John T. Lescroart
Il Tredicesimo Giurato The 13th Juror © 1994
Per i miei fratelli, Michael ed Emmett
RINGRAZIAMENTI ...
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John T. Lescroart
Il Tredicesimo Giurato The 13th Juror © 1994
Per i miei fratelli, Michael ed Emmett
RINGRAZIAMENTI Molte persone mi hanno aiutato a realizzare questo libro. Al primo posto viene mia moglie Lisa Sawyer. E ancora una volta Al Giannini ha dimostrato di essere un amico e una guida fidata. Per quanto riguarda la procura distrettuale di San Francisco, la mia gratitudine va a Laura Meyer, Mercedes Moreno, Candace Heisler e Diane Knoles, le cui informazioni sui maltrattamenti alle donne sono stati preziosi. Vorrei inoltre ringraziare il coroner di San Francisco, il dottor Boyd Stephens, l'ufficiale giudiziario Bruce McMurtry; Jim Costello; Frank di Zuka's, il vero Lou il Greco; Mike Hamilburg e Joanie Socola; Maureena Moore della Federai Express; Kelly Talbot; Steve Martini; Dick Herman; Kathryn e Mark Detzer; Peter Diedrich; Peter Bransten; la mia amica pescatrice Jackie Cantor per il suo infallibile senso dell'umorismo e il suo sostegno in tutti i campi, e Arthur Ginsburg. Il mio editor Don Fine ha fatto un grande lavoro contribuendo a dare al manoscritto la forma finale, e gli sono immensamente grato per il suo appoggio e il suo impegno. Infine, ringrazio alcuni commensali abituali (loro sanno chi sono) che hanno alleviato le mie fatiche e, sì, anche Don Matheson. Avremmo più considerazione di una donna nel giudicarla se sapessimo quanto è difficile essere donna. P. GERALDY La capricciosità delle donne che amo è eguagliata soltanto dalla costanza infernale delle donne che mi amano. John T. Lescroart
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1994 - Il Tredicesimo Giurato
GEORGE BERNARD SHAW
PARTE PRIMA Jennifer Witt controllò di nuovo la tavola. Sembrava perfetta, ma era difficile essere sicuri quando non si sapeva mai che cos'era la perfezione. C'erano due candele rosse nuove nei candelieri d'argento... A Larry non piacevano le candele già semiconsumate. Aveva pensato di mettere una candela rossa e una verde perché si avvicinava il Natale. Ma a Larry i colori contrastanti non piacevano. Il soggiorno era tutto color champagne, e non era facile tenerlo pulito, soprattutto con un bambino di sette anni; comunque non avrebbe cambiato l'arredamento. Ricordava quel che era successo quando aveva comprato una stampa di Van Gogh e i colori avevano infastidito Larry. A lui piacevano l'ordine e l'esattezza. Era medico e molte vite dipendevano dalle sue diagnosi. Non poteva permettere che in casa sua ci fosse ciarpame ad annebbiargli la mente. Jennifer optò per le candele rosse. E il servizio di porcellana. A lui piaceva, ma gli seccava tanta formalità in casa sua. Perché Jennifer non serviva cose semplici su piatti semplici? Magari hot dog e fagioli? Lei faceva di tutto per accontentarlo, ma con Larry non si poteva mai sapere. Una volta Larry non s'era sentito dell'umore adatto per i fagioli e gli hot dog perché aveva avuto una giornata faticosa; e Matt era andato male a scuola e piagnucolava; inoltre, uno dei piatti era scheggiato. Jennifer scosse la testa per scacciare il ricordo. Quella sera avrebbe cercato di far pace con lui, e quindi aveva scelto il servizio di porcellana. Sentiva che era insoddisfatto... andava di male in peggio, e lei cercava di rimandare il più possibile il momento dell'esplosione. Gli aveva preparato il piatto preferito, rognoni di vitello con asparagi, e aveva mandato Matt a letto presto. Si guardò allo specchio. Le sembrava strano che tanti uomini la giudicassero attraente. Il naso era leggermente adunco, la pelle così trasparente che le pareva una maschera funebre. Era molto magra, e gli occhi erano troppo celesti per una carnagione olivastra. C'era ancora una venuzza lacerata, ma l'ombretto mascherava il livido John T. Lescroart
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giallastro. E grazie a Dio aveva notato la sbavatura di rossetto corallo su un dente e quella della matita all'angolo di un occhio. Si sfilò le scarpe per non svegliare Matt e andò in bagno, dove la luce era migliore. Prese un fazzolettino di carta, lo premette sulle labbra e si mise di nuovo il rossetto, poi il lucidalabbra. A Larry il lucidalabbra piaceva. Non troppo, però: troppo era volgare, aveva detto. Tornò indietro e rimise le scarpe. Olympia Way era tranquilla. Era il giorno più corto dell'anno, il primo giorno d'inverno, e i lampioni erano accesi da quando era tornata alle cinque dopo aver fatto la spesa. Guardò l'orologio. Le sette e un quarto. La cena sarebbe stata pronta alle sette e venti, l'ora solita. Ogni giorno Larry rincasava fra le sei e cinquanta e le sette e cinque, e voleva un bicchiere di Laphraoig con un cubetto di ghiaccio mentre lei finiva di mettere la cena in tavola. Le sette e diciotto. Si chiese se doveva spegnere il forno. E Larry avrebbe voluto comunque lo scotch? Non sopportava che la cena si freddasse... Il problema erano gli asparagi. Se Larry fosse rientrato entro un minuto esatto e avesse voluto mettersi subito a tavola e gli asparagi non fossero stati pronti... Dovevano cuocere a vapore per novanta secondi esatti... Larry non sopportava gli asparagi mollicci. Sarebbe stato meglio servirgli il resto del pasto, indugiando un po', in modo che gli asparagi risultassero perfetti. Era un po' rischioso, ma sempre meglio che metterli a cuocere subito, perché se fosse rientrato tardi li avrebbe trovati scotti. La sua Lexus non si vedeva ancora. Dov'era Larry? Accidenti, ecco che si stava mordendo di nuovo il labbro inferiore. Le sette e venti. Spense il fornello dove cuoceva il riso. Almeno sarebbe andato bene per un po' se l'avesse tenuto coperto; ogni granello sarebbe rimasto separato, come piaceva a Larry. Controllò che l'acqua bollisse e fosse sufficiente, nella pentola a vapore. Era importante che gli asparagi fossero pronti quando Larry fosse entrato. Anzi, quando lei l'avesse sentito. Se l'acqua non fosse stata bollente o fosse stata poca, avrebbe rovinato tutto. Alle otto e un quarto Jennifer aveva tolto i rognoni dal forno, aveva riempito tre volte la pentola a vapore e aveva aggiunto burro al riso John T. Lescroart
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perché non si appiccicasse, ma ormai non c'erano speranze. Alle sette e trentacinque aveva versato lo scotch per Larry e vi aveva messo il cubetto di ghiaccio, che adesso s'era sciolto. Alle otto aveva buttato via il drink. Sentì i passi sul vialetto e si augurò che avesse trovato un parcheggio molto vicino. A volte, se rincasava tardi, non trovava facilmente un posto libero, e questo lo metteva di pessimo umore. Forse era possibile salvare la cena. Avrebbe versato un altro scotch con un altro cubetto di ghiaccio, avrebbe accolto Larry all'ingresso e avrebbe lasciato che si riposasse per venti minuti mentre si cuoceva l'altro riso. Avrebbe messo a riscaldare i rognoni nel forno a microonde, al minimo perché non si asciugassero. Gli asparagi non sarebbero stati un problema. Era ad attenderlo con il drink in mano quando Larry aprì la porta. Era alto e bello, con la fossetta sul mento, la figura ancora giovanile a quarantun anni, e la testa piena di capelli, ondulati e piuttosto lunghi. L'abito italiano, la cravatta a colori vivaci e la camicia candida... Jennifer gli mise in mano il bicchiere, gli baciò la guancia, sorrise. "Dove sei stato?" Dio, non avrebbe dovuto dirlo. "Come, dove sono stato? Dove credi che sia stato?" "Ecco, è tardi. Pensavo... ero preoccupata." "Eri preoccupata. Mi spiace. " Lui guardò il bicchiere. "Che cos'è?" "Il tuo scotch, Larry. Perché non ti siedi?" "Che ore sono? Sai che quando torno tardi non mi piace bere prima di cena. Voglio mangiare. " "Lo so, ma pensavo..." "Ecco, pensavi. Grazie, ma sto morendo di fame. Mangiamo subito, va bene?" Lei si scostò, ma non troppo. "La cena sarà pronta fra pochi minuti, tesoro." Larry si fermò. "Come fra pochi minuti? Arrivo e la cena non è pronta? Lavoro tutto il giorno, torno a casa e la cena non c'è?" "Larry, era pronta un'ora fa. Non sapevo che saresti arrivato così tardi..." "Oh, adesso è colpa mia." "No, Larry, no. Ma devo riscaldarla, è già tutto pronto. Perché non bevi lo scotch? Ti chiamerò fra pochi minuti." John T. Lescroart
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Poteva utilizzare il riso già cotto. Per fortuna non l'aveva buttato e forse lui non si sarebbe accorto di niente. E se avesse messo subito gli asparagi a cuocere a vapore e se avesse alzato un po' il forno a microonde tutto sarebbe stato pronto in cinque minuti o anche meno. Lo vide stringere i denti e contrarre i pugni. Trasalì e indietreggiò, poi gli rivolse un sorriso. "Cinque minuti, davvero. Promesso. Su, bevi." Larry guardò il bicchiere. "Non dirmi quel che devo fare, Jenn, chiaro?" "Sì, Larry, sì. Scusami." Lui scosse la testa. "E smetti di chiedere scusa per tutto. " "Va bene. " Jennifer stava per scusarsi di nuovo, ma si trattenne. Larry beveva lo scotch. Non aveva più i pugni contratti. Sembrava che funzionasse. Per questa volta. Forse.
1 Per quarantatré giorni consecutivi Dismas Hardy aveva indossato l'abito formale e la cravatta ed era andato in centro, nell'ufficio che aveva preso in affitto. L'ufficio rappresentava una fase intermedia, non un impegno. Non se la sentiva di andare a lavorare presso un grande studio legale: prima voleva vedere se poteva lavorare da solo e guadagnare decentemente. Ma cominciava a dubitarne. Il suo padrone di casa era David Freeman, un altro avvocato che s'era messo in proprio e ce l'aveva fatta. Adesso era proprietario del Freeman Building, un elegante palazzo a quattro piani in Sutter Street, nel cuore del quartiere finanziario. Freeman e Hardy s'erano conosciuti come avversari in un caso d'omicidio un anno prima e fra loro era nata una riluttante ammirazione reciproca per le caratteristiche che avevano in comune: la tenacia irriducibile, una certa disinvoltura nel gioco legale, la passione per i particolari e il bisogno d'indipendenza. L'ammirazione si era poi trasformata in amicizia. Per mesi Freeman aveva circuito abilmente Hardy prospettandogli gli inconvenienti del lavoro nei grandi studi legali. Oh, si guadagnava bene; ma c'erano la noia, il dovere di mettere in conto clienti quaranta ore John T. Lescroart
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settimanali, la dipendenza da un socio che bisognava tener buono e che probabilmente era più giovane di Hardy. Bisognava vivere in una specie di alveare dove tutto ciò che si faceva era sottoposto all'approvazione di qualche commissione. Era questo che Hardy voleva? Perché non si affidava all'istinto e non rincorreva il suo sogno? Freeman gli avrebbe dato un ufficio, gli avrebbe permesso di usare la sua biblioteca, di prendere a prestito la receptionist e di pagare un affitto quasi simbolico in attesa di una decisione definitiva. E quarantatré giorni prima Hardy aveva fatto il gran passo. Da allora era stato in tribunale quattro volte. Tre dei casi (due glieli aveva passati David) riguardavano imputazioni per guida in stato di ubriachezza. I clienti avevano pagato la multa ed erano usciti di scena. Nel quarto caso, un conoscente di Hardy aveva un amico, Evan Peterson, che non aveva pagato le multe per quindici soste vietate. Era stato fermato a un semaforo mentre passava col rosso, ed era stato arrestato. Peterson aveva chiamato l'amico, e l'amico aveva chiamato Hardy perché lo districasse dai guai. La vita sul filo del rasoio della legge. Era metà pomeriggio. All'ora di pranzo era andato a casa per stare un po' con la moglie Frannie e i due figli, Rebecca e Vincent. Poi aveva corso per sei chilometri e mezzo sulla spiaggia e infine era rientrato a casa nella Trentaquattresima Strada. Quindi, per scrupolo, temendo che qualche cliente avesse bisogno di lui e non lo trovasse, s'era rivestito ed era tornato in centro. "Signor Hardy." Hardy stava leggendo in ufficio quando la receptionist di Freeman, Phyllis, comparve sulla soglia. Era una donna sulla cinquantina, rigida ma potenzialmente dolce, e sorrideva esitante. Hardy posò il libro e le accennò di entrare. "Non disturbo? Ho appena ricevuto la telefonata di una certa Jennifer Witt. Sa chi è?" Hardy si alzò. Phyllis si avvicinò alla scrivania. "È stata arrestata questa mattina e voleva parlare con David; ma lui è in tribunale e non c'è nessuno dei suoi associati." "David vuole che vada io?" "L'ho cercato con il teledrin e mi ha appena richiamata durante la pausa. Ha paura che la signora Witt si rivolga ad altri se non mandiamo subito qualcuno. Così ha chiesto se non le spiace..." John T. Lescroart
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"Jennifer Witt?" ripeté Hardy. Phyllis annuì. "Credo che sia un caso importante," disse. I giornali e la televisione avevano dato molto spazio al delitto: era l'ideale per la cronaca locale. Il dottor Larry Witt e il figlioletto Matt di sette anni erano stati uccisi nella loro casa a colpi d'arma da fuoco. La moglie del medico era fuori a fare jogging. Una vicina aveva sentito gli spari e aveva chiamato il 911. Quando la moglie era tornata, un poliziotto era appena arrivato alla porta e le aveva detto di attendere mentre lui saliva a dare un'occhiata. E aveva scoperto la carneficina. Per le prime settimane le cronache avevano avallato la teoria che per qualche ragione sconosciuta un killer professionista fosse stato ingaggiato per eliminare la famiglia Witt. A quanto pareva la signora Witt, quella mattina, aveva visto nelle vicinanze un tipo sospetto, un ispanico o un afroamericano. Jennifer Lee Witt, la moglie, faceva notizia a sua volta. Le foto apparse sul Chronicle o nei titoli del telegiornale delle sei che la mostravano piangente o in stato di shock rivelavano il volto fotogenico di una donna giovane, appena uscita dall'età dell'innocenza. E le foto più riuscite erano così accattivanti che quasi sembrava in posa. Indossava una tuta gialla, come le altre detenute del sesto piano. I capelli biondi erano corti ma cadevano un po' in avanti nascondendo la faccia. Camminava con lo sguardo a terra. Attraverso la vetrata, Dismas Hardy la vide avvicinarsi alla stanza dei colloqui. Si alzò. "La signora Witt?'' "Il signor Freeman?" Lei tese la mano, incerta. "No." Jennifer Witt indietreggiò. Sembrava sul punto di crollare. Hardy disse: "Lavoro con il signor Freeman". Non era del tutto vero. "È impegnato in tribunale." "Voi avvocati vi passate i clienti. Ho chiamato i legali di mio marito e hanno detto che non possono aiutarmi, ma che poteva farlo David Freeman. Pare che sia il migliore." "È formidabile." John T. Lescroart
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"Allora gli ho chiesto di chiamarlo, e invece è arrivato lei. Non riesco a credere che mi abbiano arrestata per l'omicidio di Larry e di Matt, santo cielo. Non possono pensare che abbia ucciso il mio bambino." Le tremavano le labbra. "No, non voglio piangere." Hardy fece un cenno alla guardia che uscì e chiuse la porta. Era una misera stanzetta con un tavolo e due sedie malconce. Hardy attese che il respiro di Jennifer Witt ridiventasse normale. S'era seduto con una gamba sull'angolo del tavolo. "Può farsi difendere dal signor Freeman, ma per un po' non sarà disponibile. E si tratta di un'incriminazione davanti a un Gran Giurì, quindi non potrà ottenere la libertà su cauzione. "Vuol dire che dovrò restare qui? Dio... per quanto?" Stentava a parlare. All'improvviso chinò la testa e sedette. Hardy si sentiva un intruso. Lasciò passare un minuto interminabile. Jennifer Witt sospirò. "Mi dispiace, è colpa mia. Non volevo mettermi in altri guai, e ho pensato che devo avere un avvocato. Anche se non ha importanza." "Potrebbe averne." Lei scosse stancamente la testa. "Continuo a pensare che qualcosa accadrà, qualcosa che migliorerà la situazione." Hardy fece per dire che una buona difesa poteva essere decisiva. Ma non riusciva a comunicare. "Signora Witt?" Era come se lui non ci fosse. Jennifer Witt scosse la testa, poi smise. "No. Voglio dire Matt. Il mio bambino." Hardy trattenne il respiro. Anche lui aveva perduto un figlio. Con il passare degli anni aveva imparato a non pensarci continuamente. Ma non avrebbe mai dimenticato. Mentre guardava quella donna, fragile nella tuta del carcere, ebbe l'impressione che fra loro ci fosse qualcosa in comune. Lei si tirò una ciocca di capelli. "Non posso accettarlo. Niente mi sembra più reale, lo sa?" Indicò la stanzetta soffocante. "Questo posto. Mi sembra di essere una sonnambula in un incubo. Voglio svegliarmi... rivoglio Matt... Dio, non so. Lei che cosa può fare? Che cosa le importa?" "M'importa, signora Witt." Lei accolse la risposta senza batter ciglio, senza guardarlo. S'era chiusa di nuovo in se stessa. Hardy si guardò le mani. Jennifer Witt non era preoccupata per gli John T. Lescroart
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avvocati e i loro giochi, la cauzione e la tuta gialla. Aveva perduto il figlio e nessuno poteva restituirglielo. Aveva ragione. Qualunque cosa facesse Hardy, non poteva rimediare. Un quadrato di luce che filtrava dall'esterno. Si era spostato di una trentina di centimetri da quando Jennifer era entrata. Aveva incominciato ad aprirsi, ad ascoltare. Adesso stavano arrivando al problema fondamentale. Lei non voleva passare il resto della vita in carcere, vero? "Non certo per qualcosa che non ho fatto, signor Hardy." "Bene. Ma lasci che glielo chieda: che cosa intendeva quando ha detto che lei l'ha meritato? Meritato che cosa?" Con una reazione che gli sembrò patetica, Jennifer si rattrappì come se temesse di essere picchiata. "Niente... questo..." "Che cosa?" "Non dovevo lasciare che accadesse. Io non c'ero. Forse, se ci fossi stata..." Scosse di nuovo la testa. "Che cosa è successo? Perché la polizia pensa che sia stata lei?" Hardy voleva sentire la sua versione. Aveva seguito distrattamente le notizie del delitto, senza pensare che avrebbe dovuto occuparsene. "Non so. Non capisco. Quando sono venuti ad arrestarmi gliel'ho chiesto...." "E che cosa le hanno risposto?" Jennifer alzò le spalle, frastornata. "Hanno parlato dei miei diritti: non parlare, scegliere un avvocato..." "Ma lei se l'aspettava? Mi sembra logico..." Jennifer lo interruppe. "Non pensavo a niente, capisce? Cercavo di tirare avanti giorno per giorno." Deglutì, come se non volesse crollare. Ma il tono della voce era quasi sbrigativo, anche se stanco. Hardy era sicuro che lo facesse per proteggersi; ma avrebbe dovuto cercare di ammorbidirlo, se si fosse arrivati al processo e se avesse testimoniato. Altrimenti sarebbe apparsa troppo fredda. "Cominciavo appena ad abituarmi all'orrore. Voglio dire, poteva essere stato un ladro oppure qualcuno che ce l'aveva con Larry. E gli ha sparato. Larry... Ma Matt..." Jennifer stava perdendo la battaglia con il pianto. John T. Lescroart
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Hardy intervenne. "I giornali hanno sempre detto che Matt dev'essere stato ucciso per caso, perché era arrivato nel momento sbagliato." Lei annuì. "È a questo che ho pensato, signor Hardy. Se non ci fosse stato, se fosse stato un giorno di scuola, se Matt non fosse entrato in quel momento... Se io fossi stata in casa, avrei potuto proteggerlo." Si morse le labbra e batté il pugno sul tavolo. "È a questo che ho pensato, non alle ragioni per cui potevano credere che fossi stata io. Accidenti. Accidenti." Di nuovo quel tono duro. Dopo qualche istante, lei aggiunse: "Forse hanno pensato che fosse per l'assicurazione..." "Una somma rilevante?" "Ecco, Larry... era medico e forse lei non lo sa ma i dottori hanno la mania delle assicurazioni... È inevitabile perché qualche cliente insoddisfatto può fare causa per danni. Comunque Larry era assicurato per due milioni e mezzo di dollari." "E il doppio in caso di morte violenta o accidentale?" Jennifer annuì. "Voleva essere sicuro che... se fosse morto, il mutuo della casa sarebbe stato pagato e Matt e io avremmo goduto della sicurezza economica. Non sembrava troppo, e Larry poteva permetterselo. Ma adesso credono... credono che l'abbia ucciso per l'assicurazione, ed è assurdo. I soldi non mancavano. Voglio dire, Larry guadagnava all'anno una cifra con cinque zeri." "Però lei ne avrebbe avuti di più se fosse morto?" Hardy sentiva la necessità di continuare. "Sì, ma..." Jennifer gli toccò la manica. "Credo che sia per quell'altra cosa. Litigavamo." Alzò le spalle. "Io andavo da uno psichiatra e Larry... Sì, litigavamo ma non si parlava di separazione. Nessuno dei due lo voleva. Avevamo Matt." "Da quanto eravate sposati?" "Otto anni." Hardy aveva preso il blocco per gli appunti, ma soprattutto ascoltava in attesa d'una nota falsa. La interruppe. Si rendeva conto che avevano evitato la questione principale. "Non l'hanno arrestata perché ha litigato qualche volta con suo marito, signora Witt. Dev'esserci qualcosa che la collega più direttamente al delitto. Le hanno detto che cosa può essere?" Lei si morse il labbro inferiore. "Dev'essere stata la pistola. Ma l'ispettore me l'aveva chiesto quando l'avevano trovata e ho risposto che John T. Lescroart
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non ne sapevo niente." "La pistola?" "Era di Larry... Gli hanno sparato con la sua pistola. Ma all'inizio non sapevano che era la nostra. Non l'avevano trovata in casa." "Non capisco." "La tenevamo nella testata del letto, ma l'hanno recuperata dopo due settimane. L'ispettore ha detto che qualcuno l'aveva trovata sotto un cassonetto, e c'erano le mie impronte. Ho risposto che era logico che ci fossero. La spolveravo spesso." Hardy lasciò che fosse il suo silenzio a rispondere. "Ero fuori a fare jogging." Jennifer strinse il pugno, poi lo coprì con l'altra mano. "La casa è su Twin Peaks, piuttosto in alto. Era mattina, le nove e mezzo o le dieci. Larry mi permette... voglio dire, di solito faccio jogging tre volte la settimana. Quando sono tornata a casa c'era una macchina della polizia, e l'agente stava davanti alla porta e ho pensato che era strano, perché, se avesse bussato, Larry o Matt sarebbero andati ad aprire, giusto?" "Giusto." "Invece stava lì, e io ho aperto il cancello e ho chiesto se potevo essere utile e lui mi ha detto che qualcuno aveva telefonato perché aveva sentito sparare. Prima aveva sentito gridare, poi gli spari." "Aveva litigato con Larry, quella mattina?" Jennifer si tirò di nuovo indietro, e Hardy pensò che era irritante; ma lei gli posò ancora la mano sulla manica come per chiedergli d'essere indulgente. "Quanto era stata via da casa?" chiese lui. "Quanto? Oh, un'ora. Dovevo essere puntuale..." Poi notò la reazione di Hardy e continuò: "Larry si preoccupava se non ero a casa. Sapeva dove andavo e quanto tempo ci voleva..." "Continuiamo. L'agente aspettava davanti alla porta." "Gli ho chiesto se aveva bussato e mi ha detto di sì, ma nessuno gli aveva aperto. Gli ho detto che doveva esserci qualcuno. Ero sicura che Larry non fosse uscito. Era la settimana dopo Natale, la sua prima settimana di ferie dopo l'estate. Ho cominciato a preoccuparmi. Ma forse Larry era sotto la doccia, o c'era Matt, e quindi non potevano sentire. Allora ho preso la mia chiave, sono entrata, ho cominciato a chiamarli. Stavo per salire la scala ma l'agente mi ha detto di aspettare e io mi sono seduta sul divano. Poi è arrivato in cima alla scala e ha gridato: 'Non salga, John T. Lescroart
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resti lì'. E allora, Dio, ho capito." Aprì la bocca, la chiuse, la riaprì. Poi cedette. Restò seduta con le mani intrecciate e le lacrime che le cadevano dagli occhi.
2 Hardy non era molto popolare al secondo piano del palazzo di giustizia. L'estate precedente s'era impegolato in una schermaglia politica con Christopher Locke, il suo superiore, procuratore distrettuale della città e della contea di San Francisco. S'era dimesso, era passato dalla parte della difesa e aveva battuto in tribunale il viceprocuratore che gli aveva rubato il caso, e per estensione anche lo stesso Locke. Ora, tutte le volte che tornava aveva l'impressione di essere sotto mira. Ma per se stesso e per David Freeman, e per la cliente di Freeman, se fosse rimasta tale, sentiva il dovere di andare a sondare le acque. In fondo al corridoio si fermò allo sportello e chiese di Art Drysdale, il viceprocuratore capo, con il quale aveva sempre avuto rapporti cordiali, addirittura amichevoli, anche se poi erano stati compromessi dagli avvenimenti dell'anno passato. "È tutto quel che ti ha detto?" Drysdale si era scostato dalla scrivania e aveva smesso di giocare con le palle da baseball, ma ne teneva tre strette in una mano enorme e premuta contro una guancia. "Credo che abbia lasciato fuori qualcosina." "Art, ho appena passato un'ora a parlare con lei. Non ha ucciso il figlio." "Forse non l'ha fatto apposta." "Sarebbe a dire?" "Sarebbe a dire che il bambino si è messo in mezzo." "In mezzo a che cosa?" "Alla lite in cui la signora Witt uccideva il marito." Hardy si voltò. "Fammi il piacere..." "Fammi il piacere un corno, Diz. La richiesta di rinvio a giudizio è inattaccabile. Il bambino era presente ed è morto mentre la madre assassinava il marito. E, se non lo sai, anche quello del figlio è un omicidio di primo grado. Come quando un rapinatore spara per errore alla guardia di una banca." "Hai parlato con lei?" "Sicuro. Quando arrestano qualcuno, salgo a proteggere i suoi diritti John T. Lescroart
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civili sino alla fine del disbrigo delle pratiche. Poi gli tengo la mano fino a che va a letto. Piantala, Diz." Hardy, naturalmente, sapeva che Drysdale non aveva avuto motivo di parlare a Jennifer Witt. Ma non voleva cedere. "Non l'ha fatto neppure per errore, Art." Drysdale aveva ricominciato a lanciare in aria le palle da baseball, un brutto segno. "I processi si fanno per questo. Per capire ciò che è successo." "Ma l'hai accusata." "Secondo la tradizione è la misura che precede l'arresto. Se vuoi, puoi avere copia del rapporto sulla scoperta dei cadaveri di Larry e Matt Witt. Leggilo." "Ti dispiace parlarmene?" "Non mi dispiacerebbe, Diz, ma non è un mio caso. Non ne so molto." Frottole. Art Drysdale conosceva benissimo tutti i casi di una certa importanza, soprattutto quelli di omicidio. "Se ne occupa Dean Powell. Sai dov'è il suo ufficio, vero?" In altre parole, ciao-ciao e non passare a salutarmi quando esci. Adesso sei dall'altra parte della barricata. Hardy decise che per il momento era meglio non parlare con Dean Powell. Salì alla squadra omicidi nella speranza di trovare il sergente ispettore Abe Glitsky. Avevano incominciato insieme come agenti di polizia. Mentre Hardy aveva studiato legge e poi era passato alla procura, Abe aveva fatto carriera ed era arrivato alla squadra omicidi. Se Drysdale non era più una fonte di informazioni, Hardy non aveva invece dubbi su Abe, che stava alla scrivania ed esaminava un mucchio di carte. Hardy attraversò lo stanzone, si servì una tazza di caffè ormai tiepido, accostò una sedia e aspettò. Dopo qualche istante bevve rumorosamente un sorso; Abe alzò gli occhi, li riabbassò senza cambiare espressione. "Il fattore sorpresa," disse. "Nelle mani giuste può essere un'arma potente." Hardy bevve un altro sorso, facendo ancora più rumore. Glitsky rialzò la testa. "Che cosa sai di Jennifer Witt?" chiese Hardy. Abe diede un'ultima occhiata alle carte che stava leggendo e chiuse il fascicolo. "Il caso Witt non è mio. Tu la difendi? Sì, è così." "Non è del tutto vero." John T. Lescroart
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"È vero al quaranta per cento?" Hardy finse di riflettere sulla risposta. "È cliente di David Freeman, ma lui è in tribunale. Mi ha chiesto di andare a parlarle per tranquillizzarla." "E tu l'hai fatto." Hardy alzò le spalle. "È un talento modesto." Glitsky riprese il fascicolo e lo sfogliò. "L'ha arrestata Terrell." Girò il collo e si guardò intorno. "Terrell è qui?" chiamò. "Chi è Terrell? Lo conosco?" Glitsky tornò a sfogliare il rapporto. "L'avrai visto in giro. Bianco, capelli bruni, baffi." "Oh, già. Quando andavo a scuola c'era uno come lui." Glitsky era per metà ebreo e per metà afroamericano. Era alto un metro e ottantacinque, pesava novanta chili, aveva gli occhi azzurri e la faccia color cioccolato al latte. "Terrell è un brav'uomo," disse Glitsky. "Ma..." "Non ho detto niente. Solo che è un brav'uomo." "Mi è sembrato di intuire un 'ma'." Abe parlò a voce bassa. "È il tipo che vede il quadro generale. È qui alla omicidi da circa un anno. Gli viene un'idea, una teoria, una visione... Non so, ma direi che è questo che lo fa funzionare." "Non vale per tutti voi?" "No. In generale parliamo con la gente, raccogliamo prove e indizi e magari cominciamo a farci un quadro della situazione. Wally ha la passione dei moventi, ma i moventi non sono tutto. Voglio dire, per ogni vittima degna d'attenzione c'erano almeno cinque persone che avevano un movente per farla fuori. Wally trova un paio di moventi e comincia a scavargli intorno, invece di fare l'opposto." "Allora perché è ancora qui?" "Perché è fortunato. Per due volte ha effettuato arresti senza avere niente in mano, tanto che Frank gli ha fatto una reprimenda scritta; ma poi, tutte e due le volte, pensa un po', è saltato fuori che aveva ragione lui. Quindi che cosa hai intenzione di fare? Rovinarlo?" Hardy batté l'indice sulla cartelletta. "Qui potrebbe esserci una ragione per farlo." Abe girò qualche foglio e scosse la testa. "Ne dubito," disse. "L'arresto di Jennifer Witt è stato legittimo. Vedi? Rapporti della polizia, testimoni, John T. Lescroart
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prove concrete." "Penso che sarebbe utile parlare con Terrell." Glitsky inarcò un sopracciglio. "Non so se lo ricordi; ma se sei un difensore, i miei colleghi non ti considerano un alleato." "Forse potresti garantire per me. E a volte non tutto finisce nelle pratiche." "Mi scandalizzi." Abe chiuse la cartelletta. 'Vedrò che cosa posso fare, ma, come sempre..." Hardy lo precedette. "Non devo trattenere il respiro." Sebbene Hardy non avesse ancora ufficialmente il diritto di vederlo, Art Drysdale gli aveva fatto il favore di autorizzarlo a ritirare una copia del rapporto sulla scoperta del duplice omicidio. Drysdale, come saltò fuori, aveva avuto per metà ragione e per metà torto quando aveva detto che Jennifer Witt aveva omesso qualcosina. Era vero che aveva taciuto qualcosa, ma non si trattava di cose trascurabili. C'era la dichiarazione di un testimone oculare, Anthony Alvarez, un vigile del fuoco in pensione con un cassetto pieno di decorazioni. Aveva sessantaquattro anni e viveva con la moglie invalida di fronte alla casa dei Witt. Aveva sentito due spari. Se fosse stato uno solo, avrebbe pensato che si fosse trattato dello scoppiettio di una macchina e non si sarebbe preso il disturbo di guardare. Era andato alla finestra per curiosità e aveva visto Jennifer Witt davanti al cancello di casa, voltata a guardare la porta. Alvarez aveva pensato che si fosse fermata e si chiedesse che cos'era successo, ma lei aveva indugiato per un paio di secondi e poi s'era messa a correre. C'era un'altra testimone, la vicina della porta accanto, una certa signora Barbieto. Anche lei aveva sentito gli spari, e aveva chiamato la polizia. Larry e Jennifer Witt litigavano da settimane, aveva detto, e il figlioletto era una creatura infelice che piangeva sempre. Hardy diede una rapida scorsa al fascicolo e passò alla parte "Testimoni civili". A quanto sembrava, c'erano testimoni oculari. Dal punto di vista della difesa, i testimoni oculari non erano mai entusiasmanti. Era seduto sulla gradinata del palazzo di giustizia, all'incrocio fra la Settima e Bryant Street. Era una giornata fresca e soleggiata, con una brezza leggera che probabilmente sarebbe diventata un ventaccio prima delle cinque del pomeriggio. Per il momento era gradevole, nonostante i John T. Lescroart
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fumi di scarico degli autobus e gli incarti del fast-food che cominciavano a turbinare sugli scalini. Tornò a leggere il rapporto dell'arresto. L'ispettore Terrell aveva cominciato a sospettare di Jennifer dopo che gli aveva fornito un elenco degli oggetti che potevano essere spariti da casa sua e aveva omesso di includere l'arma del delitto. Aveva frugato in tutta la casa e aveva dichiarato che non mancava niente. Questo era successo prima che la pistola venisse trovata sotto il cassonetto. Terrell aveva interrogato Jennifer a proposito di quella dimenticanza e Jennifer aveva risposto che non ci aveva pensato. Hardy non ricordava di aver trovato la notizia nelle cronache dei media, e non era piacevole scoprirla ora. Chiuse il fascicolo. "Hardy." Socchiuse gli occhi e si alzò. Un uomo alto e un po' più vecchio di lui gli stava davanti con la mano tesa. Hardy gliela strinse. "Ti ho visto lì seduto, Diz. Circola la voce che difendi Jennifer Witt." "Sai come sono certe voci, Dean. Non sono mai esatte." Spiegò la posizione in cui si trovava: in realtà, aiutava il suo padrone di casa, il famoso penalista David Freeman. Dean Powell mise in mostra la splendida chiostra di denti. Aveva una magnifica criniera di capelli bianchi, la carnagione rossastra e il portamento imponente. Hardy non era andato a parlargli prima e non era molto disposto a farlo ora, ma Dean era lì e sorrideva e parlava. "Art mi ha avvertito che eri tu a occuparti del caso. Perché lo prendessi più sul serio. Ma è Freeman, eh?" Si rannuvolò per un momento. Freeman non perdeva spesso. Powell indicò la cartelletta. "È il suo fascicolo?" Hardy vi batté sopra la mano. "Mi pare che il movente per la morte di Matt, il bambino, sia molto fragile. Ne ho accennato ad Art ma mi è sembrato che non volesse parlarne." Il sorriso di Powell si spense. "Te ne parlerò io. Il movente è l'assicurazione. Il bambino ci è andato di mezzo. Punto e basta." Hardy girò la testa per evitare la luce del sole. "Sei proprio convinto?" "Se sono convinto? Lo ritengo del tutto credibile." "Non è quel che ti ho chiesto." Il viceprocuratore si passò la mano fra i capelli. "Vuoi sapere se personalmente credo che abbia sparato a sangue freddo al figlio? Non lo John T. Lescroart
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so. Negli ultimi due anni abbiamo incriminato quattro madri per quel particolare reato, quindi non dirmi che è troppo orribile per pensare che una donna possa averlo commesso." Hardy insistette. "Sto dicendo che non è stata Jennifer. Ho appena passato un po' di tempo a parlarle." "Era triste, no?" Powell scosse la testa. "Ricordi Wanda Hayes, Diz?" Era un'allusione a un caso famoso di diversi mesi prima e Hardy annuì. "Wanda era un relitto umano, non faceva che piangere. Poi ammise di aver ucciso due dei suoi figli. Disse che un giorno aveva perso la calma e che questo la rattristava molto." "D'accordo, Dean, ma..." "Ma niente, Diz. Non sto dicendo che Jennifer avesse premeditato l'uccisione del figlio. Ma, come siamo in grado di provare, ha premeditato l'assassinio del marito, però non si è assicurata che il figlio fosse fuori dei piedi. Il risultato è che il bambino è morto e che lei sarà processata anche per questo." Powell si calmò. "Senti, io sto andando da Lou's. Ti va di bere qualcosa?" Lou's era il locale di Lou il Greco, frequentato da poliziotti e procuratori. Hardy indicò la cartelletta e scosse la testa. "Un'altra volta." Powell si oscurò. Si diceva che pensasse di presentarsi candidato alla carica di procuratore generale dello stato, quell'anno, e questo spiegava perché cercava di rendersi popolare. L'invito sembrava sincero ma mise in guardia Hardy. Powell stava dicendo che uno dei doveri dell'accusa era mettere le carte in tavola con la difesa. "Magari dovresti tornare da Art. Non vogliamo che tu abbia una sorpresa." Hardy socchiuse le palpebre e si spostò. Questo era insolito. "Ho avuto il fascicolo appena un'ora fa." "Sì, be', Art e io abbiamo parlato del caso dopo la tua visita e abbiamo pensato che sia meglio chiarire tutto dall'inizio. Come ho detto, non vogliamo sorprese." "Quali sorprese?" Powell assunse un'espressione seria. "Non hai ancora visto l'atto di incriminazione. Abbiamo accusato la signora Witt di un terzo omicidio." "Quale?" "Il primo marito morì nove anni fa per una sospetta overdose di droga. Lo sapevi? Non capisco come i media non ne abbiano ancora parlato, ma John T. Lescroart
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sono sicuro che lo faranno." Hardy restò immobile. Si chiese se il suo ex amico Art Drysdale non gli avesse dato di proposito solo metà dell'incartamento... Non ne avrebbe ricavato vantaggi, ma si sapeva che Drysdale amava confondere gli avvocati difensori. E questo ricordava a Hardy che adesso era veramente dall'altra parte. "Comunque," continuò Powell, "l'ispettore Terrell ha insistito per la riesumazione e sembra che l'abbia spuntata con Strout." John Strout era il coroner. "Pare che la signora Witt abbia ricavato un bel gruzzolo anche da quella morte. Circa settantacinquemila dollari, che allora erano tanti. Terrell ha scoperto che se l'intendeva con un dentista quando Ned, il primo marito, ci rimise le penne. Comunque sembrava un'overdose, e il coroner fece lo scan A, trovò alcol e cocaina e concluse che era stata un'overdose accidentale." Hardy sapeva che il perito faceva tre tipi di test per scoprire i veleni nei cadaveri. Il livello C riguardava sostanze come barbiturici e anfetamine; poi veniva il controllo delle sostanze volatili, soprattutto alcolici, che risultavano al livello A. E quando la causa apparente della morte risultava al livello A, a meno che un rapporto degli investigatori indicasse un sospetto di dolo, spesso il coroner doveva fermarsi a quel punto. "E non cercò nient'altro?" chiese Hardy. "Perché avrebbe dovuto? Avevano trovato quel che cercavano: cocaina e alcol in una situazione di overdose, e quindi chiusero il caso. Ma... indovina un po'." "Non riesco a immaginare." Hardy era stordito. "Atropina." "Be'?" "Fu l'atropina a ucciderlo. Lo abbiamo riesumato in base all'intuizione di Terrell, e l'abbiamo trovata." "Quindi era morto per un'overdose di atropina." Powell scosse la testa. "Non si prende un'overdose di atropina. Non è uno stupefacente. Ma Ned ne era pieno." "Questo non significa che si sia trattato di omicidio..." "Io credo di sì, invece, in relazione agli ultimi due." "Jennifer non ha commesso neppure quelli." Powell gli lanciò un'occhiata stanca come per dire: d'accordo, la tua è la posizione che un difensore deve assumere di fronte al cliente, ma noi due siamo professionisti e conosciamo la verità. "La tua signora Witt è una vedova nera, Hardy. Omicidi di primo grado. Chiederemo la condanna a morte."
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3 "Non può dire sul serio..." Il viso di Jennifer era sbiancato. Chinò la testa, poi si scosse, si alzò, andò alla finestra della stanza dei colloqui e guardò nell'ufficio delle guardie. "Ned si uccise, forse per errore... Ma qualcun altro ha assassinato Larry e Matt, lo giuro... Non avrei mai potuto uccidere il mio bambino." Hardy notò che non aveva detto la stessa frase a proposito del marito. "Mi parli di Anthony Alvarez," le chiese. Jennifer si sistemò i capelli con le dita, due volte, e continuò a guardare la finestra. "Non conosco alcun Anthony Alvarez." Hardy non alzò la voce. "Secondo la polizia abita di fronte a casa sua." Jennifer si voltò. "Il signor Alvarez? Oh, si chiama Anthony? Questo non lo sapevo. E allora?" "È una delle ragioni principali per cui lei è qui." Hardy le riassunse la testimonianza, mentre Jennifer tornava a sedere in fondo al tavolo. "Ma non è vero. Comincio sempre camminando per un paio di isolati per scaldarmi i muscoli. Non mi sarei mai messa a correre subito dopo aver chiuso il cancello. Non solo non l'avrei fatto, ma non l'ho fatto." "Perché pensa che dica che era proprio lei? Vi siete detti qualcosa?" "Non mi pare." Jennifer si scosse, sospirò. "In quattro anni avrò scambiato con lui sì e no cento parole. Non credo che lo riconoscerei se non lo vedessi vicino alla sua casa. Perché vuol farmi questo?" "Non so," rispose Hardy. "Ma per il momento è meglio che ci concentriamo su qualcosa che potrebbe aiutarla. C'è qualcuno che può averla vista camminare? Un altro vicino?" Jennifer chiuse gli occhi, si appoggiò alla spalliera rivelando le curve della figura e il profilo del viso. Hardy si rese conto che era molto attraente, persino con la tuta del carcere. Labbra imbronciate, naso energico, bella ossatura. "Ho incontrato un uomo," disse lei senza riaprire gli occhi. "Piuttosto anziano, forse nero o messicano." "L'ho letto. Non credo che servirà a molto." "Che cosa significa? Ho visto qualcuno. Credo che fosse... Ecco, potrebbe essere stato quello che..." Hardy scosse la testa e Jennifer gli tese una mano. "No, no. Ascolti. Era la settimana dopo Natale, non c'era traffico, e ho visto l'uomo per la strada. John T. Lescroart
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Portava un impermeabile pesante e sembrava che controllasse i numeri civici. Ho pensato di fermarmi per chiedere se potevo aiutarlo, ma non volevo fare tardi e così ho proseguito." S'interruppe e lo fissò. "Davvero, poteva essere lui... Voglio dire, qualcuno dev'essere stato..." "Ha notato se quell'uomo aveva una pistola?" "No, ma..." "Si è fermata e l'ha visto svoltare nel suo vialetto?" "No, avrei..." "Sa dirmi perché qualcuno che non conosceva Larry personalmente avrebbe voluto ucciderlo? O uccidere suo figlio?" Jennifer guardava nel vuoto. "Se trova una risposta a domande come queste, Jennifer, potremo parlare ancora di lui, ma temo che per il momento sia inutile." Hardy rammentò che non era lì per sconvolgerla. Ma aveva ritenuto suo dovere dirle che avrebbero chiesto la pena di morte. Avrebbe continuato a essere il caso di Freeman, ma non sarebbe stato male raccogliere qualche altra impressione su Jennifer. "Parliamo di quella mattina. C'è qualcun altro che potrebbe averla vista?" "Ma quell'uomo poteva essere..." Hardy le prese la mano. "Continuiamo, d'accordo?" Lei si svincolò. "Deve credermi. Non sono stata io. Se è stato quell'uomo..." "Se è stato quell'uomo," disse Hardy. "Poteva esserci qualcuno, può addirittura aver sparato a Larry... ma poteva anche essere un vicino, un turista, uno che faceva una passeggiata." Jennifer lo fissò. "Teneva le mani in tasca, tutte e due le mani. Forse stringeva una pistola." Hardy stava per dire: e dimentica, naturalmente, che suo marito è stato ucciso con l'arma che avevate in casa. "Fermiamoci. Non siamo qui per discutere. Riparleremo dell'uomo più tardi. Per ora lasciamo stare, non sarà d'aiuto, a meno che viva nelle vicinanze e riusciamo a trovarlo. Ora sto cercando qualcosa su cui basare la difesa, e lui non va bene." Lei abbassò il viso fino al piano del tavolo, entro il cerchio delle braccia, e scosse la fronte avanti e indietro. "Ha fatto qualcosa d'insolito durante la corsa? Qualcosa che potrebbe aver già detto alla polizia o che ha dimenticato di riferire?" Jennifer si fermò, alzò la testa, sospirò di nuovo. "Non mi hanno fatto John T. Lescroart
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domande del genere. Non pensavo... Voglio dire, non sapevo che mi sospettassero. Mi hanno messa fuori strada, non mi hanno chiesto niente in proposito." "Ora glielo sto chiedendo io, va bene? Quindi cerchiamo di approdare a qualcosa." Jennifer annuì, poi ricordò che si era fermata al suo Bancomat in Haight Street. A Hardy sembrò piuttosto strano. "Era uscita per fare jogging e aveva portato la tessera del Bancomat?" "Che cosa c'è di strano?" ribatté lei. E spiegò che quasi tutte le sue tute da jogging avevano tasche con il velcro, e naturalmente quando usciva di casa portava sempre la chiave e il portamonete, e nel portamonete c'era la tessera del Bancomat. Disse a Hardy che quella mattina aveva percorso a piedi il suo isolato, aveva incontrato l'uomo con l'impermeabile, aveva corso per un tratto, quindi si era fermata a ritirare un po' di contanti. "...Era il lunedì dopo Natale e non eravamo stati in banca per tre giorni." Se non altro, era un punto di partenza. Sotto certi aspetti il coinvolgimento di Hardy con Jennifer Witt sarebbe stato più facile da spiegare alla cliente che non a sua moglie. Dopo la felice conclusione del suo primo processo per omicidio nel quale aveva difeso l'ex giudice della Corte Superiore Andy Fowler, si era sorpreso dell'interesse che gli aveva riservato l'ambiente legale di San Francisco. Sembrava che i penalisti, uomini e donne capaci di tener testa alle giurie, fossero molto ricercati. Grazie al carattere sensazionale del processo al giudice Fowler e al ruolo di Hardy nell'esordio come difensore, dopo il verdetto favorevole al suo assistito, il suo telefono aveva incominciato a squillare. Un altro avvenimento che era coinciso con la fine del processo Fowler era stata la nascita del figlio di Hardy e di Frannie, Vincent. Per il primo mese, quindi, aveva chiesto il rinvio dei colloqui adducendo come scusa la nuova paternità e l'insistenza di Frannie che voleva averlo a casa per un po'. Adesso, dopo tre mesi, aveva trattato con undici studi legali, aveva partecipato a pranzi raffinati in compagnia di uomini e donne con i quali non aveva alcuna affinità... persone simpatiche, eleganti, finanziariamente sicure. Ma nessuno che lo attirasse come essere umano. Sette degli studi gli avevano offerto posti con stipendi che andavano da John T. Lescroart
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un minimo di ottantatremila a un massimo di centoquindicimila dollari. E tutti erano evidentemente disposti a promuoverlo socio molto presto, perché intendevano accreditargli fino a sei anni di anzianità. Quindi, entro tre anni al massimo, sarebbe diventato socio di uno degli studi, con un reddito annuo prevedibile tra i trecentomila e i cinquecentomila dollari. Frannie aveva contribuito alle finanze comuni con la somma pagatale da un'assicurazione. Hardy, a parte gli onorari del processo Fowler, era comproprietario del bar Little Shamrock. Le rate del mutuo della casa erano inferiori ai seicento dollari al mese. Quindi Frannie e Hardy non potevano lamentarsi. Ma gli stipendi offerti dai grandi studi legali non erano spiccioli... anzi, erano davvero allettanti. La loro casa nelle Avenues cominciava a sembrare piccola, adesso che c'erano i due bambini. Avrebbero potuto migliorare le loro condizioni di vita; ne avevano discusso dopo che Hardy aveva ricevuto i primi inviti. Ormai era più o meno inteso che Hardy avrebbe scelto uno degli studi legali e si sarebbe messo sulla buona strada. Ma non si sentiva pronto a prendere un impegno. Poteva saltar fuori qualcosa di meglio, uno studio legale in cui sarebbe stato più a suo agio. E perciò nell'attesa si era fatto prestare un ufficio vuoto da David Freeman: e, mentre era lì a far girare i pollici, David Freeman lo aveva cercato per incaricarlo di occuparsi di Jennifer Witt. "Probabilmente renderà un sacco di soldi," disse Hardy. "Ma è un altro caso. Non è un impiego." "E non è neppure un caso mio. È di Freeman." "Però può esserti utile." Hardy allargò le mani. "Può darsi." Frannie si sforzava di capire, e lui non poteva darle torto se sembrava un po' scettica. Poteva dirle che questo non significava cambiare i suoi progetti, ma sapevano entrambi che non era vero. Far parte del collegio di difesa anche in un caso potenzialmente lucroso non era paragonabile a lavorare come associato anziano a uno degli studi legali più prestigiosi della città, e Frannie non ci cascava. "Sarà un caso che durerà un anno, forse due. Chissà, anche i posti che mi hanno offerto potrebbero non durare di più. La vita è così incerta." Frannie alzò al cielo gli occhi verdi e Hardy insistette: "La signora Witt vale un paio di milioni di dollari, forse anche di più..." John T. Lescroart
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"Ma la compagnia d'assicurazioni non glieli verserà, adesso che è stata accusata dei due omicidi." "Sono successe cose ancora più strane," rispose lui cercando di sorridere. "Forse dovranno pagarla." Avevano finito di cenare, i bambini dormivano, e loro erano ancora seduti a tavola a terminare il vino e i dolcetti al cioccolato. Due candele quasi consumate irradiavano una luce incerta. Frannie sospirò. "Non vuoi lavorare per gli altri, no?" Alzò la mano per prevenire la risposta. "Per me va bene così, ma non dovremmo parlarne come se invece lo desiderassi." "Non è questo." "Scommetto di sì. Hai avuto colloqui con quella gente, e dici che sono i mascalzoni del diritto societario. Secondo me, la frase rivela un certo pregiudizio." Hardy bevve un po' di vino. "Non so che cosa sia, ma il caso di Jennifer Witt è entrato nella mia vita questa mattina. Che cosa devo fare? Freeman mi ha chiesto di aiutarlo. Domani se ne occuperà lui." "Ma a te interessa, no?" "Non ho preso impegni ma, sì, m'interessa. Ho dato un'occhiata al fascicolo." "Quello che non riuscivi a smettere di leggere e che devi aver imparato a memoria?" Hardy si arrese. "Sì, quello." "E se fosse stata lei?" Frannie si aggrappava alle pagliuzze e lo sapeva. Hardy si appoggiò alla spalliera della sedia. "Ha comunque il diritto di avere un avvocato." Frannie gli lanciò un'occhiata. "E questo che cosa c'entra?" "Sono avvocato?" Risero tutti e due, e la tensione si allentò. Una delle candele rese l'anima e un filo di fumo salì verticalmente. Frannie prese la mano del marito. "Sai che sono dalla tua parte. "Voglio solo che tu sia sicuro di fare qualcosa che ti dia soddisfazione. Non si tratta solo di questo caso. Se lo accetti, vuol dire che è la strada che hai scelto. E magari continuerai a fare il difensore." Un tempo Hardy era stato nella polizia e in due occasioni diverse aveva lavorato nella procura distrettuale. Frannie pensava che se c'era qualcuno nato per sostenere l'accusa, era suo marito. John T. Lescroart
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"Non è un'attività disonesta," si difese lui. Frannie gli sorrise. "Ma mi domando se è proprio la vita che preferisci." "La vita che preferisco è stare con te." "Sai benissimo ciò che voglio dire." Sì, Hardy lo sapeva, ed era un po' preoccupato. Ma sapeva che, se David Freeman gli avesse chiesto di aiutarlo nel caso di Jennifer Witt, avrebbe acconsentito. Ciò significava che non inseguiva alcuna delle attuali possibilità di lavoro. Il che, a sua volta, significava che... Non lo sapeva. L'altra candela si spense. "Lasciamo stare i piatti," propose Hardy.
4 Il palazzo di giustizia di San Francisco, situato nei pressi della Superstrada 101 all'angolo fra la Settima e Bryant, è un monolito grigio privo di personalità. I piani più bassi ospitano vari uffici municipali e della contea, inclusi la polizia, il coroner, la procura distrettuale, le aule del tribunale e le sale d'aspetto per le selezioni delle giurie. Il carcere al quinto e al sesto piano è amministrato dallo sceriffo della contea di San Francisco, non dalla polizia municipale. Dietro il palazzo, sta sorgendo un carcere nuovo in quello che un tempo era un parcheggio. Hardy entrò dall'ingresso posteriore, salì al secondo piano e si avventurò nel caos strepitante del grande corridoio. "Dovrebbero piazzare una telecamera e trasmettere le scene in diretta." Era David Freeman, che come al solito portava un abito comprato in un modesto negozio di abbigliamento e molto gualcito. Aveva l'aria di chi non dorme da una settimana. "Probabilmente avrebbero una partecipazione del trenta per cento." "Ci vorrebbe un commentatore per spiegare quel che succede," osservò Hardy guardandosi intorno. "Sì, è una buona idea. Forse potremmo farlo fare a turno ai giudici. 'Questa settimana, signore e signori, la cronaca in diretta dal corridoio è affidata al giudice Oscar Thomasino!'" Si avviarono verso il Dipartimento 22, l'aula dove Jennifer Witt sarebbe stata rinviata a giudizio dopo un'ora, giusto il tempo a disposizione di Freeman per farsi ragguagliare sul caso. "Come si prospetta?" chiese. "Parlano di chiedere la pena capitale." John T. Lescroart
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"Sì? Powell dovrebbe andare a fare da testimone qualche volta davanti alla camera a gas. Si addolcirebbe un po'." "Io credo che Powell si divertirebbe." Freeman non era d'accordo. Aveva assistito a sei esecuzioni in vari stati: una persona sana di mente non poteva divertirsi, e non credeva che Powell fosse pazzo. "Be', hanno due aggravanti: omicidio plurimo e il profitto come movente. Sai che le addossano tre omicidi, vero?" "Tre?" Come Hardy, anche Freeman fu sorpreso quando seppe dell'ultima imputazione contro Jennifer, l'uccisione del primo marito Ned Hollis, nove anni prima. "Non ti sembra che abbiano scavato molto a fondo?" "Sarà meglio che legga il fascicolo." Arrivarono alla porta dell'aula del giudice Oscar Thomasino, Dipartimento 22. "Si mette così male?" "Hanno indizi convincenti. Ma Jennifer dice che non è stata lei." Freeman varcò la porta. "Be', è una novità." "Forse non è stata lei." "Forse," ammise Freeman. "O forse sì." Nell'aula vuota anche i sussurri creavano echi. Dismas Hardy e David Freeman erano seduti nell'ultimo banco. Freeman stava cominciando a consultare il materiale. "Parlare con te è incoraggiante. Non te l'ha mai detto nessuno?" Freeman scrollò le spalle. "I miei clienti mi adorano. Perché? Perché li tiro fuori dei guai. Li ritengo colpevoli? M'interessa se lo sono? La risposta a tutte e due le domande è: 'probabilmente'. Quasi sempre." "Quasi sempre li credi colpevoli?" Freeman alzò la testa. "Quasi sempre sono colpevoli, Diz. Il nostro compito è tirarli fuori, ed è quanto cerco di fare." "Be'," disse Hardy. "Vorrei tanto crederle. Era straziata. Un rottame." "Per i suoi cari perduti, o perché è stata scoperta? Lo so, sono cinico e crudele. Ma si piange per tante ragioni, inclusa l'autocommiserazione; e quando qualcuno è in carcere, credimi, si commisera. Succede spesso." Riprese a leggere, girò qualche pagina, si fermò. "È carina, giusto?" "Giovane?" John T. Lescroart
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"Ventotto anni." "A ventotto anni si è giovani." Freeman ne aveva cinquantacinque ma per Hardy ne dimostrava ottanta. "Dunque, è giovane, carina e piangente... È logico che tu voglia crederle. E lei sa che vuoi crederle. Indipendentemente dal fatto che abbia ucciso o no i mariti, conosce l'effetto che le lacrime fanno a un maschio normale come te. Il risultato è... tu vuoi crederle, e sei disposto a fare di tutto perché non debba più piangere, no?" Freeman si tolse il sigaro dalla bocca, sputò un frammento di tabacco. "E, visto che ci siamo, sii sincero. È il mio sondaggio d'opinione. È stata lei o no?" "Non lo so. Ma propendo per il no." "Non ha fatto niente?" "Non lo so." "A che cosa ti riferisci?" "Il bambino... Matt. E se non l'ha ucciso, il resto delle imputazioni crolla, no?" "Non pensi che abbia ucciso il figlio?" "Non ci credo." "Perché? E non dirmi che secondo te non è il tipo." "Ecco, per due ragioni," spiegò Hardy. "Una: non solo l'ha negato, ma sembrava sinceramente sbalordita che qualcuno potesse pensare che è stata lei. Non ha voluto neppure parlarne. Si è comportata come se fosse un errore incredibile destinato a chiarirsi. In quanto all'idea che abbia ucciso il figlio... com'è possibile che qualcuno lo creda?" "Diz, Diz. Per amor di discussione diciamo che sia stata lei. E se l'ha fatto, lo ha fatto per l'assicurazione. Su questo siamo d'accordo? Bene. È una posizione molto rischiosa, decidere di uccidere qualcuno. C'è tanta gente che lo fa; ma chi lo fa per denaro è diverso. Se Jennifer Witt decide a sangue freddo di uccidere, di sicuro non lo ammetterà. Ha già corso il rischio e deve andare sino in fondo. Credimi. Ora, qual è l'altra ragione?" "Non mi sembra il tipo." Freeman riprese a leggere. "Mi faccio pagare un tanto all'ora," disse, "e non è abbastanza." Hardy accettò di buon grado la reprimenda. "Escludi il piccolo Matt, e le argomentazioni contro di lei non sembrano molto forti." "Non possiamo escludere Matt. Era presente, Diz. Vorrei tanto che non John T. Lescroart
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lo fosse stato, ma è così. Powell non mollerà l'osso... È questo che può far finire la nostra cliente nella camera a gas. Può influenzare un giudice." Hardy aveva già sentito quella discussione. Anche se Jennifer aveva ucciso il secondo marito, e Hardy non ne era convinto, era sicuro che la morte di Matt fosse stata un tragico incidente, una fatalità. "Io credo ancora che la giuria giusta potrebbe assolverla," replicò. "La giuria giusta sarebbe capace di assolvere anche Attila. Ma non contarci, in questo caso." Freeman posò una mano sulla spalla di Hardy, e per l'ennesima volta Hardy si meravigliò che Freeman fosse tanto affermato e riscuotesse tanta simpatia. Come sempre aveva la barba lunga, le labbra carnose e violacee. Il bianco degli occhi era giallastro, la pelle chiazzata da macchie di fegato. Era bello quanto un facocero lebbroso. "È meglio non contare troppo sulla giuria. Se mi convinco che è innocente, sai, finisco per danneggiare Jennifer. Te ne rendi conto?" "Che cosa?" Freeman si guardò intorno per accertarsi che nessuno li ascoltasse. "È come camminare sulla corda. Tu vuoi convincerti che difendi un'innocente... ed è giusto. Ma se cominci a crederlo veramente, finirai per presumere che anche i giurati vedranno le cose nel tuo stesso modo, che vorranno credere alla tua interpretazione dei fatti." "E queste argomentazioni, dato che non devi rivolgerle a te stesso, non saranno altrettanto forti." "Capisci? Diz, credo che tu abbia il bernoccolo per questo lavoro," continuò Freeman masticando il sigaro. "Se la cosa finisce davanti a una giuria, la tua cliente è in un grosso guaio, e hai il dovere di prendere sul serio la situazione." "La prendo sul serio, David. Mi hai chiesto se, a livello viscerale, credo che sia stata lei. Come minimo, dico che non sono sicuro che abbiano in mano argomenti validi..." "Allora perché chiederanno la pena capitale? Perché del caso ha voluto occuparsi Powell, con le sue ambizioni politiche?" Hardy non seppe trattenere un sorriso. "Devi imparare a esprimere i tuoi sentimenti, David. Un giorno o l'altro scoppierai!, se continui a tenerti tutto dentro." Freeman annuì. "Lo so. Ci sto provando. Se la prenderanno se accendo il sigaro qui in aula, eh?" John T. Lescroart
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Freeman era seduto sotto il simbolo internazionale del divieto di fumare. "Ci puoi scommettere," disse Hardy. "Ho sempre pensato che te ne saresti occupato tu, per dire la verità. Hardy non aveva scelto una strategia precisa per affrontare l'argomento della sua partecipazione alla difesa di Jennifer Witt; ma, come succedeva spesso, David Freeman lo batté sul tempo. In California i processi che comportavano la pena di morte si svolgevano in due fasi di fronte alla stessa giuria: per il verdetto e per la condanna. In pratica, l'avvocato della fase del verdetto non si occupava mai della seconda fase. I giurati non vedevano di buon occhio una persona che prima sosteneva appassionatamente l'innocenza del suo assistito e poi, quando era stato deciso che era colpevole, saltava il fosso e diceva: e va bene, è stato il mio cliente. Lo so, ho affermato che non era vero, ma mentivo. Però almeno adesso vediamo un po' e discutiamo... È una persona perbene e simpatica, e la pena capitale sarebbe eccessiva... Quindi, per evitare ogni sospetto d'incoerenza, c'era sempre anche un avvocato per la fase della sentenza. E Freeman aveva chiesto a Hardy di assumere quel ruolo se Jennifer fosse stata giudicata colpevole. "Presumendo, naturalmente, che possa pagare," disse in tono molto serio. Jennifer Witt aveva diritto a un avvocato; ma se non aveva i fondi per coprire le spese, che in un caso del genere sarebbero state enormi, il tribunale nominava un difensore d'ufficio. E anche se il difensore d'ufficio si fosse appellato a un conflitto d'interessi, niente garantiva che venissero nominati Freeman e Hardy. Naturalmente Freeman era un difensore da molti anni, ma Hardy non aveva neppure fatto domanda di venire incluso nella lista; e comunque, con un caso del genere, gli altri avvoltoi sarebbero accorsi a frotte. Prometteva di diventare un caso clamoroso, l'ideale per scopi pubblicitari. Ma se Freeman e Hardy intendevano difendere Jennifer, doveva essere lei a pagarli. "E ti dirò un'altra cosa," aggiunse Freeman. "Non m'interessa se la tua cliente è madre Teresa di Calcutta: fatti pagare in anticipo." Sembrava molto serio, e questo allarmava Hardy. Il cancelliere entrò in compagnia della stenografa. In galleria erano arrivati altri avvocati, e Freeman ne salutò qualcuno a cenni. L'aula intanto John T. Lescroart
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cominciava a riempirsi di altri spettatori, forse parenti degli accusati o delle vittime. Era la Corte Superiore. Chi compariva davanti al giudice in quell'aula non era lì per eccesso di velocità. Hardy lasciò Freeman intento a leggere il fascicolo, si alzò e si avvicinò alla balaustrata divisoria. Dean Powell, il rappresentante dell'accusa, gli batté la mano sulla spalla. "Freeman ha deciso la linea difensiva?" "No, ma l'ha scelta Jennifer. È la linea che preferisci." "Non colpevole? Incapacità d'intendere e di volere? Omicidi giustificabili?" "La signora Witt respinse ogni accusa." Powell annuì, impassibile, ma Hardy ebbe la sensazione che fosse soddisfatto. "È stata lei," affermò. Il giudice Oscar Thomasino, con i capelli a spazzola e la carnagione scura, entrò con aria severa e sbrigativa nell'aula che presiedeva da dieci anni. Fu chiamato il numero progressivo di Jennifer e Hardy e Freeman varcarono il cancelletto della balaustrata. Dean Powell e un giovane assistente arrivarono dal palco della giuria, e Jennifer Witt fu condotta al podio di fronte al giudice. Hardy pensò che Jennifer, desolata e avvilita, aveva davvero l'aria dell'imputata, ma la tuta del carcere avrebbe potuto creare la stessa impressione anche addosso a Cindy Crawford. La presentò a Freeman. Lei guardò l'avvocato malvestito con scarso entusiasmo... una reazione cui Freeman era abituato. Jennifer rivolse una smorfia a Hardy, poi si girò verso il giudice. Come in tutti i casi di omicidio, il cancelliere lesse integralmente l'atto d'imputazione. "Jennifer Lee Witt è accusata di tre reati qui elencati: aver ucciso premeditatamente il 31 agosto 1983 Edward Teller Hollis..." Il cancelliere lesse le aggravanti e passò alle accuse relative all'uccisione di Larry e Matt Witt. Poi il giudice Thomasino girò gli occhi verso il podio e annunciò che, in base alla presenza dei signori Freeman e Hardy, deduceva che Jennifer fosse rappresentata dai suoi avvocati. Quindi le chiese come si dichiarava. "Non colpevole, vostro onore." Thomasino prese un appunto, poi sbirciò al di sopra degli occhiali da John T. Lescroart
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lettura. "Signor Powell, l'accusa chiede che venga negata la libertà su cauzione?" Powell si alzò. "Sì, vostro onore. È un caso con circostanze aggravanti: omicidio plurimo a scopo di profitto. L'imputata aveva già ucciso..." "Vostro onore!" Freeman reagì prontamente. Non era stato ancora stabilito se Jennifer Witt avesse ucciso qualcuno. Era appunto lo scopo del processo. Il giudice guardò il pubblico ministero e fece una smorfia. "Signor Powell, per favore." Powell assunse un'aria contrita, e ripartì all'attacco. "Chiedo scusa, vostro onore. Ma è un caso in cui è prevista la pena di morte. La legge stabilisce che l'imputata non possa ottenere la libertà su cauzione. Inoltre, riteniamo che ci sia un grave rischio di fuga." Freeman ribatté: "Vostro onore, la signora Witt consegnerà il passaporto. Non è mai stata accusata di altri reati. Niente può far pensare che ci sia pericolo di fuga. Era rimasta in città dopo il mese di dicembre, sebbene dovesse aver intuito di essere sospettata. E non ha opposto resistenza all'arresto". 'Va bene." Thomasino sbirciò di nuovo al di sopra degli occhiali. "Tuttavia, signor Freeman, a quel tempo non era stata accusata di tre reati capitali. Ora la situazione è diversa, non le sembra?" "Vostro onore, la signora Witt non ha commesso quei reati e desidera che sia riconosciuta la sua innocenza." "Sì, bene, avrà questa possibilità. Tuttavia sono d'accordo con l'accusa: di fronte alla eventualità di una condanna a morte, potrebbe essere tentata di rinunciare a tale possibilità. E senza legami con questa comunità, senza famiglia..." 'Vostro onore!" La voce di Jennifer si levò con grande sorpresa di tutti. Di solito gli accusati erano intimiditi da quei procedimenti al punto di dimenticare che potevano parlare. "Oggi la mia famiglia è qui." Hardy si voltò. Nella seconda fila un uomo dai capelli grigi si stava alzando in piedi. Un altro uomo, più giovane, sembrava intenzionato a fare altrettanto, e fra i due era seduta una donna di mezza età. Hardy notò anche uno sguardo scambiato fra Jennifer e un uomo barbuto ed elegante seduto qualche fila più indietro. Chi era? E perché Jennifer non rivolgeva un gesto affettuoso al padre, al fratello, alla madre? Li indicava a Thomasino nella speranza che servisse a farle ottenere la libertà su John T. Lescroart
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cauzione, ma non faceva loro neppure un cenno. Thomasino si riprese dallo stupore. "Bene, grazie. Quei signori laggiù... si siedano." "Con il permesso della corte." Dean Powell era in piedi. "Vorrei chiedere alla signora Witt quando ha visto la sua famiglia per l'ultima volta." 'Vostro onore!" Hardy era sicuro che, come lui, Freeman non avesse idea di ciò che stava dicendo Powell, ma non poteva lasciar passare una richiesta del genere senza protestare. Quello non era un processo, e non era corretto interrogare l'accusata. "Dove vuole arrivare, signor Powell?" 'Vostro onore, nel corso delle nostre indagini è risultato chiaro che la signora Witt non è affatto legata alla famiglia. Anzi, sono divisi..." Freeman intervenne, fulmineo. "Allora perché oggi sono qui, Dean?" Il giudice batté il mazzuolo. "Signor Freeman, si ricordi che deve rivolgere tutte le sue osservazioni alla corte. Chiaro?" "Certo, vostro onore. Chiedo scusa." Come molte delle mosse di Freeman, anche quella era calcolata. La reprimenda di Thomasino gli diede qualche istante in più per escogitare qualcosa d'altro. "Ma il signor Powell dovrebbe rendersi conto della realtà. I familiari della signora Witt sono qui, ovviamente per sostenerla. Che altro ci occorre?" Thomasino strinse il mazzuolo. "Signora Witt, prendo nota della presenza della sua famiglia, ma questo non cambia la legge. La libertà su cauzione non può essere concessa." "Vostro onore..." Freeman tentò un'ultima volta. Ma Thomasino ne aveva abbastanza. Alzò il mazzuolo, lo batté leggermente, quindi intonò: "La libertà su cauzione viene negata".
