarsi di soppiatto. Cosa che stavano facendo tuttora. I reduci di Blackgult erano stati trattati come animali e briganti fino a quando anche quelli fra loro che detestavano l'idea di dover agire in quel modo avevano finito per diventare ladri furtivi e assassini che agivano di notte, brutali e selvaggi nell'usare la spada e rapidi nell'impadronirsi di ciò che non apparteneva loro, il tutto in una Valle che pullulava di truppe baronali, di potenti maghi al soldo dei baroni stessi e di adoratori del Serpente muniti di daghe avvelenate. Quanti erano sopravvissuti a tutti quei pericoli erano diventati uomini veramente duri e pronti a tutto. Questo spiegava come mai quella notte molti di essi si fossero radunati su quell'altura, in un campo accuratamente schermato da un terrapieno di zolle ora strinate dal fuoco, sulle terre di Silvertree e non lontano dall'Isola della Corrente Spumosa: erano radunati là per sentire parole di speranza. Uno di loro, un audace armaragor noto come «Lama di Sangue», aveva fatto circolare fra i fuorilegge nascosti la notizia di avere un piano che avrebbe potuto significare un futuro molto più luminoso per tutti loro. Dalla scelta del luogo in cui Lama di Sangue aveva dato loro appuntamento, alcuni di quei guerrieri avevano già dedotto quali potessero essere le sue in-
tenzioni, ma essi erano già stati ridotti alla disperazione molto prima che un singolo uomo fosse emerso dalla leggenda per dichiarare di essere il Re Ridestato di Aglirta, e adesso erano al di là della disperazione stessa. Un gigante segnato da numerose cicatrici, che rispondeva al nome di Lultus, inarcò un sopracciglio cespuglioso. «È pronto quel coniglio? Se volessi mangiare del carbone, potrei sempre andare a frugare fra i resti di vecchi fuochi, senza correre il rischio di venire proprio qui, praticamente davanti alla punta delle lame al servizio di questo nuovo re!» brontolò. Con un ringhio inarticolato, Gurkyn rimosse il forchettone dal fuoco, lasciando che la carcassa infilzata su di esso diffondesse nella notte il proprio aroma succulento. Le ombre raccolte tutt'intorno si fecero più vicine, attirate dal profumo, e sommessi borbottii affamati si levarono da più di una gola quando gli uomini videro Gurkyn estrarre il coltello. «Ce n'è un pezzo per ognuno», annunciò il cuoco, «ma alcuni dovranno aspettare che il secondo coniglio sia cotto». «Ne hai due?» chiese uno degli uomini, la voce ispessita dalla fame. «Dov'è l'altro?». «Ci sono seduto sopra», ribatté Gurkyn, sollevando lo sguardo. Si levarono alcune risatine poco sentite, che però non si protrassero a lungo. «Per quanto tempo ancora dovremo rimanere fermi qui, dando a questo o quel mago tutto il tempo per mandare dei balestrieri a circondarci, eh?» ringhiò un altro guerriero. «Dov'è Lama di Sangue?». «Duthjack si trova su quel costone lassù, per controllare che nessuno ci arrivi addosso di soppiatto», replicò Gurkyn. «Scenderà dopo che avremo mangiato tutti qualcosa». «Per guidarci alla carica attraverso il fiume, facendoci camminare sulle acque come se fosse lui stesso un mago?» commentò qualcun altro sarcastico. «Sargh! Piantala!» ringhiò un'altra voce, in tono spaventato. «Taci!» ingiunse un terzo uomo, con voce sibilante. «Aspetta di sentire cos'ha da proporci Lama di Sangue, e risparmiaci ciò che tu pensi che lui potrebbe dire! Non ho ancora visto nessuna prova che tu sia in grado di pensare!». «Siamo tutti veterani, Gloun», obiettò stancamente un guerriero vicino a chi aveva parlato, «e non siamo degli stupidi. Per quale altro motivo po-
trebbe averci convocati qui, se non per cercare di spingerci a impadronirci del trono?». «Davvero?» ritorse Gloun, sprezzante. «E chi di noi ha la stoffa per essere re, eh? Io conosco Sendrith Duthjack da quando era un ragazzino che tagliava la corda per non spaccare la legna come gli era stato ordinato, da molto prima che voi lo conosceste come "Lama di Sangue", e se pure fosse seduto su quel trono in questo preciso momento, con una corona sulla testa e due maghe sorridenti sedute in grembo, non sarebbe comunque un re più di quanto potrei esserlo io!». «Davvero? E hai intenzione di dirglielo, con queste precise parole, anche quando te lo troverai davanti con la spada in pugno intento a fissarti con occhi roventi?». «Sì», dichiarò Gloun, anche se con minor fervore. «Mi chiedo però se chiunque altro fra voi oserà farlo». «Io lo farò», intervenne una voce, profonda come la morte e tagliente quanto il filo di un'ascia. Parecchie teste si girarono verso chi aveva parlato, che stava ora emergendo dall'ombra, una figura più alta di tutta la testa rispetto alla maggior parte dei presenti, avvolta in un'armatura che rifletteva la luce del fuoco soltanto qua e là, dove lo strato di cenere e fango con cui l'aveva coperta si era staccato. Duri occhi di smeraldo, due baffi bianchi... «Kalarth?» chiese Gloun, sbirciando oltre il bagliore delle fiamme. «Sì», rispose l'uomo, senza rallentare il passo, poi aggiunse una sola parola: «Coniglio». Quella singola parola suonò come un secco ordine, in reazione al quale una dozzina di mani si abbassò verso l'elsa della spada, un movimento accompagnato da sibili irosi e da un frusciare di piedi che si spostavano, mentre una dozzina di uomini si preparava a combattere. Una volta, Kalarth aveva difeso da solo un ponte contro una pattuglia di Silvertree e aveva massacrato tutti gli avversari, complessivamente quattordici guerrieri. Nelle Isole, la sua lama aveva svuotato barche e villaggi con rapida e letale disinvoltura, e a Sirlptar, appena pochi mesi prima, lui aveva affrontato alla luce del sole un mago famoso, Arliiryn di Carraglas, e aveva vinto, lasciando il mago raggomitolato sull'acciottolato, il suo sangue che si raccoglieva nei canali di scolo della via. Mentre masticava, Kalarth si girò di scatto, la spada in pugno, e il guerriero che aveva mosso un passo iroso verso di lui fu pronto a indietreggiare; sorridendo, Kalarth gli gettò il coniglio ancora infilzato nel forchettone.
«Un solo boccone, bada», ingiunse, una promessa letale che gli scintillava nello sguardo. «Poi passalo oltre, altrimenti...». Non si prese la briga di aggiungere altro, e nessuno dei guerrieri si azzardò a emettere il minimo suono di protesta. Il forchettone venne fatto circolare in silenzio, gli uomini che prendevano a gironzolare senza meta mentre masticavano, la mano sempre vicina al fodero della spada, perché non osavano quasi confidare di avere il tempo di inghiottire prima di essere aggrediti da qualche nemico. Dal fuoco accanto a cui Gurkyn era ancora accoccolato giunse un rinnovato sfrigolare, e quasi che quel suono fosse stato lo squillo di una tromba araldica, un uomo emerse a grandi passi dal buio affiancato da altri due compagni, tutti e tre con la spada in pugno. Kalarth si girò con una mossa fluida a fronteggiare il nuovo venuto, e gli sguardi che i due si scambiarono furono taglienti quanto due lame che s'incrociassero all'inizio di un duello. «Sei venuto fin qui da Starn Rock, Kalarth?» commentò il nuovo venuto, inarcando un sopracciglio. «Ne sono colpito». «Duthjack», replicò Kalarth, in tono piatto, «non intendo essere braccato da maghi e cani da caccia perché tu hai messo in allarme tutta Aglirta tentando qualcosa di troppo audace. Le cose stanno appena cominciando a calmarsi, nella Valle...». «Sì, mentre noi moriamo di fame», lo interruppe l'uomo che era soprannominato Lama di Sangue. «Quando saremo stati tutti sterminati, i baroni si ribelleranno contro il nostro nuovo re... ma noi saremo morti e non potremo goderci lo spettacolo». «Quindi quale sarebbe la tua proposta?» lo incalzò Kalarth, guardandosi intorno nel buio come se si aspettasse di vedere gli eserciti baronali sbucare di colpo dagli alberi, su tutti i lati. Sendrith Duthjack alzò appena la voce, in modo che le sue parole venissero sentite con chiarezza nella piccola depressione. «Attaccare l'Isola della Corrente Spumosa, questa notte stessa, uccidere questo cosiddetto re e qualsiasi altro barone, tersept o mago in cui ci potremo imbattere, e impadronirci del castello. Dopo aver mangiato a sazietà, domani perquisiremo il castello e decideremo se tenerlo e porre un nuovo re sul Trono del Fiume o se andarcene e portare via tutto il bottino possibile». «Un nuovo re chiamato Lama di Sangue, magari?» chiese Kalarth, piegando appena la testa da un lato, senza però mai distogliere lo sguardo da Duthjack.
Lama di Sangue reagì scrollando con indifferenza le spalle. «Può darsi», replicò. «La cosa importante è uccidere Snowsar e trarre tutti i possibili vantaggi dal caos che seguirà, quando i baroni cominceranno ad attaccarsi a vicenda, in tutta la Valle. A mio parere, difendere l'Isola è preferibile al nascondersi sulle Rocce Selvagge o annidarsi nella foresta». «È un'alternativa inesistente», brontolò Gloun. «Gli alberi offrono ben poca protezione dalla pioggia o dalla neve». «D'altro canto», continuò Lama di Sangue, scrollando ancora le spalle, «se un mago dopo l'altro dovesse scagliarci contro i suoi incantesimi, o le sue truppe, una volta che si fosse risaputo che ci siamo impadroniti del Trono del Fiume, è possibile che difendendo il castello finiremmo soltanto per procurarci una tomba più grandiosa di tante altre, mentre tornare nell'ombra potrebbe permetterci di impadronirci di una baronia con pochi colpi di spada, una volta che essa avesse esaurito le proprie risorse nel combattere contro qualche barone rivale». «Tutti questi bei discorsi non mi distraggono dal notare che stai progettando di sottoporci a una nuotata nelle fredde acque del fiume, fino a un'Isola difesa i Tre soltanto sanno da quante guardie e, se metà delle storie sul conto del Barone Silvertree è vera, anche da bestie letali o da incantesimi, o da entrambe le cose», obiettò Kalarth, «per poi aprirci un varco a colpi di spada attraverso un numero imprecisato di maghi, il tutto per massacrare un uomo seduto su una sedia di pietra. In questi ultimi, lunghi mesi, una dozzina di maghi ci ha dato la caccia, e adesso tu hai intenzione di sferrare un colpo così audace, con tutti noi raccolti qui insieme in bella vista, come danzatrici di taverna, in modo da rendere loro più facile disintegrarci, o trasformarci in mostri o devastarci la mente con incantesimi di sofferenza! In passato, ho già seguito degli idioti ansiosi di spargere il mio sangue pur di conseguire la vittoria desiderata, l'ho fatto almeno una o due volte di troppo. Tu sei un altro di quegli idioti, Duthjack? Fino a che punto hai ben riflettuto su questo tuo piano?». «Abbastanza da avere una barca pronta per trasportarci», ribatté con freddezza Lama di Sangue, «e da aver individuato aree precise verso cui ciascuno di noi si dovrà dirigere non appena avremo messo piede sull'Isola della Corrente Spumosa. Uno di quei posti è la cucina, piena di cibo che si sta scaldando per il pasto del mattino, ma attualmente vuota, dato che tutti i cuochi stanno dormendo». Quelle ultime parole strapparono agli uomini un mormorio involontario,
in alcuni casi quasi un lamento, e Lama di Sangue lasciò che quei suoni echeggiassero nel silenzio, mentre un sorrisetto gli si allargava sul volto, senza però arrivare a illuminargli lo sguardo. «Ascoltate, c'è dell'altro», riprese poi, in tono tagliente. «Se vogliamo che questo attacco sia rapido e preciso come abbiamo bisogno che sia, se vogliamo avere qualche speranza di restare vivi, sarà necessario che mi obbediate come se io fossi il vostro barone... o ancora più di così!». Ci fu un coro di risatine divertite, poi scese un silenzio improvviso, quando tutti gli sguardi si appuntarono sui due uomini che si stavano fronteggiando. «Allora, Kalarth?» domandò Lama di Sangue, in tono sommesso. «Sei disposto a obbedirmi? Oppure dobbiamo vedercela adesso fra noi, lama contro lama?». «Non ci sono alternative?» ribatté Kalarth, quasi beffardo. «Per esempio, tornare a scomparire nel buio, e lasciare che tu vada incontro alla tua sorte senza di me?». Ci fu un fruscio improvviso, e uno degli uomini che avevano accompagnato Duthjack sfilò da sotto il mantello una balestra dalla corda già tesa, inserendo con cura una quadrella nel canale di scorrimento prima di sollevare l'arma e di puntarla contro Kalarth. «Temo di no», rispose intanto Lama di Sangue pacato. «Non oso trattare così alla leggera la vita di tutti noi. Dopo tutto, potresti andare dritto da qualche mago e avvertire l'Isola della Corrente Spumosa del nostro arrivo». «Mentre tu», ritorse la voce profonda di Kalarth, «potresti averlo già fatto, e forse ci stai mandando tutti incontro alla morte, con l'intenzione di rimanere qui al sicuro ad attendere la tua ricompensa». «Credo che tutti voi che siete qui riuniti mi conosciate troppo bene per pensare una cosa del genere», affermò Duthjack, smettendo di sorridere. «No», commentò qualcuno che finora non aveva ancora parlato, e che si trovava ben lontano dal fuoco. «No, è proprio il fatto di conoscerti bene che mi induce a temere una cosa del genere!». «E che induce me ad aspettarmela», fu pronto ad aggiungere Kalarth, mentre Lama di Sangue si guardava intorno nel vano tentativo di identificare chi aveva parlato. «Il secondo coniglio è pronto», annunciò d'un tratto Gurkyn, e mentre tutti si giravano verso di lui, Kalarth fece la sua mossa. La sua mano si abbassò di scatto e tornò a sollevarsi altrettanto rapida,
mentre per un fugace istante qualcosa brillava alla luce del fuoco nel vorticare attraverso l'aria. L'istante successivo, l'uomo che brandiva la balestra tossì in modo strano e girò di scatto la testa da un lato, il sangue che gli zampillava dalla gola squarciata; contemporaneamente, lasciò involontariamente partire il dardo dalla balestra, che si perse in alto nel buio, da qualche parte al di sopra della spalla di Gurkyn, mentre tutt'intorno la notte echeggiava all'improvviso di movimenti repentini e dello stridere di armi snudate. Lama di Sangue Duthjack e Kalarth si lanciarono uno contro l'altro senza la minima esitazione, levando la spada mentre caricavano. Le loro lame si scontrarono con tanta forza da generare una pioggia di scintille, poi si separarono, e intanto Lama di Sangue gettava una manciata di sabbia contro la faccia di Kalarth. L'alto guerriero scosse freneticamente la testa e prese a sferzare l'aria con la spada nel balzare indietro alla cieca, cercando di impedire a Duthjack di colpirlo... ma per caso, o forse di proposito, Lultus gli andò a sbattere contro, e mentre Kalarth si girava di scatto per fronteggiare il supposto nuovo avversario, Lama di Sangue gli fece perdere l'equilibrio con un violento fendente alle gambe. Prontamente, Duthjack scattò quindi verso Kalarth, che stava rotolando lontano con una serie di imprecazioni, gli balzò addosso e lo colpì ripetutamente al volto, con furia. Kalarth stava già morendo dopo il primo affondo, ma Duthjack calò la lama altre quattro o cinque volte prima di ritrarsi d'un balzo, quasi decapitando Mararr, che era accoccolato con fare protettivo a ridosso di Gurkyn, e aggirando in fretta il fuoco in modo da porlo fra se stesso e la maggior parte dei guerrieri radunati. «Siete con me, uomini di Blackgult?» ringhiò, sollevando la spada insanguinata. «Oppure volete schierarvi contro di me, andando incontro alla stessa sorte che si è procurato Kalarth? Allora? Spicciatevi a rispondere! La notte non durerà in eterno, e preferirei passarla trapassando i baroni dell'Isola della Corrente Spumosa, piuttosto che abbattendo i miei fratelli d'arme qui riuniti! Allora, cosa decidete?». Gloun sollevò la spada verso le stelle, anche se Mararr ebbe l'impressione che lo stesse facendo senza troppo entusiasmo. «Io sono con te, Lama di Sangue!» gridò. «Sì!» gli fece eco Lultus, con la sua voce ruggente quanto quella di un orso. «Per Lama di Sangue!». Adesso spade e grida di assenso si stavano levando da ogni parte.
«Volete avvertire tutti gli idioti che si trovano sull'Isola, laggiù, o soltanto quelli sordi?» commentò Gurkyn, in tono acido, ma abbastanza alto da essere sentito dagli altri. D'un tratto, i guerrieri urlanti si affrettarono a tacere, e Lama di Sangue si girò a fissare l'uomo accanto al fuoco con occhi ancora scintillanti d'ira. «Tu sei con me, Gurkyn Oblarram?» sussurrò. Il cuoco si alzò lentamente in piedi, spingendo a calci delle zolle di terra sul fuoco, per spegnerlo. «Sì», rispose, nel buio strinato di scintille. «Spero solo che i tuoi piani si estendano al governare Aglirta, e non solo al conquistarla». Sendrith Duthjack lo fissò per alcuni secondi, inespressivo in volto, soppesando la spada insanguinata come se stesse meditando se usarla o meno sull'ometto. «Sarà così, se i Tre lo vorranno», replicò con calma. «Sei pronto a liberare il regno, Gurkyn?». Il cuoco staccò un boccone di carne dal coniglio con un morso, poi passò il forchettone al guerriero più vicino ed estrasse la spada. «Guidami fino a un barone che abbia urgente bisogno di essere ridotto a dimensioni più simili alle mie», ringhiò. I guerrieri radunati tutt'intorno ridacchiarono. «Al fiume!» ordinò l'uomo noto come Lama di Sangue. «Già, il tuo è davvero un piano audace e ben congegnato», borbottò Lultus, mentre si avviavano insieme. «Allora, dov'è quella barca?». 5. Incantesimi e specchi «Allora, dov'è quel libro?» scherzò Craer, con voce che era poco più che un sussurro, lo sguardo rivolto verso l'alto «Vediamo...». I libri aperti fluttuavano a mezz'aria, in alto rispetto al pavimento devastato della sala, sospesi immoti e silenziosi nelle strane colonne di luce, com'era possibile che stessero facendo da secoli. Nessuno dei membri della Banda dei Quattro sapeva con esattezza che genere di magia generasse quella luce, ma essa aveva tenuto i libri al sicuro dal fuoco, dai fulmini, dalla neve e dalla pioggia e perfino dal crollo dell'enorme cupola arcuata in pietra che un tempo aveva racchiuso le colonne. Adesso, l'estremità superiore di quei pilastri luminosi si perdeva semplicemente nell'aria, e la furia degli elementi imperversava per tutta la biblioteca come faceva in ogni al-
tra parte della dimenticata Indraevyn. Tre colli si erano stancati di stare piegati all'indietro per guardare lo spettacolo sempre uguale che le colonne offrivano al mondo, e adesso i loro proprietari si stavano aggirando per la biblioteca con la spada in pugno, alla ricerca di qualsiasi cosa che si muovesse o che cercasse invece di tenersi nascosta... in particolare ossa. Per fortuna, non trovarono traccia di simili diversivi annidati nell'ombra. Poi giunse il momento in cui uno di essi sospirò e lanciò di nuovo un'occhiata ai libri che fluttuavano in silenzio. «Lady Embra», chiamò Sarasper, «ci vuole davvero così tanto tempo per leggere poche righe?». La donna che stava fluttuando al di sopra dei libri gli rivolse un'occhiataccia accigliata, ma peraltro quasi affettuosa, poi cominciò a leggere ad alta voce scandendo bene le parole e con un bagliore divertito nello sguardo. «"Quattro sono le Pietre del Mondo, e nessuna di esse è dominante rispetto alle altre. Sembrano semplice pietra di cava, grigia e marrone, ma sono più leggere, e modellate in forma di sfera che calzi in una mano. Non si conosce nulla che le possa infrangere... spezzarle avrebbe senza dubbio l'effetto di infrangere la loro magia, e scatenerebbe un fuoco tale da far tremare il mondo"». La donna girò la testa verso il libro aperto successivo, senza guardare verso le tre facce che, in basso, erano sollevate verso di lei, e prese a leggere ciò che il volume esponeva agli occhi del mondo, consapevole che i tre uomini sotto di lei si erano fermati per ascoltare. «"È possibile distinguere un Dwaer da un altro grazie alle rune che ciascuno di essi reca incise in profondità. Se la runa ha questa forma..."». Abbandonando il tono declamatorio, Embra specificò, con il proprio tono più gentile: «Quella di un amo uncinato». Poi lanciò un'occhiata a Sarasper e riprese a usare un tono stentoreo e scandito, mentre proseguiva: «... state contemplando Candalath, la Pietra della Vita. Se la runa ha invece quest'altra forma..."». Di nuovo, Embra tornò al proprio tono naturale nel precisare: «Un cerchio da cui si diramano quattro punte di stella». Adesso Craer le stava sorridendo, e le stava segnalando a grandi gesti di continuare. Con un imperioso cenno di assenso, Embra assunse nuovamente il tono declamatorio. «"In tal caso è Hilimm, la Pietra del Rinnovamento, quella che tenete fra
le mani. Una runa così..." una fila di zanne», spiegò, «"contrassegna Mlarr, la Pietra della Guerra, e se il simbolo è questo"... una torretta, o una torre di castello che finisce a punta... "siete in possesso di Quarlar, la Pietra dell'Edificazione"». «Quindi quella di cui il Maestro d'Incantesimi era in possesso alla fine, quando lo abbiamo affrontato, era la Pietra della Guerra», commentò lentamente Hawkril. «Cosa la rende adatta alla Guerra, signora, mentre la tua lo è alla Vita?». Embra scrollò le spalle e allargò le braccia in un gesto inteso a significare che non lo sapeva, poi si spostò leggermente di lato nell'aria per leggere ciò che c'era scritto sul libro successivo. «"I maghi li possono usare come fonte d'incantesimi, ma i Dwaerindim sono dotati di grandi poteri, il cui risveglio è un'operazione più sottile, ma comunque alla portata anche di chi non ha nessun talento per la magia. Ogni Pietra-Dwaer ha poteri di sua esclusiva pertinenza, ciascuna ha poteri che condivide con le altre e ci sono anche poteri che possono essere evocati soltanto quando certi Dwaer vengono usati congiuntamente... e vengono posizionati in modo adeguato"». «Come sempre», commentò Craer, rivolto al suo migliore amico, «le spade sono una soluzione più semplice». Hawkril annuì, un lento sorriso che gli affiorava sul volto. Sopra di loro, la Dama dei Gioielli stava già fluttuando verso un altro libro. «"A meno che si imponga loro con la volontà di infondere potere a una magia, o di reindirizzare, potenziare o alterare un incantesimo eseguito da altri, in modo che tocchi o influenzi un Dwaer o chi ne è in possesso, i Dwaerindim assorbono la maggior parte della magia nota, fagocitandola completamente senza lasciarne traccia. In questo modo, possono essere utilizzati per proteggere un'alcova, un oggetto posto sotto o dietro di essi, o chi li porta, da magie ostili, anche se è opportuno avvertire che certe magie resistono al controllo esercitato da un Dwaer"». «Naturalmente, trascura di elencare di quali magie si tratti», ipotizzò ad alta voce Sarasper, in tono asciutto quanto sicuro; Embra gli rivolse un cenno di conferma accompagnato da un sorriso contrito, poi si girò verso il libro successivo. «"Tutti i Dwaer possono essere fatti risplendere"», lesse ad alta voce. «"L'intensità e il colore della loro luce possono essere controllati, e modificati, da un utilizzatore che possieda una notevole forza di volontà o da un mago abituato a impiegare magie basate sul controllo della luce. Uno qual-
siasi dei Dwaer può essere fatto librare nell'aria in silenzio e per tutto il tempo desiderato, anche se è prima necessario imparare come fare. Se utilizzati in tal modo da qualcuno che sa come comandarli, tutti i Dwaer possono purificare da contaminazioni o veleni qualsiasi acqua in cui vengano immersi. È però necessario fare attenzione, perché questo potere rende simili ad acqua le bevande più potenti, e parimenti bandisce per sempre gli incantesimi racchiusi in una pozione"». «Per i Tre, sembra un cortigiano che stia esponendo i punti di un trattato», ringhiò Hawkril. «Questo ci aiuterà a salvare Aglirta?». Sarasper gli scoccò un'occhiata. «Conosci la tua arma, guerriero, e vivi un po' più a lungo», ribatté, citando un vecchio adagio. Hawkril annuì, con un sospiro; in alto, Embra raggiunse l'ultimo libro, sedette a gambe incrociate nell'aria e annunciò, quasi in tono misurato: «"Chi sa come fare, può utilizzare un Dwaer in suo possesso perché gli permetta di sopravvivere in condizioni che altrimenti ucciderebbero o incapaciterebbero. Là dove il sole rovente brucia e non c'è ombra, o dove le nevi invernali raggelano e annullano ogni traccia di calore, o dove una persona perirebbe di sete, senza acqua da bere, il Dwaer può sostentare e soccorrere. E c'è di più: chi detiene un Dwaer può vedere al buio bene quanto le creature della notte. Inoltre, un mago che entri in possesso di un Dwaer, può appellarsi a esso perché infonda energia a qualsiasi incantesimo che lui sia in grado di formulare mentalmente e di controllare, anche se le Pietre non infondono la capacità di usare la magia a chi non possiede il necessario talento"». «Ritengo che quest'ultimo potere sia familiare a noi tutti», commentò Sarasper, in tono asciutto. «Signora, questi scritti mi sembrano chiari e semplici, quindi te lo chiedo di nuovo: perché ci hai messo tanto tempo a leggerli?». Embra discese di un tratto pari alla sua altezza, o anche più, librandosi al di sopra della testa del guaritore per fissarlo con occhi roventi. «Quanto vi ho letto è ciò che questi libri dicono adesso. L'ultima volta che siamo stati qui, sulle loro pagine c'erano parole diverse. Non riesco a ricordare tutto quello che ho letto allora, perché l'ho fatto molto in fretta, con la battaglia che infuriava sotto di me, se ben rammenti, ma per quel che mi riesce di ricordare, quello laggiù diceva: "Allora infuriò l'ira del Grifone Dorato... alla vista del suo eterno nemico assiso in trono... nello splendore di un nido nuovo e fortificato". Poi ne ho girato la pagina e ho
scoperto le parole: "Il luogo di caduta maestà, il suo signore e omonimo ormai andato, con tutti i suoi sforzi, su una perla adagiata sul veloce Fiumargento, un'eretta prua di scudi che fende le onde invernali". In altre parole, il libro parlava in termini ermetici di dove era possibile trovare i Dwaer. C'era anche qualche altra cosa, riguardante il fatto che a volte i Dwaer possono avere una volontà propria, o almeno fare cose che chi li usa non desidera e non ha richiesto... ed era questo che volevo rileggere a fondo e con la dovuta attenzione. Tuttavia», continuò con un profondo sospiro, «non potevo toccare i libri allora e non posso farlo neppure adesso. Servendomi della Pietra e della mia volontà, l'altra volta sono riuscita a girare le pagine dell'ultimo volume, ma adesso non riesco più a farlo, per quanto mi sforzi. Non succede nulla. Qualcosa è cambiato, e cercare di capire di cosa si tratti, guaritore, è stato ciò che mi ha preso tanto tempo. Questo, e tentare di memorizzare queste nuove parole». «Memorizzarle?» ripeté Sarasper, inarcando un sopracciglio. «Forse non ti risulta, ma io so scrivere». Embra Silvertree contrasse il volto in una smorfia, poi sospirò e risalì fino a librarsi di nuovo al di sopra dei libri. Mentre Sarasper si metteva all'opera con penna e pergamena, lei cominciò a recitare di nuovo ad alta voce, lentamente e in tono scandito, ciò che aveva appena letto. Intanto, Craer e Hawkril divisero il loro tempo fra lo scrutare le rovine, per individuare qualsiasi traccia di pericolo imminente, e il contemplare con aperta ammirazione la loro compagna. C'erano dei vantaggi nell'essere una delle dame più ricche di tutta Aglirta così come c'erano dei vantaggi nell'essere la figlia di una donna bellissima, quale era stata Tlarinda Silvertree. Naturalmente, quei benefici andavano valutati alla luce dello svantaggio di avere Faerod Silvertree come padre... uno svantaggio che era costato la vita a Tlarinda e che aveva imposto a Embra una vita di schiavitù e di tormentosi incantesimi, spingendola alla fuga, a una vita di pericolose avventure... e a ritrovarsi lì a Indraevyn. Embra Silvertree indossava abiti e stivali di cuoio tanto morbido e flessibile da sembrare una seconda pelle, come gli indumenti dello stesso Craer, e di un colore scuro quanto quello dei suoi capelli, anche se adesso quella lucida massa nera era raccolta e legata alla base del collo. Un vago, pulsante bagliore magico circondava la sua persona e si accentrava intorno alla pietra a chiazze grigie e marrone grande quanto una mano che le pendeva sul petto sospesa in una sottile intelaiatura di catena metallica: Can-
dalath, la Pietra della Vita. I suoi poteri ridestati l'avevano avviluppata in una ragnatela di energia che le permetteva di volare e di librarsi, la schermava da attacchi magici e da qualsiasi ferita inferta da oggetti di metallo, come la punta di una quadrella di balestra, e impediva che la si spiasse magicamente da lontano, evitando perfino che qualcuno la potesse rintracciare laggiù. In particolare, la Pietra sventava qualsiasi ricerca effettuata mediante l'impiego di altri Dwaerindim. «Quindi i Dwaer possono fare ogni sorta di cose meravigliose, a patto che si impari come fare per costringerli all'obbedienza e si abbia una volontà ferrea», sintetizzò Hawkril, con voce lenta e stentorea, osservando Embra mentre leggeva e pensando che in vita sua aveva visto di rado qualcosa che fosse bello quanto il suo volto. «In altre parole», convenne Craer, agitando una mano in direzione della Dama dei Gioielli, «dobbiamo lasciare che sia lei a giocare con le Pietre». «Però il re ci ha chiesto di trovare le altre Pietre e di riportargliele, o almeno di scoprire senza ombra di dubbio chi ne è in possesso, e noi abbiamo giurato di farlo», disse guardando verso l'amico con espressione d'un tratto seria. «Io sono abile nell'uso della spada, ma questo non significa nulla, contro cose come quella», continuò, agitando una mano in direzione del chiarore aleggiante sotto il mento ben modellato di Embra, poi aggiunse ringhiando: «Dovrà passare molto tempo, prima che dimentichi la vista di un castello che ci crolla addosso!». «Io credo che finiremo per essere talmente stufi di andare vagabondando alla ricerca delle Pietre che sarà per noi quasi un sollievo combattere contro chiunque scopriremo essere in possesso di un Dwaer!» ribatté Craer. «Chi ne possieda uno e abbia anche solo l'intelligenza di un pipistrello non ce lo mostrerà di certo, e chiunque abbia un livello d'intelligenza inferiore non rimarrà probabilmente a lungo in possesso di un Dwaer, o della sua stessa vita, con i maghi, i sacerdoti del Serpente e i Senzafaccia tutti alla ricerca delle Pietre». «Grazie per queste parole rassicuranti», borbottò il massiccio armaragor, tornando a scrutare la biblioteca circostante in cerca di nemici in agguato. «Stavo cercando di dimenticare la più recente crisi che sta incombendo su tutto Darsar nella speranza che, per una volta, qualcun altro s'incarichi di risolverla». «Se indugiamo qui più a lungo», interloquì Sarasper acido, posando la penna, «lunghi anni si accumuleranno nelle ossa di tutti noi, e qualcun altro dovrà davvero incaricarsi di risolvere ogni problema».
«Gemiti, lamenti e borbottii», commentò Embra in tono sarcastico, fluttuando verso il basso per ricongiungersi agli altri. «Gli uomini che vanno in cerca di avventure dicono mai qualcosa di diverso?». «Be', sì», replicò Craer, con una strizzata d'occhio, «e in genere fanno precedere affermazioni simili da esclamazioni come: "Ehi, ragazza! Devo fornirti un assaggio...?"». Arricciando il naso, Embra gli ingiunse con un cenno di tacere, muovendo le agili dita in modo da formare un gesto decisamente poco raffinato, a cui Craer reagì piantandosi le mani sui fianchi, schioccando la lingua con fare disgustato e levando gli occhi al cielo, in una perfetta imitazione di una dama di alto rango oltraggiata da quella volgarità. «Ho un'idea», commentò acidamente Sarasper. «Mandiamolo a pavoneggiarsi avanti e indietro per la Valle, fino a quando chiunque sia in possesso di un Dwaer si esasperi al punto da cercare di ridurlo in cenere. In quel modo, naturalmente, noi potremo individuare i possessori delle diverse Pietre». «E se il tentativo di incenerirmi dovesse andare a segno?» obiettò Craer, sentendosi oltraggiato. «Se ben ricordo», ribatté l'anziano guaritore, scrollando le spalle, «i procacciatori non scarseggiano di certo nell'esercito di Blackgult... e quasi certamente chiunque altro fra loro sarà meno irritante di te». Girandosi a fronteggiarlo, Craer ripeté il gesto volgare eseguito da Embra, aggiungendo parecchi elaborati svolazzi. «Allora, vogliamo andare?» domandò Sarasper, ignorando il procacciatore. «E dove, esattamente?» chiese Hawkril. «Non ho molta voglia di aggirarmi su e giù per la Valle, considerato lo scarso affetto che i diversi baroni paiono nutrire nei nostri confronti». «Era di questo che vi volevo parlare», annuì Embra. La Pietra che portava sul petto emise un singolo bagliore, che la indusse a osservarla con espressione accigliata, mentre aggiungeva: «Qualcuno sta di nuovo cercando di trovarci». Seguì una breve pausa di silenzio, durante la quale i tre uomini le si strinsero maggiormente intorno, sbirciando intensamente le rovine silenti che li circondavano, come se si aspettassero di vedere maghi, belve e arcieri balzare con fare trionfante da dietro ogni singola pietra. «Parla, ragazza», grugnì infine Hawkril, soppesando la grande spada da guerra e tenendo lo sguardo fisso sulla parte di foresta visibile attraverso le
pareti sventrate della biblioteca. «Credo che Craer si stia prendendo qualche momento di pausa dalle sue battute argute». «Quello era un sottile suggerimento, vero?» mormorò il procacciatore. «Sì, Embra, parla: siamo pronti ad ascoltarti». Con calma, Embra fece scorrere lo sguardo su di loro, intercettando di volta in volta quello di ciascuno dei compagni. «Non voglio che le mie parole vi inducano a pensare interiormente che sto cercando di imporvi di fare qualcosa», affermò con gentilezza. «Quindi, nel nome dei Tre, borbottate subito, se dovete, e...». «E non aspettate a farlo dopo che uno di noi sia stato ucciso», commentò Craer. I tre uomini videro la maga trarre un profondo respiro e chiudere gli occhi per un momento. «Sì», affermò quindi, con voce quasi incrinata dal pianto. «Sì, questo è esattamente quello che intendevo. Non sappiamo chi abbia le Pietre, ma chi le possiede deve invece conoscere la nostra identità, quindi esistono elevate probabilità di morire prima di essere riusciti a fare ciò che il re ci ha chiesto». «Un Dwaer non ci può riportare in vita?» borbottò Hawkril, con una voce che era quasi un sussurro, guardandosi intorno come se pensasse che le pareti diroccate potessero essere in ascolto. «Forse», rispose Embra, con una scrollata di spalle, «ma io non so come indurre questa Pietra a farlo, quindi la risposta è comunque no. Ora però ascoltate le mie riflessioni sul nostro incarico. Andare in giro alla cieca per la regione, cercando di scoprire dove si trovino i Dwaerindim, estorcendo informazioni in ogni taverna a ogni ciarliero carrettiere o contadino in cui dovessimo imbatterci, servirebbe soltanto a far stupidamente di noi stessi altrettanti bersagli. Lo stesso farebbe spiare baroni, tersept e maghi, tutte persone che hanno comunque qualcosa da nascondere o da proteggere dai ladri anche se non hanno mai sentito parlare di un Dwaer, e che supporrebbero che noi si sia venuti a depredarli. Di conseguenza, se siete disposti ad aiutarmi, intendo servirmi della mia magia per rintracciare le altre Pietre». «E come pensi di riuscirci, se gli incantesimi di ricerca possono essere bloccati con tanta facilità?» obiettò Sarasper, indicando il Dwaer che lei portava sul petto. Lady Silvertree annuì e si protese in avanti, quasi impaziente per l'eccitazione.
«Io non tenterò di spiare apertamente, come hanno fatto gli altri, non userò il genere di magia che voi mi avete visto bloccare, sia qui sia quando stavamo parlando con il re. Quella è una cosa che può essere sventata facilmente da chi sa come fare, se solo è sveglio e sul chi vive. Per di più, in caso di successo, quel tipo di incantesimo rivela ciascun possessore di Dwaer all'altro, e apre una via fra di loro, una sorta di porta la cui soglia può abbracciare chilometri, da un'estremità all'altra delle terre note di Darsar, se necessario, in modo che un singolo passo permette di varcare territori che altrimenti richiederebbero mesi per essere attraversati. Mostri, proiettili e altre cose del genere possono percorrere quella porta o esservi scagliati attraverso, e così pure gli incantesimi, per cui nulla e nessuno che si trovi all'una o all'altra estremità di quel passaggio può essere considerato al sicuro da una persona dotata di prudenza». «Quindi proporresti invece...» la incitò Craer, tamburellando contro le unghie con il piatto della lama della daga. «Invece», rispose Embra, «intendo operare un incantesimo più sottile e perdurante, che cerchi la magia attivata di un Dwaer come un cane che fiuti la traccia di una lepre. Un lento incantesimo che indichi quale sia la direzione migliore da seguire, e che dovrebbe sfuggire a qualsiasi individuazione». Quelle parole fecero apparire un sorriso in tralice sul volto di uno dei presenti nella stanza. Non si trattava del volto di uno dei tre uomini raccolti intorno alla maga, era una faccia della cui presenza i Quattro non erano neppure consapevoli. Quel sorriso affiorò sui lineamenti grigi di una testa che fluttuava non vista nell'ombra, una testa umana priva di corpo le cui labbra si aprirono in una risatina silenziosa un attimo prima che essa svanisse indisturbata nel nulla. La sua scomparsa non passò però del tutto inosservata. In una zona di ombre ancora più fitte, parecchio più indietro rispetto a dove si era trovata la testa, dietro l'estremità accasciata di uno scaffale crollato, un'altra faccia sorrise a sua volta. Essa era dotata di un corpo ed era incorniciata da una barba... e tutto quanto, faccia e corpo, si ritrasse al riparo dello scaffale senza il minimo rumore qualche istante prima che Craer sollevasse la testa per lanciare un'occhiata in quella direzione. L'uomo barbuto non riapparve neppure dopo che il procacciatore ebbe distolto lo sguardo, dirigendolo altrove, ma qualcosa d'altro si mosse, ancora più indietro nell'oscurità: un minuscolo pipistrello spiccò il volo dal punto in cui si era tenuto appeso al soffitto e uscì da una delle spaccature
presenti nelle pareti, volando via attraverso le rovine. Nell'allontanarsi, anch'esso pareva sorridere. Un altro pipistrello svolazzò davanti alle finestre, nel suo libero andirivieni notturno. Al di là di esse, un uomo che sedeva in solitudine, in un profondo silenzio permeato di attesa, si costrinse a ricacciare indietro il senso di amarezza che pareva salirgli in gola. «Sei solo, e seduto nell'ombra?» commentò una voce, che pareva scaturire dall'oscurità, proprio accanto al gomito del Barone Loushoond. Per poco il barone non sussultò con un'imprecazione, ma si costrinse a reprimere l'impulso di balzare in piedi e di emettere un ringhio spaventato, imponendosi invece di rispondere con lentezza, rendendo la propria voce quanto più calma e profonda gli era possibile. «Sì», replicò. «Loushoond sta sempre ai patti». «Questo è un bene», commentò la voce, in tono asciutto. «Devo togliere lo schermo alla lanterna?» chiese il Barone Loushoond, chiudendo la mano intorno all'impugnatura della corta spada che portava sotto la veste, e traendo conforto da quel gesto. «Fa' pure», fu la risposta, e quando la luce della lanterna si diffuse nella stanza, il Signore di Loushoond si trovò a fissare, come si era aspettato, una figura incappucciata, la testa china in avanti a nascondere completamente il volto alla sua vista, le ampie maniche della veste che ricadevano sulle mani in modo che anch'esse non fossero visibili. La sola cosa che risultò interessante al suo sguardo fu ciò che quelle mani invisibili reggevano: una sfera di vetro verdastro più grossa della testa di un uomo. Quella sfera era qualcosa che non si era aspettato, e non lasciava presagire nulla di buono in quanto poteva essere soltanto un oggetto magico di qualche tipo; tuttavia, Berias Loushoond badò a mantenere un'espressione imperturbata e a rimanere in silenzio mentre il suo misterioso visitatore muoveva le dita in uno schema intricato al riparo delle lunghe maniche e pareva rimanere attentamente in ascolto per un momento. «Siamo soli», annunciò quindi la figura incappucciata, «il che è un bene. Non dubitavo del tuo onore, barone, ma temevo che quell'idiota del tuo tersept potesse aver deciso di spiarci». «Lo avrebbe fatto», annuì Loushoond, con un freddo sorriso, «se non lo avessi spedito all'estremità opposta della baronia, con la scusa di indagare su una scorreria di briganti».
Il visitatore annuì con soddisfazione e avanzò di un rapido passo in modo da portarsi in pieno sotto la luce della lanterna, poi gettò indietro il capo con una mossa decisa, in modo da far ricadere il cappuccio sulle spalle, e il barone si trovò a contemplare uno splendido volto femminile: il suo visitatore non mostrava traccia di scaglie sulla pelle, e di certo non era un uomo. «Tu non sei...» cominciò Loushoond, protendendo di scatto una mano verso il cordone del campanello e afferrando al tempo stesso la spada. La donna non si mosse, neppure quando la punta della spada le aleggiò scintillante vicino al seno. Il gong di allarme però non suonò, e nel tirare nuovamente il cordone, il barone si ritrovò a tenere in mano l'estremità recisa della fune. La visitatrice sorrise, ma ancora non accennò a muoversi. «Chi sei?» chiese il barone, socchiudendo gli occhi. «Colui che aspettavi è... altrove. Anch'io servo il Serpente», replicò la donna, in tono più lieve rispetto a quello usato in precedenza, mentre una mano affusolata apriva la veste, rivelando la pelle nuda sottostante; con mosse lente, la donna si mise interamente a nudo, dalla gola alle caviglie. «Guarda bene, e vedrai che questa notte io non ho alcuna arma da usare contro di te, tranne la verità. Non ci sarà bisogno di guardie, maghi e gong di allarme». Il barone deglutì a fatica, sentendosi la gola improvvisamente arida. Scuri occhi luminosi erano fissi nei suoi e contenevano una tacita promessa, arti ben modellati furono evidenziati dalla luce della lanterna quando la visitatrice indietreggiò di qualche passo, in modo da appoggiarsi all'armadietto dei liquori con una mossa che spinse indietro la veste a rivelarne completamente le forme. «Per ora», sorrise, «ti chiedo soltanto di guardare». Con un gesto quasi pigro, lanciò quindi nell'aria la sfera verde, che emise un bagliore magico e si trasformò in uno specchio scintillante, al cui interno le lingue di fuoco magico assunsero a poco a poco la forma di alcune persone, come se fossero viste attraverso una finestra. Il Barone Loushoond si protese in avanti sul suo seggio, osservando attentamente. Stava vedendo una camera rivestita di pannelli di legno scuro, molto simile a quella in cui lui si trovava, nella quale c'erano due figure che conosceva bene: una di esse apparteneva a un suo antico rivale, il Barone Eldagh Ornentar, e l'altra era quella dell'uomo che lui si era aspettato di incontrare quella notte... «Esponimi dunque le tue preoccupazioni», ordinò a bassa voce la figura incappucciata.
La famosa facciata di imperturbabilità del Barone Ornentar si era incrinata ormai da ore, e la mano adorna di anelli che lui agitò davanti alla sfera che ne stava evocando l'immagine era scossa da un tremito evidente. «Tutti i miei maghi sono morti!» gridò, con voce che echeggiò contro il soffitto e i lucidi scudi appesi alle pareti. «Adesso Ornentar è privo di protezione dagli eserciti di Silvertree e di tutte le altre baronie in armi!». «Abbassssa la voce», sibilò il sacerdote del Serpente. «Anch'io ho osservato la battaglia di Indraevyn e altri ssscontri avvenuti altrove. Le file dei maghi presenti nella Valle sssono state assottigliate a tal punto negli ultimi giorni da rendere inutile che ti preoccupi eccessssivamente. È molto più pericolossso un raduno di maghi di potere minore provenienti da numerossse baronie, che sssi stanno incontrando a Sirlptar per determinare cosssa fare riguardo al pericolo cossstituito dai maghi fuggiaschi di Silvertree». Il barone rimase seduto immobile sul suo seggio per un lungo momento pieno di disagio. «Noi non siamo stati invitati», sussurrò infine. «Ornentar non è neppure stato informato di questo». Il prete incappucciato annuì. «Infatti», confermò, in tono calmo e piatto. «Tutte le baronie sono riunite contro di me», mormorò il Barone Ornentar. «Siamo perduti». «Non se riceverete aiuto», obiettò il prete, con una scrollata di spalle. «Aiuto?» ripeté il barone, fissandolo a bocca aperta. «E da dove?». Il sacerdote del Serpente allargò una mano in un gesto lento. «Tu saresti disposto ad aiutarmi?» domandò il barone, fissandolo interdetto, la voce che saliva di tono. «Sì, sì», quasi balbettò, in preda al sollievo... poi però fece una pausa e chiese: «E il tuo prezzo?». «Potrai fare affidamento sssull'aiuto del Sssserpente», dichiarò in tono solenne la figura incappucciata, «in cambio della conversssione di Ornentar all'adorazione del Ssserpente». Il barone sedette in silenzio per un lungo momento, poi annuì lentamente. Allontanandosi dalla parete a cui era addossato, il prete avanzò a grandi passi verso il Signore di Ornentar. «C'è un cerimoniale da ssseguire», affermò, oscillando lentamente sulla persona. «Togliti la tunica, e le catene d'oro che porti indosssso». Il barone socchiuse gli occhi con sospetto, ma fece come gli era stato detto, lentamente e con riluttanza crescente. Quando il pallido torso peloso di Ornentar fu completamente a nudo, il
prete mise in mostra una mano che teneva dietro la schiena. Essa pareva non contenere nulla, ma quando protese un dito verso il petto floscio e la pancia pronunciata del barone, il suo tocco risultò gelido... gelido e viscido... e nel tracciare sulla pelle del barone un simbolo complesso, il dito si lasciò alle spalle una scia lucida che prese a risplendere di un bagliore fra il bianco e il verdastro. Con un soffio, il prete spense poi la lampada più vicina, lasciando accese soltanto le luci che tremolavano lungo le pareti, e nell'improvvisa penombra il bagliore che emanava dal petto del barone apparve ancora più evidente. Il Signore di Ornentar abbassò lo sguardo sul proprio corpo con crescente costernazione. «Inginocchiati», sibilò il sacerdote del Serpente. Il barone lo fissò, ma il prete non aggiunse altro e rimase immobile come una statua. Passarono alcuni lunghi, silenziosi momenti, poi il barone si accigliò, fissò lo sguardo nel vuoto per un istante e infine si sollevò lentamente dalla sedia per inginocchiarsi. Immediatamente, gli arazzi appesi fra uno scudo e l'altro, in tutta la stanza, si mossero e altre figure ammantate e incappucciate come il prete vennero avanti in silenzio, andando a formare un cerchio intorno a Eldagh Ornentar. Quelle figure rimasero in silenzio, il volto chino in modo che i lineamenti rimanessero nascosti nelle profondità del cappuccio, le mani celate nelle ampie maniche, ma Ornentar poté sentire il loro sguardo appuntato su di sé. Sollevando lo sguardo su di esse, le fissò con occhi in cui un selvaggio timore e un crescente sospetto ardevano come fiamme nascenti, poi il disegno tracciato sul suo petto divampò come un fuoco bianco e nel chiarore da esso emanato lui vide tutte quelle sagome sollevare una manica e mettere a nudo un braccio, protendendolo verso di lui; contemporaneamente, esse avanzarono all'unisono di un passo, e le loro nocche lo sfiorarono da ogni lato. Su venti spalle ci fu allora un accenno di movimento, quando altrettanti serpenti emersero strisciando in piena vista e scivolarono rapidi lungo ciascun braccio. Il barone fissò con orrore le loro spire, sollevando quindi lo sguardo verso i cappucci, sotto cui appariva una fila di volti calmi e sicuri... poi le zanne colpirono, colpirono e colpirono ancora. Il barone deglutì a fatica, quasi emettendo un singhiozzo, quando le lingue biforcute si protesero a lambirlo e le teste dei rettili si volsero a fissarlo con occhi scintillanti, mentre il veleno gli scorreva rovente nelle vene,
generando un crescente torpore... Le figure si ritrassero all'unisono, lasciando ricadere la manica a nascondere il serpente sottostante, e il sacerdote del Serpente avanzò a grandi passi fino a ergersi sopra il Signore del Castello di Ornentar. «Veleno!» annaspò Eldagh Ornentar, sollevando con orrore lo sguardo quando l'ombra del cappuccio scuro cadde su di lui. «Ora... ora la mia vita dipende dal tuo capriccio!». Il prete trasse indietro il cappuccio, in modo da permettergli di vedere il sorriso che gli aleggiava sul volto da serpente, coperto di scaglie. «Proprio così», confermò in tono di trionfo, con voce che pareva echeggiare da una distanza e da un'altezza impossibili, mentre l'oscurità saliva vorticante a cancellare il mondo di Eldagh Ornentar... La scena nello specchio si dissolse con lo svenimento del barone, e un momento più tardi lo specchio stesso si sciolse, perdendo la propria forma e accasciandosi a mezz'aria come una manciata di ghiaccioli che pendevano verso il pavimento. Inorridito, il Barone Loushoond fissò la sacerdotessa del Serpente, il cui sorriso appariva ora più accentuato. Improvvisamente, i resti dello specchio presero a muoversi verso di lui ondeggiando come un serpente di vetro che nuotasse nell'aria, poi qualcosa, la cosa più gelida di cui avesse mai avvertito il contatto, gli calò con forza sul polso e gli fece cadere di mano la spada. Ringhiando un'imprecazione inarticolata, Loushoond lottò per sollevarsi dalla sedia, invano, perché intanto il vetro che era stato uno specchio, e prima ancora una sfera, si era trasformato in catene che lo tenevano bloccato su di essa. Lasciando cadere al suolo la veste, la sacerdotessa avanzò rapida verso di lui. «Per i Tre...!» annaspò il barone, con voce che saliva di tono per l'improvviso, concreto timore. «Senza dubbio stanno a guardare», dichiarò la sacerdotessa, con voce mielata, gli occhi che brillavano di trionfo, nel protendere le labbra verso le sue, «ma temo sia tutto quello che possono fare». Dita forti come l'acciaio gli affondarono nelle guance, costringendolo a spalancare la bocca mentre quella di lei scendeva verso di essa: dalle calde profondità della gola della sacerdotessa strisciò fuori un piccolo serpente verde, con gli occhi minuscoli che brillavano a loro volta di una luce trionfante e le zanne protese... Nei suoi ultimi, gorgoglianti momenti, Loushoond fu vagamente consapevole del progressivo senso di soffocamento prodotto da quella cosa che
gli stava strisciando giù per la gola, del corpo caldo che si premeva contro il suo e del fatto di non poter fare nulla per evitare di condividere la sorte di Ornentar... 6. Pavimentato con pietre magiche Lasciata Indraevyn, avevano marciato stancamente per ore prima di trovare quello che cercavano: una verde collina nell'interminabile foresta, un'enorme radura in quel bosco che forniva pochissimi spazi aperti. Embra aveva dichiarato che quello era il luogo ideale, ma i suoi tre compagni si erano guardati intorno e avevano esaminato l'intera radura con sospetto, quasi si fossero aspettati di vedere delle caverne aprirsi inaspettatamente sotto i loro piedi, o che l'intera collina si sollevasse di colpo, rivelando di essere invece la schiena coperta di scaglie di un drago addormentato. La maga era rimasta ferma a guardarli, le braccia conserte e un sorriso comprensivo sul volto, mentre battevano il terreno palmo a palmo, senza pronunciare una sola parola impaziente, a mano a mano che il tempo passava e che i tre uomini continuavano a scuotere il capo e a borbottare, annunciando ciascuno a modo suo che non riuscivano a trovare nulla che non andasse in quel posto... ma che senza dubbio sentivano che aveva qualcosa che non andava. Il tempo però continuò a scorrere senza allarmi o aggressioni, anche quando Craer spinse le proprie esplorazioni fino alla fascia di alberi che attorniava la radura senza trovare nulla di pericoloso, e alla fine si raccolsero intorno a Embra, ammettendo in tono più o meno brusco che quel posto pareva non avere nulla che non andasse. Nulla, a parte la sensazione di essere... osservati. «Siamo nella Foresta di Loaurimm, miei signori», ricordò loro con gentilezza Lady Silvertree. «Essa è piena di vita, vi pullulano più creature di quante abbiano mai brandito la spada per mio padre o marciato nell'esercito di Blackgult. Attualmente, ci devono essere decine di piccoli occhi che ci stanno scrutando, però non scorgo traccia di arcieri o di maghi, e questo mi basta. Io dico che questo è il posto giusto, e che dobbiamo agire adesso». Nel parlare, allargò le braccia in un gesto che invitava i compagni a ritrarsi nuovamente fra gli alberi, poi avanzò da sola sul fianco coperto di muschio della collina.
«Vi è tutto chiaro?» domandò da sopra la spalla, mentre camminava. «Sarasper vi ha spiegato ogni cosa?». «Sì», ammisero con riluttanza Craer e Hawkril, più o meno all'unisono. «Sappiamo cosa fare», aggiunse Craer. La videro annuire, appena prima di raggiungere la cima della collina e di chiudere gli occhi, girandosi verso ovest, in direzione di Aglirta. «Mi è chiaro cosa dobbiamo fare», mormorò il procacciatore, protendendosi verso Sarasper, «ma c'è una cosa che mi piacerebbe sapere: a parte il risanamento, fino a che punto t'intendi di magia... di incantesimi come quelli di Embra, intendo?». Il vecchio guaritore protese la testa verso la sua, e i due si fissarono a distanza ravvicinata, i nasi che quasi si toccavano. «Abbastanza da sapere che non dovrei impicciarmi di cose del genere», borbottò Sarasper, in tono cupo. «Mi piacerebbe che un numero maggiore di giovani maghi impazienti arrivasse alla stessa consapevolezza», aggiunse, poi si allontanò a grandi passi lungo il perimetro della radura, segnalando con un cenno a Craer di prendere a sua volta posizione. Dalla parte opposta della radura, Hawkril lanciò un'occhiata ai due uomini in movimento. Con la spada in pugno e lo sguardo che si allontanava di rado dalla fascia di alberi circostante la collina, l'armaragor appariva teso come un cane che tirasse il guinzaglio, pronto a scatenarsi nel combattimento, mentre i tre uomini della Banda dei Quattro si ponevano a pari distanza uno dall'altro, intorno alla base dell'altura. Inginocchiandosi, Embra prese a cantilenare qualcosa, poi depose il Dwaer al suolo fra i propri piedi e si alzò lentamente, le mani che si muovevano in una serie di gesti intricati, quasi stessero intessendo l'aria stessa. Infine, allargò le braccia con le dita rivolte verso il basso e l'espressione appagata di un artista che avesse ultimato un lungo lavoro. Lingue silenziose di fuoco bianco le scaturirono dalla punta di ciascun dito, colpirono il terreno e aderirono a esso, tremolando, senza bruciarlo. Embra chiuse di nuovo gli occhi e parve tremare mentre inclinava lentamente il capo all'indietro fino ad avere la faccia rivolta verso il cielo. Adesso, pulsazioni di fuoco più vivido viaggiavano lungo le linee di luce, fino al terreno e di nuovo verso l'alto, emanazioni luminose che parevano riflettersi sugli alberi circostanti e generare un sommesso fruscio fra il fogliame. Sarasper osservò la scena con occhi socchiusi, poi prese ad agitare una mano fino a riuscire ad attirare l'attenzione di Hawkril. Accigliandosi, in-
dicò la spada dell'armaragor per ricordargli cosa doveva fare, e quando il massiccio guerriero annuì lentamente, Sarasper sollevò piano la mano con aria soddisfatta, pronto a dare il segnale. Ciò che avevano acconsentito a fare li avrebbe indeboliti molto in fretta, quindi non avrebbero avuto tempo da perdere; anzi, ne avrebbero avuto così poco a disposizione, prima che le loro energie si esaurissero, che tutto si sarebbe dovuto svolgere con la massima perfezione... La Pietra doveva essere esclusa dalla procedura magica per impedire che essa stessa, e quindi anche quel luogo, venisse rintracciata da qualsiasi possessore di un'altra Pietra che Embra fosse riuscita a «vedere», e questo avrebbe fatto sì che quel flusso di fuoco bianco rimanesse con un solo posto da cui attingere energia... un guaritore, un procacciatore e un armaragor. Esisteva una vecchia filastrocca un po' sconcia riguardo a un terzetto del genere, ma che i Tre lo incenerissero se in quel momento riusciva a ricordarsela. Con un lento movimento grandioso, avviluppato di fuoco bianco, la Dama dei Gioielli fluttuò in alto nell'aria, inarcandosi all'indietro nel salire, fino a quando si venne a trovare a tre o quattro metri da terra, supina e con le braccia spalancate, collegata al suolo sottostante da una ragnatela inquieta di silenziose fiamme magiche. «Adesso», ringhiò Sarasper, abbassando di scatto la mano, e pur non sapendo se Craer o Hawkril erano abbastanza vicini da poterlo sentire, aggiunse: «Badate a fare esattamente come vi ho mostrato». Conficcata con cura la spada nel terreno, alle proprie spalle, Hawkril la lasciò là eretta come una sentinella e prese a risalire a grandi passi il pendio della collina, che si fece sempre più erto, fino a costringerlo a chinarsi in avanti e quasi a procedere carponi. Lingue di fiamma si protesero verso di lui, vorticando e ringhiando vicino alla testa e alle spalle, la loro luce che si rifletteva sul velo di sudore che gli ricopriva il volto. D'un tratto, Sarasper si rese conto che Hawkril Anharu era terrorizzato, ma del resto lui stesso non era esattamente sereno in quel momento; lui e Craer avevano affondato entrambi le mani nelle rispettive, vicine correnti di fuoco magico, e stavano già barcollando. Era come cercare di avanzare controcorrente in mezzo a una piena d'acqua che si precipitasse loro incontro, un flusso interminabile e instancabile che non infliggeva sofferenza ma risucchiava la forza vitale a ogni passo... Adesso le lingue di fiamma li stavano avvolgendo e attraversando en-
trambi, assorbendo energia a ogni loro nuova ondata. Vagamente, Sarasper si rese conto che stava barcollando da un lato con lenti passi privi di una meta precisa, come un ubriaco, che i peli e i capelli gli si erano rizzati in tutto il corpo e stavano danzando all'unisono con le pulsazioni del fuoco magico. Con cupa determinazione, Hawkril aveva strisciato intanto attraverso le fiamme che parevano protendersi avide verso di lui per percuotergli il volto, le braccia e l'armatura... che si era evidentemente surriscaldata, almeno a giudicare dall'odore, dal rossore e dalla smorfia di dolore che contraeva la faccia dell'armaragor. Sarasper vide però Hawkril protendere una mano che non mostrava il minimo tremito e chiuderla senza traccia di esitazione o di paura intorno alla vibrante, luminosa Pietra della Vita, da cui il fuoco silenzioso continuava a scaturire in una colonna ruggente verso il corpo di Embra, per poi rifluire dalle sue dita verso il terreno, e verso due stolti che procedevano barcollando lungo il perimetro della sommità collinare. Adesso Sarasper e Craer erano uno di fronte all'altro, spinti dall'istinto a disporsi in modo da bilanciare fra di loro il flusso delle fiamme. Il volto dell'ometto grondava di sudore quanto quello di Hawkril, le sue mani tremavano, ma la sua pelle era pallida quanto un osso sbiancato. Deglutendo a fatica, Sarasper si costrinse a distogliere lo sguardo dal procacciatore per sollevarlo verso Embra, sospesa nel cielo sovrastante, gli occhi vacui, il corpo che tremava in mezzo alle fiamme da lei stessa generate. Dei, sarebbero morti tutti, se quella situazione si fosse protratta ancora per molto... Intanto Hawkril stava strisciando giù per il pendio, procedendo a ritroso perché non osava girarsi, il Dwaer saldamente stretto al petto, e le ondate di fuoco si stavano facendo più rapide, più profonde, attingendo quantità crescenti di energia nell'alimentarsi a spese di Sarasper e di Craer, quasi sapessero che presto avrebbero perduto l'apporto della Pietra. Il fuoco gli si riversò sugli occhi, abbagliandolo, poi tornò ad allontanarsi. In modo vago, Sarasper si rese conto di essere crollato in ginocchio; adesso, la forma sospesa di Embra si stava agitando leggermente, come sulla spinta di una brezza sostenuta, e si trovava a poche decine di centimetri dalla vetta della collina. Quanto a Craer, doveva essere crollato al suolo. Da dove si trovava, il guaritore tremante riuscì a stento a vedere Hawkril completare la propria marcia a ritroso fino ad addossarsi alla spada. Sedendosi a ridosso della lama d'acciaio, come se fosse stata lo schienale di una sedia, l'armaragor gettò indietro il capo e annaspò per quella che parve un'eternità, poi aggirò strisciando la lama fino a portarsi sul lato opposto
rispetto a essa. Il fuoco balzò indietro come se fosse stato reciso, ululando di rabbia silenziosa nel riversarsi attraverso Sarasper fino a quando lui ne fu accecato, gli occhi pieni di fiamme bianche che non bruciavano ma gli toglievano il respiro, le forze... tutto... Sulla sua sinistra c'erano le foglie, un profondo e stratificato ammasso di fogliame verde, in mezzo al quale echeggiavano in lontananza i trilli degli uccelli. Sulla destra il cielo, azzurro e sgombro da nuvole. Sotto di lui, il terriccio morbido che esalava un odore umido di vecchie foglie, di sostanze in decomposizione, di funghi e di piccoli germogli, il tutto misto a qualche radice, o pietra, molto dura che si trovava in un punto imprecisato, sotto la sua schiena. Hawkril gemette, sentendosi debole e svuotato interiormente come se qualcuno lo avesse squarciato con una spada e lo avesse privato di tutte le sue forze vitali. Gli ci vollero tre ringhianti, faticosi tentativi prima di essere in grado di sollevarsi su un gomito, ansimando come un uomo che avesse corso per chilometri, in modo da riuscire a guardarsi intorno. Il suo movimento aveva fatto cadere per terra la Pietra, e per abitudine di lunga data lui fu pronto a trattenerla prima che potesse rotolare lontano, mentre il suo sguardo cercava una cosa soltanto: Embra. La dama che, gli dei lo aiutassero, stava cominciando ad amare, che stava diventando importante per lui più della sua stessa vita, più dell'amicizia di Craer o di tutte le bellezze di Aglirta, nonostante la sua lingua tagliente e l'assenza di esitazione nel servirsi della magia per controllarlo... per i Tre, se era bella! Quando lei lo guardava... Attualmente, Embra stava fissando il cielo con occhi vacui, grigi e annebbiati, distesa supina sulla cresta della collina... assolutamente immobile. L'improvviso timore per quello che poteva esserle successo indusse Hawkril a raccogliere la Pietra e a cercare di risalire il pendio, senza perdere tempo neppure a proferire un'imprecazione. La sola cosa che ottenne fu di crollare prono in avanti, il mondo che gli si offuscava tutt'intorno. Cos'aveva che non andava? La magia di Embra. La sua magia doveva aver prosciugato anche lui di ogni energia, come aveva fatto con Craer e Sarasper; anch'essi giacevano sulla cima dell'altura, raggomitolati e immobili come un paio di rocce, il volto pallidissimo e fradicio di sudore, gli occhi fissi nel vuoto. Deglutendo a fatica, Hawkril serrò i denti e prese a strisciare su per la
collina, tenendo goffamente stretta contro di sé la Pietra mentre procedeva. Si sentiva le braccia deboli come se fossero state prive di carne e di ossa, pronte a piegarsi come lo stelo di un fiore, e stava tremando. Se Embra era morta... Si costrinse a non pensarci, a concentrarsi invece sulla dannata sofferenza che ogni singolo movimento in avanti gli causava, su... L'aveva raggiunta, adesso si stava ergendo su di lei, ed Embra giaceva così immobile, senza respirare, gli occhi simili a due candele consumate. «Signora», sussurrò, posando con cura la Pietra sul suo petto. «Oh, ragazza, vivi!». Con delicatezza, sollevò una delle mani di lei e la accostò alla gola, ripiegandone le dita intorno alla Pietra, poi fece lo stesso con l'altra, senza avere la minima idea di cosa avrebbe tentato se non fosse successo nulla. Una fredda, minuscola lingua di fiamma bianca si levò intorno al Dwaer, dando l'impressione di scaturire dalla gola su cui esso era posato, una gola che si contrasse mentre il petto cominciava ad alzarsi e ad abbassarsi, sia pure con estrema lentezza. I Tre fossero lodati! Hawkril tenne le mani di lei strette intorno alla Pietra, ignorando una strana sensazione formicolante che gli si stava diffondendo lungo le braccia. «Oh, ragazza, torna da me!» borbottò. Occhi azzurro cupo ebbero un fremito e si fissarono nei suoi, poi le lacrime salirono a velarli e le mani di Embra gli si aggrapparono alle braccia mentre lei veniva percorsa da un tremito improvviso, come un cane che si scrollasse. «Hawk!» annaspò. Il suo sguardo lo indusse a chinarsi, e le sue labbra si chiusero su quelle di lei prima che si rendesse del tutto conto di quello che stava facendo. Le loro bocche s'incontrarono e si unirono, la lingua di lei lo sfiorò in una carezza ed Embra gemette sotto di lui, gemette e si mosse, impaziente di... Di scaraventarlo di lato. Il cuore di Hawkril ebbe un sussulto quando quelle mani snelle gli assestarono una spinta decisa che lo mandò a finire seduto all'indietro, mentre il mondo gli appariva di colpo molto più cupo. Sì, doveva ammetterlo, almeno con se stesso: era innamorato senza speranza. «Più tardi», ansimò Lady Embra, notando la sua espressione desolata, mentre si scuoteva per liberarsi dalla sua stretta. «Qui siamo in pericolo!». «Ragazza, che significa?» chiese Hawkril, guardandosi intorno con aria
frenetica per poi appuntare lo sguardo sul punto in cui era rimasta la sua spada. «Aiutami», sibilò Embra, aggrappandosi a lui con dita dure come artigli nella fretta di riuscire ad alzarsi, fino a sollevarsi in piedi con mosse barcollanti, il bacino puntellato contro la testa di lui, le mani che gli stringevano le spalle per trarne sostegno. «Portami da Sarasper», gemette, cercando di scrollare l'armaragor. Il vento che avesse cercato di smuovere un masso avrebbe avuto lo stesso successo nei suoi sforzi, ma dopo un momento lui si alzò pesantemente in piedi, e barcollò. Embra si sentì contrarre la gola per il timore, per lui e per se stessa: se le fosse crollato addosso, schiacciandola, chi le sarebbe venuto in aiuto? Chi avrebbe potuto salvarli tutti? Do... Mani forti le afferrarono le spalle, circondandole. «Tieniti stretta a me, ragazza», borbottò una voce profonda e familiare, che lei percepì fisicamente, oltre a udirla, ora che i loro corpi erano stretti uno contro l'altro. «Faremo in un attimo». Il mondo vorticò follemente, poi lei si sentì depositare con delicatezza al suolo accanto al corpo disteso del vecchio guaritore, che giaceva con lo sguardo vacuo e fisso nel nulla. Rapida, s'inginocchiò accanto a Sarasper, e la Pietra della Vita prese a pulsare mentre lei la protendeva fino a metterla a contatto con una mano rugosa e chiazzata dagli anni. Con la bocca aperta e la mascella ispida rilassata, Sarasper appariva decisamente morto. Nell'entrare in contatto con lui, il Dwaer emise un bagliore quasi rabbioso, ed Embra si trovò prossima a scoppiare in pianto: quei tre uomini fiduciosi sarebbero stati pronti a dare la vita per la realizzazione del suo piano, i primi tre uomini di cui lei avesse mai osato fidarsi. Gli unici tre. Forse c'erano persone che non riuscivano ad accumulare un simile numero di amici fidati nell'arco di tutta la vita, ma a lei non sembrava una schiera così nutrita da potersi permettere di perdere anche uno solo di essi. Dubbi cupi salirono a tormentarla nei momenti che trascorsero prima che il guaritore sollevasse debolmente una mano, come per allontanare da sé tutto il mondo, borbottando: «Per gli dei, che cosa ho bevuto?». Embra e Hawkril si scambiarono un'occhiata sorpresa che fu sufficiente a farli scoppiare entrambi in una risata irrefrenabile, che li fece piegare su loro stessi mentre continuavano a ridere fino ad avere le lacrime agli occhi. «Non lo trovo affatto divertente», grugnì Sarasper, nel bel mezzo di
quella crisi di riso, esattamente nel tono giusto per scatenare di nuovo la loro ilarità. Di conseguenza, trascorse qualche tempo prima che Embra riuscisse a calmarsi abbastanza da potersi chinare sul corpo raggomitolato del procacciatore, mentre ogni voglia di ridere l'abbandonava sotto l'assalto di una nuova ondata di timore. Per gli dei, appariva così piccolo. Quale che fosse l'energia sardonica del suo spirito, poteva un corpo del genere essere sopravvissuto a un simile prosciugamento? Poteva... Craer tossì nell'istante stesso in cui la Pietra entrò in contatto con il suo corpo, e contrasse il volto in una smorfia. «Basta con gli incantesimi, almeno per quanto mi riguarda», mormorò, senza rivolgersi a nessuno in particolare. «È sveglio», borbottò Hawkril, agitando sopra la testa dei compagni la spada che aveva intanto recuperato, in un gesto che esprimeva il suo sollievo. «Ora spiegaci il perché di tanta fretta, ragazza. Quale pericolo ci minaccia?». Embra sollevò lo sguardo su di lui con un'espressione grave negli occhi sgranati, poi incontrò anche lo sguardo degli altri compagni. «Ecco», rispose, traendo un profondo respiro, «la magia ha funzionato, ma ho potuto percepire soltanto un'altra Pietra, e questo perché è così vicina a noi che per poco non mi ha accecata e sopraffatta!». «A quanta distanza si può trovare?» domandò Sarasper, socchiudendo gli occhi. «Un paio di chilometri circa... non di più», rispose Embra, scrollando le spalle. «Vi prego, basta con le fredde cortesie. Piacere di incontrarvi, signori», esordì in tono deciso il Tersept di Sart, mentre stringeva la mano ai visitatori, poi allargò le braccia in un gesto che invitava tutti i presenti a sedere sulle sedie dall'alto schienale ad arco schierate come un'orgogliosa avanguardia intorno a un grande tavolo lucido: gli elaborati intagli del legno e la piccola foresta di boccali e brocche disposte sul tavolo declamavano la ricchezza di Sart a chiunque li avesse contemplati, come facevano pure le file di splendide credenze e di alte cassepanche schierate lungo le pareti. «Prego, versatevi del vino e mangiate qualcosa. Qui non teniamo alle cerimonie e non ci preoccupiamo per un po' di cibo rovesciato, quindi mangiate, bevete e sentitevi come a casa vostra!». «Se fossi a casa, mi sentirei molto più al sicuro di quanto mi senta qui,
in questo momento», ribatté un uomo dalle scure sopracciglia accigliate e dal volto duro, segnato dagli elementi. «Come facciamo a sapere che i maghi del re non stanno ascoltando ogni nostra singola parola?». «I maghi di Sart da me assoldati per prevenire proprio una cosa del genere mi garantiscono che siamo al sicuro», ribatté con disinvoltura il tersept, «così come mi hanno anche garantito di essere nettamente superiori per numero e potenza ai pochi maghi da quattro soldi che sono al servizio del Trono del Fiume. Nascosta alla vista, una banda di guerra temibile quale è quella delle Spade di Sirlptar difende le nostre porte, annidata alle spalle delle guardie che avete visto. Rilassati, Lord Amministratore». «Davvero?» commentò l'Amministratore di Gilth, in tono di derisione, ma al tempo stesso prese posto su uno dei seggi più sfarzosi e allungò la mano verso uno dei boccali. «Quindi adesso la Dama dei Gioielli è una maga da quattro soldi, giusto?». «E se i tuoi maghi la possono definire così, che affidamento si può fare sulla loro capacità di giudizio?» aggiunse un agente di Sirl, le cui vesti di seta verde scuro, adorne di dozzine di medaglioni in filigrana d'oro, davano l'impressione di costare più di sei tavoli come quello a cui si stavano sedendo. Nel prendere posto, protendendo a sua volta la mano verso un bicchiere, quell'uomo tintinnò, laddove le vesti degli altri frusciavano. «In base a quanto siamo stati in grado di determinare», affermò il tersept, prendendo a sua volta un boccale e allungando l'altra mano verso una brocca, mentre invitava con un cenno i tre Amministratori di Sirlptar a prendere posto a loro volta, «la maga Silvertree ha lasciato l'Isola della Corrente Spumosa con i suoi tre amanti, per svolgere una missione segreta di qualche tipo per conto del re. A corte, alcuni sussurrano che abbiano l'incarico di uccidere il Serpente, che si afferma si sia a sua volta ridestato, anche se i sacerdoti del Serpente continuano ad asserirlo fin da quando sono stato abbastanza grande da riuscire a parlare. Altri ritengono che la Banda dei Quattro sia partita alla ricerca del tesoro della caduta baronia di Blackgult, per fornire quei fondi al Trono del Fiume, in modo che possa assoldare un esercito con cui sottometterci tutti». «Questa è una cosa a cui posso credere», dichiarò Daragus di Gilth. «Se Silvertree se ne è impadronito prima di morire, e i suoi maghi non sono riusciti a portarselo via prima di perire a loro volta, sua figlia è la più adatta in tutta Aglirta a riuscire a recuperarlo». «Ma sappiamo per certo che Silvertree è morto?» obiettò il più alto dei tre agenti di Sirl, inarcando un sopracciglio. «Il suo corpo non è stato tro-
vato». «E neppure quello dei suoi maghi», aggiunse uno dei suoi compagni, il più basso e robusto dei tre, un individuo barbuto dalle vesti di velluto rosso adorne di cordoncini e nappe d'oro. Daragus scrollò le spalle e allargò le mani, su cui scintillavano numerosi anelli d'oro. «I mesi passano, e non si scorge traccia di nessuno di loro», sottolineò. «Posso ricordare a tutti voi che i maghi sono in grado di cambiare faccia e fisico molto più facilmente della maggior parte degli altri uomini?» interloquì l'amministratore vestito di verde. Daragus gli scoccò un'acida occhiata. «E io posso ricordare a te, Amministratore Phelodiir, che le favole narrate accanto al fuoco sono una cosa, e che quello che invece i maghi si prendono la briga di fare davvero, giorno dopo giorno, nell'Aglirta della realtà, è una cosa del tutto diversa? Eseguire incantesimi costa fatica, denaro ed energia vitale, e ne costa ancora di più mantenerli in essere, quindi perché prendersi una briga simile? Se possiedi un tale potere magico da poterne consumare una parte per intessere un incantesimo del genere, allora vuol dire che ne hai abbastanza da non aver bisogno di nasconderti: agire apertamente e disintegrare chiunque cerchi di far loro del male, è questo il modo di agire dei maghi». «Mi chiedo con che sorta di maghi idioti tu abbia mai avuto a che fare», ribatté l'alto amministratore, scuotendo il capo. «Signori, signori», intervenne il Tersept di Sart, con modi concilianti, ma forse con troppa rapidità e a voce troppo alta. «Serbiamo il nostro astio per chi ne è la causa effettiva, cioè questo cosiddetto Re Ridestato, e non sfoghiamolo gli uni contro gli altri. Per colpa sua, corriamo tutti lo stesso rischio: i sacerdoti del Serpente complottano e colpiscono con daghe avvelenate in tutta la Valle, e questo a causa sua». «Risparmiaci i tuoi discorsi grandiosi, Glarsimber», brontolò l'Amministratore di Gilth. «Soltanto gli stolti e i tiranni si aspettano di sentire dei rivali... perché, se vogliamo essere franchi, questo è ciò che siamo... parlare con voce unanime, d'amore e d'accordo, il primo istante in cui avvistano un nemico comune. Di nuovo, scivoliamo nelle favole da narrare accanto al fuoco». «Ha davvero preteso che tutte le baronie e le città gli cedano i loro eserciti?» chiese l'amministratore barbuto. «Quali sono state, esattamente, le sue parole?».
«Vuole essere "reincoronato", Carthel, e vuole che noi tutti gli si giuri fedeltà», replicò Daragus di Gilth, con voce quasi ringhiante. «A quel punto, si affretterà a impartire ordini a tutti coloro che sono al servizio di chiunque fra noi, ordinando a questi armaragor di andare lì, a quei lancieri di schierarsi là... ben lontano da noi che li abbiamo radunati e addestrati. Non ha bisogno di parlare apertamente perché le sue intenzioni e le sue mete siano chiare. Proprio non...». «Un momento, aspetta un momento», lo interruppe l'Amministratore Phelodiir. «Niente di tutto questo giunge nuovo a nessuno di noi. Mio Signore di Sart, c'è qualche altra cosa, al di là di questo, che ti preoccupa, l'ho capito quando hai indetto questo conclave e attualmente posso leggere nei tuoi occhi che stai aspettando di parlarcene. Anzi, che sei impaziente di farlo. Di cosa si tratta?». Consapevole di avere l'assoluta attenzione dei suoi ospiti per la prima volta da quando li aveva invitati a sedersi, il Tersept di Sart scelse senza fretta una brocca, la sollevò alla luce per esaminarne il contenuto con aria critica e si versò da bere. «È vero», mormorò l'Amministratore Carthel, nel silenzio che il Signore di Sart stava sapientemente prolungando. «Adesso lo vedo anch'io, qualcosa che è impaziente di affiorare. Parla, Belklarravus». Il Tersept Glarsimber Belklarravus di Sart sollevò lo sguardo dal proprio boccale per contemplare i quattro amministratori, il suo vecchio rivale Daragus e i tre provenienti da Sirlptar, Phelodiir, Carthel e quello alto... Telabras, così si chiamava, e sentì l'ira che si destava di nuovo dentro di lui, com'era successo quando aveva appreso inizialmente la notizia. Posò il boccale, in modo che gli altri non notassero il tremito iroso che gli scuoteva la mano, pur sapendo di non poter celare in nessun modo il rossore che senza dubbio gli stava salendo al volto. «Ho appreso, da una fonte a corte di cui ho imparato a fidarmi...» esordì in tono secco. «Dicci chi è», interloquì Daragus, «perché se si tratta di un cortigiano degno di fiducia, senza dubbio è il primo della sua specie!». Belklarravus per poco non reagì all'interruzione con un urlo furente ma l'impulso passò in un istante e lui fu grato che gli altri si prendessero un momento per ridere della battuta, perché questo gli permise di ritrovare una certa misura di calma. Quando tornò a calare il silenzio, rivolse a tutti i presenti un sorriso pieno di tensione e ricominciò daccapo.
«Ho appreso, da una fonte a corte di cui ho imparato a fidarmi, che il re intende ripristinare la Baronia di Brightpennant, privando così Sart e Gilth della loro condizione di città indipendenti». «Città che perderebbero il loro tersept», mormorò Telabras. «Per cui sei deciso a impedire a ogni costo che questo accada». «Io... proprio così», farfugliò il Signore di Sart, adesso che altri avevano detto per lui le parole che era stato sul punto di pronunciare. «Signori, bisogna liberare la Valle da questo Re Ridestato!». L'eccitazione fece salire il suo tono al punto che quasi gridò quelle parole, che destarono una serie di echi dalle brocche; i suoi ospiti sedettero in silenzio, annuendo, poi Phelodiir di Sirlptar prese la parola. «Ecco», commentò in tono mite, «se non altro, questa è una dichiarazione d'intenti abbastanza esplicita da poterci mettere tutti al sicuro da qualsiasi accusa di "complottare di nascosto". Se dobbiamo parlare di tradimento, però, è meglio avere qualcosa di utile da dire: sarebbe un peccato finire disossati e inchiodati a morire al sole solo per aver pronunciato parole prive di contenuto concreto». «Allora facciamola finita con le dispute e le vane cortesie», dichiarò Daragus, in tono intenso, «e parliamo! Cominciamo da questo: la nascita di un'Aglirta governata da un re forte non può fare a meno di costituire un'effettiva minaccia per l'attuale prosperità e indipendenza di tutti noi. Siete d'accordo?». Intorno al tavolo ci furono parecchi cenni di assenso, poi il Tersept di Sart aprì la bocca per riprendere il controllo della conversazione, ma l'Amministratore di Gilth lo prevenne. «Ancora un momento, mio signore», disse. «Prima di cominciare a elaborare piani, valutiamo chi sono i giocatori che prendono parte a questa partita. Baroni e tersept in tutta la Valle si trovano nella nostra stessa posizione: detestano dover rinunciare al loro potere, e alle spade che hanno ai loro ordini, ma non osano dirlo apertamente o sfidare l'Isola della Corrente Spumosa. Tutti loro sono in attesa che si verifichi in qualche modo un evento che li liberi dal doversi sottomettere a Snowsar. Se forniamo loro l'occasione giusta, saranno pronti a coglierla». «E a far precipitare la Valle nella guerra e negli spargimenti di sangue», borbottò Telabras. «Senza dubbio», fu pronto a convenire Daragus, «ma è ancora presto per riflessioni del genere. Gli altri tradizionali giocatori sono i maghi, che ricadono in tre categorie: quelli troppo insignificanti per avere importanza,
quelli che non sono abbastanza forti per agire da soli, e che quindi si schierano con un barone o un tersept, e i pochi dotati di effettivo potere che siano sopravvissuti agli incantesimi letali dei Tre Oscuri agli ordini di Silvertree». «Questi ultimi sono Tharlorn il Tonante e Bodemmon Sarr», interloquì il Signore di Sart, «oltre a Embra Silvertree e a chiunque dei Tre che sia ancora vivo». «Oh, ma...» cominciò a protestare Carthel, ma fu interrotto dall'Amministratore di Gilth. «Ammettiamo che uno o più di essi possa essere ancora vivo», affermò con decisione Daragus, «e mettiamo nel conto anche qualsiasi mago straniero o che si sia tenuto nascosto e possa ora farsi avanti, e passiamo ad altri giocatori che non siamo altrettanto abituati a considerare: i sacerdoti del Serpente e i Senzafaccia». «Altre vuote leggende!» esclamò Phelodiir, sprezzante. «Adesso chi sta scivolando nelle favole da narrare accanto al fuoco?». L'Amministratore di Gilth lo trapassò con un'occhiata gelida. «Considera allora in questo ultimo gruppo di giocatori chiunque sia in possesso di un Dwaer, che si tratti o meno di un Koglaur. Considera anche che non conosciamo gli effettivi poteri dei Dwaerindim, ma che essi potrebbero essere effettivamente tanto vasti da conquistare il regno a favore di chi sia in grado di usare la maggior parte di essi». «Impadronirsi di Aglirta con una pietra magica che sta in una mano?» sbuffò il Signore di Sart. «Cerca di contenerti un po' di più nel bere, Daragus!». «I rapporti giunti da Indraevyn differiscono molto fra loro, ma tutti concordano sul fatto che interi edifici sono stati infranti e parecchi maghi uccisi nel tempo che un uomo impiega a trarre qualche respiro», ribatté Daragus, in tono secco. «E si è trattato di maghi che avevano a disposizione, già pronti, incantesimi con cui difendersi, e che si trovavano in una dichiarata situazione di pericolo. Prova ora a immaginare una Pietra del genere nelle mani di un uomo posizionato in un punto da cui può devastare un esercito in marcia, o un mago colto alla sprovvista... eh?». «Le tue sono parole sensate», convenne pacatamente l'Amministratore Telabras. «Che idea ti sei fatto dei sacerdoti del Serpente?». «Sono tiranni peggiori del re», rispose prontamente l'Amministratore di Gilth, «e costituiscono quindi alleati poco attraenti, ma se il loro potere dovesse continuare a crescere con questo ritmo, potrebbero risultare avver-
sari letali, o impossibili da tenere a lungo a bada». «Ecco, senza dubbio le tue parole mi rincuorano immensamente», commentò in tono sarcastico Phelodiir di Sirlptar. «Ammetto che hai identificato molto bene i giocatori a cui ci troviamo di fronte, ma in ciò che hai detto non ho sentito nulla che indichi una luminosa via verso la vittoria. Senza dubbio, devi avere in mente un piano». «No, amministratore, non ce l'ho», ammise Daragus, con voce incolore. «Piani sconsiderati di irrimediabili sognatori sono in parte ciò che ha dato a tutti noi anni di lotte fra baroni e che ha permesso ai maghi di diventare i capricciosi tiranni che noi tutti conosciamo. Non vedo un capo degno di tal nome per la Valle, e nessuno che abbia probabilità di vittoria, tranne forse i sacerdoti del Serpente. Vedo solo superstiti impegnati a raccogliere i pezzi, dopo che ci saremo fatti a pezzi a vicenda, ma nessun vincitore sul campo di battaglia o nel cuore degli Aglirtiani». «Quindi», affermò in tono pesante Carthel di Sirlptar, «abbiamo parlato tanto solo per ritrovarci adesso allo stesso punto in cui eravamo nel momento in cui abbiamo varcato la soglia della dimora del nostro buon Signore di Sart: preoccupati dallo stato in cui versa la Valle, decisi ad abbattere le avide pretese del re, ma senza che nessuno di noi abbia concordato un solo passo da muovere lungo quella strada. Quindi, miei signori, siamo esattamente nella stessa situazione in cui siamo rimasti per decine di anni: a guardare mentre la Valle viene fatta a pezzi da un conflitto dopo l'altro, mentre noi sogniamo ciò che potrebbe essere, e vediamo il nostro denaro e il nostro potere scivolare via...». «Non ho nessun piano grandioso», ammise Daragus. «Sono venuto qui nella speranza che il Signore di Sart ne avesse uno. Personalmente, ho troppe incertezze su quale possa essere il potere effettivo del re, e sto aspettando di vedere cosa succederà quando un barone oserà sfidarlo. Allora forse sapremo se chi ci governa è un leone, o soltanto una voce vuota, o qualcuno in grado di evocare lampi dalle leggende che lo hanno generato». «Sì, è troppo presto per dichiarare la nostra posizione», convenne Phelodiir, «ma decisamente non è troppo presto per effettuare i nostri preparativi... dovremmo concordare almeno su qualcosa, signori, altrimenti avremo sprecato il nostro tempo e corso un rischio inutile nel venire qui». «Benissimo», annuì il Tersept di Sart, protendendosi in avanti, «allora concordiamo su questo: fissiamo, qui e adesso, la data di un altro incontro, e nel tempo che trascorrerà fra oggi e quella data, elaboreremo i piani che potranno apparirci validi, per poi condividerli con gli altri quando ci ritro-
veremo. Nel frattempo, temo che qualsiasi araldo, inviato o messaggero regio che si dovesse presentare a Sart senza una scorta adeguata scomparirà nel nulla. Il tumulto creato dai decreti stessi del re e dalla mancanza di truppe legalizzate ha reso ultimamente le strade così pericolose, a causa dei briganti. Fatico a credere che il resto della Valle, come per esempio Gilth, o perfino Sirlptar, possa vantare una maggiore sicurezza. Dopo tutto, in Aglirta ci sono così tante persone che temono la mano di un re che conoscono a stento...». I tre uomini di Sirlptar ridacchiarono all'unisono. «Parole vellutate ma taglienti come una spada», mormorò Telabras, «e dolci quanto il canto di un buon menestrello. Dunque, dove ci incontreremo, la prossima volta?». «A Sirlptar», fu pronto ad affermare Daragus di Gilth. «Riunirsi là desterà minori sospetti, e sono certo che almeno tre fra noi hanno abbastanza potere da poter garantire che il luogo dell'incontro sia al sicuro da qualsiasi tentativo di spionaggio da parte del re. Rimane da stabilire il "quando"». Phelodiir di Sirlptar guardò verso il padrone di casa inarcando le sopracciglia in un silenzioso interrogativo, e quando il Tersept di Sart annuì in silenzio, prese la parola. «Allora, diciamo un mese a partire da oggi, la notte prima della Festa della Caduta del Drago, al piano superiore della locanda del Drago di Windmark, sulla Via di Semble. Provvederò perché ci riservino alcune stanze. La locanda è appena sotto la Torre delle Lanterne, sul lato della strada rivolto verso il mare, vicino al Cucchiaio di Orthil». «La conosco», affermò l'Amministratore di Gilth, posando il proprio boccale. «Allora siamo d'accordo?». «Possiamo congedarci», annuì formalmente il padrone di casa. «Siate ancora i benvenuti in questa dimora». «Dici sul serio?» mormorò l'Amministratore Carthel, mentre tutti si alzavano. Il Tersept di Sart lo fissò in silenzio per un momento, senza sorridere. «No, naturalmente no», rispose quindi, con calma. «No, non si sono lasciati alle spalle magie di sorta, mio signore», mormorò il mago, sollevando il volto madido di sudore. «Lasciaci soli», ingiunse in tono secco il Tersept di Sart, annuendo. Non appena lo strisciare della gruccia del vecchio mago fu sostituito dal tonfo profondo della porta d'ingresso che si chiudeva, il tersept si recò alla
finestra. Gli Amministratori di Sirl, insieme alla quarantina di dipendenti e guardie del corpo che li avevano accompagnati, stavano oltrepassando al trotto le porte d'ingresso in sella a splendidi destrieri, in mezzo a una nuvola di polvere. Glarsimber li guardò rimpicciolire in lontananza, fino a scomparire alla vista lungo la strada del fiume, prima di chiedere, rivolto alla stanza vuota: «Hai sentito?». Su una delle lucide credenze di legno scuro disposte lungo la parete di fondo della stanza era posata una grossa e polverosa ciotola di metallo lavorato, da cui ora emerse qualcosa, che si levò in silenzio nell'aria senza bisogno di ali o di mani che la sollevassero. Si trattava di una testa umana, recisa dal corpo ormai da abbastanza tempo da far sì che la carne che ancora aderiva al teschio apparisse chiazzata di grigio e di marrone, anche se il tempo trascorso non era ancora stato tanto da far sì che la mascella si staccasse. Con una sottile linea di saliva che colava dalla mandibola rilassata, la testa si girò verso il Tersept di Sart, le orbite che ardevano di una luce fredda e malvagia. Poi la mascella si mosse a vuoto per un istante, prima di serrarsi in un sorriso. «Sì, ho sentito più che abbastanza», sibilò il teschio. Il tersept annuì e non seppe che altro dire. Aveva temuto Ingryl Ambelter, il Maestro d'Incantesimi di Silvertree, quando era stato in vita, integro e residente nella lontana Silvertree, ma temeva infinitamente di più quella testa recisa che stava ora fluttuando a poca distanza da lui. Essa andava e veniva dalle rovine di Indraevyn, che si trovavano da qualche parte nella foresta, a est di Silvertree, con apparente facilità e più in fretta di qualsiasi falco, e pareva in grado di usare la magia a suo piacimento. La voce arida e gracchiante che scaturiva dal teschio del Maestro d'Incantesimi risuonò ancora, ora un po' più vicina a lui. «Quando ti presenterai a quella nuova riunione, a Sirlptar», consigliò il teschio, «cerca di mostrarti sorpreso allorché risulterà che ciascuno di voi ha elaborato un piano del tutto identico a quello degli altri». Il Tersept Glarsimber Belklarravus evitò di guardare verso la testa grigia quando essa fluttuò più vicina, il suo sorriso che si faceva più accentuato. Un gelido terrore gli stava serrando il cuore con dita sempre più strette, ed era troppo impegnato a tremare in maniera irrefrenabile... 7. Battaglie e corpi
Hawkril si guardò intorno, scrutando ogni singolo albero come se fosse stato un nemico che lo fissasse con la spada sguainata. «L'incantesimo non ti ha detto in che direzione si trovava la Pietra?» domandò. «No, non lo ha fatto», fu la succinta risposta di Embra. «È stato come una luce abbagliante, che mi ha accecata». «Quindi siamo quasi morti... per niente?» insistette l'armaragor, le folte sopracciglia che si aggrottavano in un'espressione accigliata. La maga emise un lungo sospiro e sedette sul pendio collinare coperto di muschio. Per i Tre, quanto era stanca! «Puoi dire che è così», ammise Embra. «D'altro canto, l'incantesimo ci ha indicato che siamo molto vicini a una delle Pietre che stiamo cercando, e che quasi certamente nelle vicinanze c'è anche qualche nemico del regno, perché non posso credere che uno qualsiasi dei Dwaerindim non sia ancora stato reclamato da qualcuno, o che chiunque sia in possesso di uno di essi, dopo tutte queste lotte, sia un amico del re, e non qualcuno che gli si oppone». L'armaragor annuì con un gesto secco, come se lei lo avesse rimproverato, batté i piedi contro il terreno, soppesò la spada che teneva in mano e si allontanò di qualche lungo passo, prima di girare sui tacchi e di tornare indietro. Embra intanto non accennò ad alzarsi, nonostante l'evidente irrequietezza di Hawkril e il senso di tensione che aleggiava sopra la collina. La Pietra le pulsava fra le mani, e tuttavia dall'espressione dei suoi compagni era evidente che essi si sentivano esattamente come lei, storditi o comunque mentalmente confusi, come un mago che avesse eseguito incantesimi per mezza giornata senza un attimo di riposo. Hawkril scoccò un'occhiata sospettosa in direzione degli alberi, poi girò su se stesso per guardare in tutte le direzioni. «Tutti gli incantesimi assorbono così tanta forza vitale, nell'essere eseguiti?» domandò lentamente. «Molti ne richiedono una quantità decisamente maggiore», replicò la Dama dei Gioielli, scrollando le spalle. «Questo ha avuto un effetto blando, perché l'ho modellato con la Pietra e l'ho fatto alimentare da voi tre soltanto dopo che era iniziato». «Cosa è stato, esattamente, quell'incantesimo?» insistette l'armaragor, accigliandosi.
«Un errore», ribatté Embra, in tono secco. «Ora taci», aggiunse poi, indicando. «Craer ha sentito qualcosa». Il procacciatore era accoccolato dietro il fogliame dell'albero più vicino, la testa abbassata sul terreno, la mano sollevata e pronta a dare un segnale, una posizione che aveva assunto già da parecchio tempo, mentre Sarasper stava risalendo lentamente la collina per guardare e ascoltare in un'altra direzione. Quel rilievo del terreno aveva qualcosa che pareva generare disagio, intorno a essa l'aria sembrava permeata di tensione, di una sensazione di allerta. Forse qualche nemico si trovava proprio dietro di loro in quel preciso momento, e si stava servendo di un Dwaer per nascondere la propria forma effettiva e sembrare un albero. O forse... Il braccio di Craer si abbassò di scatto e l'istante successivo il procacciatore si volse con una mossa repentina e spiccò la corsa su per la collina. «Uno zannelunghe!» gridò. «Grosso come un cavallo... no, più grosso!». «Dove?» ringhiò l'armaragor, mentre l'amico l'oltrepassava a precipizio, e si volse a fissare intensamente il punto in cui si era trovato Craer. Nella sua fretta di allontanarsi, il procacciatore aveva agitato i rami, che stavano ancora oscillando: essi si abbassarono, si risollevarono, frusciarono... e si spostarono di lato con violenza quando la bestia in caccia fece irruzione nella radura, davanti a loro, lasciandosi alle spalle una nuvola di foglie lacerate e strappate. «Lupo-ragno», così alcuni definivano quel predatore a causa del suo aspetto, anche se esso non era nessuna delle due cose. I suoi numerosi arti si muovevano come le zampe di un ragno, ma esso aveva il Pelo e la testa di un lupo, con fauci larghe quanto una porta. Questo, in particolare, era grande il doppio di come appariva Sarasper quando assumeva la sua forma di zannelunghe, e le sue irsute spalle grigie erano larghe tre volte quelle di Hawkril; possenti muscoli coperti di pelo grigio gli si contrassero lungo il dorso e il collo mentre esso si lanciava alla carica in un silenzio spettrale, dando l'impressione di fluttuare sul terreno invece di toccarlo, come una freccia che volasse abbastanza piano da poter essere seguita a occhio nudo, ma che fosse comunque troppo veloce perché la si potesse lasciare indietro. Ringhiando, Hawkril piantò saldamente i piedi per terra e brandì la lunga spada con entrambe le mani, tenendola bassa e dietro di sé; canticchiando senza parole, prese poi a farla oscillare avanti e indietro mentre aspettava che la bestia proseguisse la sua carica fino ad arrivare dove avrebbe po-
tuto colpirla. Craer intanto si era fermato, con il respiro affannoso, e stava estraendo le daghe che teneva affibbiate un po' dovunque sulla persona, fino ad averne tre di riserva in una mano e una quarta pronta al lancio nell'altra. Gli occhi dello zannelunghe erano freddi e letali punti bianchi, in essi non c'era traccia del bagliore dorato che avrebbe dovuto illuminarli, e nel notarlo Embra lanciò un grido di avvertimento a Sarasper, perché si tenesse pronto a operare con la magia, mentre già il mostro si lanciava su per la collina e si scagliava contro Hawkril. Stranamente, lo zannelunghe non cercò in nessun modo di evitare la sua spada, e incassò invece senza rallentare o sussultare un violento fendente che gli accorciò due zampe e gli lacerò il petto, catapultando all'indietro il guerriero in armatura. Un fiotto di rovente sangue nero inzuppò Hawkril e si riversò fumante sul muschio mentre lo zannelunghe si avvinghiava all'armaragor e rotolava più volte su se stesso, tentando di aprirsi un varco a morsi attraverso l'armatura. Craer si lanciò in avanti e conficcò una daga fino all'elsa nel corpo della belva, servendosene come di un appiglio per arrivare al collo della bestia, tenendosi poi aggrappato a esso con la forza della disperazione, incapace di raggiungere l'occhio in cui era stata sua intenzione conficcare la seconda daga. Mentre affondava le dita nella pelliccia fetida e serrava i denti in mezzo a un caos di ruggiti e di zanne che schioccavano, il procacciatore gridò ad alta voce quello che stava pensando. «È come se questa bestia non sapesse come si deve comportare uno zannelunghe!». «Lo sta... facendo... abbastanza bene», annaspò ringhiando Hawkril, da un punto imprecisato sotto la belva, il respiro affannoso a causa del peso che gli si dibatteva addosso. Embra intanto aveva mormorato qualcosa tenendo in mano la Pietra, e stava ora aspettando di vedere il risultato del suo operato. Sporgenze ossee che avevano la forma di spine gigantesche si diramavano da tutte le articolazioni della belva, con la sola eccezione dei due arti anteriori, che terminavano con altrettante piccole fauci. Quel particolare zannelunghe era talmente grosso che le sue «piccole» fauci secondarie erano più grosse della testa di Craer, e adesso uno di quegli arti si stava protendendo al di sopra della testa della bestia, in modo che la bocca potesse azzannare l'uomo aggrappato sul suo dorso. Craer si ritrasse con un sussulto, cercando di trapassare con la daga quel-
le fauci furiose. In basso, alcuni brontolii ringhianti gli dissero che anche Hawkril stava cercando di fare qualcosa, e Sarasper gli passò accanto di corsa con la spada in pugno con l'intento evidente di portarsi alle spalle della belva, ma il procacciatore non ebbe il tempo di vedere altro perché anche le fauci del secondo arto anteriore si stavano protendendo verso di lui! A quanto pareva, lo zannelunghe stava abbandonando, almeno per il momento, il tentativo di aprirsi un varco a forza di morsi attraverso l'armatura di Hawkril e stava cercando invece di rimuovere l'irritante presenza che gli feriva il dorso. Schivando freneticamente da un lato per allontanarsi dalle zanne che stavano piombando su di lui, Craer avvertì un dolore bruciante e un senso di umidità quando un dente gli lacerò l'avambraccio, tagliando la consunta manica di cuoio come se fosse stata un velo di nebbia. Il procacciatore si allontanò con una contorsione da quelle fauci, ma l'istante successivo vide l'altro arto che si sollevava, le zanne che schioccavano e addentavano l'aria in procinto di abbattersi su di lui con la forza di un ariete... Non sarebbe riuscito a evitarle, sarebbe stato... All'ultimo momento, appena prima di colpire, quelle fauci si spalancarono in maniera impossibile: al loro interno, le zanne stavano crescendo e si stavano ripiegando verso l'interno nell'allungarsi con una rapidità incredibile. Cosa stava succedendo? Com'era possibile... Le fauci calarono su di lui e le zanne cozzarono le une contro le altre proprio davanti al suo volto, incastrandosi fra loro in un groviglio che si andò facendo sempre più intricato a vista d'occhio, mentre intanto i denti continuavano a crescere. Lo zannelunghe rivolse al mondo un ruggito di sorpresa e agitò gli arti anteriori. Quando questo non servì a nulla, provò a sbattere le fauci secondarie le une contro le altre in un crescendo di rabbia e di frustrazione, nel tentativo di scrollarsi di dosso ciò che le stava bloccando in posizione semichiusa, qualsiasi cosa fosse. Adesso le due lucenti foreste di zanne si erano trasformate in altrettanti grovigli indistricabili, e le due fauci secondarie erano bloccate irrimediabilmente, ma la testa dello zannelunghe, con le sue ben più grandi fauci ringhianti, non era per nulla influenzata da quello strano fenomeno. Paura e frustrazione echeggiarono insieme alla furia nel ruggire della belva; in mezzo a quel tumulto stridente, Craer colse la risata trionfante di Embra e comprese come gli avesse salvato la vita. Intanto lo zannelunghe s'impennò, come una montagna che avesse improvvisamente deciso di toc-
care le nuvole, poi abbassò la testa di scatto per mordere, scrollandosi così di dosso il procacciatore, impotente a mantenere la presa. Craer stava ancora sobbalzando e rotolando in mezzo a una nuvola di muschio divelto, tuttora aggrappato disperatamente all'impugnatura della daga nel venire trascinato lungo il pendio collinare dal movimento della testa della bestia, quando sentì Hawkril imprecare debolmente da un punto imprecisato sotto lo zannelunghe... parole ringhianti che terminarono con un suono umido e gorgogliante. «Hawk?» chiamò il procacciatore, issandosi di nuovo a forza di calci sul collo irsuto della bestia e schivando prontamente lungo il suo lato opposto per evitare di essere martellato dalle fauci secondarie che si agitavano furiosamente. Il pelo della bestia presentava lucide chiazze rosse in più di un punto, e in quel momento Craer sentì Sarasper emettere un grugnito da cui dedusse che il guaritore doveva aver vibrato con la spada un colpo molto forte, colpendo qualcosa di duro con un impatto che gli aveva quasi intorpidito le mani. Afferrando un'altra delle sue daghe, Craer si ripiegò quasi su se stesso, appallottolandosi sul collo che stava tornando a sollevarsi, e gridò ancora: «Hawk!». Da qualche parte, sotto la sobbalzante massa pelosa, l'armaragor gemette. Craer affondò in profondità l'altra daga, quella a cui non era aggrappato, e la sentì colpire un osso, poi vide scaturire dalla ferita un fiotto di sangue nero che gli bruciò la mano prima che gli riuscisse di estrarre la lama. Il suo amico era ferito, e... Qualcosa si abbatté su di lui con tanta forza che per un momento i suoi occhi videro soltanto oscurità solcata da una manciata di stelle ammiccanti, prima che il mondo tornasse ad apparire, offuscato, davanti ai suoi occhi. Sbattendo le palpebre, riuscì a liberare gli occhi dalle lacrime quanto bastava per essere in grado di scorgere qualcosa di grosso e di scuro che incombeva su di lui, prima di incassare un altro colpo, tanto violento da fargli tremare i denti, mentre veniva strappato via dalla daga a cui era aggrappato e scagliato lontano da un peloso arto anteriore, il cui impatto gli ruppe una costola. Un intenso dolore gli trapassò il fianco destro, una fitta che si fece ancora più acuta quando atterrò al suolo, scivolando attraverso il muschio cedevole fino ad arrestarsi starnutendo, il mento affondato nel terriccio umido, a metà del pendio della collina. Embra stava gridando qualcosa, con voce resa acuta dalla paura e dal senso di urgenza, e da un punto dietro le sue spalle Craer sentì giungere
l'orribile suono crocchiante dello zannelunghe che mordeva qualcosa che stentava a cedere sotto le sue fauci, come un cane che rosicchiasse un osso. Senza dubbio, si trattava dell'armatura di Hawkril. Craer si rialzò in piedi con un sussulto di dolore, segno indubbio che doveva di certo essersi rotto una costola, o aver riportato un danno anche più grave, e si piegò su se stesso con una lunga imprecazione sibilante; serrando i denti per trovare la forza di affrontare ciò che doveva fare, estrasse dallo stivale uno dei suoi lunghi coltelli. Lo zannelunghe stava gettando indietro la testa per fare a pezzi qualcosa, e per un angoscioso momento Craer credette che fosse una delle gambe di Hawkril; poi però vide i brandelli di stoffa e il metallo ammaccato, e comprese che era soltanto un gambale della preziosa armatura dell'amico, al cui interno non c'era però anche la sua gamba. Hawkril giaceva disteso al suolo sotto il lupo-ragno, immobile e coperto di sangue, lo sguardo fisso verso il cielo. «I Tre ci preservino!» annaspò Craer, e spiccò una corsa barcollante, pungolato dalla disperazione. Embra aveva le mani allargate, e in mezzo a esse era possibile vedere una scintillante scia di luce che fluttuava dall'una all'altra con l'esaurirsi del suo ultimo incantesimo. Di qualsiasi cosa si fosse trattato, lo zannelunghe non pareva averne risentito per nulla; mentre correva, Craer vide Embra lanciarsi in avanti e porsi sotto la testa che stava calando verso il basso, offrendo se stessa a quelle fauci fameliche per impedire che azzannassero il corpo esposto e indifeso di Hawkril. Accoccolato poco lontano, Sarasper stava estraendo con fretta febbrile una miriade di piccoli oggetti dall'interno dei propri abiti, spargendoli al suolo davanti a sé: evidentemente stava cercando il necessario per intessere un incantesimo, ma avrebbe fatto in tempo? Craer sapeva che un certo procacciatore in corsa non avrebbe mai fatto in tempo, anche ammesso che un sottile coltello lungo trenta centimetri fosse stato in grado di fermare con un solo colpo quella creatura divoratrice di uomini. La testa dello zannelunghe scattò verso il basso, ma Embra si spostò prontamente di lato, in modo da guidare la sua testa lontano dall'armaragor svenuto. «Dei», ansimò Craer, «salvateci da questa... da questa cosa!». Senza lasciare ai Tre il tempo di rispondere alla sua preghiera, si lanciò quindi verso il collo dello zannelunghe e vi affondò fino all'elsa la daga
che aveva in pugno. La bestia emise un ruggito di dolore che quasi lo assordò e girò selvaggiamente la testa nella sua direzione; Caer si trovava però dietro le sue fauci, proprio accanto al lato della testa sussultante, e là rimase, spostandosi con essa in modo da impedirle di raggiungerlo mentre continuava a colpire. Rendendosi conto che stava calpestando Hawkril sotto i propri stivali, Craer sentì l'ira salire a serrargli la gola, strappandogli un urlo furente, ma continuò a colpire senza sosta fino a essere quasi accecato dal sudore, finché il dolore al fianco gli strappò un singhiozzo. Contemporaneamente, prese a percuotere lo zannelunghe anche con il pugno ogni volta che gli era possibile, e si spostò con esso quando la bestia si lasciò alle spalle l'armaragor svenuto, spinse da un lato l'annaspante Embra e cercò di sbattere a terra quell'irritante ometto saltellante che non cessava di tormentarla... Inginocchiato non molto lontano, Sarasper Codelmer trovò le tre piccole statuette che stava cercando, e che erano gli ultimi pezzi rimasti della scorta di oggettini magici che aveva prelevato nella Casa Silenziosa. Dopo aver riposto di nuovo due di esse nella sacca che portava alla cintura, si tolse di bocca un pezzo di nastro che aveva scovato in precedenza e lo legò intorno alla statuetta con dita tremanti, tenendo d'occhio l'incombente zannelunghe, le cui zampe pelose persistevano nell'abbattersi al suolo molto vicine a lui. Dietro sua insistenza, tutti i membri della Banda dei Quattro avevano leccato una volta quel nastro, lasciando su di esso tracce di loro stessi. Se la Signora dalle Corna lo avesse voluto, adesso un incantesimo che riteneva di ricordare integralmente gli avrebbe permesso di allontanare la banda di eroi del re, che dopo tutto non era poi così potente, per i Tre, dall'immediato e pressante pericolo costituito da quella bestia delle foreste trasferendola a chilometri e chilometri di distanza, dall'altra parte di Aglirta, in un batter d'occhio, fino alla sua camera preferita all'interno della Casa Silenziosa, la stessa che era stata per lungo tempo il suo covo quando si era tenuto nascosto al mondo nella forma di uno zannelunghe. Concedendosi un cupo sorriso in reazione a quel pensiero, Sarasper sollevò la statuetta e mormorò un incantesimo che parve affluirgli nella mente scaturendo da un accogliente angolo della memoria, come se fosse stato in attesa di erompere da dietro una porta che lui aveva tenuto chiusa troppo a lungo. Un calore improvviso gli si riversò in tutto il corpo in un flusso formicolante che gli corse lungo le braccia e sul volto, mentre un bagliore luminoso gli filtrava dagli occhi e dalla bocca come una pioggia di scintille e lui
si protendeva verso l'alto e verso l'esterno... Sarasper sibilò le ultime parole dell'incantesimo e allargò le braccia per permettere alla magia di fluire ancora meglio verso l'esterno; il suo potere lo percorse, rovente, aggredendogli i visceri e facendolo tremare sull'orlo oscuro dell'oblio, mentre il lieve pendio coperto di muschio pareva sollevarsi per venirgli incontro... Un istante prima che la sua faccia affondasse nel terreno, il mondo circostante vorticò attraverso un velo improvviso di oscurità e di luci lampeggianti, e d'un tratto lui si trovò altrove, con un pavimento di pietra umida sotto le ginocchia e la polvere che gli solleticava il naso, un attimo prima di crollare prono su quella fredda superficie dura e di scivolare dolorosamente in avanti. Quando girò la testa da un lato, con la vista ancora offuscata, una massa grigia si sollevò nella luce fioca e familiare della caverna, e un nuovo ruggito di dolore gli aggredì gli orecchi. Un ruggito bestiale, che quasi soffocò le sommesse, affannose imprecazioni di Craer. Sarasper era di nuovo nella Casa Silenziosa, e con lui vi erano tornati anche i suoi compagni. Purtroppo, in qualche modo il suo incantesimo aveva trasportato là con loro anche lo zannelunghe. I cortigiani preferiscono vivere nel lusso, il che richiede appartamenti sontuosi, alloggi per la servitù a una discreta distanza da essi, sale per i banchetti e altre camere grandiose, e una quantità adeguata di cucine, dispense e cantine dei vini; peraltro, quando il re a cui devono prestare obbedienza, saggi consigli e occhi vigili che lo tutelino non dispone di un numero elevato di guerrieri su cui fare affidamento, tali esigenze non comprendono anche chilometri e chilometri di alloggiamenti di fredda pietra infestati da ratti e ragni, armerie e corridoi. Di conseguenza, gran parte di quelli che erano stati i livelli inferiori del Castello di Silvertree prima del ritorno del Re Ridestato, erano adesso una distesa buia e silenziosa, isolata dietro porte che non venivano mai aperte, un'area libera da torce e lanterne, e da cauti umani che le reggessero, abbandonata al dominio di minuscole creature furtive e dei pazienti serpenti striscianti che davano loro la caccia. In una di quelle stanze, resa ancora più oscura dei passaggi circostanti dagli splendidi pannelli di legno scuro che la rivestivano, qualcosa apparve improvvisamente nell'aria. Si trattava di qualcosa di rotondo e sogghignante, che fluttuò spettrale nell'aria nel ruotare su se stesso alla ricerca di eventuali nemici, senza però scorgere nulla che potesse minacciarlo.