5 "Com'è possibile che le abbiano negato la libertà su cauzione?" chiese il padre di Jennifer, Phil DiStefano. Stava di fronte a Freeman nel corridoio: non aveva l'aria bellicosa ma neppure cordiale. "Potremmo appellarci," disse Freeman. "Ma l'avverto: perderemmo. E, anche se la spuntassimo, il giudice fisserebbe una cauzione altissima." La signora DiStefano intervenne a voce bassa: "Quanto, signor Freeman?" John T. Lescroart
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DiStefano si girò verso di lei. "Non importa, Nancy. Non ce la faremmo." A giudicare dalle apparenze, aveva ragione. Indipendentemente dalla cauzione che sarebbe stata chiesta se avessero vinto in appello, i DiStefano non avevano l'aria di essere in grado di pagarla. Phil indossava un abito nero che non sembrava stirato di recente, una camicia bianca stirata ma non nuova, una cravatta sottile. L'abbigliamento della madre ricordava a Hardy quello di Pat Nixon durante il famoso Checkers Speech. Era piuttosto attraente, addirittura bella: ma qualcosa nel suo portamento, nelle labbra contratte, dava la sensazione che la sua vita non fosse stata facile. Il figlio, sui ventitré anni, portava blue-jeans, scarponi da lavoro, un Pendleton, capelli piuttosto lunghi. Una famiglia di operai... e questo stupiva un po' Hardy. I media avevano sempre presentato Jennifer come una signora della buona società; e il giorno prima, nel corso del colloquio, a Hardy era sembrata la tipica moglie d'un medico affermato. Ma la sua famiglia indicava radici ben diverse. Quando Freeman spiegò che, se avessero ottenuto la libertà su cauzione, dovevano aspettarsi che ammontasse a un milione di dollari o più, il figlio esplose. "E dove cavolo dovrebbe prenderli?" "Tom!" Freeman alzò una mano. "Appunto, figliolo. Il fatto è che non vogliono lasciarla uscire. Pensano che scapperebbe." "Non credo che lo farà. Ha una difesa molto solida." Un uomo si avvicinò e tese la mano a Freeman. "Ken Lightner." Come se il nome spiegasse tutto. "Sono lo psichiatra di Jennifer." Era l'uomo che Hardy aveva notato fra il pubblico. Di bell'aspetto, un po' massiccio nell'abito confezionato su misura, Lightner sfoggiava una barba rossa ben curata e i capelli scuri. Era una strana combinazione che forse, pensò Hardy, era prodotta da una tintura. "Perché Jenny ha bisogno d'uno strizzacervelli?" chiese Tom DiStefano. Nancy DiStefano posò una mano sul braccio del figlio mentre Lightner si accostava. "Tu devi essere Tom." "No, sono la regina d'Inghilterra." Nancy DiStefano si mise in mezzo. "Non fare il maleducato, Tom." ' Hardy si chiese se Tom DiStefano possedesse un autocontrollo sufficiente per fare qualcosa di proposito... magari essere scortese. Evidentemente era furioso. Si guardava intorno come in cerca d'una via di John T. Lescroart
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fuga. Si svincolò alla madre e si rivolse a Hardy. "State cercando di farla passare per pazza? È così?" "No." Lightner cercava di essere comprensivo. Ma Freeman non era disposto a farsi rubare la scena. "Non abbiamo ancora scelto la linea difensiva. Jennifer è innocente fino a prova contraria. Credo che su questo siamo tutti d'accordo." Tom rimase lì, ad ansimare, a contrarre e decontrarre le mani. "Be'," disse, come se cercasse una risposta. "Be', merda." "È una situazione difficile," intervenne Lightner, "ed è logico provare collera, tutti quanti..." Hardy lanciò un'occhiata a Freeman. Tutte le professioni avevano un loro gergo. Probabilmente quelli erano discorsi normali nell'ambiente di Lightner, ma a Nancy non importavano. "Non vorranno chiedere davvero..." Non trovò la forza di dire "la pena di morte" "...per mia figlia, vero?" Stava per scoppiare in lacrime e stringeva la mano del marito. Hardy decise d'intervenire. "Siamo ancora molto lontani dal processo, signora DiStefano. Per il momento non dobbiamo preoccuparci." "Dovremmo preoccuparci, invece," disse Tom. "Se non ci diamo da fare adesso, andrà proprio così." "Tom, sai qualcosa che non sappiamo?" chiese Hardy. Ora che aveva un orientamento, Tom parlò. "Sì, so qualcosa: so che la gente come noi non ha mai un processo equo. Contro quelli là." "Chi sono quelli? E la gente come voi?" "La gente povera, la gente che lavora, accidenti. Contro quelli che hanno i soldi." "Jennifer i soldi li ha, Tom," interloquì Phil. "Non sono suoi, papà, e lo sai. Sono di Larry. Questo è l'importante, e il resto sono fesserie! Rivogliono quei quattrini." "Chi?" domandò Hardy. "Non l'accettavano. Non fa parte del loro mondo, vero? Come non ne facciamo parte noi. Larry ci aveva tagliati fuori. Ma Jen cercava di entrarci, no? Ha sposato un dottore affermato, andava in giro con una macchina di lusso. Cercava di essere una di loro. E loro non glielo perdonano, vero? Si vendicheranno..." "Nessuno sta cercando di vendicarsi di Jennifer, Tom..." "Mamma, non capisci. Tu bevi le loro fesserie. È così che ci tengono sottomessi..." John T. Lescroart
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"Tom, piantala!" Phil si piazzò tra il figlio e la moglie, ma Tom si girò di scatto verso di lui. "Oh, sicuro. E tu sopporti tutto, no, papà?" Accadde in un attimo. Phil alzò la mano e colpì la guancia del figlio con uno schiaffo. "Non permetterti di usare questo tono con me!" I due uomini si fronteggiavano, e Nancy era in mezzo. Aveva cominciato a piangere. Tom indietreggiò. "Ah, al diavolo!" disse. Girò sui tacchi e corse via. La madre si rivolse ai due avvocati. "Chiedo scusa per mio figlio. Lui crede che il mondo..." Non finì la frase. Era il momento opportuno. Le difese erano abbassate. Freeman pensò di approfittarne. "Vedeva spesso Jennifer, signor DiStefano? Voglio dire, vi scambiavate visite?" "Be', sicuro. È mia figlia, no? Siamo tutti molto uniti... anche Tom. Come ha detto lei in aula, è per questo che oggi siamo qui." Freeman si rivolse alla signora DiStefano. Lei scosse la testa. "Non li vedevamo da anni." Phil cercò di salvare la situazione. "Ehi, Larry aveva tanto da fare. Non è che non..." Nancy lo interruppe. "Larry non glielo permetteva. Non li vedevamo mai. Mai." Hardy, Freeman e Lightner seguirono con gli occhi la madre di Jennifer che si allontanava, un passo dietro il marito. Freeman si rivolse allo psichiatra. "Quindi qual è la difesa, dottore?" Tranquillo, con le mani in tasca, Lightner non perse tempo a riflettere. Indicò con un cenno i genitori di Jennifer. "Leggermente disfunzionali, non le sembra? Me l'aspettavo." "Se l'aspettava," ripeté Hardy. Si avviarono tra la folla verso gli ascensori. Hardy e Freeman dovevano salire per parlare con Jennifer e scoprire se sarebbe stata loro cliente. Lightner disse: "Avete appena assistito a una lezione pratica. È una questione generazionale. Il padre picchia la moglie e i figli. I figli picchieranno le mogli e i loro figli..." "Chi picchia chi?" l'interruppe Freeman. Lightner si fermò. "No, no... Mi riferivo a Larry, naturalmente." "Larry picchiava Jennifer?" Per Hardy era una novità, e probabilmente anche per Freeman. Forse non per Powell. Comunque, Jennifer non ne John T. Lescroart
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aveva parlato. Freeman li precedeva di un passo. "Se sta parlando di letto bruciato, credo che il bambino sia un problema." Il "letto bruciato" aveva acquisito una grande popolarità negli ambienti giudiziari come difesa valida per un omicidio. Quando una moglie era stata maltrattata a lungo, in molti casi le giurie avevano deciso che l'uccisione del coniuge era giustificata come forma di legittima difesa, anche se era avvenuta durante un periodo di relativa tranquillità, per esempio quando il coniuge che aveva inflitto i maltrattamenti era addormentato. Erano verdetti che andavano ben oltre il concetto legale di legittima difesa, accettabile quando una persona aggredita correva il pericolo immediato d'essere uccisa. "Perché Matt è un problema?" chiese Lightner. "Perché le mogli maltrattate non uccidono i loro figli," rispose Freeman. "Se Jennifer era una moglie maltrattata." "Lo era. E potrebbe essere stata un'uccisione non intenzionale, se è successo mentre si stava difendendo." "Sarà difficile farlo credere a una giuria," commentò Freeman. "Pensa che sia stata lei?" chiese all'improvviso Hardy. Per la prima volta, Lightner meditò con attenzione prima di rispondere. "Aveva motivo di farlo." A Hardy quella risposta non piacque. Un'altra persona, che non faceva neppure parte del gruppo dei testimoni dell'accusa, riteneva che la sua cliente avesse avuto motivo di uccidere il marito. "Perché lui la maltrattava?" "Naturalmente, il fatto che avesse un motivo non significa che sia stata lei," soggiunse prontamente Lightner. "Allora che cosa intende dire, per l'esattezza?" chiese Hardy. "Non sto affatto insinuando che sia stata lei, signor Hardy. Dico soltanto che forse dovrebbe consultare la letteratura specializzata. Molti impazziscono in situazioni come quella in cui si trovava Jennifer. È comprensibile. Sto dicendo che se questo è accaduto a Jennifer, se era maltrattata in modo orribile come io sospetto..." "Mi pareva che avesse appena affermato..." "...dovrebbe diventare un cardine della difesa. Ecco tutto, signor Hardy." Cerca di proteggerla in entrambe le ipotesi, pensò Hardy. Arrivò l'ascensore. "Noi saliamo," disse sbrigativamente Freeman, poi, John T. Lescroart
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in tono più gentile: "Grazie per i suggerimenti". "Prego. Si rivolga pure a me quando vuole." E Lightner sparì dietro le porte che si chiudevano. Aspettavano che Jennifer venisse accompagnata in sala colloqui. Freeman stava esaminando il fascicolo; Hardy gli sedeva di fronte e guardava fuori della finestra. "Sai," disse senza voltarsi, "un uomo della tua sensibilità e della tua esperienza dovrebbe essere in grado di cavarsela da solo." "Jennifer non mi conosce ancora." Freeman non interruppe la lettura. "Ti ha conosciuto in aula, ricordi?" Freeman alzò gli occhi acquosi e Hardy girò intorno al tavolo e si fermò alle sue spalle. "Sai, sono convinto che tutti dovrebbero cercare di dormire un po', la notte." "Io dormo abbastanza," borbottò Freeman. Poi cambiò argomento. "Forse non ce ne occuperemo. Io ci terrei, sia chiaro, ma se devo farlo gratis... e poi, non le darei torto se mi scaricasse subito. Non mi sembrava entusiasta di me. Dato che temevo questa eventualità ti ho pregato di accompagnarmi. Mi è parso che con te vada più d'accordo. Forse riuscirai a fare da paraurti, all'inizio. Te l'ho già spiegato." "Lo so. L'ho persino capito." "E allora?" "Sto cercando di illuminarti, David. Abbiamo già perso una battaglia in aula. Se vogliamo questo caso, forse è meglio essere un po' più dolci." Freeman fece una smorfia. "Io non sono dolce." Poi sorrise, stancamente. "Perciò ho bisogno di te." Adesso stavano affrontando i primi minuti. Jennifer era tesa e non diceva nulla mentre Freeman spiegava la questione della libertà su cauzione: nessun avvocato poteva far molto in un caso in cui l'accusa intendeva chiedere la pena di morte. E in un certo senso era anche un discorsetto pubblicitario: il lavoro di difensore era la vocazione di Freeman, ma era anche la sua fonte di guadagno, e l'avvocato si sentiva in dovere di precisare il suo livello di coinvolgimento prima di procedere; per il momento però Jennifer voleva soltanto che presentasse appello perché la libertà su cauzione era stata negata. "Non vorrà che resti chiusa qui dentro." Hardy si alzò, con la schiena alla porta e le mani in tasca. Dopo un'altra John T. Lescroart
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notte in carcere i sentimenti di Jennifer a proposito dell'importanza relativa della cauzione erano diventati, comprensibilmente, più intensi. Freeman intrecciò le dita sul tavolo e parlò a voce bassa. "Naturalmente no, signora Witt. Ma dobbiamo affrontare certe realtà, e una di esse ha carattere finanziario." "Denaro. Si tratta sempre di denaro, no?" Hardy pensò che parlava quasi come il fratello. Freeman allargò le mani. "Se ci appelliamo, è possibile che fissino la cauzione a un milione di dollari. Centomila per il garante della cauzione. Più le spese dell'appello. Se non può permetterselo dovrà accontentarsi d'un difensore d'ufficio, per il processo." Jennifer lanciò uno sguardo impaurito verso la porta. "Perché non potrei essere difesa da lei e dal signor Hardy?" "Francamente, il nostro anticipo... sarà di duecentomila dollari, e chiunque le chiederebbe la stessa cifra. Se non può pagare, avrà un avvocato d'ufficio." Oltre a credere che fosse meglio essere di una franchezza brutale fin dall'inizio, Freeman pensava che fosse nell'interesse della cliente che si mostrasse il proprio aspetto più duro in base alla teoria che, se si era tanto difficili con il proprio assistito, si sarebbero sbranati gli avversari. "Ma un difensore d'ufficio non è il primo che capita?" "No, deve essere approvato dalla corte. E nei casi di reati capitali deve avere un considerevole livello qualitativo." "Un considerevole livello qualitativo..." mormorò Jennifer scuotendo la testa. "Mi dispiace, ma la realtà è questa..." "Ma è in gioco la mia vita!" "David." Hardy si sentì in dovere d'intervenire. Ciò che diceva Freeman poteva essere vero e importante, ma il denaro non era la questione principale. Freeman alzò gli occhi stanchi. "Sì?" "Usciamo un momento." Fuori, nel corridoio spoglio, i rumori del carcere erano più forti. Hardy chiese: "E se tornassimo più tardi sugli aspetti economici?" "Dobbiamo risolverli, Diz. Jennifer non vuole cambiare i suoi avvocati." Freeman si grattò le rughe intorno all'occhio destro. "Se non ha abbastanza John T. Lescroart
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denaro, da un punto di vista deontologico non dobbiamo neppure incominciare. Io sto solo cercando di chiarire le cose." "La stai torchiando, ecco che cosa fai." "Un corno. Abbiamo bisogno di sapere, e subito." Freeman batté la mano sulla spalla di Hardy. "Lo so, è un caso interessante. Diavolo, potremmo occuparcene a titolo di patrocinio gratuito per farci pubblicità. Ma io voglio sapere con che cosa abbiamo a che fare, e questo è il momento per scoprirlo. Rientriamo. Sarò breve e gentile. Lo prometto." Freeman sedette di fronte a Jennifer. "Il signor Hardy e io ci scusiamo, ma dobbiamo conoscere la sua situazione finanziaria. Ci aiuterà a chiarire come dovremo procedere." I muscoli della mascella di Jennifer si contrassero. "Ecco, non credo che sia un problema... C'è l'assicurazione." Freeman scosse la testa. "No, Jennifer. L'assicurazione sospenderà il pagamento fino alla conclusione del processo. E, se sarà giudicata colpevole, non sgancerà un dollaro." Hardy non riusciva a crederlo ma... Jennifer si sforzava davvero di sorridere? "E lei eviterà che mi giudichino colpevole." "Purtroppo non ci scommetterei. Quindi lasciamola da parte. Che altro c'è, oltre all'assicurazione?" Avevano vissuto in quella casa per cinque anni, disse Jennifer, ma l'avevano comprata a caro prezzo, proprio quando il mercato andava rallentando. Il valore netto era probabilmente sui settantamila dollari, forse meno. Purché riuscisse a venderla. Il conto in banca era di circa ventimila dollari. Avevano acquistato azioni per altri sessantacinquemila dollari. I mobili, qualche gioiello, due macchine. Una vendita non avrebbe reso molto. "Che cosa succede se uno ottiene la libertà su cauzione e poi... come si dice?... diventa uccel di bosco?" chiese Jennifer. Quando Freeman la fissò con severità, soggiunse: "In teoria, voglio dire". "Non ci pensi neppure. E non si faccia sentire a chiederlo. Anzi, qui in carcere non parli di niente con nessuno. È un ottimo consiglio che le do gratis. Ora, se si rende irreperibile, innanzi tutto perde la somma. Tutta. E comunque la prenderanno, può credermi. Non troverà mai più qualcuno disposto a garantire per lei circa la cauzione. Infine l'intero sistema giudiziario si convincerà che è colpevole e sarà prevenuto nei suoi John T. Lescroart
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confronti. È una pessima idea. Non ci pensi nemmeno." "E, comunque, non ha ottenuto la libertà su cauzione," intervenne Hardy. Freeman stava scribacchiando sul blocco per gli appunti. Alzò la testa. "Ecco... anche se non presenta appello per la libertà su cauzione e vende la casa e liquida tutto il resto, non avrà una somma sufficiente. Vorremmo aiutarla, ma purtroppo saremo costretti a dire al giudice che ci ritiriamo..." Jennifer si voltò verso di loro. "C'è dell'altro," disse. "Un altro conto." Freeman smise di raccogliere le carte, Hardy girò una sedia e ci si mise a cavalcioni. "Come sarebbe a dire? Un altro conto?" chiese Freeman. Lei deglutì, innervosita. "A volte... non pensavo che io e Larry saremmo rimasti insieme. E se dovevo andarmene per conto mio, con Matt, voglio dire... sarebbe stato meglio avere qualcosa da parte..." "Andarsene... perché?" Freeman stava pensando a ciò che aveva detto poco prima lo psichiatra. "Sta dicendo che suo marito la picchiava?" incalzò Hardy. "Non ci ha mai..." Jennifer si portò una mano al viso, come per toccare un livido. "No, no, ma... sapete... Ecco, se ne avessi avuto bisogno..." Lo ammise balbettando. Per otto anni aveva messo denaro da parte. Nonostante il ferreo controllo di Larry, aveva trovato il modo di fare la cresta, "un po' qua e un po' là", su quel che spendeva per Matt, giocattoli, vestiti, cosmetici, arredamento, tutto. Circa mille dollari al mese. E aveva imparato a investirli in azioni ad alto rischio ma redditizie, tanto che adesso il totale era vicino ai trecentomila dollari liquidi. "Bene," disse Freeman con un sorriso. "Se ci vuole ancora, signora Witt, siamo a sua disposizione." Hardy non sorrise. La rivelazione di Jennifer, per quanto comprensibile, lo turbava. Avrebbe preferito non saperlo.
6 "Mi parli di Larry Witt." Jennifer e Freeman erano seduti una di fronte all'altro. Era come se Hardy non esistesse. Freeman aveva tirato fuori un thermos di caffè dalla borsa, e sul tavolo c'erano tre bicchieri di carta. "Che cosa vuole sapere?" John T. Lescroart
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"Tutto. Ma penso che dovremmo cominciare da tutte le volte che la picchiava." Jennifer batté le palpebre, sgranò gli occhi. "Ho detto che litigavamo, non che Larry mi picchiava." Freeman alzò una mano per indicare a Hardy di non reagire. Chiese, con voce gentile: "Ma la picchiava?" "Non capisco perché dovrebbe avere importanza." "Perché ce l'ha, Jennifer, e perché le dà una linea difensiva. La picchiava o no?" Lei esitò un momento e strinse i denti. "Non ho ucciso Larry, signor Freeman. Non m'interessa la ragione per cui secondo lei lo avrei fatto, io non l'ho fatto... E Matt? Mio Dio, diranno che ho ucciso anche Matt?" "Lo stanno già dicendo." La risata di Jennifer fu così fragile che subito si spezzò. "E per quale ragione, secondo loro? Ci hanno pensato? Come possono affermare che ho ucciso mio figlio?" Freeman continuò, con calma. "Non è di Matt che stiamo parlando, ma di Larry." "Larry non m'interessa." Jennifer batté la mano sul tavolo. "Non ho ucciso Matt. Non capite?" E alzò lo sguardo verso Hardy. Lui si sentì in dovere di rispondere. "Diranno che Matt è sopraggiunto per caso e lei ha ceduto al panico, oppure che si è trovato in mezzo quando lei ha sparato a Larry." Jennifer chiuse gli occhi, ansimando un po'. "Ma... se è stato per caso non è omicidio premeditato, vero? Voglio dire, non è andata così, ma se lo dicono non è come per Larry..." Hardy era tentato di spiegare ciò che gli avevano detto Drysdale e Powell. Non lo fece: ma lo preoccupava che lei lo avesse chiesto. In quel momento Freeman annuì e appoggiò le mani sul tavolo. Anche questa volta la sua voce era modulata con attenzione; ma adesso aveva una sfumatura di minaccia. "Voglio chiarire una cosa, Jennifer. Io non l'accuso di niente. Ma sappia che non accetterò e non rifiuterò in base a ciò che mi dirà. Se è stata lei o non è stata lei. Perché l'ha fatto o perché non l'ha fatto." "Ma io..." Freeman l'interruppe con un gesto. "Se suo marito la picchiava, l'accusa lo presenterà come un movente che l'avrebbe spinta a ucciderlo. Ora, se John T. Lescroart
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una volta lei e Larry avete litigato e lui l'ha picchiata, i giurati non si convinceranno che aveva una giustificazione per ucciderlo. Ma se potremo dimostrare che questo avveniva continuamente nel vostro matrimonio, che lei viveva in un perenne stato di paura e di stress, almeno avremo controbattuto la tesi dell'accusa. Indipendentemente dal fatto che l'abbia ucciso o no..." Jennifer scosse la testa. "Non l'ho ucciso, ma se l'avessi fatto sarei giustificata? È così?" Hardy aveva pensato la stessa cosa: giustificazione o no, o l'aveva ucciso o non l'aveva ucciso. Jennifer aveva capito la distinzione. Bene, pensò Hardy. Ma c'era un'altra possibilità: una donna dalla mentalità logica, capace di fare piani a lungo termine e di eseguirli... Freeman non indietreggiò. "Ricaveremo una linea difensiva da tutto questo, ma dovremo essere preparati alle argomentazioni dell'accusa. E purtroppo non sarà sufficiente ripetere: 'Non sono stata io'." Il viso di Jennifer era duro, gli occhi irosi. Stava per piangere. Freeman le prese le mani. "Parliamone. Larry la picchiava?" Lei annuì. "Ma non era... voglio dire, lo ha fatto un paio di volte ma... credo che fosse colpa mia..." "Com'è possibile?" chiese Hardy. "Ecco, non so, sbagliavo e..." "E suo marito la picchiava?" Freeman, che pure aveva sentito parlare di situazioni simili da molte clienti, aveva ancora un tono incredulo. Jennifer batté il pugno sul tavolo. Era una commedia? Hardy non riusciva a decidere. "Per favore, non dica più che mi picchiava. Forse lo ha fatto un paio di volte ma non... non mi massacrava di botte. Si arrabbiava, sì. Però mi amava, ed era deluso perché non ero all'altezza delle sue aspettative." "E poi?" incalzò Freeman. "Che cosa succedeva dopo che Larry l'aveva picchiata?" Non aggiunse: glielo chiedo per il suo bene. Attese. Lei riabbassò la testa, un atteggiamento che faceva pensare a una donna spaventata, e che stava diventando abituale. "Si vergognava terribilmente. Lo so. Non potevo credere di averlo ridotto a tanto..." "Lei lo riduceva a tanto? E come?" "Combinavo pasticci. Se non l'avessi fatto..." John T. Lescroart
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"Larry non l'avrebbe picchiata?" "No. Capisce?" Hardy e Freeman si scambiarono un'occhiata, e Freeman continuò: "Quindi Larry si vergognava, dopo averla picchiata?" "Oh, sì. Mi amava, vede. Capisco che cosa sta pensando, ma non è vero. Era l'unico che mi conoscesse veramente. Dopo, era così affettuoso... mi portava i fiori. Certe volte erano i momenti più belli. Dopo, voglio dire." "Dopo che l'aveva picchiata?" "Ma è successo solo un paio di volte, no? L'ha appena detto. Due volte. O sono state tre?" chiese Freeman. Jennifer non cedette. "No, no, due. Non volevo dire 'qualche volta' ma proprio quelle due volte." Era difficile capire perché fosse così riluttante ad ammettere i maltrattamenti. Freeman diede un'occhiata al fascicolo. "Parliamo di chi ha ucciso Larry, se non è stata lei. Cioè, dato che non è stata lei. Ha qualche idea?" Lei impiegò un momento per cambiare marcia, poi prese il bicchiere del caffè. "Lavorava molto. Era medico." "Sì, ma aveva nemici, qualcuno che potrebbe averlo ucciso?" "Ecco, forse la prima moglie. Ma è ridicolo. So che non è stata lei." "Come fa a saperlo?" "Non l'avrebbe ucciso dopo tanto tempo. Non avrebbe avuto senso." "E prima l'avrebbe avuto?" Jennifer si spostò sulla sedia. "Ecco, era una di quelle situazioni... Lei lavorava mentre Larry frequentava la facoltà di medicina, e quando si laureò non andarono più d'accordo. Credo che la moglie ne avesse sofferto molto." "E c'entrava anche lei?" Jennifer accennò un broncio che a Hardy sembrò affettato. Una commedia. Non era facile capirla. Freeman insistette. "La moglie di Larry... Come si chiama?" "Molly." "Glielo chiedo di nuovo: lei c'entrava quando Molly e Larry si separarono?" "Be', avevano già molti problemi." "Ha parlato di Molly alla polizia?" "No. Gliel'ho detto, non avrebbe..." John T. Lescroart
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"Dobbiamo tener conto di tutto." Freeman scribacchiò sul blocco e Hardy tornò a sedere. "C'era qualcun altro che detestava Larry? Per esempio Tom?" Lei trasalì di nuovo, sussultò come se Freeman l'avesse schiaffeggiata. "Che che cosa c'entra Tom? Come fa a sapere di Tom?" "Com'erano i rapporti fra lui e Larry?" Jennifer alzò le spalle. "Larry e io vedevamo Tom molto di rado. È così prevenuto." "Per ragioni di denaro?" "Non lo so. Forse era geloso di Larry." Si affrettò a correggersi quando notò l'occhiata di Freeman. "No, non in quel senso. Davvero, chi crede che io sia?" Freeman si tese verso di lei. "Non lo so, e sto cercando di scoprirlo. Mi dica perché Tom era geloso. Abbastanza da uccidere Larry?" All'improvviso lei smise di recitare e di esitare. "Tom è arrabbiato con la vita, credo. Non è andato al college perché era senza soldi. È convinto di non aver mai avuto una possibilità al mondo, ma questo non significa..." "Come suo padre?" "Penso che Tom abbia paura di finire come papà. Ma mio padre non ha mai preteso molto. E poi, ai suoi tempi era più facile comprare una casa, anche per un operaio, e a mio padre la casa bastava. Ma credo che Tom la vedesse... come una specie di prigione. Anch'io la vedevo così, ma me ne sono andata." "Tom che cosa fa?" "Non mi pare che abbia un lavoro regolare. So che a volte guida un carrello elevatore a forche. Nei cantieri. Quello che capita." "Era risentito con lei e Larry perché i soldi non vi mancavano?" "Non eravamo tanto ricchi, ma credo che fosse così. Ed era irritato con me perché non avevo lavorato per ottenere quello che avevo." "Ma adesso ce l'ha?" "Che cosa?" "Il denaro. Parecchio denaro." Jennifer si morse le labbra. "Che cosa c'entra con Tom?" "Forse aveva chiesto un prestito a Larry che glielo aveva rifiutato. Ora che Larry è morto, ha maggiori probabilità di ottenerlo dalla sorella." Lei scosse la testa. "No." John T. Lescroart
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Freeman prese un altro appunto. Hardy decise di controllare qualche alibi. Forse Glitsky poteva curiosare un po'... "Vede," le fece notare Freeman, "io sono più gentile e delicato di un rappresentante dell'accusa. Queste non sono neppure domande difficili, Jennifer: sono in suo favore. Quelle dell'accusa non lo saranno." Jennifer si voltò a mezzo e la tuta mise in risalto le linee del corpo. Accennò un sorriso. "Buono a sapersi. Non vedo l'ora di sentire le domande difficili." "Bene." Il sorriso di Freeman non era amichevole. "Dato che non vede l'ora, risponda a questa: aveva una relazione?" L'espressione scandalizzata di Jennifer sembrava quasi una caricatura. "Che cosa? Quando? Con chi?" "In qualunque momento. Con chiunque." Lei lo fissò con occhi penetranti. "No, naturalmente. Assolutamente no." "Quando?" "Quando che cosa?" "Quando non aveva una relazione?" Ma era un trucco che avevano già usato. Jennifer lo fulminò con lo sguardo. "Quando ha smesso di picchiare il suo cane? È giusto?" "Qualche volta funziona." Lei finì il caffè con una smorfia. "E qualche volta no, signor Freeman." Il vecchio avvocato cominciò a riordinare le carte e a rimetterle nel fascicolo. "Bene, credo che abbiamo quanto basta per cominciare. Ci vedremo domani." "A che ora?" chiese lei. Freeman alzò le spalle. "Quando va bene a lei, Jennifer." Adesso si scorgeva la paura... la paura di restare sola, di ciò che l'aspettava. "Allora presto, d'accordo?" Freeman le batté la mano sulla spalla. "Allo spuntar del giorno," promise.
7 Alle sette Hardy beveva una Guinness e aspettava che Frantile arrivasse in tassì al Little Shamrock, il bar all'incrocio della Nona Strada e di Lincoln Street che era proprietà sua e di Moses McGuire, suo cognato. Mercoledì, per tradizione, era la sera dell'appuntamento per gli Hardy. John T. Lescroart
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Prima di tornare a esercitare la professione legale, Hardy aveva fatto il barista di giorno allo Shamrock. Prima ancora, aveva lavorato nella procura distrettuale ed era stato sposato con la figlia di un giudice, aveva avuto un figlio... Hardy e Jane Fowler e il piccolo Michael. Nessuno pensava che Michael, a cinque mesi, fosse in grado di alzarsi in piedi, e Jane e Hardy non avevano controllato se le sponde della culla erano alzate del tutto o solo a metà. La dimenticanza era costata la vita al bambino, che era riuscito ad arrampicarsi, era caduto battendo la testa ed era morto. Dopo la morte di Michael, il mondo di Hardy era crollato a poco a poco. Adesso che era sposato con Frannie e aveva altri due figli, non aveva l'impressione di star cercando di ricatturare ciò che aveva avuto un tempo e che aveva perduto per sempre: ma aveva di nuovo una speranza, un futuro. Non sapeva come si collocasse tutto ciò nella svolta compiuta l'anno precedente; ma c'era una specie di legame viscerale. Un anno addietro, per la prima volta in vita sua, si era trovato ad assumere la difesa in un processo per omicidio perché si era convinto che l'imputato fosse innocente. Durante il processo s'era trovato con diversi fattori favorevoli: un giudice inesperto gli aveva lasciato molto spazio, un rappresentante dell'accusa troppo ambizioso si era ostinato a sostenere una tesi che non era inattaccabile. E Hardy, furioso contro la burocrazia della procura distrettuale, ce l'aveva messa tutta. Aveva vinto per tutte queste ragioni, oltre al fatto che il delitto era stato commesso da un altro. Adesso, dopo una vita in cui si era schierato dalla parte dell'accusa, si ritrovava per la seconda volta a fare il difensore. "Non devi scusarti," disse Moses McGuire. "Sei diventato un'anima sensibile. Va bene così. Sei ancora della famiglia." Hardy diede un'occhiata all'orologio. "Dove sarà Frannie?" "Starà arrivando e ti eviterà di dover difendere la tua posizione insostenibile contro qualcuno più sveglio di te." "Che cos'è insostenibile?" "Il compito della difesa." Moses alzò l'indice. "Uh uh uh... Anche tu ti sei detto la stessa cosa." Hardy si sorprese a dire che non era sicuro che Jennifer fosse colpevole. Moses sbuffò. "Cito di nuovo una fonte attendibile che proprio ora mi siede davanti: 'Se li arrestano, sono stati loro'." John T. Lescroart
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Hardy sorrise. "Ma questo l'ho detto quando ero giovane e inesperto." "E adesso sei maturo?" "Certo. Ho sposato tua sorella, ho messo su famiglia, mi sono sistemato. Sono un cittadino modello, e a volte viene arrestato qualcuno che non è colpevole." "È capitato spesso?" Hardy rifletté. "Due volte, credo." Moses si allontanò e cominciò a chiacchierare a turno con gli otto clienti. Il mercoledì sera il bar si animava solo dopo le nove, quando cominciavano i tornei di freccette. Anche se pochi anni prima Hardy avrebbe detto di essere dalla parte sbagliata, non aveva più quella sensazione. Avrebbe potuto dire a Moses quello che aveva visto accadere in un dipartimento di polizia con troppo lavoro e poco personale, in una procura distrettuale affamata di verdetti di colpevolezza. Si commettevano errori, subentravano la venalità, la pigrizia, l'incompetenza... non molto spesso ma abbastanza. Equilibrio del potere. L'uomo contro la macchina, e la burocrazia dell'accusa era una macchina. Abe Glitsky gli aveva rimproverato il desiderio di ristabilire di continuo l'ordine in un cosmo caotico: bene, non era certo di voler arrivare a tanto, ma forse in quel giudizio c'era qualcosa di vero. Hardy e Frannie erano a tavola in un minuscolo ristorante, Hiro's, in Judah Street. Frannie beveva tè e mangiava tempura, evitando sashimi e saké perché allattava ancora, ma il piatto di uova di quaglia e anitra davanti a Hardy era quasi vuoto. Frannie non aveva bisogno di una luce fioca per essere attraente, ma le ombre della candela la rendevano più aggraziata. Hardy non riusciva a staccare gli occhi da lei, che gli teneva la mano e parlava della giornata di Vinnie e del vocabolario di Rebecca, in continuo arricchimento. "E poi, oltre a 'unghia', senti questa: oggi ha detto 'gravità'." "E in che contesto ha usato la parola?" Beck, ossia Rebecca, aveva quattordici mesi e non aveva mai dimostrato molto interesse per la fisica. "La sua tazza è caduta dal tavolo e lei si è agitata, così le ho detto che non era niente, era soltanto la gravità. Allora ha smesso di piangere e ha ripetuto 'gravità'. Poi, naturalmente, ha voluto ripetere l'esperimento altre duecento volte." "È naturale. Non si può lasciar perdere un simile concetto. Pensa se John T. Lescroart
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l'avesse fatto Newton." "Non ne abbiamo discusso. Ho messo via la tazza." Passarono a un altro argomento. "Com'è stata la tua giornata? Lavorerai con David?" Con l'accompagnamento della tintinnante musica in sottofondo, Hardy parlò del suo coinvolgimento nel caso di Jennifer Witt, la libertà su cauzione negata, tutto... o quasi tutto. Non accennò al dubbio tormentoso che la nuova cliente non fosse ciò che sembrava. Ma le parlò del conto in banca di Jennifer. "Quindi i soldi per pagarci li ha." E cercò di spiegare come la sua cliente aveva racimolato la somma. Frannie, che stava bevendo il tè, si fermò. "Vuoi dire che l'ha... rubata? Ha rubato la somma che le servirà per pagarvi?" "No, non l'ha rubata, per la precisione. Aveva le sue ragioni. Questo non significa che sia disonesta. E, comunque, sarà almeno un anno di lavoro. Mi sarà utile per abituarmi. E se David la farà assolvere, e riesce spesso a far assolvere i suoi clienti, sarà conveniente anche per me." "E se non ci riuscisse?" "Be', se non ci riuscisse, allora sarebbe compito mio evitarle la camera a gas." Hardy spiegò che Freeman si sarebbe occupato della prima fase, quella che arrivava fino al verdetto; poi, se avesse perduto, ci sarebbe stata una specie di secondo processo per decidere la pena: l'ergastolo senza possibilità di libertà condizionata o la condanna a morte. Frannie scosse la testa, incredula. "Mi prendi in giro? Secondo te è conveniente? Per me è un inferno." "Non arriveremo a quel punto. Non preoccuparti." "Possiamo metterlo per iscritto? Dismas Hardy dice che non si arriverà a quel punto. Vorrei averne una copia." "Te la farò preparare dalla mia segretaria. Senti, Frannie, David è il miglior avvocato difensore della città. E mi butta un osso, ecco tutto. Un osso molto polposo." "E se è stata lei?" Hardy scosse la testa. "Non ha ucciso il figlio." "Qualcuno deve pensare che l'ha fatto. E non è vero che l'imputazione reggerebbe anche se l'avesse ucciso per errore?" Lui fu costretto ad annuire. "E ci sono forti indizi che abbia ucciso il marito." "Be', un rinvio a giudizio da parte di un Gran Giurì non significa..." John T. Lescroart
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Frannie l'interruppe. "E il primo marito?" Hardy agitò una mano con noncuranza. "È soltanto il gioco della procura distrettuale. Un caso che hanno riesumato, letteralmente. Non avevano formulato accuse allora, e non potranno provarlo dopo dieci anni." "Le ultime parole famose," commentò Frannie. "Ma... e se le cose non andassero secondo le tue previsioni? O, peggio ancora, se si scoprisse che è stata davvero lei a uccidere i due mariti e il figlio?" A Hardy quelle domande non piacevano, soprattutto perché le aveva già rivolte a se stesso. Le commedie di Jennifer, la sua intelligenza, la sua capacità di tramare non erano trascurabili. Naturalmente, non voleva chiedere clemenza per chi non la meritava. E nell'eventualità che Jennifer fosse colpevole, non la meritava, né ora né in seguito. Ma aveva trovato almeno una soluzione che sperava potesse funzionare nella fase della decisione della pena. "Se ha ucciso il marito, potrò sostenere che lui la picchiava." "Davvero?" "Credo di sì. Anche se lei lo nega, più o meno." "Be', questo è incoraggiante." "Ehi, è divertente." "Perché è divertente la mia compagnia." Erano a bordo della nuova Honda Accord e percorrevano Haight Street alle dieci di sera. Hardy prese la mano di Frannie, che si svincolò gentilmente. "Ho quasi finito," disse lui per scusarsi. Avevano deciso di tornare da Hiro's allo Shamrock per stare un po' con Moses. Frannie non vedeva il fratello da una settimana. Ma prima... David Freeman non amava servirsi degli investigatori privati: preferiva fare le ricerche da sé. E dato che il processo in corso gli portava via molto tempo, aveva chiesto a Hardy di controllare certi particolari sul conto di Jennifer Witt. Quindi, prima di tornare allo Shamrock, Hardy aveva proposto di passare dalla casa dove avevano vissuto Jennifer, Larry e Matt, per farsene un'idea. Aveva ancora in macchina la copia del fascicolo; cercarono l'indirizzo di Twin Peaks e impiegarono quasi venti minuti per trovare Olympia Way. Poi, dato che erano di strada, Hardy disse che tanto valeva misurare la distanza dalla casa alla banca dove Jennifer aveva ritirato una somma con il tesserino del Bancomat. John T. Lescroart
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Purtroppo c'erano quattro banche nel vecchio quartiere hippy rivitalizzato, e tutte avevano il Bancomat. Hardy annotava i chilometri e Frannie diceva che quegli ultimi tre quarti d'ora erano stati divertenti. La banca dell'Haight più vicina alla casa dei Witt era a poco più di un chilometro e mezzo. La più lontana, ai margini del Golden Gate Park, era a più di tre chilometri. Hardy non sapeva se quei dati si sarebbero rivelati importanti, ma averli lo faceva sentire più tranquillo. Gli piaceva agire in base al principio generale che i fatti costituivano una differenza, anche se non sempre si sapeva quale differenza fosse. "Bene. Adesso che lo sappiamo," esclamò Frannie quando il marito ebbe finito di scrivere i numeri, "stanotte potrò dormire."
8 Per Hardy lo spuntar del giorno fu, appunto, lo spuntar del giorno. Il telefono accanto al letto suonò alle cinque e quaranta, quando una sottile linea rosea cominciava ad apparire oltre la finestra. Rispose al primo squillo. "Sono Walter Terrell. L'ho svegliata? Mi scusi. Abe Glitsky mi ha detto di chiamarla. Che cosa posso fare per lei?" Hardy era pronto a scommettere che Terrell non fosse affatto sorpreso di averlo svegliato. Comunque, poteva essere la sua unica occasione. Si alzò e portò in cucina il telefono. "Pensavo che potremmo vederci e parlare un po' di Jennifer Witt." Ci fu silenzio. Forse Glitsky non aveva spiegato esattamente a Terrell chi era Hardy. Ma una cosa era certa: Terrell sapeva che Hardy non faceva parte della procura. "È lei che la difende?" chiese. "La difenderò nella fase di una eventuale condanna." "Sì, ho visto che chiederanno la pena capitale. Vi siete presi una bella gatta da pelare." "Be', l'imputata ha una difesa decente, ma non vuole servirsene. Voglio dire, sembra che il marito la picchiasse." Evidentemente la risposta non cambiò il punto di vista di Terrell. "E allora?" "Lo sapeva?" John T. Lescroart
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Hardy ebbe la sensazione che il suo interlocutore scrollasse le spalle. "Ci sono tanti che picchiano la moglie ma non muoiono ammazzati." 'Volevo dire..." Hardy prese la tazza del caffè riscaldato dal forno a microonde e aggiunse lo zucchero. 'Volevo dire che se adottasse la linea di difesa della moglie maltrattata avrebbe maggiori probabilità di cavarsela, e invece la mia cliente non vuol saperne." Terrell tacque. Per lui, quelli erano cavilli legali. Il suo compito era consegnare qualcuno alla procura distrettuale se c'erano indizi che avesse commesso un reato. Quello che poi faceva la procura non lo riguardava. Finalmente chiese: "Quindi perché voleva vedermi? Immagino che abbia letto il fascicolo." "Sì." "È un documento ufficiale. Parla di maltrattamenti?" "Parla di litigi." Hardy si sentiva allo sbando e cercava di far funzionare il cervello. "Be', ecco. C'è altro? Stamattina ho molto da fare." "Ha scoperto qualcosa sul sicario?" La voce di Terrell grondava disprezzo. "Giusto, il sicario. Ce n'è una folla, in giro. No, non ne ho parlato per la stessa ragione per cui non ho parlato del motoscafo." "Quale motoscafo?" "Quello che non c'era, come il sicario. Ci sono tante cose che non ho messo nel rapporto... gli alieni, per esempio. Se lo legge, vedrà che del sicario si parla nella dichiarazione della Witt. Diavolo, doveva inventare qualcosa per sostenere che il colpevole è un altro. Che cosa doveva dire?" "È così assurdo che non può..." "Sì, è assurdo, certo, ma questo non significa che lei non l'abbia inventato. I colpevoli inventano sempre bugie stupide." "Ma la signora Witt non sembra stupida, vero?" "No," ammise Terrell. "Non credo che lo sia. Ma, vede, abbiamo mandato i nostri a bussare a molte porte e nessuno aveva visto niente tranne il furgone della Federai Express alle nove e mezzo; e c'è il vicino che ha visto Jennifer dopo gli spari. I due spari." "E l'autista della Federai Express?" "Questo c'è nel fascicolo. Crede che un sicario si sia fatto assumere come autista per coprirsi?" "No, io..." John T. Lescroart
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"Be', ho controllato anche lui. È con la Federai Express da un paio d'anni." "No, io mi chiedevo se aveva visto la signora Witt in casa quando ha fatto la consegna. Che cosa doveva recapitare, a proposito?" "Era il lunedì dopo Natale, che cosa immagina che fosse? Probabilmente un regalo in ritardo. Lo chieda a lui. Ha visto la signora Witt? Non lo so. La ricevuta l'aveva firmata il marito." Hardy avrebbe voluto continuare ma temeva che Terrell riattaccasse dopo sei secondi. Un investigatore della omicidi oberato di lavoro e un avvocato difensore non formavano un abbinamento naturale. Ma Hardy ricordava che Glitsky gli aveva parlato della passione di Terrell per le teorie, e quella poteva essere l'unica occasione per indurlo a comportarsi con minore ostilità. Non si poteva mai sapere quando un investigatore era in grado di rivelare qualcosa d'importante che altrimenti non si sarebbe mai scoperto. Come aveva osservato Glitsky, certi particolari non finivano mai nei rapporti. "Un'ultima cosa, se non le dispiace. Come mai è risalito fino al primo marito?" "Ecco, forse perché sono un poliziotto. È il mio lavoro." Hardy non poteva lasciarselo sfuggire così. "Senta, Terrell, voglio sapere quello che devo sapere. Ho bisogno di un po' d'aiuto, da poliziotto a poliziotto. Ero nella polizia, prima di diventare avvocato." "Ah, per questo conosce Glitsky?" Hardy ammise che aveva lavorato con Abe Glitsky dopo il Vietnam e prima di studiare legge. "Comunque, il primo marito, quello che fu avvelenato..." "Ned. Già." "Che cos'era questa storia? Voglio dire, come c'è arrivato? Una pistola e il veleno non indicano che il colpevole sia la stessa persona." Nel cielo, la linea rosea era diventata una fascia azzurra sotto le nubi basse. Il sole spuntò sulle colline di Oakland. In cameretta, Vincent stava strillando perché aveva fame, e si sentiva la voce di Frannie. Hardy si distrasse per un momento. "...L'assicurazione in tutti e due i casi. Ho pensato che valesse la pena di dare un'altra occhiata a Ned. E ci ho azzeccato." "E pensa che fosse stata Jennifer?" "C'è un collegamento. Ned fu assassinato. Poi è toccato a Larry e al John T. Lescroart
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bambino. Ha ammazzato anche il figlio. Merda, merita la condanna a morte." Rebecca entrò nella cucina in camicia da notte, si aggrappò alla gamba di Hardy e fece sapere quel che voleva per colazione: sciroppo, succo d'arancia, salsa di mele, sciroppo, frittelle, sciroppo e poi ancora sciroppo. "Mi scusi," disse Hardy al microfono. "C'è un'invasione. Ma mi piacerebbe riparlarne." Terrell rispose che avrebbero potuto vedersi. Quando riattaccò, Hardy chiese alla figlia se voleva lo sciroppo con le frittelle e lei rispose di sì, lo sciroppo era il suo preferito. Era tutto nel fascicolo. Terrell aveva interrogato personalmente l'autista della Federai Express due giorni dopo l'uccisione di Larry Witt. Frederico Rivera era ispanico, aveva ventisei anni e aveva consegnato il pacco a casa Witt alle nove e mezzo del mattino di lunedì 28 dicembre. Sapeva che erano le nove e mezzo per diverse ragioni. Innanzi tutto Larry Witt aveva firmato la ricevuta, aveva guardato l'orologio e annotato anche lui l'ora accanto a quella segnata da Fred. Quindi c'erano due conferme che la consegna era stata fatta a quell'ora. E poi, Fred aveva ascoltato il programma "Holiday Madness" sulla KFWB, dove ti premiavano con un viaggio alle Hawaii se eri il nono ascoltatore che chiamava dopo che avevano trasmesso il Vecchio Successo del giorno, e questo andava sempre in onda alle dieci e mezzo in punto. Fred lo ricordava perché il DJ aveva detto che mancava esattamente un'ora, quindi dovevano essere le nove e mezzo quando era risalito sul furgone, e aveva calcolato un percorso che gli permettesse di trovarsi vicino a un telefono pubblico al momento opportuno. Hardy, seduto al tavolo della sala da pranzo con il rapporto che aveva fotocopiato il giorno prima nell'ufficio di Freeman, continuò a esaminarlo e scoprì che le azioni di Fred e di Larry non erano state necessarie per identificare l'ora esatta: la Federai Express si serve di furgoni computerizzati, e dopo ogni fermata l'autista registra la consegna. Terrell aveva controllato, e l'annotazione era stata fatta alle nove e trentuno esatte; quindi Fred aveva avuto a disposizione un minuto per concludere con Larry e tornare al furgone. Fred Rivera non aveva visto Jennifer nella casa alle nove e mezzo; ma così preso dal Vecchio Successo, pensava Hardy, difficilmente avrebbe John T. Lescroart
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badato a lei anche se fosse comparsa nuda alle spalle di Larry. O forse l'avrebbe notata solo in quel caso. Harry si domandava dove si trovasse Matt in quel momento. Fred Rivera non aveva visto nessuno. E non aveva incontrato un individuo sospetto per la strada... ma naturalmente aveva avuto altro per la testa. La signora Florence Barbieto aveva chiamato la polizia alle nove e quaranta, "un paio di minuti" dopo che aveva sentito gli spari. Le case di Olympia Way, anche se erano grandi, erano molto vicine l'una all'altra. Non distavano più di cinque metri. Aveva sentito gli spari, aveva guardato dalla finestra la casa accanto, ci aveva pensato un po', quindi era andata a suonare il campanello dei Witt. Non aveva avuto risposta e perciò era rincasata e aveva telefonato alla polizia. Hardy aveva l'impressione che si fosse trattato di cinque minuti, non di un paio. Quindi, i colpi erano stati sparati alle nove e trentotto, oppure circa tre minuti prima. Era possibile che quel piccolo particolare comportasse una differenza? Forse no. I fatti incominciavano ad accumularsi a poco a poco. E anche le possibili interpretazioni.
9 Jennifer scoprì molto presto che lei e le altre non erano molto diverse. Non se l'era aspettato. Non erano dure e spaventose come le erano sembrate quando l'avevano portata lì. Erano depresse, ingabbiate, quasi tutte docili. Come lei. Certo, non era un circolo di uncinetto. C'era una volgarità incessante, ma le sembrava quasi un conforto, un riconoscimento di sentimenti comuni. Era il loro linguaggio nel loro mondo, e al diavolo chi non lo approvava. Sembrava che a nessuna importasse se era stata lei a uccidere il marito o no. Ma quando sentivano parlare del bambino... be', questo le colpiva. Se ne accorgeva e non poteva dar loro torto. Ma tutto continuava a sembrarle irreale. La sera prima, dopo che il vecchio avvocato assetato di soldi se n'era andato con il collega un po' più simpatico, aveva pianto per ore sulla branda della sua cella. Alle tre del pomeriggio rinchiudevano tutte nelle John T. Lescroart
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celle e facevano la conta per essere sicuri che non mancasse qualcuno. Ci mettevano quasi un'ora, e poi portavano da mangiare. Jennifer aveva creduto di non avere più lacrime. Senza pensarci, aveva preso il vassoio e le posate di plastica e aveva seguito le altre nella grande sala comune. S'era seduta a uno dei tavoli sotto il televisore. Non era riuscita a mangiare niente... c'erano il polpettone, il sugo, il purè di patate, i piselli, tre fette di pane. Larry avrebbe scagliato il piatto contro il muro. Aveva ricominciato a piangere. "È meglio che mangi, tesoro. C'è di peggio," aveva detto una negra alta, quasi maestosa. "È la prima volta?" Jennifer non aveva capito di che cosa stesse parlando. La prima volta che mangiava il polpettone? La prima volta che piangeva? Scosse la testa. "Non lo so, non lo so..." La donna, Clara, non insistette. Le sedette vicina, anzi chiese addirittura il permesso e cominciò a mangiare, poi spiegò che l'avevano arrestata ancora una volta per furto. "E tu?" Jennifer piantò la forchetta nella carne e se la portò alla bocca. Non sentì alcun sapore. "Credono che abbia ucciso mio marito." Clara annuì. Non sembrava impressionata. "Probabilmente lui se lo meritava, giusto? Ti picchiava?" "Non ho detto questo. Era un brav'uomo, un medico, e non l'ho ucciso io." "Naturalmente. Non preoccuparti. Di' che ti picchiava e vedrai. Te la caverai senza problemi. Non è il caso di piangere." Jennifer non voleva dirlo, ma lo disse: "Mi manca mio figlio". Clara posò la forchetta. "Lo so. Anch'io sento la mancanza del mio bambino... Rodney ha appena due anni, ma è bellissimo. Non mi daranno più di un anno, così farò cinque mesi e venti giorni; e intanto Rodney starà con mia sorella Else. Vuol bene a Rodney. A volte lui mi pesa, e così questa sarà una specie di vacanza. Per tutti e due. Forse è la volontà di Dio." Jennifer scosse di nuovo la testa. "Il mio bambino è morto." Sentì che Clara smetteva di mangiare e le metteva una mano sulla spalla. "Oh, poverina." "Credono che abbia ucciso anche lui. È pazzesco... Dicono che è entrato mentre Larry e io lottavamo per impadronirci della pistola o qualcosa del genere. È così assurdo... e non vogliono concedermi la libertà su John T. Lescroart
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cauzione." Clara ritirò la mano. "Non avevo mai sentito che la rifiutassero. Sei sicura? C'è stata l'udienza? Già, per forza. Oh, tesoro, mi dispiace tanto. Quanti anni aveva il tuo bambino?" "Matt aveva sette anni. Mi hanno detto che chiederanno la pena di morte." "Per te? Be', sei fortunata." La rivelazione sembrava far coraggio a Clara. Jennifer la fissò senza capire e l'altra spiegò: "Non hai la pelle del colore giusto, per questo. Non mandano mai una bianca nella camera a gas". A colazione c'erano Clara e l'altra nuova arrivata bianca, Rhea (furto aggravato). E Mercedes, omicidio, e Rosie, aggressione, e Jennifer. Al sesto piano tutti, uomini e donne, erano in attesa di processo, oppure erano stati riconosciuti colpevoli e aspettavano di venire trasferiti nel carcere di stato o in qualche altro istituto di pena. Mercedes doveva essere processata di lì a un paio di settimane ed era stata arrestata da quattro mesi. Aveva pugnalato il marito che la tradiva. Rosie, che aveva picchiato l'amico con un matterello, non aveva i duemila dollari per la cauzione. Il processo ci sarebbe stato fra sei giorni e lei era sicura che nessuna giuria l'avrebbe riconosciuta colpevole. Rhea aveva all'incirca l'età di Jennifer, più o meno la stessa statura, la stessa figura e lo stesso colore di capelli, ma la sua bellezza era sfiorita. Raccontò che il marito le faceva da ruffiano e che avevano avuto un colpo di fortuna (o di sfortuna) quando un tale aveva perso il portafoglio contenente quasi mille dollari. "E così mi hanno incriminata per furto aggravato." "Quelli cercano sempre di fregarti," commentò Clara. "Quant'è la tua cauzione?" chiese Jennifer. Aveva pensato spesso alla cauzione, ultimamente. Siccome aveva trecentomila dollari, se avesse potuto uscire pagando un terzo di quella somma, avrebbe ritirato gli altri duecentomila e sarebbe sparita per sempre. Perché doveva darli a David Freeman? Non le pareva giusto. "Cinquemila," rispose Rhea. "Quindi a Jimmy ci vorrà un paio di giorni per metterla insieme. È tutto a posto. Ne abbiamo parlato." "Vuoi dire che tuo marito porterà cinquemila dollari e tu tornerai a casa stasera o domani?" John T. Lescroart
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"Per lei, invece, niente cauzione." Clara aveva quella notizia sensazionale sul conto di Jennifer e smaniava di riferirla. Rhea non le badò. Si rivolse a Jennifer. "Niente cauzione? È proprio vero? Non vuoi uscire da qui?" "Amen," disse Mercedes. "Tutti vogliono uscire." "Tranne me." Rosie, che per poco non aveva ucciso l'amico, era la più giovane, un'ispanica minuscola dalla faccia dolce. "Resterò qui finché me lo permetteranno." "Perché?" Rosie girò su Jennifer due brillanti occhi neri. "Voglio stare dove non prendo le botte." "Amen," disse Mercedes. "Amen, amen." "Se esco di qui," continuò Rosie, "domani qualcuno mi picchierà. E la prossima volta che mi picchierà credo che l'ammazzerò, quel bastardo. Qui sono al sicuro. Nessuno mi pesta e io non posso pestarlo. Credo che starò qui per un po'." Una delle agenti di custodia che portava sul petto una targhetta con il nome "Jessup" veniva verso di loro. Smisero di parlare. L'agente si avvicinò. "Vi state divertendo, signore? Direi proprio di sì. "Batté sul tavolo lo sfollagente e strinse le labbra. "Finite di mangiare." Jennifer sentì che chiamavano il suo nome attraverso l'altoparlante. Freeman non si era seduto, e neppure Hardy. Jennifer li guardò con aria di sfida. Freeman, che senza dubbio s'era trovato in quella situazione chissà quante altre volte, parlò in tono sbrigativo. "In media un processo per omicidio viene a costare tra il mezzo milione e un milione per spese legali; quindi, sì, direi che il suo acconto verrà speso tutto." "E poi?" "E poi che cosa, Jennifer?" "Che succederà quando sarà stato speso tutto?" "Allora andremo in tribunale e ci faremo pagare dallo stato." "Non dovrebbero assegnarmi un difensore d'ufficio, in quel casso?" Freeman annuì. "Sì, ma non lo faranno. Non vogliono che subentri un nuovo collegio di difesa e che impieghi un anno per mettersi in marcia. A quel punto noi conosceremo il caso come le nostre tasche e la corte terrà in considerazione questo fatto." "E se non... se non parlassimo del mio conto segreto?" Freeman scosse la testa. "Jennifer, senza il suo conto segreto non ci sono fondi, e in questo caso la corte nominerà il difensore d'ufficio che vorrà, e lei ha già detto John T. Lescroart
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che non vuole saperne. Vede, purtroppo non capisco qual è il problema. È in gioco la sua vita, Jennifer, e lei parla di denaro che non potrà mai spendere se non avrà la difesa migliore e, per essere sincero, forse anche se l'avrà." Hardy si rendeva conto che Freeman si sentiva in dovere di chiarire le idee a Jennifer, ma la reazione di lei faceva pensare che fosse andato troppo in là. Jennifer aveva abbassato la testa con quel suo fare intimorito e batteva le palpebre per frenare le lacrime. Freeman sembrava imperturbabile; ma si fermò davanti a lei e parlò in tono più gentile. "Mi guardi. Alzi la testa. Bene, ora ascolti. Faremo del nostro meglio per tirarla fuori dei guai. Dopotutto è la mia specialità, si può dire. E appena l'avranno riconosciuta innocente incasserà un'assicurazione di cinque milioni di dollari. Ma se non la riconosceranno innocente... be', non vedrà un soldo del suo denaro, dell'assicurazione e del conto segreto. E potrebbe rischiare una condanna a morte. Quindi, decida lei." Jennifer deglutì e fissò il tavolo. "Signor Freeman," mormorò, "non è vero che, se la scelgo come difensore, non mi resterà abbastanza per la cauzione?" Un minuto prima Jennifer Witt era sconvolta, o almeno lo sembrava. Adesso aveva gli occhi limpidi e teneva la testa alta. Lo notò anche Freeman. Quella donna non era una sciocca. "Bene," le disse. "Bene." "Bene... che cosa?" Freeman ignorò la domanda diretta. "Se riusciremo a ottenere la libertà su cauzione, che è già stata negata. Lei pensa di pagare centomila dollari al garante e di scappare, non è così?" Jennifer sostenne il suo sguardo in silenzio. "Crede che la sua casa valga un milione di dollari? Le ricordo che ieri la pensava diversamente. I trecentomila dollari del conto segreto non bastano. E non speri nell'assicurazione. Avrà bisogno almeno di un milione che si possa rendere facilmente liquido. E non conta chi la difende, non conta quanto lo paga. Insistere nel chiedere la libertà su cauzione è inutile. Anche se la ottenesse, non potrebbe pagarla." "Quindi dovrò star qui sino alla fine del processo." Freeman annuì. "Sì, purtroppo." Jennifer si raddrizzò, incrociò le mani sul tavolo. Dopo un minuto, John T. Lescroart
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sorprendentemente, cominciò a sorridere. Era il primo sorriso che Hardy vedeva sulle sue labbra, ed era incantevole. "Devo pensarci ancora un po'." Hardy fece per intervenire, ma Freeman alzò la mano per trattenerlo. "Benissimo, Jennifer. Dobbiamo ritirarci come suoi avvocati?" "No! Non è questo che voglio. Non posso avere un po' di tempo per pensare con calma a ciò che mi conviene fare?" "Jennifer, è necessario un acconto. La corte vorrà sapere se ha un difensore. Se non sarò io, come le ho già detto, nomineranno qualcuno, ma fino a quando non avrà dato fondo ai suoi conti personali dovrà pagare anche quello." "Potrei pagare venticinquemila dollari subito e il resto entro lunedì se decidessi di andare avanti...?" "Altrimenti? Non intende andare avanti? Vuole dichiararsi colpevole? Se il procuratore distrettuale sarà disposto a un patteggiamento, e ne dubito, con ogni probabilità le toccherà l'ergastolo senza possibilità di ottenere la libertà vigilata." Anche adesso Hardy non riusciva a capirla. Aveva gli occhi vivi, luminosi. Era spaventata e fingeva di non esserlo? O...... "Non so." Hardy si sentì in dovere di spiegare. "Jennifer, in questo caso dovrebbe dichiarare di aver commesso i reati di cui è imputata in cambio di una pena meno grave. Se ne rende conto?" Jennifer annuì. "Ma ci ha detto e ripetuto che non è stata lei. Quindi, che cosa sceglie?" "Non ha alcuna importanza," intervenne Freeman. "Ormai..." Ma Hardy ne aveva abbastanza del "professionismo" di Freeman. Cominciava a lasciarsi coinvolgere dai fatti, dalla convinzione, o dal dubbio, delle proprie motivazioni e dalla storia personale di Jennifer. Batté la mano sul tavolo e alzò la voce. "Accidenti, David, per me è importante!" Si rivolse alla cliente. "Che cosa decide, Jennifer? Ma poi non cambi idea." Jennifer chinò la testa, poi rialzò gli occhi. "Forse non penso di poter vincere. Non sarebbe una buona ragione per dichiararmi colpevole?" Freeman disse "sì", e nello stesso istante Hardy rispose: "No, se non è stata lei". "Be', non sono stata io." Hardy si raddrizzò. "Allora d'accordo." Come se avessero deciso già da tempo, Freeman aprì la borsa e prese un John T. Lescroart
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foglio. "Bene, Jennifer, possiamo incominciare."
10 Hardy era da Lou il Greco; stava finendo il caffè al posto del pranzo perché aveva rinunciato alla speranza che quanto aveva ordinato diventasse commestibile. La moglie di Lou era cinese e cucinava benissimo, ma il piatto speciale del giorno erano i dolmas in agrodolce, e proprio non andavano. In quasi due ore di discussioni con lui e Freeman, Jennifer era rimasta irremovibile riguardo al fatto di proclamare la propria innocenza. Non avrebbero dichiarato che si riconosceva colpevole neppure se avessero potuto. In un certo senso era un bene: se non altro, eliminava le ambiguità. Jennifer aveva addossato ai suoi avvocati la classica difesa passiva... a ogni passo, dimostrare la debolezza degli argomenti dell'accusa. L'onere della prova ricadeva sul procuratore e Freeman avrebbe sostenuto che non avevano provato nulla. Punto e basta. Ma, naturalmente, le cose non erano tanto semplici. Come Hardy e Freeman avevano cercato di far capire a Jennifer, gli elementi in mano all'accusa non erano trascurabili: la pistola, il presumibile movente, i testimoni oculari. Avevano spiegato che non si trattava di una vendetta politica. Nessuno aveva deciso di proposito d'incastrare Jennifer Witt... Gli indizi avevano convinto il Gran Giurì a rinviarla a giudizio, e potevano convincere una giuria a riconoscerla colpevole. Le accuse relative alla morte del primo marito, Ned, peggioravano la situazione. Gli indizi erano molto più vecchi, ma il fatto della coincidenza, per non parlare della presenza di cospicue polizze assicurative in entrambi i casi, sarebbe stato difficile da smontare. Comunque la posizione di Jennifer offriva a Freeman una strategia e a Hardy un orientamento preciso. Data la richiesta della cliente, c'era una sola rotta tradizionale da percorrere: trovare le lacune, se non nei fatti, almeno nelle argomentazioni che li interpretavano. La nebbia s'era dileguata ma, per evitare che San Francisco si crogiolasse nel tepore del sole, era arrivato il vento dall'oceano. Hardy, sulla scalinata del palazzo di giustizia, lo sentiva ululare nella struttura che un giorno sarebbe diventata il carcere nuovo, dall'altra parte. Abe Glitsky aprì la porta e uscì, guardò la polvere e i pezzi di carta che John T. Lescroart
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volteggiavano e disse: "Ho un ufficio comodo a trenta metri da qui. Ricordi?" "C'è Powell." Glitsky annuì. "È vero. Lavora in questo palazzo. E tu no? Che cosa stiamo facendo qui, Diz?" "Partecipiamo a un incontro segreto, Abe. Te la senti di fare una corsa con me?" Glitsky teneva le mani affondate nelle tasche della giacca a vento. Sporse le labbra e la cicatrice che gli attraversava le labbra divenne bianca. "Siamo a metà della settimana e a metà giornata: sicuro, posso filarmela. Nessuno si accorgerà della mia mancanza. Tanto, non stavo facendo niente." "Abe, ho bisogno che tu mi impedisca di commettere un reato grave; perché, se lo commettessi e venissi scoperto... Ecco, è un momento critico per la mia vita e per la mia carriera. Se commettessi questo reato e venissi scoperto, verrei radiato dall'ordine, probabilmente Frannie divorzierebbe, e i bambini dovrebbero vivere sapendo che il loro padre è un criminale. Basta parlarne perché la mia vita scorra davanti ai miei occhi... Vieni, ci vorrà meno di un'ora." "Perché faccio queste cose?" chiese Glitsky. "Credo che provi un profondo bisogno di dimostrare a te stesso ciò che vali. Certe volte mi preoccupi. Uno della tua età..." "Ho la stessa età tua." "Lo so, ma io sono più giovane. E ho un aspetto migliore. È strano, ma vero." Glitsky si morse l'interno della guancia. "Molto spiacevole." Erano nell'atrio della Bank of America all'angolo di Haight e Cole. Hardy aveva consegnato la procura di Jennifer alla vicepresidente, una giovane nera che secondo il cartello sulla scrivania si chiamava Isabel Reed. La donna aveva controllato i prelievi del Bancomat effettuati la mattina del 28 dicembre e aveva spiegato che su quel conto c'era stato un prelievo alle nove e quarantatré. Poi aveva aggiunto, dal momento che si stava parlando di orari, che lei avrebbe smontato alle sedici e trenta; quindi, se avessero avuto bisogno di qualche altra informazione... "Grazie," disse Hardy. "Ma, ora, se non le dispiace... Abraham, non pensi che dovremmo valutare queste informazioni?" John T. Lescroart
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Come aveva detto a Glitsky mentre venivano lì, era appunto per questo che l'aveva pregato di accompagnarlo. Il distintivo di Glitsky dava loro accesso non soltanto al conto di Jennifer ma all'intero sistema automatizzato. Mentre un impiegato controllava le ricevute del Bancomat, Hardy chiamò POPCORN, il numero fornito dalla Pacific Bell che la polizia utilizzava per l'"ora ufficiale" delle telefonate d'emergenza al 911, e lo comparò con l'orologio computerizzato della banca. Scoprirono una differenza di tre minuti: erano le due e undici per la banca, e le due e quattordici per la Pac Bell. "È importante?" chiese Isabel Reed a Abe. "Potrebbe essere decisivo," ammise Glitsky, "nel nostro caso. Comunque, dovrebbe farlo revisionare. La registrazione non serve a molto se non è esatta." Mentre tornavano verso il centro, Glitsky si decise a chiedere: "Mi arrendo. Quale reato ho evitato con questa abile ricerca poliziesca?" Hardy rispose, imperturbabile: "Secondo il piano B, dovevo travestirmi da ninja, penetrare nella banca di notte e procedere al controllo. Non credo che avrebbe funzionato". Glitsky scosse la testa e non fece commenti. Hardy cominciò a fare calcoli. Quando la signora Barbieto aveva chiamato il 911 alle nove e quaranta, secondo la banca erano le nove e trentasette. Se Jennifer era uscita di casa due minuti prima della telefonata, avrebbe dovuto percorrere due chilometri e settecento metri per accedere al Bancomat alle nove e quarantacinque, cinque minuti più tardi. Non era possibile che l'avesse fatto. Se, invece, come pensava Hardy, erano passati più di cinque minuti fra gli spari e la telefonata della signora Barbieto al 911, Jennifer avrebbe potuto farcela, ad andatura sostenuta. Senza sapere il perché, Glitsky aveva avuto ragione. L'informazione sul Bancomat poteva risultare importante, addirittura decisiva. Dovette salire di nuovo nel carcere perché, anche se Jennifer gli aveva dato l'autorizzazione a entrare in casa sua, aveva dimenticato di ritirare la chiave che lo sceriffo custodiva con il resto degli effetti personali. Hardy aveva bisogno della firma di Jennifer perché lo sceriffo gliela consegnasse. "Il signor Hardy, vero?" Hardy strinse la mano che gli veniva tesa. La stretta era sorprendentemente debole per un uomo così imponente. Ken Lightner, lo John T. Lescroart
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psichiatra di Jennifer, stava accanto all'ascensore quando la porta si era aperta. "Sono venuto a trovare Jennifer. Dobbiamo farla uscire al più presto. Non è un posto per lei... È qui per parlarle, vero?" Hardy spiegò la questione della chiave. Non aveva simpatia per quell'uomo, ma doveva essere educato. "Per la verità," disse Lightner, "stavo per telefonarle." "Se riguarda Jennifer deve parlare con David Freeman. È lui, il suo avvocato." "Ecco..." Lightner s'interruppe per un attimo. "Mi pare che Jennifer stimi di più lei." Hardy alzò le spalle. Che cosa doveva rispondere? "Voglio dire, anche lei la difende, no?" "Sinceramente, devo dirle che se voi due pensate che, come avvocato difensore, io valga David Freeman, vi sbagliate. David è un po' tagliente, sì, ma è il suo stile. È difficile che venga sconfitto... e per Jennifer è questo che conta." "E se invece Jennifer si sentisse più a suo agio con lei?" Sebbene non ci fosse molto spazio nell'ascensore, Hardy si scostò. "Io lavoro con David e per David. Non sono tanto coinvolto nella difesa di Jennifer in questo caso, e ho le idee un po' confuse sul suo ruolo. È stata Jennifer a chiederle di parlare con me?" "Non direttamente. Non vorrei offenderla, signor Hardy, ma a me sta a cuore Jennifer. È smarrita, sconvolta, straziata... molto infelice." "È in carcere, dottore." Lightner girò la testa di scatto, spazientito. "Non mi riferivo alla sua situazione attuale. Mi ascolti. Non può stare qui. Non credo che sopravvivrebbe un anno. E il signor Freeman le ha detto che può scordare la libertà su cauzione. Perché? È forse nell'interesse di Jennifer?" Anche Hardy stava perdendo la pazienza. "Si tratta di essere realisti, dottore. Le darei lo stesso consiglio se fossi a capo del collegio di difesa. Purtroppo Jennifer non otterrà la libertà su cauzione." "Se rimane in carcere, non è improbabile che si uccida." "Sta parlando alla persona sbagliata. Dovrebbe rivolgersi al giudice... o alla legislatura. E poi, penso che esageri un po'. Senza dubbio la vita in carcere è dura, ma non ho notato segnali di depressione suicida, questa mattina; ho parlato con Jennifer per due ore." John T. Lescroart
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"Li riconoscerebbe se li vedesse?" Hardy sapeva che lo psichiatra aveva ragione, ma gli dava sui nervi. "Credo di sì. Ora, se vuole scusarmi..." "No. Per favore, mi ascolti." Hardy attese. "Mi permetta. Forse siamo partiti con il piede sbagliato, ma qualcuno deve capire quel che sta succedendo veramente," disse Lightner. "E lei lo sa?" "Lo so. Ho avuto in cura Jennifer per quattro anni. Ho dovuto prescriverle gli antidepressivi durante le crisi. È clinicamente depressa." "Allora, dottore, se è depressa da quattro anni, la causa non è il carcere." Lightner gli toccò il braccio e respirò profondamente, come se stesse per prendere una decisione importante. "Supponiamo che io le dica che potrebbe essere stata lei. Non vuole sapere il perché? È di questo che si tratta." "Ha ammesso di averlo notato anche lei... Un momento è lucidissima, quasi scherzosa, e un attimo dopo è una vittima sperduta. Non ha appetito, è soggetta a sbalzi d'umore, dalla letargia all'iperattività. Gli incubi le rovinano il sonno. Sono tutti segni classici di depressione clinica." Hardy era andato con Lightner a ritirare l'autorizzazione, ed erano scesi insieme al secondo piano, il piano della procura. Hardy, che un tempo aveva lavorato lì, conosceva qualche spazio tranquillo, e condusse lo psichiatra nella saletta degli stenografi, vicino agli ascensori. A Hardy interessava la diagnosi di Lightner sul conto di Jennifer. "Questo, comunque, non significa che abbia ucciso qualcuno." Lightner sedette su uno dei tavoli accanto alla finestra. "È vero, ma glielo dico subito... Temo che abbia ucciso il marito." "Ne è sicuro? Gliel'ha detto lei?" "No. Ma lo so." "E il bambino?" "Non so come sia successo. Potrebbe essere stato un errore. Forse ha creduto che fosse Larry." "Un bambino di sette anni? Suo figlio?" "Ho detto che non so come sia successo. Può darsi che il bambino si sia messo in mezzo, sia partito un colpo, non so." A Hardy non piaceva ammetterlo; anzi, aveva evitato quella conclusione John T. Lescroart
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ogni volta che era affiorata, ma Lightner forse non aveva torto. Ogni giorno c'era gente che veniva uccisa per errore da un'arma da fuoco. "Ma lei lo nega," disse. "Comunque, per amor di discussione, come fa a saperlo? Perché?" Finalmente una domanda diretta. Lightner si assestò sul tavolo. La luce del sole filtrava attraverso il pulviscolo, investiva la sua faccia e metteva in risalto i toni rossi della barba. Lo psichiatra sospirò e strinse i pugni. "La risposta più semplice è questa: ha ucciso Larry per impedire che continuasse a picchiarla. " "Jennifer sostiene che non la picchiava. Sostiene che litigavano come succede a tutti ma..." "Naturalmente dice così. Ma non è vero." "Non è vero," ripeté Hardy. "Come posso sapere che non è vero?" Alzò una mano. "No, non sto ricominciando. Le chiedo se ha qualche prova. L'ammissione di Jennifer, o qualunque altra cosa. Presumo che mi stia dicendo questo per darle una giustificazione che potrebbe scagionarla, se è stata lei." Lightner annuì. "Sì, ma qui siamo su un terreno insicuro. Me ne rendo conto. Be', sono convinto di poterle dire parte di quello che so, cose che potrebbe venire a sapere da altre fonti. Purtroppo non posso dirle come lo so." Passò un momento prima che Hardy dicesse: "Il segreto professionale". Eccola, l'espressione che era una spada a doppio taglio. Lightner chinò leggermente la testa. "Anche senza il mio contributo, dovrebbe esserci qualche documentazione in proposito. Jennifer non l'ha mai detto, ma credo che debba aver cambiato medico. Lo sa, hanno l'obbligo di denunciare certe cose." E aveva ragione. Quando una persona, per esempio una donna o un bambino, andava da un medico perché presentava ustioni, contusioni, abrasioni, lividi, e raccontava di essere caduta dalla bicicletta o dalle scale o di aver sbattuto contro una porta... se la cosa appariva sospetta il medico era tenuto per legge a segnalarlo alla polizia. C'era motivo per sospettare che fosse un caso di maltrattamenti. "Ma lei sapeva che il marito picchiava Jennifer. Perché non ha denunciato il fatto?" Lightner aveva un'espressione avvilita. "Noi siamo esenti dall'obbligo. Jennifer rifiutava di permettermi di farlo. Era una mia paziente; ero il suo John T. Lescroart
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psichiatra. Ne aveva il diritto." "E quindi cambiava i medici perché non si insospettissero e non presentassero denuncia. C'è altro?" "Forse i vicini lo sapevano. Quante volte hanno traslocato? A volte, questo è un indizio." Hardy ribatté che poteva andare tutto bene, ma che Jennifer era la fonte più attendibile e negava di essere stata maltrattata. "Vorrà ammettere," disse, "che per noi questo costituisce un problema." "Sì, me ne rendo conto." "E allora?" "Pensavo che fosse giusto farglielo sapere. Come ha detto, dovrà essere la sua difesa. Jennifer ha ucciso per questo." Hardy appoggiò i gomiti sul piano della scrivania. "Dottor Lightner, devo ricordarle che Jennifer nega i maltrattamenti e nega di aver ucciso qualcuno. Ne abbiamo discusso questa mattina e non vuol saperne della linea difensiva della moglie maltrattata... né con Freeman, né con me, né con altri. E questo ci porta a un interrogativo... Perché non vuole ammettere che il marito la picchiava? Come ha detto lei stesso, con una linea difensiva del genere, di questi tempi le assoluzioni diventano sempre più numerose. Ci sono molti precedenti. L'abbiamo spiegato a Jennifer. E allora perché, dato che avrebbe buone probabilità di salvarle la vita, la rifiuta?" "Perché si sente in imbarazzo." Per un attimo Hardy pensò di aver capito male. "Come ha detto?" "È imbarazzata. Non vuol far sapere a nessuno che si lasciava maltrattare." "Perché non aveva piantato il marito?" "Esattamente." Lightner si tese verso Hardy. "Ma non capisce? Il problema è questo! Non possono andarsene. Lo so che le sembreranno fandonie da specialista, ma in certe culture è socialmente accettabile più che in altre sopportare questo tipo di maltrattamenti domestici, però non lo è per i bianchi della classe elevata nella nostra cultura. Bene, adesso anche Jennifer appartiene alla classe elevata. Ce l'ha fatta e non intende tornare indietro." "E se venisse giudicata colpevole? Che cosa ci guadagnerebbe?" "Avrebbe comunque salvato la propria immagine." "E vuol farmi credere che è più importante della sua vita?" John T. Lescroart
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"Non credo che Jennifer ci abbia mai pensato." Hardy si rendeva conto che Lightner poteva avere ragione. Si alzò. "Quindi Jennifer non ammetterà mai che il marito la picchiava, perché si sentirebbe imbarazzata." "Appunto. Forse imbarazzata è una parola troppo debole. Mortificata è più calzante, per il fatto che venisse picchiata quasi ritualmente e, cosa incredibile forse anche per lei stessa, continuasse a restare e a subire." Lightner scese dal tavolo. "Non vorrei offenderla, dottore, ma non sono le solite chiacchiere degli psichiatri? Voglio dire, su quante delle sue conclusioni posso contare, presumendo che io scopra qualche fatto a sostegno di quanto ha detto?" Lightner non sembrava offeso. Annuì. Forse la riteneva una domanda intelligente. "Su tutte, direi."
11 Nel crepuscolo, la casa dei Witt era imponente. La sera prima, quando erano passati di là Hardy e Frannie, avevano notato un senso di solidità in Olympia Way, una zona silenziosa, quasi spettrale. I lampioni gettavano raggi di luce tra il fogliame primaverile degli alberi che fiancheggiavano la strada, e le siepi erano ben curate. Di giorno, l'atmosfera di un'enclave riparata e protetta era ancora più forte. Hardy scese dalla macchina e si fermò a guardare la casa di Jennifer. Verso ovest scintillava il Pacifico, e a nord la Sutro Tower tendeva al cielo le braccia arrugginite. Le case erano maestose, degne di persone che potevano non accorgersi della mancanza di trecentomila dollari, se questi sparivano abbastanza lentamente. La siepe dei Witt era meno alta di molte altre, anche se era altrettanto ben tenuta. Davanti c'era una staccionata bianca. Il cancello era chiuso, ma la siepe svoltava ad angolo retto, e seguiva su entrambi i lati il vialetto di mattoni fino alla porta. Hardy rammentò che fino a due giorni prima Jennifer aveva vissuto lì, ignara del fatto che il Gran Giurì stava decidendo se c'erano indizi sufficienti per incriminarla per omicidio. Era un pensiero sconvolgente. Ma fu ancora più sconvolgente quando girò la chiave. Il cane di un vicino cominciò ad abbaiare, e Hardy attese che il padrone uscisse per vedere che cos'era successo. Invece, niente. Il cane continuò ad abbaiare. John T. Lescroart
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Hardy avrebbe potuto essere un ladro armato d'un maglio anziché un avvocato, e nessuno si sarebbe interessato alla sua visita. Eppure quell'isolato aveva prodotto due testimoni oculari per l'ora del delitto. Terrell, pensò Hardy, doveva essere molto persuasivo quando interrogava qualcuno. Dopo un altro minuto il cane smise di abbaiare. La casa era bianca. L'atrio era di marmo italiano bianco striato di rosa. Poltrone e divani erano bianchi e moderni, i tavoli e le rastrelliere per i piatti erano di ferro battuto nero. La moquette era color champagne. A una parete, Hardy riconobbe uno dei Mapplethorpe che avevano causato sensazione e una riproduzione della Madre che mangia il figlio di Goya. Notò un paio di altre stampe e originali che, personalmente, non avrebbe mai messo nel soggiorno di una casa dove c'era un bambino. Prese un appunto sul blocco: David Freeman doveva evitare che i media entrassero lì dentro. Doveva presumere che quelle opere rispecchiassero i gusti di Larry, non di Jennifer. Al piano terreno tutto era asettico e immacolato. La cucina, con le piastrelle a scacchi bianchi e neri e gli elettrodomestici bianchi e neri, aveva l'aria di non essere mai stata usata. Le pentole e i tegami di rame brillavano, appesi sopra i fornelli. Il silenzio era opprimente, e Hardy si sorprese a camminare in punta di piedi. La sala da pranzo con il tavolo e le sedie laccati di nero. Una biblioteca con una quantità di testi di medicina: non c'erano romanzi, ma molti libri di storia e biografie. C'era un salottino con un camino, un divanetto e un portariviste senza riviste. Una stanza da letto per gli ospiti. Hardy scostò la trapunta: non c'erano lenzuola. Si fermò ai piedi della scala. Jennifer aveva abitato lì? Non c'erano segni di vita. Prese un appunto per chiedere se aveva alloggiato altrove, durante gli ultimi mesi. E dove? Al piano di sopra non cambiava nulla. A sinistra c'era quella che doveva essere stata la camera di Matt, con il letto rifatto, i giocattoli allineati in ordine. Il sole che scendeva la inondava di una luce arancio, accanto c'era un bagno con tanti cavallucci marini stampigliati sul muro: finora, era l'unico segno di comfort in quella casa. La camera matrimoniale fu una sorpresa. C'era ancora il nastro giallo della polizia, dimenticato sul tappeto. Hardy lo scavalcò e raggiunse il centro della stanza. John T. Lescroart
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Dopo che i tecnici avevano effettuato i rilevamenti e gli addetti alle pulizie avevano rimesso in ordine, Jennifer non doveva più avervi messo piede. C'erano lenzuola e coperte piegate sul materasso, asciugamani nell'armadietto accanto alla porta del bagno, e mucchietti di polvere negli angoli. Hardy non sapeva se aspettarsi di vedere le macchie di sangue; era ormai buio, e accese il lampadario. La lampadina si fulminò immediatamente. C'erano le lampade sui comodini: in fretta, premette l'interruttore. Così andava meglio. Girò intorno al letto e accese anche la seconda. Si chinò, esaminò il tappeto bianco, passò la mano su quella che poteva essere stata una macchia. Si rialzò. Accese la luce del bagno comunicante e alzò la testa. Anche lì non doveva essere entrato nessuno da quando l'avevano pulito. Spense le lampade sui comodini, si fermò sulla soglia per lanciare un'ultima occhiata alla stanza semibuia dove erano stati commessi gli omicidi. In fondo al corridoio c'era un'altra porta, l'ultima a sinistra. La luce rivelò uno studio molto impersonale con uno scaffale a vetri, schedari, una libreria piena di riviste mediche. Al centro c'era una scrivania nera, molto ordinata, con un sottomano nuovo di pelle verde. Hardy sedette. Evidentemente nessuno era più entrato neanche lì. Lo strato di polvere sul piano della scrivania era spesso. Hardy si chiese se la polizia avesse fatto l'inventario, e ricordò che forse non era stato necessario. L'inventario lo aveva fornito Jennifer, e purtroppo aveva "dimenticato" che la pistola era scomparsa. (E naturalmente, se non era mai tornata nella camera matrimoniale, forse aveva pensato che non fosse sparita. Poteva essere un fattore decisivo. Avrebbe dovuto chiederglielo, si disse Hardy, e prese un altro appunto.) Il sole era scomparso quasi completamente. Hardy cercò di immaginare che cosa aveva significato vivere lì. Il controllo e la disciplina onnipresenti creavano un ambiente che poteva causare parossismi e convulsioni. Non c'era spazio per un qualunque sfogo. Quando le emozioni, lì dentro, erano troppo compresse, anziché scaricarsi esplodevano. Aveva finito di scrivere gli appunti sul blocco che aveva appoggiato sul sottomano; e si accorse che, mentre guardava l'oceano, aveva stiracchiato il sottomano con la sinistra. Nell'angolo superiore, sotto il triangolo di pelle, spuntava un pezzo di carta. Lo prese. Era un foglietto rigato, strappato da un blocco tascabile a spirale, un po' John T. Lescroart
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sfrangiato. Non sembrava in carattere con Larry Witt: anzi, probabilmente il medico l'avrebbe giudicato intollerabile e avrebbe tagliato le irregolarità del bordo con le forbicine del coltello multilame svizzero. Sul foglio c'erano una data, "23 dicembre", e un'unica parola, "No!!!" con tre punti esclamativi, sottolineata e circondata da un cerchio. E sotto c'era un numero telefonico con il prefisso 213... Los Angeles. Hardy compose il numero. "Studio legale." Naturalmente, pensò. Si presentò e chiese di parlare con il capufficio. Sebbene mancassero dieci minuti alle sei, non ci furono esitazioni. La receptionist disse che gli avrebbe passato subito la signora Klein. La signora Klein doveva aver passato una giornata tremenda, oppure era un tipo scostante. "Mi scusi," disse. "Il messaggio non era molto chiaro. Lei chi è?" Hardy spiegò di nuovo che rappresentava una cliente di San Francisco e aveva trovato in casa sua un documento con quel numero telefonico. Che studio legale era? "Crane & Crane. E la sua cliente è?" "Jennifer Witt." La signora Klein rifletté. "Il nome non mi dice niente." "E quello di Larry Witt? Era il marito. Forse lo conosce uno degli avvocati? Potrei..." La voce si spezzò. "No, non può!" Un altro silenzio, così lungo che Hardy pensò che avesse riattaccato. "Signora Klein?" "Oh, mi scusi, la prego. Ma sono molto sconvolta. La scorsa settimana... Non dovrei neppure dirlo..." "È successo qualcosa?" "Sì, signor Hardy." "Mi dispiace," disse lui. Nei grandi studi legali dovevano esserci tensioni fortissime. "Richiamerò più tardi." "No, è inutile. Voglio dire..." La signora Klein singhiozzò. "Mi scusi, non troverà comunque il signor Simpson. È... era il socio dirigente. È morto. È stato ucciso." Hardy l'ascoltò, ipnotizzato. Il signor Simpson era Simpson Crane, socio dirigente dello studio Crane & Crane. Una settimana prima lui e la moglie erano stati assassinati nella loro casa di Pacific Palisades. Era un avvocato John T. Lescroart
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specializzato nelle vertenze sindacali e stava negoziando certi contratti. A quanto si sospettava, i sindacati avevano pagato qualcuno che lo uccidesse, ma la polizia non aveva molti indizi. Il figlio di Simpson, Todd, per il momento dirigeva lo studio ma, come Hardy poteva immaginare, erano momenti difficili. Quando Hardy riattaccò, fuori era buio. Mise nel portafoglio il pezzo di carta. Lasciò accesa la luce dello studio, scese la scala e finalmente uscì con un senso di sollievo. "Gesù," mormorò. Rhea, la donna che somigliava a Jennifer Witt, aveva urlato e inveito così a lungo al telefono contro il suo Jimmy che quando l'agente di custodia le aveva portato via l'apparecchio, si era limitata a scuotere la testa ed era tornata nella cella in silenzio. Jennifer, sdraiata sulla branda nella cella accanto, si sollevò su un gomito. "Che cos'è successo?" "Che stronzo!" Rhea stava ritrovando il suo vocabolario. "Quel fottuto di Jimmy dice che devo aspettare ancora qualche giorno, forse una settimana. Una settimana! Merda! Se lo fa perché sbatte qualcun'altra lo ammazzo, quel figlio di troia." "Che cosa ti ha detto?" Jennifer sollevò le ginocchia, cercando una posizione più comoda sul materasso macchiato onde evitare i crampi. "Della cauzione?" "Stronzo!" Rhea prese il bicchiere di plastica che conteneva le posate di plastica, la lametta del rasoio usa-e-getta e lo spazzolino e lo scagliò contro le sbarre. "Rhea, basta! Ti prego!" Rhea smise di imprecare. Si accasciò sul pavimento e cominciò a piangere in silenzio. Dopo un paio di minuti Jennifer si alzò dalla branda e si avvicinò al lato della cella che confinava con quella di Rhea. "Non ha trovato i soldi per la cauzione?" Rhea scosse la testa. "Aveva detto che ci voleva un paio di giorni al massimo. Adesso dice che senza di me guadagna troppo poco e ci vuole più tempo. Ci pensi?" E riprese a piangere. "Quanto ti occorre?" chiese Jennifer. Il pianto s'interruppe. "Che cosa?" John T. Lescroart
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"Quanto è la tua cauzione? Cinquemila dollari?" Rhea annuì. "Perché?" Jennifer sedette sul pavimento e si cinse le ginocchia con le braccia. Aveva già imparato molte cose, da Clara e da Mercedes. Se avevi i soldi e il pelo sullo stomaco e se eri abbastanza disperata, potevi corrompere le guardie e ottenere certi favori. Era già successo molte volte. "Non sono sicura," disse Jennifer, "ma forse posso aiutarlo a trovarli." Parlò sottovoce, guardandosi intorno per scoprire se qualcun altro la sentiva. Voleva essere in grado di negare di aver parlato. Ma Rhea ascoltava, incredula. "Naturalmente tu dovrai aiutarmi, se puoi."
12 A metà strada fra Von Ness e la spiaggia, la Miz Carter's Mudhouse era da mezzo secolo uno dei locali più noti di California Street. Il caffè alla turca che vi veniva servito era abbastanza forte da svegliare la gente come una scossa elettrica. E Hardy ne aveva bisogno. Quella notte lui e Frannie erano stati svegliati sei volte dai loro tesorucci. Rebecca aveva un'infezione a un orecchio e un po' di febbre, Vincent aveva fame. La descrizione che Glitsky aveva fatto di Walter Terrell, bianco, capelli bruni, baffi, non era del tutto esatta. Aveva la carnagione scura, mediterranea. Hardy aveva posato sul tavolino la borsa per farsi riconoscere, e Terrell venne a sedersi di fronte a lui. Era più giovane di quanto avesse immaginato Hardy, sui trentadue anni. A quarantuno, Hardy non si sentiva vecchio; ma era sconcertante che molti con cui aveva a che fare fossero molto più giovani. Terrell portava un paio di Reebok nuove, un paio di Levi's logori e una camicia a righine marrone sotto il giubbotto che gli andava a pennello. Nonostante ciò che Glitsky aveva detto di lui e delle sue teorie, doveva avere ottimi precedenti se era già approdato alla omicidi. Terrell assaggiò il caffè, rabbrividì e aggiunse zucchero in abbondanza. "Che razza di nome è Dismas?" Assaggiò di nuovo il caffè e continuò a mescolare. Hardy spiegò per la millesima volta che Dismas era il nome del buon ladrone crocifisso con Cristo. Non aggiunse che era anche il santo protettore degli assassini. "Credo che i miei genitori volessero punirmi. John T. Lescroart
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Quando penso che avrebbero potuto chiamarmi Bill o Jack..." Terrell sorrise. Tentò di nuovo di bere il caffè e posò il cucchiaino. "Fa schifo." Poi indicò la borsa di Hardy. "Ha controllato Ned?" Hardy annuì. Aveva esaminato il rapporto del coroner sull'esumazione di Edward (Ned) Hollis la sera precedente. Il sorriso e i modi noncuranti non lo convincevano. Terrell sapeva il fatto suo, e non si sarebbe fatto mettere nel sacco da un avvocato difensore, anche se era amico di Abe Glitsky. Ma Hardy si limitò ad annuire. "Sto cercando di farmi un'idea di Ned. Jenny non parla molto di lui. Hanno trovato l'atropina?" Terrell indicò la borsa. "Non dice così?" "Sì, ma con questo?" Era la prima volta che Hardy riusciva a sorprendere Terrell. "Come sarebbe a dire?" "Hanno trovato una concentrazione di atropina nella coscia destra. Significa che era stata iniettata?" "Sì." "D'accordo, ammettiamolo. Ma chi dice che a iniettarla fosse stata Jennifer?" "Non se l'era iniettata da solo. L'atropina non fa l'effetto d'uno stupefacente." "E con questo? Forse cercava di uccidersi e c'è riuscito. Quello che vorrei sapere è se c'è qualcosa che mi è sfuggito, perché non capisco come mai venga imputato come omicidio alla mia cliente." Terrell cercava di frenarsi, ma era già rosso in faccia. "È imputato come omicidio perché fu un omicidio. La sua Jennifer lo fece fuori per settantacinquemila dollari." "Non dico che non l'abbia fatto, ma mi chiedo quali prove... quali prove ha che sia stata Jennifer a fare l'iniezione a Ned? Come fa a sapere se era presente?" "Era presente. L'aveva imbottito di alcol e cocaina sino a fargli perdere i sensi; poi gli aveva iniettato l'atropina. Il coroner aveva accertato la presenza di una combinazione letale cocaina-etilene e non aveva cercato altro." Terrell batté l'indice sul tavolino. "È andata così, signor Hardy. Ci può scommettere." Il fatto che tornasse a chiamarlo "signor Hardy" non era un buon segno, e Hardy non voleva alienarselo. "Non dico di no. Il procuratore distrettuale John T. Lescroart
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l'ha incluso nell'atto di accusa. Però mi sembra che dovrebbero avere in mano qualcosa di più." Terrell si rabbonì un po': teneva troppo a dimostrare che non aveva commesso sbagli. "C'era dell'altro. E l'ho trovato. Ho scoperto Harlan Poole, no?" "L'amante dentista? Com'è arrivato a lui?" "Ho visto il suo nome in un paio di dichiarazioni di Jennifer nel fascicolo di Ned. E sono andato a parlare con lui. Il fatto è che, quando si lavora nella polizia, certe volte bisogna avere un po' di intuito. Qualcosa che si sa, che si sente. Ci si basa su questo, si torchia un po' qualcuno, e alla fine si ottiene quel che interessa." "E ha torchiato Poole." Era un ricordo che, evidentemente, rallegrava Terrell. "Non c'è voluto molto. È un uomo affermato, sulla quarantina, ha moglie e tre figli. Gli ho detto che, se avesse collaborato e ci avesse riferito quel che sapeva, lo avremmo lasciato fuori della storia. Ha cantato come un canarino." "E che cos'ha detto?" "Ha detto che l'atropina era sparita dal suo studio dopo che Jennifer era andata per una sveltina, una sera. Comunque, non aveva stabilito un nesso fino a che Ned non morì, e allora immaginò che fosse stata Jennifer e si spaventò a morte. Così, dice lui, la scaricò a poco a poco." "Perché pensava che avesse ucciso Ned?" "Sì, perché aveva ucciso Ned." Per guadagnare tempo, Hardy prese la tazza, bevve i fondi di caffè e fece una smorfia. C'era qualcosa che non quadrava. "Mi faccia capire," disse. "Quando Ned morì, Poole concluse che era stata Jennifer a ucciderlo. È esatto?" Terrell annuì. "Ecco, non è un bel salto? Voglio dire, doveva sapere già prima che lei aveva in mente... qualcosa." "Sicuro. Jennifer ne aveva parlato." "Aveva parlato di uccidere Ned?" Hardy scosse la testa. "Se Poole si è spaventato tanto, dopo, perché non l'aveva intuito e non l'aveva piantata prima?" Terrell appoggiò i gomiti sul tavolino. "Credo che non l'avesse previsto. Jennifer non gli aveva esposto un piano vero e proprio. Credo che Poole l'abbia capito dopo." John T. Lescroart
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"Ma perché? Perché ci ha pensato?" "Perché lei aveva parlato di lasciare il marito, aveva detto che sarebbe stato meraviglioso se fosse morto, per via dell'assicurazione." "Parlare di lasciarlo e augurarsi che morisse non significa che poi l'abbia ucciso." "Sì, ma aveva già cercato un paio di volte di lasciarlo... e il marito le era corso dietro e l'aveva riempita di botte." Ecco! "Anche Ned la picchiava? Ci sono le prove?" "Vuol sapere se lo aveva denunciato o qualcosa del genere? Ma non scherziamo!" Era interessante, ma Hardy era quasi sicuro che sarebbe stato inammissibile perché si trattava di informazioni di seconda, anzi di terza, mano... Il dottor Poole diceva che Jennifer gli aveva raccontato che Ned l'aveva picchiata. Dal punto di vista psicologico, però, era una bomba. Se era vero che Jennifer aveva ucciso Ned perché la picchiava e per il denaro dell'assicurazione, chi non sarebbe stato disposto a credere che avesse fatto altrettanto con Larry? La tentazione di confrontare le circostanze delle morti di Larry e di Ned sarebbe stata schiacciante, e Hardy si augurò che Powell e l'accusa si lasciassero irretire dalla simmetria e cercassero di approfondire, perché per entrambi i casi questo avrebbe dato a Jennifer una motivazione giustificabile. Ma non lo disse a Terrell. Gli disse, invece, che aveva fatto un ottimo lavoro. Ormai amici, o almeno avversari amichevoli, attesero il resto al banco e parlarono del più e del meno. Hardy chiese a Terrell se aveva mai notato le coincidenze curiose che sembravano presentarsi ogni volta che si scavava in profondità. "Sì, lo so, è strano. Un paio di mesi fa ero ancora alla squadra furti. Ricevo una chiamata da Mission, ci vado, e, mentre controllo una finestra sfondata, un'altra finestra di fronte si apre e un tizio grida: 'Ciao, Wally!' Alzo gli occhi e vedo uno che giocava nella mia squadra alle medie superiori. Sorprendente. Ma ha ragione, succede spesso." Hardy gli parlò della morte di Simpson Crane a Los Angeles. "Non è strano anche questo? Ero in casa della vittima, avevo trovato un numero telefonico, l'ho chiamato e così ho scoperto che era il numero della vittima di un altro omicidio." John T. Lescroart
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Terrell si fermò accanto alla porta. "Come... come è morto quel Crane?" "Pensano che sia stato un delitto commissionato dai sindacati a un sicario professionista. Come è successo con Larry, secondo Jennifer. Una coincidenza strana, no?" Terrell scosse la testa come per scacciare quel pensiero. "No, Larry non è stato ucciso da un sicario. Non c'è stato alcun sicario. Lo ha ucciso Jennifer." Hardy evitò di sorridere mentre calava l'amo. Offri una teoria a quell'uomo, aveva suggerito Glitsky. "Comunque deve ammettere che è interessante." Terrell alzò le spalle. "Sicuro. Ma, come ho detto, sono coincidenze che capitano." "Ha ragione." Hardy gli aprì la porta e si preparò ad affrontare il freddo. "Ha proprio ragione." Matthew Witt sorrideva, a colori e perfettamente a fuoco. Chi aveva realizzato le foto della scuola aveva fatto un buon lavoro, e aveva catturato la personalità dietro il viso da folletto. Le costrizioni che avevano influito su Matt nella casa asettica non lo avevano sconfitto. C'erano un sorriso spontaneo negli occhi, una vivacità baldanzosa... Forse aveva appena detto qualcosa di spiritoso al fotografo e ne era soddisfatto. Ma non aveva l'aria del furbastro; la sua era una faccia aperta, cordiale. David Freeman era sotto la doccia nel suo appartamento e Hardy s'era stravaccato su una vecchia poltrona di pelle rossa accanto a una delle finestre del soggiorno e cercava di staccare gli occhi da Matt. C'erano molte altre foto nella cartella che teneva sulle ginocchia e ne aveva esaminate diverse prima di arrivare al bambino. Aveva i capelli neri ben pettinati, e portava una T-shirt a righe bianche e verdi. Gli incisivi erano un po' distanti tra loro, e c'era qualche lentiggine sul naso. Ciglia lunghe e un accenno di fossetta. Gli occhi ridenti erano verdi. Hardy guardò la nebbia, al di là della finestra. Non sapeva quanto tempo fosse passato quando una mano gli si posò sulla spalla. "Non possiamo farci niente." Freeman, avvolto in un accappatoio un po' liso, scosse di nuovo la spalla di Hardy. A volte era comprensivo, ma sempre pragmatico. Se non potevi far niente, secondo lui non c'era niente da fare. Hardy non era d'accordo: John T. Lescroart
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forse non produceva risultati tangibili, ma come minimo si poteva provare dolore o rammarico. Scalzo, con la barba lunga, i capelli brizzolati ancora bagnati, Freeman andò a sedersi al tavolo della colazione, dove aveva sparso carte, blocchi per appunti, raccoglitori, scatole piene di registrazioni. Lavorare a un processo e prepararne un altro, presentare appelli... sarebbe diventata così anche la vita di Hardy. Ci pensò dal punto di vista di Frannie e si chiese se non era un errore lasciarsi coinvolgere da David. Poi abbassò gli occhi sulla foto di Matt. Dio... se Jennifer l'aveva ucciso, fosse pure per caso... E se non l'avesse ucciso, se Jennifer avesse detto la verità? Allora era stato qualcun altro, qualcuno che meritava di morire e invece era libero, e lasciava che Jennifer soffrisse le pene dell'inferno e Matt restasse invendicato. Hardy credeva nella vendetta. Era questo che l'aveva spinto a entrare nella polizia e poi a passare alla procura. Ma, e in questo stava acquisendo la mentalità dell'avvocato, adesso credeva che prima della vendetta fosse necessario eliminare ogni ragionevole dubbio. Ed era questo che lo motivava... non vendere l'anima come portavoce della posizione dell'accusa o della difesa, ma scoprire la verità, quale che fosse. Girò la foto di Matt, la posò e ne esaminò un'altra. Freeman abitava all'angolo di Taylor e Pine Street, a un isolato dalla cima di Nob Hill e sopra uno dei più vecchi e famosi ristoranti francesi della città. In quel ristorante aveva la sua cantina dei vini personale e consumava in media dieci pasti al mese. L'appartamento era piuttosto modesto: due camere da letto, soggiorno, cucina abitabile. Nonostante il suo reddito, non faceva molte concessioni alla tecnologia moderna. Aveva ancora un telefono a disco, fissato alla parete della cucina; e quando ascoltava musica classica, l'unica che amasse, usava i trentatré giri che aveva acquistato con lo stereo all'inizio degli anni sessanta. I divani e le poltrone del soggiorno erano di pelle rossa screpolata; i tavolini di legno scuro avevano i piedi a zampa di leone e le lampade avevano il paralume. Il processo in corso era stato rinviato al lunedì seguente perché l'avvocato dell'accusa aveva il mal di denti. E Freeman aveva lasciato un John T. Lescroart
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messaggio in Sutter Street per chiedere a Hardy di andare da lui a discutere diverse questioni che riguardavano Jennifer Witt. Le foto del luogo del delitto erano nel fascicolo, e Hardy sapeva che c'era chi le osservava prima di cominciare a leggere. Lui no. C'erano ventisette foto della stanza dove erano stati commessi i delitti, anche se molte mostravano lo stesso particolare da un'angolazione diversa. Come al solito, erano foto efficienti. E c'erano anche otto foto di Larry e otto di Matt, che mostravano i cadaveri sul tavolo dell'autopsia e le ferite. Hardy e Freeman, separatamente, le avevano esaminate a una a una, in silenzio. Quando finirono, allinearono dodici foto della scena del delitto per esaminarle insieme. Padre e figlio erano stati uccisi ognuno con un colpo di P.38 automatica. I proiettili, come i cinque trovati più tardi nel caricatore, avevano la punta cava, un particolare abbastanza comune quando si comprava l'arma per difendere la propria casa. A volte si aveva il tempo di sparare un colpo solo, ed era meglio che facesse più danni possibile. In quanto a questo, i proiettili avevano fatto il loro lavoro. Larry era stato colpito al cuore, e il proiettile, sparato da breve distanza, era fuoriuscito dalla schiena e si era piantato nel muro. La violenza dell'impatto aveva scagliato Larry all'indietro, contro il letto. Da lì era ruzzolato sul pavimento. Era caduto sul fianco destro ed era già morto prima di toccare la moquette, a giudicare dal fatto che le macchie di sangue sotto di lui non presentavano sbavature. Hardy e Freeman non volevano vedere le foto di Matt, che era stato colpito alla testa mentre stava sulla soglia del bagno. La sera prima, a Hardy il bagno era parso asettico, ma nelle foto lo specchio aveva una ragnatela di incrinature e le pareti erano spruzzate di rosso. Misero da parte le foto e passarono al Bancomat, alla discussione che Hardy aveva avuto con Lightner, alla visita alla casa dei Witt, alla coincidenza della morte di Crane e all'opinione di Terrell sull'omicidio di Ned Hollis. Freeman sembrava soddisfatto. Quando Hardy ebbe finito, gli disse: "È meno peggio di quanto sembrasse ieri. Però potrebbe sembrare peggio domani". "Mi fa piacere che tu l'abbia detto. Non vorrai che vada bene per due John T. Lescroart
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giorni consecutivi." Freeman lo ignorò. "Ma avremo il nostro da fare. Ho detto a Phyllis di trasferire il denaro sul nostro conto. L'anticipo. È arrivato." "Pensavi che non arrivasse?" "Per dire la verità, non ero sicuro, come per tante altre cose che riguardano Jennifer." Hardy decise di non insistere. "Pensavo di tornare a parlare con lei questa mattina, per farmi dire qualcosa del lavoro di Larry e della famiglia di lei che non vedevano mai. E voglio saperne di più sugli ultimi due mesi. Sembra che in quella casa non sia vissuto nessuno. Vorrei sapere se è mai entrata nella stanza del delitto, dopo che l'hanno pulita." "Tutto questo non servirà alla sua difesa." Hardy stava riponendo i rapporti nella borsa. Avrebbe fatto ciò che doveva fare e non intendeva discuterne. "Lo so. Ma potrebbe darti qualcosa da sottolineare nel tuo stile istrionico. Per fare in modo che la giuria tenga presente le possibilità." "Quali possibilità?" "Il fatto che qualcun altro possa aver ucciso Larry." Freeman annuì. "Sì, ma non dobbiamo neppure provare che sia stato un altro. Tocca a Powell, provare che è stata Jennifer." "Se non è mai entrata nella camera da letto per fare un inventario, questo elimina una delle affermazioni fondamentali dell'accusa." "Solo se possiamo provarlo. Possiamo asserirlo, ma non si può provare un elemento negativo, e l'asserzione non serve a nulla." "Potrebbe ispirare qualche dubbio. Se i dubbi fossero abbastanza numerosi..." Freeman aveva assunto la sua espressione severa. "Be'," convenne, "manca ancora molto tempo al processo. Tutto ciò che scopriamo può essere utile, in questa fase. In particolare quello che ha detto Terrell. Se Powell ci casca." Hardy chiuse la borsa. "Ha già accusato Jennifer anche di quel delitto e non si tirerà indietro." Freeman non era altrettanto sicuro. "Deve avere in mano qualcos'altro. E mi piacerebbe sapere che cos'è. Deve rendersi conto che non può vincere con quel che ci ha mostrato finora... Comunque, lo scopriremo presto. Intanto diamo un'occhiata a quanto ci hanno dato. E non fraintendermi, la tua idea non è male; a volte l'ho avuta anch'io... la vecchia tesi: 'è stato un John T. Lescroart
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altro'." Hardy si alzò. "Sai, è possibile che Jennifer dica molte cose vere." "Oh, ne sono sicuro." Freeman si grattò il mento. "È molto difficile non dire almeno qualche verità anche se si cerca di simulare." S'interruppe e soggiunse, impassibile: "Ho detto se..."
13 "Dunque Larry lavorava anche in una clinica abortista. E con questo?" Glitsky ascoltava appena. Era in macchina a fianco di Hardy. Stavano andando a casa. "E con questo, quante morti e minacce di morte ci sono state quest'anno, che hanno avuto come vittime quelli che lavorano in cliniche del genere?" Glitsky tenne gli occhi chiusi. "Non lo so. Dimmelo tu." "Certo. Ho controllato nel pomeriggio. Quattro, in città, dopo dicembre." Glitsky riaprì gli occhi. Gli omicidi erano il suo campo, e l'annuncio lo sorprendeva. "Morti?" "Morti e minacce di morte." "Quante morti, Hardy?" "Una." Glitsky richiuse gli occhi. "E con Larry Witt sarebbero due." "Sì, se fosse stato ucciso da un antiabortista e non dalla moglie." La nebbia s'era dispersa, il vento s'era calmato, ed era una bella sera di venerdì, con un tramonto da cartolina. "Non capisci, eh?" "No, se faccio parte di una giuria. Come poliziotto non penso come un giurato, ma che cosa vorresti fare? Non puoi limitarti a dire che il dottor Witt praticava aborti il mercoledì e il sabato." "D'accordo. Allora Tom. Il fratello." Hardy aveva parlato con lui dopo aver visto Jennifer, la mattina. Naturalmente Tom aveva odiato Harry, e non era molto affezionato a Jennifer. Non ricordava dov'era stato la mattina del 28 dicembre... Non lavorava, quindi probabilmente era a casa. Non aveva mai cercato di farsi prestare soldi da Jennifer o da Larry. L'unica informazione che Tom aveva fornito, e che al momento non serviva a Hardy, era che suo padre picchiava abitualmente la madre. Hardy aveva visto Phil DiStefano schiaffeggiare Tom, e scoprire che picchiava John T. Lescroart
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Nancy non era una rivelazione. Tuttavia rafforzava la teoria di Lightner: la cultura della violenza domestica veniva trasmessa da una generazione all'altra. Hardy stava ancora cercando gli "altri" che Freeman avrebbe potuto utilizzare: individui che avevano avuto l'occasione e il movente per uccidere Larry Witt. Tom veniva al terzo posto dopo il "sicario" che aveva ucciso Simpson Crane a Los Angeles, e l'attivista antiaborto. "Che cosa ne pensi di Tom?" insistette. Glitsky si scosse. "Be', chiudiamo la faccenda e parliamo d'altro. Primo, non aveva chiesto prestiti a Jennifer e Larry. Giusto? Giusto. Dov'è il movente? È incensurato e sappiamo che non vedeva Larry da anni. Dovrei credere che una mattina si sia svegliato e abbia detto: 'Ehi, adesso vado ad ammazzare mio cognato'? Secondo, non c'erano le sue impronte né in casa né sull'arma." Hardy socchiuse gli occhi per ripararli dal sole. "Il problema è che così rimane solo la mia cliente." Glitsky commentò in tono sbrigativo: "E forse è stata rinviata a giudizio proprio per questo". Il lunedì precedente Hardy e suo cognato Moses erano andati a pesca di salmoni al largo di Marin Coast. Ne avevano presi due ciascuno. Quella sera, nell'appartamento di Moses, avevano arrostito il primo. Il secondo, un esemplare di sette chili che avrebbero mangiato la sera dopo, l'avevano messo a marinare nella salsa teriyaki. Gli altri due erano stati tagliati a filetti, strofinati con salgemma, zucchero e cognac, avvolti con il pepe e lo zucchero bruno nella stagnola e sistemati nel frigo di Hardy. Avevano deciso di mangiare salmone fino a quando non gli fosse venuta la nausea. Frannie era appoggiata al banco della cucina e beveva club soda in un bicchiere da vino. Pico Morales, curatore dello Steinhart Aquarium e vecchio amico di Hardy, con una mano cingeva la vita della moglie Angela, e con l'altra sceglieva gli antipasti. Moses e la sua ragazza, Susan Weiss, si sbaciucchiavano vicino alla porta di servizio. Hardy entrò con Abe e fece le presentazioni. Andò a baciare la moglie, che girò la faccia quanto bastava per fargli capire il messaggio. Era ancora scontenta. Hardy sapeva perché, e, in un certo senso, la capiva. Quella settimana s'era cacciato in una brusca deviazione dalla sua carriera e ci sarebbe John T. Lescroart
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voluto un po' di tempo prima che tutto si sistemasse. Non poteva dar torto a Frannie, ma d'altra parte era esausto. E poi s'erano accordati per mangiare il salmone prima di doverlo surgelare: Pico e Angela, Moses e Susan, Glitsky e sua moglie Flo. Tolse la stagnola dal contenitore di vetro, tagliò una fetta sottile di salmone e la masticò, beato. In quel momento suonò il campanello. Doveva essere Flo. Moses raccontò a tutti di quando Hardy gli aveva salvato la vita in Vietnam. Hardy, imbarazzato, cercava di schermirsi. "Be', era stato ferito alle gambe e io ero a cinque metri da lui." "E attorno a noi c'era l'inferno." Moses mimava l'esplosione dei proiettili traccianti e delle bombe di mortaio. "E che cosa dovevo fare, lasciarlo lì? Sono andato a prenderlo e l'ho trascinato nella buca. Ci avrò messo non più di dieci secondi." "Non ha detto che anche lui è stato ferito." "Be', non l'ho fatto apposta. E adesso, vent'anni dopo, la spalla fa ancora male." Moses sorrise. "Ma le mie gambe stanno benone." Quando squillò il telefono, Hardy aveva deciso di lasciare che se la sbrigasse la segreteria automatica, ma riconobbe la voce di David Freeman e andò a rispondere. "Mi dispiace rovinarti la cena," esordì Freeman. "Ma non è una bella notizia. Una certa Rhea Thompson era stata arrestata lo stesso giorno di Jennifer. Avevano fissato la cauzione a cinquemila dollari, e oggi se n'è andata con il suo magnaccia." "Bene." "Bene un corno. Rhea è alta circa un metro e sessantadue, pesa sui cinquantacinque chili, ha i capelli biondi e gli occhi azzurri. Ti dice qualcosa? La risposta è sì." Hardy attese. "E allora che cos'è successo?" "È successo che chissà come la foto di Jennifer è finita sul tesserino di arresto di Rhea." Il tesserino di arresto era il documento d'identità preferito al sesto piano. Si guardava la foto, si guardava la persona, e corrispondevano o non corrispondevano. Rhea e Jennifer erano in carcere da due giorni appena, e John T. Lescroart
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molte delle guardie non erano ancora in grado di riconoscerle a prima vista. "Che cosa stai dicendo, David?" "Sto dicendo che la nostra cliente ci ha pagati soltanto fino a lunedì perché non aveva intenzione di restare più a lungo in carcere. Il nostro tesoruccio se l'è filata." "Jennifer è evasa? Dal sesto piano? Stai scherzando." Freeman sospirò. "Magari, figliolo. Magari."
PARTE SECONDA Larry le concedeva tre quarti d'ora per il jogging, ed era un tempo ragionevole. Era un uomo ragionevole, cercava di convincersi Jennifer. Non voleva che le capitasse un incidente... Se fosse caduta mentre correva e non avesse dovuto rientrare entro un certo limite di tempo, poteva finire chissà dove, senza che Larry sapesse niente. Non avrebbe avuto motivo di sospettare che fosse successo qualcosa. Così, invece, se lei tardava poteva andare a cercarla. L'amava. Sì, quello era il motivo di tutte le limitazioni. Portare Matt alla scuola privata, a dodici isolati di distanza, richiedeva mezz'ora, tenendo conto del traffico di certi giorni, anche se così non poteva fermarsi a parlare con le altre madri. Ma non poteva neanche mettersi nei guai chiacchierando troppo come facevano certe donne. I Witt erano quelli che erano nella loro comunità perché nessuno era in grado di parlar male di loro, e Larry non avrebbe permesso che succedesse... In quel modo proteggeva tutti loro. Non solo lei. Per andare a far la spesa... bastava che gli telefonasse prima di uscire e poi appena rientrata, prima ancora di vuotare i sacchetti... Ecco, in questi casi Larry era comprensivo. E lei era brava a fare le spese. Poteva andare da Petrini's in Ocean Avenue, dove avevano di tutto, riempire un carrello e rincasare dopo meno di un'ora. A volte imbrogliava perché in fondo era cattiva e ribelle. Larry sapeva che avrebbe imbrogliato, e le fissava le regole in modo che non avesse tempo e non cadesse in tentazione. Ma lei riusciva ad aggirare le regole, sebbene sapesse che erano per il suo bene. Era fatta così. Larry l'amava nonostante questo, nonostante sapesse chi era veramente. John T. Lescroart
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Non poteva rimproverarlo se ogni tanto perdeva la pazienza. Fosse stata lei al posto suo, una con un carattere così l'avrebbe già ammazzata. A volte avrebbe voluto suicidarsi, ma non sarebbe stato giusto nei confronti di Matt e neppure di Larry. Era come la volta che aveva tentato di scappare portando via Matt. Che cos'era stato quel gesto se non un'invocazione d'aiuto? E Larry l'aveva capito... Lei non ne aveva parlato neppure con Ken Lightner. Chi altro poteva volerle tanto bene da cercarla, lasciare il lavoro per giorni e giorni e seguirla fino a Los Angeles? Non poteva biasimare Larry perché aveva detto che l'avrebbe uccisa, se avesse ritentato. Non poteva lasciarlo. Larry aveva bisogno di lei. L'amava. Non parlava sul serio quando aveva detto che l'avrebbe ammazzata. Anzi, dopo che erano tornati a casa, non l'aveva picchiata per un paio di mesi. Ned, invece, per poco non l'aveva uccisa quando aveva fatto lo stesso con lui. Ma Larry sembrava così felice di riaverla. E aveva ragione anche riguardo ai suoi familiari. Fin dalla prima visita avevano mostrato di non aver simpatia per Larry, e neppure per lei. Erano invidiosi. E lei sapeva di non poter cambiare suo padre e sua madre, e soprattutto Tom. Niente poteva cambiare Tom... Era una carogna. Lei e Larry avevano offerto alla sua famiglia tutte le occasioni del mondo, ma quelli non erano cambiati. Credevano che Larry li odiasse e l'avesse messa contro di loro. Non era vero. Forse lei aveva visto le cose in modo più chiaro dopo che Larry l'aveva aiutata a capire gli insulti impliciti. Erano persone invidiose, come sempre, e non c'era alcuna ragione per incontrarle e agitare le acque. Le faccende del conto in banca e di Ken... il dottor Lightner... Aveva paura. Aveva sempre avuto paura. La gente cambiava o la vita si inacidiva e a volte non ti rendevi conto di quello che stava per succedere, ma lei voleva capire meglio, e così era andata - d'accordo, di nascosto - a consultare Ken. E Ken sapeva di lei molto più di quel che sapeva Larry... Sapeva di Ned, per esempio, e continuava a volerle bene. Era convinta che Ken le volesse bene davvero. Per lui non era solo una paziente. Certo, adesso... E la banca? Non che Larry non le avrebbe dato il denaro se gliel'avesse chiesto. Ma era difficile fargli qualche sorpresa se doveva dirgli perché spendeva. Be', almeno era incominciata così. Il conto in banca. Era facile John T. Lescroart
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chiedere alla cassiera di Petrini's di aggiungere venti dollari in contanti, poi cinquanta, poi duecento. Fare la spesa era compito suo e Larry non controllava le ricevute. Aveva aperto conti a nome della signora Hollis, usando il tesserino della sicurezza sociale del marito morto, e s'era preoccupata di provvedere al pagamento delle tasse. Aveva preso una casella postale; si faceva mandare lì i moduli, e non aveva mai avuto problemi. E poi non si poteva mai sapere. E se Larry avesse perso tutto il denaro? O se un cliente gli avesse fatto causa per danni? Immaginava come sarebbe stato felice quando lei gli avesse detto di aver risparmiato una somma così ingente. L'aveva fatto nell'interesse di tutti e tre. A volte si domandava perché quella volta era scappata. Oltre a lanciare l'invocazione di aiuto, aveva voluto proteggersi la faccia e Larry aveva cominciato a picchiarla appunto in faccia. Per un po' Ken le aveva fatto vedere le cose in modo diverso, l'aveva convinta che Larry non andava bene per lei e che doveva lasciarlo e portar via Matt. La legge californiana, aveva detto, le avrebbe assegnato la custodia del figlio. Ma Ken non sapeva che si sentiva... indegna e inutile, senza Larry. E le botte... Non era colpa di Larry ma colpa sua. Non poteva darsi che se le cercasse perché si comportava male? Oh, le botte erano dolorose, ma le davano anche la sensazione di avere il controllo di qualcosa. Larry le dava tutto questo, no? Come la volta che aveva organizzato la festa per il quinto compleanno di Matt. Larry aveva addirittura permesso che invitasse altri bambini della sua classe; di solito non lo faceva perché i bambini non avevano rispetto per la roba altrui, e diceva che l'unico modo per evitare che la rovinassero era non offrirgli l'occasione. Comunque, l'aveva detto a Ken quando lui aveva chiesto se non temeva che Larry rovinasse la festa arrabbiandosi in presenza dei bambini. Lei aveva risposto: "Non è una situazione fuori controllo. Tu parli sempre di controllo, Ken. Be', qui il controllo ce l'ho io". Era la verità, perché sapeva che Larry aveva cominciato a diventare teso come gli succedeva poco prima di esplodere. Così tre giorni prima, mercoledì, e la festa era per il sabato, aveva preparato la cena in ritardo e Matt non era pronto per andare a letto quando Larry era rincasato. E poi aveva messo la modesta vestaglia comprata al K-mart, quella che lui detestava. E quando John T. Lescroart
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Larry s'era lamentato, gli aveva risposto bruscamente, lo aveva provocato, e lui l'aveva picchiata. Ma, e questo era il fatto positivo, la festa era andata bene, non c'erano state scenate, perché lei aveva "controllato", come diceva Ken, quanto era successo. Quindi, dire che finché restava con Larry non aveva potere... ecco, Ken non lo capiva. Ma sì, le botte diventavano più feroci. Più frequenti. Questo era un bel guaio. Non era facile nasconderlo; adesso aveva lividi sulla faccia, non solo sull'addome e sulle gambe come prima. Le dispiaceva. La faccia era lei. Quand'era piccola si guardava allo specchio per ore, studiava le espressioni che adesso erano diventate la sua seconda natura... i bronci, la fronte corrugata, i rapidi sorrisi. Larry doveva smettere di picchiarla in faccia. Davvero. L'ultima volta era stato quando era scappata e Larry l'aveva trovata. L'avrebbe fatto ancora, su questo non c'erano dubbi. Aveva addirittura minacciato di ucciderla se avesse ritentato. E se fosse andata con un altro uomo... era la stessa cosa, aveva assicurato. L'avrebbe uccisa. L'avrebbe fatto davvero? Forse sì. Era forte e perdeva l'autocontrollo. Poteva succedere qualcosa di brutto. Perciò doveva agire... parlargli, magari, subito dopo. Allora l'ascoltava. Gli avrebbe detto che doveva smettere di picchiarla in faccia. In questo Ken aveva ragione... Lei non aveva il controllo. Qualche volta, adesso, odiava addirittura Larry. L'odiava davvero e lo sapeva, lo ammetteva di fronte a se stessa. E questo le faceva paura. O se Larry avesse finito per prendersela con Matt. Se Matt fosse stato presente quando Larry perdeva la testa. Non avrebbe permesso che Larry picchiasse Matt. Se fosse successo... Qualunque cosa capitasse a lei, in fondo, l'aveva meritato. Altrimenti, perché sarebbe successo? Matt, invece, era diverso. Era un bambino sincero e fiducioso. Non avrebbe mai permesso che Larry gli facesse del male. Ma come poteva evitarlo? Era il problema cruciale: se mai avesse cominciato, come avrebbe potuto fermarlo?
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Sabato 10 luglio Hardy faceva saltellare sulle ginocchia il piccolo Vincent e cantava a voce spiegata. Era a dodici metri da terra, seduto sul parapetto che circondava il tetto della casa dove abitava Moses McGuire. Da un po' di tempo Moses se la prendeva comoda. Quando aveva rinunciato all'idea che Hardy si sarebbe stancato della sua professione per tornare allo Shamrock aveva assunto un barista, Alan Blanchard, per rimpiazzare il cognato, e adesso aveva più tempo libero per occuparsi d'altro... cioè di Susan Weiss. Era il primo pomeriggio, il sole splendeva nel cielo azzurro, da est soffiava una brezza tiepida e Susan era seduta sul parapetto accanto a Hardy. Bruna e intensa, era violoncellista dell'orchestra sinfonica di San Francisco. Portava i capelli pettinati a coda di cavallo e dimostrava l'età di Frannie, anche se aveva otto anni di più. Indossava un top, un paio di calzoncini e i sandali. Moses stava rigirando le costolette sul barbecue assieme alla sorella. Hardy passò il bimbo a Susan che cominciò a fargli le moine. Frannie notò la scena. "Non lasciare che tenga in braccio troppi bambini. Comincia sempre così." Moses commentò: "Susan, mia sorella pensa che tu voglia avere un bambino perché ne tieni uno in braccio". Susan annuì. "Forse ha ragione." Sollevò Vincent, gli fece una smorfietta e fu ricompensata da un sorriso raggiante. "Oh, Dio, non è un bambolotto adorabile?" Si appoggiò con la spalla a Moses. "Non è un amore?" McGuire la cinse con un braccio e finse di scrutare il bimbo, poi scosse la testa. "No, somiglia a Hardy. Mia nipote Rebecca, quella sì che è carina. Somiglia a mia sorella, che a sua volta somiglia a me." Hardy si alzò per approfittare dell'occasione e baciare la moglie, ma Moses li fermò. "Uh, niente lingue in bocca." "Come, niente lingue? Vuoi dire che papà e mamma non le hanno più?" chiese Rebecca, che guardava gli adulti con aria preoccupata. "Lo zio Moses fa lo sciocco," spiegò Hardy. "Cattivo zio Moses." McGuire si accostò. "In molte società, Beck, lo zio è il parente più importante. Tuo padre rischia di causarti un gravissimo danno psichico, se prenderai sul serio le sue stupidaggini." Sorrise alla bambina e le diede un bacio. John T. Lescroart
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"Comunque, il Piccolino è un amore," disse Susan. "Vi dispiace se lo tengo ancora in braccio?" Frannie lanciò un'occhiata al fratello e disse che per lei andava benissimo. In quel momento si sentì un "bip". "Che cosa?" esclamò Moses. "Non ditemi che un mio parente ha addosso un cerca persone!" Hardy l'aveva già preso dalla tasca. "Un altro segreto di famiglia che viene alla luce. E non dire che sono tuo parente. Sei solo mio cognato." "Lascia perdere," interloquì Frannie. "Chiamali lunedì. Stiamo facendo una festa." "È Glitsky. Se mi ha chiamato di sabato, dev'essere importante." "Dismas, lascia stare..." "Un minuto solo." Hardy si avviò alla porta della mansarda. "Devo sentire che cos'è successo." "Addio," disse Frannie. "Torno subito. Prometto." Hardy arrivò per primo, come l'altra volta. Ma anche Freeman stava arrivando. C'era uno strano silenzio, nel reparto femminile del carcere. Si sforzava di restare calmo. All'ingresso l'avevano perquisito. Normalmente, per entrare, bastava che mostrasse il tesserino dell'ordine. Ma quel pomeriggio, per vedere Jennifer, aveva dovuto lasciarsi perquisire, e adesso lo stavano facendo aspettare in quella stanza calda e priva d'aria. Questa volta lei era accompagnata da due guardiane e indossava una tuta rossa, non gialla. Aveva anche le catene ai piedi e le manette fissate a una banda metallica che le cingeva la vita. I capelli erano tagliati in modo rudimentale ed erano lunghi non più di cinque centimetri. Aveva la faccia chiazzata, le labbra screpolate, gli occhi segnati da lividi violacei. Hardy - in jeans e T-shirt - si alzò, e lei gli si buttò addosso per quanto lo consentivano le catene. Singhiozzava. "Che cosa diavolo..." cominciò Hardy. Una delle guardiane la staccò da lui e la fece sedere. "Basta con la commedia, cocca." "Giù le mani dalla mia cliente." La guardiana gli lanciò un'occhiataccia, John T. Lescroart
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la seconda brandì lo sfollagente. "Indietro, tutte e due!" Non erano disposte a lasciarsi intimidire da un avvocato in blue-jeans, ma non conveniva loro neppure tormentare Jennifer in sua presenza. Perciò se ne andarono. Quando la porta si chiuse, Hardy si tese verso Jennifer. "Non sono state loro, vero?" Lei scosse la testa. "Allora chi..." "Laggiù..." mormorò Jennifer a testa bassa. Questa volta aveva paura. Evidentemente le era successo qualcosa. Quando gli aveva telefonato, Glitsky gli aveva dato qualche notizia, aveva detto che Terrell era volato in Costarica e aveva chiesto e ottenuto l'estradizione. "Che cos'è successo?" Jennifer alzò la testa lentamente. Aveva gli occhi colmi di sofferenza e le lacrime le scorrevano sulle guance. "Tutto," disse. "Hanno fatto di tutto." Tornò a casa nelle Avenues alle undici e tre quarti della sera. Si fermò in cucina e aprì il frigo. Sedette a tavola e cominciò a bere la birra. "È stata una festa di fidanzamento." Frannie era ancora in prendisole e stava appoggiata allo stipite della porta. "Non un semplice pranzo. Te la sei persa." "Frannie, non..." "No, certo. Non bisogna disturbare Dismas. Il suo lavoro è più importante delle questioni di famiglia." "Questo non l'ho detto e non lo penso." "Sicuro." "Vuoi che ne parliamo, o preferisci fare la carogna?" "Preferisco fare la carogna." La vita non era semplice come avrebbe voluto credere Frannie. Tendeva a dimenticare che nel mondo c'era qualcosa di più di due bambini e degli amori di Moses. "Stai perdendo il senso della prospettiva," l'accusò Hardy. "Ah, adesso sto perdendo il senso della prospettiva. Questa è buona." "Grazie," la rimbeccò lui. "Ma, sai, per me non è un bel momento. Non ho voglia di litigare. Sto cercando di guadagnare perché tu possa vivere da signora e mi dispiace se a volte devo fare certe cose fuori programma. John T. Lescroart
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Succede, Frannie, e devo occuparmene." "Poverino!" Hardy la fissò. La situazione era degenerata in un litigio stupido. Era meglio battere in ritirata. Prese la birra, bevve un sorso, si alzò e si avviò verso il soggiorno. Frannie non lo seguì. Bene. Prese un cuscino e lo sistemò sul divano dove avrebbe passato la notte.
15 L'11 luglio, il giorno più fortunato dell'anno, Hardy si svegliò in soggiorno con la schiena indolenzita. Guardò l'orologio e vide che non erano ancora le sei. In casa c'era silenzio. Aprì la porta e ritirò il giornale. Tornò in cucina, mise sul fornello la padella di ghisa nera che aveva da quando studiava al college e vi versò mezzo chilo di bacon. Cominciò a preparare il caffè e a sbattere la pastella per le cialde che piacevano a Beck. Il bacon cominciò a sfrigolare. Sedette al tavolo per bere il caffè. Durante gli ultimi quattro mesi, mentre Jennifer era fuggita all'estero, aveva lavorato nell'ufficio affittatogli da David Freeman e non erano certo stati i momenti più belli della sua vita. David e i suoi associati gli avevano passato diversi casi. Qualcuno l'aveva risolto, due sarebbero finiti in tribunale, prima della fine del secolo. Il peggio era la sensazione di girare a vuoto. L'altro problema era che si era qualificato come avvocato d'ufficio, un mese prima Leo Chomorro, che era stato il giudice nel processo contro il suo ex suocero Andy Fowler, lo aveva assegnato come difensore in un caso di omicidio. Aveva studiato il fascicolo e aveva deciso che non intendeva passare sei mesi a cercare di convincere una giuria che Leon Richman non si era trovato a bordo della sua Ford Escort insieme con gli altri due coimputati e non aveva sparato una decina di colpi di doppietta contro Damon Lapierre, convivente dell'ex ragazza di Leon. A parte il fatto che Leon era stato riconosciuto colpevole, in passato, di omicidio preterintenzionale, e un'altra volta era stato assolto dall'accusa di omicidio premeditato, due fucili a canne mozze e una doppietta normale erano stati trovati nel portabagagli dell'Escort. Le cartucce erano sotto il John T. Lescroart
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sedile. E quattro clienti del Woodshack avevano visto, la notte del delitto, Leon e gli altri due imputati lasciare il locale in compagnia della vittima recalcitrante. Insomma, era stato Leon, e Hardy non l'avrebbe aiutato a cavarsela, punto e basta. Chomorro si era irritato. Hardy voleva figurare nell'elenco dei difensori d'ufficio oppure no? Se non voleva, perché stava facendo perdere tempo a tutti? Hardy aveva accennato a un conflitto di programmi, e il brutto momento era passato. Ma ci sarebbe stata un'altra occasione, e sapeva che si sarebbe comportato nello stesso modo. Non era un pensiero consolante. Rebecca apparve accanto a lui. "Ciao, papà, perché ti sei alzato così presto?" Lui abbracciò la figlia adottiva: Rebecca era la figlia di Frannie e del primo marito Eddie Cochran. Eddie era stato ucciso il giorno in cui Frannie aveva scoperto d'essere incinta. Ma, per Hardy, Rebecca era sua figlia. La sollevò sulle ginocchia e lei si fece coccolare per sei secondi prima di cominciare ad agitarsi. Era quasi un primato mondiale. "E tu perché ti sei alzata così presto?" le chiese. "Papà, lo sai che mi alzo presto tutti i giorni. Mamma dorme ancora," mormorò Rebecca, come se fosse una rivelazione confidenziale. "Faremo colazione insieme, tu e io soli. Ti vanno le cialde?" "Con lo sciroppo d'acero?" Hardy le baciò la testolina. "D'accordo. Con lo sciroppo d'acero." Frannie e Hardy erano seduti su un plaid costellato di briciole all'ombra della stanza che avevano aggiunto alla casa quando avevano saputo che stava per arrivare Vincent. Il prato era lungo e stretto, fiancheggiato da palazzine di quattro piani; ma a est, in una giornata limpida, potevano vedere il Ponte della Baia e le colline di East Bay. Rebecca era occupata a costruire qualcosa nel recinto della sabbia, Vincent dormiva nella culla portatile. Non avevano parlato del litigio per tutta la mattina e durante il pranzo con i bambini. Adesso, mentre il pomeriggio declinava, il ricordo pesava su di loro. Alla fine Frannie gli posò una mano sulla gamba. "Pensavo che non fosse giusto nei confronti di Moses." John T. Lescroart
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Hardy le prese la mano con un senso di sollievo. "Ti amo, lo sai." "Lo so." "Io non sapevo di Moses e Susan." "Moses voleva farci una sorpresa. Credo che ci sia rimasto male." "Gli telefonerò per spiegare cos'è successo. Sono un po' meravigliato. Davvero si sposeranno?" Frannie annuì. "In settembre." Gli si avvicinò. "Sono rimasta male anch'io." Hardy respirò profondamente. "Che cosa vuoi che faccia? Sono affezionato ai tuoi, ma certe volte..." "Non ricominciare. È per quel che hai detto stanotte. Non sei obbligato ad accorrere ogni volta che il lavoro ti chiama." "Non l'ho fatto. Almeno negli ultimi quattro mesi. Dal processo contro Andy Fowler." "Ma adesso c'è un altro processo per omicidio." Hardy non intendeva ricominciare. I litigi con Frannie lo facevano star male fisicamente. "I processi per omicidio sono cose serie. Non sono come tante altre cose; non è un semplice lavoro. Dopotutto è in gioco la vita di qualcuno che ho imparato a conoscere; e quando ha bisogno del mio aiuto, che cosa vuoi che faccia? Che cosa pensi che dovrei fare?" Con la mano libera Frannie raccolse altre briciole. "E tu, credi davvero che faccia la vita della signora?" "Sarebbe una risposta alla mia domanda?" "No, è una domanda diversa." "Bene, allora prima risponderò a te. E la risposta è no. Ma pensiamo che i bambini debbano avere vicino un genitore, finché possiamo permettercelo. Se per te va bene. Se ti stanchi, troveremo qualcosa d'altro. Forse starò a casa io." Frannie gli lanciò un'occhiata. "Il fatto è che a volte devo fare le cose quando devo, non quando mi è comodo. Ieri è stata una di queste occasioni. Credi che preferisca andare al carcere di sabato pomeriggio invece che restare a mangiare costolette con te e Moses?" "No." "Infatti. Non lo preferisco." "Ma non abbandonerai il caso di Jennifer Witt. Anche se è evasa. Anche se è colpevole." John T. Lescroart
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"Rischia la pena di morte, Fran. Non la biasimo se è scappata, anche se penso che non sia stata una mossa intelligente. I giurati commettono errori, e se lo facessero in questo caso, sarebbe letale. Lei è confusa, ma è una persona in carne e ossa, non è soltanto un caso." "Forse è questo che mi preoccupa, Dismas. È una persona confusa e ha ucciso due uomini. E suo figlio. Forse ho paura che trovi una ragione per uccidere anche te." Hardy la cinse con un braccio. "I clienti non uccidono i loro avvocati, Fran." Non era una risposta geniale. Appena una settimana prima, un pazzo malcontento dei suoi avvocati era entrato nella sede di uno dei maggiori studi legali di San Francisco a metà del pomeriggio e aveva cominciato a sparare. Frannie alzò gli occhi. "Hai proprio detto che i clienti non uccidono i loro avvocati?" "Almeno non abbastanza spesso perché sia il caso di preoccuparsi." Nel recinto di sabbia Rebecca aveva incominciato a distruggere il castello appena costruito. Tirava calci e si avventava come un kamikaze. In uno degli appartamenti della casa sulla destra qualcuno aveva aperto le finestre e alzato lo stereo. Bonnie Raitt stava dicendo a tutti che aveva trovato l'amore all'ultimo momento. Hardy disse a Frannie che provava esattamente la stessa sensazione.
16 "Perché vorresti accettare una ammissione di colpevolezza proprio adesso?" Freeman lanciò un'occhiata perplessa a Hardy. Dopo l'evasione di Jennifer, tutti e due si erano aspettati che il procuratore distrettuale si accanisse ancora di più contro Jennifer: invece Dean Powell aveva contattato Freeman e aveva fatto capire di essere disposto ad accettare una dichiarazione di colpevolezza: in cambio non avrebbe chiesto la pena di morte. Powell allargò le braccia. "Diavolo, David, sai che siamo sempre disposti a parlare." "La mia cliente dice che non è stata lei." Freeman sfogliava un giornale sportivo e prestava scarsa attenzione. John T. Lescroart
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"Se si impegna a dichiararsi colpevole in cambio di una condanna all'ergastolo senza possibilità di ottenere la libertà vigilata, naturalmente dovrei parlarne con il mio capo, ma la prenderemmo sul serio. Ho sentito dire che in Costarica la vostra cliente è guarita dall'amnesia e adesso vuole affidarsi alla clemenza della corte." "Non credo." Hardy s'era seduto per un momento su una sedia traballante e aveva preferito alzarsi. "Non credo proprio." Powell alzò le spalle. "Io glielo chiederei ancora, per essere sicuro." "Mi pareva che voleste arrivare a un processo," disse Freeman. "Comunque, voterò per te." A conferma delle voci che correvano, Powell aveva annunciato la propria candidatura alla carica di procuratore generale dello stato. E ora sorrise a trentadue denti. Per un momento Hardy pensò che stesse per alzarsi e stringere la mano a tutti e due. "Bene, mi fa molto piacere, David." Lanciò uno sguardo a Hardy che, impassibile, era appoggiato a uno schedario. Freeman girò una pagina del giornale e non alzò gli occhi. "Non vuoi un processo per un reato capitale? A me pare che sarebbe un'ottima pubblicità." "Sì, David, ma per la verità non credo di averne bisogno. E, per essere sincero, preferirei dedicare quel tempo alla campagna elettorale." Hardy non poté fare a meno di notare che aveva detto "per la verità" e "per essere sincero" in due frasi consecutive. Powell mentiva a proposito di qualcosa... Evidentemente non pensava che il verdetto per Jennifer fosse già predestinato. Ma Powell non era il tipo che mostrava gratuitamente le sue carte. Freeman sospirò. "La decisione spetta alla mia cliente." Posò il giornale e guardò negli occhi il viceprocuratore. "Che cosa diavolo le hanno fatto, a proposito, Dean? Dice che laggiù l'hanno violentata in carcere." "Spero che non sia vero, David, ma non avrebbe dovuto evadere. Ha voluto correre il rischio..." "Penso che, per spirito di compassione dopo quello che le è successo, potresti lasciar cadere la richiesta della pena di morte anche senza un'ammissione di colpevolezza." Powell non si mostrò sorpreso. Da un punto di vista strategico, quella di Freeman era una buona mossa: la sua cliente era stata maltrattata, forse stuprata. Powell l'aveva vista e in quel momento gli faceva pietà. Ma John T. Lescroart
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superò il proprio sentimento in un batter d'occhio. "Non provo compassione per quel che ha passato. Se l'è cercato." "Anche lo stupro?" Se Powell avesse affermato una cosa del genere, in qualunque situazione, avrebbe potuto abbandonare ogni speranza di essere eletto. "Non ho detto questo, David, e lo sai." Freeman, naturalmente, lo sapeva. Per l'ennesima volta, Hardy si compiacque di essere dalla sua parte. La minaccia di ripetere le parole di Powell in pubblico poteva servire a sbloccare la situazione di stallo. Hardy si aspettava quasi che Powell cedesse, lasciasse cadere la richiesta della pena di morte e proponesse un patteggiamento che includesse magari anche la possibilità di ottenere la libertà vigilata. Se Jennifer avesse accettato non ci sarebbe stata la seconda fase e Hardy non avrebbe più avuto niente da fare. Attese. Ma Powell non si lasciò intimidire. Sorrise della velata minaccia. "Non ho simpatia per i pluriomicidi, e quel che le è successo fuori di questo carcere o di questo paese... ecco, non è dipeso da noi." "Indagherò su quanto è successo in Costarica." "Lo farei anch'io, al tuo posto. Fammi sapere se posso aiutarti. Un comportamento del genere è vergognoso." L'Yerba Buena Medicai Group era proprietario di un intero isolato di uffici a meno d'un chilometro dal General Hospital della contea di San Francisco. Hardy arrivò poco dopo le undici e scoprì con piacere che c'era un parcheggio gratis per visitatori, medici e pazienti. Si fermò davanti a un chiosco dove c'era una stele di granito con le indicazioni degli uffici. Lì esercitavano più di quaranta medici. Il nome di Larry Witt non c'era più: dopotutto era stato ucciso sei mesi prima. Hardy rifletté che le ruote della giustizia non erano avanzate d'un solo grado, com'era normale, e non sembrava che gli eventi stessero per subire un'accelerazione. La fuga di Jennifer non aveva ispirato alle autorità il desiderio di farle favori. Era in isolamento, e le visite e le telefonate erano state ridotte in modo drastico. Lei diceva che persino il suo vitto era peggiorato. Anche se non c'erano leggi in proposito, Freeman e Hardy stavano scoprendo che un'evasione comportava la perdita di molti diritti. A Freeman avevano John T. Lescroart
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detto che, "per complicazioni burocratiche" in seguito all'estradizione, dovevano rinviare di un'altra settimana la data per la fissazione del processo. Il bel tempo continuava, e l'aria condizionata funzionava a dovere. L'ufficio della reception aveva grandi vetrate sfumate di verde, i divani erano comodi e rivestiti di stoffe dai colori allegri. Hardy si avvicinò al banco. Non aveva appuntamento, quindi doveva aspettare, ma il signor Singh avrebbe cercato di riceverlo al più presto. Ali Singh aveva risposto in modo esauriente alle prime domande di Hardy, ma teneva le mani incrociate sul piano della scrivania sgombra come per evitare di tamburellare con le dita o di fare altri gesti che tradissero il suo nervosismo. Annuiva, condiscendente. "Certo, la polizia è venuta qui. Mi hanno fatto le stesse domande." "Ho esaminato tutto quello che hanno sequestrato, signor Singh: i fascicoli di Witt, le interviste con i pazienti. A me interessano particolari più personali: se andava d'accordo con gli altri medici, con le infermiere, cose del genere." "Ecco... non lo so. Non conoscevo personalmente il dottor Witt. Qui ci sono molti medici, e non lavorano spesso insieme." "Quindi non lo conosceva affatto?" "Ecco, certo, parlavamo di questioni amministrative. Ma lui aveva il suo lavoro, io il mio." Singh inarcò le sopracciglia, disintrecciò le mani per un secondo e le posò di nuovo sulla scrivania. "Non c'erano divergenze?" Singh sorrise. "I medici vorrebbero che le cose venissero fatte a modo loro, e io devo cercare di raggiungere una certa uniformità, quindi a volte ci sono contrasti. Ma niente di serio." "E i suoi rapporti con il dottor Witt?" "Mi era simpatico. Ogni tanto discutevamo sui costi, sul funzionamento del complesso. Il nostro Gruppo, vede, ha piani precisi. E qui abbiamo un ambiente gradevole, non le pare?" Hardy annuì. "Non è un caso. È la filosofia del nostro consiglio di amministrazione. Ma tutto ciò costa, e toglie denaro al fondo e..." "E il dottor Witt pensava che invece quel denaro dovesse andare ai medici?" John T. Lescroart
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Singh sorrise. "Ah, lei ha capito tutto. Proprio così." Si assestò più comodamente sulla sedia. "Il dottor Witt voleva poter dire la sua in queste cose... in molte cose. Non è una critica; inoltre era il solo. Aveva bisogno di sentire che aveva influenza sulla politica del Gruppo." E questo corrispondeva all'analisi di Jennifer, all'opinione di Lightner, alle dichiarazioni dell'autista della Federai Express: Larry Witt aveva la mania del controllo. "E in quale direzione è avviato?" "Be', si sta trasformando in un'organizzazione con fini di lucro. Il consiglio d'amministrazione ritiene che per competere sul mercato della salute dobbiamo attirare capitali freschi. Perciò dobbiamo presentare una facciata gradevole. Magari penserà che ciò che conta è la qualità delle cure, ma questa non fa parte degli affari. Così ai medici è stato chiesto di accettare perdite a breve termine, rinunciare agli aumenti, cose del genere." Hardy capiva. I tempi erano difficili, specie nel campo dell'assistenza medica, e soprattutto in California. La decisione aveva senso sul lungo periodo, ma si capiva perché potevano esserci resistenze. E, a quanto aveva sentito dire, la pazienza non era una delle virtù di Larry Witt. "E il dottor Witt aveva litigato con qualcuno per questa faccenda? Aveva perso la calma?" "Il dottor Witt? Oh, no. La calma non la perdeva mai. Può chiederlo a chi vuole: era sempre gentile e ragionevole anche se non faceva marcia indietro. C'erano solo piccole divergenze fra professionisti. Qui il dottor Witt non aveva nemici. Era benvoluto e stimato." "Però qualcuno l'ha ucciso. È possibile che avesse una relazione con un'infermiera o con la moglie di un collega?" Singh scosse la testa con aria divertita. "Non è stato uno di qui, mi creda. Io penso che sia stata proprio la moglie." "Questa," disse Freeman, "è conosciuta come una dichiarazione giurata per coprirsi le spalle. E questo," continuò alzando l'altra mano, "è un assegno di duecentomila dollari." Hardy era in ufficio e si chiedeva dove poteva sistemare il bersaglio per le freccette. "Se fossi stato al posto di Jennifer, credo che avrei speso di più in Costarica." Freeman andò alla finestra aperta, guardò i palazzi di fronte e, quattro John T. Lescroart
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piani più sotto, la gente che tornava dal pranzo. "Credo che se ne fosse andata troppo in fretta," osservò. "È possibile." "E poi mi ha detto che la banca non aveva voluto darle più di diecimila dollari in contanti, così sui due piedi. Li ha presi ed è scappata. Ha deciso che avrebbe telegrafato per farsi mandare il resto, ma è stata una pessima idea." "È così che l'hanno stanata?" chiese Hardy. "A quanto pare." Freeman annuì. "Però adesso è completamente con noi. Ha chiuso con le trovate tipo: deciderò entro lunedì..." Hardy scosse le spalle. "Non so. Mi dispiace per lei, David." Freeman si girò e lo fulminò con un'occhiata. Sembrava che avesse esaurito la compassione per Jennifer Witt. "Perché non vai a parlarle come ho fatto io per due ore questa mattina?" Hardy intrecciò le mani dietro la testa. "Sentiamo." "Non vuole dichiararsi colpevole. Non vuol ammettere che il marito la picchiava. Non vuol parlare della fuga, non vuol dire chi l'ha aiutata. Niente da fare." Hardy indicò: "Che cos'è quella dichiarazione giurata?" "Questa?" Freeman andò a sedere sul divano. "Con questa, Jennifer riconosce che io le ho consigliato che la miglior linea difensiva è la sindrome della moglie maltrattata e che..." "Ma non crederai..." "Sì, adesso lo credo. Ho pensato di introdurre al più presto le circostanze attenuanti. Ho cercato di farglielo entrare nella testa, e che cosa ho ottenuto?" "Non molto?" Freeman scosse il capo. "Niente. Non vuole saperne." Prese un sigaro dal taschino interno della giacca gualcita e lo mise fra le labbra. "Ho cercato di farle capire che non ha importanza se è stata lei: con la sindrome della moglie maltrattata posso aiutarla a cavarsela." Si alzò e tornò alla finestra. "Forse ha importanza per lei." "Be', certo." Freeman si frugò nelle tasche, trovò una bustina di fiammiferi e accese il sigaro. "Ma mi venga un accidente se sono disposto a permettere che vada in appello accusandomi di patrocinio infedele. Se so che il marito la picchiava e non ne parlo, la sentenza può essere annullata, John T. Lescroart
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e io non intendo permettere che nessuno mi faccia un tiro del genere. Ecco perché ho voluto la dichiarazione giurata." "Sai che veniva picchiata?" "Lei forse lo ammette? No. Ma non importa. È una difesa. Potrebbe salvarla, accidenti." "Ma dovrebbe ammettere di essere stata lei."