Quella cosa era una testa umana recisa, un teschio rivestito di carne grigia e putrida, con le orbite vuote che emanavano una luce vitale fredda e malvagia. «Bene, bene», commentò la testa, rivolta alla vuota oscurità circostante, «non è un benvenuto degno di essere cantato da qualche menestrello, ma è un'accoglienza adeguata per il ritorno a casa dell'orrore». La mascella si contrasse per un momento in una silenziosa risata, mentre la testa girava ancora una volta su se stessa per esaminare la camera, trovava su un alto scaffale ciò che stava cercando e fluttuava verso di esso. Erano proprio dove e come li aveva lasciati: gli scettri incantati, inquieti e mai ultimati, realizzati dal folle mago Ladazzur di Arlund. Completarli era stato uno dei progetti per cui l'impegnato Maestro d'Incantesimi non era mai riuscito a trovare abbastanza tempo. Ah, bene, adesso non sarebbero mai stati completati. La testa fluttuante di Ingryl Ambelter si librò al di sopra dei due scettri d'argento intarsiato e sibilò una parola che parve strisciare nell'impronunciabilità per poi tornare ad emergerne. Un fuoco verde si accese nei cristalli racchiusi in quei foderi d'argento, prese ad ammiccare e a pulsare per poi scorrere in due linee di fuoco freddo per tutta la lunghezza dei sottili, incompiuti capolavori di Ladazzur. Contemporaneamente, le luci spettrali che ardevano nelle orbite del teschio parvero farsi più intense mentre esso mormorava qualcosa all'indirizzo degli scettri e poi spalancava la bocca per accogliere dentro di sé l'improvvisa ondata sempre più intensa di fuoco verde che scaturiva dall'argento, a mano a mano che esso scuriva e si sgretolava. Il fuoco verde avviluppò il teschio sogghignante, strinando il soffitto, mentre gli scettri si riducevano in cenere, poi Ingryl si allontanò dalla parete e scese fino a portarsi alla stessa altezza dal pavimento a cui la sua testa si era trovata quando era in vita. Là rimase sospeso mentre il fuoco verde si dissolveva in pallide volute di nebbia, o forse di fumo, e defluiva dal teschio per riversarsi sul pavimento, dove si raccolse su se stesso per tornare ad ascendere. Per un lungo, silenzioso periodo di tempo, le lingue di fiamma continuarono a salire e a scendere in una colonna contorta che rimpicciolì progressivamente e parve qua e là compattarsi fino a diventare solida. Poi quella solidità prese a diffondersi, modellando spalle e gomiti, fino a quando un'ultima voluta di nebbia svanì nell'aria e un corpo spettrale rimase sospeso sotto il teschio. Quel corpo mosse i suoi primi passi esitanti, i
piedi privi di dita che strisciavano sulle pietre polverose, le gambe che ribollivano e, per un momento, sembravano perdere la loro forma. Il teschio scese verso il basso, poi tornò a risollevarsi a mano a mano che il corpo sottostante si faceva più alto e oscuro. Nebbie spettrali ammantarono il teschio di una pelle che non nascondeva nulla del putrescente grigiore sottostante, delle chiazze di osso messe a nudo o delle fredde luci che ardevano dove ci sarebbero dovuti essere gli occhi. Il nuovo corpo di Ingryl rabbrividì, barcollò con l'assestarsi del peso sempre più accentuato, e trasse il suo primo respiro. Il Maestro d'Incantesimi lo utilizzò per sospirare, sonoramente e a lungo, nel ricordare il suo vero corpo devastato che giaceva raggomitolato e contorto in una buia grotta fluviale, sopra un ammasso di rocce, di lame arrugginite e di numerosi oggetti incantati che lo avevano tenuto in vita quando sarebbe dovuto morire. Un corpo infranto e putrescente, privo delle mani e dei piedi, in quanto una mano era stata staccata dall'esplosione e il resto era stato divorato dai granchi e dalle anguille del Fiumargento. Adesso quel corpo era anche privo della testa... era storia passata. Quando ne avesse avuto bisogno, avrebbe rintracciato quella caverna a causa degli oggetti magici che conteneva, ma per adesso doveva rendere effettivamente vivo e integro questo suo nuovo corpo intessuto con la magia: per farlo, avrebbe dovuto divorare la sua stessa carne, utilizzando il contenuto magico di una fiala di elisir nascosta con cura molto tempo prima non lontano da lì, nelle cantine del castello. Poi sarebbe giunto il momento di fare visita al suo maestro di un tempo, per acquisire la vitalità di cui aveva bisogno. Non gli sarebbe convenuto essere scoperto proprio adesso, quando era ancora barcollante e vulnerabile. Costringendosi a reprimere la propria impazienza, Ingryl impose a quel primo, debole abbozzo di un nuovo corpo di muoversi lentamente, con cautela; il suo primo atto fu quello di addossarsi al muro, in un angolo in cui due pareti si congiungevano, mentre il secondo fu quello di costringere a poco a poco la propria essenza a diffondersi fino alla punta di ciascun dito della sua nuova forma tremante, in modo da renderla veramente sua. Più avanti erano in attesa porte che si sarebbero aperte soltanto in risposta al tocco di Ingryl Ambelter, per non parlare delle numerose trappole... Il pavimento era chiazzato da un po' di cenere sparsa su di esso, la cui
vista indusse le labbra di Ingryl a contrarsi in un sorriso privo di divertimento: dunque il barone aveva mandato una guardia impotente perché cercasse di infrangere la protezione magica, poi ne aveva fatto trascinare via i resti. Di nuovo. I baroni erano degli idioti così brutali e prevedibili! Ingryl baciò la porta di pietra in un punto preciso, mormorò una parola che aveva senso e pronunciò a voce leggermente più alta una seconda che non ne aveva, poi posò la mano sul battente in un altro punto specifico. La porta scomparve e nei pochi istanti a disposizione prima che tornasse a solidificarsi, il Maestro d'Incantesimi ne varcò la soglia, avanzando attraverso il tendaggio appeso dietro di essa. Detestava quel contatto umido e viscido, ma quella era una barriera necessaria: reti a cui erano appesi, fitti come una tenda, piccoli vermi striscianti, pallidi e bulbosi come larve gigantesche, con le estremità che si contraevano in un perenne sondaggio di quanto le circondava. Quelli erano i suoi piccoli guardiani striscianti, la sostanza viscida che emettevano era innocua per lui ma sarebbe risultata mortale per chiunque altro; pazienti e letali come il loro padrone, essi erano ancora vivi dopo tutto quel tempo. Al di là del tendaggio c'era una piccola camera di pietra scura, le cui pareti erano coperte da scaffali carichi di vecchi scrigni malconci. Uno di essi conteneva pozioni e libri d'incantesimi, tutti gli altri erano pieni di cose scheletriche pronte ad afferrare chiunque fosse stato tanto stolto da aprirli. Nel centro, c'era un basso tavolo su cui era adagiata una bara, e toccare entrambi avrebbe generato una scarica di energia nella mano di chiunque non fosse Ingryl Ambelter. Fugacemente, il Maestro d'Incantesimi si chiese se il barone si fosse mai reso conto di chi effettivamente governava il Castello di Silvertree, dietro le sue spalle. Se non si affrettava, però, non sarebbe mai più tornato a essere Ingryl Ambelter, come segnalava la rovente agonia che gli stava insorgendo nel petto e che rendeva rantolante ogni suo respiro. Sollevato il coperchio della bara, Ingryl Ambelter abbassò lo sguardo sullo scheletro adagiato all'interno, poi posò le mani sui tre robusti sostegni incrociati che avrebbero retto il suo peso. Le pecche nella magia da lui intessuta, o forse i danni che il tempo aveva recato agli scettri di Ladazzur, erano maggiori di quanto aveva supposto, al punto che lo sforzo di arrampicarsi sul tavolo e di adagiarsi nella bara lo lasciò tremante. Adagiato sui sostegni che gli impedivano di schiacciare le ossa disposte sotto di lui, Ingryl abbracciò lo scheletro e annaspò un incantesimo con voce rauca.
Una luce spettrale si accese nelle ossa e prese a pulsare su di esse, riversandosi sul Maestro d'Incantesimi prima di dissolversi. Immobile, Ingryl rimase disteso ad ascoltare i suoni appena percepibili che accompagnarono lo sgretolarsi di un dito, che si staccò dallo scheletro e cadde sul fondo della bara, e infine sorrise. Era di nuovo integro e vigoroso. In guardia, gente della Valle, Ingryl Ambelter stava per tornare! O almeno lo avrebbe fatto, non appena si fosse rialzato da quella bara. Ingryl ne emerse con mosse lente e caute, e quando ebbe finito sostò a contemplare in silenzio le ossa di Gadaster Mulkyn, il più famoso e, finora, il più temuto fra i maghi di Silvertree. A parte lui, nessuno sapeva che Gadaster giacesse laggiù... o quale fosse stata in effetti la sua sorte. Dopo un momento, però, il Maestro d'Incantesimi s'irrigidì. «Un raduno magico intorno al mio... portale di Sirl?» si chiese lentamente, poi inarcò un sopracciglio e aggiunse: «Ti ringrazio, Gadaster». Nell'allontanarsi, si trovò a ricordare la sequenza di incantesimi che aveva forgiato per rubare il potere di Gadaster (e infine anche la sua vita) senza che nessuno se ne fosse accorto, incluso lo stesso Gadaster: un risultato soddisfacente, e tuttora segreto, una brillante operazione di magia di cui non avrebbe mai osato parlare con nessuno. Ah, bene. A giudicare dalla situazione, era di nuovo il momento di effettuare altri brillanti incantesimi. 8. La dimora di uno spadaccino è il suo castello Il lupo-ragno torreggiava su di lei. Embra allargò le mani vuote, consapevole che non sarebbe riuscita a intessere in tempo nessun incantesimo e schivò da un lato, i capelli che le volteggiavano selvaggi intorno alle spalle mentre si guardava intorno nel tentativo di trovare una via d'uscita e di determinare dove fossero i suoi compagni. Conosceva quella stanza: erano di nuovo nella Casa Silenziosa, trascinati là dal disperato incantesimo di Sarasper. Hawkril giaceva inanimato nella sua armatura rosicchiata, Craer stava saettando intorno agli arti pelosi, lacerando e trapassando con un lungo coltello, e Sarasper era accasciato a ridosso di un muro, cinereo in volto. Quanto al prezioso Dwaer di Embra, esso si trovava ora da qualche parte nelle interiora del lupo-ragno, che lo aveva inghiottito quando aveva cerca-
to di azzannare il suo braccio proteso, sulla collina. La Banda dei Quattro non era in condizione di vincere quella battaglia. «Fuggiamo!» gridò la maga, più per appurare le condizioni di Sarasper che per qualsiasi altro motivo. Il guaritore era accasciato contro il muro, con gli occhi chiusi, ma le sue labbra si stavano muovendo. Embra si sforzò di cogliere le sue parole, ma... «Barcolliamo, vorrai dire», le gridò di rimando Craer. Un momento più tardi, Embra lo sentì grugnire di dolore quando un arto dello zannelunghe lo centrò in pieno, gettandolo al suolo e facendo volare lontano il coltello. Il procacciatore rotolò una volta su se stesso, poi prese a dondolarsi avanti e indietro, gemendo e contorcendosi di dolore sul freddo pavimento di pietra. Con un ringhio trionfante, lo zannelunghe prese ad avanzare verso di lui. Senza riflettere, Embra spiccò la corsa verso la belva, agitando le braccia. La testa irsuta si sollevò e distolse lo sguardo dal procacciatore abbattuto per fissarlo su di lei, con un bagliore avido nelle pupille dorate. Nell'incontrare il suo, poi, quello sguardo ferino si trasformò in un luccichio bianco, fino a quando lei si trovò a fissare di nuovo quelle spettrali pupille letali generate dalla magia. Con un ringhio profondo lo zannelunghe si lanciò verso di lei. Embra si accigliò. Il dolore delle ferite da loro inflitte alla bestia doveva aver allentato la presa che il mago scheletrico aveva su di essa, per cui adesso la creatura tornava a tratti a essere uno zannelunghe a caccia prima di ricadere succube di un mago che stava sopravvivendo alla morte per sforzarsi di controllarlo. In quel preciso momento, il mago stava dirigendo la mente furiosa del lupo-ragno, cosa per cui Embra ritenne di dover essere grata, dato che proprio grazie al mago, lo zannelunghe stava avanzando verso di lei invece di piombare su Hawkril o su Craer per staccare loro la testa in modo da garantire che fossero morti, o per nutrirsi. Embra prese a indietreggiare davanti alla belva, gridando parole di sfida, poi si girò e spiccò la corsa. Se non fosse riuscita a raggiungere in tempo la sacca di Sarasper... «Signora», sibilò il vecchio guaritore a denti stretti, la faccia una maschera di sudore, «torna indietro. Dammi tempo!». Una delle sue braccia era già più lunga di quanto sarebbe dovuta essere e aveva assunto uno strano colore giallastro; uno strato di pelliccia grigia cominciava a spuntare sull'arto, che si andò facendo sempre più spesso mentre Embra correva verso il vecchio.
«No, Sarasper!» esclamò. «È grosso il doppio di te... sempre che tu riesca a modellare delle zanne prima che ti sbrani». Sarasper scosse il capo come per allontanare le sue parole, mentre un tremito lo percorreva in tutto il corpo; poi, mentre già Embra si protendeva ad afferrare la sua sacca, il vecchio guaritore rovesciò gli occhi all'indietro nelle orbite, rilassò la bocca e crollò da un lato, trascinandola con sé. Disperatamente, Embra strisciò fino a portarsi sopra Sarasper, frugando contemporaneamente con la sola guida del tatto nella sacca intrappolata fra i loro corpi. Sarasper non aveva avuto il tempo di cambiare forma, ma del resto anche lei non aveva in realtà quello necessario per modellare un qualsiasi incantesimo di guerra. Come diceva la vecchia ballata, «troppo poco tempo e troppa necessità». Quando già stava sospirando per l'esasperazione, le sue dita si chiusero intorno alla forma liscia e dura di una delle statuette e lei la strinse con forza prima di allontanarsi rotolando, senza curarsi se così facendo riduceva la sacca a brandelli. Lo zannelunghe incombette su di lei, gli occhi che erano ancora due freddi e crudeli punti di luce, le fauci grondanti di bava che si stavano spalancando. Le fauci secondarie, che erano adesso due pugni irti di ridicoli denti troppo lunghi e spezzati, erano levate in aria come randelli, pronte ad abbattersi su di lei. Embra continuò a rotolare, cercando di oltrepassare la creatura prima che essa potesse schiacciarla contro le pietre del suo stesso palazzo, anche se sapeva che sarebbe stato impossibile riuscire a portarsi fuori tiro in tempo. Il pavimento le rimbombò accanto, e lei sentì un improvviso dolore bruciante al cuoio capelluto quando il suo frenetico rotolare le strappò alcuni capelli trattenuti dalle forcine. Una pioggia di schegge di zanne le cadde sulla faccia quando le fauci secondarie rimbalzarono nello sferrare il loro colpo possente, poi il lupo-ragno si volse direttamente verso di lei, le grandi fauci spalancate che si abbassavano... Embra conosceva a malapena altre sei stanze di quella casa, oltre a quella in cui si trovava, e non sapeva quasi nulla delle trappole ancora attive nella Casa Silenziosa. Sarasper era il solo che ne potesse utilizzare le difese contro la bestia, e giaceva privo di sensi, o addirittura morto, proprio dietro di lei, quindi adesso toccava alla Dama dei Gioielli sconfiggere quella belva che poteva sbranarli tutti fino a ridurli a un ammasso di sangue e di ossa.
Toccava sempre alla dannata Dama dei Gioielli. Embra non si rese conto di aver gridato quelle parole finché la voce di Craer non scaturì sarcastica dall'oscurità, sul lato opposto dello zannelunghe. «È ovvio. Alcune persone ci mettono così tanto ad assimilare le piccole lezioni della vita!». Il susseguirsi di furenti imprecazioni che lei gli urlò contro destò echi tutt'intorno a loro. Senza badare al procacciatore, che si era rialzato in piedi e aveva ripreso a colpirlo, il lupo-ragno continuò a braccare Embra, e quando lei rotolò dietro una colonna, si abbatté contro di essa come se non l'avesse neppure vista. Il pilastro era spesso più di un metro, e aveva sorretto per secoli l'alta volta della sala. La fine rete di crepe che si diramava attraverso le rune incise sulla sua superficie non accennò ad allargarsi allorché l'intera stanza tremò per l'impatto e la polvere piovve dall'alto in spesse nubi, né la colonna accennò a muoversi di un centimetro. Ruggendo di dolore, lo zannelunghe si allontanò barcollando, alla ricerca di un modo per aggirare la colonna e azzannare la maga che continuava a schivare e a rotolare. Embra aveva ancora gli arti intatti e continuava a stringere in mano la statuetta, ma non riusciva ad avere neppure il tempo per respirare, tanto meno quello per richiamare alla mente un incantesimo ed eseguirlo. Ruggendo a sua volta di rabbia, si rialzò in piedi e spiccò la corsa, le grandi fauci della bestia che si chiudevano nell'aria con uno schiocco sonoro a poca distanza dalla sua schiena. «Lady Embra!» chiamò Craer, da un punto lontano sulla sua destra. «La tua magia può risanare? Usa la Pietra!». Lo zannelunghe si abbatté contro un'altra colonna e percosse il pavimento di pietra accanto a Embra con le inutili fauci secondarie. «È dentro la bestia!» gridò di rimando Embra, spostandosi di lato con un balzo. «Hawk è ferito, vero?». La risposta del procacciatore la sorprese. «È in brutte condizioni», replicò Craer, dopo aver borbottato qualche imprecazione, «ma abbiamo maggior bisogno di Sarasper. Io sono in grado di ripercorrere la strada che abbiamo usato per venire qui da Adeln, ma non so come raggiungerla da questa stanza... e quest'estremità della Casa è tutta una trappola!». «Per gli artigli dell'Oscuro», ringhiò Embra. «Possibile che niente giochi a nostro vantaggio?».
«Se tutto funzionasse a dovere, dove andrebbe a finire la nostra avventura?» replicò allegramente il procacciatore. «E il nostro eroismo? Che ne sarebbe delle imprese della Banda dei Quattro, glorioso materiale per i canti dei bardi?». «Craer», borbottò Embra, in tono affannoso, nel salire di corsa la breve rampa di gradini che portava a una balconata, la cui ringhiera si era infranta già da tempo, «i bardi sono disposti a cantare di qualsiasi cosa. Se pure non facessimo nulla, penserebbero loro a inventare qualcosa!». Ci fu uno stridere di zanne contro la pietra quando una delle fauci secondarie cercò di farle perdere l'equilibrio. «Preferirei vederli tutti qui, adesso, per aiutarci a combattere contro questa cosa», aggiunse Embra, gettandosi a ridosso delle pietre irregolari, dove un buco si era aperto nella parete della balconata, in modo da allontanarsi il più possibile dalle fauci della bestia. «Signora, ricordi quando hai evocato quel drago della notte, nelle rovine, quando eri sotto controllo magico?» le gridò Craer. «Potresti rifarlo adesso, e far volare il drago nella gola di quella bestia?». «Che sargh di idea, Craer», quasi stridette Embra. «Ci vuole un'eternità per...». Controllato dal mago, lo zannelunghe stava cercando di issarsi sulla balconata, nella convinzione di averla intrappolata, e le pietre sgretolate, indebolite da anni di infiltrazioni d'acqua, che ogni inverno si era solidificata fra di esse a formare aculei di ghiaccio duri come l'acciaio, si stavano staccando sotto il suo peso, per rotolare giù insieme a esso. Calcolando che forse avrebbe avuto il tempo necessario, Embra puntellò le spalle contro la pietra infranta e sollevò la statuetta, concentrando la propria volontà mentre procedeva a recitare un incantesimo di una semplicità spaventosa. Dimenticato e ignorato dal mostro controllato dal mago, Craer intanto aggirò con cautela la stanza fino a portarsi nel punto in cui giaceva Sarasper. Considerato l'elevato numero di umani armati di arco, e il piacere che i draghi della notte traevano dal banchettare a base di uomini e del loro bestiame, non c'era da meravigliarsi se quegli orrori simili a pipistrelli erano ormai diventati rari nella Valle; ma perché i maghi non si erano mai fatti guerra a vicenda servendosi di sciami di quelle creature? Sarasper giaceva supino, in una posa goffamente contorta, in mezzo a schegge di pietra da tempo crollate dal sovrastante soffitto a volta. Craer gli accarezzò una mano, con la stessa esitante gentilezza che una madre a-
vrebbe potuto usare nel destare un bambino malato. «Sarasper?» sussurrò. «Mi senti?». Il vecchio disteso sulle pietre emise un debole gemito e girò appena il capo, borbottando qualcosa. Craer si chinò allora su di lui come un'amante, spostando il proprio orecchio in modo da tenerlo sempre vicino a quelle labbra borbottanti. «Mi sembra che non abbiamo mai fatto altro che... correre... combattere... Aglirta è nelle nostre mani, che la si salvi o la si lasci andare in rovina. Lasciamola crollare... che vada in pezzi e facciamola finita con tutta questa fatica...». Craer rabbrividì, perché già una volta aveva sentito un uomo parlare in quel modo, un uomo che aveva rinunciato a vivere, era rinsecchito ed era morto nell'arco di un giorno e di una notte, senza avere addosso tracce di ferite. Ma Sarasper era soltanto esausto, oppure era di nuovo caduto vittima degli incantesimi di qualche mago in agguato? Avevano bisogno di lui, della sua astuzia, del suo potere risanante e del suo ardore combattivo, altrimenti sarebbero forse morti tutti laggiù. Ma come ridestare quell'ardore? «Embra?» chiamò, sollevando lo sguardo in tempo per vedere lo zannelunghe che riusciva infine a inerpicarsi sulla balconata, in mezzo a una rovinosa cascata di pietre smosse. «Embra, mi servi qui!». Lo zannelunghe stava avanzando a tentoni, annusando e sbirciando di qua e di là, in cerca... E infine trovò qualcosa. Dall'oscurità esplose un torrente di ali scure, che colpirono rapide e sicure come una spada, puntando dritte verso le fauci del lupo-ragno, sopraffacendone il ruggito e scaraventandolo all'indietro, con il collo piegato da un lato: lo stridio d'ira e di allarme della belva si mutò in una cacofonia di gorgoglii soffocati, scanditi da uno sbattere furioso di ali nere, e con la pura forza della volontà la creatura evocata dalla maga riuscì a spingere lo zannelunghe nella fenditura della parete, incastrandolo al suo interno in un groviglio di arti che si dibattevano. Il drago della notte stava però già scomparendo alla vista. «Per i Tre», mormorò con fervore Craer, senza rivolgersi a nessuno in particolare, «non vorrei mai avere un mago che mi dà la caccia!». Embra intanto emerse dall'oscurità con passo barcollante, singhiozzando, e crollò pesantemente in ginocchio, la testa stretta fra le mani in un atteggiamento di palese sofferenza. «Cosa vuoi ancora, Craer?» ansimò.
«Signora», sibilò il procacciatore, «mi servi qui. Si tratta di Sarasper! È...». La Dama dei Gioielli gettò il capo all'indietro, rivelando un volto contratto dalla sofferenza. «Sta morendo, vero?» chiese in tono stanco. «Sì», scattò Craer, alzandosi in piedi, «sta morendo. Puoi aiutarlo... oppure le maghe sanno solo devastare, bruciare e ingannare?». Embra Silvertree avanzò di un breve tratto lungo il bordo della balconata, strisciando sulle mani e sulle ginocchia, e sollevò gli occhi a fissarlo con sguardo incupito, attraverso la distesa della stanza costellata di colonne. «Se mi stai pungolando, Craer, per favore, smettila. Se davvero vuoi una risposta, devo dirti di sì». Poi chiuse gli occhi e si accasciò sulle pietre. «Dei del cielo!» urlò Craer. «Possibile che tutti crollino al suolo e mi muoiano fra le mani?». Lo zannelunghe gli rispose con un ruggito che denotava sofferenza, ma soprattutto rabbia, poi Craer sentì un furioso raspare, segno che la belva stava cercando di districarsi dalla fessura in cui era stata relegato per braccare, così suppose, la sola creatura ancora in piedi nella Casa Silenziosa: un procacciatore. La disperazione gli mise le ali ai piedi. In pochi affannosi momenti attraversò un pavimento di pietre che gli si smuovevano sotto i piedi e si protese a toccare il volto di Lady Silvertree, che giaceva raggomitolata con la testa che sporgeva per metà dal bordo sgretolato della balconata. «Signora!» chiamò, scrollandola con la massima forza che osava esercitare. «Signora!». «Craer», mormorò la maga, «se vuoi che mi occupi di Sarasper, mi dovrai portare da lui di peso». «Non posso farlo», protestò il procacciatore, «non sono abbastanza grosso!». Poi serrò i denti, si protese ad afferrarla per le spalle e tirò. Embra scivolò oltre il bordo della balconata come un sacco pieno di grano, sbattendolo disteso per terra, ed entrambi gemettero all'unisono. Alle loro spalle, lo zannelunghe ruggì in rabbiosa risposta, ed Embra prese a contorcersi sopra Craer, ammaccandolo con i gomiti e le ginocchia nel tentativo di issarsi in piedi con mosse incerte. «Aiutami, Craer», sussurrò, barcollando in avanti. «Io... non riesco...». «Stranamente», commentò il procacciatore, mentre si avvicinava zoppi-
cando per passarle un braccio intorno alle spalle, «me ne sono accorto!». Un seno liscio e incredibilmente sodo gli premette contro la guancia; traendo un profondo respiro per assaporare il profumo che Embra aveva indosso, Craer sospirò e cominciò a pilotarla in avanti. Mentre lo zannelunghe ruggiva ancora, questa volta con maggior forza ed entusiasmo, il procacciatore si trovò a pensare che, se avesse preso a canticchiare, questo avrebbe inevitabilmente aiutato Embra a riscuotersi maggiormente, perché avrebbe avvertito le vibrazioni nel petto e... Si mise quindi a canticchiare nell'avanzare con cautela sul pavimento diroccato, fino a quando Embra gli ridacchiò all'orecchio. «Se mi fai ridere», ammonì, «non sarò in grado di fare quello che ti aspetti da me, qualsiasi cosa sia, prima che lo zannelunghe ci divori tutti!». «Correrò il rischio», replicò allegramente Craer. «Qualsiasi cosa pur di evitare che tu te ne rimanga là distesa ad aspettare passivamente di essere divorata, come Hawk e Sass». Le sue parole diedero loro la determinazione per arrivare fino al guaritore, che giaceva ancora supino fra le pietre smosse, esattamente come lo avevano lasciato. Embra abbassò lo sguardo su di lui e sospirò. «Io non sono una guaritrice, Craer», disse. «Signora, abbiamo bisogno delle cose che lui sa, se non altro, almeno dove procurarci altri oggetti magici di famiglia da prosciugare per generare incantesimi», ritorse in tono intenso Craer, costringendola a inginocchiarsi. «Gli rimane soltanto uno di quegli aggeggi... solo uno... e ho bisogno che lo usi per risanarlo, per renderlo di nuovo desto e vigile!». «Craer, non posso», ribadì Embra. «Non so come fare. Eliminare ustioni o ferite da lama che ho appena visto infliggere è una cosa che so fare, ma...». «Signora, lui ha perso la volontà di continuare a lottare insieme a noi», insistette il procacciatore, serrandole le spalle con tanta forza che la Dama dei Gioielli sussultò, guardandolo con occhi pieni di allarme e di sofferenza. «Ho bisogno che tu gli restituisca la voglia di vivere e lo induca a risanarsi. Puoi estrarre la magia che è nella statuetta e infonderla in lui, perché si risani? Perché dopo possa aiutare anche Hawk, graul e ancora graul?». «Sargh! Lasciami andare, Craer», sussultò Embra, annuendo. «Devo restituirgli la voglia di vivere?». «Bacialo, signora», suggerì Craer, un'espressione tuttora intensa sul volto. «Tienilo stretto, accarezzalo e mormora il suo nome come un'amante. Fagli sentire che c'è bisogno di lui, ricordagli cosa si prova a essere ab-
bracciati... per i Tre, leccagli la punta del naso, se necessario, che il Serpente sia dannato!». «E mentre io mi starò sdilinquendo a beneficio di Sarasper, tu cosa farai?». Il procacciatore si chinò verso la propria caviglia e si rialzò con un movimento fluido. Qualcosa di scintillante saettò nell'aria, solo per essere afferrato a metà del suo vorticare da dita agili. Craer esibì con un gesto elegante il coltello che impugnava e se ne servì per indicare verso la balconata. «Io», annunciò in tono grandioso, indicando il sussultare di zampe pelose che rivelava i tentativi da parte del mostro di liberarsi, «terrò a bada lo zannelunghe. Da solo». Embra scosse il capo e gli rivolse un sorriso contrito. «Procacciatori», commentò. «Ci sono voluti secoli, prima che uno di essi trovasse qualcosa di utile da fare, e io sono qui per esserne testimone». «Signora», borbottò Craer, «forse non hai ancora familiarità con tutti i gesti volgari usati da noi plebe della Valle, però...». E ne eseguì uno a suo beneficio, poi s'inchinò con solenne eleganza, prima di girarsi e di riattraversare di corsa la stanza con la daga in pugno. Embra scosse il capo e si protese in avanti, sondando con le dita l'interno della sacca di Sarasper alla ricerca dell'ultima statuetta. «Non è questo il modo in cui si suppone che si comportino le nobili maghe di questo o di qualsiasi altro regno», disse al corpo immoto del guaritore, disteso davanti a lei. «Spero che tu te ne senta onorato». Dalle labbra del vecchio scaturì un suono soffocato che era probabilmente un lamento, ma che poteva anche essere un assenso. Un istante più tardi, a esso fece eco un ruggito dello zannelunghe, accompagnato da un grido vibrante di Craer. Da qualche parte, sul lato opposto della stanza, si sentì poi uno stridere di metallo contro la pietra quando quel fragore fece riprendere i sensi a Hawkril Anharu, che gemette di dolore. «Per gli dei, una ragazza non può neppure avere un po' d'intimità?» protestò Embra, rivolta al soffitto a volta che la sovrastava. «Allora?». «Ebbene?» chiese il Signore di Glarond, volgendo le spalle alla finestra. Il suo Mago di Corte non accennò neppure a sorridere. «Avevi ragione, Lord Barone», rispose. «Sono tornati alle rovine e hanno letto qualcosa sui libri, prima di essere attaccati».
«Attaccati?». «Da un mago scheletrico, e in seguito da uno zannelunghe. Poi sono svaniti, senza dubbio trasportati altrove da qualche incantesimo di Lady Silvertree, e finora non sono riuscito a rintracciarli». «Un compito a cui tornerai immediatamente», osservò il barone, nel tono piatto e asciutto che usava quando impartiva un ordine. «Certamente», annuì Rustal Faulkron, e si volse per lasciare la stanza un istante prima di aggiungere: «Questo conclude il mio rapporto. Signore. C'è altro?». «No, Faulkron», sorrise il Signore di Glarond. Il Mago di Corte si stava già allontanando a grandi passi quando lui continuò: «Ecco, forse una cosa c'è, però. Com'è possibile che questa Dama dei Gioielli, una ragazza che ha condotto una vita ritirata, schiava degli incantesimi di suo padre, sia in grado di leggere quei libri fluttuanti mentre il resto di voi maghi della Valle non riesce a farlo? Gli dei le hanno forse concesso il loro favore?». «La risposta alla tua prima domanda è che non lo so», ribatté Faulkron, incupendosi. «Quanto alla seconda, Lord Barone, coloro che li dei prescelgono di rado godono del loro favore più che per un breve momento. Più spesso, vanno incontro a un oscuro destino che induce i bardi a gareggiare fra loro nell'intessere al riguardo tragiche ballate. Non voglio essere prescelto dagli dei, per nessuna cosa». Lui e il barone si fissarono a vicenda negli occhi, inespressivi, per quello che parve un tempo molto lungo, immoti e silenziosi. Infine, il barone si umettò lentamente le labbra con la lingua e commentò: «Faulkron, la tua saggezza mi spaventa. D'altro canto, forse gli dei ti hanno concesso il loro favore». Il Mago di Corte di Glarond non replicò nell'allontanarsi a grandi passi, ma il Barone Audeman Glarond lo conosceva da molto tempo, e non mancò di notare il minuscolo gesto protettivo che il mago tracciò prima di muoversi. 9. Una protezione notturna insonne A volte, Sarasper Codelmer pensava che gli dei lo avessero preso di mira e che stessero traendo un particolare piacere nel divertirsi a spese di un vecchio e solitario guaritore fuggiasco. Infatti, nessun sogno avrebbe potuto elargirgli la dolcezza della calda umidità delle labbra che si stavano pre-
mendo sulle sue, della lingua che le accarezzava con esitazione, mentre una voce sussurrava, mielata: «Sarasper, torna da me! Torna!». E infatti non era un sogno. Il formicolio che lo pervadeva era il prodotto del fuoco ridestato della magia, che vorticava intorno e attraverso il suo corpo scaturendo da qualcosa di duro che gli posava sul petto, una delle statuette che aveva riposto nella sacca, che era tenuta premuta contro di lui dal morbido peso di... di... Embra? «L... Lady Silvertree?» esclamò incredulo, contro la bocca premuta sulla sua, poi cercò di sollevarsi a sedere, facendo leva contro pietre che si smuovevano e si rigiravano, finché la sua mano si chiuse intorno a qualcosa di caldo e morbido che non era decisamente una roccia. Qualcosa di nudo. Sconvolto, fissò gli occhi della Dama dei Gioielli, a pochi centimetri di distanza dai suoi, mentre ritraeva di scatto la mano come se avesse appena afferrato un ramo in fiamme. «Signora, cosa...?». «Sarasper, mi servi sveglio», ribatté in tono deciso la maga. «Adesso ho la tua attenzione?». Lo zannelunghe scelse quel momento per ruggire. Nel sentire alcune rocce smuoversi e Craer imprecare, due teste si girarono all'unisono, in tempo per vedere il procacciatore precipitare dalla balconata sul pavimento della stanza, il lupo-ragno che si lanciava iroso al suo inseguimento. Poi le due teste tornarono a voltarsi una verso l'altra, i nasi che nasi si toccavano, e il vecchio guaritore abbozzò un sorriso in tralice. «Ecco, signora, l'avevi, ma...» cominciò a dire. Embra gli afferrò la mano e la guidò di nuovo verso il proprio seno. «E adesso?» mormorò. Ancora una volta, Sarasper si affrettò a ritrarre la mano. «Signora... ragazza... ora smettila», ringhiò. «Dimmi cosa vuoi che faccia!». «Usa la magia che ti sto trasmettendo attraverso il contatto dei nostri corpi per risanarti», rispose Embra. «Dopo, se puoi, aiuta Hawkril, in modo che riesca almeno ad alzarsi e a muoversi. Infine», aggiunse in fretta, con un accenno di sorriso, «avremo bisogno che tu ci guidi lontano da questo zannelunghe, permettendoci di evitare le trappole di questo posto e di trovare altri oggetti magici che entrambi possiamo utilizzare per...». Sarasper stava annuendo con fare quasi frenetico.
«Signora», ringhiò, cercando di spingerla lontano da sé. «Sargh, rimanda a più tardi l'elenco delle tue necessità!». Ignorando la forma saettante del procacciatore, che colpiva e si ritraeva per poi tornare ad attaccare ancora, lo zannelunghe stava attraversando a precipizio la stanza, in una traiettoria che puntava dritta verso la maga. «Risanati», sibilò Embra, mentre si rialzava in piedi con calma, si riassestava il corpetto e le maniche, e si voltava infine a fronteggiare il mostro lanciato alla carica. Sarasper la fissò a bocca aperta, mentre la magia lo pervadeva, rilassandolo e rinvigorendolo al tempo stesso. Per i Tre, era davvero una sensazione piacevole, un'ondata di energia ravvivante e purificante, che stava costringendo il braccio mutato a tornare ad assumere una forma umana, annullando contemporaneamente ogni nauseante senso di sfinimento. Però aveva bisogno di qualche momento ancora, e lo zannelunghe era ormai molto vicino. Embra Silvertree mosse le dita in un rapido gesto e da esse scaturì una breve scarica di fuoco che si protese a sferzare gli occhi dello zannelunghe; la bestia stridette ma continuò ad avanzare. Con mosse calme e decise, la bocca contratta in un sorrido dovuto alla tensione della battaglia, la maga prese ad allontanarsi dal guaritore, in modo da indurre la belva a seguirla. Sarasper rimase disteso immobile mentre gli ultimi effetti della magia lo sferzavano fino a lasciarlo perfettamente lucido e formicolante, lo sguardo fisso sulla Dama dei Gioielli, che a una sempre maggiore distanza portava avanti un'aggraziata danza letale, schivando e spostandosi in cerchio mentre lo zannelunghe persisteva cocciutamente a braccarla, a testa bassa, ringhiante, le fauci aperte con fare minaccioso e gli occhi che erano a tratti quelli scintillanti e dorati della bestia e a tratti diventavano freddi punti di luce bianca pervasi di un'intelligenza umana. Dov'era il Dwaer? Embra sollevò una mano in un gesto ammonitore, dando l'impressione di voler afferrare e scagliare una manciata d'aria, e intanto lanciò un richiamo, in tono quasi indifferente. «Avanti, Sarasper, non ci mettere tutta la giornata! Non mi rimane quasi più magia con cui intrattenere questa bestia!». Avevano forse perso la Pietra? Sarasper ebbe l'impressione che passasse un'eternità prima che gli riuscisse di alzarsi in piedi, rivolgendo a Embra un silenzioso gesto di rassicurazione per poi avviarsi attraverso la piccola foresta di rocce smosse che si spostavano infide sotto i suoi piedi, diretto
verso il punto in cui giaceva l'armaragor. Barcollando goffamente con le braccia che si agitavano per aiutarlo a mantenere l'equilibrio e le labbra che si muovevano nel proferire una sfilza di sommesse imprecazioni, lo sguardo che verificava di continuo la posizione dello zannelunghe, finalmente il guaritore riuscì a raggiungere Hawkril, e ciò che vide gli strappò un sussulto. Il massiccio armaragor giaceva supino, inerte e insanguinato, l'armatura rosicchiata e distorta là dove non mancava completamente. In tutto Darsar non c'era nessun guaritore che, da solo, potesse rimediare a tutti quei danni e rimettere in piedi l'armaragor, rinvigorito e risanato. Forse però, per cominciare, sarebbe bastato qualcosa di meno. Serrando i denti in una smorfia, Sarasper afferrò i bordi rovinati dell'armatura e procedette a rimuovere il metallo torturato dalla carne ammaccata sottostante; mentre era impegnato a costringere le ossa fratturate a tornare nella giusta posizione, Hawk mormorò qualcosa e si mosse sotto le sue dita. «Allora?» chiese Embra, la voce resa acuta dalla tensione e dalla paura. «Pazienza», borbottò Sarasper, scuotendo il capo nella sua direzione. «Un po' di pazienza!». «Rivolgi questo saggio consiglio allo zannelunghe, non a me!» ribatté la maga. Con un sorriso privo di divertimento, Sarasper tornò a concentrarsi sul proprio lavoro, sentendo la debolezza e la stanchezza che tornavano ad assalirlo a mano a mano che la sua forza vitale gli scorreva dalle dita per riversarsi nella carne che, sotto di esse, cominciava a ritrovare calore. Doveva guidare i compagni lontano da quella parte della Casa, che era tutta arredi devastati e trappole letali, fino a determinate stanze che erano poste a sudest rispetto a loro, in quelle profondità della Casa Silenziosa che non erano mai state raggiunte dai saccheggiatori o dagli audaci avventurieri assoldati in passato dai precedenti Baroni di Silvertree. Ricordava in particolare una camera dalle pareti rivestite di lucido marmo verde, dove c'era un grande armadio pieno della collezione di carillon di qualche Silvertree da tempo scomparso: essi erano tutti intrisi di magia, alcuni al punto da risplendere e pulsare sugli scaffali dove erano rimasti in attesa per lunghi anni. Doveva arrivare fin là, per avere il materiale con cui operare risanamenti e dare a Embra una scorta di energia per alimentare i suoi incantesimi di combattimento, ma fra dove si trovavano e quella stanza c'era almeno una ventina di trappole, e...
«Lady Embra!» esclamò, pieno di subitanea eccitazione. «Ricordi la Protezione Notturna di Thaalen?». Proprio in quel momento, Lady Silvertree perse l'equilibrio nello strato di macerie che arrivava al polpaccio e crollò da un lato con una singhiozzante imprecazione, mentre arti coperti di pelliccia grigia si lanciavano verso di lei. Un coltello saettò nell'aria e gli arti si ritrassero di scatto. Canticchiando qualcosa di allegro, Craer si portò d'un balzo davanti a Embra e tornò a colpire con la daga lucente e affilata, mentre lei si puntellava sulle mani e sulle ginocchia, ringhiando quando le pietre a cui si aggrappava le lacerarono le dita. «Sargh, sì!» ringhiò. «Ma cosa...». Nel tempo che impiegò a risollevarsi in piedi, però, ricordò anche cosa fosse esattamente la Protezione Notturna, una fortezza interna nel cuore della Casa Silenziosa, che un particolare barone, timoroso di possibili assassini nascosti dietro ogni faccia, aveva fatto costruire per ritirarvisi ogni notte. «Oh», aggiunse, in un tono di voce del tutto diverso. «Proprio così», convenne Sarasper, mentre Hawkril gemeva sotto le sue mani e accennava i primi, deboli tentativi di alzarsi. «Se tu, in qualità di erede dei Silvertree, conosci le parole che possono evocare il potere della Protezione Notturna...». «Le conosco», gridò di rimando la maga. «Quegli incantesimi, insegnati a tutti i Silvertree come una parte divertente della storia di famiglia, dato che si è sempre ritenuto che fossero stati vanificati dalla maledizione, hanno dato a mio padre le basi su cui fondare la catena d'incantesimi che doveva fare di me il suo Castello Vivente. Però prima dobbiamo arrivare fin là, e ci sono le trappole...». «Lasciale a me», ribatté il guaritore. «Guarda, il tuo adorato Hawk è di nuovo con noi!». Ringhiando per lo sforzo, l'armaragor si issò faticosamente in piedi e cercò di sfoggiare un sorriso: era palesemente un esperimento, e lui barcollò in maniera allarmante mentre descriveva un mezzo giro su se stesso, agitando le braccia con un sussulto. Poi il suo sguardo tornò a posarsi sullo zannelunghe e lui s'irrigidì con un ringhio, abbassando di scatto la mano verso il punto in cui ci sarebbe dovuta essere la sua spada. «Calma», borbottò Sarasper, afferrando l'armaragor per l'altro braccio, lacero e sanguinante. «Attualmente, lanciarsi di nuovo alla carica contro
quelle fauci non sarebbe una cosa gloriosa, efficace o anche solo particolarmente utile. Ora come ora, ho invece bisogno che attiri quella belva lontano da qui!». «Davvero?» grugnì Hawkril, liberando con uno strattone la spada che era stata incastrata in profondità nel lacero groviglio dell'imbottitura sottostante l'armatura, lungo il petto e un fianco, a causa del peso e dei colpi possenti dello zannelunghe. «E come farò ad attirarla, se non ho la sua attenzione?». «Per gli dei, a quanto pare hai trovato un altro inattaccabile motivo per impegnare stupidamente battaglia», scattò il vecchio guaritore. «Comunque sia, bada di pilotare la bestia attraverso quell'arcata... mi hai sentito?». «Certamente, Signore delle Battaglie», ringhiò l'armaragor. «E quell'arcata sarà!». Poi levò la voce in un inarticolato ruggito d'ira che si trasformò in un'echeggiante sfida, e si lanciò alla carica attraverso la stanza. Il suo attacco annullò momentaneamente il controllo del mago scheletrico sulla belva, che con un grido di risposta si girò di scatto per affrontare l'armaragor, distogliendo la propria attenzione dal procacciatore, che aveva peraltro continuato a ignorare, e dalla maga che aveva cercato in ogni modo di uccidere. Entrambi si volsero a contemplare con aria sorpresa la carica di Hawkril, ma la loro attenzione fu subito attirata dal frenetico gesticolare del guaritore. «Qui, da me!» stava gridando Sarasper. «Da questa parte!». La maga e il procacciatore si scambiarono un'occhiata, poi Craer assestò a Embra una spinta in direzione della porta. «Va'!» ringhiò. «Non ci sono menestrelli in attesa di vedere che razza di pasticcio riusciamo a combinare nel tentativo di fare gli audaci eroi, quindi... muoviti!». «Senza di te?» replicò provocatoriamente Embra, da sopra la spalla. Per tutta risposta, Craer le fornì la dimostrazione di un altro gesto volgare della Valle mentre spiccavano la corsa insieme. Hawkril passò in mezzo a loro di gran carriera e con un sorriso selvaggio sul volto, diretto nella direzione opposta con rapidità ed entusiasmo, poi l'impatto del primo colpo da lui vibrato, accompagnato dallo stridio di dolore dello zannelunghe da esso causato, risuonò nitido al di sopra del martellare dei loro stivali sulle pietre smosse. «Hawkril!» sentirono esclamare a Sarasper, come per ammonire. «Non lasciarti prendere dalla foga del combattimento e limitati ad attirare qui
quella bestia!». «Guaritore», grugnì di rimando l'armaragor, fra i respiri affannosi e i ringhi che accompagnavano i colpi di spada con cui lui stava respingendo arti e fauci secondarie, «io ti dico forse come operare risanamenti?». «Hawk», cominciò il vecchio, in tono di rimprovero, «io maneggiavo già una spada quanto tu eri...». «Un bagliore nello sguardo della pronipote non ancora nata della ragazza che stava nascendo quanto tu hai preso per la prima volta una spada, dalla parte sbagliata, sì, lo so», ribatté Hawkril. «Ancora un solo colpo... unnhh! Fatto... ora sono pronto a essere la tua esca!». «Che ne è stato dei guerrieri che si limitavano a eseguire gli ordini in cupo silenzio?» si chiese ad alta voce Embra, mentre risaliva di corsa, con il respiro affannoso, la breve rampa di scale che portava all'arcata, dove Sarasper era in attesa... e le stava sbarrando il passo! «Sono rimasti tutti uccisi nell'eseguire senza discutere gli ordini di completi idioti», grugnì di rimando il guaritore. «Senza offesa, baronessa». «Non mi offenderò, a patto che eviti di chiamarmi in quel modo», rispose Embra. Intanto Craer li raggiunse e tutti e tre si girarono a guardare l'armaragor che, brandendo la spada grondante di sangue dello zannelunghe, stava attraversando la stanza per venire verso di loro, la belva che lo inseguiva barcollante e sofferente. «Vi state godendo lo spettacolo?» chiese Hawkril. «O forse state facendo scommesse? Oppure mi state soltanto sbarrando il passo come tre assoluti idioti?». «Più avanti ci sono delle trappole, testa di legno», spiegò Sarasper. «Oltrepassato questo arco, buttati subito sulla tua sinistra e continua a correre fino ad arrivare a una stanza rischiarata da una vaga luminescenza. Entra, ma bada a non toccare l'arcata della soglia, svolta subito a destra e abbassati per imboccare il passaggio che ti troverai davanti, che scende verso una sala piena di colonne. Aspettami là, ma se ti è cara la vita, bada a non toccare nessuna di quelle colonne!». «Dentro, a sinistra, poi a destra dopo la luce, e non toccare le colonne mentre ci aspetti», ribadì Embra. «Infatti», confermò il guaritore. «Gli occhi di quella bestia sono appena cambiati di nuovo», avvertì intanto Craer, a bassa voce, osservando l'inseguimento che si snodava attraverso la stanza, verso di loro. «Le tue istruzioni potrebbero esserle utili
quanto lo saranno a noi». «Graul e bebolt!» ringhiò Sarasper. «Perché i maghi non possono semplicemente rimanere morti?». «Non lo so», ribatté Embra, scrollando le spalle, «ma se lo facessero, noi non avremmo un re da servire, nessun Serpente minaccerebbe il regno e tremeremmo tutti sotto la minaccia della spada del più brutale e feroce fra i baroni». «Mi fa piacere che sia proprio tu a dirlo, baronessa», commentò Craer, mentre Sarasper toccava loro il braccio come segnale appena prima di oltrepassare l'arcata e svanire nell'oscurità. Entrambi spiccarono a loro volta la corsa dietro di lui, svoltando subito a sinistra com'era stato loro detto. Il passaggio era umido e odorava di terra, dando l'impressione di essere al tempo stesso più freddo della camera che avevano appena lasciato. Alle loro spalle risuonò un clangore seguito da un'imprecazione, quando Hawkril urtò contro la parete di pietra con la spada e temette di averne rovinato il filo. Il percorso era facile da seguire com'era apparso dalla descrizione di Sarasper. Correndo a precipizio, i membri della Banda dei Quattro trovarono però difficile non urtare nessuna delle identiche colonne di pietra, fitte come gli alberi di una foresta, nell'arrestarsi uno dopo l'altro in modo più o meno goffo, soprattutto Hawkril, che poteva sentire i rumori prodotti dal lupo-ragno ferito nell'affannarsi per raggiungerlo. «Contro questa parete, vicino a me!» ordinò Sarasper in tono secco, quando l'armaragor entrò nella stanza. Il guaritore era fermo fra due strette aperture ad arco; quando i compagni lo raggiunsero, indicò una di esse. «Passate di qui», disse. «L'altra conduce a morte certa». Mentre i Quattro imboccavano il passaggio scelto da Sarasper, alle loro spalle esplose un'improvvisa cacofonia di rumori, un violento succedersi di tonfi e clangori uniti a un acuto stridio di dolore. «Ha toccato una colonna», commentò Sarasper, in tono soddisfatto, nell'avanzare in una stanza più piccola, le cui pareti erano decorate da affreschi sbiaditi. Essa conteneva una sola colonna centrale, dipinta come le pareti, e parecchi piccoli mucchi di materia fatiscente che erano stati un tempo degli arredi. Su una delle pareti c'erano tre porte chiuse. «Questo ci fornisce un po' di tempo», continuò il guaritore, in fretta e a bassa voce. «La porta di sinistra è quella che ci permetterà di proseguire senza rischi, e la lasceremo aperta dietro di noi per attirare la bestia. Quan-
to alle altre, è incerto se conducano o meno alla morte, però...». «Però la Protezione Notturna è in quella direzione, vero?» lo incalzò Embra. «Sì», annuì Sarasper, «ma non ti aspettare di trovare un lussuoso rifugio, o anche solo un'armeria e una roccaforte arredata». Poi precedette i compagni lungo un corridoio in salita dal pavimento di pietra grezza, che sbucò in una vasta camera echeggiante adorna di balconate diroccate, con dozzine di finestre oscure che in alto sulle pareti si affacciavano su altre camere invisibili, e con altrettante porte disseminate lungo le pareti; due di esse erano poste abbastanza in alto da dover essere raggiunte mediante una rampa di gradini privi di ringhiera, e Sarasper puntò verso quella di esse che si trovava sulla destra. «Questo», dichiarò con il respiro affannoso, indicando l'arcata in cima alla scala, «è il punto esatto dove ho bisogno che pronunci le parole che destano la Protezione Notturna!». «Proprio nel momento in cui lo zannelunghe varca la soglia, suppongo», commentò Embra, con un sorriso che però svanì subito. «E se dovessi sbagliare a calcolare i tempi ed esso finisse per entrare con noi nella roccaforte?». «Una volta saliti i gradini», affermò il guaritore, guardando verso Hawkril, «tu dovrai agire come una vittima ferita che avanzi strisciando a fatica...». «È il Vecchio Famelico quello che sento arrivare?» ribatté l'armaragor, mentre un lento sorriso gli affiorava sul volto. Mentre un irregolare, esitante suono strisciante si faceva sempre più forte lungo il passaggio, alle loro spalle, nessuno dei suoi compagni si prese la briga di rispondere, perché erano tutti troppo impegnati a salire i gradini. «Oltre la soglia non ci sono pericoli», garantì Sarasper. «Hawk?». «Ohhh», gemette in modo convincente il guerriero, e si accasciò sul gradino alla base della scala, chiazzandolo con tre dita sporche di sangue attinto dalle ferite che aveva sul petto. Aggrappandosi al gradino successivo con mano tremante, si guardò alle spalle con disperazione mentre lo zannelunghe entrava con passo incerto nella stanza, la pelliccia coperta di sangue e gli occhi che erano due gelidi fari di morte. «I Tre mi proteggano!» annaspò, issandosi debolmente sul gradino successivo. «Hawk!» esclamò Craer, in tono di avvertimento. «Si sta avvicinando in
fretta!». «Non interrompere una grande esibizione», ansimò Hawkril. «Forse come attore non sono all'altezza di Halivaerus di Sirlptar, ma...». Con un finto ruggito di dolore, salì a fatica di un altro gradino e tornò ad accasciarsi come se fosse stato spossato dalla sofferenza, l'orecchio teso a cogliere i suoni striscianti che si stavano facendo sempre più nitidi alle sue spalle. Con uno sforzo apparentemente titanico, si rialzò quindi in piedi e passò immediatamente al gradino successivo. «Hawk!» tornò a esclamare Craer. «È...». «Alcuni procacciatori sono assolutamente incapaci di confidare nei talenti degli altri», borbottò Hawkril, «o in qualsiasi cosa. Questo li rende degli eccellenti procacciatori, ma...». «Alcuni armaragor», ribatté Craer, «si fidano del loro valore guerriero in maniera così assoluta da travalicare il buon senso. Questo li rende cadaveri eccellenti, ma...». «D'accordo, d'accordo», ringhiò Hawkril, arrivando all'ultimo gradino, proprio mentre lo zannelunghe sopraggiungeva alle sue spalle con velocità minacciosa e protendeva le fauci secondarie per colpire con forza devastante. Hawkril rotolò di scatto da un lato proprio mentre una di esse calava verso di lui, poi rotolò nella direzione opposta per evitare un secondo colpo, prima di balzare in piedi e di oltrepassare la soglia con uno scatto improvviso. Con occhi che erano due punti di luce gelida, lo zannelunghe si lanciò su per i gradini in un silenzio spettrale, protendendo una foresta di arti pelosi verso il guerriero in fuga. Embra trasse un profondo respiro e scandì, con voce sonora e nitida: «Cathkarantha lamarratha thauriir!». L'aria prese fuoco, pervasa da linee fredde e striscianti di fiamma azzurra che trapassarono l'oscurità come una rete dall'abbagliante quanto improvvisa complessità. Quel chiarore svanì in fretta, ma i suoi residui stavano ancora abbagliando i Quattro quando una pietra rovinò verso il basso con un rombo assordante che fece tremare la stanza: d'un tratto, al posto dell'arcata ci fu un'enorme lastra di pietra il cui bordo inferiore era scuro e umido a causa di una polla di sangue sempre più larga, in mezzo alla quale l'estremità anteriore del lupo-ragno sussultava ancora debolmente. I Quattro videro gli arti pelosi accasciarsi al suolo, poi il gelido bagliore negli occhi della testa recisa si spense lentamente, e infine Embra si con-
cesse un lungo, tremante respiro. «Non vi preoccupate», scherzò Craer, «senza dubbio la parte posteriore di quella creatura starà infuriando dall'altro lato della porta, saltellando per l'impazienza di raggiungerci e di ucciderci a calci! Non mi sorprenderebbe se...». D'un tratto s'interruppe, a bocca aperta per la sorpresa, quando il suo sguardo vagante si posò per caso sulla sommità dell'arcata: l'abbassarsi della pietra aveva rivelato sopra di essa la cavità oscura di una stanza precedentemente nascosta. «Embra», domandò il procacciatore, mentre già avanzava verso l'arco, «dov'è che ai Silvertree piace nascondere i propri tesori?». «No, Craer, non credo proprio...» cominciò la Dama dei Gioielli, poi tacque nel vedere il procacciatore che scalava la liscia superficie di pietra con la facilità e rapidità con cui avrebbe salito una scala e scompariva oltre l'apertura buia. «Se c'è un tesoro, lui lo troverà», borbottò Hawkril, scuotendo il capo con un sorriso. «Un vecchio stivale qui, un pitale crepato là...». «I tesori sono quelli che consideriamo tali», convenne Sarasper, «e...». In quel momento Craer riapparve nell'apertura, o per meglio dire si lanciò fuori da essa in un rapido balzo verso il pavimento, gli occhi dilatati e fissi. «I Tre ci proteggano!» gridò, nell'atterrare rotolando su se stesso. Braccia scheletriche erano intanto apparse nell'apertura, braccia umane le cui ossa in rapido movimento terminavano alla spalla, e che stavano sciamando lungo la porta con la rapidità di altrettanti serpenti. Soppesando la propria pesante spada, Hawkril osservò con espressione seccata le ossa che si avvicinavano rapide. «Sono tuoi parenti, signora?» domandò in tono acido. «È più probabile che si tratti di apprendisti di maghi di famiglia del passato», replicò Embra, scrollando le spalle. Hawkril annuì, lo sguardo fisso sulla dozzina di braccia che erano ormai arrivate alla base della porta, poi porse la propria spada a Embra; il peso dell'arma risultò tale da strapparle un'imprecazione e da costringerla ad afferrarne l'impugnatura con entrambe le mani per evitare che essa cadesse sul pavimento. Attraversata la stanza con due rapidi passi, l'armaragor sollevò intanto un grosso tavolo scuro e lo scagliò con un singolo movimento fluido. Esso roteò attraverso la stanza come un grande scudo vorticante, e colpì
il pavimento con tanta forza che il suo impatto contro la porta fece tremare la stanza. Il grande schianto scagliò schegge di ossa infrante in ogni direzione e fece ricadere verso il basso una soffocante cortina di polvere. «Ti dispiace fare più attenzione?» scattarono all'unisono Embra e Sarasper. «Questa è la...». D'un tratto s'interruppero, fissandosi a vicenda, prima di concludere con imbarazzo: «La mia casa». Guardandosi a vicenda, i Quattro scoppiarono in una risatina che andò crescendo di tono fino a mutarsi in una fragorosa risata comune. In una camera piena di colonne, non molto lontano, l'eco di quell'ilarità destò qualcosa, che si mosse all'interno della fredda pietra e scese fino a emergere dalla colonna in cui era rimasto nascosto per secoli. Quel qualcosa dal duro guscio esterno e dai grandi artigli tremò in silenzio per lunghi momenti, mentre riacquistava massa e solidità, prima di riscuotersi e di avanzare per nutrirsi di quelle rumorose aspiranti vittime... 10. Per uccidere un re L'estremità della corda emerse scivolando dalla notte e passò così vicina alla faccia di Gurkyn Oblarram che il vecchio, cupo guerriero quasi saltò indietro con un grido ed emise un sibilo degno di un serpente spaventato, affondando dita dure come l'acciaio nella spalla dell'uomo che aveva accanto. «Sargh, lasciami andare!» ringhiò a bassa voce Mararr, in tono furente, nel liberarsi con una contorsione. «Io non sono un nemico... o almeno non lo ero fino a poco fa!». «Scusami, per i Tre, scusami tanto», si affrettò a borbottare Gurkyn, vedendo le numerose spade corte infilate nel balteo di Mararr oscillare e scintillare alla luce della luna. «Credevo fosse un serpente, o qualcosa del genere». «Qualcosa sarà di certo, se dovesse succedere ancora, o maestro delle padelle», promise Mararr Guldalmyn, con voce bassa e aspra, mentre puntellava entrambi gli stivali contro il muro e cominciava a issarsi su per la corda a forza di braccia. Gurkyn reagì con un ringhio profondo, del genere che un felino in caccia può emettere di gola, ma non ribatté. L'armaragor che portava indosso una piccola selva di spade corte s'inerpicò su per il muro e scomparve nell'oscurità sovrastante con pochi e possenti strattoni assestati alla corda;
Gurkyn osservò per qualche tempo il danzare sussultante dell'estremità della fune, poi lasciò scorrere lentamente lo sguardo su quanti lo circondavano. Lultus era decisamente più grosso e pesante del vecchio cuoco spesso ubriaco, e Gloun era ancor meno agile nell'arrampicarsi. Quanto agli altri due, Peldrus e Tathil... no, si chiamava Tathorn... Gurkyn li conosceva appena perché erano entrati Per ultimi al servizio del barone, appena pochi giorni prima della partenza per le Isole. Allora come adesso, quei due si erano sempre mossi come una cosa sola, senza aver bisogno di parlare o anche solo di rivolgersi dei segnali gestuali, tanto da dare l'impressione di essere guidati dagli stessi pensieri. Insieme, avevano impedito alla barca di strisciare contro il molo, l'avevano tenuta ferma mentre una quindicina di uomini, ora tutti agli ordini di Duthjack, scendevano a terra, poi avevano assicurato gli ormeggi, senza mai distogliere lo sguardo dalla fila di guerrieri che si stava lentamente inerpicando su per le mura dell'Isola della Corrente Spumosa, dapprima a mani nude e poi servendosi della corda calata loro dai primi, più coraggiosi compagni. Duthjack stesso era già salito, gli occhi dilatati e incupiti per l'eccitazione, preceduto e seguito dalle sue guardie del corpo personali, Calargli e Naor, ma non si era levato nessun allarme a mano a mano che un guerriero dopo l'altro risaliva a fatica il muro di cinta, invadendo l'Isola reale. Era un buon inizio, per una scorreria che mirava a uccidere un re. Anzi, Gurkyn temeva che fosse un inizio fin troppo buono: com'era possibile che la loro presenza non fosse stata notata? Quello era stato il Castello del Barone Silvertree, che aveva goduto in tutta la Valle di una fama nefasta a causa della sua crudeltà, quindi non era logico che davanti a loro ci fossero dozzine di trappole? O sentinelle disposte sulle mura che stavano già tendendo e puntando i loro archi in quello stesso momento, aspettando solo che anche gli ultimi guerrieri invasori completassero l'ascesa, in modo da averli tutti radunati in un solo punto e più facili da abbattere? Oppure questo Snowsar era davvero così noncurante, o orgoglioso, o impotente da non avere guardie schierate sulle mura dell'Isola della Corrente Spumosa? Gurkyn scosse il capo. In tutto erano sedici gli uomini che avevano attraversato le fredde acque del Fiumargento, accalcati spalla contro spalla sulla barca rubata da Duthjack. Sedici uomini con cui attaccare tutte le spade a difesa del castello. Non erano molti, ma del resto... quali spade c'erano da affrontare? Quella notte, l'Isola della Corrente Spumosa sembrava dormire tranquilla, senza che su quel lato dell'Isola si vedesse neppure una torcia accesa, e non c'era
nessuno che pattugliasse i bastioni su cui sedici uomini disperati si erano arrampicati e se ne stavano ora accoccolati a complottare, come ratti radunati intorno allo stesso brandello di carne. Sì, erano proprio come ratti famelici che si stessero dividendo un pasto, per cui era meglio sperare che il pasto in questione risultasse abbastanza abbondante per tutti, e non diventasse invece un campo di battaglia sul quale uomini disperati si sarebbero contesi un bottino troppo magro. Pensoso, Gurkyn lasciò vagare lo sguardo sulla notte circostante, osservando la luce lunare che trasformava il fiume in movimento in una marea di stelle ammiccanti, e si chiese cosa sarebbe andato storto, se sarebbe vissuto abbastanza a lungo da vedere l'alba o se avrebbe concluso la lunga e dura strada della sua vita rantolando nel buio con una spada conficcata nel ventre. L'estremità della corda riapparve nel suo campo visivo, oscillando violentemente, e la scura montagna che era Lultus protese un braccio massiccio per toccare Gurkyn sulla spalla; il cuoco lanciò un'ultima occhiata al fiume scintillante, sospirò e posò le mani sulla corda. Nel momento in cui i suoi stivali toccarono il muro, qualcuno cominciò a issarlo verso l'alto. La sua ascesa fu una rapida e facile passeggiata, e non la stancante inerpicata che aveva temuto di dover affrontare. Nell'arco di pochi, affannosi momenti, si ritrovò in piedi sui bastioni costruiti da qualche arrogante Barone Silvertree, in mezzo a una folla silenziosa di guerrieri guardinghi, tutti intenti a scrutare gli alberi sottostanti. Un bosco rischiarato dalla luna sembrava estendersi per un lungo tratto davanti alle mura, cedendo infine il posto a spazi sgombri invasi dalla luce lunare: senza dubbio dei giardini, dato che si scorgevano qua e là alcune polle sfavillanti e piccoli, arcuati ponti di pietra. In lontananza, si ergeva la massa scura del Castello della Corrente Spumosa vero e proprio, tutto balconate e torrette di pietra. Alcune luci ammiccavano dietro le sue finestre, ma a parte questo la scena che si stendeva davanti agli occhi dei guerrieri affamati era priva di qualsiasi presenza di vita desta e cosciente. «Sarà come macellare dei neonati nella culla», borbottò qualcuno, mentre gli uomini raggruppati sempre più numerosi intorno a Duthjack soppesavano la spada e cercavano di valutare a occhio la distanza che li separava dal giardino sottostante. «Non dire mai una cosa del genere», grugnì qualcun altro, in tono acido. «Ogni volta che mi capita di sentire quelle parole, è sempre un istante prima che le cose comincino ad andare storte. Molto storte».
«Lultus, tu sei l'ultimo?» chiese Mararr, e quando gli arrivò all'orecchio l'inarticolato grugnito d'assenso, aggiunse: «Allora gira la corda da questo lato, lasciandola legata così com'è, e gettala giù lungo l'altro lato del muro. Muoviti, amico!». «Evidentemente, la battaglia genera in noi un senso di urgenza di cui non avevo notato la necessità», ribatté Lultus, con una voce profonda e sarcastica che suscitò più di una risatina, ma fece come gli era stato detto, continuando: «Ti prego, o audace Mararr, perdonami se non sono alla tua altezza». «Basta con le chiacchiere», intervenne Duthjack, in tono freddo, prima che l'armaragor dalle molte spade potesse ribattere. «Dubito che perfino un re idiota userebbe sentinelle sorde». «C'è qualcosa che non va», affermò d'un tratto Gurkyn, avanzando verso Duthjack fino a trovarsi a un passo dal finire infilzato sulla punta della spada di Naor. «Posso sentirlo». «Tu puoi sentirlo! Allora...» cominciò qualcuno. «Basta!» ingiunse però Duthjack, girandosi di scatto. «Qualcosa è... non è come dovrebbe essere». «Sì», convenne Calargli, agitando la spada come se fosse stata il sonaglio di un menestrello. «Posso sentirlo anch'io. È come se...». D'un tratto s'immobilizzò e si accoccolò su se stesso, mentre quindici guerrieri lo fissavano sul chi vive. «Le pietre!» esclamò, battendo uno stivale su di esse. «Sono vive!». «Cosa?» gridarono parecchie voci incredule. «No... tacete!» ringhiò Duthjack. Nel silenzio che fece seguito alle sue parole poterono avvertirlo tutti: un tremolio infinitesimale sotto i loro stivali, come se le pietre del muro stessero respirando o stessero contraendo di soppiatto muscoli giganteschi, preparandosi a... «Giù dal muro!» scattò Duthjack. «Saltate giù! Fra gli alberi!». Sui bastioni eruppe un tumulto di uomini che correvano e spiccavano il balzo, incitati nella loro frenetica fuga da un urlo improvviso di Calargli. Senza essere notate, dita di pietra erano emerse dai bastioni e gli avevano circondato la caviglia, trasformando la sua corsa verso il giardino in una rovinosa caduta in avanti lungo il camminamento dei bastioni, dove la sua faccia andò ad abbattersi sulle dita emergenti di un'altra mano di pietra, crudeli quanto penetranti. Naor si guardò alle spalle in tempo per vedere la faccia del compagno che veniva strappata via di netto; mentre il sangue
prendeva a fiottare sulle pietre e lui apriva la bocca per lanciare un grido di orrore, Naor stava già solcando l'aria per andarsi ad abbattere fra foglie e rami che ancora sussultavano per l'impatto dei guerrieri che lo avevano preceduto. «Nel nome dei Tre!» annaspò qualcuno, mentre i tonfi prodotti dai diversi atterraggi si esaurivano e potevano tutti sentire il gorgogliare prodotto dallo scorrere del sangue di Calargli. «Quello cos'era?». «Per gli artigli dell'Oscuro!» gridò un altro guerriero, indicando il muro. «Cos'è quello, piuttosto!». Le pietre stavano sporgendo in avanti, assumendo una forma che sembrava quella di un guerriero con la spada in mano che stesse avanzando con mosse rigide attraverso una tenda. Con un gemito appena percepibile, alcune pietre si separarono dalle altre, e un guerriero venne avanti a grandi passi, un uomo di pietra con una superficie liscia e uniforme là dove ci sarebbe dovuto essere il volto; una spada, anch'essa di pietra, si sollevò nell'aria, pronta a colpire, e il massiccio cavaliere si girò rapido a fronteggiare il più vicino fra gli umani che lo stavano fissando a bocca aperta. «Sargh! È vivo!» stridette Gloun. «Ce n'è un altro!» gridò Lultus, con voce che era quasi un singhiozzo di terrore. «Laggiù!». Nel punto indicato dalla sua mano tremante, le pietre del muro stavano fluendo come fango per poi protendersi verso l'esterno in un'enorme prua che si modellò a formare due nuovi cavalieri di pietra. «Un mago!» urlò qualcuno, mentre i due cavalieri prendevano ad avanzare con passo pesante. «Il re ha un mago! Siamo perduti!». Qualcun altro, Gluon, lanciò un urlo inarticolato e si diede alla fuga. «A me!» urlò Duthjack, mettendo a tacere con un colpo del pugno guantato di maglia l'uomo che stava gridando di maghi e di sventura. «Non dobbiamo...». Nel momento stesso in cui il guerriero a cui lui aveva rotto la mascella barcollava e crollava al suolo, lasciandosi alle spalle soltanto una chiazza di sangue color vinaccia che grondava dal guanto, il capo della banda di laceri guerrieri vide che già una mezza dozzina dei suoi uomini era in fuga attraverso il bosco, e che gli altri erano prossimi a imitarli. Una spada di pietra colpì il terreno con forza sufficiente a far frusciare l'albero più vicino, e l'uomo che aveva rotolato freneticamente per evitarne l'impatto si rialzò stridendo come un bambino terrorizzato e passò attraverso un cespuglio nel darsi a una cieca fuga nella notte.
Per l'Oscuro, un agire furtivo era ormai impensabile, come pure lo era rimanere a combattere! «Al castello!» gridò Lama di Sangue, indicando davanti a sé, fra gli alberi, e scorgendo in lontananza il vago chiarore di radure illuminate dalla luna. «Carica!». Questa volta, nessuno si soffermò a mettere in discussione i suoi ordini. Gli uomini di Duthjack volsero di scatto le spalle ai guerrieri di Pietra che li stavano incalzando e spiccarono la corsa con rauche grida Permeate di orrore. La paura rese veloci i loro piedi e li indusse a lanciarsi a precipizio attraverso i cespugli e a scivolare sulle aiuole di fiori umidi, laddove la prudenza li avrebbe altrimenti indotti a procedere strisciando furtivamente, e in un brevissimo arco di tempo affannoso si ritrovarono a correre lungo sentieri ben tenuti e attraverso pergolati, in aree sempre più esposte alla fredda luce argentea della luna, lasciandosi alle spalle gli alberi. «Non è poi stata un'idea così meravigliosa», si lamentò qualcuno, mentre correvano. «Se il re ha a disposizione più maghi di un barone, siamo...». Lama di Sangue ruotò su se stesso e colpì il guerriero farfugliante con tutto l'impeto che gli derivava dalla corsa, scagliandolo al suolo con un violento pugno a due mani sferrato in piena faccia; mentre lui e l'alto guerriero crollavano al suolo insieme, Duthjack sentì qualcosa cedere sotto i guanti di cotta di maglia; rotolando per allontanarsi da un'altra faccia sanguinante, si rimise in piedi e riprese a correre. No, quella non era stata un'idea meravigliosa... Sei o sette cavalieri di pietra stavano avanzando senza fretta in mezzo agli alberi, al loro inseguimento, con la spada sollevata. Per gli dei! Dovevano trovare il mago che stava controllando quelle cose, chiunque fosse, e dovevano farlo in fretta. Se soltanto fra le file degli uomini di Blackgult ci fosse stato un numero più elevato di bravi arcieri, loro... ma no, quel genere di pensieri andava bene quando si passava il tempo a vantarsi intorno a un fuoco, non mentre si era impegnati a cercare di restare in vita nel tentare di assassinare un re. Sendrith «Lama di Sangue» Duthjack serrò la mascella e agitò in cerchio la spada sopra la testa. «A me!» gridò, alzando la voce quanto più osava. «A me!». Se avessero continuato ad avanzare alla cieca in quel modo, avrebbero raggiunto il palazzo e sarebbero stati bersagliati dalle frecce degli arcieri regi, sempre che ce ne fossero, quindi doveva radunare i suoi uomini, e quella piccola torretta laterale era il luogo ideale per farlo! «Radunatevi laggiù!» esclamò, indicando con la spada. «A me!».
La torre non era altro che una stanza a tre lati, aperta all'aria sul lato più vicino al castello; le altre pareti erano tutte trapassate da alte finestre ad arco, nude e vuote aperture che non erano neppure dotate di imposte o di tendaggi, e la struttura si assottigliava ben presto verso l'alto in una guglia coperta di tegole, appollaiata su una collinetta in mezzo ad aiuole fiorite, come la torre di un castello posata a terra dalle dita di un gigante di passaggio. La costruzione era a meno di un tiro d'arco dalle mura del palazzo, ma avrebbero dovuto accontentarsi. Non avevano molto tempo, perché quelle cose di pietra potevano anche camminare con comica quanto aggraziata lentezza e maneggiare la spada in modo altrettanto lento, ma continuavano a venire avanti e lui non aveva idea se potessero essere fermate, infrante o anche solo contrastate. Se le porte del palazzo avevano dimensioni convenzionali, però, quelle cose non vi sarebbero potute entrare, quindi ciò che dovevano trovare al più presto era un'entrata accessibile. Sì, tutta quella situazione si stava trasformando in fretta in un incubo fatto di fuga e di disperazione, e... Improvvisamente, una porta si aprì nelle mura del palazzo, proiettando nella notte un vivido e tremolante nastro di luce accompagnato dal bagliore di una spada sguainata, poi alcune teste fecero capolino all'esterno. Le loro grida erano state sentite. Non fu necessario impartire ordini perché tutti i guerrieri di Duthjack si accoccolassero al suolo, immobilizzandosi al punto che sarebbero potuti essere altrettante rocce scure disseminate nell'ombra notturna; intanto, tre cortigiani dal mantello e dalle vesti di seta sollevarono le lanterne accese e scrutarono nel buio, incerti. «Haroo?» chiamò uno di essi. Quelle non erano certo tattiche di uomini abituati alla guerra, che si aspettassero un attacco o che fossero anche solo dotati di prudenza. I tre non avevano neppure estratto la spada, anche se una lucida lama argentata scintillava al loro fianco. Ignari di essere già condannati, i cortigiani avanzarono all'esterno di parecchi passi esitanti e lanciarono un altro richiamo, mentre la luce della luna strappava bagliori a orecchini seminascosti da basette profumate e ben curate, e alle corazze scolpite come uccelli con le ali allargate per spiccare il volo. «C'è qualcuno?». «Haroo?». I cortigiani si scambiarono un'occhiata e si separarono leggermente gli uni dagli altri, scrutando l'oscurità circostante.
Su tutti i lati, gli uomini che si definivano i guerrieri di Lama di Sangue tremarono d'impazienza, muovendo solo gli occhi nel guardare verso il loro capo in attesa di un segnale. Il terreno tremò, segno che i cavalieri di pietra si stavano avvicinando. «Attaccate!» tuonò Duthjack, alzandosi di scatto e agitando la spada in modo tale da farla scintillare sotto la luce della luna. I cortigiani lo fissarono a bocca aperta, sollevando un po' di più la lanterna. Per due di essi, quello fu l'ultimo gesto mai compiuto, perché ombre scure si alzarono da terra tutt'intorno a loro, trapassandoli con la spada. Il terzo, che si trovava un po' più indietro rispetto ai compagni, emise uno strillo soffocato che lo fece sembrare un topo terrorizzato e si girò per fuggire; uno dei guerrieri si lanciò al suo inseguimento e lo raggiunse rapidamente, portandosi a ridosso della sua schiena e sollevando la lama per colpirlo alla gola. Il cortigiano si gettò alle spalle la lanterna, che scoppiò sulla faccia del guerriero. Gloun Ummertyde crollò al suolo urlando, i capelli in fiamme e il fuoco che gli fluiva fra le dita che artigliavano disperatamente gli occhi. Ombre scure gli saettarono accanto nel tentativo di raggiungere il cortigiano, che stava proseguendo la propria fuga urlando, il mantello corto che gli svolazzava sulle spalle, nel dirigersi verso la porta aperta con passo reso barcollante dalla fretta. Mani guantate si protesero e mancarono la presa, lame annerite colpirono con la forza della disperazione, fendendo soltanto l'aria: non lo avrebbero raggiunto in tempo. «Cosa succede?» esclamò una voce altisonante, che echeggiò nella notte, mentre altre facce apparivano sulla porta. Chi aveva parlato non riuscì ad aggiungere altro e le sue parole finirono con un grugnito di sorpresa quando il cortigiano terrorizzato gli andò a sbattere contro e lo scaraventò all'indietro, rotolando insieme a lui sul retrostante pavimento di piastrelle e rovesciando qualcosa che crollò rumorosamente al suolo. «Dentro!» ruggì Lama di Sangue. «Presto, prima che qualcuno possa chiudere la porta! Dentro, che le Corna vi prendano!». Mararr raggiunse la soglia per primo, spalancò il battente e saettò all'interno; i guerrieri che stavano convergendo alle sue spalle lo videro scivolare su qualcosa e poi colpire con forza con la spada corta che impugnava nella sinistra, un affondo verso il basso e uno verso l'alto. Qualcuno cercò di urlare, ma riuscì a emettere soltanto un umido verso soffocante. Poi sciamarono tutti oltre la soglia, la spada protesa davanti a sé per evi-
tare di colpirsi a vicenda nello spintonarsi per varcare il portale. Lama di Sangue lanciò una rapida occhiata alle proprie spalle, in direzione del bosco rischiarato dalla luna, e vide alcune vacue facce di pietra, almeno cinque, che lo fissavano nell'avanzare con lenta perseveranza. Imprecando, si chiuse violentemente la porta alle spalle. Naor aveva già pronto il paletto per sbarrarla e lo fece scivolare sugli appositi sostegni, rivolgendo un cenno di rassicurazione a Duthjack, mentre l'uomo che quella notte voleva uccidere un re si allontanava dalla soglia e lasciava scorrere lo sguardo sulla stanza che avevano conquistato. Tre uomini del palazzo, uno dei quali poco più che un ragazzo e vestito con la livrea della servitù, giacevano morti sul pavimento, e i suoi uomini stavano già saettando in tutte le direzioni, spalancando porte e sbirciando di qua e di là. Lama di Sangue represse a fatica un'imprecazione, e si stava già chiedendo se avessero dimenticato tutti che dovevano stare uniti e obbedire agli ordini, quando vide alcune facce girarsi verso di lui. «Da quella parte», ringhiò, indicando la porta che conduceva nella direzione giusta, «e state uniti, bebolt a voi!». Attraversarono in massa la soglia in questione, procedendo in fretta, ma più silenziosamente, nell'imboccare un passaggio costellato di porte chiuse, che in una direzione formava un bivio e nell'altra si apriva nell'arcata di accesso a una grande camera interna: volti stupiti li fissarono dall'estremità opposta di una vuota distesa di lucido marmo. «Addosso! Non lasciate che diano l'allarme!» tuonò Lama di Sangue, poi afferrò per un braccio l'uomo più vicino e ringhiò: «Mararr, prendi con te due uomini e trova delle scale che portino in alto... ai maghi piace sempre dominare il mondo dall'alto!». L'armaragor salutò in segno di assenso, e con un vorticare del balteo dalle molte lame si girò per imboccare di corsa il passaggio laterale, seguito da altri due uomini. Lama di Sangue intanto spostò lo sguardo su Naor, che era al suo posto abituale, accanto al suo capo. «Guardaci le spalle», borbottò, «e se vedi qualche balestra, lancia un grido». Intanto i suoi guerrieri stavano già attraversando a precipizio la grande camera, un ambiente echeggiante dall'alto soffitto a volta, con le pareti decorate da immensi dipinti di cervi che venivano cacciati in mezzo a foreste verdeggianti, e arredato con divani semicircolari da cui pallidi uomini vestiti di seta si stavano già alzando in piedi, il boccale ancora in mano, nel vano tentativo di afferrare la spada sottile che portavano al fianco.
Gli uomini di Duthjack colpirono con brutale efficienza, squarciando facce e spezzando colli con una rapidità quasi magica, tanto che alcuni dei cortigiani non ebbero neppure il tempo di gridare prima di essere abbattuti; l'unico che si gettò in ginocchio per implorare venne ucciso senza la minima esitazione. Ci fu poi un rumoroso schianto quando un servitore in livrea bianca, che era entrato a ritroso nella stanza reggendo un vassoio carico di boccali, si volse, vide la strage e gettò al suolo il proprio carico in preda al terrore; mentre l'uomo tornava a voltarsi e afferrava la maniglia della porta da cui era appena entrato, Lultus lanciò la propria spada con cura e precisione. Essa raggiunse il vecchio in mezzo agli orecchi, generando uno spruzzo di sangue. Il servo gettò indietro la testa e si accasciò contro la porta che stava cercando di aprire, scivolando senza un suono lungo il battente. «Un buon vino», commentò intanto Gurkyn, posando un boccale vuoto con un tonfo sonoro. Lama di Sangue aprì la bocca per rimproverarlo per la sua idiozia, ma la richiuse senza dire nulla nel constatare che altri otto boccali stavano venendo svuotati, lo stelo rivolto verso il soffitto mentre altrettanti guerrieri gettavano indietro il capo per trangugiare il vino in un sorso. Corna della Signora, a cosa sarebbe servito parlare? Se non altro, non era stato dato nessun allarme. «Trascinate i corpi contro quella porta», ordinò, indicando il battente a ridosso del quale si era accasciato il servitore, «e proseguiamo, riattraversando l'arco e lungo il passaggio in cui ho mandato Mararr». I guerrieri erano impegnati a raccogliere a piene mani pasticcini e quelle che sembravano ostriche di fiume in salsa, disposte su piccole fette di pane, ma tutti stavano guardando verso di lui e stavano annuendo; levando gli occhi al cielo in un gesto di disgusto, Lama di Sangue riattraversò a passo svelto il pavimento di marmo. Dopo tutto, era pur sempre possibile che i cavalieri di pietra li inseguissero all'interno... Il passaggio laterale risaliva una breve rampa di scale e si allargava in una galleria disseminata di statue che sboccava in un secondo passaggio; dopo pochi altri gradini, quel secondo passaggio si apriva su una stanza da cui due corridoi si diramavano verso nord e nordovest, mentre un'ampia scalinata saliva verso ovest e una grande porta dagli elaborati battenti doppi occupava la parete meridionale; il corpo di un servitore era raggomitolato sugli ultimi tre gradini dal basso, sottili rivoli di sangue che da esso colavano sul pavimento di marmo; sorridendo di approvazione alla vista di
quel segno del passaggio di Mararr, Lama di Sangue guidò gli altri verso l'alto, indicando con la spada il pavimento per incitarli a essere più furtivi nel sentire l'eco dei loro passi rimbombare contro l'alto, invisibile soffitto sovrastante. I Tre gli erano testimoni che quel posto sembrava decisamente deserto! Quella era la corte del Re di tutta Aglirta? Il palazzo dava la sensazione di vuoto echeggiante propria di una casa nobiliare chiusa per la stagione e in cui fossero rimasti solo pochi servitori. D'altro canto, naturalmente, era improbabile che dei cadaveri corressero in giro urlando, come Lama di Sangue rifletté con un teso sorriso, nel salire la scalinata. Altri corpi erano sparsi nella grande camera in cima allo scalone, distesi intorno a un fuoco crepitante che ardeva in un focolare sporgente dalla parete. I più erano riccamente vestiti, fra essi non c'erano donne, e alcuni pareva avessero tentato di combattere, come testimoniava una di quelle sottili, inutili spade che giaceva infranta su un ricco tappeto di pelliccia, in mezzo a numerose impronte insanguinate. Duthjack si guardò intorno, cercando invano un'altra scala. Scrollando le spalle, attraversò quindi la stanza verso l'arcata opposta, dove Mararr aveva lasciato un altro cadavere, questo con un braccio teso a indicare il passaggio retrostante l'arco. I guerrieri che si stavano accalcando alle spalle di Lama di Sangue seguirono senza esitazione la sua guida, procedendo quasi con una grazia da danzatori, la spada insanguinata tenuta pronta lungo il fianco. Più avanti trovarono altri corpi, e altre arcate che davano accesso a una successione di stanze, una sorta di biblioteca, una camera irta di teste di cervo adorne di corna e di altri trofei di caccia, poi arrivarono a un'ultima porta, fiancheggiata da torce accese: una cappella dedicata alla Signora. Lama di Sangue socchiuse gli occhi, riflettendo. Quello era stato il Castello Silvertree, e più di una famiglia baronale era solita usare la Casa della Cacciatrice per appuntamenti amorosi e altro ancora; se quel re aveva delle amanti, allora era possibile che lo trovassero in qualche camera ombrosa al di là di quella porta. Una guardia morta, il primo uomo in armatura che avessero visto nel palazzo, dava credibilità a quella supposizione, e il suo cadavere dimostrava che Mararr l'aveva condivisa. Entrarono nella cappella con cautela, trovando il solito Altare delle Corna e la prevista fila di porte coperte da tende dietro di esso; davanti a una di quelle porte, una sacerdotessa della signora giaceva prona in una polla di sangue che si andava allargando, le dita contratte intorno al tendaggio, e
nel vederla Lama di Sangue contrasse le labbra in una smorfia, perché gli dei non guardavano con favore a coloro che portavano la guerra nei loro templi. La porta al di là della tenda era aperta e, segno che Mararr aveva avuto buon fiuto, una scala stretta e buia portava verso l'alto, un gradino su tre rilucente di una magia che senza dubbio avvertiva qualcuno, da qualche parte, della presenza di chi saliva di lì. C'era solo da sperare che di sopra non ci fosse più nessuno in vita e in grado di dare retta a simili avvisaglie. Naor posò una mano sulla spalla del suo capo in un gesto di avvertimento, per l'istante che gli servì a oltrepassarlo e a precederlo su per la scala. Nella stanza in cima trovarono un altro corpo, quello di un servitore dalla livrea molto più sfarzosa, abbandonato su un divano con le mani che penzolavano vuote. Lama di Sangue sorrise: evidentemente si stavano avvicinando al re, o al mago, o forse a entrambi. Era tempo di usare prudenza. Fermandosi, segnalò con la spada agli uomini di oltrepassarlo. «Voi due, rimanete di guardia a questa scala», ordinò a Lultus e a Gurkyn. «Sorvegliate la base e la cima, e avvertitevi a vicenda, avvertendo anche noi, se qualcuno dovesse attaccarvi con la spada... o con la magia». Poi riprese ad avanzare, affiancato da Naor, con il resto dei guerrieri che ora lo stava precedendo, in modo che eventuali quadrelle o incantesimi incontrassero per primo il loro petto, e non il suo. Attraversarono altre tre camere di morte, senza però notare la faccia scolpita in alto sulla massiccia colonna centrale della quarta stanza, nelle cui orbite intagliate c'erano due occhi veri: gli occhi di Ingryl Ambelter, tornato a essere il Maestro d'Incantesimi del Castello Silvertree, anche se nessuno sapeva ancora della sua presenza. Quegli occhi si socchiusero con irritazione nel fissare gli intrusi, poi si ritrassero nelle profondità della colonna e svanirono. «Attento!» chiamò Lultus, indietreggiando sul primo gradino alla base della scala. «Guarda!». Gurkyn sbirciò verso il fondo della scala e vide uno scintillio luminoso più in basso, nella cappella. «Magia», disse, anche se non era necessario. La luce era apparsa dal nulla in una nuvola di minuscole stelle dorate, simili alle scintille prodotte da un fuoco che, per qualche motivo, rifiutassero di spegnersi, e in mezzo a essa c'era un uomo snello e di bassa statura,
vestito di cuoio, che si stava guardando intorno con stupore, una spada sottile già in pugno. Lultus non attese di verificare se quell'apparizione fosse ostile o amichevole: afferrato uno dei lunghi coltelli che portava negli stivali, lo scagliò con forza. L'uomo snello sollevò di scatto la testa in reazione al rumore da lui prodotto e si tuffò di lato, protendendo al tempo stesso la spada, poi si sentì un clangore musicale quando la daga colpì la lama protesa e ne venne deviata. L'istante successivo, il nuovo venuto si lanciò alla carica. Gurkyn si avviò lentamente giù per la scala, la spada spianata. Sapeva che Lultus non avrebbe apprezzato un aiuto di cui non aveva bisogno, e... «Anch'io sono lieto di fare la tua conoscenza, per quanto breve», sentì dire in tono allegro all'ometto, mentre Lultus scattava in avanti e le loro spade s'incrociavano. Le lame saettarono, tintinnando, poi Lultus crollò in avanti con il sangue che gli zampillava dalla gola, e l'ometto spiccò la corsa su per la scala. Rivolgendo a Gurkyn un ampio sorriso, agitò verso di lui la lama insanguinata. «Craer Delnbone, al tuo servizio», si presentò giovialmente. «Anche tu hai intenzione di tentare di uccidermi?». Gurkyn Oblarram diede una sola occhiata a quegli occhi danzanti, poi si volse e fuggì su per le scale più in fretta che poteva. Mentre la Banda di Lama di Sangue avanzava attraverso un'ennesima stanza, Mararr Guldalmyn sbucò a precipizio da un'arcata, impegnato a fuggire più in fretta che poteva. Ansimando, corse verso di loro, la faccia coperta di sangue che colava da una guancia lacerata, altro sangue che grondava dalla mano abbandonata lungo il fianco, con parecchie dita recise quasi di netto. «Fermo!» gridò Peldrus, parlando per la prima volta nell'arco di quella notte. «Cosa...?». Singhiozzando, Mararr lo spinse di lato, contorcendosi disperatamente per riuscire a passare; gli altri si ritrassero per lasciarlo andare, e videro che dal suo balteo mancavano parecchie spade. Mentre l'armaragor si allontanava annaspando, Lama di Sangue infine lo riconobbe. «Guldalmyn, fermati e combatti!» ingiunse. «Te lo ordino!». Mararr rallentò, si aggrappò a una colonna e si girò, arrestandosi infine
con il respiro affannoso. «Cosa succede?» ringhiò Duthjack. «Chi hai incontrato?». Un movimento nella stanza successiva indusse tutti a girarsi a guardare in quella direzione, in tempo per vedere due cortigiani dall'aria cupa scaraventare verso di loro il corpo di Skuldus, uno dei due uomini che avevano seguito Mararr nella sua esplorazione, avanzando poi a loro volta. Un serrato capannello di altri cortigiani venne avanti dietro di loro, la spada in pugno e il volto contratto in un'espressione timorosa ma determinata. Alla loro testa c'era un uomo in armatura completa, con la visiera abbassata e una spada in ciascuna mano; entrambe le lame grondavano sangue. Senza parlare, Mararr indicò verso i cortigiani. «Uccideteli», ordinò Lama di Sangue, cupo, alzando appena il tono della voce. Mentre i suoi uomini si facevano avanti, mosse due passi di lato, afferrò un'elegante sedia e la scagliò lungo la stanza, mandandola a fracassarsi in mezzo ai cortigiani, senza abbattere nessuno di essi, ma costringendone parecchi a spostarsi di lato con un'imprecazione. Poi da ogni parte le lame s'incontrarono fragorosamente e il combattimento prese a infuriare sul serio. I guerrieri di Duthjack erano esperti veterani, disperati fuorilegge troppo di recente reduci dai campi di battaglia per aver dimenticato tutti i trucchi da usare in una mischia, e i loro avversari erano uomini privi di armatura, palesemente spaventati, che da anni avevano dimenticato la disperazione dei campi di battaglia; tuttavia, in mezzo a quei cortigiani troppo cauti e sulla difensiva avanzava il gigante in armatura, la cui lama saettò come un serpente, scivolando sotto una parata per aprire la gola a Peldrus e poi a Braerim, in altrettanti secondi. «Abbattete il cavaliere in armatura!» gridò Lama di Sangue, sollevando un'altra sedia. Se fosse riuscito a scagliarla al di sopra di tutte le teste, centrando quell'elmo al momento giusto... Il suo proiettile improvvisato centrò una spalla e rimbalzò da un lato, ottenendo soltanto di far barcollare uno dei suoi stessi uomini: la lama di un cortigiano saettò verso la sua gola esposta e ci fu un guerriero in meno che poteva obbedire a Duthjack. Un cortigiano venne abbattuto, seguito da un secondo, poi il cavaliere in armatura, la cui lama scintillava in mezzo a un grappolo di nemici, eliminò Nluthkin e Tanthorn, facendo al tempo stesso barcollare all'indietro un terzo uomo, Earlevus, che scoccò a Lama di Sangue un'occhiata piena di terrore e lo oltrepassò di scatto, fuggendo dalla stanza. «Fermatevi, sargh a voi!» urlò Lama di Sangue, protendendo la spada
per fermare l'uomo in fuga o per abbatterlo, ma scoprendo che la portata dell'arma non era sufficiente a raggiungerlo. Corna e bebolt! Adesso anche altri stavano fuggendo, ruotando sui tacchi per abbandonare a precipizio la stanza. «Fermatevi, cani!» infuriò Duthjack, afferrando uno dei guerrieri, che fu costretto ad arrestarsi, ma non riuscendo a trattenere gli altri. «Fermatevi e combattete! Abbiamo un regno da conquistare!». «I Tre non vogliano», commentò una voce proveniente da dietro l'elmo abbassato. «Altri idioti che cercano di conquistare Aglirta con la spada. Signora, aiutami». Lama di Sangue tornò a girarsi verso la mischia e trapassò un cortigiano con una certa soddisfazione, centrandone un altro all'inguine con un calcio selvaggio mentre il primo uomo si accasciava gemendo sul pavimento. Un urlo che echeggiò alle sue spalle lo indusse a girarsi appena in tempo per vedere Earlevus che rientrava indietreggiando nella stanza con passo incespicante e crollava al suolo, mentre il suo uccisore liberava la propria lama con uno strattone. Il nuovo venuto era un ometto saettante vestito di cuoio che Lama di Sangue non aveva mai visto prima: un procacciatore, per i Tre, e non un cortigiano! Per gli dei, possibile che quella notte qualcun altro stesse cercando di uccidere il re? Lama di Sangue tornò a voltarsi con una parata disperata e si allontanò agilmente da un cortigiano incespicante. Su entrambi i lati ci fu uno stridere di lame, uno dei suoi uomini schivò da un lato, e Lama di Sangue si trovò faccia a faccia con il cavaliere in armatura. Le labbra gli si incurvarono in un sorriso quando notò che l'elmo dell'uomo era di fattura antiquata, con le fessure della visiera che potevano facilmente essere attraversate dalla punta di una spada. «Incontra la morte, uomo!» ringhiò, sollevando la lama insanguinata. «Davvero?» ribatté la voce profonda, dall'interno dell'elmo. «Sto cercando l'Oscuro da molto, moltissimo tempo, e tuttavia pare non mi riesca mai di trovarlo quando un guerriero cerca di indicarmi la strada per raggiungerlo». «Sia dunque questo il giorno in cui si concluderà la tua ricerca», sibilò Lama di Sangue, spiccando un salto per imprimere tutta la propria forza a un fendente che avrebbe dovuto oltrepassare la guardia dell'avversario e centrare in pieno la sua visiera. L'acciaio incontrò l'acciaio, stridendo, e le due lame si bloccarono una
contro l'altra, mentre i due avversari facevano forza su di esse, i volti che quasi si toccavano. Poi Duthjack si allontanò con una rotazione e colpì, basso e rapido: quella era la sua mossa migliore, la stessa con cui aveva ucciso il vecchio Sarmor, sei estati prima, e il fuorilegge Largrath, in un tempo ancora antecedente. La sua spada venne spinta di lato da una lama che parve scaturire dal nulla per incontrarla, e quella stessa parata si trasformò con fluidità sconvolgente in un fendente che gli colpì dolorosamente le costole, strappando via una piastra dell'armatura che rimase a dondolare appesa a una sola delle sue cinghie. «Chi sei tu?» annaspò Duthjack, indietreggiando con passo incerto di fronte alla spada saettante dell'avversario. Il cavaliere in armatura sollevò la visiera, fissando il fuorilegge con occhi gelidi. «Il tuo re», rispose una voce ancora più glaciale. Duthjack deglutì a fatica, emise quello che poteva essere un singhiozzo... e fuggì. 11. Serpenti, pietre e pozzi Due sguardi s'incontrarono per un fugace istante, ciascuno vedendo la speranza affiorare nell'altro: quella poteva essere esattamente l'occasione che stavano aspettando. I due apprendisti non ebbero bisogno di sorridere per condividere quel pensiero, il che fu un bene, perché nessuno dei due aveva il coraggio di esibire un sorriso. Era possibile che quello fosse il giorno in cui il potente e ampiamente temuto Tharlorn il Tonante sarebbe andato incontro alla morte, o sarebbe stato condannato a una prigionia e a un tormento infiniti per opera di due ignoti novizi della magia. Nella Valle ci sarebbero stati molti che li avrebbero ringraziati per questo, perché più di una volta le magie di Tharlorn avevano crepitato come una frusta su coloro che lui riteneva essere i suoi nemici. I suoi incantesimi avevano divorato vivi degli uomini dall'interno, oppure avevano trasformato i loro arti in tentacoli, lasciandoli a strisciare e dibattersi invano fino a essere uccisi dai vicini disgustati, o ancora avevano inviato anguille volanti a divorare gli occhi a quanti avevano osato opporglisi. Fra i suoi nemici c'erano stati maghi famosi, dapprima pochi, poi coppie e addirittura cabale intere, maghi indotti a unire le loro forze dal crescente
timore nei confronti di un uomo che poteva evocare fulmini dal cielo e che trasformava gli uomini che sconfinavano nelle sue terre in statue impotenti, i muscoli completamente bloccati, finché non morivano di fame o di freddo... o finché non venivano divorati vivi da qualche animale. Non molto tempo prima, Tharlorn il Tonante aveva avuto al suo servizio tre apprendisti, giovani maghi dotati di talento e impazienti di imparare che erano pronti a servire il loro maestro con assoluta fedeltà perché non osavano fare niente di meno. I due più giovani erano due uomini, ma la più matura e abile era una donna, ed era la compagna di letto di Tharlorn: Catheleira Bowdragon, dei Bowdragon di Arlund. La sua era una famiglia famosa per il suo talento magico, e lei non era stata la meno dotata fra i suoi membri, ma dal giorno successivo al loro primo incontro era diventata la schiava di Tharlorn, per sua stessa volontà. Questo era successo dodici estati prima, o poco più, ma poi era giunto un tempo in cui Tharlorn si era stancato di avere intorno schiavi sottomessi e dei loro astuti, ambiziosi, piccoli tradimenti, il che spiegava perché quel giorno erano soltanto due gli apprendisti fermi in piedi nelle gelide profondità della più esterna delle caverne per l'esecuzione di incantesimi nel sottosuolo della nascosta Thundergard, e perché entrambi erano uomini. «Ecco», commentò improvvisamente Tharlorn, sollevando le braccia; le grandi maniche delle sue vesti si aprirono spontaneamente mentre il potere fluiva da lui in una marea invisibile, così intensa e improvvisa che l'aria stessa parve tremare. «È fatta». Quelle erano le prime parole che l'arcimago avesse pronunciato da quando aveva borbottato l'ultimo dei dieci incantesimi che avevano trasformato una minuscola biscia nel suo capolavoro: un uccisore di maghi. Quando aveva iniziato, il corpo di Catheleira era ancora caldo, sventrato e aperto sul tavolo da lavoro come un maiale sul tagliere di un macellaio... prima che il serpente ingigantito decine di volte rispetto alla taglia originale fosse calato su di esso, le fauci delle sue numerose teste che mordevano all'unisono, divorando anche l'ultimo osso della più giovane dei Bowdragon. Quando la sua fine fosse stata risaputa, Tharlorn avrebbe dovuto affrontare l'ostilità di un'intera famiglia di maghi, ma probabilmente la cosa gli avrebbe fatto piacere, perché perfino gli arcimaghi avevano bisogno di qualche divertimento. Le dita di Tharlorn artigliarono l'aria tracciando deliberatamente una serie di semicerchi. Nel vederlo tremare visibilmente, i due apprendisti si scambiarono delle occhiate, poi il più alto dei due avanzò di un cauto pas-
so per portarsi dove poteva vedere, sia pure a stento, il volto di Tharlorn. Il Signore dei Tuoni stava sudando, e le vene gli sporgevano dal collo come lame di daga, le sue labbra si contorcevano in silenzio e la faccia era contratta in una lotta silenziosa che parve farsi più serrata mentre il serpente attraversava la stanza e si sollevava lentamente, come una grande colonna oscillante, incontrando con il proprio lo sguardo del mago. La creatura era massiccia, con spalle grosse e pesanti quanto quelle di un cavallo. I due apprendisti le avevano definite «spalle» perché non riuscivano a trovare altra parola per definire l'enorme e contratta massa di muscoli presente dove le scaglie terminavano e il sinuoso corpo da rettile si gonfiava in un gigantesco pugno di carne dal quale si diramava una dozzina di colli sottili simili ad anguille, ciascuno dei quali terminava con una testa dagli occhi dorati che era poco più di un paio di fauci di una larghezza impossibile. Quelle fauci dalle file di denti aguzzi stavano addentando l'aria, spalancate in un costante, famelico e vano protendersi verso il mago che le aveva modellate. L'uccisore di maghi tremò e una serie di spasmi violenti percorse tutto il suo corpo mentre esso cercava di oscillare in avanti, si sforzava di impartire un movimento alle proprie spire e falliva nel suo confronto di volontà con il mago. La foresta di occhi dorati fissò Tharlorn con un odio che poteva essere percepito in modo tangibile. Catheleira era intrappolata dietro di essi, e adesso era desta e cosciente... e stava urlando in silenzio contro la propria prigionia, intenta a dibattersi sotto la morsa di un controllo sempre più assoluto. Rinchiusa nelle folli profondità di quel corpo mostruoso, che Tharlorn aveva modellato contorcendo carne e ossa, nel fondere insieme numerose creature con un sibilante incantesimo dopo l'altro, trasformandole in una creatura da incubo, Catheleira Bowdragon stava conoscendo una forma di dannazione che pochi esseri umani avevano mai sperimentato. Il suo unico crimine era stato l'ambizione, il suo solo errore quello di essere troppo facile da raggiungere per il suo maestro. I due apprendisti erano immobili come statue di pietra, il volto trasformato in una maschera accuratamente inespressiva, mentre guardavano Tharlorn il Tonante tremare. Il loro maestro stava cercando di sottomettere quella creatura alla sua volontà nello stesso modo assoluto e completo con cui controllava le proprie mani, ma pareva che quell'opera di sottomissione non stesse proce-
dendo bene, perché se il serpente non era riuscito ad avvicinarsi maggiormente, d'altro canto non aveva smesso di tremare, e adesso anche Tharlorn era scosso da un tremito. Le vesti gli aderivano al corpo fradicio di sudore mentre la sua mente lottava in un'invisibile rete di magia, impegnata a cercare di sopraffare e conquistare la mente di Catheleira così come aveva fatto spesso con il suo corpo, a volte con la tenerezza e altre con la crudeltà. Nessuno dei due apprendisti osava muoversi, per timore che il mago o il serpente si accorgessero di loro e li attaccassero. Senza fiato, intrappolati, oscillavano esitanti, un bagliore negli occhi colmi di timore: non osavano muoversi, ma neppure osavano rimanere dov'erano. Se il loro maestro avesse fallito nel suo intento, infatti, non era forse possibile che il serpente dalle molte teste li sbranasse e schiacciasse nella sua impazienza di arrivare a Tharlorn, o nel trionfo derivante dall'averlo annientato, prima che Catheleira si rendesse conto di aver bisogno del loro aiuto se voleva avere la minima speranza di tornare nel proprio corpo, o prima che riuscisse a controllare la propria furia? D'altro canto, il loro maestro aveva sacrificato la più fedele e capace fra i suoi apprendisti senza il minimo avvertimento. Non era quindi possibile che dopo toccasse anche a loro, una volta che Tharlorn fosse riuscito a controllare l'uccisore di maghi e avesse deciso di fargli fare un po' di esercizio nell'abbattere le prede o anche solo di permettergli di saziare la propria fame? Il Signore dei Tuoni si raddrizzò e un sorriso gli affiorò lentamente sul volto, rivelando i denti serrati. «Così va meglio», commentò, con voce che era una forzata parodia del consueto tono arrogante. «Sei mia, Cathlass, come lo sei sempre stata. Mia. Non dimenticarlo mai!». Poi sollevò una mano, e la grande massa del serpente si sollevò e s'inarcò all'indietro, le numerose teste che si levavano all'unisono verso il soffitto, le lingue biforcute che si protendevano in una fugace foresta. Tharlorn guardò quelle teste riabbassarsi a contemplarlo con occhi roventi e sorrise. Senza preavviso, l'uccisore di maghi si girò di scatto e protese le fauci verso i due apprendisti terrorizzati. Gli occhi dorati fissarono quelli castani dei due umani da meno di mezzo metro di distanza, scintillanti di malizia, prima di voltarsi all'unisono verso Tharlorn, il cui sorriso si accentuò. «Sì, credo che mi obbedisca senza ritrosie o esitazioni», commentò, rivolto ai due apprendisti, mentre induceva il serpente dalle molte teste a tornare davanti a lui, tracciando uno stretto cerchio sulle piastrelle, come
un menestrello che si girasse per mostrare i propri numeri da giocoliere alla folla raccolta su tutti i lati, poi aggiunse: «Le sue scaglie sono la mia innovazione più ispirata, in quanto riflettono gli incantesimi alla loro origine. «Cercate di ricordarlo», continuò, rivolgendo un sorriso ai due volti pallidi e tesi. «Ritengo che aiuti a frenare dannose ambizioni». Senza attendere una risposta, il più temuto fra i maghi della Valle tornò a concentrarsi sull'uccisore di maghi. «Ti ho creato perché tu distrugga determinate persone da me scelte. Lascia che l'ira che provi per ciò che ti ho fatto ti pungoli e ti guidi nell'andare a uccidere colui di cui vedi ora l'immagine». Nel parlare, agitò una mano, e molti occhi dorati si dilatarono all'unisono. «Bodemmon Sarr!» sibilarono in coro le molteplici bocche. «Naturalmente», replicò il mago, girando sui tacchi, e uscì dalla stanza senza un'altra parola e senza guardarsi indietro. L'uccisore di maghi girò le sue teste a contemplare i due apprendisti immobili, che scoprirono come lo sguardo congiunto dei molteplici, scintillanti occhi dorati avesse uno strano potere: prima che fossero passati più di pochi istanti silenziosi, entrambi stavano tremando. Improvvisamente il serpente s'irrigidì, girò le numerose teste con quello che poteva essere un sogghigno dipinto sulle fauci e strisciò fuori dalla camera. Anch'esso non si guardò indietro. Due volti pallidi per la paura si riscossero dall'affascinata contemplazione di quel corpo sinuoso per guardarsi a vicenda, umettandosi le labbra aride, senza però che nessuno dei due apprendisti superstiti di Tharlorn proferisse parola. Ciascuno lesse negli occhi dell'altro lo stesso orrore per la sorte di Catheleira, e la cupa consapevolezza che anche loro sarebbero presto potuti andare incontro a un simile destino. La Dama dei Gioielli stiracchiò le lunghe braccia ben modellate, protendendole sopra la testa e facendole ruotare lentamente verso il basso con un movimento che le agitò sulle spalle i capelli sciolti. «Ah», commentò, rivolta agli uomini che le camminavano accanto, «è proprio bello essere di nuovo in giro a salvare la Valle insieme a voi tre». Craer si limitò a un grugnito inarticolato, mentre Hawkril e Sarasper le scoccarono un'occhiata e borbottarono qualcosa che, in entrambi i casi, intendeva essere una condivisione di quel sentimento. Riposati e ristorati, i
membri della Banda dei Quattro si sentivano a loro agio nel camminare con passo tranquillo lungo i tortuosi sentieri di campagna dell'Aglirta settentrionale. Attualmente si trovavano nelle campagne più povere e meno abitate di quella che era stata un tempo la Baronia di Phelinndar, una terra costellata di una miriade di piccole fattorie, recintate da muretti di pietra e disseminate di grigi e giganteschi ceppi di vecchi alberi; abbondavano anche le aree boschive, dove gli alberi crescevano fitti e scuri, quasi che la Foresta di Loaurimm fosse stata riluttante a ritrarre le proprie dita e ad abbandonare la propria presa sulla baronia decaduta. Craer aveva quasi deciso di fidarsi nuovamente di Embra. Lei era indubbiamente parsa disorientata quanto tutti gli altri quando lui si era ritrovato di nuovo nella Casa Silenziosa, dopo quel breve sconcertante periodo in cui si era trovato a correre e a combattere per i corridoi del Castello della Corrente Spumosa, impegnato a uccidere alcuni fuorilegge decisi ad assassinare il re, e lei aveva giurato in tutti i modi e con ogni giuramento che chiamasse in causa i Tre di non aver gettato su di lui nessun incantesimo, e di non sapere nulla di quella sua improvvisa teleportazione. Craer però conosceva ormai bene la sensazione derivante dalla magia dei Dwaer, e se non era stata Embra a usare una di quelle Pietre, allora di chi si era trattato? Peraltro, lei si era offerta di far verificare a Sarasper la sincerità dei suoi dinieghi e aveva ribadito, arrivando quasi alle lacrime, di non aver avuto nulla a che fare con quel suo viaggio improvviso... e i Tre gli erano testimoni che lui le credeva. Questo però significava che qualcuno in possesso di un Dwaer li stava tenendo d'occhio. Ecco, quella non avrebbe certo dovuto essere una notizia sorprendente. Dopo tutto, dopo aver discusso della cosa fino ad arrivare a una situazione di stallo e aver stancamente accantonato l'argomento, loro adesso erano là proprio per riprendere la caccia agli altri Dwaerindim. Embra si era servita della sua Pietra per riportarli nella radura dove aveva eseguito l'incantesimo di ricerca, incantesimo da cui pareva essere passato decisamente molto tempo, e adesso quel luogo si trovava a circa un giorno di marcia, alle loro spalle. Un piccolo incantesimo di spionaggio, subito interrotto, che aveva comunque consumato una lampada magica assolutamente orribile, aveva rivelato a Embra che la Pietra che stavano cercando si trovava da qualche parte davanti a loro, molto vicina. Quella lampada era stata uno dei pochi oggetti fragili fra le decine di suppellettili incantate, vecchi tesori risalenti a un'epoca più ricca di magia,
che adesso gonfiavano gli zaini e le sacche da cintura, e pendevano perfino dai lacci della biancheria di ciascuno dei Quattro. Anche se la Pietra di Embra, recuperata dopo che Hawkril aveva eseguito un'operazione chirurgica particolarmente sanguinosa sulla metà superiore della carcassa dello zannelunghe, le pendeva di nuovo sul petto appesa alla sua catena, essi avrebbero comunque avuto bisogno di altre, abbondanti risorse magiche per difendersi da maghi, baroni traditori e sacerdoti del Serpente. Inoltre, gli incantesimi erano di diversa natura a seconda del tipo, e usare una Pietra così vicino a un altro Dwaerindim sarebbe servito soltanto ad attirare l'attenzione. E a provocare una reazione che poteva essere soltanto ostile e letale. «Lady Embra», osservò d'un tratto Sarasper, «non sarebbe ora di provvedere a travestirci? È possibile che nelle storie dei menestrelli i maghi rimangano seduti tranquilli e ignari mentre gli eroi piombano su di loro, ma nella vita reale non ho mai riscontrato che fossero così poco accorti... nella mia vita, almeno». «Allora si tratta di te, vero?» scherzò Craer, costringendosi con determinazione ad accantonare il ricordo di come era stato trasportato al palazzo a metà di un passo e poi riportato indietro, parecchie stanze e parecchie uccisioni più tardi, in maniera altrettanto brusca e improvvisa. Per gli dei, lui era Craer, e avrebbe continuato a essere Craer, con le sue battute allegre e tutto il resto. «Senza la sfortuna ambulante che ti porti appresso, guaritore, saremmo comunque in grado di entrare saltellando nella stanza di un mago addormentato e di strappargli i peli del naso senza neppure svegliarlo! Che i Tre ti prendano! Di questo passo, quanto tempo mi ci vorrà per rubare quanto basta a permettermi di ritirarmi per tempo da ogni attività e concedermi una vita di ozio e di piaceri?». «A giudicare dalla montagna di monete e di gemme necessaria per sopperire alle tue esigenze di "ozio e di piacere", direi altri centoventi anni», grugnì Hawkril. «Nondimeno, Sarasper ha ragione, è tempo di travestirci. Le frecce degli archi da bracconiere dei contadini sono dannose quanto la spada di una guardia... o quanto l'incantesimo di uso a distanza di un coltello eseguito da qualche mago di campagna». Embra sospirò e allargò le mani con il palmo verso il basso, in un gesto che invitava gli altri a fermarsi. «Avete ragione», ammise, «e io devo smetterla di pensare a tutto questo come a una sorta di gita di piacere. Aglirta continua a non essere governata da nessuno. Rimanete immobili, tutti quanti».