17 Nancy DiStefano non poteva vedere Hardy durante l'orario di lavoro, ma l'avrebbe incontrato più tardi. Siccome doveva ammazzare il tempo ed era da quelle parti, Hardy andò nell'ufficio di Pico Morales, nel seminterrato dello Steinhart Aquarium, e propose al suo vecchio amico di uscire a fare due passi. Stavano camminando per i viottoli del giardino giapponese del Golden Gate Park, vicino all'acquario e a meno di duecento metri dal Little Shamrock. Era un posto tranquillo, soprattutto quando non era affollato. I koi enormi nuotavano pigramente nei ruscelli artificiali e l'acqua gorgogliava sulle rocce muscose e nelle cascatelle. Il sole filtrava tra i cipressi. Pico aveva ascoltato Hardy che parlava del Bancomat; non gli sembrava che la cosa fosse molto chiara. "Dunque Larry Witt era ancora vivo alle nove e mezzo, giusto? Lo sai con certezza? A che ora ci sono stati gli spari?" "Fra le nove e trentacinque e le nove e quaranta." "E chi ti ha parlato della differenza fra l'ora del 911 e quella della banca?" "Nessuno. Sono andato con Abe e..." "E il procuratore... come si chiama?... Tu dici che non lo sa la polizia?" Pico si accorse che Hardy s'era fermato e si voltò. "Che cosa c'è?" "Sono un vero stupido." Pico annuì. "Finalmente approdiamo a qualcosa." "No, ascolta. Hai ragione. Lasciamo perdere l'ora del 911. Jennifer è alla banca alle nove e quarantatré, giusto? Alle nove e mezzo Larry è indubbiamente vivo. Togli qualche minuto perché Larry torni di sopra, e arriviamo alle nove e trentacinque, forse ancora più tardi, quando gli sparano. Jennifer è al Bancomat alle nove e quarantatré, non alle nove e John T. Lescroart
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quarantasei... otto minuti dopo, non undici." Pico scosse la testa. "Vedi? Se il procuratore non sa dei tre minuti..." "Non so neppure se sappia della sosta al Bancomat." "Be', allora hai partita vinta." "Jennifer non può assolutamente aver percorso due chilometri e settecento metri in un massimo di otto minuti, anche se la strada è tutta in discesa." "Ti credo," commentò Pico. "Io avrei potuto farcela perché vado come una freccia, ma un normale bipede umano..." Nancy DiStefano non si presentò. Dovevano vedersi alle cinque e un quarto davanti all'ufficio immobiliare dove lei lavorava come segretaria, ma l'ufficio era chiuso quando Hardy arrivò. Controllò l'indirizzo, l'orario, le strade laterali. Di Nancy neppure l'ombra. Dopo un quarto d'ora, Hardy risalì in macchina e tornò a casa. 'Voglio conoscerla." "Chi?" "Lo sai. Vorrei conoscerla." I lunghi capelli rossi di Frannie brillavano nel sole della sera. Passeggiavano in Clement Street: Hardy portava Vincent a cavalluccio sulle spalle, e Rebecca li precedeva correndo. "Hai detto che è una persona in carne e ossa, non un caso, ricordi? Mi sentirei più serena. Rebecca!" "Non scendere dal marciapiedi!" Rebecca aveva allungato un piedino. Lo tirò indietro e si voltò sorridendo. "Era per scherzo." "Niente scherzi," disse Hardy. "La strada è pericolosa. Per attraversarla dobbiamo tenerci per mano." Rebecca tese la manina a Hardy. "Non credo che sia una buona idea," disse lui. "Che cosa?" "Papà parlava con la mamma, tesoro." "Possiamo farlo più tardi, Dismas." "No, adesso. E non credo che sia una buona idea. Non so neppure se ti darebbero il permesso. O se Jennifer sarebbe disposta a vederti." "Chi è Jennifer?" John T. Lescroart
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Hardy lasciò la mano di Beck. "Adesso puoi correre." "Ma chi è Jennifer? La conosco?" "Jennifer è una cliente di papà, tesoro." "Non le sei simpatica?" "Non mi conosce." "Ehi," protestò Hardy. "Adesso basta, d'accordo? Beck, non scherzo." "Non c'è bisogno che gridi con lei." Hardy si sforzò di dominare la voce. "Non grido. Cerco solo di insegnarle che non deve interrompere." In quel momento Vincent, allarmato, proruppe in uno strillo. "Ma bene," disse Hardy. "Benone." Rebecca crollò. Si aggrappò alle gambe di Frannie e cominciò a piangere. "Ho un'idea. Lasciamoli a Moses e Susan per due settimane." Hardy beveva il gin in media due volte l'anno, e pensava che quella fosse la serata adatta. Bombay Sapphire on the rocks con due olive. Avevano messo a letto i bambini e adesso erano seduti sui gradini mentre era ancora chiaro; si tenevano per mano in attesa che arrivasse la pizza. La porta era aperta per poter sentire se uno dei bambini chiamava. O piangeva. "Non credo che due settimane siano sufficienti." Frannie beveva un bicchiere di vino bianco. "Se vogliono farsene un'idea." "Moses abita qui vicino. Potremmo andare a trovarli quando vogliamo." "A proposito di visite..." Hardy scosse la testa. Di nuovo Jennifer. "Non so, Fran. Non capisco a che cosa servirebbe." "Mi sentirei più serena." "Non crederai che cerchi di uccidermi, vero? Voglio dire, abbiamo avuto le stesse discussioni per Andy Fowler." "Conoscevo Andy, o almeno sapevo chi era. Un giudice, il tuo ex suocero. E poi l'hai fatto assolvere. Questa donna... So di lei soltanto quel che ho detto: è bella, gelida, avida..." "È molto meno carina di te." Frannie lo guardò, ironica. "Allora è solo la donna più fotogenica del mondo. Ma, secondo me, non è una persona in carne e ossa di cui non dovrei aver paura." John T. Lescroart
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"E se non volesse vederti?" "Allora non mi vedrà." Aveva ragione Frannie. Se Jennifer non avesse voluto vederla, tutto sarebbe finito lì. Hardy promise che gliel'avrebbe chiesto, avrebbe visto che cosa poteva fare. Se serviva a calmare Frannie... Che male poteva causare? Quando aveva cercato di mettersi in contatto con Nancy DiStefano per chiederle di richiamarlo per fissare un appuntamento, Hardy non sapeva quali sarebbero stati i suoi programmi, e perciò le aveva dato anche il numero di casa. Lei chiamò poco dopo le nove. La voce era un bisbiglio rauco. "Signor Hardy?" Gli disse dove si trovava e lo pregò di raggiungerla. Forse non ci sarebbe stata un'altra occasione. Quando annunciò a Frannie che usciva, lei non fece le capriole per la gioia. Ulloa Street era buia. La casa dei DiStefano era nell'isolato 4500, a due isolati dal freddo Pacifico. Si fermò. Nancy DiStefano portava una giacca e un paio di jeans ma era scalza. Stava seduta sotto la lampada fioca del portico. Quando Hardy scese dalla macchina gli andò incontro sul vialetto di cemento che tagliava in due il prato. Gli toccò la manica e subito ritirò la mano come se si fosse scottata. "Qui non ci sentirà. Tanto, non ci sentirebbe comunque. Si è addormentato, grazie a Dio." Tremava. Hardy si chiese se fosse ubriaca. "Chi si è addormentato?" "Phil, naturalmente. Chi, se no? Senta, mi dispiace per l'appuntamento." Non parlava con voce impastata. "Pensavo che avremmo potuto... ma Phil..." Gli occhi di Hardy si stavano abituando alla semioscurità. La faccia di Nancy era molto simile a quella di Jennifer: molto inquieta ma ancora piacente. "Ho pensato che potesse servire ad aiutare mia figlia." "Forse. Può darsi. Si sente bene?" Nancy gli si aggrappò. "È meglio che ci sediamo." Tornò all'entrata. Era un portico coperto, chiuso da un muretto. Si appoggiò a una colonna. "Signora DiStefano?" John T. Lescroart
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Lei tese la mano per chiedergli di tacere. Sembrava che cercasse di vincere il dolore. Quando ci riuscì, tentò di raddrizzarsi e si girò verso Hardy. Aveva gli occhi umidi, ma in un certo senso sembrava incapace di piangere. Si rialzò con uno sforzo e si voltò del tutto. Alzò la testa, respirò profondamente come per prendere una decisione e aprì la giacca che l'avvolgeva. Sotto era nuda. Il seno, il costato, l'addome erano pieni di lividi. Hardy rimase paralizzato a un passo da lei e si sentì assalire dalla collera. Lividi grossi come pugni, chiazze di capillari lacerati. Si avvicinò, afferrò i lembi della giacca e la richiuse delicatamente. Lightner aveva avuto ragione a proposito del padre di Jennifer. Nancy si appoggiò di nuovo alla colonna e si lasciò scivolare a terra. "Ho detto a Phil che era per Jennifer, che poteva aiutarla. Non ho cercato di farlo di nascosto. Ha chiesto come mai non ha pensato di parlare con lui." "Jennifer mi ha suggerito di parlare con lei. Se avesse detto di parlare con suo padre, avrei fatto così." "Lo so. Gliel'ho spiegato, ho cercato di spiegarglielo." "Non volevo metterla in questa situazione." Nancy gli toccò di nuovo il braccio. "No, lei non c'entra. Sono cose che capitano." Hardy alzò gli occhi. "Deve andarsene. Deve denunciarlo." Nancy DiStefano scosse la testa. "Dove andrei? Che cosa farei?" "Vada in qualche posto, faccia qualunque cosa. Ma non continui così." "Phil non me lo permetterebbe mai. Mai. Non voleva neppure che parlassi con lei." "Potrebbe andarsene." "Ho tentato, ma ho sempre finito per tornare. Qui, almeno, so che qualcuno mi vuole bene..." "Se le volesse bene non la tratterebbe così." "Non succede molto spesso. E so che ha paura di perdermi. È così geloso... Non avrei dovuto telefonarle, ma se può essere utile a Jennifer..." "Phil ha mai trattato Jennifer nello stesso modo?" "Jennifer? No. Non le torcerebbe nemmeno un capello. Se l'avesse fatto lo avrei lasciato, e lo sapeva. Non sopportava l'idea che lo lasciassi. No, tutto questo non ha niente a che fare con mia figlia." John T. Lescroart
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Hardy guardava per terra. "E adesso, Nancy?" Lei alzò le spalle. "Non volevo neppure dirglielo. Non è niente." "D'accordo, non è niente." "Voleva parlare di Jennifer, se questo non fosse successo... Sarei dovuta venire di nascosto, senza dire niente a Phil. È stata colpa mia." "Colpa sua. È così, eh? Era lo stesso anche per Jennifer?" Nancy annuì. Sembrava grata perché Hardy capiva. "Allora lasciamo stare e mi dica ciò che vuole sapere. Va bene?" Hardy aspirò una boccata d'aria notturna e cercò di organizzarsi quanto bastava per chiederle di Tom. Non ci riuscì.
18 Come faceva ogni tanto, Abe Glitsky si presentò senza annunciarsi. Quando Frannie gli aprì, indietreggiò d'un passo ed emise un fischio di ammirazione. Frannie portava una gonna blu, una camicetta bianca, scarpe a tacco basso. Gli occhi sembravano malachiti incastonate nell'alabastro della pelle. I capelli rossi e splendenti cadevano sulle spalle. "Qualunque sia la ragione per cui ti sei fatta bella, sei splendida." Andarono in cucina. Era una casa vittoriana piuttosto piccola, un lungo corridoio con le porte del soggiorno e della sala da pranzo a destra, il bagno a sinistra. In fondo c'erano la cucina ariosa, la camera di Hardy e Frannie con un altro bagno, la stanza di Rebecca e la nursery di Vincent. Hardy uscì dalla camera da letto con una tazza fumante di caffè in mano. Portava i pantaloni d'uno dei suoi abiti migliori, una camicia bianca e una cravatta italiana di seta. Glitsky si fermò sulla soglia della cucina. "Devo aver sbagliato casa. Dove sono i bambini?" "Ci siamo presi un giorno di libertà," disse Frannie. "La nonna è venuta a prenderli. Vuoi un po' di tè?" E sparì nella stanza in fondo. "Con chi avete appuntamento?" Hardy era ancora sconvolto dopo l'incontro con Nancy DiStefano. Ne aveva parlato a Frannie quand'era tornato a casa, e aveva faticato molto ad addormentarsi. E adesso Abe era lì e voleva sapere con chi dovevano incontrarsi. Non avrebbe approvato che Frannie facesse conoscenza con Jennifer Witt. E Hardy non aveva voglia di spiegare perché aveva acconsentito all'idea di John T. Lescroart
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Frannie quando sapeva che non era una gran trovata. "Pensavo di accompagnare Frannie in centro. Più tardi andremo a pranzo in un posto simpatico. Qual buon vento ti porta?" "Devo andare a interrogare due tizi per via di una pistola che hanno lasciato in giro, e il loro bambino l'ha trovata e si è messo a giocarci." Non aveva bisogno di aggiungere altro: era della squadra omicidi, e quindi doveva esserci scappato il morto. "Ero da queste parti, così ho pensato di fare una capatina da voi. Sei tornato a difendere Jennifer Witt?" Parlarono per venti minuti, tutti e tre, ma Hardy non accennò alla differenza di tre minuti fra il Bancomat e il 911. Era un indizio in un'indagine su un delitto; e se avesse rivelato che la difesa intendeva sfruttarlo, Abe sarebbe stato obbligato a riferirlo all'accusa. "Ma lei chi è?" Jennifer, nella tuta rossa, guardò attraverso il plexiglas nella sala visite del carcere femminile. Frannie non era più sicura. La donna che aveva di fronte non costituiva una minaccia per nessuno, in quel momento. Quasi anoressica, con la faccia piena di lividi, i capelli che sembravano tagliati con l'accetta e gli occhi sfuggenti. Quella donna, pensò Frannie, non si fida di nessuno al mondo. "Sono..." Frannie cercò di deglutire. "Sono con il signor Hardy." "Lo so. L'ha già detto. Per questo sono qui. Ma come mai non siamo nella stanza dei colloqui?" Frannie non lo sapeva. Non sapeva che non era lì che Jennifer e Hardy si parlavano. "Forse... forse, poiché io non sono avvocato, non è un incontro ufficiale." Adesso capiva perché Hardy non l'aveva accompagnata per presentarla. Che cosa avrebbe potuto dire? "Salve, mia moglie ha voluto venire a vederla per stare più tranquilla. Aveva paura che un giorno lei uscisse di prigione e cercasse di ammazzarmi." Si sentiva ridicola e irritata. Dismas l'aveva accontentata per darle una lezione... una lezione crudele che avrebbe potuto evitarle con un po' di persuasione. Ma si rendeva conto che lei non glielo avrebbe permesso. Era testarda; aveva deciso di conoscere Jennifer e, perdio, non avrebbe fatto marcia indietro. E adesso, tanto peggio. Jennifer attendeva e continuava a fissarla con gli occhi tristi. All'improvviso Frannie pensò al bambino, Matt. E se quella donna non John T. Lescroart
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avesse ucciso nessuno, e se avesse davvero perduto il figlio e fosse stata picchiata e violentata in una prigione costaricana? "Lo so, è insolito," disse. "Sono Frannie, la moglie di Dismas Hardy. Mi ha raccontato quel che le è successo, e mi sono chiesta se posso fare qualcosa per lei." La Mission Hills Clinic, gestita dal municipio, era a metà strada fra il palazzo di giustizia e il complesso dell'Yerba Buena Medicai Group. Hardy indugiò a guardare l'ambulatorio per quasi dieci minuti. A giudicare dai cartelli, c'erano due diverse linee di picchetti: una che protestava contro gli aborti che si praticavano lì e una formata da dipendenti del servizio sanitario pubblico, licenziati in seguito ai tagli del bilancio municipale. Durante i mesi della latitanza di Jennifer, Hardy aveva notato l'escalation del movimento antiabortista. Una dipendente municipale della Sunset Clinic aveva avuto la sfortuna di restare a fare gli straordinari. Probabilmente quelli che avevano messo la bomba credevano che al momento dello scoppio non ci sarebbe stato nessuno, perché il loro gesto doveva essere puramente dimostrativo. Ma la donna era morta. Le case di un medico e di un'infermiera erano state attaccate da vandali che avevano sfondato le finestre e lasciato messaggi minatori. C'erano stati almeno sei casi di aggressioni contro dipendenti del servizio sanitario pubblico dopo la fine del turno. Larry Witt aveva lavorato come volontario nella Mission Hills Clinic; secondo Jennifer praticava dai due ai cinque aborti la settimana. Ci credeva veramente, aveva detto Jennifer: pensava che la gente non doveva avere figli se non li voleva, che il problema più grave dell'umanità era il sovraffollamento, che un bambino nato nella miseria e nell'abbandono non ne sarebbe più uscito. Era tragico, ma il dilemma morale sul valore della vita umana non era una questione trascurabile per un ex cattolico irlandese. Hardy era convinto che la gente dovesse essere libera di scegliere, ma non approvava l'aborto come forma di controllo delle nascite. Attraversò la strada. All'interno, l'ambulatorio era, come si aspettava, ben diverso dall'YBMG: piastrelle gialle, luci fluorescenti, odore di ospedale. Fece la fila per una ventina di minuti, poi lo mandarono a parlare con la John T. Lescroart
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segretaria dell'amministratore. Quando lei tornò dalla pausa del pranzo e scoprì che Hardy voleva parlare del registro degli aborti, gli disse che se avesse telefonato gli avrebbe detto che lì non davano informazioni in proposito. Esasperato e con un'altra ora da far passare prima di andare a prendere Frannie, si fermò nell'atrio, e seguì i cartelli che indicavano OSTETRICIA-GINECOLOGIA. Nella stanza c'erano otto donne giovani, al di sotto dei vent'anni. Il receptionist che stava allo sportello era un nero cordiale con la barbetta e la pettinatura afro, il camice bianco con una targhetta di Gay Pride e il nome "Sam". Hardy si presentò e gli chiese se poteva farlo parlare con qualcuno che avesse conosciuto abbastanza bene il dottor Witt. "Può chiederlo a me. Lo ricordo piuttosto chiaramente. Peccato." Hardy spiegò che cosa stava cercando. "Credevo che fosse stata la moglie." "È quel che dicono; ma lei lo nega, e così sto rivoltando qualche pietra... Forse troverò un serpente." "Qui all'ambulatorio?" "Mi sembra che là fuori ci sia parecchia gente arrabbiata." "Quelli del movimento per la vita? No, non sono i tipi." "C'è gente che è morta, Sam, o è stata aggredita mentre usciva da un ambulatorio." Sam continuò a sorridere. "E i cassieri degli alimentari e i conducenti d'autobus? Anche loro vengono aggrediti. È la vita delle grandi città." Hardy tentò un'altra linea di attacco. "D'accordo, forse c'era un movente personale. Qualcuno che lavora qui. Non so. Forse il dottor Witt aveva litigato con qualcuno." "Impossibile. Questo non è un circolo sociale. I volontari vengono, fanno il loro lavoro e se ne vanno. Witt più degli altri." Hardy sapeva riconoscere il Vangelo, quando lo sentiva. Indicò il biglietto da visita che aveva lasciato sul ripiano. "Se le viene in mente qualcosa di personale, qualunque cosa, potrebbe telefonarmi?" Hardy guardò la moglie che entrava nel ristorante, e notò che molti si voltavano a guardarla. Uno dei problemi che aveva avuto quando s'era innamorato di lei era stato il suo aspetto... era troppo bella. Sapeva quanto è facile farsi ingannare da una faccia carina. Gli era già successo. Il cameriere le scostò una sedia. John T. Lescroart
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"Perché sorridi?" "Sono superficiale e mi domando se il nostro rapporto è puramente fisico." Frannie si mise in bocca con grazia un pezzo di calamaro. Erano seduti accanto alla vetrata di Mooses' e guardavano Washington Square. "Be', almeno in parte." Non ne avevano parlato, ma tutti e due avevano sentito la necessità di andare in un posto simpatico e dall'atmosfera spensierata, per cancellare le amarezze del mattino. Frannie gli toccò la guancia con un dito, poi prese il bicchiere, fece roteare lo Chardonnay. "Vino per due giorni di fila. Non farà male a Vincent?" Il bambino viveva di latte materno e di banane schiacciate. Ma non era veramente preoccupata per lui: era qualcos'altro, e Hardy era sicuro di sapere che cosa fosse. "Sgradevole, no?" Lei annuì. "Ti guardi intorno, qui dentro, e vedi tanta gente felice, e invece là, in prigione... Viene da chiedersi qual è il mondo reale." Hardy le prese la mano. "Voglio dire, quanto siamo isolati?" chiese lei. Il cameriere portò via i piatti vuoti, rimosse con una minuscola spazzola qualche briciola invisibile dalla tovaglia inamidata. Qualcuno cominciò a suonare musica classica al piano accanto al bar.
19 Il venerdì Hardy si rese conto che aveva fatto molte ricerche e aveva scoperto ben poco. Freeman s'era mostrato scarsamente entusiasta per la questione del Bancomat anche se ammetteva controvoglia che poteva tornare utile, prima o poi. L'atteggiamento di Freeman indusse Hardy a pensare che era un grosso svantaggio credere che il proprio cliente fosse colpevole. Cercava di conservare una mentalità aperta. Aveva controllato le opinioni di Lightner a proposito della violenza domestica che si tramandava di generazione in generazione. Aveva consultato vari testi, e i pareri erano concordi: Jennifer aveva visto picchiare sua madre. E la madre l'aveva sopportato, e forse non se ne era neppure lamentata con i figli. Quel comportamento rientrava nelle attese di Jennifer per quanto riguardava la vita coniugale: se non John T. Lescroart
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c'era, le cose non andavano. Mancava l'intimità. Dunque, pensava Hardy, Larry aveva picchiato Jennifer. E senza dubbio anche il primo marito, Ned, l'aveva fatto. Secondo la teoria di Lightner, difficilmente Jennifer li avrebbe sposati se non si fossero comportati con una certa brutalità durante il corteggiamento. Indipendentemente dal fatto che fosse possibile o no provarlo in tribunale, la tesi di Terrell, secondo la quale Jennifer aveva iniettato l'atropina a Ned, era plausibile. E se aveva ucciso Ned, era possibile che avesse ucciso anche Larry. E se li aveva uccisi entrambi, almeno aveva avuto una ragione valida. Ma Jennifer aveva continuato a negare d'essere stata maltrattata; e David Freeman, dichiarazione giurata o no, era molto risentito. Freeman temeva di perdere e che il verdetto fosse confermato in appello. Ma aveva le mani legate: non poteva sfoderare la sindrome della moglie maltrattata. Se l'avesse fatto, sarebbe stato come ammettere che Jennifer era colpevole. Alla fine, Hardy aveva rintracciato Tom DiStefano in un cantiere presso il Golden Gate Park. Era arrivato dopo l'orario di lavoro con un paio di jeans sporchi, aveva portato due confezioni da sei di Mickey's Big Mouth ed era riuscito a farlo parlare per venti minuti. E aveva trovato la conferma di quanto aveva detto Nancy: Jennifer e Larry non erano andati a trovare la famiglia fin dai primi mesi di matrimonio. A quel tempo Tom aveva diciassette anni, e Hardy capiva che ne aveva sofferto anche se adesso assumeva un atteggiamento strafottente. L'ultima volta che Tom aveva visto i Witt era stata la vigilia di Natale. Nessuno ne aveva parlato, e Hardy chiese il perché. Tom scrollò le spalle. A chi poteva interessare? Era andato a casa dei genitori nel pomeriggio, aveva bevuto qualche birra, e sua madre aveva cominciato a lamentarsi perché non vedeva mai Jennifer e il nipotino. Aveva comprato un bel regalo per Matt, e lui non sarebbe neppure venuto a prenderlo. Tom si era irritato. Era andato in motocicletta a casa dei Witt con l'intenzione di prendere a calci qualcuno; ma quando era arrivato s'era reso conto che sarebbe stato inutile. Non sarebbe riuscito a fargli cambiare mentalità. Aveva consegnato al nipote il suo regalo, una palla e una mazza, aveva fatto gli auguri alla sorella e le aveva detto che avrebbe dovuto portare Matt dai loro genitori, così la nonna avrebbe potuto dargli il regalo. John T. Lescroart
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E se ne era andato. Naturalmente, i Witt non s'erano fatti vivi. Ma quello, pensava Hardy, poteva essere stato il catalizzatore di cui parlava Glitsky. Non era possibile che Tom si fosse svegliato una mattina e avesse deciso di andare ad ammazzare il cognato. Ma poteva darsi che l'avesse fatto tre giorni dopo essere stato snobbato durante le feste di Natale e dopo anni e anni di risentimento. Walter Terrell era presente mentre esaminavano le prove concrete e mentre Hardy e Freeman spuntavano dall'elenco del computer gli oggetti che uscivano dai sacchi. C'era la camicia di Larry macchiata di sangue. Tutti gli altri indumenti e gli oggetti trovati in una tasca: un pettine, un coltello dell'esercito svizzero, chiavi, qualche spicciolo, incluso un quarto di dollaro laccato con lo smalto per le unghie. "Larry frequentava i bar?" intervenne Hardy. Terrell scosse la testa. "Non risulta." "È uno dei quarti di dollaro che usano nei bar." Terrell e Freeman lo guardavano senza capire. "Per il juke box. Dipingi di rosso le monete, le infili nel juke box, e così non ti fanno pagare quando vengono a incassare." Freeman non era impressionato. "E allora? Era andato a bere qualcosa la vigilia di Natale. Forse. Ogni tanto monete come quella me le ritrovo nelle tasche anch'io. Non vuol dire niente." Ma c'erano così pochi elementi che Hardy insistette. "Qualunque cosa si riferisca a due giorni prima che venisse ucciso, potrebbe essere importante." Freeman aveva già spostato le monete ed esaminava qualcosa che sembrava un sacco pieno di immondizia. "Che cos'è?" Quelli della scientifica avevano prelevato tutto ciò che poteva avere qualche interesse, compreso il contenuto del cestino della camera da letto: fazzolettini di carta usati, nastri e incarti per regali, sacchetti di plastica che servivano per riporre le camicie fresche di tintoria. "Sono reperti?" Terrell spinse verso Freeman un altro sacco. "Conosce la prassi. È tutto qui, se vuole servirsene. Decida lei che cosa è importante." Freeman prese il sacchetto e fece scivolare la pistola sul tavolo. La prese, controllò il numero di serie sull'elenco dei reperti dell'accusa, fiutò la canna. Lesse il rapporto sulle impronte digitali e inarcò le sopracciglia. John T. Lescroart
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"Non hanno trovato impronte di Jennifer sull'arma?" "Sul caricatore." Terrell passò un altro sacchetto. "La pistola l'ha pulita." "Qualcuno ha pulito la pistola." Freeman lanciò un'occhiataccia a Terrell. Terrell alzò le spalle. "Se lo dice lei." Era venerdì pomeriggio, verso sera, e la stanza nella cantina del palazzo di giustizia non aveva una ventilazione perfetta. Freeman rovesciò il sacchetto in attesa che scivolasse fuori il caricatore. Invece si ritrovarono a guardare un'altra pistola. "Che cosa diavolo è? Figura nell'elenco?" Terrell lesse la lista: "Sacco 37, contenuto del cassonetto". "Sì, ma che cosa diavolo è?" ripeté Freeman. "Perché è qui?" Terrell allargò le braccia. "Era là, adesso è qui. Come faccio a saperlo?" "Ma è una pistola." Terrell la prese, poi disse, in tono ufficiale: "La prego, si calmi". "Sono calmissimo," ribatté Freeman. Terrell spiegò: "È una pistola giocattolo. È molto ben fatta, ma è di plastica. Per quel che ne so, non ha niente a che fare con i reperti di questo caso". "Allora perché è qui?" chiese Hardy. "Perché è stata trovata nello stesso cassonetto dell'altra, l'arma del delitto. Sul momento ho pensato che fosse utile conservarla." "Lo stesso cassonetto?" Terrell annuì. "Erano cadute tutte e due sulla strada. L'uomo che le ha trovate ci ha telefonato quando ha visto che una era vera." "Il netturbino?" chiese Hardy. "Sì." "Ma che nesso c'è?" Freeman cercava di capirci qualcosa. "Non c'è, ecco quel che sto cercando di dirvi. Avevo una teoria e ho pensato di controllare. Non si sa mai." Hardy sapeva qual era il metodo di Terrell. "Che teoria era?" "Non lo so. Il colpevole entra in casa con questa pistola che sembra autentica. Poi arriva in camera da letto, vede quella vera, viene sorpreso da Larry e dal bambino, cede al panico, spara. Lo ritenevo possibile prima di pensare a Jennifer." "Hanno controllato le impronte sull'arma-giocattolo?" "Sicuro. Ma non hanno trovato niente. Comunque pensavo che ci fosse John T. Lescroart
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un nesso, ma sbagliavo. E poi, il netturbino mi ha detto che le armi sono i giocattoli che si trovano più spesso nella spazzatura. I genitori non vogliono che i figli si abituino alla violenza, e quando un parente regala una pistola per Natale o per il compleanno, la buttano." Terrell alzò le spalle. "Potete prenderla, se volete. Eccola." La porse a Freeman che la scrutò e la passò a Hardy. "Che ne pensi?" "È una pistola giocattolo trovata in un cassonetto." Freeman rifletté per qualche altro secondo. "C'era altro che ha prelevato dal cassonetto e che non aveva alcun collegamento?" Scosse la testa. "Cristo, e se ci mostrasse il caricatore?" Più tardi Hardy andò alla squadra omicidi e convinse Glitsky a fare una tappa da Lou il Greco. Freeman era andato dove andava il venerdì sera: l'udienza di Jennifer era fissata per lunedì mattina e Hardy pensava che probabilmente David avesse un incontro segreto con chissà chi. Hardy stava cercando di convincere Abe che avrebbe dovuto andare in vacanza alle Hawaii. Glitsky ribatté che doveva aver perso ogni contatto con la realtà se pensava che lui, Flo e i loro tre figli potessero permettersi un simile lusso. "Devi fare economia?" Glitsky masticò il cubetto di ghiaccio pescato nel bicchiere di tè. "La dovevo fare già prima della riduzione volontaria di stipendio. Il cinque per cento." "Tanto?" "Sì, per tutti quelli che guadagnano più di cinquantamila all'anno. E adesso, dopo diciannove anni nella polizia, quando arrivo finalmente ai piani alti, mi stangano perché ce l'ho fatta. E se non accetti, ti becchi una reprimenda perché fai il difficile. Dopo diciannove anni! E indovina che cosa succede a chi fa il difficile: in ottantacinque non hanno accettato la riduzione volontaria... e li hanno licenziati." "Ottantacinque?" Erano più numerosi di quanto avesse immaginato Hardy. Com'era possibile che l'amministrazione municipale licenziasse circa il cinque per cento dei poliziotti in forza? "Sicuro. Che bisogno abbiamo degli agenti?" "O dei lavoratori del servizio sanitario pubblico," aggiunse Hardy, che ricordava i picchetti davanti alla Mission Hills Clinic. "Però il sindaco ha ancora il suo autista! Non vorrai che guidi John T. Lescroart
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personalmente la macchina. Che figura ci farebbe?" Hardy bevve un sorso di birra. "Be', almeno ha le idee chiare. Al suo posto farei lo stesso: licenzierei i poliziotti e terrei il mio autista." "Sto pensando di fondare un servizio di sicurezza," intervenne Glitsky, guardando alle spalle di Hardy. "Ecco, sta arrivando la mia prima recluta." Terrell sedette accanto a lui, di fronte a Hardy. "La prima recluta per che cosa?" "Per la Glitsky Home Security. Risposta armata in pochi minuti." Terrell bevve un sorso da una delle bottiglie di Budweiser che aveva portato al tavolo. "Cominciamo a sparare alla gente invece di leggerle i suoi diritti?" "Sì, e ci facciamo pagare per questo." "Mi piace. Ci sto." Terrell bevve un secondo sorso e guardò Hardy. "Il suo socio sarà famoso, però... fiuuu!" "È famoso proprio perché è fatto così." Hardy sbirciò Glitsky. "Freeman." "Fatto così come?" chiese Glitsky. "Così come?" ripeté Hardy a Terrell. "Con l'ispettore Glitsky può parlare liberamente." "Avevo un'idea che poteva essere o non essere un indizio, e lui ha sparato a zero. Gli ho detto che poteva usarla o non usarla. Ehi, era una teoria che avrebbe potuto funzionare... e allora? Non ha funzionato e tanti saluti." Hardy andò al banco a fare rifornimento. Quando tornò al tavolo, Terrell stava parlando di qualcosa che gli sembrava familiare. "Valeva la pena di dare un'occhiata alla faccenda Crane, ma anche quella è finita in niente." "Che cosa?" Hardy sedette e passò altre due bottiglie a Terrell e un altro tè freddo a Glitsky. "Stavo parlando a Glitsky dell'altra faccenda, quel tale di Los Angeles che lei aveva chiamato dalla casa dei Witt." "Crane. L'uomo che è stato assassinato." "Sì, Crane. Tanto per parlare delle teorie: a volte funzionano, a volte no." "Quasi sempre non funzionano." Era una constatazione. Abe stava già masticando il ghiaccio del secondo tè freddo. Hardy non resistette all'impulso di lanciare una frecciata. "Perché aveva John T. Lescroart
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seguito quella pista? Aveva già un'indiziata." Terrell non si offese. Sorrise, anzi. "Ehi, il mio lavoro mi piace. È stata una coincidenza. Non ci si rimette niente se si controlla. Quando si tratta di omicidio, non si è mai troppo scrupolosi. Ho ragione o no?" Su questo erano tutti d'accordo. Hardy bevve con calma la birra, cercando di non mostrare troppo interesse. "E così, che cosa ha scoperto?" "Più o meno quel che mi aveva detto lei. Nessun legame con Witt." "Be', un legame ci doveva essere. Il numero era sulla sua scrivania." "Ah, quello sì. Ma io sto parlando del delitto. Sanno chi è stato, o credono di saperlo." "Chi?" "Un sicario di Los Angeles." Terrell aveva in mano le due bottiglie di birra e beveva alternativamente dall'una e dall'altra. "Crane era il grande ammazzasindacati degli anni novanta. Guadagnava mezzo milione l'anno facendo in modo che i poveracci continuassero a farsi fregare. Quando cercavano di organizzarsi li faceva licenziare e trovava il modo di far convalidare il licenziamento. Quando veniva il momento di rinegoziare i contratti, tutti avevano paura di perdere il posto e calavano le brache." "E poi che cos'è successo?" "Ecco, aveva già distrutto un paio di sindacati, gli alimentaristi della carne in scatola, i bidelli e così via... Robetta da poco. Poi ha deciso di sistemare i macchinisti." "E a qualche pezzo grosso l'idea non piaceva." "La teoria è questa." Terrell aveva finito le birre. Fece per alzarsi. "Comunque hanno fatto un lavoretto pulito. Hanno incaricato un professionista che non ha lasciato tracce. Questa volta offro io." Si avviò verso il bar. "Niente per me," gli gridò Glitsky che stava ancora masticando il ghiaccio. "Furbo, quello. Segue le tue piste e non se ne accorge neppure." Hardy restò impassibile. "L'hai sentito? Ama il suo lavoro. Però è interessante, non trovi? Due delitti e due sicari?" Glitsky scosse la testa. "Per me, sono tre delitti e un sicario: Larry Witt, suo figlio e Crane." "Se vuoi essere pignolo, i delitti sono quattro: c'è anche la moglie di Crane." Abe non gli badò. "Hai qualcosa che colleghi un sicario a Larry Witt?" Hardy non rispose. John T. Lescroart
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Glitsky si alzò, diede un buffetto sulla guancia di Hardy e gli augurò un buon fine settimana.
20 Il calendario della Corte Superiore veniva chiamato tutti i lunedì mattina alle nove e mezzo. Era il 19 luglio e il nome di Jennifer figurava al primo posto nella stampata affissa nel corridoio del Dipartimento 22. Dato che l'estradizione dal Costarica e il successivo ritorno avevano trovato spazio nel Chronicle e in televisione, i media erano presenti quando Freeman e Hardy entrarono in aula poco dopo le nove. Hardy sapeva che Freeman non aveva simpatia per la maggioranza dei giornalisti ma si guardava dal farlo capire loro, perché potevano essere utili in un processo dai risvolti politici. Il candidato Dean Powell non aveva intenzione di lasciarsi sfuggire l'occasione di farsi fotografare e riprendere, e i due avvocati, ognuno a un lato dell'aula, conversavano amabilmente con i cronisti. Powell sembrava più sincero e spontaneo di quattro mesi prima; forse aveva preso lezioni. "Sentite," disse abbassando la voce, "io sono favorevole alla pena di morte. E in questo caso abbiamo aggravanti che, se dimostrate, giustificheranno una condanna capitale. Mostratemi un po' di rimorso, un'ammissione di colpevolezza, un'invocazione di pietà, e il procuratore distrettuale può commuoversi. Per me gli accusati non sono numeri... sono persone. Questo processo non fa parte della mia campagna. L'accusata credeva di poter commettere impunemente un delitto per scopo di lucro. Ma sbagliava. Non sono un tipo assetato di sangue, ma se sarà giudicata colpevole, chiederemo la pena capitale. È semplice giustizia, e se l'è cercata." Freeman era circondato dal suo gruppo. "Purtroppo, è così che si fanno le cose. Il fatto stesso che tutti voi siate qui dimostra che è già una situazione sballata. Nessuno parla del peso degli indizi... un peso molto leggero. Non si sarebbe mai arrivati a questo punto se non ci fosse il desiderio di far comparire sui giornali certi nomi più spesso del dovuto. Dubito addirittura che ci sarà un processo, dopo che avrò presentato la richiesta di non luogo a procedere." "Non crede che si arriverà al processo?" A fare la domanda era una donna che reggeva un microfono. John T. Lescroart
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Freeman scosse la testa. "Ne dubito." Un'altra mano, un altro microfono. "Ma il Gran Giurì ha rinviato a giudizio Jennifer Witt." "Il Gran Giurì ha l'abitudine di rinviare a giudizio chiunque venga accusato dal procuratore distrettuale." "Ma è evasa dal carcere, no? È fuggita all'estero." "È sveglia e innocente, e non si fida di un sistema che ha sbagliato nel modo più totale. Credo che al suo posto sarei fuggito anch'io, se avessi saputo come fare." Hardy uscì nel corridoio. Mancavano ancora venti minuti. Ken Lightner stava guardando certe carte. Era seduto sulla panca di legno del corridoio, di fronte al Dipartimento 22. Hardy gli sedette accanto. "Vorrei scusarmi con lei. A quanto pare aveva ragione." Lightner posò le carte. "A che proposito?" "A proposito della madre di Jennifer e di suo marito che la picchia." Lo psichiatra annuì. Per lui non doveva essere una novità. "È deluso?" "Pensavo che avesse scoperto qualcosa che riguarda Jennifer." Hardy scosse la testa. "Jennifer non si confida. Soprattutto sul fiasco dell'evasione. Freeman si sta strappando quei pochi capelli che gli restano." "Me li sto strappando anch'io. Jennifer mi ha vietato di parlarne, e questo limita le nostre conversazioni. La verità. I maltrattamenti di Larry. La sua difesa, quello che sta passando. Come può affrontare una situazione simile?" Lightner si spinse indietro i capelli con le dita. "Allora l'ha vista?" "Sì. Cerco di farle visita quasi tutti i giorni. Ma non so che cosa fare: i sensi di colpa irrazionali di Jennifer, il suo autolesionismo... Sono costretto a mettere in discussione il mio giudizio, a chiedermi se posso esserle utile." "Come pensa che potrebbe aiutarla?" "In questo momento non lo so. Il guaio è che non riesco a farla parlare del suo problema, e neppure a riconoscerlo." "Allora, di che cosa parlate tutti i giorni?" Lightner sapeva quale impressione doveva fare, date le circostanze. "Parliamo della sua autostima, del fatto che finalmente sta crescendo e John T. Lescroart
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assume la responsabilità della propria vita. Parliamo del suo futuro." "Il suo futuro?" "Lo so, non è il caso di discuterne." Lightner alzò lo sguardo verso Hardy. "Ma Jennifer ne vuole parlare. Dice che sa di poterne uscire, probabilmente, accusando Larry; ma non intende farlo. Dice che non era colpa sua." "Non era colpa di Larry se la picchiava? E dice che non è stata lei a ucciderlo, e che adottare una linea difensiva basata sui maltrattamenti sarebbe un'ammissione?" Lightner annuì. "Sì, purtroppo. Certe cose hanno radici profonde." Si alzò, prese la borsa e chiese dov'era la toilette. Aveva appena girato l'angolo quando Hardy si accorse che aveva lasciato un paio di fogli sulla panca. Vide il nome di Jennifer Witt evidenziato in giallo, e li prese. primo foglio era il modulo dello studio di Lightner, compilato quattro anni prima, e offriva un panorama dell'anamnesi medica, i nomi dei precedenti medici, le allergie, gli interventi chirurgici e così via. Hardy rifletté per un attimo, piegò il foglio e lo mise nella tasca interna. Jennifer, con la tuta rossa, le manette e i ferri, fu il primo "numero" del computer che venne chiamato. C'era in aria qualcosa. Il giudice Oscar Thomasino non si interessava della stampata che aveva davanti: seguiva con gli occhi Jennifer che, zoppicando, arrivava al podio centrale e si fermava, fiancheggiata da due agenti. Freeman la stava aspettando, anche se tra loro c'era un'atmosfera d'attrito quasi palpabile. Jennifer girò la testa verso il tavolo della difesa, salutò Hardy con un cenno della testa e un'espressione grata anche se lui non sapeva spiegarsela... Non la vedeva da una settimana. Non sapeva neppure perché fosse venuto, quel giorno: era il secondo rinvio a giudizio per Jennifer, e certamente lei non avrebbe cambiato dichiarazione. Si trattava di una procedura amministrativa pro forma per fissare la data dell'inizio del processo, o meglio l'assegnazione al dipartimento competente. Una volta assegnato il giudice e l'aula, il che sarebbe avvenuto un altro lunedì, il processo sarebbe iniziato dopo sei mesi o più, magari dopo un anno. Ma Thomasino incominciò con una mossa a sorpresa, come se volesse John T. Lescroart
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divertirsi aprendo la giornata con un piccolo dramma prima di immergersi nel mare della burocrazia. "Signor Freeman, la sua cliente si sente bene?" Stava fissando Jennifer, pallida, magra, con i capelli tagliati irregolarmente. Dean Powell, che non gli aveva prestato attenzione, si alzò. "Vostro onore, ammettiamo che la signora Witt possa essere stata trattata male durante la detenzione in Costarica e..." Thomasino batté il mazzuolo e fece sussultare tutti. "La corte sta parlando al signor Freeman," disse ironico. "Se non ricordo male, è in grado di rispondere da sé. Signor Freeman?" Freeman si affrettò ad approfittarne. 'Vostro onore, la mia cliente è stata percossa duramente. Ha bisogno di assistenza medica. È così sconvolta da quanto ha passato che non osa fiatare. I suoi diritti civili sono stati indubbiamente violati. L'accusa ha perso il diritto di occuparsi del caso per il modo in cui ha condotto il procedimento di estradizione." "I presunti maltrattamenti non sono avvenuti in Costarica?" "Il fatto non sarebbe successo se..." "Non sarebbe successo se la sua cliente non fosse evasa e non fosse fuggita all'estero." "Tuttavia, vostro onore..." "Tuttavia, signor Freeman, ho un'agenda impegnativa e credo che il condizionatore cominci a fare i capricci. Le dispiace se procediamo?" Freeman stava per ribattere quando Thomasino si tese verso di lui. "La pianti, David." Freeman batté la mano sul braccio di Jennifer, ma senza ottenere alcuna reazione. Thomasino scrisse un appunto sulla stampata. "Presumo che tutti siano pronti a procedere. È così, signor Powell?" "Sì, vostro onore." "Signor Freeman?" Freeman aveva un altro problema. Normalmente, in un caso che poteva comportare la pena di morte, la difesa cercava di tirare in lungo. Ma ne aveva discusso con Jennifer che, come al solito, non era stata d'accordo sulla sua strategia. Powell voleva che il processo cominciasse presto e si concludesse prima delle elezioni di novembre. In linea di principio, Freeman non gradiva accettare ciò che piaceva all'accusa, ma Jennifer gli aveva legato le mani: era in carcere e non sarebbe uscita prima di essere John T. Lescroart
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assolta. Era stata rinviata a giudizio per tre omicidi premeditati, e Freeman sapeva che la procura non formulava con leggerezza certe imputazioni. Voleva che Hardy avesse il tempo di trovare "qualcun altro". Voleva avere tempo per pensare e tramare. Voleva avere tempo perché succedesse qualcosa, perché Powell venisse eletto e fosse nominato al suo posto un altro rappresentante dell'accusa che non avesse i suoi programmi e le sue ambizioni. "Signor Freeman?" chiese Thomasino. "È pronto per procedere?" Freeman non aveva scelta. "Sì, vostro onore." Thomasino sembrava sorpreso. Non aveva mai visto un processo per un caso che comportava la pena di morte che venisse fissato già alla prima data. "Allora d'accordo." Il processo fu messo in calendario per lunedì 13 agosto, al Dipartimento 25. "È di lei che mi fido, sa, non di Freeman." Prima di uscire dopo l'udienza, Hardy aveva deciso di salire a scambiare qualche impressione con Jennifer. Aveva con sé un elenco di domande. Adesso erano seduti nella stanzetta accanto al banco delle guardie, e Jennifer stava esprimendo la sua irritazione nei confronti di David Freeman. "È un pasticcione e non crede a quello che gli dico... neppure che laggiù mi hanno violentata." "Nel nostro mestiere i professionisti sono fatti così, Jennifer. Per questo David è così bravo. Non è una questione personale. Se il fatto che è stata violentata fosse utile per il processo, si sarebbe buttato. Purtroppo non serve a niente. Voglio dire, è successo perché era scappata." "Se mi assolvono torno là, trovo quel guardiano e lo uccido. Lo giuro." D'istinto, Hardy alzò gli occhi verso i muri gialli. Era quasi sicuro che non ci fossero microfoni nascosti. Se lo augurava. Si tese verso Jennifer e abbassò la voce. "Sarebbe bene non minacciare di morte nessuno per i prossimi mesi. D'accordo?" "Starò attenta." Poi Jennifer guardò attraverso la vetrata il banco deserto delle guardie. "Sua moglie mi è simpatica." Hardy annuì. In un certo senso avrebbe voluto che non se ne parlasse; ma sapeva che era inevitabile. Forse era un'altra delle ragioni per cui aveva sentito la necessità di una visita: per convincersi che i rapporti fra Jennifer e Frannie non fossero importanti. "Mi ha detto che avete fatto una John T. Lescroart
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chiacchierata." Jennifer alzò le spalle. "È vero. Da tanto tempo non parlavo con qualcuno come se fossi una persona normale..." "Mi pare che il dottor Lightner parli con lei tutti i giorni." "Be', certo... Ken." "Voglio dire, non le parla come a una persona normale?" Inaspettatamente lei sorrise. Hardy pensò che gli sarebbe piaciuto registrare un colloquio e analizzare quando spuntavano quei sorrisi. Ma aveva quasi paura di ciò che avrebbe trovato. "Ken non conta," disse Jennifer. "E poi, credo che per lui nessuno sia normale. Normale non ha significato." "E laggiù, in Costarica? Non ha conosciuto nessuno?" Lei lo guardò per un momento, poi distolse gli occhi. "No. Pensavo che non fosse una buona idea." "Allora che cosa faceva?" "I primi giorni sono rimasta in albergo. Poi sono andata alla spiaggia, ho letto qualche libro." "Le ho detto che ho visto sua madre?" chiese Hardy. "Ha detto che l'avrebbe vista. Come sta?" "Non molto bene. Suo padre l'aveva picchiata." Hardy non ritenne necessario addentrarsi nei particolari. Gli sembrava ancora di vedere il corpo torturato di Nancy DiStefano. Jennifer abbassò lo sguardo sul tavolo e si mordicchiò l'unghia d'un pollice. "Ho saputo che questo genere di violenza fisica... si tramanda nelle famiglie," azzardò Hardy. Lei rialzò gli occhi. "Ne abbiamo già parlato." E non intendeva parlarne più. Assunse un tono sbrigativo e, stranamente, quasi allegro. "C'è altro? Ha detto che aveva qualche domanda da fare." Hardy prese dalla borsa il blocco degli appunti. La sera prima aveva riesaminato quelli che aveva annotato durante la visita alla casa dei Witt. Sì, era rimasta in quella casa nel periodo fra i delitti e il suo arresto, ma non aveva trovato il coraggio di salire al piano di sopra. Era entrata nella camera da letto una sola volta per prendere i vestiti e altre cose, e l'esperienza l'aveva sconvolta al punto che non vi era più tornata. "E come ha fatto l'inventario per Terrell?" "Ecco, a questo riguardo ho combinato un pasticcio," confessò lei. "Al John T. Lescroart
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piano terreno non era sparito niente, non avevano rubato i miei gioielli. Non ho neppure pensato alla pistola." Jennifer alzò una mano. "Lo so. È stato un grave errore." Forse in altre occasioni non aveva detto la verità, decise Hardy. Ma adesso era diverso. "Poteva esserci un'altra pistola?" chiese Hardy. "Quale? Dove?" "Non so. In qualunque posto. Forse Matt aveva una pistola giocattolo?" Jennifer scosse la testa. "No, non glielo avremmo permesso. Larry e io eravamo d'accordo su questo. Diceva che quando era interno all'ospedale aveva visto troppi incidenti." "Dunque niente pistola?" "No. Perché me l'ha chiesto? Comincio a essere stanca, signor Hardy." "Ancora una domanda. Una sola." Lei annuì. "Crane & Crane?" Jennifer si oscurò. "Non saprei. Che cos'è, una specie di indovinello?" "È uno studio legale. Ne ha mai sentito parlare?" "Perché?" "Prima mi risponda." Lei scrollò di nuovo la testa. "Non mi dice nulla." Hardy cominciò a riporre gli appunti. "Può darsi che Larry gli avesse telefonato per qualche ragione." Poi rimase in silenzio. Le guardie tornarono al loro banco, passandosi da una all'altra un sacchetto di patatine. "Non so perché Larry avrebbe dovuto chiamarli," disse Jennifer. "Proprio non lo so."
21 Hardy stava lanciando le freccette contro il bersaglio nel suo ufficio quando Freeman entrò senza bussare e gli fece sbagliare la mira. "Questo non puoi metterlo in conto alla cliente," commentò Freeman. "Sto pensando," rispose Hardy. "Pensare è importante." Freeman chiuse la porta e andò a sedere sull'angolo della scrivania. "Sto pensando anch'io. Sto pensando che il processo comincerà fra due mesi, Dean Powell farà parlare di sé la stampa in tempo per farsi eleggere, e io John T. Lescroart
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non posso obiettare perché la mia cliente non me lo permette." Hardy lanciò un'altra freccetta. "E poi," continuò Freeman, "vengo a informarmi sui progressi fatti dal mio investigatore e lo trovo occupatissimo a giocare. Sono l'unico che si sente sotto pressione? Due mesi per un caso che comporta la pena capitale. È inaudito." "Sono passati cinque mesi dal primo rinvio a giudizio." "E allora? Chi sapeva che l'avrebbero trovata in Costarica? Thomasino credeva che ci stessimo preparando per il processo? E tu, da che parte stai?" "Come sempre, sto dalla parte della giustizia e della verità, ma non cominceremo il processo fra due mesi. Sarà solo l'inizio della selezione dei giurati." Naturalmente Freeman lo sapeva; ma il processo sarebbe cominciato comunque prima di quanto avrebbe voluto. E non poteva far niente. Affondò le mani nelle tasche e guardò dalla finestra. "Cristo, ho bisogno di qualcosa, Diz. Di qualcosa." "Ma se questa mattina ti ho sentito dire ai giornalisti che con un'accusa tanto infondata non si sarebbe nemmeno arrivati al processo." "A volte funziona. Un viceprocuratore distrettuale novellino legge sui giornali che ho una prova segreta così inconfutabile da far saltare il processo, e il giorno dopo mi presento al palazzo di giustizia patteggiando un omicidio preterintenzionale quando in realtà era un omicidio volontario. Ma in questo caso..." Freeman scosse la testa. "In questo abbiamo Jennifer, la sua arma e i suoi presunti moventi. Abbiamo un bisogno disperato di qualcun altro da additare come colpevole." "Già." Hardy girò intorno alla scrivania e sfogliò gli appunti. "È quel che sto facendo, David. Il problema è che non ho una pista. Comunque, ti farà piacere sapere che ho un appuntamento per un'altra faccenda. Anzi, l'appuntamento era per un quarto d'ora fa, ma il signor Frankl è in ritardo." Freeman, che era alla finestra, si girò a guardarlo. "Chi è Frankl?" "È il tale accusato di guida in stato di ubriachezza. Vuole arrivare al processo." "Quello con l'1,6?" In California bastava un tasso alcolico di 0,8 per essere condannati. Hardy annuì. "Dice che ha pensato a una difesa." "Mi piacerebbe sentirla. Potrebbe farci arricchire." John T. Lescroart
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Il telefono trillò sulla scrivania di Hardy. "Eccolo. Ti terrò informato." Freeman era arrivato alla porta e stava per uscire quando Hardy alzò il ricevitore. Ma non era il signor Frankl. Era Sam Bronkman della Mission Hills Clinic: aveva appena ricordato qualcosa di personale sul conto di Larry Witt, e pensava che a Hardy potesse interessare. Hardy parcheggiò all'ombra della Mission Hills Clinic. La brezza serotina gli agitò la giacca quando scese dalla macchina per riattraversare i picchetti. Stessa gente, stesso edificio, stesso vento. Nella sala d'aspetto di OSTETRICIA-GINECOLOGIA non c'era nessuno, e la veneziana dietro il vetro dello sportello era abbassata. Poi le stecche si aprirono. Sam sorrise, indicò la porta che conduceva negli uffici e Hardy attraversò l'anticamera. Sam si affacciò come una tartaruga che si sporge dal guscio. Prese Hardy per il braccio e lo fece passare. "Via libera. Roba da non credere. Chiudiamo alle quattro e mezzo e c'è gente che viene alle cinque e pretende di entrare. Se tenessi aperto lo sportello dovrei star qui tutta la notte." Sam lo precedette nella sala di ritrovo dei dipendenti, fra sedie di plastica gialla, tavoli di metallo bianco, distributori automatici, un forno a microonde. Non c'erano finestre e la sala era deserta. Sedettero a uno dei tavoli. "Avrei dovuto ricordarlo l'altra volta, quando ha parlato di questioni personali, ma..." Sam schioccò le dita. "Certe volte la memoria fa strani scherzi." "Sam, la ringrazio per avermi chiamato. Di che cosa si tratta?" "Ecco, durante il fine settimana... Ha letto l'articolo su quel senatore che non voleva permettere alla figlia di abortire? Lo stavo leggendo in casa di Jason, il mio amico, e all'improvviso, zac!, mi è venuto in mente." "Che cosa?" "Il dottor Witt. La stessa storia." "Il dottor Witt aveva una figlia?" "No, no." Sam allungò una pacca sul braccio di Hardy. "No, senta. C'era una ragazza, Melissa Roman, e i genitori dicevano che non doveva abortire. Gliel'avevano proibito. E così lei ha cercato di abortire da sola, ed è finita male." "Che cos'è successo?" John T. Lescroart
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Sam agitò le mani come per includere tutto l'universo. "È finita qui. Il dottor Witt era il ginecologo di turno. Ha chiamato subito un'ambulanza, ma prima ancora che arrivasse la ragazza è morta." "E i genitori hanno dato la colpa a lui?" "Per forza. Non potevano pensare che fosse loro. E Melissa era morta, non sarebbe stato giusto prendersela con lei, così hanno concluso che era Witt il responsabile dell'aborto che gli aveva ucciso la figlia." Non era molto logico, pensò Hardy, ma doveva esserlo sembrato ai Roman. "E che cosa hanno fatto? Quand'è successo?" "Oggi ho controllato. È stato poco prima dell'ultima Festa del Ringraziamento." "Un mese prima che Witt fosse assassinato." "Giusto." "Che cos'hanno fatto? Hanno minacciato di fargli causa?" Sam alzò di nuovo le mani. "Non so con precisione. Roman era venuto qui due volte... e la seconda abbiamo dovuto chiamare la sicurezza. Poi, subito dopo, il dottor Witt ha detto che forse avrebbe smesso con il volontariato. Non ne poteva più. Qualcuno gli aveva sfondato i finestrini della macchina ed era sicuro che fosse Roman." "E l'aveva denunciato?" "Non lo so." Era una novità che Hardy poteva sottoporre legittimamente a Terrell o a Glitsky. Un mese prima di morire, la vittima era stata oggetto di un reato. Purché Larry l'avesse denunciato. "Non so," continuò Sam, "se Roman avesse intenzione di fare causa a lui o all'ambulatorio. Non ne ho sentito parlare. Però posso dirle una cosa..." Hardy attese. "Ecco, se hai intenzione di ammazzare qualcuno, non gli fai causa, vero? Forse è per questo che non ne ho mai sentito parlare. Altrimenti, perché non ha fatto causa solo all'ambulatorio?" Era un quesito interessante. La casa era vuota quando tornò. Sentì il vuoto che minacciava di gravargli addosso, pesante e freddo come la nebbia. Forse Frannie era andata al supermercato. Non sapeva dove fossero Frannie e i bambini, e in un certo senso questo lo preoccupava. Mentre tornava a casa aveva pensato a Jennifer e Larry e John T. Lescroart
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ai Roman e al modulo che Lightner aveva dimenticato sulla panca, forse intenzionalmente. Andò ad affacciarsi alla finestra della stanza di Vincent, e si chiese se per caso erano in giardino. Non c'erano. Diede da mangiare ai pesci tropicali, guardò l'orologio, fece per chiamare lo Shamrock, cambiò idea, guardò di nuovo l'ora. Frannie non aveva lasciato nemmeno un biglietto. Non aveva intenzione di restare lì ad aspettare. Era successo qualcosa ai bambini? Frannie aveva dovuto precipitarsi al pronto soccorso e non aveva avuto il tempo di lasciare un messaggio? Andò dalla cucina alla porta e tornò indietro. E intanto cercava di convincersi che non stava cercando macchie di sangue sul pavimento. Andò in camera da letto e indossò calzoncini, maglietta, scarpe da tennis. C'era un percorso di oltre sei chilometri che faceva sempre; da casa alla spiaggia, attraverso il Golden Gate Park, Lincoln, fino allo Shamrock sulla Nona Strada e di nuovo a casa. Impiegava circa tre quarti d'ora. Guardò l'orologio. Sarebbe tornato prima delle sette. Lasciò un biglietto sul tavolo della cucina. Almeno Frannie avrebbe saputo dov'era andato. In cucina, Frannie lo salutò con un bacio. Stava rimestando il sugo alle vongole per gli spaghetti e canticchiava. Rebecca versava l'acqua da un annaffiatoio, metà sul pavimento e metà nelle padelle che aveva allineato. Vincent era sul seggiolone vicino a lei. Il sole non era ancora tramontato, e la casa non era più vuota e sinistra. Hardy andò a fare la doccia, si rimproverò di essere così paranoico e si chiese come mai fosse così invecchiato.
22 Mercoledì, un po' dopo mezzogiorno, si sentì il rumore di qualcosa che urtava contro le sbarre e cadeva sul pavimento della prigione, alle spalle di Jennifer che era seduta sulla panca del parlatorio. Frannie sussultò e si alzò a mezzo, poi tornò a sedere con un sorriso forzato. "Odio questo chiasso. Mi fa sobbalzare." "Ormai non mi dà più fastidio. Sono abituata." Jennifer si guardò le mani. "Larry buttava per terra la roba, qualche volta, e così quando sentivo il rumore significava che era quasi finita." "Che cosa vuol dire?" John T. Lescroart
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"Sa, la tensione. L'attesa che esplodesse. Era quasi un sollievo." Frannie appoggiò la mano sul plexiglas e Jennifer fece altrettanto dalla sua parte. Era diventato per loro una specie di segnale, un contatto per procura. Era il terzo incontro. Frannie si guardò la mano, la fede. Impallidì. "Si sente bene?" chiese Jennifer. "Sì. Qualche volta..." "Che cosa?" "Un momento di debolezza. Non è niente." Frannie tornò a sorridere. "Non so che cosa sia." "Mi sembra triste." Frannie annuì. "È così. Come se all'improvviso le cose avessero perduto... la risonanza." "Forse sono le conseguenze del parto. Possono durare sei mesi, a volte anche più. Dopo che avevo avuto Matt..." Jennifer s'interruppe, sorpresa di aver pronunciato quel nome. "Dopo che avevo avuto Matt, prima era venuta l'euforia, poi una specie di buco nero che non voleva sparire." Frannie scrollò le spalle. "Forse. Non so. Non mi pare." Riabbassò la mano. "Volevo dirle... sa che anche il mio primo marito fu ucciso?" Le parlò di Eddie Cochran, morto a venticinque anni. Hardy, che era stato amico di Eddie, aveva contribuito a scoprire l'assassino. E cinque mesi dopo Hardy e Frannie si erano sposati. Frannie parlò dei momenti difficili che avevano passato dopo che si erano messi insieme. Forse un senso di colpa. Ma adesso la sua tristezza sembrava avere un significato più profondo. "È stato così precipitoso, capisce?" Jennifer ascoltava con gli occhi lucidi. Un'altra donna aveva problemi, motivi di tristezza. Le dava un certo conforto sapere che non era sola. "Prima c'era Eddie, e poi, quasi all'improvviso, mi sono risposata con Dismas ed è nata Rebecca. E prima ancora che cominciassi a riflettere su tutti questi cambiamenti, sono rimasta di nuovo incinta e ho avuto Vincent. E adesso che ci penso ho l'impressione di aver corso come una pazza, come se fuggissi da qualcosa. Ha senso?" Jennifer annuì. "Sì, qualche volta credo che la soluzione sia continuare a scappare per non dover pensare. Se ci si ferma e si comincia a riflettere..." Frannie appoggiò i gomiti sul ripiano. "Oggi stavo allattando Vincent John T. Lescroart
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quando ho cominciato a singhiozzare. Ma perché? Sono felice, Dismas e io andiamo d'accordo, amo i miei bambini. Non capisco." "Sente la mancanza del suo primo marito?" "Un po'. Ma mi sono abituata all'idea che non ci sia più. E questa adesso è la mia vita e non so neppure come ci sono arrivata." Jennifer grattò il ripiano graffiato dalla sua parte del vetro. "A volte non si sa come si sia finiti in qualche posto." Frannie sorrise con uno sforzo. "Non avrei alcun diritto di lamentarmi, visto dov'è lei." "Non importa," disse Jennifer. "Non starò qui in eterno. In un modo o nell'altro, ne uscirò." "Non so come riesca a resistere." Jennifer indugiò un minuto, deglutì e a sua volta sfoggiò un sorriso forzato. "Non ho molte possibilità di scelta... Lui la tratta bene, vero? Non le fa del male?" Frannie non afferrò il nesso. "Chi?" "Suo marito." "Dismas? No, mi tratta bene. Non mi ha mai fatto del male. Mi ama." Jennifer le rivolse uno sguardo che sembrava chiedere che cosa c'entrasse quell'affermazione, ma disse: "Anche Eddie?" "Vuole sapere se mi trattava male? No, mai." Jennifer si passò le mani fra i capelli cortissimi. "Devo essere io," disse. "Ho sempre pensato di essere io." "Lei che cosa?" L'altra si incurvò. Alzò lentamente la mano e l'appoggiò al vetro. Frannie la imitò e quasi immaginò di sentire il tepore. "Perché mi picchiavano sempre." Al secondo piano, Dean Powell ascoltava un altro viceprocuratore distrettuale che analizzava un problema di aggressione aggravata. "Secondo me," stava dicendo Tony Feeney, "in questo caso la difesa sosterrà che la puttana se l'è cercata. C'è stato un litigio per i quattrini. Tutti e due negri. E credo che lei rifiuterà di testimoniare o in aula cambierà testimonianza, come le altre tre volte." Feeney voleva sapere dal collega più esperto se doveva prendersi il disturbo di accusare un certo Duncan J. Dunlap per aggressione aggravata contro la convivente Byna Lewes. Sicuramente Dunlap avrebbe detto che John T. Lescroart
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era stato provocato: pensava che la Lewes gli nascondesse parte dei suoi guadagni o stesse addirittura per passare a un altro magnaccia. Byna Lewes aveva promesso di testimoniare contro Dunlap le altre tre volte che l'aveva picchiata; ma aveva cambiato idea, aveva detto che Dunlap era sinceramente pentito e l'amava. Aveva solo bisogno di aiuto. Forse il municipio avrebbe potuto contribuire a pagargli le cure di uno psicologo. Powell intrecciò le mani dietro la testa. "Ti chiedi mai perché continuiamo questo lavoro?" Feeney non sapeva che cosa rispondere. "L'ha ridotta male?" chiese Powell. Feeney aprì il fascicolo per prendere le foto ma l'altro lo fermò con un gesto. "Basta che me lo descrivi, Tony." Le foto polaroid erano state fatte all'ospedale poco dopo l'aggressione. La ragazza aveva l'occhio sinistro gonfio e chiuso, il naso che sembrava fratturato, sangue sui capelli e sull'orecchio. Feeney esaminò il rapporto della polizia e scoprì che aveva anche un braccio slogato. "Siamo nella media." "Lo accusiamo?" Powell era arrivato al nocciolo del problema. Se Byna, la vittima, fosse stata disposta a collaborare, Dunlap sarebbe stato accusato e il caso sarebbe proseguito. Se invece avesse deciso di non collaborare e di non testimoniare, come succedeva spesso, non ci sarebbe stato niente da fare. "Be', è abbastanza dubbio. La notte delle foto, la Lewes ne aveva abbastanza, era decisa a venire qui appena uscita dall'ospedale per denunciare il mascalzone." "E poi che cos'è successo? Lui è andato a trovarla?" "Ci sarebbe andato, se non fosse stato in prigione. Ma appena è stato rilasciato su cauzione le ha portato rose e cioccolatini e le ha chiesto perdono. Ma stavolta lei non è sicura di credergli; tuttavia ha tanta paura che non vuol testimoniare." "È logico." "Però..." Feeney alzò l'indice. "Dice che se la chiamiamo a comparire, testimonierà." "Che brava cittadina! E tu mi chiedi che cosa devi fare?" "So quel che faresti tu, Dean. Mi domando solo come lo spiegheresti. Abbiamo una terza recidiva, abbiamo una vittima che si dichiara disposta a testimoniare. Come si fa a lasciar perdere?" John T. Lescroart
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"Non lasci perdere niente, Tony. Presenta la richiesta di rinvio a giudizio, falle coraggio tutti i giorni, e non disperarti se non si presenterà al processo." L'ufficio di David Freeman era al primo piano del vecchio palazzo di Sutter Street. Davanti al suo covo, Phyllis Wells teneva a bada gli urlanti. "Urlanti" era la parola in codice per indicare gli avvocati associati. Phyllis lavorava per David da trentadue anni e aveva visto molti associati arrivare e andarsene: entravano nello studio dopo la laurea nella speranza di far carriera all'ombra del famoso David Freeman e diventare soci entro un lasso di tempo ragionevole, sei o sette anni. Di solito non duravano più di due. Nessuno era rimasto abbastanza a lungo per diventare socio. Lavoravano ventiquattr'ore al giorno più i fine settimana, scrivevano memorie e partecipavano alle udienze; poi se ne andavano, si mettevano in proprio, si facevano assumere da qualche grosso studio legale o abbandonavano la professione. La ragione era semplice: David Freeman non voleva soci. Non per niente aveva chiamato lo studio David Freeman e Associati. E non intendeva cambiare. A David Freeman non piaceva concedere deleghe a nessuno. Perciò, agli occhi di Phyllis, la situazione con Dismas Hardy era un po' insolita: Hardy faceva il lavoro che Freeman aveva sempre sbrigato da solo. E Freeman sembrava relativamente soddisfatto dei risultati. Era così lontano dal suo carattere che Phyllis era preoccupata. Certo, non aveva niente contro Hardy; era simpatico e aveva l'aria di non prendersi troppo sul serio. Freeman le aveva detto di lasciare che Hardy venisse quando aveva bisogno di conferire. Ufficialmente non era un associato e non era neppure un "consulente". Aveva solo preso in affitto una stanza. Andava e veniva a casaccio e cominciava a dimostrare di fidarsi di lei. Comunque, era insolito passargli informazioni prima di aver chiesto il permesso a David. Ma Freeman aveva un'udienza e adesso Dismas Hardy era lì e domandava chi aveva suggerito a Jennifer Witt di rivolgersi al famoso avvocato. Phyllis aveva pensato che lo sapesse già. Comunque, non era una cosa molto importante. Jennifer Witt era cliente di David, e su questo non c'erano dubbi, anche John T. Lescroart
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se Phyllis ricordava che Hardy aveva preso l'ufficio in affitto da circa un mese quando lei aveva cercato David in tribunale, e questi le aveva detto di mandare Hardy al carcere per incontrarsi con Jennifer. Ma dopo trentadue anni di esperienza, Phyllis aveva imparato che le informazioni erano moneta corrente e che quasi sempre andavano diffuse secondo la regola della "necessità di sapere". "Mi sono ricordato una cosa," stava dicendo Hardy. "Ho imparato il più possibile su quella donna ma non so neppure come mai sia toccata a noi. La prima volta che mi ha visto mi ha scambiato per David; quindi non conosceva neppure lui, giusto?" Phyllis sorrise e si assestò gli occhiali. "Perché non l'ha chiesto a lei?" Hardy si appoggiò con disinvoltura al divisorio che separava la scrivania dal corridoio. "Se non ricordo male, ha accennato agli avvocati del marito, ma non so chi siano." Chi aveva suggerito a Jennifer di rivolgersi a David Freeman era stata Donna Bellows, dello studio Goldberg Mullen & Roake. Hardy risalì in ufficio e le telefonò. Si presentò e fu colpito dal tono gelido della voce profonda. "Forse a suo tempo non è risultato chiaro, signor Hardy, ma questo studio non si occupa di processi penali e personalmente non voglio aver niente a che fare con la signora Witt, quindi non sono disposta a darle un grande aiuto. Mi dispiace." "La conosceva?" Doveva continuare a farla parlare prima che troncasse la comunicazione; e c'era qualcosa cui voleva arrivare. "Non l'ho mai vista. Non ho mai voluto conoscerla. Ora, se vuole scusarmi..." "La prego... se posso... una sola domanda. Può dirmi qualcosa di Crane & Crane? C'era qualche legame con il dottor Witt?" Silenzio. Donna Bellows stava decidendo. Hardy sapeva che non erano avversari in senso stretto. Forse lei si sentiva vincolata dalla lealtà per il suo cliente Larry Witt, ma gli avvocati seri tendevano a scambiarsi cortesie professionali, e Hardy ci contava. La sentì sospirare. "D'accordo. Mi scusi, signor Hardy. Larry Witt mi era simpatico. Ho letto i giornali e credo che sia stata la moglie a uccidere lui e il bambino." "Ci crede in base a quanto ha letto sui giornali?" "Sì, e in base ad altre considerazioni." John T. Lescroart
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"Quali?" Un altro silenzio. "Torniamo alla sua domanda, se non le dispiace." Anche se forse lì c'era un ricco filone d'informazioni, Hardy sapeva che doveva lasciar stare, se voleva saperne di più su Crane & Crane. Aveva passato quasi tutto il giorno precedente e l'intera mattina inseguendo i fantasmi degli "altri": i genitori di Melissa Roman, Molly, la prima moglie di Witt, un certo dottor Heffler che figurava nel modulo di Lightner. Non era riuscito a parlare con nessuno di loro: adesso aveva al telefono Donna Bellows e voleva sentire che cos'era disposta a dirgli. "Crane & Crane. C'è qualche legame con Larry?" "Il nome non mi è nuovo nel senso che mi pare di averlo già sentito, ecco tutto." "È uno studio legale di Los Angeles." "Può darsi. Ha detto che Larry..." "Non lo so. Gli ha telefonato pochi giorni prima di morire." "Prima di morire assassinato." Per un momento, Hardy ascoltò il respiro di Donna Bellows. "Ero la consulente finanziaria di Larry. Per quanto riguarda lo studio Crane, può darsi che vi abbia accennato. Sarà stato sei mesi fa. Comunque, non doveva essere una cosa importante. Non ricordo, sinceramente, ma posso controllare." "Le dispiacerebbe?" "Sì, mi dispiace, signor Hardy. Non mi va che ammazzino i miei clienti. E non voglio aiutare i loro assassini a cavarsela. Tuttavia controllerò. L'ho detto e lo farò." Harry la ringraziò. "La chiamerò io," disse lei, e tolse la comunicazione. Quel mercoledì sera Hardy e Frannie erano a bordo di un traghetto che attraversava la baia, diretto a Sausalito. Fuori, al largo, nei pressi di Alcatraz, l'acqua era mossa, il vento forte, il sole sperduto in un banco di nebbia. La temperatura era mite. "Ah, l'estate." Frannie guardava Dismas che aspirava l'aria frizzante. Erano sul ponte superiore investito dagli spruzzi. "Non c'è niente di meglio del mese di luglio per liberarsi delle tristezze dell'inverno." Alzò gli occhi verso il marito che la cinse con un braccio. "Tutto bene?" Frannie si chiese se doveva dirglielo. Aveva l'impressione di John T. Lescroart
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imbrogliarlo; ma non voleva parlarne, per il momento. Sarebbe nata una discussione, e non sentiva il bisogno di chiarire tutto con Dismas. Lo amava, ma aveva una vita sua, i propri sentimenti. Per Frannie, vedere Jennifer Witt significava in un certo senso portare la realtà in superficie; e pensava che fosse un bene. Interrogare i propri sentimenti non era un pericolo per lei, per Dismas, per i bambini. Li amava tutti... il marito e i figli. Non si trattava di questo. Era ciò che aveva cominciato a dire a Jennifer... C'erano tante cose per le quali non trovava il tempo. Stava perdendo di vista chi era Francine Rose McGuire Cochran Hardy, e ciò che era successo. E che provava. Era soltanto un'appendice degli uomini con cui le capitava di vivere, la madre dei loro figli? Non era così con Dismas, non era stato così con Eddie. Lei ed Eddie avevano vissuto un'avventura. Eddie stava per iniziare un corso post-laurea quando era stato ucciso. Risparmiavano, scoprivano posti nuovi. Scoprivano se stessi. All'improvviso Eddie era scomparso. E c'era Dismas... non nello spazio lasciato vuoto da Eddie, ma molto vicino. E adesso, dopo due anni, era una madre casalinga senza preoccupazioni economiche in un mondo dove Dismas aveva già fatto le sue scoperte e aveva preso tante decisioni. Per esempio, vivere nella vecchia casa di lui... L'avevano deciso insieme. Era logico e la casa le piaceva. Non si trattava di questo. Ma anche se l'aveva trasformata secondo i suoi gusti, era pur sempre la casa di Dismas, non di entrambi. Anche tutti i loro amici erano gli amici di Dismas e le rispettive mogli: Abe, Flo, Pico, Angela. Persino Moses, che pure era suo fratello, era stato amico di Dismas prima ancora che lei entrasse in scena. Era affezionata a tutti... ma non era stata lei a trovarli. E i suoi vecchi amici, quelli che avevano conosciuto lei ed Eddie? Non contavano? Perché non facevano più parte della sua nuova vita? Sapeva che Dismas non avrebbe approvato molte visite a Jennifer. Lo scopo iniziale era stato semplicemente capire chi era a mettersi il cuore in pace. Ma adesso stava succedendo qualcosa d'altro ed era importante. Forse parlando di tante cose con Jennifer, per esempio del fatto che entrambi i mariti l'avevano picchiata, Frannie poteva aiutarla a cambiare. Sembrava che ne valesse la pena, anche se Dismas non ne era informato. Ed era sicura che lui avesse qualche segreto nei suoi confronti. Nessuno John T. Lescroart
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era obbligato a riferire al coniuge ogni pensiero, ogni parola, ogni atto della propria vita. E vedere Jennifer le faceva bene. Era l'amica e la confidente di Frannie, e Dismas non era tenuto a saperlo. Lei poteva scegliere le sue amiche, prendere decisioni autonome. Più tardi glielo avrebbe detto. Magari dopo che lui e Freeman avessero ottenuto l'assoluzione di Jennifer. Dopo il processo. Era autosufficiente, ma in un certo senso aveva lasciato che la prevedibilità della sua vita quotidiana la svalutasse. Si sorprendeva addirittura a chiedersi se Dismas avrebbe continuato ad amarla, e perché l'amava, e intanto si diceva che meritava d'essere amata. Sei straordinaria, meravigliosa, sensibile, ragionevole... Se non vuoi bene a te stessa, come puoi amare qualcun altro? Com'è possibile che qualcun altro ti ami? Il traghetto si stava avvicinando a Sausalito e l'acqua era più calma. Dismas la cinse un po' più forte con il braccio. "Allora?" Non c'entrava il fatto che lo amasse. Lo amava. Ma aveva bisogno di un po' più di spazio per se stessa nella propria vita. "Sono qui," disse, e gli baciò la guancia.