Craer le rivolse un breve belato soffocato, ma tutti e tre gli uomini obbedirono. «Saremo una baronessa e tre cortigiani, sperduti dopo essere rimasti senza i cavalli, oppure?...» chiese Hawkril, incurvando le labbra in un'espressione che non era propriamente un sorriso a indicare che non stava parlando sul serio. «Perché accontentarci di un rango così infimo? Perché non essere il Re Ridestato in persona e tre dei suoi baroni?» ribatté Craer. «Mi piacerebbe proprio essere un arrogante e sogghignante ba...». «Se quello che vogliamo è essere lasciati in pace», intervenne Sarasper, acido, «e se voi due potete smetterla per un momento di fare i giullari, faremmo meglio ad apparire come quattro sacerdoti del Serpente. In quel caso, tutti si terrebbero alla larga da noi!». «E sibilerebbero di paura, ricorderebbero il nostro passaggio e non alzerebbero un dito per aiutarci, se dovessimo chiedere appoggio a qualcuno», fece loro notare Embra Silvertree. «No, credo sia meglio apparire come pellegrini in cerca di una reliquia della Signora». «No», obiettò Hawkril. «Questo ci costringerebbe a fare domande dappertutto riguardo a felini in caccia o falchi bianchi o cose del genere. Se ben ricordi, sembra sempre che i pellegrini della Cacciatrice siano in cerca di qualche bestia insolita. Meglio fingerci devoti del Padre. In quel caso», continuò, ignorando il sussulto di Sarasper, «potremmo limitarci a cercare fiori o semi immersi in un reverente silenzio, sbirciando dappertutto e parlando soltanto per elargire sommesse benedizioni a tutti». «Il benedetto Hoaradrim», mormorò Craer. «Sì, può funzionare. Però sono trascorsi anni dall'ultima volta che ho visto dei pellegrini che osavano attraversare la Valle». «Ah, ma adesso il re è tornato», ribatté Embra trionfalmente. «È l'alba di una nuova pace, e noi diffondiamo sicurezza mostrando la nostra fiducia nella mano protettrice del re. Userò un incantesimo per creare per tutti noi le lunghe vesti marroni degli "amanti della natura", e non mi dovrò preoccupare di rimodellare fino all'ultima il centinaio di daghe di Craer». «O il centinaio di preoccupazioni di Sarasper», borbottò il ladro, annuendo, e ignorò apertamente l'occhiata furente del guaritore. «Essere un devoto della Quercia non mi preoccupa minimamente», dichiarò Sarasper, rivolto a tutti gli altri. «Procedi, ragazza». Questo gli fruttò un accenno di riverenza da parte di Embra. «Ai tuoi ordini, signore», ribatté la Dama dei Gioielli, fingendo un tono
timido da servetta. Craer ridacchiò, imitato più lentamente da Hawkril. «Nessuno di voialtri idioti prende mai nulla sul serio?» si lamentò Sarasper, levando gli occhi al cielo. «Proprio nulla?». «I nostri pasti», fu pronto a replicare Craer. «Hawk si preoccupa soprattutto di riempirsi il ventre, mentre io mi dedico a riempire al meglio le caraffe della miglior qualità di...». «Oh, piantala», ringhiò Sarasper. «I Tre mi preservino! È come viaggiare con due menestrelli che non sanno mai smettere di cianciare. Due menestrelli scadenti». «Ma bene!» protestò scandalizzato Craer, piantandosi le mani sui fianchi in un atteggiamento di finta indignazione. «Attraversiamo mezzo regno per soccorrerti, ti liberiamo dalla tana oscura e solitaria che è Casa Silvertree, ti facciamo provare abbastanza eccitazione da riempire tre intere esistenze nel combattere contro maghi, bestie mostruose e baroni malvagi da un'estremità all'altra del...». «Craer, taci», intervenne Embra seccamente, pungolando energicamente l'inguine del ladro con una statuetta raffigurante Padre Quercia. «Taci adesso e anche in seguito, per un ragionevole periodo di tempo. Non vorrai che commetta qualche errore nell'eseguire il mio incantesimo, trasformandoti in un rospo dall'incontrollabile flatulenza, vero?». «No, signora, non lo conosci proprio», si affrettò a ribattere Hawkril. «A lui piacerebbe essere un ro...». «Si sarebbe quasi costretti a prendere a calci un rospo afflitto da una flatulenza incessante, giusto?» lo interruppe Sarasper, sfregandosi le mani. «Fallo, signora». «Silenzio, tutti quanti», ingiunse Embra, girando la testa per includerli tutti in uno sguardo rovente che si arrestò su Craer, facendosi più intenso. Il procacciatore le rivolse un rapido sorriso sfacciato e non disse nulla. Un silenzio più rumoroso di qualsiasi parola. Sollevando la statuetta in un gesto ammonitore, Embra procedette senza ulteriori indugi a sussurrare un incantesimo. Una nebbia bianca e scintillante parve scaturire dal nulla per avvilupparle le mani mentre cantilenava le parole, toccando a turno ciascuno dei compagni con la statuetta che cominciava a rimpicciolire fra le sue dita. Mentre l'incantesimo prendeva consistenza, Hawkril girò lentamente il capo a scrutare i campi e gli alberi che li circondavano, alla ricerca di qualsiasi persona, o anche di qualsiasi bestia, per quanto piccola, che li stesse
osservando. Embra aveva però scelto bene il punto in cui effettuare la magia: si trovavano sotto il riparo delle foglie di un'immensa quercia, in un punto in cui il sentiero di terra battuta che stavano percorrendo descriveva una morbida curva intorno alla massa di una collina seminata a orzo, che si levava erta su un lato. Dall'altra parte, un ruscello in secca aveva scavato un piccolo canalone che era ora quasi completamente intasato dai rovi e da cespugli a foglia larga, una piccola cicatrice nel terreno da cui si levava la quercia, fiancheggiata da pochi alberi di altro tipo, malaticci e soffocati dall'altra vegetazione. I Quattro si trovavano quindi in una piccola depressione, al sicuro da occhi curiosi: chiunque avesse voluto spiarli avrebbe dovuto trovarsi molto vicino a loro. Oppure avrebbe dovuto usare la magia. Quel pensiero generò un piccolo brivido nel massiccio armaragor, un senso di gelo che perdurò durante tutta la loro lenta e silenziosa trasformazione in Fedeli della Quercia. Embra assunse l'aspetto di una grassa e lenta matrona dai modi allegri e materni, priva di alcuni denti e costellata di un'abbondanza di verruche. Sarasper divenne la sua controparte ancora più grassa, la faccia quasi nascosta dalle pieghe di carne cascante. Quanto a Craer, ora appariva come una ragazzina dal volto sottile e imbronciato e dal fisico tanto magro da essere quasi maschile, mentre Hawkril... «Dei!» borbottò, abbassando lo sguardo. «Mi hai fatto apparire come una donna!». «E anche piuttosto affascinante», commentò Craer, «se sei uno a cui piacciono cosce da mucca e seni che sembrano sacchi di patate. Vieni da me, affascinante bellezza dei miei so...». Con calma, Sarasper prese l'informe cappello di cuoio che gli si era materializzato sul capo e lo calcò con disinvoltura sulla testa di Craer, tirandolo in basso fino a farlo arrivare ben oltre il mento della magra ragazzina. Ciocche di capelli arruffati si arricciavano qua e là intorno ai bordi del cappello, ma a parte questo non si vedeva più niente della faccia del procacciatore trasformato. Hawkril sbuffò ed Embra ridacchiò, mentre Craer assumeva una posa indignata e dichiarava, con voce soffocata: «Lui sosterrà che questo è un miglioramento, ma io sono decisamente di un altro punto di vista». «Io non ne sono tanto sicuro», ribatté Hawkril, mantenendo un'espressione del tutto seria. «Lascialo così per qualche tempo, mentre ci penso su, d'accordo?». «E quale si dà il caso che sia il tuo nome, mia buona matrona?» doman-
dò con falsa dolcezza Craer, tuttora incappucciato, incrociando le braccia sotto il seno praticamente inesistente. «Chiamami Vordra», rispose con fare dignitoso Hawkril, ergendosi sulla persona. Questa volta fu Sarasper a piegarsi su se stesso per il troppo ridere, risate a cui Craer fece eco da sotto il cappello. «Cosa c'è di tanto divertente nel nome "Vordra"?» chiese Embra, inarcando un sopracciglio. «Vordra», spiegò Sarasper, «era una delle migliori mucche da riproduzione di tuo padre. Dava un latte davvero buono. Ti ha tenuta rinchiusa fino a questo punto?» aggiunse poi, accigliandosi. «Per gli dei, sì», rincarò Craer, emergendo da sotto il cappello. «Credevo che lo sapessi». «In tutta serietà, signori», sospirò Embra, scuotendo il capo, «ricordate una cosa. Quello che so è niente in confronto a quello che fingo di sapere». «Parole troppo ben scelte per poter essere dimenticate», sussultò Craer. «È un peccato che non vengano pronunciate più spesso da coloro a cui maggiormente si attagliano». «Per esempio...?» domandò Sarasper in tono significativo, protendendosi in avanti con aria accigliata. «No, no, guaritore», rispose Craer, restituendogli il cappello, «non mi riferivo a nessuno di noi. Stavo pensando piuttosto ai baroni e ad altra marmaglia del genere». «Possiamo passare la giornata a scambiarci frecciate», sorrise Embra, scuotendo il capo, rivolta ai rami che li sovrastavano, «oppure possiamo sceglierci un nome a testa e rimetterci in marcia, giusto?». «Ben detto», borbottò Hawkril. «Avviamoci». E allargò le braccia per sospingere i compagni lungo la strada, mentre decidevano di diventare rispettivamente Olim, sua moglie Vordra, la loro figlia Rendree e l'amica di Vordra, Lassa... che con il suo più dolce e altezzoso tono da Lady Silvertree consigliò a Hawkril di non parlare, se non riusciva a modificare il consueto tono profondo, e a Craer di non parlare in nessun caso, se non voleva sperimentare l'impatto dello stivale di Lassa contro il suo posteriore. Stavano ancora ridacchiando per quelle parole quando Olim vide un'insegna e la indicò agli altri; Craer, che continuava a essere quello fra loro che aveva la vista più acuta, socchiuse gli occhi e infine annunciò: «Tarlarnastar. Un piccolo villaggio, e orgoglioso di essere tale».
«Questo non c'è scritto», ringhiò Vordra. «Lascia perdere le tue arguzie almeno per un po' di tempo, Crae... Rendree. Non ho mai sentito parlare di Tarlarnastar». «E io sono certo che neppure i suoi abitanti hanno mai sentito parlare di te, madre», rispose con falsa dolcezza Rendree, affrettandosi poi a mettersi fuori portata. «Credevo avessi minacciato di prenderlo a calci», osservò Olim, rivolto a Lassa, che gli sorrise e mosse due passi di corsa, assestando un calcio che mandò la ragazza a rotolare su se stessa fin dentro il fosso più vicino. Rendree riemerse sputando ranocchi. «Non è così divertente», ringhiò, ma quella sua affermazione fu prontamente smentita dalle risate dei suoi tre compagni. «E non sono certo che i Fedeli della Quercia vadano in giro sghignazzando come ragazze di taverna ubriache», aggiunse in tono cupo. Quelle parole contenevano una dose di verità sufficiente a soffocare alquanto la rumorosa ilarità dei compagni, le cui risa si spensero poi del tutto quando Embra s'irrigidì improvvisamente e posò per un momento la mano sul polso di Craer, gli occhi che esprimevano un avvertimento. Un momento più tardi, quella parte della sua magia che permetteva loro di vedersi reciprocamente con il loro nuovo aspetto, invece che con quello effettivo, cominciò a svanire. Quale che fosse l'immagine che gli piaceva dare di se stesso, il ladro non era però certo uno stupido: la causa invisibile di allarme che Embra aveva avvertito poteva essere soltanto di natura magica, e dal momento che non c'erano lingue di fuoco, spade volanti o ossa saltellanti che stessero piombando su di loro, si doveva trattare di un incantesimo inteso a spiarli. Qualcuno li stava osservando. Girandosi di scatto, il procacciatore si affrettò a tornare verso Sarasper. Adesso poteva di nuovo vedere i compagni con il loro aspetto effettivo, il che significava che Embra aveva smesso di operare magia e stava confidando che l'incantesimo già portato a termine mantenesse in essere il loro travestimento agli occhi del mondo. «Ti fa ancora male, padre?» chiese Craer, accigliandosi come avrebbe potuto fare una ragazzina. «Ti ho sentito gemere». «Sì, ragazza», rispose Sarasper, incontrando di sfuggita il suo sguardo. «Hai visto giusto, come al solito. Il Padre non mi vuole liberare da questo dolore». Il suo passo successivo risultò marcatamente zoppicante. «Tuttavia», continuò con voce rauca, «mi fa bene sentirci ridere tutti in-
sieme. Proseguiamo, dacché è possibile che questo villaggio di Tarlarnastar possa offrire un risanamento per me, o qualche segno del Padre». Craer levò gli occhi al cielo per un istante, giusto per far sapere a Sarasper che stava recitando fin troppo bene la parte del pio pellegrino, poi si girò e precedette di corsa gli altri per un breve tratto, scrutando davanti a sé prima di sospirare e di tornare indietro prendendo a calci i sassi. «Non vedo torri, padre, solo capanne», affermò. «Pensi forse che bastino una corsa e una sola occhiata per scorgere tutto quello che c'è da vedere?» obiettò Vordra, in tono severo. «Cammina con noi, ragazza, ed entreremo in quel villaggio tutti insieme. È possibile che la speranza, l'aiuto e perfino la salvezza risiedano anche in altri posti che non siano delle torri». «Sì, Vordra, ben detto», approvò la sua amica Lassa, prendendola sottobraccio; dal canto suo, Vordra si appoggiò al marito, dall'altro lato. «Il Padre ama gli alberi e le cose che crescono, non le pietre degli uomini», continuò, «e cos'altro è una torre, se non un mucchio di pietre, eretto dall'uomo, che cerca di essere un albero?». L'occhiata che la giovane Rendree le scoccò per tutta risposta esprimeva una notevole dose di incredulità, ma poi il ladro nascosto nella ragazzina smise di colpo di levare gli occhi al cielo e di aggrottare la fronte quando si accorse che Embra stava lottando per non scoppiare nuovamente a ridere. «Non siamo molto portati per queste cose, vero?» chiese con finta innocenza, riprendendo ad allontanarsi. «Alcuni di noi non sono molto portati a dare ascolto... cammina con noi, ragazza!» scattò Vordra. Fu così che i quattro pellegrini entrarono tenendosi sottobraccio nel paesetto in cui doveva trovarsi la Pietra che Embra aveva percepito. Tarlarnastar era un piccolo villaggio grazioso. Alcuni cani da guerra abbaiavano alla catena, ma soltanto i polli circolavano liberi nel fango del viottolo. Come aveva detto Rendree, non c'erano torri, solo una manciata di piccole capanne erette le une vicino alle altre lungo la strada, i loro giardini che si perdevano fra gli alberi. Secchi belati pieni di contrarietà denotavano la presenza di pecore da qualche parte nelle vicinanze, dietro quelle case sprangate; mentre avanzavano in mezzo a esse, giunse loro all'orecchio il rumore risonante del martello di un fabbro, e più avanti videro uno spazio aperto dove la strada si allargava per aggirare una costruzione di pietra che doveva contenere un pozzo.
Il fabbro stava lavorando all'esterno, all'ombra della tettoia della sua fucina. Sotto di essa non c'erano buoi da ferrare, e l'oggetto che lui stava martellando dava l'impressione di essere destinato a diventare la testa di un'ascia, o forse la lama di un falcetto o un aratro a mano per un uomo di dimensioni massicce. Il fabbro era un individuo sudato dalla barba incolta che doveva aver avuto esperienze di guerra, almeno a giudicare dalla cicatrice che gli correva lungo la spalla, e com'era tipico dei fabbri, in qualsiasi villaggio, stava lavorando in mezzo a una piccola folla di uomini anziani che non avevano niente da fare. Occhiate curiose e occhi socchiusi squadrarono i quattro viandanti quando essi si avvicinarono; se pure li aveva visti o sentiti, il fabbro non lo diede a vedere in nessun modo e continuò a modellare ciò che stava forgiando con colpi rapidi e decisi. Rendree accennò ad avanzare, ma Vordra la trasse indietro con decisione, e fu invece Lassa ad avvicinarsi a uno degli uomini seduti. «La pace sia con te, uomo, e con la Valle», disse, incontrando lo sguardo cauto e strabico del suo interlocutore. «Siamo quattro Fedeli della Quercia, e l'uomo che è con noi è ferito. Nelle vicinanze c'è un guaritore, o un erborista... o perfino un mago, che possa visitarlo?». La domanda fruttò loro altre occhiate curiose, ma gli uomini che li stavano fissando continuarono a rimanere in silenzio per parecchio tempo, durante il quale il fabbro calò ancora il proprio martello e si girò verso la fucina, prima che giungesse una risposta. L'uomo a cui Lassa si era rivolta contrasse la mascella come se stesse masticando, guardò verso di lei, poi contemplò con aria pensosa l'incudine. «È meglio che andiate nella casa del pozzo, laggiù», replicò. «Il nostro signore è là, e lui ve lo saprà dire». «Chiedo scusa, ma chi è il Signore di Tarlarnastar?» domandò ancora Lassa. L'uomo sputò pensosamente nella polvere, in mezzo ai propri piedi. «Turnhelm, così si fa chiamare», disse. «È un grande guerriero, o lo è stato». Alcune persone si affacciarono alle finestre o sollevarono lo sguardo dai giardini che stavano liberando dalle erbacce e seguirono con lo sguardo il passaggio dei quattro pellegrini, elargendo loro altre occhiate incuriosite. «Queste persone non hanno mai visto dei pellegrini, prima d'ora?» tuonò Vordra, in quello che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere un sommesso sussurro.
«Siete certi che non ci siano spuntate la coda e ali da pipistrello?» borbottò di rimando Rendree. «Non può essere che non ricevano mai visite, ci sono sempre taglialegna che passano di qui diretti alla Foresta di Loaurimm, e che fanno scendere lungo il fiume la legna che non riescono a tagliare e ad ammucchiare sui carri». Olim scrollò le spalle e sollevò una mano, in modo che gli altri potessero vedere l'impugnatura della daga racchiusa fra le sue dita, il resto dell'arma nascosta dalla mano e dalla manica. «Confidate nel Padre, come faccio io», affermò, in tono significativo, «e tenetevi pronti». Dopo tutto, Tarlarnastar aveva una torre: anche se le sue pareti erano di poco più alte della testa di Vordra, la casa del pozzo era infatti un grosso cilindro rotondo fatto di massicce pietre, il cui spazio interno doveva essere ampio almeno quanto quattro capanne, se non di più. L'unica porta era abbastanza larga da lasciar passare un carro ed era aperta, con una sola lanterna, o forse una torcia, che emetteva una luce incerta all'interno, da qualche parte. Lassa spinse il pesante battente di legno fino a spalancarlo del tutto e avanzò all'interno, solo per essere spinta da un lato dalla saltellante, eccitata Rendree. La ragazzina vide un pozzo rotondo scoperto, con il gancio per il secchio perso da qualche parte nell'oscurità delle travi del soffitto, un pavimento di terra battuta coperto da uno strato di paglia e un mucchio disordinato di secchi marci in un angolo... e oltre una dozzina di uomini accalcati nella stanza: armaragor in armatura completa e con la spada in pugno. Quando presero ad avanzare, lo fecero con un sorriso tutt'altro che amichevole. «Quindi adesso i procacciatori vanno in battaglia saltellando come ragazzine?» sogghignò uno di essi. «Bene, bene, escogitano sempre una nuova tattica per disorientarci». Nel parlare, lanciò un coltello che saettò verso Embra, ma Craer protese una mano quasi con noncuranza e deviò da un lato la traiettoria dell'arma. A quanto pareva, quattro travestimenti magici erano appena scomparsi senza preavviso. «Non uccidete la ragazza!» gridò qualcuno. «Ci serve viva! Gli altri non contano!». «Ecco, questa è una cosa che mi irrita», dichiarò Craer, balzando verso un armigero che stava cercando di oltrepassarlo di corsa e conficcandogli la propria daga in un orecchio. L'uomo emise un gorgoglio soffocato mentre Craer lo spingeva lontano
da sé, usandolo come leva per proiettarsi verso l'alto e spiccare il balzo contro un altro avversario. «Mi irrita sempre», aggiunse intanto, «quando la gente mi accantona come qualcuno che non conta. Sappiate questo, idioti: noi tutti contiamo. Perfino la vostra morte mi sminuirà in qualche modo... sia pure di poco». Nel frattempo la casa del pozzo si era trasformata in un caos di guerrieri lanciati alla carica, di lame che scintillavano e sbattevano con clangore contro armature alleate, contro le pareti e il muretto del pozzo nel venire agitate selvaggiamente. Alle spalle di Craer, Hawkril ringhiò come un orso e venne avanti per affrontare gli armaragor, poi un bagliore improvviso scaturì dalle dita di Embra, e alla sua luce i Quattro videro che la grande stanza rotonda conteneva più uomini di quanti avessero creduto. Craer piantò entrambi i piedi calzati di stivali nel ventre di un guerriero che gli si ripiegò addosso con un gemito di dolore nel lasciar cadere la spada da una mano e la daga dall'altra... e in quel momento il chiarore racchiuso fra le mani di Embra divenne improvvisamente una scarica di luce dirompente che saettò danzando verso il fondo della stanza come un serpente inquieto, lasciandosi alle spalle una scia di scintille e uomini che annaspavano e barcollavano. «Prendetela!» gridò uno dei sei guerrieri che fronteggiavano Hawkril. «Abbattete la maga!». Corpi in armatura si scagliarono di lato, oltrepassando Craer che stava rotolando al suolo e passando fuori dalla portata della spada di Hawkril; Sarasper fu costretto ad allontanarsi di scatto da un fendente, con il sangue che gli colava lungo un lato della testa, e il guerriero successivo eseguì un affondo nello spazio lasciato libero suo malgrado dal guaritore, trapassando con la punta della spada una delle mani di Embra, che si stavano muovendo nel modellare un incantesimo. La luce colò dalla ferita accompagnata da un urlo di dolore e seguita da un fiotto di sangue scuro, mentre la maga sollevava lo sguardo con occhi roventi e gridava un incantesimo che fece tremare l'aria stessa e fece esplodere una serie di statuette lungo la sua cintura in una fila di piccole lingue di fiamma. Qualcosa d'invisibile ma di massiccio tremolò nell'aria, allontanandosi da lei e muovendosi come un'onda enorme che si abbattesse su una riva, spazzando da terra gli armaragor e scagliandoli all'indietro contro le pareti di pietra con un clangore stridente di armature. Molte voci maschili urlarono di paura e di dolore, ed Embra rispose a esse con un ringhio furente.
Con cupa determinazione, Hawkril issò intanto in aria un avversario come un maiale sullo spiedo, sollevando lentamente la lama mentre l'uomo da essa trafitto si contorceva come un' anguilla, sputava sangue in un'ultima, violenta convulsione, e si accasciava inerte. Accanto all'armaragor, Craer si rimise in piedi e si protese a sollevare Sarasper, che stava strisciando. Adesso fra loro e la parete opposta c'era soltanto il vuoto: vivi o morti che fossero, i guerrieri presenti nella casa del pozzo erano stati spazzati tutti a ridosso delle pareti. Il vecchio guaritore si rimise faticosamente in piedi, barcollò e si aggrappò a Craer per sorreggersi. Per un momento, poi, nessuno si mosse. Embra era immobile con le mani sollevate, impegnata a tenere i loro aggressori inchiodati contro il muro mentre essi si dibattevano ringhiando, i sorrisi sogghignanti trasformati ora in maschere di paura e d'ira. D'un tratto si accorse che un singolo uomo, che non aveva armatura ma portava un logoro mantello con cappuccio e aveva il volto nascosto nell'ombra, stava venendo avanti come se l'incantesimo non stesse avendo effetto su di lui. L'uomo camminava con una mano infilata nel davanti della tunica, come se fosse stato ferito, ma stava avanzando verso di lei come il destino, lento e inesorabile. Embra gli scagliò contro quanto rimaneva della sua scarica di energia, il cui impatto avrebbe dovuto farlo rotolare lontano, e tuttavia lui continuò a camminare zoppicando, lento ma in qualche modo sicuro di sé. Con un senso di choc, Embra si rese poi conto anche di un'altra cosa: la Pietra che portava contro il petto stava vibrando e si stava riscaldando rapidamente. Presto le avrebbe ustionato la carne e avrebbe cominciato ad abbrustolirla. Quella era opera di un'altra Pietra. «Chi sei?» sibilò, rivolta all'uomo, mentre si frugava nel corpetto con mani frenetiche, constatando che perfino la catena che reggeva la Pietra si stava arroventando. Craer, Hawkril e il barcollante Sarasper serrarono intanto le fila davanti a lei, la spada spianata, per fronteggiare l'uomo che stava avanzando, dietro il quale era possibile ora vedere una manciata di guerrieri che procedevano al suo fianco, come se lui fosse stato la punta di una freccia diretta verso di lei. Poi una voce parlò alle spalle dell'uomo incappucciato... una voce che Embra aveva già sentito in passato. «Inchinatevi davanti al legittimo Signore di Tarlarnastar: Turnhelm il Possente!».
Craer accolse quel titolo con un'aperta risata di scherno, a cui però nessun altro dei Quattro si unì. I loro occhi erano fissi sul bagliore di una Pietra tenuta addossata al petto di una tunica, e sul volto sovrastante, che essa rischiarava di una luce spettrale con il proprio chiarore sempre più intenso. Quello era un volto che Embra aveva conosciuto per tutta la vita, la cui sola vista destava in lei un gelido timore. Con un senso nauseante di angoscia, Embra premette la mano ferita sul proprio Dwaer, sentendo il sangue sfrigolare contro di esso mentre cercava di piegarlo alla propria volontà e di costringerlo a raffreddarsi, pur sapendo che non ci sarebbe mai riuscita, scossa com'era e con così tante spade che avanzavano verso di lei, brandite da guerrieri che aveva avuto modo di conoscere bene, nel corso di troppi anni vissuti nel terrore. «Benvenuta, figlia!» salutò il Barone Faerod Silvertree, con voce fredda quanto il cuore stesso dell'inverno. Un incantesimo che Embra non fu in grado di riconoscere eruppe alle spalle del barone e le saettò oltre la spalla in un arco verde per esplodere dietro di lei, pervadendo la porta della casa del pozzo di un ribollente fuoco verde che le tempestò la schiena e le gambe di fitte di dolore, fino a costringerla ad avanzare con un'imprecazione. Erano chiusi dentro. Suo padre aveva sempre trafficato con la magia, ma quello era un genere d'incantesimo che lei non conosceva e che indusse Embra a socchiudere gli occhi con sospetto: là c'era un mago, nascosto dietro l'uomo che l'aveva generata... l'uomo che lei odiava più di tutti gli altri nemici messi insieme. E tuttavia era suo padre... Turnhelm, ossia «Voltaelmo», si era scelto un nome decisamente adatto, a brandire un Dwaer, lo stesso che stava inducendo la sua Pietra a rivoltarlesi contro. Embra chiuse una mano ad artiglio intorno alla Pietra che aveva sul petto, incurante del dolore, decisa a sottrarne il controllo a suo padre o a morire nel tentativo. Avrebbe mantenuto la stretta fino a quando le ultime ossa delle sue dita si fossero ridotte in cenere e avessero abbandonato la presa... Nel momento stesso in cui la sua mente s'insinuò nel flusso di energia fra le due Pietre, Embra comprese di essere la più forte. Con facilità, ricacciò lontano da sé l'influenza di suo padre, fino a quando le loro rispettive volontà si scontrarono a mezz'aria, più vicine a lui che a lei. Affrettati incantesimi erano stati eseguiti per aiutare il barone, ed era soltanto la loro forza che adesso le impediva di abbatterlo servendosi della sua Pietra. Faerod Silvertree si era fermato, appena fuori dalla portata della spada di Hawkril, ma tutti i suoi guerrieri si stavano lentamente rialzando e allonta-
nando dal muro con passo barcollante, paura e odio nei confronti di Embra che lottavano per il predominio su ogni volto mentre essi andavano a raggiungere il loro signore. Alcuni di essi erano stati le sue guardie del corpo al Castello Silvertree, e uno o due erano stati i tormentatori di Embra. Quando si furono schierati in una lunga fila minacciosa, tutti tranne i pochi che non si sarebbero mossi mai più, e che ancora giacevano immoti lungo il muro in un groviglio scomposto di arti coperti dall'armatura, avanzarono di un passo, all'unisono. Alle spalle dei Quattro, il fuoco verde continuava a imperversare in una barriera letale. «E così hai trovato una delle Pietre, padre», commentò Embra, quasi con noncuranza, incontrando lo sguardo di lui con il proprio. «Un tersept fuorilegge l'aveva tenuta nascosta per anni senza utilizzarla in nessun modo», spiegò Faerod Silvertree, con un accenno di sorriso. «La mia necessità era molto più pressante della sua, soprattutto dopo che la sua vita ha tristemente avuto una fine improvvisa, e da allora me ne sono servito per risanarmi. Ora sono di nuovo quasi integro», concluse, mentre l'accenno di sorriso svaniva. «Quasi». D'un tratto, dita di fuoco presero vita alle spalle del Signore di Tarlarnastar, aggirandolo in un luminoso e letale alone per abbattersi sui Quattro. Esse colpirono nel segno generando quattro sussulti e dando ai Quattro l'impressione di essere stati trafitti da daghe arroventate mentre indietreggiavano barcollando e Sarasper si accasciava lentamente al suolo. «Vecchie ossa», commentò Faerod Silvertree. «Accantonali, figlia. La tua simpatia per gli esseri inferiori continua a essere una debolezza, mentre io ho bisogno che tu torni a essere una forte lama nelle mie mani». «Mai!» ringhiò Embra, ritraendo le labbra sui denti. In quel momento, il mago smise di nascondersi dietro il cosiddetto Lord Turnhelm e lo aggirò per portarsi in piena vista, avvolto nel proprio senso di trionfo come in un mantello svolazzante. Era il Signore dei Pipistrelli. «Arrendetevi e vivete», ingiunse con una risata il mago che Embra era convinta di aver ucciso, lasciando scorrere sui Quattro lo sguardo degli occhi freddi e crudeli, «oppure sfidateci e...». 12. Aglirta assediata
«Morite», borbottò uno dei guerrieri, a voce tanto bassa che soltanto l'uomo accanto a lui riuscì a sentirlo. «Sfidate il re e morite...». La valletta circostante era uguale a tante altre disseminate fra le colline, una piccola depressione del terreno intasata dalle felci e sovrastata dagli ampi rami di massicci alberi di scorzanera. Era un posto costellato di pietre coperte di muschio e chiazzato dalle ombre, dove gli uccelli svolazzavano di cespuglio in cespuglio o indugiavano a trillare appollaiati su alti rami. In un punto, gli uccelli condividevano i loro rami fronzuti con due uomini cupi e silenziosi, due guerrieri, a giudicare dall'abbigliamento, che sedevano raggomitolati nei mantelli scuri e continuavano a scrutare senza sosta la distesa della Valle che si allargava sotto le colline, là dove le foreste di Silvertree cedevano il posto a fattorie, viottoli e botteghe, allontanandosi verso il nastro argenteo del fiume che si snodava tortuoso in lontananza. La valletta sottostante quelle sentinelle differiva dalla maggior parte delle altre disseminate fra le alture per il fatto che essa non conteneva soltanto uccelli saettanti e furtive bestiole pelose, ma anche una cupa e lacera manciata di uomini: quattro guerrieri dall'armatura logora, tre dei quali tenevano la spada snudata e pronta all'uso posata di traverso sulle ginocchia. Tutti avevano delle fasciature, rese scure e rigide dal sangue disseccato, e quello di loro che continuava a camminare avanti e indietro con irrequietezza, e aveva la fronte e le braccia fasciate, era colui che si faceva chiamare Lama di Sangue, e che di recente aveva cercato di uccidere un re, solo per scoprire che si trattava di un'impresa più difficile di quanto avrebbe mai creduto. Gli uomini che lo circondavano lo avevano seguito con entusiasmo nella sua scorreria, ma adesso nella valletta c'era ben poca traccia di qualcosa che potesse essere etichettato come «entusiasmo». Avevano corso per chilometri per arrivare in quel posto, una fuga incespicante e più disperata di qualsiasi altra a cui li avessero costretti le pattuglie dei baroni da quando erano tornati dalle Isole. Avevano corso con il respiro affannoso, le urla dei compagni morenti che echeggiavano ancora loro negli orecchi, inciampando sul terreno ineguale e prima ancora su oggetti eleganti e fragili che si rompevano sotto i loro piedi sul pavimento di piastrelle del palazzo, messi in fuga da un solo uomo e da poche guardie. Indipendentemente da qualsiasi altra cosa che si potesse dire sul conto dell'uomo che si autodefiniva Re di Aglirta, senza dubbio sapeva combattere.
Lama di Sangue stesso era sfuggito a stento alla fredda condanna inflitta dalla punta della spada del re, e questo soltanto grazie a una sedia. Una sedia dorata e imbottita che Mararr aveva scagliato attraverso la mischia con eccellente tempismo, spingendo Snowsar e la sua lama lontano dalla gola di Sendrith Duthjack abbastanza a lungo da permettere al sopraffatto capo ribelle di allontanarsi da quello che aveva cominciato a credere sarebbe stato il luogo della sua morte, per fuggire come un bambino spaventato attraverso il palazzo, abbandonando tutto nella bramosia di portarsi il più lontano possibile da una lama che non era in grado di parare, che aveva attraversato la sua guardia una volta dopo l'altra per lacerargli la pelle e versare il suo sangue. Adesso quelle ferite bruciavano e prudevano, e la paura continuava a opprimere Sendrith Duthjack come un peso costante al di sotto della sua ira ringhiante. Prima di allora, Lama di Sangue non aveva mai conosciuto la paura, e stava scoprendo che essa era il sentimento che detestava più di qualsiasi altro. Re Snowsar doveva morire, non più perché Sendrith Duthjack potesse sedere sul suo trono, ma per infrangere e bandire per sempre quella paura. Duthjack si stava quasi aspettando di vedere lo scintillare delle lance e delle armature di guerrieri a cavallo risalire sussultando i pendii sottostanti, inseguitori guidati dagli incantesimi di esplorazione di qualche mago e mandati a uccidere la manciata di uomini che era riuscita a sfuggire alla spada del re e ai guardiani di pietra dell'Isola della Corrente Spumosa, fino ad arrivare in quella Valletta. Questo era ciò che lui avrebbe fatto, se fosse stato al posto del re, non avrebbe dato agli assalitori il tempo di trovare un rifugio lontano o di cercare aiuto, ma si sarebbe subito messo in marcia e li avreb... «Per gli artigli dell'Oscuro!» sibilò una delle sentinelle appostate fra i rami, facendo oscillare le foglie nel protendersi in avanti per vedere meglio. Tutte le teste si sollevarono a guardare nella sua direzione, ma l'uomo rimase in silenzio mentre trascorrevano lunghi, lenti minuti. «Cosa c'è?» ringhiò infine Mararr. «Non lo so», borbottò l'uomo in alto sui rami. «Una... una bestia di qualche tipo». «Che tipo di...» cominciò Mararr, fissando la sentinella. «Guarda tu stesso», indicò l'uomo. «Prima d'ora non ho mai visto nulla di simile».
Gli uomini nella valletta si scambiarono occhiate accigliate e interrogative, poi emersero all'unisono dalla depressione del terreno, con cautela, e avanzarono fra i cespugli per accoccolarsi sulle rocce al limitare delle alture. Qualcosa che poteva essere in parte una lucertola e in parte una mucca stava avanzando lungo un campo, non molto più in basso rispetto a loro, trascinandosi dietro una tozza e corta coda. La creatura era grigia, e aveva due enormi artigli, o forse due tenaglie, appena sotto la testa protesa in avanti, nuda e brutta quanto la testa calva, dalle fauci seghettate e dal collo tutto pieghe di cuoio di una testuggine del mare delle Isole. Il corpo, grande quanto un carro, era gobbo ma liscio, e si estendeva in ali sottili che sembravano in tutto e per tutto i bordi di un guscio... «Che i Tre ci difendano!» imprecò uno dei guerrieri. «È un enorme granchio del profondo, arrivato fin qui dal mare!». «Un granchio sulla terraferma?» scattò Mararr, in tono incredulo. «Cosa potrebbe mai indurre un granchio ad avventurarsi così lontano dal mare?». «La magia», ringhiò Lama di Sangue. «Un mago che ha interferito con cose che era meglio lasciare in pace, come al solito. Scommetto che è una creatura evocata per darci la caccia». Intanto, il pesante granchio grigio arrivò al bordo di un campo dove le pietre smosse durante l'aratura erano state accumulate a formare una recinzione alta quanto un uomo. Stanchi di fuggire, gli uomini sulle alture rimasero a guardare con estrema attenzione, nell'eventualità che la bestia avesse svoltato lungo il muretto per avvicinarsi maggiormente a loro, e anche per valutarne l'agilità dal modo in cui si muoveva e si inerpicava. La bestia però non svoltò né si arrampicò nel procedere lentamente verso monte; invece, senza la minima esitazione continuò ad avanzare dentro la pietra. In silenzio, senza bagliori magici di sorta, procedette cocciutamente per la sua strada, trascinando la pesante coda. Accoccolati fra le rocce come altrettante statue, gli uomini di Lama di Sangue fissarono con la massima attenzione il granchio di terra, mentre esso si dissolveva nelle pietre come un'ombra, fino a svanire completamente. Il campo al di là della recinzione di pietra conteneva alcune mucche intente a pascolare, la testa bassa, il loro solo movimento il pigro agitarsi della coda per allontanare le mosche ronzanti. Lama di Sangue e i suoi uomini videro il granchio di terra emergere dal muro di pietre e continuare la sua avanzata con la stessa andatura lenta e deliberata, attraverso il campo successivo.
La mucca più vicina sollevò la testa per un momento, masticando pensosamente, e un lungo artiglio grigio saettò in fuori, chiudendosi intorno a una zampa del bovino senza rallentare il proprio movimento. La mucca, che aveva preso a lottare, venne trascinata per qualche momento a tre zampe sull'erba, prima che l'altro artiglio si protendesse a chiudersi intorno a una seconda zampa, rovesciando l'animale sul dorso con uno schianto. Gli artigli si chiusero, tranciando le zampe che racchiudevano, e la mucca emise acuti muggiti di dolore che cessarono bruscamente quando le fauci del granchio le squarciarono la gola. Il sangue iniziò a zampillare, e gli uomini sulle alture videro il granchio che cominciava a nutrirsi pazientemente in mezzo al rossore della carcassa ancora sussultante. Come i suoi movimenti, anche i suoi morsi erano deliberati e privi di fretta, ma la mucca venne comunque ridotta a un ammasso di ossa nel tempo che un guerriero stanco avrebbe potuto impiegare per liberarsi sbadigliando della propria armatura e spingerla da parte con un calcio, lasciando che fossero i servitori a occuparsene. «Nel nome degli dei, cosa può mai essere?» chiese aspro uno dei guerrieri che stavano osservando la scena. «Direi che è un granchio delle rocce, o qualche altro piccolo rettile, distorto e reso enorme dagli incantesimi di un mago agli ordini del Re Ridestato», replicò lentamente Mararr, mentre guardavano il granchio riprendere la propria lenta avanzata verso monte. «Un mostro nato per suo ordine e inviato a uccidere tutti i suoi nemici». «Davvero?» commentò in tono cupo Gurkyn. «Allora sarà impegnato per anni». La sua battuta fu accolta da un coro di fredde risate, un suono cupo e privo di divertimento che si spense improvviso com'era iniziato, per essere sostituito da sussulti di stupore. «Sargh», sussurrò qualcuno, con la voce che tremava per la paura, e un altro fra i guerrieri acquattati fra le rocce si lasciò sfuggire un vero e proprio gemito. Una seconda bestia mostruosa stava infatti avanzando attraverso il campo delle mucche, proveniente da un'altra direzione. Questo secondo mostro pareva avere invece molta fretta e procedeva con continue mosse sinuose e impazienti, senza prestare attenzione né al bestiame che si stava ora spostando in tutta fretta, sbuffando di timore, né al granchio di terra che stava scomparendo in lontananza. Si trattava del serpente più grande che chiunque fra i guerrieri avesse mai visto, un rettile che fissava la Valle con occhi
dorati che brillavano in una dozzina di teste dalle lunghe zanne, ciascuna sorretta da un proprio collo sinuoso. Gli uomini si addossarono il più possibile alle rocce quando alcune di quelle teste si girarono a guardare verso le alture, le fauci che schioccavano con aria famelica, ma il serpente non accennò a rallentare o a cambiare direzione, e continuò a strisciare verso Valle a una velocità spaventosa. «Possano i Tre prendersi tutti i maghi», sussurrò uno dei guerrieri, «e che lo facciano presto». «Prima del tramonto», convenne con fervore Mararr, mentre il serpente dalle molteplici teste scompariva al di là di una lontana recinzione di pietra, poi rabbrividì... e non fu il solo a farlo. Embra serrò i denti e inorridì per la consapevolezza di ciò che doveva fare. E doveva farlo adesso! Ora, mentre quei due stavano ancora gongolando. Improvvisamente, si ritrasse dal duello di volontà che stava sostenendo con suo padre attraverso i Dwaerindim e rabbrividì ancora in previsione della sofferenza che stava per sperimentare. Nel momento stesso in cui il fuoco che divampava nel suo Dwaer la trafiggeva, la Dama dei Gioielli utilizzò quelle energie ribollenti per distorcere il fuoco verde che imperversava alle sue spalle, costringendolo a riversarsi in Sarasper sotto forma di una fresca marea risanante, in modo da eliminare quella barriera, poi fece vorticare il fuoco della sua Pietra fino a creare un immenso e irregolare cerchio protettivo con cui parare l'impatto della furia di suo padre. Riuscì quasi nell'intento, deviando di lato gran parte di quella tempesta ululante che si abbatté lungo le pareti, ma il resto di essa la trapassò come una dozzina di lame gelide, strappandole un urlo tale da far sussultare tanto suo padre quanto il mago che lo serviva. Poi venne scaraventata lontano, rigida e inarcata all'indietro, e durante il volo si rigirò lentamente nell'aria, con il risultato che le sue cosce furono le prime a colpire la parete con violenza devastante, mandandola a scivolare sul pavimento a faccia in avanti, con la mente che vorticava e il potere che le ribolliva dentro con tanta forza da intorpidirla. Il dolore, oh, dei, quanto dolore! Mentre il suo corpo tremante e in preda alle convulsioni si accasciava su un fianco sulla paglia sporca, Embra afferrò i filamenti di energia e li scagliò contro suo padre e il mago, vedendoli barcollare entrambi all'indietro
con un'espressione in cui qualcosa di simile al timore si mescolava a un nascente senso di rispetto. In quel momento dagli armigeri di suo padre si levarono grida sorprese, e attraverso le lacrime che le offuscavano la vista, Embra vide la forma raggomitolata di Sarasper rimodellarsi nella mole pelosa e simile a un ragno di uno zannelunghe; Craer e Hawkril si erano intanto piazzati davanti al guaritore per proteggerlo durante la trasformazione. Il Barone Silvertree comprese all'istante quale fosse la nuova forma che il guaritore stava assumendo. «Abbattetelo!» ordinò ai suoi uomini, indicando la massa tremante, poi si girò verso il Signore dei Pipistrelli, ringhiando: «Mago!». Il mago Huldaerus gli rivolse un teso sorriso e allargò prima le mani, poi il mantello, dalle cui nere profondità emerse una marea di piccole creature svolazzanti altrettanto nere: un nugolo di pipistrelli, che risalirono verso il soffitto come fumo impaziente che cercasse un camino. «Non si potrà arrampicare fuori dalla nostra portata», commentò, quasi con indifferenza, «e quei due uomini armati non potranno durare a lungo, con gli occhi strappati dai miei piccoli!». Embra cercò di issarsi in piedi, ma la casa del pozzo prese a vorticarle intorno follemente e fu costretta a riaccasciarsi sulla paglia con un sussulto impotente, artigliandosi il petto per cercare di toccare la propria Pietra e trarne energia. I guerrieri di suo padre si stavano lanciando alla carica in una grande ondata sogghignante, le spade scintillanti, così numerosi che Hawkril non avrebbe potuto evitare di esserne sopraffatto, e una volta che lui fosse caduto, sarebbero stati spazzati via tutti, la Banda dei Quattro sarebbe scomparsa per sempre... «Sventrateli con le vostre spade», ordinò il Barone Silvertree, con un freddo sorriso. «Fate in modo che abbiano una morte lenta e dolorosa. Lasceremo che mia figlia assista: forse finalmente imparerà qualcosa». L'uomo che entrò a precipizio nel minuscolo villaggio di Dlaenriprel stava ansimando e barcollando, il respiro così affannoso che in un primo tempo la lotta per respirare gli rese impossibile formare delle parole. L'uomo si aggrappò alla manica di uno stupefatto carrettiere e farfugliò qualcosa di inarticolato ma di urgente nell'accasciarsi in ginocchio. «Cosa ti prende?» domandò in tono secco il carrettiere, fissando il volto ansante dell'uomo. «Cosa succede?». «È dietro di me», riuscì infine ad articolare l'uomo. «Presto... arriverà
qui. Un mostro!». «Di che genere di bestia si tratta?» insistette il carrettiere, socchiudendo gli occhi. «Chele da granchio... una cosa enorme che sembra un granchio! Spostate... il vostro bestiame! Divora le mucche!». Il carrettiere fissò in volto l'uomo ancora per un momento, durante il quale perse ogni residua incredulità, poi si girò di scatto, lasciando cadere al suolo l'ansimante messaggero, e corse a prendere il corno appeso vicino al pozzo, per dare l'allarme a Dlaenriprel. E pensare che c'erano persone che amavano seminare zizzania! L'Isola della Corrente Spumosa era come un formicaio scoperchiato dallo stivale di un contadino. Re Kelgrael Snowsar si appoggiò all'indietro contro lo schienale del Trono del Fiume e cercò di nascondere un sospiro; un momento più tardi, la mascella gli dolse per lo sforzo di reprimere anche uno sbadiglio. Un altro giorno in cui era circondato da intrighi. E pensare che c'erano idioti che volevano diventare re. Quel giorno, la sala del trono era veramente il cuore di un formicaio, con i cortigiani che andavano e venivano, con i loro abiti di stoffa dorata che frusciavano e scintillavano, e il mormorio del loro complottare era salito di tono fino a diventare un rumore incessante che echeggiava contro l'alto soffitto. I maggiordomi erano in piedi fin dall'alba per tenere a bada uomini che cercavano di precipitarsi verso il trono come assedianti che cercassero di varcare una breccia, ed erano tuttora impegnati a farlo, i colletti rigidi che tremavano per l'intensità della loro indignazione e il vigore degli ordini ribaditi. Uno alla volta, lasciavano che gli assedianti si facessero avanti, e lui li ascoltava uno dopo l'altro, una marea belante di facce ora adulanti, ora minacciose, ora intente a dare suggerimenti tutt'altro che velati, accompagnate da profumi intensi e da abiti sfarzosi e scintillanti. «Di certo, Esaltata Maestà», stava dicendo l'ultimo di quei postulanti, con un sogghigno paternalistico che gli affiorava sulla faccia, come se stesse ritenendo il Re Ridestato troppo cieco per notare simili dettagli, «devi essere consapevole che la famiglia Halidynor ha il più antico e fondato diritto di reclamare per sé Phelinndar! Onthalus Halidynor dovrebbe essere ora qui alla tua presenza nelle vesti del più fedele dei tuoi baroni, e potrà esserlo nell'arco di appena due giorni, se solo tu...».
Vicino alla porta scoppiò un tumulto di qualche tipo, con le voci che salivano di tono per l'ira, le teste che si giravano a guardare con fare seccato e i maggiordomi che convergevano verso la causa di tanto disturbo. Un uomo che aveva addosso più fango che stoffe eleganti, spinse di lato un maggiordomo ed esclamò in tono ringhiante: «Non m'importa se queste persone stanno aspettando qui da tre giorni e altrettante notti! Le notizie che reco non possono aspettare! C'è bisogno del braccio armato del re, e subito!». Altri maggiordomi si precipitarono in quel punto e ci furono ulteriori spintoni. «Aglirta è in pericolo!» urlò disperatamente l'uomo, mentre alti colletti lo nascondevano alla vista e cominciavano a spingerlo indietro, verso le porte. «Soccorso! Mio re! Soccorso!». Re Snowsar balzò in piedi di scatto, congedando il sogghignante cortigiano a metà di una parola con un secco cenno, e scese i gradini del Trono del Fiume alzando una mano. «Fermi!» tuonò. Sulla camera scese il silenzio. Adesso tutti gli sguardi erano fissi su di lui, tranne quelli dei maggiordomi ancora impegnati a lottare nel tentativo di espellere un uomo che, a quanto pareva, avrebbe dovuto essere trascinato via di peso. «Miei maggiordomi, desistete», ordinò loro il re, in tono più pacato. «Conducete da me quell'uomo». L'indignazione si dipinse su decine di volti, fra cui quelli della maggior parte dei maggiordomi, anche se alcuni di essi riuscirono a rimanere del tutto impassibili. Snowsar quasi sorrise nel vedere altri che si sforzavano di apparire fedeli e desiderosi di servirlo, solo per fallire miseramente nell'intento. «Non fatemi aspettare», incitò, quando i maggiordomi parvero esitare, quasi stessero conferendo fra loro con una serie di rapide e silenziose occhiate. «Molte preoccupazioni ci incalzano, e molte persone sono ferme qui... in attesa». A quanto pareva, i maggiordomi si erano organizzati per schierarsi in una scorta formale intorno all'intruso, dato che ora si volsero all'unisono verso il trono e vennero avanti, spingendo di lato con impazienza la folla dei cortigiani incuriositi. L'uomo in mezzo a loro era arrossato in volto per la lotta di poco prima e appariva più stanco che trionfante.
«Parla, buon uomo», lo invitò il Re Ridestato, arrestandosi ai piedi dei gradini con le mani sui fianchi. «I problemi di tutti gli Aglirtiani qui sono i benvenuti». L'uomo chinò il capo in segno di assenso, trasse un profondo respiro e disse, tutto d'un fiato: «Una bestia spaventosa è giunta nel regno, Vostra Maestà... una creatura di cui nessun uomo ha mai visto l'uguale. È una cosa simile a un granchio ma grossa quanto un carro di fieno, che si aggira sulla terraferma e divora le mucche dove si trovano! Essa sbrana e divora anche i contadini e perfino gli armaragor che osano sbarrarle il passo, ma a parte questo ignora chiunque e non si lascia deviare dalla direzione in cui sta viaggiando, dritta verso il fiume, a monte. Attualmente è arrivata nella vecchia Baronia di Phelinndar». L'uomo si arrestò per riprendere fiato, e la corte eruppe in un mormorio di chiacchiere piene di derisione. Il messaggero coperto di fango si guardò intorno con occhi roventi per un momento e scosse il capo di fronte all'aperta incredulità che leggeva su molti volti. «Sono stato mandato qui da Garthrail», riprese, ad alta voce. «Noi non abbiamo un tersept o un signore, ma parlo a nome di tutti, e anche a nome dei contadini di Aundlestone, Brethrithyn e Klaendor. Silvertree non ha un barone a cui noi ci si possa rivolgere, nessuno che ci possa difendere da questa bestia generata da una magia malvagia... quindi ci appelliamo al re». Il Re Ridestato si erse sulla persona e indietreggiò di un passo senza neppure guardarsi indietro, risalendo un gradino della breve scala che portava al suo alto trono in modo da poter essere visto meglio. «E il Trono del Fiume provvederà», dichiarò con voce risonante. «Maggiordomi, convocate le mie Spade del Castello, armate e pronte a combattere. Avvertitele di portare con loro un carro di lance e un barile di pece, e di trovarsi sulla chiatta entro il tramonto». Ci fu un momento di sconvolto silenzio, poi nella camera eruppe un vero e proprio rombo di commenti increduli, indignati ed eccitati. Per gli dei, questo Re Ridestato era forse una testa calda, pronto a partire a caccia di ombre sull'impeto di un impulso momentaneo? Osava mandare in missione la sua misera guardia del corpo, e andare lui stesso con essa! Chi avrebbe governato Aglirta, quando lui fosse stato assente? Quello era forse un qualche trucco dei baroni, per attirare il re incontro a una rapida morte inflitta da frecce scagliate dai boschi che si trovavano a monte rispetto a Silvertree? Come osava quello zotico di un contadino fare irruzione con una
storia così assurda e manifestamente falsa? Sperava forse di catturare il re e di chiedere un riscatto ad Aglirta? Ebbene, da quella borsa non avrebbe ottenuto neppure una moneta di rame, né... «Parlami ancora di quella bestia», ordinò intanto il re, a voce più bassa, scendendo di nuovo dal gradino per prendere per un braccio l'uomo coperto di fango e guidarlo su per la breve scala e verso il tavolo adiacente il trono, dove due maggiordomi sorvegliavano caraffe di vino e un vassoio contenente biscotti e formaggi. Il rombo della conversazione si ridusse immediatamente a un sussurro irregolare, quando i cortigiani tesero prontamente l'orecchio per cogliere ogni parola scambiata dal re con l'uomo proveniente da Garthrail. «È... è grigia, Vostra Maestà», cominciò lo stanco messaggero, accettando con gratitudine il boccale di vino che gli era stato messo in mano, «ed è lenta, con il corpo coperto da un guscio duro. Se non fosse per le chele, che sono come quelle di un granchio ma lunghe quanto te o me, se fossimo distesi per terra, probabilmente potrebbe passare per una grossa testuggine uscita dal fiume. Essa cammina come fanno loro e ha la testa nuda, come le testuggini carnivore; fa qualche deviazione per combattere o per nutrirsi, ma torna immediatamente alla sua direzione di marcia. Uomini armati di forconi hanno cercato di farla tornare indietro, e ci sono riusciti... ma dopo aver divorato i loro forconi, e le mani di uno che è stato troppo lento ad abbandonare la presa, quella creatura è tornata a marciare nella stessa direzione di prima, calma e tranquilla come una matrona che lavori a maglia». «E come fai a sapere che è stata "generata da una magia malvagia", per citare le tue stesse parole?» domandò in tono severo l'anziano maggiordomo Ranthalus dalla lunga e folta barba. Ranthalus era il più anziano dei maggiordomi dell'Isola della Corrente Spumosa, e si arrogò il diritto di parlare per primo in virtù dei pochi incantesimi di scarso valore che aveva imparato a controllare, anche se a corte in effetti nessuno gli aveva mai visto fare nulla di più impressionante del far accendere contemporaneamente tutte le torce della sala del trono, le loro fiamme che si levavano alte o rimpicciolivano in silenziosa obbedienza alla sua volontà. «È per via delle rocce», spiegò semplicemente l'uomo di Garthrail, non sapendo con quale titolo rivolgersi a quel vecchio accigliato e quindi evitando di usarne. «"Le rocce"?» ripeté Ranthalus, facendo eco alle parole del contadino con una pignoleria che era in pari misura di derisione e frutto della sua irri-
tazione. «Sì, le rocce. Vedi, quella bestia ci passa attraverso. Le attraversa come se fossero nuvole o nebbia, che si tratti della parete di pietra di un granaio o di una roccia su un campo». Ranthalus inarcò un sopracciglio con aria incredula, un gesto che venne imitato da altri nell'affollata stanza del trono. «Un granchio di terra che procede dritto come una freccia su per la Valle, divorando uomini e mucche, e che passa attraverso la pietra. Uomo, hai forse bevuto?». La risposta fu rapida e decisa. «Ho bevuto spesso e in abbondanza, da quando abbiamo combattuto contro quella cosa, vecchio, ma non c'è nulla che non vada nei miei occhi, o in quelli degli abitanti di sei villaggi che conosco». «L'hai affrontata tu stesso? Voglio dire, hai avuto l'impressione che fosse solida?». «Mi ha intorpidito le mani quando ha spezzato l'estremità del mio forcone migliore», rispose l'uomo di Garthrail, «e ho trascinato lontano da essa il vecchio Nurgar... già morto o moribondo, dopo che gli ha staccato di netto una gamba. Mi sono trovato coperto del suo sangue. È concreta, su questo non ci sono dubbi, non è un'illusione creata dall'incantesimo di un mago, se è a questo che vuoi arrivare». «Uomo, possano i Tre abbatterti se dici il falso», cominciò Ranthalus, severo, «e possa la giustizia reale...». Dalla porta d'ingresso giunse un altro tumulto, udibile anche al di sopra del vociare sempre più elevato della corte, e il vecchio maggiordomo si girò pesantemente per scrutare in quella direzione. «Un altro avvistatore di bestie strane?» borbottò. A quanto pareva, i maggiordomi dell'Isola della Corrente Spumosa imparavano in fretta, dato che stavano già scortando a passo svelto attraverso la sala un altro uomo dagli abiti infangati, ordinando in tono secco e autoritario ai cortigiani sempre più irritati di farsi da parte. Il re posò una mano sul braccio del suo maggiordomo più anziano per ingiungergli di tacere, mentre il nuovo arrivato si gettava in ginocchio davanti a loro. «Grande re», annaspò, sollevando uno sguardo in cui aleggiava ancora l'ombra del terrore, «porto notizia di una bestia spaventosa!». «Un granchio che divora le mucche?» chiese Ranthalus con aria accigliata, fingendo di non vedere l'occhiata tagliente scoccatagli dal re.
L'uomo parve perplesso. «No, signore», rispose, «si tratta di un serpente grande quanto una casa, con molte teste!». «Dei del cielo!» ringhiò il vecchio maggiordomo, levando lo sguardo verso il soffitto come se si fosse aspettato di vedere i Tre librarsi lassù, la mano protesa a porgergli le scintillanti sacre pergamene. «C'è ancora... urrrkk!». Gli dei non erano in attesa vicino al soffitto, ma lassù c'era qualcun altro, qualcuno vestito di cuoio scuro, che aveva appena finito di rimettere al suo posto con cura furtiva il lucernario a cupola e se ne stava seduto in una sorta di altalena appesa a una non troppo solida gargoyle di pietra che decorava il soffitto, intento a studiare il modo migliore per colpire. Quel qualcuno indossava una sogghignante maschera da «spettro combattente», del genere usato durante le feste mascherate nel torrido periodo estivo, nella città di Houlborn, dalle molte terrazze, e teneva in pugno una lunga spada sottile come un ago. Nel momento in cui il Primo Maggiordomo Ranthalus sollevò lo sguardo con assoluto stupore e crescente orrore, quel qualcuno spiccò un agile balzo dalla posizione in cui era appollaiato e si lasciò cadere attraverso l'aria appeso a una fune di sicurezza, una nuvola di fumo che scaturiva improvvisa da qualcosa che teneva stretto in una mano guantata di scuro. La maschera sogghignante si fece sempre più vicina con estrema rapidità, mentre la fonte del fumo veniva scagliata in mezzo ai cortigiani. Ranthalus però aveva occhi soltanto per quella lama scintillante, protesa a punta in avanti, che stava calando rapida verso di lui, e che lo raggiunse giusto in tempo per troncare sul nascere il suo gracchiante tentativo di urlare. 13. Alcune sgradevoli sorprese Mentre il suo fumo speziato faceva piombare i cortigiani in un'irrefrenabile crisi di tosse, l'uomo che si faceva chiamare Piede di Velluto si lanciò con calma verso il basso, in direzione del tumulto di grida stupite scoppiato in mezzo a essi. Dopo tutto, aveva una reputazione da mantenere. Per alcuni anni, aveva messo in giro con costanza voci sussurrate e aveva speso anche non poco denaro per riuscire ad allegare al proprio nome il commento sussurrato: «un successo letale». Nel corso delle recenti disavventure, era poi riuscito a mantenere intatta quella reputazione soltanto
grazie a una morte tempestiva in cui, per fortuna, non aveva avuto parte alcuna. Il defunto era un mago pieno di segreti che lo aveva assoldato per trovare un Dwaer fra le rovine di Indraevyn e perché glielo riportasse affinché potesse utilizzarlo in un rito destinato a ridestare il Serpente nell'Ombra. Piede di Velluto aveva levato più di una fervida (e silenziosa) preghiera a favore dell'uccisore del mago, prima di ucciderlo a sua volta. Come si è detto, una reputazione doveva essere mantenuta. Permaneva comunque il dato di fatto altamente utile che nessuno poteva essere visto come un fallito da un morto, e che i muti cadaveri non potevano far circolare voci. Di conseguenza, Piede di Velluto era stato ben presto suggerito a qualcuno come l'uomo perfetto per uccidere uno scomodo Re Ridestato. Personalmente, Piede di Velluto era dell'idea che non fosse una cosa saggia uccidere Re Snowsar, almeno per il momento, facendo così sprofondare Aglirta in una sanguinosa lotta per il potere prima che la corte reale fosse diventata abbastanza forte da poter tenere insieme il regno durante la morte violenta di un re e la successiva incoronazione di un usurpatore. In una terra senza legge, morire era facile, e gli assassini a pagamento potevano esigere soltanto tariffe molto modeste, mentre in un regno stabile portare a termine un assassinio era molto più difficile, e quindi molto più costoso... e quello era il genere di Aglirta in cui Piede di Velluto voleva vivere. Di conseguenza, quel giorno non aveva portato con sé né una balestra né quadrelle avvelenate. E adesso Snowsar era fermo non molto lontano da lui, e decisamente vivo. Inoltre, Piede di Velluto aveva appreso da una fonte decisamente affidabile che un assassino a pagamento rivale, un uomo di Sirl chiamato Andalus, che indossava una maschera da spettro combattente quando entrava in azione, era già stato assoldato da altri per porre fine alla vita del re. Andalus era stato l'uomo che aveva così opportunamente eliminato il mago che aveva incaricato Piede di Velluto di ritrovare il Dwaer, e che lo stesso Piede di Velluto aveva a sua volta rimosso dalle file degli abitanti viventi di Aglirta. Quell'ultima uccisione si era svolta in modo decisamente privato, per cui chi avesse voluto far ricadere sull'assassino a pagamento sbagliato la colpa di un fallito attentato alla vita del re, non avrebbe corso rischi di smentita nell'indossare una maschera che avrebbe fatto affiorare il nome di Andalus nella mente di tutti coloro che s'intendevano di quelle cose, prima di lasciarsi cadere giù dal soffitto per cercare di assassinare il re.
E così, quel giorno Andalus non sarebbe riuscito a eliminare il Re di Aglirta. Quella non era la prima volta che un uomo che si lasciava cadere dall'alto con una spada protesa a uccidere si trovava in disaccordo con chi lo aveva assoldato riguardo all'opportunità di commettere quell'assassinio. E fra i sicari di professione e quanti li assoldavano, in genere questo tipo di divergenze aveva la spiacevole abitudine di finire con qualche morte improvvisa... La lama di Piede di Velluto penetrò in profondità nella bocca aperta di un vecchio e arrogante maggiordomo che era ritenuto essere una specie di mago, e che sarebbe stato quindi infinitamente più utile ad Aglirta nei panni di un cadavere. Il sangue zampillò in mezzo a frenetici gorgoglii, e mentre i suoi stivali scaraventavano a terra il corpo del vecchio, fracassandone le costole come rami secchi, Piede di Velluto estrasse la spada dalla ferita e l'agitò intorno a sé in un arco selvaggio, squarciando quasi con noncuranza la gola del secondo messaggero stanco e infangato. Altro sangue scuro sprizzò nell'aria, e nello scattare in avanti attraverso quegli zampilli per attaccare il re, ritraendo la spada per colpire ancora, Piede di Velluto notò che la sua lama stava gocciolando una sostanza bianca, verde e dorata derivante dal cervello del vecchio maggiordomo. Hmmm... quelli erano i colori di Gloit. Interessante. Adesso, però, come poteva fare per evitare di uccidere il Re Ridestato di Aglirta senza che la cosa risultasse evidente? Avrebbe dovuto incespicare e lasciare una possibilità di fuga al sovrano, che sembrava abbastanza agile, a giudicare da come stava balzando indietro per avere lo spazio necessario a estrarre la spada, cosa che fece con rapidità e grazia; inoltre, avrebbe dovuto fornirgli anche un valido motivo per darsi alla fuga, considerato che questo Snowsar pareva deciso a recitare il ruolo del nobile eroe al cospetto della sua corte. Forse, ferirlo al braccio che reggeva la spada sarebbe stato sufficiente... La spada del re emise un intenso bagliore fra l'azzurro e il bianco, e nell'aria si diffuse un gelo intenso quanto improvviso: magia. Piede di Velluto balzò da un lato mentre l'altro messaggero giunto dalla campagna cercava di afferrarlo a mani nude, poi si abbassò per schivare le braccia protese dell'uomo e gli assestò un energico pugno sotto le costole. Senza fiato e barcollante, l'uomo di Garthrail indietreggiò incespicando sotto l'impatto del pugno di Piede di Velluto, andando a finire dritto in mezzo alla tremolante rete di magia che stava gradualmente diventando vi-
sibile tutt'intorno al re. L'uomo s'irrigidì, annaspò e s'immobilizzò, poi crollò al suolo con gli occhi dilatati, il corpo immobilizzato a metà di una convulsione. Dopo tutto, non sarebbe stato per nulla difficile simulare un fallimento, in quelle condizioni. Gong e corni stavano facendo sentire la loro voce e stavano ricevendo risposta da dietro la sala del trono, segno che i maggiordomi avevano finalmente trovato qualcosa di utile da fare per servire con diligenza Aglirta. Sfoggiando un infinitesimale accenno di sorriso dietro la maschera, l'uomo chiamato Piede di Velluto si volse di scatto e fuggì. Dubitava che quell'eroico re dalla mascella squadrata fosse andato in giro per il palazzo battendo contro le pareti e smuovendo suppellettili per scoprire passaggi nascosti, e dubitava ancora di più che chiunque fa quegli altri idioti avrebbe pensato a cercare un passaggio segreto anche se vi fosse stato scaraventato dentro di peso. Di conseguenza, aggirarsi non visto per apprendere cose che potevano fruttare ricchezze sarebbe dovuto risultare facile. Un rumore di stivali in corsa echeggiava già lungo lontani passaggi quando Piede di Velluto scavalcò con un balzo un altro aspirante avversario, che era più probabilmente soltanto un cortigiano che aveva imparato ad assumere una posa drammatica con la spada in pugno e non voleva perdere l'occasione di sfoggiarla in pubblico, piantò la punta dello stivale sulla faccia di un altro cortigiano e superò con un volteggio un'arcata per poi aggirare un pilastro e scomparire alla vista, il tutto in pochi, frenetici istanti. Fu soltanto dopo una seconda manciata di altrettanto frenetici istanti che le prime guardie oltrepassarono di corsa il pilastro, nella loro fretta di andare in soccorso del re. Esse arrivarono giusto in tempo per vedere uno sfortunato cortigiano avvicinarsi troppo alla punta della spada reale, e scoprire che il re aveva trovato da qualche parte una spada la cui magia, quando attivata, paralizzava quanti entravano in contatto con essa. Di slancio, le guardie attraversarono il pavimento di lucide piastrelle per fare a pezzi i corpi irrigiditi e impotenti, solo per essere bloccate da un cupo cenno di un re che appariva profondamente irritato. E non c'era da meravigliarsene, considerato che quello era il secondo attacco contro di lui nel cuore dell'Isola della Corrente Spumosa nell'arco di altrettanti giorni. Le guardie si affrettarono a obbedire ai secchi ordini del sovrano, provvedendo a rimuovere i corpi, vivi e morti, a raccogliere il
frutto tagliato che aveva racchiuso al suo interno il fumo speziato e a recuperare le spade sparse qua e là. «Accertatevi che la mia armatura venga caricata su quella chiatta», fu l'ultimo ordine regio. Le guardie non ebbero bisogno di ordini per decidere di disporsi accanto al trono, mentre Re Snowsar rivolgeva un cenno al maggiordomo più vicino e riprendeva a tenere udienza. Le distrazioni costituite da assassini che piovevano dall'alto, scontri con la spada e rapporti relativi all'avvistamento di bestie fantastiche, una delle quali diretta a Valle e quindi un problema che riguardava i baroni, l'altra diretta invece a monte e abbastanza pericolosa da indurre il re ad abbandonare la corte per affrontarla, avrebbero alimentato abbondantemente gli avidi pettegolezzi, ma erano comunque mere seccature per cortigiani che desideravano soltanto che il re riconoscesse o dichiarasse fuorilegge questo o quel barone, o decidesse riguardo a una cinquantina di altre cose... piccole questioni commerciali, trattamenti preferenziali e trattati che si desiderava stipulare con questa o quella città straniera. «Sono al tempo stesso compiaciuto e orgoglioso di vedere Vostra Maestà illesa dopo questo sgradevole attacco», mormorò la sedicesima voce melliflua, «e confesso di essere impressionato dalla figura audace ed eroica che Vostra Maestà ha presentato ai nostri occhi, nella morsa incombente del pericolo. Concedimi di esternare la mia convinzione che Aglirta sia davvero fortunata ad avere sul trono una simile colonna di nobile possanza». Come no! Con audacia ed eroismo, Kelgrael Snowsar riuscì a trattenersi dal levare gli occhi al cielo e dallo sbadigliare. «Sotto il tuo saggio governo, Maestà», mormorò il cortigiano, protendendosi per avvicinarsi il più possibile al re, «Aglirta dovrebbe ascendere a una gloria più grande di quella del passato, arrivando magari a governare le Isole al di là della Valle, e le terre oltre le montagne. In appena pochi anni, tu potresti diventare Re Kelgrael di tutto Asmarand». «Se...?» borbottò il re, inarcando un sopracciglio. «Se farai la cosa più audace di tutte», replicò il cortigiano, quasi in un sussurro, «e manterrai la pace con i seguaci del Serpente, invece di combatterli, come fanno i tuoi baroni. Lascia che portino avanti il loro culto, impara a conoscere la loro amicizia e il loro sostegno e diventa più forte insieme a loro... elevando entrambi alla massima grandezza!». Per un momento appena, il volto di Kelgrael Snowsar si fece di pietra,
gli occhi simili a due dure gemme che non scintillavano. «Ne parleremo ancora più tardi», mormorò quindi, riabbassando il sopracciglio. «Vostra Maestà ci può contare», rispose l'uomo, raddrizzandosi e indietreggiando dal trono con un sorriso sulle labbra e un bagliore di trionfo negli occhi. «Oh, lo farò», commentò il re, a voce tanto bassa che neppure il maggiordomo in piedi al suo fianco riuscì a sentirlo. Rapido, il cortigiano s'inchinò e si allontanò a grandi passi, mentre il maggiordomo si chinava verso l'orecchio reale. «Maestà, temo di non aver sentito bene», ammise, con esitazione. «Come posso servirti?». «Hai notato l'uomo che mi ha appena parlato?» mormorò il re. «Sì, Maestà». «Seguilo, vedi dove va e cosa fa. Incarica anche altri di cui ti fidi di questa sorveglianza, ma cercate di non essere visti da lui, e se dovesse lasciare l'Isola della Corrente Spumosa, non lo seguite». «Devo cominciare subito, Maestà?». Il re annuì con aria cupa e il maggiordomo sgusciò via, subito sostituito da un altro, mentre il cortigiano più vicino si stava già avvicinando al trono, con un fugace accenno di inchino e le labbra atteggiate a uno smagliante sorriso. L'audace ed eroica Corona di Aglirta permise a un sorriso molto più abbozzato di toccarle le labbra. «Sì?» chiese, con voce che riuscì a stento a mascherare la stanchezza che si celava dietro di essa. Piccoli sorrisi famelici, che mordevano... I pipistrelli si riversarono su Embra in una marea ciangottante e accecante, aggredendole la faccia e le mani con i denti aguzzi, nascondendo alla sua vista i... i... I suoi compagni che venivano uccisi! Con la forza della disperazione, Embra cercò di spingere da parte i piccoli artigli pungenti e le ali di cuoio per vedere, per respirare, per riuscire a prendere la Pietra e... e... I pipistrelli stavano infuriando sul suo corpetto in una massa tanto fitta da formare una solida barriera sussultante attraverso cui non poteva insinuare la mano. Essi stavano tirando il Dwaer, sollevandolo lontano dal suo
corpo in modo tale che la sola cosa di cui lei poteva ancora avvertire il contatto era la catena a cui era appeso. Non poteva toccarlo, non poteva evocarne il potere, non poteva aiutare... Un barone e un mago contemplarono la nera colonna di pipistrelli svolazzanti che racchiudeva Embra Silvertree da qualche parte nelle sue profondità, e sfoggiarono un identico, freddo sorriso. Poi entrambi girarono la testa all'unisono per guardare mentre i loro armigeri abbattevano l'armaragor e il ladro. Entro pochi momenti, l'unico fra i loro nemici all'interno della casa del pozzo di Tarlarnastar ancora in grado di reagire sarebbe stato lo zannelunghe, e il Signore dei Pipistrelli aveva a disposizione abbastanza incantesimi da ridurre venti zannelunghe a un ammasso di carne sanguinolenta. Elmi e spalle coperte di armatura si lanciarono in avanti, spade lucenti si sollevarono... e d'un tratto gli armigeri del barone presero a indietreggiare da un lato, gridando e incespicando. «Cosa...?» ringhiò Faerod Silvertree, sbattendo le palpebre con aria perplessa. Piastre d'armature stavano volando via, un clangore di acciaio risuonava assordante contro elmi, polsiere e guanti sollevati, e il sangue stava scorrendo a fiotti! Lame invisibili stavano abbattendo i suoi uomini! Il barone intravide fugacemente Hawkril, impegnato a duellare con alcuni dei guerrieri che si erano trovati in prima fila, e lesse sul suo volto uno stupore pari a quello che lui stesso stava provando. Girò poi la testa di scatto per fissare sua figlia con occhi roventi, e vide che i pipistrelli continuavano a vorticare e a mordere senza sosta, le dita deboli e insanguinate di una mano che facevano capolino per un attimo in mezzo a quella marea nera. Embra era impossibilitata a evocare i poteri della sua Pietra, quindi la nube di spade fantasma che stava abbattendo i suoi uomini doveva provenire da un'altra fonte. Mentre l'ultimo dei suoi guerrieri crollava al suolo, sanguinante, il barone spostò il proprio sguardo iroso sul mago, solo per scoprire che il Signore dei Pipistrelli stava fissando Embra a bocca aperta. «Eppure quella era opera di un Dwaer!» sussultò il mago. «Chi...». La risposta gli giunse sotto forma di un'esplosione che scosse la stanza, scaraventando Hawkril e Craer all'indietro contro la parete; l'esplosione staccò lo zannelunghe dal soffitto come se fosse stato una foglia secca pendente da un ramo strappata da vorticanti venti di tempesta, e scagliò Embra al suo posto, mandandola a sbattere in un groviglio di assi e travi
infrante, avvolta in un'umida e appiccicosa massa di pipistrelli schiacciati. Lentamente, le assi gementi cedettero, e con un brivido la Dama dei Gioielli precipitò al suolo, perdendo i sensi ancor prima dell'impatto. Con gli orecchi che vibravano e la vista appannata, Hawkril si costrinse con determinazione a rimanere cosciente, vagamente consapevole che i suoi nemici erano scomparsi. Faerod Silvertree era stato ridotto a un mucchio di ossa infrante sparse intorno a un Dwaer che brillava di una luce frenetica, e tutto ciò che rimaneva del Signore dei Pipistrelli era una nuvola di pipistrelli che si stava alzando in volo da un paio di stivali da cui usciva soltanto del fumo. Dopo qualche momento di stordimento, l'armaragor notò anche un'altra cosa: un chiarore nelle profondità dell'ombra, una luce che stava crescendo a poco a poco d'intensità vicino al muro posteriore della casa del pozzo, emanando da una Pietra rotonda grossa più o meno quanto un piccolo cavolo, una Pietra che un uomo nascosto nell'ombra stava facendo saltare con delicatezza da una mano all'altra. Un Dwaerindim! Il suo detentore ammantato d'ombra si fece avanti, e l'ultima cosa che Hawkril vide, mentre si sforzava invano di scorgere il volto dell'uomo, fu la Pietra che emetteva all'improvviso un bagliore accecante. Il Dwaerindim pulsò ancora dopo che il volto dell'armaragor si fu rilassato per la perdita di conoscenza e dopo che i pipistrelli svolazzanti si furono bloccati a mezz'aria, immobilizzandosi con una convulsione per poi accasciarsi al suolo svenuti. L'uomo che teneva in mano la Pietra si guardò intorno con attenzione, contemplando i morti e i dormienti che ancora si aggrappavano alla vita, poi sorrise. Avanzando di un altro passo, dissolse con la Pietra le ombre magiche che lo avviluppavano, e si chinò per prendere ciò che maggiormente desiderava. «Inderos Arpa Tempestosa», si presentò allegramente, rivolto agli svenuti Quattro. «Al vostro servizio... ma soprattutto, devo ammetterlo, al mio». Il Castello della Corrente Spumosa era un luogo interessante. Alcune delle sue vie segrete, intasate di polvere, di ragnatele e di ragni rinsecchiti, erano evidentemente in disuso e dimenticate, altre servivano a frettolosi servitori come scorciatoie fra le sale da pranzo e le cucine. Piede di Velluto indugiò negli angoli più oscuri, una pietra dotata di occhi e intenta a os-
servare l'andirivieni del palazzo, tutt'intorno a sé. C'erano una quantità di cuochi, di garzoni e di cameriere, ma solo una manciata di guardie, nessuna delle quali montava di sentinella. Il re pareva non avere un cancelliere, o un castellano o un maestro d'armi. In breve, quella era una corte priva di difese. Se tutti i cortigiani che si aggiravano dentro e intorno alla sala del trono fossero stati spazzati via dall'isola, il Leone di Aglirta si sarebbe ritrovato con un numero di servitori inferiore a quello di cui disponeva la casa di un ricco mercante, per non parlare della dimora di uno qualsiasi dei baroni. Intere ali del palazzo erano ombrose e impolverate, e c'erano addirittura camere in disuso nelle immediate vicinanze del trono. L'uomo chiamato Piede di Velluto, che si era liberato da tempo della maschera sogghignante e stava ora sfoggiando un'espressione accigliata e pensosa, si guardò intorno e continuò a gironzolare fino a trovare le camere reali. Anch'esse erano prive di protezione, a eccezione di una giovane cameriera impegnata a disporre in giro vasi di fiori e a raccogliere i petali caduti ai fiori che li avevano preceduti. Incredibile! C'era perfino un passaggio privo di sorveglianza che da una sala di ricevimento adiacente a una delle scale principali portava dritto in un ripostiglio della camera da letto regia! Scuotendo il capo per l'incredulità, Piede di Velluto attraversò quella stanza, aggirò il vaso di una grande talathtria e posò le dita contro un pannello di lucido marmo, di una tonalità più chiara rispetto alla pietra circostante. Se fossi abbastanza stupido da voler annunciare a tutti che ho costruito un passaggio segreto, pensò, contrassegnerei la porta proprio in questo modo... Scorrendo con leggerezza sul marmo, le sue dita trovarono il meccanismo di apertura e il pannello sprofondò verso l'interno senza il minimo rumore. Se non altro, era stato usato di recente. Quel passaggio doveva portare immediatamente al di sopra e alle spalle della sala del trono, e senza dubbio da lì saliva a raggiungere una scala a uso privato del re. Ovviamente, i Baroni Silvertree, a cui era appartenuta quella casa, non avevano avuto paura di nessuno e non avevano badato a installare particolari difese, o a nascondere i loro punti vulnerabili. A meno che, naturalmente, le storie da lui sentite riguardo a un Castello Vivente che faceva la guardia contro eventuali intrusi e li abbatteva spontaneamente fossero vere.
Ecco, quello era un pensiero tale da provocargli un brivido gelido lungo la schiena. Piede di Velluto rimase immobile per un momento, ascoltando in assoluto silenzio, poi riprese ad avanzare. Ciò che si trovò sotto i piedi appena entrato nel passaggio non lo sorprese minimamente, ma l'eco soffocato di passi affrettati che proveniva dall'oscurità davanti a lui lo indusse a ritrarsi nella sala di ricevimento, lasciando il pannello aperto e affrettandosi a immobilizzarsi come una paziente statua dietro l'arazzo più vicino. Per il sorriso degli dei, perfino in quell'arazzo erano state ritagliate delle fessure per gli occhi da qualche spia che lo aveva preceduto! Attraverso quei buchi, Piede di Velluto guardò Re Snowsar arrestarsi di colpo all'imboccatura del passaggio, la spada in pugno, e abbassare lo sguardo sul corpo che giaceva là disteso in mezzo al proprio sangue. La luce proveniente dalla sala di ricevimento permise al re e alla spia nascosta di vedere chi fosse il morto: il maggiordomo che Snowsar aveva incaricato di pedinare il cortigiano seguace del Serpente. Mentre Kelgrael Snowsar sollevava fra le mani il volto dallo sguardo vacuo e fisso del morto, un pipistrello si staccò dall'alto di un altro arazzo, dove era appollaiato, e volò via. Piede di Velluto lo guardò allontanarsi con il cuore che gli martellava nel petto, perché i pipistrelli non se ne andavano in giro svolazzando liberamente in pieno giorno: quella era una cosa... sbagliata. Un momento più tardi, per poco non sussultò ad alta voce: la superficie di un contrafforte murale accanto al re aveva ruotato e vorticato sotto la morsa silenziosa della magia, fino a rivelare due occhi annidati nelle profondità della pietra, che stavano ora contemplando il re con freddo, cupo e ostile divertimento. Il volto in cui quegli occhi erano collocati fu visibile per un momento soltanto, durante il quale Piede di Velluto sentì il gelo della paura scivolargli dentro per la seconda volta nell'arco di una manciata di respiri. Ma il Maestro d'Incantesimi di Silvertree non era morto? Evidentemente no. L'assassino stava ancora tremando dietro l'arazzo, conscio del fatto che il mago all'interno della colonna, leggendario nella Valle per la sua crudeltà, poteva benissimo essere consapevole della sua presenza, quando un pannello posto più in giù lungo la parete scivolò silenziosamente di lato e un'altra faccia fece capolino, questa volta quella di un uomo barbuto dai vividi occhi verdi e vestito di logori indumenti da viaggio in cuoio. Poi quei lineamenti si fusero come la cera di una candela consumata, lasciando Piede di Velluto a fissare a bocca aperta lo scono-
sciuto. Re Snowsar non si accorse però di nulla di tutto questo, perché era intento a fissare lo sgretolarsi della sua spada snudata; inizialmente, l'arma perse una serie di frammenti che svanirono nel toccare il pavimento, poi si ridusse di colpo in polvere con un lieve fruscio. Nel punto in cui la polvere entrò in contatto con le piastrelle del pavimento si levò una voluta di fumo che si disperse lungo il buio passaggio utilizzato dal re. Soppesando l'impugnatura ormai inutile dell'arma, Kelgrael Snowsar guardò le ultime volute di fumo fluire lontano come se avessero avuto fretta di lasciare il palazzo e di allontanarsi dall'Isola della Corrente Spumosa. «Sta venendo meno così in fretta... e per motivi così insignificanti!» mormorò. «Non si può andare avanti così, altrimenti Aglirta sarà condannata, proprio come se non ci fosse nessuno a opporsi al Serpente!». 14. Discussioni, decisioni e morte La tomba era fredda e umida, e odorava di terra vecchia e di muffa. Era una struttura antica, una singola camera di pietra incassata nel fianco di una collina, con la cripta che si addentrava nell'oscuro oblio dal centro della parete posteriore. La luce del giorno, che penetrava dalla porta ad arco priva di battente, arrivava a illuminare soltanto le panche per i dolenti e il semplice blocco di pietra sul quale veniva deposto il defunto mentre i sacerdoti intonavano il Commiato dei Tre a beneficio dei suoi orecchi ormai sordi. L'uomo in piedi su quella soglia si sbirciò intorno con sospetto. Robusto nel fisico e abbigliato con eleganza, non era peraltro mai stato sottovalutato da nessuno come un individuo grasso o stupido. Intorno a sé, poteva vedere tracce evidenti del fatto che i seguaci del Serpente avevano di recente utilizzato la pietra gigantesca come altare per quei loro riti a base di serpenti, candele e sangue. Lui stesso aveva intravisto un rito del genere attraverso una finestra, in un porto dove nessun tersept degno di rispetto avrebbe mai voluto essere trovato: giovani serve nude che giacevano supine con dei serpenti che strisciavano loro addosso mentre uomini avvolti in lunghe vesti e incappucciati cantilenavano e si dondolavano sulla persona. Idioti. No, correzione, quelli erano idioti pericolosi. Per fortuna, adesso lì non erano presenti seguaci del Serpente, soltanto il
vecchio Gelgert che stava sbucando dal retro della tomba dove, sotto un massiccio coperchio di pietra, grazie ai Tre, i morti giacevano a marcire nella loro fossa. C'era da sperare che gli abitanti del vicino villaggio di Waendaster riposassero sereni e appagati nel sonno eterno... almeno per il resto di quella giornata. «Sei sicuro?» domandò in tono tagliente l'uomo sulla porta, accennando con una mano alle oscure profondità del sepolcro. Senza attendere una risposta, sedette quindi su una delle panche più vicine alla soglia e si strinse maggiormente il mantello intorno alla persona. L'uomo alto e magro, dalle vesti logore, chinò educatamente il capo. «Lo sono, Lord Tersept», rispose Imbert Gelgert, lento e compassato come sempre. «I morti riposano tranquilli e nessuna magia opera in questo luogo». «Allora vattene, mago», ingiunse il Tersept di Sart, «ma tieniti pronto a intervenire a un mio richiamo. Non lasciare che lui ti veda». Il vecchio mago chinò il capo e uscì con passo strisciante. Il Tersept Glarsimber Belklarravus, chiamato da alcuni il Lupo Sorridente di Sart, elargì alla schiena del suo mago il lento sorriso per cui era famoso, pensando che alcuni cani obbedivano meglio se venivano presi spesso a calci, energicamente. Attraverso l'arcata d'ingresso, il tersept poteva vedere il bordo ondulato della collina che nascondeva alla vista la strada sottostante, una fila di alberi che si estendeva al di là di essa a contrassegnare il confine fra due campi e, in lontananza, dove un avvoltoio volava pigramente in cerchio nel cielo in cerca di qualche carogna, il bagliore argenteo del fiume. Era un pazzo a venire a un incontro in una tomba per complottare l'assassinio di un re, con la sua manciata preferita di trucchi magici e un vecchio mago pasticcione come unica protezione dai briganti, dai seguaci del Serpente, da agenti del re o... o da baroni traditori. L'uomo apparve improvvisamente oltre il ciglio della collina, avanzando con passo incerto, come se fosse stato stanco, e addirittura barcollando un poco; però era solo, come convenuto, e la sola arma visibile che aveva indosso era un coltello da cintura. Quanto alla sua identità, quello era senza ombra di dubbio il Barone Berias Loushoond. Se uno qualsiasi dei contadini dei dintorni si fosse incuriosito per il fatto che un tersept e un barone si stavano incontrando in una remota tomba collinare, quella curiosità sarebbe stata la sua ultima sfortuna. Il governante di Sart resistette alla tentazione di andare sulla soglia della tomba per guar-
darsi cautamente in giro; invece, si alzò in piedi e si allontanò dalla luce, dirigendosi verso la panca posta più in ombra di tutte. Il barone fece capolino nella tomba senza il minimo segno di esitazione o anche solo di cautela, poi avanzò all'interno con passo barcollante, quasi fosse ubriaco. «Loushoond? Cosa ti affligge?» scattò il tersept. Il barone si girò con mosse rigide verso la fonte della voce che lo aveva interpellato, e parve trascorrere parecchio tempo prima che una risposta gli salisse alle labbra. «Nulla, Glarsimber», ribatté con voce incolore, con la voce profonda che usava quando stava cercando di impressionare il suo interlocutore. Il Tersept Glarsimber sorrise nell'oscurità. Dunque anche gli audaci baroni cedevano al nervosismo e prosciugavano un fiasco o due prima di andare a complottare il tradimento. Quello era dunque uno scudo debole, ma del resto doveva durare come tale soltanto fino alla fine dell'anno e alla reincoronazione di Snowsar. Dopo di allora, Re Glarsimber I non avrebbe avuto bisogno di baroni pasticcioni e ubriaconi al suo servizio. Era così difficile trovarne di validi, di questi tempi. «Siediti, abbiamo molte cose di cui discutere». Il Barone Loushoond scrollò le spalle e si sedette, con mosse rigide e goffe. Sì, doveva proprio essere ubriaco, anche se ciò che aveva bevuto, qualsiasi cosa fosse, non esalava l'odore della birra o di altre bevande abituali. «Le lance di Loushoond mi sono assolutamente fedeli», esordì senza preamboli, «ma non riesco a vedere nessun pretesto pacifico per radunarle e farle avanzare nella Valle, a meno che non sia per assistere alla reincoronazione di Snowsar, e anche allora solo se lui ci autorizzerà a presentarci con una scorta armata, o se altri baroni sceglieranno di farsi accompagnare dalle loro truppe». «Credo che tu veda le cose più o meno nello stesso modo in cui le vedo io», replicò il Tersept di Sart, con un teso sorriso. «So però anche che i campi di Loushoond forniscono una quantità di scorte alimentari per tutti noi, cosa che fanno da molti anni, ma che di conseguenza gli alberi purtroppo scarseggiano nella tua bella terra». In un luogo oscuro, da qualche parte, dove l'immagine dei due uomini seduti in una tomba tremolava in una polla rilucente, una donna s'irrigidì. «Alberi?» sibilò.
E si girò con un movimento rapido in cerca di un suggerimento, disturbando i due serpenti che le pendevano dal collo e costituivano il suo solo abbigliamento. Le loro zanne si serrarono sui suoi seni e nuovi rivoletti di sangue misti alla schiuma purpurea della saliva dei rettili le corsero lungo la carne. La donna rabbrividì, socchiudendo gli occhi. «Potrai perderti più tardi nei sogni indotti dal veleno, Ssssorella», ingiunse con voce tagliente un uomo dalla testa di serpente. «Tutto questo è ancora più importante di quanto creda quello stolto di Sart. Ora, questo è ciò che la nostra brava marionetta deve dire...». Il barone aggrottò la fronte, e di nuovo impiegò parecchio tempo a rispondere. «Questo è vero», ammise, in tono manifestamente perplesso. «Ogni autunno, compriamo intere chiatte di legna da ardere». «E Loushoond non risparmierebbe quindi molto denaro se robusti guerrieri potessero abbattere e tagliare quella legna gratuitamente?». «Certamente», convenne il barone, accigliandosi, «ma questo vorrebbe dire muovere guerra alle terre circostanti per conquistare aree boschive... e secondo il mio modo di vedere, il sangue versato dei miei armaragor e l'ostilità e diffidenza dei miei vicini sono un prezzo decisamente alto, non una via per ottenere "legna gratuita"». Il Lupo Sorridente di Sart sollevò una mano. «Ma cosa succederebbe», insistette, con voce suadente, «se il lungimirante e audace Barone Loushoond ricordasse le notizie relative ai selvaggi scontri che si sono svolti nelle rovine di Indraevyn e non pensasse a Pietre magiche o a governare un intero regno, ma invece a... chilometri e chilometri di alberi a disposizione di chiunque li voglia abbattere?». «Dovrei mandare degli uomini muniti di asce verso monte, attraverso tutte le baronie della Valle?» domandò il barone, scrutando incredulo il tersept. «Un esercito invasore che si trova a passare per puro caso? Quanto credi che sarebbero felici gli altri baroni e i tuoi colleghi tersept di vedere una cosa del genere?». «E se quegli uomini seguissero un'altra via?» suggerì il tersept, scuotendo il capo con un sorriso. «Quale? Dovrebbero addentrarsi nelle Rocce Selvagge e marciare fra le colline?» ribatté il barone, tornando ad accigliarsi. «Alcuni baroni vedrebbero comunque la cosa come un'invasione, e io ci rimetterei decine di uomini con le gambe o il collo fratturati, altri si perderebbero e altri ancora si
darebbero al banditaggio o cadrebbero vittime di banditi! Sono queste idiozie i "piani infallibili" promessi nel messaggio del tuo mago, Sart?». Il Tersept Glarsimber continuò a sorridere imperterrito. «Le chiatte trasportano ogni anno la legna da ardere fino alle tue terre, e tu vendi ai barcaioli vasellame, frutta secca e formaggio da portare via. Non è così?». «Sì, certo, ma cosa...». «Tu disponi di molte lance e di uomini forti e capaci di maneggiarle, giusto?». «Sì, e co...?». «Ebbene, cosa sono quelle lance se non lunghi pali? I barcaioli di Adeln e di Brostos spingono ogni anno fino a casa le loro chiatte con dei pali. Cosa può impedire a Loushoond di mandare una chiatta, o anche sei o sette, su per il fiume e fino alla Foresta di Loaurimm? Da lì, quando avranno finito di tagliare alberi e cominceranno ad avere di nuovo voglia di indossare l'armatura e di brandire la spada, diciamo più o meno in concomitanza con la gloriosa reincoronazione, basterà loro discendere il fiume per un breve tratto per arrivare all'Isola della Corrente Spumosa». Una mascella baronale si spalancò lentamente, e il suo proprietario rimase a lungo a fissare il Tersept di Sart a occhi sgranati, quasi boccheggiando come un pesce finito fuori dal Fiumargento. Una stanza più in là, nell'oscura cripta interna della tomba, dove sedeva accasciato, un uomo snello e minuto dai laceri abiti di cuoio scosse il capo con aria disgustata di fronte a quel tradimento. Anche ammesso che avesse osato farlo, era troppo debole per muoversi, troppo devastato dal dolore per fidarsi dei propri arti... oltre a essere ancora sconcertato per essere stato portato via dalla casa del pozzo, riverberante di magia di battaglia, e trasportato in quel luogo. Chiunque fosse la persona che si divertiva a scarrozzare Craer Delnbone su e giù per Aglirta servendosi di un Dwaer, il procacciatore stava desiderando ardentemente che quella persona scegliesse qualcun altro come oggetto delle sue attenzioni. In uno di quei viaggetti, infatti, avrebbe finito per rimetterci la vita. «Capisco», disse infine Loushoond, nell'altra stanza. «E secondo il tuo modo di vedere, che genere di messi dovrebbero raccogliere quelle spade irrequiete?». «Teste», fu pronto a rispondere il tersept, con voce mielata, «regie e baronali».
«Baronali? Quante?». «Il più possibile, naturalmente», annuì Glarsimber di Sart, con un sorriso. «E i tersept?» insistette il Signore di Loushoond, accigliandosi ancora. «Quanti di loro?». «Qualcuno, ma non tutti», ribatté il Lupo Sorridente, scrollando le spalle. «Sarà necessario lasciarne in vita qualcuno che si possa inginocchiare davanti al nuovo Re di Aglirta, Sua Maestà il Leone, Berias Loushoond». Il barone sbatté lentamente le palpebre nella penombra, poi sorrise. «Sssss!» sibilò la sacerdotessa china sulla polla. «Non è un po' troppo esplicito?». «Ssssorella», le ricordò il prete, sorridendo a sua volta mentre accarezzava le teste dei serpenti per indurli a mordere ancora e passava un braccio intorno alle spalle della donna per sorreggerla, mentre rabbrividiva per l'estasi, «può permettersi di esserlo. Dopo tutto, questa è Aglirta». «Un mondo di stolti», mormorò la sacerdotessa con voce sognante, la testa che le ricadeva all'indietro mentre scivolava nei sogni indotti dal veleno. Con un sorriso sempre più accentuato, il prete assunse il controllo dell'incantesimo per guidare il buon Barone Loushoond durante il resto di quel colloquio, che probabilmente non si sarebbe protratto ancora per molto. Il Lupo di Sart aveva avuto occasione di gongolare così spesso nella sua vita che aveva imparato a farlo in fretta. Forse con la stessa rapidità con cui il Sacro Serpente si sarebbe levato a dominare Aglirta. Per gli dei, pensò Hawkril, stordito, mentre fitte di dolore lo trapassavano come lame di fuoco, per soffrire tanto devo essere ancora vivo. Un gemito gli sfuggì prima che potesse trattenerlo, e imprecò interiormente contro la propria stoltezza, perché quel suono avrebbe potuto procurargli una morte rapida se nelle vicinanze c'era qualcuno che lo aveva creduto un cadavere, per esempio l'uomo in possesso del terzo Dwaerindim. Chi, per la gloria dei Tre, poteva mai essere quell'uomo? I Tre rifiutarono di rispondere. Con un sorriso privo di divertimento, Hawkril cercò di muoversi, e scoprì quanto meno di avere ancora il braccio sinistro, perché ci era appoggiato sopra e gli dei gli erano testimoni che gli stava facendo un male spaventoso. Lentamente, sussultando e serrando i denti per contrastare la rossa onda-
ta di agonia che gli si riversò lungo tutto il braccio, fino alle unghie stesse, si costrinse a muovere le dita di quella mano, piegandole, serrandole a pugno e infine protendendosi a piantarle contro il terreno. Ruvida paglia e terra. Era ancora nella casa del pozzo. Ah, sì. Il campo di battaglia che aveva assistito alla loro ultima, epica vittoria. Sargh. Il passo successivo fu quello di sforzarsi di aprire gli occhi, anche se temeva che si sarebbe ritrovato a contemplare le punte sporche di letame di un forcone e il volto infuriato di un contadino di Tarlarnastar che lo fissava dall'estremità opposta di quell'arma improvvisata. Invece, quando finalmente, a furia di sbattere le palpebre, riuscì a liberare gli occhi dal velo di lacrime di dolore, ciò che vide nel guardarsi intorno fu una quiete assoluta, rischiarata dalla luce del giorno che penetrava attraverso la porta aperta, vicino alla sua spalla sinistra, e da un buco irregolare presente nel soffitto. Una spada gli giaceva accanto alla mano, per terra, e anche se non era la sua, Hawkril la raccolse ugualmente, traendo conforto dal suo peso rassicurante mentre si arrischiava a girarsi per guardare fuori dalla porta. Il dolore causato da quel movimento quasi lo fece crollare prono in avanti, piangente, ma si limitò a un ruggito d'agonia e ad affrettarsi a rimettersi seduto contro il muro, nella posizione originale. Gli abitanti del villaggio erano là fuori, fermi con fare guardingo a una dozzina di passi dalla porta, e la sua improvvisa apparizione, unita alla sua smorfia di dolore, li aveva indotti a indietreggiare affrettatamente, scambiandosi ansiosi mormorii. Hawkril lottò per mettersi a sedere più eretto, cosa in cui fu ostacolato sia dall'assortimento di dolori che lo affliggeva, sia dall'ammasso di pezzi di carne umana ronzanti di mosche che gli gravava sulle gambe e che era quanto rimaneva di quattro o cinque guerrieri; altri ancora giacevano alla sua destra in un lungo ammasso degno di un macello. Quando cercò di liberare una gamba da quel peso umido e puzzolente, scoprì che non riusciva a farlo. Allarmato, prese ad artigliare i resti sanguinanti con entrambe le mani, quasi gemendo per un senso di urgenza: dei, possibile che doveva finire con la gola tagliata dagli abitanti del villaggio, dopo essere sopravvissuto a tutto questo? Quando infine fu in grado di sedersi eretto e di respirare adeguatamente, tornò a guardarsi intorno, e vide... Sarasper! Il vecchio guaritore giaceva
supino, la bocca spalancata e una mosca che gli camminava pigramente su una guancia: dall'aspetto, sembrava decisamente morto. Graul. Graul e bebolt! E dov'era Craer? E la ragazza? Quella era...? Sì! Con un ruggito che era un misto di sofferenza e d'ira, Hawkril si issò su un ginocchio, e oscillò disperatamente in quella posizione per un momento prima di usare la spada come una gruccia... e finì per ritrovarsi disteso a faccia in avanti nella polvere, davanti alla soglia. Dall'esterno giunsero dei mormorii, che se non altro parevano esprimere più perplessità che ira. Ringhiando e spingendo, Hawkril lottò per issarsi di nuovo in ginocchio. Appoggiandosi alla spada, adesso poteva vedere Embra, che giaceva distesa per terra in mezzo alle travi infrante cadute dal tetto, il tutto circondato da una marea di pipistrelli schiacciati, con le piccole ali che sporgevano ad angolazioni assurde e le bocche minuscole spalancate per sempre, e da una nuvola di polvere. Notando come il volto di Embra apparisse pallido e immoto, Hawkril si sentì raggelare finché non riuscì a raggiungerla e a girarla goffamente di qua e di là con la massima delicatezza possibile, in modo da accertarsi che non si fosse impalata su un pezzo di legno o che non avesse qualche altra dannata ferita, da qualche parte. Non trovò però nulla del genere, e poco dopo che ebbe iniziato a smuoverla goffamente, lei assunse un'espressione accigliata, si agitò leggermente e protese una mano morbida a sfiorargli la guancia, come un bambino addormentato che si rassicurasse toccando la madre china su di lui. Il contatto fu delicato e fugace quanto quello di una piuma, e la mano le ricadde quasi immediatamente lungo il fianco, ma Hawkril si trovò a seguirne il movimento con le lacrime agli occhi e la gola contratta, e depose un bacio su quelle dita prima di riuscire a indursi ad allontanarsi da lei e a iniziare una nuova lotta per alzarsi in piedi. Per gli artigli, si supponeva che lui fosse un guerriero! Il primo a rialzarsi e l'ultimo a cadere combattendo... La casa del pozzo vorticò follemente intorno a Hawkril Anharu mentre fitte di dolore gli devastavano il fianco e il braccio destro, e lui tornò a inginocchiarsi in tutta fretta prima di cadere al suolo. Quando risollevò lo sguardo, si trovò a fissare in piena faccia uno degli abitanti del villaggio che stava avanzando con cautela per sbirciare oltre la porta della casa del pozzo. Sorridendo, Hawkril agitò la spada nella sua direzione in maniera significativa, e l'uomo fuggì come un coniglio spaventato dall'ombra di un fal-
co. «Bene», commentò intanto Hawkril, con voce rauca. «Bene, bene, a quanto pare, sono ancora vivo». «Davvero?» gli rispose una voce fievole, il cui tono vagamente ironico era piuttosto familiare. «Anch'io sono ancora vivo, qui vicino al pozzo... ma non posso dire di stare bene». «Craer!» ruggì l'armaragor, attraversando in qualche modo la casa del pozzo e facendo rotolare supino l'amico. «Per gli dei, Hawk!» esclamò il procacciatore, con un sibilo di dolore. «Devi proprio essere così... espansivo!». «Sei vivo!». «Non ne sono certo», replicò Craer, aggrappandosi al braccio di Hawk fino a riuscire a mettersi a sedere. «Ma essere morti fa molto meno male di così». Ridacchiando, Hawkril mise in mano all'amico l'impugnatura della spada che aveva trovato per terra. «Se scherzi, vuol dire che sei vivo. Riesci ad alzarti?». «Te lo farò sapere», ribatté Craer, sussultando nel sollevarsi sulle ginocchia, poi si protese ad aggrapparsi al muretto del pozzo per sorreggersi. «Cosa è successo?». «Qui c'era qualcun altro», spiegò Hawkril, scuotendo il capo. «Qualcuno che aveva un terzo Dwaer». Craer sollevò la testa di scatto e si guardò intorno nella casa del pozzo. «No», affermò l'armaragor, rendendosi immediatamente conto di quello che il suo vecchio amico stava cercando, una cosa di cui Hawkril l'Ammaccato non si era effettivamente reso conto fino a quel momento. «Le Pietre sono sparite tutte e tre, insieme all'uomo misterioso che possedeva la terza. Ha ridotto il barone e il Mago dei Pipistrelli a un mucchio di ossa e di fumo». «Ossa e fumo», borbottò Craer, guardandosi ancora intorno e scuotendo lentamente il capo. «Non ne dubito». Poi qualcosa attirò la sua attenzione e lui si protese in avanti, estraendo un oggetto da sotto un mucchio informe, rosso e lucido, formato da ciò che fino a poco prima aveva occupato un ventre umano: era la spada di Hawkril. «Un uomo, eh? Allora è stato lui a mandarmi nel palazzo... e in quella tomba piena di loquaci traditori, poco fa». «Come sarebbe?» chiese l'armaragor, accigliandosi. Craer scosse il capo e agitò una mano per accantonare l'argomento.
«Meglio parlarne più tardi», affermò come stordito. «Sempre che più tardi io riesca a pensare, naturalmente». Sarasper scelse quel momento per tossire debolmente e gemere. «Cosa è successo?» domandò al soffitto, con voce stanca. «Hai familiarità con i nostri abituali trionfi in battaglia?» domandò asciutto Hawkril, posandogli una mano sulla spalla. Sarasper gemette ancora, rotolò su se stesso e si passò una mano sugli occhi, mentre gli ultimi ciuffi di pelliccia dello zannelunghe gli rientravano nella pelle. Craer intanto lanciò un'occhiata in direzione della soglia della casa del pozzo, e prontamente cominciò a recuperare spade e a piantarle in fila nel terreno con la punta verso il basso, senza mai distogliere a lungo lo sguardo dagli abitanti del villaggio. «Hawk?». «Lo so», ringhiò l'armaragor. «Limitati a sorridere loro finché non mi riesce di svegliare la ragazza, d'accordo?». «Io, invece», annunciò con voce debole Sarasper, «intendo prosciugare un mucchio di oggetti magici di famiglia dei Silvertree per risanarci tutti, a cominciare da adesso». Hawkril quasi non lo sentì. «Embra?» stava chiamando, in tono gentile, protendendosi verso un volto chiazzato di sangue di pipistrello. «Embra?». Le labbra di lei si mossero appena, lentamente, e l'armaragor dovette chinarsi in avanti per sentire il suo debole sussurro. «Hawkril». Poi Embra aprì gli occhi e contrasse il volto per il dolore. «Lasciami rimanere distesa qui per un po'», aggiunse, «e dimmi cosa è successo». «C'era qui qualcuno, un uomo che non sono riuscito a vedere bene e che aveva un terzo Dwaer», spiegò Hawkril. «Con esso ha fatto qualcosa che ha indotto lame invisibili a ridurre in pezzi gli armigeri di tuo padre, e poi ha disintegrato il Mago dei Pipistrelli e il barone. Completamente. Non so se qualche pipistrello sia riuscito a fuggire, ma tu hai addosso quello che resta della maggior parte di essi». Embra accennò a distorcere il volto in una smorfia di disgusto, poi decise che non ne valeva la pena e si limitò ad annuire. «E poi?» chiese. «Ha fatto qualcosa con la Pietra che mi ha addormentato, e adesso è
scomparso, insieme a tutti i Dwaerindim». Embra annuì di nuovo, lentamente. «L'ho percepito. Me ne sono accorta non appena mi hai destata. Come stanno gli altri?». «Sarasper è impegnato a distruggere di buona lena statuette, saliere e pomoli di porta magici dei Silvertree», spiegò Hawkril. «Fra poco si occuperà di te». «Bene», ringhiò Embra, lasciando ricadere indietro la testa. «Ho qualcosa di rotto... la spalla sinistra, credo... e non riesco a ricordare l'ultima volta che sono stata tanto male». «In tal caso, signora, puoi dedicare un po' di tempo a riflettere su cosa faremo adesso?» chiese Craer. Embra volse lo sguardo fino a incontrare il suo e sfoggiò un sorriso contrito. «Devo dunque essere ora il nostro capo?» ribatté. «Credevo che alcuni fra noi fossero alquanto diffidenti all'idea di essere guidati da una maga?». «Non ho detto che saresti la sola a pensare a queste cose», precisò il procacciatore, «o che saremmo pronti a obbedire ai tuoi ordini, ma tu sei la sola a possedere una certa conoscenza dei Dwaer». Embra chiuse gli occhi e sospirò. «Se avessi idea di quanto poco so al riguardo, non lo diresti», affermò. «Signora», intervenne Hawkril, con fare impacciato, «io e Craer possiamo cavarcela senza che nessuno ci dica cosa dobbiamo fare, ma possiamo cavarcela come due guerrieri che considerano la magia, e quindi i Dwaerindim, come qualcosa da temere, da distruggere o da cui fuggire... proprio come la maggior parte di quei contadini laggiù. Siamo pronti a combattere per il re, e anche a morire per lui, ma è meglio che non si aspetti che si sia noi a salvare il regno e a usare la magia dei Dwaer. Quello è compito tuo». Embra annuì debolmente, senza aprire gli occhi. «Aiutami a sollevarmi e a sedermi con la schiena appoggiata a qualcosa che non tocchi questa spalla», disse poi. «Se dovessi urlare, smetti di muovermi». Per un momento, Hawkril la guardò con espressione impotente, poi protese con esitazione le grosse mani e la sollevò da terra. Embra s'irrigidì e sibilò di dolore, mordendosi un labbro, ma non urlò, neppure quando il malconcio armaragor scivolò e la depositò contro il muretto di pietra del pozzo un po' più bruscamente di quanto avrebbe voluto. «Embra?» chiese in tono ansioso, sentendola rabbrividire fra le sue ma-
ni. «Stai... stai bene?». «Sopravviverò, grosso bue», rispose lei, con un pallido sorriso. «Ora procurami una delle statuette di Sarasper». Il guaritore si avvicinò di persona per porgergliela. «Craer è conciato peggio di quanto credessi», borbottò. «Sei certa che non debba cercare di risanarti prima che provi a fare la stupidaggine che stai meditando di fare, qualsiasi cosa sia?». Hawkril sussultò, ma Embra sorrise al vecchio. «Ben detto, Sarasper, ma la risposta è no: se dovessi attivare qualche tipo di trappola devastante lasciata in attesa da chi ha preso il mio Dwaer, ci sarà bisogno di un'altra dose del tuo risanamento, e altra magia di famiglia dei Silvertree andrebbe sprecata. Però resta qui mentre faccio il mio tentativo e osservami gli occhi: se dovessero accendersi di un bagliore rosso o farsi troppo luminosi, o se cominciassi a parlare come se fossi qualcun altro, colpiscimi fino a farmi svenire... e non esitare a farlo!». «Sembra una cosa molto pericolosa», borbottò Hawkril. «Mentre assaltare il Castello Silvertree non lo era?» ritorse Embra, scoccandogli un'occhiata. «Sia la prima volta, per rubare una manciata dei miei abiti, sia la seconda, quando sapevamo che il Maestro d'Incantesimi ci stava aspettando con un Dwaer nelle sue mani?». «Allora cosa dobbiamo fare, adesso?» sospirò Hawkril, con aria sconfitta. «Tenetemi d'occhio», rispose asciutta Embra, «ma da una distanza tale da darvi la possibilità di uscire di qui se un qualche tipo di magia dovesse esplodere dalla mia persona. Oh, e attingimi anche un po' d'acqua da bere». In silenzio, Hawkril le offrì la propria fiasca, ma Embra scosse il capo. «Non voglio avere in corpo niente di più forte dell'acqua, mentre tento l'individuazione», disse. «Vuoi rintracciare il Dwaer che portavi con te?» commentò Sarasper, con voce cupa. «Ti pare una cosa saggia, non disponendo a tua volta di un Dwaer con cui proteggerti?». «In questo andare in giro per il regno combattendo maghi e usando la magia dei Dwaer non c'è nulla di "saggio", Lord Zannelunghe», ringhiò Embra. «Però è una cosa necessaria, a meno che uno non preferisca starsene seduto su una sedia a bere, da qualche parte, e a guardare la devastazione infuriare su Aglirta fino a quando questa non arrivi ad artigliare anche lui!». Sarasper scrollò le spalle.
«Sta abbastanza bene da poter fare un tentativo», disse a Hawkril e a Craer, arrivando quasi a contrarre le labbra in un sorriso. «State indietro». I tre si scambiarono asciutte occhiate mentre Embra li fissava, scuoteva il capo e prendeva la statuetta, chiudendo gli occhi e mormorando qualcosa in risposta alla quale una crepitante e ronzante rete di minuscoli lampi scintillanti prese a infuriare intorno alle sue mani chiuse, emettendo scariche di energia che le si snodarono su per le braccia, quasi fameliche. La luce fra le sue dita divampò più intensa, e di colpo le scariche luminose si riversarono su tutto il suo corpo, facendole tremare e sussultare gli arti... poi si dissolsero. Embra abbandonò il capo da un lato, volute di fumo che salivano dalle sue mani ora vuote. «Ragazza?» chiamò Hawkril. «Embra! Embra, parlami!». «Arguta osservazione», borbottò lei. «Pertinente e arioso commento sul fatto che non è successo nulla, nonché una constatazione del mio star bene, seguita da una sarcastica dichiarazione riguardo al fatto che Aglirta non è mai stata più al sicuro tutt'intorno a me, e da un'allegra frecciata, e... Craer, pensa tu a fornire il resto del discorso, perché il mio cervello si rifiuta di farlo». «Ma stai bene?» insistette Hawkril, quasi scrollandola. «Per usare ancora una volta la mia menzogna preferita», ribatté lentamente Embra, sollevando lo sguardo su di lui con un bagliore negli occhi, «mi sento benone». «L'individuazione è fallita?» chiese Sarasper, continuando intanto a tenere d'occhio Craer, che si era accoccolato dietro la fila di spade e stava sorvegliando gli abitanti del villaggio con una daga in mano, pronta al lancio. A giudicare dai loro borbottii e dalle ritirate strategiche, anche i contadini stavano sorvegliando lui. «Sì», sospirò Embra, lasciando vagare lo sguardo per l'ombrosa casa del pozzo con aria esasperata. «Chiunque sia ora in possesso del Dwaer, si è servito della sua magia per renderne impossibile l'individuazione, almeno da parte dei miei incantesimi. Senza un altare, o un altro oggetto permeato di un forte potere magico permanente che "potenzi" la mia magia, non riuscirò mai a trovare neppure il minimo indizio su dove possa essere uno qualsiasi dei Dwaer, a meno che io non sia tanto vicina ad esso da poterlo praticamente vedere». «Quindi siamo venuti meno al nostro re?» ringhiò lentamente Hawkril. «Definiscila piuttosto una piccola sconfitta», replicò Sarasper. «Un ro-
vescio sfortunato che merita un po' di riposo accanto a un fuoco per meditare sull'accaduto, per poi ripartire il mattino successivo, con la lama in pugno e nuove energie a metterci le ali ai piedi!». «Per gli dei», commentò Craer, girandosi verso di lui, «parli come un cortigiano». «Un tempo ero un cortigiano, Messer Lingua Arguta», ribatté in tono burbero il vecchio, ergendosi sulla persona con finta pomposità. «Questo spiega alcune cose», commentò con fare ingenuo Embra, rivolta al soffitto. Hawkril la fissò per un momento, poi scosse il capo. «Se avete finito di fare i furbi», ringhiò, «rimane da risolvere il problema relativo a cosa fare adesso». «Ebbene», rispose Craer, sollevando la mano in un gesto conciliante, «io vedo davanti a noi due alternative. Possiamo andare in giro alla cieca per tutta Aglirta per trovare una delle Pietre spiando il clero del Serpente e qualsiasi mago che faccia viaggi insoliti, un approccio che probabilmente non ci frutterà nulla tranne farci ammazzare in qualsiasi imboscata baroni, tersept o sacerdoti del Serpente decidano di tenderci». «Oppure possiamo seguire l'astuto consiglio di Craer Delnbone», interloquì Embra, «e...». Craer sorrise e abbozzò un elegante inchino. «Oppure possiamo predisporre a nostra volta una trappola, scegliendo un posto difendibile in cui combattere, andando là e discutendo "involontariamente", ma a voce ben alta, nella locanda o taverna più vicina a quel posto, sul fatto che dovremo "usare il Dwaer di cui siamo in possesso" per evocare le leggendarie Spade dei Perduti, o il mago-tutore preferito del Re Ridestato, o i Gioielli Mai Esistiti, per poi stare a vedere chi si fa vivo per attaccarci». «Sembra un piano semplice, sicuro e sensato», commentò sarcastico Sarasper. «Per gli dei, perché non lo abbiamo attuato subito, invece di venire qui a combattere contro dei pipistrelli?». «Sapevo che Dita Lunghe avrebbe trovato la soluzione migliore!» esclamò Hawkril, in tono trionfante. «Lo fa sempre!». Embra e Sarasper si scambiarono un'occhiata, lei con aria divertita, lui incredulo, poi l'erede dei Silvertree sorrise. «Può sembrare una cosa folle», affermò, «ma non vedo altra strada che possiamo imboccare». Il guaritore la fissò interdetto.
«Ecco, c'è il piccolo problema di trovare un posto facile da difendere», affermò gravemente, scuotendo il capo. «La Casa Silenziosa», suggerì Craer, con fare ingenuo. «Che altro, se no?». «Tu», aggiunse Embra, annuendo all'indirizzo di Sarasper, «sei il solo esperto vivente dei suoi passaggi e di ciò che contengono». Sarasper levò gli occhi al cielo, scosse il capo e infine agitò una mano in un gesto rassegnato. «Benissimo, la Casa Silenziosa», assentì. «Speriamo che la maledizione non colpisca Embra, e se poi non si farà vivo nessuno, se non altro avremo un posto tutto nostro dove passare tremando il prossimo inverno. Allora questo è tutto? Ce ne andremo da Tarlarnastar come se niente fosse, dopo aver ucciso il signore locale e tutti i suoi uomini e aver devastato la casa del pozzo? E se questa gente cercasse di attaccarci?». «Attualmente, mi farebbe quasi piacere», affermò Craer, con un sorriso ferino e una daga scintillante che gli appariva improvvisamente in mano. 15. Una brutta giornata per i maghi L'uomo ustionato dai capelli arruffati aveva una sola mano, ma questo non gli stava impedendo di usarla vigorosamente, mentre continuava a imprecare con voce aspra e sibilante. L'uomo stava strappando spesse cortine verdi di muschio pendente da una pietra dopo l'altra, come se fosse stato pungolato da un incantesimo; sulla sua scia, l'aria stessa era diffusa di verde, a mano a mano che lui si spostava incespicando lungo la collina, ringhiando imprecazioni verso il cielo. Di tanto in tanto, un pipistrello dalle ali lacere scendeva svolazzando incerto da quel cielo tanto vilipeso per andarglisi a posare sulle spalle, e dopo aver ciangottato per qualche momento nel raggiungere a forza di artigli la posizione giusta, si fondeva con la trama scura del suo mantello. Lui però non prestava attenzione alcuna a quegli arrivi, anche se ciascuno di essi lo rendeva leggermente più forte, un po' più massiccio e alto rispetto alla curva e avvizzita ombra umana che era stato quando si era ridestato lì. Mentre ripuliva le pietre, la sua mente era fissa su una cosa soltanto: individuare quello che stava cercando sotto gli spessi strati di muschio. Un osservatore che si fosse trovato nelle vicinanze avrebbe potuto essere
perdonato se avesse pensato che quell'uomo bruciacchiato stava consumando la maggior parte delle sue energie a imprecare nel portare avanti le proprie ricerche. «Idioti muniti di spada, questo è ciò che sono tutti!» ringhiò il Signore dei Pipistrelli. «Da solo, mi so guardare le spalle, mi avvolgo in una corazza di protezioni in modo che nessuno possa cogliermi alla sprovvista con freccia o lama... ma no, i baroni devono avere i loro segreti!». Stridendo in una rinnovata esplosione di furia incontrollabile, prese a strappare e a scagliare via il muschio come un folle, fino a trovare, con un improvviso sussulto di soddisfazione, la depressione che stava cercando, da cui tirò fuori un ingiallito teschio umano che aveva riposto lì molto tempo prima per tenerlo alla larga da dita curiose. Per un attimo fissò quelle orbite vuote, poi, con un ringhio di subitanea determinazione, s'incastrò quel resto sul moncherino, dove ci sarebbe dovuta essere la mano destra. «Non c'era bisogno di informare il fedele Huldaerus, l'uomo che ti aveva reso di nuovo integro, che ti aveva mostrato come usare la tua preziosa Pietra magica, del fatto che avevi a tua disposizione un altro Dwaer», ringhiò, rivolto all'eterno sogghigno del teschio. «Dopo tutto, non ci si può fidare dei maghi! Meglio lasciare il grande Signore dei Pipistrelli all'oscuro di tutto, in modo da poter ridere alle sue spalle, e in modo che lui possa essere il primo a cadere, quando quest'altro fidato servitore si trasforma in un traditore!». Agitando il teschio accanto al proprio orecchio, come se fosse stato una marionetta e lui fosse stato un menestrello vicino al culmine della rappresentazione, il mago infilò ancora la mano nella depressione, girò qualcosa d'invisibile e d'un tratto sorrise con tanta ferocia che la sua espressione risultò quasi identica all'ampio sogghigno del teschio, mentre ascoltava un profondo stridio provenire dalle rocce, sulla sua destra. Il Signore dei Pipistrelli si girò a guardare mentre un masso tremava e si spostava, arrestandosi a una spanna di distanza dalla collina rispetto alla sua posizione originale. Il mago annuì ancora con soddisfazione, poi il sorriso gli svanì dal volto. «Oh, no!» esclamò, con rinnovata ira, fissando il masso con occhi roventi. «I baroni non si fidano di nessuno e gettano via i maghi a decine prima di aver avuto il tempo di svuotare un altro boccale! E sempre... sempre!... devono avere grossi idioti in armatura pronti a minacciare le serve e i loro padri, i vecchi contadini... oh, sì, e anche ogni singolo mago di passaggio! Non devono permettere che uomini dotati di effettiva erudizione e di vero
talento dimentichino quale sia il loro posto! E così mi trovo la strada sbarrata da ingombranti teste di legno, che mi spintonano di continuo da un lato con i loro sogghigni e le loro occhiate fredde, mostrando significativamente la spada mentre si grattano e ruttano e mi ricoprono del loro fetore, del loro alito immondo e della loro flatulenta, brutale arroganza! Garrrrghhh!». Il mago furente sbatté il teschio contro la roccia più vicina, ringhiò ancora mentre le schegge d'osso gli schizzavano in faccia al suo disintegrarsi, poi agitò verso il sole il moncherino della mano destra. L'attimo successivo tacque di colpo, con il respiro affannoso, contemplando con occhi roventi gli alberi che rivestivano il sottostante pendio collinare. Gli uccelli trillavano e stridevano poco più oltre, lungo l'altura, ma non si sentivano grida o rumori di passi che si avvicinassero sulla scia del suo sfogo violento. Era solo nelle lande selvagge di Aglirta, in alto fra le colline sovrastanti quella che era stata un tempo la Baronia di Blackgult, tremante per la debolezza derivante dai postumi del suo sfogo iroso. Nell'arco della loro vita, ai maghi capitava molto di rado di cedere all'ira fino a quel punto. Perdere il controllo, anche con il più infimo garzone di stalla pieno di odio e di timore nei loro confronti, e lasciarsi così cogliere con la guardia abbassata, era troppo rischioso. Erano trascorsi anni dall'ultima volta che il Signore dei Pipistrelli aveva permesso all'ira di impadronirsi di lui fino a quel punto. Adesso, tremante per la propria follia e per lo sfinimento, fissò l'estremità lacera del braccio destro e chiamò a raccolta la propria forza di volontà, lasciando che la determinazione crescesse lentamente dentro di lui, fredda e dura. Sollevato di nuovo il moncherino verso il sole, scandì con lenta precisione alcune parole. La sua volontà era dura quanto il ferro, o anche di più, persistente quanto i freddi e induriti strati di pietra lavica che circondano le montagne fumanti. Huldaerus sarebbe prevalso. La sua volontà lo aveva sempre portato avanti, da una cupa fanciullezza al dominio della magia, attraverso incantesimi di fuoco e abbondanza di tradimenti, fino a quel luogo e a quel momento. A quel luogo e a un'altra sconfitta. Questa volta, però, la colpa non era sua, e questo era un bene, perché si trattava di una sconfitta generata dalla più assoluta stupidità. Noncurante, arrogante stupidità. Forse, l'unico aspetto positivo di tutta quella faccenda era che le pareti della casa del pozzo avevano nascosto la sua caduta agli occhi degli abitanti del villaggio. Far sapere a quegli zoti-
coni con quanta rapidità e facilità un mago poteva essere abbattuto, per esempio con un forcone o anche con un ceppo di legna scagliato da lontano, non sarebbe stata una cosa saggia. La magia gli salì lungo la gola mentre pronunciava le ultime parole dell'incantesimo, fluì verso l'alto calda e limpida, dissolvendo la sensazione nauseante e l'incertezza che il dolore fisico aveva generato. L'incantesimo si protese... E d'un tratto il Signore dei Pipistrelli si ritrovò con un altro teschio che gli adornava i resti del braccio. Questo era fresco e ancora viscido di sangue, un po' più grosso di quello che aveva appena fracassato, ed esteriormente non aveva nulla che potesse rivelare a una prima occhiata che non si trattava del cranio di un popolano o di un mago, ma che quelli erano invece gli ultimi resti del Barone Faerod Silvertree, restaurati dall'incantesimo. Huldaerus ringhiò contro di esso nuovi rimproveri misti a imprecazioni, ma con voce più bassa e quasi stanca, nel protendere la mano sana per spostare ulteriormente il masso. Come si era aspettato, il teschio non trovò da replicare. In risposta ai suoi sforzi, nella parete apparve una fessura, uno spazio rivelato dallo spostarsi della pietra, che si andò allargando quando il mago puntellò la spalla contro il masso e continuò a spingere, serrando i denti per non gemere di dolore ad alta voce. I rami intrecciati all'interno dell'apertura erano un po' afflosciati, così marci che si sgretolarono sotto il suo tocco, ma erano esattamente come li aveva lasciati, segno che niente di più grosso di una volpe era passato di lì. Non per la prima volta, il Signore dei Pipistrelli rese grazie per due cose: il fatto che non ci fossero miniere sulle montagne sovrastanti Blackgult, e che fosse stato lui a trovare la tomba di quel vecchio mago. Essa costituiva un nascondiglio perfetto, e le magie che vi aveva riposto nel corso degli anni lo avrebbero sostentato, gli avrebbero permesso di rimpiazzare la mano mancante e di annullare le ustioni, la stanchezza e la sofferenza, oltre a fornirgli un riparo. Fu con sorpresa che constatò come la prospettiva di rimanere nascosto gli apparisse di colpo attraente. La prudenza non era una dote a cui Huldaerus, il Signore dei Pipistrelli, avesse mai permesso in precedenza di governare la sua vita, o anche solo di gestirla in maniera preminente. Adesso era però disposto, anzi desideroso, di cedere a essa, di rimanere momentaneamente nascosto e di usare i propri incantesimi per spiare le terre circostanti. «Me ne starò seduto qui», disse al sedile di pietra appena oltre la soglia,
«a guardare gli eventi che si evolvono e ad attendere il momento giusto per farmi avanti e afferrare qualsiasi vantaggio mi si possa offrire, dopo che gli altri si saranno divertiti a uccidersi a vicenda». Il sedile di pietra non replicò, quindi il mago sedette su di esso, puntellò i piedi contro l'estremità opposta della tomba e si dispose ad attendere. Davanti a loro, oltre la curva della strada, ci fu un improvviso bagliore luminoso. «Magia!» scattò Hawkril. «Craer? Craer!». Il procacciatore era andato in esplorazione più avanti, tenendosi fra gli alberi. Per i Tre! Se qualche... L'armaragor aggirò la curva a precipizio, correndo più che poteva, con il grido con cui Embra gli diceva di fermarsi che gli echeggiava negli orecchi senza che lui vi badasse. Se era successo qualcosa al suo vecchio amico... La zona che aveva davanti doveva essere stata incendiata da un fulmine qualche anno prima, dato che un paio di colline apparivano del tutto prive di alberi, coperte soltanto da erba alta, rampicanti e rovi, una vegetazione che avrebbe potuto fornire una copertura a un abile procacciatore che cercasse di strisciare senza essere visto, ma non a degli armigeri, o a un mago, o... Un ragazzo dall'aria sconcertata era fermo da solo in mezzo alla strada, con alcune scintille luminose che ancora gli aleggiavano intorno, prossime a svanire. Si trattava di un ragazzo avvenente, di una bellezza quasi femminea, con grandi occhi scuri ora accigliati con aria perplessa, e il suo abbigliamento era composto da calzoni e stivali di buona fattura, sovrastati da un tabarro del genere indossato dai bardi. «Tu!» scattò Hawkril. «Cos'hai... ah, ragazzo, hai visto qui un uomo, poco fa? Alto circa quanto te, vestito di cuoio? Doveva avere in mano una spada, o delle daghe...». La voce gli si spense in gola mentre il ragazzo scuoteva il capo, paura e meraviglia che lottavano per il predominio in quei grandi occhi scuri. «C... chi sei, signore?» chiese poi. «E dove... che posto è questo?». Il ragazzo si stava guardando intorno, contemplando la strada, le colline segnate dal fuoco e gli alberi come se non fosse mai uscito di casa prima di allora. Hawkril lo squadrò con attenzione, rilevò la fine fattura dei suoi abiti e si corresse: come se non fosse mai uscito dal suo castello. «Mi chiamo Hawkril», rispose, conciso, guardandosi intorno alla ricerca di qualche traccia di Craer. «Tu chi sei?». «Raulin, signore, Raulin Tilbar Castecloaks. Mio padre era il bardo
Helgrym Castlecloaks». La sola risposta di Hawkril fu un grugnito, ma nei suoi occhi affiorò un certo rispetto mentre fissava ancora il ragazzo, e nel notarlo, Raulin cercò di rivolgergli un tremulo sorriso. Quasi con riluttanza, Hawkril abbassò la spada mentre Sarasper ed Embra lo raggiungevano, affiancandoglisi. «Come sei arrivato qui, ragazzo?» chiese ancora. «Magia dei Dwaer», spiegò Embra, con una nota cupa nella voce, prima che il ragazzo potesse replicare. «Adesso so che sensazione emana. Era questo che stavo cercando di dirti, Hawk». «Un attimo fa tu eri nel palazzo reale, giusto?» intervenne Sarasper, fissando il ragazzo con occhi socchiusi. Raulin annuì con vigore. «Sì», confermò, «e poi... poi mi sono ritrovato...». Scrollando le spalle, girò lentamente su se stesso per guardarsi alle spalle, quindi tornò a voltarsi verso i tre e concluse: «Qui». Il vecchio guaritore guardò verso Embra, ed entrambi annuirono all'unisono, cupi. «E nello stesso momento Craer è stato trasportato là, o da qualche altra parte». «Teletrasportato di nuovo?» esclamò Hawkril, fissandoli con aria furente. «I Tre mi sono testimoni che se riesco a mettere le mani su chi sta giocando con quel Dwaer...». «Ti troverai calpestato dalla carica di tutti gli altri che vogliono fargli del male», lo interruppe Embra, con voce dolente, «o che vogliono semplicemente sottrargli le Pietre». Mentre parlava, finì il suo lento e attento esame del ragazzo fermo in mezzo alla strada davanti a loro, e si accorse che lui stava cominciando ad arrossire sotto il suo sguardo. «Raulin», disse, «adesso Sarasper eseguirà una piccola magia su di te: se sei chi sembri essere, non ti farà nessun male e non sentirai nulla. Il figlio di Helgrym Castlecloaks è il benvenuto fra di noi, anche se ultimamente il pericolo sembra avvolgerci come un mantello. Vuoi venire con noi?». «Certamente», assentì allegramente il ragazzo, come se gli avesse fatto un regalo, poi scrollò le spalle e aggiunse: «Dove altro potrei andare?». C'erano due motivi per cui quell'uomo dallo sguardo duro e dalla barba corvina, vestito di porpora, stava procedendo a cavallo lungo le fangose
strade secondarie della Valle. Il primo era che Bodemmon Sarr detestava sprecare incantesimi ricorrendo a essi quando ciò era superfluo: la magia doveva essere un'abile spada e non un massiccio e rozzo randello. Anche se di rado la magia scaturiva dalla punta delle sue dita guantate, e ben poche cose erano in grado di alterare il tranquillo sorriso che lui sfoggiava abitualmente al di sopra della barba arricciata e appuntita e in mezzo ai lucidi orecchini d'oro, Bodemmon Sarr non esitava mai a colpire con i suoi incantesimi, quando questo era necessario. Il secondo motivo era che a Bodemmon Sarr piaceva cavalcare. Pochi osavano sfidarlo o ostacolarlo a lungo, o vivevano abbastanza da poter tentare una seconda volta una simile follia, quindi lui stava attraversando Aglirta come se fosse stato padrone di ogni albero e cespuglio, procedendo fra campi ondulati e verdi foreste all'andatura che più gli piaceva, prendendo quello che gli andava e cambiando ciò che aveva voglia di cambiare. Massicce guardie del corpo che indossavano la loro armatura migliore, nera e adornata dal simbolo del mago, le ambrate ali aperte del falco del tramonto, procedevano a coppie davanti e dietro di lui, mentre l'apprendista perennemente teso, una cuoca e due serve, che avevano l'impegnativo compito di assistere Bodemmon Sarr per quanto concerneva i pasti, il bagno, il vestiario e il suo divertimento notturno, cavalcavano quattro dei dieci muli da soma legati uno all'altro in una lunga fila, fra la seconda coppia di guardie e una retroguardia di altri guerrieri equipaggiati nello stesso modo. Di tanto in tanto, l'uomo che sapeva di essere il mago più abile di tutta la Valle, indipendentemente da ciò che poteva sostenere quel presuntuoso di Tharlorn, prelevava un paio di guanti carmini dalla sacca della sella e pronunciava la parola che faceva scaturire da uno di essi un falco da caccia. Erano trascorsi anni dall'ultima volta che aveva usato la parola necessaria per far scaturire un giavellotto dal palmo dell'altro guanto, perché quei dannati baroni avevano dato la caccia ai cinghiali della Valle finché non ne era rimasto quasi più nessuno. Mentre cavalcava, Bodemmon Sarr si trovò quasi sul punto di cedere alla crescente tentazione di dare la caccia a un nuovo tipo di prede: i baroni di Aglirta. Perfino i baroni si erano però trovati ultimamente a fronteggiare tempi difficili, come il mago rifletté senza che il suo tranquillo sorriso subisse la minima alterazione; in molti posti avrebbe dovuto accontentarsi di dare la caccia ai tersept.
Nell'interesse di un più raffinato e utile divertimento sportivo, probabilmente entro breve tempo avrebbe dovuto decidersi a dare la caccia a questo cosiddetto Re Ridestato, ma nel frattempo poteva divertirsi a partecipare alle diverse cospirazioni improvvisate che erano diventate la vita quotidiana di Aglirta sulla scia della caduta di Blackgult e di Silvertree, della guerra di maghi fra le rovine di Indraevyn e dell'attacco dei draghi della notte contro Sirlptar, del ritorno di Re Kelgrael Snowsar e dell'ascesa (una delle molte del genere, nel corso degli anni) di coloro che erano tanto stupidi da adorare il Serpente. Ah, la Valle praticamente ribolliva di offerte sussurrate, di accoltellamenti nel buio e di oscure supposizioni, motivo per cui lui stava viaggiando in maniera così scoperta alla volta di una determinata locanda, per incontrarsi con alcuni cospiratori rozzamente travestiti che erano attualmente impegnati a radunare un esercito per occupare Cardassa o intimidire il suo barone in modo da costringerlo a unirsi a loro in un tentativo di impadronirsi del Trono del Fiume. Altri potevano voler governare dall'Isola della Corrente Spumosa per il potere che ne derivava o a causa delle loro personali illusioni di fama e gloria regia, ma Bodemmon Sarr voleva soltanto aiutare un'infinita successione di dame ambiziose a salire su quel trono, per il semplice divertimento che gli sarebbe derivato da una relazione amorosa con loro, e dagli inevitabili tradimenti contro di lui che vi avrebbero fatto seguito. La noia era il suo tormento. Qualsiasi cosa, pur di riempire la vuota opacità delle sue giornate. Il mago vestito di porpora sospirò e si girò per lanciare un'occhiata a Glarth; nel ricevere in risposta l'abituale sorriso incerto e troppo immediato del suo apprendista, il più potente mago di Aglirta distolse lo sguardo e si concesse un altro sorriso, questa volta più profondo. Per i Tre Che Vegliavano Su Tutti, la vita stava diventando una grigia, vuo... Più avanti, una guardia gridò un avvertimento e si girò sulla sella per rivolgere al suo signore un segnale urgente che indusse Bodemmon Sarr a protendersi in avanti sulla sella con aria interessata. Il cerchio formato dalla mano dell'uomo, sempre che non fosse stato tanto stupido da usare il gesto sbagliato o da cercare di divertirsi con un'esagerazione o una menzogna, significava «mostro». Quindi si trattava di una bestia pericolosa, o quanto meno sconosciuta e poco familiare. Hmm. Il più potente mago di tutta Aglirta diede il segnale che ordinava ai suoi uomini di farsi da parte e spronò il destriero per anda-
re a indagare. Ben presto si trovò a contemplare un qualcosa lento e grigio che stava procedendo verso di lui preceduto da due enormi chele ad artiglio che teneva protese davanti al corpo ingobbito e protetto da un guscio. Nel complesso, la creatura sembrava un granchio uscito dall'acqua, anche se Bodemmon Sarr non aveva mai visto prima di allora un granchio grande quanto un piccolo carro. Seduto con calma sulla sella, il mago rimase a guardare la bestia che avanzava verso di lui o, per meglio dire, che avanzava verso est senza badare a cosa trovava sulla sua strada. Obbedendo a un impulso improvviso, evocò un muro lucente a sbarrare la strada alla bestia, che non rallentò né accelerò il passo mentre l'incantesimo acquistava efficacia e una dura barriera trasparente e scintillante prendeva vita attraverso la strada. Quello sbarramento, composto da aria solidificata con la magia, non poteva essere infranto se non con un ampio uso di complessi incantesimi e si stendeva da una sporgenza rocciosa sul lato meridionale della strada a un groviglio di massi infranti e di vecchi ceppi d'albero ammassati sul suo lato settentrionale quando essa era stata tracciata. Il granchio di terra, o qualsiasi altra cosa fosse, colpì la barriera con uno schianto e continuò a percuoterla in un modo che al mago intento a osservarlo parve più un ottuso tentativo di infrangerla che non un attacco contro un supposto nemico. Gli enormi artigli stridettero contro il muro lucente e cercarono di lacerarlo fino a strappare alla barriera magica un acuto stridio, ma essa resistette. Incrociando le braccia sul petto, Bodemmon Sarr si concesse un sorriso appena più accentuato del consueto. Fra un momento la bestia sarebbe indietreggiata per lanciarsi alla carica contro il muro, oppure si sarebbe girata per fiancheggiarlo e cercare un modo per aggirarlo, e così lui avrebbe appreso qualcosa di più sull'essere che si trovava davanti ai suoi occhi. In una piccola parte della sua mente stava affiorando la convinzione che quella dovesse essere una bestia trasportata fin lì da terre lontane con la magia o trasformata mediante incantesimi partendo da una creatura diversa e più piccola, perché era impossibile che una creatura così grossa avesse circolato a lungo per la Valle senza che lui lo sapesse. Dopo tutto, era Bodemmon Sarr. Il granchio di terra si girò lentamente verso nord e procedette con passo pesante lungo il muro, strisciando contro di esso un artiglio con un suono stridente per sapere se la barriera persisteva. Il mago notò intanto che la
creatura si trascinava dietro una coda tozza e pesante, e attese con crescente divertimento di assistere allo spettacolo del suo faticoso arrampicarsi sul groviglio di rocce. Di conseguenza, le sue sopracciglia scattarono verso l'alto quando la bestia si limitò invece a svoltare non appena raggiunse la fine del muro, passando attraverso l'ammasso di pietre come se esse fossero state un'illusione magica. Un momento più tardi, Bodemmon Sarr si ritrovò a fissare un grande occhio scuro e furente quando il granchio di terra sollevò la testa, calva e brutta quanto quella di un avvoltoio o di una testuggine marina, e la girò da un lato per concentrare la propria attenzione su di lui. Nel nome dei nascosti capricci dei Tre, che cosa era quella creatura? Improvvisamente, la bestia smise di contemplarlo e riprese a muoversi, allontanandosi leggermente dalla strada e puntando dritta verso la più vicina delle guardie. Per un momento, quando l'elmo dell'uomo si girò verso di lui per ricevere istruzioni, Bodemmon Sarr fu tentato di dirgli di lasciar passare la creatura, ma poi si accorse che, a causa della curva che la strada descriveva in quel punto, il suo percorso l'avrebbe portata in mezzo ai muli da soma, ai viveri che essi trasportavano, alla cuoca e alle serve, quindi diede all'uomo l'ordine di attaccare. L'armigero spronò il cavallo da guerra in modo da farlo spostare da un lato, nel tentativo di passare accanto all'artiglio più vicino e di protendersi per trafiggere con la spada uno degli occhi del granchio di terra. La sua lama saettò fuori dal fodero, senza che lui distogliesse mai lo sguardo dalla bestia, e... L'armigero lanciò un urlo di sorpresa e di dolore quando la testa calva saettò improvvisamente in fuori con una rapidità fulminea, il collo robusto che si protendeva come una lancia, e gli tranciò con un morso il braccio che reggeva la spada. «Dei del cielo!» sussultò Bodemmon Sarr, a bocca aperta per lo stupore più assoluto. Il sangue stava schizzando dappertutto mentre braccio e spada rimbalzavano in mezzo alle foglie morte e ai fiori selvatici calpestati; il guerriero ferito si accasciò in avanti in preda alle convulsioni, abbandonandosi sul collo del cavallo che stava sbuffando e tremando quasi quanto lui. Quelle fauci avevano tranciato l'armatura senza esitazione o fatica apparente, e adesso la bestia si stava muovendo con rapidità improvvisa, avanzando per bloccare la fuga del cavallo dell'armigero, che stava cercando di voltarsi ma non aveva molto spazio di manovra a causa degli alberi. Uno
dei grandi artigli scattò in fuori. Questa volta fu il cavallo a perdere un arto. Mentre l'animale crollava al suolo, nitrendo di dolore, Bodemmon Sarr ringhiò tre parole scandite, allargò le mani e scagliò sfrigolanti frecce magiche di fuoco purpureo attraverso l'aria, in direzione del gobbo guscio che copriva la parte posteriore della creatura. Le frecce colpirono il bersaglio, divamparono... e svanirono. Il granchio s'irrigidì, gli artigli pieni di pezzi sussultanti e sanguinanti di guerriero, e si girò per rivolgere al mago una piatta occhiata piena di oscura minaccia. Quella bestia poteva attraversare la pietra... e adesso risultava immune alla magia. Era troppo, decisamente troppo! Bodemmon Sarr impartì l'ordine che avrebbe fatto entrare in azione tutte le sue guardie e fece girare il proprio cavallo, dirigendosi verso i muli e l'assistenza non troppo affidabile che poteva fornirgli Glarth. Adesso che tutti avevano visto quanto la bestia fosse rapida, tutte quelle lame avrebbero dovuto arrivare piuttosto in fretta a trapassarle gli occhi, perché la testa non pareva avere lo spazio per ritrarsi interamente nel guscio, e lui doveva ancora vedere un animale che, per quanto grosso, riuscisse a sopravvivere a lungo alla perdita della testa. Naturalmente, la magia poteva persistere laddove la carne veniva meno, e quella specie di granchio era passato attraverso la pietra, quindi quella poteva essere semplicemente opera di Tharlorn il Tonante, mandata a indebolire e a irritare il mago rivale. Di conseguenza, lui si sarebbe preparato a disintegrarla completamente, e intanto avrebbe pensato a una risposta adeguata da mandare a quel mago da quattro soldi che osava considerarsi un suo rivale. Gli uomini della retroguardia oltrepassarono intanto il loro signore, cupi in volto e con la spada già in pugno, e il mago li lasciò passare prima di ripercorrere al galoppo il tratto di strada che lo separava dal gruppetto agitato di muli nervosi e di facce spaventate, le serve e l'apprendista trattenuti dal darsi alla fuga soltanto dalla lingua tagliente della cuoca e dalla prontezza con cui lei aveva afferrato le loro redini; brutta e rugosa quanto un vecchio stivale, quella donna valeva però quanto dieci armigeri. Alle sue spalle echeggiò un altro urlo di dolore, seguito da un rauco grido, e Bodemmon Sarr si concesse una sommessa imprecazione nel tirare energicamente le redini, facendo rallentare il destriero da quello che pareva quasi un galoppo dettato dal panico e balzando di sella. «Glarth, ho bisogno di te. Portami il cofanetto con la testa di grifone».
«Maestro, cosa...». «Le domande dopo, ora dammi il cofanetto. Posalo qui, su questa roccia. Brithra, ti sono grato. Ora bada che le ragazze leghino i muli agli alberi e ci raggiungano. Avrò bisogno di voi per versare alcune polveri». La cuoca si limitò ad annuire e si allontanò per obbedire agli ordini, senza i balbettii e la goffaggine dell'apprendista. Bodemmon Sarr girò intanto la testa per vedere come se la stessero cavando i suoi uomini, giusto in tempo per vedere uno di essi fuggire a piedi fra gli alberi, incespicando e sbattendo contro i rami nella fretta indotta dal terrore. No, non era soltanto uno di essi: quell'uomo in fuga era l'ultimo dei suoi armigeri! Il mago più potente di tutta Aglirta lanciò un'ultima occhiata alla strage, e al granchio di terra impegnato a sputare pezzi di armatura mentre banchettava allegramente in mezzo a essa, poi si chinò con calma verso lo stivale, estrasse una bacchetta scura e sottile che prese a vibrare in risposta a una parola da lui borbottata, e scagliò un raggio di morte attraverso gli alberi, decapitando l'uomo che aveva osato fuggire mentre era al suo servizio. Il torso in armatura scura oltrepassò un altro albero prima di crollare al suolo. Bodemmon Sarr lo guardò scomparire alla vista prima di riportare la propria attenzione sul granchio. Esso gli era ormai quasi addosso, le fauci e gli artigli umidi e scuri per il sangue. Il mago deglutì e ringhiò una parola che fece tremolare le rune incise sulla bacchetta, riversando sul granchio di terra tutto il fuoco in essa contenuto in una sola, rapida scarica rovente. La pelle gli formicolò, l'aria arroventata gli ribollì intorno e la ringhiante onda d'urto della magia liberata quasi gli fece perdere l'equilibrio, ma poi la bacchetta ebbe un sussulto improvviso e si spense. E il granchio incombette su di lui, tremante di dolore ma decisamente vivo, integro e... Furente. Il suo primo morso per poco non tranciò il piede destro del mago più potente di Aglirta, ma Bodemmon Sarr spiccò un balzo di lato, cadendo a faccia in avanti sulla strada polverosa, e la bestia si accontentò di divorare invece un mulo da soma, quello che trasportava la maggior parte dei viveri. Gli orribili suoni umidi prodotti dalla bestia nel nutrirsi echeggiarono sonori negli orecchi di Bodemmon Sarr mentre lui si puliva rabbiosamente gli occhi e ringhiava un incantesimo che pervase l'aria di crepitanti fulmini verdi che fecero crollare al suolo una delle serve con il fumo che le usciva
dal naso, dalla bocca e dai buchi che fino a un momento prima avevano ospitato i suoi occhi, ma lasciarono del tutto illeso quel dannato granchio. Singhiozzante per il terrore, Glarth si stava aggrappando ciecamente alle gambe e alle caviglie di Brithra, la cuoca, che lo stava percuotendo con i pugni nel vano tentativo di fargli abbandonare la presa. Nel momento stesso in cui il loro padrone li raggiunse, la donna afferrò una padella nera dalla sella del suo mulo e la calò con forza sulla testa dell'apprendista, che si accasciò inerte al suolo. Pallida in volto per il terrore, Brithra incontrò con il proprio lo sguardo del padrone. «Signore, mi dispiace!» annaspò. «Io...». «No, non hai fatto nulla di sbagliato», scattò Bodemmon Sarr, serrandole la spalla con dita d'acciaio. «Aiutami a girarlo». Un urlo orribile, e una serie di suoni umidi e crocchianti ancora più orribili annunciarono il trapasso di un altro mulo, o forse dell'altra serva, mentre la cuoca e il mago si davano da fare con fretta febbrile. «Indietro!» sibilò Bodemmon Sarr, rivolto alla cuoca, poi gridò le parole di un incantesimo senza attendere che lei si traesse di lato. Il corpo immoto di Glarth fu avvolto da un bagliore improvviso di un giallo malsano, un colore che si dissolse con agonizzante lentezza mentre Bodemmon Sarr s'inginocchiava accanto all'apprendista, guardando pieno di tensione mentre il granchio faceva a pezzi gli ultimi muli e girava infine la testa verso la cuoca e i due maghi. Quando finalmente la tonalità giallastra fu scomparsa ovunque, tranne che negli occhi aperti e fissi dell'apprendista, Bodemmon Sarr balbettò un altro incantesimo e balzò indietro, proprio mentre l'orribile testa calva cominciava a protendersi verso il basso. La testa e una spalla di Glarth scomparvero con il primo morso, accompagnato dal fiottare di un torrente di sangue fumante la cui vista strappò un gemito alla cuoca e la indusse a sollevare il braccio destro a coprirsi gli occhi. L'altro braccio e gran parte del lato destro dell'apprendista svanirono al secondo morso. Ponendo una mano ferma sulla spalla della cuoca, Bodemmon Sarr la pilotò indietro e lontano, aspettando con fredda calma il momento giusto per agire. Il morso successivo del granchio non lasciò più nulla dell'apprendista se non due gambe sussultanti e i resti intrisi di sangue dell'osso pelvico che le univa. A giudicare dal modo in cui sollevò di scatto la testa per fissare Bodemmon Sarr in modo tale da indurre il mago quasi a giurare che quella
bestia gli stava sorridendo, il granchio aveva finito di banchettare a spese dell'apprendista, e stava pensando di assaggiare ora il suo maestro. Bodemmon Sarr lasciò che esso avanzasse di un passo pesante lungo la strada, verso di lui, un passo che la creatura mosse con una velocità spaventosa, quindi pronunciò in tono scandito una singola parola, destinata ad attivare l'ultimo incantesimo che aveva gettato su Glarth. Poi si volse e spiccò la corsa, abbandonando Brithra e ogni altra cosa nella frenetica premura di allontanarsi in fretta da... ... dalla nauseante, umida esplosione che fece tremare la terra sotto i suoi piedi e scagliò viscidi pezzi di granchio attraverso gli alberi, tutt'intorno a lui. Il mago sentì l'impatto caldo e pesante del sangue e della carne della bestia che gli colpiva le spalle, appena prima che l'onda d'urto generata dall'esplosione lo sollevasse da terra e lo mandasse a rotolare a testa in avanti in un cespuglio di rovi. Poi gli dei gli elargirono un beato, assoluto silenzio, infranto solo dal suo respiro affannoso. Lentamente, Bodemmon Sarr si trascinò fuori da quanto restava del cespuglio e si girò a contemplare la strage, non vedendo nulla che si muovesse tranne una debole figura intrisa di sangue che poteva essere soltanto Brithra. Il granchio era del tutto scomparso. Bodemmon Sarr sfoggiò un cupo sorriso. L'astuzia di Tharlorn poteva aver tenuto quella bestia al sicuro dall'attacco della maggior parte dei suoi incantesimi, ma Glarth non aveva goduto di protezioni del genere, e perfino il suo grosso guscio gobbo non aveva potuto salvare la bestia dalla devastazione causata da un uomo divorato che le esplodeva nei visceri. Come aveva asserito un mago da tempo dimenticato, c'era più di un modo per abbattere un drago con la magia. Brithra e i suoi gemiti potevano aspettare. Adesso doveva recuperare una cosa particolare dalle sacche della sua sella, per trasportarsi al sicuro in un altro punto della Valle. Se un altro qualcosa era ancora al suo posto, avrebbe portato Brithra con sé, perché i buoni cuochi degni di fiducia erano difficili da trovare. Recuperati entrambi i qualcosa che stava cercando, Bodemmon Sarr si erse con aria cupa sui resti sparsi del granchio. «Tharlorn», disse con calma, «sei un...». Il gigantesco serpente dalle molteplici teste spinse il proprio corpo immenso fuori dagli alberi in uno spettrale silenzio, avanzando con mosse oscillanti, una dozzina di fauci spalancate e pronte a richiudersi di scatto.
Undici di esse si chiusero a vuoto, ma una recise la testa del mago più potente di tutta Aglirta, inghiottendola in un boccone. Decapitato, il corpo di Bodemmom Sarr saltellò spasmodicamente lungo la strada per qualche istante, scintille di magia attivata a vuoto che gli scaturivano dalle dita, poi si accasciò sussultando nella polvere. Il serpente dalle molte teste si chinò e le sue fauci fecero a pezzi il corpo che ancora sussultava, poi l'uccisore di maghi creato da Tharlorn s'irrigidì e si erse come una cauta colonna, guardandosi intorno. Il suo sguardo parve indugiare per molto tempo sulla parte settentrionale della Valle, prima di spostarsi di nuovo verso il basso, poi il serpente prese a strisciare verso ovest, lungo la strada, con movimenti rapidi e decisi. Quando fu completamente scomparso alla vista, una donna coperta di sangue allontanò lentamente le nocche dalla bocca tremante. Allora, e soltanto allora, la cuoca Brithra si permise di urlare. Craer Delnbone sospirò, seduto su una comoda pietra, appoggiò i piedi sulla pietra adiacente e si dispose ad attendere. Un momento prima stava strisciando fra le felci lungo il bordo di una strada e adesso... Evidentemente era stato trasportato là per qualche motivo, questo era reso evidente dal corpo sconosciuto e massiccio in cui era stato in qualche modo trasformato il suo fisico snello e minuto. Flettendo le dita, che per la prima volta nella sua vita erano grosse e pelose, scosse il capo con aria sconcertata. A giudicare dall'armatura, dal mantello e da tutto il resto, era evidentemente un guerriero di una certa importanza, e quanto lo circondava gli dava l'impressione di trovarsi da qualche parte nella zona inferiore della Valle, dal lato opposto del fiume, probabilmente a Cardassa o nelle immediate vicinanze. Hmm. Si augurava soltanto che i piani del misterioso possessore dei Dwaerindim contemplassero che lui continuasse a sopravvivere per qualche tempo ancora, e prevedessero anche la perdurante salute e serenità della persona che era diventato, chiunque fosse. Pur non essendo un uomo devoto, Craer si trovò un momento più tardi a levare una preghiera a chiunque fra i Tre fosse disposto ad ascoltarlo, mentre chiudeva quelle nuove dita, che gli apparivano goffe, intorno all'impugnatura di una spada che non gli era familiare. 16. Bottiglie in abbondanza, e abbastanza sangue
da riempirle Le prime, morbide ombre della sera si stavano estendendo dagli alberi ad ammantare la strada nella penombra quando quattro viandanti appiedati emersero con passo stanco dal cuore della Valle Profonda, infestata dai briganti, e passarono davanti al punto in cui erano incatenati alcuni cani da guerra, il cui scopo era quello di dare agli occupanti della Bottiglia un primo avvertimento dell'arrivo di visitatori, desiderati o meno che fossero. La Bottiglia e il Guanto era una locanda vecchia ma prospera, in quanto era la sola dove ci si potesse fermare lungo la strada che attraversava i boschi e collegava le terre di Phelinndar con le fattorie e i mulini di Silvertree; essa si allargava su un lato, lontano dalla strada come un vecchio, comodo e gigantesco mastino addormentato, occupando tre radure che - tranne per un'apertura chiusa da una staccionata - erano al sicuro da orsi, felini in caccia e altre creature della notte, come fuorilegge muniti di lame affilate, grazie a una palizzata di vecchi e robusti tronchi induriti sul fuoco. Uomini armati di una balestra carica proteggevano il cancello che permetteva ai viandanti di accedere al cortile della locanda, e quelle guardie non erano abituate a guardare con occhio amichevole alle persone che emergevano a piedi dal profondo della foresta. Le guardie si fecero ancora più caute, pronte a tutto nella loro postazione di tiro al di sopra della strada, quando videro il gigantesco armaragor in armatura che precedeva i compagni con la spada sguainata e un'espressione dura sul volto. La donna che procedeva dietro di lui, tuttavia, aveva un aspetto altezzoso e nonostante la polvere accumulata sulla strada appariva di sangue regale o quanto meno nobiliare, e l'uomo che si appoggiava a lei era innegabilmente vecchio, mentre il membro più giovane di quel gruppetto di quattro persone era un ragazzo di una bellezza quasi femminea, che camminava zoppicando e con il volto contratto dal dolore. «Il piede mi fa male», si lamentò Raulin, mentre i Quattro si avvicinavano alle porte. «Questa messa in scena è davvero necessaria? Se abbattessero o allontanassero ogni viandante che giunge lungo la strada, presto morirebbero di fame!». «Ragazzo», gli rispose in tono vellutato Embra, da sopra la spalla, «accontentami appena per qualche altro momento, d'accordo? Naturalmente, potrei pronunciare poche parole, un incantesimo assai semplice, e quella tua marcata zoppia diventerebbe decisamente reale». La risposta di Raulin fu un borbottio che si ridusse a un ringhio mentre
una delle guardie di stanza alle porte intimava: «Dite il vostro nome, e cosa vi conduce qui, se desiderate essere ammessi all'interno!». Le prime, morbide ombre della sera stavano protendendo le loro lunghe dita, nascondendo molte cose che non erano gradevoli, su quelle strade secondarie. Perfino alcune cose che si muovevano. Il raccoglitore di letame era già stato poco avvenente alla nascita, e una vita dura non aveva fatto nulla per migliorare il suo aspetto. Le spesse cicatrici bianche in rilievo che gli segnavano la testa erano così tante che la sua faccia sporgeva in avanti come il muso di un cane, e i pochi capelli che gli erano rimasti crescevano in ciuffi scomposti lasciando esposta in mezzo a esse una quantità di pelle rosea e rigonfia. L'uomo prese a fischiettare senza seguire una particolare melodia nello scendere gli scuri gradini che portavano in mezzo all'intenso fetore delle fogne di Sirlptar, barcollando sotto il peso del sacco di rifiuti marci che portava sulle spalle. Il crepuscolo si stava estendendo sempre più in fretta lungo i gradini. Non sarebbe passato molto tempo e quelle buie vie sotterranee avrebbero preso vita, e nell'orgogliosa città di Sirl c'erano persone disposte a piantare un coltello in corpo perfino a un brutto e puzzolente raccoglitore di letame, nella speranza di conquistare così una manciata di monete di rame, o anche solo per macabro divertimento. Il raccoglitore accelerò leggermente il passo strascicato, anche se in quel punto i gradini sotto i suoi stivali erano bagnati da qualcosa di umido e appiccicoso. Il fetore generale e l'oscurità erano troppo profondi per poter dire esattamente di cosa si trattasse, anche ammesso che lui avesse avuto voglia di chinarsi per verificarlo. Sarebbe stato un piacere andarsene da quel posto, e la prossima volta sarebbe stato lui a scegliere dove incontrarsi. Qualcosa si mosse nell'oscurità, dietro una colonna di pietra. Il raccoglitore di letame s'immobilizzò e spostò il sacco pieno di letame davanti a sé come se fosse stato uno scudo. «Chi è là?» ringhiò. Il qualcosa avanzò lentamente fino a esporsi alla poca luce presente, e lui poté vedere che si trattava di una donna, del tutto nuda tranne per una mezza maschera e un mantello che portava fermato su un fianco con una spilla, in modo tale da poterlo rapidamente far cadere in avanti a coprire del tutto la figura. «Non si tratta di un pericolo», annunciò con voce vellutata, «ma soltanto
di Oblarma». Quel nome parve avere l'effetto di far rilassare il raccoglitore di letame, che posò il sacco con un grugnito, sferrandogli un calcio in modo che il suo contenuto si riversasse nel portello più vicino della fogna. «Oblarma», replicò, usando i modi stranamente formali dei mercanti di Sirl, con un sorriso che mise in mostra molti denti rotti e anneriti, «sappi che io sono Indie. Sei sola, ma desiderosa di esserlo di meno?». «Sì», mormorò la donna dalla pelle d'avorio, venendo avanti in modo da permettergli di vedere che le sue mani erano vuote, prima di protendersi ad accarezzargli un braccio, «e ancora sì». Indie le rivolse un borbottio inarticolato mentre si protendeva verso di lei, sollevando due dita. La donna rispose sollevandone quattro, ma immediatamente ne abbassò una, riducendole a tre. «E tre sia», sorrise lui. Insieme, il braccio dell'uno intorno alle spalle dell'altra, oltrepassarono una soglia buia. Oblarma si staccò dall'uomo per mettere a nudo la luce di una lampada sollevando con una mossa disinvolta un vecchio elmo mentre con l'altra mano faceva scivolare al suo posto la sbarra che bloccava la porta, prima che chiunque potesse essere annidato sulla scala di accesso alle fogne avesse il tempo di fare qualcosa di più che sbattere le palpebre. «Bei seni», mormorò il raccoglitore, a voce bassa, e con un timbro del tutto diverso. «Belle cicatrici», fu la risposta, mentre la prostituta spegneva la lampada, facendo sprofondare la stanza in un'oscurità venata di fumo. «Anche i denti non sono male». Nel pronunciare quelle parole, la sua voce cambiò anch'essa, facendosi al tempo stesso più profonda e più sommessa, quasi morbida come il burro. Nell'oscurità, la sua carne stava fluendo sulle ossa; in un primo tempo, il suo volto si fece privo di ogni lineamento, e pochi istanti più tardi i seni che Indie aveva apprezzato si ridussero fino a cedere il posto a una superficie liscia. Anche Indie stava cambiando, trasformandosi in qualcosa di più snello, dal volto uniforme e privo di lineamenti. Poi la faccia di ciascun Koglaur generò una bocca simile a un lungo tubo e un singolo orecchio, profondo e a coppa come il bocciolo di un fiore; i due tubi si protesero fino a congiungersi ciascuno con l'orecchio in attesa, in modo che nessun altro orecchio presente nella stanza, se ce ne fossero stati in quell'oscurità fetida e umida, dietro la porta sbarrata, potesse sentire la conversazione che seguì.
«I seguaci del Serpente hanno già piazzato qualcuno sull'Isola della Corrente Spumosa?». «Esabras dice di no. Però la loro marcia attraverso le baronie sta continuando ininterrotta». «I cittadini cominciano ad avere paura, oppure i Serpenti stanno agendo in modo astuto e silenzioso?». «I baroni non agiscono mai in silenzio», fu la risposta, permeata di un cupo divertimento. Ci fu un suono che sarebbe potuto essere una risatina. «Tutti noi siamo adesso in grado di resistere al loro veleno?». «Tutti tranne Tlalash, che temo non potrà mai affrontare nessun adoratore del Serpente». «Allora siamo pronti quanto più ci è possibile esserlo. Vorrei sapere cosa pensi di questo piano di Ashene...». Le parole che seguirono non richiesero molto tempo. Quando infine la sbarra venne rimossa dalla porta e i Koglaur sgusciarono fuori, ciascuno dei due sfoggiava un volto del tutto diverso. «Belgur», mormorò Weldrin, mettendo alcune monete nella mano di un uomo che aveva già comprato numerose volte, «quante monete d'oro vedi nella tua mano?». L'ometto simile a un ratto abbassò lo sguardo sul proprio palmo, poi lo risollevò subito, dopo una rapida e fugace occhiata che non diede a nessuno il tempo di colpirlo mentre aveva la testa abbassata. «S... sei, Wel», rispose. «Esatto», sorrise il suo swordsorn. «Ce ne saranno altre quattro che si andranno ad aggiungere a esse se porterai qui Artheld o Nimmor prima che venga acceso il prossimo fuoco nel focolare». Belgur non ebbe bisogno di guardare attraverso il paravento in direzione dell'affollato focolare della Bottiglia per sapere quanto tempo questo gli mettesse a disposizione, il che fu un bene perché gli permise di fissare invece il suo superiore con aria accigliata. «Sacerdoti del Serpente? Vuoi che porti qui dei sacerdoti del Serpente?». «È una cosa della massima importanza che io parli con uno di quei due senza indugio», mormorò Weldrin. «Portali in questa alcova, e da soli. Al di là di questa' tenda né tu né loro mi conoscete. Se dovessero mostrarsi sospettosi e volessero venire qui in forze, lascia che lo facciano, ma avvertili che Weldrin consiglia loro di agire con cautela e di nascondere il volto.
Altre quattro monete, Bel», aggiunse, notando l'incertezza che aleggiava sul volto di Belgur. «Ricordalo». L'ometto dalla faccia di ratto annuì e uscì dall'alcova. Weldrin attese il tempo che un nuovo ceppo impiegò a scoppiettare sul fuoco della sala comune, levando volute di scintille, poi uscì a sua volta, ma non andò lontano. Il corridoio era occupato dal ragazzo addetto alle alcove, che incassava il pagamento dovuto da parte di coloro che desideravano affittarle, e da un guerriero armato e sul chi vive posizionato all'estremità opposta del passaggio rispetto all'alcova utilizzata da Weldrin, il cui incarico era quello di verificare che nessuno rifiutasse di pagare il ragazzo o disturbasse gli occupanti dell'alcova più costosa e privata, l'ultima della fila. Lui e Weldrin s'ignorarono a vicenda, perché quella era la cosa più professionale da fare. L'alcova in cui Weldrin entrò si trovava all'estremità opposta del passaggio, ed era una stanza un po' più grande e meglio illuminata della precedente, posizionata accanto al corridoio che intersecava quello principale e che permetteva alle indaffarate cameriere e ai ragazzi addetti al focolare di andare e venire fra la cucina e la sala comune. La Bottiglia poteva anche sorgere isolata in mezzo alla foresta, ma in notti di affollamento, come quella, i suoi clienti ne facevano quasi un villaggio a se stante, popolato da gente che era assolutamente chiassosa e affamata. L'alcova in cui Weldrin entrò era rumorosa quasi quanto la sala comune, che era tutta un ribollire di commenti suscitati dalle notizie portate da una dama di alto rango, dal suo tutore e dalle sue due guardie del corpo, che erano arrivati lì al tramonto: a quanto pareva, la Banda dei Quattro che era al servizio del re stava portando i leggendari Dwaerindim nella Casa Silenziosa, maledizione dei Silvertree, per evocare là molte forze magiche da tempo nascoste e risalenti al glorioso passato di Aglirta, al fine di difendere il regno in quei tempi oscuri. Proprio come asserivano le profezie, era il sommesso commento di alcuni, che poi cominciavano a discutere su quale fosse la profezia migliore, e su quali altre informazioni fossero racchiuse in quei testi ermetici. Altri insistevano che si trattava invece di un oscuro complotto organizzato dai maghi della Valle per accedere al Trono del Fiume e impadronirsene, un'affermazione corretta prontamente da altri ancora, secondo i quali gli artefici del complotto erano i baroni, e non i maghi, che erano ignoranti delle cose mondane. «Maghi ignoranti delle cose mondane», mormorò fra sé Weldrin, mentre
un'esclamazione a voce particolarmente alta arrivava all'interno delle alcove e fin nel corridoio retrostante. «Mi piace questa definizione». «Weldrin», sibilò uno dei guerrieri, nel momento stesso in cui lui oltrepassò la tenda d'ingresso dell'alcova, «quella nobildonna là fuori... è la Dama dei Gioielli!». «Già», rincarò un altro degli uomini presenti, posando il proprio boccale, «non ci sono dubbi, è la marmocchia del barone, questo è certo. Cosa facciamo, Weldrin?». «La trapassiamo con la spada?» esclamò il primo guerriero che aveva parlato. «Sì», approvò un uomo dai folti baffi, con un sorriso lascivo, «ma prima mi piacerebbe trapassarla con qualcosa d'altro. Allora vedremo che sorta di maga è!». «Calma ragazzi», ingiunse Weldrin, sollevando una mano per ottenere silenzio, tenendo bassa la voce ma usando un tono che era indubbiamente quello di un uomo abituato a impartire ordini. «Questi paraventi non sono fatti di vetro magico, e lei può sentirci con la stessa chiarezza con cui noi sentiamo lei. Quindi, niente nomi». I guerrieri annuirono e tacquero, lo sguardo fisso su di lui. Weldrin rivolse loro un lento sorriso e prelevò uno spicchio di formaggio alle noci da un piatto con un abile affondo del coltello da cintura. Lui era stato il loro comandante prima della caduta del barone e sarebbe tornato a esserlo, swordsorn di quelle che erano state venti lame al servizio dei Silvertree e che adesso erano purtroppo ridotte a otto; un tempo lui era stato Weldrin dei Sei, una delle migliori lame al servizio del barone, e anche i suoi uomini lo avevano reputato tale, altrimenti non sarebbero rimasti con lui, seguendolo fino in quell'angolo remoto e selvaggio della Valle, e nei confini di un'altra baronia caduta, quella di Phelinndar. Ormai si trovavano là da dodici notti, tempo che avevano impiegato per effettuare impunemente scorrerie verso est, nelle terre prive di un signore, portando via con sé tutto quello che potevano trasportare, violentando e massacrando a piacimento quegli stupidi contadini e i loro figli privi di coraggio; in quel momento, due giovani contadine erano in attesa di sopra sul suo letto, legate e imbavagliate. La donna che in quel momento stava ridendo nella sala comune era però una preda di valore superiore a qualsiasi cosa Phelinndar poteva contenere e che loro fossero in grado di trasportare tutti insieme, anche con l'ausilio del carro che avrebbero comunque dovuto rubare entro un paio di notti. I
seguaci del Serpente gli avrebbero pagato cento monete d'oro, forse anche di più, se gliel'avesse consegnata viva, però i suoi uomini non sapevano nulla della sua simpatia per gli adoratori del Serpente né del fatto che la cosa era reciproca. Se lo avessero saputo, lo avrebbero abbandonato, e avrebbero addirittura potuto trapassarlo con la spada prima di andarsene. Lui sapeva tuttavia che i sacerdoti del Serpente non avevano soltanto veleni letali nelle loro sacche da cintura; essi avevano anche un estratto derivato da quel veleno, che provocava il sonno e non la morte, e che avrebbe potuto facilmente far crollare addormentati i guerrieri di Silvertree invece di ucciderli. Quando si fossero risvegliati sul loro carro, la prigioniera, Lady Embra, sarebbe semplicemente scomparsa. Lui avrebbe dovuto ascoltare i loro ringhi di rabbia per tutta la strada fino a Sirlptar, naturalmente, ma quello sarebbe stato un prezzo minimo rispetto a quello che gli avrebbero pagato i seguaci del Serpente. La cosa migliore sarebbe stata farsi pagare in pietre preziose, perché avrebbe fatto parecchia fatica a sollevare i piedi, con cento monete d'oro nascoste negli stivali. «Per prima cosa», disse in tono secco ai suoi uomini, «smettete di bere immediatamente, perché avremo bisogno di essere ben svegli e sobri più tardi, a meno che il vostro stomaco non si senta pronto a ospitare le quadrelle scagliate da ogni balestriere della Bottiglia!». Quell'ordine fu accolto con qualche borbottio, ma senza vere proteste, poi tutti protesero la testa in avanti per ascoltare il suo piano. «Vi piacerebbe essere ricchi?» chiese Weldrin, sfoggiando un ampio sorriso e piantando un piede su una panca. Gli altri attesero in silenzio, senza ruggiti di approvazione o domande. Bravi ragazzi. «Anch'io ho riconosciuto la Dama», disse loro, «e poco fa stavo controllando dove fosse alloggiata, usando Belgur perché andasse in esplorazione sul retro e nelle stalle. Hanno preso due stanze, ma non so ancora se lei dorma da sola, o se dovremo usare la spada per separarla da uno o più di quegli idioti là fuori. Sì, quello grosso sa di certo come usare un'arma, ma aspettiamo ancora un poco. Ho pagato un ragazzo perché li tenga d'occhio e guardi dalle scale chi entra in quale stanza. Al momento giusto, colpiremo». «E...?» incalzò Turstrin, impaziente come sempre. «Morta, la Dama non vale nulla», rispose Weldrin, con un sorriso. «La voglio illesa, anche se faremo meglio a legarle le mani, a imbavagliarla e a metterle una coperta sulla testa, calandola fino ai polsi. Dopo tutto, lei è
una maga. Ma da prigioniera, presentata al Re Ridestato come una "maga traditrice", potrebbe valere una ricompensa notevole». Tutt'intorno al tavolo ci furono cenni di assenso. «Anche se non otterremo denaro», continuò Weldrin, allargando le mani, «potremo avere un grado adeguato fra le guardie della sua corte e le terre di Silvertree e di Blackgult che si accompagnano a una carica del genere, tutte cose che non sono da buttare via. Possiamo ancora diventare nobili della Valle». «Ha appena sbadigliato», osservò uno dei guerrieri, in tono eccitato, distogliendo lo sguardo dal paravento. «Proprio così, ragazzi», convenne Weldrin, con un sorriso impaziente, trapassando un altro pezzo di formaggio. «Ormai non ci vorrà più molto». Ecco, se non altro ormai non ci voleva più molto. Belgur stava correndo attraverso il bosco alla massima velocità che osava tenere, perché quanto più accelerava il passo tanto più era difficile non far rumore, e lungo quelle piste venivano piazzate trappole per gli uomini e non solo per la selvaggina. Le une o le altre avrebbero potuto essere la sua rovina, come lui rifletté fra sé, perché cos'altro era se non un piccolo animale in corsa? Badò a mantenersi dove l'ombra era più fitta, ben lontano dalla luce della luna che stava sorgendo, in modo da non essere visto, almeno finché non fosse riuscito a sua volta a intravedere all'incerto chiarore della luna chi stava cercando di avvistare lui. Per precauzione, nell'eventualità di un incontro del genere, aveva già la daga in pugno. Per i Tre, quanto odiava i sacerdoti del Serpente e i loro rettili. Non sarebbe derivato nulla di buono dal fatto che Weldrin si era messo in affari con loro, di questo chiunque poteva essere certo, e lui non vedeva l'ora di portare a termine quell'oscuro incarico e di ritrovarsi al sicuro sotto un tetto, nel suo... Belgur Maerbotham si sentì pronto a giurare che la mano che si era protesa a colpirgli il braccio, facendogli perdere la presa sulla daga, era uscita dallo scuro tronco di un albero. Tutto accadde spaventosamente in fretta. Il momento prima si stava abbassando per passare sotto l'ennesimo ramo e si stava spostando sulla sinistra per evitare un raggio di luce lunare che batteva sulla pista, e quello successivo si trovò a dibattersi nella stretta di quella che sembrava una dozzina di' braccia robuste... o forse erano tentacoli?
Non poteva muoversi, non poteva respirare, c'erano delle dita che gli si stavano ficcando in gola e stavano diventando in qualche modo più larghe dentro di essa! Adesso stava lottando semplicemente per respirare, e la presa dotata di forza orribile che lo teneva intrappolato si stava accentuando... Fu a quel punto che i coltelli gli scivolarono nel corpo, sei o forse più, morbidi come il velluto ma assolutamente gelidi. Belgur rabbrividì e tentò di urlare, o di singhiozzare, o di implorare, di fare qualcosa per arrestare quell'orribile liquido che gli stava gorgogliando dentro, soffocandolo... non poteva respirare... non respirava... Mentre la notte si faceva di colpo più oscura e il silenzio gli vorticava intorno, Belgur Maerbotham fissò con orrore il suo assassino, che si stava ora chinando su di lui per essere certo di aver portato a termine il suo compito. Il suo ultimo pensiero, pervaso di terrore, fu che quella testa che lo sovrastava, rischiarata dalla fredda luce lunare, non aveva volto. «I briganti imperversano così tanto, di questi tempi», mormorò una voce nel buio, mentre le acque di una fossa paludosa si richiudevano sul corpo dell'ometto. «Purtroppo, un altro messaggio indirizzato ai seguaci del Serpente non verrà consegnato». «Gongola più tardi», consigliò un'altra voce vellutata, salendo di tono a mano a mano che la gola di chi la emetteva si allungava e cambiava forma. «Siamo ancora piuttosto lontani dalla Bottiglia, e anche se li abbiamo liberati dai seguaci del Serpente, loro devono ancora vedersela con i lupi di Silvertree. Spicciati». La sola risposta fu un ringhio, poi un grande felino spiccò un balzo nell'aria, agitò le ali che si stavano ancora formando e prese quota come se si stesse sforzando di raggiungere le stelle. Il falco che gli saettò accanto sospirò sonoramente nell'oltrepassarlo, un suono che risultò stranamente umano. E tuttavia, in qualche modo... differente. Embra sbadigliò di nuovo e quasi affondò il naso nel boccale che il grasso e affaccendato locandiere aveva insistito per portarle, poi gettò indietro il capo, con i lunghi capelli sporchi che le vorticavano sulle spalle in una massa lucida, e sussultò. «Per gli dei, se sono stanca! Qualcuno mi mostri la strada per arrivare al
letto». Mezza candela prima, quelle parole avrebbero scatenato risposte scurrili ed entusiastiche da parte di oltre una dozzina degli uomini raccolti nella calda sala comune, ma ormai si era fatto molto tardi, o molto presto, se si guardava la cosa da un'altra prospettiva, e le scale avevano già visto più di una persona risalirle con passo incespicante. Altri clienti stavano russando seduti al loro tavolo o si erano accasciati all'indietro sulla sedia e stavano cominciando a scivolare verso il pavimento, con un impatto che forse li avrebbe svegliati. Fra le alcove, almeno una era ancora occupata, perché una voce era appena scaturita dalle sue nascoste profondità. «Chiunque tu stia aspettando non verrà, Weldrin», aveva esclamato, «quindi smettila di agitarti come una tigre in gabbia!». I pochi tavoli ancora occupati da clienti svegli tendevano a essere quelli condivisi da coppie di mercanti intenti a borbottare furtivamente fra loro, dopo aver finito da tempo la cena a base di trota o di maiale e aver spinto da parte piatti e boccali per affrontare affari che era meglio trattare quando intorno c'erano pochi orecchi che potessero sentire. Quelle coppie di avventori erano annidate negli angoli più ombrosi e lontani della grande stanza, ben distanti dalle braci che languivano nel focolare e dalle lanterne appese nelle sue immediate vicinanze. I Quattro erano invece seduti quasi sotto una di quelle lanterne, in mezzo ai resti di un'enorme cena a base di cinghiale al burro e menta, fagiano arrosto e una dozzina di diverse salse piccanti. Tre brocche vuote e un barilotto montavano stancamente la guardia in mezzo a ciotole, piatti e forchettoni, ed Embra non era la sola che stesse sbadigliando. «Signora, per favore, smettila», scattò Raulin con voce assonnata, aggrappandosi al suo boccale ancora pieno a metà come se esso potesse sorreggerlo, mentre la Dama dei Gioielli gettava indietro il capo e sbadigliava ancora. «Sarà meglio andare di sopra», borbottò Hawkril, guardando verso Sarasper. Il vecchio sedeva in silenzio davanti al suo boccale, e stava dormendo profondamente con gli occhi aperti. L'armaragor gli assestò una spinta, e subito dovette affrettarsi ad afferrarlo quando lui cominciò a cadere da un lato, sempre compostamente seduto; grosse dita disperate gli si serrarono intorno al gomito con forza tale da lasciare dei lividi, ma neppure questo bastò a ridestare il guaritore. Mentre il guerriero ringhiante lo issava di nuovo in posizione diritta, Sarasper girò la testa, sempre profondamente
addormentato, ed emise un singolo suono nasale, un russare che era quasi un rutto, direttamente contro la sua faccia. Raulin scoppiò in una risata, si strozzò dal ridere e si piegò su se stesso, quasi sbattendo la fronte contro il tavolo. «Divertente», commentò Embra, in tono secco, guardando verso Hawkril con un sopracciglio inarcato. Senza attendere una risposta, spostò le gambe su un lato della sedia ad alto schienale, in modo da potersi alzare senza fare la fatica di spingerla all'indietro dal tavolo, e si issò in piedi, barcollando un poco per la stanchezza. «Raulin, lascia perdere il resto di quella birra, se non vuoi passare la notte quaggiù», disse. «Signora», commentò Hawkril, issandosi in spalla il guaritore con una mano e afferrando con l'altra il ragazzo che stava ancora tossendo, «forse sarebbe stato meglio dire "quello che resta della notte". Sono rimasti soltanto due baristi, perfino il locandiere è andato a dormire, e mancano solo tre candele all'alba». «Splendido! La cameriera che domattina cercherà di svegliarmi lo farà a suo rischio e pericolo», minacciò Embra, sbadigliando ancora. Avevano preso delle stanze in fondo al corridoio del piano di sopra, camere che dovevano essere senza dubbio fredde, buie e piene di correnti, ma anche più tranquille di quelle vicino alle scale. La porta di comunicazione di una delle due stanze era sbarrata, ma quella che la collegava all'altra camera era aperta, per cui qualsiasi intruso sarebbe potuto arrivare fino a Embra soltanto passando attraverso la stanza dove avrebbero dormito i tre uomini, con Hawkril steso di traverso sulla soglia della porta di comunicazione, con la spada in pugno, e Sarasper che dormiva di fronte a essa. Nella penombra, Embra lasciò vagare lo sguardo per la piccola stanza: aveva un letto, un pitale e acqua gelida con cui lavarsi al mattino... e per il momento quella era la sola cosa in tutta Aglirta che per lei avesse importanza. Faceva freddo, e senza dubbio il letto conteneva una buona dose di piccoli insetti fastidiosi. Per un momento, Embra prese in considerazione l'eventualità di avvolgersi nel mantello e di lasciarsi cadere sul letto, sprofondando in un piacevole oblio, ma poi pensò alla prospettiva di trascorrere giorni tormentata da punture e intenta a grattarsi, con le entusiastiche offerte di aiuto da parte di Craer che le risuonavano negli orecchi, sempre che fosse riapparso da dove era stato trasportato questa volta, e pensò che
avrebbe potuto invece avvolgere i propri vestiti nel suddetto mantello e appenderli il più lontano possibile dal letto, limitandosi a lavarsi via di dosso gli insetti il mattino successivo. Sospirando, cominciò quindi a sbottonarsi gli indumenti. Nuda e tremante accanto al letto, agitò gli arruffati capelli sporchi e cercò di pettinarli alla meglio con le dita, gemendo al pensiero che anch'essi si sarebbero riempiti di insetti, poi esitò, riluttante a togliersi gli stivali, perché quando i suoi piedi fossero entrati in contatto con la logora stuoia che copriva il pavimento, il freddo si sarebbe fatto sentire davvero. Fu così che, nel raddrizzarsi dopo aver spento la lampada accanto al letto, Embra si ritrovò ancora più sveglia di quanto avrebbe voluto e con gli stivali tuttora indosso, quando dall'altro lato della porta giunse uno schianto assordante che la fece girare di scatto. «Hawk? Sarasper? Cosa...» cominciò. Il suono venne seguito dal genere di imprecazione ringhiante che un uomo emette quando è al tempo stesso sorpreso e impegnato a fare qualcosa che sta mettendo a dura prova la sua forza, e dal suono inconfondibile e metallico di una spada che veniva sguainata. Embra protese la mano verso la maniglia, ma in quel momento sentì una voce che non conosceva sussurrare da dietro l'altra porta, quella sbarrata che dava sul corridoio. «Lady Embra?» chiamò quella voce, incerta. «Lady Silvertree? Sei lì dentro?». Con cautela, Embra attraversò la stanza e si arrestò a tre passi abbondanti dal battente. «Chi è?» domandò ad alta voce. La risposta fu improvvisa e inattesa: una spada si protese per trafiggerla, scintillando alla luce della luna, una lama lunga e sottile infilata con impeto feroce nella fessura tra la porta e il battente. 17. Begli stivali, e battaglia Embra fissò la lama che sporgeva all'altezza del suo sterno e scintillava nell'intercettare la luce della luna che penetrava dalla finestra aperta, e scoprì di essere più furiosa che spaventata. Non pensò neppure di urlare. Invece, sussultò ed emise un gemito, ma non ebbe il tempo di ingannare ulteriormente l'aggressore dall'altro lato
della porta, perché la spada venne ritirata prima che potesse gettarvi sopra la coperta o fare qualsiasi altra cosa che potesse convincere chi la impugnava di averla ferita. «Stolto!» ringhiò qualcuno dall'altro lato della porta, in tono furente. «Ci serve illesa!». Un anno prima, la Dama dei Gioielli avrebbe sollevato le mani e ridotto in cenere la porta, il corridoio al di là di essa e tutto il resto, senza curarsi se la Bottiglia avesse preso fuoco e avesse sviluppato un incendio tale da gareggiare con le stelle per lucentezza. Adesso, tuttavia, aveva acquisito una maturità molto superiore a quella di allora e a quanta ne potesse derivare dall'avere un anno in più. Girandosi di scatto, attraversò a passo di marcia la stanza e spalancò la porta interna, senza curarsi del fatto che i suoi tre compagni, e qualsiasi altro uomo in quella parte della Valle, potessero vederla nuda. «Nel nome dei Tre Dei Fiammeggianti, cosa sta succedendo là fuo...». Quell'esclamazione le si troncò sulle labbra quando vide Hawkril privo di armatura, un colosso muscoloso in calzoni di cuoio intrisi di sudore, che vibrava colpi con entrambe le lame che aveva in pugno per tenere a bada tre o più spade che si protendevano nella stanza dal buio corridoio al di là di essa. L'armaragor era in piedi appena oltre la soglia, con le schegge della porta esterna ammucchiate intorno alle caviglie, e anche lui non aveva fatto in tempo a togliersi gli stivali. Come avevano fatto? La porta doveva essere stata quasi completamente marcia, per crollare sotto l'impatto di un singolo colpo che non aveva fatto tremare entrambe le stanze, però... Poi qualcosa si contorse sul pavimento, accanto ai suoi piedi, inducendola ad abbassare lo sguardo. Sarasper giaceva disteso sul pavimento, privo di sensi, con un'enorme scheggia di legno proveniente dalla porta infranta che gli aveva trapassato la spalla come la lama di un'alabarda, mentre Raulin, pallidissimo e tremante, stava cercando in tutti i modi di arrestare il flusso sempre più abbondante di sangue scuro che si andava allargando sul petto del vecchio, protendendo di tanto in tanto una mano di scatto verso la lampada tremolante posata per terra accanto a lui per spostarla in modo da vederci meglio. Il ragazzo gemette per il crescente timore, e rabbrividì nel fissare l'uomo che gli stava morendo fra le mani, poi sollevò con sorpresa lo sguardo su Embra... e rimase a fissare a bocca aperta la maga nuda che stava venendo
avanti con passo deciso, mormorando l'unico, debole incantesimo di risanamento che conosceva e premendo al tempo stesso le dita contro la sanguinante ferita di Sarasper. La magia si riversò sul vecchio in un reticolato di energia luminosa, che svanì quasi nel momento stesso in cui si materializzò. «Qualsiasi cosa tu stia per dire, evita di dirla», affermò intanto Embra, rivolgendo un sorriso quasi feroce al volto stupefatto di Raulin. «Invece, prova a dire qualche altra cosa». Il ragazzo aprì la bocca, la richiuse e il suo volto pallidissimo si fece di colpo rosso quanto il sangue di Sarasper. «Uh», mormorò infine. «Begli stivali». Embra levò gli occhi al cielo, si chinò a posare due dita sporche di sangue sulle labbra del ragazzo prima che potesse aggiungere altro e gli ringhiò: «Trovami tutte le statuette, i cofanetti e gli altri oggetti del genere che Sarasper ha nelle sue sacche... mi servono adesso!». Raulin sbatté le palpebre, annuì e prese a frugare fra le sacche ammucchiate in un angolo dal guaritore. «Ti servono per la tua magia?» mormorò, senza sollevare lo sguardo dal suo frenetico afferrare e aprire le sacche. «Hai...». Percepì, più che vederla, la maga che si ergeva accanto a lui e iniziava improvvisamente a tremare, appena un istante prima di pronunciare una singola parola che gli echeggiò nella testa come delle campane che rintoccassero in mezzo a un fragore di tuoni. Sussultando, Raulin sollevò lo sguardo su Embra appena in tempo per vedere un'ondata di fuoco che le scaturiva dalla bocca nello stesso modo in cui esce dalla bocca dei draghi, almeno secondo le affermazioni dei bardi. Le fiamme saettarono sopra di lui come una lancia scagliata, e il ragazzo si girò abbastanza in fretta da vederle passare accanto alla spalla in movimento di Hawkril per poi esplodere sulla faccia di uno degli uomini accalcati nel corridoio. L'uomo emise un urlo acuto e stentoreo, come una ragazzina che si fosse scottata con l'acqua bollente, e stentasse a credere a cosa le era successo, poi Raulin lo vide barcollare all'indietro, la spada che cadeva rumorosamente sul pavimento del corridoio mentre il fuoco gli si levava dalla faccia. Gli occhi dell'uomo non erano più visibili in mezzo a quell'inferno incandescente, e le fiamme sembravano scaturirgli dalla bocca, salendo fino a lambire il soffitto.
«Raulin», disse intanto la Dama dei Gioielli, in un tono reso spaventoso dal suo timbro calmo e gentile, «per favore, trovami quelle statuette». Il ragazzo girò la testa di scatto, rivolse alla maga furente un rapido ed enfatico cenno di assenso e si rimise all'opera con mosse ancora più frenetiche di prima. Nel giro di una manciata di secondi calò con forza una statuetta sulla mano in attesa di Embra, facendola seguire quasi all'istante da una piccola tabacchiera che Embra strinse fra pollice e indice, studiandola con curiosità. Dopo averla esaminata per un momento, si rannuvolò in volto, come se stesse cercando di ricordare qualcosa che si rifiutava di affiorare dalla sua memoria, poi scrollò le spalle e chiuse la mano intorno a quel minuscolo e splendido oggetto. Mormorando in fretta alcune parole, tornò ad aprire le mani, unendole a coppa per sorreggere fra di esse quella reliquia dei Silvertree, quindi scandì un incantesimo che echeggiò stentoreo negli orecchi di Raulin, e indusse Hawkril a distogliere per una frazione di secondo l'attenzione dal vorticare di lame che aveva davanti. Una luce fiorì sui palmi congiunti di Embra, un vorticante bagliore fra l'azzurro e il verde, più sommesso e delicato di qualsiasi lingua di fiamma, e mentre la sua luce saliva d'intensità, la statuetta e la tabacchiera si disintegrarono. Embra puntò le mani a coppa verso la spalla di Sarasper come fossero state un artiglio, quasi le sue dita fossero state altrettante daghe, poi le ritrasse lentamente all'indietro, arrivando quasi a toccarsi la spalla, e la grande scheggia di legno conficcata nella spalla del guaritore si mosse, tremò e scivolò lentamente fuori dalla ferita. Essa fu seguita da un grande fiotto di sangue scuro, e Raulin si affrettò a esercitare una frenetica pressione sulla spalla di Sarasper per cercare di arrestare l'emorragia. Vedendo la luce fra l'azzurro e il verde che continuava a scorrergli fra le dita, il ragazzo si ritrasse poi con aria meravigliata, guardando verso Embra e scuotendo le mani per liberarle da un improvviso formicolio. I bagliori luminosi vorticarono nell'aria, girando in cerchio intorno alla ferita del vecchio, poi confluirono rapidi dentro di essa. La luce emise un bagliore più intenso e scomparve; sulla sua scia, il sangue smise di fuoriuscire, anche se la carne della spalla rimase lacera e insanguinata, e la smorfia di agonia sul volto di Sarasper non accennò a rilassarsi, né lui diede mostra di riprendere i sensi. «Sorveglialo, Raulin», mormorò la Dama dei Gioielli, sfiorando la spalla
del ragazzo inginocchiato con la punta delle dita nel passargli accanto. «S... signora, è...?». «Sorveglialo», ribadì Embra, senza voltarsi. «Per il momento, ho fatto per lui quello che potevo. Hawk ha più bisogno dei miei incantesimi, e... Hawk!». Quell'ultima parola fu quasi un urlo e indusse Raulin a girarsi di scatto a guardare verso la porta, dimentico per un momento del vecchio affidato alle sue cure. Hawkril Anharu era piegato su se stesso per il dolore, girato verso la soglia con la grande spada da guerra che gli tremava in mano; un'altra spada gli sporgeva dal ventre, e soltanto il perdurare dell'incantesimo di fuoco che Embra aveva scagliato in suo aiuto stava trattenendo gli assalitori nel passaggio dal lanciarsi alla carica oltre la soglia. Imprecando, essi stavano cercando di colpire con la spada aggirando le vorticanti sfere di fiamma che sobbalzavano e ribollivano al di sopra dell'ingresso, ma il barcollante armaragor era fuori dalla loro portata, sia pure di stretta misura. Embra prese Hawkril per un braccio, chinandosi insieme a lui per esaminare la ferita, mentre le sfere di fuoco davanti a loro cominciavano a tremolare e a dissolversi. «Raulin!» urlò quindi, voltandosi così in fretta da far allargare a ventaglio i lunghi capelli neri. Il ragazzo si sollevò di scatto dal pavimento in una corsa che si risolse in un balzo che lo portò oltre la maga, nella cui mano riuscì a piazzare una nuova statuetta nel passarle accanto, e lo mandò ad arrestarsi accanto a una sedia adiacente alla porta. Afferrandola, si inginocchiò in modo da trovarsi al di sotto dell'incantesimo di fuoco e scagliò selvaggiamente la sedia nel corridoio, da cui giunse una breve confusione di stivali che si muovevano e di uomini che indietreggiavano incespicando gli uni negli altri, mista a imprecazioni di sorpresa. Ringhiando, il figlio del bardo afferrò una seconda sedia e la accostò ai residui di fuoco danzante dell'incantesimo di Embra fino a farla incendiare. Con cupa determinazione, mordendosi un labbro, il ragazzo tenne in mano quella massa di fiamme e la protese in mezzo alla soglia, accoccolandosi e ritraendosi in modo da farsi il più piccolo possibile. Senza degnarlo di un'occhiata, Embra s'inginocchiò accanto a Hawkril, incurante del sangue, e sollevò lo sguardo sul volto del guerriero, contratto in una sudata maschera di sofferenza. «Questo ti farà male», avvertì con gentilezza, «ma cerca di rimanere
fermo in piedi dove sei... e di non cadermi addosso». Quando lui annuì, fissandola con occhi roventi, Embra serrò i denti, si mise in bocca la statuetta e gli sfilò la spada dal corpo. Un fiotto di sangue bollente quasi la accecò mentre lasciava cadere rumorosamente l'arma accanto a sé e infilava rapida due dita nella ferita prima che si potesse chiudere, sostituendole con la statuetta con una premura frenetica. Tenendo la mano sulla piccola base ruvida dell'oggetto, gridò quindi le parole dell'incantesimo di risanamento, che conosceva ormai a memoria, e un altro memento di Silvertree si dissolse nel nulla sotto le sue dita, mentre una luce formicolante si diffondeva fra di esse. Qualsiasi cosa fosse stata quella statua, che Embra non si era presa la cura di esaminare con attenzione, essa conteneva molta più magia di qualsiasi altro oggetto proveniente dalla Casa Silenziosa che lei avesse utilizzato fino a quel momento. Un'ondata di luce ruggente si levò improvvisa sotto le sue dita e Hawkril venne scaraventato all'indietro e lontano da lei, il corpo inarcato a gambe e braccia divaricate, e avvolto in un alone di fuoco incandescente. Sussultando, mentre il gelo pungente di una notevole quantità di magia le fluiva attraverso, Embra si trovò a essere sollevata a sua volta e scagliata oltre la soglia e nel corridoio, dove andò a fermarsi raggomitolata contro una parete addosso allo stordito Raulin, con gli orecchi che le vibravano. Per fortuna, la sedia in fiamme era volata via dalle mani del ragazzo per schiantarsi nel corridoio rimbalzando da una parete all'altra, e nessuno dei loro sempre più spaventati aggressori notturni era abbastanza vicino da poter conficcare una spada nel groviglio di arti formato da una maga seminuda e da un ragazzo sconcertato. Frastornata, Embra scosse il capo, cercò di muoversi rapidamente e calò con violenza una mano contro la parete per la frustrazione quando le sue gambe risultarono molli come se fossero state fatte di fango prossimo a sciogliersi. Però poteva muoversi, e anche in fretta, sebbene si sentisse gli arti intorpiditi e spaventosamente goffi, come bastoni di carne privi di articolazioni. Si stava ancora districando quando Hawkril le rivolse un sorriso nell'oltrepassarla: all'apparenza del tutto risanato, l'armaragor si lanciò di corsa lungo il corridoio, agitando la grande spada come un bambino impaziente di usare un nuovo giocattolo. La Dama dei Gioielli si rimise in piedi, barcollò incerta e appoggiò una mano alla parete per sorreggersi. «Raulin!» ringhiò. «Raulin!». Il ragazzo su cui era atterrata stava gemendo nell'allungare una mano al-
la cieca verso la parete, e non mostrò minimamente di averla sentita, cosa di cui non c'era peraltro da meravigliarsi, considerato il chiasso che Hawkril stava facendo nell'aprirsi un varco attraverso le parate dei suoi avversari con ampi fendenti della sua lama. Più in giù lungo il corridoio, la porta di una stanza si socchiuse leggermente, e un uomo accigliato e assonnato dalla barba lunga e vestito con una camicia da notte sporca sbirciò fuori. «Non potete...» cominciò a dire, prima di interrompersi per squadrare attentamente Embra Silvertree che, appoggiata alla parete, lo stava fissando con occhi roventi, il volto incorniciato dai lunghi capelli sciolti e vestita unicamente degli stivali. L'uomo sgranò gli occhi e sorrise... e in quel momento un piede di Raulin andò a sbattere involontariamente contro la porta, chiudendola con violenza e facendo scomparire l'uomo alla vista con uno schiocco carnoso e sonoro seguito quasi subito da un pesante tonfo, mentre il ragazzo si rialzava in piedi. «Sì, signora?» ansimò, cercando di non guardare verso la maga. Embra scosse il capo, lo afferrò per un braccio e lo spinse vigorosamente in direzione delle loro camere. «Smettila per un momento di sforzarti di non fissare la mia pelle e torna là dentro!» ingiunse. «Ho bisogno che tu nasconda e custodisca Sarasper». Raulin indietreggiò di un passo e la fissò con aria incredula, mentre il clangore di spade continuava a risuonare alle sue spalle, unito al ringhio esultante di Hawk, che si stava trasformando in una bassa risata. «Mentre tu, uh... mentre tu vai a combattere con... ah... con quello?» balbettò, accennando vagamente in direzione del corpo di Embra, il volto scarlatto girato con determinazione da un lato. «No, Signora, non posso permetter...». Embra scattò in avanti e lo afferrò con dita dure come artigli. «Raulin», gli ringhiò nell'orecchio, «credi davvero di potermi fermare? E poi, questa non è forse un'arma, considerato come gli uomini tendono a immobilizzarsi a fissarmi? Inoltre, nel nome dei Tre, sai dirmi di che utilità potrei essere restandomene rintanata là con una spada, se una dozzina di uomini mi aggredisse nell'oscurità, eh? Probabilmente non farei neppure in tempo a sollevarla che Sarasper verrebbe ucciso e io mi ritroverei stesa a terra per pochi momenti di piacere... il loro... prima di seguirlo nella tomba. Raulin, ho bisogno che tu faccia questo! Trova un'altra stanza, con una porta che tu possa sbarrare, e chiuditi dentro insieme a Sarasper. Io non
posso proteggerlo!». Raulin la fissò con espressione sconvolta e spiccò la corsa verso la porta; sulla soglia si girò, sbattendo la spalla con un sussulto doloroso, e chiese in tono stanco: «Devo supporre che tu voglia altre statuette e altri oggettini?». Nuda com'era, Embra assunse un atteggiamento altezzoso e gli rivolse un dolce sorriso. «Se non ti è di troppo disturbo...» rispose. La risposta di Raulin, mentre rientrava nella stanza, fu sorprendente, vivida e piena d'inventiva; ancor più sorprendente, per Embra, fu scoprire di essere ancora in grado di arrossire. Hawkril stava continuando a menare colpi e fendenti con un feroce sorriso sul volto e l'esaltazione nel cuore. Alcuni istanti prima era stato in preda all'agonia, con il fuoco di una lenta morte che gli dilagava nel ventre e le forze che gli sfuggivano con ogni respiro ansimante, mentre adesso si sentiva forte come un toro in calore e più fresco ed energico di come si fosse mai sentito in tutta la sua vita! La spada sembrava leggera come una bacchetta di salice, tanto che gli riusciva facile essere abbastanza veloce da tenere a bada quattro (adesso tre) lame che cercavano di ucciderlo, e non riusciva a togliersi dalla mente l'immagine del tornito posteriore di Embra e della piccola fila di fossette che le segnavano la spina dorsale mentre giaceva raggomitolata in una palla contro la parete, intenta a fissarlo attraverso i capelli arruffati. Gli occhi del più vicino dei tre assalitori superstiti, uomini che lui non aveva mai visto prima di allora ma che avevano l'aspetto di guerrieri veterani, si dilatarono quando lo sguardo dell'uomo si spostò momentaneamente dal volto di Hawkril. Adesso il guerriero stava guardando qualcosa oltre la spalla dell'armaragor, che non perse tempo a insinuare l'impugnatura della spada sotto il gomito dell'avversario, spingendo. L'uomo barcollò all'indietro e Hawk ne approfittò per avanzare di un singolo passo e piantargli lo stivale destro nel ventre, proprio nel punto in cui quello stesso uomo aveva lasciato una spada nel suo ventre, non molto tempo prima. L'uomo cercò di urlare mentre le costole gli si spezzavano e cominciava il suo rocambolesco volo verso il soffitto, ma il fiato gli stava abbandonando i polmoni in maniera esplosiva e riuscì a emettere soltanto un fischio strangolato. Anche lo sguardo dell'assalitore successivo si spostò per un momento su qualcosa che si trovava alle spalle di Hawkril, ma di nuovo
l'armaragor non girò la testa per guardare, neppure quando la voce di Embra gli echeggiò accanto, vellutata. «Salve, Cinghiale di Blackgult», tubò la ragazza. «Hai sentito la mia mancanza?». «Signora... ragazza... l'ho sentita», rispose Hawkril, e mentre l'uomo a cui aveva sferrato il calcio crollava svenuto sul pavimento, avanzò attraverso il corridoio per incrociare la spada con i due avversari rimasti. «E tu... manchi ancora dei tuoi vestiti?». «Sì», rispose allegramente Embra. «Raulin sostiene che costituisco una causa di distrazione davvero affascinante, fra le altre cose». Hawk emise un suono che era in parte uno sbuffo e in parte una risata, e costrinse un uomo a indietreggiare di un passo con un furioso fendente seguito da un rovescio che per poco non mandò la punta della sua spada a conficcarsi nella faccia di Embra. La ragazza si spostò dietro di lui con grazia disinvolta, emettendo un sibilo che era un commento inarticolato su quanto lui fosse andato vicino ad affettarla. L'armaragor mosse un altro passo in avanti, spostando progressivamente il teatro dello scontro lungo il corridoio, un passo dopo l'altro, verso la rampa delle scale. Le spade si stavano colpendo a vicenda con tanta forza che l'acciaio echeggiava come una campana ed emetteva scintille; più di una volta Embra sussultò e si abbassò per schivare uno scontro particolarmente rumoroso. La Bottiglia era una vecchia locanda scricchiolante, e c'era da stupirsi per il fatto che pochissime persone si fossero finora svegliate e si fossero affacciate sul corridoio per vedere la causa di tanto chiasso. Forse, erano tutti svegli e stavano tremando dietro le rispettive porte sbarrate, un coltello già stretto in mano, nella speranza che quella violenta battaglia non si estendesse fino a coinvolgerli. Oppure, pensò Embra, lei si era sbagliata a giudicare l'ambiente della parte settentrionale della Valle, e i clienti della Bottiglia erano più che abituati ad avvertire il clangore dell'acciaio lungo i corridoi nel cuore della notte. Mentre respingevano i loro assalitori fino alla cima delle scale e giù per i gradini, un terzo uomo salì a precipizio per venire a raggiungerli, giungendo appena in tempo per andare a sbattere contro i due sicari sudati quando la lama letale di Hawkril calò in un fendente che li costrinse a indietreggiare di un altro gradino. «Weldrin! Dov'eri finito?» ringhiò uno dei guerrieri, rivolto al nuovo
venuto, mentre una parata disperata lo lasciava con la spada momentaneamente conficcata nella ringhiera della scala (cosa che lo indusse a notare come essa recasse molte tacche più antiche e altri segni di spada) e con le mani intorpidite dalla violenza dell'impatto contro la lama di Hawkril. «Niente nomi, idiota!» ringhiò di rimando Weldrin. «Stavo tagliando le corde degli allarmi! O forse volevi che tutte le guardie notturne appostate all'esterno, e anche tutte le altre guardie che dormono tutt'intorno a noi, ci piombassero addosso nel momento stesso in cui abbiamo estratto la spada?». «Huh», bofonchiò l'altro spadaccino, torcendosi di lato per sfuggire alla portata della lunga spada di Hawk. «Vuoi dire che non lo stanno facendo?». Nortreen Jhalanvyluk era locandiere e orgoglioso comproprietario della Bottiglia e il Guanto da quasi vent'anni, e per altri venti prima di allora ne era stato semplicemente il locandiere e secondo oste. La vecchia trave logora sopra la sua testa, con la minuscola incisione di un gufo protettivo e la sua distesa di legno scuro, gli era familiare quanto la sua mano destra. Ciò che non gli risultò altrettanto familiare, nel destarsi nel suo ampio letto, nella stanza dal basso soffitto in fondo al corridoio, fu il clangore stridente di spade che cozzavano contro altre spade all'interno della sua locanda, per di più nel cuore della notte, come gli rivelò un'occhiata alla finestra aperta, oltre la quale si vedeva solo oscurità. Peggiore dei suoni che lo avevano destato era un altro rumore che ci sarebbe dovuto essere e che invece non si sentiva: il lieve, ritmico respiro misto a russare di Margathe che dormiva. Nortreen lanciò una rapida occhiata in direzione di sua moglie e sul suo lato del letto vide un'ampia sagoma minacciosa che poteva essere soltanto Margathe che si stava sollevando a sedere, decisamente sveglia. Quella notte, lei era già addormentata quando lui era arrivato, essendosi ritirata per tempo dopo aver imprecato contro i viaggiatori che amavano rimanere alzati per metà della notte e si aspettavano birra fresca e perfino cibo caldo a qualsiasi ora, e com'era sua abitudine lo aveva accolto a letto senza svegliarsi, con un sonoro russare e il persistente tentativo di scaldarsi i piedi gelati premendoglieli contro la schiena, cosa che lo aveva tenuto in uno stato di dormiveglia per parecchio tempo, prima che gli riuscisse di addormentarsi. Una volta, nel portare gli avanzi ai maiali, dietro le stalle, aveva sentito
un vecchio mercante descrivere lui e sua moglie a un compagno più giovane in termini fin troppo accurati. «Sono entrambi di grossa corporatura, come due montagne ambulanti, ma mentre Nortreen è un tipo gioviale e disponibile, sua moglie è puro veleno di vipera. Sempre acida, non le sfugge nulla e governa le cucine come un crudele swordsorn. Sorridi, non dire nulla di superfluo e tieniti alla larga da lei, come fa tutto il suo personale, nella misura in cui gli è possibile». A quel tempo, Nortreen aveva sussultato per la secca precisione di quel ritratto e adesso, a una decina di stagioni di distanza, le parole del mercante continuavano a essere altrettanto vere. Margathe sognava una vita più ricca in una città baronale, con denaro in abbondanza, begli abiti e pomeriggi passati a sorseggiare vino e a scambiare pettegolezzi, e a mano a mano che diventava più vecchia e grassa, senza che Nortreen accennasse a voler lasciare quella «baracca di campagna» che lui vedeva come la sua casa e lei considerava solo un gradino lungo una scala che stavano aspettando fin troppo a salire, la sua lingua si era fatta sempre più tagliente, i suoi modi erano diventati più freddi e aspri. La Bottiglia era la sua casa, dato che i suoi soci vivevano a due baronie di distanza ed erano venuti in visita una sola volta nell'arco delle ultime sette estati. Uno scontro avrebbe significato mobilio infranto, teste rotte e forse perfino un incendio! Doveva alzarsi e andare a vedere, ma agli dei piacendo, avrebbe preferito non farlo sotto la sferza della lingua pungente di Margathe, e... «Bene, era ora che ti svegliassi!» commentò la sua voce, tagliente come un rasoio. Sussultando, Nortreen incassò la testa fra le spalle e la ignorò, ma ogni parola continuò a piovergli addosso, penetrante come una freccia. «Nel nome dei Tre, giuro che avrebbero potuto assassinarmi due volte prima che tu sentissi qualcosa! Te ne stai lì sdraiato a russare come una testuggine marina mentre questo nostro squallido tetto ci brucia sulla testa e i razziatori fanno a pezzi ogni cliente e pezzo di mobilio, brutalizzano le mie ragazze e cucinano ogni animale delle stalle, infilzandone le carcasse con i loro coltelli! Mi chiedo se continueresti a dormire anche mentre ti legano come un salame e ti infilzano allo spiedo, o qualora il Re Ridestato in persona dovesse venire qui e buttarti giù dal letto per poter approfittare di me!». Di fronte a quell'ultima visione, Nortreen sentì la testa che gli girava. Ri-
spondendo soltanto con un ringhio inarticolato, si sollevò a sedere e posò deliberatamente i piedi nudi sul pavimento gelato invece di infilarli nelle pantofole, perché questo lo aiutò a svegliarsi del tutto. Per qualche istante ancora, tuttavia, rimase seduto a grattarsi, sbattendo le palpebre, mentre sotto di lui il letto smetteva di cigolare e lui cercava di trovare la forza di volontà e le energie necessarie per issarsi in piedi e andare a vedere cosa stesse succedendo. «Per i Tre! Saremo assassinati tutti nel nostro letto prima che tu ti decida ad alzarti dal tuo!». Adesso Margathe era decisamente infuriata, una rabbia che derivava senza dubbio dalla paura sottostante. Il letto scricchiolò sonoramente e lei si alzò in piedi, dirigendosi con passo rabbioso verso gli stivali posati davanti al focolare. «Devo proprio fare tutto da sola?» ringhiò, sollevando un attizzatoio. «Hai scelto tu di rimanere qui, Norr, lo hai preferito a un luminoso futuro in città! Questa è la tua locanda!». «Sì, sì, tesoro mio», borbottò con voce stanca Nortreen, alzandosi in piedi e recuperando al tempo stesso la vecchia ascia da guerra appesa alla parete. «Sto andando. Tu resta qui, e...». «Ohhh, no!» sibilò lei, scandalizzata e inorridita. «Oh, no! Non intendo rimanere qui distesa al buio, sola e priva di protezione, in attesa che qualche fuorilegge faccia irruzione e approfitti delle mie grazie! Come osi espormi a un simile pericolo? Come osi sprecare i miei talenti, quando invece potrei svegliare tutte le ragazze delle cucine e mandarle a chiamare le guardie?». Nortreen le rivolse un'occhiata mentre saltellava goffamente su un piede solo, impegnato a infilarsi gli stivali. Al diavolo le pantofole, se proprio doveva uscire di lì per farsi ammazzare, almeno non voleva rompersi una caviglia o finire per terra una mezza dozzina di volte mentre lo faceva! «Ti fidi di mandare le ragazze a chiamare le guardie?» chiese, pensando che forse poteva distrarla dall'elencare tutte le sue colpe rilevando la possibilità di uno scandalo connesso ad altri. Margathe gli lanciò un'occhiata ancora più gelida. «Credi che non abbia addestrato le nostre ragazze in modo che sappiano come comportarsi? Credi che non le tenga d'occhio, per accertarmi che cose del genere non accadano sotto il nostro tetto? Norr, tu mi fai torto! Mi ferisci profondamente!». Per gli artigli dell'Oscuro! pensò fra sé il locandiere, la voce interiore
pervasa di amarezza. Un giorno potrei farlo. Potrei proprio. Un momento più tardi stava già percorrendo il corridoio buio con l'ascia in mano, con la voce di Margathe che lo rimproverava per non aver preso con sé una lampada. «L'ho lasciata per te, mia buona moglie», borbottò, lanciandosi nel pesante equivalente di una carica e allontanandosi nella notte: qualsiasi cosa, pur di mettersi fuori dalla portata della lingua di Margathe. La risposta di sua moglie fu un ringhio sprezzante che lo fece sussultare. In quel momento, Nortreen Jhalanvyluk non avrebbe voluto proprio essere una delle ragazze delle cucine della Bottiglia. Neppure se ogni anno gli avessero pagato l'equivalente del suo peso in oro. A meno che Margathe arrosto fosse stata la prima portata della colazione dell'indomani. L'acciaio vibrò, colpendo, e un'altra scintillante scheggia si staccò dalla spada del guerriero, volando in aria per poi rotolare al suolo, dove rimase ad ammiccare sotto la luce della lampada. Hawkril proseguì l'attacco con un rovescio vibrato con forza ancora maggiore e l'uomo si lasciò sfuggire un gemito di paura quando la sua spada si piegò visibilmente nell'eseguire una parata disperata. I suoi gomiti allargati avevano già spinto il suo compagno, mandandolo a sbattere contro la ringhiera opposta della scala, e lo stavano tenendo bloccato in quella posizione da dove, ammaccato e dolorante, lui tentava di eseguire una serie di vani affondi che non riuscivano a raggiungere l'armaragor, più in alto lungo la scala. «Abbattetelo, dannazione a voi!» ringhiò Weldrin, alle spalle dei due e assestò uno spintone alla schiena di Murgin. Che l'Oscuro si prendesse lui e i suoi stupidi, piccoli giochetti di spada! Oh, i suoi uomini erano abili nell'usare la spada, molto al di sopra della media, ma questo armaragor era spaventosamente veloce, e in qualche modo i suoi uomini non riuscivano a valicare il muro di acciaio da lui intessuto con quella sua lama enorme. Nessuno avrebbe dovuto essere in grado di sollevare una spada di quelle dimensioni, e tanto meno di maneggiarla come se fosse stata un ago! E la maga non contribuiva certo a migliorare le cose, mostrando beffardamente la sua nudità ogni tre o quattro colpi, tormentandoli con la minaccia del fuoco che avrebbe potuto scagliare giù per la loro gola, come aveva fatto con Uirgurr.