23 "Molly." Erano nel soggiorno di Freeman il venerdì mattina e Hardy era seduto su una poltrona di pelle mentre Freeman, avvolto nella vestaglia marrone, prendeva appunti a matita. "Molly non era qui in dicembre, non sapeva neppure che fosse morto, oppure è un'attrice ancora più abile della nostra cliente." "Come l'ha presa?" "Ecco, mi dispiacerebbe molto se l'annuncio della mia morte fosse accolto con la stessa soddisfazione... Lo odiava, benché siano passati tanti anni. Larry la picchiava." Freeman inarcò le sopracciglia. "Però non picchiava Jennifer." Hardy restò impassibile. "È la nostra difesa, giusto? Non la picchiava. Così dice lei." "Non le ha mai messo le mani addosso." Hardy aveva parlato finalmente con la prima moglie di Larry White, Molly. Adesso era consulente scolastica e viveva a Fargo nel North John T. Lescroart
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Dakota. Non si era risposata e diceva di non aver mai avuto notizie del dottor Witt negli ultimi cinque anni. "Penso che potremmo far controllare da qualcuno se per Natale era nel North Dakota, ma io credo di sì. La notizia della morte di Larry l'ha resa felice." Freeman posò la matita. "Fermiamoci un momento, Diz. Che razza di figlio di puttana era quell'uomo?" Hardy accavallò le gambe. "A quanto ho sentito, era un cittadino modello, un vero professionista, un padre premuroso che provvedeva con larghezza alla famiglia. Aveva solo il vizietto di picchiare le mogli." "Lo credi davvero?" "Tu no?" "Non so perché Jennifer non voglia ammetterlo. Anche se non c'è una legge in proposito, è probabile che una giuria l'assolverebbe e in ogni caso non si parlerebbe neppure di pena di morte. Powell non oserebbe chiederla." Freeman si riferiva al fatto che l'Assemblea della California aveva respinto di recente un emendamento che avrebbe codificato la sindrome della donna maltrattata come circostanza attenuante in caso d'omicidio. Ma, dato che i tribunali l'accettavano comunque in molti casi, c'erano i precedenti. Freeman si alzò e si stiracchiò, poi tornò a sedere. "Ma tu credi che la picchiasse?" "Sì, assolutamente. Era un maniaco del potere. Se lei sgarrava, la riempiva di botte." "E Jennifer pensava di non poterlo lasciare? Doveva restare a prenderle?" "Triste, ma vero. Se se ne fosse andata, lui l'avrebbe ritrovata. Si sarebbe preso il bambino. E l'avrebbe ammazzata." "Quindi lei lo ha battuto sul tempo. Era andata bene con Ned, sarebbe dovuto andar bene anche con Larry, giusto?" Hardy alzò le spalle. "Lei dice di no." "Bene." Freeman incominciò a battere la matita sul tavolo. "Devo dire che, in tutti gli anni di professione, non ho visto molti casi come questo. Mi piacerebbe vederla giocare a poker per scoprire se bluffa." "Forse è vulcaniana." "Che cosa?" Hardy era meravigliato. Possibile che David Freeman non avesse mai John T. Lescroart
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visto Star Trek e non sapesse che i vulcaniani non bluffavano mai? Si guardò intorno e concluse che probabilmente era così: infatti non c'erano televisori. "Lascia stare, David. È una storia lunga. Vogliamo continuare?" Freeman smise di battere la matita sul tavolo. "Sì, è meglio." Quando uscì dall'appartamento di Freeman, Hardy si avviò a piedi per un isolato e andò a pranzare allo Stanford Court... voleva restare solo per pensare. La polizia non aveva ricevuto denunce per i presunti danneggiamenti alla macchina di Larry Witt a opera dei genitori di Melissa Roman. La cosa non aveva sorpreso Abe Glitsky perché, aveva detto, la gente aveva capito che la polizia non s'interessava troppo dei reati che non fossero crimini violenti contro le persone. Hardy aveva ordinato di nuovo salmone alla griglia con una leggera glassa wasabe e un bicchiere di Hafner Chardonnay. Era preoccupato per Frannie. Le stava succedendo qualcosa, e non ne parlava con lui. Forse era a causa di Jennifer. Lei non avrebbe dovuto aspettarsi che una visita in carcere cambiasse le cose. Ed era evidente che entrare in quel luogo era stato un trauma. Gli dispiaceva vederla infelice. Forse lui dedicava troppo tempo alla ricerca di un altro possibile colpevole. Il cinismo insito in quella situazione influiva su di lui. Sembrava che a David non importasse che Jennifer fosse colpevole o innocente: gli stava a cuore solo farla assolvere. Il cameriere venne a chiedergli se il salmone andava bene, perché "monsieur" non l'aveva toccato. Se voleva ordinare qualcosa d'altro... Bene, per quel giorno Hardy decise di non cercare un altro colpevole. In aula, la questione decisiva sarebbe stata la presentazione di eventuali prove che Jennifer era una moglie maltrattata. Una volta accertato questo, si poteva discutere della sua colpevolezza. Purché Jennifer cooperasse. Comunque Hardy non poteva permettere che Freeman incrinasse la sua fede in alcune verità oggettive, nei fatti. Era accaduto qualcosa di preciso, in un certo modo e in un certo momento. Se voleva che venisse fatta giustizia, doveva innanzi tutto scoprire quei fatti. Aveva le affermazioni di Ken Lightner. Aveva visto i lividi della madre di Jennifer. Molly, la prima moglie, aveva ammesso che Larry Witt la picchiava. E la stessa Jennifer aveva riconosciuto che lei e Larry avevano John T. Lescroart
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avuto "qualche litigio". Erano munizioni utili, ma non era una pistola fumante. Il dottor Saul Heffler era uno dei medici che figuravano nell'elenco "dimenticato" da Ken Lightner nel corridoio del tribunale. Heffler aveva lo studio ad Arguello, a mezza strada fra il centro e la casa di Hardy. Durante la settimana, medico e avvocato avevano giocato ad acchiapparella per telefono, ed era venuto il momento di farla finita, a costo di dover aspettare chissà quanto in anticamera. L'impiegata spiegò a Hardy che probabilmente il dottore avrebbe potuto dedicargli un po' di tempo fra un'ora circa, se a lui andava bene. Hardy arrivò a piedi fino a Clement Street, bevve un caffè freddo e comprò un paio di orecchini per Frannie a una bancarella. Clement Street gli piaceva. Era diventata una specie di bazar orientale con le anitre affumicate appese in bella vista e gli odori di carne cotta e di pesce crudo. In una vetrina c'era un kimono per bambina color turchese: entrò nel negozietto e lo comprò per Rebecca, e comprò anche una carnicina di seta per Vincent. Avrebbe sistemato al più presto le cose con Frannie. Non poteva permettere che qualcosa, David, Jennifer, la frustrazione, la paura o il silenzio, si mettesse fra loro e li separasse. Tre minuti più tardi tornò allo studio di Heffler e l'impiegata lo fece accomodare. Alle pareti del piccolo studio luminoso di Heffler erano appesi tre diplomi e seicento mosche artificiali per la pesca. Il dottore era di mezza età, aveva i capelli brizzolati e la faccia piatta e priva di rughe come un navajo, una figura dinoccolata e il sorriso facile. Hardy spiegò la situazione e chiese se il medico fosse disposto a confermare certi fatti. Mostrò l'autorizzazione firmata da Jennifer che permetteva al medico di parlare dei suoi precedenti clinici. (Hardy le aveva raccontato che ne aveva bisogno per quel che era successo in Costarica.) Il dottore si dichiarò ben disposto a collaborare e chiese che cosa voleva sapere Hardy. E Hardy glielo disse. "È stato quattro anni fa? O cinque? Così sul momento non la ricordo. Dirò a Joanie di cercare la cartella. Teniamo l'archivio in magazzino. Basteranno due minuti." John T. Lescroart
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Nell'attesa parlarono di pesca. Poi Joanie entrò, consegnò la cartelletta e uscì. Heffler sfogliò qualche pagina e si oscurò. "Trovato qualcosa?" "Non so che cosa intenda per 'qualcosa'. Forse avrei dovuto capire, insospettirmi, non so." Hardy attese. Hoffler continuò a leggere, poi chiuse la cartella. "Fu mia paziente per sette mesi. Venne da me di sua iniziativa; era appena arrivata dalla Florida. La prima volta che la vidi era caduta sulla scala della casa nuova." "La prima volta?" Heffler annuì e riaprì la cartella. "Tre mesi dopo si fratturò un braccio sciando. Aveva creduto che fosse soltanto una storta, fino a che non era tornata a casa, altrimenti si sarebbe fatta ingessare a Squaw Valley." Girò un altro foglio. "Ecco," disse, "forse questo avrebbe dovuto colpirmi." "Che cosa?" "Tre mesi dopo venne di nuovo da me. Stava vuotando uno sgabuzzino e lo scaffale s'era staccato e le era caduto sulla schiena. C'era sangue nell'urina. Contusioni e lividi nella zona dei reni e su tutta la schiena. Devo averglielo chiesto. Non posso neppure pensare di non averlo fatto." "E la signora Witt le rispose di no?" "Infatti. E andò da un altro dottore." "Le capitano spesso casi del genere?" "Spesso? Qualche volta. Sì, ci sono incidenti, gente che si fa male. Non posso rivolgermi alla polizia ogni volta che qualcuno si rompe un braccio o viene da me con un occhio nero." Heffler riaprì il fascicolo e sfogliò con impazienza le pagine. "Ecco, qui c'è qualcosa." In fondo al fascicolo c'era un foglietto giallo con un nome e un indirizzo. "Non so perché ci sia." Chiamò di nuovo Joanie e lei ricomparve. "Oh, è l'appunto che faccio sempre quando ricevo una richiesta di documentazioni." Heffler aggrottò la fronte. "Allora questo dovrebbe essere il nuovo medico al quale si era rivolta la paziente." Joanie sorrise. "Direi proprio di sì." "Le dissi che non l'avrei curata se non mi avesse permesso d'informare la polizia. Aveva bisogno di un esperto che la consigliasse. Mi bastò vederla una volta sola per capire." John T. Lescroart
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Hardy era nell'anticamera dello studio della dottoressa Helena Zamora, all'ora di chiusura. L'aveva ricevuto ma gli aveva detto educatamente che aveva un appuntamento per la cena dopo un quarto d'ora e poteva concedergli solo dieci minuti. Hardy aveva spiegato ciò che aveva scoperto grazie al dottor Heffler e che cosa stava cercando. "Era venuta qui," disse la dottoressa Zamora, "con un grosso livido sotto un seno, e raccontò che era inciampata e aveva battuto contro un pomello della ringhiera. M'insospettii, controllai il suo modulo d'iscrizione e richiesi la documentazione clinica. Poi le telefonai, ma non si fece più viva." Rialzò gli occhiali sulla fronte. "È una storia comune, troppo comune. Le può servire?" Hardy rispose di sì e la ringraziò. La dottoressa si tolse gli occhiali. "E ha finito per ammazzare l'animale che la trattava così, eh?" "L'accusano di averlo ucciso." "Per me, ha fatto bene." Hardy telefonò a Jennifer da una cabina d'una stazione di servizio all'incrocio fra la Diciannovesima e Kirkham. "Jennifer, sono Hardy. Ho una domanda da farle. Ha mai vissuto in Florida?" Una lunga pausa. "Non è una domanda-trabocchetto, Jennifer. Voglio solo sapere se ha mai vissuto in Florida." "No, perché?" "Così. Sto controllando una cosa. Ne riparleremo." Dunque, quel venerdì pomeriggio aveva scoperto cinque menzogne di Jennifer: la caduta dalla scala, il braccio fratturato sciando, lo scaffale che le era caduto addosso, il pomello della ringhiera, la Florida. Tutte menzogne, ma quattro avevano lo scopo di proteggere il marito. Come minimo, circostanze attenuanti...
24 "Conoscevo una ragazza, alle superiori," disse Moses. "Rachelle Manning. Mi piaceva e così le chiesi di venire a ballare con me, e lei disse John T. Lescroart
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di sì." Stavano facendo la fila in Candlestick Park dopo aver già perso mezzo inning, e aspettavano di poter comprare due birre a testa prima che il chiosco venisse chiuso. "Allora," continuò a voce alta Moses, che aveva già bevuto sette birre e risentiva delle conseguenze, "si sparge la voce e i ragazzi cominciano a congratularsi con me e a raccontarmi quello che avevano fatto con Rachelle in macchina o in casa sua e persino sotto la scrivania del preside. Be', pensavo che fosse uno scherzo. Rachelle Manning non era una puttanella. Era una ragazza di buona famiglia. Così passo a prenderla, un po' nervoso... e non siamo neppure usciti dal vialetto di casa che lei, lo giuro, allunga subito una mano. Non credo che siamo andati a ballare, e se ci siamo andati non lo ricordo." Finalmente presero le birre e tornarono verso la tribuna. "È una storia molto commovente, Moses, ma se c'è una morale mi è sfuggita. Noi stavamo parlando di Jennifer Witt." "Lo so. Sei avvocato, lei è tua cliente, e quindi non parliamo d'altro. Però..." Moses tracannò un terzo della sua birra, "però mi dispiace dover dire che le donne sono più abili degli uomini in fatto di bugie. Ecco che cosa c'entra Rachelle con l'affascinante e misteriosa signora Witt. A guardarla, allora, a parlare con lei, non si poteva neppure immaginare. Io avrei scommesso che era vergine." "Forse lo era." Moses sogghignò. "Ma non lo era l'indomani mattina. Lo so da fonte sicura." "Che cosa?" domandò Susan. Erano tornati ai loro posti. Moses sedette. "Parlavamo di Jennifer Witt e delle bugie di certe donne." "Se non sbaglio, mentono anche gli uomini," osservò Frannie. "Sì, tutti mentono prima o poi, ma quel che volevo far capire a Diz è che certe donne sembrano incarnare personalità conflittuali, eppure si comportano normalmente e nessuno se ne accorge." Frannie si tese verso Susan. "Sei ancora in tempo. Non l'hai sposato. Puoi sbarazzarti di lui." "Frannie," disse Moses, "non sto parlando di te o di Susan. Consulta la letteratura sull'argomento. C'è tutta una documentazione. Non devi offenderti. Le donne riescono meglio a nascondere le cose. Gliel'hanno John T. Lescroart
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insegnato da bambine. Siamo sinceri: se sono bugiarde, sono più abili degli uomini. È un complimento." Susan gli portò via la birra. "Le donne sono bugiarde più abili degli uomini... sarebbe un complimento, secondo te?" "Chi sta vincendo?" chiese Hardy per troncare la discussione, ma Frannie non ci cascò. "E i mariti che picchiano le mogli, Moses? Credi di poterli riconoscere a prima vista? E il loro comportamento non è una bugia mostruosa?" Moses rifletté un momento. "Credo che sia possibile capirlo, se li si conosce abbastanza bene." ' Hardy intervenne. "Per esempio, se sei sposata con uno di loro e ti picchia, allora lo capisci." "Non sei divertente." Frannie si girò di scatto verso il marito. "Non buttarla sullo scherzo, Dismas." "Non la butto sullo scherzo, Frannie. Sono dalla tua parte. Qual è il tuo problema?" "Il mio problema? Mio fratello dice che tutte le donne sono bugiarde, io non lo accetto e questo è il mio problema?" "Non ho detto tutte le donne. Ho detto..." "So che cosa hai detto. Quel che dico io è che non è il mio maledetto problema!" Frannie si alzò e salì la scalinata. Hardy la seguì con lo sguardo. Susan la rincorse. Moses scosse la testa. "Che cos'ho detto?" Erano le sei passate quando, esausti, trovarono finalmente posto dietro l'angolo, scaricarono dalla macchina i bambini addormentati e li portarono fino allo steccato bianco che circondava il loro prato. Phil e Tom DiStefano erano seduti sui gradini. Si alzarono nello stesso istante. Tutti e due indossavano jeans e T-shirt. Hardy imprecò sottovoce. Aprì il cancelletto e precedette Frannie. "Non è il momento, amici," disse. Rebecca si spostò leggermente fra le sue braccia. "Si nasconde dietro due bambini e una ragazza?" Phil aveva bevuto parecchio e stentava a restare in equilibrio. Hardy non alzò la voce. "Non mi nascondo dietro nessuno. Come avete fatto a scoprire dove abito?" John T. Lescroart
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"Dovrebbe saperlo lei, stronzo." Tom, il figlio, aveva parlato con il padre e aveva cambiato atteggiamento. Adesso era pronto ad azzuffarsi e bloccava il sentiero. Hardy rivolse a entrambi un sorriso annoiato. "Fuori dalla mia proprietà. Tutti e due." Padre e figlio non si mossero. "È venuto a casa mia a dar fastidio a mia moglie e crede di cavarsela così?" disse Phil. "Metta giù la bambina, stronzo." La sfilza di insulti di Tom cominciava a infastidire Hardy. Si voltò verso Frannie che s'era fermata con Vincent fra le braccia. Decise di ricaricarli in macchina e di chiamare la polizia. Stava per farlo. "Che coraggio, nascondersi dietro una bambina," disse Phil. "Fuori di qui!" Frannie s'era ripresa. Fece per girare intorno a Hardy, ma lui tese la mano per bloccarla. "Adesso entriamo," le disse. "Seguimi." Cercò di svegliare Rebecca per posarla e proteggerla con la sua persona, ma la bambina era un peso morto fra le sue braccia. Tornò a voltarsi. "Ci vuole ancora più coraggio a picchiare una moglie. Bel fegato." "Metta giù la bambina e le faccio vedere io se ho fegato." "Lei e suo figlio Tom. Due contro uno." Hardy avanzò. "Toglietevi dai piedi, subito. Se toccate qualcuno, dovrete pentirvi di essere nati." "Oh-oh, senti il duro!" Hardy annuì. "Se è questo che ci vuole." Cominciò a camminare e Frannie lo seguì a un passo di distanza. Prima Phil e poi Tom si scostarono. Appena li ebbe superali, Hardy fece passare Frannie, per ripararle la schiena. Quei due erano capaci di tirare dei sassi. A Frannie tremavano le mani; quindi Hardy si fece avanti, girò la chiave e aprì la porta. Prima di entrare si voltò. "La prossima volta che guardo, voi due dovete essere spariti. Andate a letto prima di mettervi in un grosso guaio." Phil gli puntò contro l'indice. "Se si avvicina ancora a mia moglie, Hardy..." Frannie si sentì male: tutto il giorno al sole, la discussione allo stadio, l'incontro... Hardy le preparò un bagno quasi freddo, si occupò dei bambini e li mise a dormire prima di mettere a letto anche Frannie. Fuori era ancora chiaro. Andò a sedere in soggiorno, ascoltò qualche brano di musica classica e John T. Lescroart
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cercò di leggere un libro che gli avevano consigliato Moses e Abe sui buchi neri, il Big Bang, la teoria delle stringhe... Ma non riusciva a concentrarsi. Non riusciva a smettere di pensare all'incontro. Come avevano scoperto dove abitava? Aveva dato a Nancy il suo numero di telefono, e da quello, anche se era riservato, non era difficile risalire all'indirizzo. Bastava chiederlo al servizio informazioni della PacBell. Era stato uno stupido. Esaminò varie possibilità, molte delle quali erano illegali: andare da Phil con una pistola e spiegare che non voleva più vederli intorno a casa sua? Andare ma senza la pistola? Chiamare la polizia e denunciare Phil perché maltrattava la moglie? Denunciare le minacce di quella sera? Ma sapeva che ormai la polizia di San Francisco non si muoveva più per una semplice minaccia. Si chiese che cosa avrebbe fatto Phil a Nancy quando fosse tornato a casa. Se Tom fosse uscito... Prese il telefono e chiamò il distretto di polizia del Park. Forse era una serata tranquilla e c'era un giovane poliziotto di pattuglia disposto a farsi le ossa. "Non farò nomi e non si tratta di un'emergenza, ma sarebbe bene che mandaste una macchina..." Allo Shamrock non c'era molta gente. Era una domenica sera. Il barista che aveva sostituito Hardy era al banco. Il juke box era in funzione, a volume non troppo alto, e irradiava il solito miscuglio di vecchio rock and roll e di canzoni popolari irlandesi. Arrivato alla seconda Guinness, Hardy fece una partita a 301 con un frequentatore abituale, Ronnie. Ronnie era sulla trentina, suonava il piano in un complesso che aveva una serata di libertà, e illustrava anche libri per bambini. Era un degno avversario di Hardy nelle partite a freccette. E possedeva una quantità ragguardevole di materia grigia. "Il mio problema," stava dicendo, "è che non riesco a immaginare un fratello e un padre che lasciano giustiziare la sorella o la figlia per un delitto commesso da loro." "Non siamo affatto arrivati all'esecuzione. Comunque, le stanno facendo passare un gran brutto momento. Ma può essere sfortuna. Non sapevano che lei sarebbe stata incriminata. Adesso vogliono vedere che cosa succede." John T. Lescroart
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Hardy lanciò una freccetta. Triplo venti. Un buon inizio. Bevve un sorso di birra. "Sai," disse Ronnie, "mi è venuta in mente una cosa. E se uno di loro avesse cercato di uccidere anche Jennifer... Voglio dire, se avesse deciso di ammazzarli tutti e lei non fosse stata in casa?" Hardy si fermò con la freccetta in mano. Ronnie insistette. "Sai chi sarebbe stato il beneficiario se fossero morti tutti?" La freccetta di Hardy volò: un altro triplo venti. Tre di fila, un 180 tondo, valevano una bevuta gratis in qualunque bar. Ronnie continuò: "Il marito aveva altri parenti che avrebbero ereditato tutto?" "Non lo so," disse Hardy. "Ma è una domanda intelligente." Lanciò la terza freccetta che fece lo stesso volo delle altre due ma si piantò un millimetro più sopra, sempre nel "20", ma fuori del cerchio triplo. "Niente male" commentò Ronnie.
25 "Quell'uomo era il diavolo." Penny Roman, la madre della Melissa che era morta d'aborto, ne era convinta. Non era vecchia ma lo sembrava. I capelli erano opachi, il trucco pesante. Indossava un abito di calicò stampato con un colletto arricciato che probabilmente era stato creato per un'adolescente. Quando entrò portando il vassoio con il caffè, l'effetto era quasi grottesco. "Su, Pen." Il marito, Cecil, aveva i baffi grigi tagliati corti, una matita dietro l'orecchio, occhiali da lettura. "Forse era uno strumento del diavolo ma..." "Era il diavolo in persona." Cecil guardò Hardy e alzò le spalle. "È stato terribile. Non può immaginarlo." "Mi dispiace." E gli dispiaceva ancora di più essere venuto lì, nella grande casa con le porte e le finestre che sembravano non venissero mai aperte. Gesù e la Madonna guardavano dalle tre stampe appese alle pareti della stanzetta soffocante dov'erano seduti, Hardy e Cecil sul divano rivestito di chintz e Penny su una poltrona. Un grande ritratto in cornice di Melissa sorrideva a Hardy da un tavolino. Cecil accostò un carrellino metallico per posare il John T. Lescroart
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vassoio del caffè. I Roman erano un'incognita che Hardy aveva discusso con Freeman, e Freeman lo aveva biasimato perché stava a domandarsi se avevano pensato veramente di fare del male a Larry Witt. L'interrogativo era un altro: possiamo puntare il dito contro di loro? Sarebbero utili per indebolire un po' il teorema dell'accusa? Non gli andava neppure di essere venuto quel martedì mattina spacciandosi per il poliziotto. Ma se Terrell e Glitsky non volevano o non potevano farlo... "È ordinaria amministrazione, soprattutto dopo tanto tempo. Cerchiamo di metterci in pari con il lavoro. Chissà, forse un giorno ci riusciremo." Hardy sorrise, assaggiò il caffè e aprì la cartelletta che aveva portato. In realtà, la cartelletta non conteneva un rapporto della polizia sugli atti di vandalismo compiuti contro la macchina del dottor Witt, ma una copia del rapporto sul suo cliente, quel signor Frankl che aveva creduto, a torto, di avere una buona difesa per l'imputazione di guida in stato di ubriachezza. I Roman non notarono l'inganno. "Ma che cosa dice di noi?" Cecil allungò gli occhi per sbirciare la cartelletta e Hardy la spostò. "Per essere sincero, vi accusa di avergli sfasciato i vetri della macchina e di avergli rubato la radio." "Assurdo!" Penny fece traboccare un po' di caffè sul piattino. "È un bugiardo!" "Non è più niente. È morto." "Sì, lo so. Certo." Lei strinse le labbra, cercando invano di trattenere un commento. "E sono contenta che sia morto." "Su, Pen." Cecil si sporse e posò la mano sul ginocchio della moglie. "Ci vuole un po' di spirito cristiano: condannare il peccato ma non il peccatore." "Non posso. Non posso." Cecil si rivolse di nuovo a Hardy. "Agente, il dottor Witt era un peccatore, ma ciò non significa che gli abbiamo sfondato la macchina. Abbiamo l'aria di... di ladri d'autoradio? Perché dovremmo averlo fatto? A che cosa servirebbe? Renderebbe la vita a nostra figlia?" Hardy cominciava a convincersi che non avevano sfasciato la macchina di Witt, ammesso che qualcuno l'avesse fatto. Decise che l'avrebbe chiesto a Jennifer. John T. Lescroart
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"Comunque ha detto che il dottor Witt era un peccatore. Lo conosceva di persona?" Cecil strinse convulsamente la mano della moglie che non reagì. "Il dottor Witt era un abortista, agente. Ha ucciso nostra figlia." Ne parlarono, come Hardy aveva previsto. Per entrambi era una concatenazione malefica di causa ed effetto... lo sciagurato peccato della figlia, il fatto che non avesse voluto obbedire alla volontà divina e mettere al mondo la sua creatura e avesse permesso a Witt di spegnere quella piccola vita. S'era schierata dalla parte degli abortisti assassini e, come Cecil e Penny avevano intuito, quelli avevano finito per ucciderla. Hardy chiuse il fascicolo. "Quell'uomo l'ha meritato." Penny non riuscì a trattenersi. "L'abbiamo letto sui giornali. Il Signore si prende cura dei suoi." "Pare che sia stato qualcun altro a prendersi cura del dottor Witt," fu il commento di Hardy. "Non apparteneva al Signore, agente. Era il diavolo. È stato l'ultimo strumento della tortura di Melissa. Non abbiamo mai visto la sua macchina. Non so neppure di che marca fosse." Penny cominciò a piangere. "Non sappiamo altro di lui, e adesso è tornato per tormentarci ancora." Hardy si alzò. Non vedeva l'ora di andarsene. "No, signora, non vi farà più soffrire. Chiuderò la pratica e non ci penseremo più. Vi credo." Fu come se il fuoco si fosse spento. Penny si abbandonò sulla poltrona, esausta, e mormorò un fiacco: "Grazie". Cecil lo accompagnò alla porta. Era un'altra mattinata serena con una leggera brezza. La Sutro Tower scintillava nel sole a un chilometro e mezzo di distanza. Cecil la fissò a lungo. "La punizione finisce sempre per raggiungere i colpevoli. Sto parlando del dottor Witt." Hardy attese. "Vede, dopo aver ucciso Melissa e prima di essere ucciso, io pensavo che viveva lassù, in una bella casa, guadagnava parecchio, traeva profitto dai suoi peccati..." Hardy si chiese se Cecil sapeva che Witt aveva lavorato come volontario nella Mission Hills Clinic. Ma non era il momento più opportuno per domandarglielo. "So come vanno le cose. I peccatori prosperano. Ma ogni tanto vediamo che c'è un po' di giustizia anche in questo mondo." John T. Lescroart
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"Sì, signore." Si strinsero la mano. Solo quando fu ritornato in centro, mentre parcheggiava in Sutter Street, Hardy si rese conto di ciò che aveva detto Cecil. Penny credeva che non sapessero niente del dottor Witt... ma evidentemente Cecil sapeva che viveva in una bella casa, lassù, vicino alla Sutro Tower. E questo lo aveva saputo prima di leggere quel che avevano pubblicato i giornali. Hardy parlò a Jennifer e seppe che la macchina di Larry era stata sfasciata, ma che lui non aveva fatto denuncia alla polizia. Tanto, la polizia che cosa avrebbe fatto? L'aveva mandata a riparare e aveva comprato una radio nuova. Era così che ci si comportava. E l'assicurazione aveva pagato. Larry era figlio unico e i suoi genitori erano morti da molto tempo. La famiglia Witt era sola al mondo. Era per questo, disse Jennifer, che Larry era così protettivo, non voleva che uscisse da sola, esigeva sempre di sapere dov'era... per avere la certezza che non le fosse successo niente, che la famiglia fosse al sicuro. Lei e Larry avevano deciso che non volevano Phil e Nancy come tutori di Matt. Perciò Larry aveva chiesto a una cugina, una certa Laurie che abitava nell'Orange County, di assumersi la responsabilità, se si fosse reso necessario. Nonostante ciò, la famiglia di Jennifer avrebbe ereditato, se Jennifer fosse stata uccisa con Larry e Matt. Ma dopo tutto questo, anche se sarebbe stato felice di scoprire che Tom, Phil o magari i Roman avevano ucciso Larry Witt, Hardy non credeva che l'avessero fatto. Stava frugando nel buio. Dopo aver parlato con i medici, aveva quasi raggiunto la certezza viscerale che Jennifer era probabilmente colpevole del reato che le avevano ascritto. Stava per convincersi, come Freeman, che avesse ucciso il primo marito Ned e il secondo marito Larry perché la picchiavano. E chissà come, per un errore tragico, c'era andato di mezzo Matt. Frannie appoggiò la mano al plexiglas e Jennifer fece lo stesso. Si fissarono a lungo. Frannie non si era proposta di tornare a far visita a Jennifer. Aveva lasciato i bambini a Erin per andare a far spese. Forse era stata la scena con i DiStefano padre e figlio, forse voleva sentirsi assicurare che in realtà non erano molto pericolosi. Forse si sentiva un po' in colpa per aver stabilito con Jennifer un rapporto che non era disposta a continuare. Non lo sapeva. Era complicato. Ma adesso era lì. John T. Lescroart
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Fu Jennifer a rompere il silenzio. "Si sente bene?" Dapprima lentamente e poi con un torrente di parole, Frannie le raccontò il litigio con Moses, i dissapori con Dismas, il senso di colpa perché ancora una volta aveva lasciato i bambini a Erin Cochran, la nonna di Rebecca. Solo alla fine arrivò a Phil e Tom DiStefano e alle loro minacce. "Mio padre e mio fratello sono venuti a casa vostra? Perché?" "Credo che volessero pestare Dismas, o almeno minacciarlo. Erano ubriachi. Mi sono spaventata da morire." Jennifer girò lo sguardo sulle mani appoggiate ai due lati del vetro. "Idioti. Non finisce mai. Perché l'hanno minacciato?" "Lo accusavano di molestare sua madre. Dismas mi ha detto che era andato a parlarle..." "Lo so. E mio padre l'aveva picchiata. L'ha detto anche a me." Silenzio. Frannie era spaventata. Quella mattina aveva sussultato al minimo rumore. E non aveva avuto il coraggio di dir nulla a Dismas prima che lui uscisse. "Ho appena parlato di nuovo con lui. Con suo marito. Voleva sapere... certe cose sui miei genitori. Non ha neppure accennato a quel che è successo ieri sera." "È venuto qui?" Jennifer scosse la testa. "Ha telefonato." "E suo padre? Che cosa che crede che farà?" "Non lo so. Contro un altro uomo? Non lo so. E questo vale anche per mio fratello." "Pensa che farebbero del male ai nostri bambini? Se li toccassero..." Frannie s'interruppe. Non aveva la forza di continuare. "Li ucciderebbe?" Frannie annuì, sbalordita dalla rivelazione che sarebbe stata capace di uccidere per proteggere i suoi figli. "È andata così?" chiese. "Larry aveva cominciato a picchiare Matt?" Per un momento credette che Jennifer avrebbe annuito. Invece la vide chiudersi in se stessa, togliere la mano dal plexiglas. "Io non mi preoccuperei. Mio padre non farà niente. E gli uomini picchiano solo quando pensano che non ci saranno reazioni. Una volta Ned, il mio primo marito, si mise in testa che il dentista se la faceva con John T. Lescroart
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me, e andò da lui e gli diede un paio di pugni, o almeno così disse, e poi tornò a casa e mi riempì di botte." Jennifer sorrise, un sorriso triste. "Come al solito." "E lei che cosa fece?" Frannie si tese. Teneva ancora la mano contro il plexiglas. "Come poteva permettere che continuasse?" Jennifer sospirò, incrociò le braccia e guardò nel vuoto. "L'ascolto," disse Frannie. Il viso di Jennifer si indurì al ricordo. Guardò Frannie e parlò in un sussurro. "Credo che preferirebbe non saperlo." Hardy l'aveva accennato distrattamente, ma ad Abe Glitsky non piaceva che Phil e Tom DiStefano avessero minacciato il suo miglior amico. Il fatto che a San Francisco tutti i reati, tranne i più gravi, restassero impuniti non significava che il comportamento incivile gli sembrasse tollerabile. Phil DiStefano lavorava come idraulico in una ditta di media grandezza vicino al Kezar Pavilion. L'impiegato disse a Glitsky che Phil e altri due erano andati a pranzo e sarebbero tornati dopo un quarto d'ora. Rientrarono prima. Glitsky si alzò e si trovò di fronte alle occhiate ostili dei tre. L'impiegato disse qualcosa e il più imponente si voltò e parlò in tono volutamente educato. "Phil DiStefano sono io. C'è qualche problema?" Glitsky aveva già mostrato il distintivo e probabilmente l'impiegato aveva fatto sapere agli altri che quel nero robusto rappresentava la legge. Gli altri due idraulici avevano l'aria di aspettare solo una scusa per allontanarsi. Glitsky tirò di nuovo fuori il distintivo. "Può dedicarmi un paio di minuti?" Indicò la strada con un cenno del capo. Uscì e si fermò con il sole alle spalle. Phil lo seguì a pochi passi, socchiuse gli occhi e cominciò a sudare. Glitsky attese. Passarono dieci secondi interminabili. "Che cosa c'è, agente? Ci sono diverse chiamate e devo..." "Dismas Hardy." "Che cosa?" Glitsky ripeté il nome. "L'avvocato di sua figlia. Quello che è andato a trovare ieri sera." Phil alzò una mano. "Ehi, un momento. Hardy è venuto a casa mia. Non so che cosa le abbia raccontato, ma è lui..." John T. Lescroart
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Phil continuò ancora per un po'. Quando tacque, Glitsky gli chiese se aveva finito. "Non lo so. Forse dovrei denunciarlo. Non la finisce più con questa persecuzione..." "È lei che perseguita?" "No, no, non volevo dire questo. Ma viene a casa mia, infastidisce mia moglie." Glitsky annuì come se avesse riflettuto su tutte le informazioni di Phil. "Hardy non ha infastidito sua moglie." "E invece sì. È venuto e..." "Se vengo a sapere che l'ha minacciato ancora, si accorgerà che la vita in questa città può diventare difficile. Multe per eccesso di velocità, rimozione della macchina dovunque la parcheggi." Phil cominciò a recitare la scena dell'indignazione virtuosa. "Mi sta minacciando?" "E può darsi che perda il posto. Ai principali non piacciono i dipendenti che hanno grane con la polizia. Non va bene per gli affari." "Non sono obbligato a stare a sentire. Come si chiama? Non può comportarsi in questo modo." Glitsky sorrise freddamente. "Io scommetto di sì." Abbassò la voce. "Sono il sergente ispettore Abraham Glitsky, e se vuole posso darle anche il numero del distintivo." Phil restò immobile, con la faccia grondante di sudore. Glitsky si avvicinò d'un passo. "Hardy è mio amico. Anche lei dovrebbe trattarlo da amico. Lo dico nel suo interesse; le conviene stare attento che non gli succeda niente di male... perché se succedesse qualcosa sarei tentato di pensare che la responsabilità è sua, e allora sarebbero guai." Voltò le spalle a Phil e salì in macchina ignorando il torrente di oscenità. Aveva comunicato ciò che voleva comunicare. Era andato lì apposta.
26 Nonostante la promessa, il venerdì Donna Bellows non aveva ancora chiamato per dare notizie sul legame tra Larry Witt e Crane & Crane. Così Hardy decise di richiamare Los Angeles, anche se aveva poche speranze di trovare un nesso fra l'uccisione di Simpson Crane e quella di Witt. Parlò con un'impiegata dalla voce monotona che lo mise in "hold", poi John T. Lescroart
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gli passò una segretaria molto formale. "In questo momento il signor Crane è in riunione. Può dire a me?" Hardy rispose educatamente. "Se il signor Crane c'è, posso aspettare. È una questione d'una certa urgenza e riguarda un processo per omicidio." Un sospiro, un'altra attesa, quindi la voce stanca di un uomo. "Todd Crane." Hardy si presentò e fece le condoglianze, ma Crane non lo lasciò divagare. "Maxine mi ha detto che si tratta di un processo per omicidio. In che cosa posso esserle utile?" Hardy spiegò l'appunto che aveva trovato sulla scrivania di Larry Witt con il numero di Crane & Crane e la parola "No!!!" sottolineata e cerchiata. "Purtroppo non... Come ha detto che si chiamava la vittima?" "Larry Witt. Dottor Larry Witt." "Mi dispiace, ma non mi dice niente." Hardy insistette. "E l'Yerba Buena Medicai Group? L'YBMG?" "Witt era con loro? Ci occupiamo dei loro affari. Per l'esattezza, se ne occupa Jody Bachman. Vuole che le passi il suo interno?" Il telefono dell'ufficio di Jody Bachman squillò dieci volte prima che rispondesse la segreteria telefonica. Ecco che ci risiamo, pensò Hardy; lasciò il nome, il numero e una breve spiegazione di ciò che cercava. Si alzò e andò a guardare Sutter Street dalla finestra. Si sentiva un po' rincuorato. Finalmente aveva trovato un legame fra Larry Witt e Crane & Crane. Lo sapeva da quando aveva trovato il foglietto ma la relazione si era rivelata sfuggente. Adesso c'era riuscito. Era piacevole. Era piacevole scoprire i fatti. Naturalmente non sapeva quale tesi potessero confermare, non sapeva che cosa significassero. E dato che era venerdì pomeriggio, non aveva molta voglia di approfondire. I fatti attinenti alla linea difensiva impostata sulla possibilità di altri colpevoli sembravano portare a un bivio sulla strada della verità, un bivio che conduceva a un vicolo cieco. Aveva scoperto un fatto. Ma portava a qualcosa? La polizia di Los Angeles, anche se non poteva provarlo, riteneva che Simpson Crane e la moglie fossero stati uccisi da un sicario. Lo studio legale di Crane curava gli affari del gruppo di medici del quale aveva fatto parte Larry Witt. Persino un genio come David avrebbe faticato a stabilire John T. Lescroart
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un nesso di causalità tra i due fatti. Ma almeno Hardy sentiva di aver compiuto il proprio dovere. Jody Bachman lo avrebbe chiamato per fornire i particolari prima che cominciasse il processo vero e proprio fra un altro mese. Glitsky aveva acconsentito con riluttanza a cercare di scoprire che cosa avevano fatto i Roman il giorno della morte di Larry. Nelle prossime settimane avrebbe potuto rivedere Nancy DiStefano e farsi dire dove si trovavano Phil e Tom il lunedì dopo Natale. Adesso aveva diversi altri possibili colpevoli. Per il momento, sembrava che il suo compito si limitasse ad assistere David Freeman, fare ricerche sui punti di diritto che potevano emergere e prepararsi per la sua fase del processo, la fase della condanna, se Jennifer fosse stata riconosciuta colpevole. E avrebbe visto che cosa sarebbe riuscito a fare David Freeman con la sua intelligenza, i suoi istrionismi, quel suo favoloso nonsoché.
PARTE TERZA 27 Lunedì 19 luglio Oscar Thomasino aveva battuto il mazzuolo e aveva assegnato il processo al Dipartimento 25, l'aula del giudice Joan Villars. A questa formalità era seguita una pioggia di mozioni presentate e respinte. La selezione dei giurati avrebbe avuto inizio il 23 agosto. David Freeman aveva depositato immediatamente la mozione pro forma di non luogo a procedere secondo l'articolo 995 del codice penale sostenendo che non c'erano prove sufficienti e, come previsto, il giudice Villars l'aveva respinta. Se un Gran Giurì aveva ritenuto che ci fossero indizi sufficienti per un'accusa di triplice omicidio, per rigettare questa decisione un giudice avrebbe dovuto essere molto coraggioso o molto sciocco. I capelli di Jennifer erano ricresciuti, i lividi erano scomparsi. Quando entrò per la prima volta in aula fiancheggiata da due guardie, fra il pubblico si levò un mormorio. L'imputata sembrava una diva del cinema. Era sparita la tuta rossa da evasa, i ferri alle gambe e le manette. Il John T. Lescroart
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giudice Villars aveva accolto la richiesta di Freeman riconoscendo che sarebbero stati pregiudizievoli per la sua cliente. Jennifer portava un paio di scarpe basse, collant color carne, un elegante e sobrio abito color corallo che arrivava due centimetri al di sopra delle ginocchia. Freeman aveva mandato una parrucchiera al carcere per acconciarle i capelli. Orecchini di diamanti a borchia. Un tocco di trucco discreto. La fecero entrare prima che arrivasse il giudice, mentre i rappresentanti dei media e gli ottanta giurati potenziali prendevano posto. Hardy, che stava parlando con Freeman, sentì il brusio e s'interruppe. "Santo cielo," disse. Freeman si voltò. I flash lampeggiavano. Il giudice Villars avrebbe fatto smettere i fotografi appena fosse entrata, ma per il momento la caccia a Jennifer era aperta. Lei sorrideva in quel suo modo ambiguo, forse timido, forse studiato, e i flash continuavano a lampeggiare. Le guardie l'affidarono a Freeman che la fece sedere fra lui e Hardy. "Ha un bell'aspetto," si complimentò. "Ottimo." "Ho paura," disse Jennifer. "È naturale. Si sieda e si rilassi." Hardy notò che le tremavano le mani. Le aveva intrecciate sul tavolo. Freeman si portò alla sua destra e le coprì con una delle sue mani nodose. Nelle ultime settimane Hardy aveva visto dissiparsi l'animosità fra avvocato e cliente mentre lavoravano per costruire una difesa. Ora, anche se in apparenza Freeman continuava a credere che Jennifer mentisse quando si proclamava innocente, era riuscito a convincerla che era il suo amico più fidato, l'unico che potesse salvarla. E Jennifer s'era aggrappata a lui come a una zattera nel mare in tempesta. A Hardy andava bene così: gli risparmiava il compito di fare da collegamento fra loro. Erano le nove e ventitré. La Villars sarebbe entrata fra sette minuti. Dean Powell e un giovane viceprocuratore che si chiamava Justin Morehouse stavano confabulando al loro tavolo, a poco più di tre metri da Hardy. "Jennifer." Il dottor Ken Lightner s'era avvicinato alla barriera divisoria. Jennifer si girò, si alzò e lo abbracciò. Una delle guardie fece per avvicinarsi, ma Freeman levò una mano per trattenerla. Finì comunque in pochi secondi. Jennifer si staccò e baciò Lightner sulla guancia. John T. Lescroart
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Hardy prese nota mentalmente di sconsigliarle quelle manifestazioni in pubblico perché potevano essere interpretate nel modo sbagliato. Lui e Freeman conoscevano il legame tra Jennifer e Lightner; ma sarebbe stato difficile spiegarlo a una giuria. Una donna accusata di aver ucciso due mariti abbraccia un altro uomo all'inizio del processo. No, non avrebbe fatto buona impressione. Jennifer, Freeman e Lightner stavano parlottando. Walter Terrell era entrato ed era andato a scambiare qualche parola con Powell e Morehouse. Anche se non avrebbe avuto un ruolo attivo in quella parte del processo, Hardy aveva la bocca arida e lo stomaco sottosopra. Si girò per versarsi un bicchier d'acqua e vide aprirsi la porta dietro il banco del giudice. Il cancelliere ordinò a tutti di alzarsi. Il Dipartimento 25 della Corte Superiore della città e della contea di San Francisco era in seduta, e il giudice Joan Villars presiedeva. Il concetto di voir dire, la selezione dei giurati, aveva subito un cambiamento radicale dopo l'approvazione, nel giugno 1991, della proposta 115. In precedenza gli avvocati delle due parti avevano una grande libertà sulle domande che potevano rivolgere ai potenziali giurati. Che cosa facevano per vivere? Avevano fratelli e sorelle? Quali erano i loro hobby, i libri e i film preferiti? Amavano i cani? I gatti? I pesci rossi? Era ammesso tutto ciò che poteva servire a mettere in luce il carattere del potenziale giurato. Spesso le domande erano discorsetti camuffati, per indottrinarli. Perciò la selezione, in un caso che poteva comportare una condanna a morte, spesso richiedeva due mesi o addirittura di più. Dopo l'approvazione della proposta 115, invece, il voir dire era condotto dal giudice e, come era stabilito dalla proposta stessa, tendeva a essere molto più rapido. Gli avvocati potevano presentare al giudice un elenco delle domande che desideravano sentir formulare, ma spesso gli elenchi venivano ignorati. Nel caso di Jennifer Witt, Freeman aveva chiesto a Joan Villars se poteva rivolgere qualche domanda diretta ai giurati, e la risposta era stata negativa. Gli avvocati dell'accusa e della difesa avevano ancora il diritto di rifiutare venti potenziali giurati per una ragione qualunque o anche senza ragione: ma ormai la composizione di una giuria sfuggiva in larga misura al controllo delle due parti. Il ruolo decisivo spettava al giudice. Ai potenziali giurati veniva chiesto se avevano letto i giornali che John T. Lescroart
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parlavano del caso, se potevano partecipare a un processo destinato a durare tre mesi e soprattutto se fossero disposti a votare per una condanna a morte. Sui primi ottanta, dopo circa tre giorni di selezione, all'incirca quattro sarebbero stati disponibili e avrebbero ricevuto l'ordine di ripresentarsi alla fine di settembre. Allora avrebbero fatto parte del gruppo dal quale sarebbero stati scelti i dodici giurati effettivi e i sei alternativi. Poi Joan Villars ne avrebbe fatti chiamare altri ottanta. A parte gli occhiali a mezzaluna, il giudice Villars rappresentava agli occhi di Hardy una specie di Giovanna d'Arco un po' avanti negli anni. Con il caschetto di capelli grigi e il bel viso benevolo, poteva sembrare la direttrice di una scuola elementare, giusta ma decisa e dotata di un certo spirito. Ma, come aveva detto Freeman quando era stata assegnata a presiedere il processo, l'apparenza poteva ingannare. Sul banco del giudice, la Villars era autoritaria. Freeman non credeva che fosse solo un caso se il processo era toccato a lei: immaginava invece di sentire l'odore di macchinazioni diaboliche da parte di Dean Powell. Inoltre, la Villars era il giudice della Corte Superiore che aveva minori probabilità di essere smentita in appello. Se Powell avesse ottenuto un verdetto di colpevolezza nella sua aula, era prevedibile che non sarebbe stato annullato. A Hardy c'era un'altra cosa che non piaceva. Joan Villars non era il tipo disposto a rovesciare la raccomandazione della giuria per la pena di morte, se si fosse arrivati a tanto. Quando avevano saputo che il processo era stato affidato a lei, Hardy aveva cercato di convincere Freeman a chiedere l'assegnazione a un altro Dipartimento. Come avevano diritto nei confronti dei giurati, gli avvocati delle due parti nello stato della California avevano il diritto di ricusare il giudice assegnato a un dato processo. In teoria lo scopo era evitare che i giudici infondessero in misura eccessiva la loro personalità e le loro convinzioni in processi che avrebbero dovuto essere obiettivi. Se per esempio un giudice rendeva la vita troppo difficile all'accusa, la procura aveva il diritto di ricusarlo; e nel corso degli anni diversi giudici avevano finito la carriera perché avevano interpretato in senso troppo lato la nozione del fair play. In teoria, i giudici avevano responsabilità e libertà enormi; persino in un processo che comportava la pena capitale, mesi e mesi di lavoro dell'accusa e la prevedibile decisione della giuria potevano essere John T. Lescroart
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vanificati da un giudice se questi decideva, per una qualunque ragione sostenibile, che non si stava facendo giustizia. Ma era anche vero che, se un giudice esercitava troppo spesso quel diritto, altrettanto spesso rischiava il posto. Hardy avrebbe voluto ricusare la Villars, che aveva acquisito la reputazione di essere particolarmente dura con le donne. Aveva sempre fatto il possibile per evitare ogni apparenza di favoritismi verso avvocati e imputati di sesso femminile. E qualche anno prima aveva capeggiato il tentativo riuscito di scaricare il giudice capo della Corte Suprema della California, una donna, perché aveva "una posizione morbida" sulla pena di morte. La Villars non era tenera, ma Freeman era stato incrollabile. Era stato felice della scelta, e pensava di poter vincere con lei. Perché? Perché riteneva la Villars assolutamente imparziale, e pochissimi giudici lo erano. Non era vero che fosse dura con le donne: le trattava esattamente come trattava gli uomini. Quindi Freeman era sicuro che con la Villars avrebbe avuto le migliori possibilità di vincere nella fase del verdetto, e non intendeva ricusarla. L'aspetto negativo della situazione, naturalmente, era che, se Freeman avesse perso, la Villars sarebbe stata un giudice poco comprensivo nella fase della condanna. Per l'ottava volta in cinque settimane, ottanta persone entrarono nell'aula. Il cancelliere lesse dodici nomi, e gli interessati presero posto nel palco della giuria. Tutti ottanta giurarono di rispondere sinceramente a tutte le domande tese a scoprire se erano qualificati. Il giudice Villars esordì. "Jennifer Lee Witt è stata rinviata a giudizio per tre omicidi di primo grado con circostanze aggravanti dal Gran Giurì dello stato della California." E continuò con le solite domande iniziali. Qualcuno di loro conosceva l'imputata? Le vittime? Gli avvocati? Qualcuno di loro era stato vittima di un crimine violento? Qualcuno era parente di un poliziotto? Un avvocato? Un giudice? Ritenevano di conoscere il caso in seguito alle notizie dei telegiornali o dei quotidiani? Qualcuno era mai stato arrestato? A ogni domanda qualcuno alzava la mano, e gli avvocati prendevano appunti. La selezione dei giurati, anche ai vecchi tempi del voir dire, non era una scienza esatta. Adesso, con le nuove regole, era un po' come sparare alla John T. Lescroart
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cieca. Il giurato numero 5 aveva l'aria di provare simpatia per Jennifer? Il giovane fusto, il numero 11, sarebbe stato comprensivo perché Jennifer era attraente, oppure si sarebbe identificato con Larry Witt, un uomo laborioso caduto nelle mani della donna sbagliata? E la scialba numero 9? Invidiava l'aspetto di Jennifer, o la considerava una sorella accusata ingiustamente? Nessuno dei primi dodici superò le domande iniziali. Ne furono chiamati altri dodici. Al termine dell'udienza del 21 settembre c'erano novantadue persone qualificabili come giurati. Gli altri erano stati congedati. Solo adesso gli avvocati ricorsero alle ricusazioni perentorie. Powell lo fece undici volte, Freeman venti. Poi furono scelti i sei giurati alternativi.
28 Le sei settimane della selezione dei giurati erano passate per Hardy in una specie di nebbia. Ogni giorno feriale lui, Freeman e Jennifer si erano seduti al proprio tavolo, Powell e Morehouse al loro, e avevano ripetuto la solita routine. Era un lavoro emotivamente e fisicamente stancante. Hardy doveva essere in aula, e aveva accantonato tutto ciò che avrebbe potuto fare, per esempio cercare gli altri possibili colpevoli. Ogni sera, dopo aver lasciato il palazzo di giustizia, Hardy e Freeman discutevano i giurati e le strategie, e ricominciavano l'indomani. A casa, Frannie teneva duro. Suo marito rientrava tardi, se ne andava presto, era sempre assorto. Andarono via per due fine settimana. Avevano deciso che avrebbero superato quella fase e un giorno avrebbero ripreso un'esistenza normale. Adesso era lunedì 4 ottobre, tutti gli attori erano al loro posto, il pubblico era molto numeroso. Finalmente Dean Powell si alzò, pronto a incominciare. Hardy pensò che il contrasto fra lui e David Freeman non avrebbe potuto essere più netto. Powell irradiava autorità e personalità. Indossava un bell'abito scuro confezionato su misura e una cravatta blu. La faccia energica e abbronzata aveva un'espressione di amabile interesse. Ogni tanto si passava le dita nella criniera di capelli bianchi. Si girò verso il palco della giuria. "Vostro onore, signor Freeman, signor Hardy, signore e signori della giuria, voglio ringraziare tutti voi perché dedicate il vostro tempo prezioso a questo importantissimo dovere civico. Tutti noi ve ne siamo grati," disse, includendo nell'ampio gesto della mano John T. Lescroart
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anche il tavolo della difesa. Freeman e Hardy si scambiarono un'occhiata. Sapevano che la difesa avrebbe potuto obiettare. Quel tipo di discorsetto spettava al giudice. Joan Villars batté il mazzuolo. "Signor Powell, ho già dato il benvenuto ai giurati e li ho ringraziati. Questa è la sua perorazione programmatica. Ascoltiamola." Hardy rimase impassibile, Freeman alzò una mano per nascondere un sorriso. Powell accennò un inchino. "Naturalmente. Chiedo scusa, vostro onore." Si rivolse di nuovo alla giuria. Erano quattro uomini e otto donne, cinque neri, quattro bianchi, tre ispaniche. Un medico in pensione. Tre casalinghe. Due disoccupati. Cinque segretarie e un capufficio. Un impiegato d'un totalizzatore. Forse due gay. Comunque la si scomponesse, era sempre un enigma. Senza dubbio la Villars era stata sbrigativa ed efficiente, e nessuno aveva idea di quel che pensassero i dodici, a parte il fatto che tutti ritenevano giustificata la pena di morte. Powell sorrise. "Il giudice Villars mi ha chiesto di procedere con la mia perorazione programmatica, ed è molto semplice. Parlerò un po' dell'imputata Jennifer Witt e delle tre persone che ha ucciso, due mariti e..." Powell fece una pausa a effetto. "E suo figlio." Un'altra pausa. "Le radici del caso risalgono al 1984. L'accusa ritiene, e ve lo proverà al di là di ogni ragionevole dubbio, che Jennifer Witt, intorno al 17 settembre di quell'anno, iniettò al marito di allora, Edward Teller Hollis, una dose letale di atropina, un derivato della belladonna." Powell non faceva quelle scene teatrali che sapeva recitare tanto bene. La sua versione degli avvenimenti era chiara e plausibile. "Vi proveremo che, al tempo della morte del signor Hollis, Jennifer Witt aveva un legame sentimentale con un altro, un dentista, il dottor Harlan Poole. L'atropina è usata comunemente in molti studi dentistici e in particolare veniva usata nove anni fa in quello del dottor Poole, che la utilizzava per inibire il flusso della saliva. "Perché Jennifer Witt uccise il primo marito? L'accusa vi proverà l'esistenza di una polizza di assicurazione sulla vita per l'ammontare di settantacinquemila dollari, pagabili alla stessa Jennifer Witt in caso di morte del marito. Quattro mesi dopo il decesso del signor Hollis, Jennifer Witt ricevette il pagamento. Nel 1984 settantacinquemila dollari erano una somma ragguardevole." John T. Lescroart
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"Obiezione, vostro onore." Freeman si alzò a mezzo. Doveva dire qualcosa per spezzare il ritmo di Powell. Si poteva discutere se nel 1984 settantacinquemila dollari erano una somma importante, ma non si poteva dire che questa convinzione fosse una prova: non lo era. La Villars accolse l'obiezione di Freeman ma gli lanciò un'occhiata per fargli capire che, se avesse insistito a obiettare contro ogni lieve scorrettezza di Powell, avrebbe accolto le obiezioni di Powell quando avesse cercato di fare lo stesso con lui. Le scaramucce processuali stavano già incominciando. Freeman non era riuscito a interrompere il ritmo di Powell. Il procuratore navigava a gonfie vele. "Come sapete tutti, signore e signori della giuria, si tratta di un caso che comporta la pena di morte tenendo conto delle aggravanti. E una delle aggravanti è che l'uccisione di Edward Teller Hollis fu un omicidio premeditato per scopo di lucro. Non ha importanza che sia avvenuto diversi anni fa. L'omicidio premeditato non cade in prescrizione." Jennifer, seduta fra Hardy e Freeman, stava rigida. Sembrava che si controllasse alla perfezione, ma quando respirava le narici si dilatavano. Powell la guardò apertamente e s'interruppe. Fece un lieve cenno con la testa. "Un anno dopo la morte del primo marito, nel 1985, Jennifer sposò Larry Witt, il quale aveva lasciato la donna che l'aveva messo in condizioni di laurearsi in medicina..." Freeman si alzò e fece obiezione, che fu accolta questa volta con maggiore energia. Era l'inizio di un tentativo di denigrare Jennifer e il giudice Villars intendeva far capire a Powell che non l'avrebbe tollerato. Non era una prova, e quindi non doveva tentare di introdurla. Ma il procuratore aveva molte altre cose da dire. "Nel 1985 Jennifer sposò Larry Witt, che stava intraprendendo la professione di medico. L'anno seguente ebbero un figlio, Matthew. Via via che il dottor Witt si affermava, furono stipulate polizze sulla vita sempre più cospicue, tanto che, al momento della sua morte, il 28 dicembre scorso, Larry Witt era assicurato per due milioni e mezzo di dollari." Era venuto il momento per una pausa significativa e Powell la fece. In aula si levò un mormorio. "Due milioni e mezzo di dollari, signore e signori. Vi mostreremo la polizza come uno dei reperti dell'accusa, e come vedrete contiene una John T. Lescroart
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clausola che prevede la doppia indennità nel caso che Larry Witt fosse morto di morte violenta. Il pagamento, quindi, ammonterebbe a cinque milioni di dollari." Lanciò un'occhiata sorridente a Freeman per apparire corretto e gentile agli occhi dei giurati. Freeman, che di regola non era altrettanto mellifluo, accennò un sorriso di risposta. "Naturalmente l'esistenza di una polizza assicurativa non prova l'omicidio, sia chiaro. Vi dimostreremo che le azioni di Jennifer Witt la mattina di lunedì 28 dicembre hanno un'unica spiegazione: sparò al marito e al figlio con la sua pistola, quindi uscì di casa per crearsi un alibi. "Fortunatamente abbiamo due persone che possono testimoniare sull'alibi, e che cancelleranno ogni dubbio circa il fatto che Jennifer fosse in casa al momento degli spari. Era là, aveva la pistola e la usò per uccidere il marito allo scopo di incassare l'assicurazione. "Infine, purtroppo, c'è il piccolo Matthew Witt." A fianco di Hardy, Jennifer si accasciò leggermente. La collera aveva lasciato il posto a qualcosa di più forte. Per la prima volta chinò la testa e Freeman le posò una mano sul braccio. Lei rialzò gli occhi. "Francamente, non siamo in grado di dirvi perché Matthew Witt sia morto quel lunedì mattina. Ma morì, ucciso dalla stessa pistola che aveva ucciso il padre. Siamo addirittura disposti ad ammettere che sia stato un errore, che il bambino si fosse trovato per caso sulla linea di fuoco. Potrebbe aver colto di sorpresa Jennifer..." "Vostro onore, queste congetture non possono trovare spazio nella perorazione programmatica." Powell anticipò l'intervento del giudice: si scusò. Poi continuò a elencare gli altri punti. "Movente, mezzo, occasione. Questi fatti rimangono, e li proveremo. I fatti dimostreranno che Jennifer Witt ha ucciso il marito per cinque milioni di dollari: ecco il movente. L'arma del delitto era la sua pistola, che teneva nella camera da letto: ecco il mezzo. Era sola in casa con il marito e il figlio quando ha sparato a entrambi: ecco l'occasione. Lo proveremo al di là di ogni ragionevole dubbio, e raccomanderemo che venga riconosciuto che una persona capace di simili delitti ha rinunciato al diritto di vivere nella nostra società. Una persona simile deve essere condannata a morte. Grazie."
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In California la difesa ha il diritto di esporre la sua perorazione programmatica subito dopo quella dell'accusa per confutarla, o di attendere fino a che l'accusa abbia terminato la presentazione delle prove e l'escussione dei testimoni. Freeman aveva adottato un po' un sistema e un po' l'altro in vari processi, e questa volta scelse la seconda soluzione. Non sapeva come si sarebbero messe le cose con l'accumularsi dell'evidenza e preferiva intervenire più tardi, per non scoprire subito le sue carte. Il sistema aveva uno svantaggio: sembrava lasciare molto tempo all'accusa. Powell si era appena seduto quando Freeman annunciò che avrebbe aspettato, e avrebbe fatto la perorazione programmatica all'inizio dell'intervento della difesa. L'accusa chiamò come primo testimone l'ispettore Walter Terrell. Freeman e Hardy avevano fatto ipotesi sull'ordine in cui sarebbero stati presentati i testimoni, ma nessuno aveva previsto che il primo fosse Terrell. L'ispettore andò al banco, giurò e si guardò intorno. "Perché è così nervoso?" chiese Jennifer. "È il suo primo processo per omicidio." Freeman non gli staccava gli occhi di dosso. "È un errore," mormorò fra sé. "Per noi?" Jennifer si rivolse a Hardy che scosse la testa. Powell parlò al giudice. "Vostro onore, condurremo questo processo concentrandoci dapprima sull'assassinio di Edward Teller Hollis. Richiameremo vari testimoni quando arriveremo a Larry e Matthew Witt e l'ispettore Terrell è uno di essi. Desideravo chiarirlo subito." Freeman non fece obiezioni: se ne era già parlato nelle conferenze con la Villars prima del processo. Powell si rivolse a Terrell. "Ispettore, può dire alla giuria come ha finito per indagare sull'omicidio di Edward Hollis?" Terrell annuì, deglutì, cercò di sorridere. "Si tratta di Ned, vero? Il primo marito?" Ci fu qualche risatina nervosa perfino tra i giurati. Terrell si offese. Non voleva far ridere nessuno. Powell non perse la calma. "Con il permesso della corte, ci riferiremo a Edward Teller Hollis con il nome di Ned Hollis." Poi ripeté la domanda a Terrell. "Sono ispettore della squadra omicidi. Lo scorso dicembre indagavo sull'omicidio di Larry e Matthew Witt e mentre cercavo di ricostruire il passato della signora Witt ho chiesto informazioni sul primo marito. Mi ha John T. Lescroart
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risposto che era morto per un'overdose di droga e che lei aveva incassato l'assicurazione. Ho pensato che valesse la pena di scavare più a fondo in quella coincidenza." Era tutto vero, e Hardy cominciò a pensare che forse chiamare subito Terrell non era stato un errore. La sua testimonianza poteva chiarire le rassomiglianze fra i presunti moventi dei due omicidi, prima di introdurre l'evidenza che collegava questi ultimi a Jennifer. Anzi, sembrava un'abile mossa di apertura, e Hardy si chiese che cosa avrebbe fatto Freeman. L'unica soluzione era attaccare e cercare di smontare la testimonianza. "Vostro onore." In aula, la voce di Freeman diventava più sonante. Tutto ciò che faceva in quella fase era studiato, anche se non sembrava. In altre situazioni tendeva a essere burbero: ma adesso aveva il tono di un buon nonno. La Villars attese mentre Freeman si alzava. "Vostro onore," ripeté lui, "è un po' presto per le coincidenze, non è ancora stato stabilito un nesso indiziario." Come Hardy sapeva bene, i moventi erano il debole di Terrell. Il giovane ispettore diventò rosso e si sporse in avanti. "Quell'uomo fu ucciso e la moglie incassò l'assicurazione. Che altro pretende?" Gli occhi della Villars lanciavano fiamme anche se la voce era controllata. "Basta così, ispettore Terrell. Il signor Freeman si è rivolto alla corte e non a lei. È chiaro?" Terrell si azzittì e si assestò la giacca. Era ancora arrabbiato. "Le ho fatto una domanda, ispettore. È chiaro?" "Sì, vostro onore. Mi scusi." Il giudice Villars annuì. Poi fissò il soffitto per due secondi, riabbassò lo sguardo su Freeman e disse: "L'obiezione è accolta. Signor Powell, deve essere più preciso". Si rivolse al palco della giuria. "Signore e signori, non tenete conto del commento dell'ispettore sulla coincidenza. Spetta a voi stabilire il nesso tra i fatti, ricordatelo." Quindi, al procuratore: "Signor Powell?" Powell, che si era visto togliere il dominio dell'aula in un batter d'occhio, diventò prudentissimo. Adesso tutti avevano visto che il suo primo testimone era una testa calda non più tanto credibile, e c'era parecchia strada da fare. Sorrise, imperturbabile. "Ispettore Terrell, adottiamo una linea nuova, d'accordo?" E lo guidò, passo dopo passo, nel racconto del colloquio con Jennifer John T. Lescroart
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omettendo ogni riferimento alle ragioni per cui avevano esumato il cadavere: spettava alla giuria trarre le conclusioni. Il fatto era che il corpo era stato esumato e avevano trovato una concentrazione di atropina nella coscia sinistra. Ned era assicurato per settantacinquemila dollari. Jennifer aveva consegnato alla polizia una copia della polizza e dell'assegno. Ecco qui, signore e signori della giuria, il reperto dell'accusa. La beneficiaria era Jennifer. Ecco l'assegno, il reperto 2. Per l'accusa è tutto, grazie, ispettore Terrell. Ora inizierà il controinterrogatorio. Hardy era certo di non essere il solo ad avere l'impressione che Terrell si fosse presentato con l'intenzione di dire di più e di fare più colpo. Si vedeva che era ancora carico di adrenalina. Freeman puntò su questo. Riordinò le carte, si alzò, si assestò la cravatta gualcita. Finalmente si portò al centro dell'aula. "Buongiorno," disse in tono cordiale. E attese ancora. L'approccio scombussolò ancora di più Terrell, fino a che annuì e mormorò a sua volta un saluto. "Ora, ispettore Terrell, lei ha accertato che Ned Hollis aveva una polizza assicurativa da settantacinquemila dollari e che la beneficiaria era Jennifer Witt. È esatto?" Il testimone guardò il giudice, guardò Powell e tornò a guardare Freeman. "È esatto." "Che cosa le disse la signora Witt di ciò che sarebbe accaduto se fosse morta al posto di Ned?" Un'altra pausa di riflessione. "Che in quel caso sarebbe stato Ned a incassare la somma." "In altre parole era una polizza congiunta tra marito e moglie, stipulata in base all'idea che, se uno dei due fosse morto, la casa sarebbe stata comunque pagata." "Sì, è esatto." "E Jennifer le disse che lei e Ned avevano una casa, a quel tempo?" "Sì." "Ha controllato e ha accertato che era vero?" "Sì." "Nel corso dell'indagine, ha trovato qualche documento relativo al valore della casa?" Terrell lanciò un'occhiata incerta a Powell. Powell non fiatò. Terrell rispose che Jennifer e Ned avevano acquistato una casetta presso Daly City John T. Lescroart
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e avevano pagato un anticipo di ventimila dollari. "Quindi il mutuo era di ottantamila?" "Non lo so. Credo." "Sa che avevano versato un acconto di ventimila dollari ma non sa di quanto fosse il mutuo?" Powell si alzò per cercar di salvare Terrell. "Vostro onore, è pertinente?" Joan Villars rispose in tono brusco: "Credo di sì. Continui, signor Freeman. Ispettore?" "Il mutuo era di circa ottantamila dollari, sì." Freeman si girò verso la giuria. "E durante le sue indagini ha scoperto che fine ha fatto il mutuo?" Terrell si allargò il colletto. "Credo che la signora Witt l'avesse saldato." "Con la somma versata dall'assicurazione?" "Credo di sì." "Lo crede o lo sa, ispettore?" "Lo so. Saldò il mutuo." "Appunto." Freeman tornò al tavolo e prese la fotocopia di un documento contrassegnata come reperto 1 della difesa. La passò a Terrell. "L'ha mai visto? In altre parole, ispettore Terrell, in base a questo lei sapeva che, per esempio, Jennifer Witt non si era concessa un anno di vacanza a Las Vegas." Powell si alzò di scatto. "Obiezione." "Ritiro il commento, vostro onore." Freeman aveva dimostrato ciò che voleva: se Jennifer aveva ucciso Ned per incassare l'assicurazione e fare la bella vita, avrebbe tenuto per sé almeno parte della somma. "C'è un'altra cosa che vorrei chiederle, ispettore. Ha riferito che la signora Witt le ha detto che Ned Hollis si drogava." "Sì." "Ha detto che faceva esperimenti con le droghe, esatto?" "Esatto." "Ha interrogato qualcuno che lo ha confermato?" Powell si alzò di nuovo. "Vostro onore, si tratta di affermazioni di terze persone. Il signor Freeman intimidisce il testimone." "Non direi, ma capisco che cosa intende. Signor Freeman?" "Sto aspettando la sua decisione, vostro onore." La Villars ordinò alla stenografa di rileggere il dialogo precedente e accolse l'obiezione. John T. Lescroart
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Freeman continuò a interrogare Terrell. "Quanti amici del signor Hollis ha interrogato?" "Tutti quelli che sono riuscito a trovare." "E ognuno di loro ha confermato che Ned faceva esperimenti con le droghe, non è vero?" "Obiezione." "Accolta." Freeman chiese: "Qualcuno di loro ha negato che Ned facesse esperimenti del genere?" "Obiezione." "Accolta." Il vecchio avvocato difensore tacque per un attimo. Poi: "Durante la sua esauriente indagine sulla morte di Ned Hollis, qualcuno ha mai affermato che usasse le droghe in modo non sperimentale?" Come uno stanco babau a molla, Powell si alzò di nuovo. "Obiezione." Joan Villars ne aveva abbastanza. "Signor Freeman, comunque lei presenti la domanda, accoglierò ogni volta l'obiezione. Proceda." Freeman assunse un'aria contrita. "Mi scusi, vostro onore." Si rivolse a Terrell con un sorriso bonario. "Non ho altre domande."
29 "Con la storia di Ned si danno la zappa sui piedi. Avrai notato che Powell ha detto ben poco nella perorazione programmatica, e in particolare non ha potuto neppure sostenere che Jennifer fosse presente nella contea, e tanto meno in quella stanza." Freeman masticò il suo sandwich. "La Villars avrebbe dovuto accogliere il mio 995." Era l'istanza che aveva presentato prima del processo affermando che non c'erano prove sufficienti per un verdetto di colpevolezza nel caso di Ned, ma la Villars l'aveva respinta. "A meno che non abbia in serbo qualche grossa sorpresa, questa non reggerà." Era la pausa per il pranzo ed erano tornati nello studio con un tassì. Adesso erano seduti sulle panchine del giardinetto recintato da vetrate accanto alla sala per le conferenze. Hardy sbriciolò il pane del suo sandwich e lo lanciò ai passerotti che saltellavano fra i cespugli. John T. Lescroart
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"Mi segui?" chiese Freeman. "Non sei tenuto a dirmelo, ma come vanno le cose? Dormi abbastanza? I primi giorni di questi processi a volte sono molto duri." Hardy sospirò. "Non so che cosa succede in casa mia, David. Ho l'impressione di perdere mia moglie." "Letteralmente?" "Non saprei. Forse no." "E forse sì?" Hardy si alzò. "È successo qualcosa negli ultimi due mesi. Non credo che sia il processo. Non so che cosa sia, ma mi fa una gran paura." "Gliel'hai chiesto?" "Almeno duecento volte." "Senza risultato?" Hardy scrollò le spalle. "Non molto. Abbiamo l'abitudine di uscire insieme il mercoledì sera. O, meglio, l'avevamo fino a un mese fa." I passerotti cinguettavano, e Freeman spezzò il suo pane e glielo gettò. "Un mese fa è successo qualcosa?" "Sono tornato a casa la sera, convinto che saremmo usciti, e lei era in camicia da notte e stava leggendo. Mi ha detto che sarei dovuto uscire da solo e fare qualche partita a freccette. Era stanca." "Forse lo era." "Quando il mercoledì sera era stanca, prendevamo un plaid, andavamo in spiaggia e facevamo un sonnellino. L'idea dell'appuntamento era un punto fisso, stanchezza o non stanchezza, figli o non figli. Ne sentivamo il bisogno." Freeman contemplava il proprio sandwich. "Che età hanno i bambini?" "Rebecca due anni, Vincent quasi uno. Ma non credo che sia questo. Tu sì?" "Conosco poco Frannie, Diz, ma non sarebbe la prima donna che decide che i figli hanno bisogno di lei più del marito. Le priorità cambiano." "Per me, no." Freeman sorrise. "La vita è ingiusta. Se potessimo farle causa..." Si assestò sulla panchina. "Frannie pensa che tu abbia bisogno di lei?" "Be', diavolo, sì. Ma siamo adulti. Abbiamo tante cose da fare. Io ho il processo, lei i bambini. Che cosa dovremmo fare? La sera dell'appuntamento doveva servire a tenerci legati." Freeman si avvicinò, gli posò una mano sulla spalla. "Io le farei una John T. Lescroart
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sorpresa. Spezza la routine. Forse è delusa, forse vede che sei troppo distratto e ha paura che continuerai a esserlo. Perciò si allontana." "Ma io non sono distratto. Il processo è appena cominciato. Che cosa pretende?" "Forse la domanda giusta è: di che cosa ha bisogno?" Freeman aprì la porta della sala per le conferenze. "Torniamo in tribunale. Suo onore non ama i ritardatari." John Strout, coroner della città e della contea di San Francisco, era un personaggio noto a Hardy e a tutti gli altri professionisti presenti. Era un'autorità nazionale ed era apparso in quasi tutti i processi per omicidio svoltisi a San Francisco, in media una volta la settimana durante gli ultimi tredici anni. Prese posto al banco dei testimoni, tranquillo e sereno. Powell si passò le dita fra i capelli bianchi e lo salutò cordialmente. Poi arrivò subito al punto, prevenendo quella che Hardy pensava sarebbe stata la linea di Freeman nel controinterrogatorio. "Dottor Strout, fu lei a eseguire la prima autopsia su Ned Hollis nel 1984?" "Sì." "E che cosa scoprì a quel tempo?" Strout sorrise. "Facemmo un esame A e pervenimmo alla conclusione che fosse morto per un'overdose di cocaina mista ad alcol." "Un esame A? Vuole spiegarlo alla giuria?" Il coroner spiegò per due minuti. Quasi tutti i veleni e i composti volatili vengono scoperti nell'esame A, che è il più rapido e il meno costoso. Se si scopriva una causa della morte a quel livello e se non c'era un rapporto della polizia che indicasse il sospetto di un atto doloso, gli esami si fermavano a quel punto. "E l'esame A accertò la presenza di cocacina e alcol nell'organismo del signor Hollis, è così?" Strout aggrottò la fronte. Non era facile chiarire le cose per la giuria. Nella documentazione risultava che aveva sbagliato a indicare le cause della morte di Hollis, e teneva a essere preciso. "C'era un livello potenzialmente letale di coca-etilene, il sottoprodotto che si riscontra quando la cocaina e l'alcol si mischiano nel sangue." "E quando accertò la presenza del coca-etilene, interruppe l'autopsia?" "No. Smettemmo di cercare accanitamente la causa della morte. Ma non John T. Lescroart
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ci fermammo a quel punto. Infatti, gli esami di laboratorio e quelli fisici costituiscono procedure relate ma separate. Quando riceviamo i risultati dal laboratorio, controlliamo per vedere se qualcosa che abbiamo scoperto nell'esame fisico può gettare una luce nuova su di essi o viceversa." "E in questo caso?" "Avevamo trovato il coca-etilene. Non c'erano indicazioni della presenza di barbiturici o alcaloidi. Quindi avevamo una probabile causa della morte al livello A, e ci fermammo lì." Powell guardò la giuria, poi si voltò verso il tavolo della difesa e guardò di nuovo Jennifer negli occhi. Hardy la sbirciò con la coda dell'occhio. Stava sorridendo al suo accusatore? Quando le sfiorò il braccio lei si irrigidì e il suo viso divenne una maschera. L'escussione continuò senza sorprese. Accusa e difesa avrebbero potuto lasciar correre, ma Powell e Freeman non erano disposti a farlo, ognuno per ragioni sue. Powell voleva rendere reale agli occhi dei giurati la morte ormai lontana del primo marito di Jennifer, la morte di un giovane sano. E voleva vedere la reazione dell'accusata. Quando Strout ebbe finito di parlare dell'esame C e della scoperta della concentrazione di atropina nella coscia sinistra di Ned, Powell chiese: "Dottor Strout, l'atropina si vende solo su ricetta, no? Non è un medicinale da banco?" Strout confermò. "E qual è il suo uso principale?" "È usata in anestesia per inibire il flusso della saliva." "Rimase sorpreso quando la scoprì nell'esame che ha descritto?" "Obiezione!" Freeman scattò come una molla e il giudice l'accolse. Powell restò impassibile. "Dottor Strout, che lei sappia, l'atropina viene molto usata come droga ricreativa?" Hardy vide che Freeman stava per obiettare e poi si tratteneva. "Se lo è, non è certo comune." "Non produce effetti stupefacenti o simili?" "No." "Ha effetti allucinatoli o euforizzanti in combinazione con altre droghe?" "No." "Quindi, se un individuo è tossicomane, non..." A questo punto Freeman si decise. Alzò una mano. "Vostro onore, sono soltanto ipotesi." John T. Lescroart
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L'obiezione fu accolta. Powell sorrise, allargò le mani, si scusò. "Allora è tutto. Grazie, dottor Strout. A lei il teste, signor Freeman." L'avvocato della difesa si avvicinò al banco dei testimoni e fece un cenno di saluto a Strout, per far capire ai giurati che anche lui era un collega del coroner. "L'esumazione... Non credo che sia molto piacevole, vero, dottore?" Strout era ancora in buona forma. C'erano stati processi nei quali aveva testimoniato per quasi una settimana. Allargò le mani. "Fa parte del mio lavoro. A volte è piuttosto interessante." "L'esumazione di Ned Hollis è stata uno di questi casi?" Strout rifletté per un momento. "Sì." "E può spiegare il perché alla giuria?" Per Strout, quella opportunità di parlare era gradita. "Ecco, in ogni autopsia la ricerca della causa della morte è un po' un puzzle. Facciamo esami di laboratorio per cercare varie sostanze ed esaminiamo il corpo nella speranza di scoprire qualcosa. Quando si tratta di qualcuno morto da molto tempo, il puzzle può diventare complicato e questo lo rende interessante, secondo me." Freeman sembrava affascinato. "Che genere di complicazioni, dottore?" "Ecco, innanzi tutto il corpo si decompone. Certe sostanze si disgregano chimicamente, o si trasformano in altre, oppure scompaiono. Evaporano. Con l'andare del tempo si finisce per perdere quasi tutto." "È successo anche con il cadavere di Ned Hollis?" "Sì, in una certa misura." "Tuttavia era un... un puzzle particolarmente interessante." Il coroner annuì. "Perché pensavamo che ci fosse un altro veleno e dovevamo scoprire... non solo la sostanza, ma anche il modo in cui era entrata nell'organismo." Strout, il testimone ideale, si rivolse direttamente ai giurati. "Durante la prima autopsia, avevamo esaminato il contenuto dello stomaco e così via: ma adesso volevamo accertare se ci era sfuggito qualcosa, e quindi abbiamo ritentato. Ma non c'era molto. Anche se l'esame aveva riscontrato una traccia di atropina, non c'era una concentrazione letale." "E poi che cosa avete fatto?" Hardy guardò i giurati. L'argomento era macabro e nessuno dormiva. Strout continuò con entusiasmo. "A questo punto il puzzle è diventato John T. Lescroart
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interessante. Se la morte è recente, è possibile trovare fori di aghi, lividi e così via. Ma qui abbiamo prelevato tessuti da varie posizioni nella speranza di trovare una concentrazione, e abbiamo avuto fortuna." "In che senso?" Strout cominciò a snocciolare i nomi scientifici di vari muscoli, ma Freeman lo bloccò, gli fece chiarire che l'iniezione era stata fatta al secondo terzo anteriore della coscia sinistra. "È sicuro che fosse nella parte anteriore? Non è possibile che fosse filtrata da quella posteriore?" Strout era sicuro. "È da escludere. I muscoli non sono collegati." Aggiunse altri particolari scientifici ma a poco a poco emerse il quadro chiaro: l'iniezione letale era stata fatta nella parte superiore della coscia. Finalmente Freeman chiese: "In quella posizione, è possibile che qualcuno si inietti una sostanza?" "Naturalmente," rispose imperturbabile Strout. "Nei risultati del suo esame qualcosa indica che l'iniezione non sia stata fatta dallo stesso Hollis?" "Per esempio?" "Non so. Magari un graffio, se avesse cercato di sottrarsi all'iniezione. O qualunque altra cosa." Il coroner rifletté. "Dopo tutto questo tempo? No, niente." Freeman tornò al tavolo dei reperti e prese il reperto 5 dell'accusa, il primo referto autoptico. "Nove anni fa, dottore, notò qualcosa che potesse escludere che il signor Hollis si fosse fatto da sé l'iniezione?" Strout diede una scorsa al foglio e lo rese. "No. Ma naturalmente c'erano punture d'ago." "C'erano punture d'ago? Dove, dottore?" "All'interno delle braccia." "Dove un tossicomane può iniettarsi la droga?" "Sì." "Aveva notato qualche segno d'ago sulle cosce?" Strout abbassò di nuovo lo sguardo sul referto. "No, qui non c'è scritto." Hardy vide che Powell stava a braccia conserte e a testa china. Freeman tornò al centro dell'aula. "Ma è possibile, dottore, che le fosse sfuggito un foro d'ago anche recente?" Con un sorriso amabile, il coroner rispose: "Non soltanto è possibile, John T. Lescroart
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signor Freeman, ma probabilmente è andata proprio così. L'iniezione era stata fatta nella coscia. È l'unico modo in cui l'atropina può essere finita lì. I segni degli aghi sono notoriamente difficili da individuare e catalogare. E sfuggono nelle autopsie. Succede."