Jalard lanciò un grido di terrore quando la sua lama si spezzò esattamente nel mezzo e le sue schegge gli volarono in faccia. Prontamente, Weldrin gli mise in mano la propria spada. «Mantieni la tua posizione!» ringhiò, mentre il massiccio armaragor che li sovrastava riusciva a guadagnare qualche altro gradino a forza di colpi. Weldrin fissò per un momento i suoi compagni terrorizzati, sussultò quando il loro avversario per poco non decapitò Jalard con il fendente successivo, poi girò sui tacchi e si lanciò giù per la scala, con la profonda risata di Hawkril che lo inseguiva, tagliente quanto la sua spada. «Weldrin!» singhiozzò Murgin, mentre in lui l'ira aveva il sopravvento sulla paura. «Torna indietro! Razza di bastardo! Lurido bastardo!». Nel correre lungo un corridoio buio, il cuore che gli martellava negli orecchi, Weldrin pensò cupamente fra sé che avrebbe dovuto far in modo che quei due non sopravvivessero al combattimento di quella notte, perché non si sarebbero mai più fidati di lui. Nell'oscurità, i suoi piedi incontrarono un gradino e per poco non cadde, o per meglio dire ci fu un momento spaventoso in cui non si sentì più il pavimento sotto i piedi. L'atterraggio fu doloroso, e Weldrin si lasciò sfuggire un gemito, nel riflettere che probabilmente non avrebbe dovuto provvedere di persona a eliminare Jalard e Murgin, perché era facile che quel gigante sulla scala si occupasse della cosa al suo posto. Improvvisamente, davanti a lui si aprì una porta da cui scaturiva una luce tremolante, ma Weldrin stava correndo troppo in fretta per potersi arrestare, anche se lo avesse voluto. «Per i Tre!» ansimò. «Speriamo che chi sta uscendo non abbia la spada spianata!». Con gli stivali che martellavano sulle assi del pavimento, si chiese se gli dei avrebbero avuto anche solo il tempo di ascoltare quella preghiera. «Roldrick», stava chiamando in tono urgente una voce vellutata, vicino al suo orecchio, «svegliati». Pareva strano che il vecchio swordsorn stesse dicendo una cosa del genere, soprattutto adesso che Roldrick lo aveva trapassato con sei spade e stava usando tutte le sue forze per strangolare quel vecchio furente. Il vecchio Deldroun rifiutava però di morire e continuava a ringhiare con aria di sfida da sotto i baffi bianchi, e si andava facendo sempre più grosso e massiccio per quanto lui si sforzasse di strangolarlo... «Roldrick!». La voce era sempre più insistente... e femminile!
Roldrick si girò di scatto sulla pianura purpurea sferzata da tempeste di sabbia rossa e cosparsa degli scheletri di enormi creature perite da secoli, che gli incombevano tutt'intorno come le travi di una casa bruciata, e si trovò a guardare gli occhi dorati di un drago, spaventosamente vicini... Sbatté le palpebre. Stava guardando un paio di occhi dorati, ma era nel suo letto, al buio, e Jelenna, una delle ragazze delle cucine, era china su di lui con una lampada in mano, vestita soltanto di uno scialle che era scivolato a mettere a nudo un seno e una spalla. Roldrick rimase a contemplare il piccolo anello d'ottone che le attraversava un capezzolo finché qualcosa gli calò con violenza su una guancia. «Basta con le occhiate lascive, uomo», ingiunse Jelenna, seccamente. «Alzati!». Roldrick la fissò sconcertato, poi sfoggiò un sorriso assonnato e le passò una mano intorno alle spalle per trascinarla verso di sé. «Le ragazze non credono più che prima ci si debba baciare, e cose del genere?» chiese. Lei lo schiaffeggiò di nuovo, con tanta forza da girargli la faccia sulla spalla sinistra e da fargli salire le lacrime agli occhi. «Harr!» ringhiò Roldrick, infuriato. «Cosa sta...?». «Alzati e prendi la spada», ingiunse la ragazza, indietreggiando in fretta per sottrarsi al suo rabbioso tentativo di afferrarla. «È in corso un combattimento sulla scala principale». «Perché io?» protestò la guardia. «Ci sono le guardie di servizio, se non lo sai!». Mettendosi una mano sugli occhi per ripararli dalla luce della lampada, si girò quindi su un fianco e si tirò sulle spalle la coperta che lei aveva spostato di lato. Per gli dei, non c'era da meravigliarsi che avesse freddo, lei doveva averlo scoperto per potergli dare un'occhiata! Bene, bene... Gli schiaffi presero a grandinargli sulla testa come i pugni dell'ultimo uomo con cui aveva lottato in una taverna, costringendolo rudemente a svegliarsi sotto la loro pioggia dura e incessante. «Ascoltami... bene... razza... di... posteriore... di... un... brutto... mulo», ansimò Jelenna, ringhiando negli intervalli fra i colpi che gli stava assestando. «Il... padrone... ti... ordina... di... alzarti... e... combattere!». D'un tratto, Roldrick ebbe di nuovo freddo quando la coperta gli venne strappata via, lasciandolo in calzoni di cuoio, a fissare interdetto la furente ragazza delle cucine, alla luce incerta e beffarda della lampada. «D'accordo, ragazza», borbottò, grattandosi con aria un po' stordita, «i-
o...». Dalla stanza di Holdyn, adiacente alla sua, giunse un sonoro schianto. Roldrick sbirciò la cameriera come se fosse stata uno swordsorn incombente su di lui, e non una donna ansimante e ancora infuriata, il cui scialle era intanto scivolato sul pavimento. «Cosa sta succedendo di là?» chiese seccamente. «La Padrona Margathe sta svegliando Holdyn», rispose Jelenna. «Devo farla venire qui?». «Per gli dei, no!» esclamò Roldrick, alzandosi in fretta. «Dov'è la battaglia?». «Là fuori», rispose Jelenna, con voce sepolcrale, protendendo un braccio ben tornito a indicare la porta. Afferrato il fodero con la spada, Roldrick si ritrovò a dirigersi verso la porta sulle gambe ancora incerte, armeggiando per aprire il chiavistello, gli echi degli schiaffi che gli facevano ancora vibrare gli orecchi. Gli stivali, pensò, mentre apriva la porta. Ho dimenticato di mettermi gli stivali... 18. Non nella mia locanda Quella notte, gli dei stavano sorridendo a Weldrin Hathenbruck. L'uomo che uscì incespicando nel corridoio aveva la testa abbassata, i capelli arruffati e la faccia intontita dal sonno; peloso e segnato da molte cicatrici, indossava calzoni di cuoio dai lacci pendenti e mezzi sciolti, e teneva in mano una spada ancora infilata nel fodero. L'uomo si stava girando in direzione di Weldrin e stava accennando a sollevare la testa quando il razziatore in corsa spiccò un accenno di salto e gli sferrò un calcio con più energia di quanta ne avesse mai usata prima, imprimendo allo stivale tutta la forza derivante dall'ira e dalla fretta che lo pungolavano. Con gli occhi che sporgevano dalle orbite per la sorpresa e la sofferenza, l'uomo si trovò sollevato di peso da terra e catapultato impotente nell'aria con le braccia che si dimenavano e la spada che rotolava lontano. Intanto Weldrin andò a sbattere contro la parete del corridoio, ritrovò l'equilibrio e proseguì la corsa ignorando le urla femminili che si stavano levando alle sue spalle come le strida di un gabbiano angosciato, provenienti dalla stessa porta da cui era appena uscito l'uomo. Quelle urla lo seguirono per un tratto, echeggiando al di sopra del tonfo
sonoro prodotto dall'atterraggio dell'uomo e della serie di tonfi più sordi generati dagli stivali dello stesso Weldrin nel salire a precipizio i gradini di una stretta e buia scala posteriore. In cima alla scala trovò un altro uomo assonnato seduto su uno sgabello, la guardia addetta a quel piano, che con gli occhi ancora appannati stava emergendo dal sonno a causa delle urla provenienti dal basso. Weldrin protese la mano ad afferrare la gamba più vicina dello sgabello e assestò uno strattone deciso. Lo sgabello scivolò via da sotto la guardia con sorprendente facilità, e l'uomo sconcertato non aveva finito di rimbalzare pesantemente contro il pavimento con l'osso sacro e stava ancora aprendo la bocca per emettere un ruggito di dolore, quando Weldrin gli calò lo sgabello sulla testa, colpendo con forza feroce. Qualche respiro ansimante più tardi, il razziatore si fermò davanti a una particolare porta, dall'altro lato della quale c'erano due viandanti che il caso, o forse i Tre, gli aveva messo a disposizione. Erano uomini che lui conosceva, e anche Lady Embra li avrebbe facilmente riconosciuti, sebbene lui fosse certo che non li avesse ancora visti, perché altrimenti una battaglia sarebbe scoppiata su quel piano della Bottiglia molto prima che lui avesse fatto uscire i suoi uomini dall'alcova. Quei due uomini si chiamavano Vandur e Kethgan, e non molto tempo prima erano stati agenti al soldo del Barone Silvertree, «catturatori» professionisti che rapivano e portavano da lui persone di sua scelta in tutta la Valle. Maghi, ricchi mercanti, perfino i maggiordomi di baroni rivali. Quei catturatori non avevano mai fallito una missione, trionfando una volta dopo l'altra grazie alle loro spade e alle loro tattiche furtive. Il che significava che adesso lui avrebbe dovuto essere molto cauto. Per precauzione, Weldrin si portò di lato rispetto alla porta, prima di protendersi e di bussare usando il pomo della daga, con cui batté alcuni colpi lenti e decisi. «Vandur, Kethgan», chiamò, «sono un uomo solo che ha urgente bisogno di assoldarvi immediatamente». Silenzio. Weldrin attese per un momento, poi si spostò in fretta lungo l'altro muro adiacente alla porta. «Vandur?» chiamò ancora. «Kethgan?». Sentì scattare il chiavistello, poi la porta della stanza si spalancò lentamente, rivelando soltanto oscurità. «Accettate commissioni?» chiese Weldrin, con la massima calma di cui
era capace, fissando il buio che aveva davanti. Una mano guantata sollevò in parte la schermatura di una lampada dall'altra parte della stanza, poi calò nel piccolo cerchio di luce da essa proiettato e segnalò a Weldrin di avanzare. Deglutendo a fatica, lui cercò di mantenere un'espressione impassibile e si fece avanti. Si stava ancora muovendo quando la porta si richiuse alle sue spalle e la lampada venne di nuovo schermata totalmente, lasciandolo nell'oscurità più assoluta. Weldrin si arrestò, lottando per reprimere una gelida ondata di paura. Trascorse qualche momento, che lui lasciò passare in un silenzio carico di tensione, sforzandosi di cogliere il suono di un respiro o di un passo, o di qualsiasi altra cosa nelle immediate vicinanze, mentre attendeva che i suoi occhi si abituassero al buio. Quando lo fecero, si rese conto di avere davanti due spade snudate e puntate verso i suoi occhi, impugnate da dita guantate che riusciva a stento a distinguere in mezzo a una foresta di tendaggi improvvisati, stuoie o indumenti che pendevano a strisce dal soffitto. «Le condizioni?» chiese, rivolto a quell'oscurità minacciosa. «Prima sentiamo l'incarico», fu la calma risposta, proveniente da un punto dietro il suo orecchio destro. Weldrin dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo per trattenersi dal sussultare o dal voltarsi di scatto per colpire in direzione del suono di quella voce così vicina, ma riuscì a rimanere immobile, e così facendo si salvò la vita. Almeno per qualche tempo ancora. Embra si sentiva stranamente euforica, e a giudicare dal profondo canticchiare che giungeva dalla sua gola, lo stesso valeva per Hawkril. Nonostante il minaccioso miscuglio di odio e di paura che si poteva leggere sul volto degli uomini che stavano cercando di ucciderli, infatti, c'era qualcosa di spensierato nell'aver di nuovo a che fare con nemici che potevano vedere, affrontare direttamente e abbattere. Al sicuro un paio di passi più indietro rispetto a Hawkril, la maga sentì un rumore appena percettibile alle proprie spalle, ma quando si girò di scatto, le mani sollevate come artigli protesi, si trovò di fronte alla faccia eccitata e piena di ammirazione di Raulin, che le stava porgendo qualcosa: la cintura di Sarasper, costellata di piccole sacche rigonfie. «I tuoi oggettini», mormorò il ragazzo. «Raulin, questa cosa mi scivolerà giù fino alle caviglie», obiettò la Da-
ma dei Gioielli, pur prendendo la cintura che lui le porgeva. «Passatela sopra una spalla e sotto l'altro braccio», sibilò il ragazzo, «e prendi anche questa!». E le porse quella che pareva una gamba di tavolo elegantemente intarsiata. «Quella è...» cominciò Embra, aggrottando la fronte. «Un'arma necessaria», dichiarò con fermezza Raulin, chiudendole le dita intorno al bastone improvvisato. «Un elegante tavolinetto che era lungo il corridoio non ne avrà più bisogno. Usala per tenere lontane le spade!». L'istante successivo stava già risalendo a precipizio le scale. «Devo tornare da Sarasper», esclamò. «Buona fortuna, Lady Em!». La donna che indossava soltanto gli stivali sussultò. «"Em"?» chiese con aria sofferente, senza rivolgersi a nessuno in particolare. «"Em"?». Dal basso giunse un nuovo martellare di stivali, ed Embra si girò appena in tempo per vedere altri due uomini armati di spada lanciarsi su per le scale per andare a unirsi ai due che stavano indietreggiando davanti alla lama di Hawkril. Accigliandosi, s'inginocchiò e aprì la prima sacca. «Presto!» incalzò il locandiere Nortreen, più furente di come lo avessero mai visto. «Spicciatevi, prima che appicchino il fuoco tutt'intorno a noi». Di solito, Nortreen si spostava da un punto all'altro con passo lento e dondolante, ansimando quando non stava ridendo di gusto o impartendo ordini, ma in quel momento stava caricando lungo il corridoio a una velocità sorprendente, le assi che rimbombavano sotto il suo peso. Le due guardie che lui aveva svegliato si sfregarono gli occhi per liberarli dal sonno e scrollarono le spalle per assestare l'armatura indossata in tutta fretta mentre si affrettavano a seguirlo. Un inconfondibile clangore di lame proveniva dalla scala principale, quindi entrambi estrassero la spada mentre correvano. «Per gli artigli dell'Oscuro!» imprecò Nortreen, sbucando a rotta di collo davanti alle scale e arrestandosi di colpo. Per poco questo non gli costò la vita, dato che la guardia che si trovava immediatamente dietro di lui ebbe a stento il tempo di sollevare la spada in modo da evitare di infilzare il suo padrone. Aggirata la mole di Nortreen, la guardia si fermò a sua volta in modo repentino, lo sguardo fisso sulla scala. Quattro uomini che indossavano armature raccogliticce stavano vibrando
freneticamente affondi e fendenti contro un gigante seminudo, che li teneva a bada con una spada immensa; al suo fianco c'era una donna dai lunghi e fluenti capelli neri, che indossava soltanto... «Dei del cielo!» sussultò la seconda guardia, con aria deliziata. La donna, infatti, indossava soltanto gli stivali e un sorriso, mentre era impegnata a respingere colpi di spada con una gamba di tavolo, schivando e scartando nel colpire a sua volta la faccia degli avversari con una spada, o forse un getto, di fiamma che pareva scaturirle dal palmo vuoto dell'altra mano. «Stregoneria!» sibilarono all'unisono il locandiere e la prima guardia, più o meno nello stesso momento in cui uno degli assalitori scagliava un coltello contro il gigante, che con una parata quasi distratta intercettò l'arma e la mandò a vorticare oltre la spalla del locandiere in un volo che si concluse rumorosamente contro la parete. La maga intanto si chinò per schivare un affondo di spada che passò di poco al di sopra di una spalla ben modellata. «Come vuoi che ti cucini gli occhi?» chiese allegramente, nel dirigere il suo getto di fiamma contro la faccia dell'uomo che aveva eseguito l'affondo. Urlando, questi ritrasse di scatto il capo e si catapultò all'indietro di alcuni gradini lungo la scala, scuotendo freneticamente la testa. «Ho visto abbastanza», dichiarò intanto il locandiere, calando la spada sul gong appeso alla parete, accanto a lui. Esso levò un suono di protesta, ma fu il solo a farlo: i rintocchi che avrebbero dovuto echeggiare per tutta la Bottiglia, in risposta ai suoi, non si fecero sentire. Nortreen fissò il gong a bocca aperta, il volto che si faceva pallido per la paura e per l'ira. «Qualcuno ha tagliato le corde!» tuonò. «Ci stanno attaccando!». «Cosa facciamo?» chiese una delle guardie. «Ciò per cui siete pagati, idiota», ringhiò il locandiere, girandosi verso di lui, poi scrutò a destra e a sinistra e continuò: «Dove sono le guardie notturne, dannazione a loro? Sono sorde?». «O sono morte?» borbottò fra sé in tono cupo l'altra guardia. Nortreen si volse lentamente a fissarla in volto, la paura che gli affiorava subitanea nello sguardo. «I Tre mi sono testimoni che fa davvero freddo!» sibilò Kether, guardando il proprio respiro allontanarsi in una voluta bianca sotto la luce della
luna. La risposta di Borthor fu un grugnito inarticolato, mentre si girava e si avviava lungo la recinzione. Sulla loro sinistra si levava la massa scura della foresta, i rami che si protendevano verso di loro come artigli, ed era sempre possibile avvertire occhi invisibili che li fissavano dalle sue oscure profondità, cosa che Kether stava percependo anche in quel momento. Sulla loro destra, al di là di un cortile fangoso, si allargava la massa sgraziata della parte posteriore della Bottiglia, tutta scale, grondaie e finestre sprangate. Kether accelerò il passo per raggiungere l'amico e riprendere la loro interminabile, laconica conversazione riguardo al sogno di una vita sfarzosa e a grandi ricchezze lontano da lì, belle donne con cui condividerla e letti caldi in cui fosse possibile dormire da un'estremità all'altra di ogni singola notte benedetta dai Tre, invece di trascorrere le ore notturne tremando nel fare i giri di ronda che erano dovere di una guardia notturna. Non ne parlavano mai, ma Kether sapeva che Borthor pensava spesso quanto lui alla morte annidata in attesa nella foresta. Spesso, la notte, felini in caccia, orsi e briganti tenevano d'occhio la Bottiglia dalle sue oscure profondità, di questo era certo, e sarebbe bastato che uno soltanto di loro, una sola volta, avesse proteso un artiglio o una spada o avesse scoccato una freccia al momento giusto per ridurre in maniera permanente di una guardia notturna le difese della locanda. Camminare lontano dalla linea degli alberi poteva costituire una protezione da un attacco diretto, ma li rendeva facili bersagli rischiarati dalla luna per qualsiasi arciere o per qualcuno che amava scagliare daghe, e perfino l'armatura più massiccia non era in grado di fermare una daga che penetrava da una fessura della visiera, o... Un debole schianto e delle grida echeggiarono all'interno della Bottiglia. Girando la testa di scatto, Borthor si soffermò ad ascoltare, cogliendo altre grida e un clangore di spade che cozzavano. Le due guardie si scambiarono un'occhiata. Altri rumori confusi stavano scaturendo dall'edificio, ma il gong di allarme sotto cui loro si trovavano rimaneva in silenzio. Per abitudine, sollevarono lo sguardo su di esso, poi lo spostarono sul gong successivo, lungo la recinzione, distante circa un centinaio di passi. Il silenzio però continuò a regnare, anche se dalla locanda giungeva un'accozzaglia di rumori soffocati. Infine, Borthor scosse il capo. «Si stanno dando alla pazza gioia, questa notte, nella vecchia locanda»,
osservò con voce incolore, lo sguardo che vagava invano sull'edificio alla ricerca di una voluta di fumo o di imposte aperte che potessero rivelare qualcosa di più. I due rimasero in ascolto ancora per qualche tempo, lanciando altre occhiate al gong silenzioso, poi scrollarono il capo all'unisono e ripresero il pattugliamento. «Alcune persone hanno più vitalità di quanta ne avrei io, a quest'ora, per folleggiare così», borbottò Borthor. «La nostra solita fortuna», ribatté Kether, con un amaro sorriso. «Ci perdiamo sempre tutto il divertimento». «Non gradirei veder arrivare un esercito invasore», commentò Borthor, rivolto alla notte circostante, «ma per una volta non mi dispiacerebbe avere l'occasione di condividere un po' di eccitazione, magari anche questa notte, o dei che vegliate, se per voi non è di troppo disturbo, eh?». «Noi non abbiamo mai quel genere di fortuna», sorrise Kether, scuotendo ancora il capo. L'acciaio stridette contro l'acciaio quando Hawkril incrociò la spada con la guardia più grossa, mentre Embra si protendeva da dietro di lui e usava la sua fiamma per tenere a bada gli altri assalitori. «Credevate che saremmo... stati una facile preda, vero?» ansimò l'armaragor ringhiando, incrociando la guardia della sua spada con quella dell'avversario e facendo appello a tutte le sue forze per spingere entrambe le lame di lato, mandandole ad abbattersi contro la ringhiera. Il suo avversario, che aveva la faccia grondante di sudore sotto i capelli arruffati, aveva il respiro troppo affannoso per poter replicare. Intanto, i suoi compagni stavano cercando di aggirarlo sui fianchi per arrivare a colpire Hawkril, ma continuavano a trovare la fiamma e la gamba di tavolo di Embra che bloccavano loro il passo, intralci a cui si aggiunsero alcuni esitanti affondi di spada diretti al loro posteriore, quando le guardie della locanda presero ad avanzare con cautela lungo la scala, ingiungendo: «Altolà! Abbassate subito la spada! Fatela finita immediatamente!». Uno degli assalitori si girò di scatto e calò la lama sul volto di una delle guardie. Il sangue schizzò, una dozzina di uomini che si trovavano ai piedi della scala gridarono all'unisono e la guardia precipitò all'indietro giù per i gradini, andando ad arrestarsi in un mucchio inerte contro la massa furente delle gambe di Nortreen. «Soccorso! Soccorso!» ululò il locandiere, agitando selvaggiamente la
spada. «A me, uomini della Bottiglia!». Improvvisamente, Hawkril e il più stanco fra i suoi avversari tornarono a incrociare rumorosamente le spade, e questa volta le lame si abbatterono insieme sulla ringhiera; prontamente, Hawkril sferrò un calcio che raggiunse l'assalitore in pieno petto. L'uomo barcollò e ruotò per la forza del colpo, ma rifiutò di abbandonare la presa sulla spada conficcata profondamente nel legno, e l'impatto del suo pesante corpo in armatura contro la ringhiera fu seguito da un sonoro schianto quando il legno danneggiato cedette, scaraventandolo giù dalla scala in mezzo a una marea di schegge. Guardie assonnate stavano intanto affluendo ai piedi della scala da tutte le direzioni, lo sguardo fisso sulla battaglia in corso sui gradini e la spada in pugno. Una di esse finì appiattita sotto l'uomo precipitato dall'alto, e le altre piombarono addosso all'intruso e gli tagliarono la gola prima che avesse il tempo di rialzarsi. «Chissà come», gridò Embra, sferzando con il fuoco un altro volto contratto e facendo seguire quell'attacco da una randellata sul naso, «non credo che quest'avventura stia andando esattamente come questi razziatori avevano programmato! Pensi ci sia qualche possibilità di tenerne uno vivo, in modo che possa usare su di lui un po' di magia per scoprire chi li ha mandati, e perché?». «Si fa presto a domandare, ragazza», ringhiò Hawkril, ritraendosi con un sussulto da un fendente che gli lasciò una striscia carminia sul petto, «ma potremmo metterci del tempo per avere la risposta». Intanto uno degli assalitori piantò la spada nella faccia rivolta verso l'alto di una guardia che stava cercando di arrampicarsi lungo il lato esterno della ringhiera; con un urlo di dolore che si trasformò in un gorgoglio, l'uomo precipitò verso la folla che si andava radunando di sotto. «Comunque mi metterò all'opera», continuò intanto l'armaragor, in tono grave, calando il pugno sulla faccia di un avversario e tranciandogli via il guanto dalla mano con cui impugnava la spada mentre lui barcollava. «Nel frattempo, posso dirti quanto sia idiota da parte tua lanciarti nel bel mezzo di una mischia vestita... ah... vestita in quel modo?». «No», ribatté con la massima dolcezza Embra, afferrandosi alla ringhiera per ruotare lontano da un improvviso affondo. «Ah, capisco», tuonò Hawkril, assestando all'assalitore di Embra un calcio in pieno petto. «Benissimo, non parlerò più di questo problema insignificante».
Intanto, le porte si stavano spalancando rumorosamente lungo tutto il corridoio superiore, rivelando lampade dalla luce incerta e persone assonnate che armeggiavano con vestiti e armi, insieme al rumore di passi e allo scintillare di spade di uomini che si apostrofavano a vicenda gridando, mentre la Bottiglia pareva riempirsi di gente spaventata e confusa. «Fatti indietro, tu!». «Cosa sta succedendo?». «Prendi questo, bandito! Assaggia il mio acciaio!». «Ahhh! Soccorso! Socc... urrghkhh!». «Attento, tu! Fatti indietro, ti dico! Sono amico del Barone Brostos!». «Davvero? Eppure io qui non lo vedo! Muori, bastardo razziatore!». Un cozzare di spade echeggiò qua e là nella penombra e nella confusione, mentre persone che correvano e gridavano inciampavano nel buio in più di un corpo inerte steso al suolo. Altre porte si spalancarono sbattendo. «Cosa succede?» gridò qualcuno, adocchiando quel tumulto. «C'è un incendio?». «Un incendio!» tuonò qualcun altro, fraintendendo quella domanda. «Al fuoco!». Altri raccolsero quel grido, e i clienti che fino a quel momento erano rimasti nascosti dietro la loro porta sbarrata afferrarono lampada e armi per riversarsi nei corridoi. «Un incendio! Uscite! Fuori!». Adesso pareva che tutti stessero correndo, e scontri violenti scoppiarono qua e là quando uomini con la spada in pugno si trovarono a spintonarsi per passare o si urtarono, e cominciarono a colpirsi a vicenda. «Togliti dalla mia strada, cane assassino! Togliti dalla mia... uhh... strada!». Un corpo si accasciò pesantemente sul pavimento, e l'uomo che lo aveva fatto finire lì si lanciò con sollievo giù per le scale. Doveva uscire prima che cominciasse a levarsi il fumo e tirare fuori il suo prezioso Lievezoccolo dalla stalla! Doveva... Qualcuno spalancò una porta e lui andò a sbattere contro il battente, artigliò l'aria alla cieca, mentre la spada gli sfuggiva di mano, e scivolò lungo il pannello di legno con il mondo che gli svaniva intorno. Sei o più uomini lo calpestarono prima ancora che il suo corpo avesse smesso di muoversi. «Fermi!» tuonò una guardia. «Voi tutti... fermi! Ve lo ord...». Mentre la guardia si lanciava lungo il passaggio, diretta verso tre uomini
che stavano facendo freneticamente a pezzi una finestra, una donnetta in camicia da notte uscì con passo strascicato dalla sua stanza, vide la spada della guardia che si alzava, scintillante alla luce della lampada di qualcuno, e colpì con la sola arma a sua disposizione. Il pitale andò in pezzi sulla faccia della guardia in corsa, riducendosi a un migliaio di schegge. L'uomo mosse altri tre passi barcollanti prima di cadere prono, e il suo corpo privo di sensi continuò a scivolare in avanti, andando a sbattere contro le gambe storte di un assonnato mercante in camicia da notte. Insieme, guardia e mercante rotolarono rumorosamente giù per le scale posteriori. La donna urlò, e un'altra donna, molto più vecchia e di gran lunga più sorda, fece capolino dalla porta della stanza accanto. «È sempre così, in queste locande sperdute?» chiese ad alta voce. «Oppure è in corso una festa?». Adesso perfino le lanterne a candela appese al soffitto stavano oscillando selvaggiamente, mentre sulla scala erompeva una vera e propria marea di uomini urlanti e armati di spada: da ogni corridoio, dal basso e dall'alto, persone assonnate stavano convergendo in quel punto, non ultima fra le altre la padrona della Bottiglia. Margathe esaminò la stanza con occhi roventi, diede una sola occhiata alla maga sulla scala, che trapassava gli uomini con il fuoco e indossava soltanto gli stivali, e prese a urlare con voce più stentorea di quella di qualsiasi guerriero. «Cosa significa questa esibizione lasciva? Questa non è una casa di piacere, e qui non permettiamo a nessuna di esibire in questo modo le sue grazie! Dei, non mi meraviglia che tutti gli uomini siano svegli e urlanti! Oh, no! Non nella MIA locanda!». Furente, Margathe conficcò la spada che aveva in mano nelle assi del pavimento e scagliò contro Embra Silvertree l'attizzatoio che stringeva ancora nell'altra. Esso rimbalzò contro la ringhiera, andando a colpire un innocente mercante che si trovava sotto la scala, ma il rumore indusse Embra a girare la testa per vedere chi fosse il suo assalitore, giusto in tempo per ricevere una grandinata di oggetti scagliati dall'infuriata padrona della Bottiglia. Un vaso di fiori s'infranse contro la ringhiera, riversando schegge e acqua su un assalitore che già stava barcollando, una brocca d'acqua per lavarsi riuscì a roteare al di sopra della ringhiera e inzuppò Embra con il suo gelido contenuto nel rotolarle letteralmente sul petto, e il proiettile
successivo, uno stivale sporco lasciato fuori da una porta perché venisse lucidato, raggiunse infine la Dama dei Gioielli in piena faccia. Mentre barcollava, abbandonando la presa sulla gamba di tavolo, l'altro stivale la centrò con forza su una tempia. Ammaccata e furente, Embra s'inginocchiò, afferrò la cintura di Sarasper con una mano da cui scaturivano ancora lingue di fiamma e ringhiò aspre, dense parole che echeggiarono contro il soffitto. L'ondata di potere che scaturì da lei l'istante successivo trascinò con sé la ringhiera e buona parte delle scale, scaraventando il tutto contro la parete opposta della stanza sottostante con forza tale da frantumare il legno, e scagliò all'indietro la singhiozzante Margathe, facendola rotolare a ritroso lungo tutto il corridoio da cui era giunta. Il rombo della magia echeggiò all'interno della locanda con il fragore del tuono, e sulla sua scia tutti coloro che si trovavano ai piedi della scala si bloccarono, storditi, levando lo sguardo verso la donna furente in piedi sui gradini. Embra Silvertree aveva i capelli che le si rizzavano dalla testa in tutte le direzioni, e lievi volute di fumo le esalavano ancora dalle mani e dalle labbra socchiuse. Il suo volto appariva stordito quanto quello delle persone che la stavano fissando. «Oh, povera me», mormorò con voce incerta, guardando i corpi di due guardie inchiodate alla parete dalle schegge della ringhiera. «Io... non avevo mai fatto nulla del genere, prima d'ora». Nel silenzio improvviso, abbassò le mani sulle sacche vuote della cintura, frugando al loro interno senza trovare nulla, e in quel momento, con un nauseante risucchio e un tonfo umido, la mano recisa di qualcuno si staccò da dove la sua esplosione l'aveva scagliata, incollandola al soffitto in mezzo a un' abbondanza di sangue, per precipitare sul pavimento sottostante. Borthor sollevò la testa di scatto. «Cos'era quello?» chiese, nel tono di un uomo che avrebbe voluto imprecare. «Meglio entrare», replicò Kether, con voce meravigliata, mentre scrutavano la locanda e sentivano urla e schianti che ricominciavano a echeggiare. La Bottiglia stava letteralmente tremando, una vibrazione che si trasmetteva perfino al suolo fangoso sotto i loro piedi. Le due guardie notturne si scambiarono una cupa occhiata. «Sai che siamo due stolti, vero?» ringhiò Borthor, mentre entrambi e-
straevano la spada e correvano verso la porta orientale. «Stavo cercando di non pensarci», ribatté Kether. Davanti a loro, la porta si spalancò e le due guardie la oltrepassarono senza rallentare l'andatura. L'istante successivo il battente si richiuse con fragore, lasciando il cortile del tutto vuoto, tranne che per la luce lunare. Esso rimase tale per non più di tre secondi. «Credevo che non se ne sarebbero mai andati», commentò un albero vicino alla recinzione, o per meglio dire un'ombra scura che si stava staccando dal tronco di quel gigante della foresta. «Umm», replicò l'altra forma, mentre entrambi scavalcavano la recinzione e avanzavano nel cortile della locanda. Alla luce della luna, apparivano come due uomini che avrebbero potuto essere nudi, o anche vestiti di tutto punto, perché ciò che avevano o non avevano indosso continuava a fluire e a tremolare mentre si muovevano. La loro testa, poi, presentava al mondo soltanto una rosea superficie uniforme dove ci sarebbe dovuta essere la faccia. I Koglaur varcarono la porta in un silenzio così spettrale da dare quasi l'impressione di passarvi attraverso; essa si richiuse alle loro spalle pochi istanti prima che un uomo ansante aggirasse a precipizio l'angolo della Bottiglia, si accoccolasse dietro alcune botti da cui poteva sorvegliare la porta orientale e si concedesse di sorridere. Se gli dei gli stavano ancora sorridendo, Weldrin Hathenbruck avrebbe dovuto limitarsi ad aspettare lì perché la fortuna venisse consegnata direttamente nelle sue mani. La massa di gente che si stava precipitando giù per le scale si era arrestata di colpo nel vibrante silenzio seguito all'incantesimo scagliato dalla maga, in conseguenza del quale la popolarità delle scale come via di fuga aveva subito un calo improvviso. I clienti spaventati della Bottiglia si stavano ancora scrutando a vicenda in preda a una timorosa indecisione quando due uomini passarono in mezzo a loro come ombre scure e silenziose. Un mercante commise l'errore di protendere una mano ad afferrare una spalla ammantata di scuro mentre gli passava accanto. «Ehi», cominciò a protestare, «quella è la mia cope...». La lama che gli tolse la vita non era più spessa di un ferro da maglia: essa gli penetrò nell'occhio e ne uscì con la rapidità di un lampo. Dopo che il corpo del mercante si fu accasciato prono sul pavimento, riversando un nastro di sangue sulle assi, lungo il passaggio nessun altro accennò a muo-
versi mentre i due uomini passavano oltre. Vandur e Kethgan non sorrisero delle statue tremanti fra cui stavano procedendo, perché da tempo avevano imparato ad accantonare ogni forma di eccitazione o di divertimento nel corso di un lavoro. Freddi e guardinghi, stavano camminando con la mente concentrata esclusivamente su un solo scopo: il contratto che dovevano portare a termine. D'un tratto, in basso tornarono a echeggiare grida e un clangore di spade: l'acciaio cozzò contro l'acciaio e alcuni uomini si mossero, fra cui il locandiere, che venne avanti con gesti irosi per lanciare le sue guardie contro gli assalitori, e i frenetici mercanti impegnati a combattere alla base della scala; intanto, Margathe riemerse dal corridoio, cupa e barcollante, il volto ammaccato e coperto del sangue di qualcun altro. L'armaragor in calzoni di cuoio si ergeva ancora sulla scala, difendendo il passaggio con ampi archi descritti dalla sua grande spada, e dietro di lui la maga con indosso solo gli stivali appariva in preda a un'improvvisa indecisione. Senza statuette o altri oggettini, lei non aveva più magia a cui ricorrere, e tuttavia non osava lasciare Hawkril a combattere da solo! D'altro canto, però, di che utilità avrebbe potuto essergli? Quasi ringhiando, Embra risalì di corsa i gradini. Se fosse riuscita a raggiungere in fretta nella loro stanza e a torn... «Tu!». L'ululato proveniente dal basso echeggiò sonoro e furente come in precedenza, anche se la faccia illividita e gonfia di chi lo aveva lanciato appariva più simile di prima a quella di un rospo. Margathe la stava additando come se lei fosse stata una sorta di malvagio affronto agli dei stessi, e... Embra non ebbe nessun preavviso quando la coperta le calò sulla testa, soltanto un improvviso incubo vorticante fatto di oscurità e di corpi decisi che la scaraventavano sui logori gradini di legno. Lottò per rotolare su se stessa e rialzarsi, sentendo intanto le grida di approvazione di Margathe che giungevano fino a lei attraverso la stoffa puzzolente, ma qualcosa che pareva essere un pugno calò su di lei dal nulla, pose fine a ogni suo dibattersi e la fece sprofondare nell'oscurità, i crudeli applausi e ogni altro suono che le si dissolveva intorno. La rimozione della maga dalla scena ebbe l'effetto di cancellare le paure e i dubbi di molti uomini infuriati, e la scala tornò a trasformarsi in un furioso campo di battaglia, con le guardie che attaccavano gli ospiti, donne che urlavano e l'aria solcata da una quantità di oggetti scagliati. Uomini ur-
lanti più o meno svestiti e armati di spada sciamarono nella camera centrale provenienti da ogni direzione, e si riversarono come una marea sugli assalitori e l'armaragor ancora impegnati a combattere sui gradini più bassi della scala. Poi le urla salirono di tono in un assordante unisono quando qualcosa di enorme e di serpentino fece irruzione attraverso l'arcata di comunicazione con la sala comune, spingendo davanti a sé tende e panche. La creatura si sollevò con uno scintillio di scaglie, freddi occhi dorati che brillavano in una dozzina di teste, e spalancò quasi pigramente altrettante fauci irte di zanne. Gli uomini indietreggiarono barcollando, e mentre quell'essere serpentino scivolava in avanti e si abbassava fragorosamente, le teste che saettavano di qua e di là per azzannare e uccidere, i corridoi si svuotarono dei clienti che fuggirono inorriditi. Ci furono però alcuni coraggiosi che non morirono nel primo attacco dell'uccisore di maghi, e che, quando esso prese a sondare in giro per la stanza che ancora vibrava di magia, si scagliarono in avanti per attaccare con impeto frenetico, usando la spada con tanto fervore da far sì che almeno cinque teste pendessero inerti e sanguinanti allorché il serpente tornò a sollevarsi. Pallido fino alle labbra, il locandiere Nortreen rimase dove si trovava, la pancia che sussultava per il terrore. Non aveva mai creduto veramente ai bardi, secondo i quali la parte settentrionale della Valle ospitava ancora orrori di quel genere, ma adesso ne era convinto, e aveva una locanda da difendere. Gli occhi dorati lo fissarono con espressione rovente. Nortreen deglutì a fatica, sentendo il gemito di terrore di Margathe giungere da un punto alle sue spalle. «La maga ha mandato questa bestia a sterminarci!» tuonò, con voce disperata. «Dobbiamo ucciderla adesso, se non vogliamo che ci dia la caccia e ci abbatta, uno dopo l'altro...». Il ruggito d'ira che soffocò le sue ultime parole accompagnò lo slancio con cui le guardie e gli ospiti si scagliarono di nuovo in avanti in un'onda di spade che si chiuse intorno al serpente in preda a una furia inarrestabile. I colli arcuati si sollevarono frenetici al di sopra del massacro, e più di un uomo urlò nel venire frantumato dal serrarsi di quelle fauci, o nell'essere scagliato lontano ad atterrare malridotto e singhiozzante, ma quando il tumulto infine si placò stancamente, lunghi istanti più tardi, il pavimento della Bottiglia era ricoperto di denso sangue purpureo, e una carcassa luci-
da giaceva morta in mezzo a troppi uomini altrettanto immoti. Prossimo alle lacrime, Nortreen lasciò vagare lo sguardo sulla stanza. Tutta quella devastazione, e tuttavia era vivo, avevano ucciso la bestia e... e la battaglia stava continuando. Nel sentire grida e clangore di spade scaturire da un corridoio, tre guardie scoccarono un'occhiata al loro padrone barcollante e si avviarono insieme verso la mischia. Nortreen Jhalanvyluk sedette pesantemente su una panca che scricchiolò in modo allarmante sotto il suo peso e scoppiò a piangere come se avesse avuto il cuore spezzato. I due uomini vestiti di cuoio scuro trasportarono in fretta il loro fardello giù per la scala di servizio e lungo il corridoio posteriore, oltrepassando le porte delle cucine dove le serve spaventate erano raccolte con gli occhi dilatati dal terrore intorno alle pentole dove stava cominciando a cuocere lo stufato per il giorno successivo. Alcune di esse urlarono alla vista di quello che poteva essere soltanto un cadavere avvolto in una coperta, altre scivolarono silenziosamente al suolo, svenute. I catturatori non prestarono la minima attenzione alle cuoche, perché la loro paga li stava aspettando al di là della porta orientale della Bottiglia, poco più avanti. Una volta consegnata una certa maga impazzita a uno zotico che per caso aveva soldi da spendere, il loro lavoro sarebbe stato concluso e sarebbero potuti tornare a letto, più ricchi, per svegliarsi l'indomani a tarda ora e sorridere degli strani capricci dei Tre. Weldrin si sollevò da dietro le botti con un sorriso ansioso. «Ce l'avete?» chiese. Vandur soffocò l'impulso momentaneo di rispondere di no, e che gli avevano invece portato la padrona della Bottiglia, ma poi si limitò ad annuire e a rimuovere la coperta, lasciando il volto pallido di Embra Silvertree a fissare la luna a bocca aperta e con gli occhi vacui. Il guerriero rivolse al suo corpo nudo una lunga occhiata ed esalò un profondo respiro che era quasi di sollievo, prima di sollevare lo sguardo sulle due scure figure silenziose. «Gloria a voi!» esclamò con gratitudine. «Ho qui il vostro compenso, e...». La porta si spalancò fragorosamente e una figura grossa e rumorosa uscì tempestosamente, i menti doppi che traballavano. «Come osate!» tuonò Margathe, riversando una pioggia di schiaffi furiosi in maniera uniforme sulla testa e sulle spalle dei tre uomini. «Come osa-
te venire... venire qui, vili mezzani corrotti, per vendere le vostre nude sgualdrine in una rispettabile locanda?». Stupefatti, i catturatori barcollarono sotto quella pioggia di colpi e di parole, e si voltarono di scatto per affrontarne la fonte giusto in tempo per ricevere un'altra torrenziale filippica in piena faccia. «E osate perpetrare questo sfrontato oltraggio senza un minimo accenno di adeguati accordi economici con i proprietari!». Vandur e Kethgan si scambiarono un'occhiata disgustata e sollevarono all'unisono la daga per sventrare quella donna furente e simile a un budino sussultante. I catturatori furono rapidi, ma le braccia che emersero dall'oscurità per sollevare da terra ciascuno di essi, trascinandoli lontano dalla padrona della Bottiglia e spezzando loro il collo con un singolo movimento brutale, furono ancora più rapide. Margathe Jhalanvyluk fissò quei volti senza faccia, spostò lo sguardo da una liscia maschera di carne all'altra, e svenne con un gemito quasi impercettibile. Le due teste prive di faccia si volsero all'unisono. Weldrin stava indietreggiando davanti a esse, pallido fino alle labbra alla vista di quell'incubo infantile che aveva preso vita davanti ai suoi occhi. Le sue urla cominciarono a echeggiare ancora prima che essi gli mettessero le mani addosso, e si trasformarono in un ingessante gemito singhiozzante nel tempo che essi impiegarono a scortarlo oltre l'angolo della locanda e fino a quella che pensavano fosse la finestra della sua stanza, per poi scagliarlo in aria di peso, come se le loro braccia fossero state forti come catapulte, e mandarlo ad abbattersi al di là dell'apertura buia, lasciando le imposte che sbattevano follemente sulla scia del suo passaggio. Weldrin Hathenbruck stava per imparare che gli dei non sorridevano a lungo. Chino sul guaritore, Raulin si volse di scatto quando qualcosa di ululante coprì la luce della luna. Con due daghe prese a prestito strette in pugno, il ragazzo balzò in piedi per affrontare ciò che gli stava piombando addosso, qualsiasi cosa fosse, urlando a sua volta di terrore mentre colpiva, colpiva e colpiva ancora, prima che lui e l'intruso crollassero al suolo insieme. L'uomo che era volato attraverso la finestra morì con la gola tagliata e una daga piantata nel cuore fino all'elsa, quasi prima che la sua faccia colpisse il pavimento. «Dov'è?» ruggì Hawkril Anharu, avanzando a grandi passi lungo il cor-
ridoio. «Che ne avete fatto di lei?». Una guardia lo squadrò con disprezzo dalla testa ai piedi. «Hai perso la tua sgualdrina, guerriero?» domandò. Ruggendo d'ira, l'armaragor colpì, spazzando via la spada dell'uomo, la corazza e tutto il resto in un furioso fendente che lasciò la guardia annaspante sul pavimento, la mano stretta sul petto sanguinante e il volto contratto dal dolore. «Dov'è?» ringhiò Hawkril, accostando la faccia a quella dell'uomo. «Abbiamo cose migliori da fare, uomo, che tenere sotto controllo i movimenti delle ragazze da letto, che conoscano o meno la magia», scattò un'altra guardia, mentre insieme ad altre avanzava verso di lui con cautela, all'unisono, le spade che si sollevavano come la coda di un serpente pronto a colpire. Ringhiando, Hawkril avanzò verso di loro, brandendo quasi con impazienza la grande spada da guerra. Una delle guardie adocchiò la sua arma e sollevò una mano per fermare i compagni. «Lei chi era?» chiese seccamente all'armaragor, che stava ancora avanzando. «La Dama dei Gioielli», rispose Hawkril, cupo. «La Baronessa Silvertree». E mentre le guardie indietreggiavano in silenzio, sconvolte, aggiunse in tono tagliente: «Spero che avrete pronta qualche spiegazione creativa, quando vi dovrete giustificare davanti al re». «Guerriero!» chiamò un'altra voce secca, alle spalle delle guardie: era il locandiere, che sollevò un braccio per indicare al di là dell'arcata di accesso alla sala comune. «Che non ci siano altri spargimenti di sangue. Colei che cerchi è là». Hawkril aggirò l'angolo tenendo la spada spianata davanti a sé. Il tavolo che i Quattro avevano condiviso in precedenza era stato sgombrato, spazzando semplicemente tutto sul pavimento, ed Embra Silvertree giaceva ora su di esso, addormentata o svenuta, distesa supina con la coperta adagiata addosso. Nella sala non c'era nessun altro che lui riuscisse a vedere. Avanzando fino a fermarsi accanto a lei, Hawkril si guardò intorno con occhi roventi. «Com'è arrivata qui?» domandò. Segnalando ai suoi uomini di rimanere indietro, Nortreen si addentrò nella stanza, pallido e teso in volto.
«Due uomini sono entrati dalla porta principale e l'hanno deposta lì, come la vedi adesso», spiegò, deglutendo a fatica. «Hai visto il loro volto?» incalzò Hawkril, socchiudendo gli occhi roventi. «Non avevano faccia», disse il locandiere, deglutendo ancora. L'armaragor si limitò ad annuire lentamente, senza mostrare la minima sorpresa. Intanto Nortreen venne avanti con fare un po' incerto, tenendo le mani dietro di sé. «Guerriero, questa notte è stato versato fin troppo sangue nella mia locanda», dichiarò con fermezza. «Esigo che posi la spada e torni nella tua stanza». Hawkril si limitò a inarcare un sopracciglio senza dire nulla. «Ai miei tempi», continuò Nortreen, con la voce più profonda che riuscì ad adottare, «ero considerato un grande guerriero. Gli uomini mi temevano, in tutta la Valle, e non è passato poi molto tempo da quando mi sono ritirato qui. Se ti aspetti di vivere più a lungo, guerriero, dammi ascolto. Posa la spada». «Non ho nulla contro di te, locandiere», dichiarò Hawkril in tono stanco, adagiando la spada sul tavolo, accanto a Embra. «Bene», annuì Nortreen. «La tua dama è ferita?». Nel parlare, posò una mano sulla coperta per sollevarla... e in quell'istante la spada da guerra saettò come un serpente, tracciando una linea di fuoco sulle nocche dell'altra mano del locandiere. La daga che Nortreen stava sollevando per trafiggere la maga scivolò dalle dita recise e penzolanti, e lui barcollò al di sopra del corpo della donna che aveva causato tanti problemi nella sua amata locanda. Poi l'oscurità insorse improvvisa a reclamarlo. Con la mano libera, Hawkril si protese e assestò una spinta al locandiere che stava svenendo, in modo da impedirgli di causare con l'abbattersi del suo peso quella morte che non era riuscito a provocare con la daga. Mentre il locandiere crollava al suolo, qualcosa si mosse nella zona d'ombra più oscura della sala comune: un pipistrello che era rimasto tranquillamente appeso ad assistere a tutti gli eventi della notte prese d'un tratto il volo e si allontanò silenzioso nel buio. 19. Intreccio di complotti
Disturbati dal rumore, i pipistrelli si levarono in volo dalle rocce a cui si appendevano abitualmente e si allontanarono. Nella grotta faceva freddo, nonostante le fiamme pulsanti che si levavano dal cerchio di bracieri e che alimentavano i bordi di un enorme disco di fiamma che ruotava lentamente, un disco fiammeggiante spesso un paio di centimetri che fluttuava all'altezza della vita e ardeva allegramente nell'oscurità fumosa. Figure ammantate e incappucciate si muovevano scalze intorno al cerchio, e più di un cappuccio era stato gettato all'indietro a rivelare una testa di serpente coperta di scaglie e dotata di zanne; inoltre, più di una veste sporgeva sul dorso, come se una coda nascente stesse cercando di allungarsi. I preti cantilenavano mentre camminavano, una sommessa recitazione che saliva e scendeva di tono in modo spettrale e che stava accelerando rapidamente il suo ritmo fino a diventare un suono stridulo, insistente e sempre più acuto che cedette il posto a un momento di silenzio quando tutti i Fedeli del Serpente allargarono le mani all'unisono, gesto in risposta al quale le fiamme si ritrassero fino al bordo estremo del disco, rivelando una scena che era affiorata sul resto della sua superficie. L'immagine fluttuante e luminosa era quella di una piccola Valle nelle montagne della parte settentrionale della Valle, non lontano dalla grotta, un canalone naturale intasato di vegetazione che si assottigliava rapidamente nel salire di quota, fino ad arrivare a una piccola polla e al guscio sgretolato di una torre di pietra abbandonata e in rovina. Un uomo solo si stava dirigendo a cavallo verso quella fortezza, a testa nuda e tuttavia in armatura completa, il volto inespressivo quanto il cielo limpido che lo sovrastava, i movimenti lenti e rigidi. «Cerca di restare in sella, Lord Idiota», mormorò in tono beffardo uno dei sacerdoti del Serpente. «Ormai manca poco alla meta». L'uomo sul cavallo oscillò in modo allarmante una o due volte quando la sua cavalcatura si fece strada fra le pietre smosse nel risalire l'ultimo, erto pendio. «Quindi è giunto il momento di incontrare quello che è il più misterioso fra i maghi», gongolò il prete, rivolto alla sacerdotessa inginocchiata al suo fianco, vestita soltanto di serpenti che si contorcevano languidamente, «e di arruolarlo in seno al sempre più vasto Esercito del Serpente... o di distruggerlo, a seconda di quali saranno le sue scelte». «Oh, povera me», ribatté la sacerdotessa, alzandosi bruscamente in piedi. «Temevo proprio che fosse questa la vostra intenzione».
Il prete si girò di scatto a fronteggiarla, incupendosi in volto con aria accigliata, e lei protese di scatto una mano a toccarlo. La testa del prete esplose in una pioggia scarlatta che pervase l'aria di migliaia di gocce di sangue, e un momento più tardi tutti gli altri Sacerdoti del Serpente presenti nella grotta subirono la stessa sorte. La sacerdotessa ricoperta di sangue avanzò con indifferenza in mezzo alle appiccicose conseguenze delle umide esplosioni soffocate e mormorò un incantesimo, agitando una mano. Uno dei cadaveri privi di testa si sollevò da quel sanguinoso groviglio per rimanere sospeso a mezz'aria, rigido, le mani lungo i fianchi. La sacerdotessa fece un gesto, e il cadavere si mosse in reazione a esso, fino a essere posizionato nel modo desiderato. Sorridendo, la sacerdotessa annuì e passò al cadavere successivo. Obbediente, ciascun corpo a turno si levò nell'aria e si girò con le spalle verso il basso, in modo da rimanere sospeso in posizione inclinata appena al di fuori del disco, ma disposto in modo tale che il suo sangue si riversasse in uno dei bracieri che lo alimentavano. Il corpo rovesciato del capo dei preti, verticale e con le mani lungo i fianchi, rimase invece a fluttuare al centro del cerchio di fiamme e venne fatto abbassare fino a toccare la scena, che svanì in mezzo a vortici di sangue sempre più larghi. Poi il corpo della sacerdotessa si fece più alto, si raddrizzò con un nauseante spostarsi e rimodellarsi della carne e divenne quello di Ingryl Ambelter. «Più di una mano protesa ad afferrare la corona di Aglirta può essere brutale nelle sue azioni», mormorò il mago, contemplando la strage che lo circondava. «Che questo incontro proceda pure, Figli del Serpente, ma senza che voi lo spiate o lo controlliate». Sorridendo ai corpi fluttuanti, rivolse loro un saluto beffardo, poi volse le spalle al cerchio di fuoco e si dissolse nel nulla, svanendo a metà di un passo e lasciando la caverna ai morti da lui resi tali. Smontando di sella a qualche passo di distanza dall'arcata vuota che dava accesso alla Fortezza di Kaerath, una torre in rovina da così tanto tempo che ormai nessuno più ricordava chi fosse stato Kaerath o quando o su cosa avesse regnato, il Lord Barone Berias Loushoond si arrestò improvvisamente, rabbrividì, scosse violentemente il capo parecchie volte e infine barcollò all'indietro, guardandosi intorno e dando l'impressione di vedere e
di riconoscere per la prima volta quanto lo circondava. Respirando affannosamente, dopo un momento il Signore di Loushoond si addentrò nella fortezza in rovina, la mano sull'elsa della spada. Il pavimento della sala d'ingresso era coperto da mucchi di pietre cadute, e la maggior parte del muro posteriore della grande camera retrostante era scomparsa, permettendo alla luce del giorno di riversarsi attraverso l'apertura, dove gli alberi crescevano dal pavimento e le balconate crollate avevano riversato le loro statue sulle lunghe radici protese. «Mago!» chiamò il barone, rivolto alla vuota oscurità in attesa. «Mago, sono venuto. Dove mi stai aspettando?». Il Mago delle Stelle, così cantavano i bardi, era il mago più potente che Aglirta avesse mai conosciuto, e ne aveva governato le terre secoli prima, invadendo in pari misura la mente del più audace fra i baroni e del più innocente fra i bambini, spesso senza lasciare traccia del proprio passaggio, in modo che tutti fossero suoi schiavi involontari e lo servissero, nelle cose piccole come in quelle grandi. Nessuno ricordava con esattezza quando lui fosse svanito, e nessuno aveva mai visto il suo corpo o sentito notizie affidabili riguardo alla sua morte, quindi erano in molti a pensare che non fosse mai morto e che fosse tuttora annidato da qualche parte, dove stava rimanendo nascosto e silente per motivi personali. «Finché il mago cammina» era ancora un detto che capitava di sentire nella parte settentrionale della Valle, e c'erano alcuni convinti che il Regno del Mago fosse più glorioso di quello di qualsiasi re, legittimo o meno, quindi quando il barone aveva ricevuto una notte un messaggio magico da parte del Mago delle Stelle, i Sacerdoti del Serpente si erano eccitati di fronte alla possibilità di avere in pugno la più potente fra le armi da usare contro il Re Ridestato. Forse, quel mago si sarebbe rivelato abbastanza potente da evitare un loro intervento diretto, permettendo loro di agire per suo tramite. Sì, dovevano permettere che l'incontro avesse luogo, e che il mago che stava cercando di asservire il barone venisse a sua volta intrappolato per la più grande gloria del Serpente... E adesso era come se una calda nebbia fatta di scaglie fosse stata rimossa dai pensieri del barone, che si ritrovava solo e un po' sconcertato in quella valletta vicino alle montagne, intento a fissare la fortezza in rovina che sorgeva sulle terre di un altro barone e a chiedersi chi avrebbe effettivamente trovato ad attenderlo. Improvvisamente, apparve qualcuno, una figura spettrale che acquistò a
poco a poco cupa solidità su un vicino sedile di pietra, appoggiata comodamente all'indietro e intenta a fissare il Barone Loushoond con un accenno di sorriso che le incurvava gli angoli delle labbra. Ebbene, l'uomo in questione appariva decisamente umano e il suo aspetto, se una breve occhiata di parecchio tempo prima e la sua lunga memoria lo stavano assistendo, parve a Loushoond identico a quello del più potente fra i Tre Oscuri maghi che erano stati al servizio del Barone Faerod Silvertree, Ingryl Ambelter. «Salute a te, Maestro d'Incantesimi», salutò il barone, in tono sommesso, e fu ricompensato da uno sguardo pieno di compiaciuta sorpresa mentre domandava: «Sei tu la causa della mia libertà?». «Sì», annuì il mago sul sedile. «Inoltre, è sempre per opera mia se la nostra conversazione in questo luogo sarà schermata da occhi e orecchi di amanti del Serpente. Sappi però che, nei giorni che verranno, il persistere della tua sopravvivenza dipenderà dal fingere di essere ancora sotto l'influsso del Serpente e che essi giungeranno di nuovo a controllarti efficacemente se non apporrò nella tua mente numerosi incantesimi profondi». «Incantesimi profondi...?». Un filamento di luce magica saettò in avanti come un ago dall'indice del mago seduto per insinuarsi in una delle narici del barone. Loushoond s'irrigidì, afferrò l'impugnatura della spada, poi s'irrigidì nuovamente e infine si rilassò con un profondo sospiro. I suoi occhi stavano ancora riflettendo quella luminescenza quando un bagliore più intenso fluì dalle mani del mago e il barone tornò a irrigidirsi, questa volta con la faccia contratta in una maschera di dolore. «Dimmi, se non ti dispiace», commentò il barone, mentre il suo sguardo smetteva di vagare in luoghi remoti per incontrare quello del Maestro d'Incantesimi, «in che modo, esattamente, essere controllato dai tuoi incantesimi è una schiavitù meno totale di quella che ho conosciuto sotto la sferza del Serpente?». «Tutti dipendono da qualcun altro», rispose Ingryl Ambelter, scrollando le spalle. «Ora tu dipendi da me, ma al contrario degli amanti del Serpente, io detesto trasformare gli uomini in automi che si muovano a seconda della mia volontà, e considero servitori del genere creature quanto meno goffe. «I sacerdoti del Serpente», continuò, allargando le mani, «amano deridere il resto di noi e considerarci degli stolti, e così facendo si rendono ciechi di fronte alla loro stessa stoltezza, che è nettamente superiore alla nostra. Il loro metodo è quello del randello, il mio è una spada rapida, affilata e sicu-
ra. Essi usano la magia per coartare la tua volontà, mentre io non lo farò. Essi controllano ogni tua parola e azione, mentre io ti lascerò libero di trovare il tuo destino, e spero di convincerti, qui e adesso, che i nostri sforzi dovrebbero essere congiunti, almeno per qualche tempo. Se fossi un sacerdote del Serpente, non mi prenderei la briga di cercare di convincerti, ti costringerei a obbedire, senza curarmi di quante proteste potessero levarsi urlanti dentro di te, a patto che facessi quello che io voglio». Il Signore di Loushoond annuì lentamente. «Benissimo», rispose quindi, in tono sommesso. «Io sono qui, con la mente di nuovo libera. Convincimi». L'uomo che un tempo era stato il Maestro d'Incantesimi di Silvertree contemplò il barone con aria pensosa per un momento, poi si protese in avanti sul sedile e prese a parlare in fretta, con fare urgente. «Elaboriamo un piano, fra noi due. Si tratta di una cosa fattibile perché io ho riconosciuto alcune delle magie che proteggono il Re Ridestato e so come controllare quei campi per costringerlo a muoversi e, in un modo rozzo e limitato, simile a quello usato dai seguaci del Serpente per controllare te, ad agire secondo la mia volontà». Il barone si accigliò nuovamente e avanzò di un passo fra le macerie, cupo in volto. «E in che modo questo può essere qualcosa in cui io potrei voler avere una parte di qualche tipo, mago?» chiese. «Tieni presente», rispose Ambelter, «che si tratta di un potere che è meglio usare con estrema parsimonia, tanto che è mia intenzione ricorrervi solo due volte». Alzatosi dal sedile di pietra, attraversò con calma la stanza senza smuovere un solo sasso e senza produrre alcun rumore, mentre Berias Loushoond lo osservava con occhi socchiusi e diffidenti. «Per prima cosa», riprese il mago, «costringerò il re a finire per sbaglio sulla scena di una riunione "segreta" dei seguaci del Serpente. Al suo apparire, lui verrà indubbiamente attaccato dai chierici presenti, e a quel punto agenti pungolati ad agire dai miei incantesimi guideranno una carica di cortigiani bene armati per salvare il re». «E...?» lo incalzò il barone, accarezzandosi il mento con fare pensoso. «E una quantità di sacerdoti del Serpente verranno massacrati», continuò il Maestro d'Incantesimi, con un sorriso. «Il re finirà per trovarsi indebitato nei confronti dei suoi soccorritori, e mentre noi due osserveremo ogni cosa da una distanza di sicurezza grazie alla mia magia, i nostri agenti avranno
l'occasione di perquisire i corpi e la zona alla ricerca di magie connesse al Serpente». «E forse perfino del Dwaer che si dice sia in possesso dei suoi preti», mormorò il barone, scoccando al mago un'occhiata in tralice. Ingryl Ambelter sorrise e scrollò il capo. «A quel punto», aggiunse, «avrà luogo la mia seconda compulsione nei confronti del re. Essa servirà a condurre Sua Maestà a un incontro privato con noi, durante il quale tu reciterai la parte del solo barone veramente fedele al Trono del Fiume, che a grave rischio personale ha sfidato gli incantesimi del clero del Serpente per allearsi con un mago straniero, che sarò io stesso, con una faccia e un nome diversi, al fine di difendere il legittimo Re Ridestato dalla grande malvagità del Serpente. In altre parole, userò le mie compulsioni soltanto per garantire a entrambi quell'interessamento da parte del re che tu, quanto meno, meriti senz'altro e ti sei conquistato numerose volte, se a ogni uomo di Aglirta dovesse essere dato ciò che gli spetta». Berias Loushoond annuì, una luce che gli si accendeva nello sguardo. «Quindi ci troveremo faccia a faccia con il Signore di Tutta Aglirta, e la nostra fortuna dipenderà dall'abilità della nostra lingua», sintetizzò. «Che parole useremo?». «Diremo al re che se ci concederà dei titoli, conferendo a me una qualche posizione presso la corte e facendo di te un barone superiore a tutti gli altri, raduneremo l'esercito di cui lui ha un così disperato bisogno per poter muovere guerra al Serpente». «E se dovesse rifiutare?». «Potrei costringerlo», affermò lentamente Ingryl Ambelter, «ma preferirei di gran lunga che il re agisse liberamente, sulla base della propria capacità di giudizio e dei suoi desideri. Devo potermi fidare della sua fiducia in noi». «E quindi?». «E quindi, se dovesse rifiutare, ci incontreremo di nuovo ed elaboreremo un piano diverso da quello attuale. Io però non credo che ci opporrà un rifiuto». Non lo farà perché tu lo costringerai, rifletté cupamente il barone, fissando il mago negli occhi. E se i tuoi incantesimi ti permettono di leggere i miei pensieri in questo momento, meglio così: almeno sai come la penso. «E se dovesse accettare?» domandò, sfregandosi lentamente le mani guantate.
«Raduneremo il contingente promesso, usando spade a pagamento che io ho abbastanza denaro da poter assoldare, a Sirlptar, nelle Terre Meridionali e sulle Isole, dove ci sono molti uomini che adorerebbero poter massacrare guerrieri aglirtiani e al tempo stesso guadagnarsi una promessa di pace fra il loro regno insulare e il Trono del Fiume. Li condurremo in battaglia contro i baroni, naturalmente cominciando dai tuoi rivali, e nel corso di uno di quegli scontri il mago straniero dimostrerà la sua suprema fedeltà al re sacrificando se stesso». «Cioè abbandonerai la forma da te assunta», mormorò il Barone Loushoond. «Chi troverai per occuparla, prima che le spade colpiscano il bersaglio?». «Quella dell'uomo più fedele e competente che riusciremo a trovare fra i membri del seguito personale del re», spiegò il mago, con un sogghigno, «perché dopo averlo rimosso dovrò prendere il suo posto, e così mi verrò a trovare molto più vicino all'orecchio regio». Ambelter sarebbe rimasto molto sorpreso se avesse saputo che il nobile intento a soppesare con aria accigliata le sue parole aveva letto con la massima precisione i suoi pensieri successivi: E avendo raggiunto un rango del genere, sarà poi cosa facile fare in modo che un certo Barone Loushoond rimanga ucciso in qualche scontro successivo. «Sembri avere una certa premura di espormi il tuo piano», osservò il barone, in tono ringhiante, «il che mi induce a pensare che questo tuo incantesimo di schermatura si estinguerà presto. Questo solleva una domanda fin troppo pertinente: che ne sarà di me, e di questi tuoi segreti, la prima volta che un sacerdote del Serpente frugherà di nuovo nella mia mente, o cercherà di sottopormi a compulsione o di abbattermi?». Ingryl Ambelter si girò di scatto senza il minimo suono, e per un momento il Signore di Loushoond si sentì pronto a giurare che i suoi stivali si stessero librando alcuni centimetri al di sopra delle macerie che coprivano il terreno. «Ah!» esclamò il mago, quasi con fare deliziato. «Se un qualsiasi sacerdote del Serpente cercherà di irrompere nella tua mente, disturbando così i miei incantesimi profondi, io lo saprò... e verrò immediatamente in tuo aiuto con le mie magie in grado di uccidere i seguaci del Serpente». Il barone reagì accennando appena un inchino al suo indirizzo. «Sentire ciò mi rassicura profondamente», commentò, in tono tanto asciutto che Ingryl Ambelter s'incupì in volto e accennò a sollevare una mano per colpire con la magia. «Motivo per cui», aggiunse il Signore di Lou-
shoond, mentre si voltava per attraversare a grandi passi l'arco in rovina, diretto al suo cavallo in attesa, «ritengo che ci comprendiamo a vicenda quanto basta per poter stringere un accordo, mago». Nel dire quelle parole, sapeva che quella che stava enunciando era la nuda e fredda verità, e che Ingryl Ambelter, un tempo Maestro d'Incantesimi di Faerod Silvertree, ne era altrettanto consapevole. Indipendentemente da dove uno si trovi, in Aglirta il Fiumargento non è mai molto lontano dal campo visivo, e i barconi che trasportano i più ricchi, importanti e potenti Aglirtiani sono di solito adornati di orgogliosi stendardi che nessuno può fare a meno di notare, anche se in tempi di disordini i viaggiatori dotati di alto rango e di molto potere spesso si fanno schermare con la magia e attraversano la Valle in modo meno sfarzoso ma molto più rapido. Di conseguenza, fu con ben poca sorpresa che il maggiordomo di Tathcaladorn, il castello privato e capanno di caccia boschivo del Barone di Cardassa, rispose al gong delle porte d'ingresso nella notte dello stesso giorno in cui il Barone Loushoond aveva fatto la sua cavalcata fino alla Fortezza di Kaerath, trovandosi davanti un piccolo gruppo di uomini mascherati, avvolti nei mantelli e in sella a splendide cavalcature, che chiesero di essere ammessi all'interno in termini che, per quanto cortesi e fini, erano poco meno di un ordine esplicito. Attento e inespressivo, il maggiordomo permise loro di accedere al cortile principale, e al tempo stesso suonò il gong che avrebbe messo in allerta gli arcieri disposti sui bastioni che cingevano il cortile perché tenessero pronto l'arco, poi passò nel cortile interno dove mandò alcuni lancieri nella sala delle guardie e a chiamare il Mago del Casato prima di attraversare il giardino centrale per bussare alla porta protetta che dava accesso alla sala da pranzo privata del Grande Signore di Cardassa. Ithclammert Cardassa sollevò lo sguardo dal boccale di vino, dagli onnipresenti fasci di contratti, trattati e lettere commerciali che attendevano una sua correzione o la sua firma, e dai resti di quelle che sembravano un'eccellente coppia di fagiani farciti con porri e una zuppa di tartaruga di fiume. «Visitatori, Taurym?» chiese, inespressivo in volto. Il maggiordomo era troppo anziano ed esperto per mostrare sorpresa, anche ammesso che ne stesse provando; invece, si limitò a chinare il capo. «Quattordici cavalieri, Grande Signore», rispose, «tutti armati. A mio
parere, più di uno di essi è abituato a comandare, e i sei cavalieri più massicci indossano un'armatura da guerra, a giudicare da come siedono sulla sella. Adesso sono nel cortile principale, con i nostri arcieri allertati. Ho anche avvertito le guardie e il Mago del Casato». La risposta del Barone di Cardassa fu un cenno della mano che fece accorrere al suo fianco un lanciere, a cui mormorò: «Portami la spada e fa' sgombrare questi piatti. Più tardi ordinerò che si prepari un adeguato banchetto o, più probabilmente, non offrirò a questi insistenti visitatori altro se non vino e parole». Mentre l'uomo già si allontanava, il barone sollevò lo sguardo sul maggiordomo. «Ti ringrazio, Taurym», disse. «Provvedi a che quanti si trovano fra queste mura siano svegli, vestiti da viaggio e pronti a portare via i loro valori, e radunali tutti nelle stalle, tranne le guardie e il personale delle cucine, pronti ad andarsene in sella a qualsiasi animale possa essere cavalcato. Quanti non sanno cavalcare dovranno condurre via i muli, o quanto meno liberare e allontanare fino all'ultima bestia, questo se io dovessi morire o non riuscire a dare l'ordine di fuggire». Mentre il maggiordomo accennava ad andarsene, il barone sollevò una mano decisamente salda chiusa intorno al boccale e aggiunse: «Ancora una cosa, Taurym. Una volta che avrai invitato i nostri ospiti a venire qui dal cortile principale, provvedi ad avvertire il Mago del Casato del possibile pericolo e del fatto che, indipendentemente da quali siano i suoi ordini e i suoi desideri, i suoi apprendisti dovranno essere svegli e pronti a combattere e a fuggire». Taurym aveva servito per molto tempo l'uomo che alcuni chiamavano il Corvo di Cardassa, ma solo e sempre fuori della portata di udito del barone stesso e dei suoi guerrieri, quindi ora osò indugiare un momento. «Signore, sapevi che questi visitatori stavano arrivando?» chiese. Il barone sfoggiò un sorriso così sottile che un uomo che avesse avuto meno familiarità con lui avrebbe potuto non notarlo affatto. «No, né so chi siano. Diciamo tuttavia che ho dei sospetti, e anche delle perplessità, una delle quali è come mai abbiano impiegato tanto tempo a venire a oscurare la nostra soglia». Taurym lo fissò in silenzio per un lungo momento. «Grande Signore», mormorò infine, «è stato un onore servirti». Poi si volse e uscì con passo svelto. Ithclammert Cardassa lo guardò allontanarsi senza muovere un muscolo,
ma il boccale che si accostò alle labbra una volta che il maggiordomo se ne fu andato tremò visibilmente prima che lui lo svuotasse. 20. I Baroni si fanno più audaci Nessun colpo venne battuto contro i battenti della porta antistante il Barone di Cardassa prima che essi si aprissero, senza preavviso e tuttavia senza violenza; nel sollevare lo sguardo dai documenti che stava vagliando, lui si trovò a contemplare una fila silenziosa di uomini mascherati e avvolti nel mantello. «Benvenuti a Tathcaladorn, viandanti», disse con calma. «Il vino vi attende laggiù, e là ci sono sostegni a cui appendere i vostri mantelli. Posso avere il piacere di sapere chi sta godendo questa notte dell'ospitalità di Cardassa?». Gli uomini massicci e in armatura più pesante avanzarono per primi nella stanza, guardando rapidi a destra, a sinistra e in alto, e prendendo nota della posizione di tutte le porte. Quelle dovevano essere le guardie del corpo, ed erano otto in tutto. Cardassa, che sedeva solo e che aveva ora la spada al fianco, per quanto ancora riposta nel fodero, represse il sorriso che minacciava di affiorargli sul volto. Ebbene, se la regola del gioco era la minaccia silenziosa, poteva almeno parare quel genere di attacco. Con calma, procedette a esaminare il documento successivo, mentre le guardie del corpo in armatura avanzavano a grandi passi, si scambiavano caute occhiate e infine, una volta appurato che nella stanza non c'era nessun altro a parte l'uomo seduto davanti a loro, si giravano a rivolgere un cenno ai compagni da sopra la spalla. Gli altri avanzarono a loro volta, chiudendosi le porte alle spalle e abbassando gli eleganti chiavistelli intarsiati che avrebbero precluso l'ingresso a chiunque non avesse una forza eccezionale, poi si volsero di nuovo a fronteggiare il barone. A quel punto, si tolsero tutti la maschera all'unisono, rivelando volti che Cardassa conosceva bene, e si identificarono uno dopo l'altro in tono secco e nitido. «"Adeln", "Ornentar", "Tarlagar", "Mauveiron", "Caladash", "Talasorn"». Ithclammert Cardassa rivolse loro un sorriso e accennò ancora in direzione del vino.
«Noto anche il guerriero Narvim, un tempo alle dipendenze di Blackgult e che più recentemente, credo, è stato visto nel Castello di Adeln. E quello al suo fianco deve essere Marthith, del Castello di Ornentar», commentò, lasciando scorrere lo sguardo lungo la fila dei guerrieri, e quando ricevette in cambio soltanto silenzio e occhiate impenetrabili, tornò a spostare lo sguardo direttamente sul più antico dei suoi nemici, domandando: «Alle tue guardie del corpo manca la lingua?». «No», replicò con disinvoltura il Barone Esculph Adeln, «ma non mancano loro disciplina... e discrezione». «Davvero?» commentò il Signore di Cardassa, inarcando un sopracciglio. «Allora devo per forza concludere che tali caratteristiche siano assenti nei loro padroni. Esiste dunque una questione di stato tanto urgente da indurre due baroni del regno, un altro uomo che aspira a diventare tale e tre maghi di fama a mettersi in viaggio insieme di notte, e al tempo stesso tanto oscura da costringere queste persone a presentarsi nel capanno di caccia di un uomo nel cuore della notte invece di presentarsi al suo castello in pieno giorno?». Il Tersept di Tarlagar e due dei maghi arrossirono visibilmente, e qualcosa a cui non venne permesso di maturare fino a diventare un effettivo sorriso passò sul volto di una delle silenziose statue in armatura in cui le guardie del corpo parevano essersi trasformate. «Non ho fatto tutta questa strada per duellare verbalmente con te, Ithclammert», replicò in tono secco il Barone di Adeln. «Siamo riuniti qui per invitarti a unirti a noi in quella che molto presto diventerà un'azione diretta e aperta che mira alla conquista del trono di Aglirta». «Una cospirazione contro l'uomo che si definisce il Re Ridestato?» chiese il Barone di Cardassa, scrivendo con calma qualcosa sulla pergamena che aveva davanti. «Per non sottilizzare troppo», intervenne il mago Caladash, con voce nasale e sardonica, «sì». Il barone lo fissò con calma da dietro il tavolo. «E siete tutti qui? Oppure, se dovessi decidere di schierarmi con voi, mi unirei anche ad altri che non vedo adesso davanti a me?». «No», cominciò il Barone Eldagh Ornentar, il cui volto appariva stranamente bluastro intorno agli occhi e alla bocca. «Il...». «Cosa intendi dire?» intervenne ad alta voce Adeln, parandosi davanti all'altro barone; quasi fossero state collegate a lui da fili, parecchie guardie del corpo si protesero a loro volta in avanti, fissando tutte Cardassa con
espressione dura. «Voglio dire», spiegò con calma Ithclammert Cardassa, allargando le mani, «che mi aspettavo di vedere qui con voi l'uomo che ha diretto molte delle vostre riunioni private, Bodemmon Sarr». Parecchi dei maghi s'irrigidirono e Caladash accennò a dire in tono secco qualcosa che Adeln stroncò sul nascere con un'occhiata rovente, prima di voltarsi nuovamente verso il Signore di Tathcaladorn. «A quanto pare», affermò, «Bodemmon Sarr è svanito da Aglirta, o almeno dalle parti del regno dove poteva essere abitualmente rintracciato. Non so come tu faccia a presumere di sapere qualcosa riguardo a eventuali riunioni private o a chi vi abbia preso parte, ma è vero che lui ha partecipato alle nostre discussioni, e che condivide in tutto e per tutto il nostro modo di vedere». «Non ne dubito», replicò Cardassa, inclinando cortesemente il capo con un sorriso che esprimeva non poca derisione. «Il tuo atteggiamento sembra decisamente ostile», osservò il Tersept di Tarlagar, facendosi avanti e incrociando le braccia sul petto. «Diccelo con parole chiare, Cardassa: qual è la tua posizione?». Il Barone di Cardassa, che stava ancora scrivendo, sollevò lo sguardo su di lui. «Com'è che tu, Ilisker Baerund, che pensi di poter reclamare una baronia, osi abusare a tal punto delle cortesie e tradizioni di Aglirta?» domandò con calma. «Io qui sono il padrone di casa, e tu uno fra i molti ospiti autoinvitati, e tuttavia non riesci ad aspettare che io abbia finito di rispondere alla gravosa domanda del Signore di Adeln prima di chiedermi a tua volta qualcosa?». «Sembrava che avessi finito», ribatté il tersept, incupendosi in volto, «o comunque che avessi avuto a disposizione un tempo più che sufficiente per concludere la tua risposta, se avessi desiderato farlo. Bodemmon San non è qui, d'accordo, questo lo sanno tutti quelli che hanno occhi per vedere... quindi quale parte della tua risposta non è ancora stata enunciata?». «La mia riluttanza a schierarmi con chiunque in Aglirta, per quanto affascinanti possano apparire il suo volto e i suoi intenti, che abbia rapporti con il Serpente», dichiarò in tono piatto il Signore di Cardassa. «Cosa?» esclamarono all'unisono il tersept e il mago Mauveiron. «Che discorsi sono questi?» rincarò subito dopo il mago Talasorn. «Vedete quanto si è fatto silenzioso Adeln?» chiese il barone seduto al tavolo, accennando con la mano agli altri due baroni. «Lui sa, come lo so
io, perché il Signore di Ornentar ha il volto così bluastro. Il veleno del Serpente infuria nel suo corpo, e lui deve obbedire al volere dei Preti Incappucciati o morire quando essi gli rifiuteranno la pozione che impedisce al veleno di svolgere il suo lento e rovente lavoro. Di conseguenza, chiunque sia schierato con Ornentar è schierato anche con il Serpente, e finora i rapporti che ho avuto con i suoi fedeli mi hanno condotto a concludere che essi non amano nessun barone, nessun mago e tanto meno un regno chiamato Aglirta». «Che storia è questa?» sogghignò Caladash, senza guardare verso Ornentar, che stava barcollando leggermente, in silenzio ma con gli occhi roventi d'ira. «Pensi davvero che siamo disposti a credere a un così goffo tentativo di seminare discordia fra noi?». «Se quella del veleno sembra un'ipotesi tanto assurda», ribatté Cardassa, scrollando le spalle, «perché nessuno di voi ha accettato il mio vino?». «Basta con queste chiacchiere», scattò Esculph Adeln. «Questa notte non abbiamo tempo per astuti duelli verbali, Ithclammert. Pare sempre più chiaro che tu intenda schierarti contro di noi. È così?». Il Grande Signore di Cardassa abbassò lo sguardo su quanto aveva scritto come se stesse riflettendo su cosa rispondere. «Come tutti voi», replicò infine, tornando a sollevare lo sguardo, «sono rimasto stupefatto quando il Re Dormiente, una remota e tranquilla leggenda, materiale adatto ai bardi e alla fantasia dei bambini, è diventato il Re Ridestato, un uomo concreto e sconcertante, capace ed esigente, che si aspetta la nostra fedeltà mentre noi siamo da generazioni abituati ad agire di prepotenza e ad alimentare le nostre reciproche faide, gli uni contro gli altri, su e giù per la Valle. Sono rimasto stupefatto... e irritato. «Non mi aspetto che il regno di Snowsar duri a lungo», proseguì, posando la penna, «perché non credo che lui comprenda la nostra Aglirta di oggi, e non condivido alcuni dei suoi decreti e molte delle cose che ho sentito dire riguardo al suo modo di pensare, almeno per come lo ha espresso al cospetto della corte. Tuttavia, anche se fosse un assoluto idiota, lui sarebbe comunque sempre ciò che indubbiamente è: il legittimo sovrano». «Bah! "Legittimo"!» sbuffò Caladash, pronunciando quella parola in tono beffardo. L'uomo dietro il tavolo sollevò lo sguardo su di lui e scrollò le spalle. «Ebbene, se gli uomini sono liberi di negare a loro piacimento che un re sia tale, che cos'è allora uno qualsiasi di noi baroni? Se siamo soltanto bravacci rissosi che si contendono questa terra, quando mai troveremo la pace,
se non sotto la morsa ferrea dell'ultimo tiranno rimasto in vita?» domandò, scrollando le spalle e riprendendo a scrivere. «Tuttavia, adesso abbiamo un re sull'Isola della Corrente Spumosa, e se non altro lui costituisce un cambiamento rispetto a troppi anni di baroni che si accoltellavano a vicenda, di inimicizie sempre più profonde e di stragi insensate... e del genere di subdole cospirazioni notturne come quella che a quanto pare sto ospitando questa notte fra le pareti del mio capanno di caccia. Di conseguenza, ascoltatemi bene, tutti quanti: no, Cardassa non si rivolterà contro il re». «Questa è la tua parola definitiva, barone?» scattò Caladash, sollevando le mani intorno a cui aleggiavano piccole lingue di fuoco bianco. «Non definitiva quanto tu ovviamente hai intenzione di renderla, Caladash», rispose Ithclammert Cardassa, con un sorriso privo di divertimento. «Se siete tanto stolti da minacciare me, non acquisterete mai abbastanza potere da poter costituire una minaccia per Bodemmon San». «Basta con le spacconate, stolto», ringhiò Caladash. «Muori!». Le fiamme gli scaturirono crepitanti dalle mani, simili a lampi bianchi, un istante prima del divampare di grandi scariche di energia verde provenienti dalle mani di Mauveiron e di Talasorn, e quindi raggiunsero per prime il bersaglio. Lo raggiunsero, e rimbalzarono contro di esso, avanti e indietro per la camera, crepitando come la frusta di un cocchiere. I maghi barcollarono e crollarono, trasformati in un ammasso di carne fumante accasciata sul pavimento prima che le loro o le altre guardie del corpo avessero anche solo il tempo di allungare la mano verso la spada. Quando l'acciaio uscì sibilando da dieci foderi per scintillare dall'altra parte del tavolo, il Signore di Cardassa sollevò senza preoccupazione lo sguardo su quello spiegamento di lame spianate e fameliche. «Un mago che attacca un uomo nel suo castello e non si aspetta nessuna schermatura è troppo stolto perché gli si possa dare l'occasione di conquistare il trono di questo o di qualsiasi altro reame», commentò. «Come te, nutriamo ben poca simpatia o fiducia nei confronti dei maghi... ma devo supporre che tu abbia piccole prove del genere in serbo anche per il resto di noi?» scattò Esculph Adeln. Cardassa sollevò lo sguardo su di lui con occhi gelidi quanto quelli dell'altro barone erano roventi. «Questa notte non avevo in attesa nulla, tranne un po' di vino e una ragazza che scaldasse un letto, il mio. Io non stavo cavalcando con il favore del buio per complottare l'ascesa di nuovi re sul trono di Aglirta».
«Bah!» ringhiò il Tersept di Tarlagar. «Vediamo se gli astuti Baroni di Cardassa possiedono una schermatura magica anche contro parecchie buone lame aglirtiane che colpiscono contemporaneamente. Hah!». Le spade furono ritratte e poi scattarono di nuovo in avanti, fulminee e all'unisono, solo per colpire qualcosa di invisibile, duro e inamovibile come la pietra, e rimbalzare contro di esso. Inarcando appena un sopracciglio all'indirizzo degli assalitori, Cardassa volse loro le spalle, al riparo della sua schermatura magica, e colpì un gong appeso alla parete dietro di lui secondo una certa sequenza, usando uno scettro posato sotto di esso, su un tavolinetto. Mentre il gong trasmetteva alla sua gente il segnale di fuggire da Tathcaladorn, il barone si alzò senza fretta, lo scettro ancora in mano, e si diresse verso una porta non lontana dal gong. «Come ha detto il mio bisnonno, molti anni fa», disse in tono gelido ai suoi ospiti, «i traditori non sono i benvenuti a Tathcaladorn. Ora mi congedo da voi, per prepararmi al viaggio fino all'Isola della Corrente Spumosa, dove intendo avvertire il re di un altro sconsiderato tradimento che serpeggia per Aglirta». E richiuse la porta sulle loro furenti invettive. Il lieve tremito che gli scuoteva le mani era scomparso. Mentre si dirigeva a grandi passi verso i massicci battenti dell'ultima porta, quella che si apriva sulla camera privata dove teneva le cose di valore, Ithclammert Cardassa si rese conto di esserne compiaciuto. Sapeva che sarebbe morto là, quella notte, senza avere neppure l'occasione di abbracciare ancora Amanthala o Nreene o una delle sorelle Laranta e dir loro addio in modo adeguato, con del denaro e parole di ringraziamento, per poi impartire loro l'ordine di allontanarsi il più possibile da Cardassa e di nascondersi per tenere al sicuro i suoi figli non ancora nati finché almeno uno di essi non fosse cresciuto abbastanza da poter reclamare la sua eredità e governare di nuovo Cardassa. Se non altro, aveva lasciato a Baerethos e a Ubunter l'istruzione di vegliare sulle sue dame e di aiutarle, ma quei due vecchi maghi non erano esattamente pilastri di forza o di competenza, e per di più non sarebbero mai stati disposti a lavorare insieme neppure se fossero state in gioco la loro vita e la salvezza di tutta Aglirta, figuriamoci la vita e la salvezza di un neonato generato dall'uomo che entrambi avevano servito dapprima per un senso di dovere nei confronti di suo padre e poi con odio e timore crescenti: il Corvo di Cardassa.
Se fosse sopravvissuto agli archi di Adeln e alle spade di Ornentar, il suo buon maggiordomo, Taurym, avrebbe provveduto spontaneamente a portare il suo avvertimento all'Isola della Corrente Spumosa. Taurym doveva farcela, perché il Grande Signore di Cardassa non avrebbe lasciato Tathcaladorn vivo. Se però fosse riuscito a far pagare la sua morte a un prezzo abbastanza alto, pochi dei suoi assalitori sarebbero sopravvissuti, e un'altra cospirazione sarebbe fallita prima che la sua morsa potesse effettivamente serrarsi sul Trono del Fiume. Allora il Re Ridestato avrebbe forse potuto avere a disposizione un po' più di tempo per costringere Aglirta a diventare di nuovo un regno, e non un agglomerato di baronie in guerra e di lande selvagge dove scorrazzavano i briganti. Gli uomini di maggiore importanza fra quelli che gli si contrapponevano erano Adeln e Ornentar. Adeln era il più forte, la vera spada e la spina dorsale della cospirazione, ma a causa dei seguaci del Serpente, Ornentar era quello che doveva assolutamente morire quella notte. Se fosse riuscito a comprare anche una sola di quelle morti al prezzo della propria, a cadere doveva essere Eldagh Ornentar, noto un tempo come Faccia di Pietra. Bodemmon Sarr, dovunque si trovasse, era la vera, letale minaccia per il Trono, a suo modo pericolosa quanto quella costituita dai sacerdoti del Serpente, ma come loro si era ritirato da quella cospirazione, lasciandola cadere come una spada rotta per provarne un'altra. Quella era però una preoccupazione che non poteva riguardare Ithclammert Cardassa: lui era il Grande Signore di una baronia, e poteva soltanto sperare di riuscire ad abbattere una singola cospirazione. «Ricordati di me per questo, Snowsar», mormorò, nell'infilarsi un paio di guanti che non aveva più usato da decenni, guardando le gemme incastonate nelle nocche che prendevano vita. «E ricordami con onore». Flesse quindi i guanti corazzati che potevano permettergli di volare e si chinò a prendere un elmo i cui incantesimi erano ancora più potenti. Mentre se lo infilava, si guardò intorno, contemplando tutte le altre armi magiche che lui e i suoi antenati avevano radunato in quel luogo, e si augurò che quando ne avessero lavato via il suo sangue, i suoi aggressori non le usassero l'indomani contro il re. «Ricordati di me», aggiunse, lui stesso sorpreso della propria calma, «perché avrei potuto schierarmi contro di te per salvarmi la vita, se non l'orgoglio, ma non l'ho fatto. Sarei potuto fuggire, ma non ho fatto neanche questo». Mentre parlava, si affibbiò una cintura larga quanto le sue mani accosta-
te, stringendosela in vita. «Sono rimasto a combattere», continuò, rivolto allo specchio addossato a una parete, attraversato da una crepa e nascosto in quella stanza fin da quando suo nonno era bambino, «perché in Aglirta ci sono ancora uomini, pochi e folli, convinti che questa terra, o il sogno di vederla diventare di nuovo un'unica terra, sia qualcosa per cui vale la pena di combattere». Con la sinistra, raccolse una mazza che prese a scintillare nell'entrare in contatto con la sua mano, e la soppesò nel passarsi la sua catena intorno all'avambraccio, canticchiando una canzone che ricordava solo vagamente e che suo padre era solito intonare nell'andare in guerra. La melodia venne sovrastata dallo schianto improvviso che si abbatté sulla porta, e Cardassa si portò rapidamente da un lato, tornando a impugnare la spada, prima che gli assalitori facessero irruzione nella stanza in mezzo a una nuvola di schegge, a ribollenti lingue di fiamma e a magiche volute di fumo. «Arrenditi a noi, Cardassa!» gridò Adeln, da un punto imprecisato dietro quella barriera di fuoco. «E consegnaci anche questo piccolo arsenale, ora che ci hai guidati fino a esso! Quella laggiù è la Lancia del Falcone, mia di diritto, giusto? E quello non è l'Elmo dalle Corna, di Tarlagar?». «Come mio padre ha tolto la Lancia a tuo nonno, vieni a toglierla a me, Adeln, se ne sei in grado», gridò di rimando Ithclammert Cardassa. Poi si affrettò a spostarsi dal punto in cui aveva parlato, per cui i fulmini che attraversarono la parete di fuoco per abbattersi sul pavimento della camera, strappando irosi bagliori ai sacchi di monete d'oro, si abbatterono ad alcuni passi di distanza da lui. «Lo faremo», tuonò la voce di Tarlagar, mentre le fiamme infine si ritraevano a mostrare i cospiratori in armatura schierati all'ingresso della camera, «perché adesso abbiamo anche noi alcune sorprese da offrirti». Nel vedere il suo Mago del Casato fermo accanto al Tersept di Tarlagar, entrambi con lampi magici che scaturivano loro dalle mani e un sorriso di trionfo dipinto sul volto, Ithclammert Cardassa seppe con fredda certezza che la morte si sarebbe abbattuta su di lui più rapida e dolorosa di quanto avesse sperato, e non perse tempo a percuotere con la mazza un certo gong... un gesto che indusse il mago traditore a gettare indietro il capo e a scoppiare in una sonora risata. «Chiami altri a morire con te, Vecchio Corvo?» esclamò Darlassitur di Sirlptar. «Davvero altruista, da parte tua!». Cardassa aveva assoldato quel furfante dagli occhi verdi e dalla barba
bionda scegliendolo fra le file dei maghi meno potenti e più disperati di Sirlptar, gli aveva dato una sua dimora, dei servitori e molto oro... e per tutto quel tempo Darlassitur era stato una serpe che attendeva paziente nel suo seno, pronta a colpire. Ah, bene, del resto non era certo il primo barone che stesse scoprendo a sue spese come non ci si potesse mai fidare dei maghi. Con la visiera abbassata, le guardie del corpo avanzarono non appena le ultime fiamme si furono dissolte, addentrandosi nella camera come un cauto muro metallico. Cardassa rimase a guardarle, immobile e impassibile, fino a quando non furono che a pochi passi di distanza, poi spostò lo stivale a coprire una determinata pietra, che si abbassò di qualche millimetro, e l'istante successivo tre massicce saracinesche calarono dall'oscurità sovrastante, le file di punte acuminate disposte in modo da trafiggere un uomo che fosse stato troppo lento a gettarsi in avanti o all'indietro. Esse raccolsero una messe di cinque minacciose figure in armatura, una di esse ferita in maniera abbastanza lieve da riuscire a liberarsi con una torsione e da uscire dalla volta zoppicando, lasciandosi alle spalle buona parte di un piede e sibilando di dolore. I suoi padroni ignorarono il guerriero ferito e degnarono ancor meno della loro attenzione le figure che si contorcevano sotto le punte che le avevano trafitte. «Attaccate!» si limitarono a ingiungere ai tre guerrieri che erano riusciti a penetrare illesi nella camera, ed essi tornarono ad avanzare mentre i loro compagni esalavano lentamente un ultimo respiro di agonia per poi accasciarsi, inerti e silenziosi, nella polla sempre più larga del loro stesso sangue. Tenendo d'occhi i tre cupi cavalieri che si avvicinavano, Cardassa serrò le nocche dei guanti e borbottò una parola che ricordava a stento. Le gemme inserite nei guanti scintillarono e alcuni scudi si materializzarono nell'aria intorno a lui, alti ovali di metallo che rimanevano eretti spontaneamente e che presero a orbitare lenti intorno alla sua persona, in attesa dell'attacco imminente. Quando l'uomo più vicino giunse a tre passi di distanza, il Signore di Cardassa fece appello all'altro potere dei guanti e balzò in aria per passare al di sopra dell'avversario, vibrando un colpo deciso alla sua testa nel sorvolarlo. L'acciaio riuscì a penetrare prima di rimbalzare contro l'elmo, e il cavaliere barcollò all'indietro, scuotendo la testa con aria stordita, rivoli di
sangue che gli colavano sulla lucida armatura. Mentre i suoi compagni si giravano a osservare l'atterraggio di Cardassa, e poi si voltavano nuovamente quando lui tornò a levarsi in aria, alcuni incantesimi ringhianti giunsero da oltre le sbarre delle saracinesche abbassate. Il tersept che finora aveva nascosto al mondo il proprio talento magico e il mago traditore che lo affiancava protesero un dito con occhi roventi, e nei punti raggiunti dalla loro volontà le armi si staccarono dalle pareti della camera, ammantandosi di un vago bagliore e liberandosi con uno strattone da ganci e cinghie fino a quando l'aria fu piena di morte fluttuante. Consapevole del proprio destino imminente, il Corvo si affrettò a scendere a terra, dove i tre guerrieri lo stavano aspettando, piombando deliberatamente in mezzo a essi e al cerchio di scudi, cosa che provocò un furioso scambio di colpi di spada tanto violenti da generare scintille, quattro uomini che colpivano con tutte le loro forze in mezzo a un groviglio di acciaio. I due maghi attesero con crescente impazienza che i loro guerrieri si districassero dalla mischia, e quando fu evidente che il frenetico cozzare dell'acciaio contro l'acciaio non accennava a conoscere soste, fecero affluire da ogni lato sul gruppo la morte che scintillava nell'aria, senza curarsi di chi fosse stato abbattuto da essa. Gli uomini urlarono o grugnirono, sollevarono di scatto le mani guantate o si irrigidirono mentre lance, giavellotti e gladi colpivano uno dopo l'altro, trafiggendoli come cinghiali. Così morirono tre cavalieri della cospirazione, combattenti che i loro padroni avevano ritenuto sacrificabili. I due maghi e i due baroni contemplarono con occhi roventi l'interno della camera dove, nel cuore di quel maelstrom di metallo, il loro unico nemico era ancora in piedi, gemente e barcollante, trafitto una dozzina di volte e più. Nonostante questo, il Signore di Cardassa riuscì a mantenere l'equilibrio e a sibilare le parole che indussero alcune lame a ritrarsi dal suo corpo, o addirittura a girarsi nell'aria per saettare attraverso le saracinesche. Alcune s'impigliarono fra le sbarre, ma altre riuscirono a passare oltre, e costrinsero i due maghi a lanciare rapidi incantesimi per costringerle a fermarsi o per trasformarle in polvere e schegge scintillanti. Intanto, una porta nascosta si aprì in una parete, fra rastrelliere di armi, e alcuni uomini che portavano l'armatura di Cardassa, guardie convocate dal gong, si lanciarono nella stanza solo per essere rapidamente trafitti e abbattuti da una pioggia di armi volanti, mentre i due maghi scoppiavano in una folle risata.
Nel guardare l'ultimo dei suoi uomini che cadeva al suolo, impalato come gli altri da lance che avevano sospinto i loro corpi fino alla parete e ve li avevano inchiodati a contorcersi, simili a macabri trofei distribuiti lungo la stanza, il Barone di Cardassa sputò una parola e una boccata di sangue. In risposta al suo comando, dalle porte della camera scaturirono altre lame, che si protesero infuori così repentinamente da costringere Adeln a serrarsi un gomito ferito con un'imprecazione e da strappare un urlo a Ornentar, quando una spada gli penetrò in profondità in un fianco. I maghi, che si trovavano fra i due baroni, si affrettarono a spostarsi, saettando caute occhiate alle loro spalle e sui lati per assicurarsi di essere al sicuro. Una volta certi che così fosse, tornarono a fissare il Barone di Cardassa con occhi colmi d'ira, sollevando le mani con crudele uniformità d'intenti. «Muori, verme traditore», mormorò il tersept, come se, invece di ripudiare i cospiratori, Ithclammert Cardassa avesse promesso aiuto e fedeltà per poi rimangiarsi la parola data. Il Grande Signore di Cardassa si trovò a fluttuare impotente nell'aria, dibattendosi e facendo invano appello ai guanti per contrastare la morsa di una magia più potente, e rimase là sospeso mentre spade, giavellotti e lance da cavalleggero gli si scagliavano contro da ogni lato, scivolandogli in corpo. Poi, quasi per una beffa, Darlassitur di Sirlptar lanciò un incantesimo di risanamento e ne diresse il raggio fra il bianco e l'azzurro verso il volto contorto del Barone di Cardassa, tenendolo in vita nella sua agonia di morte. «Parla, Vecchio Corvo», ingiunse, con voce vellutata, mentre lui e il tersept muovevano le mani in un'agile danza che faceva ritrarre leggermente le armi insanguinate e le torceva nelle ferite, torturando il loro nemico intrappolato con nuove ondate di dolore. «Dicci che altro hai nascosto qui, e come possiamo usarlo contro il re». «M... mai», ringhiò Ithclammert Cardassa, poi pianse e si contorse quando lance uncinate vennero trascinate attraverso il suo corpo in due diverse direzioni contemporaneamente, e fiotti di sangue misti a interiora si riversarono dal suo corpo lacerato. «Diccelo, e avrai la pace», scattò Ilisker Baerund. «Sfidaci e vivrai per quello che a te sembrerà un tempo molto lungo, devastato dall'agonia che ti infliggeremo». Poi eseguì un gesto secco con una mano, e il barone fluttuante urlò.