30 Accompagnata al sesto piano dall'ufficiale giudiziario e quindi scortata dalle due agenti di custodia, Jennifer si spogliò nella stanza aperta, appese l'abito alla stampella di legno, si voltò verso il muro e si tolse gli indumenti intimi che le aveva comprato Freeman. Tornò a voltarsi, prese il sacchetto di plastica dalle mani della Milner, una rossa un po' grassa con la faccia mite e lentigginosa, e li ripose. L'altra agente, la Montanez, le porse con aria imbronciata la tuta rossa. "Com'è andata?" chiese la Milner. Jennifer alzò le spalle. "Tanti uomini che parlavano e parlavano." "Sempre così, eh?" La Montanez si avviò verso la porta. "Ma il giudice è una donna. Si chiama Villars. E ci sono diverse donne anche nella giuria." Ma erano considerazioni che non interessavano alla Milner e alla Montanez. Le due agenti di custodia la fiancheggiarono nel corridoio semibuio. Dietro di loro, una guardia chiamò: "È la Witt? C'è una visita". Il dottor Ken Lightner era venuto in tribunale durante ognuno dei quattro giorni del processo. Non era avvocato e quindi non era autorizzato a entrare nella stanzetta accanto al banco delle guardie. Come Frannie, doveva accontentarsi del parlatorio con i telefoni e la barriera di plexiglas. Era seduto ad aspettare con la fronte appoggiata a una mano. Quando Jennifer sedette a sua volta la fissò a lungo, e finalmente prese il telefono. "Come va?" "Nessuno mi picchia più. Forse pensano che vincerò." Lei accennò un sorriso. "Comincio ad avere un po' di fiducia in Freeman." Lightner annuì. "Che cosa dice?" "Non si sbilancia. Ma lo sento parlare con Hardy, vedo le reazioni della giuria. Mi sembra fiducioso." "E tu?" "Mi manchi, Ken. Qui dentro..." Non c'era niente da dire. "È così diverso. Non so..." John T. Lescroart
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Per poco il microfono non le sfuggì dalla mano. "Che cosa, Jen?" Lei deglutì e diede l'impressione di chiudersi in se stessa. "Non so se me la sento di continuare." "Devi continuare." Jennifer scosse la testa e tacque. Lightner si accostò al vetro. "Jen, ascoltami. Devi tirare avanti. Non puoi arrenderti adesso. Stai vincendo, forse il peggio è passato." "No, non è vero. Freeman dice che il peggio deve ancora incominciare..." "Molto consolante, da parte sua." "Ci sta provando. Ken. Di questo sono sicura. Non è neppure il processo. Ma tutto il resto è così diverso. Tutti, qui... A volte penso che non potrò mai tornare a qualcosa che riconosco, qualcosa che voglio." Una lacrima le scorse sulla guancia. Questa volta non l'asciugò. Non le importava di apparire debole e di crollare di fronte a Ken. "Sono così confusa, così confusa..." Lightner rimase a guardarla, in attesa di chissà che cosa. Jennifer sembrava chiusa in se stessa, sofferente. Voleva aiutarla a superare quel momento, ma senza spingere troppo. "Io sono ancora qui," le disse. Jennifer gli rivolse un altro sorriso fragile. "A volte penso che sono ancora viva solo perché ci sei tu. È strano: ricordi quando pensavo che se avessimo potuto allontanarci da Larry tutto sarebbe andato meglio?" "Lo ricordo, ed è ancora possibile." Lei si scosse. "Ma è proprio questo, il problema. Non ci credo più. Quel che è successo a Matt..." Il flusso delle parole s'interruppe, gli occhi si spensero. "Sarebbe meglio se fosse tutto finito." Lo guardò negli occhi attraverso il plexiglas, cercando una risposta. Tese la mano, la ritrasse. "Qualunque cosa succeda, non andrà meglio. Sono una perdente, ecco tutto." Lightner s'era teso verso di lei. "Non sei una perdente, Jen, ma una vittima. Ne abbiamo già parlato. È naturale che ti senta così, con quel che hai passato. Non ti starei accanto se lo fossi, e non pensassi che un giorno le cose andranno meglio." "Quando?" "Nessuno lo sa esattamente. Ma..." John T. Lescroart
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"Credo che non mi abbandoneresti comunque, Ken, anche se sono una perdente. E sai perché? Io l'ho capito. Perché sono un caso classico da studiare." "Jennifer, come puoi dire una cosa simile dopo che..." "È vero. A te non importa niente. Perché dovresti amare una come me? Se mai succederà che io cambi, non sarò più interessante. E te ne andresti. Allora, io come mi ritroverei? Sperduta come adesso. Oh, maledizione..." Jennifer sbatté con forza il microfono, rovesciò la sedia e si alzò piangendo. L'agente si avvicinò, con la mano sullo sfollagente. Lightner si alzò. Jennifer disse qualcosa alla guardia e non si voltò. Raggiunsero la porta. Lightner tornò a sedere e cercò di dominare i propri sentimenti. All'improvviso Jennifer tornò indietro e appoggiò le mani sul plexiglas. La guardia la seguì scuotendo la testa mentre Jennifer parlava a stento fra i singhiozzi. Anche se Lightner non sentiva, sapeva quel che stava dicendo. Era ciò che diceva sempre quando toccava il fondo. "Scusami, scusami. Non volevo. Non essere arrabbiato con me..." La guardia le posò la mano sulla spalla, la tirò indietro e la sospinse verso la porta. Lightner rimase immobile. Respirava profondamente e pensava che forse Jennifer aveva ragione. Forse era una perdente senza speranza. E dopo tutto ciò che aveva fatto per lei. La rivelazione che forse lei non sarebbe mai tornata alla normalità fu come una scarica elettrica. Si accorse che stava tremando e cercò di dominarsi. Ma ciò che voleva era svegliarla, farle entrare in testa un po' di buonsenso. Frannie non riusciva a credere che Hardy avesse fatto tutti i preparativi: chiamare Erin, la nonna di Rebecca, per chiederle se era disposta a tenere i bambini per una notte, mandare un tassì a prenderli, prenotare in quel lussuoso bed & breakfast. Hardy faceva il modesto: "Sono una vera miniera di sorprese . "Come mai ti è venuto in mente?" Seduto su un divano di velluto rosso, Hardy beveva un porto tawny in un bicchiere di cristallo intagliato. "Ho ricordato che dovevamo a noi stessi quattro serate, un minimo di dodici ore. Il processo può continuare per un giorno senza di me: tanto, questa fase è competenza di Freeman." John T. Lescroart
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A braccia conserte, Frannie guardava il ponte del Golden Gate dalla finestra della California House, una vecchia residenza vittoriana in Upper Devisadero Street restaurata e trasformata in un bed & breakfast. Erano nella suite della Corsa dell'Oro, con tanto di libreria, vasca per l'idromassaggio, camino, porto e sherry e naturalmente la vista, che faceva salire il conto di ottanta dollari. Hardy non era sicuro che Frannie fosse entusiasta della sorpresa. Teneva le braccia conserte e aveva un'espressione tesa. La mascella era contratta, gli occhi pensosi, come se soffrisse fisicamente e non volesse confidarsi. E lui temeva che la sofferenza fosse il risultato di un cambiamento. Forse Frannie s'era resa conto di non volerne più sapere di lui. Lo guardò come da lontano. Un mezzo sorriso. "Ciao." Hardy si accorse di aver trattenuto il respiro. Posò il bicchiere sul tavolino e chiese precipitosamente: "Come va la vita, Frannie?" "Tu che ne pensi?" "Penso che non vada troppo bene. Ho mal di stomaco da un mese, da quando hai smesso di sorridere. Pensavo che fossi disposta a parlarne." Lei si voltò di nuovo a guardare il panorama. Hardy avrebbe voluto andarle vicino ma qualcosa gli impediva di muoversi. Frannie mormorò una frase e Hardy le disse che non aveva capito. Passò un minuto prima che Frannie lo ripetesse. Si voltò a guardarlo negli occhi. "Segreti." "Quali segreti?" Fu l'unica cosa che gli venne in mente. Frannie rimase nella stessa posa, a braccia conserte. "I segreti sono quelle cose che non si dicono." Hardy si tese in avanti, prese il bicchiere di porto, bevve un sorso, lo posò. "E va bene," disse. "Non si tratta solo di questo." "Non so neppure che cosa sia 'questo'." "È vero. Non lo sai." Hardy si portò una mano alla fronte. "D'accordo, Frannie, ma devo sapere. C'è un altro uomo? Puoi dirmelo?" Lei chiuse gli occhi e il linguaggio del suo corpo annunciò che una crisi si era appena conclusa. Lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi, si avvicinò e s'inginocchiò accanto a lui. "Che cosa stai dicendo? Un altro uomo? Non c'è, non potrebbe esserci." Gli passò le mani sulla faccia, seguì i lineamenti con la punta delle dita, John T. Lescroart
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poi gli cinse il collo con le braccia e l'attirò a sé. Hardy tremò per l'emozione che si sforzava di dominare. Ecco perché l'aveva sposata. Perché si fidava abbastanza di lei per lasciare che lo vedesse così, com'era veramente. Faceva parte di lui, era il catalizzatore che gli permetteva d'esser di nuovo se stesso. Frannie lo teneva stretto a sé. Era il suo uomo e aveva bisogno di lei. E se poteva rivelarle il suo aspetto più debole, non aveva motivo d'essere preoccupata. Poteva confidargli i suoi dubbi, le sue inefficienze. Dismas non l'avrebbe lasciata. "Temevo che non capissi." "Forse non capisco, ma cerco di farlo." "Ti aspetti che la vita sia sempre perfetta..." "Non è vero." Frannie gli posò l'indice sulle labbra. Ormai era buio, il ponte splendeva oltre la finestra, e accanto al letto c'era una candela accesa. "Non volevo deluderti, ed ero così triste. Per Eddie, per la mia giovinezza, per tutto." Hardy rimase in silenzio. "Non volevo che lo sapessi, che soffrissi." "So che la vita non è perfetta, Frannie." "Ma vorresti che la nostra lo fosse, no? E a volte credi che possa esserlo." "E tu no?" "Non lo so. E poi tutto questo, la sensazione di essere in trappola..." Lei si spostò nel letto, gli appoggiò la testa sulla spalla, gli passò una gamba sui fianchi. "Non ho cercato di intrappolarti, Frannie. Credevo che fossi felice..." "Non si trattava di te, Dismas. Ora lo capisco. Era la mia vita. All'improvviso non sapevo che cosa fosse. E avevo la sensazione di aver fallito... Voglio dire, non ero felice mentre avrei dovuto esserlo, e di chi era la colpa?" "Di solito io do la colpa a un consorzio d'investitori arabi." "Anch'io, ma stavolta non funzionava, e non potevo dirtelo. Non sarebbe stato giusto, con la data del processo che si avvicinava... e mi sono risentita perché non potevo dirtelo, e infine mi sono convinta che a te non sarebbe importato..." John T. Lescroart
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Hardy si sollevò su un gomito e la guardò. "Non so che cosa tu voglia dire. Davvero." Frannie chiuse gli occhi per un momento. "Ho visto Jennifer." "Lo so." Lei scosse la testa. "Più di una volta. Ci sono andata di nascosto. Ho lasciato i bambini a Erin e sono andata." "Quante volte?" "Non so. Tre o quattro." Frannie gli posò la mano sulla gamba. "La prima volta... credo che abbiano legato. Poi ho pensato che non avresti approvato, o forse non volevo chiedere la tua opinione. Non mi pareva giusto, dover chiedere il permesso." "È mia cliente, Frannie." Hardy scosse la testa. "Lo so, lo so. Avrei dovuto parlartene, ma... mi sembrava che fosse tutto collegato al resto, la depressione, la sensazione di essere in trappola. Jennifer... ecco, mi ha ascoltata." "Jennifer ti ha ascoltata? Gesù!" Hardy buttò via il lenzuolo e scese dal letto. Andò alla finestra, si fermò e senza voltarsi mormorò: "Hai parlato a Jennifer di noi due? E adesso, che cosa sa di noi?" Sentì il filo di voce alle sue spalle. "Non è andata così. Adesso non arrabbiarti. Ti prego." Per un altro minuto, lui cercò di ricostruire la situazione. Poi tornò indietro e sedette sul divano. "Era questo il segreto?" Frannie esitò per preparare una risposta. "Era tutto un segreto. Tutto collegato." Hardy incrociò le mani e chinò la testa. "Dismas?" Frannie scese dal letto, s'inginocchiò davanti a lui. "Non sono arrabbiato," le disse. "Sia chiaro. Non ce l'ho con te, e sono contento che ne parliamo. Ma non hai pensato che Jennifer potrebbe servirsi di te?" "Non l'ha fatto. Almeno, non credevo..." Hardy si buttò sulla distinzione. "Non lo credevi allora, ma adesso sì?" Frannie si rialzò, si avvolse nella coperta e sedette sull'orlo del letto. "Non ho detto questo." Respirò profondamente. "Vorrei che non mi interrogassi. Desidero parlarne, Dismas, ma quando fai così mi sento intimidita. È inutile, non approderemo a niente." "Dove vuoi che approdiamo?" "Voglio che possiamo ricominciare a parlare. Sto cercando di dirti com'è John T. Lescroart
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andata." Nella luce della candela il suo viso era un cammeo d'ambra. Hardy non riusciva a staccare gli occhi da lei. Le prese la mano. Non era il momento adatto per discutere, per dirle che Jennifer poteva avere programmi ben diversi da quelli che le aveva fatto credere. Si accostò e avvolse la coperta intorno a entrambi. "Hai ragione," disse baciandola. "Scusami. Parla pure." "Ti ha detto che Larry la picchiava?" "L'hanno picchiata tutti. Non riusciva a credere che tu non mi avessi mai picchiata, e che non l'avesse mai fatto neppure Eddie. Capivo che non mi credeva. Come se l'idea fosse completamente estranea alla sua esperienza." "Forse è proprio così." Erano ancora rannicchiati insieme sull'orlo del letto. "Non dovremo mai picchiare i nostri bambini, d'accordo?" "Ma noi non li picchiamo." "Lo so. Non dovremo mai incominciare." Frannie si appoggiò a lui. "Ho la sensazione di aver abbandonato Jennifer. Ecco... cominciava a sembrarmi ingiusto.'' "Io non l'ho abbandonata, quindi credo che sia ancora una faccenda di famiglia." "Lo so, ma..." "Sttt. Sai, forse il semplice fatto di sentire la storia di una donna che non viene maltrattata... forse le darà un po' di speranza." "Se ci crede." "E se non ci crede, non sarà vedendola ancora che la convincerai." Hardy strinse a sé la moglie e respirò il suo profumo. La candela scoppiettò per un momento e Hardy vide un filo di cera che colava serpeggiando dalla bugia di cristallo e si raccoglieva sul piano della toeletta. "Non sto cercando di dissuaderti, sai. Se vuoi continuare a vederla non hai che da dirmelo." "Non la vedrò più." Frannie sospirò. "Ci sono certe cose... È sbagliato." "L'hai detto tu. Ma se non agirai alle mie spalle..." "Non è questo che è sbagliato. Si tratta di Jennifer. All'inizio pensavo... ecco, eravamo due donne, potevamo parlare. Poi, quando stava per dirmi qualcosa d'importante, si è chiusa a riccio, ha detto che io avrei preferito non saperlo. Ho cominciato a domandarmi se forse..." John T. Lescroart
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"Se forse è colpevole?" "Sì. Non lo sopportavo. Ma non credo che abbia ucciso Matt, neppure accidentalmente, e neppure Larry. Forse il primo marito, non so. E se l'ha fatto, non so se potrei sopportarlo. Se, ho detto. Ma mi ha chiesto perché pensavo che si battesse con tanta energia contro l'accusa. La risposta è che non li ha uccisi." "Anche se Larry la picchiava e la maltrattava?" "Per favore, non farmi il controinterrogatorio, Dismas. Mi ha detto che Larry la picchiava. Ma ha detto anche che non ha ucciso né lui né Matt... neppure per errore. Per nessuna ragione." Hardy la guardò e si chiese se cercava di convincere se stessa. Sapeva bene che cosa si provava in quei casi.
31 Nessuno sapeva da quale direzione fosse arrivato il temporale, ma la pioggia veniva giù a scrosci quasi orizzontali intorno a Bryant Street, la temperatura si aggirava sui dieci gradi e la tinteggiatura grigia del palazzo di giustizia sembrava di un azzurro livido mentre Hardy correva dal parcheggio alla scalinata. Erano le 12.42 quando entrò. Sapeva che c'era la pausa per il pranzo, e gli stava bene. Non sarebbe andato direttamente al dipartimento del giudice Villars. Freeman e Jennifer stavano mangiando in un ufficio abbandonato. Hardy salutò con un cenno l'agente che stava di guardia alla porta, sbirciò dal finestrino e vide che stavano chiacchierando, seduti uno di fronte all'altra a un vecchio tavolo verde di metallo. Aprì ed entrò. Freeman, con la bocca piena, alzò una mano. "Salve. Li stiamo distruggendo, Diz, lo giuro." Jennifer rigirava con la forchetta di plastica un'insalata di fagioli nel vassoio bianco. Hardy fu colpito ancora una volta dal suo aspetto, modesto ma sofisticato, modesto ma irraggiungibile. Adesso sembrava una creatura di Freeman: la creta modellata da un artista. Hardy si tolse l'impermeabile grondante e si lasciò cadere su una sedia. "Un'altra bella notizia. La siccità è finita." Freeman si riempì la bocca di spaghetti in salsa rossa, si asciugò le labbra con un tovagliolo già macchiato. "Ehi, Diz, senti un po'. È la verità sacrosanta. Stiamo John T. Lescroart
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vincendo." Passò un lungo istante mentre si scambiavano occhiate. In lontananza, un fulmine si abbatté sul parafulmine d'un grattacielo e dopo pochi secondi fu seguito dallo schianto del tuono. "Jennifer non aveva mai ammesso di fronte a Harlan Poole che Ned la picchiava. Anzi, l'aveva sempre negato. Il fatto che venisse maltrattata era una semplice ipotesi di Poole," continuò Freeman. "Può dire che aveva una relazione con Jennifer. Può dire che teneva l'atropina nello studio. Punto e basta. Ho depositato un 1118 ieri, dopo che abbiamo messo in croce Strout. E Poole sta diventando un disastro anche peggiore di Strout." Il 1118 è un'istanza per un verdetto di assoluzione, con la quale si chiede al giudice di decidere che nessuna giuria ragionevole potrebbe riconoscere colpevole l'imputato perché in punto di diritto non ci sono prove sufficienti. Se l'istanza fosse stata accolta, l'accusa sarebbe stata liquidata con l'annullamento del processo e Jennifer non avrebbe più potuto essere processata. "Scommetto che la Villars l'accoglierà dopo la pausa." Gli occhi di Freeman brillavano. "Non credo che Powell possa fare una campagna elettorale e seguire nel contempo un processo. Questa faccenda si mette male per lui." L'ufficiale giudiziario bussò ed entrò. Il giudice Villars stava per rientrare in aula. Il processo riprendeva. Hardy ascoltava mentre Powell cercava un modo per avviare la testimonianza di Harlan Poole. Il dentista era a pezzi. Era difficile immaginare che quell'uomo corpulento, occhialuto e quasi calvo fosse stato l'amante di Jennifer. In quanto alla discrezione che Terrell gli aveva promesso, era risultata impossibile. Gli piacesse o no, era una figura centrale, uno dei supertestimoni in un caso di omicidio; e a giudicare dalla sua espressione, quel ruolo gli stava rovinando la vita. "Dottor Poole." Powell si stava riprendendo da un'altra obiezione appena accolta. Freeman era saltato su come amava fare, e la Villars aveva criticato Powell perché si era riferito di nuovo al fatto che Ned aveva maltrattato Jennifer, un fatto che non era stato in grado di provare. Powell, frustrato, stava girando in cerchio. "Dottor Poole," disse, "lei ha testimoniato che era in intimità con l'imputata?" John T. Lescroart
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Poole fissò il soffitto per non guardare la moglie che era fra il pubblico. Si passò un fazzoletto sulla fronte. "Sì." "Nei momenti intimi ha avuto occasione di vedere l'imputata nuda?" "Vostro onore! Obiezione!" Ma Powell aveva riflettuto. "Vostro onore, lei ha insistito perché togliamo questa testimonianza dal campo del sentito dire. Non avrei voluto prendere questa strada, ma è pertinente e non si tratta di qualcosa riferito da terzi." La Villars guardava davanti a sé, immobile come un manichino. "Gli avvocati si avvicinino al banco." Hardy si alzò contemporaneamente a Freeman. Si schierarono davanti al giudice che chiese a voce bassa: "Non sono sicura di concordare circa la pertinenza, signor Powell. Che cosa c'entra la nudità della signora Witt con il presunto assassinio del marito?" Freeman, che si sentiva ancora in serie positiva, intervenne incautamente. "Non c'entra affatto." Era un errore. La Villars lo fulminò con un'occhiata. "Quando vorrò la sua opinione, signor Freeman, gliela chiederò. È chiaro?" Poi si rivolse di nuovo al procuratore. "Signor Powell?" "Vostro onore, riguarda il movente. Sappiamo che il marito la picchiava e..." "Un momento. Finora ho sentito parlare solo dell'assicurazione e di una relazione..." All'improvviso Hardy notò che la stenografa non era lì e intervenne: "Mi perdoni, vostro onore, ma è una conferenza che deve andare a verbale?" La stenografa doveva trascrivere tutto, in un processo che poteva comportare una condanna a morte. Il giudice parve accorgersi per la prima volta della presenza di Hardy. La sorpresa lasciò il posto alla solita occhiata intimidatoria, ma Hardy non fece marcia indietro. "Forse potremmo andare nel suo ufficio?" "Siamo appena arrivati." Irritata, la Villars squadrò i tre uomini che le stavano davanti. "Che cosa intende dire, signor Hardy?" "Non è necessario andare nel suo ufficio, vostro onore." Powell era molto conciliante. "Possiamo risolvere tutto qui." Il giudice raddrizzò la schiena. "Comincio a essere stanca di fare una domanda a una persona e di ricevere la risposta da un'altra. Mi sono rivolta al signor Hardy. Vuole che la conferenza si svolga nel suo ufficio?" John T. Lescroart
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"Sì, signora." Lei gli puntò contro l'indice. "Sì, vostro onore," lo corresse. "Sì, vostro onore, mi scusi." La Villars scosse la testa. "È molto seccante," mormorò. Si alzò in piedi. "Lo stenografo ci accompagnerà nel mio ufficio. Sospendiamo l'udienza per pochi minuti. Dottor Poole, può lasciare il banco dei testimoni o restare dov'è." E uscì per prima. L'ufficio del giudice non era molto più imponente degli stanzini dei viceprocuratori distrettuali. Era più grande, con un bagno privato e un salottino distante dalla scrivania, ma nonostante due bei tappeti e qualche incisione incorniciata aveva sempre l'atmosfera del palazzo pubblico. Hardy dovette affrontare la collera del giudice. "Bene, signor Hardy, siamo nel mio ufficio alla presenza della stenografa. E perché ci siamo, se non le dispiace?" "Il signor Powell stava discutendo la pertinenza del..." "So che cosa stava facendo." "Allora, vostro onore, potrebbe continuare qui la discussione. È una cosa che può emergere nella fase della condanna, se si arriverà a tanto." La Villars gli ricordava un uccello indignato pronto a strappargli gli occhi a beccate. "Bene, signor Powell, sentiamo perché la nudità della signora Witt è pertinente." "Vostro onore, la testimonianza del dottor Poole proverà che Ned Hollis picchiava abitualmente la moglie e questo sarebbe stato un altro motivo per ucciderlo. Senza dubbio questo è pertinente." Ma sarebbe stata anche un'attenuante, pensò Hardy. "Sta dicendo che è un caso di letto bruciato?" "Potrebbe avere questi elementi. Dovremmo lasciare che sia la giuria a decidere." La Villars scosse la testa. "Si rende conto che così introduce la sindrome della moglie maltrattata? Ha qualche indizio che la picchiasse anche il secondo marito, come si chiamava...?" "Larry?" "Che anche Larry Witt la picchiasse? È questa la sua tesi?" "Mi scusi, vostro onore," intervenne Freeman. "Noi non ci appelliamo alla sindrome della moglie maltrattata. La signora Witt non sta dicendo che John T. Lescroart
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aveva un movente, che li ha uccisi perché la picchiavano e meritavano quella fine. Stiamo dicendo che non li ha uccisi." Il giudice Villars, con le braccia tese, le palme sul piano della scrivania, guardava la pioggia. "Quindi presumo, signor Powell, che apprenderemo che la signora Witt aveva lividi, segni neri e bluastri e così via su tutto il corpo?" "Sì, vostro onore." "E il fatto che il dottor Poole li avesse visti con i suoi occhi li sottrae al campo del sentito dire?" Powell aveva capito dove stava andando a parare il giudice e cominciò ad agitarsi. Ma non cedette. "I lividi sono ammissibili, vostro onore. Il dottor Poole li aveva visti con i suoi occhi." "E lei intende chiedere alla giuria di accettare un nesso fra i segni sul corpo della signora Witt e il marito?" "Vostro onore, la verità è che il primo marito, Ned, la picchiava. Si può dedurre..." Freeman, che era accanto a uno scaffale, si scostò. "Non è vero, Dean." Poi si rivolse al giudice. "Mi perdoni, vostro onore, ma la mia cliente ha sempre negato d'essere stata una moglie maltrattata, e questo non farà parte della sua difesa. La giuria non può dedurre niente da lividi che potevano avere altre cause." "Oh, sii serio, David." Powell stava per alzarsi dalla poltrona? "Lo sai anche tu che..." "Signori! Vi ricordo che tutto questo viene messo a verbale e che ogni osservazione deve essere rivolta alla corte." La Villars si scostò dalla scrivania. "Signor Powell, da quanto ho visto finora, lei ha un cospicuo problema per quanto riguarda l'evidenza. Ha intenzione di chiamare qualcuno che possa testimoniare sul giorno della morte del signor Hollis, sul luogo dove si trovava quel giorno la signora Witt, qualcuno che l'abbia vista prendere l'atropina dal cassetto del dottor Poole, oppure la siringa, o che più tardi l'abbia vista gettarla via?" Powell cercava di ostentare una posa disinvolta che non convinceva nessuno. 'Vostro onore, con l'assicurazione lo schema è..." Joan Villars alzò una mano. "Le ho rivolto una domanda molto semplice che richiedeva come risposta un sì o un no. Può chiamare qualcuno che parli delle questioni che ho appena sollevato?" "Vostro onore, io..." John T. Lescroart
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"Sì o no, porco diavolo!" Il giudice guardò la stenografa. "Adrienne, cancelli l'imprecazione." Poi, rivolgendosi di nuovo al procuratore: "Sì o no, signor Powell?" Un rombo di tuono passò nella stanza. "Sulle questioni specifiche... no, vostro onore." "C'è qualche questione specifica che vorrebbe esporci ora e che secondo lei rientrerebbe nella categoria dell'evidenza e non del sentito dire? Faccia pure con calma." Powell tornò a sedere. "Deve testimoniare il tenente Batiste, che indagò sulla morte di Ned Hollis." "È lo stesso che non ritenne fosse il caso di arrestare la signora Witt per omicidio nove anni fa, presumibilmente perché non c'erano prove sufficienti per formulare accuse?" Powell si stava ravviando i capelli con le mani. "Abbiamo anche altri testimoni, vostro onore." "Ne sono sicura. Ma qualcuno di loro sarà in grado di dire qualcosa sia pur lontanamente ammissibile. Dato che conosce la legge come me, me lo dica." In preda al suo incubo peggiore, Powell si riprese per la terza volta. "Vostro onore, dopo molte riflessioni e con una spesa considerevole, la procura ha deciso di esumare il corpo di Ned Hollis e di effettuare esami per accertare l'eventuale presenza di veleni. Abbiamo scoperto l'atropina, che non è una droga ricreativa, in una dose letale." "Vostro onore," s'intromise Freeman, "il loro testimone dichiara che Hollis faceva esperimenti con le droghe. Voleva scoprire se l'atropina gli causava effetti allucinanti o euforizzanti, ecco tutto." La Villars non staccò gli occhi dal procuratore. "Come sa, signor Powell, l'importante non è che lei lo pensi o lo creda, ma che sia in grado di provare al di là di ogni ragionevole dubbio che Ned Hollis sia stato assassinato. Ora, io vedo una polizza d'assicurazione che fu utilizzata per lo scopo originale, e cioè saldare il mutuo della casa. Vedo un consumatore abituale di stupefacenti che fa esperimenti con una droga pericolosa. E qui stiamo discutendo sul movente: se la signora Witt non uccise il marito per il denaro, lo fece perché la picchiava. Ha qualche referto medico che documenta le percosse? La signora Witt le ha mai denunciate ai medici o alla polizia?" Questa volta Powell non seppe che dire. John T. Lescroart
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Il giudice incrociò le braccia, girò dietro la scrivania e si fermò. Tutti attesero. Lei prese una memoria di quattro o cinque fogli spillati insieme, e poi la lasciò cadere. Scosse la testa. "Mi riserverò un momento per considerare la situazione. Vorrei che tornaste tutti qui fra un quarto d'ora." Quando ritornarono, la Villars disse a Freeman e a Hardy che era pronta ad annullare il processo per quanto riguardava Ned Hollis, se volevano. In quel caso, Jennifer sarebbe stata riprocessata soltanto per l'uccisione di Larry e Matt Witt. Ovviamente, i giurati erano prevenuti: avevano sentito affermare che il procuratore distrettuale riteneva che Jennifer avesse ucciso il primo marito. Altrettanto ovviamente, si sarebbero fatti una pessima idea di Powell, il quale formulava accuse che "nessun giurato ragionevole" poteva credere. Freeman e Hardy discussero su chi sarebbe stato più danneggiato: l'accusa o la difesa? Alla fine, comunque, fu Jennifer a decidere. Non aveva alcuna intenzione di restare in carcere mentre fissavano la data del nuovo processo e ricominciavano daccapo la procedura. Misero tutto a verbale davanti al giudice Villars. "Vostro onore," disse Freeman, "credo che la base per l'annullamento sia stata offerta dalla condotta poco corretta dell'accusa che ha violato i diritti processuali della mia cliente. Credo che le accuse debbano essere respinte nella loro totalità e che ogni altro processo sia da escludere perché la signora Witt è già stata processata una volta." Alla Villars la richiesta non piacque. "È un abile tentativo, signor Freeman. Chiede l'annullamento oppure no? Se lo chiede, l'imputata può essere riprocessata. Se non lo chiede, non lo concederò di mia spontanea volontà." Freeman, che in realtà non si aspettava di spuntarla, era comunque soddisfatto. Ma rimase impassibile. "In questo caso, vostro onore, anche se ritengo che il processo sia stato gravemente inquinato, scegliamo di procedere. Ho spiegato la situazione alla signora Witt, che ha deciso di proseguire. Non è così, Jennifer?" Jennifer alzò gli occhi. "Sì." Tornarono tutti in aula, dove il giudice Villars comunicò alla giuria che aveva deciso di accogliere l'istanza 1118 presentata dalla difesa, relativa John T. Lescroart
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all'omicidio di Ned Hollis: non c'erano prove sufficienti per riconoscere Jennifer Witt colpevole dell'uccisione del primo marito. Lunedì sarebbero passati alla fase successiva del processo. E nel frattempo, soggiunse il giudice Villars, i giurati avrebbero fatto bene a tornare a casa e a godersi in pace il fine settimana. Hardy si tolse l'impermeabile bagnato e sedette sulla banquette di Lou il Greco, di fronte a Freeman. Non erano ancora le quattro d'un pomeriggio buio. Al banco, Lou giocava a dadi con un cliente abituale; la moglie guardava una soap opera al televisore nell'angolo. Non c'era nessun altro. Arrivò il caffè. Freeman aggiunse due cucchiai di zucchero, un po' di panna, lo rimescolò. "Diz, devo dirti qualcosa che non ti farà piacere." Hardy cercò di dominare il tremito delle mani. "Da quanto tempo lo sai?" Freeman si guardò le unghie. "Da troppo tempo." Hardy annuì. Che poteva fare? Freeman gli aveva appena detto che effettivamente Jennifer aveva ucciso il primo marito, Ned. Gli aveva iniettato l'atropina, come sosteneva l'accusa. E Freeman l'aveva sempre saputo. "Lo sai? Sei un vero figlio di puttana," disse. Freeman annuì. "Ti capisco, ma non credo..." "Che cosa credi veramente? Te l'ha detto lei?" Freeman annuì. "E nonostante questo hai fatto la commedia?" "Naturalmente." "Naturalmente? Questa è bella." "È una mia cliente. È colpevole, certo. Dobbiamo toglierla dai guai. E potrei aggiungere che l'abbiamo appena fatto." "Gesù. Allora meritiamo una medaglia?" "Ti dà fastidio, vero?" Hardy alzò gli occhi. "Se mi dà fastidio? Ma, tanto per saperlo, dato che mi occupo del caso, ha ucciso anche Larry e Matt? Che cosa c'è d'altro che tu hai sempre saputo?" "No." John T. Lescroart
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"No che cosa?" "No, non credo che abbia ucciso Larry e Matt." "Non lo credi?" "Diz, ho detto no." "No, David, hai detto soltanto che non lo credi." Freeman si tirò l'orlo un po' liso del polsino della camicia. "Che cosa hai intenzione di fare? Piantare tutto? Adesso?" Hardy lo fissò. "Sì, voglio piantare tutto. Non mi occuperò più del caso. Credi che potrei continuare? Dovrei fare assolvere una donna che ha ucciso il marito? Lo ha ammesso. Perché me l'hai detto? Credi che l'ironia della situazione mi affascini?" "No, non credo." Hardy attese. Respirava a fatica. "Era così complicato, Diz. E..." Per un momento Freeman sembrò a corto di parole. "E ti stimavo. Non volevo perderti." Adulazioni. Fesserie. Hardy tracannò il resto della birra. "Be', David, vai al diavolo. Tu e lei." Si alzò, sbatté la bottiglia sul tavolo e si avviò alla porta. Freeman si alzò e lo seguì sotto la pioggia. "Voglio che l'ascolti." Freeman l'aveva seguito fino alla macchina, e s'era infilato nel sedile del passeggero. Adesso erano lì mentre la pioggia batteva sul tettuccio. Hardy scosse la testa, incredulo. "Che cos'ha da dire? Che cosa può dire?"
32 Non avevo scelta. Mi avrebbe uccisa, mi avrebbe scovata e uccisa. Per quanto tempo bisogna sopportare prima di poter fare qualcosa? Lo dicono tutti, no? E forse è vero. Il primo anno lavoravamo tutti e due, avevamo comprato una casa. Allora non prendeva spesso la cocaina. Se ogni tanto mi picchiava, quando litigavamo, dopo era molto affettuoso e facevamo pace. Dopo la prima volta che lui mi pestò di brutto, andai da mia madre. Sapete che cosa mi disse? Disse che sperava che Ned la smettesse, ma che non l'avrebbe detto a papà perché si sarebbe agitato e comunque non John T. Lescroart
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avrebbe potuto far niente se non andare da Ned e mettersi nei guai. Così era meglio che sistemassi tutto con Ned e non coinvolgessi mio padre. Le mogli facevano così, mi disse mia madre. Risolvevano tutto e cercavano di non lamentarsi, e forse se fossi stata più gentile Ned non si sarebbe arrabbiato. Ce la misi tutta, ma era impossibile controllare Ned quando beveva o si drogava. Era una carogna, e lo diventò ancora di più quando perse il posto con Bill Graham e dovette tornare ai piccoli club. E intanto c'era la cocaina. Comunque avevo una cara amica a Los Angeles, Tara. Scappai e andai a stare da lei. Commisi l'errore di telefonare a Ned e di dirgli che me n'ero andata. Non sarei tornata, ma non doveva preoccuparsi per me. Desideravo solo farla finita. Ma lui non voleva saperne. Chiamarlo era stato un errore. Non immaginavo che mi avrebbe seguita. Che stupida. Arrivò. Era stranamente calmo. Non era drogato né ubriaco. Forse fu proprio questo che mi fece più paura. Lo lasciai entrare. Non pensavo che avrebbe... Be', si avvicinò a Tara. Non disse una parola ma le tirò un pugno nello stomaco con tutte le sue forze. Era grande e grosso, sapete. Pesava novanta chili. Assicurò che l'avrebbe ammazzata se mi avesse nascosta ancora o mi avesse aiutata o avesse chiamato la polizia. E disse che avrebbe ammazzato anche me, se avessi fiatato con la polizia. Era capace di farlo. Mi afferrò per i capelli e per un braccio, mi caricò in macchina. Guidò per tutta la notte senza permettermi neppure di andare in bagno. Poi, quando arrivammo a casa, mi picchiò perché avevo sporcato la macchina e mi costrinse a lavarla. Sembra strano, ma per tutto quel tempo cercavamo di vivere in modo normale. Io lavoravo con Harlan; ero la sua impiegata e contavo di diventare igienista. Sì, fu così che cominciò. Non è che volessi tradire Ned. Ma stava andando tutto a rotoli e Harlan era gentile con me. Era facile tenere nascosta la relazione. Non che dovessi uscire di nascosto la notte: bastava che chiudessimo lo studio per l'ora di pranzo. E così, Harlan si accorse di quello che mi aveva fatto Ned e disse che dovevo denunciarlo alla polizia. Io continuavo a ripetere che non era stato Ned, che erano incidenti. Be', avete visto Harlan. Pensa che tutto vada a posto se si fa quel che si John T. Lescroart
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deve fare. Alla fine credetti di essere innamorata di lui. Lo so, adesso è grasso, ma allora non lo era. Decisi di aspettare che Ned non fosse drogato o ubriaco per cercare di parlare con lui, dirgli che ero infelice, che non avrei più tollerato che mi picchiasse, e che me ne sarei andata. Non parlai di Harlan. Gli dissi che non c'era un altro uomo, che era una cosa fra me e lui e che non funzionava. Continuavo a pensare che, se non fossi scappata, se fossi stata ragionevole, la sua reazione sarebbe stata diversa. E fu così. Restò seduto per quasi un'ora e poi, con calma, e questo avrebbe dovuto mettermi in guardia, disse che sarebbe uscito un po' e ci avrebbe pensato. A mezzanotte non era ancora tornato. Mi addormentai. Mi svegliai urlando, ma avevo un calzino in bocca e non potevo respirare o gridare, e sentivo un dolore terribile laggiù... e Ned mi stava addosso e mi teneva bloccata. Il giorno dopo non riuscivo a muovermi. Mi sentivo le viscere lacerate, non potevo respirare, c'era sangue sulle lenzuola e avevo le mani legate al letto. Ho visto che il mio armadio era aperto e che metà dei miei abiti erano sparsi per la stanza, tagliati a pezzi. Sul pavimento ho visto il coltello da burro... lui l'aveva usato per punzecchiarmi. Mi svegliai di nuovo e lui era lì e mi stava slegando, era di nuovo lucido. Mi aiutò ad andare in bagno. Io avevo paura. Lui era calmo e diceva che avrebbe fatto sparire tutto senza lasciar traccia. Presi un giorno di malattia, tanto non sarei potuta andare a lavorare, e poi ci fu il fine settimana e Ned si procurò un po' di cocaina e disse che dovevo prenderla con lui, come ai vecchi tempi. Quali vecchi tempi? Non mi ero mai drogata. Be', non me la sentivo. Ero spaventata e avevo ancora tanto male. Ned mi disse di piantarla. E così cercai di fare quel che voleva, e lui voleva fare l'amore. Cominciai a supplicarlo, a dirgli che mi faceva male, e lui mi rispose che non aveva importanza, che ero sua moglie e dovevo starci. Gli obbedii. Mi sentivo morire. Però non morii. E non morire era il peggio. Sapete quante volte mi augurai di morire? Quante altre volte? Morire, non svegliarmi più? E, credetemi, quando si vuole veramente morire, si finisce per desiderare che John T. Lescroart
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muoia qualcun altro. Perché deve toccare proprio a me? Mi svegliai presto, e Ned era sdraiato vicino a me e non si muoveva. Per un po' rimasi a guardarlo sperando che fosse morto. Gli pizzicai una gamba. Non reagì. Poi sbuffò. Ma l'idea rimase. Passarono due giorni e cominciai a star meglio. E le cose cominciarono a sembrare diverse. Nessuno vuole credere davvero che non ci sia speranza, no? Anche se non c'è. Tomai al lavoro, tenni a bada Harlan con una scusa, e all'improvviso ricordai che non vedevo da giorni Boots, il mio gatto. E allora capii. E capii qual era l'unica via d'uscita. Non illuderti, non hai vie di scampo. Ned è capace di far sparire le cose senza lasciar traccia. Lo stava dimostrando. Adesso sarebbe toccato a me. Gli feci credere che ci saremmo drogati insieme, mi scusai per aver fatto la difficile. Sarei stata divertente come una volta... Fu molto facile. Gli feci l'iniezione, andai in spiaggia e seppellii la roba, e andai dai miei genitori a far colazione... Allora andavo ancora a trovarli. Quando tomai a casa chiamai la polizia e dissi che mio marito era stato vittima di un incidente. Nella stanzetta dei colloqui c'era odore di sudore e di lana bagnata. Freeman stava sulla sedia che aveva spinto contro il muro. Hardy aveva la bocca arida, la schiena rigida. In un quarto d'ora non aveva mosso un muscolo. Credeva a ogni parola che aveva detto Jennifer e si sforzava di vedere le cose in prospettiva. "Avrebbe dovuto chiamare la polizia. Loro avrebbero potuto fare qualcosa." Ma si rendeva conto di non essere convincente. Jennifer rise, una risata secca. "No, non potevano. Non capisce? Durava da due anni e non avrebbero potuto far niente anche se avessero voluto, anche se mi avessero creduta." "Perché non avrebbero dovuto crederle?" "Perché le cose non vanno così. Dovrebbe saperlo. Crede che qui la legge protegga le vittime potenziali? Si sbaglia: punisce quelli che hanno fatto qualcosa. Fino a che qualcuno non viene ferito o ucciso, non s'interessano..." "Ma Ned aveva trasgredito la legge..." "Gesù." Jennifer guardò Freeman. "Ma quello lì in che mondo vive?" "Vivo nel mondo della realtà, Jennifer, e lei non può..." John T. Lescroart
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"Oh? Be', ascolti, questo è il mondo della realtà. Se avessi avuto fortuna, Ned non avrebbe ottenuto la libertà su cauzione e sarebbe stato condannato a un anno. Così avrei avuto un anno per traslocare, cambiare nome, rifarmi una vita. Poi Ned sarebbe uscito, mi avrebbe trovata e io sarei sparita come Boots, il mio gatto. Devo proprio spiegarlo? Ero io, quella che ci avrebbe rimesso la vita." Hardy si assestò sulla sedia. "Non so. Dal mio punto di vista, direi che è stato Matt a rimetterci la vita. Anche se Larry la picchiava..." "Gliel'ho detto, Larry non mi picchiava," disse Jennifer con un'occhiata di disapprovazione. Hardy batté la mano sul tavolo. "Oh, Jennifer, la pianti!" Si alzò. "So per certo che Larry la picchiava. Ho parlato con i medici dai quali è andata e so che bugie gli ha raccontato." "Non ho ucciso mio figlio..." "Buon per lei." "E neppure Larry." "O se l'ha fatto, sono sicuro che aveva una buona ragione." "Non li ho uccisi io, accidenti. Non ho idea di chi sia stato." Jennifer gli si avvicinò all'improvviso agitando le braccia. Hardy cercò di indietreggiare, ma non c'era spazio. Inciampò nella sedia e cadde. Freeman si mise in mezzo, ricondusse Jennifer a sedere e, quando vide che Hardy s'era rialzato, commentò che ogni processo produceva almeno uno sfogo di emozione sincera. "Penso che possiamo discuterne," disse. "Ci sarà utile." Erano stati cinque minuti di tensione, ma adesso erano di nuovo seduti intorno al tavolo. Hardy fissò il collega. "A te non importa che cosa sia successo, David. Lo hai ripetuto cento volte." "No, non è esatto. Ho detto che, da un punto di vista legale, i fatti non contano se non è possibile provarli. Ma personalmente m'interessa. Moltissimo. Perciò faccio l'avvocato." Hardy si rivolse a Jennifer. "Risponda a questa domanda: Larry la picchiava o no?" "Sì," ammise finalmente. "Spesso?" Lei annuì. "Ma se lo ammettessi, soprattutto dopo quanto è successo con Ned, nessuna giuria crederebbe che non ho ucciso anche Larry." John T. Lescroart
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Il problema era quello. Jennifer aveva ucciso Ned perché la picchiava. Anche Larry l'aveva picchiata, e lei insisteva nell'affermare che non l'aveva ucciso. "Ho dovuto mentire," disse. "Se si fosse scoperto che tutti e due mi picchiavano..." "Perché dovrei credere che adesso non mente?" "Perché sto dicendo la verità." "Mi sta raccontando un'altra versione, ecco tutto." "Diz." Freeman posò la mano sul braccio di Hardy. "Guarda la situazione da un punto di vista strategico. Per quanto riguarda Ned, non ha più niente da temere. Siamo a metà strada. Di certo non ha ucciso il figlio, neppure per errore. Lei non c'entra. Di questo siamo convinti tutti e due." "Non so più che cosa credere, David." Jennifer gli posò la mano sull'altro braccio. "Ho fatto a Ned quel che ho fatto quasi dieci anni fa." Non lo guardava, non cercava di persuaderlo con lo sguardo, e Hardy pensò che era un buon segno. "Ero spaventata a morte, non sapevo che fare... Pensavo che non ci fossero altre soluzioni. "Con Larry non eravamo ancora arrivati a quel punto. Forse sarebbe successo, non so. Volevo credere che non sarebbe avvenuto. Per questo cominciai a consultare Ken Lightner, nella speranza che tutto andasse a posto. Lo ammetto, mi tiro addosso i guai. Persino Ken mi dice che sono nata vittima. Cercavo di cambiare. E poi qualcuno... qualcuno ha ucciso Larry e mio figlio, e mi hanno arrestata. All'improvviso devo mettere la mia vita nelle mani di due uomini che sei mesi fa non conoscevo neppure. Impossibile. Gli uomini non sono mai stati buoni con me, forse l'avrete notato. Perciò ho fatto il mio piano e l'ho seguito." Hardy incrociò le braccia. "Ho notato anche un'altra cosa. È riuscita a dire la verità a David." Freeman intervenne. "L'ho messa con le spalle al muro. Così la verità è saltata fuori." "E a me non hai detto niente." "L'ho deciso io, non lei. D'accordo, ho sbagliato. Avrei dovuto includerti, ma non pensavo che avessi bisogno di saperlo prima della fase di discussione della condanna, ammesso che ci si arrivi." "Bisogno di sapere, eh?" Fuori s'era fatto buio. Era venerdì sera, la vigilia del fine settimana... Hardy tirò un respiro profondo e si rivolse a Jennifer. "Se ha qualche altro segreto, mi sembra il momento di parlarne." John T. Lescroart
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Ma il velo s'era abbassato di nuovo, il fuoco s'era spento. "Scopra chi ha ucciso il mio bambino, ecco. È capace di farlo?"
33 Non sapeva cosa faceva. S'era avviato in macchina sotto la pioggia verso Miz Carter's, poi aveva cambiato idea e aveva attraversato il Golden Gate Park. Non sapeva neppure dove andava. Forse il suo cervello aveva chiuso bottega per mancanza di sonno. Tutto si riduceva a un dilemma. Le credeva o no, questa volta? Anche se sapeva che gli aveva mentito su quasi tutto fin dall'inizio, poteva ancora crederle? Pensava di sì. Aveva detto a Freeman che il racconto di Jennifer faceva acqua, ma per la verità gli sembrava credibile. Ogni volta che lo considerava gli pareva più logico. Jennifer aveva dovuto uccidere Ned. Dal suo punto di vista era legittima difesa. Era davvero convinta che l'avrebbe uccisa... e perché non avrebbe dovuto pensarlo? Aveva cercato di fuggire e lui l'aveva rintracciata. Gli aveva detto che intendeva lasciarlo e lui l'aveva massacrata di botte, l'aveva violentata con un coltello da cucina, le aveva ucciso il gatto e aveva minacciato di ucciderla se avesse tentato di fermarlo. Hardy aveva letto il materiale che gli aveva dato Lightner, più altri venti o trenta articoli sull'argomento. Le donne maltrattate si sentivano prigioniere di una situazione da cui non potevano fuggire e che un giorno o l'altro le avrebbe probabilmente uccise. Hardy credeva che Freeman avrebbe potuto provare che l'uccisione di Ned aveva avuto una giustificazione, una forma di legittima difesa che i tribunali avevano cominciato a riconoscere. Anche con il giudice Villars e in mancanza d'una legge che codificasse come difesa la sindrome della donna maltrattata, Hardy era sicuro che sarebbe riuscito a far assolvere Jennifer. E nessuna giuria californiana avrebbe chiesto la pena di morte. Jennifer non era stupida. Tutto questo lo capiva. E allora perché non voleva saperne? La sua spiegazione era che sarebbe stata una difesa in caso di colpevolezza, e diceva che non ne aveva bisogno perché non aveva ucciso Larry e Matt. E non poteva neppure ammettere un omicidio e non l'altro. Nessuno le John T. Lescroart
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avrebbe creduto. Powell avrebbe riso. E i giurati si sarebbero sentiti offesi. Nessun giudice sarebbe stato comprensivo. Eppure Hardy le credeva. Jennifer Witt non aveva ucciso il figlio, non era stata presente quando era morto, non ne aveva saputo nulla. E se le credeva, risalendo a ritroso, l'apparente doppiezza di Jennifer aveva un senso. Jennifer non poteva ammettere alcuna similarità fra la sua vita con Ned e quella con Larry, soprattutto da quando si era arrivati al processo. Niente provava che fosse stata maltrattata; e se i due avvocati avessero ammesso durante il processo che invece lo era stata, agli occhi della giuria questo avrebbe reso più credibile il fatto che avesse ucciso entrambi i mariti. Quindi doveva sostenere che nessuno l'aveva mai maltrattata. Era l'unica versione che funzionasse... E naturalmente David Freeman, da buon avvocato, l'aveva adottata. Ci fu una tregua nell'acquazzone. Hardy portava scarpe da tennis, jeans e un giubbotto impermeabile verde. Scese dalla macchina. Dal punto dove si trovava, più in alto dell'isolato della casa di Jennifer, si vedeva una fascia di azzurro all'orizzonte. Non erano ancora le sette del mattino. L'aria era umida e pesante, carica del profumo di ecucalipto. Non sapeva perché fosse andato lì. Passò davanti alla casa dei Witt e arrivò al limitare del boschetto che circondava Twin Peaks. Una cerva e i suoi due cerbiatti pascolavano a una ventina di metri. I cervi fuggirono nel bosco. Nell'ombra, Hardy sbatté le palpebre per schiarirsi la vista, stordito nel vedere Jennifer Witt in tuta azzurra da jogging che usciva dagli alberi, correva verso di lui, lo incrociava... Vista da vicino, naturalmente, non era lei. Ricominciò a piovigginare. Hardy si mise a correre e raggiunse la macchina. La donna, che correva più svelta, era svoltata in Clarendon. La macchina sbandò sull'asfalto bagnato. Hardy affrontò l'angolo di Olympia Way e slittò di nuovo. Si affiancò alla donna, rallentò e suonò il clacson, le accennò di fermarsi. Lei diede un'occhiata all'orologio e continuò a correre. Hardy rallentò nuovamente, abbassò il vetro e strombazzò ancora. "Ho bisogno del suo aiuto," le gridò. La precedette per un centinaio di metri, fermò la macchina accanto al marciapiedi, spalancò la portiera e scese. Allargò le braccia. La donna si fermò a una distanza di quindici metri. E stava ricominciando a diluviare. John T. Lescroart
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"Che cosa vuole?" chiese la donna. "Non vede che sto correndo?" "Devo solo farle una domanda." "Una domanda?" Lei scosse la testa, incredula. "Cristo, che razza di città." "Potrebbe salvare la vita a una donna." "Sicuro." Lei guardò di nuovo l'orologio. "Chi diavolo è? Mi lasci in pace." Hardy sapeva che doveva parlare in fretta, trovare un aggancio. "Ha mai sentito parlare di Jennifer Witt? Sono il suo avvocato." "Bravo. E io sono una che vuole correre." La donna passò dall'altra parte della macchina e non si voltò mentre proseguiva lungo la strada e spariva dietro una curva. Hardy risalì in macchina e cercò di consolarsi pensando che probabilmente non aveva importanza. Ma dopo tre isolati, si rese conto di ciò che aveva fatto... aveva creduto di essersi imbattuto nel nocciolo di verità d'una delle spiegazioni di Jennifer. Quindi le credeva. Jennifer aveva detto che quando andava a fare jogging partiva sempre camminando per un paio di isolati. Aveva sostenuto che era un'abitudine, e l'aveva seguita anche la mattina del 28 dicembre. E un'altra che le somigliava era passata correndo davanti alla sua casa al momento degli spari. S'era fermata, non aveva visto nulla e aveva ripreso a correre, proprio davanti alla porta dei Witt. Il supertestimone dell'accusa, Anthony Alvarez, l'aveva identificata come Jennifer. E questo gli dava un filo di speranza. Glitsky telefonò dopo cena e disse di accendere il televisore perché stava parlando David Freeman. C'erano Moses e la sua fresca sposa, Susan. Mentre Hardy accendeva il televisore, Moses si buttò sul divano. "Mi sembra un pallone gonfiato, quello," disse. Hardy si voltò e commentò che David Freeman era un pallone gonfiato. Quando gli faceva comodo. Con la barba ispida, la camicia gualcita e la cravatta stolta, le maniche rimboccate e l'aria dell'uomo che ha lavorato tutta la notte e tutto il giorno nell'interesse della cliente, era seduto sull'orlo della scrivania, nel suo ufficio. "...una vittoria; ma, per essere sincero, me l'aspettavo. Fin dal rinvio a giudizio mi sono battuto perché venisse riconosciuto il non luogo a procedere per mancanza di prove, e naturalmente la decisione del giudice corrobora quanto ho sempre affermato... Jennifer Witt è innocente. Non ha John T. Lescroart
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fatto ciò di cui è accusata." Hardy e Frannie, accomunati dalla conoscenza del segreto sulla morte di Ned, si scambiarono un'occhiata. "È straordinario." La giovane giornalista si rivolse alla telecamera. "E il signor Freeman ha accuse ancora più serie da esporre." "...C'è una ragione politica. Mi dispiace doverne parlare, ma è vero. Dean Powell è candidato alla carica di procuratore generale in base a un programma favorevole alla pena di morte. Però non si può ottenere la pena di morte solo per i negri maschi. Quindi ha bisogno di un caso come questo. Se non ci fosse stata Jennifer Witt, avrebbe dovuto inventarla. E, purtroppo, in pratica l'ha fatto." La telecamera tornò a inquadrare la redazione, e l'anchorman stava dicendo al collega: "Sono accuse piuttosto forti, Shel, e seguiremo il processo ogni giorno su Canale 5". Hardy si alzò e andò a spegnere il televisore, quindi tornò a sedersi. "Chissà perché, ho la sensazione che l'atmosfera del processo diventerà ancora più velenosa." "È il tuo sesto senso." Frannie gli passò una mano sul braccio. Susan sorrideva tranquilla, appoggiata a Moses. "È il tuo collega, Dismas?" "Carino, vero? Be', vado a prendere il dessert." Non era stanco, perché aveva dormito nel pomeriggio. Susan e Moses se ne andarono poco dopo le dieci, e Frannie, che avrebbe dovuto dare la prima poppata a Vincent alla una, annunciò che sarebbe andata a dormire. Hardy aggiunse un pezzo di legna al fuoco del salotto, prese un libro e cominciò a leggere. Il telefono squillò. Era Glitsky. Aveva chiamato per dire che Freeman era una star. "Il processo in TV. Ecco che cosa rende grande questo paese. Comunque, ho pensato che avresti voluto essere il primo a conoscere la novità." In silenzio, Hardy contò fino a cinque. "È un giochetto che adoro." "Dieci minuti fa ho telefonato in ufficio per un'altra faccenda. E mi hanno detto che stavano interrogando un tale che si chiama Marko o qualcosa del genere. Il nome ti dice niente?" "No. Perché?" "Non lo so. Pensavo che l'avessi già sentito. Dice che è stato lui a uccidere Larry Witt."
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Marko Mellon non aveva incominciato ad ascoltare alla TV le notizie su Jennifer Witt mentre parlava Freeman. Le aveva seguite dall'inizio, quando avevano mandato in onda la foto che la mostrava sorridente e vivace. Marko, uno studente siriano di venticinque anni che si trovava a San Francisco grazie a un programma di scambi culturali, aveva seguito fino a quel punto il processo con molta passione ed era al corrente di parecchi particolari, al punto che gli ispettori di polizia, incluso Walter Terrell, impiegarono quasi cinque ore per accertare che non poteva avere ucciso Larry Witt. L'aveva ucciso, diceva, perché amava Jennifer. Risultò invece che il motivo della confessione era che si era innamorato di Jennifer vedendo la sua fotografia. Era sicuro che tra loro ci fosse un legame spirituale e se avesse confessato lei avrebbe voluto conoscerlo, dopodiché si sarebbero innamorati e sposati e avrebbero avuto figli che compensassero la perdita di Matt. Era un piano infallibile perché alla fine avrebbero scoperto che non era stato Marko, lo avrebbero liberato, e loro due sarebbero vissuti sempre felici e contenti. "Non credo che abbia inventato tutto lui." Hardy stava parlando con Freeman. Il temporale era passato e c'erano nuvolette rosee nel cielo grigio del mattino, al di là della baia. Erano accanto alla macchina di Hardy davanti al palazzo di giustizia dopo che era stata presa la decisione di non incriminare Marko per l'uccisione di Larry Witt. "Mi sorprende che abbiamo impiegato cinque ore per arrivarci," disse Freeman. "Il ragazzo ha il quoziente d'intelligenza di una rapa. È vero che anche certi ispettori..." "Conosceva una quantità di particolari, David." "Anche i topi nei labirinti sperimentali conoscono i particolari, ma questo non significa che siano intelligenti. Sarebbe bastato chiedergli quando scade il suo visto." "E perché?" "Controlla. Sono pronto a scommettere che scade il mese prossimo. Ha pensato che se si fosse fatto arrestare, avrebbe potuto restare qui più a lungo." "In prigione? Con un'accusa di omicidio?" Freeman alzò le spalle. "Sei mai stato in Siria, Diz?" Hardy si arrese. "A proposito, ieri sera ti ho visto alla televisione. Non credo che Dean sarà molto felice." John T. Lescroart
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Freeman agitò una mano. "Così la stampa parlerà di lui. Gli ho fatto un favore." Poi un silenzio, un residuo di tensione. Hardy aprì la portiera della macchina e chiese a Freeman se poteva lasciarlo al suo appartamento. Freeman rispose che sarebbe rincasato a piedi. "A quest'ora? In questo quartiere? Su, David, sali." Freeman batté la mano sul tettuccio. "Fila via, Diz. Ci vediamo domani." "David..." Freeman allargò le braccia in un gesto teatrale. "Abbiamo lavorato insieme abbastanza a lungo e ormai dovresti saperlo. Sono a prova di proiettili." Al levar del sole Hardy era ancora in macchina e attendeva in Olympia Way. Se la donna che faceva jogging fosse comparsa, avrebbe parlato assolutamente con lei, a costo di correre al suo fianco per sei isolati. La donna non si fece vedere.