«Quali altre magie tieni nascoste?» domandò il tersept. «E dove sono?». «Già», rincarò il Barone di Adeln, ringhiante, stringendosi il gomito da cui il sangue continuava a colare, nonostante una fasciatura improvvisata ricavata da una tenda molto costosa. «Che altro possiedi, Cardassa?». La risposta del barone fu un denso gorgoglio umido. Il sangue gli scaturì dalla bocca, schizzando sul pavimento, e lui rivolse ai suoi torturatori uno sguardo impotente e disperato mentre quel rosso torrente continuava a scorrere. Con aria quasi disgustata, il mago Darlassitur consumò un altro incantesimo di risanamento, e la pioggia rossa cessò, lasciando l'uomo fluttuante a tossire debolmente. «Sì, diccelo, Cardassa», ringhiò il Barone Ornentar, dal punto in cui sedeva accasciato, le dita premute contro il fianco ferito. «Dicci tutto!». «Io... molta magia», annaspò Cardassa, il sangue che gli colava dagli occhi, «dove non la troverete mai... indegni cani sleali... traditori del rrrurrrkhh». I maghi mossero invisibili fili magici, in risposta ai quali alcune lame percorsero un lento viaggio attraverso il corpo inarcato e convulso del Corvo di Cardassa. «Io... uhh! Io... uhhh!» ansimò il barone, lottando per aggiungere altro, ma prima ancora che una delle spade lo attraversasse di netto in mezzo a nuovi zampilli di sangue, simile a uno squalo che fendesse le acque di un porto, la testa gli si abbandonò sul petto e il suo corpo si accasciò, le braccia che pendevano inerti. In mezzo ai suoni umidi che accompagnarono la sua morte, nessuno notò il guerriero in armatura che era stato ferito in precedenza dalla saracinesca mentre si alzava dalla sua posizione accasciata sul pavimento e trapassava da dietro con la spada il collo del mago Darlassitur. Il subdolo Mago del Casato Cardassa tossì, fissò con occhi sgranati il barone morto che aveva tradito e crollò al suolo, accompagnato nella caduta dalla spada insanguinata di un uomo che prontamente tornò a sdraiarsi e a fingersi svenuto. Intanto il tersept stava ringhiando e imprecando, ma neppure il bagliore dell'ultimo incantesimo di risanamento eseguito da Darlassitur, che ancora aleggiava intorno al corpo fluttuante, aveva il potere di ridare la vista a quegli occhi spenti, o di interrompere lo scuro flusso del sangue che colava dalle dita inerti. «Ridagli vita!» scattò Adeln, furioso, avanzando verso Baerund di Tarlagar. «Procurami quelle risposte!».
Il tersept si girò verso di lui con il volto incupito dall'ira e sollevò una mano in un silenzioso avvertimento, ricordandogli la presenza di ulteriori incantesimi in attesa di essere usati su altri baroni. «È inutile», disse quindi l'uomo che voleva diventare un barone, mentre Esculph Adeln si ritraeva, pallido fino alle labbra per l'ira. «Né Darlassitur né io possiamo riportare indietro un uomo dalla morte, non senza un Dwaer o l'aiuto di altri cinque maghi, o anche più, almeno due dei quali devono essere maghi che sappiano meglio di noi quali siano gli incantesimi giusti da eseguire e quando vadano attivati. Devi capire che la magia costituisce uno choc per il corpo, e che la vita si dissolve in fretta. Lo abbiamo perduto». «Allora tutto questo è stato inutile», commentò Adeln, in tono amaro. «Per nulla!» esclamò con fermezza il tersept. «Abbiamo le armi che ci sono qui, e Cardassa è nostra, con i suoi castelli, il suo denaro e i suoi guerrieri, nostra da utilizzare nella nostra impresa diretta a liberare il Trono del Fiume da chi lo occupa. Narvim è vivo, e potrà diventare il barone locale, proprio come avevamo progettato», aggiunse, agitando una mano in direzione del guerriero che giaceva al suolo sofferente, serrandosi un piede da cui colava ancora del sangue, poi tornò ad agitare la mano una seconda volta, generando una luce fra il bianco e l'azzurro che risanò il ferito. Soltanto allora il tersept notò il mago che giaceva morto in mezzo a una polla di sangue, e s'irrigidì, fissando con sospetto il guerriero che aveva appena risanato. All'interno dell'elmo che ne nascondeva il volto, l'uomo, che era in realtà Craer Delnbone, cominciò a sudare e allungò la mano verso la lama insanguinata che aveva posato dietro di sé. Se voleva avere qualche speranza di infrangere un incantesimo, il suo lancio doveva essere deciso, accurato e molto, molto veloce... «È così», annuì intanto Adeln, con fare acido, «e tuttavia avremmo potuto ottenere molto di più, se solo fosse stato possibile costringere Cardassa a pa...». «E più ancora se lui si fosse alleato con noi», ringhiò Ornentar, tuttora furente per il dolore causatogli dalla ferita. «I vantaggi, poi, sarebbero stati ancora maggiori se il Re Ridestato stesso fosse venuto a implorarci di occupare il trono al suo posto. "Se solo" è un'espressione che introduce sogni vuoti di contenuto che costituiscono solo uno spreco di fiato quando li si espone. Cardassa è morto, ma la sua camera dei valori è aperta davanti a noi... hai davvero bisogno di una guida che ti aiuti a saccheggiare e depre-
dare?». Sospirando, Adeln tornò a fissare con occhi furenti attraverso le sbarre delle saracinesche abbassate il corpo sospeso nell'aria come un sacco gocciolante. «Avremmo potuto ottenere molto di più», borbottò, serrando i pugni, come se con la semplice forza di volontà gli fosse stato possibile evocare qualcosa dall'aria che essi racchiudevano. Dopo un momento, volse le spalle alla saracinesca e si rivolse in tono secco al tersept. «Usa un altro incantesimo per far fluttuare quella carcassa fino alle porte da cui siamo entrati. La lasceremo là, infilzata in una lancia, come avvertimento per chiunque sia fortemente fedele ai Cardassa, a indicare la sorte che attende i traditori del nuovo barone». «Ho un incantesimo che dovrebbe fondere quelle sbarre», annuì lentamente il tersept, «ma prima farei meglio a occuparmi del Signore di Ornentar». Annuendo ancora, Adeln gli volse le spalle, e fu così che nessuno si trovò a guardare direttamente verso la camera quando un momento più tardi il cadavere di una delle guardie di Cardassa inchiodate alle pareti sorrise, sollevò una mano che reggeva una pietra rotonda e generò da essa intensi raggi luminosi che saettarono attraverso la camera. Quei raggi andarono a colpire altre due pietre rotonde sistemate su alti scaffali delle pareti della camera, e mentre i cospiratori si giravano con grida di sorpresa e di allarme, i tre Dwaer pulsarono all'unisono, scatenando raggi di una forza devastante che attraversarono le sbarre della saracinesca, dissolvendole come fumo al loro passaggio, per poi trapassare i baroni e il tersept come se anch'essi fossero stati fatti di fumo. Il guerriero era già in piedi, con la spada che lasciava vorticante la sua mano, ma la caduta del tersept portò l'arma a roteare senza danno attraverso l'aria per andare a sbattere contro una fila di alabarde addossate alla parete opposta. Ornentar ruotò su se stesso, singhiozzando, nel sentire la vita che abbandonava il suo corpo, ma una scintillante luce verde apparve dal nulla e prese a infuriare lungo tutta la sua persona come se fosse stato ammantato di numerosi serpenti sibilanti che si contorcevano. Stupefatto, il barone si ritrovò integro e sano mentre lui stesso e la magia dalla testa di serpente cominciavano a svanire insieme, e la mano malvagia dei sacerdoti del Serpente lo trasportava altrove.
La guardia impalata sulla parete agitò una mano e intense scariche di energia tornarono a divampare attraverso lo spazio scintillante che era stato occupato dal barone, senza però attraversare carne né ossa: Ornentar era andato altrove, salvato ancora una volta dalla morte. Rimasto solo, l'ultimo dei cospiratori continuò a fissare la guardia inchiodata alla parete della camera finché essa non tornò ad agitare quell'imperiosa mano coperta dal guanto dell'armatura. «Buon viaggio, Craer. Sei stato un buon Narvim, anche se un po' troppo cauto. Forse, in futuro dovrei spiegarti meglio i tuoi incarichi», disse una voce. Il bagliore dei Dwaer avvolse però il singolo guerriero in armatura prima che le ultime parole venissero pronunciate, e l'uomo sulla parete dubitò che Craer le avesse sentite. Con un sospiro, la guardia che non era una guardia fluttuò giù dalla parete e chiamò a sé le Pietre con un cenno; contemporaneamente, un assortimento di armi si sfilò dai corpi insanguinati in cui era conficcato e prese a volteggiargli intorno con un moto lento e solenne, il bagliore della magia che ammiccava lungo molte di quelle lame. Sorridendo ancora, l'uomo al centro del cerchio permise al proprio volto di tornare nuovamente a essere quello di Inderos Arpa Tempestosa. «Stolti», mormorò, mentre scuoteva il capo e svaniva lentamente. Un momento più tardi, in silenzio e senza cerimonie, le armi fluttuanti scomparvero a loro volta in gruppi di due o tre per volta, seguendolo altrove, finché la camera fu completamente vuota. Essa rimase tale per un tempo pari forse a tre respiri, prima che il martellare di molti piedi calzati di stivali echeggiasse lungo i corridoi, e molti uomini dallo sguardo duro che indossavano l'armatura di Adeln e di Ornentar vi facessero irruzione con la spada in pugno, solo per fissare increduli un'ennesima stanza vuota di quella magione deserta. La loro fretta di rintracciare i rispettivi signori e di fare ciò che era stato loro ordinato, in quella notte in cui tutta Cardassa doveva essere conquistata, fu tale che nessuno di essi notò le carte che il loro passaggio aveva fatto volare in aria, nella sala da pranzo dove le candele stavano cominciando a spegnersi e non rimaneva più nulla se non barilotti e bottiglie di vino intatti. Le pergamene svolazzarono e fluttuarono pericolosamente vicine alle fiamme morenti, prima di atterrare sul pavimento; la maggior parte di esse era stilata nella calligrafia precisa ed elegante del Barone Ithclammert
Cardassa, e una di esse, fresca d'inchiostro, consisteva dell'elenco dei nomi dei cospiratori e nella descrizione di alcune delle loro richieste, nella speranza che quel documento potesse costituire un utile avvertimento o una prova nelle mani del Re Ridestato. 21. La tempesta matura nella Valle I membri della Banda dei Quattro si fermarono nell'ombra punteggiata di sole del viottolo, che in quel punto era infossato e sovrastato da vecchi e folti alberi, e sollevarono lo sguardo sul soleggiato pendio collinare che avevano davanti, spingendolo oltre il muro in rovina e le tombe e le lapidi inclinate che esso racchiudeva, per appuntarlo su una vasta e familiare dimora di pietra che emergeva dagli alberi e dall'abbraccio dei viticci per fissare perennemente il fiume sottostante. La Casa Silenziosa aveva decisamente lo stesso aspetto di quando l'avevano lasciata, la sala d'ingresso ridotta a un cumulo di macerie che copriva e nascondeva molti sepolti guerrieri di Silvertree. Per fortuna, non avrebbero dovuto scavare attraverso quelle macerie, perché le pareti della dimora erano costellate di molte altre porte, e se si sapeva esattamente come procedere alcune di esse davano effettivamente accesso alle sale scure e polverose dell'interno, senza condurre chi le utilizzava fra le fauci di qualche trappola letale. Solo alcune. Poche. «Bene», osservò Raulin, con un sorriso da monello, «per lo meno, non è un'altra locanda». I suoi compagni gli rivolsero un'acida occhiata. «Spero che tu conosca una via d'ingresso sicura», borbottò Embra, rivolta al vecchio, che le era accanto. «A me non pare di ricordarne nessuna, tranne quella che si imbocca da Adeln, naturalmente». «Io ne rammento una, signora», rispose Sarasper, con un accenno di sorriso. «Bisogna passare attraverso quella tomba laggiù». E accennò con la testa a una delle cripte di pietra grandi quanto una capanna che tempestavano il pendio collinare intasato dalla vegetazione. «Sarà meglio sbrigarci», proseguì, accennando ad avviarsi. «La voce messa in circolazione da Raulin ci ha preceduti in quell'ultima taverna, e mi piacerebbe essere già sistemato sul posto prima che le bande di guerra comincino a caderci in grembo a spada in avanti, alla ricerca dei Dwaer».
Embra annuì. In effetti era vero, la loro trappola era stata tesa, ma non ancora approntata. Nella Valle, la gente era sempre avida di pettegolezzi un po' più oscuri e locali delle ultime notizie suoi baroni che radunavano eserciti e sui sacerdoti del Serpente che svolgevano riti sinistri fra le montagne, e con l'astuto supporto fornito da Raulin (dopo che Sarasper ed Embra gli avevano elencato cosa dire e cosa non dire) era pronta a parlare in lungo e in largo dei quattro avventurieri che conoscevano il re (e che, a detta di alcuni, lo avevano ridestato dal suo sonno profondo) e che in quel momento si trovavano nel cuore della Casa Silenziosa, Maledizione dei Silvertree, impegnati a utilizzare un leggendario Dwaer per evocare in loro aiuto le mitiche Spade dei Perduti e rendere Aglirta invincibile di fronte a qualsiasi nemico. A quanto pareva, la Maledizione si era abbattuta su Lady Embra Silvertree, trasformandola in un orribile mostro strisciante, come il contadino presente in quell'ultima locanda aveva confidato a bassa voce all'amico che gli sedeva di fronte (e a mezza sala comune), e lei aveva già divorato uno dei suoi tre compagni, lasciando gli altri due a nascondersi da lei, terrorizzati, nelle segrete più profonde della Casa! A quel punto, un venditore ambulante appoggiato al bancone si era girato, dichiarando di aver sentito dire da un menestrello (che aveva osato dormire fra le rovine e si era salvato a stento dagli spettri che si erano levati come lucenti colonne di morte dalle tombe) che i Quattro erano riusciti a evocare almeno due delle Spade, che stavano ora fluttuando nella Casa Silenziosa, pronte a uccidere chiunque osasse toccarle (fra cui, fino a questo momento, anche due dei Quattro). Quell'evocazione aveva però destato l'attenzione di un mago, addirittura il potente Bodemmon Sarr, che si era teletrasportato magicamente nella dimora in rovina e là aveva liberato a forza Embra Silvertree dalla sua forma mostruosa, in modo da potersi accoppiare con lei, cosa che aveva fatto. Come risultato, adesso la Dama dei Gioielli recava in grembo un bambino che avrebbe scagliato incantesimi di cui in tutto Darsar nessuno aveva mai visto l'uguale, e che sarebbe stato capace di trasformarsi a suo piacimento in un mostro, o di essere un uomo una notte, e una donna quella successiva... un bambino che si sarebbe impadronito del trono di Aglirta non molto tempo dopo essersi liberato dal grembo materno, o essersi aperto un varco a morsi, o aver usato da dentro di esso il proprio talento magico per mandare le Spade dei Perduti a uccidere in pari misura i maghi, i baroni e il Re Ridestato... «Per gli dei», aveva sibilato Raulin, da dietro una nocca che si stava
mordendo per soffocare le proprie risa. «La storia continua a migliorare!». «Ragazzo», aveva borbottato Hawkril, seduto accanto a lui, «è così che nascono tutte le storie e le ballate dei bardi, diventando qualcosa che neppure sua madre saprebbe più riconoscere». Adesso, mentre muovevano i primi passi verso la massa di vegetazione che avviluppava la dimora ancestrale dei Silvertree, l'aria tremolò improvvisamente davanti a loro. Con un ringhio, Hawkril spalancò di scatto le braccia, mandando Raulin a finire disteso sulla strada e facendo barcollare Sarasper da un lato. Nel frattempo, il tremolio divenne un'ondata di luce dal cui interno emerse un uomo che incespicava in mezzo alle parti tintinnanti di un'armatura decisamente troppo grande per il suo fisico. L'uomo mosse due passi incerti e cadde a terra, lamine di metallo che rimbalzavano e rotolavano nella polvere tutt'intorno a lui. «Craer!» esclamò l'armaragor, lanciandosi in avanti per issare in piedi il procacciatore, che stava tossendo. «Sei vivo!». Il suo vecchio amico abbassò lo sguardo sulla propria nudità e sulle vesciche generate dall'armatura che adesso era andata completamente in pezzi, compresa l'imbottitura che stava marcendo. «Suppongo di sì», rispose, con una nota di stanchezza nella voce. «Ho passato il tempo a uccidere baroni e maghi, un lavoro che mette sete. Non c'è da sperare che qualcuno fra voi abbia...?». «Ecco, signore», ciangottò con entusiasmo Raulin, porgendo una fiasca in cui aveva versato del vino proveniente dall'ultima locanda, troppo forte perché lui riuscisse a berlo. Craer socchiuse gli occhi, fissando intensamente il ragazzo. «E tu chi sei?» gli chiese, in tono quasi divertito, fra un sorso e l'altro. «Raulin Tilbar Castlecloaks, signore», rispose il ragazzo, ergendosi sulla persona. «Sono il figlio del bardo Helgrym». «Davvero?» commentò Craer, inarcando un sopracciglio. «Sembri un po' troppo grande perché Em possa essere tua madre... anche se forse sto sbagliando a valutarla. Dopo tutto, potrebbe essere stata molto più preco...». «Basta così, Craer», intervenne Embra, in tono secco, mentre Raulin si faceva scarlatto in volto. «Restituisci a Raulin quel poco che è avanzato del suo vino, con gentilezza. Mentre tu eri chissà dove a divertirti, lui ha salvato la mia vita e quella di Sarasper, ci è stato coraggiosamente d'aiuto e ha mostrato di saper tenere a freno la lingua molto meglio di quanto sappia fare tu... e mi stavo giusto chiedendo come potevamo congedarci educata-
mente da lui, prima si entrare in quella trappola di morte laggiù e avere la metà dei guerrieri di Aglirta che ci piomba addosso». «No, Signora!» protestò Raulin, girandosi di scatto. «Non puoi farlo! Non ora! Non quando...». «Quando sta per iniziare la parte migliore dell'avventura?» concluse per lui Craer, in tono di derisione. «Quello sarà lo splendido momento in cui questa o quella spada ti farà riversare in grembo gli intestini, e tu comincerai a trascorrere un lungo, lungo pomeriggio in compagnia delle mosche, impegnato a morire, ma non abbastanza in fretta da non essere più in grado di sentire il sopraggiungere dell'oscurità, o quello dei lupi». «Non dici sul serio!» esclamò Raulin, gli occhi che fiammeggiavano. «Perché...». Indifferente alla propria nudità, Craer avanzò con fare grandioso fino a portarsi accanto al ragazzo e a passargli un braccio intorno alle spalle. «No, ragazzo, è ovvio che non dico sul serio», affermò in tono rassicurante, poi sogghignò e aggiunse allegramente: «Io userei una daga, mai una spada». Liberandosi con uno strattone, Raulin fissò sull'ometto lo sguardo rovente. «T... tu, tu...» ringhiò. Quasi con affetto, Craer affondò il pugno nello stomaco del ragazzo, lasciandolo annaspante e senza fiato, poi lo colpì sotto il mento con l'altro pugno, catapultandogli la testa all'indietro e mandandolo a cadere supino sulla polvere della strada, dove Raulin rimbalzò una volta, fissando il sole senza vederlo, poi rimase disteso immobile, la mascella rilassata. «Craer!» gridò Embra. «Non era necessario...». «Oh, invece lo era», replicò il procacciatore, abbassando lo sguardo sul giovane steso a terra ai suoi piedi, in mezzo alla strada, «perché altrimenti ci avrebbe seguiti di soppiatto, quanto è vero che il Fiumargento finisce nel mare, e qualche armaragor gli avrebbe tagliato la gola». Interrompendosi, sollevò lo sguardo sui compagni, e sfoggiò un sorriso, aggiungendo: «Inoltre, ha quasi la mia stessa taglia». Sarasper ed Embra levarono gli occhi al cielo, mentre Hawkril si limitò a ridacchiare. «Bentornato, Dita Lunghe», sospirò Embra. «Per te, sono Ser Dita Lunghe», la corresse Craer, piantandosi le mani sui fianchi nudi con finta altezzosità. «Ma certo», ribatté Embra, scuotendo il capo nel volgergli le spalle. «Un
errore imperdonabile. Devi ricordare di non osare di punirmi, più tardi». «Ah, finalmente sta imparando», annunciò Craer, mentre si chinava per sfilare gli abiti a Raulin. «Purtroppo», replicò Sarasper, accoccolandosi per aiutarlo, «non credo che fra noi sia quella che ha maggior bisogno di imparare qualcosa». Craer gli scoccò un'occhiata penetrante, ma Sarasper non aggiunse altro, limitandosi a commentare: «Gira il ragazzo sul tuo lato, d'accordo? Questo si è impigliato qui...». Trasportarono Raulin ben lontano dalla strada e dentro un boschetto, poi Embra consumò due statuette per lasciare al ragazzo svenuto un coltello e fornire un'arma identica anche a Craer. Consapevoli delle voci diffuse ad arte da Raulin, i Quattro usarono una maggior cautela nel tornare alla Casa Silenziosa, e nel risalire la collina coperta di vegetazione sotto la vivida luce del sole, constatarono che la loro cautela pareva essere giustificata. Evidentemente, nella Valle c'erano persone che ascoltavano, oltre che parlare: circa a sei tombe di distanza, una testa coperta da un elmo si sollevò fugacemente per sbirciare nella loro direzione e tornò subito a nascondersi. Hawkril e Craer si scambiarono un'occhiata, poi presero a strisciare fra i cespugli. «Non potremmo limitarci a entrare?» sospirò Sarasper. «Perché tutto questo amore per il sangue e la battaglia?». «Sono ancora giovani», rispose con fare conciliante la Dama dei Gioielli. «Per loro è solo un gioco». «Embra», ringhiò il vecchio guaritore, fissandola con occhi socchiusi, «sono riluttante a minimizzare qualsiasi scontro in cui degli uomini restino feriti, o mutilati o uccisi definendola un "gioco", se capisci cosa intendo». «Vedere la cosa sotto questo aspetto la fa affrontare a cuore molto più leggero», dichiarò la maga, sfoggiando un sottile sorriso, «ma se a te piace preoccuparti e vagare nell'oscurità...». La risposta di Sarasper fu un ringhio esasperato, mentre lui si chinava per varcare una soglia aperta e avanzare in un sepolcro intasato di ragnatele. Accoccolatosi nel buio accanto alla bara centrale, infilò una mano in una depressione sotto un'estremità del sepolcro di pietra: gettato da parte lo scheletro di volpe che aveva lasciato al suo interno, affondò ulteriormente le dita e tirò una fredda leva di pietra. Si sentì il fievole scatto di una pietra che si abbassava e Sarasper annuì, raddrizzandosi con un grugnito. «Dove sono quei due idioti assetati di sangue?» scattò.
Embra scrollò le spalle, sorrise e allargò le mani. Proprio in quel momento, da un punto imprecisato al di là della sua spalla sinistra giunse improvviso lo stridere dell'acciaio contro l'acciaio, seguito da un grido subito soffocato e da un agitarsi di rovi e di rami. Qualche istante più tardi Craer apparve nel loro campo visivo, sorridente, con una bottiglia di cuoio stretta trionfalmente in una mano e una sacca da spalla carica di daghe da cintura e di spade con relativo fodero nell'altra. «Cibo... e giocattoli!» esclamò allegramente. «Procurarteli ti è costato Hawkril?» domandò cupo il vecchio guaritore. «Oppure eri troppo eccitato per farci caso?». «No, no», rispose in tono distratto il procacciatore, ficcando la bottiglia fra le mani di Sarasper. «Lui è laggiù, impegnato a vedersela con un'altra banda di avidi stolti. Erano addirittura accampati e intenti a prepararsi un vero banchetto». «"Un'altra"?» chiese Embra, divertita, mentre guardava Sarasper annusare con sospetto il contenuto della bottiglia per poi versarsene un paio di gocce sulle dita, annusandole e vagliandone il sapore con la lingua. «A parte noi?». Evidentemente, il vecchio guaritore aveva trovato la bevanda di suo gradimento, dato che ora gettò indietro il capo e ne trangugiò un sorso abbastanza lungo da farlo sospirare quando ebbe finito di bere. Nel vederlo che la guardava con un sorriso beato, Embra scosse il capo. «Non sembri approvare», commentò Craer, con aria quasi beffarda, rivolto alla maga, adottando i toni affettati e i gesti aggraziati ed esagerati di un damerino di corte. «Non sono impaziente di generare il bambino che si suppone debba aprirsi un varco a morsi attraverso il mio ventre», ribatté lei irritata, poi si piantò le mani sui fianchi e si girò a fissare con occhi roventi il sottobosco, nella direzione generale in cui riteneva si trovasse Hawkril, aggiungendo: «Credi si possa supporre che quella montagna di un armaragor voglia aspettare a uccidere i suoi compagni di gioco fino a dopo che avranno terminato di cucinare un'adeguata colazione?». Prontamente, il suo ventre piatto e ben modellato emise un sonoro borbottio che strappò una risatina a Craer. «Ah, ecco la vera Maledizione dei Silvertree», annunciò poi, guardando verso il cielo. «La golosità!». «Se riesci a smettere di fare il buffone per un istante o due», intervenne Sarasper, tappando con decisione la bottiglia e appendendosela alla spalla
mediante la sua cinghia, «credi di potermi aiutare a spostare questa bara?». «Sei in cerca di un pasto più esotico?» domandò Craer, inarcando le sopracciglia. «Magari zuppa di ossa?». «Spingi qui», ordinò il guaritore, in tono acido. Scrollando le spalle, il procacciatore fece come gli era stato detto, e dopo un momento d'immobilità, la pietra si spostò stridendo nel ruotare su un invisibile perno, anch'esso di pietra, spostandosi di circa un metro fino a rivelare una scura apertura sottostante. In quel momento i cespugli frusciarono, e i due uomini si affrettarono a portarsi al fianco di Embra, ma la massa scura che sbucò all'improvviso in mezzo al fogliame sussultante con un sorriso dipinto sul volto fu quella di Hawkril Anharu. L'armaragor reggeva una padella di dimensioni enormi, ancora calda, in cui strisce di pesce di fiume si alternavano a quella che pareva carne di coniglio, che sfrigolava per il recente contatto con il fuoco. «Per gli dei, avete mai visto una padella del genere?» esclamò l'armaragor. «È grossa quasi quanto uno scudo!». «Abbastanza grande per qualcuno, lo ammetto», replicò Sarasper, assestando una gomitata significativa a Craer. «Ecco, si può scommettere in tutta sicurezza che questa roba non basterà a riempire più di un particolare ventre, senza fare nomi», commentò il procacciatore, «ma del resto è stato Hawkril a trovarla e noi abbiamo già mangiato, quindi... il cibo è tutto tuo, Spilungone». «Ehi!» esclamò Embra, protendendo d'istinto la mano verso la carne mentre il suo stomaco brontolava ancora. Craer e Sarasper ridacchiarono, e Hawkril le porse la padella senza proferire parola. Arricciando il naso, la Dama dei Gioielli lanciò ai due uomini fermi accanto alla bara un'occhiata implorante che non le fruttò alcun aiuto, poi sospirò e allungò con cautela la mano nella padella unta. Chiudendo gli occhi per un istante, addentò un boccone, gemette di piacere e trangugiò un'intera striscia di pesce; si stava ancora leccando le dita e ripulendo il mento lucido di unto quando Hawkril tornò indietro reggendo in mano la padella ora vuota e ripulita con l'erba. «Suppongo», affermò in tono deciso, «che abbiate trovato una via per entrare, e che si tratti di qualche buia galleria troppo angusta per la mia taglia, giusto?». «Certamente», annuì Sarasper, scrollando le spalle. «Dopo tutto, i costruttori hanno dovuto nascondere gli ingressi a una successione di Baroni Silvertree».
«E questo cosa significa, esattamente?» chiese Embra, fingendosi irata, mentre gli altri l'aiutavano a calarsi nell'oscurità sottostante. Un momento più tardi, mentre una luce appariva all'interno di una sorta di piccola lampada di pietra che Craer pareva aver avuto nascosta fra gli abiti, lei sollevò la testa per guardare verso Hawkril, aggiungendo: «Lasciamo il passaggio aperto alle nostre spalle, oppure...?». «C'è una maniglia vicino alla testa di Hawk», rispose a bassa voce Craer, «ma voglio che anche lui accenda la sua lampada, prima di...». «Lasciatemi passare, ragazzi, e state indietro», borbottò Sarasper. «Oh... e custodite questa bottiglia per me, senza però svuotarla, d'accordo?». «Cosa stai... oh», mormorò Craer, accettando di reggere un capo di vestiario dopo l'altro mentre il vecchio si spogliava e continuava ad avanzare, diventando uno zannelunghe nell'arco di tre o quattro passi. «Il cimitero pullula di avventurieri speranzosi e di cercatori di tesori», ringhiò Hawkril, accendendo la piccola lampada a olio che aveva acquistato alla Bottiglia. «È possibile che più di una di quelle bande abbia già trovato un modo per entrare...». «Comincio a pensare che questo modo di procurarci un Dwaer non riveli più buon senso dell'andare in giro a casaccio per la Valle», sospirò Embra. «Andando di locanda in locanda?» la stuzzicò il procacciatore. «Stando a quanto mi hanno appena raccontato, la tua esibizione è stata profondamente apprezzata in una di esse!». «Craer», ribatté Embra, sbuffando, «credo di aver ucciso meno gente di quanta ne ha abbattuta Hawk, e comunque non nutro nessuna simpatia per chiunque sia abbastanza audace da fare irruzione nelle nostre stanze con la spada in pugno nel cuore della notte!». «Ah, ma è ciò che qualcuno ha fatto», sottolineò compiaciuto il procacciatore. «Mirate: la nostra esca funziona. Quando siamo arrivati, prima che cominciasse il divertimento, nelle stalle ho sentito degli uomini parlare di come avrebbero rimesso a posto le cose in Aglirta, se solo un Dwaer fosse caduto nelle loro mani!». Un arto anteriore peloso che terminava con un crudele artiglio emerse dall'oscurità davanti a Craer, assestandogli un colpo deciso sulla spalla. «Silenzio!» sibilò il procacciatore, girandosi verso Hawkril ed Embra. «Sass non vuole rumore!». Tacquero tutti e tre, e presero ad avanzare con lenta, esitante cautela per quello che parve un tempo interminabile, prima che Sarasper tornasse verso di loro, strisciando i piedi sulla fredda pietra.
«Datemi un mantello», ringhiò il guaritore. «Fa freddo!». «Il fatto che sei nudo potrebbe avere qualcosa a che vedere con questo», gli fece doverosamente notare Craer. «Forse, se scegliessimo qualcuno più giovane perché vada in giro vestito solo della pelle... per esempio Embra...». Con calma, la Dama dei Gioielli gli assestò uno scappellotto su un orecchio. «Che notizie ci sono?» chiese. «Finora, ho trovato sei morti in altrettante trappole scattate», riferì in tono irritato il guaritore, «e almeno altri quattro sono vivi e vaganti. Ce n'erano altri due, ma sono caduti vittime di uno zannelunghe». «Bestie pericolose», convenne Hawkril, inespressivo in volto. «Vuoi che io e Craer si vada a giocare un poco?». Sarasper scosse il capo, mentre batteva i piedi per terra per calzare bene gli stivali. «A poche stanze di distanza da qui s'imbatteranno gli uni negli altri, e poi noi dovremo occuparci soltanto dei superstiti. C'è...». All'improvviso sollevò la mano in un gesto urgente per chiedere silenzio e premette la testa contro un pannello; subito dopo segnalò con un cenno a Hawkril di farsi avanti e mimò con la mano l'atto di conficcare una spada da guerra attraverso il muro. Quando l'armaragor lo raggiunse con aria perplessa, Sarasper guidò la sua lampada verso un punto particolare, lo indicò, attese il cenno d'assenso dell'armaragor e spense la lampada, mentre Craer velava la propria con il mantello. Annuendo, il guaritore tirò allora qualcosa, sulla parete. Una pietra si spostò e Hawkril colpì, torcendo la lama nel ritrarla lungo il pertugio per liberarla dal corpo in cui era penetrata. Prontamente, il guaritore fece tornare il pannello al suo posto, e quando Craer si girò, lasciando nuovamente scoperta la propria lampada, videro che adesso la lama di Hawkril era rossa di sangue per quasi una sessantina di centimetri, a partire dalla punta. «La Casa Silenziosa è davvero un luogo pericoloso», mormorò Sarasper, cupo, mentre segnalava agli altri di seguirlo lungo il passaggio umido. «Sì, è veramente pericoloso, ed è per questo che vieni pagato così tanto! Provvederò a informare i miei padroni del fatto che i Quattro sono nella Casa Silenziosa», affermò con freddezza il mercante dai lineamenti morbidi. «Adesso entra, come sei stato pagato per fare! Oppure nel mio rapporto
dovrò menzionare anche un'esitante codardia?». L'uomo con la guancia segnata da una cicatrice e una spada stretta in pugno rispose con un ringhio inarticolato, che esprimeva più paura che ira, e si abbassò per varcare un'apertura buia in una parete inclinata di un'ala della Casa Silenziosa, mentre il mercante rimase fermo dove si trovava con aria pensosa, l'orecchio teso a cogliere un eventuale urlo proveniente dall'interno, la cui assenza parve quasi deluderlo. Infine, si volse per andarsene, ma riuscì a muovere a stento tre passi prima che una freccia scaturisse ronzando da dietro un vicino albero e lo sollevasse da terra, mandandolo a cadere morto sull'erba con un'espressione stupefatta sul volto e un'asta piumata che gli sporgeva dalla gola. «Un agente di Adeln?» mormorò l'uomo che per primo s'inginocchiò accanto al mercante, per accertarsi che fosse morto. «Di uno dei baroni della parte bassa del fiume», rispose con una scrollata di spalle un altro uomo, accoccolandosi accanto a lui. «Ognuno di essi ha in corso una piccola cospirazione, e la metà di loro non si rende neppure conto che sta facendo il gioco del Serpente. I nostri padroni, se non altro... uhulurrkkhh!». Un bravo strangolatore ha bisogno soltanto di un pezzo di corda incerata e di una posizione comoda da cui utilizzarlo, ma l'uomo che stava agitando inutilmente le mani nel farsi purpureo in volto si stava ancora dibattendo debolmente quando una daga sottile come un ago trapassò il petto dell'individuo mascherato che stringeva la corda e mandò tanto l'assassino quanto la vittima a rotolare sul corpo del mercante. Poi quella stessa lama calò con un movimento fluido sulla faccia di colui che aveva posto la domanda relativa ad Adeln. «Si sta facendo un po' troppo affollato, qui intorno!» commentò al tempo stesso chi impugnava l'arma. «Ecco», ribatté in tono sommesso e minaccioso una nuova voce, mentre un'altra corda per strangolare scivolava intorno al collo dell'uomo con la daga, «non capita tutti i giorni che le leggende prendano vita, e che i Dwaer rotolino fuori dalle storie che i bardi narrano accanto al fuoco per finire in mani impazienti di utilizzarli!». Poi un ennesimo messaggero si allontanò in tutta fretta dal cimitero, diretto a riferire di una nuova cospirazione; nel frattempo, i componenti dell'ultimo gruppo rimasto in vita si scambiarono una cupa occhiata e sgusciarono oltre l'apertura che dava accesso alla Casa Silenziosa, lasciando i corpi stesi sull'erba.
In alto, gli avvoltoi stavano già volando in cerchio. Un pipistrello li adocchiò pensosamente per un momento prima di spiccare il volo da un ramo vicino e di allontanarsi... solo per essere intercettato a mezz'aria da un bagliore argenteo e schiantarsi al suolo senza vita, raggomitolato intorno alla daga che lo aveva trapassato. «I maghi stanno diventando creature davvero persistenti», mormorò il proprietario della mano guantata che si protese a recuperare la daga. «Questo sì che è uno sviluppo inquietante». Con un cupo sorriso, simile a un'ombra silenziosa, l'uomo chiamato Piede di Velluto sgusciò oltre l'apertura nel muro e scomparve nella Casa Silenziosa. Un regicidio poteva fruttare soltanto un compenso prestabilito, mentre impadronirsi dei Dwaerindim... Il denaro dei Delcamper poteva comprare molte cose, a Ragalar: intere strade e le botteghe presenti su di esse, navi per portare le materie prime fino a quelle botteghe e per prelevarne i prodotti finiti da smerciare su moli lontani, la fedeltà degli uomini che svolgevano tutti questi lavori... e i migliori risanamenti che tutti i sacerdoti dei Tre presenti a Ragalar potevano offrire. Di conseguenza, Flaeros Delcamper era ancora aggrappato alla vita, anche se era un sacco di ossa fratturate e avvolte in spesse fasciature, che anche quel giorno giaceva disteso su un letto sottoposto alla massima sorveglianza, lo stesso che reggeva ormai da tempo il suo peso sempre più lieve. La storia della sua audace fuga dai sicari del Serpente, una ventina di armigeri prezzolati e perfino il suo antico tutore, un vecchio menestrello di Ragalar chiamato Baergin, che aveva pagato con la vita il suo tradimento nella confusione seguita alla mischia, era ormai una notizia vecchia a Ragalar. Anzi, essa era diventata parte del folklore cittadino, una delle vicende che costituivano la lunga storia, spesso turbolenta, di quella città, e si trattava di una vicenda resa ancora più bella e interessante dal fatto che in essa era tutto vero, l'improbabile salto da una balconata all'altra, i guerrieri che facevano irruzione nella taverna in pieno giorno con la spada sguainata, decisi a uccidere, le sinistre scariche di magia del Serpente che avevano scaraventato la balconata e il giovane Delcamper in fuga incontro a una spaventosa caduta su un carretto carico di letame e la battaglia magica che era seguita, quando alcuni maghi infuriati che alloggiavano al Leone avevano avviato uno scontro a base di incantesimi con un incappucciato sacerdote del Serpente, finché quest'ultimo non era stato sanguinosamente
fatto a pezzi. Era tutto vero, ogni singola parola. I vecchi sottolineavano questo particolare con una sorta di gioia feroce nel sorseggiare il contenuto dei loro boccali: quella era una storia che non aveva bisogno di essere migliorata nel corso del racconto, che non necessitava neppure di una piccola aggiunta per eccitare gli ascoltatori ogni volta che veniva ripetuta, un parere condiviso anche da quegli stessi anziani zii Delcamper che in passato avevano riso di quel giovane nipote che voleva darsi arie con un'arpa in mano e che adesso stavano spargendo il loro denaro in una dozzina di botteghe e di uffici, correndo rossi in volto per le strade con la spada in pugno per abbattere i guerrieri veterani che avevano osato versare il sangue di un loro parente. Ah, del resto anche i potenti convergevano a proteggere i loro cuccioli. Astalen, il raccoglitore di letame che si era gettato addosso al ragazzo ferito e steso sul letame (o, come asserivano alcuni, era semplicemente inciampato e caduto addosso a Flaeros nell'infuriare per la devastazione subita dal suo carretto), e aveva imprecato rabbiosamente, scuotendo i pugni, contro il sacerdote del Serpente che gli stava scagliando contro oscure magie, adesso era un uomo ricco. I Delcamper pagavano sempre i loro debiti, e per Astalen i giorni passati con i secchi di letame in mano erano finiti: ora aveva ai suoi ordini una dozzina di carretti, e godeva della salda e imperitura amicizia dei Delcamper. Se da un lato era diventato improvvisamente un eroe agli occhi di tutta Ragalar, dall'altro Flaeros Delcamper stava venendo valutato in maniera diversa anche dai suoi parenti, perché quale altra famiglia aveva nel suo seno un ragazzo che era già tanto importante da essere inseguito dai sacerdoti del Serpente e braccato da una ventina di costosi sicari? In privato, alcuni fra i Delcamper più anziani si stavano chiedendo cosa il ragazzo avesse visto, o fatto, per destare quel genere di interesse, ed era per questo che quattro o cinque fra i Delcamper troppo vecchi per passare le loro giornate a lavorare per aumentare le ricchezze del loro clan si erano dati dei turni nell'espletare un nuovo dovere: sedere accanto al ragazzo mentre questi si avviava a una lenta guarigione... lenta perché i sacerdoti avevano fatto tutto quello che potevano, e non ci si poteva fidare di nessun mago per cercare di ottenere di più. Nella stessa luminosa mattinata che aveva visto il ritorno della Banda dei Quattro alla Casa Silenziosa, un bardo di Sirl di media fama si presentò alle porte dei Delcamper, chiedendo di essere ricevuto da Flaeros, e si sottopose là a una sospettosa perquisizione, seguita da incantesimi indagatori
eseguiti su di lui dai pochi maghi alle dipendenze dei Delcamper e da una raffica di secche domande da parte delle matrone dei Delcamper, prima di riuscire a essere ammesso sotto scorta nella parte interna della casa, dove giaceva Flaeros. «Perché sei venuto qui?» fu la brusca domanda che gli venne rivolta dallo zio di guardia lì. Il bardo, un certo Kaulistur Peldratha, un uomo avvenente che cantava con timbro quasi femmineo e che aveva modi calmi e pazienti, deglutì a fatica. «Per... per un atto di rispetto, signore», replicò. «Flaeros Delcamper ha visitato la corte del Re Ridestato e ha parlato personalmente con Re Snowsar. È soltanto giusto che, come uno di noi lo ha aggredito, un altro di noi gli presti aiuto alla maniera dei bardi, portandogli notizie di Aglirta». Lo zio, che aveva continuato a fissare in assoluto silenzio il giovane bardo per un lungo intervallo di tempo pieno di disagio, si limitò ad annuire e a invitarlo a entrare, avviandosi per accompagnarlo. «Rispetto», gli sentì mormorare Kaulistur, in tono soddisfatto, mentre salivano un'ampia scalinata e oltrepassavano le lame incrociate di una guardia dopo l'altra, fino a raggiungere una stanza dove un altro anziano Delcamper sedeva con aria guardinga accanto a un letto, sfoggiando un'espressione accigliata che si accentuò al loro arrivo, ma che infine si dissolse. «Parla liberamente, da un bardo a un altro, come se noi non ci fossimo», ordinò. Con esitazione, in quanto era stato uno di coloro che avevano riso di Flaeros, tanto tempo prima, alla Gargoyle Sussurrante, di fronte alle sue prime, incerte domande su come si poteva partecipare al Raduno, Kaulistur salutò l'uomo pallido disteso sul letto. Vedendosi accogliere con calore ed entusiasmo, tuttavia, affrontò il suo compito con ritrovata disinvoltura, parlando in modo schietto e colorito, senza notare la frequenza con cui i due vecchi, ora alle sue spalle, sorridevano, inarcavano le sopracciglia o si accigliavano, mentre lui descriveva i nuovi eventi verificatisi in Aglirta. Kaulistur parlò dell'insorgere in armi di un barone traditore dopo l'altro, e riferì delle ultime imprese della Banda dei Quattro in connessione ai leggendari Dwaerindim, fino a quando Flaeros, in preda a una selvaggia e crescente eccitazione, prese a imprecare contro le ferite che lo costringevano a letto in un momento come quello. Con un improvviso singhiozzo di dolore e di fatica, l'uomo pallido ed
emaciato che giaceva sul letto lottò per districarsi dalle coltri e posò a terra un piede magro e peloso. «Devo andare là!» esclamò, con una voce che poteva sembrare al contempo un ringhio o un gemito, aggrappandosi allo stupefatto Kaulistur in cerca di sostegno. «Devo...». Poi i grandi occhi scuri si rovesciarono all'indietro nel volto sudato, e Flaeros Delcamper crollò al suolo, trascinando con sé nella caduta anche il suo visitatore. «Miei signori!» esclamò frenetico Kaulistur, mentre i due vecchi e le guardie armate di spada gli si chiudevano intorno come avvoltoi. «Non gli ho fatto nulla! Non avevo cattive intenzioni! Io...». «Calmati, ragazzo», scattò uno degli zii Delcamper. «Lo sappiamo! Ad abbatterlo è stata la sofferenza che quello sciocco si è inflitto da solo, cercando di camminare su ossa non ancora guarite». Mentre veniva accompagnato verso una lucente foresta di bottiglie in attesa, dove lo stesso zio lo invitò burberamente a placare la sete dopo aver tanto parlato, Kaulistur Peldratha si gettò un'occhiata alle spalle, spingendo lo sguardo al di là delle vigili guardie dall'espressione dura, e vide che l'altro zio Delcamper stava riadagiando Flaeros sul letto con un'attenzione e una delicatezza infinite, attorniato da una folla di preti e di guardie. Poi anche quello zio venne a raggiungerli vicino alle bottiglie, prendendone per il collo una piuttosto grossa e ignorando con disprezzo i boccali a disposizione. «Il ragazzo è un vero bardo, la sua non è soltanto una posa eccentrica», commentò brusco. «Finalmente i Delcamper hanno in famiglia un autentico cantore». 22. Quando la magia si dissolve Sotto quello stesso sole intenso, un uomo stava percorrendo i corridoi del Castello della Corrente Spumosa, e non era contento mentre procedeva a passo spedito, senza incontrare opposizione e venendo spesso salutato, in quanto era l'uomo che in Aglirta veniva chiamato il «Re Ridestato». Amava la Valle, ogni suo albero e cespuglio e ogni singola curva del Fiumargento, ma non gli piaceva affatto ciò che gli uomini di Aglirta erano diventati: durante il suo lungo Sonno, quella terra era andata in rovina, divenendo un'accozzaglia di baronie in guerra fra loro, governate da baro-
ni, duri o decadenti che fossero, tutti falsi e ingannatori. E a quella rovina non era certo stato posto rimedio. Dopo chilometri di lucidi pavimenti piastrellati, di colonne, di echeggianti soffitti a volta e di servitori che distoglievano con discrezione lo sguardo, Kelgrael Snowsar si appoggiò infine al davanzale di un'alta finestra costruita da uno dei più crudeli fra tutti i baroni, lasciò vagare lo sguardo sull'infinito scintillare argenteo dell'ampio fiume e sospirò. Attualmente, il regno era ancora in pratica nelle stesse condizioni in cui l'aveva trovato al suo Risveglio, con il suo potere che si estendeva soltanto fin dove potevano arrivare il suo sguardo e la sua mano, ma i giorni a venire avevano in serbo cose molto peggiori per Aglirta di quelle che si erano verificate dal suo Risveglio. La sua bella Valle stava per essere fatta a pezzi dalla guerra, e lui era impotente a difenderla. Questo significava morte, non tanto per i baroni e per quanti erano abbastanza ricchi da potersi imbarcare su una nave in partenza da Sirlptar, ma soprattutto per i contadini, i carrettieri, i bottegai e tutte le altre persone oneste della Valle, allegre o brontolone che fossero, quelle che recavano sulle loro spalle il peso del regno. Esse erano Aglirta, tutto ciò che Kelgrael faceva, indipendentemente da quali grandi incantesimi fossero stati operati tanto tempo prima per ungerlo re, confermarlo tale e permettergli di rendere magiche le spade e altre armi, perché facessero di più nelle sue mani che in quelle di altri, era per loro e non aveva nessuno scopo se non serviva a difenderle, aiutarle o migliorare il loro tenore di vita. Sospirando, Kelgrael confidò alla brezza di passaggio di essere stanco fino alla nausea dei baroni e di quanti erano impazienti di diventare tali o addirittura di diventare re, al punto che avrebbero ucciso perfino la madre e ne avrebbero calpestato il corpo ancora caldo per meglio conseguire la meta desiderata. Intorno a lui, la corte era praticamente deserta, perché tutti sapevano cosa stava per succedere, dato che alcuni baroni stavano addirittura ordinando apertamente stendardi di guerra nelle botteghe di Sirlptar. La maggior parte dei cortigiani adulatori era quindi fuggita da Aglirta, oppure era andata a difendere le proprie tenute o a unirsi a qualche cospirazione in tempo per figurare come fedele alleato nel giorno in cui la vittoria sarebbe sicuramente giunta. Kelgrael si concesse un cupo sorriso. Pareva quasi un peccato che quella vittoria potesse andare a una soltanto di quelle cospirazioni. Se in qualche modo fosse vissuto abbastanza a lungo da assistere a quell'evento, sarebbe
stato interessante e fonte di amaro divertimento vedere quanto tempo avrebbe impiegato quella cospirazione vittoriosa ad autodistruggersi, fino a lasciare in vita un solo traditore del regno che si sarebbe proclamato re. E dietro a tutti quanti, a ogni potente mago, ambizioso tersept e arrogante barone, per ora ancora silenziosa, ma propensa a mostrarsi con frequenza sempre maggiore, c'era la più oscura e strisciante ombra del Serpente. Un Serpente che si stava Ridestando perché il re si era Ridestato. Un suono infinitesimale che risuonò dietro di lui indusse Kelgrael Snowsar a volgere le spalle alla finestra con le labbra contratte in una linea cupa e a estrarre la spada prima ancora che la figura sbucasse da dietro gli arazzi per attaccarlo. I cortigiani che erano rimasti sull'Isola della Corrente Spumosa parevano fare cortesemente a turno nell'aggredirlo, tanto che appena il giorno prima la sua spada aveva versato il sangue di sei di essi. Se mai avessero deciso di assalirlo tutti insieme... Era una cosa a cui era meglio non pensare, non mentre un uomo che indossava un'armatura completa, adorna di ricchi fregi intagliati secondo lo stile di Urngallond, ma priva di qualsiasi stemma, un uomo anonimo dietro la visiera abbassata dell'elmo, stava avanzando con passo sicuro verso di lui con una spada in una mano e un lungo coltello nell'altra, deciso a commettere un regicidio. «Non è per questo che mi sono Ridestato», annunciò Kelgrael Snowsar, in tono quasi cordiale, sollevando la spada e spostandosi sulla destra con una fluidità e una grazia più consoni a un danzatore che a un sovrano. «Sono troppi quelli che sembrano volermi morto». Al contrario degli altri, questo aggressore non replicò in nessun modo. La sua spada scattò in avanti con una rapidità vertiginosa, cercando di insinuarsi al di sopra di quella del re e di trapassargli il fianco destro, e nel parare Snowsar lasciò il proprio bacino indifeso contro il coltello, che calò repentino verso il basso. La sua punta colpì un'armatura invisibile e scivolò di lato fra una pioggia di scintille, mentre Kelgrael rivolgeva all'assalitore un feroce sorriso e si abbassava improvvisamente, scattando in avanti per afferrare il polso della mano che reggeva il coltello, applicando poi una torsione mentre entrambi cadevano al suolo. Quel movimento impresse al coltello tutto il peso del corpo di Kelgrael e l'impeto della sua caduta, spingendolo verso l'alto e mandandolo a conficcarsi fra la protezione per i fianchi e il sovrastante gonnellino corazzato
dell'assalitore, dove esso penetrò in profondità nell'inguine, attraversando il cuoio come se fosse stato seta. Un fievole urlo scaturì da sotto la visiera ancora prima che il sangue prendesse a fiottare, caldo. Il re rotolò lontano, si rialzò in piedi e in un unico movimento conficcò la punta della spada fra la gorgiera e la base dell'elmo dell'aspirante assassino. Scaturì altro sangue, e la forma in armatura si accasciò inerte. Adesso si sentiva un fragore che si stava avvicinando lungo gli immensi corridoi del Castello della Corrente Spumosa, prodotto dal martellare degli stivali delle numerose guardie che stavano accorrendo sul posto. Senza badare a loro, il re si chinò invece a strappare la visiera al suo assalitore. Sotto di essa non c'era un volto, ma quello che stava vedendo non era neppure uno dei leggendari Senzafaccia; invece un paio di occhi si affacciavano in modo assurdo da un teschio rivestito da carne che pareva essersi sciolta come la cera di una candela. A quella vista, le guardie imprecarono sussultando, e una di esse si sentì addirittura male, ma Re Snowsar non disse loro nulla. Rivolta al corpo un'ultima occhiata accigliata, lasciò le guardie alle prese con il cadavere e si allontanò, imboccando passaggi segreti che attraversavano la vasta distesa del castello, fino a raggiungere la camera nascosta dove in passato si era incontrato con i fedeli Quattro che lo avevano ridestato. Là estrasse un piccolo cilindro d'oro da dietro l'ampia fibbia della sua cintura, ne ruotò la sommità a forma di testa di unicorno e con il bastoncino di lucida argilla così messo a nudo tracciò determinati simboli sulle fessure delle porte, delle imposte e degli eleganti pannelli mobili che era possibile aprire lungo le pareti. Quei simboli erano pervasi di una luminosità che svanì solo gradualmente, mentre il re dedicava una particolare attenzione ai segni tracciati su un pannello che poteva diventare una finestra. Per ultimo, Kelgrael Snowsar disegnò altri simboli sul pavimento, e salì su una sedia per fare altrettanto con il soffitto. Quando ritenne che la stanza fosse adeguatamente protetta, tracciò nell'aria un gesto che avrebbe sorpreso molti maghi, poi si slacciò la cintura della spada, le protezioni di filigrana che portava ai polsi, e si sfilò un pendente dal collo. Quando lo lasciò andare, ciascuno di quegli oggetti prese a fluttuare lentamente verso l'alto per poi rimanere sospeso nell'aria più o meno allo stesso livello a cui lui aveva fatto il gesto precedente, e cioè all'altezza del petto di un uomo alto. Nell'Aglirta del presente c'erano pochissime persone che avevano un'i-
dea anche soltanto vaga di cosa fosse realmente Kelgrael Snowsar. Ciò che la maggior parte dei cortigiani vedeva era un alto ed eroico guerriero con una corona sulla testa, leale, nobile e naturalmente un po' stupido e ingenuo. In reazione a quel pensiero, Kelgrael rivolse alla stanza circostante un amaro sorriso, e continuò a slacciare e sfilare oggetti che aveva indosso. Non si stava spogliando, piuttosto si stava liberando della quantità di piccole cose magiche che aveva addosso, dalle daghe infilate negli stivali all'anello che poteva evocare uno scudo invisibile che lo proteggesse dalle lame, alla Giarrettiera del Lento Risanamento, identica a quella che ogni membro della corte di Aglirta aveva avuto indosso, molto tempo prima. Nello slacciarla da intorno alla coscia destra, avvertì il contatto dell'aria fredda con i fianchi nudi, e si stava abbassando per tirare nuovamente su i calzoni quando si ricordò di un ultimo oggetto, portato indosso da tanto tempo che ormai si dimenticava spesso della sua presenza. Si trattava di un laccio di cuoio portafortuna, passato intorno ai fianchi come una cintura, che terminava con due perline per impedire che le estremità si consumassero e che era disseminato in tutta la sua lunghezza di molti nodi intricati. Nello sfilarselo di dosso con cura, ripensò alle mani da tempo morte che avevano fatto quei nodi e mormorato consigli impartiti molto, moltissimo tempo prima. Non voleva fare tutto questo, non voleva che Aglirta gli venisse tolta di nuovo, spazzata via in una lunga oscurità fluttuante che avrebbe potuto non abbandonare mai più la sua presa su di lui. Non sarebbe stato meglio cadere lottando, tentare almeno di combattere per la terra che amava? Battersi, invece di fuggire a nascondersi? Anche se avesse fallito e fosse morto, Darsar non finiva forse di esistere per ogni uomo, con la morte? Una volta che la sua vita fosse finita, perché avrebbe dovuto importargli se le fiamme si fossero levate, le mura fossero crollate, il sangue avesse preso a scorrere e le bestie selvatiche avessero divorato i corpi dei caduti? No. Lo avrebbe saputo, sarebbe stato consapevole di quello che aveva fatto ad Aglirta, esclusivamente per orgoglio. Gli dei avrebbero fatto in modo che così fosse, e per di più non ci sarebbe stato il Sonno, non avrebbe mai più avuto una possibilità, per quanto esigua, di ridestarsi in una terra più serena. Doveva farlo. Lo avrebbe fatto. Quando fu nuovamente vestito, e alleggerito di una quantità di cose, comprese le gemme luminose nascoste nei tacchi cavi degli stivali, Kel-
grael cominciò a sciogliere i nodi del laccio: nell'aprirsi, ciascuno di essi generò una sua piccola e vorticante nuvola di luci, un pulviscolo magico che nel dissolversi si lasciava alle spalle l'oggetto incantato, da lungo tempo nascosto, che stava facendo apparire lì da un altro luogo: scrigni e caraffe, statuette e bracciali, scettri e boccali, ciotole e lampade, tutti di piccole dimensioni e di splendida fattura, andarono ad aggiungersi alla schiera di oggetti fluttuanti che ormai riempiva quasi completamente un'estremità della camera. Per ultima, il Re Ridestato estrasse una minuscola daga dal tacco di uno stivale, la sola lama in suo possesso che non recasse nessuna magia, e la usò per praticarsi un taglietto sul palmo di una mano. Con il sangue che sgorgava, afferrò il laccio in modo che le perline fossero premute una contro l'altra e le strinse fra le mani per farle entrare in contatto con il proprio sangue, mormorando tre parole. La magia si sviluppò in silenzio, e non richiese molto tempo. Mentre il laccio si dissolveva, un libro si materializzò al di sopra delle mani ora aperte di Kelgrael: si trattava di un piccolo volume, rilegato con lucide piastre di dente di drago bordate in verargento, le pagine formate da lastre di un sottile metallo di una lucentezza azzurrina, incise e stampate con caratteri che componevano sei potenti incantesimi. Attualmente, gli serviva uno soltanto di essi. L'Ultimo Snowsar trasse un profondo respiro, allargò le mani con un gesto elaborato che indusse il libro a sfogliarsi fino ad arrivare a una pagina in particolare, rimanendo aperto su di essa, e pronunciò le parole, ben nitide nella sua memoria, con cui cominciava il rito che lo avrebbe fatto sprofondare di nuovo nel Sonno. «Lorth aladroes», scandì, rivolto al soffitto. «Ammanath kuleera». Quella lingua poteva essere considerata antica prima ancora che la creazione di Aglirta fosse anche solo concepita, e modellava incantesimi forgiati in una terra da tempo scomparsa, Davalaum dei maghi, ma le sue parole trasformavano una magia in un'altra e avrebbero piegato la natura del mondo alla sua volontà, permettendogli di far ripiombare se stesso nel suo lungo Sonno e di trascinare con sé anche il Serpente, vincolando nuovamente entrambi in un altro luogo, in modo da lasciare Aglirta libera dalla presenza di entrambi. Poteva soltanto rendere grazie ai Tre per il fatto che il Serpente era lento a emergere dal suo torpore, altrimenti non sarebbe forse mai riuscito nel suo intento. Anche così, non sarebbe stata una cosa facile, perché il Rito Profondo, o
Chiamata al Sonno, assorbiva la magia in quantità massicce. Se applicato a qualcuno che non vi si sottoponeva spontaneamente, esso richiedeva interi castelli pieni di oggetti incantati per poter essere portato a termine con successo, e quando lui lo aveva eseguito su se stesso per la prima volta, più di una dozzina di maghi potenti aveva eseguito incantesimi da cui esso potesse alimentarsi. Adesso però non conosceva un singolo mago di cui potesse fidarsi, tranne forse una particolare maga che aveva mandato lontano, a vagare per il regno in modo che gli facesse da scudo e distraesse l'attenzione dei suoi nemici, mentre insieme ai suoi compagni andava incontro alla morte... o riusciva a portare a termine un incarico quasi impossibile. Considerato il misero controllo della magia che gli uomini avevano nell'odierno Darsar, infatti, i Dwaerindim erano il solo altro mezzo a lui noto con cui avrebbe potuto abbattere il Serpente. Peraltro, dopo tutto Lady Embra era una Silvertree. Forse, se si fosse trovata lì con lui in quella camera isolata dagli incantesimi e piena di tanta magia, avrebbe tentato di ucciderlo e di impadronirsi lei stessa del trono. Kelgrael si chiese se sarebbe stato disposto a cederglielo, qualora lei glielo avesse chiesto, invece di tentare di prenderlo con la forza. Un atto del genere avrebbe significato rinunciare alla sua stessa vita, ma... lo avrebbe fatto? Non rivedere mai più il Fiumargento, non sentire mai più il vento che stormiva fra gli alberi, lungo la Valle... Poi arrivò al punto in cui doveva leggere ad alta voce il contenuto del libro di incantesimi e si costrinse ad accantonare quei pensieri. «Ammador», scandì con voce nitida, e una caraffa che fluttuava a pochi centimetri dal suo naso si dissolse in una voluta di fumo, cessando di esistere. «Thalpurtim», aggiunse, e vide una coroncina farsi polvere e svanire nel nulla. «Haladreeos», lesse quindi, e una ciotola scomparve per sempre. Non per la prima volta, il re si chiese se aveva a disposizione una quantità di magia sufficiente a portare a termine il rito. Presto, il Serpente avrebbe percepito il suo operato, avrebbe capito cosa lui stava facendo e sarebbe stato in grado di manifestarsi in quella stanza, il luogo della Chiamata... «Marindra», proseguì, consapevole che quello era il nome di una maga che, innumerevoli secoli prima, aveva dato la vita per la creazione di quel rito, quando maghi che lui non aveva mai conosciuto avevano unito i loro sforzi per forgiare un incantesimo in grado di trasferire altrove il loro corpo insieme a quello di un'entità di loro scelta, vincolandoli insieme e rimuovendoli da un luogo e un'epoca pericolosi per farli sprofondare in un
Sonno che sarebbe finito soltanto quando qualcun altro li avesse liberati. La spada di Kelgrael si ammantò di una fiamma improvvisa che si mutò in una voluta di fumo, mentre le ceneri del fodero cadevano nel vuoto. Adesso la stanza si stava facendo più oscura, e gli angoli più lontani da lui, e dalla finestra sigillata, si stavano riempiendo della presenza del Serpente. Esso era una bestia immensa, di gran lunga troppo grande per poter materializzare anche solo la testa in quella camera... ma per ucciderlo e infrangere la sua magia gli sarebbe bastato insinuare in esso la punta velenosa della sua lingua biforcuta, un pallido nastro rosato di carne morbida ma tagliente come una lama, che Kelgrael ricordava essere larga quanto lui era alto, e più rapida nel protendersi saettante di quanto lui fosse mai riuscito a esserlo. La sola cosa che poteva fare era proseguire. «Hamdaereth», disse con calma, un momento prima che uno schianto soffocato giungesse da un punto imprecisato, oltre il muro alla sua sinistra. «Tessyre», lesse in tono asciutto, scandendo il nome di una maga dai capelli rosso fiamma che ne rispecchiavano il carattere focoso, una maga che (se si poteva credere a bardi da tempo ridotti in polvere) forse era ancora viva ed era immersa a sua volta nel Sonno, se si poteva davvero prestare fede a quelle ballate. Intanto, un secondo schianto precedette una successione di colpi pesanti, come se qualcuno stesse usando un'ascia su qualcosa che era sul punto di cedere, come annunciò un nuovo fragore di legno che si frantumava. Quasi immediatamente il suono tornò a ripetersi per la terza volta, molto più forte, e alcune schegge si protesero nella stanza da uno dei pannelli posti nell'angolo più buio. «Halan darammareth sooloun trae crommandar», proseguì il re, senza neppure prendersi il disturbo di lanciare una singola occhiata alla lucida punta dell'ascia che stava allargando il buco. Adesso, altri tonfi e schianti stavano giungendo da diversi punti delle pareti, tanto da far tremare la stanza, e lui aveva ancora più di una pagina da leggere. Poi quel primo pannello volò nella stanza in una nuvola di schegge, sotto l'impatto del pugno rivestito di cotta di maglia di un uomo in armatura, la cui visiera sollevata mostrava al mondo un volto simile a cera sciolta. Il Fuso cercò invano di strappare con le mani il legno circostante il pannello, e infine si trasse indietro per riprendere a colpire con l'ascia la parte di esso che ancora gli intralciava il passo. Altrove, un secondo pannello cedette con uno schianto assordante quan-
to un tuono, e un terzo cadde in avanti nella stanza, rivelando un altro Fuso dietro di esso. Adesso tutt'intorno alla stanza le pareti di legno stavano gemendo per gli attacchi a cui erano sottoposte dall'esterno, ma Kelgrael continuò a leggere con cupa determinazione, senza sollevare lo sguardo sui busti coperti di armatura che si stavano protendendo all'interno della camera e guardando invece verso la collezione sempre più scarsa di oggetti magici fluttuanti. Un cofanetto si dissolse, poi fu la volta di un'arpa. Non sarebbero bastati... Una porta si spalancò con violenza e due pannelli crollarono contemporaneamente, poi gli uomini con la faccia sciolta entrarono nella stanza, la spada in pugno. Adesso gli oggetti fluttuanti erano ridotti a cinque... anzi, ora erano quattro, e per la prima volta il Re Ridestato cominciò a parlare più in fretta, in tono uniforme e con lo sguardo fisso sulla pagina per evitare errori, sperando contro ogni speranza e cercando di arrivare fino in fondo... Un'altra porta si spalancò con violenza, così vicina che Kelgrael avvertì sull'orecchio la corrente fredda generata dal suo movimento. Prima però che lui potesse anche solo provare disperazione, qualcuno lo oltrepassò a precipizio, abbassandosi per passare sotto gli oggetti fluttuanti e stringendo una lama sottile in ciascuna mano; mentre una seconda figura faceva seguito alla prima, quelle lame affondarono nel petto e nel ventre di un Fuso, che barcollò e lasciò cadere, o forse cercò debolmente di lanciare, la spada, crollando al suolo. Kelgrael continuò a leggere. Ora i nuovi arrivati stavano dilagando nella stanza in un flusso costante e silenzioso, mentre i primi fra essi incrociavano già la spada con i Fusi e ombre coperte di scaglie ribollivano intorno a loro, ritraendosi dal punto in cui un uomo aveva tolto la schermatura a una lampada e accostato la sua fiamma a una fusciacca. Quell'uomo non aveva faccia, ma neppure la sua carne appariva sciolta; invece, il suo volto privo di lineamenti stava fissando attentamente Snowsar, pur essendo privo di occhi. Non appena la fusciacca prese fuoco, con un bagliore intenso, i contorni ombrosi della lingua del Serpente si fecero più scuri e meno distinti nel ritrarsi davanti a essa. Da un altro angolo della stanza, una sfera di fuoco solcò l'aria, schizzando ogni cosa, e un Senzafaccia barcollò all'indietro, mutilato e agonizzante, in conseguenza dell'esplosione del Fuso contro cui stava combattendo. Serrando la mascella con cupa determinazione, Kelgrael Snowsar lesse la parola che avrebbe fatto svanire l'ultimo oggetto magico a sua disposizione...
In mezzo alla confusa rissa di ombre coperte di scaglie e di uomini che lottavano, uno dei Senzafaccia si girò verso di lui e lanciò in aria una manciata di oggetti scintillanti... due pesanti candelabri, quello che sembrava un pungolo per il bestiame, una piccola scatola che aveva per coperchio un'enorme gemma rosata e una catenella adorna di pendagli che era probabilmente stata la cavigliera di qualcuno. Snowsar proseguì la lettura senza interrompersi per sospirare di sollievo, e continuò anche quando un altro Fuso esplose con un suono umido dall'altra parte della stanza, e poi un altro ancora lo imitò. Adesso tutto era coperto di sangue appiccicoso, Fusi e Koglaur stavano combattendo tutt'intorno a lui, scivolando e colpendo con frenesia brutale, mentre altri oggetti magici venivano estratti dalle cinture, dalle vesti e dagli stivali dei Senzafaccia per essere lanciati in aria, dove prontamente si riducevano a nuvole di scintille. Il tuono azzurro che lui aveva già percepito una volta cominciò a formarsi sotto gli stivali di Kelgrael Snowsar prima ancora che lui leggesse l'ultima parola e vedesse l'ultimo oggetto magico dissolversi in un vortice di minuscoli punti di luce, cancellando ogni disperazione. Kelgrael scoppiò a ridere. Quando la luce azzurra si levò ad avvolgere il re, facendosi più scura e densa fino a somigliare a un cielo notturno punteggiato di stelle, la lingua biforcuta del Serpente era ancora una presenza fumosa e inconsistente nell'angolo più buio e remoto della stanza in cui gli uomini continuavano a duellare e a cadere. Adesso Kelgrael stava fluttuando nell'aria, prossimo a sprofondare in un silenzio nel quale non c'erano Serpenti, o uomini dalla faccia disciolta o utili Koglaur, ma soltanto il lungo Sonno. Ancora addio, Aglirta, fino alla prossima volta in cui, ai Tre piacendo, potrò rivederti. In silenzio, senza ulteriore confusione, Re Kelgrael Snowsar si dissolse. 23. Menzogne, morte e altre certezze Mentre le affibbiavano addosso l'armatura, Embra sospirò. «Preoccupata a causa della Maledizione dei Silvertree, Em?» chiese con gentilezza Craer, impegnato a stringere cinghie, assestare e spostare piastre, le costole di lei simili a gradini vellutati sotto i suoi pollici.
Occhi decisamente azzurri incontrarono con freddezza il suo sguardo. «Un poco», replicò Embra, «ma mi preoccupa di più il fatto che stiamo sprecando qui il nostro tempo, esponendoci al pericolo di affrontare le lame di fuorilegge, sicari prezzolati e guardie impazienti di conquistarsi una fortuna, mentre chiunque possiede effettivamente un Dwaer se ne resta al sicuro lontano dalla mischia, mandandoci contro questi ratti». Sarasper scrollò le spalle, nella misura in cui questo era possibile per uno zannelunghe. «È un rischio che dobbiamo correre, almeno finché uno di noi non riuscirà a elaborare un piano migliore», ribatté Hawkril. La maga sussultò quando una fibbia che non era fatta per il suo fisico le affondò in un fianco, e le dita dell'armaragor s'immobilizzarono sulla gorgiera che stavano posizionando. «Tutto a posto, Em?». «Lo sarà se Craer imparerà a tenere le mani sulle fibbie», replicò la maga. Hawkril lanciò un'occhiata tagliente all'amico, che sorrise e allargò le mani in un gesto innocente. «È colpa mia se nulla di tutto questo le calza a dovere?» chiese, in generale. «I Silvertree non si aspettavano che le loro figlie indossassero l'armatura, e a quanto pare avevano tutti figli grossi e robusti». «Non guardare verso di me», borbottò Hawkril. «Neppure io ho potuto scegliere le mie dimensioni. Se non altro, questa nuova armatura mi calza addosso abbastanza bene». La Banda dei Quattro aveva già combattuto contro almeno sei intrusi che erano penetrati nelle stanze buie e polverose della Casa Silenziosa, e ne aveva uccisi cinque. Quanto al sesto, era fuggito troppo in fretta e troppo lontano perché gli potessero dare comodamente la caccia, senza contare che avevano sentito altre persone muoversi in camere più remote. Un coltello da lancio aveva lacerato il braccio di Embra dal polso al gomito, e una stanza più tardi, dopo che lei si era salvata la gola da un disperato fendente, esponendo invece il seno alla lama, Hawkril l'aveva trasportata con cupa determinazione attraverso una serie sconcertante di passaggi secondari, in un caso scavalcando un massiccio blocco di pietra caduto sotto il quale si andava allargando una sempre più vasta polla di. sangue, fino a raggiungere una sorta di armeria di cui Sarasper conosceva la posizione, deciso a chiuderla in un'armatura prima che potesse accaderle il peggio. «Adesso non stiamo combattendo contro assonnati ubriaconi in una ta-
verna», aveva borbottato, spostando Embra di qua e di là prendendola per i fianchi, come se fosse stata una bambola. «Chiunque ci troveremo ad affrontare sarà in gamba o disperato... o entrambe le cose». «A sentirti, la fai apparire una prospettiva davvero invitante», aveva ribattuto Craer, mentre procedeva con calma ad appropriarsi di una successione di daghe dei Silvertree, infilando i loro marci foderi di cuoio un po' dappertutto sulla propria persona. Quando Embra gli aveva ingiunto in tono secco di lasciarle almeno qualcuna delle sue proprietà ancestrali, il procacciatore le aveva rivolto un disarmante sorriso dall'alto di un guardaroba su cui era appollaiato e aveva cominciato a prelevare una miriade di piccoli oggetti dai punti in cui li aveva nascosti nel proprio vestiario, lasciandoli cadere con noncuranza dentro la sommità aperta della corazza che Hawkril le aveva già affibbiato intorno al torace: si trattava di altre statuette, saliere, piattini e tappi per caraffa permeati di magia, che le erano rimbalzati tutti dolorosamente sul seno prima di rotolare in un assortimento di scomodi alloggiamenti fra il suo corpo e l'armatura a cui non era abituata. Le proteste rabbiose di Embra non erano riuscite a soffocare del tutto le risate di Hawkril e gli sbuffi divertiti di Sarasper, derivanti a quanto pareva dall'espressione da lei assunta mentre era sottoposta a quel pigro martellamento da parte di Craer. L'armatura era pesante e la faceva sentire accaldata, per quanto lei avesse insistito per non indossare almeno metà dell'imbottitura che Hawk sosteneva essere essenziale; lui l'aveva avvertita che i bordi di metallo avrebbero potuto ferirla mentre si muoveva o se l'armatura avesse incassato dei colpi, ma comunque gran parte dell'imbottitura di cuoio si era ridotta in polvere, nonostante gli incantesimi da cui era protetta, e ciò che ne era rimasto era ben poco, per cui adesso Embra era avvolta da un'armatura echeggiante e troppo grande, che avrebbe forse potuto proteggerla dal rimanere uccisa in un attacco che avesse colto alla sprovvista lei e i suoi compagni: a quanto pareva, infatti, i cacciatori di Dwaer adoravano scagliare coltelli. Anche Hawkril si era procurato una nuova e migliore armatura, e appariva felice come un ragazzo che avesse ricevuto un giocattolo; sospirando, Embra pensò che probabilmente quello era esattamente ciò che lui era. «E se dovessi eseguire in fretta qualche incantesimo?» domandò. «Tutta questa ferraglia mi sarebbe d'intralcio, e...». «Sarasper mi ha avvertito di questo», disse Craer, lanciandole un'occhiata per poi accennare alla massa minacciosa dello zannelunghe. «Non farlo.
Semplicemente, non farlo. Fuoco e fulmini rimbalzerebbero contro l'armatura e finirebbero per danneggiare in pari misura te e il nemico contro cui dovessi scagliarli. Quanto al resto... usalo solo se proprio ci sarai costretta». «Questa mossa non è poi saggia quanto sembrava», sospirò Embra. «Siamo proprio splendidi esemplari di Eroi del Re». «Non mi pare che lui avesse a disposizione molti fedeli Aglirtiani fra cui scegliere», ringhiò Hawkril, girandosi improvvisamente a guardarli. «Noi però abbiamo accettato, e adesso Craer e io ci troviamo in una posizione molto migliore di quando stavamo a esitare sulla riva del Fiumargento, adocchiando la sua corrente gelida e chiedendoci come avremmo fatto a rubare uno dei tuoi abiti». «Quella notte mi avete permesso di conquistare la libertà, e da allora mi avete aiutata a sopravvivere a tutto ciò che i Tre Oscuri di mio padre hanno saputo scagliarci contro», sorrise Embra, poi s'infilò l'elmo privo di visiera che Hawkril aveva insistito per farle indossare e mosse qualche passo a titolo di esperimento, guardando a destra e a sinistra, per girarsi infine a fissare i compagni con le mani piantate sui fianchi, mormorando: «Quando tutto questo sarà finito, potrete avere tutti quegli abiti, fino all'ultimo». «E tu andrai in giro nuda?» chiese Craer in tono speranzoso, ben sapendo di essere fuori dalla portata di uno schiaffo inferto con un guanto ferrato. «Signori», ribatté la Dama dei Gioielli, in tono mielato, rivolta all'armaragor e allo zannelunghe, «è assolutamente imperativo che un certo piccolo ladruncolo troppo astuto presente fra noi continui a sopravvivere? E se sì, è ammissibile che possa riportare qualche... ah... qualche lieve danno di guerra?». «La risposta all'ultima domanda è sì», ringhiò una voce sconosciuta che proveniva dall'oscurità, in fondo al passaggio, poi si sentì lo scatto di una balestra. Un momento più tardi, la quadrella da essa scagliata rimbalzò contro un muro e si ridusse in frammenti nel cadere al suolo. Craer intanto era già entrato in azione, rotolando di tavolo in tavolo nel venire avanti. «Ecco», ribatté allegro, «non so proprio che sorta di figura presenterei, sfoggiando lievi danni di guerra e indossando un'infinita successione di abiti fatti per una bella dama alta il doppio di me. Un completo di seta nera, invece...». «Attento, Dita Lunghe!» scattò Hawkril, nel calcarsi un elmo in testa
prima di avanzare con passo pesante, snudando la spada. «Ce ne sono altri!». «Non più», lo corresse Embra con un sussulto, mentre lo zannelunghe attaccato al soffitto strappava un'ultima testa dalle spalle a cui era attaccata, una balestra scagliava la sua quadrella alla cieca nel passaggio buio che portava fuori dall'armeria e i loro assalitori venivano ridotti a un mucchio sanguinante di braccia, gambe e teste dallo sguardo vacuo e fisso. Arrestandosi, Hawkril agitò la spada in direzione dello zannelunghe. «Un lavoro svelto e pulito», grugnì, prima di inginocchiarsi accanto ai corpi per esaminare facce e armature. «Gente di Adeln», aggiunse un momento più tardi, nell'aprire il davanti di una tunica. «Una banda di guerra, scelta personalmente dal barone, direi». Rotolando un'ultima volta su se stesso, Craer si arrestò in ginocchio accanto all'armaragor. «E hai ragione», commentò. Per abitudine, scrutò quindi l'oscurità del passaggio, e nel non scorgere traccia di altri nemici, aggiunse: «Pare che attualmente i Dwaer siano molto popolari nella Valle». «Per gli dei», protestò Embra. «Come fanno gli armaragor a indossare tutta questa roba? Sono fradicia di sudore!». Hawk e Craer sollevarono lo sguardo su di lei. «E così», mormorò il procacciatore, «i bravi eroi avanzarono verso la gloria uccidendo tutti coloro che gli si pararono contro nella loro astuta trappola nella Casa che era stata il palazzo dei Silvertree in ere passate. Sì, tutte le forze più malvagie di Aglirta si schierarono contro di loro in battaglia e molto sangue venne versato, e per tutto questo tempo, lo si gridi dai bastioni, Lady Embra si sentì accaldata! No, sudata!». «Avevo parlato di "lievi danni di guerra"?» ribatté Embra, passando le mani guantate di cotta di maglia intorno al collo del procacciatore. «Temo di essermi sbagliata...». Una zampa coperta di pelliccia rossa le colpì la spalla con forza sufficiente a farla barcollare all'indietro e a farla crollare seduta sul pavimento di pietra. Contemporaneamente, Hawk sollevò la spada davanti alla faccia nel rotolare da un lato, e Craer si tuffò a faccia in avanti in mezzo ai cadaveri, e fu così che la scintillante esplosione di schegge d'osso investì soltanto lo zannelunghe, che si stava spostando in avanti lungo il soffitto, gli artigli protesi e la testa bassa, al riparo. Ruggendo di dolore, esso si scagliò contro la fonte della devastante magia delle ossa.
Il sacerdote del Serpente in piedi nell'oscurità sottostante commise il fatale errore di pensare che una creatura tanto grossa e pesante non potesse spiccare un balzo abbastanza lungo da raggiungerlo, e stava ancora sibilando il suo incantesimo successivo quando un peloso arto anteriore gli strappò la mascella e scagliò il suo corpo per terra, dove il resto dello zannelunghe gli piombò addosso, schiacciandolo come un frutto troppo maturo. Il prete non si era avventurato nella Casa Silenziosa da solo. Una sacerdotessa di rango inferiore, o forse la sua amante, o anche entrambe le cose, stava indietreggiando con passo reso incespicante dalle lunghe vesti, pallidissima in volto e assalita da conati di vomito, mentre un pugno di guerrieri prezzolati dall'aria dura si stava a sua volta ritraendo dalla scena con fare incerto, perché i suoi componenti intuivano che non sarebbero più stati pagati e si stavano chiedendo se avrebbero fatto meglio a darsi alla fuga o a ritirarsi impegnando un combattimento contro uno zannelunghe che poteva correre su per i muri in qualsiasi momento, in modo da portarsi sopra di loro, come aveva appena fatto con chi li aveva assunti. «Noi non siamo macellai», osservò Embra con asprezza, mentre Hawkril si lanciava in avanti e lo zannelunghe si sollevava dalla preda con la rapidità di un fulmine per scalare la parete più vicina. «Devono proprio morire tutti?». «Sì», rispose in tono gentile Craer, girandosi a guardarla. «Piazzare una trappola significa questo. Può aiutarti pensare che stiamo purgando Aglirta di tutti i fomentatori di disordini che riusciremo a raggiungere, considerato che potremo raggiungere soltanto quelli che sceglieranno di venire qui per cercare di ucciderci?». «S... sì», rispose lentamente Embra, pallida in volto quanto la sacerdotessa. «Sì, mi è d'aiuto». Craer la fissò negli occhi per quello che parve un tempo molto lungo, mentre i guerrieri morivano urlando lungo il passaggio. «Baronessa», disse infine, «benvenuta all'onerosa carica di Eroe del Re. O anche di re, se è per questo. In realtà, non è molto diverso dal giardinaggio: coltivi dove puoi e poti dove è necessario». Alzatosi da in mezzo ai morti, scoccò quindi una rapida occhiata lungo il passaggio, in direzione della battaglia, e nel vedere che era già finita riportò lo sguardo sulla maga. «Non è neppure molto diverso da ciò che tuo padre ha fatto, solo che noi lo stiamo facendo per motivi diversi e tu, contrariamente a lui, non lo trovi
divertente, cosa di cui ringrazio i Tre». «Tutto questo perché voi due siete venuti a rubare uno dei miei abiti per potervi sfamare?» sussurrò Embra, fissandolo. «Prima di quella notte, signora, io ero un guerriero di Blackgult», replicò il procacciatore, scrollando le spalle. Proprio come un contadino, un locandiere o una giovane dama condannata a diventare un "Castello Vivente", stavo facendo quello che dovevo fare». Mentre avanzavano insieme per andare a raggiungere Hawkril e lo zannelunghe, Embra annuì. «E quando avevi dei dubbi, o ne eri nauseato o stanco, cosa ti ha permesso di continuare?» chiese, indicando il punto in cui era finita a sedere sul posteriore dolorante, nell'armeria. «Avevo Hawkril», rispose Craer, accennando al massiccio armaragor. «E lui aveva me». Embra lo fissò pensosamente e non ribatté. «Un altro brutto lavoro», ringhiò Hawkril, quando lo raggiunsero, e spostò con la spada una manica insanguinata. La sacerdotessa appariva molto giovane e molto sorpresa, mentre giaceva supina nel passaggio, inerte e decisamente morta; una delle sue braccia snelle terminava con un corpo di rettile coperto di scaglie, con una testa di serpente dalle lunghe zanne là dove ci sarebbe dovuta essere la mano. Quella testa era stata quasi recisa all'altezza del collo, e da essa scaturiva del sangue purpureo, mentre quello della donna era rosso. «Ho dovuto ucciderlo due volte», grugnì Hawkril, cupo in volto per l'ira. «L'ho colpito di traverso, in questo modo, per cui è rimasto a penzolare, impossibilitato a mordermi, ma che mi prenda un sargh se non ha cominciato a risanarsi, proprio sotto i miei occhi. L'ho colpito ancora, e poi di nuovo, ma la ferita spariva e il sangue cessava di scorrere. Poi ho cercato di tagliarglielo via di dosso, a quest'altezza, ma no, è guarito ancora. Non è morto finché non ho ucciso la ragazza. Il serpente si stava nutrendo di lei!». Embra trasse un profondo respiro tremante e distolse il volto di scatto. Per un momento, Craer e Hawkril rimasero a guardare quelle spalle coperte dall'armatura sussultare per il pianto, poi il procacciatore segnalò con un gesto secco della testa all'armaragor di andare a confortare la maga. «Tu stai bene, Sass?» chiese quindi, girandosi verso lo zannelunghe. «Ho visto che sei stato investito da quell'incantesimo delle ossa». Lo zannelunghe scrollò le spalle in maniera eloquente, poi avanzò leggermente lungo il soffitto e indicò con un arto anteriore. Craer annuì.
«Da questa parte, Eroi», avvertì, oltrepassando una soglia. «Sass dice che stanno arrivando altri audaci ospiti». L'uomo chiamato Piede di Velluto sfoggiò un freddo, grigio sorriso nell'oltrepassare il nono cadavere. Questo pendeva per le spalle da una trappola costituita da un blocco di pietra caduto, incastrato in una finestra che gli aveva permesso di sbirciare da quell'alto passaggio in una stanza sottostante, almeno finché quel blocco fatale non era caduto, schiacciandogli la testa. Le file dei più pericolosi si stavano sfoltendo. Hmm... se soltanto i baroni fossero venuti a ficcarsi personalmente in quelle trappole, esponendosi loro stessi ai pericoli della Casa Silenziosa! La linfa di ithraba si stava staccando dai suoi guanti e dalla suola delle scarpe, quindi presto avrebbe corso il rischio di cadere dal soffitto, ma ormai era quasi arrivato a destinazione. Le sole stanze in cui la Banda dei Quattro avrebbe potuto riposare al sicuro e comodamente si trovavano nell'estremità meridionale della Casa Silenziosa, e il solo modo sicuro per raggiungerle era attraverso la stanza che conteneva il Trono dei Silvertree, devastato dai colpi di spada e tempestato di pietre preziose. Se avesse avuto il tempo di fare i suoi preparativi, quella camera sarebbe a breve diventata la loro tomba collettiva, altrimenti sarebbe scomparso e avrebbe atteso: ci sarebbero state altre occasioni... Il trono aveva lo stesso aspetto dell'ultima volta che lo aveva visto, ma sulle pareti c'erano meno arazzi di quanti ne ricordasse, e i pochi rimasti erano poco più che stracci coperti di polvere, segno che il tempo divora proprio tutto. In ogni caso, la caratteristica più importante della camera, per lui, erano le colonne, che avrebbero celato i suoi preparativi. L'uomo chiamato Piede di Velluto lavorò in fretta, appendendo una corda qui, un gancio là, e usando abbondanti manciate di linfa di ithraba prelevata da un sacchetto che portava alla cintura. Quando ebbe finito, si appostò dove aveva previsto di farlo, dietro una delle colonne più grosse, e rivestì con cautela la punta di cinque stelle da lancio con lo sleepsar, un veleno rapido a essiccare quanto era costoso; esso diventava innocuo quando si asciugava, ma lui sapeva che non avrebbe dovuto aspettare molto a lungo. In effetti, ebbe a stento il tempo di trarre due respiri prima che i Quattro sbucassero dalla porta prevista, procedendo con più fretta che cautela lungo un percorso familiare. Craer avanzava per primo e Hawkril lo seguiva
un passo più indietro. Piede di Velluto però attese, perché Embra Silvertree doveva essere la prima a cadere. Eccola, pallida in volto nella penombra, a stento sfiorata dal chiarore della piccola lampada che l'armaragor teneva in mano. Piede di Velluto valutò con cura la distanza, scrollò il braccio un'ultima volta, poi impugnò una stella da lancio con abilità derivante dalla pratica e la scagliò. Immediatamente, afferrò una seconda stella senza aspettare di verificare l'esito del primo tiro. Il vecchio poteva essere ignorato, perché i suoi incantesimi erano troppo lenti per causare danno, ma l'arma... Dei, se erano veloci! Hawkril era già lanciato alla carica, segno che dovevano aver notato il movimento del suo braccio! Piede di Velluto tirò la corda che gli pendeva accanto e lanciò la seconda stella con tutte le sue forze, non contro l'armaragor in corsa, ma contro l'ometto vestito di cuoio che gli saettava accanto. La rete cadde in una scura nube silenziosa, diretta dai pesi che le impedirono di cambiare traiettoria, ma il guerriero aveva la spada sollevata verso l'alto e stava avanzando davvero in fretta, tanto che avrebbe potuto forse aprirsi un varco in quella barriera... La seconda stella mancò il procacciatore. Impugnandone altre due, Piede di Velluto indietreggiò rispetto alla colonna, nel caso che Craer avesse cambiato direzione per arrivargli alle spalle. Embra stava barcollando, la guancia lacerata dalla stella: naturalmente l'aveva strappata via, ma stava... sì, stava cadendo. Ma dov'era il vecchio? La rete avviluppò l'armaragor e la sua spada, ma lui continuò ad avanzare, ruggendo imprecazioni e vibrando colpi di spada. La linfa gli avrebbe tenuto la rete incollata addosso come un aderente sudario, almeno finché un certo Piede di Velluto non fosse riuscito a prendere il largo... Craer gli si lanciò contro, sbucando dall'ombra, ma Piede di Velluto ebbe il tempo di effettuare due tiri precisi. La prima stella venne deviata da un abile colpo di daga, ma quella parata lasciò il procacciatore esposto alla seconda, e lui barcollò, crollando al suolo a faccia in avanti prima di arrivare nel punto in cui si era trovato Piede di Velluto. Intanto, questi stava avanzando lungo una traiettoria zigzagante, oltrepassando l'armaragor infuriato e afferrando l'ultima stella. Sarebbe stato difficile usarla per ferire un uomo in armatura pesante, quindi... Qualcosa lo colpì con violenza alla faccia, un qualcosa di grosso e forte, dotato di uno strato di pelliccia che gli si avvolse intorno alla faccia e che aveva un vago odore speziato. La più costosa «ombra letale» che si potesse
assoldare a Sirlptar ebbe a stento il tempo di chiedersi di cosa si trattasse prima che lo zannelunghe gli strattonasse la testa da un lato, quasi con indifferenza, fino a staccarla di netto. L'agile corpo senza vita vestito di cuoio saltellò in avanti come un grottesco ranocchio, gli arti che si contraevano convulsamente, e andò a sbattere contro l'estremità della rete, cadendo su di essa e tendendola quanto bastava perché la forza furente di Hawkril e la sua lama affilata riuscissero a tagliarvi un varco. Durante la successiva manciata di frenetici istanti l'armaragor imprecò, tagliò e si dibatté, fino a ritrovarsi libero e a guardarsi selvaggiamente intorno in una penombra che non era propriamente oscurità ma che era troppo densa per permettergli di vedere qualsiasi cosa con sufficiente chiarezza. Lo zannelunghe ritrovò la lampada rovesciata e vi fece cadere sopra delle scintille ricavate da una stella da lancio di cui il loro aggressore non avrebbe più avuto bisogno; quando l'olio prese fuoco, il lupo-ragno afferrò un'estremità della rete e l'accostò alla fiamma, ottenendo un falò di breve durata. Alla luce delle fiamme danzanti Hawkril individuò infine Embra e Craer, entrambi stesi proni al suolo. «Sarasper?» chiamò, con voce in cui si avvertiva un lieve tremore. «Attualmente credo di aver più bisogno di te che dello zannelunghe!». Il lupo-ragno lo fissò per quello che parve un tempo interminabile, gli occhi oscuri e inespressivi, poi parve scrollare le spalle e subito dopo rabbrividì, cominciando a rimpicciolire fino a trasformarsi in un vecchio nudo e gracile con il volto contratto dalla sofferenza, che perdeva sangue da alcune lacerazioni su un braccio e zoppicava a causa di un piede che lasciava sul terreno impronte insanguinate. «Suppongo che tu abbia ragione, guerriero», ansimò, fissando con occhi roventi il terreno dello scontro. «Un sargh a tutto quanto!». Per prima cosa si avvicinò a Embra, girandola supina con la massima delicatezza concessagli dal suo stato di debolezza, con Hawkril che si affrettava ad aiutarlo. «Se hai superato la tua stupida infatuazione per l'idea di rinchiuderla in un'armatura, armaragor», borbottò il vecchio guaritore, «suppongo sia meglio toglierle di dosso tutta questa ferraglia». «Perché?» chiese in tono brusco Hawkril, accigliandosi. «Dovrò raggiungere gli oggetti che Craer vi ha lasciato cadere, se voglio guarire entrambi, o risanare queste mie vecchie ossa, o anche te, già che ci
siamo. Nonostante la tua baldanza, vedo del sangue, qua e là», ribatté Sarasper, rivolgendogli un'occhiata penetrante. «Ora aiutami con queste fibbie». La risposta di Hawkril fu un secco cenno di assenso, unito a un rapido ed esperto assalto alle cinghie che fissavano la corazza di Embra. I due erano a metà dell'opera quando un bagliore ambrato li indusse a girarsi, ancora in ginocchio. Quel genere di luce, infatti, poteva significare solo una cosa: magia. Una nuvola sempre più soffusa di bagliori magici stava svanendo nel calare verso il pavimento, e al centro di essa c'era la sua fonte: una pietra preziosa azzurro chiaro incastonata in un anello di dimensioni triple del normale, infilato al dito di un uomo barcollante dalle ricche vesti. Hawkril sollevò la spada sopra la spalla sinistra, pronto a lanciarla in caso di bisogno, mentre lui e Sarasper fissavano intensamente il nuovo venuto. Questi non sembrava un uomo pronto a sferrare un qualsiasi tipo di attacco. Grasso, con la carne che tremava per lo sforzo fisico e brillava di sudore, aveva arruffati capelli neri, sconvolti occhi castani e una specie di barba che gli scendeva rada dalle guance che avevano più pieghe di quelle di un mastino. Gli occhi disperati passarono al setaccio la stanza alla luce del fuoco prossimo a spegnersi e infine si fissarono sui due uomini in ginocchio, mentre in essi appariva una sfumatura di speranza, unita a una cupa disperazione. Gli abiti dell'uomo, di seta e velluto marrone, erano abbondantemente chiazzati di cibo e infilati in alti e splendidi stivali di nero cuoio lucido. Una corazza era stata affibbiata frettolosamente sulle vesti, e su di essa spiccava un drago nero fiancheggiato da guanti di cotta di maglia, in campo color bronzo: lo stemma di Brostos. Quindi quello doveva essere... per gli dei, sì, era proprio il Barone Thanglar Brostos! Ingrassato e disperato, almeno a giudicare dal suo aspetto. «Voi siete...» annaspò, agitando le braccia come un uomo che cercasse di mantenere l'equilibrio. «Voi siete gli uomini della Banda dei Quattro?». «Sì», rispose Hawkril, in tono deciso. «E tu sei il Barone Brostos?». «Sì», confermò l'uomo, con voce che era quasi un singhiozzo, «e ho bisogno del vostro aiuto! Un esercito sta devastando Brostos e in questo momento assedia le mie porte! Ho bisogno dei Dwaer! Venite con me, ve ne imploro, altrimenti Brostos cadrà!». «E se rifiutassimo di darti una Pietra?» ringhiò l'armaragor, alzandosi
lentamente in piedi come una montagna minacciosa. Brostos lo fissò con occhi angosciati. «No, no... venite con me per usarla voi stessi, insieme a qualsiasi altra leggendaria magia dei Silvertree in vostro possesso! La mia gente muore! Brostos cadrà!». Con le mani protese come artigli imploranti, il barone venne avanti, piangendo ora apertamente. Hawkril segnalò a Sarasper di trarsi indietro e sollevò la spada a titolo di avvertimento. Brostos parve non notarlo neppure. «Eroi del Re, aiutatemi!» ululò. «Per amore di Aglirta! Non ho nessun altro a cui rivolgermi. Ho... aarrrrrrraawggh!». Il barone prese a lottare come se un vento di bufera lo stesse trascinando via, artigliando l'aria nel lanciare quel grido disperato. A bocca aperta, Hawkril rimase a guardare mentre il grasso barone cominciava a svanire e le colonne della stanza diventavano visibili attraverso il suo corpo. «No! No!» gridò debolmente, da molto lontano, poi la disperazione gli incupì lo sguardo e lui scosse appena il capo, come incredulo, mentre urlava: «I loro maghi attaccano! Un incantesimo mi rapisce noooaaahhh!». Poi nella camera non ci fu più traccia di baroni urlanti, e nel silenzio improvviso Hawkril e Sarasper si ritrovarono a fissarsi a vicenda, interdetti. «I Tre ci proteggano», sussurrò l'armaragor, piantando la punta della spada nel pavimento. Essa stridette, e Sarasper vide che le mani del guerriero stavano tremando. Le parole successive di Hawkril furono sussurrate a voce così bassa che lui quasi non le colse. «Ci ha definiti "Eroi del Re"», disse l'armaragor, rivolto al pavimento, «e noi non abbiamo fatto niente per lui». «Hawkril», avvertì il guaritore, in tono grave, «c'è di peggio. Craer è scomparso di nuovo». 24. Un'audace mietitura di baroni La luce esplose dall'oscurità, allargandosi in un pulviscolo magico che cominciò a spegnersi quando ancora si stava allargando in silenzio verso l'esterno. Il ripostiglio non fece commenti, ma del resto era al tempo stesso paziente e decisamente vuoto. Vuoto tranne per l'uomo che vi era giunto nel cuore pulsante della luce, un uomo che qualsiasi menestrello, se ce ne fosse stato un assortimento
raccolto nel ripostiglio, avrebbe immediatamente riconosciuto come il grande bardo Inderos Arpa Tempestosa. Quei menestrelli non si sarebbero però aspettati di vedere il bardo indossare abiti di cuoio scuro e un'armatura, con una scintillante sfilza di anelli magici che gli brillava sulle dita guantate, o di vedergli brandire una lucente spada lunga, senza dubbio magica, come qualcuno che sappia bene come usare armi del genere. Ma del resto il mondo era pieno di sorprese, per i bardi. L'uomo vestito di cuoio scuro piegò la testa da un lato, ascoltando le fievoli grida e il debole martellare di piedi in corsa, poi rivolse un sorriso all'oscurità circostante, aprì la porta e uscì sotto la luce. A giudicare dai rumori, l'esercito congiunto di Glarond e di Maerlin (baroni che l'uomo vestito di cuoio conosceva bene dal punto di vista professionale e per i quali nutriva una sia pur minima dose di rispetto) non era semplicemente alle porte di Brostos: i guerrieri nemici erano già penetrati nel castello. Questo avrebbe reso ancor più pericoloso l'audace colpo che era sul punto di tentare, ma del resto non era mai stato estraneo al pericolo, né lo aveva mai temuto. Arpa Tempestosa sorrise nuovamente nel lasciare di soppiatto gli appartamenti in cima alla torre che non erano più stati usati dalla morte della Baronessa-madre Maegla Brostos, madre dell'attuale barone, scendendo in fretta una scala che finiva nel passaggio che portava all'altra torre. Mentre camminava, tirò fuori da una sacca da cintura un pezzo di stoffa grande all'incirca quanto il petto di un uomo e lo tenne pronto nella mano libera. Esso sembrava fatto d'ombra, una descrizione adeguata, considerato che si trattava del Sudario del Sonno. Per anni, Inderos Arpa Tempestosa aveva raccolto oggetti magici di ogni tipo, sia con mezzi leali che sleali, in parte per il fascino che essi esercitavano su di lui (in quanto per lo più rappresentavano il talento magico di un mago e la morte di un altro) sia in previsione del giorno in cui avrebbe potuto averne bisogno, o avere bisogno che qualcun altro non ne fosse in possesso, per esempio uno spietato barone. Era ben risaputo, sulla base della lunga storia delle loro gesta, che i baroni, a causa dell'odio e del timore che nutrivano nei confronti dei maghi e gli uni nei confronti degli altri, erano i principali collezionisti di oggetti magici di Aglirta. Attualmente, Inderos sperava di essere avviato ad acquisire qualche nuovo pezzo per la sua collezione. Più avanti c'erano gli appartamenti privati di Thanglar Brostos, freddo ed efficiente come mercante ed esattore di
tributi, ma che era senza dubbio andato in pezzi quando la guerra si era presentata alle sue porte sotto forma di nude spade affilate. Adesso probabilmente il barone era là dentro, intento a tirare fuori oggetti dai loro nascondigli e a metterseli addosso, o a riporli in una sacca da cintura o in un sacco da viaggio. Avendo troppo pochi guerrieri e nessuno in grado di guidarli contro le forze congiunte di altre due baronie, Brostos era condannato. Già due volte Inderos aveva rischiato la vita in una spedizione all'interno di Brostos, vedendo fortezze, città e villaggi cadere quasi senza che venisse estratta una spada, mentre gli abitanti, troppo ricchi e troppo impegnati a diventare sempre più ricchi per pensare a difendersi, rimanevano a guardare a bocca aperta i lancieri e i maghi lanciati all'attacco, alla testa di un mare di guerrieri in armatura lucente. Quei viaggi erano stati più pericolosi di quanto sarebbero potuti essere a causa dell'eccessiva prontezza con cui gli uomini che di quei tempi facevano la guerra nella Valle tendevano a usare le balestre cariche, e per il fatto che non si era portato dietro i tre Dwaer. Finora aveva tenuto le Pietre nascoste nel canale di scolo del pavimento di un'oscura cella monacale, nelle umide profondità di Orlordaern, il più antico tempio del Vecchio che ci fosse in tutta la Valle, dove esse erano al sicuro da qualsiasi ricerca mediante incantesimi grazie alla protezione della sua magia. A Orlordaern. Inderos era conosciuto dai fedeli del Santo Hoaradrim con un altro volto, quello del Cercatore Aldus, tornato dopo decenni di vagabondaggi nelle zone più selvagge della Valle. Soltanto Inderos sapeva che Aldus non sarebbe mai più tornato da nessuna parte, perché nel corso dei suoi viaggi aveva trovato il prete morente fra le alte cime delle Rocce Selvagge e lo aveva sepolto in solitudine, dopo che Padre Quercia lo aveva chiamato a sé. Aveva trasferito le Pietre soltanto la notte precedente, spostandole nell'unico altro posto a lui noto di tutta la Valle che avesse un'intensità magica altrettanto elevata, che fungeva come una sorta di sovrapporsi di veli e avrebbe impedito anche al migliore incantesimo di ricerca di individuare i Dwaer. Finché non avesse scoperto chi era in possesso dell'ultima delle Pietre, Inderos infatti non osava usarle a meno di non esservi assolutamente costretto, e comunque le sue altre risorse magiche erano sorprendentemente numerose, per un uomo che non si era mai definito un mago e non aveva mai operato apertamente nessun incantesimo. Quando svoltò un angolo, due guardie dall'aria sorpresa che sorvegliavano una porta chiusa estrassero subito la spada con aria cauta.
«Buona giornata a voi», le salutò con disinvoltura l'uomo vestito di cuoio scuro, abbassando verso il pavimento la punta della propria spada. «Thanglar mi ha fatto chiamare, e sono venuto», continuò, agitando distrattamente uno scuro fazzoletto profumato e assumendo un atteggiamento altero. Le guardie lo fissarono perplesse, con occhi che esprimevano un misto di ansia, rabbia e paura. Anche loro stavano sentendo già da qualche tempo le urla e il clangore d'acciaio che giungevano dal basso, e stavano cominciando a capire che con ogni probabilità la morte, una morte dolorosa, le avrebbe raggiunte prima dell'alba. «Chi sei?» scattò una di esse. «Sono il bardo Inderos Arpa Tempestosa», rispose in tono altisonante l'uomo che non si sarebbe dovuto trovare davanti a loro. «Thanglar ha richiesto la mia presenza qui, e sono certo che voi non desideriate deluderlo più di quanto lo voglia io. Le magie che ho nella mente potrebbero permettere a tutti noi di sottrarci alle spade che, potete sentirlo, stanno venendo ad abbatterci». «Io...» cominciò con voce incerta una delle guardie, ma l'altra le scoccò una dura occhiata, inserì qualcosa che non sembrava una chiave in un'apertura che non aveva la forma di una serratura e spalancò la porta con un gesto secco. Inderos la ringraziò con un cenno del capo e un sorriso. «Per favore», aggiunse, «rimanete qui di guardia finché non vi chiamerò... non dovrebbe volerci molto». E passò all'interno. Una delle guardie accennò a rivolgergli il saluto in uso a Brostos, ma lasciò ricadere la mano con fare incerto quando l'uomo vestito di cuoio le passò accanto con la calma arroganza di un qualsiasi barone. Quei passi condussero Inderos in un guardaroba più vasto di molte grandi camere, un tributo in sete, pellicce e velluti al buon gusto, alla ricchezza, all'accurata parsimonia e alla circonferenza sempre più ampia del Barone Brostos. A quanto pareva, nessun indumento baronale era mai stato gettato via, ma semplicemente era stato appeso lì dentro quando il barone era diventato troppo grasso per indossarlo o esso si era logorato troppo per potergli dare un aspetto adeguatamente facoltoso. File di appendiabiti, guardaroba e manichini erano ammucchiate su tutti i lati; senza pause o commenti, Inderos si fece largo in mezzo a esse, rallentando il passo soltanto nell'arrivare vicino alla porta opposta, che era aperta. I suoi stivali proce-
dettero in silenzio su una successione di spessi tappeti di pelliccia nella stanza rischiarata soltanto da poche lanterne dalla fiamma bassa: a quanto pareva, in quel momento il barone non prevedeva di cambiarsi d'abito. Inderos si guardò rapidamente indietro per accertarsi che né le guardie né chiunque altro stesse sopraggiungendo di soppiatto alle sue spalle e che nessuno avesse quindi bisogno di fare la conoscenza con l'incantesimo del sonno, ma non vide nessuno e infine si arrestò dietro una serie di vesti da banchetto appese in tutta la loro abbondante lunghezza su una spalliera di legno. A meno che qualcuno che si trovava nella stanza avesse spinto per caso lo sguardo oltre la soglia, e direttamente verso di lui, il suo arrivo sarebbe dovuto passare inosservato. E così fu. Uno dei tre uomini presenti nella stanza non stava guardando nulla, e gli altri due erano troppo intenti a fissarsi a vicenda per guardare altrove. Un uomo dagli sconvolti occhi castani vestito di seta e di velluto, che poteva essere soltanto Thanglar Brostos, abbondantemente ingrassato e in stato di totale collasso per il terrore, era in ginocchio e stava piangendo apertamente nel fissare il freddo volto sorridente di... del mago Huldaerus. Hmmm. A quanto pareva, la morte non aveva un compito facile nel reclamare il Signore dei Pipistrelli. Alle sue spalle c'era un uomo barcollante dal volto vacuo che stava lentamente oltrepassando il mago con andatura impacciata, diretto verso il barone con le mani protese, come per strangolarlo. Quelle mani erano del tutto esangui, morte: Huldaerus aveva animato un cadavere. «Ho annullato il mio incantesimo del silenzio, Brostos», affermò il mago, in tono cordiale, «ma se proverai ancora a urlare o a gridare, il Barone Silvertree, qui presente, ti strangolerà». Thanglar Brostos emise qualcosa che poteva essere definito soltanto uno squittio di incredulità, mentre il morto gli arrivava infine addosso. «Oh, sì», confermò il mago, con un sorriso sempre più accentuato, «questi è Faerod Silvertree, anche se fino a poco tempo fa questo corpo apparteneva a qualcun altro... credo fosse uno dei tuoi stallieri. Le articolazioni cominceranno presto a marcire, ma per allora esso non ci sarà più necessario». Huldaerus si sfregò le mani con aria gongolante, mentre il morto afferrava il Barone Brostos per la gola e lo scrollava. Thanglar piagnucolò, artigliando con esitazione quelle dita morte e guardando verso il mago con espressione implorante.
«Non è tanto stretto da non farti respirare?» chiese il Signore dei Pipistrelli, ancor più sorridente. «No? Bene, bene. Questo, Brostos, durerà soltanto finché non risponderai alle mie domande». Nel parlare, il mago mosse qualche passo distratto per la camera opulenta. Drappeggiata in sete e velluti, con le lampade dorate che pendevano dal soffitto, essa sembrava più una casa di piacere di Sirl che la camera da letto di un barone. Huldaerus scosse leggermente il capo, sogghignando per quanto stava vedendo. «È una fortuna che io sia stato in grado di riportarti indietro dal tuo viaggetto magico senza danneggiarti», commentò. «La Casa Silenziosa è un posto così pericoloso, e tu l'hai lasciata a mani vuote, giusto?». Nel parlare, il mago si volse a guardare alcune cose che fluttuavano a mezz'aria dietro di lui, e quel movimento lasciò allo sguardo di Inderos campo libero, permettendogli di scrutare la minuscola nuvola magica e il suo contenuto: un elegante scettro dalla doratura a spirale e un enorme anello su cui era incastonata una pietra preziosa azzurro chiaro lunga quanto il suo dito medio. «Il motivo per cui sono qui, Thanglar, invece che da qualche altra parte dove potrei procurare a Faerod un corpo più forte e avvenente del tuo, uno che qualsiasi uomo armato di spada non potrebbe riconoscere altrettanto rapidamente come quello di un barone, è tutta la magia che tu hai collezionato nel corso degli anni. So che non è tutta qui, e so anche che mi dirai dove si trova tutto il resto, fino all'ultimo piccolo oggetto. O preferisci che il nostro buon barone ti spezzi le dita, una per una?». «Uh... uh... uh...» balbettò disperatamente il Barone Brostos, le fredde mani morte che gli serravano saldamente la gola. Il Signore dei Pipistrelli gli sorrise ancora. «Comincia con una singola cosa», suggerì, una nota di beffarda preoccupazione nella voce. «Magari un altro anello». Nel parlare, sollevò distrattamente lo sguardo dal volto sudato che aveva davanti e lo lasciò vagare verso una vicina soglia buia, e così facendo si ritrovò a guardare direttamente negli occhi di Inderos Arpa Tempestosa. Pochi istanti più tardi, un fulmine crepitante gli scaturì dalle dita e incendiò le vesti da banchetto, facendo cadere le spalliere di legno. Il corpo che sarebbe dovuto crollare in mezzo a esse, rigido e fumante, riuscì però ad abbassarsi e a schivare mentre scattava in avanti, alcuni bagliori magici che gli aleggiavano sulle mani guantate. L'uomo lanciato alla carica impugnava una spada dai contorni delineati da altri bagliori, e il suo volto sorridente aveva qualcosa di familiare.