34 Freeman aveva torto. Powell non l'interpretò come un favore. Erano di nuovo nell'ufficio del giudice Villars, alle nove e quaranta di lunedì mattina, mentre la giuria attendeva in aula. Adrienne, la stenografa, era l'unica seduta. La sua presenza era indispensabile perché ogni discussione doveva essere messa a verbale. Freeman, Hardy, Powell, il suo assistente Justin Morehouse e la Villars occupavano quasi tutto lo spazio rimanente. O forse era solo un'impressione. Erano tutti molto tesi. "Non sono mai stato più serio, vostro onore." Freeman sembrava più sciupato del solito nell'abito marrone vecchio di dieci anni. "Ho riflettuto molto da quando lei ha generosamente accolto il mio 1118, e resta il fatto che Dean non chiederebbe la pena di morte se non fosse candidato alla carica di procuratore generale." "Vostro onore," ribatté Powell. "Il signor Freeman sa bene che abbiamo due circostanze aggravanti per le imputazioni rimaste. È un caso da pena capitale." "È un caso di inquinamento politico, Dean, e tu lo sai." "Non è vero." John T. Lescroart
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Freeman si rivolse alla Villars. "Lasci che lo provi, vostro onore. Faccia continuare il processo fin dopo le elezioni. E vedrà se allora il rappresentante dell'accusa sarà tanto smanioso di far giustiziare Jennifer Witt." "Vostro onore, le implicazioni dell'avvocato difensore sono offensive..." "Io non sto implicando niente, vostro onore. Già adesso abbiamo motivi validi per l'appello, e credo che ci avviciniamo pericolosamente a un'altra violazione dell'equità della procedura. Potrei vedermi costretto a chiedere l'annullamento." La Villars si erse in tutta la sua statura. 'Venerdì ha detto che non voleva l'annullamento. Non permetterò che assuma posizioni contrapposte sulla stessa questione, signor Freeman." Powell, che cominciava a perdere la calma, fece scrocchiare le nocche e si passò le dita fra i capelli. "Se avesse voluto che il processo si svolgesse dopo le elezioni, avrebbe potuto richiederlo. Adesso abbiamo una giuria, abbiamo testimoni che hanno dovuto organizzarsi per essere presenti. A questo punto, continuare il processo..." Le guance del giudice Villars, solitamente grigie, erano arrossate. Parlò senza alzare la voce ma con autorità. "Ascoltate tutti e due. A meno che il signor Freeman non lo chieda immediatamente, non ci sarà l'annullamento e non ci sarà un rinvio. Darò qualche istruzione alla giuria questa mattina, poi procederemo con ordine fino al verdetto. E un'altra cosa: non voglio vedere questo processo in televisione e non voglio leggere cronache e commenti sui giornali per le prossime settimane. Consideratelo un ordine di silenzio stampa. Durante l'intervallo il mio cancelliere avrà un ordine scritto. Spero di essere stata chiara." "Signore e signori." Joan Villars era ancora arrabbiata: con Powell per il pressapochismo con cui aveva gestito la prima metà del processo, e con Freeman per una mezza dozzina di ragioni. Hardy si chiedeva se la sua collera appariva evidente ai giurati e agli spettatori, accorsi in massa dopo l'apparizione televisiva di Freeman, seguita da un articolo in prima pagina del Chronicle. Jennifer Witt faceva di nuovo notizia. Sebbene la Villars avesse più motivi per spellare vivo Freeman, sembrava egualmente ostile a tutte e due le parti; e secondo Freeman questo gli sarebbe tornato utile perché pensava che facesse gioco alla John T. Lescroart
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difesa tutto ciò che serviva a spezzare l'accumularsi dell'evidenza incriminante. Nonostante la folla, la Villars parlava ai dodici giurati come se fossero soli. In tono discorsivo stava impartendo istruzioni per scongiurare il rischio che la decisione del processo venisse rovesciata in appello. Era l'incubo di ogni giudice, e senza dubbio era la causa della sua indignazione. "Non nego che il processo abbia assunto una piega irregolare. È molto raro che un capo d'imputazione venga fatto cadere, e non fingerò che le cose stiano diversamente. A qualcuno di voi sembrerà strano che si debba continuare, e perciò voglio chiarire subito la situazione. "La signora Witt è stata rinviata a giudizio per tre imputazioni separate di omicidio volontario. Venerdì ho concluso che non erano state presentate prove sufficienti, in punto di diritto, per provare al di là di ogni ragionevole dubbio che Jennifer Witt avesse ucciso il primo marito Ned Hollis. "Voglio che comprendiate, tuttavia, che ciò non deve in alcun modo prevenirvi né circa la accuse relative ai due restanti capi d'imputazione né circa la difesa della signora Witt. "Detto questo, lasciamoci alle spalle Ned Hollis, che non ha alcun legame con le altre imputazioni. Se qualcuno di voi ritiene di non poter accettare queste mie istruzioni, alzi la mano e io lo congederò dalla giuria." Nessuno alzò la mano. Hardy avrebbe preferito che qualcuno lo facesse perché sapeva che le istruzioni sarebbero state difficili se non impossibili da assimilare. Ora i dodici giurati sapevano che il primo marito di Jennifer era morto e che lei aveva incassato una somma ragguardevole. E inconsciamente non l'avrebbero dimenticato. Il giudice proseguì. "Ora, i due capi d'imputazione rimasti sono tuttora: omicidio plurimo commesso per profitto, e questi figurano fra le circostanze aggravanti previste in California per le quali l'accusa può chiedere la pena capitale. La morte di Larry e Matthew Witt dovrà essere la sola cosa che vi interessa durante il resto del processo. La corte vi ringrazia per la pazienza con cui avete assistito a tutto questo e vi assicura che la cosa non si ripeterà." Poi si girò bruscamente verso il procuratore. "Spero, signor Powell, che sia pronto per presentare il suo prossimo testimone." "Sì, vostro onore." John T. Lescroart
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"Bene, allora incominciamo." Lo scontro con Freeman nell'ufficio del giudice sembrava aver galvanizzato Dean Powell. Per lui era diventata una questione personale. Era deciso non solo a convincere la giuria a dichiarare colpevole Jennifer, ma anche a fare a pezzi l'avversario. Il signor Fred Rivera, il fan di "Holiday Madness", prese posto sul banco dei testimoni. Era un po' a disagio ma si capiva che era contento di mettersi in luce e di essere pagato per prendersi una giornata di libertà. Indossava l'uniforme della Federai Express. "Signor Rivera." Powell si dondolava leggermente a cinque metri da lui, al centro dell'aula. "La mattina del 28 dicembre dell'anno scorso, il lunedì dopo Natale, ha consegnato un pacco al numero 128 di Olympia Way?" "Sissignore." Powell lo guidò passo passo nel racconto della consegna avvenuta alle nove e mezzo in punto, quando Larry e Matt Witt erano ancora vivi. Rivera identificò una foto di Larry, poi Powell gli mostrò la stampata del computer che fissava il recapito alle nove e trentuno. Il procuratore proseguì l'escussione: Rivera non aveva visto nessuno in Olympia Way, quella mattina. A quel punto si staccò dal copione previsto da Freeman e Hardy. "Signor Rivera, lei ha parlato con l'ispettore Terrell degli avvenimenti di quella mattina e ha descritto il comportamento del dottor Witt, no?" 'Vuol sapere se ho detto che era nervoso?" Freeman alzò l'indice e obiettò che era una semplice ipotesi, e la Villars gli diede ragione. Powell riformulò la domanda. "Che cosa ha fatto il dottor Witt quando ha aperto la porta?" "L'ha aperta solo a metà. Gli ho dato il pacco e ho cercato di passargli la cartelletta perché firmasse, ma aveva il pacco in mano e non sapeva dove posarlo. Mi è sembrato che si arrabbiasse." Freeman, che si chiedeva dove sarebbero andati a parare, alzò di nuovo l'indice. "La stessa obiezione, vostro onore." La Villars disse gentilmente: "Signor Rivera, dica solo ciò che l'ha visto fare, non le sue impressioni". "Dunque, che ha fatto il dottor Witt?" chiese prontamente Powell per trarre d'impaccio il testimone. "Ecco, si è girato per dare il pacco al bambino." John T. Lescroart
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"E lei ha visto il bambino?" "No, allora non l'ho visto. Era dietro la porta." "Come sa che era il bambino?" "L'ho visto correre via per mostrare il pacco alla madre." Al tavolo della difesa, Freeman stava sfogliando il testo dell'interrogatorio di Rivera. "Questa l'hai mai sentita?" mormorò a Hardy. Si alzò. "Obiezione, vostro onore. Il testimone non può sapere che intenzioni avesse il bambino quando se ne è andato con il pacco." Aveva ragione d'essere agitato. Se l'accusa avesse dimostrato che Jennifer era in casa alle nove e trenta sarebbe stata una grave sconfitta. Il giudice alzò gli occhi al cielo. "Sono sicura che il signor Powell riformulerà la frase." Powell sorrise a Rivera e disse: "Il dottor Witt ha dato il pacco al bambino dietro la porta. Il bambino ha detto qualcosa?" "Ha detto: 'Lo mostrerò alla mamma'." Powell si rivolse a Freeman, indugiò per assicurarsi che la giuria avesse capito bene, e disse: "A lei il testimone". Era un esempio classico, pensò Hardy, del perché i processi erano tanto sconvolgenti. Freeman aveva interrogato due volte Rivera, che non aveva mai esitato: non aveva visto Jennifer. Era ansioso di tornare ad ascoltare i Vecchi Successi e di cercare di vincere un viaggio alle Hawaii. Era rimasto con il dottor Witt per un minuto al massimo. Il vecchio orso si alzò lentamente. Quando arrivò davanti al banco del giudice, non lasciò capire di aver subito un colpo. Sorrise. "Signor Rivera, abbiamo parlato un paio di volte negli ultimi due mesi, no?" "Sissignore." "E in quelle occasioni, le ho chiesto se aveva visto Jennifer Witt quando era andato a consegnare il pacco il 28 dicembre?" "Sissignore." "E che cosa mi ha risposto?" "Ho detto che non l'avevo vista." "L'aveva sentita? Per esempio, cantava sotto la doccia o qualcosa di simile? Spostava i mobili?" Rivera accennò un sorriso. "No, non ho sentito nessuno cantare o spostare qualcosa." "Quando il bambino è corso via, ha chiamato la madre? Ha salito le scale chiamandola?" John T. Lescroart
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Era una domanda rischiosa. Una risposta affermativa sarebbe stata deleteria. Hardy lanciò un'occhiata ai giurati che ascoltavano attenti. Rivera rifletté un momento. "No, questo non lo ricordo." Freeman riprese a respirare. "Torniamo a ciò che ha detto Matt al padre. Può ripeterlo?" Powell si accorse della nuova trappola e si alzò. "È a verbale, vostro onore. La stenografa può leggere quanto ha detto il signor Rivera." La Villars rifletté sull'obiezione di Powell un po' troppo a lungo per i gusti di Freeman. E Freeman, poiché sapeva che a volte le trappole scattano su chi le ha poste, ritirò la domanda. Non voleva che i giurati sentissero ripetere che Matt aveva detto: "Lo mostrerò alla mamma". Aveva fatto un tentativo nella speranza che Fred Rivera fornisse un'altra parafrasi dell'idea, per esempio: "Spero che piacerà alla mamma quando tornerà a casa". Ma non aveva avuto fortuna. Si rivolse di nuovo al testimone. "Quindi lei non ha visto Jennifer Witt in casa alle nove e trenta." "Esatto." "Non l'ha neppure sentita?" "No." Freeman si rese conto che era il massimo che poteva ottenere, e non era entusiasmante. Sorrise alla giuria con aria sicura e disse a Rivera: "Grazie. Non ho altre domande". Powell, che sentiva l'odore del sangue, si alzò e disse che desiderava aggiungere un altro paio di domande. "Signor Rivera, quando Matt è corso via con il pacco, che cosa faceva il dottor Witt?" "Che cosa faceva? Ha preso la cartelletta, ha guardato l'orologio, ha firmato e me l'ha restituita." "Ha detto qualcosa al figlio?" "No. Il bambino è corso via." "Sì, questo l'ha già detto. Ma non ha ricordato al bambino, per esempio, che sua madre non era in casa?" "Obiezione!" Freeman si alzò di scatto. La Villars puntò l'indice contro Powell. "Accolta. Signor Powell, questo è inammissibile. L'ultima domanda deve essere cancellata." Raccomandò ai giurati di ignorare la domanda. Ma Powell aveva causato altri danni, e lo sapeva mentre congedava garbatamente il testimone. John T. Lescroart
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Freeman bolliva. Nonostante le proteste di Jennifer, aveva insistito per tornare con Hardy nello studio di Sutter Street. Aveva bisogno di sfogarsi e non poteva farlo di fronte alla cliente. "Non aveva mai, mai detto che Matt aveva intenzione di mostrare qualcosa a qualcuno!" Hardy stava bevendo una bibita analcolica e pescava salatini da un sacchetto al centro del tavolo per le conferenze. "Be', oggi l'ha fatto, David. Gliel'avevi chiesto?" "Merda!" "Vuol dire che non l'avevi fatto?" Sembrava che niente avesse il potere di guastare l'appetito di Freeman. Stava mangiando salsiccia di fegato e cipolle con pane di segale, e beveva una delle birre analcoliche che a San Francisco erano considerate "politicamente corrette" ma che secondo Hardy erano una maledizione. "Gli ho chiesto dieci volte se aveva visto Jennifer. Jennifer c'era? È sicuro di non averla vista?" "Credi che ci fosse?" "Lo credono i giurati, Diz. E noi dobbiamo convincerli che non c'era, perché, se c'era, immagini che cosa succederà?" Hardy conosceva la risposta. E una parte del suo essere assaporava l'esperienza di vedere Freeman vittima della propria arroganza e della propria trascuratezza. Dopo pranzo toccò al coroner, sempre il dottor Strout, che questa volta rese la testimonianza senza incidenti. Non era una sorpresa che padre e figlio fossero stati colpiti da breve distanza con la pistola di Larry e fossero morti immediatamente. Freeman si aggrappava alla speranza che il medico desse alla sua deposizione una piega che potesse gettare qualche dubbio sui fatti fondamentali e incontestati. Ma non fu così. Era inutile annoiare i giurati. Freeman era pronto a riconoscere la validità del rapporto della scientifica che identificava la pistola di Larry come arma del delitto. Ma aveva qualche dubbio a proposito delle impronte digitali. Il testimone era l'esperta della polizia, Aja Farek, una graziosa pakistana sui trentacinque anni. Powell aveva ottenuto da lei la risposta che le impronte di Jennifer erano sui bossoli e sul caricatore. Freeman si portò al centro dell'aula. "Signora Farek, ha trovato qualche impronta all'esterno della pistola... la canna, il calcio, qualche altro posto?" John T. Lescroart
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"No. A parte quelle della persona che ha trovato la pistola, ovviamente." "La persona che l'ha trovata? E chi è?" La signora Farek consultò gli appunti. "Si chiama Sid Parmentier. È l'uomo che ha trovato la pistola nel cassonetto, mi pare." "Quale cassonetto?" Freeman lo sapeva bene. Ma inarcò le sopracciglia per fare partecipe la giuria del suo stupore per quel nuovo sviluppo. Powell si alzò. "Vostro onore, l'accusa chiamerà il signor Parmentier perché parli della scoperta dell'arma del delitto. La signora Farek è un'esperta di impronte digitali." Il giudice Villars annuì, impassibile. "Si attenga all'argomento, signor Freeman." "Certo. Le impronte digitali." Anche questa volta Freeman incluse i giurati nel suo disappunto, come per ricordare loro che avrebbe voluto aiutarli ma che il giudice e il procuratore non collaboravano. Si rivolse di nuovo alla testimone con la massima gentilezza. "Per quanto tempo durano le impronte digitali, signora Farek?" La testimone aggrottò la fronte. "Possono durare per molto tempo." "Quanto? Un mese? Un anno?" "Sì." "Quanto erano vecchie le impronte di Jennifer Witt che ha trovato sui bossoli e sul caricatore?" "Non lo so. È impossibile stabilirlo." "Non può sottoporle a esami per accertare il residuo secco o qualcosa del genere?" "No. Le impronte digitali sono basate sugli oli. Non si seccano." "Quindi la signora Witt potrebbe aver maneggiato bossoli e caricatore in qualunque momento?" "Sì." "Non necessariamente il giorno del delitto?" Powell si alzò. "La testimone ha già risposto alla domanda, vostro onore." "Infatti," disse Freeman, e si guardò intorno con aria raggiante come se avesse dimostrato qualcosa che aveva in mente da settimane. "Non ho altre domande." Sid Parmentier, l'uomo che aveva trovato la pistola, non aveva niente di nuovo o di sorprendente da dire sulla pistola e sul cassonetto. Ma Freeman John T. Lescroart
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si alzò prontamente non appena Powell ebbe finito. Parmentier era tozzo e aveva la fronte di un uomo di Neanderthal. Indossava una giacca nera sportiva un po' lucida, una camicia bianca troppo inamidata e troppo stretta, e continuava ad allentare la cravatta. Freeman si accostò al banco dei testimoni con aria tranquilla. "Lei ha visto l'accusata Jennifer Witt vicino al cassonetto?" "No." "L'ha vista gettarvi dentro qualcosa?" Powell alzò la mano. "Il testimone ha già risposto alla domanda, vostro onore." La Villars accolse l'obiezione. Freeman si girò verso il tavolo della difesa con aria pensierosa, poi lanciò un'occhiata alla giuria. Il giudice tagliò corto. "Signor Freeman, vuol congedare il testimone? Facciamola finita con questi istrionismi." Freeman si scusò con aria assorta come se per un momento avesse dimenticato dov'era. "Mi è venuto in mente, vostro onore, che questa testimonianza rientra nella stessa categoria di quella esclusa da lei durante la parte iniziale del processo." Nessuno, in aula, sapeva dove volesse andare a parare, e Freeman ne approfittò per proseguire senza interruzioni. "Abbiamo una pistola in un cassonetto, proprio come anni prima avevamo un ago ipodermico in una gamba." Si rivolse alla giuria e alzò la voce, indignato. "Capite che cosa sta facendo il signor Powell, vero? Continua a non parlare di coloro che hanno portato tali oggetti a destinazione. Vuole farvi credere che sia stata Jennifer Witt, e non può farlo." Powell balzò in piedi. "Obiezione! Vostro onore..." La Villars era irritata. "Signor Freeman, si moderi. Non si rivolga in questo modo alla giuria. La stenografa cancellerà le sue ultime frasi." Ma Freeman non abbassò la voce. 'Vostro onore, è in gioco la vita della mia cliente, e non c'è la minima prova che abbia tenuto in mano la pistola finita chissà come nel cassonetto." 'Vostro onore!" Powell lasciò il suo tavolo e si fece avanti. "Sull'arma c'erano le sue impronte." Il giudice batté il mazzuolo. "Si sieda, signor Powell, non è di questo che stiamo discutendo. E lei, signor Freeman, ha finito d'interrogare il testimone o no?" "Sono indignato..." John T. Lescroart
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La Villars batté di nuovo il mazzuolo con tanta forza che Jennifer, seduta accanto a Hardy, trasalì. "Si azzardi a dire qualcosa che non sia un sì o un no, e finirà in carcere, signor Freeman." Freeman si dominò. Annuì. "Sì, vostro onore." "Sì che cosa?" "Sì, ho finito d'interrogare il testimone." Il giudice impugnava ancora il mazzuolo, pronta a batterlo di nuovo. Ma il momento era passato, Powell era tornato al suo posto, Freeman ci stava tornando. La Villars si rivolse a Parmentier. "Il testimone può andare. Ora faremo una breve pausa." "La odiano," disse Jennifer. Freeman camminava avanti e indietro accanto alla finestra. Era fiero di sé. Lui, Hardy e Jennifer erano nella sala per le conferenze dietro le stanze dei messi giudiziari. "Non credo che i giurati lo odino," disse Hardy. "Mi adorano," dichiarò Freeman. "Ma il signor Powell aveva ragione," disse Jennifer. "C'era qualcosa che mi collegava alla pistola. Era mia e di Larry, anche se non l'ho messa io nel cassonetto. Non è stato come la siringa." "Non ha importanza," disse Freeman. "Dopo ciò che ha fatto il giudice con la faccenda di Ned, tutti i giurati lo terranno presente. Penseranno che sia un'altra bufala di Powell, perché se l'aspettano." Hardy era in piedi accanto alla porta, con le mani nelle tasche. "I fatti sono diversi, David. Credo che i giurati si atterranno ai fatti." Freeman tornò alla finestra e guardò fuori. "Un branco di guastafeste." Bussarono e la porta si aprì. Uno dei messi del tribunale si affacciò e disse a Freeman che il giudice voleva parlargli nel suo ufficio.
35 Hardy decise di passare per Olympia Way per trascorrere un'ora a esaminare gli appunti e augurarsi che la sua jogger fantasma ricomparisse. La difesa avrebbe incominciato il suo intervento la settimana prossima, e voleva trovare il maggior numero possibile di "altri" che Freeman avrebbe John T. Lescroart
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potuto tirar fuori dal cappello a cilindro. La jogger di Hardy non era un'altra possibile colpevole. Aveva progetti diversi per lei: Freeman non avrebbe cercato di implicarla nel delitto, ma avrebbe potuto servirsene per screditare la testimonianza di Anthony Alvarez, il vicino che abitava di fronte ai Witt. E se quello avesse visto la jogger fantasma, anziché Jennifer? Mentre beveva un caffè seduto al volante della sua Honda poco dopo il levar del sole, si rese conto che la settimana precedente avrebbe dovuto raccogliere informazioni su Tom DiStefano e sui Roman, se Freeman intendeva chiamarli a testimoniare per la difesa. Ma in realtà non aveva più parlato con Tom DiStefano dopo essere stato minacciato da lui e dal padre un paio di mesi prima, e Glitsky non si era dato molto da fare per trovare un alibi per i Roman il 28 dicembre. Glitsky era un amico, ma era anche un poliziotto che aveva molte altre cose di cui occuparsi. Quando c'era stato il verdetto di proscioglimento per la morte di Ned Hollis, s'era accorto che non gli restava molto tempo e che doveva scoprire qualcosa di più se Freeman intendeva utilizzare le informazioni su quella gente. Avrebbe dovuto insistere con Abe perché si occupasse dei Roman, ma sapeva che probabilmente gli avrebbe risposto che non poteva. Trovò negli appunti il nome di Jody Bachman e ricordò che l'avvocato non l'aveva mai richiamato. Erano tutte cose che doveva risolvere prima che la difesa potesse cominciare la sua parte. Il giorno prima, lunedì, non erano tornati in udienza. La Villars ne aveva avuto abbastanza di David Freeman e, dopo i ripetuti avvertimenti, lo aveva multato di cinquecento dollari per disprezzo della corte. Ormai era pomeriggio avanzato e il giudice aveva mandato un messo del tribunale a comunicare ai giurati che per quel giorno potevano considerarsi liberi. Adesso era parcheggiato all'angolo per vedere il punto dove la donna era spuntata dal bosco la volta precedente. Stava rileggendo uno degli interrogatori di Florence Barbieto da parte di Walter Terrell, e poco mancò che gli sfuggisse quando comparve. Buttò gli appunti sul sedile e accese il motore in tempo. La donna fece lo stesso percorso, svoltò l'angolo della via di Jennifer e continuò a correre. Hardy si fermò sul vialetto proprio mentre stava arrivando e le bloccò il passo. John T. Lescroart
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Aprì la portiera, scese e sorrise. "Ehilà." Quel giorno la donna portava un paio di calzoncini marrone, una maglietta della maratona di Boston e una fascia marrone sulla fronte. Si fermò ansimando. "Che cosa vuole?" chiese. "Perché non mi lascia in pace?" Hardy non voleva rovinarle la giornata ma non voleva neppure che la jogger gli sfuggisse. Le tese un biglietto da visita sopra il tettuccio della macchina. "Lo prenda... e mi telefoni. Potrebbe essere importante. Potrebbe salvare la vita a una donna." Lei restò lì a guardare il biglietto. "È avvocato? Davvero?" "Sì." "L'altra volta non aveva l'aria dell'avvocato." Hardy sorrise. Adesso era vestito per presentarsi in tribunale. "Ero travestito." Lei prese il biglietto da visita e respirò profondamente. "Di che cosa si tratta?" "Fa spesso questa strada?" "Quasi tutti i giorni. Seguo un percorso abituale." "Ma non alla stessa ora?" Lei scosse la testa. "Dipende da quando mi sveglio. Perché? È venuto ad aspettarmi?" "Sì, un paio di giorni. Ora mi ascolti. Ricorda di essere passata davanti a questa casa..." Hardy la indicò. "E di aver sentito qualcosa di simile a due spari, qualcosa che l'ha indotta a fermarsi un momento?" La donna aggrottò la fronte. "Quando sarebbe successo?" "L'inverno scorso, subito dopo Natale." Lei annuì, lentamente."Sì... lo ricordo. Ho sentito un bang e poi un altro bang, quasi insieme. Erano spari? Avevo pensato che fossero gli scoppiettii di un motore." "Ma si è fermata?" "Solo un momento. Non ho visto né sentito niente e ho concluso che doveva essere stata una macchina, così ho proseguito." Hardy non si mosse. "Le dispiace dirmi come si chiama?" Dopo un'ultima esitazione, la donna accennò un mezzo sorriso. "Lisa Jennings. Parla sul serio, vero?" "Certo, signora Jennings."
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Hardy entrò in aula e, con la coda dell'occhio, vide Terrell seduto in prima fila da un lato e Lightner dall'altro. Erano le undici e Dean Powell stava interrogando una minuscola filippina: Florence Barbieto, la vicina dei Witt. Hardy sedette accanto a Jennifer, le toccò il braccio e mormorò: "Ho fatto centro. La donna che è corsa via davanti a casa sua. L'ho trovata". "Dove?" Hardy non ebbe il tempo di rispondere perché il giudice Villars batté il mazzuolo e gli lanciò un'occhiataccia. Powell continuò l'escussione della testimone che evidentemente era incominciata da poco. "Dunque, signora Barbieto, li ha sentiti litigare?" "Oh, sì. Le case non sono lontane. Gridavano e il bambino piangeva." "Ha capito qualche parola?" La signora Barbieto si portò l'indice alle labbra. "No," disse finalmente. "Quella mattina no." "Bene. Ora può parlarci degli avvenimenti che hanno preceduto gli spari?" "Ecco, ero in cucina e tagliavo il pollo per l'adobo. La cucina è sul lato più vicino alla casa dei Witt." "E lei stava accanto alla finestra?" "Ero al banco. La finestra è sopra il lavello. Poi c'è un'altra finestra che avevo socchiuso per far andar via l'odore dell'aceto per l'adobo." "Capisco. Allora poteva sentire quel che succedeva nella casa accanto?" "No. Avevano smesso di gridare." "Per quanto tempo è durato il silenzio?" "Non molto. Forse un minuto. Ho messo la tazza del caffè nella lavastoviglie, ho preso il pollo e ho cominciato a tagliarlo, e all'improvviso ho sentito qualcuno che urlava: 'No!' e poi un rumore terribile, doveva essere uno sparo. Sono andata alla finestra." "La finestra socchiusa?" "Sì. E ho sentito un altro sparo. Era così forte che ho avuto paura che mi colpisse." "E poi che cosa ha fatto?" "Ecco, c'era una sedia vicino alla finestra. Mi sono seduta. Non sapevo che pensare." "E che cosa ha visto?" John T. Lescroart
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"Una parte della siepe e il lato della loro casa. Però non è successo niente, non ho visto niente per un minuto o due. Allora mi sono chiesta se dovevo uscire a vedere o chiamare mio marito." La signora Barbieto stava rivivendo quei momenti e si agitava sulla sedia. "Ho deciso di andare a vedere." Powell si era avvicinato, rassicurante ma insistente. "E che cosa ha fatto?" "Sono andata a suonare il campanello dei Witt. Ho aspettato un po' e ho suonato ancora. Ma nessuno ha risposto, però sapevo che doveva esserci qualcuno." La signora Barbieto scuoteva la testa e sbirciava Jennifer come se avesse paura. Powell ripeté la domanda di effetto più sicuro. "E che cosa ha fatto, poi?" "Ho aspettato un altro minuto: non è venuto nessuno; ho provato ad aprire la porta, ma era chiusa a chiave, e così sono corsa in casa mia a chiamare il 911." "E poi?" "Sono rimasta alla finestra fino a che non è arrivata la macchina della polizia, dopo un paio di minuti. Avevo paura a restare fuori." Villars continuò a guidarla nel racconto di quanto era accaduto: 1' arrivo della macchina della polizia, il ritorno di Jennifer, l'arrivo della squadra omicidi. Era un racconto che Hardy non riteneva pericoloso: dopotutto, qualcuno era stato in casa e aveva commesso i due omicidi, ma la testimonianza della signora Barbieto non indicava necessariamente che fosse Jennifer. Si poteva sempre sostenere che in quei momenti non era in casa. Quando Powell lasciò la testimone alla difesa, Freeman non si alzò. Guardò il giudice, quindi la testimone. "Con il permesso della corte, avrei bisogno d'un minuto." Restò immobile. Non guardò gli appunti. Tenne le braccia incrociate sul piano del tavolo. Dopo una quindicina di secondi di silenzio, i presenti cominciarono ad agitarsi sulle sedie e a schiarirsi la gola. Freeman sembrava ignorarli. Hardy lo guardò e lo guardò anche Jennifer. I secondi continuarono a scorrere. Dopo un mezzo minuto Powell si alzò. "Vostro onore..." La Villars batté il mazzuolo. "Signor Freeman, ha intenzione di John T. Lescroart
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controinterrogare la signora Barbieto o no? Se sì, allora proceda." Finalmente Freeman si mosse. Si alzò lentamente e prese il blocco degli appunti. Non aveva ancora pronunciato una parola. Sospirò, si avvicinò e guardò l'orologio. "Ecco!" esclamò. Molti dei giurati trasalirono e la testimone sussultò. Freeman si rivolse all'intera aula. "È passato un minuto." Raggiunse il banco dei testimoni e sorrise. "Signora Barbieto, mi scuso per questa piccola dimostrazione. Ma abbiamo qualche problema con i tempi nella sua testimonianza, e ho pensato che fosse utile pensare alla durata effettiva di un minuto." Ora, lei ha testimoniato che le grida si sono interrotte in casa Witt circa un minuto prima che sentisse la voce che gridava: 'No!' e lo sparo. È esatto?" La signora Barbieto guardava Freeman come se fosse un indemoniato. Alla fine annuì. Il giudice la guardò. "Per favore, quando risponde usi le parole. Un cenno non è sufficiente." "Chiedo scusa," disse la signora Barbieto. "Com'era la domanda?" Freeman la ripeté. Questa volta la testimone disse che, sì, era passato circa un minuto. "Tanto per essere chiari, mentre era in cucina a bere il caffè, li ha sentiti gridare in casa loro?" "Sì." "Fino a quando ha finito il caffè e si è alzata?" "Forse no. Ecco, mentre ero lì." "Circa un minuto prima?" "Sì, più o meno." "Bene, e durante quel minuto, ha finito di bere il caffè, si è alzata... Dov'era, per la precisione?" "Vicino alla finestra sul retro." "D'accordo. Ha portato la tazza al lavello, giusto?" "Sì. L'ho sciacquata e l'ho messa nella lavastoviglie." "E poi che cos'ha fatto?" Powell fece obiezione perché la testimone aveva già risposto, ma il giudice Villars la respinse. "Ho lavorato in cucina. Per preparare il pollo." "Non è mai uscita dalla cucina?" La testimone guardò il giudice. "Sono andata in bagno." John T. Lescroart
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Freeman rimase in silenzio per un attimo. "È andata in bagno prima di tagliare il pollo? Ricorda per quanto tempo c'è rimasta?" La testimone era visibilmente a disagio. "Non tanto. Forse un minuto. Non lo so." In aula risuonò un mormorio. Freeman continuò: "Bene, ha testimoniato che ha cominciato a tagliare un pollo. Dov'era prima il pollo?" Freeman procedette, passo per passo. Il pollo era in frigo, la signora Barbieto l'aveva preso, l'aveva portato al lavello, l'aveva tolto dall'incarto, lo aveva lavato con l'acqua fredda, l'aveva asciugato con una salvietta. Prima aveva tagliato le ali, poi le zampe e i quarti posteriori. Quindi aveva staccato una coscia... e, prima di staccare anche l'altra, aveva sentito il grido e quindi lo sparo. "Ora, signora Barbieto," concluse Freeman, sempre premuroso e gentile, "ecco perché abbiamo incominciato con la mia piccola dimostrazione sulla durata di un minuto. Come sa, non è tanto breve: dura sessanta secondi. E lei ha detto di aver sentito Jennifer litigare con il marito un minuto, cioè sessanta secondi, prima di sentire il primo sparo." "No, è stato di più." "Può essere stato molto di più, no? Magari dieci minuti?" "Non so. Non ho guardato. Non mi è sembrato che passasse molto tempo." Ma, pensò Hardy, il tempo sufficiente perché Jennifer uscisse dalla casa e "qualcun altro" entrasse e commettesse i due omicidi. Freeman lasciò alla giuria il tempo di riflettere mentre consultava gli appunti che teneva in mano. Infine guardò il giudice. "Vostro onore, sono quasi le dodici e mezzo. Ho molte altre domande da rivolgere alla testimone, ma questo è il momento buono per una pausa, se l'accusa non ha obiezioni." L'accusa non ne aveva.
36 Hardy non era particolarmente entusiasta del fatto che Frannie continuasse a parlare con Jennifer; a lei però sembrava ingiusto abbandonarla e, poiché non voleva andare a trovarla in carcere, le telefonava di tanto in tanto. "Sembra sicura che David ce la farà, dopotutto." John T. Lescroart
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"Lo spero." Hardy prese uno scampo per la coda e lo assaggiò. "Sto diventando bravo," disse. "Sono buoni." "Non sono buoni, sono perfetti." Frannie aveva finito di allattare Vincent e beveva un po' di vino. "Non mi sembri troppo sicuro." "Ecco, David è formidabile. Lasci l'aula con la sensazione che debba farcela." "Ma...?" "Ma non lo so." Frannie posò la forchetta e guardò nella luce della candela. "Sei preoccupato?" "Sì, sono preoccupato." Hardy rigirò il riso con la forchetta. "Oggi ha tenuto sotto Florence Barbieto per circa sei ore, e ha provato che quando diceva 'un minuto', e lo diceva spesso, in realtà non intendeva un minuto. Ma se Alvarez, il vicino che abita di fronte ai Witt, dirà di aver visto Jennifer lasciare la casa un minuto dopo gli spari, allora vuol dire che lei era là." "Ma la donna che hai trovato, quella del jogging..." "Sicuro, David la chiamerà, lei dirà di aver sentito gli spari, o rumori molto simili, di essersi fermata e poi di essere ripartita correndo dal cancello. Ma Powell non dovrà fare altro che chiederle se sa che giorno era. Lei non lo sa. Se Alvarez confermerà l'identificazione di Jennifer, molto probabilmente perderemo." Hardy indicò gli scampi. "Su, mangia." Frannie obbedì svogliatamente. "Non posso credere che quel Powell sia così deciso a mandarla a morte. Voglio dire... Jennifer è una brava persona, forse un po' confusa ma..." Hardy scosse la testa. "Non intendo discutere con te, ma non penso che sia una brava persona. Ha mentito e ha ucciso almeno una volta... D'accordo, aveva le sue ragioni, ma non direi che sia un angioletto." "Di sicuro non ha ucciso Larry e Matt." "Non credo che sia stata lei." "Dismas, tu sai che non è stata lei." "Questo non lo so. Spero che non l'abbia fatto, e non riesco a immaginare perché avrebbe ucciso Matt, ma non lo so con certezza. Non ho scoperto niente che lo escluda." "Ma niente lo prova... e tocca a Powell dimostrarlo." Hardy annuì. "In teoria." "Come?" John T. Lescroart
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"Ecco, molte cose sembrano indicare che è stata lei. Il problema è questo. Se viene assolta intascherà cinque milioni di dollari, si sarà liberata del marito che la maltrattava..." "E di Matt?" "Già, eccettuato Matt." Ma Hardy sapeva che tanti cosiddetti esseri umani erano capaci di uccidere i propri figli senza il minimo rimorso. Non credeva che Jennifer fosse una di loro; però... "Io non credo che sia stata lei." "Non lo credo neanch'io, Frannie, ma non è impossibile. Non posso dire altro." "Be', non lo sopporto. E non sopporto di sentire che lo insinui." "È un'idea che non piace neppure a me." Hardy tese la mano e Frannie la prese. "Ho un'idea straordinaria," propose lui. "Che ne diresti se smettessimo di parlare di Jennifer Witt per cinque minuti? O magari per tutta la notte?" Non fu facile, ma ne valse la pena.
37 Come Hardy aveva temuto, Anthony Alvarez era un problema. Somigliava un po' a Ricardo Montalban, con i baffetti bianchi, una bella faccia cesellata, l'abito sobrio ed elegante. Era sereno e sicuro di sé. Aveva fatto il vigile del fuoco per trent'anni, prima di andare in pensione sette anni avanti, quando era vicecapo. Adesso stava quasi sempre in casa ad assistere la moglie costretta a letto da una malattia polmonare. Insomma, se fosse stato un testimone della difesa sarebbe stato un dono di Dio. Ma era il supertestimone dell'accusa. Stava raccontando l'accaduto dal suo punto di vista, e parlava degli spari. "Era molto strano. È una strada tranquilla, e quel rumore era sorprendente. Comunque, non ho fatto molto caso al primo. Ma quando ho sentito il secondo, subito dopo, ho pensato di andare a vedere che cos'era successo." "Che cosa ha fatto?" "Ecco, la camera di Mary, mia moglie, è al piano di sopra, sul retro. Ero con lei, e dopo il secondo sparo sono andato nel corridoio e ho guardato dalla finestra in cima alla scala, quella che dà su Olympia Way." "Ha visto qualcosa per la strada?" John T. Lescroart
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"Sì, ho visto una donna in tuta ferma davanti al cancello della casa del dottor Witt, dall'altra parte." Senza dubbio Powell aveva spiegato chiaramente al signor Alvarez come doveva rispondere alle sue domande, e adesso era arrivato al momento cruciale. "Questa donna è presente in aula?" Il testimone non esitò. "Sì, signore." E indicò. "È seduta al tavolo della difesa." Powell annuì. "Sia messo a verbale che il testimone ha identificato l'imputata, Jennifer Witt." In aula echeggiò il prevedibile brusio. Jennifer abbassò la testa e la scosse. Il giudice Villars batté due volte il mazzuolo per imporre silenzio e Hardy sussurrò a Jennifer: "Lo guardi. Lo guardi in faccia". Lei alzò la testa ma non riuscì a mantenere un atteggiamento di sfida. Alvarez la fissava come se volesse ribadire che era assolutamente sicuro. Jennifer crollò, incrociò le braccia sul tavolo e vi appoggiò il viso. A Powell non sfuggì nulla. Per un momento guardò Freeman, autoproclamandosi vincitore. Poi si rivolse di nuovo al testimone. "E dopo che cosa ha fatto?" Hardy non finiva mai di stupirsi della versatilità di David Freeman. Non controinterrogava mai due volte nello stesso modo. A volte, come aveva fatto con la signora Barbieto, non si alzava e attendeva l'invito, o meglio l'ultimatum, del giudice. Ma quando Powell ebbe finito, saltò subito alla gola di Anthony Alvarez. "Signor Alvarez, lei ha appena dichiarato di aver visto la signora Witt ferma davanti al cancello mentre guardava la porta, circa un minuto dopo gli spari. È esatto?" "Sì." "L'ha vista uscire dalla casa?" "No, era accanto al cancello." "E ne ha dedotto che fosse appena uscita?" "Sì." "E che si fosse trovata in casa quando si erano sentiti gli spari?" "Sì." "E che fosse uscita subito dopo, circa un minuto più tardi, quando l'ha vista?" "È esatto. È ciò che ho dedotto." John T. Lescroart
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"Tuttavia la signora Witt poteva essere in qualunque altro posto quando sono stati sparati i colpi, è esatto? Più avanti sulla strada, oppure più indietro, oppure in un'altra parte della città." Alvarez aggrottò la fronte e Powell fece obiezione. "Ha intenzione di approdare a qualcosa, signor Freeman?" chiese il giudice. Freeman annuì. "Sto cercando di chiarire, vostro onore, che il testimone non poteva sapere dove fosse Jennifer Witt quando sono stati sparati i due colpi. Ha dedotto che fosse in casa perché sosteneva di averla riconosciuta accanto al cancello subito dopo gli spari. Poiché credeva di aver visto proprio lei al cancello, ha presunto che in precedenza fosse in casa. Ma se al cancello non c'era Jennifer..." La Villars annuì. "Sta bene. Obiezione respinta. Può continuare, signor Freeman." Era una buona mossa, pensò Hardy. Naturalmente non escludeva che Jennifer fosse in casa al momento degli spari, ma per la prima volta i giurati sentivano un testimone d'accusa ammettere che non poteva sapere con certezza se l'imputata ci fosse stata. E quando Freeman avesse chiamato Lisa Jennings, il dubbio sarebbe cresciuto. La stenografa rilesse la domanda ad Alvarez, e questi riconobbe con riluttanza che, sì, in teoria Jennifer avrebbe potuto essere altrove quando lui aveva sentito gli spari. "Però non poteva arrivare al cancello fin dall'altra parte della città in un minuto," soggiunse. Freeman sorrise calorosamente. "Infatti. Ecco perché voglio essere assolutamente sicuro della sua testimonianza, signor Alvarez, quando dice di aver visto Jennifer Witt davanti al cancelletto. Ne è proprio certo?" Alvarez non era agitato, ma cominciava a spazientirsi. "Sì, ne sono certo." "Però ha testimoniato che la donna stava guardando la porta d'ingresso, vero?" "Sì." "Poi ha cominciato a correre lungo la strada." "Appunto." "E la casa dei Witt dove si trova, rispetto alla sua?" "Proprio di fronte." "Olympia Way è pianeggiante?" "No, è piuttosto ripida. Ha una pendenza del tre per cento, circa." John T. Lescroart
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"E la casa dei Witt è esattamente di fronte alla sua, oppure un po' più in alto o un po' più in basso?" Alvarez non sapeva a che cosa mirava Freeman, e rimase tranquillo. Tuttavia indugiò un momento perché sospettava che ci fosse una trappola. Non ne vide alcuna e rispose: "Mi pare proprio di fronte; ma ha ragione, è un po' più in basso." "Dunque lei si trovava alla finestra del primo piano, guardava la casa dei Witt che è di fronte alla sua ma un po' più in basso, e ha visto la signora Witt, che era ferma accanto al cancello ma subito dopo si è messa a correre lungo la strada, allontanandosi da lei?" "Sì." Alvarez accavallò le gambe. Il volto aristocratico era teso, aggrondato. Freeman sparò. "E allora, quando l'ha vista in faccia?" Alvarez si sporse verso di lui. "Quando l'ho vista in faccia?" "Sì, signor Alvarez. Se le voltava le spalle perché guardava la casa e poi ha cominciato a correre verso il basso, quando ha avuto occasione di guardarla in faccia?" Alvarez si aggrappò all'unica spiegazione possibile. "Ecco, devo averla vista di lato." "Deve averla vista? Insomma, l'ha vista oppure no?" "Sì, l'ho vista. L'ho vista. Sapevo che era Jennifer Witt. Non ho mai pensato che non lo fosse." "Vuol dire che doveva essere lei solo perché poteva esserlo?" "Vostro onore!" Powell balzò in piedi. "L'avvocato sta tormentando il testimone!" Freeman alzò le mani in un gesto teatrale. 'Vostro onore, questo è un testimone oculare decisivo per l'accusa, e i giurati devono sapere che la sua identificazione di Jennifer Witt è in realtà molto discutibile." La Villars sporse le labbra. Detestava gli istrionismi di Freeman ma capiva che aveva ragione. "Tuttavia," disse, "è vero che sta tormentando il testimone. Cancelleremo dal verbale l'ultima domanda. Può procedere." Freeman tornò al tavolo della difesa, bevve un sorso d'acqua, e si rivolse al testimone. "Signor Alvarez, vogliamo parlare della pistola? Lei l'ha vista?" "La pistola?" "Sì, l'arma del delitto che è finita chissà come in un cassonetto in fondo alla strada, vicino al parco. Quella pistola. Ha notato se la persona da lei John T. Lescroart
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identificata come Jennifer Witt l'aveva in mano mentre era ferma accanto al cancello?" "Aveva una specie di rigonfiamento sul fianco." Freeman scosse la testa. "Signor Alvarez, per favore, risponda alla domanda. Ha visto una pistola?" Ad Alvarez la cosa non piaceva molto, come non piaceva a Powell. Ma non poteva farci nulla. "No, però aveva..." Freeman alzò le mani. "Signor Alvarez, è tutto. Vogliamo procedere?" Si girò di nuovo per lanciare un'occhiata a Jennifer e Hardy, e naturalmente anche i giurati se ne accorsero... Avevano capito che, almeno dal suo punto di vista, si preparava a sbranare Alvarez. Tornò a voltarsi verso il testimone. "L'ultimo punto che vorrei chiarire segue la stessa linea che ho adottato con la signora Barbieto... Quanto dura un minuto?" La Villars sporse le labbra, decisa a bloccare ogni tentativo d'istrionismo. Ma Freeman si comportò in modo lineare. Hardy dubitava che si lasciasse prendere la mano mentre era in buona posizione. "Lei ha detto che era accanto al letto di sua moglie quando ha sentito gli spari?" "È esatto." "Dopo il secondo sparo si è alzato per guardare dalla finestra. È così?" Alvarez annuì, seccato, e la Villars gli rammentò che doveva rispondere verbalmente. Il testimone annuì di nuovo e disse: "Sì, mi sono alzato dopo il secondo sparo". "Immediatamente? Dopo un minuto? Oppure meno?" "Forse un po' meno. Una via di mezzo." "È andato alla finestra che dà sulla strada?" "È esatto." "Quant'è lontana dalla camera di sua moglie?" "Non lo so con precisione. Circa sei metri, direi." "È andato direttamente alla finestra? Non si è fermato, magari per andare in bagno?" In aula molti ridacchiarono. Freeman stava spingendo al limite la sopportazione del giudice, e lo sapeva, ma faceva l'effetto voluto sulla giuria. Alvarez non lo trovò divertente. "Sì, sono andato subito alla finestra." "E la persona che ha visto al cancello era già lì e guardava la casa dei Witt?" John T. Lescroart
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"Sì." Per Hardy il quadro era chiaro; ma si domandava quanti dei giurati lo capissero. Pensava però che tutti avrebbero compreso dopo che Freeman avesse terminato la perorazione programmatica iniziale per la difesa. Era possibile che Jennifer avesse ucciso il marito e il figlio al piano superiore della casa, fosse uscita, avesse chiuso il cancelletto nel tempo impiegato da Anthony Alvarez per percorrere sei metri, minuto più, minuto meno? Ne dubitava e pensava che anche i giurati ne avrebbero dubitato una volta che Freeman avesse presentato Lisa Jennings e avesse spiegato che Alvarez l'aveva scambiata per Jennifer. Ma Powell non intendeva permettere che Alvarez lasciasse il banco dei testimoni su una nota per lui negativa. Le regole della procedura penale permettevano l'escussione diretta di un testimone da parte di chi l'aveva citato, quindi il controinterrogatorio e infine una nuova serie di domande. Powell si alzò e partì all'attacco prima ancora che Freeman fosse tornato al tavolo della difesa. "Signor Alvarez, ancora un paio di domande... Da quanto tempo conosce la signora Witt?" "Da circa quattro anni. Quando si stabilirono in Olympic Way andammo a presentarci." "Quattro anni. E in questo periodo immagino che l'avrà vista camminare mentre le voltava le spalle." "Sì." "E anche di profilo, no?" Di fronte al tono cordiale, Alvarez cominciò a sciogliersi. Sorrise. "Certo. Molte volte." "E non dubita che la donna da lei vista al cancello, dall'altra parte della strada e dopo gli spari, fosse Jennifer Witt?" Alvarez, che si rendeva conto della situazione, impiegò qualche istante per riflettere prima di rispondere. Fissò Jennifer. "Non ho niente contro questa donna, ma era lei." "Vostro onore!" "D'accordo, signor Freeman, la giuria non terrà conto dell'ultima risposta. Signor Alvarez, per favore, si limiti a rispondere. La stenografa, Adrienne, rilesse la domanda di Powell e questa volta Alvarez disse semplicemente: "No, non ho alcun dubbio". John T. Lescroart
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Freeman non fece obiezioni. L'agente Gary Gage prese posto sul banco dei testimoni. Era un uomo sulla quarantina, veterano del servizio di pattuglia, ed era stato lui a rispondere alla chiamata del 911 e a scoprire i cadaveri. "E la porta di casa era chiusa a chiave quando lei è arrivato?" chiese Powell. "Sì. La vicina..." Gage consultò gli appunti. "La signora Barbieto è uscita quando sono arrivato. Abbiamo parlato per qualche minuto, ho bussato alla porta, poi ho cercato di aprirla, ma era chiusa con lo scatto." "Che ora era?" Gage rispose con riluttanza. "Sono arrivato alle dieci e dieci, quindi dovevano essere le dieci e un quarto." Powell aggrottò la fronte. "Ma aveva ricevuto una chiamata del 911 molto prima, no?" L'agente Gage annuì. "Sì, signore. Avevamo ricevuto la segnalazione di una lite in famiglia... alle nove e quaranta." "Alle nove e quaranta esatte?" Gage consultò di nuovo gli appunti. "Qui è scritto così, signore. Nove e quaranta. Mi hanno comunicato il fatto via radio." Alzò le spalle. "Dopo Natale, ci sono molte liti in famiglia. A volte ci vuole un po', per arrivare sul posto." Powell annuì, tornò al tavolo, prese un foglio, lo lesse e lo posò. "E che cosa ha fatto?" "Stavo per andare a controllare sul retro della casa, ma proprio allora è tornata la signora Witt. Mi ha chiesto come mai ero lì, e le ho detto che la signora Barbieto ci aveva chiamati perché aveva sentito l'imputata e il marito che gridavano, e forse aveva sentito anche qualche sparo." "E come ha reagito, l'imputata?" Gage si agitò un po' e alzò gli occhi verso Jennifer. "Ecco, mi ha detto che era tutto a posto. Era andata a fare jogging. Evidentemente, se c'era stata una lite era finita." "Ha avuto l'impressione che cercasse di allontanarla?" Freeman fece un'obiezione che venne accolta, ma Powell non si scompose. "E lei che cos'ha fatto?" "Ho detto alla signora Witt che avevo suonato e non aveva risposto nessuno. Lei ha replicato che probabilmente il marito era uscito per calmarsi, come aveva fatto lei, e aveva portato con sé anche il figlio." John T. Lescroart
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A fianco di Hardy, Jennifer sussurrò a Freeman che non aveva voluto che l'agente affrontasse Larry, perché sapeva che poi l'avrebbe picchiata per aver causato l'arrivo della polizia. Gage continuò: "Ho detto che avrei voluto dare un'occhiata in casa per assicurarmi che non fosse successo niente, dato che qualcuno aveva sentito gli spari. La signora Witt ha ripetuto che era tutto a posto, ma io ho insistito, e alla fine lei ha aperto la porta". "E cos'è successo?" Gage deglutì. "Ecco, ho sentito subito l'odore della polvere da sparo, e così le ho detto di sedere sul divano. Ho impugnato la pistola e ho fatto il giro della casa, prima al piano terreno e poi di sopra, e ho trovato i cadaveri." In aula regnava il silenzio. Gage sudava. "Allora che cos'ha fatto?" Gage trasse un profondo respiro. "Mi sono affacciato dalla ringhiera e mi sono rivolto alla signora Witt. Le ho detto: 'Resti lì, per favore. C'è stata una sparatoria'." "E l'imputata che cosa ha fatto?" "Mi ha guardato e ha risposto: 'Lo so'." Dopo l'intervallo per il pranzo, il sergente ispettore Walter Terrell prese posto per la seconda volta sul banco dei testimoni. Questa volta portava un tre pezzi antracite gessato, cravatta rossa e camicia bianca. E si era tagliato i capelli. Persino il comportamento aggressivo s'era smorzato. Dopo la sua ultima testimonianza in un processo per omicidio premeditato, qualcuno lo aveva indottrinato a dovere. A prima vista sembrava che Powell gli avesse fatto capire che un testimone, per essere efficace, non doveva ostentare una personalità da macho. Se Terrell voleva contribuire a far condannare Jennifer Witt, doveva mirare soprattutto a coordinare i fatti nel modo giusto. Nonostante le lacune nella preparazione, Powell continuava a irradiare sicurezza e certezza di vincere. Era sconvolgente. "Ispettore Terrell," esordì Powell, "dato che le sue credenziali sono già state enunciate, incominciamo con il suo arrivo sulla scena del delitto, la casa dei Witt in Olympia Way. Quando è avvenuto?" John T. Lescroart
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Questa volta Terrell non sfoggiò sorrisi: fu pratico e sbrigativo. "Sono arrivato alle dieci e quarantatré. C'erano già altri della polizia." "Ha visto l'imputata, Jennifer Witt?" "Sì. Era seduta su un divano in una grande stanza a destra dell'ingresso. Uno degli agenti me l'ha indicata, e sono andato a parlare con lei." "Come si comportava?" "Era seduta con le gambe piegate, le mani incrociate sulle ginocchia, e taceva." "Stava piangendo?" "No, signore." "Parlava in modo coerente?" "Sì, signore." "Ispettore Tyrrell, ha avuto qualche motivo di sospettare che la signora Witt avesse commesso i due omicidi?" Terrell rifletté un momento. "No, a parte il fatto che, secondo le statistiche, quando muore assassinato un coniuge, spesso a ucciderlo è stato l'altro." Agli occhi dei giurati, Powell doveva apparire sinceramente perplesso. "Ma l'agente Gage non le aveva riferito che la signora Witt aveva risposto 'Lo so' quando le aveva parlato dei cadaveri al piano di sopra?" "Sì, ma sul momento l'ho attribuito allo shock, o al fatto che fosse arrivata a quella conclusione mentre l'agente Gage girava per la casa." Terrell stava rimediando alla figura che aveva fatto durante l'altra testimonianza. Non si comportava da testa calda, non aggrediva Jennifer come un cane rabbioso. Aveva atteso che si accumulasse l'evidenza. E Powell lo stava guidando verso la certezza che Jennifer fosse colpevole. "Durante gli interrogatori successivi, ha chiesto alla signora Witt chi poteva essere stato, secondo lei?" "Ecco, nella polizia noi ci chiediamo sempre: chi ci guadagna? E naturalmente, quando ho saputo che la signora Witt avrebbe incassato cinque milioni di dollari dall'assicurazione, ecco, la cosa ha attirato la mia attenzione. Ho chiesto se avrebbe ereditato anche qualcun altro, e lei ha risposto di no." "Continui." "Poi mi ha detto che il marito non aveva nemici; se era vero, il movente degli omicidi doveva essere impersonale. Una rapina, per esempio. Le ho chiesto di cercare in tutta la casa ed elencare quello che mancava." John T. Lescroart
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Hardy l'aveva già sentito altre volte, ma adesso emergeva in modo credibile e deleterio. La sparizione della pistola di cui Jennifer non aveva detto niente, il fatto che avesse ricordato con molto ritardo lo sconosciuto dalla pelle scura e dall'impermeabile che aveva incontrato per la strada. Quando Powell ebbe finito e lasciò a Freeman il compito di interrogare il testimone, il difensore attaccò con la stessa linea che avrebbe adottato Hardy: l'unica falla in una trama altrimenti inattaccabile. "La signora Witt le ha detto che il marito non aveva nemici. È così?" "Sì, signore." "E nel corso delle indagini, lei ha controllato questa affermazione?" "Sì." Terrell non diceva nulla spontaneamente. Hardy capiva: l'ispettore stava sfidando Freeman a tentare di smontarlo, e riusciva a farlo senza sembrare bellicoso. Powell l'aveva imbeccato a dovere. Ma c'era nell'aria qualcosa. All'improvviso, Hardy sommò la sicurezza di Powell e l'atteggiamento di Terrell... e capì che la difesa si stava cacciando in una trappola. Alzò una mano. "Mi scusi, vostro onore." Freeman, interrotto mentre cercava di trovare il ritmo, si voltò a lanciargli un'occhiataccia. "Vorrei chiedere una breve pausa." La Villars aggrottò la fronte. "Se non ci sono obiezioni." Non ci furono obiezioni, e il giudice annunciò una pausa di un quarto d'ora. "Stanno combinando qualcosa," disse Hardy. "Si preparano a fregarci." Era a faccia a faccia con Freeman nella solita stanza. "In che modo? Tirerò fuori un paio di altri possibili colpevoli, e poi mi metterò tranquillo." "Ti piacerebbe. Ma non farlo. Terrell ha in mano qualcosa e muore dalla voglia di spifferarlo. Hai colpito duro Powell durante la testimonianza di Alvarez, lui lo sa ma continua a sorridere beato e io non credo che finga." "Tutto ciò che fa Powell è una finzione." "Mentre tu sei sincero, no?" "Che cosa vuoi che faccia? Che lasci perdere Terrell? Che mi fermi qui?" "Che male potrebbe fare?" L'occhiata che Hardy ricevette come risposta non era lusinghiera, ma non gli importava. Era convinto che fossero arrivati a una discreta probabilità di assoluzione dopo le testimonianze della Barbieto e di John T. Lescroart
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Alvarez. Dopotutto, stavano parlando di ragionevole dubbio, non di certezza, e Hardy pensava che ci fosse. E anche se Gage e Terrell non avevano portato punti in suo favore, non ne avevano assicurati molti neppure a Powell. Ma questo poteva cambiare da un momento all'altro. Una mossa falsa poteva rovinare tutto. Era meglio accontentarsi di ciò che si aveva. Ma non era nello stile di David Freeman. "Mi domandi che male potrebbe fare? Non assicurerei alla mia cliente la difesa migliore. Terrell sta dicendo che nessun altro al mondo aveva una ragione per uccidere Larry Witt. Ha approfittato del fatto che Jennifer ha dichiarato che Witt non aveva nemici. Vuoi lasciarlo fare? Non ti sembra importante?" "Sicuro, è importante. Ma possiamo arrivarci la settimana prossima..." "Possiamo parlarne adesso. Preparare la giuria ad accettare le minuzie che verranno poi." Hardy si rendeva conto che non sarebbe riuscito a convincere il collega, il che non era una sorpresa. Be', forse aveva torto; dopotutto la sua era soltanto un'intuizione. Comunque aveva messo in guardia David e si sentiva la coscienza a posto. "Ispettore Terrell, mi pare che stessimo parlando del fatto che Larry Witt non aveva nemici. E ha controllato questa affermazione della signora Witt, giusto?" "Fa parte di tutte le indagini in caso di omicidio scoprire chi aveva un motivo per uccidere la vittima." Freeman abbassò gli occhi sul blocco degli appunti. "E i suoi sforzi per scoprire gli eventuali nemici del dottor Witt hanno dato qualche risultato?" L'opinione di Terrell sugli eventuali nemici di Witt non era pertinente, ma Powell non aveva alcuna intenzione di obiettare. Terrell si assestò sulla sedia. "In che senso?" "In questo senso: ha trovato qualcuno che poteva avere un movente per uccidere il dottor Witt?" "Forse potevano averlo." "E, nelle sue indagini, qualcuna di queste persone le è parsa sospettabile?" "No." "No? E perché?" Terrell spiegò in tono paziente: "Perché allora non c'era alcun indizio John T. Lescroart
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che collegasse qualcun altro agli omicidi". Era una risposta abile, ma Freeman aveva ottenuto almeno l'ammissione che "forse" c'erano state altre persone con un movente. Hardy pensava che a questo punto avrebbe dovuto fermarsi. E invece no. "Ha detto 'allora'. Vuol dire che dopo l'arresto dell'imputata lei ha trovato qualche indizio in questo senso?" Terrell si girò verso i giurati per includerli nella sua reazione. "Qualche indizio che collegasse al delitto un'altra persona?" "Sì." In silenzio, Hardy pregò che il suo collega la smettesse. Ma era già troppo tardi. Ormai era inevitabile andare sino in fondo. "Eppure, anche se c'era un altro sospettato, ha continuato a tenere in carcere la signora Witt..." "Non ho detto che c'era un altro sospettato. Anzi, questo individuo rafforza il movente della signora Witt, perché niente lo collega al luogo del delitto." Jennifer strinse il braccio di Hardy. Terrell non resistette più. Senza che nessuno glielo chiedesse, annunciò: "La signora Witt aveva una relazione. Andava a letto con il suo psichiatra". Era un'ipotesi, evidentemente basata su affermazioni di terze persone, ma David se l'era cercata. Non pensò neppure a obiettare. Ormai il danno era fatto.
38 Tutte le reti televisive si dannavano per scoprire particolari scandalosi sul dottor Ken Lightner, presunto amante di Jennifer Witt. Ma non avevano molta fortuna. Nonostante fosse la sera dell'appuntamento, Hardy telefonò a Frannie per scusarsi e avvertirla che non sarebbe tornato a casa: lei poteva scoprire il perché se avesse guardato la televisione. Dopo aver lasciato il palazzo di giustizia era tornato in ufficio. Diversi associati di Freeman erano nella sala per le conferenze e cercavano di capire come potevano salvare qualcosa dal disastro. Nessuno aveva una idea valida da proporre, anche se tutti ammettevano che era una rogna quando il cliente ti mentiva o ti nascondeva informazioni importanti. John T. Lescroart
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Freeman, dopo un'ora di discussione con Jennifer che continuava a negare di aver avuto una relazione con Lightner sebbene avessero alloggiato per una settimana nella stessa camera in Costarica, aveva detto che sarebbe andato a cena da solo nel ristorante francese sotto casa, e che avrebbe scolato due bottiglie di vino. Dopo che la testimonianza di Terrell aveva aperto le dighe, l'alluvione aveva travolto Freeman. Powell aveva interrogato di nuovo Terrell, rivelando i particolari dell'estradizione di Jennifer e il modo in cui l'avevano trovata. Poi aveva chiamato Lightner, che aveva confermato. Aveva confermato tutto tranne la relazione: quella l'aveva smentita con energia. Ma a questo proposito i giurati potevano trarre le conclusioni dai fatti: non era credibile che un maschio eterosessuale dividesse per una settimana una stanza d'albergo con una bellezza come Jennifer Witt senza combinare nulla, e non era credibile neppure che la relazione non durasse da tempo. Dopo l'evasione di Jennifer, Terrell s'era affidato a una delle sue intuizioni. Aveva immaginato che Jennifer si sarebbe messa in contatto con qualcuno, e in base alle indagini precedenti aveva dedotto che quel qualcuno poteva essere soltanto Lightner. Jennifer non aveva amici intimi, non aveva rapporti con la famiglia d'origine. C'era poco da scegliere. E siccome si trattava di un caso passibile di condanna capitale, siccome il candidato Powell scalpitava e l'evasione di Jennifer aveva mandato su tutte le furie gli ambienti giudiziari, Terrell aveva ottenuto un mandato per farsi consegnare dalla società dei telefoni l'elenco delle chiamate fatte da Lightner. Le telefonate in Costarica erano promettenti. Terrell stava per interrogare Lightner quando lo psichiatra era andato per una settimana nel paese centroamericano. Terrell l'aveva seguito e aveva scoperto quanto bastava per tornare e avviare le procedure per l'estradizione. Hardy era pronto a scommettere che le spese di Terrell erano state pagate con denaro attinto al fondo per la campagna elettorale di Powell. E il peggio era questo! Terrell aveva testimoniato che in Costarica Jennifer e Lightner avevano dormito nella stessa camera! Il fatto che ci fosse di mezzo un altro uomo, e da chissà quanto tempo, avrebbe influenzato negativamente i giurati nei confronti di Jennifer. Ai loro occhi, adesso, aveva avuto anche un movente personale per uccidere il marito. Era stata una questione non solo di denaro, ma anche di tradimento. E John T. Lescroart
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Jennifer sarebbe apparsa proprio come la persona capace di fare ciò di cui era accusata. Hardy si rendeva conto che era diventato necessario distrarre la giuria presentando altri possibili colpevoli. Cercò il numero di Jody Bachman, l'avvocato di Los Angeles che seguiva gli interessi dell'Yerba Buena Medicai Group. Il telefono squillò una sola volta. "Jody Bachman." Era una voce giovanile, vivace. "Signor Bachman, mi chiamo Dismas Hardy. Sono un avvocato di San Francisco e le ho lasciato un messaggio qualche settimana fa." Un silenzio piuttosto lungo. "E io non l'ho richiamata?" Hardy sorrise. "Può darsi, però non ho ricevuto alcun messaggio." "Mi dispiace. Ma qui c'è stata una specie di manicomio. Forse lo sa già." Per qualche istante parlarono di orari impossibili e di superlavoro, poi Hardy riferì che Todd Crane gli aveva consigliato di parlare con Bachman dell'YBMG. "Sicuro, li rappresento. Se posso esserle utile... Ma mi ha detto che si tratta di un processo per omicidio." Hardy gli spiegò la situazione. "Witt? No, il nome non mi dice niente." "Sono sicuro che aveva telefonato allo studio lo scorso dicembre, ma non so con chi potrebbe aver parlato." "Probabilmente con me," ammise Bachman. "Però non ricordo. Dirò alla mia segretaria di controllare. Poi ci risentiremo. Va bene così?" "Eccoti finalmente come sei," disse Hardy al suo amico Abe Glitsky, che gli aveva aperto con un costume da clown, scarpe enormi, cerone bianco, naso rosso. "Fammi indovinare..." Glitsky l'interruppe. "È il compleanno di Jacob." Hardy lo seguì nell'appartamento. Flo gli andò incontro, gli diede un bacio sulla guancia, chiese se voleva una fetta di torta o un gelato. In cucina c'erano almeno quindici ragazzi sui dieci anni. "Abe ci fa un figurone." Flo gli lanciò un'occhiata. "Aspetta, e lo farai anche tu." Hardy pensava che probabilmente aveva ragione; ma in quel momento non riusciva a vedersi come la futura reincarnazione di un pagliaccio. "Finirà presto?" "Dieci minuti. Fa un numero divertente." John T. Lescroart
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"Mi piacerebbe vederlo." Flo gli posò una mano sul braccio. "Credo che lo metteresti a disagio. Puoi aspettare nella camera dei ragazzi." I tre figli dei Glitsky dormivano nella stessa camera, che non era grande. Jacob e Isaac dividevano il letto a castello e OJ, che aveva quasi cinque anni, aveva un divano-letto contro la parete di fronte. Hardy vi si sedette e ascoltò le risate che venivano dalla cucina mentre il suo amico ispettore della omicidi faceva il pagliaccio. E ne approfittò per appoggiare la testa sul cuscino, solo per un momento. "Mi dispiace svegliarti, ma mio figlio deve andare a letto." Hardy guardò l'orologio. Era crollato sul divano-letto e aveva dormito per quasi un'ora. Glitsky era di nuovo in borghese e gli porgeva una tazza di caffè. Hardy la prese. "Ho sognato che eri vestito da pagliaccio," disse. "Era orribile." Glitsky scosse la testa e si voltò. Hardy lo seguì in cucina e sedette a tavola. L'ispettore cominciò a prepararsi una tazza di tè. "Sentiamo," esordì Hardy. "Che cosa hai scoperto sui Roman?" "Niente. Se avessi trovato qualcosa, te l'avrei detto." Glitsky assaggiò il tè. "Ti serve davvero?" "Vorrei sapere se Roman e la moglie hanno un alibi." Glitsky annuì. "Il processo sta andando a rotoli?" Hardy gli parlò dell'udienza del pomeriggio, delle affermazioni sul conto di Lightner, dell'importanza di trovare almeno un'altra persona che avesse avuto un movente e l'occasione per uccidere il dottor Witt. "Mi sembra che quel Lightner potrebbe essere adatto. Andava a letto con la signora, e avrebbe potuto..." "Tutti e due negano di essere amanti." Glitsky lo guardò negli occhi. "Sicuro." Hardy scrollò le spalle. "Non ha importanza. I giurati lo crederanno." "Quindi lui aveva un movente." "Ma quella mattina lavorava nel suo studio. La segretaria era presente. Terrell ha già controllato." Glitsky bevve qualche sorso di tè, con lo sguardo perduto nel vuoto. "Non credo di capire perché dovrei aiutarti a togliere dai pasticci un'imputata che reputo colpevole. Vuoi spiegarmelo di nuovo? Sono un poliziotto, ricordi? Io sto dall'altra parte." "Potrei dirti che devi farlo nell'interesse della giustizia, ma immagino John T. Lescroart
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che ti verrebbe da vomitare o qualcosa di simile." "Qualcosa di simile." "Allora non lo dirò. Posso dire che siamo ottimi amici e che farei lo stesso per te?" "No. È inutile." Hardy si alzò per versarsi altro caffè. "Ho trovato... Potresti scoprire il vero assassino." "Ma noi pensiamo che la stiano già processando." "E se non fosse lei? Senti, Abe, i Roman odiavano Larry Witt. Ti chiedo solo di scoprire se il 28 dicembre erano a Tahiti o in qualche altro posto, in modo che io possa escluderli." "Tutto qui, eh? Dovrei scoprire che cosa faceva qualcuno un dato giorno di dieci mesi fa. Li hai visti, no? Perché non l'hai domandato a loro?" Gli scarsi avanzi della torta di compleanno di Jacob erano nel lavello. Hardy ne mise un po' su un piatto di carta e la portò al tavolo. "Vedi che sono un vero amico?" Glitsky infilò un dito nella glassa e se lo mise in bocca. "È assurdo," fu il suo commento. Hardy alzò le spalle. "Come gran parte della vita." Freeman non bevve la seconda bottiglia di vino, al ristorante francese. Dopo la prima aveva deciso di ritentare con Jennifer, di andare a fondo della storia della relazione. Ma non salì nel carcere. Ken Lightner stava scendendo la scalinata del palazzo di giustizia mentre lui arrivava. Senza esitare, l'anziano avvocato balzò a precipizio dal tassì e chiamò: "Dottor Lightner, per favore, aspetti un momento!" Pagò in fretta il tassista mentre Lightner si avvicinava. "Signor Freeman, mi dispiace, ma è tardi e sono molto stanco. Di qualunque cosa si tratti, dovrà aspettare." "Non ne ho la minima intenzione, signore. Deve dirmi la verità, e subito." Lightner indicò il palazzo. "Ho detto la verità in aula, questo pomeriggio." "E domani, se vorrò, la controinterrogherò su ciò che ha detto. Preferisce che ne discutiamo, allora? Che cos'è andato a fare? A trovare la mia cliente?" John T. Lescroart
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"A trovare la mia paziente, signor Freeman." "Nonché sua amante?" Questa volta Lightner rispose con aria misurata. "L'ho negato sotto giuramento. Dovrà rassegnarsi a crederlo." "Non lo credo," ribatté Freeman. "E questo fa di lei il mio principale sospettato." "Io? Sta scherzando?" Freeman puntò l'indice. "Già, proprio lei. No, non scherzo. Se aveva una relazione con Jennifer, aveva un movente altrettanto valido per ucciderle il marito." Non lo credeva, ma doveva tentare. "Non vedo l'ora di parlarne domani quando sarà sul banco dei testimoni. E se crede di essere stanco adesso..." Freeman si avviò verso la porta. "Un momento..." Freeman si voltò. "Ci vorrà molto più di un momento, dottore. Ha tempo o no? Se non ce l'ha, io ho di meglio da fare." Lightner si grattò la barba. "D'accordo," disse. "Ma non qui." "Conosco un posto." Freeman s'era già avviato. Attraversò Bryant Street e scese i gradini che conducevano da Lou il Greco. A quell'ora il locale era semivuoto. Lou stava mettendo in ordine, il televisore era spento. Due clienti abituali bevevano birra al bar, due innamorati erano avvinghiati in un séparé. Freeman condusse Lightner verso il fondo e, quando Lou fece per avvicinarsi, lo allontanò con un cenno. "L'unica cosa che m'interessa, signor Freeman, è Jennifer." Anche se non faceva caldo, Lightner aveva un velo di sudore sulla fronte. "Bene, dottore, così partiamo con il piede giusto." Freeman bussò sul piano del tavolo e chiamò: "A pensarci meglio, Lou, portaci due birre ben ghiacciate". Poi si rivolse a Lightner. "L'ascolto, dottore." Lightner si grattò di nuovo la barba. "È complicato. Jennifer crede d'essere innamorata di me. È un fenomeno comune di transfert, rafforzato dalla situazione che viveva in famiglia." "Transfert? E andava a letto con lei?" Lightner scosse la testa. "Senta, signor Freeman, non sono un terapeuta che va a letto con la paziente, e non m'interessa se mi crede o no. Ma se l'avessi fatto avrei danneggiato veramente Jennifer. Non ne aveva bisogno, anche se credeva il contrario..." Lou portò le birre e sparì. Lightner non guardò neppure la bottiglia e continuò a riflettere. "Non è stata una settimana facile. In Costarica, voglio John T. Lescroart
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dire..." Freeman bevve un altro sorso di birra. "Dunque non è andato a letto con lei. Ma perché non ci ha parlato dei sentimenti di Jennifer?" Lightner scuoteva la testa come se cercasse di far capire qualcosa a un bambino. "Sarebbe stata una stupidaggine." "Perché?" "Perché avrei fatto sapere alla giuria che Jennifer non amava il marito e voleva porre fine al matrimonio. Crede che sarebbe stato utile?" Freeman alzò le spalle. "E adesso lo sanno tutti, dottore." "È saltato fuori. Nessuno l'ha detto spontaneamente. Ecco la differenza. Crede che se avessi pensato di poter essere utile a Jennifer non sarei stato disposto a mentire? Sono un essere umano e sono innamorato di lei... almeno un po'. In terapia è una cosa che succede in entrambi i sensi. Un professionista se ne accorge e lo controlla." Tirò a sé la bottiglia di birra. "Non capisce? Jennifer lo intuisce, e questo la rende padrona dei propri sentimenti e la libera dal timore che io ne approfitti. In parte è per questo che si fida." "Ma è rimasta con lei." "Aveva paura, signor Freeman. Voleva stare con me e ho deciso di permetterlo. Forse è stato un errore di giudizio. Come ho detto, sono un essere umano. Anche se sono psichiatra." Lightner bevve un sorso di birra. "Ecco tutto. Può credermi o no. Non potevo buttarla fuori. Le ho permesso di restare nella camera con me. Platonicamente." Freeman sospirò. Non era impossibile. "Comunque, doveva dirmelo prima." "Non volevo che si sapesse. Capisce? Temevo che avrebbe danneggiato Jennifer nel processo. Avrebbe dato l'impressione che avesse un forte movente oltre al denaro per sbarazzarsi del marito. No? E l'avrebbe fatta apparire come una moglie infedele." "È appunto quel che è successo." Lightner sembrò perdere la pazienza. Batté la mano sul tavolo. "Ma non sono stato io. E, se ha intenzione di torchiarmi, domani, se crede che possa servire a Jennifer, così sia. Ripeterò ciò che le ho detto e la giuria penserà che Jennifer aveva una forte ragione emotiva per uccidere il marito e forse anche il figlio e per fuggire con il suo psichiatra." Fece una smorfia. "Se pensa davvero che potrà aiutarla... be', non servirà a niente. La cosa migliore che può fare per Jennifer, signor Freeman, è dimenticarsi di noi John T. Lescroart
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due." Freeman bevve un sorso di birra e annuì. "E così si metterà al sicuro." "Signor Freeman, quella mattina ero in ufficio e posso dimostrarlo. Temo che i giurati si concentreranno su Jennifer e sui suoi presunti moventi, sul fatto che non amava più il marito e voleva liberarsi d'un matrimonio insopportabile." Lightner bevve metà della birra. "Mio Dio, l'avvocato è lei. Pensa che volessi che andasse così? Devo farle un quadro completo?" Freeman aveva gli occhi colmi di tristezza mentre rigirava la bottiglia fra le mani. "L'ha appena fatto," disse.
39 "Buongiorno. Non vi porterò via molto tempo con la mia perorazione difensiva. Probabilmente pensate di essere rimasti qui già abbastanza a lungo. Non voglio annoiarvi e neppure offendere la vostra intelligenza. "Tuttavia ritengo utile ricapitolare quanto è accaduto in questo processo per quanto riguarda l'evidenza, perché è sull'evidenza che si imperniano i processi. L'evidenza prova al di là di ogni ragionevole dubbio che Jennifer Witt abbia ucciso il marito e il figlio? Bene, se guardiamo l'evidenza, signore e signori, la risposta è: no." Freeman parlava a voce bassa, con il suo tono meno aggressivo. Ogni tanto gesticolava ma sembrava deciso a fare in modo che fossero le parole a svolgere il loro compito. Stava davanti al palco della giuria. Non guardava il giudice Villars, non si voltava verso Powell e Morehouse. Era la sua perorazione programmatica per la giuria, ed era a questa che si rivolgeva. "L'evidenza deve provare che Jennifer Witt ha commesso quegli orribili delitti. Non deve lasciare altre spiegazioni ragionevoli. Non basta dire: 'Ecco, forse poteva essere presente, potrebbe averlo fatto'. Dovete essere assolutamente convinti. Non dovete avere dubbi." "Vostro onore." Sembrava che a Dean Powell dispiacesse dover interrompere. "Questa è un'argomentazione, non una perorazione programmatica." Sorprendentemente, la Villars respinse l'obiezione. Era forse la prima volta durante il processo che Freeman aveva visto il giudice dare torto all'accusa quando non l'aveva. Freeman era fuori linea: la sua era soltanto John T. Lescroart
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un'argomentazione. Ma evidentemente la Villars l'apprezzava. Freeman proseguì. "E che cosa dobbiamo provare noi della difesa? Dobbiamo provare che Jennifer Witt non era in casa? Che non ha sparato con la pistola? Che non aveva un amante? Che forse non sapeva nulla dell'assicurazione del marito e della clausola della doppia indennità? Ecco la risposta: noi non dobbiamo provare niente. L'onere della prova grava sull'accusa. Il compito del signor Powell è provare che Jennifer Witt ha fatto tutto questo. E sapete una cosa? Non c'è riuscito." Hardy dovette ammirare Freeman. Era un vero combattente. "Nessuno ha mai potuto affermare che Jennifer era in casa al momento degli spari. È una lacuna fondamentale che, di per sé, crea un ragionevole dubbio. "Due. E anche questo è fondamentale. L'accusa non ha indicato un movente, una teoria, un'ipotesi razionale per l'uccisione del piccolo Matthew Witt. Vi chiede semplicemente di credere che Jennifer Witt, per qualche ragione misteriosa, abbia ucciso il suo unico figlio. Non ha cercato di dimostrare che l'abbia ucciso, o perché." Jennifer era ancora e sempre sconvolta da ogni allusione a Matt. Abbassò la testa per un istante e deglutì. Prese il bicchier d'acqua e bevve. "Tre. Il primo testimone che colloca la signora Witt presso la scena del delitto all'ora degli spari, e cioè la signora Barbieto, non ha neppure saputo dire quanto tempo era passato tra il momento in cui aveva sentito Jennifer e gli spari. Potevano essere quindici minuti, e probabilmente lo erano. "Quattro. Il signor Alvarez sostiene di aver visto la signora Witt allontanarsi correndo dalla casa dopo meno di un minuto dal momento degli spari: un minuto. Ricordiamo la testimonianza del signor Alvarez su questo famoso minuto. Ha detto di essere andato direttamente dalla stanza della moglie alla finestra del corridoio affacciata su Olympia Way, una distanza di circa sei metri. E ha detto di aver visto Jennifer Witt che, in quel minuto, era già fuori del cancello della sua casa e s'era voltata a guardare quest'ultima." Questo ormai era chiaro, pensò Hardy. Ed era un punto cruciale. Anche correndo, Jennifer non avrebbe potuto lasciare la sua camera, dove erano avvenuti gli omicidi, scendere la scala, attraversare il soggiorno, uscire dalla porta, percorrere il vialetto, varcare il cancello, chiuderlo e voltarsi nel brevissimo periodo di tempo che Alvarez aveva impiegato per fare sei metri. Freeman tacque un attimo perché le sue parole si imprimessero nelle John T. Lescroart
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menti dei giurati. Poi proseguì, sicuro: "Passiamo all'identificazione di Jennifer Witt da parte del signor Alvarez. Ora, non sto dicendo che non l'abbia identificata... L'ha fatto. Tuttavia vi chiederò di riflettere: come poteva essere tanto sicuro, se ammette di non averla vista in faccia? "Quindi, dato che ha fatto tanta impressione sull'accusa quando se ne è parlato, dedicheremo un minuto a parlare della presunta relazione intima tra la signora Witt e il suo psichiatra. Il dottor Lightner l'ha smentita sotto giuramento. Ora, potete essere scettici quanto volete, ma ricordate che l'opinione dell'ispettore Terrell, secondo la quale i due avrebbero avuto una relazione, è stata cancellata dal verbale perché è una pura e semplice ipotesi. Ciò significa che, in punto di diritto, questa presunta relazione non è stata affatto provata. C'è qualche prova che la signora Witt e il suo psichiatra fossero intimi a quel tempo? Ancora una volta la risposta è: no." S'interruppe e abbassò la voce. "No." E dopo il colloquio con Lightner, poteva affermarlo con convinzione. Tornò al tavolo della difesa per bere un sorso d'acqua. Alzò gli occhi, guardò il pubblico e si rese conto che era ancora attentissimo. Soddisfatto, si girò di nuovo verso il palco della giuria e alzò l'indice. "Tuttavia, anche se non dobbiamo provare nulla, vi dimostreremo con quanta facilità il signor Alvarez, sempre entro i limiti del ragionevole dubbio, potrebbe aver sbagliato identificando la signora Witt come la donna che era corsa via dopo gli spari. Infine, vi mostreremo la prova incontrovertibile che Jennifer Witt non può aver ucciso il marito e il figlio, perché in effetti non era in casa sua quando sono stati sparati quei due colpi. Non poteva essere là. Come questa corte ha stabilito che non c'era evidenza sufficiente per provare che Jennifer Witt avesse ucciso il primo marito Ned Hollis, nulla prova che abbia ucciso il secondo e, in nome di Dio, anche il figlio." Puntò per l'ultima volta l'indice verso Jennifer. "Ecco una donna che è stata accusata ingiustamente. Una vittima, non una criminale. La signora Witt non soltanto è non colpevole secondo la legge: è innocente." Nei momenti più tetri Hardy si domandava se c'era qualcosa nell'aria di San Francisco. Aveva sentito dire spesso che c'era una muffa, una spora o una sostanza magica nell'atmosfera salmastra e ventosa, responsabile di alcune delle delizie gastronomiche della città. Ma si sorprendeva a chiedersi se ci fosse anche un aspetto meno benevolo, un parassita ancora John T. Lescroart
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sconosciuto, o una sostanza chimica o un fenomeno meteorologico che produceva la speranza all'inizio di un'azione solo per distruggerla prima che si realizzasse. Aveva accarezzato l'idea che Jennifer venisse assolta... e adesso temeva che fosse stata un'altra illusione. Nonostante l'esperienza e i trucchi di David Freeman, nonostante gli altri "possibili colpevoli", la vittoria nella parte del processo che aveva riguardato Ned Hollis, e il geniale controinterrogatorio dei testimoni principali dell'accusa, Florence Barbieto e Anthony Alvarez, adesso pensava che probabilmente avrebbero perso. Da quando era stata rivelata la storia di Lightner, e nonostante gli sforzi di David per neutralizzarla, le vele della difesa s'erano sgonfiate. Freeman non avrebbe mai ammesso la possibilità di una sconfitta; ma il peso della zavorra costituita da tutte le apparenti menzogne di Jennifer sembrava troppo grande. La difesa era caratterizzata adesso da un certo affanno, dalla sensazione che le argomentazioni e i fuochi d'artificio non avrebbero portato alla verità. I giurati non avrebbero votato come voleva la difesa, se non fosse stato possibile convincerli dell'esistenza di una verità alternativa che forse non vedevano. Per qualche tempo lui stesso aveva creduto nella possibilità di una verità alternativa che poteva essere convincente. Pensava che l'avrebbe creduto anche la giuria. Forse c'era qualcosa nell'aria. Freeman aveva cominciato bene ma l'incapacità di indicare almeno un altro possibile colpevole e la bomba della pretesa relazione fra Lightner e Jennifer... Ecco, Hardy temeva che fosse finita. Il lunedì mattina, quando si presentò in aula, Jennifer non indossava un abito alla moda ma una tuta marrone da jogging e scarpe da tennis d'alta tecnologia. I capelli erano pettinati a coda di cavallo, e Hardy pensò che dimostrava diciassette anni. Quando la Villars prese posto al banco, notò subito il cambiamento e si accigliò. "Signor Freeman, vuole avvicinarsi?" Hardy guardò il collega che parlava al giudice e annuiva e gesticolava, e poi tornava sorridendo al tavolo della difesa. Freeman chiamò Lisa Jennings, l'altra jogger, che era vestita in modo identico a Jennifer. Gli spettatori mormorarono e la Villars batté un paio di volte il mazzuolo per imporre silenzio. John T. Lescroart
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Lisa non era identica all'imputata; ma con le tute uguali, i capelli tagliati allo stesso modo (Freeman aveva pagato Lisa perché provvedesse), la rassomiglianza era innegabile. Lisa era un po' più magra, e più alta di un paio di centimetri, ma erano due donne bionde e attraenti fra i venti e i trent'anni. Hardy pensava che Freeman non avrebbe dovuto far pronunciare a Lisa una sola parola. Avrebbe dovuto semplicemente chiamare Alvarez e stare a vedere quel che succedeva. Ma per Freeman era impensabile. Sebbene Hardy lo avesse avvertito più volte che Powell avrebbe fatto a pezzi la testimonianza di Lisa, Freeman volle presentarla alla giuria. "Avrà tutto il suono della verità," aveva detto. "Aspetta e vedrai." Infatti aveva ragione. In se stessa, la testimonianza di Lisa a proposito del fatto che s'era fermata davanti alla casa nel sentire gli spari e quindi era ripartita correndo dopo circa un minuto era del tutto credibile. Il problema, come Hardy gli aveva fatto notare più volte, era che non potevano provare che fosse successo quel 28 dicembre. Ovviamente Powell non era intenzionato a lasciar correre l'omissione. "Signora Jennings, quante volte percorre Olympia Way, diciamo in un mese?" "Diverse volte la settimana. Forse quindici, venti volte al mese." "E lo sa da quanto tempo?" "Un paio d'anni. Quasi tre." "Quindi è passata davanti alla casa della signora Witt... circa duecento volte? Dico bene?" "Sì." "E tiene un diario in cui annota dove è andata nei tali giorni e quale percorso ha seguito?" Lisa guardò Freeman, poi di nuovo Powell. "No, corro e basta." "Quindi non sa con certezza quando ha sentito in Olympia Way i rumori di cui ha parlato, vero?" "Be', mi è capitato di sentirli una volta sola." "Due suoni che sembravano spari?" "Sì." Powell annuì con calma. Guardò i giurati con aria interrogativa. "Capisco. E dato che aveva sentito gli spari, li ha segnalati alla polizia?" "No." Lisa si agitò sulla sedia. "Perché?" John T. Lescroart
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"Non lo so. Forse non pensavo che fossero spari." Powell sgranò gli occhi per lo stupore. "Oh? E perché non lo pensava?" "Immagino di aver pensato che fossero ritorni di fiamma d'una macchina o qualcosa del genere." "E potevano esserlo?" Freeman, per cercare di salvarla, fece obiezione, ma Powell si affrettò a ritirare la domanda. E subito tornò all'attacco. "Ha detto 'sul momento'. In che momento? Il 28 dicembre dell'anno scorso?" Lisa guardò di nuovo Freeman. "Non ho detto questo." "No, non l'ha detto. Perciò glielo chiedo." Powell sorrise da perfetto gentiluomo ansioso di accertare la verità. "Non so esattamente che giorno fosse." Di nuovo l'espressione meravigliata. "Però è stato sicuramente l'inverno scorso?" "Credo di sì. Diversi mesi fa." "Non potrebbe essere passato più tempo?" "Obiezione vostro onore! L'accusa tormenta la testimone!" Freeman si era alzato, ma sapeva che era inutile. "Respinta," disse il giudice Villars. "Non potrebbe essere passato più tempo?" ripeté Powell in tono blando. La voce di Lisa si alzò, divenne quasi un grido. "Non so quando è successo!" Sconvolta da ciò che aveva fatto, fissò Powell, poi i giurati. Alla fine si scusò con il giudice e ripeté, quasi bisbigliando: "Non so quando è successo". "Grazie, signora Jennings. Non ho altre domande." La fine si avvicinava. Freeman aveva avuto l'intenzione di chiamare Alvarez perché indicasse Lisa e Jennifer in fondo all'aula, per dimostrare almeno che poteva esserci stato un errore nell'identificazione. In un certo senso, mostrare Lisa aveva portato allo stesso risultato, anche se, dal punto di vista di Hardy, non era stata affatto la vittoria che aveva sperato quando aveva atteso in macchina diverse mattine nella remota eventualità di vederla passare per la strada. Ma adesso Alvarez non sarebbe stato chiamato, e questo avrebbe inficiato l'argomento dello scambio d'identità. Erano arrivati al Bancomat, l'ultima speranza.