Huldaerus si ritrasse con fare allarmato. «Faerod!» ringhiò, come se quegli orecchi morti avessero potuto sentirlo, mentre pungolava freneticamente il cadavere per farlo entrare in azione. Brostos venne scagliato da un lato e il corpo girò sui tacchi, quasi perdendo l'equilibrio, protendendo... Troppo tardi, e troppo lentamente. Un pugno guantato affondò nello stomaco del mago, che barcollò all'indietro e nel cadere con un gorgoglio tutt'altro che dignitoso che gli sfuggiva dalle labbra emanò dei lampi dalla punta delle dita (il solo incantesimo che potesse evocare e attuare abbastanza in fretta), scagliandoli dritti verso gli occhi del suo assalitore, che erano ad appena pochi centimetri di distanza. Quei lampi non raggiunsero mai il bersaglio, anche se un anello esplose in una serie di accecanti ondate di magia dilaniata, inducendo l'uomo vestito di cuoio scuro a lanciare un grido di dolore nel perdere un dito. La ferita non poté però rallentare l'arco della spada che già stava calando verso il basso, e Huldaerus, Signore dei Pipistrelli, avvertì soltanto una fugace sensazione di freddo intenso alla gola, unita al folle vorticare del soffitto a tinte accese che lo sovrastava, prima che l'oscurità lo reclamasse. Mentre il mago moriva nuovamente, Inderos si ritrovò a tempestare di colpi una nuvola di svolazzanti pipistrelli, ringhiando imprecazioni nel mietere con la spada quei piccoli corpi stridenti. Com'era inevitabile, però, alcuni di essi riuscirono a fuggire, abbandonando la camera da letto attraverso porte e finestre. «Quanto ci vuole a un mago per crearsi un nuovo corpo?» si chiese Inderos ad alta voce, scrollando la mano mutilata. Poi sentì una mano che gli artigliava la spalla e si girò di scatto, ritraendosi d'un balzo nell'eventualità che il disperato Barone Brostos avesse trovato una daga da qualche parte. E si trovò a contemplare la follia. Impugnando in una mano lo scettro che poco prima fluttuava nell'aria, il cadavere era crollato rigidamente al suolo, lo sguardo vacuo fisso nel nulla, alle spalle del Barone Brostos, che si dibatteva e sudava copiosamente. Thanglar Brostos, con le guance tremule, la barba scomposta, i capelli arruffati e gli occhi lacrimosi, era parso tutt'altro che in possesso delle sue facoltà mentali dal primo momento che Inderos aveva posato lo sguardo su di lui, ma adesso stava gridando e agitando le braccia in improvvisi movimenti convulsi, le mani che si chiudevano intorno a cose invisibili e le labbra che cercavano di formare parole che non venivano poi pronunciate.
Tenendosi a debita distanza, Inderos intrappolò abilmente l'anello fluttuante con la punta della spada e lo mise al sicuro dalle grasse dita sudate che un momento parevano protendersi verso di esso e quello successivo ricominciavano ad agitarsi senza scopo apparente. Senza prendersi il disturbo di ingiungere alla rovina umana che era stata Thanglar Brostos di tenersi alla larga, perché era evidente che lui non era più in grado di sentire nulla, nel lottare con se stesso, l'uomo vestito di cuoio indietreggiò in fretta, alla ricerca di cose che potessero contenere incantesimi. Stridendo, singhiozzando e ringhiando mezze parole prive di senso, il Barone Brostos lo seguì sbavando, un passo barcollante dopo l'altro. Inderos Arpa Tempestosa si concesse una sommessa imprecazione quando il clangore delle spade che cozzavano contro altre spade giunse fino a lui attraverso il guardaroba, proveniente dal punto in cui aveva lasciato le guardie: non gli rimaneva più molto tempo. In fretta, si sfilò uno dei suoi anelli e lo ripose in una sacca da cintura, sostituendolo con la massiccia pietra azzurra che aveva sfilato dalla punta della spada, e sulle labbra gli affiorò un lento sorriso quando l'anello gli mostrò cosa era in grado di fare, com'era tipico di molti anelli magici. Addirittura la Casa Silenziosa. Questo gli sarebbe stato utile, molto utile e molto presto. «Non sarai in grado di dirmi nulla, vero?» chiese ad alta voce al barone barcollante. Dall'altra parte della porta del guardaroba, qualcuno urlò. Sargh e bebolt, era ora di andare. Aveva perso un anello di protezione e ne aveva guadagnato uno per i viaggi a distanza: come spedizione per raccogliere oggetti magici, quella non era stata un grande successo. Poi il Barone Brostos tirò un cordone dorato e balzò indietro con una lucida occhiata di trionfo negli occhi, improvvisamente più scuri rispetto al loro originale colore castano. Il letto era enorme e scese a precipizio dal soffitto, come faceva sempre, una manovra che il grasso e profumato Thanglar Brostos usava per fare impressione sulle giovani donne pagate per visitare la sua camera da letto privata. Arpa Tempestosa spiccò un salto per salvarsi la vita e riuscì quasi a mettersi fuori portata. Un angolo massiccio, intagliato a forma di artiglio di leone, gli colpì però la spalla e il fianco, fratturandogli il braccio e rendendolo inutilizzabile. Mentre rimbalzava lontano e rotolava su se stesso, sussultando per il dolo-
re lancinante, la spada gli sfuggì rumorosamente di mano, e contemporaneamente vide il suo avversario che gli si scagliava addosso. «So chi sei!» ululò il grasso barone, con una voce molto più profonda di quella di Thanglar Brostos. Una mano si chiuse in una morsa crudele intorno alla gola di Arpa Tempestosa e assestò un energico strattone. Il bardo si affrettò ad abbassare la testa contro il petto, ben sapendo cosa stava per succedere, e cioè che il cranio gli sarebbe stato sbattuto ripetutamente contro il pavimento... «Tu sei Blackgult», gli ringhiò in faccia il grasso avversario, e invece di sbattergli la testa contro qualcosa prese a trascinarlo lungo il pavimento, intorno all'elegante letto a baldacchino che ora occupava il centro della stanza. «Il tuo corpo mi andrà molto meglio di quello di questo stolto!». A quel punto, l'uomo che a volte era Inderos Arpa Tempestosa e a volte Blackgult, sibilò qualcosa in tono disperato e sentì l'anello che stava toccando con dita frenetiche, quale che fosse, dissolversi nel nulla all'interno della sacca da cintura, mentre un bagliore magico cominciava a formarsi. Fermandosi, Faerod Silvertree contemplò con un sorriso feroce il volto del suo antico nemico. «Anzi, farò di meglio», ringhiò. «Adesso so come usare adeguatamente lo scettro: tu diventerai Thanglar Brostos, in misura sufficiente a provare tutto quello che faranno al suo corpo, quando arriveranno qui. Morirai, Blackgult! Adesso so cosa si prova... il mago ha detto di avermi richiamato in vita da gocce del mio sangue presenti sui pipistrelli che ha usato per ricrearsi! Oh, proverai un'agonia che non hai mai conosciu...». Poi il suo volto cambiò nuovamente, nello stesso momento in cui alle sue spalle il disorientato, ferito Craer Delnbone si materializzava in mezzo al bagliore magico, sentiva una voce che aveva sperato di non udire mai più e colpiva con la daga, con la massima forza concessagli dal dolore bruciante che lo tormentava. Mentre il corpo preso a prestito da Faerod emetteva uno sconcertato grugnito di dolore e il secondo affondo di Craer si trasformava in un gemente collasso sul pavimento, Ezendor Blackgult si contorse disperatamente nella stretta tremante di Silvertree e percosse al volto, con tutte le forze che gli rimanevano, il grasso corpo che lo stava trascinando sul pavimento. Silvertree abbandonò la presa, e l'uomo vestito di cuoio scuro rotolò lontano con un gemito di dolore. Se non altro, prima di andarsene avrebbe recuperato la spada. I guerrieri che avrebbero fatto irruzione fra poco avreb-
bero potuto massacrare Silvertree per suo conto: adesso non aveva tempo per fare altro se non mettere al sicuro la propria pelle... «No, non lo farai!» ruggì Silvertree, con una voce orribile, il cui timbro oscillava di continuo fra due personalità in lotta per la supremazia, e si scagliò di nuovo addosso a Blackgult. L'uomo vestito di cuoio urlò quando la spalla fratturata venne schiacciata contro il pavimento. Con la vista appannata da lacrime di dolore, cercò di artigliare alla cieca con la mano mutilata il grasso corpo che lo sovrastava. Silvertree gli sferrò un pugno che gli fece rimbalzare la testa contro il pavimento; singhiozzando, Blackgult colpì a sua volta, ma le nocche dei due avversari si scontrarono a mezz'aria ed entrambi caddero su un fianco, continuando a lottare. Rotolando, sferrando pugni e artigliandosi a vicenda, i due vecchi nemici si spostarono a casaccio qua e là sul pavimento. Di tanto in tanto, Silvertree ringhiava e ululava, sussultando come un pesce fuor d'acqua nel lottare contro i folli resti della personalità che era stata Thanglar Brostos, con cui ancora divideva lo stesso cranio, e in quei momenti smetteva di lottare. Il barone che si era nascosto dietro i panni di un bardo era però ferito troppo gravemente per fare qualcosa di più che strisciare via ogni volta che gli era possibile, piangendo e sussultando, senza avere mai il tempo di evocare la magia dell'unico anello in grado di risanarlo. Nei momenti in cui riprendeva il controllo, Silvertree persisteva nel trascinare entrambi intorno al letto, verso il punto in cui il cadavere inerte di una guardia stringeva lo scettro di cui lui aveva bisogno, ed Ezendor Blackgult si trovava a contorcersi nella morsa crudele della peggiore agonia che avesse patito da anni. Serrando i denti, cercò di resistere quando Silvertree gettò indietro il capo, ululando selvaggiamente, e lo mandò a sbattere violentemente contro l'ultimo angolo del letto. Il corpo incoerente e scoordinato del suo avversario era basso e grasso, e metterlo fuori combattimento non avrebbe dovuto essere per lui un problema eccessivo, se non fosse stato per il dolore devastante che lo tormentava. Silvertree gli assestò un nuovo strattone, applicando una torsione al piede per cui lo stava tenendo, e Blackgult si ritrovò rovesciato sulla pancia e a strisciare sulle pellicce arruffate... Poi passò su un pezzo di stoffa che sembrava una piccola nuvola d'ombra e affondò le dita in esso, prima di contorcersi per scalciare disperata-
mente. Emergendo vagamente da un universo devastato dalla sofferenza, Craer Delnbone vide un piede calzato di stivale davanti al proprio naso e lo afferrò, facendo inciampare Faerod Silvertree, che perse la presa e barcollò leggermente. Ringhiando, tornò indietro e si chinò per chiudere di nuovo le mani intorno alla gola dell'avversario, cosa di cui Blackgult approfittò per premere il Sudario del Sonno contro la sua faccia urlante, facendo appello ai brandelli della propria forza di volontà per attivarne la magia. Faerod Silvertree, o Thanglar Brostos, o chiunque il grasso barone fosse in quel momento, si accasciò prono e giacque immobile; il suo corpo non ebbe neppure un tremito quando una mano insanguinata si sollevò dal pavimento per conficcare in esso una daga fino all'elsa. «Muori», sussurrò in tono ardente Craer Delnbone, rivolto a orecchi che non potevano sentire. «Muori, Silvertree!». Poi il procacciatore ricadde all'indietro sul tappeto, sanguinante. Accanto a lui, il bardo che era stato un barone lasciò scorrere per un momento le lacrime causate dal dolore che lo devastava; del resto, non aveva bisogno di vedere per attivare l'anello di risanamento. Che fosse reso grazie ai Tre. Ahhh, era un vero sollievo... La nebbia rossastra che aveva minacciato di farlo sprofondare nell'oscurità dell'incoscienza si dissolse lentamente, ed Ezendor Blackgult fu in grado di rotolare su se stesso, sollevarsi in ginocchio e infine issarsi in piedi, raccogliendo lo scettro, che era terribilmente vicino, prima di aggirare di corsa il letto, sentendosi sempre meglio a ogni passo, per recuperare la spada. Chinandosi, accostò l'anello del risanamento al corpo inerte del procacciatore e rivolse un sorriso al volto vacuo e inerte di Craer. «Mai un'esitazione o una lamentela, Delnbone», mormorò. «Mi hai servito meglio di molti guerrieri, e di tutti i miei procacciatori messi insieme. Ora smetti di sanguinare e torna alla Casa Silenziosa, dove sono certo che i tuoi compagni devono avere grande bisogno di te». Le palpebre di Craer ebbero un fremito, e l'uomo vestito di cuoio scuro gli rivolse un altro sorriso nell'attivare l'incantesimo che lo avrebbe portato via, proprio mentre il procacciatore gemeva e sollevava la daga. Il bagliore della magia si era già dissolto quando il Barone Blackgult si sollevò dal corpo di Brostos, utilizzato così di recente dal suo antico nemico, Silvertree, nel momento in cui alcuni guerrieri dalla spada insanguinata, che sfoggiavano sulla corazza lo stemma di Glarond e di Maerlin, face-
vano irruzione nella stanza da letto. Ezendor Blackgult sfoggiò un freddo sorriso in risposta alle loro grida minacciose: sotto il braccio reggeva un cofanetto d'argento tempestato di gemme che si era trovato sui cuscini del letto e che, a giudicare dal ronzio di uno dei suoi anelli, doveva contenere una potente magia, aveva recuperato la spada e una nebbia azzurra lo stava avviluppando, segno che l'anello per il viaggio a distanza stava iniziando la sua opera. Che facessero pure a pezzi il corpo di Thanglar Brostos, semplicemente addormentato, anche se per essere certo che Faerod Silvertree fosse finalmente morto, lui avrebbe preferito torcergli il collo, inzupparlo di olio per lampade e appiccare il fuoco ai ricchi abiti di seta usando la fiamma più vicina. Quei guerrieri potevano fissarlo quanto volevano: si stava già dissolvendo. Blackgult rivolse un allegro cenno di saluto alle guardie lanciate alla carica. Se ne stava andando, afferrato da una magia che lo avrebbe portato dove aveva trasferito e nascosto i Dwaerindim. Stava andando nella Casa Silenziosa. 25. Una carenza di re Due uomini, le cui vesti eleganti erano messe in secondo piano soltanto dalla loro altezzosità, stavano avanzando a grandi passi lungo un lucido pavimento di marmo che pareva non avere fine; nell'oltrepassare una coppia dopo l'altra di colonne affiancate che erano modellate alternativamente come vigili sentinelle e gradevoli dame, i due non si degnarono reciprocamente neppure di una singola occhiata. Guardie dal volto impassibile spalancarono al loro avvicinarsi la prima, grande coppia di battenti che davano accesso all'Alta Corte Reale, e i due cortigiani proseguirono il cammino, continuando a ignorarsi; con un ticchettare dei tacchi degli stivali, attraversarono un corridoio più ombroso, dove erano appesi molti ricchi arazzi, illuminati da un fluttuante pulviscolo magico che faceva apparire vive le scene di caccia fra alte montagne e nelle profonde foreste che un tempo coprivano la Valle; i due cortigiani, però, non gettarono loro neppure uno sguardo. Infine, i due arrivarono davanti alle alte, immense porte della Corte Interna, che altre guardie impassibili in armatura dorata aprirono con grazia
gentile, per permettere loro di accedere alla sala del trono vera e propria. I due si avviarono dritti lungo il centro della vasta distesa di lucide piastrelle, la spada che tintinnava al fianco con il suono delicato prodotto dagli anelli dorati della catena e dai pendenti ornamentali, perfino piccole campanelle, a essa applicati, e si avvicinarono ai gradini che portavano al Trono del Fiume, chiamato anche Trono di Fiamma, sede del sovrano di tutta Aglirta. Intorno a loro, la corte pareva insolitamente silenziosa, ma essi non guardarono né a destra né a sinistra, perché erano lì per esporre il loro problema esclusivamente al re. Arrivati ai piedi dei gradini s'inchinarono, accennando appena a piegare il ginocchio in quel gesto che sostituisce l'atto di inginocchiarsi per gli uomini che si ritengono troppo importanti per prostrarsi effettivamente davanti a chiunque, tranne che in privato davanti alle loro mogli, e badarono a tenere lo sguardo accuratamente abbassato nell'attendere il benvenuto regio. Infatti, nessuno dei due voleva rischiare di perdere il favore del sovrano con il minimo passo falso, inducendo il Re Ridestato a rivolgersi prima all'altro, perché essi erano in lite fra loro ed erano giunti fin lì quasi dall'estremo limite settentrionale della Valle per risolvere la questione. Il silenzio si prolungò a tal punto che essi non furono più in grado di tenere sotto controllo la tensione, e infine entrambi si decisero a sbirciare di sottecchi il Trono del Fiume, più o meno nello stesso momento. E scoprirono che era vuoto. Dopo un lungo, spaventoso momento di incredulità, i due girarono con riluttanza la testa per fissarsi a vicenda con espressione parimenti stupita, poi sollevarono di nuovo lo sguardo verso il Trono del Fiume, e infine si girarono di scatto per guardarsi intorno. La sala del trono era completamente vuota: in giro non si vedeva un solo maggiordomo, cameriere, cortigiano o plebeo. Di nuovo, i due si guardarono negli occhi, in preda allo sconcerto più totale. Dov'era il re? E dov'era finita la sua corte? Assalito da un pensiero improvviso, uno dei due cortigiani si diresse verso la porta che fiancheggiava il trono sulla sinistra e che era leggermente socchiusa, al contrario della sua controparte di destra. Deciso a non farsi lasciare indietro, il secondo cortigiano si affrettò a seguirlo, e i due si spintonarono a gomitate nel tentativo di spalancare il battente e di oltrepassare la soglia insieme, solo per poi arrestarsi di nuovo, sempre più interdetti: l'elegante corridoio oltre la porta era anch'esso deserto, e conteneva soltanto il consueto insieme di colonne, arazzi e vasi di
piante. All'unisono, i due ripresero a muoversi, camminando ora con il passo più svelto che erano in grado di tenere senza mettersi effettivamente a correre, i lucidi stivali che martellavano sulle piastrelle lucide con un ritmo frenetico e assolutamente uguale. Il corridoio era lungo, e si affacciava su una scala che, sullo stesso livello, dava accesso a diverse stanze tramite altrettante arcate. Con riluttanza, i due cortigiani tornarono a guardarsi a vicenda nell'avvicinarsi al punto in cui avrebbero dovuto scegliere soltanto una direzione. Forse... una gamba coperta da un pantalone dagli splendidi ricami si spostò di lato e lo stivale corrispondente ruotò con un movimento fluido, deviando verso destra. In quel momento, dall'arcata più a sinistra giunsero fievoli schianti lontani, e gli echi di quello che poteva essere un clangore di metallo, unito a qualcosa di a stento percettibile che poteva essere soltanto un urlo di dolore. Soffocando un'imprecazione sfuggita loro quasi nello stesso istante, i due cortigiani abbandonarono ogni cerimonia e si lanciarono insieme oltre l'arcata di sinistra, prendendo a correre lungo i corridoi e su per corte rampe di scale nell'attraversare camere che non avevano mai visto prima, decorate da cascate di lanterne di vetro colorato, tutte spente, appese con lunghe catene agli alti soffitti, poi si trovarono a scendere altri gradini nell'affrettarsi verso il punto da cui giungeva il rumore di uno scontro in atto. Per gli dei, sembrava quasi che si trattasse di un esercito invasore! Si sentiva il cozzare di molte spade, unito a un fragore di incantesimi o delle specie di esplosioni e perfino ai cupi tonfi, misti a una confusione di grida e di urla, prodotti dal rimbalzare di pesanti travi cadute. Due volti decorati da baffi eleganti impallidirono, due mani estrassero altrettante spade, i cui proprietari stavano in quel momento desiderando di avere a disposizione un'arma meno cerimoniale e molto più robusta, poi i due uomini ripresero a correre, svoltando gli angoli a precipizio e addentrandosi fra cortine di fumo sempre più dense, diretti verso il fragore sempre più assordante della battaglia. Ora le esplosioni erano più frequenti, si sentiva un rumore di asce che affondavano nel legno e si udiva perfino quel genere di sibilo acuto che spesso si accompagnava a un potente incantesimo; i due già potevano vedere figure che si muovevano, spade che scintillavano e, al di là di esse, un azzurro bagliore magico che si andava facendo sempre più intenso.
I cortigiani si lanciarono alla carica, attaccando i pochi che si girarono per affrontarli, e imprecarono per il timore nel trovarsi a combattere contro uomini la cui carne pareva accasciarsi, contorcersi e colare come la cera di una candela accesa. Quando infine riuscirono a passare, sussultando allorché alcuni di quegli uomini dalla faccia disciolta scoppiarono con esplosioni simili a quelle che entrambi avevano già sentito, coprendo ogni cosa di schizzi umidi, i cortigiani videro il Re Ridestato che fluttuava immerso nella luce azzurra, un sorriso sul volto, circondato da un cerchio di uomini armati. Per gli dei, potevano vedere attraverso il corpo del re! «Fermi!» gridò uno dei due. «Quale mago cerca di rapire il re? Fermatevi, vi dico!». E levò la spada per colpire, ma non trovò nessun mago da abbattere, soltanto la schiena di un cerchio compatto di uomini schierato intorno a quell'alone di luce azzurra sempre più debole che pareva in procinto di portare Kelgrael Snowsar via con sé. Il cortigiano cercò allora di farsi largo attraverso il cerchio, ma venne scaraventato all'indietro con forza improvvisa; poi gli uomini che attorniavano il re si volsero di scatto, all'unisono, ed entrambi i cortigiani si trovarono a fissare teste che non avevano faccia, soltanto una liscia distesa di carne dove ci sarebbero dovuti essere gli occhi, il naso e la bocca. Al di là di essi, dalla parte opposta della luce azzurra sempre più tenue e dell'altro lato del cerchio compatto di Senzafaccia che l'attorniava, altri uomini stavano ancora combattendo nel tentativo di arrivare addosso ai Senzafaccia, assalitori dal cui volto la carne grondava in strani vortici e grosse gocce, ora mettendo a nudo un osso, ora lasciando un occhio privo di supporto. Entrambi i cortigiani urlarono, prima di darsi alla fuga. «Uno di questi giorni non tornerai indietro», borbottò Hawkril, passando le braccia intorno a Craer e stringendolo in un abbraccio che gli strappò un sussulto. «Smettila con questi viaggetti, mi hai capito?». «Facile a dirsi, Spilungone», sibilò Craer, abbassando lo sguardo sulla daga insanguinata che stringeva in pugno, «ma non so neppure chi mi stia facendo questo! Senza dubbio, si tratta dell'uomo che ha preso il Dwaer di Embra, e come posso contrastare una magia del genere?». «Per prima cosa», ringhiò Hawkril, posando nuovamente Craer a terra con gentilezza, «gli taglieremo via le mani insieme alle Pietre, poi le con-
segneremo a Embra e lasceremo che sia lei a pensare a che destino riservargli». «E cosa credi che farà quel tipo, mentre lei rifletterà?» ribatté Craer, arricciando il naso. «Emetterà piccoli suoni scricchiolanti sotto i miei stivali», tuonò l'armaragor, «mentre io salterò su e giù sulle sue ossa». Il procacciatore sussultò, poi si mise a ridacchiare. Ingryl Ambelter, che era stato Maestro d'Incantesimi di Silvertree e che sarebbe tornato a esserlo... questo e molto di più... ritrasse la testa dalla maschera incantata e le volse le spalle con le labbra contratte in un sorriso beffardo. «Stolti», disse all'oscurità che lo circondava. Era tipico dei sacerdoti del Serpente essere tanto arroganti da scegliere per i loro complotti un tempio in rovina dedicato a Hoaradrim. Non avevano dunque paura delle magie che vi si annidavano, o di poter destare l'ira degli dei? Quel particolare tempio sorgeva su una collina coperta di alberi, vicino all'Isola della Corrente Spumosa, sulla riva appartenente ai Silvertree; oltre a essere poco lontano dalla corte del Re Ridestato, esso offriva un nascondiglio ai cospiratori e costituiva una posizione sopraelevata da cui poter notare chiunque altro si fosse avvicinato a esso. Inoltre, come tutti i templi antichi, era decorato con una quantità di facce intagliate nella pietra e raffiguranti tutte Padre Quercia. I Serpenti erano dunque tanto stupidi da non conoscere l'esistenza dell'incantesimo della maschera di occhi, noto praticamente a tutti i maghi che avessero poco più di una semplice infarinatura di nozioni magiche? Se invece pensavano che i maghi potessero avere timore di eseguire un incantesimo del genere su una scultura sacra... ebbene, si sbagliavano. Tutto quello che doveva fare, in qualità di Maestro d'Incantesimi nascosto dietro una magia di alterazione del volto, mentre sorseggiava pigramente un po' di vino e assaporava il piacevole avvicinarsi del tramonto, era guardare fuori dalla propria finestra mentre i seguaci del Serpente risalivano la collina con fare tanto furtivo da attirare ogni sguardo, da lì all'orizzonte, avvicinarsi alla sua maschera, pronunciare la parola giusta e inserire il volto nei suoi freddi contorni, cosa che gli avrebbe permesso di vedere e di sentire tutto ciò che accadeva alla riunione, come se vi avesse preso parte personalmente. Due dei congiurati erano locali adoratori del Serpente, eccitati all'idea
che tanti importanti superiori sarebbero stati presenti al raduno e spaventati al pensiero di poter recare offesa con qualche eventuale passo falso; altri due erano membri del clero di rango più elevato venuti da fuori, entusiasti di fronte alla prospettiva che i Fedeli del Serpente potessero essere in procinto di tentare un audace attacco contro il Trono stesso. Il prete di rango più elevato, una sibilante mostruosità accuratamente nascosta da un mantello enorme dotato di cappuccio, appariva agitato a causa di una qualche importante notizia che stava peraltro tenendo per sé, ma che lo aveva indotto a convocare molti seguaci per quel particolare rito. Quale che fosse la loro natura, pareva che non si trattasse di notizie particolarmente buone per gli adoratori del Serpente. Il rito fra le rovine avrebbe avuto inizio quando al luna si fosse levata al di sopra della Collina di Harrowhelm, quindi non mancava più molto, anche se c'era ancora tempo a sufficienza. Mentre i membri più anziani del clero del Serpente affluivano lentamente, strisciando, da dove se ne stavano abitualmente annidati (in quanto i più devoti Fedeli del Serpente, che da più tempo seguivano un rito dopo l'altro, sottoponendosi a incantesimi e bevendo veleno, finivano lentamente per sviluppare la coda e perdere le gambe, diventando uomini-serpente dotati a loro volta di veleno), Ingryl Ambelter avrebbe indotto il re e un piccolo gruppo di cortigiani a sviluppare l'improvviso capriccio di fare una piccola cavalcata che li avrebbe portati dritti a un particolare tempio in rovina, dove... Ridacchiando, il Maestro d'Incantesimi si versò un altro boccale di Pioggia di Stelle di Sirl. Il vino frizzante gli scivolò sulla lingua e lungo la gola con il suo solito sapore aspro e fresco, per poi diffondergli lentamente nel corpo un profondo calore... ahh, davvero delizioso. Quando avesse governato dal Castello della Corrente Spumosa, avrebbe... Ah, evitiamo di commettere quell'errore, si disse. Faerod Silvertree era quello che aveva l'abitudine di contare le monete prima di essersi impadronito della borsa, ma non era questo il modo di agire del suo fedele Maestro d'Incantesimi. Fedele. Come no! Ridacchiando a quel pensiero, Ingryl si girò verso il tavolo sovrastato da una pietra luminosa, quello su cui eseguiva i suoi incantesimi più elaborati. Per prima cosa, il Tocco Furtivo, al fine di trovare con delicatezza una delle tre magie perennemente attive intorno al Re Ridestato e stabilire un legame con essa. Il Tocco era difficile da percepire per sua stessa natura, ma dopo l'attivazione della compulsione avrebbe richiesto un'insinuazione
estremamente cauta di immagini e di sensazioni nella mente di Snowsar, una cosa da farsi con la massima sottigliezza, perché altrimenti il re si sarebbe accorto delle catene che cercava di imporgli e avrebbe riconosciuto in lui un nemico. Era sempre possibile che una cosa del genere finisse per diventare necessaria, ma ricorrere all'aperta brutalità non rientrava nel modo di agire di Ingryl: qualsiasi barone aveva armigeri a sufficienza per applicare metodi del genere. Era il momento di mettersi al lavoro. Modellato l'incantesimo con rapida abilità, Ingryl lo attivò, cercando gli ormai familiari campi magici che indicavano la presenza di Kelgrael Snowsar da quando lui si era Ridestato e... per gli dei, ci stava mettendo davvero molto tempo. Il re era forse lontano, in viaggio? Doveva essere così, perché il tempo continuò a scorrere e le tre candele che facevano parte dell'incantesimo si consumarono sempre di più senza che però il Tocco avesse trovato il re. Accigliandosi, Ingryl apportò una rapida correzione, per cercare le tracce dell'unica magia regia che si sarebbe dissolta solo con molta lentezza, qualora Snowsar si fosse liberato per qualche motivo dei suoi incantesimi o se fosse morto, trascinando così gli incantesimi a lui collegati verso una fine lenta ma altrettanto inevitabile. La correzione si sovrappose al Tocco originale sotto forma di una rete luminosa che lo avviluppò con delicati filamenti di energia e si fuse con esso... ma ancora non ci furono risultati. Ingryl si accigliò. Che si trattasse di una schermatura? Di una protezione contro incantesimi di evocazione dell'immagine, applicata dopo che gli incantesimi connessi al re si erano estinti? Ma perché erigerla? E come? Il vincolo antico di secoli che legava Snowsar al Serpente avrebbe impedito che un normale incantesimo di occultamento generale potesse funzionare, e qualsiasi altra magia più potente e mirata sarebbe stata visibile quanto un faro acceso di fronte al suo Tocco Furtivo, così come spiccavano i diversi templi e la Casa Silenziosa. Non riusciva a trovare traccia del Re Ridestato in tutta Aglirta, anzi, neppure in tutto Darsar. Kelgrael Snowsar era semplicemente... svanito! Con la mente in subbuglio, Ingryl Ambelter apportò una seconda correzione al Tocco, inducendolo a cercare le note magie di protezione dal fuoco apposte al Trono di Fiamma, e l'istante successivo fu «là», in grado di vedere il seggio vuoto come se si stesse librando su di esso. Mantenendo salda nella mente l'immagine del trono, grazie a una ferrea disciplina che
pochi in Aglirta erano in grado di eguagliare, il Maestro d'Incantesimi mormorò altre parole e s'impose di spostarsi lungo il collegamento. Per un momento ci furono soltanto vortici di fuoco azzurro e un'oscurità che roteava lentamente, poi si ritrovò con gli stivali che poggiavano sulle lucide piastrelle della sala del trono. Sentendo una guardia gridare allarmata, Ingryl Ambelter si volse lentamente da dove si trovava, fermo in piedi di spalle accanto al trono, simile a un'ombra distratta. «Sì?» chiese. «Io... ah... chiedo scusa, signore, ho creduto che fossi... Tu chi sei?» «Uno che è molto preoccupato riguardo a dove si trovi il re», rispose in tono secco Ingryl, scendendo dalla piattaforma. «Tu sai dove sia?». «Ah, no. A detta di alcuni, pare che si sia... uh... che si sia "dissolto" nel corso di una sorta di battaglia, nelle camere private del palazzo». «"A detta di alcuni"?» ripeté Ingryl, con un'espressione accigliata e perplessa più sincera di quanto fosse stato nelle sue intenzioni. «Chi lo dice? E come fa a saperlo?». «Saerlor, signore, tanto per cominciare. Dice che lo hanno visto con i loro occhi». «Chi è Saerlor, e chi sarebbero questi altri?». «Saerlor e Phlundrivval. Sono gli amministratori regi a Sirlptar, signore, però erano venuti qui per conferire con il re, ed entrambi hanno visto cosa è successo. La storia ha fatto il giro di tutto il palazzo! Ho visto Phlundrivval andare verso i moli per partire subito dopo cena, ma non molto tempo fa Saerlor era ancora nella Sala della Pietraforte, nell'ala occidentale. Lui...». «Portami da lui», ordinò Ingryl con un'imperiosità degna di un barone. La guardia lo fissò, interdetta. «Sì, ma chi sorveglie...» cominciò a obiettare. «Sorvegliare un trono vuoto? Portami da lui, subito». La guardia sbatté di nuovo le palpebre, gli rivolse un rispettoso saluto e si avviò attraverso il palazzo, diretta a ovest. «Cos'è stato?» sibilò Embra, cercando di sollevarsi su un gomito. «No, non farlo», borbottò Sarasper, spingendola di nuovo supina; mentre lei sussultava di dolore e cercava di liberarsi dalla sua stretta con una torsione, aggiunse: «Non prima che abbia finito di risanarti. Dopo potrai cercare nuovamente di farti uccidere». La Dama dei Gioielli tremò sotto le sue dita e un altro oggetto dei Sil-
vertree si ridusse in polvere, dissolvendo in lei ogni residuo di sofferenza. «Grazie, Saraspen», mormorò Embra, stiracchiandosi lentamente. Le pareva di essere rimasta per un'eternità nella morsa della sofferenza... Questa volta, quando si puntellò su un gomito, il guaritore la ributtò a terra con rapidità ancora maggiore. «Vecchio», ringhiò Embra, «cosa stai...». Una quadrella di balestra si andò a schiantare contro la parete di pietra, poco lontano, e parte delle sue schegge le piovvero sulle gambe. «Ti sto tenendo in vita abbastanza a lungo da poter ammirare il risultato del mio operato», borbottò Sarasper. «Non siamo più soli qui dentro, signora. Per un po', prova a strisciare, invece di alzarti in piedi e di agitare le braccia, d'accordo?». «Una nuova tattica con cui confondere i nostri avversari, vero?» ribatté Embra, poi rotolò sullo stomaco e prese a strisciare verso l'arcata che Sarasper le aveva indicato. Proveniente da essa, Craer la superò d'un balzo con un urlo acuto, scagliando la daga con una mano e una pietra raccolta chissà dove con l'altra, in direzione di un nemico che Embra non era in grado di vedere. «Qualcosa del genere», approvò intanto Sarasper, in tono asciutto, e raggiunse la maga sotto l'arcata mentre qualcuno emetteva un urlo di dolore, Craer scoppiava a ridere e si sentivano uno schianto e un ticchettare giungere dal punto in cui lui era atterrato. «Quanto a essere confusi, credo che noi abbiamo già fatto la nostra parte». «Oh, sì», convenne Embra, con un sentito sospiro. «Oh, sì», confermò con fare altero Saerlor Dyndrie, gonfiando il petto e rigirando verso l'alto con un gesto distratto dell'indice un'estremità appuntita dei baffi splendidamente incerati. «Ho assistito personalmente al Dissolvimento del re». «Davvero? Bene, bene», commentò con entusiasmo Ingryl, resistendo all'impulso improvviso di sfregarsi le mani per la soddisfazione, poi si girò verso la guardia e aggiunse: «Puoi lasciarci, adesso». «Ma...» cominciò l'uomo, e si trovò a essere squadrato dallo sguardo freddo del mago, i cui occhi promettevano una morte lenta, sicura e immediata, sempre che fosse valsa la pena di prendersi tanto disturbo per uno come lui, invece di limitarsi a ignorarlo. Incerto, indietreggiò di un passo. «Informerò il re della tua diligenza e fedeltà», continuò intanto Ingryl, in tono sommesso, «o della loro assenza. Puoi credermi, lo farò».
La guardia deglutì visibilmente, poi salutò e girò sui tacchi. «Torno a sorvegliare il trono, signore!» balbettò, e si avviò a passo di marcia, guardandosi indietro una sola volta e ricevendo da Ingryl un sorriso incoraggiante. «Si può sapere chi saresti tu, esattamente, signore?» domandò Saerlor Dyndrie. «Sei un mago, questo lo capisco da me, ma con quale diritto...». Ingryl Ambelter gli si inginocchiò umilmente davanti per nascondere il proprio sorriso sempre più accentuato, la singola parola che doveva sussurrare e il trasferimento di una certa polvere da un palmo all'altro. Un immediato formicolio delle mani gli disse che l'incantesimo stava funzionando: ora non avrebbe dovuto più attendere molto. Saerlor emise un fievole gemito. Scattando in piedi, il Maestro d'Incantesimi gli premette le mani sulla bocca e sogghignò di fronte all'espressione d'un tratto disperata dei suoi occhi. I due si fissarono a vicenda in silenzio, mentre il verme magico generato da Ingryl s'insinuava lento nella mente del cortigiano, sbirciando di qua e di là nel passare al vaglio i suoi ricordi. Saerlor si contorse, cercò di gridare... poi, quando il mago infine lo lasciò andare, si limitò a barcollare dove si trovava, lo sguardo fisso nel vuoto e una sorta di gemito ringhiante che gli vibrava nel profondo della gola. Dovunque andava, infatti, il verme scavava e rosicchiava, distruggendo la mente che stava saccheggiando. Ingryl aveva bisogno soltanto di una particolare serie di ricordi recenti, ed essi affiorarono prontamente, vividi e quasi impazienti di rivelarsi. Sì, si era trattato del rito del Dissolvimento, e stando a quanto poteva determinare, esso era stato intrapreso volontariamente dal Re Ridestato, anche se era possibile che i Senzafaccia ve lo avessero costretto, invece di limitarsi a proteggerlo. Il Serpente si era manifestato, senza dubbio per cercare di uccidere Snowsar e di infrangere così il loro legame, ma aveva fallito e quindi, essendo tuttora vincolato, sarebbe stato ora nuovamente abbattuto. Non c'era da meravigliarsi se il Serpente presente al raduno sulla collina era stato tanto agitato. Le scene che Saerlor ricordava destarono una certa guardinga diffidenza nel Maestro d'Incantesimi. Nonostante i suoi modi altezzosi e la preoccupazione per il proprio aspetto, il vestiario e il ricco prestigio, il cortigiano era (o meglio, era stato, visto che adesso era poco più di una statua ebete) un buon testimone. Ingryl non aveva mai saputo che i Senzafaccia fossero così tanti, e dov'erano finiti tutti quanti, adesso? Possibile che ognuna delle
cameriere del palazzo fosse un Koglaur? Qualcuno di essi lo stava osservando in quel preciso momento? Ebbene, ci voleva un lupo per dare la caccia a un altro lupo. Chi altri meglio degli amanti del Serpente per rendere dura la vita a quegli spioni Senzafaccia? Voltate le spalle al cortigiano barcollante e gemente, il Maestro d'Incantesimi si allontanò senza guardarsi indietro e si affrettò a raggiungere la porta segreta più vicina, un pannello posto fra due colonne scolpite in modo da raffigurare Dathgath ed Elroumrae, antichi sovrani di Aglirta. Le ragnatele pendevano come membrane pelose fra le mani di Elroumrae, protese in un gesto implorante, segno certo che il personale stava trascurando di fare il suo dovere. Sotto il suo tocco sicuro, il pannello si aprì su un'oscurità polverosa: a quanto pareva, il re non aveva saputo di quel passaggio segreto, o non gli era importato di usarlo. I cunicoli del genere di cui Ingryl conosceva l'esistenza erano quasi una quarantina, quindi forse Snowsar non aveva semplicemente mai avuto modo di ricorrere a quello in particolare. Simile a un vento di vendetta, il Maestro d'Incantesimi corse fino alle scale più vicine e le scese a precipizio, con passo sicuro nonostante l'umida oscurità, contando i gradini. Quando arrivò al numero prestabilito, svoltò su un pianerottolo e si diresse verso dove ci doveva essere una porta, tastandone i contorni con dita caute per poi premere la giusta pietra dello stipite per farla aprire. Una fievole luce lo accolse quando avanzò nel passaggio al di là del battente: anche se i livelli inferiori del vasto castello erano in disuso, alcune stanze avevano una finestra, e qua e là la luce del sole riusciva a trapassare le cortine di polvere che le rivestivano. Raggiunto in fretta quello che in tutto il palazzo era il suo rifugio più segreto, il Maestro d'Incantesimi si fermò davanti a una certa porta di pietra chiusa che non appariva diversa da molte altre che aveva oltrepassato. Baciandola in un punto preciso, mormorò una parola di apertura e poi, a voce più alta, una parola che non aveva significato, quindi posò la mano su un altro punto ben preciso della porta e la pietra si dissolse sotto di essa. Nei pochi istanti prima che il battente tornasse solido, il Maestro d'Incantesimi si affrettò a varcare la soglia vuota, diretto verso la tenda di vermi letali al di là di essa. Odiava quelle fredde bocche risucchianti e l'odore della bava di quelle creature, ma solo lui poteva oltrepassare quella barriera e sopravvivere. Tratto un profondo respiro per vincere la repulsione, avanzò di un
passo verso la tenda formata dai suoi custodi. E subito s'irrigidì agonizzante, aggrappandosi alla rete di piccole creature striscianti. La lama che gli stava scivolando attraverso il petto lo aveva colpito senza preavviso, come improvvisa giunse una mano che gli calò sul naso e sulla bocca, torcendogli bruscamente il collo in modo da spezzarlo. Un'incandescente fitta di dolore saettò attraverso la cortina di oscurità che stava sopraggiungendo a reclamarlo. Il Maestro d'Incantesimi tentò di parlare ma non riuscì a farlo e si consolò guardando con occhi sempre più offuscati la lucida trama della tenda di vermi aderire al dorso della mano del suo assassino, e sapendo che quell'uomo, chiunque fosse, era a sua volta condannato. Lottando per spostare arti che sembravano pesanti come pietre, Ingryl Ambelter mosse violentemente un gomito all'indietro, poi l'altro. Quando la presa del suo assassino s'infranse, pochi momenti più tardi, e la sua caduta gli trascinò dolorosamente la spada fuori dal corpo, il Maestro d'Incantesimi girò il proprio corpo che si stava già accasciando e, pur tremando per il dolore, infilò le proprie dita, quelle su cui portava gli anelli magici, nella gorgogliante ferita provocata dalla lama, tenendovele con gesti tremanti. Dei, quanto faceva male! Ingryl barcollò, e crollò in avanti, addosso all'uomo che lo aveva ucciso. Ci fu una nuova fitta di agonia quando rimbalzò con forza devastante, tentando di urlare nonostante il flusso di sangue schiumoso che lo soffocava. Mentre gli ultimi frammenti di vitalità abbandonavano il corpo da lui modellato, e tutto sprofondava nell'oscurità, Ingryl vide un'ultima cosa: il suo assassino non aveva faccia. Molto tempo dopo, Ingryl Ambelter riacquistò conoscenza e consapevolezza. Il freddo fuoco ronzante della magia gli stava scorrendo dentro, cosa che stava facendo da un tempo molto lungo, tanto che ormai la sua opera era quasi conclusa, e gli anelli che avevano elargito tutta la loro magia antica di secoli si stavano riducendo in polvere e cenere. Poi il flusso di energia magica che scaturiva da essi prese a pulsare nell'attenuarsi, segno che presto si sarebbe estinto del tutto. Non aveva importanza, perché aveva svolto il suo compito. Era stato distaccato dal corpo che aveva forgiato in precedenza e tuttavia era ancora vivo. Adesso si sarebbe creato un nuovo corpo, servendosi di quello del Koglaur che aveva osato attaccarlo. Il fatto che i Koglaur non fossero del
tutto umani non aveva importanza, perché in quel rifugio lui disponeva di una quantità di magia più che sufficiente per distorcere, rimodellare e costringere la materia a corrispondere alla scorta di unghie, capelli e carne del proprio corpo originale, riposta con cura. Oh, no, Darsar non si sarebbe liberato così facilmente di Ingryl Ambelter. L'uomo che era stato Maestro d'Incantesimi chiamò a raccolta la propria forza di volontà e si concentrò sul lento, macabro compito di tornare a essere un uomo. Su, pensò intensamente. Su. Tre volte fece appello alla propria volontà, sentendo la magia che vorticava e reagiva in risposta, e inorgogliendosi per quel risultato. Anche se gli ci sarebbero voluti molti tentativi per riuscire a spostare le cose con il solo ausilio della magia che gli scorreva dentro, infatti, pochi uomini in tutto Darsar erano in grado di manipolare la magia come sapeva fare lui. La maggior parte dei pochi che avevano il potere necessario per utilizzarla e ne erano consapevoli, infatti, potevano operare soltanto seguendo faticosamente, e alla lettera, le annotazioni e gli incantesimi scritti da altri che li avevano preceduti, come cuochi novizi che seguissero ciecamente le istruzioni di una ricetta. Ingryl Ambelter era molto più di un lettore di ricette, poteva indurre la magia a danzare per lui. «Danza», cercò di dire, pur consapevole che si stava lacerando la pelle e che stava sputando sangue. «Danza!». Eccitato da un'improvvisa esultanza, si impose di alzarsi con una determinazione ancora maggiore, e qualcosa cedette intorno e sotto di lui, qualcosa di umido e di frusciante. Ingryl tirò, sobbalzò... e fu libero. Il Maestro d'Incantesimi avrebbe riso all'idea che i vermi da lui allevati con cura potessero pensare e vedere abbastanza bene da riconoscere lui o una qualsiasi altra particolare creatura. Erano creature prive d'intelletto, cose la cui bava, grazie a un'accurata procedura fatta di molteplici incantesimi, era soltanto disgustosa per lui, ma fatale per tutti gli altri. Nondimeno, le innumerevoli piccole teste si voltarono all'unisono per guardare quando un teschio fradicio di sangue esplose dalla massa insanguinata che era stata Ingryl Ambelter, trascinandosi dietro la spina dorsale come una sorta di grottesca coda, e volò verso di loro attraverso l'aria. Ingryl notò però ciò che accadde l'istante successivo, e ne rimase stupefatto: al suo avvicinarsi, la cortina di vermi si aprì silenziosamente. Una volta nella piccola camera di pietra al di là di essa, il Maestro d'Incantesimi ignorò ogni cosa tranne la bara sul tavolo: nello stato in cui era
adesso, i suoi fulmini protettivi lo avrebbero aiutato, invece di danneggiarlo, ma doveva sollevare o infrangere il coperchio della bara per riuscire ad aprirla, e questo senza perdere troppa parte di se stesso durante quell'operazione... e gli incantesimi apposti alla cassa la rendevano molto più dura di un insieme di ossa. Dentro di essa giaceva lo scheletro del suo antico maestro, Gadaster Mulkyn, che, se solo fosse riuscito a toccarlo e a sibilare una parola, conservava ancora abbastanza fuoco da permettergli di modellare un nuovo corpo. Naturalmente, lo scheletro di Gadaster si sarebbe consumato un po' di più, ma del resto era a questo che serviva lo scheletro incantato di un maestro che era stato assassinato a tradimento dal suo allievo. Scendendo con cura in modo da posizionarsi esattamente nel punto giusto, Ingryl agganciò una maniglia del coperchio con la mascella e volò verso l'alto. La bara si aprì con estrema facilità, quasi fosse stata fatta di seta, e dopo aver lasciato cadere il coperchio, che rimbalzò contro il tavolo in mezzo a grandi nubi di polvere, il Maestro d'Incantesimi si adagiò con sollievo all'interno della cassa, sibilando la parola che avrebbe destato il fuoco freddo racchiuso in Gadaster. Una volta ricostruito il proprio corpo, sarebbe rimasto nascosto là per qualche tempo, spiando i Koglaur con i propri incantesimi, e a volte inviando durante il sonno «visioni divine» nella mente di qualche membro anziano del clero del Serpente, rivelando l'identità di specifici Koglaur e l'aspetto che assumevano, sempre che fosse riuscito a scoprirlo. Insinuandosi nei sogni degli adoratori del Serpente, avrebbe ordinato loro di colpire e distruggere «i nostri peggiori nemici», parlando come se fosse stato il Serpente stesso. Perché lui era il Maestro d'Incantesimi, e poteva osare di fare una cosa del genere. Anzi, poteva fare ancora di più. Quando fosse stato abbastanza in forze, avrebbe dato al suo nuovo corpo l'aspetto del Re Ridestato e avrebbe occupato il Trono del Fiume come sovrano di Aglirta. Chi avrebbe potuto dire che lui non era il vero re? Un uomo dalla mente devastata o un cortigiano che ora era già tornato a Sirlptar, oppure i Senzafaccia della leggenda, che ogni Aglirtiano avrebbe odiato e temuto al solo vederli? Il suo primo atto da sovrano sarebbe stato quello di convocare il Barone Berias Loushoond perché si presentasse da lui a corte. Prima avrebbe contattato mentalmente Loushoond, in modo da accertarsi che quell'idiota portasse con sé una scorta nutrita di armaragor, nel caso che
l'Isola della Corrente Spumosa avesse avuto bisogno di essere difesa. Adesso che il Serpente e il re erano svaniti entrambi, quella era di nuovo una battaglia da combattere con guerrieri e incantesimi, e finché fosse rimasto seduto sul trono, l'avidità avrebbe fatto convergere su di lui tutti i suoi nemici. Ridotto momentaneamente a un insanguinato verme di ossa adagiato in una bara aperta, Ingryl rise ad alta voce nel pensare a tutte le trappole che poteva costruire in quello che era stato il Castello di Silvertree utilizzando magie nascoste molto tempo prima in svariati luoghi segreti, come questo, in tutto il castello. Quanto a Lady Embra e a quei tre zoticoni dei suoi amanti, ebbene, Piede di Velluto valeva il prezzo che chiedeva, e ormai doveva essersi già occupato di quegli irritanti avventurieri... 26. Morte, antichi incantesimi e vecchi nemici La Dama dei Gioielli scosse il capo con aria incredula. «È un bene che i miei antenati credessero nel collezionare paccottiglia magica», commentò, infilando boccali, statuette e oggettini nelle sacche della cintura da fromboliere che Hawkril le aveva dato. Il guerriero l'aveva presa come bottino di guerra molto tempo prima, ma fino ad allora non aveva mai trovato un'adeguata quantità di piccoli oggetti con cui riempirne tutte le tasche, che erano state create per contenere le pietre per le fionde. «Non riesco a credere che ci siano a disposizione ancora intere stanze di cose del genere che possiamo saccheggiare!». «Sii contenta che li abbiamo», borbottò Hawkril, alle sue spalle. «Non ho nessuna simpatia per l'uso della magia, ma per risanarti abbiamo dovuto consumare cinque fra le statuette più brutte che abbia mai visto». «Non ne dubito», sorrise Embra, scuotendo il capo con aria contrita. Dall'altra parte della stanza, Sarasper era impegnato a sua volta a riporre file e file di oggetti magici in sacche, sacchetti e dentro gli stivali, ed Embra aveva il sospetto che Craer ne avesse almeno una dozzina in più di quanto volesse ammettere, nascosti un po' ovunque nei vestiti. I Quattro si trovavano in un'enorme camera dall'alto soffitto, nel cuore di un'immensa torre rotonda, all'estremità meridionale della Casa Silenziosa. Sopra di loro si allargava uno splendido soffitto a volta, sorretto da numerose, massicce colonne di pietra, e le pareti erano rivestite da pannelli di
legno scuro, un tempo splendidi ma ora danneggiati da anni d'infiltrazioni d'acqua dall'alto, che avevano rovinato anche parecchie alte credenze, una volta magnifiche, disposte lungo il perimetro della camera, con gli scaffali ora vuoti di qualsiasi cosa se non polvere e ragnatele. Dovunque si era posata, l'acqua aveva lasciato il legno gonfio, afflosciato e chiazzato di muffa. Dopo altri due brevi e violenti scontri nell'oscurità, Sarasper aveva risanato i compagni quanto bastava a permettere loro di muoversi, sia pure barcollando, e li aveva guidati in quella camera. Nel corso di quel faticoso tragitto, il guaritore aveva barricato i Quattro dietro almeno sei porte chiuse e sbarrate. Da quando erano arrivati là, avevano dormito, mangiato, erano stati risanati e avevano dormito ancora, sentendo nel frattempo i rumori prodotti da almeno due di quelle porte che venivano aperte con la forza: una serie di schianti soffocati (misti a urla e imprecazioni) causati dal crollo della massa di mobilio rovesciato che Sarasper aveva ammucchiato su un tavolo dietro una di esse e da quello che aveva accatastato dietro la porta successiva. Gli intrusi stavano dilagando ovunque nella Casa Silenziosa: bande di guerrieri, maghi con le loro guardie del corpo e altri ancora. Dovunque quei gruppi s'incontravano scoppiavano combattimenti. Fino a quando qualcuno armato di balestra non aveva posto rimedio con la forza alla cosa, il numero di quei cacciatori di Dwaer aveva incluso un gruppo che si serviva di felini notturni addestrati, e qualcun altro aveva animato un cadavere, che aveva continuato ad aggirarsi con passo strascicato per i passaggi, abbattendo i nemici a randellate finché non era stato fatto a pezzi. Urla di agonia e grida irose echeggiavano spesso, mentre i membri della Banda dei Quattro se ne stavano seduti nel loro rifugio, scuotendo il capo per il disgusto. Possibile che tutti gli Aglirtiani fossero diventati avidi fuorilegge? Attualmente, il palazzo abbandonato dei Silvertree si era trasformato in un'altra Indraevyn, e adesso perfino Embra era decisa a ripulire il regno dagli avidi cercatori di Dwaer che si aggiravano fra le sue mura. Avanzando a grandi passi nella stanza, gettò via con decisione l'elmo che Hawkril le aveva rimesso sulla testa. «Non intendo portarlo», dichiarò, lanciandogli un'occhiata rovente. Mentre l'elmo cadeva fragorosamente al suolo e rimbalzava fino a fermarsi, Hawkril aprì la bocca per ribattere, ma Embra sollevò una mano per bloccare sul nascere le sue proteste.
«Nulla di tutto questo ci ha aiutati a trovare un solo Dwaer», ricordò ai compagni. «Tutto quello che ha fatto è stato far convergere su di noi eserciti di altri cercatori di Dwaer». Le risposero tre cupi e silenziosi cenni di assenso, un momento prima che la porta della stanza si aprisse di schianto con una pioggia di schegge, e una massa di uomini in armatura si lanciasse alla carica urlando. «Visitatori!» esclamò allegramente Craer, e sferrò un calcio a una botte, la cui rimozione avrebbe fatto riversare sugli intrusi una catasta di arredi. «Benvenuti! È un vero piacere!». «Per noi», aggiunse ringhiando Hawkril, mentre scagliava i resti marci di un tavolo, un tempo massiccio, contro il guerriero che guidava la carica. Nell'andare in pezzi, il tavolo scagliò l'uomo all'indietro, e un momento più tardi il suo corpo inarcato venne spazzato via dalla ruggente marea di mobilio che aveva già travolto i suoi compagni. Il gemente caos rotolante di legno pesante si andò ad arrestare contro la parete opposta con uno schianto assordante e alte nuvole di polvere, poi calò il silenzio. I membri della Banda dei Quattro rimasero in attesa con le armi spianate, ma c'era soltanto un singolo avversario che ancora si muoveva debolmente, gemendo; Craer provvide a eliminarlo, poi i Quattro si sdraiarono fra le macerie, fingendosi a loro volta vittime e attendendo il sopraggiungere della successiva banda di cercatori di Dwaer. Non dovettero aspettare molto: ben presto, una voce altisonante echeggiò nel passaggio all'esterno della camera, facendosi sempre più vicina. «Se fra noi Tanthus è il più abile nelle manovre furtive, Sargin ha anche lui al suo attivo una quantità di audaci imprese e di coraggiose uccisioni, di cui sono certo sarà lieto di parlarvi in un momento più appropriato. Attualmente, ci stiamo avvicinando a un luogo che può offrire pericoli, quindi Shamurl e io avanzeremo per primi per fare ciò che ci riesce meglio: attaccare il nemico!». Embra e Craer, che erano distesi in punti da cui potevano vedersi a vicenda, ebbero appena il tempo di scambiarsi un'occhiata incredula prima che alcune figure in armatura oltrepassassero d'un balzo la porta aperta, assumendo una posa eroica, la spada scintillante stretta in pugno. La loro armatura completa in piastre argentee era avviluppata da un chiarore magico, in mezzo al cui fuoco freddo erano visibili due teste prive di elmo: quella di una donna sfregiata dall'aria cupa e quella di un uomo dalle guance grasse che sfoggiava un'appuntita barba nera. «Siamo pronti alla battaglia», dichiarò quest'ultimo, con la stessa voce
ricca e altisonante di poco prima, «e difenderemo la prima linea mentre i nostri compagni avanzano!». Due uomini vestiti di cuoio scuro e con una maschera di seta nera sul volto sgusciarono nella camera, tenendo in mano ciascuno tre coltelli da lancio pronti a essere utilizzati; alle loro spalle avanzarono quindi quattro menestrelli che reggevano una manciata di flauti, e risultò allora evidente che le parole dell'uomo con la barba erano dirette a loro. «Dinanzi a noi si allargano i resti insanguinati di una battaglia», proclamò, indicando con la spada. «Dobbiamo essere nelle vicinanze di qualche bestia spaventosa, se ha potuto abbattere tanti guerrieri così valorosi e capaci... o forse la malvagia maga Silvertree sta usando il suo Dwaer con letale efficacia, facendo vorticare nell'aria il mobilio stesso perché a un suo ordine si schianti sui suoi nemici! Io, Amarandus il Leone, non conosco la paura, perché finora non ho mai assaporato la sconfitta. Quali che possano essere gli oscuri pericoli che ci attendono, noi che siamo le Lame Luminose e la Speranza di Aglirta non falliremo, ma ci apriremo la strada verso la gloria! Guardate ora, mentre ci addentriamo nel...». «In un benedetto silenzio», ringhiò Craer, alzandosi di scatto per scagliare una daga con entusiastica energia. Amarandus il Leone era davvero rapido di riflessi: la lama scintillante che stringeva in pugno si sollevò repentina e spinse di lato la daga con un clangore metallico simile al rintocco di una campana. Purtroppo per lui, Craer aveva scagliato una seconda daga, a un brevissimo intervallo di tempo dalla prima. Una gola barbuta ne intercettò la lama con un gorgoglio, e Amarandus il Leone ruotò lentamente su se stesso, la schiena inarcata nell'agonia, drammatico fino all'ultimo, per poi crollare al suolo a faccia in avanti. I procacciatori delle Lame Luminose erano a loro volta muniti di daghe e le lanciarono contro Craer con forza e rapidità, ma Hawkril emerse dal mare di mobilio come una montagna corazzata e la maggior parte delle lame cozzò rumorosamente contro la sua armatura mentre lui veniva avanti, facendo descrivere alla lunga spada ampi archi letali che costrinsero i due uomini in armatura di cuoio a schivare o a ritrarsi di scatto, mentre l'altra guerriera in armatura, Shamurl, si addentrava a sua volta in mezzo ai resti del mobilio, puntando su Hawkril. I bardi sussultarono e si protesero a seguire la scena come popolani raccolti ad assistere a un duello. «Fra poco cominceranno a fare scommesse», borbottò Sarasper, fissandoli con occhi roventi, poi si abbassò in tutta fretta per schivare un paio di
coltelli scagliati nella sua direzione. Arricciando le labbra, Embra rispose con lame di sua creazione, aghi di energia magica che vibrarono attraverso l'aria, dritti e rapidi come frecce. Tanthus fu abbastanza rapido da tuffarsi lontano dalla traiettoria di quella che avrebbe dovuto annientarlo, ma Sargin non fu altrettanto svelto. «Possibile che non abbiano un mago?» mormorò Embra a Sarasper, mentre se ne stavano accoccolati insieme al riparo dei resti inclinati di una massiccia credenza, un tempo splendida. «Lingua di Leone era davvero stolto e arrogante fino a questo punto?». «Forse», replicò Sarasper, che stava fissando con occhi socchiusi la guerriera mentre questa avanzava verso Hawkril. «Eppure...». Quando arrivò abbastanza vicina da essere appena fuori dalla portata della lama di Hawkril, la guerriera sollevò la spada con un gelido sorriso e si praticò un taglio sul palmo della mano; girandolo in modo da raccogliere a coppa il sangue che stava scaturendo, vi lasciò cadere dentro alcuni frammenti di ruggine misti a scaglie di metallo, sussurrando al tempo stesso una parola. «Hawk, fatti indietro!» gridò Embra, «È un incantesimo che scioglie il metallo!». Una lama saettò ronzando verso la sua testa, scagliata da Tanthus, che aveva visto offrirsi l'occasione di abbattere la Dama dei Gioielli, ma mentre Embra accennava a ritrarsi di scatto, pur sapendo che quella sua mossa era stata prevista e che si stava muovendo nella direzione sbagliata, un'altra daga scaturì dal nulla per colpire quella diretta verso di lei con un musicale suono metallico. Un momento più tardi, Tanthus si piegò in avanti emettendo uno strano colpo di tosse, le mani serrate intorno a un'impugnatura che gli sporgeva dalla gola. Craer amava scagliare le daghe a due per volta. Intanto la guerriera Shamurl stava avanzando con espressione trionfante, il metallo che le cadeva di dosso tintinnando come una miriade di schegge di vetro... una sorte condivisa dall'armatura di Hawkril, che si ricoprì di un'improvvisa rete di crepe mentre lui si affrettava a indietreggiare incespicando, e rischiò quasi di cadere in mezzo al groviglio di gambe di tavolo staccate e di sgabelli rotti. Con una mossa frenetica, l'armaragor scagliò allora lontano la propria spada, lanciandola alle proprie spalle e mandandola a cadere in un angolo lontano; poi si girò e spiccò la corsa verso il punto in cui era atterrata l'arma, il metallo che gli scivolava via dai muscoli massicci delle spalle, rive-
lando la sottostante imbottitura chiazzata di sudore. Quanto a Shamurl, i suoi indumenti di cuoio erano costellati di foderi, e nel lanciarsi all'inseguimento di Hawkril, lei estrasse da due di essi spine lunghe quanto il suo avambraccio. Nel vederle, Embra sussultò: quelle spine dovevano provenire dai rampicanti che crescevano nelle torride foreste del lontano sud, ed erano abbastanza grandi da poter essere comodamente usate come daghe! Non appena fu emerso dal groviglio di mobili infranti, Hawkril si volse e s'incurvò leggermente in avanti, aspettando l'avversaria. «La magia si sposta con lei?» chiese ringhiando da sopra la spalla. Embra e Sarasper scossero entrambi il capo, prima di rendersi conto che l'armaragor non li stava guardando. «No», risposero allora all'unisono. «Una volta attivata, non si allarga mai di molto», aggiunse il guaritore. «Bene», annuì Hawkril, cupo, ignorando il progressivo sgretolarsi delle fibbie e il conseguente, rumoroso staccarsi di baltei e cinture che lo ridusse a indossare soltanto gli stivali, i calzoni e l'imbottitura. Per nulla intimorito, il guerriero prese ad avanzare, intimando: «Arrenditi, donna!». «Muori», sibilò di rimando Shamurl, attaccando. Con una scrollata di spalle, Hawkril si dispose a fronteggiare la sua carica. «Hawk!» esclamò Embra, in tono di avvertimento, ma mentre i bardi sgranavano gli occhi e cambiavano posizione per poter avere una migliore visuale degli eventi, l'armaragor e la guerriera si scontrarono e vennero a un corpo a corpo, Shamurl che cercava di colpire con le spine. Hawkril spinse di lato una di quelle lame naturali con una torsione del corpo e un colpo all'avambraccio dell'avversaria, e quando la seconda spina calò verso di lui, l'afferrò appena sotto il punto in cui la donna l'impugnava, tirò fino a dirigerla lontano dal proprio corpo e poi, mentre la donna sferrava una violenta ginocchiata verso l'alto e gli mordeva la faccia, ruotò la mano libera in un ceffone che raggiunse Shamurl alla tempia e la fece ruotare su se stessa, le spine che volavano lontano, prima di mandarla ad abbattersi sul mobilio con un sonoro schianto. La guerriera si contorse per il dolore, artigliando l'aria, poi si accasciò lentamente e giacque immobile. Dall'altra parte della stanza, parecchi bardi applaudirono, attirandosi un'occhiataccia da parte di Hawkril. «Avevi ragione», disse in tono secco l'armaragor, rivolto a Embra, nel
raggiungere i compagni. «Questa è stata un'idea stupida. Siamo proprio dei begli Eroi del Re, non c'è che dire. Mi piaceva quell'armatura». «Nell'armeria ce ne sono altre», gli ricordò Sarasper. «Ma prima dobbiamo arrivare fin là», obiettò Craer. Hawkril piegò il collo all'indietro per spingere lo sguardo al di sopra della testa del compagno, che si abbassò prontamente per garantirgli una visuale migliore. «Cosa ti sta frullando per il cervello, Spilungone?» chiese. «La mia spada da guerra è sopravvissuta?». Embra gli batté un colpetto rassicurante sul petto. «Se non si è rotta nell'atterrare, e dal rumore che ho sentito non direi proprio, non le è successo niente», garantì. L'armaragor oltrepassò i compagni, diretto verso l'angolo lontano in cui era atterrata l'arma. «Se non vi dispiace...» borbottò. Vicino alla porta, un bardo urlò quando qualcuno lo trapassò alle spalle con una spada, mentre l'uomo sussultava e si accasciava al suolo con un gorgogliante colpo di tosse, aiutato da un piede crudele calzato di stivale che gli assestò una spinta nel posteriore, gli altri menestrelli si affrettarono ad arrampicarsi su per le pareti e sopra le credenze, farfugliando di terrore nel sentire una fredda risata echeggiare dietro di loro. «Lasciali perdere, Kordul», ordinò qualcuno. Accoccolandosi al riparo dell'aggrovigliata barriera di mobili distrutti, Craer ed Embra sbirciarono in direzione di quel nuovo nemico; alle loro spalle, intanto, Sarasper non perse tempo a guardare e si affrettò invece a gettare per terra cinture e sacchetti, drappeggiando le proprie vesti su di essi e cominciando a sviluppare zampe da ragno e pelo. Recuperata la spada, Hawkril tornò a raggiungere i compagni con l'arma in pugno, giusto in tempo per assistere al nuovo arrivo. Tre alti armaragor dall'aria competente entrarono nella stanza per raggiungere i tre che già vi si trovavano; in mezzo a essi procedevano due alti maghi dalle vesti sfarzose, che sfoggiavano alti stivali e un freddo sorriso imperioso. Uno di essi reggeva un bastone alto quanto lui, la cui scura asta era continuamente solcata da bagliori magici che scorrevano e ammiccavano. I Quattro dovettero ammettere che gli otto nuovi avversari apparivano decisamente pronti a combattere. «Banda dei Quattro!» chiamò uno di essi, fissando con occhi roventi sia Hawkril sia le teste che sbucavano da dietro l'ammasso di corpi e di mobili
infranti, «vi chiedo di consegnarci i Dwaer, per il bene del regno!». «Lascia fare a me», si affrettò a borbottare Craer, sollevando una mano per bloccare Embra. «Conosco quel mago, a causa delle sue azioni e delle chiacchiere che circolano su di lui più che per conoscenza diretta». Alzando la voce, gridò quindi di rimando: «In che modo consegnare una simile magia nelle mani di una banda di mercenari di Sirlptar potrebbe fare il bene del regno?». «Noi abbiamo abbastanza potere da essere in grado di ricacciare nelle loro torri i baroni attualmente in marcia, da stroncare le opere oscure di coloro che servono il Serpente e da ridare la pace a questa terra. Con i Dwaer potremo farlo in pochi giorni, e inoltre potremo impedire che i baroni e i maghi che li servono operino contro di noi». «Noi serviamo il Re Ridestato», disse Craer. «Voi di chi siete al servizio?». «Noi tutti serviamo il legittimo re di Aglirta», ribatté il mago, in tono severo. «Che nessuno metta in dubbio la fedeltà delle Spade di Sirlptar». «Idiozie», borbottò Hawkril. «I maghi di Sirl servono solo loro stessi». «È questo ciò che pensi, guerriero?» replicò il mago che finora era rimasto in silenzio, e fece un passo avanti, una lingua di fiamma che descriveva una lenta spirale intorno a un'estremità del suo bastone magico. Embra socchiuse gli occhi con sospetto nell'esaminarlo con maggiore attenzione: contrariamente a qualsiasi altro bastone del genere che lei avesse mai visto, questo sembrava fatto di un qualche metallo scuro, e aveva una lunga e spessa asta centrale adorna di ganci e di sporgenze uncinate che si assottigliavano a entrambe le estremità in sottili cilindri simili alla punta di molti bastoni di legno. Se funzionava come quello che i maghi amavano chiamare un «bastone vero», esso poteva scatenare due incantesimi per volta. «I tuoi rapporti, guerriero, devono essere stati con uomini disonesti di infimo rango», continuò intanto il mago che impugnava il bastone, con un freddo sorriso sprezzante. «Sirlptar è dimora di ricchi e poveri, di potenti e di nullità, di uomini e di creature che sono meno che uomini, provenienti da decine di porti e da altrettante terre. Noi commerciamo e conviviamo con tutti, il che ci rende molto più adatti a guidare Aglirta di qualsiasi barone di campagna, con i suoi maghi da quattro soldi e i suoi rozzi complotti». «Ah, adesso parliamo chiaro», commentò Craer, in tono quasi allegro. «Voi sareste i più adatti a guidare Aglirta. Oso dire che fra tutti e otto tro-
vereste il trono un po' angusto e affollato». «Non era questo che intendevamo dire», scattò il primo mago, «né è quanto abbiamo affermato, Delnbone. Peraltro, non ci interessa sprecare tempo in atteggiamenti fasulli e stupidi battibecchi, quindi vi chiediamo ancora una volta di consegnarci spontaneamente ciò che il nostro potere ci permetterebbe di prendere abbondantemente con la forza: volete darci i Dwaer oppure no?». Embra posò con fermezza una mano sul braccio sia di Craer che di Hawkril per segnalare loro di tacere, poi avanzò fino ad addossarsi al bordo scheggiato di un tavolo. «Prima che qualsiasi incantesimo lasci le mie mani, come dono o per uccidere», affermò con fare cordiale, «mi piacerebbe avere un'idea più precisa delle persone con cui sto avendo a che fare. Vedo una banda di guerra composta da sei armaragor veterani guidati da due maghi, e mi è dato di capire che provenite dalla città di Sirl. Posso vedere degli abili guerrieri che, a quanto ho sentito, vi obbediscono, signori, ma voi chi siete? O forse devo chiedere a questi bardi di presentarvi a me?». I bardi che stavano seguendo in silenzio la scena si ritrassero con improvviso timore quando il mago con il bastone girò di scatto la testa nella loro direzione con un rovente sguardo di ammonimento. «Ah, ma che fine hanno fatto le mie buone maniere?» commentò intanto l'altro mago, con un pacato sorriso felino. «Lady Silvertree, permettimi di presentarti Nlorvold "Bastone Devastante", così chiamato in virtù del potente bastone magico di cui dispone. Lui e io ci siamo conosciuti alcuni anni fa, lontano da qui, mentre eravamo impegnati nella stessa ricerca, quella di una terra dove ci siano ancora dei draghi e le rare dame dotate del potere di domarli». «E avete trovato questo luogo, Ser Innominato?». «Ah. Perdonami, signora. No, non lo abbiamo trovato, almeno per ora. Inoltre, ho dimenticato di dirti il mio nome. Sono conosciuto come Ressheven, delle Due Lune». Craer emise un piccolo verso di gola che, se fosse stato più forte, sarebbe potuto essere un sarcastico colpetto di tosse, e rivolse un'occhiata in tralice a Embra. «È chi dice di essere», sussurrò. Embra non parve favorevolmente impressionata: Due Lune era un nome noto a chiunque frequentasse una qualsiasi taverna della Valle, ed era quello di una famigerata, e ora scomparsa, scuola di maghi «maledetta», i cui
allievi erano stati addestrati a usare la magia per la guerra. «Vedo che il nome della mia antica dimora non ti è sconosciuto», commentò Ressheven, elargendo a Craer quel suo sorriso felino. «Dunque ora ci conosciamo a vicenda, signore», continuò intanto Embra, scrollando le spalle, «e tuttavia trovo che questa familiarità ci porti a...». D'un tratto s'interruppe, quando due degli armaragor si volsero di scatto con la spada in pugno, fronteggiando la porta da cui erano entrati e da cui stava ora giungendo del rumore improvviso. «Veniamo per essere testimoni degli eventi!» venne ripetuto a gran voce, più di una volta. «Altri bardi?» ringhiò Hawkril in tono incredulo, quando una dozzina di uomini, o forse anche di più, uno dei quali munito di un liuto e altri due che trasportavano un terzo uomo su una lettiga, varcarono la soglia con passo esitante. «Sono i cronisti delle vostre gesta?» chiese intanto Embra ai maghi delle Spade, «oppure ammiratori che vi seguono avidamente ovunque andiate?». «Ora basta!» ringhiò disgustato Nlorvold «Bastone Devastante», rivolto ai compagni. «Non ci consegneranno mai nessun Dwaer! Vogliono soltanto fare sfoggio di parole argute e arroganti al cospetto dei bardi!». Nel parlare sollevò il bastone, dal quale partì una lingua di fuoco. Hawkril si tuffò prontamente al suolo e il mago spostò il bastone per seguire il suo movimento, con il risultato che il suo arco di fiamma incendiò buona parte del mobilio frantumato. «Sembro io quando inveisco contro i maghi», commentò intanto Hawkril con un sorriso, impugnando più saldamente la spada. Embra rispose con un sorriso in tralice mentre lasciava partire l'incantesimo che stava già aleggiando fra le sue mani a coppa nascoste dietro la schiena. Esso fece sollevare le piastrelle del pavimento tutt'intorno al mago con il bastone in un piccolo vortice tempestoso che sollevò Nlorvold da terra e lo mandò a sbattere contro due dei guerrieri alle sue spalle, scaraventandoli poi tutti e tre al suolo, pesantemente. Intanto, anche Ressheven aveva avviato un incantesimo, e di colpo l'aria si riempì di dozzine di daghe saettanti che potevano volare grazie a nere ali di corvo e che scesero in picchiata in uno stormo scuro per seminare morte, abbattendosi in pari misura sui Quattro e sui bardi, mentre i guerrieri delle Spade rimanevano acquattati accanto al loro mago e si limitavano a contemplare quella carneficina.
Craer cadde al suolo e rotolò con un sussulto, serrandosi una spalla, mentre Hawkril si lasciò sfuggire un'imprecazione quando due rosse linee di sangue gli apparvero sul fianco e sulla schiena in altrettanti secondi, per quanto si sforzasse di spingere lontano quelle lame che gli sciamavano intorno fameliche. Intanto due bardi precipitarono dai loro alti rifugi, le mani serrate intorno alla gola, e un terzo si rovesciò silenziosamente in avanti, una daga che gli sporgeva da un occhio. La Dama dei Gioielli notò che ciascuna di quelle lame si dissolveva lentamente nel nulla non appena versava del sangue, senza però che questo annullasse il danno da essa provocato... poi urlò quando una di quelle lame magiche le puntò dritta verso gli occhi e la spinse di lato con un colpo disperato della mano che le generò un intenso bruciore lungo il palmo. La daga scomparve nel cambiare traiettoria, ed Embra non ebbe bisogno di abbassare lo sguardo per sapere che la sua mano stava sanguinando. «Embra!» ringhiò Hawkril, il volto contratto dal dolore, nell'intercettare una daga con il palmo. «Fa' qualcosa!». 27. Gli dei riservano sorprese La Dama dei Gioielli fissò Hawkril e le lame che sciamavano loro intorno, deglutì a fatica e prese a riflettere intensamente sul da farsi. Un incantesimo dei «molti lampi» non aveva a disposizione nulla che potesse catturare e abbattere quei coltelli, e un suo annullamento avrebbe potuto distruggere solo una di quelle lame volanti e non l'incantesimo che le animava. Se però fosse riuscita a uccidere o a stordire il mago che le aveva create... Sarasper però la prevenne, agendo per primo. Senza essere notato da nessuno, né dai bardi né da uno qualsiasi dei guerrieri delle Spade, si era arrampicato sul cumulo di mobili infranti e si era acquattato appena dietro il suo culmine, da dove ora spiccò un grande balzo verso l'alto e in avanti, simile a un irsuto e gigantesco ragno, ricadendo con tutte le zampe piegate in avanti per dare una spinta alla montagna di legno in modo da provocare una nuova frana che si riversò sul mago Ressheven con la violenza di un cavallo al galoppo, seppellendolo prima che lui, colto di sorpresa, potesse fare qualcosa di più che lanciare un urlo. In tutta la stanza, le daghe dalle ali nere scomparvero improvvisamente.
Sarasper intanto cavalcò quella valanga di mobilio rotolante fino ad arrivare in mezzo alle Spade di Sirlptar, guardando mentre gli armaragor correvano o saltavano per togliersi dalla traiettoria della frana, fuggivano addirittura dalla stanza o non avevano neppure il tempo di fuggire e venivano travolti e scagliati lontano come se fossero stati dei giocattoli. Molto prima che la frana arrestasse la propria avanzata, lo zannelunghe se ne staccò con un balzo per piombare sul petto di Nlorvold Bastone Devastante, che era appena riuscito a rimettersi in piedi e si teneva appoggiato al bastone, con il respiro affannoso. Il mago crollò a terra, e prontamente fauci da lupo gli squarciarono la gola, poi gli artigli strapparono la testa a cui era appartenuta quella gola e la gettarono in grembo a un bardo inorridito, il tutto in un vortice di movimento che iniziò e si concluse senza dare ai guerrieri delle Spade il tempo di fare nulla, se non restare a guardare a bocca aperta, gridando. Arti pelosi cercarono quindi di afferrare il bastone rimbalzante, mancarono la presa e infine riuscirono a chiudersi intorno a esso. Scagliandosi in avanti, un terrorizzato guerriero delle Spade colpì disperatamente gli arti del lupo-ragno, nel punto in cui erano ripiegati intorno al bastone: un'ondata di scintille azzurre e di lingue di fiamma si levò sulla scia del colpo, mentre Sarasper si ritraeva con un ruggito di dolore e uno schizzo di sangue. Imbaldanzito dal risultato ottenuto, il guerriero tornò a colpire, e uno dei suoi compagni si affrettò a imitarlo. Colpi brutali cominciarono a piovere verso il basso, due, tre volte, prima che Hawkril, impegnato ad aprirsi un varco in mezzo ai rottami, potesse arrivare sul posto. E il Bastone Devastante esplose. La violenza dello scoppio scaraventò lo zannelunghe dalla parte opposta della stanza, sollevò da terra Hawkril, sbattendolo contro la base di una colonna nel centro della camera e riversò una pioggia di braccia e di gambe di guerrieri delle Spade in pari misura sui bardi, sulle alte credenze e sui rottami che ingombravano il pavimento. Steso sulla lettiga, Flaeros Delcamper sussultò e ripiegò le braccia non del tutto guarite sopra la testa, raggomitolandosi disperatamente quando il mondo intorno a lui andò in pezzi con un ruggito assordante. La violenza dell'esplosione fece ruotare su se stessa la lettiga e la mandò a sbattere contro la porta con uno schianto; pochi istanti più tardi, la testa di uno degli armaragor delle Spade volò al di sopra di essa, quasi centrando Flaeros in piena faccia per poi rimbalzare con un suono molle e andare a fermarsi più avanti lungo il passaggio. A quel punto, cosa che parve quasi incredibile agli assordati e storditi
superstiti dell'esplosione, la quiete e il silenzio scesero sulla stanza nel cuore della torre. Dalle rovine della lettiga, Flaeros sbirciò nella vasta camera e vide quattro o cinque altri bardi fare la stessa cosa, mentre un'altra manciata si dibatteva e gemeva in preda al dolore. Proprio davanti a lui, due armaragor delle Spade di Sirlptar stavano barcollando in avanti con passo incerto, diretti verso il punto in cui qualcuno si stava muovendo fra le macerie, e più lontano Flaeros vide la Dama dei Gioielli e il procacciatore che si rialzavano a loro volta, altrettanto barcollanti. Infine, con un ringhio di rabbia che gli scaturiva dai denti serrati e un paio di utili strattoni da parte degli armaragor, Ressheven delle Due Lune si rimise in piedi, con la faccia insanguinata e il furore nello sguardo. Sollevando come artigli le mani tremanti, lottò per controllarne i movimenti e non appena ci fu riuscito modellò un incantesimo, girandosi di scatto e puntando le dita verso la parte opposta della stanza, in direzione di Lady Embra Silvertree. «Muori, sgualdrina del re!» ringhiò, e dalle mani gli fuoriuscì qualcosa che non era fatto né di fulmini né di fuoco, ma ardeva di un'incandescenza bianca e rossa nel saettare in avanti, formando un raggio simile all'asta di una lancia che solcò la stanza rapido e preciso, dritto verso il punto in cui Embra si stava gettando disperatamente da un lato per spostarsi dalla sua traiettoria. Quella magia dalla forza devastante passò sopra Embra e Craer, continuando la propria corsa per andare a colpire la base di una delle massicce colonne, come un'onda che si abbattesse sulle rocce di una costa selvaggia. Con un lampo abbagliante e uno stridio che percosse ulteriormente orecchi già assordati, la pietra s'infranse e venne scagliata lontano: per un breve, incredibile momento, fra il pavimento e il resto della colonna ci fu soltanto un vortice di aria torturata. Poi, con un gemito che fece tremare la Casa Silenziosa e fece perdere l'equilibrio a tutti coloro che si trovavano nella stanza, la colona si staccò dalla volta trascinandosi dietro grosse pietre del soffitto e si rovesciò di lato come un enorme albero pietrificato, grande come il mondo e roboante come un rintocco di morte, nella direzione in cui si trovava Flaeros. In qualche modo, il giovane bardo si ricordò di urlare. Disteso nella bara aperta, Ingryl Ambelter rabbrividì quando un'improvvisa ondata di energia magica si levò crepitando dalle ossa di Gadaster, il
cui bagliore per un attimo si fece accecante. «Nel nome dei Tre», sibilò il Maestro d'Incantesimi, rivolto al soffitto. «Chi sta usando tanta magia... e per cosa?». Per un momento fu assalito dalla frenetica premura di procurarsi un nuovo corpo per poter circolare per il palazzo e scoprire di cosa si trattasse, ma un momento più tardi si sentì quanto mai lieto di essere disteso in quella profonda segreta, nella gelida e deserta oscurità di una stanza della cui esistenza nessun essere vivente era a conoscenza, dove sarebbe stato costretto a rimanere ancora per qualche tempo a venire. Questo avrebbe forse potuto aiutarlo a sopravvivere. La stanza tremò e poi sussultò da un'estremità all'altra con tanta forza da scuoterne le piastrelle, quando la massiccia colonna si abbatté al suolo, disintegrando in un istante due bardi in fuga. Singhiozzante per il terrore, un terzo menestrello si precipitò verso Flaeros. «Togliti di mezzo!» urlò. «Togliti! Via! Via!». Flaeros lottò per alzarsi o rotolare lontano, ma l'uomo terrorizzato si catapultò sopra la lettiga in un tuffo che lo scagliò a testa in avanti lungo il corridoio. Due bardi feriti dovettero invece arrampicarsi sui resti infranti della lettiga, quindi si presero il tempo di afferrare Flaeros in mezzo a loro per poi muovere insieme a lui qualche passo barcollante nel corridoio. Quando lo deposero a terra, ansimante, lui disse loro di lasciarlo lì; rivolgendogli un'occhiata piena di gratitudine, i due si allontanarono di corsa lungo il corridoio senza un'altra parola, sulla scia del collega già scomparso in lontananza. Piangendo per il dolore, Flaeros Delcamper si issò a sedere a ridosso della parete: a quanto pareva, si era fratturato di nuovo la gamba. Mordendosi un labbro, si costrinse a ignorare il dolore e tornò a guardare verso la stanza al di sopra della lettiga, così saldamente incastrata nella soglia che ormai pareva esserne parte integrante. Embra aveva l'impressione di aver passato un'eternità a strisciare, di aver sempre e solo strisciato. Tossendo a causa della fitta cortina di polvere, si trascinò sopra aguzze schegge di roccia: aveva una gamba inutilizzabile e aveva anche dei danni interni, da qualche parte lungo il fianco destro, anche se era stata investita soltanto da poche pietre, piccole e rotolanti. Addossato alla colonna, Hawkril si era già rialzato, per quanto barcollante, mentre Sarasper non aveva accennato il minimo movimento, tranne
il dissolversi delle zampe da ragno che erano tornate a essere gli arti feriti di un vecchio. «I Tre ci salvino», annaspò Embra, sputando sangue a ogni parola. «No, no, quello è compito mio!» esclamò allegramente Craer, da un punto imprecisato nelle sue vicinanze. Un istante più tardi, una scarica di energia si abbatté crepitando fra la polvere, colpendo alla cieca nell'area da cui era giunta la voce del procacciatore: a quanto pareva, il mago Ressheven era decisamente vivo, e ansioso di fare in modo che gli altri occupanti della stanza cessassero di esserlo. L'incantesimo da lui eseguito annullò in un istante la polvere che permeava l'aria. Embra girò la testa per guardare in direzione del mago di Sirl, chiedendosi se avrebbe fatto in tempo a scagliargli contro un incantesimo di qualche tipo, poi si trovò a scivolare lungo il lato opposto di un pendio di macerie, andando a fermarsi su un piccolo tratto di pavimento sgombro, lieta di non essere costretta a fare nulla. Craer si stava spostando di qua e di là fra le macerie, scagliando contro Ressheven gambe di mobili, sanguinanti pezzi di armaragor, frammenti di tavolo e spade infrante, in modo da sottoporre il mago a una grandine di oggetti che ammaccavano e rimbalzavano. Alcuni schianti alle sue spalle indussero poi Embra a rotolare supina... per gli dei, quanto faceva male!... per poter guardare nell'altra direzione, dove vide Hawkril, cupo e insanguinato, nudo fino alla vita e anche oltre, che stava avanzando con passo incerto e lento verso il mago, tenendo davanti a sé come uno scudo i resti di un tavolo massiccio. Quando Embra lo raggiunse, Sarasper aveva aperto gli occhi e stava gemendo debolmente; alle loro spalle, crepitarono altri fulmini, ma siccome furono seguiti dalla risata beffarda del procacciatore, Embra non si sforzò di girarsi a guardare. «Ragazza», urlò Sarasper, quando lei si sollevò a fatica su un gomito, accanto a lui, «dammi qualcuno di quegli oggettini dei Silvertree! Per gli dei, sto davvero male!». «Ritengo sia una lamentela comune a tutti noi», ribatté la Dama dei Gioielli, perdendo sangue dalla bocca nel parlare, e con dita tremanti gli mise in mano una statuetta scheggiata. «Non ne hai avuta molta cura, vero?» commentò il vecchio, con un accenno di sorriso. Poi chiuse gli occhi prima che lei gli potesse rispondere a tono, e la statuetta fu avviluppata da un bagliore magico. Prontamente, Embra si affret-
tò a recuperarne una seconda. Sei oggetti magici dei Silvertree si dissolsero nel nulla, mentre i fulmini imperversavano per la stanza alle loro spalle e Craer provocava il mago con frasi sempre meno sentite e creative. «Così va meglio», annunciò infine Sarasper. «Sopravviverò». Sollevando le dita insanguinate e scintillanti di un alone magico, le accostò alla bocca di Embra: nel baciarle, lei sentì subito un formicolio che le diffuse nel corpo un lento e progressivo attenuarsi del dolore, e il volto le si bagnò di lacrime di sollievo. «Hmmph. Neppure tu hai avuto molta cura di te stessa», borbottò Sarasper, mentre faceva scorrere le mani lungo il corpo di lei, tastando e sondando; poi le sue dita incontrarono un'altra sacca e lui si affrettò ad aprirla per afferrare gli oggetti incantati al suo interno, quali che fossero. Embra sussultò e rabbrividì sotto le ondate di risanamento che le purificavano il corpo dal dolore e generavano un crescente senso di sollievo, e Sarasper sorrise nel vederla contorcersi sopra di lui. «Ormai non ci vuole più molto, ragazza», la confortò, allungandosi per raggiungere con le dita la gamba fratturata di lei. «Manca davvero poco». Sopra di lui, Embra improvvisamente s'irrigidì e s'inarcò al punto da sollevarsi quasi in piedi; afferrandola per le spalle, Sarasper le impedì di ricadere all'indietro in preda alle convulsioni, cosa che avrebbe potuto causarle altri danni, ancora peggiori. «Ragazza, cosa ti prende?» chiese quindi, in tono secco. Embra si abbandonò tremante nel suo abbraccio. «I Dwaer sono qui», sibilò, fissandolo con occhi in cui speranza e paura lottavano per avere il sopravvento. «Sono più di uno, e sono molto vicini!». «Ne sei certa?» domandò lui, con voce roca. «Certissima», annuì Embra, rabbrividendo ancora. «Posso percepirli: è una sensazione inconfondibile». Poi passò le braccia intorno a Sarasper e si gettò da un lato insieme a lui, facendo rotolare entrambi in una depressione fra le macerie. «Cosa sargh ti prende, ragazza?» ringhiò il vecchio guaritore. «Sei impazzita? La...». «Quello è un Flusso di Pietre», spiegò Embra, scandendo le parole, mentre giacevano faccia a faccia fra le macerie, poi accennò con la testa in direzione di Ressheven, che in lontananza stava cantilenando qualcosa in fretta e con voce stranamente incolore, e aggiunse: «Spero solo che manchi
il bersaglio». Intanto il mago smise di parlare e seguì un momento di silenzio pieno di tensione, poi in un punto imprecisato della stanza le pietre della pavimentazione si staccarono dal pavimento e solcarono l'aria con un ruggito, andando a sbattere con rumorosa violenza contro qualcosa. L'istante successivo, Hawkril e il suo tavolo rotolarono impotenti oltre la posizione nascosta di Embra e di Sarasper in mezzo a una martellante nuvola di pietre, che si abbatterono con un rombo assordante sullo stesso pilastro contro cui Hawkril era stato scagliato in precedenza prima di proseguire il loro volo ululante. Per un breve momento permeato di dolore, Embra tornò a sollevarsi su un braccio, prima che esso cedesse e lei crollasse addosso al sussultante Sarasper, ma quel breve istante le fu sufficiente per vedere Hawkril andare a sbattere contro la parete opposta della camera in mezzo a una quantità di pietre sufficiente a erigere un muro, un braccio proteso che però non trovava nulla a cui aggrapparsi. Lo schianto scosse la stanza, e sulla sua scia alla colonna successe qualcosa nel punto in cui era stata colpita dalle pietre: sulla sua superficie apparvero i contorni di una porta che, tremando, si schiuse di qualche centimetro. La maga non ebbe tempo di vedere altro, e subito prese ad agitarsi freneticamente sopra il guaritore per cercare di girarsi e di sollevarsi a guardare contemporaneamente verso la colonna, nell'eventualità che ne stesse per uscire qualcosa, e verso Ressheven, per vedere cosa stesse combinando. Il capo delle Spade di Sirlptar stava eseguendo gli ampi gesti conclusivi di un affondo di Salanger. Gemendo ad alta voce, Embra serrò i denti in previsione dell'imminente, devastante ondata di agonia, quando... L'incantesimo s'interruppe bruscamente, ancora incompleto, terminando in uno strano suono gorgogliante: adesso una daga scagliata da Craer sporgeva dalla bocca del mago, i cui occhi ebbero a stento il tempo di dilatarsi per la sorpresa prima che una seconda daga gli affondasse fino all'elsa in quello di destra. Craer amava scagliare sempre le daghe a due per volta. A quanto pareva, non ci sarebbe stato nessun Affondo, e a meno che qualche bardo fosse stato tanto stupido da tornare indietro, non rimaneva più nessun nemico che potesse recare danno all'assediata Banda dei Quattro. Il che era un bene, come Embra rifletté nel gridare un ringraziamento a Craer, salvo poi tacere di colpo nel vedere che il procacciatore stava guar-
dando alle sue spalle con un'espressione di allarme dipinta sul volto. Quasi stancamente, Embra accennò a girarsi per vedere quale nuovo pericolo le stesse piombando addosso, e Sarasper gemette con una debole imprecazione. «Per gli dei, donna, se è così che tratti i tuoi amanti...» cominciò a borbottare, serrando saldamente una mano intorno alla gamba ferita di Embra, per impedirle di muoversi. Embra urlò e si accasciò prona, tremando di dolore; intanto Sarasper sgusciò via da sotto di lei, spingendo e ansimando, fino a riuscire ad afferrare un'altra delle statuette riposte nelle sacche della ragazza, con cui poter finire di risanare quella gamba snella e ben modellata. «Sass!» urlò Craer. «Attento! Guarda in alto! In alto!». Accigliandosi, il vecchio guaritore sollevò lo sguardo, e rimase a bocca aperta per lo stupore: una nuvola spettrale e dalla vaga luminescenza stava fluttuando silenziosa verso di lui, ormai abbastanza vicina da incombergli addosso; essa aveva due fori scuri che potevano essere gli occhi, un buco più grande che era probabilmente una bocca spalancata e braccia protese che terminavano con quelle che erano senza dubbio alcuno due mani. Lo spettro aveva un aspetto quasi comico, ma era grande quanto una dozzina di uomini, e non aveva un'aria amichevole. «Embra, ci serve un Annullamento!» ringhiò Sarasper, sentendo intanto la statuetta che gli si dissolveva fra le dita e la magia risanante che fluiva dalle sue mani per riversarsi nella maga. «Embra!». Nel sentire l'erede dei Silvertree gemere sotto le sue mani, Sarasper Codelmer comprese che Embra non aveva il tempo di fare nulla, anche ammesso che avesse avuto a disposizione qualche incantesimo da utilizzare. Con mani frenetiche, la sollevò quindi a sedere, ignorando i suoi gemiti e i sussulti di protesta, poi cercò di trascinarla da un lato e fuori dalla depressione, via da sotto lo spettro che stava già cominciando a calare su di loro. «Dei del cielo», sussultò Embra, guardando a sua volta verso l'alto. «Nel nome della Sacra Cacciatrice dalle Corna, cosa è mai quello?». Adesso la nube occupava interamente lo spazio sovrastante la depressione, e si estendeva di un buon tratto al di là di essa, su tutti i lati, per cui non c'era modo di sfuggirle. Sarasper si guardò disperatamente intorno nella stanza, ma non vide nulla e nessuno che potesse aiutarli. Lontani rumori indicavano i lenti e dolorosi tentativi che Hawkril stava facendo per districarsi da sotto le pietre che lo avevano seppellito, e un altro costone di macerie ammucchiate li se-
parava da Craer; l'ometto vestito di cuoio si stava inerpicando frenetico sulle pietre sdrucciolevoli per riuscire a raggiungerli, ma avrebbe impiegato un tempo decisamente troppo lungo per arrivare fino a loro. Con un sospiro, il vecchio cessò i propri tentativi di trascinare di peso Embra fuori dalla depressione e cercò invece di sfilare dalle sacche il maggior numero possibile di oggetti magici: forse sarebbe riuscito a risanare entrambi a mano a mano che la nube spettrale li avviluppava, salvando così la Dama dei Gioielli e un certo vecchio guaritore dai danni peggiori che essa poteva provocare. «Guardate!» esclamò Craer, da un punto ormai vicino, alle loro spalle. «La porta!». Sia pure a fatica, Sarasper allontanò lo sguardo dalla faccia spettrale che stava calando a fagocitarli con il proprio eterno urlo silenzioso e guardò verso la porta apertasi nella colonna, da cui era uscita quella spettrale apparizione; al di là del pilastro, Hawkril stava venendo lentamente verso di loro, barcollando e zoppicando, il volto una maschera di dolore e di stanchezza. A poco a poco, con una lentezza estrema, qualcosa stava nascondendo progressivamente l'armaragor alla vista di Sarasper: la porta, che stava continuando ad aprirsi sulla spinta del peso di qualcosa che ne stava uscendo. E quel qualcosa era... un cadavere umano. Esso si spostò ulteriormente in avanti, fino a poter essere visto meglio: si trattava di un corpo avvizzito e immobile, rigidamente eretto e avvolto in strati di ragnatele ammuffite che un tempo dovevano essere state le sue vesti, con un cofanetto stretto fra le braccia, contro il petto. L'uomo mummificato, se davvero si trattava di un uomo, s'inclinò in avanti con un movimento rigido e lento che all'inizio aveva quasi qualcosa di maestoso, una caduta che si concluse con un'accelerazione improvvisa e un crollo sul pavimento. Ci fu un'esplosione di polvere quando quella forma irrigidita rimbalzò, si disintegrò e scomparve. Nello stesso istante in cui essa si ridusse in polvere, la nube spettrale che stava calando sulla depressione vorticò verso l'alto come una bufera che soffiasse nel nulla, poi lo spettrale guardiano, se davvero di questo si era trattato, si dissolse con un lamento disperato. Sarasper ed Embra si fissarono a vicenda con stupore, poi si girarono di nuovo a guardare verso la colonna: la porta adesso era spalancata, a rivelare una nicchia ormai vuota, ma il cofanetto giaceva davanti a essa, nel punto in cui era crollata la mummia. Mentre Craer superava l'ultimo ammasso
di detriti, arrivando nell'avvallamento, il guaritore si affrettò a inerpicarsi fuori da esso per arrivare per primo al cofanetto. Esso era piccolo, non più largo della sua mano e lungo il doppio, ma era molto pesante, perché era spesso quanto due mani ed era fatto di metallo, antico e sporco. Un tempo, la sua superficie aveva recato un intricato disegno cesellato che pareva però non illustrare nulla e che non componeva scritte di sorta, ma adesso gran parte di quella decorazione si era consumata o ammaccata; un angolo del cofanetto sembrava essere stato fracassato da un colpo, molto tempo prima, e il coperchio era fermato da un gancio ma non chiuso a chiave. Sollevando la testa per essere certo che Embra e Craer stessero guardando, Sarasper aprì senza esitazione il cofanetto. Esso conteneva soltanto una cosa: una lastra, o un foglio di lucido metallo argenteo, sulla cui superficie erano incise e stampigliate delle scritte. Sarasper lo esaminò con attenzione, per nulla intimorito dalle storie di maledizioni magiche su cui i bardi tanto amavano dissertare. Lo scritto aveva più svolazzi e ghirigori di molti abiti nuziali, ma era leggibile. Sarasper prese a decifrare una riga dopo l'altra con espressione sempre più accigliata, interrompendosi soltanto quando Embra si chinò su di lui, coprendogli la luce con la propria testa. «Cos'è?» chiese la ragazza, più interessata che apprensiva. «Magia, naturalmente», rispose Sarasper. «Sono le istruzioni di un rito per...». «Per?» lo incalzò Embra. Il vecchio curatore sollevò lo sguardo su di lei con un sorriso: per gli dei, in momenti come quello, Embra sembrava proprio una bambina consapevole di essere sul punto di ricevere un nuovo giocattolo e quasi fuori di sé per l'impazienza di averlo in mano. «È un modo per penetrare "mentalmente" in una Pietra e alterarla», annunciò, mentre Craer e lo zoppicante Hawkril venivano a raggiungerli. «Lo scopo è quello di vincolare se stessi a un Dwaer e viceversa, in modo che chi attua questo incantesimo possa sopravvivere nel corso degli anni finché continuerà a sopravvivere la Pietra, oltre a essere l'unico a poterne destare e usare i poteri». Sollevando infine lo sguardo da ciò che stava leggendo, Sarasper si trovò a essere oggetto di tre sguardi cupi. «Se mai dovessi provare a fare una cosa del genere, cercherò di ucciderti», sussurrò Embra. «Non mi farà piacere, ma lo farò per Aglirta, e per tut-
to Darsar. Un solo Serpente basta e avanza». «Decisamente», tuonò Hawkril. «Condivido il vostro punto di vista», annuì lentamente Sarasper, richiudendo il cofanetto, poi chiese in tono stanco: «Cosa devo farne, allora? Devo distruggerlo?». «No», intervenne una nuova voce, sonora, profonda e imperiosa. «Dallo a me!». Mentre i Quattro si giravano, tre Dwaer s'illuminarono all'unisono, stelle spettrali nella penombra della grande camera. Linee di energia magica saettarono da quelle luci pulsanti per avviluppare il cofanetto di una scintillante sfera di forza e circondare Sarasper, tuttora inginocchiato con il cofanetto in mano, di un secondo alone dalla luminosità meno intensa. Sotto lo sguardo attonito dei membri della Banda dei Quattro, i tre Dwaer aggirarono poi un'alta colonna, fluttuando nell'aria come piccoli uccelli svolazzanti e non come tre Pietre grosse quanto un pugno. Una volta dall'altra parte, essi presero a girare pigramente in cerchio intorno a un uomo che stava venendo avanti lentamente, qualcuno che nessuno di loro si sarebbe mai aspettato di rivedere: il Barone Blackgult. «Avete faticato tanto per ridestare un re... e lui si è semplicemente dissolto», commentò sarcasticamente e con un accenno di sorriso sulle labbra, nel guardare quei volti increduli e stupefatti. «Comincio quasi a pensare che per Aglirta sia tempo di avere un nuovo re». Un Dwaer emise alcune particelle di pulviscolo magico, e d'un tratto Ezendor Blackgult si trovò a portare in capo una corona e a reggere in mano uno scettro, entrambi fatti di una luce spettrale. Essi risplendettero di una luce intensa e subito svanirono, mentre il sorriso del barone si faceva più accentuato. «Ben ritrovata, Banda dei Quattro. Ritengo che due di voi siano ancora al mio servizio». «Tu!» esplose Embra Silvertree, con gli occhi che ardevano come un incendio autunnale. Tremante d'ira, fissò il nemico storico dei Silvertree con il fuoco della propria magia che saliva ad avvilupparle i pugni. «Hai ucciso mio padre?» chiese seccamente. «No», rispose Blackgult, con uno stanco sorriso. «Quella è la sola cosa che ho il potere di fare, Embra. Vedi, io sono tuo padre».
28. Non ci sono baroni senza battaglie In quel momento, il Lupo Sorridente di Sart non stava sfoggiando il sorriso per cui era famoso. Il vento gli spingeva i capelli sul volto mentre procedeva al galoppo, con il gemente Tersept di Gilth che rimbalzava come una bambola di stracci sulla sella della cavalcatura che affiancava la sua; alcuni amministratori e mercanti locali erano stati abbastanza coraggiosi da unirsi a loro, e stavano mangiando in quel momento il fango sollevato dagli zoccoli martellanti del suo cavallo, e intorno a loro erano schierati gli armaragor migliori che le ricchezze di Sart potevano assoldare, chini sulla sella nel cavalcare a rotta di collo lungo la strada che costeggiava il fiume, con la massima rapidità a cui potevano essere spinti i cavalli. Non avrebbero fatto abbastanza in fretta, perché tutta Aglirta stava convergendo sulla Casa Silenziosa, e interi eserciti erano già in marcia. Glarsimber Belklarravus aveva visto le lance scintillanti delle truppe assoldate dai baroni passare nelle vicinanze di Sart, dove sui campi erano spuntate improvvise messi di punte di metallo, un numero di uomini dieci volte superiore a quello che lui poteva permettersi di mantenere, e aveva sentito dire che c'erano altri eserciti in cammino, tutti diretti alla Casa Silenziosa. La dimora in rovina dei Silvertree. In qualche modo, quando l'oscurità calava su Aglirta, i Silvertree riuscivano sempre a essere al centro degli eventi... Più di un cavallo cominciava ad avere il respiro affannoso, e Glarsimber sapeva che fra non molto il primo di essi avrebbe barcollato e sarebbe crollato; e un uomo in sella a un cavallo lanciato a quella velocità, con gli zoccoli di altre cavalcature che galoppavano alle sue spalle, di rado aveva la possibilità di rialzarsi vivo se per qualche motivo cadeva di sella. D'altronde ormai non mancava più molto... Aggirata una curva della strada, avvistarono davanti a loro la collina su cui sorgeva la Casa Silenziosa, e si lasciarono sfuggire un gemito corale di fronte a ciò che stavano vedendo. Due bande di guerrieri in armatura pesante erano giunte sul posto prima di loro e si stavano ora affrettando a scendere di sella e a estrarre la spada: decine di guerrieri rivestiti da armature di prima qualità presero quindi ad avanzare per massacrarsi a vicenda lungo i fianchi erbosi della collina, in mezzo alle tombe fatiscenti. L'acciaio si scontrò con l'acciaio fra grida, affondi e urla di agonia, poi le
figure in armatura presero a indietreggiare, barcollanti. Il Lupo di Sart assestò un deciso strattone alle redini, cercando di far rallentare progressivamente la cavalcatura al galoppo e sperando che nessun idiota alle sue spalle andasse a schiantarsi contro i quarti posteriori del suo cavallo. Tutt'intorno gli animali s'impennarono nitrendo di protesta mentre lui spingeva lo sguardo su per la collina nel tentativo di vedere cosa stava accadendo. Era stata sua intenzione impadronirsi di qualsiasi forma di magia i Quattro fossero riusciti a trovare oppure, se non ci fosse riuscito, di schierarsi al fianco del barone che fosse uscito vittorioso dalla mischia, o addirittura sotto la bandiera reale, se ci fosse stato un contingente regio abbastanza nutrito, nella speranza che Sart potesse diventare una baronia e... Adesso però quelle speranze erano svanite, spazzate via da quei baroni, chiunque fossero, che erano riusciti a radunare un maggior numero di spade e a viaggiare più spediti. E anche da qualcosa d'altro. Un bagliore e un tremolio dell'aria si diffusero fra le figure in armatura: degli incantesimi stavano ricacciando indietro quegli armaragor! Incantesimi, senza però che in giro si vedesse un solo mago, e... Dalle tombe emersero delle figure incappucciate, alcune delle quali avanzavano con movimenti lenti e striscianti: gli incantesimi stavano scaturendo dalle loro mani, che erano coperte di scaglie! «I seguaci del Serpente!» ringhiò Belklarravus, riuscendo infine ad arrestare la cavalcatura coperta di schiuma. «Che gli dei li maledicano!». Adesso gli incantesimi stavano ricacciando i guerrieri sempre più indietro, sgombrando il passo in direzione delle porte della Casa Silenziosa, e le figure incappucciate stavano rivolgendo un cenno d'invito a uomini che sfoggiavano le armature più scintillanti e montavano i destrieri più splendidi. I baroni di Aglirta smontarono di sella e avanzarono a grandi passi, emanando imperiosità e potere a ogni passo; l'elmo aveva la visiera abbassata, la spada snudata era appoggiata nel cavo del braccio, ma il Lupo di Sart riconobbe lo stemma di Glarond e quello di Maerlin sull'ampia schiena di due di quelle figure in lucida armatura. Le sagome incappucciate si affrettarono ad affiancarsi ai baroni, accompagnandoli oltre le porte esterne, poi mani coperte di scaglie si protesero verso il cielo e un fuoco azzurro si levò a modellare i contorni di un portale in un muro prima uniforme, permettendo ai potenti di Aglirta di penetrare nella Casa Silenziosa vera e propria.
Il Tersept Glarsimber Belklarravus era troppo raggelato dall'ira e dalla disperazione per aver voglia di guardare verso il Tersept di Gilth. «Ecco...» sussurrò però al suo fianco una voce sommessa, che poteva appartenere a un uomo soltanto. «Forse la prossima volta andrà meglio». Il Lupo Sorridente di Sart scosse il capo in silenzio, consapevole che nessuno di loro due sarebbe vissuto abbastanza a lungo da vedere una «prossima volta», anche se nessuna lama o incantesimo li avesse mai sfiorati: la fulgida occasione di impadronirsi di una corona era scivolata via fra le loro dita. Strappata loro da cavalli troppo lenti... e dal Serpente. Nella penombra di una stanza in rovina all'interno della Casa Silenziosa, Embra rilassò un pugno e mosse le dita in un gesto che liberò Sarasper e fece scivolare il cofanetto sui detriti, mandandolo lontano. Il Barone Blackgult ne seguì il movimento con un sorrisetto, e quando infine esso si arrestò, a una notevole distanza da lui, abbozzò con la mano un cenno infinitesimale: obbediente, un Dwaer divampò di luce, e un piccolo vortice di pietre si levò da un vicino cumulo di macerie, seppellendo con delicatezza il cofanetto. «Signore», ringhiò Hawkril, fissando l'uomo che aveva servito tanto a lungo, «tu... come re?». «Mai!» scattò Sarasper, prima che il Barone Blackgult avesse il tempo di replicare, e il suo corpo si mutò in un improvviso vortice di zanne e di pelo rossiccio. Embra intanto sollevò l'altra mano, gli occhi che spiccavano cupi nel volto pallido e tremante, lo sguardo fisso sul barone, ma questi non accennò a muoversi. «Tu saresti mio padre? Non ti credo», sussurrò infine. Blackgult girò il capo per risponderle, sempre sfoggiando quel gentile sorriso, e in quel momento lo zannelunghe in cui Sarasper si era trasformato spiccò un balzo in avanti per piombargli addosso. «È una di quelle storie che parlano d'amore e di due baroni idioti... ma è la tua storia», affermò semplicemente Blackgult, rivolto a Embra, ignorando il lupo-ragno. «Spero che un giorno vorrai sentirla». Mentre parlava, due dei Dwaer emisero un bagliore, orbitando uno intorno all'altro in una danza gentile, e di colpo Sarasper Codelmer tornò a essere se stesso, un fragile vecchio seminudo, tutto ossa e pelle chiazzata dall'età, immobilizzato a metà del balzo, con gli occhi roventi e le mani
protese e allargate come artigli. Dalla porta giunsero dei rumori e una lettiga fracassata venne gettata da un lato, poi i baroni di Aglirta, splendidi nella loro migliore armatura da battaglia, fecero irruzione nella stanza. Con calma, Blackgult estese anche a loro lo stesso sorriso luminoso e allegro che stava rivolgendo ai Quattro. «Per rispondere alla tua domanda, Hawkril», proseguì intanto, «stavo effettivamente pensando di governare in veste di reggente finché il re non riterrà opportuno far ritorno fra noi». «Blasfemia!» gridò un barone, e in tutta la camera echeggiò un tintinnare di spade snudate. Mentre i baroni prendevano ad avanzare, armaragor e sacerdoti del Serpente, tersept e cortigiani carichi di tensione e perfino alcuni bardi pallidi per il terrore si accalcarono oltre la soglia, penetrando nella stanza. In alto, lungo le pareti, porte polverose e da tempo inchiodate vennero rumorosamente aperte con la forza e altri uomini apparvero sui pianerottoli collegati a scale che scendevano solo di pochi gradini prima di diventare un ammasso sgretolato di rovine. Nondimeno, essi rimasero su quegli appoggi così poco affidabili come altrettanti avvoltoi, lo sguardo avido rivolto verso il basso, la mano carica di tensione e pronta ad afferrare la spada. «Dal momento che tutta Aglirta pare essersi radunata sul serio per la prima volta da quando mi riesce di ricordare», commentò il Barone Blackgult, guardandosi intorno, «vediamo di fare un po' di spazio». I tre Dwaer brillarono all'unisono e si levarono sopra di lui in lunghi archi sinuosi, in risposta ai quali le macerie si sollevarono ovunque dal pavimento della stanza, insieme ai pezzi di mobilio e ai resti umani, per volare in un angolo lontano e depositarsi là in un mucchio enorme e disordinato. «Tu come reggente?» ringhiò Maerlin, nel silenzio meravigliato che seguì. «Blackgult, la tua fellonia è il motivo per cui abbiamo bisogno di un reggente! Cosa ti rende migliore di me? Perché non Maerlin, come reggente?». «Maerlin! Maerlin!» gridarono alcuni degli armaragor raccolti intorno a lui. «Silenzio!» ruggì un altro barone. «Non mi pare che nominare un reggente sia una cosa urgente quanto tu sembri ritenerla, Blackgult il Subdolo... o tu, Maerlin l'Avido! Lasciamo invece...». Qualcuno scagliò una daga, facendola passare al di sopra delle teste accalcate, ed essa saettò accanto a un orecchio baronale per andare a lacerare
il mento all'armaragor fermo accanto a chi aveva parlato. In un istante, nella stanza scoppiò una selvaggia battaglia. Le spade presero a cozzare con un fragore degno del martellare della fucina di un fabbro, rapide e furiose, mentre gli uomini colpivano con lame e pugni, spingevano e morivano. Craer e Hawkril si pararono protettivamente davanti a Embra quando nell'aria presero a volare daghe, spade e perfino pietre; il loro sguardo era fisso prevalentemente sui sacerdoti del Serpente, che si erano spostati lungo il perimetro della stanza e per ora stavano ricorrendo soltanto a incantesimi difensivi di schermatura. Se fra i presenti c'erano dei maghi, essi si stavano mostrando altrettanto circospetti nel far ricorso ai loro incantesimi. «Che tu sia o meno mio padre, mettilo giù!» ingiunse intanto Embra in tono rovente, fissando Blackgult e puntando un dito in direzione di Sarasper. «Ti affronterò e ti combatterò fino a morire, se non lo metti giù!». Senza sorridere o deriderla, il Barone Blackgult si limitò ad annuire. «È già fatto, Embra. Proteggiti da altri, non da me», disse con gentilezza, e mentre parlava uno dei Dwaer emise un bagliore, in reazione al quale Sarasper Codelmer scese delicatamente fino a terra. «Sargh e bebolt!» imprecò il guaritore, incrociando protettivamente le mani davanti all'inguine, nel fissare interdetto la stanza piena di uomini in lotta. «Ora che si fa?». Un amministratore morì con la bocca trapassata da una spada che gli penetrò nel cervello, e ricadde all'indietro contro una parete, per poi scivolare sanguinante sul pavimento, dove per poco non schiacciò un bardo che, imprecando e gemendo a tratti per il dolore, stava continuando faticosamente ad avanzare strisciando lungo la parete. Flaeros Delcamper era un bardo di Aglirta e non intendeva perdere un solo istante di quanto stava accadendo, a meno che gli dei stessi non lo avessero trascinato via. La caduta del corpo insanguinato dell'amministratore gli diede un'idea: lottando per sollevarsi a sedere accanto al morto, Flaeros si finse svenuto ed evocò il potere del Vodal: subito il malconcio anello che non lasciava mai il suo dito si attivò e con occhi socchiusi Flaeros rimase a guardare uomini che morivano, colpivano e uccidevano, cercando fra loro quelli che avevano un aspetto diverso da quello apparente. Non gli ci volle molto tempo a trovarne uno. Il Barone Maerlin non era un uomo massiccio in lucida armatura da battaglia, bensì un sacerdote del Serpente dalla testa coperta di scaglie, completa di saettante lingua biforcuta, e di un principio di coda! Per di più, stava mormorando qualcosa nel
puntare uno scettro che terminava con zanne da serpente in direzione di... del Barone Blackgult! Uno scintillio verde cominciava a pulsare all'estremità dello scettro, diffondendosi lento per tutta la sua lunghezza. Prima che avesse il tempo di riflettere su quello che stava facendo, Flaeros Delcamper estrasse la spada sottile che i suoi zii gli avevano dato e si issò in piedi, con le spalle che strisciavano lungo la parete. Umettandosi le labbra, si impose di resistere all'agonia di dolore che stava per assalirlo, consapevole che avrebbe avuto una sola possibilità di fare ciò che intendeva, e che per il bene di tutta Aglirta non avrebbe dovuto sprecarla. Tratto un profondo respiro tremante, Flaeros Delcamper mosse due spaventosi passi barcollanti, i denti serrati per resistere al dolore lancinante, e permise a un ruggito di sofferenza di sfuggirgli dalle labbra soltanto nel momento in cui attaccò alle spalle il sacerdote del Serpente, colpendolo furiosamente al collo fino a veder crollare il corpo sibilante e coperto di scaglie. In preda all'agonia, con nuove ondate di dolore rovente che gli percorrevano le gambe, Flaeros crollò addosso al sacerdote del Serpente e gli strappò di mano lo scettro. Lo stava sbattendo contro il pavimento per cercare di romperlo quando alcuni uomini si disimpegnarono dalla mischia e conversero a precipizio su di lui da ogni lato, la spada protesa a trafiggerlo: seguaci del Serpente! «Zii», ringhiò Flaeros. «Sono morto bene, per Aglirta». Prima però che quelle sottili lame scure potessero raggiungerlo, altri uomini balzarono addosso a quei guerrieri, abbattendoli o spingendoli lontano; nell'allontanarsi con una disperata contorsione dal corpo del prete che aveva ucciso, Flaeros evocò il potere del Vodal per vedere chi fossero i suoi soccorritori... e scoprì che quegli uomini non avevano faccia. Deglutendo a fatica, continuò a rotolare. Avide mani si stavano ancora protendendo verso lo scettro, ma a mezza stanza di distanza Ezendor Blackgult vide quello che stava succedendo e sorrise. Un Dwaer emise un bagliore e lo scettro che il bardo aveva in mano prese fuoco, ammantandosi di un candore incandescente mentre Flaeros urlava e lo lasciava cadere. Contorcendosi dal dolore, il rampollo dei Delcamper si affrettò ad allontanarsi strisciando e lo scettro rimase abbandonato sulle pietre del pavimento, troppo rovente perché chiunque potesse anche solo toccarlo, e tanto meno raccoglierlo o utilizzarlo. Intanto, il Barone Blackgult agitò una mano che si lasciava dietro una scia della luce magica propria dei Dwaer, e all'improvviso Flaeros Del-
camper, tremante e sconcertato, si ritrovò in ginocchio ai piedi del barone. «Risanalo, per favore», disse a Sarasper l'uomo circondato dai tre Dwaer che fluttuavano lenti nell'aria. Per un istante, il vecchio lo guardò in silenzio, poi estrasse un oggettino da una delle sacche di Embra e si mise all'opera. Embra sollevò a sua volta lo sguardo su Blackgult, ma in quel momento la marea della battaglia si fece ancora più vicina a loro. Adesso i bardi si stavano spostando in fretta lungo le pareti, il volto bianco per il terrore e un labbro serrato fra i denti; alcuni avevano addirittura la daga in pugno, e tutti stavano cercando Flaeros con lo sguardo. Poi ci fu qualcosa di nuovo da vedere. Altri guerrieri stavano varcando la soglia, uomini la cui carne pareva colare lungo le ossa del volto, congelandosi in forme grottesche: i Fusi erano scesi in guerra. In mezzo a essi avanzava un mago corpulento dai capelli simili a paglia sporca e dagli occhi di ghiaccio grigio, che nel camminare scandiva in tono ringhioso ordini e incantesimi. Corloun, Mago di Corte di Maerlin, scoccò a Embra un sorriso trionfante nell'incontrare il suo sguardo con il proprio, e ordinò ai Fusi di attaccarla. Essi presero ad avanzare come un impavido cuneo corazzato che seminava affondi e fendenti, e ogni volta che si trovavano il passo sbarrato da avversari decisi e capaci, uno dei Fusi esplodeva in un dirompere di carne e di ossa, trascinando l'avversario con sé nell'oblio. Quasi che la magia di Corloun fosse stata un segnale, l'aria della camera iniziò a vibrare di una miriade di incantesimi, mentre i sacerdoti del Serpente e maghi finora rimasti nascosti cominciavano a recitare e cantilenare formule. Fiamme magiche saettarono a disintegrare rampe di scale, facendone schiantare i pezzi sulla mischia e mandando gli uomini che si trovavano in alto a rovinare impotenti sulla testa dei bardi e dei sacerdoti del Serpente, in pari misura. Invece, gli scintillanti serpenti di energia magica che divoravano la carne a ogni morso vennero scagliati quasi tutti contro i Fusi e contro il mago che si trovava in mezzo a loro, finché il cuneo delle forze del mago divenne un piccolo gruppo pressato da ogni parte, ancor prima che armaragor recanti lo stemma di Adeln varcassero in massa la soglia alle loro spalle per aprirsi un varco sanguinoso fra i combattenti. Intanto i Fusi erano stati spinti da un lato, dove stavano lottando con gli incappucciati e sibilanti sacerdoti del Serpente, e gli armaragor di Adeln, guidati da un gigantesco guerriero in armatura, stavano puntando dritti
come una grande freccia scintillante verso il Barone Blackgult e la Banda dei Quattro. «Per gli dei», annaspò Craer, quando il guerriero gigantesco deviò abilmente di lato la terza daga da lui scagliata. «Ma guardatelo!». «È mio», ringhiò prontamente Hawkril, e cominciò ad avanzare con espressione decisa. Embra si affrettò a dirigere una scarica di energia oltre l'armaragor seminudo, ma quando colpì l'armatura del gigantesco guerriero di Adeln, esso divampò in un alone crepitante e rimbalzò contro di lei. Un incantesimo difensivo! Quando la scarica la investì con la sua forza devastante, la Dama dei Gioielli gettò indietro il capo, urlando, e barcollò all'indietro con gli arti che tremavano e minuscoli lampi che le scaturivano dalla bocca, dal naso e perfino dagli occhi; Blackgult però le lanciò un'occhiata, un Dwaer ebbe un bagliore e lei si trovò risanata prima che Sarasper potesse anche solo sollevare una mano. Embra barcollò, gemendo, e prima di riportare la propria attenzione sulla battaglia in corso scoccò un rapido sguardo in tralice verso l'uomo che sosteneva di essere suo padre. I loro sguardi s'incontrarono e lei si affrettò a distogliere il proprio; dopo un momento, quasi di sua iniziativa, la mano le si sollevò in un gesto di ringraziamento, a cui Blackgult reagì con un accenno di sorriso. Il capo della carica adelniana era ancora più alto e massiccio di Hawkril, e la sua ascia, la cui lama era sovrastata da una punta, aveva una portata e un peso maggiori della spada da guerra di Anharu, ma l'Eroe del Re gli si scagliò contro quasi con entusiasmo. Senza perdere tempo aggirandosi a vicenda o assumendo pose minacciose, i due uomini si scontrarono direttamente come altrettanti tori infuriati, spingendosi spalla contro spalla, ringhianti, prima di cominciare a scambiarsi colpi su colpi. Subito i guerrieri di Adeln si accalcarono su entrambi i lati dei due combattenti, tenendo la spada bassa e protesa per cercare di trafiggere Hawkril o di tranciargli i tendini delle gambe, ma Embra scagliò loro contro il suo fuoco magico ed essi urlarono, soprattutto quando Blackgult agitò una mano e le fiamme divennero un cerchio purpureo intorno ai due massicci armaragor, levandosi ruggenti fino a un paio di metri di altezza e allargandosi progressivamente fino a respingere i presenti a ridosso delle pareti. A quel punto si arrestarono e si fecero quasi trasparenti, ma rimasero incandescenti al punto da fondere le pietre e le daghe scagliate attraverso di es-
se. Ben presto tentativi del genere cessarono e una sorta di quiete calò sulla stanza, mentre tutti si concentravano sul confronto fra i due colossi. La spada s'incrociò con l'ascia, le due armi spinte una contro l'altra dalla forza degli uomini massicci che le brandivano, e si sentì uno stridere di metallo torturato quando esse presero a strisciare lentamente avanti e indietro in una lotta di pura forza bruta che si prolungò finché le braccia di entrambi gli avversari cominciarono a tremare. All'improvviso, una delle punte sull'ascia dell'Adelniano si spezzò, la spada di Hawkril scivolò di lato e i due contendenti si separarono barcollando. Un ruggito si levò dagli Adelniani che stavano seguendo il duello attraverso la cortina incandescente, perché le braccia del loro campione erano avvolte da una lucida armatura da guerra, mentre quelle dell'avversario erano coperte soltanto dai peli, dal sudore e ora anche da una riga carminia: una delle punte dell'ascia aveva infatti aperto un lungo taglio sinuoso su un avambraccio di Hawkril. Il campione di Adeln si fece avanti con incedere ora minaccioso, un crescente senso di trionfo espresso con chiarezza dal suo freddo sorriso e dalla luce crudele che gli brillava nello sguardo: era sua intenzione uccidere in fretta l'avversario e avanzare per impadronirsi dei Dwaer, avvolto com'era in un'armatura che, così gli era stato detto, era protetta contro ogni forma di magia. Tutto quello che doveva fare era abbattere un uomo seminudo. Un guerriero massiccio, certo, ma uno soltanto, che per di più non poteva sapere dell'esistenza del suo piccolo tesoro. Il campione di Adeln batté con forza un tacco contro il pavimento e spiccò due passi di corsa per poi scalciare energicamente con lo stesso piede. Gli piaceva issare in aria gli avversari con il ventre infilzato nella lama che il calcio aveva sganciato dalla pianta dello stivale, ma quando essi erano abbastanza svelti da riuscire a spostarsi di lato, gli bastava anche solo provocare una lieve ferita in un punto qualsiasi del corpo, perché il suo piccolo tesoro era abbondantemente ricoperto di veleno. Ora sì che si sarebbe divertito, avrebbe... Entrambi gli uomini si mossero troppo in fretta perché i presenti potessero seguirne con chiarezza gli spostamenti, uno scalciando verso l'alto e l'altro spiccando un balzo con la forza della disperazione. Hawkril si lanciò a faccia in avanti contro l'Adelniano, il cui calcio colpì soltanto l'aria, il polpaccio rivestito d'armatura che sfiorava appena lo sti-
vale dell'avversario; contemporaneamente, un energico pugno vibrato da Anharu centrò in pieno la gorgiera dell'altro guerriero, schiacciandola e lasciando l'avversario ad annaspare mentre crollava al suolo, cercando invano di respirare. Per il campione di Adeln era stata una sfortuna che una volta Hawkril avesse visitato un negozio di una strada secondaria di Sirlptar che vendeva quegli stivali con la lama a scatto e avesse addirittura pensato di comprarsene un paio, motivo per cui sapeva bene come funzionavano e che aspetto avevano. Per Hawkril fu invece una fortuna che, per proteggersi da un eventuale ultimo calcio disperato dell'avversario, nell'atterrare lui si gettò con decisione sulla destra e rotolò lontano prima di rialzarsi in piedi, perché da qualche parte fra la folla assiepata oltre la barriera di fiamme c'era un mago di Sirl, lo stesso che aveva contribuito a rendere magica l'armatura del campione e che ora stava attivando un incantesimo con fretta disperata: se l'armaragor fosse morto, infatti, tutti quanti i maghi presenti avrebbero potuto certamente sopraffare la giovane Silvertree, e cosa sarebbe rimasto allora dei tanto vantati Quattro? Un vecchio e un ladro? Hah! Muori, guerriero! Il Dwaer scintillante che si librava ora appena dietro una spalla di Blackgult stava schermando Hawkril contro eventuali attacchi magici, quindi non fece nulla per bloccare l'incantesimo del mago di Sirl: esso si posò in una rete scintillante, ammiccò una volta... e l'armatura del campione di Adeln esplose con un ruggito, facendo a pezzi l'uomo che la indossava e scagliando schegge d'acciaio in ogni direzione. Craer si gettò davanti a Embra, anche se la sua reazione fu ovviamente troppo lenta. Ovunque ci furono uomini che ululavano nell'essere investiti da quei frammenti, che attraversarono la barriera di fiamma per affondare nella carne. Hawkril sollevò di scatto le mani a proteggersi gli occhi, pensando che a quel punto qualche taglio in più non aveva molta importanza, e tutt'intorno echeggiarono acuti clangori metallici dovunque i frammenti andassero a sbattere contro qualche armatura o lama, poi la Dama dei Gioielli emise un urlo acuto quando una scheggia di metallo volante le trapassò una spalla. Barcollando, Embra crollò al suolo prima che Craer, Sarasper o Blackgult potessero raggiungerla. Subito, il cerchio di fiamme generato dalla sua magia si estinse, e i guerrieri di Adeln si lanciarono alla carica con un ruggito rabbioso.
Il Barone Blackgult avanzò a sua volta verso di loro, e mentre camminava afferrò dall'aria uno dei Dwaer, infilandoselo negli abiti per tenerlo al sicuro, poi prese in mano anche gli altri due, un passo più oltre. Prima che avesse modo di avanzare ulteriormente, lame di luce scintillante scaturirono da entrambe le Pietre, scintillando nell'aria come se il barone avesse invece brandito due lunghe spade. Intrecciando nell'aria linee di luce magica, il barone si parò davanti ai guerrieri lanciati alla carica, e ogni corpo o lama che entrò in contatto con quella luminosità magica venne scagliato all'indietro. Hawkril intanto si affrettò a portarsi al fianco di Blackgult, e Craer balzò in piedi dall'altro lato del barone, scagliando daghe e saettando di qua e di là come un folle per tenere a bada i guerrieri di Adeln. In tutta la camera c'erano di nuovo uomini che urlavano e spingevano. I sacerdoti del Serpente si stavano facendo avanti di soppiatto lungo le pareti della camera, sorvegliati soltanto da cupi bardi con la daga in pugno, ma nel cuore della mischia qualcosa sembrava pungolare gli uomini di Adeln ad avanzare, attaccandoli alle spalle... Craer lanciò un'occhiata in quella direzione, poi prese lo slancio per sferrare un calcio in faccia a un avversario e ne approfittò per guardare ancora dall'alto. Sì! I Fusi stavano abbattendo gli armaragor di Adeln! Le lame si alzavano e si abbassavano come flagelli, e gli uomini pressati gli uni contro gli altri morivano urlando, alcuni talmente incastrati in mezzo ai compagni che passarono dei minuti prima che il loro corpo potesse crollare al suolo. Le file degli Adelniani si assottigliarono progressivamente, e i superstiti si fecero sempre più disperati. Tale era la furia dei guerrieri che stavano attaccando Hawkril, mai meno di tre, per quanto lui ne scagliasse al suolo, morti o morenti, che a un certo punto cinque lame colpirono contemporaneamente la sua spada. Il metallo emise una sorta di gemito sommesso, simile a quello che Embra si lasciava sfuggire quando era ferita gravemente, poi la spada da guerra che aveva servito Hawkril tanto bene per un tempo così lungo si spezzò in tre pezzi, schegge di lucido metallo che caddero al suolo, lasciandogli in pugno soltanto un moncone infranto. In un istante, tre lame penetrarono o lacerarono i muscoli compatti del suo petto. Con un ruggito di rabbia e di dolore Hawkril spinse di lato con il pugno l'ultima spada che lo aveva ferito e s'insinuò di scatto sotto il suo arco sanguinoso per afferrare intorno alla vita l'uomo che la brandiva. Levato in alto il guerriero di Adeln, che pure si dibatteva e scalciava, il rin-
ghiante armaragor lo scagliò al suolo: il secco crepitio della schiena del guerriero che si spezzava echeggiò stentoreo in un momento in cui il fragore della battaglia si era placato, poi si levò un ruggito dalla gola degli uomini che avevano sentito quel suono... ruggito che l'istante successivo cedette il posto a uno sconvolto silenzio generato da un'apparizione. Al di sopra di Hawkril, sospesa nell'aria, era infatti apparsa una figura ammantata di luce bianca, che pareva ergersi in piedi su un podio invisibile: l'immagine spettrale del Re Ridestato. Sibilando, un seguace del Serpente si affrettò a muovere le dita in un incantesimo di Annullamento, ma l'apparizione lo ignorò. La cosa destò dei mormorii, e alcuni uomini accennarono a spingere per avanzare, ma il silenzio e l'immobilità tornarono a farsi generali quando la voce del re echeggiò in ogni testa. «Blackgult, aprimi la tua mente!». «Certamente, Maestà», rispose semplicemente il Barone Blackgult, inginocchiandosi. Gli uomini che lo stavano fissando, lo videro impallidire mentre il silenzio si prolungava. D'un tratto, il volto tranquillo di Blackgult si velò di sudore, dapprima poche gocce, poi un vero e proprio torrente. Il silenzio si fece ancora più profondo, il barone in ginocchio cominciò a tremare, il volto contorto in uno spasimo incontrollabile. «Io... sono fedele», sussurrò, nel silenzio carico di tensione. Poi la voce del Re Ridestato echeggiò nella vasta camera. «Dice la verità! Alzati, Blackgult, come Reggente di Aglirta!». Dagli uomini accalcati nella stanza si levò un inarticolato borbottio che esprimeva un misto di scontento, reverenza e timore, ma la voce del Re Ridestato si levò sopra ogni altra, soffocando quel vociare sommesso e rimbombando in ogni testa finché gli uomini sussultarono e tremarono per il suo echeggiare. «Che non ci siano più lotte fra i miei baroni e i guerrieri di Aglirta! Scacciate i seguaci del Serpente! Purgate il regno da tutti coloro che non si vorranno inginocchiare davanti al Reggente Blackgult! Che siano scacciati, non più parte di Aglirta! Ho parlato!». Quelle ultime parole echeggiarono contro la volta sovrastante con il fragore di un tuono, inducendo tutti a inginocchiarsi sussultando o addirittura a raggomitolarsi per terra con le mani premute sugli orecchi. Trascorsero lunghi momenti in cui i presenti, storditi, si guardarono intorno con cautela, poi tutti si rialzarono e tornarono ad afferrare la spada...
e in quel momento tre Dwaer che ruotavano intorno alla testa di un barone dal sorriso ferino scatenarono scure ondate di energia magica che schioccarono come fruste e indussero tutti a sussultare e a serrarsi ancora gli orecchi. Storditi, i presenti videro che l'immagine del re era svanita, e che dove si erano abbattuti quei tre raggi di energia nera tre colonne di fiamma si levavano ora a lambire il soffitto, con uomini intrappolati che si contorcevano agonizzanti dentro ciascuna di esse: il mago Corloun, il Barone Glarond e il Tersept di Tarlagar. Mentre questi moriva artigliando invano l'aria, il suo corpo cambiò, e i presenti riconobbero il suo volto, per quanto contorto, come quello del potente mago Tharlorn il Tonante. Poi le colonne di fiamma svanirono improvvise com'erano sorte, e gli uomini intrappolati in esse si dissolsero in cenere. Con un ruggito che scaturì da decine di gole, nella stanza riprese a infuriare la battaglia. I bardi aggredirono i sibilanti sacerdoti del Serpente, che morsero alcune facce prive di protezione e piantarono lunghi coltelli in altre. Dovunque, gli uomini stavano cercando specifici avversari, nel tentativo di saldare vecchi conti prima che il reggente potesse ripristinare l'ordine. Privi del controllo esercitato da Corloun, i Fusi iniziarono intanto a girovagare come uomini in stato catatonico, senza rispondere ai comandi di nessuno e camminando alla cieca finché non vennero abbattuti, uno dopo l'altro, dai guerrieri disgustati e spaventati che li attorniavano. Com'era prevedibile, adesso che non c'era più la tonante immagine di Re Snowsar che li sovrastava dall'alto, gli uomini fedeli ai rispettivi baroni obbedirono prontamente agli ordini dei loro signori, e cercarono di uccidere il nuovo reggente prima che potesse pronunciare un singolo editto. Una vera pioggia di frecce, dardi, lance e spade calò su Blackgult, e una quantità di guerrieri cercò di attaccarlo direttamente o di abbatterlo da lontano, ma i tre Dwaer che ruotavano lenti intorno alla testa del sorridente barone impedirono a qualsiasi cosa di penetrare la rete da essi intessuta. Sarasper intanto si azzardò a inginocchiarsi e a posare le mani su Embra e su Hawkril per risanarli, e Craer cercò a tentoni una spada caduta, mettendola in mano al sanguinante armaragor, senza che nessuno di loro distogliesse mai lo sguardo dalla battaglia in corso. Ben presto, videro accadere ciò che più avevano temuto: i sacerdoti del Serpente e i maghi presenti si fecero avanti all'unisono, le mani a coppa che brillavano del bagliore di diversi incantesimi. Senza un complotto o anche solo una parola di accordo, stavano cercando di ottenere insieme ciò
che nessuno di essi aveva la minima speranza di poter fare da solo: infrangere la barriera creata dai Dwaer, in modo che qualcuno potesse abbattere il Barone Blackgult. Mentre il bagliore di una statuetta che svaniva gli aleggiava sotto le dita, ed Embra emetteva un debole, assonnato mormorio di sollievo sotto la sua mano, Sarasper afferrò Hawkril per un braccio e indicò qualcosa. L'armaragor a sua volta avvertì Craer, e insieme spostarono in avanti l'inerte Dama dei Gioielli, un po' trascinandola e un po' sollevandola, fino a posarla quasi a ridosso degli stivali di Blackgult. Il barone abbassò lo sguardo, vide cosa stavano facendo e si spostò di un passo, in modo che potessero adagiare l'ancora sanguinante Embra davanti a lui, e che i tre uomini dei Quattro fossero radunati intorno ai suoi piedi. Fu in quel momento che l'incessante scoppiettare e vibrare di incantesimi che s'infrangevano contro la magia intessuta dai tre Dwaer per poi dissolversi nel nulla terminò con un abbacinante lampo bianco e porpora, opera di un certo, trionfante mago di Sirl che aveva visto fallire il suo ultimo tentativo di abbattere i Quattro, e una spada scagliata da qualcuno riuscì a varcare quella breccia momentanea per affondare in una spalla del barone. Ezendor Blackgult barcollò e si accasciò all'indietro, i Dwaer che si facevano meno luminosi e gli si stingevano intorno a mano a mano che si accasciava. Con un nuovo ruggito, questa volta di esultanza, i guerrieri superstiti si lanciarono in avanti, ma trovarono gli uomini dei Quattro pronti a fronteggiarli, parati a difesa dei corpi distesi del barone e di sua figlia. Mentre le lame si scontravano, Craer scambiò una rapida occhiata con Sarasper, schierato dall'altro lato di Hawkril. «Niente zannelunghe, Sass?» gridò. «Non c'è tempo!» fu l'affrettata risposta, un attimo prima che entrambi venissero feriti leggermente da avversari che non osavano avvicinarsi abbastanza da uccidere... o da poter essere uccisi. Procacciatore e guaritore rabbrividirono all'unisono con un grugnito, poi Sarasper scoppiò improvvisamente a ridere. «Contento?» gli chiese Craer, incredulo. Il vecchio rise ancora. «Con il regno in pericolo, centinaia di cavalieri che stanno cercando di ridurmi a un sanguinante spezzatino e bravi amici che combattono al mio fianco?» ribatté. «Non c'è nessun altro posto dove preferirei essere!».
29. Scontri inosservati, ma significativi Il Re Ridestato sfoggiò un gelido sorriso quando i cavalieri di Loushoond in armatura scintillante si affollarono nella sala del trono, preceduti dal loro signore, e la manciata di cortigiani presenti Si affrettò a indietreggiare per lasciare libero il tragitto fino al Trono del Fiume. «Sii il benvenuto», salutò con disinvoltura il re, mentre il Barone Berias Loushoond saliva sulla piattaforma con passi lenti e decisi, impassibile in volto. «Ti ho convocato qui oggi, mio Signore di Loushoond, perché un grave pericolo incombe sul regno, e...». Probabilmente, il barone non si era mai mosso altrettanto repentinamente in tutta la sua vita: la sua spada uscì vibrando dal fodero e calò verso il basso in un singolo movimento fluido, solo per infrangersi rumorosamente contro una barriera invisibile, a un dito di distanza dal volto stupefatto del re, che ricadde all'indietro sul suo trono. «Loushoond, sono io!» ringhiò furente, poi il suo volto cambiò aspetto a cominciare dagli occhi, mentre il barone in armatura impugnava entrambe le daghe e con esse prendeva a tempestare di colpi lo schermo magico che avviluppava il re. «Sono io, Ingryl!» insistette con voce irata l'uomo sul trono, e in effetti adesso era Ingryl Ambelter a indossare l'armatura del re. «Smettila!» sibilò. «Razza di stolto, non puoi...». Berias Loushoond raddoppiò i propri sforzi, le daghe che risuonavano come campane in una tempesta di affondi che danneggiavano soltanto l'aria pervasa di magia, gli occhi roventi che fissavano quelli del Maestro d'Incantesimi. «So... benissimo... chi sei», ansimò a denti stretti, fra un colpo e l'altro. Poi ci fu un bagliore più intenso degli altri quando la magia torturata cedette, e una daga raggiunse infine il bersaglio, affondando in una guancia del mago mentre questi si spostava con una torsione disperata. Ingryl sollevò di scatto una mano a ripararsi il volto, e da essa divampò un'ondata di fuoco, una tempesta dirompente che inghiottì il barone in armatura e continuò a infuriare mentre Ingryl Ambelter si alzava lentamente in piedi, pallido in volto per l'ira. Il fuoco magico proseguì la sua opera finché le piastre dell'armatura cominciarono a fondere e caddero rumorosamente al suolo, rivelando la carne ribollente che si stava staccando dalle ossa carbonizzate, e il Barone Berias Loushoond cessò di esistere.
Raddrizzandosi con lentezza, Ingryl Ambelter lasciò ricadere lungo i fianchi le mani fumanti e fissò con ira gli occhi scintillanti degli armaragor di Loushoond, raccolti davanti a lui. «C'è qualcun altro?» ringhiò. La sua risposta fu un frusciare d'acciaio, quando ognuno di quei cavalieri estrasse in silenzio la spada, poi tutti si lanciarono alla carica su per i gradini, sollevando la lama per colpire. «Indietro!» ruggì il mago, scagliando piccole vorticanti sfere di fiamma; intanto, un bagliore gli avviluppò gli arti in un vano tentativo di ricostruire la schermatura prima che quelle lame lo raggiungessero e si abbattessero su di lui come un muro di metallo irto di punte. Mentre tutt'intorno i cortigiani fuggivano urlando, lui si ritrovò a essere ferito più volte in un istante: punte di spada che non poteva sperare di evitare gli scivolarono nella carne come serpenti infuriati, e alla fine Ingryl Ambelter gridò una parola disperata, spostando altrove il suo nuovo corpo e lasciando quelle lame e una corona vuota ad abbattersi sul trono da cui si era alzato pochi momenti prima. Le lame cozzarono le une contro le altre e si arrestarono. Imprecando, i guerrieri di Loushoond lasciarono ricadere la spada lungo il fianco. Uno di essi si protese a prendere la corona caduta, la guardò con aria riflessiva e stava per gettarla di nuovo sul Trono del Fiume quando l'uomo che gli stava accanto gliela tolse di mano. Una mano coperta da un guanto corazzato posò la corona su un elmo, e chi lo portava si girò per annunciare in tono altisonante: «Ascoltate tutti! Io, Riorvyn, sono ora re di tutta Aglirta! Che...». La parola successiva fu un gemito, quando la spada che gli era penetrata sotto il braccio, sfruttando l'unica apertura presente nella cotta di maglia, uscì dalla sua carne. «Basta con queste assurdità!» ringhiò chi lo aveva ucciso, e mentre il corpo si accasciava raccolse la corona con la punta della lama insanguinata, posandola sul sedile del trono vuoto. «Che resti lì ad aspettare un legittimo sovrano», aggiunse. Dagli alti guerrieri giunse un sommesso e uniforme borbottio di assenso. «Dubito che entro il tramonto Embra Silvertree sarà ancora una ragazza felice», commentò il Tersept di Gilth, rivolto al Tersept di Sart, mentre entrambi fissavano l'irregolare apertura nella parte più meridionale del muro occidentale della Casa Silenziosa.
Un mago aveva praticato quel foro non molto tempo prima, con un incantesimo la cui letale forza devastante aveva indotto i più irrequieti fra i guerrieri che attendevano pieni di tensione fuori dalla Casa Silenziosa a rimanere fermi e zitti per qualche tempo. Nessuno voleva essere annientato in un istante oppure, come quello stesso mago sorridente aveva fatto a un armaragor che lo aveva minacciato un po' troppo rozzamente, perdere un braccio e una gamba sullo stesso lato del corpo, recisi e cauterizzati nello stesso orribile istante da un incantesimo evocato dal gesto distratto di una mano del mago. Accaldati a causa dell'armatura che avevano indosso, i guerrieri si erano fissati a vicenda e avevano continuato ad aspettare, agitando la mano per tenere lontane le mosche. Adesso pareva finalmente che nella Casa Silenziosa stesse succedendo qualcosa che aveva scosso fugacemente il terreno e causato un terribile fragore echeggiante all'interno della costruzione, oltre ad annullare almeno un incantesimo: l'invisibile barriera che il mago aveva eretto dopo aver creato quel nuovo ingresso e averlo oltrepassato, in modo da sigillare l'apertura e renderla impraticabile per i piccoli eserciti che attendevano impazienti all'esterno. Il Tersept di Sart girò la testa di scatto a fissare un guerriero che si stava avvicinando con cautela al foro nel muro, fino a osare di varcarlo. Trascorsero alcuni lunghi momenti, poi l'uomo riapparve e chiamò i compagni con un cenno. A quel punto, qualcuno munito di una fionda abbatté il guerriero, e le spade brillarono al sole su tutto il pendio collinare. «Difendetevi ma restate uniti!» ordinò ai suoi uomini il Lupo Sorridente di Sart. «Non lasciatevi trascinare di qua e di là dalla foga del combattimento. Rimanete compatti!». Il Tersept di Gilth gli rivolse una fredda occhiata. «Non ti ho sentito conferire con me, prima di impartire quell'ordine», commentò in tono gelido. «No, e non mi sentirai farlo», ringhiò Glarsimber Belklarravus, protendendo il volto verso quello del suo alleato. «Questa è una guerra, e non intendo morire o veder abbattere i miei uomini intorno a me a causa dell'orgoglio di chiunque, capito? Quando sarà tempo di discutere e di contrattare, mi rimetterò a te, ma qui fuori, con le spade snudate, uomini che muoiono e altre sgradevolezze del genere, sarai tu a rimetterti a me». Intanto il combattimento aveva preso a infuriare feroce intorno alla breccia nel muro. Per qualche momento ancora, il Lupo Sorridente di Sart rimase a guardare i guerrieri che colpivano e lottavano, poi si sollevò sulle
staffe. «Da quella parte!» gridò. «Carica!». Il Tersept di Gilth stava ancora farfugliando per l'indignazione e la paura quando gli armaragor assoldati sciamarono su per la collina, tutt'intorno a lui, galoppando con entusiasmo e calando le lunghe spade su qualsiasi cosa intralciasse loro il passo. Essi abbatterono i capannelli di guerrieri in lotta con la forza di un pugno gigantesco, scagliando alcuni uomini di lato e calpestando quelli che non furono abbastanza pronti a cedere loro il passo. Nello spazio di pochi, rapidi istanti, i due tersept si trovarono a scendere di sella, mentre le cavalcature abbandonate s'impennavano e fuggivano in mezzo alla confusione circostante, e i cavalli ancora sotto controllo bloccavano la breccia nella parete della Casa Silenziosa, poi si ritrovarono all'interno, nel buio improvviso, a scivolare sul sangue e a scavalcare corpi inerti, la lama in pugno. Più avanti si sentivano delle grida e il rumore di uomini armati che correvano, il tutto unito a un confuso clangore di battaglia, ai gemiti di uomini che andavano a sbattere contro le pareti, allo stridere delle armature e alle urla di chi veniva ferito o moriva. Glarsimber scivolò sullo spesso strato di sangue, abbatté con decisione ed efficienza un ringhiante guerriero che sbucò dal nulla per trapassarlo con la spada, poi si ritrovò in un passaggio più ampio, intasato di morti e di moribondi, dove alcuni degli armaragor da lui assoldati stavano avanzando con aria incerta verso una porta. «Qui?» chiese in tono secco il Lupo di Sart. «È da dove sono giunti, signore», rispose con calma uno dei mercenari, «e verso dove sono fuggiti nel ritirarsi». Il Tersept di Sart annuì e agitò una mano guantata di metallo. «Allora fateci strada!» ordinò, poi si guardò ancora una volta alle spalle, più per accertarsi che il Tersept di Gilth non stesse chiamando a raccolta il coraggio per affondargli una spada nella schiena che per qualsiasi altro motivo, e infine oltrepassò la porta di collegamento con un corridoio trasversale, scavalcando altri morti e imboccando un terzo passaggio cosparso di altri cadaveri e dei resti di una lettiga. In fondo a quel passaggio c'era una porta aperta, e il misto di urla e di clangore d'armi giungeva da essa. Glarsimber Belklarravus lasciò indugiare lo sguardo sui suoi mercenari, poi indicò la porta con un gesto imperioso della mano. Impassibili in volto, gli armaragor lo fissarono a sua volta, e rimasero dov'erano.
Scuotendo il capo con aria disgustata, il Lupo oltrepassò la porta senza preoccuparsi di guardarsi indietro per vedere se qualcuno lo seguiva, e si trovò in una stanza enorme dall'alto soffitto a volta, intasata di macerie e di corpi esanimi. Una colonna si era crepata ed era crollata, di recente, almeno a giudicare dal suo aspetto, e parecchie scale si erano staccate qua e là dalle relative balconate, su alcune delle quali erano tuttora visibili gruppetti di uomini. Tutti erano intenti a fissare la battaglia in corso nel centro della camera, dove un vecchio, affiancato da un massiccio armaragor e da uno snello procacciatore dalle mosse fulminee, stringeva con cupa determinazione un Dwaer fra le mani tremanti e si stava servendo del suo fuoco magico per tenere a bada gli armaragor di numerose baronie, mentre altri due Dwaer ruotavano in cerchio nell'aria sopra tutti e tre. Lungo le pareti della camera, in mezzo a molti morti e moribondi gementi, quelli che sembravano essere dei menestrelli stavano sostenendo una lotta all'ultimo sangue contro alcuni sacerdoti del Serpente, che si difendevano con altrettanta decisa ferocia. Nell'avvicinarsi maggiormente alla mischia centrale, la spada pronta in pugno, il Lupo Sorridente di Sart vide un uomo inginocchiato e ferito lottare per sollevarsi in piedi. Per i Tre, quello era il Barone Blackgult! E c'era dell'altro... la Dama dei Gioielli giaceva sanguinante ai piedi del barone, il che voleva dire che i tre uomini davanti a lui dovevano appartenere alla Banda dei Quattro. Mentre Belklarravus di Sart osservava la scena, un sacerdote del Serpente sibilò parole disperate. Immediatamente, bagliori magici apparvero intorno a un guerriero in armatura, che aveva la visiera dell'elmo abbassata e si teneva accasciato contro una parete della camera. Il fuoco magico si diffuse lungo gli arti massicci dell'uomo, che s'irrigidì, avanzò barcollando e lanciò un urlo disperato. Molte teste si girarono in tempo per vedere, sussultare e imprecare. Con mani frenetiche, il guerriero tremante si strappò elmo e gorgiera, poi parve quasi pulsare e crescere di dimensioni a ogni fremito della magia, fra le rauche urla di dolore che gli scaturivano dalla gola. In effetti si stava facendo più alto, e anche più largo, tanto che l'armatura si gonfiò al punto che le cinghie cedettero e i suoi pezzi volarono via dagli arti sempre più spessi, staccandosi dalla sottostante imbottitura inzuppata di sangue, che prese a sua volta a gemere per la tensione. Sebbene il dolore stesse distorcendo il volto che il guerriero aveva messo a nudo, il Tersept di Sart non faticò a riconoscerne i tratti.
Quello era Ornentar, il barone che, secondo voci sempre più diffuse, era ormai schiavo del veleno del Serpente. Nel guardare la schiuma che stava scaturendo ora dalle sue labbra (fra quelle che parevano zanne), in una bocca che appariva più larga di quanto sarebbe dovuta essere, vedendo il volto purpureo, la pelle bluastra e le vene pulsanti, Sart non stentò a credere a quelle storie di avvelenamento e di oscura magia del Serpente. Gemendo, gli occhi dilatati per l'orrore, il Barone Ornentar si stava trasformando sotto i loro occhi in una sorta di mostro, sollevandosi verso l'alto come un serpente che si tenesse eretto, le braccia che rimpicciolivano fino a scomparire e le scaglie che comparivano a rivestire il corpo chiazzato e sempre più spesso, mentre quanto restava dell'armatura e degli indumenti cadeva in pezzi e brandelli dalle spire irrequiete di quello che era diventato un gigantesco serpente. Adesso in tutta la camera i sacerdoti del Serpente stavano cantilenando all'unisono, in tono trionfante, qualcosa di sibilante, mentre le ultime tracce di umanità svanivano dal volto di Eldagh Ornentar, che si allungava a diventare il muso di un serpente, il suo ultimo grido disperato che si trasformava in un sibilo gorgogliante. «Divina creatura, ascoltami!» gridò il sacerdote del Serpente che aveva lanciato l'incantesimo. Prima ancora che le strane parole sibilanti che seguirono quell'invocazione avessero cessato di uscirgli di bocca, però, il Tersept di Sart, e con lui molti altri fra gli uomini presenti nella stanza, scagliarono una daga contro di lui. Il prete crollò al suolo sotto una grandine di acciaio affilato, artigliando l'aria come se essa potesse schermarlo, ma il serpente mostruoso non parve aver più bisogno di lui. Sollevandosi fin quasi a sfiorare il soffitto crepato e incrinato, calò verso la mischia che incombeva davanti alla colonna e spalancò le orribili fauci, mettendo a nudo i denti mentre gli uomini si ritraevano terrorizzati nel veder calare dall'alto quella testa spaventosa. Essa però morse l'aria, non gli uomini, e afferrò i Dwaer! Il vecchio che stringeva in mano la terza Pietra barcollò e cadde, continuando a mantenere la presa su di essa, e il grande serpente tornò a ergersi in tutta la sua altezza, oscuro e terribile, con due dei Dwaerindim già intrappolati nel ventre. «Dei del cielo, ora siamo tutti condannati!» esclamò una giovane voce, poco lontano, e Belklarravus di Sart non ebbe il coraggio di dissentire su quel giudizio.
Il serpente abbassò lo sguardo su tutti loro, il trionfo che gli brillava negli occhi, e spalancò le fauci quasi in uno sbadiglio, mostrando i denti scintillanti e lunghi quanto un uomo era alto, quindi si girò a esaminare la camera, come se stesse cercando di decidere chi divorare per primo. Poi, come se la notte fosse calata in anticipo, l'aria stessa della stanza si oscurò e l'espressione sul muso del serpente cambiò in qualche modo. D'un tratto, due Pietre che giravano pigramente in cerchio si accesero come lampade gemelle, quasi che il corpo del serpente intorno a esse fosse diventato trasparente, poi divamparono di una luminosità accecante. E il serpente esplose con un ruggito. Sangue rovente, nero e verde, volò per tutta la stanza, schizzando le pareti e gli uomini terrorizzati; il corpo decapitato del serpente continuò intanto a contorcersi, schioccando come una frusta e schiacciando parecchi fra i presenti contro le pareti fino a ridurli in poltiglia con le sue convulsioni. Sart si girò per fuggire, gli stivali che scivolavano sul sangue, ma dove poteva rifugiarsi? Le nere spire da incubo arrivavano ovunque, sbattendo contro i muri con tanta forza da frantumare le ossa, mentre uomini e resti di quelli che erano stati uomini venivano fatti volare attraverso l'aria come zolle di terra scagliate da una pala maneggiata con vigore. Poi, lentamente, le scaglie divennero fumo, il grande corpo rimpicciolì, i frenetici guerrieri coperti di sangue abbatterono con cupa determinazione gli ultimi sacerdoti del Serpente in fuga, e Belklarravus di Sart tornò a respirare liberamente, almeno quanto bastava per lanciare un grido di sorpresa, quando due mani nude gli strapparono la spada e la lanciarono dalla parte opposta della stanza in un vorticante scintillare di acciaio. Il giovane che pochi istanti prima aveva esclamato parole disperate, un ragazzo snello e mezzo nudo, spiccò la corsa nella stessa direzione dell'arma, e il Lapo di Sart si lanciò al suo inseguimento, troppo stupito per riuscire a infuriarsi. Il ragazzo aveva scagliato la spada per abbattere un guerriero che stava attaccando la Banda dei Quattro; mentre Sart indugiava di nuovo a esaminare l'andamento della mischia, Craer scivolò ringhiando e quattro guerrieri si scagliarono alla carica sopra di lui, incuranti della loro stessa sicurezza pur di riuscire a trapassare Hawkril. La spada dell'armaragor aprì una gola e fece cadere l'arma da una mano intorpidita, ma poi l'impeto stesso dell'attacco lo scagliò a terra quando altri guerrieri presero ad avanzare. Un ragazzo li attaccò da dietro a mani nude, gettandone a terra almeno uno, e Belklarravus di Sart ne investì in
pieno un secondo, nel momento stesso in cui un manrovescio faceva barcollare all'indietro Raulin Castlecloaks, che si ritrovò a cadere per terra in posizione seduta, addosso a Embra Silvertree. «Uccideranno Hawk!» annaspò Embra, sputando debolmente un po' di sangue e cercando invano di issarsi in piedi. «Oh, no, non lo faranno!» rise sopra di lei una voce profonda e allegra, quella del Barone Blackgult. Intanto, il fuoco dei Dwaer calò su di lui per risanarlo, poi tornò a rifluire nelle Pietre che giravano in cerchio sopra di lui, e nel frattempo il terzo Dwaer lasciò le mani di Sarasper per andare a raggiungere gli altri. «Hah!» esclamò il barone. Le Pietre divamparono improvvisamente, accelerando il movimento nell'aria, che prese a risplendere intorno a Hawkril, creando uno schermo scintillante che si spostava insieme a lui, deviando la punta delle spade. Un altro schermo apparve intorno allo stesso Blackgult, simile a un cilindro di aria compatta, e altri ancora si materializzarono intorno a Embra, a Raulin, a Sarasper e a Craer, scaraventando indietro Belklarravus di Sart. La maga Silvertree sussultò quando le sue ferite cominciarono a rimarginarsi, poi chiuse gli occhi per un momento e cedette al bisogno di rabbrividire, mentre tutt'intorno alcuni grugniti di sollievo le rivelavano che Hawkril e Craer stavano sperimentando lo stesso senso di sollievo. Infine, su tutto scese un profondo silenzio. Nell'aprire gli occhi, Embra trovò in piedi accanto a sé l'uomo che sosteneva di essere suo padre. Sorridente, le mani sui fianchi, stava guardando i guerrieri che avevano cercato di ucciderlo, e che adesso si erano ritratti in preda all'incertezza, fissandolo a sua volta immersi in un cupo silenzio. «Ho atteso a lungo questo momento», annunciò Blackgult, rivolto alla stanza silenziosa. «Molto, molto a lungo». E levò improvvisamente le mani sopra la testa, simile a un mago prossimo a colpire, gli occhi oscuri e terribili. Gli uomini che ancora non avevano incontrato la morte in quella camera si ritrassero tremanti, in attesa della fine che pareva imminente, i Dwaer che ruotavano lucenti e minacciosi al di sopra del barone. Poi, all'interno dell'alone di luce che lo circondava, il corpo del Barone Blackgult prese a cambiare, fluendo, incurvandosi e modificandosi in modo strano mentre tutti i presenti sussultavano per lo stupore, e perfino i Quattro si traevano indietro. Adesso non avevano più davanti Ezendor Blackgult, il Grifone Dorato.
Stavano invece fissando con sconcerto il vecchio e sorridente Inderos Arpa Tempestosa, forse il più grande fra tutti i bardi viventi. Le sue dita si mossero in un gesto che indicò a ogni mago presente l'imminente attuazione di un incantesimo, e in esse apparve all'improvviso un'arpa. «Per i Tre», sussultò con voce roca il Tersept di Sart, e non fu il solo in quel momento a concedersi un'imprecazione. Arpa Tempestosa sorrise a tutti loro, si volse brevemente a fissare gli occhi meravigliati di Embra Silvertree e infine, con la voce che fino a poco prima tutti avevano sentito scaturire dalle labbra del Barone Blackgult, annunciò con calma: «Tutto questo richiede una ballata che continui a echeggiare negli anni. Posate dunque la spada, e ascoltate...». In una valletta in alto rispetto al fiume, un piccolo ovale di cespugli e d'erba che dominava la Valle, massi antichi quanto le baronie emergevano come zanne dal suolo duro, gli uccelli trillavano e volavano, le farfalle fluttuavano di fiore in fiore... e all'improvviso l'aria cominciò a scintillare vicino a una roccia. Quel lucente tremolio si estese e si fece più cupo, parve rallentare, ruotare, poi rallentare ancora, venato ora d'argento, prima di scomparire e di lasciare al suo posto un uomo barcollante. Ingryl Ambelter si guardò intorno, accennò un sorriso e sollevò la testa accarezzata dalla brezza, contemplando il pendio montano che si levava alle sue spalle, poi mosse qualche passo, lasciandosi dietro impronte insanguinate. Dei, che dolore! Oh, per il Serpente che non dorme, quando fosse tornato a essere se stesso... Sì, ora quella desolazione gli appariva più familiare. Ciò che cercava doveva essere esattamente... lì. Affondando la mano in un groviglio di pietre, la girò fino a raggiungere il bordo sporgente di un masso grosso quanto una capanna e trovò quello che stava cercando: una maniglia brunita attaccata a un cofanetto di metallo chiazzato di muffa. Esso era chiuso con un chiavistello scorrevole che poteva essere fatto funzionare anche se coperto di ruggine, cosa che Ingryl dimostrò immediatamente, per poi concedersi un sospiro di sollievo nel contemplare le magie risananti racchiuse all'interno. Dopo il terzo incantesimo borbottato a mezza voce si sentì molto meglio, ma poiché la testa persisteva a girargli, si sdraiò a terra, o forse cadde. Quando tornò a guardare il cielo, la luce era cambiata, e nel rendersi nuovamente conto di dove si trovava, lui comprese che doveva essere ri-
masto sdraiato per ore. In ogni caso, il dolore era scomparso, di questo fossero ringraziati i Tre, e adesso era ora di... Un fruscio fra l'erba lo indusse a sollevarsi in fretta su un gomito e a cercare a tentoni la bacchetta che portava alla cintura. Un uomo si fece largo fra il fogliame con mosse goffe, e non appena vide i suoi tratti sfigurati, pendenti, il mago si rilassò, sorridendo nel guardare il primo dei Fusi che avanzava nella Valletta, seguito da un secondo, e da un altro ancora, tutti schierati di fronte a lui con espressione vacua. «Quindi ha funzionato», commentò, con un sorriso sempre più ampio, poi indicò e ordinò: «Raccogliete quel tronco». I Fusi si girarono per obbedire, e il mago ridacchiò. «Dunque, mi chiedo dove Tharlorn abbia nascosto l'accesso al suo covo», commentò ad alta voce. Intanto si sentirono altri fruscii, e nel girarsi lui vide una dozzina di Fusi affluire con passo rigido nella Valletta. «Ah, bene», aggiunse, rivolto al cielo indifferente. «Senza dubbio adesso ho vittime a sufficienza per poter trovare e far scattare tutte le sue trappole...». 30. Troni, granduchi e altro ancora Affollata ora da tutti i potenti del regno, la sala del trono appariva un luogo diverso, e perfino gli echi parevano differenti. Armaragor, guardie del Castello della Corrente Spumosa e bardi erano schierati spalla a spalla lungo le pareti, e le persone di rango occupavano le panche, i baroni e i tersept superstiti seduti nelle prime file, in armatura completa e impassibili in volto. Tutti tranne uno. Splendido nella lucida armatura nera, che troppi fra quanti sedevano in prima fila avevano visto negli anni passati su insanguinati campi di battaglia, il Barone Blackgult era in piedi davanti a tutti, fermo alla base della piattaforma del trono, con le braccia incrociate sul petto e i tre favolosi Dwaer che gli ruotavano quasi pigramente intorno alle spalle. Il barone teneva fra le mani la spada snudata, e un debolissimo sorriso gli incurvava un angolo della bocca. Dal punto in cui erano posati i suoi piedi coperti dagli stivali dell'armatura, un tappeto azzurro bordato d'argento si stendeva fino alle porte della sala, fiancheggiato all'estremità di ciascuna panca da alti candelabri. Nella sala, la conversazione che era cominciata come un mormorio sommesso si era ben presto spenta del tutto, e adesso rimaneva soltanto un guardingo si-
lenzio carico di tensione. Tutti gli sguardi erano appuntati su quella figura scura, in piedi al di sotto del vuoto Trono del Fiume, e tuttavia furono ben pochi quelli che colsero il cenno appena percettibile che essa rivolse alle guardie schierate in fondo alla lunga, vuota navata centrale. Esse obbedirono, chiudendo le porte con un tonfo sonoro, mentre i trombettieri schierati accanto ai battenti suonavano una fanfara e le guardie percorrevano l'intera navata, spegnendo le candele per attenuare l'illuminazione della vasta sala, fino a lasciare accese soltanto le poche che si trovavano sulla piattaforma. La fanfara indugiò su un'ultima nota, protratta e tremante, poi si concluse, e nel momento in cui quell'ultima nota smise di risuonare, il Re Ridestato apparve in silenzio, seduto sul suo trono. Ci fu un momentaneo sussulto corale, seguito da un silenzio ancora più profondo. Re Kelgrael era apparso da un imprecisato altrove, una spettrale figura trasparente fatta di magia. Tutti potevano vedere i contorni del Trono del Fiume attraverso il suo corpo, e tuttavia lui guardò a sua volta i presenti, girando la testa per soffermare lo sguardo su questo cortigiano o su quel barone come se fosse stato davvero presente, e quando parlò, la sua voce risuonò decisa e profonda come sempre. «Aglirtiani tutti, siate testimoni di questa mia reincoronazione. Io, Kelgrael Snowsar, essendo Signore del Fiume e della sua Valle, richiedo ora ai miei baroni e tersept un rinnovato giuramento di fedeltà. Che ciascuno di quanti verranno da me nominati si faccia avanti, deponga la spada sul gradino più basso e là s'inginocchi, giurandomi fedeltà in modo che tutti lo possano sentire». Seguì un altro momento di silenzio carico di tensione, poi lo spettro del re chiamò bruscamente: «Adeln!». Nessuno si fece avanti. «L'ho ucciso io, Maestà», affermò infine Blackgult, da sopra la spalla. Ci fu un nuovo intervallo pervaso di mormorii, subito sopiti. Impassibile, il re convocò il barone successivo. «Blackgult». Ezendor Blackgult si girò e posò la spada sul gradino, inginocchiandosi accanto a essa. «Sono qui, Signore di Aglirta», disse. «Giuri sulla tua spada e la tua vita di obbedire ai miei ordini regi in maniera assoluta, fedele e anteponendoli a ogni altro desiderio e compulsio-
ne?». «Lo giuro, Kelgrael Snowsar, quanto è vero che Ezendor è il mio nome, e Blackgult la mia baronia». Quelle parole erano antiche quanto la stessa Aglirta, ma tranne per una persona, sempre che fosse stata veramente presente, tutti coloro che erano nella sala le avevano finora sentite pronunciare soltanto dai bardi. «Servirai in ugual modo anche qualsiasi reggente o agente che rechi un mio ordine e parli in mio nome?». «Lo farò, Signore di Aglirta». «Farai applicare le mie leggi come se le avessi emanate tu stesso, difenderai, proteggerai e amerai Aglirta come farei io?». «Lo farò, Maestà». «Allora accetto la tua fedeltà e ti nomino mio Barone di Blackgult. Rialzati, Ezendor, e raccogli la tua spada». Il Grifone Dorato chinò il capo in direzione della piattaforma, ne baciò il gradino più alto e recuperò la spada, per poi rialzarsi e tornare con disinvoltura ad assumere la posizione di poco prima. «Brightpennant», chiamò quindi il re. Seguì una pausa di silenzio, e dopo un momento le labbra reali ordinarono con calma: «Glarsimber Belklarravus di Sart, ma non più di Sart, fatti avanti!». Sbattendo le palpebre per lo stupore, il Lupo Sorridente di Sart si alzò dal suo posto nella seconda fila di panche e si schiarì nervosamente la gola. «Vuoi essere il mio Barone di Brightpennant?». «Io... uh... ahem... lo voglio, Maestà», balbettò il Lupo di Sart, senza sapere bene come fosse successo che lui era stato anche solo notato alla corte della Corrente Spumosa. «Allora avvicinati al gradino e porta con te la spada». Quelle parole furono accolte con un mormorio divertito che conteneva una nota di eccitazione. Quel giorno sarebbero state elargite nuove cariche! E così fu. A uno a uno, il Re Ridestato convocò a sé tutti i baroni, lasciando in sospeso alcuni titoli non più detenuti da nessuno e assegnandone altri a determinati tersept. Nessun barone rifiutò di prestare giuramento o accennò atti di violenza o parole irrispettose, ma del resto molti silenzi indicavano in maniera esplicita la sorte di quanti avevano osato agire in quel modo. Due sconcertati tersept si rialzarono come i nuovi baroni di Phelinndar e di Tarlagar, in mezzo ai mormorii e borbottii dei presenti, prima che Re Snowsar iniziasse il lungo elenco dei tersept.
Con il passare delle ore, una sola baronia non venne nominata: Silvertree. Del resto, tutti i presenti sapevano che Silvertree aveva reclamato per sé l'Isola della Corrente Spumosa, governando da quello stesso castello, e che tutti avevano odiato e temuto Faerod Silvertree, per cui fu una sorpresa generale quando l'ultimo tersept tornò al suo posto e il re chiamò con fermezza: «Silvertree». Scese il silenzio, nessuno si mosse o parlò. Il re spinse lo sguardo lungo la navata, ma nessuno si fece avanti per conto di Silvertree. Infine, Kelgrael Snowsar si mosse appena sul trono e mormorò: «Lady Embra, qui da me». Una mano grossa ma gentile assestò una spinta in un fianco a Embra Silvertree, là dove i membri della Banda dei Quattro erano raccolti insieme nell'ombra in fondo alla sala. «Va', ragazza», borbottò il proprietario della mano. Embra scoccò un'occhiata a Hawkril e si morse un labbro, esitando. Sia pure con riluttanza, la Dama dei Gioielli, in armatura completa e con una lunga spada sottile al fianco, si staccò quindi dal gruppo delle guardie che fiancheggiavano le porte e avanzò in silenzio lungo la navata; mentre tutti i presenti si giravano a fissarla, s'inginocchiò e depose la spada ai piedi del Re Ridestato. «Alzati, Embra Silvertree, e avvicinati al trono», ordinò il re. La snella maga obbedì con crescente esitazione. Quando si venne a trovare accanto alla sua figura semitrasparente, Kelgrael Snowsar sollevò il volto a fissarla. «Più coraggiosa fra tutte le dame», disse, «se chiedessi la tua mano in matrimonio, perché tu governassi Aglirta al mio fianco... cosa risponderesti?». Un sussulto... in qualche caso addirittura uno strillo... scaturì da un centinaio di gole e tutti gli sguardi si accentrarono su Lady Silvertree, alta e sola sulla piattaforma. Non pochi fra quegli sguardi erano pieni di sgomento o addirittura di orrore, e fra quanti apparivano meno sconvolti spiccava Raulin Castlecloaks, fermo al suo solito posto accanto al muro, pallido e tremante per l'eccitazione del momento. Almeno un'altra persona nella sala era altrettanto pallida e tremante. Palesemente stupefatta, Embra Silvertree deglutì a vuoto parecchie volte. «C... chiedo perdono a Vostra Maestà, ma sarei costretta a rifiutare», riuscì infine a sussurrare. «Io...». Interrompendosi, girò per un momento il
capo verso Hawkril Anharu, immobile vicino alle porte come un paziente gigante, il volto ansioso e tuttavia atteggiato all'espressione più severa e impassibile di cui era capace, poi aggiunse: «Io ho già scelto». Anche se stava sussurrando, ogni sua parola venne sentita con chiarezza fino in fondo alla camera immota e silenziosa. Con calma, il re chinò il capo nella sua direzione e sorrise. «E io ti onoro per la tua scelta», rispose. «Sospettavo che fosse così. Va' pure, signora, e continua a essere legittima Baronessa di Silvertree». Embra chinò il capo e si allontanò indietreggiando dalla piattaforma, lo sguardo basso. Dei del cielo, cosa ho fatto? pensò con sgomento. Un braccio rivestito di armatura nera si protese verso di lei e la fece girare con un movimento fluido. «Prendi la spada e schierati accanto a me», le mormorò da un angolo della bocca il Barone Blackgult, l'uomo che sosteneva di essere suo padre. Stordita, cercando di non tremare di paura per il regno e per se stessa, Embra obbedì. Mentre prendeva posizione accanto a Blackgult in cima alla navata, i Dwaer allargarono la loro lenta orbita in modo da estenderla a entrambi. «Ascoltate il mio volere, fedeli sudditi di Aglirta», scandì con calma il Re Ridestato, come se quella mattina non fosse successo nulla, tranne il consueto risveglio e una gradevole colazione. «Io non tornerò in Aglirta e terrò invece vincolato l'oscuro Serpente per qualche tempo a venire. Blackgult governerà come mio reggente al mio posto, e sarà anche Lord Maresciallo del Regno. A lui solo è concesso riunire in armi un contingente superiore alla scorta baronale di sessanta guerrieri. Sue saranno la voce e la mano che guideranno la bella Aglirta, e tutti i baroni si chineranno dinanzi alla sua volontà, sarà in suo potere nominare baroni e tersept, o privarli del titolo. Solo quattro persone saranno libere dai suoi comandi, a patto che rispettino le leggi del regno, i quattro granduchi di Aglirta, che in questa sede io confermo nei loro poteri: ergersi a giudici e applicare la legge regia come fa il reggente, comandare guerrieri con autorità pari alla sua, esigere fondi, riparo, cibo e aiuto come fa lui. Questi quattro sono Hawkril Anharu, Craer Delnbone, Sarasper Codelmer ed Embra Silvertree. Essi si trovano ora qui fra noi: ricordatevi il loro volto e obbedite loro come obbedireste a me». La figura spettrale sul trono cominciò a dissolversi. «Buona fortuna, popolo di Aglirta. Rendete di nuovo forte e orgogliosa
questa terra, riservando l'odio agli stranieri, i fuorilegge e quanti si alleano con il Serpente. Vivete in pace con Sirlptar e non protendete la mano a impadronirvi di essa o delle Isole o di qualsiasi altro territorio; invece, cercate di rendere ancora più splendido ciò che abbiamo. Non dimenticate le mie parole, se non volete che la guerra e oscure magie tornino a imperversare». Alla fine di quelle parole, il Re Ridestato svanì nel nulla. Seguì un lungo momento di stupefatto silenzio, poi si levò un singolo, eccitato mormorio, e come se esso fosse stato lo scoppiare di una diga che teneva a bada un fiume in piena, voci altrettanto eccitate presero a risuonare per tutta la camera. Girando appena il capo, Blackgult sibilò alcune parole a Embra in tono urgente, e insieme essi operarono una magia, un incantesimo così potente da attenuare per un momento la luce dei Dwaerindim. Poi il nuovo Reggente di Aglirta sorrise e salì sulla piattaforma, sostando accanto al trono. «Baroni del regno, a me!» esclamò. Abbassando lo sguardo sui presenti, il Barone Blackgult vide scoppiare delle lotte qua e là fra la folla e volare dei pugni. «Vedo», commentò con un triste sorriso, «che alcuni di voi hanno già scoperto che le lame estratte qui dentro non versano sangue e attraversano la carne come se fosse fumo, senza recare danno. Questo non è il momento di uccidere e di soddisfare vecchi rancori: oggi, noi tutti diamo qui inizio a un nuovo giorno. Baroni, a me! Granduchi, anche voi, se volete essere tanto gentili da assecondarmi con un piccolo atto di obbedienza». Mentre le poche figure in armatura si avvicinavano e salivano i gradini, i Dwaer sulla testa del reggente presero a brillare di una luce più intensa, fino a essere simili a stelle dorate. Blackgult li guardò di sfuggita, un'espressione perplessa dipinta con chiarezza sul volto, poi spostò lo sguardo sul gruppetto di ansiosi volti baronali, nei quali scorse ira e insieme paura. «Non ho nessun desiderio di diventare un tiranno», borbottò. «Andate a casa, tutti quanti, e rimettete ordine nelle vostre baronie. Non usate violenza ai miei araldi, quando si presenteranno: essi faranno rapporto a me, certo, ma preferiranno sentire da voi franche lamentele e aperte richieste piuttosto che una quantità di vuote parole mielose. Se complotterete gli uni contro gli altri o avrete rapporti con i seguaci del Serpente, mi limiterò a chiudere i vostri confini al resto di Aglirta, fino a quando la vostra stessa gente vi farà a pezzi. Informatemi con la massima rapidità possibile se verrete a conoscenza di strane magie, di maghi ancora più strani e di atti di
adorazione del Serpente, e vi verranno inviati aiuti. Granduchi, volete essere voi i miei araldi?». «Se riuscirai a trovarci», rispose con indifferenza Craer. «Noi preferiamo andare in cerca di avventure». Uno dei baroni sussultò per la sua scortesia, ma Blackgult si limitò a sorridere e scosse il capo con apprezzamento pieno d'invidia. «Andate, allora», ridacchiò. «Ve lo siete meritato, questo e molto di più. Un'ultima cosa», aggiunse, tornando a far vagare lo sguardo sul volto dei baroni. «State sempre attenti a notare se doveste vedere intorno a voi uomini senza faccia, i Koglaur, che possono cambiare il loro aspetto con la rapidità con cui una dama indossa un nuovo abito. Non usate loro violenza, perché sembrano difendere Aglirta con la stessa devozione del nostro re, ma cercate di notare la loro presenza, qualora dobbiate avvertirli di qualcosa, o avvertire noi di qualcosa che li riguarda. Hai sentito abbastanza, Flaeros?» chiese infine, con un sorriso improvviso. Il fiore dei Delcamper, che se ne stava in silenzio ad ascoltare con occhi sgranati in mezzo al cerchio dei baroni, in cui era riuscito a insinuarsi con un'abilità più degna di un procacciatore che di un bardo, arrossì profondamente e cercò di balbettare qualcosa in risposta, ma il barone che gli era accanto si girò ad afferrarlo rabbiosamente per il collo. Hawkril Anharu intervenne però a serrare quel polso baronale in una morsa ferrea. «I buoni governanti», commentò a bassa voce, «hanno meno segreti possibile per i loro sudditi. Rifletti: la tua gente trarrà conforto dal sapere le cose che si sono dette qui oggi, lontano dal suo udito». Dal resto del cerchio si levarono lenti e riluttanti mormorii di assenso, poi tutti i baroni guardarono verso il reggente per vedere la sua reazione. Blackgult si limitò a un lento sorriso. «Ti ringrazio, mio buon Hawk», disse al torreggiante armaragor. «Tu hai ragione, e io avevo torto». A quel punto, Embra protese deliberatamente la mano, lo sguardo fisso in quello del barone, e afferrò al volo il suo Dwaer; anche senza guardarlo, sapeva che era quello che aveva sempre avuto in custodia lei. Blackgult socchiuse gli occhi e contrasse le sopracciglia, incupendosi in volto, poi però scrollò le spalle e le indicò con un cenno che poteva tenerlo con sé. «Ora andate e fate il vostro dovere», disse ai Quattro. «Abbiamo un regno da ricostruire».
Insieme, i membri della Banda dei Quattro si avviarono lungo il tappeto centrale, e le guardie spalancarono le porte al loro avvicinarsi. All'unisono, essi si volsero per dare un'ultima occhiata al Torno del Fiume, e all'uomo in armatura nera in piedi accanto a esso. Mentre il Grifone Dorato sollevava la mano in un saluto ai nuovi Granduchi di Aglirta, il volto di una delle guardie accanto alle porte perse per un istante ogni lineamento, tranne un asciutto sorriso. I Koglaur stavano osservando ogni cosa, come facevano sempre. Epilogo La luce della luna si riversava intensa, bianca e argentea, sul Trono del Fiume, ora un seggio vuoto che si levava immobile e silenzioso nella sala in cui erano rimaste soltanto tre cameriere inginocchiate a lavare il pavimento, parecchie guardie in splendida armatura... e un giovane dagli occhi scuri. Raulin Castlecloaks stava contemplando il luogo in cui era apparso il Re Ridestato, e dove l'alto e oscuro Barone Blackgult aveva sostato al suo fianco, e aveva gli occhi velati di lacrime, tanto che quasi non vide la tozza figura in armatura che venne ad affiancarglisi. «È stato senza dubbio uno spettacolo meraviglioso, ragazzo», borbottò la guardia, «ma ormai è tempo che tu te ne vada, perché adesso sbarreremo le porte. Va' a riposare un poco. Negli anni a venire, Aglirta avrà bisogno di giovani forti come te. C'è ancora molto da fare, con o senza reggenti e granduchi». «Sì», rispose a bassa voce Raulin, girandosi nella direzione indicata dal braccio teso della guardia, verso le porte. «Me lo hanno detto anche loro». «"Loro", ragazzo?». «Hawk, e Craer, e Lady Embra. E il vecchio, triste Sarasper. I... i granduchi. Hanno detto che ci sarebbe stato bisogno di me... anche troppo presto». «Non ne dubito», annuì la guardia, una gentile incredulità che traspariva evidente dal suo tono. «Non ne dubito. Hai fissato un po' troppo a lungo la luce della luna, sognando di essere un eroe». Oltrepassate le porte, Raulin si volse e si erse sulla persona, alto e snello. «Lo so», replicò con dignità, «ma è ciò che fanno i bardi». Poi girò sui tacchi e si avviò lungo la Corte Interna, mentre la guardia sorrideva, scuoteva il capo e allungava la mano verso il battente.
Ilibar Quelver stava diventando vecchio, ma questo non gli rallentava i movimenti, per cui poco mancò che fosse troppo rapido a chiudere il portale per riuscire a vederlo: nella parte più oscura della sala, una luce spettrale apparve dal nulla, e divenne il Re Ridestato, la mano sollevata in un gesto di saluto. Il ragazzo cadde in ginocchio sulle piastrelle, e sotto lo sguardo attonito della guardia Re Kelgrael scosse il capo, sorrise e svanì. Rialzandosi con la massima dignità, come se fosse stato nominato cavaliere, il ragazzo riprese a camminare. Quell'estremità della Corte Interna era davvero buia, ma un chiarore lunare che pareva scaturire dal nulla aleggiava ancora intorno alla testa e alle spalle del giovane. Fermo con la mano sulla porta e un freddo formicolio che gli correva in tutto il corpo, il vecchio Quelver fece del suo meglio per ricordare e sussurrare ogni preghiera ai Tre che avesse mai sentito. La luce della luna si riversava intensa, bianca e argentea, anche sulle Rocce Selvagge, e in una particolare valletta sovrastante quelle che erano di nuovo le terre di Brightpennant, dove essa scendeva a lambire quattro corpi nudi. La Banda dei Quattro se ne stava distesa accanto al fuoco morente, senza però sentire il freddo della brezza notturna, grazie al Dwaer. Brutto e insignificante come sempre, esso fluttuava nell'aria sopra il seno di Embra, scintillando nell'intessere protezioni magiche intorno a loro sulla spinta della volontà della maga. Sotto di esso, Embra stava seguendo con un dito distratto i contorni di una rossa cicatrice, risanata solo in parte, che segnava l'avambraccio di Hawkril, mentre se ne stavano sdraiati vicini da un lato del fuoco, Craer e Sarasper adagiati su quello opposto. D'un tratto, Embra si sollevò a sedere di scatto, e i tre uomini s'irrigidirono, allungandosi in fretta ad afferrare la spada, che non era mai lontana dalla loro mano. «Cosa c'è?» sibilò Craer. «I Dwaer splendevano come stelle, troppo intensi perché li si potesse guardare, quando Bla... quando mio padre ci ha invitati tutti ad avvicinarci», mormorò in tono intenso la Dama dei Gioielli. «Ricordate?». «Sì», confermò Hawkril, mentre gli altri annuivano. «Lo abbiamo visto tutti. E allora?». «Può accadere una cosa del genere soltanto quando tutti e quattro i Dwaerindim sono molto vicini fra loro», disse Embra, con voce che era
poco più che un sussurro. «Devono essere a non più di qualche passo di distanza». Nessuno dei suoi compagni scarseggiava di prontezza mentale. «Allora la quarta Pietra è in possesso di qualcuno dei baroni del regno, che la detiene in segreto», commentò Sarasper, nell'oscurità improvvisa dovuta a una rapida nuvola che aveva coperto la luna. «Ma chi?» domandò Craer. In qualche modo, tutti si accorsero che Hawkril aveva scrollato le spalle prima ancora che lui parlasse. «Chiunque sia, la missione che il re ci ha assegnato non è ancora stata portata a termine», affermò. «Domattina cominceremo a cercarlo». Craer e Sarasper sentirono il gemito disgustato di Embra e lo schiaffo scherzoso che lei gli assestò su un fianco. Quando era necessario, Hawkril sapeva peraltro agire in assoluto silenzio, per cui gli altri due non colsero nulla della sua reazione finché la Dama dei Gioielli non emise un basso sussulto deliziato che divenne una risatina e tornò poi a essere un sussulto. «Guaritore», commentò in tono discorsivo Craer, contemplando le stelle scintillanti, «ti ho mai parlato di quella volta che ho rubato involontariamente lo stivale sinistro di qualcuno, a Sirlptar? A lui è probabilmente rimasto il mio, e forse se ne sta ancora servendo per rintracciarmi, almeno per quanto ne so...». «No, Esimio Granduca Delnbone, non credo che tu me ne abbia mai parlato», replicò Sarasper allegro, mentre la luna tornava a risplendere e potevano sentire un ringhio e una risata soffocata giungere dall'altro lato del fuoco. Elenco dei Personaggi ADELN, ESCULPH: Barone (Signore) di Adeln, avvenente e spietato governante privo di scrupoli di una prospera baronia che dispone di un vasto esercito; entusiasta animatore di una cospirazione contro il Re Ridestato. AMARANDUS il Leone: Drammatico e logorroico capo della banda di avventurieri chiamata Lame Luminose e Speranza di Aglirta. Guerriero dotato di una voce ricca e affascinante e dal volto caratterizzato da una barba nera a punta.
AMBELTER, INGRYL: Maestro d'Incantesimi di Silvertree e mago più potente fra i Tre (i Tre Oscuri), maghi malvagi e privi di scrupoli al servizio del Barone Faerod Silvertree; ambizioso, capace di districarsi con astuzia nella vita e nella politica della Valle, è un incantatore creativo e molto potente. Sebbene sia stato ucciso in Terra senza Re, pare aver trovato il modo di sopravvivere oltre la morte. ANDALUS di Sirl: «La Zanna», malfamato assassino a pagamento ucciso dal suo rivale, «Piede di Velluto» Luthtuth; noto per la sua abitudine di indossare una maschera da «spettro combattente» nello svolgimento dei suoi lavori (gli «spettri combattenti» sono spiriti vendicativi di gioviali guerrieri uccisi sul campo di battaglia senza che potessero portare a compimento i loro incarichi; in Darsar, essi perseguitano e tormentano i vivi in molte commedie, sempre con oscuro umorismo). ANHARU, HAWKRIL: «Il Cinghiale di Blackgult», un armaragor (cavaliere guerriero privo di rango ufficiale) al servizio del Barone Blackgult, di cui era un tempo la guardia del corpo personale; uomo di corporatura insolitamente alta e massiccia, è dotato di notevole forza; membro della Banda dei Quattro e da tempo amico e compagno d'armi di Craer Delnbone, che spesso lo chiama «Spilungone». BAERETHOS, YAULN: Vecchio e incompetente mago di Cardassa, saggio (consigliere) agli ordini del barone. È un vecchio irascibile dalla lingua tagliente, aspro rivale di Ubunter. BAERGIN: Menestrello del Casato dei Delcamper, un tempo maestro d'arpa di Flaeros Delcamper, e agente del Serpente. BAERUND, ILISKER: Tersept (governante non di nobile nascita) della decaduta Baronia di Tarlagar, che ha ora recuperato prestigio e una notevole prosperità. Uomo audace e spietato, che pochi sanno essere anche un abile mago e che non ha esitazioni a cospirare contro il Re Ridestato; si noti che l'ultima apparizione del «Tersept di Tarlagar» ne Il Trono Vacante è come travestimento magico adottato dal mago Tharlorn il Tonante. Banda dei Quattro, la: I nostri eroi, gli Eroi del Re, i Ridestatoli del Re
Ridestato. Sono una banda indipendente di quattro avventurieri che si sono incontrati in Terra senza Re (vedi Anharu, Hawkril; Codelmer, Sarasper; Delnbone, Craer e Silvertree, Embra), le cui avventure promettono di cambiare il volto di Aglirta. BELKLARRAVUS, GLARSIMBER: Tersept (governante non di nobile nascita) di Sart (città indipendente che apparteneva in passato alla Baronia di Brightpennant); un robusto e massiccio guerriero ora ingrassato, ma che gode ancora della fama accumulata ai tempi in cui era un capitano mercenario, «Il Lupo Sorridente di Sart». Da lungo tempo rivale di Daragus di Gilth. BLACKGULT, EZENDOR: Barone (Signore) di Blackgult, noto come «il Grifone Dorato» a causa del suo stemma araldico, rivale di Faerod Silvertree, in quanto entrambi decisi a governare tutta Aglirta, e capo di un disastroso attacco e tentativo di conquista delle Isole di Ieirembor, avvenuto appena prima degli eventi narrati in Terra senza Re, che ha permesso a Faerod Silvertree di impadronirsi delle sue terre e di dichiarare fuorilegge tutti i suoi guerrieri (inclusi Craer e Hawkril dei Quattro). Guerriero ed esteta sofisticato e intelligente, Blackgult s'interessa di magia e colleziona una quantità di oggetti magici, usandone i poteri per assumere un'altra forma, quella del bardo Inderos Arpa Tempestosa, Maestro Bardo di Darsar, con la quale è diventato famoso come il più grande bardo vivente di tutto Asmarand, se non di tutto Darsar. BOWDRAGON, CATHALEIRA: Maga e amante di Tharlorn il Tonante (che la chiamava «Cathlass»), era la più anziana e abile dei suoi tre giovani, fedelissimi apprendisti (oltre a essere la sola donna del gruppo). Donna ambiziosa e profondamente innamorata di Tharlorn, dotata di notevole talento magico e appartenente a una famiglia (quella dei Bowdragon di Arlund) famosa per le capacità magiche dei suoi membri. BRITHRA: Cuoca e, a volte, amante del mago Bodemmon Sarr; una donna bruna silenziosa, calma, fedele e capace, da lui acquistata come schiava e in seguito liberata e presa al suo servizio, dopo averne appurato la fedeltà con i propri incantesimi.
BROSTOS, MAEGLA: Baronessa-madre di Brostos, madre recentemente deceduta del Barone Thanglar Brostos. Donna dalla volontà ferrea e dalla voce stentorea, assai poco avvenente e con le mascelle tanto pronunciate da essere stata una volta descritta, poco caritatevolmente, come un «cane ringhiante che cammina», è stata l'artefice della maggior parte dei trattati, dei contratti e degli accordi che hanno arricchito Brostos (dopo la morte di suo marito, il Barone Thorlyn Brostos). BROSTOS, THANGLAR: Barone (Signore) di Brostos, codardo in situazioni di pericolo, ma altrimenti commerciante ed esattore fiscale freddo ed efficiente, signore di una baronia fra le più prospere. Dotato di ribelli capelli neri, di penetranti occhi castani e di un guardaroba lussuoso e alla moda, è recentemente ingrassato ed è tormentato da una paura crescente a mano a mano che Aglirta scivola verso la guerra. CALADASH, BRYLDAR: Altezzoso e ambizioso mago di Sirlptar facile all'ira, si è alleato con il Barone Adeln nella cospirazione contro il Re Ridestato esclusivamente per il tornaconto personale. Avvenente ma rozzo, dotato di una voce nasale e sarcastica e di modi imperiosi, è stato una volta descritto accuratamente dal mago Ingryl Ambelter come «un mago che è decisamente la metà di ciò che crede di essere». CARDASSA, ITHCLAMMERT: Barone (Grande Signore) di Cardassa, severo nei modi e nel vestiario, e tendenzialmente tirchio (da qui il suo soprannome di «Corvo di Cardassa», detto anche, meno cortesemente, «Vecchio Corvo»), ma anche uomo colto e di saldi principi, che crede nelle leggi e nel loro rispetto. CARTHEL, JOLYNTH: Amministratore (agente commerciale) di Sirlptar. Uomo snello, sarcastico e facile all'ira, è un damerino altezzoso e profumato. Agente degli usurai e dei mercanti di Sirl. CASTLECLOAKS, HELGRYM: Uno dei bardi più famosi e stimati della Valle. Barbuto, cautamente cortese, saggio e dalla personalità notevole, è stato ucciso in Terra senza Re.
CASTLECLOAKS, RAULIN TILBAR: Giovane aspirante bardo, figlio del rispettato bardo Helgrym Castlecloaks e per breve tempo compagno di tre membri della Banda dei Quattro. CODELMER, SARASPER: Guaritore ed ex cortigiano, che da lungo tempo si tiene nascosto, camuffato dietro una delle tre forme bestiali che è in grado di assumere: pipistrello, serpente o (forma che preferisce) zannelunghe, o «lupo-ragno» divoratore di uomini. Anziano, burbero e poco avvenente, è un membro della Banda dei Quattro ed è amico di Craer, dai tempi in cui quest'ultimo è entrato al servizio del Barone Blackgult. CORLOUN: Mago di Corte di Maerlin, arrogante e ambizioso; creatore dei Fusi. DARAGUS, INTHER: Amministratore (agente commerciale) di Gilth (una città indipendente che faceva parte un tempo della Baronia di Brightpennant). Uomo intelligente e vigoroso, da tempo rivale di Belklarravus di Sart. DARLASSITUR, OEN: Mago del Casato di Cardassa. Furfante e traditore dalla barba bionda e dagli occhi verdi, assunto dal barone quando ancora era un mago («esecutore di incantesimi») emergente, ma inesperto, a Sirlptar. DATHGATH, KORSTYN: Re di Aglirta, antico sovrano ricordato ora soltanto come un grande guerriero, che cavalcava in battaglia un destriero alato e che amava bere vino. Statue e incisioni che lo raffigurano lo mostrano come un guerriero molto muscoloso, a braccia nude e senza elmo. DELCAMPER, FLAEROS: Giovane bardo appartenente alla facoltosa famiglia di mercanti dei Delcamper di Ragalar; quando viaggia, porta indosso il Vodal, un anello magico che è un cimelio di famiglia dei Delcamper e che permette (fra le altre cose) a chi lo porta di vedere attraverso illusioni e travestimenti magici. DELDROUN, YISKER: Anziano ex guerriero al servizio dei Silvertree,
presso i quali era swordsorn (ufficiale militare di grado equivalente a quello di sergente) di Roldrick; uomo severo dallo sguardo freddo, sfoggia folti baffi bianchi e ha una lingua tagliente e uno sguardo molto attento. DELNBONE, CRAER: Procacciatore (cioè esploratore e ladro) al servizio del Barone Blackgult. Minuto, agile e dalla lingua arguta, è un membro della Banda dei Quattro, nonché amico e compagno d'armi di vecchia data di Hawkril Anharu, che spesso lo chiama «Dita Lunghe». DUTHJACK, SENDRITH «LAMA DI SANGUE»: Carismatico guerriero al servizio del Barone Blackgult che diventa capo di una banda di guerrieri fuorilegge («La Banda di Lama di Sangue») e la guida in una scorreria intesa a uccidere il Re Ridestato e a porre lo stesso Duthjack sul trono. DYNDRIE, SAERLOR: Amministratore regio (agente commerciale) a Sirlptar, uno dei due rappresentanti economici del Re Ridestato di stanza nella Città Scintillante (Theth Phlundrivval è l'altro); pomposo e avvenente cortigiano di età avanzata il cui senso d'importanza personale è superato soltanto dal suo ego e dal suo interesse per ogni dama di passaggio. ELROUMRAE: Regina di Aglirta, che ha regnato in tempi antichi ed è ricordata ora soltanto come una bellissima e aggraziata danzatrice, patrona dei bardi, e per la sua capacità di bere più di qualsiasi altro membro della corte senza perdere la propria serena dignità. Gli altri suoi nomi, e come abbia fatto ad ascendere al trono, sono però informazioni perse nelle storie dei bardi e nel sapere custodito dai saggi. FAULKRON, RUSTAL: Mago di Corte di Glarond, vecchio dalla mente acuta che alcuni definiscono il «Vecchio Ratto» a causa del suo aspetto e dei suoi modi furtivi. Fusi, i: Uomini bruciati mediante uno speciale incantesimo del fuoco messo a punto dal mago Corloun. La loro carne cola, sfigurandoli, ed essi diventano strumenti per la sua magia, permettendogli di eseguire incantesimi da lontano, tramite il loro tocco, o di farli esplodere in una
vampata di fuoco. GLAROND, AUDEMAN: Barone (Signore) di Glarond, amante della poesia e cospiratore contro il Re Ridestato. HALIDYNOR, ONTHALUS: Pretendente alla sovranità sulla decaduta Baronia di Phelinndar, sull'alto corso del fiume. Uomo grasso, egoista e viziato ora a capo di una famiglia di mercanti di perdurante prosperità insediata in Sirlptar, dove i remi, le vele e le chiatte di Halidynor vengono da tempo utilizzati quotidianamente. HOLDYN: Ex guerriero al servizio dei Silvertree, ora guardia della locanda della Bottiglia e il Guanto, nelle campagne di Phelinndar. HULDAERUS, ARKLE: Il «Signore dei Pipistrelli», in precedenza Mago di Corte di Ornentar, mago avido, ambizioso e crudele, noto per il suo utilizzo della magia collegata ai pipistrelli, per il suo controllo su quegli animali e per la capacità di assumere lui stesso la forma di un pipistrello. Di lui una volta il menestrello Vilcabras aveva detto, nel corso di un Raduno, che «il peggiore incubo per Aglirta sarebbe stato una collaborazione fra Huldaerus e Silvertree, che avrebbe significato il terrore per la Valle del Fiumargento l'anno prima e per tutto Darsar quello successivo», e per quelle parole Huldaerus lo aveva ucciso. JHALANVYLUK, MARGATHE: Padrona della Bottiglia, moglie di Nortreen, nonché comproprietaria della prospera locanda della Bottiglia e il Guanto, Margathe è una donna enorme dalla lingua tagliente, che è stata una volta descritta come «puro veleno di vipera. Sempre acida, non le sfugge nulla e governa le cucine come un crudele swordsorn (uno swordsorn è un ufficiale militare, di grado equivalente a quello di sergente)». In effetti, è così che lei domina e gestisce sia Nortreen sia l'intera locanda. JHALANVYLUK, NORTREEN: Da vent'anni prospero locandiere e orgoglioso comproprietario della locanda della Bottiglia e il Guanto, nelle campagne di Phelinndar, e prima di allora locandiere e secondo oste della locanda stessa per altri vent'anni. È un uomo corpulento, gioviale e affaccendato, che sta ormai ingrassando ma che da giovane
era un abile guerriero e un temuto avversario nelle risse. KALARTH: Formidabile guerriero, famoso per le sue avventure, prima e dopo il periodo in cui ha prestato servizio agli ordini del Barone Blackgult, rifiuta di unirsi alla Banda di Lama di Sangue. KESSRA: Matrona della locanda del Vecchio Leone, a Ragalar, nota a tutti i Ragalani per l'enorme e interminabile quantità di bucato che appende sempre a ogni ringhiera, colonna e balconata del Leone. KETHER: Un tempo guerriero al servizio di Silvertree, ora guardia alla locanda della Bottiglia e il Guanto, nelle campagne di Phelinndar. KETHGAN: Assassino a pagamento e «catturatore» professionista (rapitore a pagamento), un tempo al servizio del Barone Faerod Silvertree. Abile guerriero e assassino furtivo, ora viaggia e lavora con il suo socio, Vandur. Koglaur, i: Detti i «Senzafaccia», sono leggendari esseri umanoidi e mutaforma che operano nell'ombra, vegliano su Aglirta e intervengono negli eventi che la riguardano per motivi tanto personali quanto misteriosi. KORDUL: Armaragor straniero, da tempo membro della Banda delle Spade di Sirlptar. LOUSHOOND, BERIAS: Barone (Signore) di Loushoond, uomo di saldi principi ma spesso affetto da vigliaccheria, che cospira suo malgrado contro il Re Ridestato; ingenuo e tendente a far troppo affidamento sui suoi amministratori, viene a volte chiamato a sua insaputa il «Barone Idiota» (o anche «Lord Idiota»). LULTUS: Guerriero al servizio del Barone Blackgult, che diventa un membro della Banda di Lama di Sangue. LUTHTUTH, EEIMGUR, «PIEDE DI VELLUTO»: Abile, astuto e urbano lastalan (ladro a pagamento o anche esploratore e reperitore di viveri per l'esercito, detto anche «procacciatore») e assassino a paga-
mento. MAERBOTHAM, BELGUR: Detto «Bel», è un guerriero e brigante mite e piuttosto vigliacco che lavora con Weldrin, un tempo suo comandante quando prestava servizio militare (presso i Silvertree). MAERLIN, URWYTHE: Barone (Signore) di Maerlin, nobile dai modi urbani che cospira contro il Re Ridestato. Mago delle Stelle, il: Secondo i bardi, è il mago più potente che Aglirta abbia mai conosciuto, che avrebbe governato secoli addietro, durante un Regno del Mago che da molti è ritenuto essere stato la massima vetta della gloria di Aglirta. Dal momento che è scomparso senza che nessuno ne confermasse la morte, alcuni ritengono che tornerà, cosa da cui deriva il detto «finché il mago cammina». Anche se sono in pochi a saperlo, a parte i saggi e i maghi, il Mago delle Stelle aveva l'abitudine di invadere senza lasciar traccia la mente di tutti i suoi sudditi, rendendoli suoi schiavi a loro insaputa. MARINDRA: Maga vissuta in un remoto passato, che ha dato la vita per creare e perfezionare la grande magia che ha permesso al Re di Aglirta di sprofondare nel suo lungo Sonno, il Rito Profondo, o Chiamata al Sonno. MARTHITH, CALARD: Esperto e disciplinato guerriero e guardia del corpo professionista, al servizio personale del Barone Ornentar; siniscalco del Castello di Ornentar. MAUVEIRON, AMMANTAS: Potente mago straniero dai modi urbani e pacati, alleato del Barone Adeln nella sua cospirazione contro il Re Ridestato. MULKYN, GADASTER: Primo e più famigerato Maestro d'Incantesimi di Silvertree; anziano, malvagio e spietato arcimago che è stato tutore di Ingryl Ambelter, e che lo stesso Ingryl ha ucciso con una serie di incantesimi di sottrazione dell'energia magica e vitale che hanno condotto Gadaster a una strana condizione di nonvita.
MURGIN: Spensierato guerriero e brigante che lavora con Weldrin, un tempo suo comandante militare al servizio dei Silvertree. NAERIMDON, AUGRATH: Tersept (governante non di nobile nascita) di Rithrym, tiranno avido e brutale che governa per mezzo dei suoi cortahar (guerrieri a lui votati). NAOR: Guardia del corpo personale di Sendrith «Lama di Sangue» Duthjack, che diventa membro della Banda di Lama di Sangue. NARVIM, USTER: Abile e disciplinato guerriero professionista e guardia del corpo al servizio di Blackgult, ma assoldato dal Barone Adeln dopo la scomparsa del Barone Blackgult e la caduta della sua baronia. NIMMOR: Freddo e spietato sacerdote del Serpente, attivo nelle campagne di Phelinndar. NLORVOLD Bastone Devastante: Esperto mago di guerra che possiede il Bastone Devastante, un bastone magico le cui proprietà spaventose vanno al di là del suo assoluto controllo o della sua comprensione. È uno dei capi delle Spade di Sirlptar (l'altro è il mago Ressheven). OBLARRAM, GURKYN: Cuoco e guerriero al servizio del Barone Blackgult, che diventa un membro della Banda di Lama di Sangue. ORNENTAR; ELDAGH: Barone (Signore) di Ornentar, avvelenato dai seguaci del Serpente in Terra senza Re e così sottoposto al loro controllo, in quanto deve eseguire i loro ordini se vuole ricevere il necessario antidoto. Si ritiene astuto ma non lo è; grasso, sudaticcio, con la pelle spesso bluastra a causa del veleno che gli scorre nelle vene, è noto per il fatto di sfoggiare molti anelli ed era un tempo conosciuto come «Faccia di Pietra» per la capacità che aveva nel controllare la propria espressione e le proprie emozioni. Diventa un disperato cospiratore in quanto signore di una baronia indebolita dalla perdita dei suoi maghi poco dopo l'ascesa al potere del Barone Silvertree. PELARD, YONTH: Tersept (governante non di nobile nascita) di Yarsimbra. Anziano, basso, tozzo e avido.
PELDRATHA, KAULISTUR: Giovane bardo di Aglirta, uomo avvenente dotato di una voce tanto dolce da essere quasi femminea e di modi calmi e pazienti. PELDRUS: Guerriero al servizio del Barone Blackgult che diventa un membro della Banda di Lama di Sangue. PHALAGH di Ornentar: Mago ucciso fra le rovine di Indraevyn in Terra senza Re, ma rianimato come non-morto dalla perdurante magia della Pietra della Vita. PHELODIIR, MONTHER: Mastro Amministratore (agente commerciale di massimo rango) di Sirlptar, uomo altezzoso e avido. PHLUNDRIVVAL, THETH; Amministratore (agente commerciale) regio a Sirlptar, uno dei due rappresentanti economici del Re Ridestato di stanza nella Città Scintillante (l'altro è Saerlor Dyndrie). È un giovane cortigiano dalla cupa avvenenza e di attenta diplomazia che cerca di fare colpo con la sua assoluta fedeltà e onestà, e di raccogliere per conto del re abbastanza denaro da radunare un esercito che possa scaraventare tutti i baroni nella più vicina fossa comune, rendendo Aglirta unita e veramente potente di nuovo... naturalmente con un certo Theth Phlundrivval come Signore della Tesoreria. Sacerdote del Serpente: Il più potente adoratore del Serpente, che da più tempo di tutti è al suo servizio, un uomo anonimo e molto astuto che, fra le molte altre cose, è riuscito a uccidere un Koglaur e a ingannare il Barone Ornentar, facendolo cadere schiavo del Serpente. QUELVER, ILIBAR: Vecchio guerriero, burbero ma gentile, un tempo al servizio di Silvertree e ora guardia alle porte della sala del trono del Castello della Corrente Spumosa. QUOLDO, RESZVAR: Tersept (governante non di nobile nascita) di Gilth, uomo snello e minuto dai modi pacati ma dotato di una mente acuta, di un temperamento acceso e di una lingua tagliente. È stato la rovina della carriera del suo amministratore (vedi Daragus, Inther).
Assai poco abile nel cavalcare, ha paura di combattere con la spada, ma non con denaro e contratti. RANTHALUS, PELDER: Primo Maggiordomo dell'Isola della Corrente Spumosa, Mastro di Corte del Re Ridestato. Uomo alto, snello, altezzoso, severo e adornato da una splendida barba, impone tutti i protocolli regi, parla per primo in tutte le discussioni e durante tutti i banchetti e pratica un po' la magia, anche se pretende di intendersene più di quanto non faccia in realtà. RESSHEVEN delle Due Lune: Mago di guerra spietato, abile e sicuro di sé, è uno dei due capi delle Spade di Sirlptar (l'altro è il mago Nlorvold). RIOVRYN, STELGAR: Ambizioso guerriero di Loushoond, che per brevissimo tempo si autoincorona Re di Aglirta. ROLDRICK: Guerriero un tempo al servizio di Silvertree e ora guardia della locanda della Bottiglia e il Guanto, nelle campagne di Phelinndar. Sacerdotessa del Serpente: La prima donna indotta ad amare il Serpente per opera del Sacerdote del Serpente; questa donna anonima incontra il Barone Loushoond all'inizio de Il Trono Vacante. SARGIN: Giovane ladro che fa parte della banda di avventurieri Lame Luminose e Speranza di Aglirta; sfoggia apertamente abiti di cuoio nero e una maschera di seta dello stesso colore. SARR, BODEMMON: Uno dei due maghi indipendenti più potenti di tutta la Valle (l'altro è il suo rivale, Tharlorn il Tonante). Seguaci del Serpente, i: Adoratori del Serpente (umani che spesso assumono aspetto di rettile). Essi indicano formalmente loro stessi come i «Fedeli del Serpente», ma altri li definiscono «i Preti Incappucciati», «i Fedeli con le Zanne», «la progenie del Serpente» o anche in modi peggiori. Quelli fra essi che hanno sviluppato testa da rettile e lingua biforcuta vengono definiti (sia pure non apertamente) «i Sibilanti».
Serpente, il: Detto anche «il Serpente nell'Ombra», «il Sacro Serpente», «il Grande Serpente», è un grande essere malvagio che era un tempo un mago umano (il cui nome è ora stato dimenticato; si pensa che lui stesso abbia manomesso tutti i documenti per cancellarlo) che ha contribuito a rendere magici i Dwaerindim, ma è poi impazzito, o era già pazzo, e ha ucciso tutti i maghi rivali per potenziare gli incantesimi apposti sui Dwaer. Quando si è trovato schierati contro tutti gli altri maghi partecipi della Modellazione, è fuggito sotto forma di serpente per aprirsi un varco fra i loro incantesimi ed è stato imprigionato in eterno in quella forma. Attualmente è un serpente gigantesco vincolato al Sonno tramite una potente magia operata dal Re di Aglirta (e condannato a dormire quando lui dorme). Viene adorato da umani che lo considerano divino, ai quali lui elargisce incantesimi. SHAMURL: Guerriera e maga della banda di avventurieri Lame Luminose e Speranza di Aglirta. Donna cupa e sfregiata, più alta, forte e massiccia di molti uomini. SILVERTREE, EMBRA: La Dama dei Gioielli (così chiamata per i suoi opulenti abiti tempestati di gemme), è la Baronessa di Silvertree. Maga giovane e bella, è uno dei membri della Banda dei Quattro ed è la figlia del crudele Faerod Silvertree, che voleva forzarla a diventare un «Castello Vivente». SILVERTREE, FAEROD: Crudele e avido Barone di Silvertree, che in Terra senza Re è arrivato molto vicino a dominare tutta Aglirta ed è sopravvissuto più a lungo di quanto pensasse la maggior parte degli Aglirtiani, governando per qualche tempo come Signore (equivalente di sindaco) del villaggio di Tarlarnastar. SILVERTREE, THAALEN: Barone di Silvertree vissuto in tempi antichi, un uomo facoltoso e paranoide che ha assoldato molti maghi perché creassero la Protezione Notturna di Thaalen, una roccaforte interna nel cuore di Casa Silvertree, in cui si ritirava ogni notte per dormire «adeguatamente protetto». SILVERTREE, TLARINDA: Baronessa di Silvertree, madre di Embra e
moglie di Faerod, una delle donne più belle di Aglirta. Torturata e uccisa da Faerod per una sospettata infedeltà, di lei si mormora che sia stata l'amante del Barone Blackgult. SKULDUS: Guerriero al servizio del Barone Blackgult, che diventa un membro della Banda di Lama di Sangue. SNOWSAR, KELGRAEL: Il Re Ridestato, detto anche il Re Perduto, il Re Dormiente, il Dormiente Leggendario, l'Ultimo Snowsar. Re di Aglirta, Leone di Aglirta, Corona di Aglirta, Signore di Tutta Aglirta, del Fiume e della sua Valle. Legittimamente incoronato sovrano di Aglirta, è un guerriero e mago saggio e perspicace che per troppo tempo (secoli) ha dormito in un «altrove» nascosto dalla magia, mentre i baroni in guerra fra loro facevano a pezzi il suo regno. Spade di Sirlptar, le: Famosa banda di combattenti mercenari che ha la sua base nella Città Scintillante. È composta da sei armaragor veterani guidati da due maghi (vedi Kordul, Nlorvold e Ressheven). Spade del Castello, le: Esercito stabile del Re Ridestato e guarnigione del Castello della Corrente Spumosa; nell'attuale regno di Kelgrael Snowsar, è ridotto a un'ombra, sia pure in splendida armatura, di ciò che esso era un tempo. TALASORN, RAEVUR: Mago di Sirlptar cortese e diplomatico, si è alleato con il Barone Adeln nella cospirazione contro il Re Ridestato perché vuole veder sorgere un'Aglirta forte e unita nella quale un aumento dei commerci e della ricchezza porti più persone ad assoldare dei maghi. Questo perché Raevur ha quattro figlie il cui talento magico è già superiore al suo, troppo belle e intelligenti per essere «brutalizzate da qualche barone-guerriero» e per vedersi private di qualsiasi possibilità di usare il loro potere magico. La moglie di Raevur, Iyrinda, è morta, e lui tiene molto alle sue figlie. TANTHUS: Ladro anziano della banda di avventurieri Lame Luminose e speranza di Aglirta. Altezzoso e astuto, sfoggia apertamente abiti di cuoio nero e una maschera di seta dello stesso colore.
TATHTORN: Guerriero al servizio del Barone Blackgult, che diventa un membro della Banda di Lama di Sangue. TAURYM, IMBRETH: Maggiordomo di Tathcaladorn, castello privato e capanno di caccia del Barone di Cardassa. Servitore anziano attento, diplomatico e perspicace. TELABRAS, DIRL: Amministratore (agente commerciale) di Sirlptar. Alto, avvenente e silenzioso; è l'agente dei capitani di nave e delle linee commerciali fluviali di Sirl. TESSYRE: Maga dai capelli rossi e dal temperamento focoso vissuta in un lontano passato. Secondo le ballate dei bardi, essendo stata gravemente ferita, avrebbe cercato rifugio nel Sonno magico, lo stesso rituale usato in seguito dal Re di Aglirta, con l'intento di rimanere nascosta in attesa di essere soccorsa da qualcuno da tempo dimenticato. THARLORN il Tonante: Detto anche «Signore dei Tuoni», o «Padrone del Tuono», è uno dei due maghi indipendenti più potenti di tutta la Valle (l'altro è il suo acerrimo rivale Bodemmon Sarr; vedi anche Baerund, Ilisker). TLALASH: Giovane Koglaur, abitualmente di aspetto femminile, che al contrario degli altri della sua specie è vulnerabile al veleno di serpente e ad altri veleni. Tre Oscuri, i: Un terzetto di maghi potenti, malvagi e traditori al servizio del Barone Faerod Silvertree. Sono periti tutti in Terra senza Re, e in ordine decrescente di rango, potere ed età, erano: il Maestro d'Incantesimi Ingryl Ambelter, Klamantle Beirldoun e Markoun Yarynd. TURSTRIN, MAELOCH: Impetuoso guerriero e brigante che lavora con Weldrin, un tempo suo comandante al servizio militare dei Silvertree. UBUNTER, VELMOS: Vecchio e incompetente mago di Cardassa, saggio (consigliere) agli ordini del barone. È un vecchio irascibile dalla lingua tagliente, aspro rivale di Baerethos.
ULGUND, INTHRIS: Tersept (governante non di nobile nascita) di Helvand. Giovane, è noto per la sua audacia e il suo temperamento irascibile. UMMERTYDE, GLOUN: Guerriero al servizio del Barone Blackgult e amico d'infanzia di Sendrith «Lama di Sangue» Duthjack, che diventa membro della Banda di Lama di Sangue. VANDUR: Assassino a pagamento e «catturatore» professionista (rapitore a pagamento), un tempo al servizio del Barone Faerod Silvertree. Abile guerriero e assassino furtivo, ora viaggia e lavora con il suo socio, Kethgan. VILCABRAS, INTHYL: Bardo di Aglirta. Saggio e avvenente, è noto soprattutto per la sua ballata Cinque banchetti di lacrime; ucciso dal mago Huldaerus. WELDRIN, SORTH: Crudele, astuto e ambizioso capo brigante e abile guerriero, che era un tempo swordsorn (equivalente di sergente) al servizio di Silvertree, comandante della «Sesta Spada» composta da venti guerrieri. XALAVANDRO, FORL: Il «Campione di Adeln», massiccio e gigantesco armaragor, pari per forza e dimensioni al solo Hawkril Anharu della Banda dei Quattro, ma animato da una crudeltà e da una sete di sangue molto maggiori di quelle del Cinghiale di Blackgult. FINE