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Nessuno s'era propriamente addormentato, ma era lunedì pomeriggio e Hardy doveva ammettere che quel genere di testimonianza gli ricordava le lezioni pomeridiane di fisica alle medie superiori durante le quali aveva spesso dormito. Freeman era alle prese con Isabel Reed, la giovane funzionaria della Bank of America che Hardy e Glitsky avevano interpellato sei mesi prima. Allora, in un paio di colloqui, era emersa la differenza di tre minuti negli orari; e Freeman aveva spiegato alla Reed che, senza una domanda precisa da parte sua, lei non avrebbe dovuto accennare alla discrepanza. Non era sicuro, ma poteva darsi che la cosa le causasse qualche seccatura. Hardy, di conseguenza, si sentiva a disagio: ma non c'era niente da fare. Freeman sosteneva che se l'accusa l'avesse saputo e avesse preteso di discuterne, ne avrebbero parlato, ma non avrebbero accennato allo scarto di tre minuti: poteva tornare utile più tardi. Quando chiamò a testimoniare la signora Reed, Freeman presentò la ricevuta del Bancomat di Jennifer e una copia della conferma della Bank of America: era la prova concreta che alle nove e quarantatré, secondo l'orario della banca, Jennifer Witt si trovava davanti al Bancomat per effettuare un prelievo. Stavano guardando l'ingrandimento di una parte della carta stradale di San Francisco che mostrava il percorso da Olympia Way lungo Clarendon fino al quartiere Haight-Ashbury, il percorso che Jennifer aveva seguito la mattina degli omicidi. Il venerdì uno dei testimoni di Freeman era stato l'agente Gage che aveva parlato della distanza fra la casa dei Witt e la banca, il percorso più breve che adesso era tracciato in rosso a edificazione della giuria. "Signora Reed, guardiamo per un momento questa carta. Forse ha sentito l'altro giorno l'agente Gage testimoniare che la filiale della sua banca si trova a due chilometri e settecento metri dalla casa della signora Witt." "Sì." Freeman insistette. "L'agente Gage ha parlato di due chilometri e settecento metri. Le sembra giusto?" "Vostro onore." Powell si alzò. "Ammettiamo che la linea rossa corrisponda a due chilometri e settecento." "Che cosa intende dimostrare, signor Freeman?" chiese il giudice Villars. Ora che la porta era aperta, Freeman sorrise. "Sono lieto di spiegarlo, John T. Lescroart
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vostro onore." Si rivolse di nuovo a Isabel Reed. "Lei ha detto che la signora Witt ha effettuato il prelievo alle nove e quarantatré precise?" "Infatti." "Bene. Abbiamo sentito una testimone, la signora Barbieto, dire che la signora Witt era a casa un paio di minuti prima che chiamasse la polizia alle nove e quaranta. Ora, vorrei sapere se è sicura dell'ora." "Erano le nove e quarantatré," rispose Isabel Reed. Era elegante e sicura di sé. Una testimone attendibile con un documento, la stampata del computer che indicava l'ora esatta in cui Jennifer aveva fatto il prelievo. "In altre parole, signora Reed, abbiamo un quadro che ci presenta Jennifer Witt in casa sua alle nove e trentotto, e cioè un paio di minuti prima che la signora Barbieto, come ha dichiarato, chiamasse la polizia alle nove e quaranta; e dovremmo credere che cinque minuti più tardi fosse al Bancomat dopo aver percorso due chilometri e settecento metri?" L'effetto fu positivo. I giurati erano impressionati come aveva sperato Hardy. Nell'aula si levò un brusio. Perfino la Villars, che stava facendo mentalmente il calcolo, sembrava molto colpita. Forse non tutto era perduto. L'accusa aveva poco da scegliere: o Jennifer era uscita prima degli spari, e in quel caso non poteva aver ucciso il marito e il figlio, oppure se n'era andata più tardi, e allora non sarebbe arrivata in tempo alla banca. Ma alla banca era arrivata, quindi non aveva ucciso nessuno. Freeman continuò: "Anche se la signora Barbieto ha lasciato passare dieci minuti dal momento dagli spari prima di chiamare il 911, Jennifer sarebbe stata in casa alle nove e trenta. Ma i colpi non sono stati sparati alle nove e trenta perché l'autista della Federai Express, Fred Rivera, è rimasto in casa Witt almeno fino alle nove e trentuno". Freeman era lanciatissimo e chissà per quale ragione Dean Powell lo lasciava fare. Hardy guardò il procuratore e provò una stretta allo stomaco quando lo vide sorridere. Neppure il giudice interruppe Freeman, che continuò rivolgendosi direttamente ai giurati. "Per amore di discussione, ammettiamo che Jennifer fosse in casa, al piano di sopra, quando è arrivato Fred Rivera. Diciamo che Larry e Matt sono stati uccisi un minuto più tardi, alle nove e trentadue. Se Jennifer Witt è uscita immediatamente, avrebbe dovuto percorrere due chilometri e settecento metri in dieci minuti e cioè circa quattro minuti al chilometro, una velocità quasi degna di un'atleta John T. Lescroart
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professionista. Jennifer Witt non può avercela fatta." La Villars, che per un momento s'era lasciata incantare dalla retorica, si scosse e lanciò un'occhiata dura a Powell: senza dubbio, pensò Hardy, si domandava perché lasciava fare alla difesa senza obiettare. Ma il procuratore non reagì. Si alzò mentre Freeman tornava al suo tavolo, si rassettò la giacca e si passò le dita fra i capelli. "Signora Reed," esordì. "Le risulta che l'orologio del suo Bancomat sia esatto?" "Lo sa," Hardy mormorò a Freeman. "Com'è possibile?" Freeman scosse la testa e strinse le labbra. La signora Reed si sforzò di ribattere. "Non sono sicura di aver capito la domanda. Esatto? Vuol sapere se segna il tempo esattamente? Direi di sì." "Non è questo che intendevo." Powell le sorrise e si rivolse ai giurati. "In questo processo abbiamo sentito parlare di tempi, del computer della Federai Express, del centralino del 911, del Bancomat, e vorrei sapere se sono tutti collegati da un unico, grande computer o qualcosa del genere." La signora Reed aveva capito dove voleva andare a parare, ma non poteva farci niente. E la verità emerse. Naturalmente Powell si finse stupitissimo. "Vuol dire che la difesa sapeva dello scarto di tre minuti e che il signor Freeman non si è degnato di parlarne?" La Villars, notò Hardy, stava quasi sorridendo, e questo era agghiacciante. "Sì." "Perché non ne ha parlato lei? Non le sembrava importante?" "Sì, ma il signor Freeman aveva detto che avrei potuto passare qualche guaio." "E come?" "Non lo so. Forse con la polizia. Almeno così ha detto il signor Freeman." Hardy si coprì gli occhi con le mani. Powell proseguì. "Quindi con la differenza di tre minuti abbiamo un percorso di tredici minuti, no? Un'andatura di oltre cinque minuti al chilometro, veloce ma realizzabile anche da chi non è un atleta." "Non saprei..." La signora Reed stava per piangere per la paura o per la rabbia di essere stata messa in quella situazione. John T. Lescroart
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"Obiezione!" Ma la Villars si limitò a puntare il mazzuolo. "Non si azzardi, signor Freeman," ingiunse. Powell attese, soddisfatto, poi continuò: "Dato che la difesa ha portato l'ingrandimento della carta stradale, esaminiamola. Lei ha testimoniato che la distanza è di due chilometri e settecento metri, giusto?" "Sì." "Ma guardi qui: la linea rossa costeggia la proprietà dell'UCSF Medicai Center. La conosce?" "Sì, è in fondo alla strada. Qualche volta vado lì a pranzare." "Vuol dire che la proprietà non è chiusa al pubblico? Ci può passare chiunque?" "Io lo faccio sempre." "Signora Reed, le dispiace prendere il pennarello rosso e tracciare una linea attraverso la proprietà del centro medico in modo che la giuria possa vederlo?" In aula, tutti erano attentissimi. Era quasi una linea retta che andava dal Midtown Terrace Playground, in fondo a Olympia Way, fino a Parnassus Street. "È una zona pianeggiante, signora Reed?" "Obiezione." "Respinta," disse il giudice Villars. "No, signore, è tutta in salita." "Cioè in discesa partendo da Olympia Way?" "Sì." "Dunque," concluse Powell, "se lei attraversasse il centro medico dovrebbe percorrere appena ottocento metri, calcolati a volo d'uccello, e tutti in discesa. Anche se l'imputata fosse uscita di casa alle nove e quaranta, avrebbe quasi potuto coprire la distanza camminando..." Venerdì Hardy non ne poteva più di stare in ufficio, di andare da Freeman o al carcere per parlare con Jennifer, e di guardare le vetrine dei negozi. L'attesa del verdetto era un inferno. E, se avessero perduto, il caso sarebbe diventato esclusivamente suo. Cominciava a rendersi conto che Freeman non sarebbe stato presente in aula con lui perché ormai il suo compito era concluso. Avrebbe presentato appello, se fosse stato necessario; avrebbe chiesto un nuovo processo o l'annullamento del verdetto: ma in aula non avrebbe più avuto un ruolo John T. Lescroart
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attivo. Quando Freeman gli aveva chiesto di occuparsi della fase della condanna, Hardy non si era reso completamente conto delle implicazioni. Avrebbe dovuto farlo, si diceva. Adesso sarebbe stato solo e avrebbe avuto la responsabilità di convincere dell'esistenza di circostanze attenuanti la stessa giuria che aveva ritenuto colpevole Jennifer, se l'avesse ritenuta colpevole. Sarebbe stato compito suo salvare Jennifer dalla camera a gas. Ma naturalmente tutto ciò lo riconduceva alla convinzione che la giuria avrebbe potuto giudicare Jennifer colpevole. Non aveva l'impressione che l'accusa avesse fatto un lavoro incontestabile e avesse dimostrato che Jennifer aveva ucciso il marito e, accidentalmente, anche il figlio. Ed era certo che Freeman non si fosse comportato da inetto, anche se a volte aveva commesso errori di giudizio. No, se i giurati avessero ritenuto Jennifer colpevole, l'avrebbero fatto perché erano pervenuti alla conclusione che era una bugiarda fredda ed egoista, aveva derubato e tradito il marito, aveva manifestato collera anziché contrizione... ed era del tutto capace di commettere il reato del quale era accusata. E adesso, se i giurati credevano che fosse davvero così, non avrebbero ritenuto poco plausibile che meritasse la condanna a morte... Hardy aveva chiesto a Frannie di lasciare i bambini con Erin per un paio d'ore e di pranzare con lui. Erano accanto alla scrivania di Phyllis ad aspettare Freeman che si era autoinvitato, quando il telefono squillò. Phyllis rispose, ascoltò, annuì un paio di volte, ringraziò, riattaccò, e, come se avesse dimenticato la presenza di Hardy e Frannie, premette il pulsante dell'intercom. "Signor Freeman, la giuria sta per rientrare." Il settore riservato al pubblico s'era riempito di rappresentanti dei media. Hardy trovò un posto per Frannie accanto a un cronista che conosceva, in seconda fila. Jennifer fu accompagnata al tavolo della difesa. Indossava una camicetta bianca, una gonna nocciola a portafoglio e scarpe con i tacchi bassi. Freeman le batté la mano sulla mano, ma lei non mostrò di accorgersene. Sedette senza tradire la minima emozione. Quando la Villars glielo ordinò, si alzò in piedi e guardò davanti a sé. Il giudice ricevette il foglio dal cancelliere, lo lesse attentamente e lo restituì. John T. Lescroart
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"Per il primo capo d'imputazione, questa giuria ritiene l'imputata Jennifer Witt colpevole dell'omicidio premeditato di Larry Witt, con circostanze aggravanti." Hardy si sentì girare lo stomaco. Voltò la testa e notò che la reazione di Jennifer era quella che aveva previsto... inesistente. No, non proprio. Un muscolo guizzava all'attaccatura della mascella, ma a parte quello sembrava stesse aspettando che scattasse un semaforo. Lanciò un'occhiata al palco dei giurati. L'avevano notato. E stavano pensando che era una donna fredda. Dietro di loro s'era levato un brusio insistente; ma la Villars, con un colpo di mazzuolo, fece tacere tutti. "Per il secondo capo d'imputazione," lesse il cancelliere, "questa giuria ritiene l'imputata colpevole dell'omicidio premeditato di Matthew Witt, con circostanze aggravanti." Freeman le teneva il gomito. Non sembrava che Jennifer avesse bisogno di sostegno. Non crollerò. Non lascerò che mi pieghino. Ti aggrediscono ogni giorno, e la loro soddisfazione è vederti andare a pezzi. Allora crolli. Li supplichi di darti un'altra possibilità, prometti che farai di meglio, farai tutto ciò che vogliono. Cambierai, sarai diversa e non sarai più te stessa, purché smettano di farti male. Ed è sempre così. Soprattutto con Matt. Ma non lascerò più che si comportino così. È inutile piangere. Non è mai servito a niente con Larry, con Ned, con Ken e con gli avvocati. Se lascio trasparire ciò che provo, credono che faccia la commedia. Non sanno e, anche se sapessero, se ne infischierebbero. Perché voglio convincere tutti? Di che cosa? Voglio convincerli che non sono un mostro? Perché dovrei prendermi tanto disturbo? Naturalmente mi hanno ritenuta colpevole. Lo hanno fatto sempre... Sono colpevole, in un certo senso. È colpa mia se sono finita qui, se sono diventata ciò che sono... svuotata, finita. Se lasci che ti maltrattino abbastanza a lungo, alla fine la tua vera personalità sparisce. Si nasconde. Non gli darò più questa soddisfazione. È già qualcosa. Forse un inizio... "Sinceramente, non credevo che l'avrebbero ritenuta colpevole." Il vento del tardo pomeriggio scompigliava i capelli di Freeman. Il cielo era una John T. Lescroart
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coltre grigia sopra il palazzo di giustizia. Hardy cingeva con un braccio la vita di sua moglie che si sentiva male e teneva una mano premuta sullo stomaco. Aveva atteso fino a che l'aula si era vuotata, fino a che Hardy non era tornato dopo essere andato a conferire con Freeman e Jennifer nella stanza privata, dove Jennifer non aveva voluto parlare di nulla. Con Freeman, almeno. Aveva detto a Freeman, con un sorriso furente, che poteva considerarsi fortunato perché s'era fatto pagare in anticipo. Se avesse immaginato che avrebbe perso... Ma non doveva essere il migliore? Freeman aveva risposto che non era ancora finita, che avrebbe preparato l'appello. C'erano varie motivazioni... Hardy aveva ascoltato per un po', ma poi s'era scusato: avrebbe parlato con Jennifer più tardi, senza che fosse presente Freeman. Era tornato da Frannie. Lei voleva andare a casa. Ma Freeman li aveva raggiunti sulla scalinata. Aveva intenzione di presentare appello. "È tutto imperniato su quei tre minuti..." Hardy si sentì in dovere di dire qualcosa. "È stata colpa mia. Credevo che fosse decisivo." Freeman gli batté la mano sul braccio. "Sciocchezze. Avrei dovuto controllare io il percorso. Se c'era una possibilità che Jennifer arrivasse alla banca in cinque minuti anziché in undici avrei dovuto accertarlo. Comunque, probabilmente potrò ottenere un nuovo processo. La Villars avrebbe dovuto annullare questo dopo aver accolto il mio 1118." Hardy preferiva non discuterne. Disse invece: "Forse avresti dovuto controinterrogare Lightner. Se avevano una relazione, avremmo potuto sostenere che lui aveva un movente non meno valido di quello di Jennifer". Freeman scosse la testa. "Se," disse, "e se potessimo provarlo e se lui non avesse un alibi. No, temo che Lightner avrebbe dato un altro movente a Jennifer. Meno i giurati lo vedevano e meglio era." Frannie intervenne. "Vi prego. Non mi sento bene, Dismas." Guardò Freeman. "Scusami, David, ma l'ho presa male. Non è stata Jennifer. Com'è possibile che l'abbiano ritenuta colpevole?" Una raffica di vento li investì e interruppe Freeman che stava per dire qualcosa. Si avvicinò e li cinse entrambi con un braccio. "Vai a casa, Frannie. Riposati. Diz, vai anche tu."
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In macchina, Frannie piangeva in silenzio. Hardy aveva messo in moto il tergicristallo sotto la pioggerella. La moglie gli prese la mano fra le proprie. "Sei più sconvolta di lei." Frannie scosse la testa. "No, lei fingeva soltanto di restare impassibile." "Se c'è riuscita è di un'abilità sovrumana." Frannie annuì e disse che doveva essere così. "Non ha ucciso Matt, Dismas. E non ha ucciso neppure Larry. Io le credo ancora." Hardy lanciò un'occhiata alla moglie. Le strinse le mani. Non sapeva che dire.
QUARTA PARTE 40 Hardy aveva la tendenza di continuare a insistere fino a quando qualcosa non cedeva; ma Frannie gli aveva insegnato, in un paio di occasioni, che non era male fare un passo indietro e guardare nella direzione in cui si esercitava la pressione. Una prospettiva diversa poteva risultare più chiara. In un primo momento aveva pensato di andare a parlare con Jennifer, ma il lunedì mattina si rese conto che, chissà come, durante il fine settimana, aveva deciso di andare a far visita a Ken Lightner. Fin dall'inizio Lightner era stato, se non una spina, una presenza continua; comunque il suo coinvolgimento era maggiore di quanto Hardy avesse sospettato all'inizio, e adesso voleva approfondire. Non solo: ma stava riprendendo in considerazione la teoria della moglie maltrattata. Lo riteneva un dovere. I giurati avevano deciso che Jennifer aveva ucciso Larry e Matt, ma Hardy pensava che fosse possibile convincerli che non era una delinquente incallita, se avessero saputo quante volte era stata picchiata. Valeva la pena di tentare. Non aveva molte altre possibilità. Lightner era sembrato sollevato quando Hardy l'aveva cercato. Forse si era sentito messo al bando da quando s'era parlato della relazione e gli avvocati non avevano voluto trascinarlo sotto la luce dei riflettori nel timore che il suo rapporto con Jennifer desse la sensazione di costituire un movente in più per spingerla a togliere di mezzo il marito. John T. Lescroart
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Lo studio era di fronte a Stern Grove, in un grande complesso tutto vetri marrone, circondato dagli alberi con il parcheggio semipieno di lussuose automobili tedesche. Nonostante il sole, l'autunno era nell'aria. Hardy parcheggiò e aspirò l'odore di eucalipto e di fumo di legna. Lo studio di Lightner occupava quasi tutto uno dei moduli sul retro del palazzo. Hardy suonò, attese ed entrò in un corridoio dai colori smorzati. Alle pareti c'erano sette o otto quadri astratti. La figura massiccia di Lightner apparve in fondo al corridoio. "Benvenuto, signor Hardy." Gli strinse la mano e lo presentò a Helga, la segretaria, poi lo condusse nel proprio ufficio, una stanza relativamente piccola ma tutta nei toni verdi, pelle, legno intagliato e vetro, con le finestre affacciate sul bosco. Hardy evitò il divano e scelse una delle due poltrone di pelle. Lightner lasciò aperta la porta e sedette. "Vengo subito al dunque," esordì Hardy. "Lei è andato in Costarica per una settimana ed è stato con Jennifer." Lightner aggrottò la fronte. "Dobbiamo ricominciare? Mi pareva di averne già parlato con il signor Freeman." "Freeman?" Già, Freeman doveva averne discusso con Lightner. Subito dopo il processo aveva detto che Lightner l'aveva convinto di non aver avuto rapporti intimi con Jennifer. Sul momento Hardy non vi aveva fatto caso. Lo psichiatra annuì. "Che altro c'è, signor Hardy? Anche lei vuole assicurarsi che non abbia violato l'etica professionale e non abbia fatto l'amore con la mia paziente?" "Dottor Lightner, la sua paziente e amica Jennifer mi ha detto che le cose stavano diversamente." Jennifer non l'aveva detto: ma se poteva servire a trovare un'attenuante per lei, un'alternativa... Lightner lo fissò, dapprima scandalizzato, poi triste. "Signor Hardy, questo mi è molto difficile crederlo. Ma se Jennifer lo ha detto, lo ha fatto per ragioni psicologiche. Le assicuro che non ho avuto rapporti intimi con la mia paziente. L'ho testimoniato. E pensavo che il signor Freeman mi avesse creduto." Hardy alzò le spalle. Si sentiva a disagio per ciò che stava facendo. "Quindi come ci ritroviamo, dottor Lightner? Voleva aiutare Jennifer e, mi creda, sarei felice se potesse farlo. Quindi..." John T. Lescroart
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Lightner si alzò, andò ad aprire una porta che dava su un patio e fece un cenno a Hardy, che si alzò a sua volta e lo seguì. "Sono pronto a sottopormi alla macchina della verità, se vuole. Sa che sono molto affezionato a Jennifer, ma non posso tollerare che mi si attribuisca una relazione con una paziente. Mi dispiace, ma Jennifer non dice la verità." Hardy desistette. "Mi scusi. Sono io, quello che non ha detto la verità. È stato un pessimo tentativo." "Bene, ecco quel che è successo, come ho detto al signor Freeman..." Lightner e Jennifer avevano alloggiato nella stessa camera d'albergo in Costarica perché quando lui era arrivato Jennifer si era spaventata di nuovo: s'era resa conto che non era andata a rifugiarsi molto lontano, se lui poteva raggiungerla in così poco tempo. Hardy dovette fare uno sforzo per accettare la spiegazione, anche se era plausibile dal punto di vista di Lightner; comunque, aveva bisogno di lui per avere qualche possibilità di salvare la sua cliente. Era a questo che doveva pensare: infatti non era probabile che l'appello di Freeman venisse accolto. Helga aveva portato il caffè e i due uomini erano rientrati nell'ufficio. Adesso erano più sereni, anche se non erano veramente alleati. Lightner non approvava, disse, che Hardy gli avesse mentito. Comunque s'erano incontrati a mezza strada e lavoravano per ottenere lo stesso risultato. Hardy tenne la tazza del caffè in bilico sul ginocchio. "Personalmente, che cosa pensa della situazione, dottore?" "Io credo a Jennifer, signor Hardy. Ma, come ho detto, se è stata lei, è stata costretta a farlo. Non è una difesa frivola." Lightner posò la sua tazza e intrecciò le dita. "Non ho mai capito l'idea del signor Freeman..." "Obbediva al desiderio della sua cliente che non voleva si parlasse dei maltrattamenti. Proprio come ha fatto lei." "Ma resta il fatto che ha perduto. Jennifer ha perduto." Lightner alzò una mano. "Secondo me, avrebbe potuto chiamare vari testimoni, me incluso. Ha parlato con qualcuno dei medici di Jennifer?" Poi, quando Hardy annuì, continuò: "Allora sa che i maltrattamenti c'erano stati. Poi c'erano altre persone con cui ho parlato... La madre, per esempio. Maltrattata anche lei. E Helga ha visto Jennifer venire qui zoppicando per il dolore. Era una situazione classica. Larry Witt la stava letteralmente ammazzando di botte". John T. Lescroart
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"Ma Jennifer aveva ordinato a Freeman di non parlarne." "Non doveva ascoltarla. Era il suo avvocato e aveva il compito di scagionarla, non di lasciarla condannare. Jennifer è una vittima." Hardy alzò la voce: "In questo caso gli avrebbe tolto il mandato, non capisce?" Lightner fece una smorfia. "Perché?" "Se Jennifer ammettesse di essere stata picchiata, ai suoi occhi sarebbe come confessare di aver ucciso Larry. E se ha ucciso Larry, ammette anche di aver ucciso Matt." "Non deve ammettere niente, vero?" ribatté Lightner. "Può chiamare tutti i testimoni che le ho indicato, farli parlare di ciò che avevano visto. Io potrei intervenire come esperto: mi è già capitato. È un tipo di smentita piuttosto comune. Discuterei la sindrome e lascerei che fossero i giurati a trarre le conclusioni." "E cioè che Jennifer ha ucciso Larry perché la picchiava?" "L'hanno già riconosciuta colpevole... Questo non aggraverebbe la sua posizione, e forse sarebbe utile rivelare ai giurati che cosa ha passato. Se non altro, potrebbe ispirare un po' di comprensione. Quella donna non ha fatto altro che soffrire per tutta la vita. Forse lei può interrompere il ciclo." Lightner l'accompagnò alla macchina. Quando Hardy aprì la portiera, lo psichiatra prese un biglietto da visita dal portafoglio. "Credo che vedrò Jennifer oggi, ma lei mi chiami pure quando vuole, se pensa che possa aiutarla, magari per cercare di convincere Jennifer ad accettare una linea di difesa." "Non va a casa?" Sulle labbra di Lightner apparve un sorriso forzato. "La casa è stata assegnata alla mia ex moglie e ai miei figli. Ho un appartamentino dietro lo studio... camera da letto, cucina e quel poco che sono riuscito a salvare. Ma non ha importanza. La percentuale dei divorzi è piuttosto elevata fra gli psichiatri. Spesso riusciamo a gestire le vite altrui meglio delle nostre." "Signor Hardy?" Phyllis l'aveva chiamato all'intercom. "Qui c'è un certo Emmett Kelly che vuole parlarle." Hardy spostò i fascicoli con un sorriso. "Lo faccia salire." Dopo un minuto Abe Glitsky apparve sulla soglia. "Non ho saputo resistere," disse. Andò alla finestra, guardò Sutter Street, poi sprofondò sul divano e John T. Lescroart
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appoggiò la testa sul bracciolo. "Ho pensato di prendermi un pomeriggio di libertà e di fare un sonnellino." "Invece..." Glitsky si risollevò a sedere. "Invece ho fatto di nuovo la figura dello stupido per aiutarti. Sono andato a parlare con i Roman e gli ho detto che dovevamo chiudere la pratica." "E che cos'hai scoperto?" Glitsky sfoggiò il suo sorriso terribile. La cicatrice che gli attraversava le labbra si stirò e si sbiancò. Non c'era allegria nei suoi occhi. "Ho scoperto che non sanno assolutamente cos'hanno fatto il lunedì dopo Natale, e questa è per te la peggiore delle notizie." "Perché?" "Perché," e Glitsky alzò un dito con aria professorale, "se fossero colpevoli e avessero inventato un alibi, credo che l'avrebbero ricordato e ne avrebbero parlato. È così che si comportano i colpevoli. Invece si sono limitati a guardarsi in faccia." Glitsky si alzò. "Non ne avevano la più lontana idea, Diz. Niente da fare." Ormai non era più una sorpresa. "Be', almeno so di aver preso in esame anche questa possibilità." Poi Hardy ricordò l'altra cosa che aveva intenzione di chiedere all'amico. "Tu hai presentato un rapporto sulla visita alla banca che abbiamo fatto insieme, no? La faccenda dei tre minuti." Glitsky si era avvicinato al bersaglio e adesso stava tornando verso la scrivania di Hardy dopo aver divelto una delle freccette. "Sicuro. Ero in servizio. Pensavo che potesse servire a Terrell. Perché?" Hardy alzò le spalle. "Niente. Così." Il primo giorno era quasi terminato e gli restavano altre quattro giornate lavorative perché la Villars aveva concesso una settimana a tutti prima dell'inizio delle udienze per la decisione sulla sentenza. Hardy era contento di avere un po' di tempo per prepararsi, ma la possibile ragione lo irritava: Powell era sulla dirittura d'arrivo per le elezioni e sembrava che la Villars volesse spianargli la strada. Naturalmente Hardy non poteva provarlo, ma questo non bastava a sopire i suoi sospetti. Freeman non era in ufficio: meglio così. Hardy era stufo di lui e dei suoi istrionismi. Era stufo anche di se stesso e delle proprie esitazioni: ogni volta che aveva avuto un'occasione, aveva fatto marcia indietro di fronte John T. Lescroart
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alla decisione e alla personalità del collega. Avrebbe dovuto assumere una posizione irriducibile almeno mezza dozzina di volte. Ma un po' aveva voluto credere che Freeman avesse ragione e che avrebbe vinto; un po' aveva pensato che, se Freeman avesse vinto, lui non avrebbe avuto il compito tremendo di tentare di salvare la vita di Jennifer. Aveva desiderato liberarsi della responsabilità al punto di convincersi che le strategie di Freeman avrebbero probabilmente funzionato. Si era rimproverato l'inefficienza. Più volte era andato in macchina da Olympia Way fino a Haight Street, cercando di scoprire una scorciatoia che minasse la sua argomentazione sul tempo impiegato da Jennifer per arrivare alla banca. Ma c'era un filo comune. Non aveva mai dubitato che Jennifer avesse seguito il percorso che aveva detto. Hardy aveva consultato la carta stradale. No, era convinto che non ci fossero delle lacune. Anche se Jennifer avesse preso una scorciatoia, purché fosse rimasta sulla strada non avrebbe potuto raggiungere la banca e uccidere Larry. Adesso si rendeva conto di aver ignorato il centro medico dell'UCSF che occupava circa dieci isolati fra la casa dei Witt e la banca. Sì, l'aveva visto, ma non era mai sceso dalla macchina per attraversarlo a piedi. Perché non l'aveva fatto? Perché era troppo furbo per il suo bene, per il bene di Freeman e soprattutto per quello di Jennifer. Tutti i suoi calcoli attentissimi sui tempi e le distanze, in realtà non avevano il significato che gli aveva attribuito. Aveva gettato Freeman nelle fauci di Powell. E secondo lui era stato questo, più dell'egocentrismo e degli errori tattici del suo collega, a costar loro il verdetto. Almeno in teoria, Hardy si era sempre considerato favorevole alla pena di morte: eliminava la possibilità che un assassino uccidesse altre vittime, sia che venisse liberato sulla parola, sia che venisse rinchiuso in carcere con una condanna all'ergastolo. Aveva abbracciato quella che chiamava la teoria della zanzara: se uccidi la zanzara che ti punge, fai almeno in modo che quella zanzara non ti punga più. E così, se non altro, hai meno zanzare nella popolazione. Ma conosceva Jennifer, e lei non era una zanzara. Capiva perché l'aveva fatto, se l'aveva fatto. E pensava che non meritasse la condanna a morte. Qui, almeno in generale, si trovava su un terreno poco solido. Ogni John T. Lescroart
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assassino aveva qualcuno che lo conosceva, qualcuno che sapeva perché riteneva giusto uccidere per esprimere rabbia o frustrazione. L'altra faccia della medaglia, naturalmente, era che anche le vittime avevano qualcuno che le amava e che adesso avevano il cuore spezzato. Per non parlare poi delle stesse vittime. Non avevano chiesto di essere uccise. Non avevano fatto niente di male ma erano morte, e a questo punto Hardy tirava una linea: chi uccideva un innocente meritava di morire. Hardy credeva che a un certo punto gli adulti inseriti in una società dovessero assumersi la responsabilità di ciò che erano, di ciò che erano diventati. Se un adulto diventava un assassino, non meritava riguardi. Adios, hai avuto la tua occasione e l'hai sprecata. Era innegabilmente una tragedia. Era una tragedia che tanti bambini cominciassero male la vita e che tanta gente diventasse malvagia. Ma così andava il mondo. Era molto peggio concedere ai malvagi la possibilità di continuare a commettere cose atroci. Ma una come Jennifer, che aveva avuto due mariti ed era stata picchiata e maltrattata da tutti e due? Jennifer, che aveva vissuto una vita d'inferno? Lei che cosa c'entrava?
41 L'indomani mattina, mentre si preparava ad andare a parlare con Jennifer in carcere, squillò il telefono. "Signor Hardy? Sono Donna Bellows dello studio legale Goldberg Mullen & Roake." Hardy riconobbe la voce. Donna Bellows, l'avvocato che aveva consigliato a Jennifer di rivolgersi a Freeman, era un'altra pista che lui non aveva seguito abbastanza. Ricambiò il saluto con una certa diffidenza. "Durante il fine settimana ho saputo del verdetto e ieri ero fuori città, ma ho ricordato che non l'ho mai richiamata. Mi scusi. Forse adesso è troppo tardi." "Non è mai troppo tardi, se ha trovato qualcosa," replicò Hardy. "Sono sicuro che David Freeman stia già preparando l'appello." "Ecco, non credo di aver trovato niente d'importante." Hardy attese un momento. "Io ho saputo che Crane & Crane era lo studio legale dell'YBMG, anche se la cosa potrebbe non avere legami con Larry Witt..." John T. Lescroart
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Donna Bellows sospirò. "L'ho saputo anch'io. Un paio di settimane fa ho cercato di mettere un po' d'ordine nelle mie pratiche. E ho trovato qualcosa che avrebbe dovuto essere nel fascicolo di Larry e invece era fuori posto. Comunque non credo che sia significativo." "Che cos'è?" "Un prospetto. Larry me l'aveva mandato e mi aveva chiesto qualche precisazione, ma ero via per le vacanze di Natale." "Forse per questo aveva chiamato Crane... per avere spiegazioni." "Gli aveva telefonato? Direttamente?" "Una volta. Da casa." "Sì, ma quando ho visto il prospetto, Larry era morto. Così non ci ho più pensato. I quesiti che mi aveva sottoposto ormai non avevano importanza. Ma forse le interessa conoscerli." Hardy esitò un momento: ma non fare domande era il modo più sicuro per restare nell'ignoranza. Ammise di non sapere che cosa fosse un prospetto. "È un opuscolo che espone un'offerta di azioni. In questo caso, l'YBMG si stava riorganizzando per abbandonare la posizione giuridica di ente senza fini di lucro. Larry aveva qualche dubbio e perciò mi aveva cercata. Dato che non c'ero, si è rivolto ai diretti interessati." "Sotto il numero telefonico di Crane & Crane aveva scritto: 'No!'" "Probabilmente aveva deciso di non investire. Non mi sembra che fosse un buon affare, comunque." Era tutto. Hardy, deciso a essere molto meticoloso, pregò la signora Bellows di mandargli una copia del prospetto, e lei rispose che glielo avrebbe fatto avere quel pomeriggio. Indossava la tuta rossa ed era spettinata. Le guardie la fecero entrare e lei si fermò a braccia conserte appoggiandosi alla porta chiusa. Aveva chiesto a Hardy di portarle un pacchetto di sigarette, e lui gliene porse subito una. Ufficialmente, nel carcere della contea di San Francisco era vietato fumare, ma i detenuti riuscivano a far entrare le sigarette e le vendevano come vendevano la cocaina, la marijuana e l'eroina. Jennifer socchiuse gli occhi e lo fissò attraverso il velo di fumo. "E adesso?" chiese. "Parliamo dei maltrattamenti che subiva da parte di Larry." John T. Lescroart
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Jennifer parve chiudersi in se stessa. "E l'avrei ucciso per questo?" Hardy annuì. "È la nostra arma migliore. Lo è sempre stata." Si avvicinò di un passo ma lei lo fermò con un'occhiata. "Come va?" le chiese gentilmente. Jennifer rise per un momento, poi tossì, soffocata dal fumo della sigaretta. "Benone. Mi piace star qui." Le lacrime le scorsero sul viso. Hardy cercò ancora di avvicinarla, ma lei lo bloccò con un gesto. "Stia lontano." Appoggiò una spalla alla porta e cercò di dominare i singhiozzi. La sigaretta cadde sul pavimento. "Non sono io..." Dopo tutte le altre scene, quella non era una commedia. Parlava a se stessa. "Non posso essere finita qui." Hardy non sapeva che fare, che dire. Anche lui aveva in parte la stessa reazione: non era la realtà, non potevano essere lì. Eppure c'erano. Prese una sedia, la girò, sedette a cavalcioni. Incrociò le braccia sullo schienale e attese. Alla fine Jennifer dovette sedersi. Appoggiò un braccio sul tavolo. "Non so perché avesse bisogno di fare così." "Chi?" "Larry. Ho sempre cercato di essere una buona moglie, una buona madre. Ma so che cosa sono. Credo che lo sapesse anche Larry, forse meglio di me. Cercava di proteggermi da me stessa, penso, di impedirmi di sbagliare... E non era carogna come Ned. Anche quando si arrabbiava non era carogna... Piuttosto, era come se facesse il suo dovere." "Per tenerla in riga?" "Non succedeva tutti i giorni. A volte, magari per un paio di settimane, non succedeva niente. Ma poi mi prendeva la sensazione che, se non avessi fatto qualcosa, qualcosa per me, sarei impazzita. Un paio di volte mi sono comportata come una pazza. Tiravo gli oggetti, provocavo il caos in casa. Mi abbandonavo alla rabbia. Capisce di che cosa sto parlando? So che deve sembrarle strano." "Ma non poteva lasciare suo marito?" Jennifer batté il pugno sul tavolo. "Non volevo. Amavo Larry e... Oh, Dio, amavo Matt. Non era come con Ned. Speravo che un giorno avremmo risolto tutto." Era il discorso più franco e più triste che gli avesse fatto, pensò Hardy: ma perché servisse a qualcosa doveva saperne di più. "Scusi se glielo chiedo, Jennifer, ma... e Ken Lightner?" John T. Lescroart
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Sembrava che Jennifer se lo aspettasse. Annuì. "Gli ho parlato. Mi ha raccontato che lei gli ha mentito, ha inventato che le avevo detto d'essere andata a letto con lui. Non intendo fingere di non provare un forte sentimento per Ken. Ma no, non pensavo di lasciare Larry e Matt per lui. Ne avevamo parlato; io avrei voluto, all'inizio. Ma Ken mi aveva fatto capire che era sempre lo stesso comportamento: facevo qualcosa che sapevo che era sbagliato, in modo da essere punita. Ken diceva che dovevo spezzare il cerchio e non fare cose sbagliate. Così non avrei più pensato che meritavo la punizione." "E Ken? Che cosa crede che provi per lei?" Jennifer scrollò le spalle. "Mi giudica attraente. Me l'ha detto, quindi non credo che volesse rifiutarmi." Stava a testa bassa e la sua voce si sentiva appena. "Gli uomini mi trovano attraente, ma quando mi conoscono un po' meglio non mi trovano molto simpatica." "Ken è rimasto dalla sua parte," disse Hardy. "E questo è importante." "Credo di sì." Hardy respirò profondamente: era venuto il momento. "Se potremo parlare di Ken, mettere a tacere la diceria della vostra relazione, spiegare esattamente ciò che mi ha appena detto, che era crollata e si comportava come una pazza... credo che avremo una possibilità." Jennifer si limitò a guardarlo. "Possiamo chiamare un altro psichiatra o lo stesso Ken, se vuole, per chiedere clemenza in base allo stress cui era sottoposta." Lei scuoteva la testa. "Come?" "No. L'ho detto a Ken. No." "Hardy tacque. Perché no?" "Anche in questo caso sarebbe come dire che li ho uccisi io, no? Direi che una mattina ho perso la testa e li ho uccisi." Aveva rialzato il capo e i suoi occhi avevano ripreso vita. "Se lo dicessi, davvero non ci sarebbero più speranze." Era un déjà vu. Hardy ci aveva pensato un milione di volte. Se Jennifer non avesse detto qualcosa di nuovo, la giuria si sarebbe pronunciata per la pena capitale. Possibile che non lo capisse? "Non dirò a nessuno, mai, che ho ucciso Larry." Hardy sostenne il suo sguardo di sfida. Notò che non aveva parlato di Matt. Riusciva a pronunciare il nome di Larry, non quello del figlio. John T. Lescroart
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Poteva lasciare che altri, Ned o Larry, la dominasse fino a un certo punto; ma quando si sottraeva al loro potere era padrona di sé. Pensò anche che Jennifer era cambiata, in quell'ultimo anno: forse aveva deciso non soltanto che non avrebbe più resistito con Larry, ma nemmeno con qualunque altro uomo. Era diventata energica, era guarita dalla sottomissione cronica che l'aveva spinta a subire i maltrattamenti. Tanto meglio per lei, pensò Hardy. Ma da un punto di vista strategico non avrebbe potuto capitare in un momento più pericoloso. Che cosa avrebbe detto ai giurati? Che cosa poteva dire per indurli a risparmiarle la vita? Dato che era nel palazzo, pensò di fermarsi un momento nell'ufficio di Dean Powell, al terzo piano, per vedere se trovava il tempo di lavorare mentre era impegnato nella campagna. Era in ufficio e stava leggendo un rapporto. Dopo un momento di sorpresa, riemerse il candidato in tutta la sua cordialità. "Hardy! Avanti, avanti!" Poteva permettersi il lusso di essere garbato. Dopotutto aveva vinto. "Come sta Freeman? Spero che non se la sarà presa troppo. Dovrei telefonargli per congratularmi: si è battuto molto bene." Hardy chiuse la porta ma non si avvicinò alla sedia davanti alla scrivania. "Voglio essere franco con te. In via non ufficiale, d'accordo?" Il sorriso non sparì, ma diventò un po' sghembo. Powell tornò a sedere. "D'accordo. Immagino che si tratti di Jennifer Witt." Hardy annuì. "Parlo in via non ufficiale," ripeté. "Non voglio che venga interpretata come una conferenza prima della condanna e preferirei che quanto diremo non uscisse da questa stanza." "Hai la mia parola." Hardy pensò che quella frase sapeva di insincerità, se non addirittura di doppiezza. Ma era deciso ad andare sino in fondo. "Vorrei parlare della pena di morte." Powell intrecciò le dita sulla scrivania. "Bene. Parla pure." "Non penso che sia giusta." Il procuratore attese in silenzio. "Sappiamo bene che ci sono in giro individui con fedine penali così lunghe da far sembrare Jennifer una santa; e se la cavano con dieci anni per rapina a mano armata nonostante i precedenti, e finiscono per scontarne soltanto sei." John T. Lescroart
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"È vero. È una delle ragioni che mi hanno spinto a candidarmi alla carica di procuratore generale. Tutto questo deve finire. Ci vogliono condanne più dure." Hardy non aveva voglia di ascoltare un discorso elettorale. "Quello che voglio dire è che è un'esagerazione chiedere la pena di morte per Jennifer Witt." Powell lo fissò. "Una donna che ha ucciso non uno ma due mariti..." Alzò la mano per prevenire la protesta di Hardy. "Non sottilizziamo. David Freeman l'ha spuntata in tribunale per il primo marito, ma conosciamo la verità. Quella donna ha ucciso due volte per denaro e nel secondo caso ha ucciso anche il figlio. Se questo non è un reato che merita la pena di morte, non so quale possa esserlo." Hardy puntò il piede contro la porta. "Hai parlato con lei? Da solo?" "Perché avrei dovuto farlo?" "Forse per capire che è un essere umano." Powell si assestò sulla poltroncina. "Lascia che ti faccia io una domanda... Hai cercato di visualizzare il delitto? Immagina una donna che prende una pistola, spara al marito e poi si gira e... e uccide il proprio figlio? Riesci a immaginarlo?" "Non è stata lei. Non è andata così..." Powell batté il pugno sulla scrivania. "Fesserie! È andata esattamente in questo modo. L'ha stabilito la giuria. Io l'ho dimostrato. Al di là di ogni ragionevole dubbio." Poi si dominò e abbassò la voce. "Se vuoi dire che una persona del genere è un essere umano, accomodati, ma non aspettarti che mi metta a piangere. O che dimostri clemenza." Bussarono alla porta e Hardy si scostò, l'aprì. Era Art Drysdale, il vecchio mentore di Hardy. "Tutto a posto? Come va, Dismas?" "Tutto bene, Art," disse Powell con calma. "Solo una piccola discussione tra colleghi." Drysdale li squadrò entrambi e richiuse la porta. "Pensi davvero che sia stata lei? Sai che il marito, Larry, la picchiava?" "E allora? Nessuno ha parlato di mogli maltrattate. Freeman non l'ha mai fatto." "Avremmo dovuto. Jennifer non voleva, ma aveva torto. Pensava che avrebbe prevenuto i giurati, che li avrebbe convinti che se ne serviva come giustificazione." Hardy sedette e spiegò in poche parole: 'Vorrei che considerassi questo fatto come legittima difesa". John T. Lescroart
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"Parlane in aula, e prenderò in considerazione questa possibilità. Non sono un mostro, Hardy." "Non posso parlarne. Ti ho appena spiegato il perché." "Non puoi parlarne?" Powell alzò gli occhi al soffitto, si passò le dita tra i capelli. Finalmente si decise. "È una mascalzonata." "Non..." "Non cercare di farmi venire i rimorsi proprio adesso, Hardy. Per essere sincero, è stato abbastanza difficile decidere di chiedere la pena capitale in questo processo, ma ho giocato secondo le regole fin dal primo momento. Non m'interessa il modo in cui la racconti: adesso stiamo parlando di circonvenzione del sistema; per quanto mi riguarda è una conversazione contraria all'etica processuale, e quindi va chiusa immediatamente." Si alzò, girò intorno alla scrivania e andò ad aprire la porta. "Ci vedremo in aula," disse. "Non prima." Adesso, nel suo ufficio, Hardy stava esaminando le varie possibilità. L'idea di Lightner di presentare testimoni delle sofferenze di Jennifer causate dal marito non era male... anzi, poteva guadagnarle qualche simpatia. Ma appena Jennifer avesse capito da che parte tirava il vento, avrebbe fatto una sfuriata in aula o avrebbe insistito per testimoniare che Larry non l'aveva mai picchiata. E allora, che cosa avrebbe fatto il lunedì seguente? Se la reazione di Powell era indicativa, Jennifer non aveva molti simpatizzanti in aula. Vestita in un modo che la separava dalla gente comune, seduta al tavolo della difesa con una faccia quasi sempre impassibile, non aveva fatto una buona impressione. Un'altra delle decisioni discutibili di Freeman. Arrivò il plico mandato da Donna Bellows. Hardy l'aprì. C'era la lettera di Larry Witt alla Bellows, una lettera di accompagnamento al prospetto e il prospetto stesso. Cara Donna, potresti dare un'occhiata a quanto allego? Come vedrai, il consiglio d'amministrazione dell'YBMG offre a tutti i medici l'opzione di acquistare azioni della nuova società a fine di lucro. Le azioni costano cinque cent ciascuna e il tono della lettera di accompagnamento e del prospetto è molto negativo... Ci sono John T. Lescroart
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poche o nulle possibilità che valga la pena di investire. Allora perché si prendono la briga di diffondere il prospetto? Mi preoccupa il fatto che il consiglio di amministrazione ci abbia dato tre sole settimane per esercitare l'opzione, e che abbia spedito la circolare adesso, per Natale, quando tanti medici sono in vacanza o alle prese con faccende familiari. Vedo che il numero massimo delle azioni che ognuno può acquistare è 368, quindi potenzialmente la massima esposizione finanziaria individuale è di 18,40 dollari, ma...” Hardy smise di leggere. Larry Witt, maniaco del potere e del controllo, aveva chiesto al suo avvocato da duecento dollari l'ora di informarsi su un prospetto che prevedeva un esborso massimo inferiore ai venti dollari? Doveva aver capito male, forse aveva frainteso la collocazione della virgola. Lesse di nuovo l'ultima riga: "la massima esposizione finanziaria individuale è di 18,40 dollari..." Scosse la testa, si alzò e decise di non lavorare più per quel giorno. Scese nella sala per le conferenze per vedere la partita della World Series alla televisione. Forse la sua squadra avrebbe vinto. Frannie era sdraiata sul divano. Guardava il marito e si sforzava di non addormentarsi. "No, ascolta, è interessante." Lei scosse la testa. "Ogni volta che dici così, non lo è." Hardy posò il foglio. "Un tempo eri una compagnia più divertente." Frannie inarcò le sopracciglia. "Mettiamo in chiaro una cosa. Sei qui in soggiorno in una bella sera d'autunno, non hai apprezzato la cena favolosa che avevo preparato, non hai neppure voluto il vino e negli ultimi dieci minuti non hai fatto altro che leggermi un prospetto con un'offerta di azioni che non valgono niente, e poi dici che una volta io ero una compagnia più divertente?" Hardy annuì. "Molto di più. Lo ricordo. So che la colpa non può essere mia." Frannie posò i piedi sul pavimento. "Bene, vieni qui." Lui si avvicinò. "Che cosa devo fare, Fran? Jennifer non vuole permettermi di servirmi dell'unico argomento che potrebbe salvarla." John T. Lescroart
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"Non credo che sia l'unica cosa che può salvarla. La vita di Jennifer con quel marito era un inferno: ma non l'ha ucciso, Dismas. Con me non ha mai mentito, neppure a proposito di Ned. Non ha mai negato di averlo eliminato: semplicemente non ha ha ammesso di essere stata lei, ecco. Ma ha negato risolutamente di aver ucciso Larry. Non aveva alcun motivo per mentirmi." Hardy invece pensava che ci fosse almeno una ragione per spingere Jennifer a mentire a Frannie: Frannie era la moglie del suo avvocato. Sarebbe stato utile se avesse creduto che lei non aveva ucciso Larry e Matt. Frannie continuò: "Non è soltanto intuito femminile. Dimentica quel che hai dimostrato. Anche se avrebbe potuto farlo, Jennifer non è passata attraverso il Medicai Center; probabilmente ha impiegato un quarto d'ora, non cinque minuti, per arrivare alla banca. E questo significa che non ha ucciso nessuno. Quindi, ciò che devi fare, come essere umano oltre che come avvocato, se vuoi davvero salvarla, è smettere di dubitare di lei, smettere di pensare che potrebbe essere colpevole". "Ma l'hanno già ritenuta colpevole. Quella parte del processo si è chiusa." "E io dico che non ha ucciso Larry e il suo bambino." "Non posso provare che non è stata lei. Aveva ucciso Ned..." "Era diverso." "Non tanto. Ned è morto. Larry è morto..." Frannie si alzò, si avvicinò al camino e per un minuto riordinò la piccola mandria di elefanti di bronzo che vi pascolavano. "Continuo a dire che pensi troppo da avvocato. Pensi alle argomentazioni che potrai presentare." "È il mio lavoro, Fran." Lei si voltò. "Non ti rimprovero, Dismas. Dico soltanto che non è stata lei. Questa è la realtà, non il verdetto della giuria." "È una realtà, Fran. La tua." "Ascoltami, accidenti. Se vuoi discutere, fai pure. Ma dimentichi una cosa importante." "Oh. Quale?" "Ma sì, arrabbiati pure. Sai quanto servirà." Hardy era già arrabbiato. Si era alzato di scatto. Chiuse gli occhi e trasse un respiro profondo. "D'accordo, scusami. Che cosa ho dimenticato?" "Se non è stata Jennifer, allora li ha uccisi qualcun altro, e l'ha fatto per John T. Lescroart
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una ragione." Hardy scosse la testa. "Ho esaminato tutte le possibilità... da solo, con Terrell e Glitsky e Freeman e con l'intero universo." "Allora ti è sfuggito qualcosa." "E se fosse stata Jennifer?" Frannie rimase irremovibile. "Non è stata lei. Credo che tu lo sappia. E io lo so. Powell ha capito tutto a rovescio." "Questo non lo so." Frannie stava già riattraversando la sala da pranzo. "Ho voglia di un bicchiere di vino. Più di uno. Puoi farmi compagnia oppure no. Non m'interessa." "Il sicario?" L'atmosfera s'era un po' addolcita. Erano le dieci e mezzo e avevano quasi finito una bottiglia di Chardonnay. Hardy aveva passato in rassegna tutti coloro che secondo Frannie avevano avuto un movente, e alla fine erano arrivati a esaminare la possibilità ventilata da lei, e cioè che una di quelle persone, pur avendo un alibi, avesse assoldato qualcuno per sterminare la famiglia Witt. Hardy scosse la testa. "Non pensi che un professionista avrebbe portato la sua arma? Hai mai sentito parlare di un sicario che spara con l'arma della vittima?" Frannie era semidistesa sul divano, con le gambe su quelle del marito. Bevve un sorso di vino. "Non lo so. Non è il mio campo." "E come avrebbe fatto a entrare o uscire?" "A piedi. C'è una porta sul retro? Una finestra? Io dico che doveva esserci qualcuno." "Il problema è che, anche se fossi d'accordo con te, questo ci riporterebbe alle indagini della polizia. E non hanno trovato nessun altro. Niente sicario, niente di niente." "Forse Abe..." Hardy scosse la testa. "Abe è un brav'uomo, ma per lui è un capitolo chiuso. Come per tutti gli altri. Ora tocca a me." Frannie finì il vino. "E non hai un argomento che possa salvare Jennifer, no?" "No. Lei non vuol saperne..." Frannie lo interruppe. "Allora d'accordo. C'è un'unica possibilità." John T. Lescroart
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"Ti ascolto." "Devi trovare chi li ha uccisi."
42 Hardy intuì subito che lui e Walter Terrell non erano più amici. Gli aveva telefonato alla squadra omicidi prima delle nove, l'indomani mattina, e avevano avuto una breve discussione. Quando Hardy aveva detto di avere un paio di domande da rivolgergli, Terrell aveva risposto: "Perché non va a farle a qualcuno disposto ad ascoltarle?" E aveva riattaccato. Terrell era stato il primo; ma quando sfogliò i fascicoli degli interrogatori e le copie dei rapporti della polizia, Hardy si rese conto di aver quasi esaurito l'elenco delle persone disposte a dirgli qualcosa. Tom e Phil DiStefano... meglio lasciar perdere. Nancy... era troppo spaventata, e a buon diritto. I Roman... non ci sarebbero stati appigli anche se avesse avuto un sospetto fondato, e non l'aveva. C'era Sam, l'impiegato gay della Mission Hills Clinic, ma era lontanissimo da un eventuale sospetto. Hardy scese di nuovo, seguì un'altra partita della World Series, bevve un caffè e chiacchierò con Phyllis. David Freeman era in ufficio con un cliente e Phyllis non voleva disturbarlo... ma in realtà Hardy non ci teneva. Sembrava che si trattasse di un altro caso d'omicidio. Comunque, doveva aver lavorato mentre era a casa: Phyllis aveva battuto a macchina quella mattina la prima parte dell'appello di Jennifer. Hardy tornò nel suo ufficio. Lanciò tre freccette... 20, 19, 18. E l'orologio continuava a ticchettare. Restava soltanto Ali Singh, il capufficio dell'YBMG. Hardy pensò d'invitarlo a pranzo per cercare di scoprire se c'era qualche altra possibilità finora inesplorata a proposito di Larry Witt. Forse aveva rubato i pazienti a un altro specialista? Anche se Singh giurava che Larry era benvoluto dai colleghi, a pensarci bene sembrava impossibile. Era stato un personaggio difficile con tutti, e gli ambienti di lavoro favoriscono gli attriti. Valeva la pena di tentare. E per Hardy era l'unica possibilità. Ma Singh non lavorava più all'YBMG. "Ha il suo nuovo numero?" John T. Lescroart
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La voce efficiente rispose che non erano autorizzati a fornire l'informazione. "È molto importante." La voce si scusò e disse che non c'era niente da fare. Il karma di Hardy era su una rotta negativa. "Senta, facciamo così. Io le do il mio nome e il mio numero, e lei chiama il signor Singh e lo prega di mettersi in contatto con me." "Può darsi," disse la voce. "Vedrò." Il viceprocuratore distrettuale candidato alla carica di procuratore generale, Dean Powell, e il suo superiore Chris Locke stavano pranzando a un tavolo d'angolo al cinquantaduesimo piano sopra San Francisco, nella Carnelian Room, proprio in cima al Bank of America Building. Era stato Powell a chiedere l'incontro. Il piatto del giorno era il risotto con gli scampi Santa Barbara, e l'avevano già ordinato. Powell aveva ordinato anche mezza bottiglia di Meursault, ma aveva dovuto insistere per convincere Locke ad assaggiarlo. Non brindarono. Mancavano meno di due settimane alle elezioni, e secondo gli ultimi sondaggi Powell era in vantaggio di quattro punti. Dopo averne parlato per qualche minuto, Powell riferì a Locke la visita di Hardy, sebbene avesse promesso di non dire niente. Locke chiese: "È con Freeman da così poco tempo e tira fuori una trovata del genere? Naturalmente, è capace di farlo di sua iniziativa". Powell annuì. "È piuttosto trasparente. Mi ha detto che la sua assistita non vuole permettergli di servirsi dell'argomento, però è la verità, e io sono un cretino se non ci credo." "Comunque, Dean, la voce circolava fin dall'inizio." "Naturalmente. Senza dubbio, la donna è stata picchiata un paio di volte. Ma nella documentazione non se ne parla." "Invece sì, Dean, almeno una volta." "Non per quanto riguarda il secondo marito, Larry." Un po' spazientito, Locke scattò. "So chi era Larry." Poi: "E Hardy che cosa ha intenzione di fare?" "Ecco... dice che Jennifer Witt gli ha proibito di discuterne in aula." "Ha spiegato il perché?" Powell alzò le spalle. "Dice che le darebbe un movente per l'uccisione di John T. Lescroart
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Larry, mentre non è stata lei." "Sta spianando la strada per l'appello." Locke finì il vino e Powell gliene versò ancora. "Anch'io la vedo così. La Witt fa muro ed è furba. Capisce che, se ammette i maltrattamenti, ammette gli omicidi." "Non credo che abbia ucciso per i maltrattamenti," precisò Locke. "Giusto. L'ha fatto per denaro. Due volte." Powell guardò la città splendente e bevve un sorso di vino. "Volevo avvertirti. Puoi aspettarti una visita o una telefonata da Hardy che cercherà di sfruttare lo spirito di umanità per cui sei giustamente famoso." Locke, che non poteva soffrire Hardy, si concesse un sorrisetto e si passò il tovagliolo sulle labbra. "Se non c'è nella documentazione, non esiste, Dean. È così che dirigo il mio ufficio. È sempre stato così." Powell era soddisfatto. "Sì, lo so." Locke tese il bicchiere per farselo riempire con quel che restava del Meursault. Powell glielo versò. Hardy aveva trovato un paio di domande che non aveva ancora rivolto a nessuno, e questo gli dava un barlume di speranza. Certo, sembrava che quella domanda, in particolare, non avesse molto a che vedere con il delitto: che cosa c'era nel pacco recapitato dalla Federai Express, e chi l'aveva mandato? I fascicoli erano ammucchiati in un semicerchio sulla scrivania. Un'altra possibilità che gli era venuta in mente riguardava i compagni di lavoro di Phil DiStefano. Glitsky gli aveva parlato dell'atmosfera della società di idraulica. Hardy riteneva possibile che in quell'ambiente ci fosse qualcuno che come secondo lavoro per integrare la paga si fosse specializzato nell'eliminare la gente. Era una possibilità molto remota: chi diceva che i colletti blu fossero disposti a fare i sicari? E poi, gli idraulici non erano una categoria di miserabili. Ma che altro aveva? Se si basava sull'idea che le intuizioni di Frannie fossero esatte, e adesso lo credeva, bene, doveva essergli sfuggito qualcosa. Trasalì quando suonò il telefono. Aveva cercato un modo per mettersi in contatto con uno degli amici di Phil DiStefano: salve, credo che uno dei suoi compagni di lavoro vada in giro ad ammazzare la gente nel tempo libero. Qualcuno gliene ha parlato? Era inverosimile. "Pronto?" John T. Lescroart
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"Signor Hardy?" La voce di Ali Singh era benvenuta, sebbene fosse probabile che anche lui non sapesse niente. "È un po' tardi," replicò Hardy. "Ma se non ha ancora mangiato vorrei invitarla a pranzo." Era un ambiente molto diverso dalla Carnelian Room. L'Independent Unicorn era uno di quei caffè di San Francisco che sembravano sempre vuoti ma che esistevano da almeno trent'anni. Accanto alla porta, un poster annunciava letture di poesie il mercoledì sera e manifestazioni musicali aperte a chiunque in altre serate. C'erano grandi vetrate coperte di tendaggi di cotone a disegni minuti che mantenevano il locale in penombra, musiche per sitar e vaghi odori di patchouli e di curry. Un uomo barbuto a torso nudo e una giovane donna magra con i capelli lunghi e l'abito nero giocavano a scacchi al banco. Singh accennò un saluto dal suo tavolo in fondo. Hardy lo raggiunse. Il piccolo modello di efficienza sembrava rimpicciolito, depresso, anche se sorrideva coraggiosamente. Quando Hardy lo ringraziò, Singh disse: "È un piacere che lei sia venuto. Come vede, non c'è molto..." S'interruppe e indicò il locale. "È suo?" chiese Hardy. Una risatina educata. "Oh, no. Non si spende tanto, e mi lasciano star qui anche tutto il giorno. È meglio che stare a casa." L'uomo senza camicia aveva messo un grembiule da cameriere. Venne a portare il menù. Espresso, vari tipi di tè, varie specie di pane integrale, zuppa di lenticchie, riso bruno, tabouli. Hardy ordinò hummous e un'insalata. Singh gli chiese se poteva ordinare verdure al curry, che a 4 dollari e 95 era il piatto più caro. Hardy disse che andava bene, e che offriva lui. Quando il cameriere si allontanò, chiese a Singh come mai aveva perso il posto, e Singh sorrise tristemente. "Ecco, l'andamento degli affari... No, non è questo. Credo che sia stata l'avidità." "L'avidità?" "No, non è giusto neppure questo... ma ero con il Gruppo da sette anni e credevo..." Singh alzò le spalle. "Che cos'è successo?" "Be', la ristrutturazione." Singh bevve un sorso d'acqua. "Non l'avevo previsto. Colpa mia. Avrei dovuto capire. È così che si ottiene il profitto: si John T. Lescroart
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taglia il grasso superfluo. Ma io credevo di essere utile, di svolgere un servizio. Adesso ho capito." Dopo aver letto per tre volte il prospetto, Hardy conosceva i fatti. L'Yerba Buena Medicai Group aveva preparato per più di un anno la transizione da ente senza fini di lucro: intendeva attirare capitali per diventare concorrenziale, e non poteva attirarli se non dava profitti. "E così l'hanno licenziata?" Singh alzò le spalle. "Hanno assunto qualcuno che poteva fare il mio lavoro per uno stipendio più basso. Ero un dipendente, non un medico, e quindi... Comunque, come posso aiutarla? Non è certo venuto per parlare di me." Hardy si assestò sulla sedia. "Forse avrà saputo che la moglie del dottor Witt è stata riconosciuta colpevole di averlo ucciso... "Non lo sapevo. Non seguo più i telegiornali da quando... La moglie?" "È mia cliente. Sto cercando di evitare che venga condannata a morte." "Per me, l'esecuzione da parte dello stato è un'altra forma di omicidio." "Allora è disposto ad aiutarmi?" "Se posso. Ma, come le ho detto, il dottor Witt era molto rispettato." Arrivarono le portate, un po' più appetitose della loro descrizione. "Mi aveva detto che lei e il dottor Witt avevate qualche discussione per via delle spese." "Ma era il consiglio di amministrazione a decidere. Nel suo ufficio il dottor Witt faceva tutto quel che voleva. Credo che aspirasse a un maggior potere decisionale." Per un secondo Singh smise di mangiare e sorrise. "Non so proprio che cosa farebbe adesso." "Perché adesso?" "Perché non dovrebbe più discutere con Ali Singh, dopo l'acquisizione." "Vuole dire la transizione a società per fini di lucro?" Singh scosse la testa. "No, signor Hardy. Era così il marzo scorso. Mi riferisco all'acquisizione. Se non aveva comprato... Non l'aveva fatto quasi nessuno, ma credo che il dottor Witt avrebbe avuto da dire la sua." Hardy smise di fingere di mangiare. Sentiva un formicolio alla nuca. "Purtroppo non la seguo. Credevo che parlasse della trasformazione in società per fini di lucro." "Sì, e in effetti c'è stata. Ma sono due fatti separati, capisce? Più tardi, l'estate scorsa, il Gruppo è stato acquistato." "Da chi?" John T. Lescroart
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Singh aveva finito di mangiare e scostò il piatto. "Da quelli che mi hanno licenziato. Quelli dell'assicurazione, la PacRim. Hanno pagato quaranta milioni di dollari in contanti." Anche Hardy scostò il piatto. "Quaranta milioni?" Singh proseguì. "Quando ha presentato allo stato la domanda per cambiare la ragione sociale, è risultato che l'YBMG valeva cinquecentotrentacinquemila dollari. Il valore netto. L'offerta di quaranta milioni di dollari è stata una grossa sorpresa. Nessuno pensava che il Gruppo valesse tanto." Ma qualcuno l'aveva pensato, si disse Hardy. Nessuna società scopriva all'improvviso che il suo valore era passato da mezzo milione a quaranta milioni di dollari in meno di sei mesi. Ma il prospetto aveva descritto il futuro finanziario dell'YBMG in termini molto conservativi. Non era prevista una vendita, almeno pubblicamente, intorno al Natale dell'anno prima. Non c'erano acquirenti potenziali. La circolare era molto chiara. I soci non dovevano aspettarsi grandi guadagni; probabilmente non era neppure il caso di acquistare le azioni a cinque cent. Il loro valore non sarebbe mai aumentato. La sensazione di formicolio si andava diffondendo. "Se fossi stato socio, avrei comprato," disse Singh. "Non sono stati molti i soci che l'hanno fatto, ma io avrei comprato. E adesso tutto sarebbe diverso." "Perché, ai soci che hanno comprato le azioni è andata bene?" chiese Hardy. Singh non seppe trattenere un mesto sorriso d'ammirazione. "Hanno offerto il quarantanove per cento ai soci, i medici. Centoquarantamila azioni a cinque cent l'una. Il numero di azioni che si poteva acquistare dipendeva da quanto tempo uno era nel Gruppo. Il massimo a persona era trecentosessantotto azioni, per un investimento totale di diciotto dollari e quaranta." Hardy ricordava la cifra: "meno di venti dollari". "Ho pensato tante volte a quei numeri," continuò Singh, "e fatico ancora a crederlo. Sa quanto vale adesso un'azione da cinque cent? Ho fatto il conto: centoquarantadue dollari e ottanta cent ciascuna." Hardy zufolò. "Cinquantaduemilacinquecentosettantadue cent," precisò Singh. "E cioè?" John T. Lescroart
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"È quello che avrebbe in tasca adesso se avesse comprato trecentosessantotto azioni per diciotto dollari e quaranta cent." "Sì, è interessante. E con questo?" Freeman era nel suo ufficio, molto sontuoso in confronto all'austerità dell'appartamento. Un tappeto persiano di tre metri e mezzo per cinque e mezzo copriva il centro del pavimento di hardwood scuro; splendidi oggetti di cristallo erano in mostra sui ripiani dietro il bar ben fornito; due Bufano e un Bateman autentici erano appesi alle pareti. La stanza era tre volte più grande di quella di Hardy, con scaffali, due divani, diverse poltrone e tende alle tre finestre. La scrivania era una distesa lucida e immacolata di bois-de-rose, un metro e mezzo per due. Erano le sei e Hardy era seduto su una poltrona. Dopo l'incontro con Ali Singh aveva tentato inutilmente di contattare Donna Bellows e aveva lasciato un messaggio a Jody Bachman presso la Crane & Crane. Infine aveva dedicato un'ora allo studio particolareggiato del prospetto dell'YBMG. Alla luce di quanto aveva saputo da Singh, adesso aveva un significato diverso. "E con ciò?" rispose. "Almeno è qualcosa." Freeman borbottò, gli porse una birra fredda e tornò a frugare nel mobile bar. "È una barca di soldi," insistette Hardy. Freeman prese una bottiglia di vino rosso. "D'accordo. E con ciò? Un branco di dottori ha fatto una montagna di quattrini. Succede tutti i giorni." "Non un branco. Sono pochi. Singh, il contabile, ha detto che secondo lui i compratori non sono stati più di quindici o venti." Freeman stappò la bottiglia, fiutò e la posò sul piano del bar. Prese un grosso calice di cristallo e vi versò un quarto del contenuto, quindi l'alzò verso la finestra per osservare colore e limpidezza. Hardy accavallò le gambe. "Dimmelo se ti do fastidio, David." Freeman assaggiò il vino. "No, no." Girò intorno al bar. "Il Bordeaux dell'ottantadue non è sopravvalutato. Dovresti provarlo." Con aria di sfida, Hardy si attaccò alla sua birra. Freeman sedette su una poltrona. "Credimi, Dismas, mi piacerebbe molto poter mettere insieme qualcosa, ma non vedo alcuna possibilità." Hardy cercò di riformulare la sua posizione. Gli sarebbe servita come allenamento se più tardi avesse dovuto esporla alla Villars e alla giuria. John T. Lescroart
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Forse la situazione non era chiara come gli sembrava. "Poniamo che cinquanta medici, al massimo, abbiano comprato le azioni. Sono quattrocento, quelli che fanno parte del Gruppo." Freeman attese e continuò a centellinare il vino. "Be'?" "Be', dal mio punto di vista la lettera di accompagnamento è un vero imbroglio. Credo che Larry si fosse messo in contatto con il suo legale e con quel tizio di Los Angeles perché sentiva odore di bruciato e voleva che controllassero." "Che cosa?" "Il consiglio di amministrazione, gli avvocati, non so. Chi aveva stilato lettera e prospetto, chi aveva organizzato la truffa." Freeman inarcò le sopracciglia. "Una truffa?" "Se è una truffa, è l'unico modo per aiutare Jennifer." Freeman scosse la testa. "Vuoi che lo sia perché se lo è e se puoi provarlo, può essere utile a Jennifer. Ma non capisco come speri di riuscirci. L'unica cosa che puoi ottenere, in questa fase, è mitigare la pena. Jennifer è già stata riconosciuta colpevole. Non puoi rifare il processo." "Se riesco a convincere la Villars..." "Sii serio. Quella donna ha la stessa flessibilità del cemento. Non riuscirai a convincerla a far niente." "Allora lascia che provi a convincere te." Freeman si assestò sulla poltrona. "Ti ascolto. Hai detto che circa cinquanta medici hanno comprato le azioni. Continua." "Gli altri trecentocinquanta, invece, non le hanno comprate per il modo in cui erano redatti il prospetto e la lettera d'accompagnamento: davano l'impressione che le azioni da cinque cent fossero una bufala. Per giunta, sono stati spediti ai medici durante le vacanze, quando ben pochi si sarebbero presi il disturbo di leggerli, e l'opzione aveva un limite di tre settimane." "Fin qui ti seguo. E Larry le ha comprate o no?" "Larry ha sentito puzza d'imbroglio." "E allora?" "Ha minacciato di denunciare la truffa multimilionaria. Ecco la ragione della telefonata a Los Angeles." Freeman si soffregò gli occhi e sospirò: "Temevo proprio che puntassi a questo". Nelle ultime settimane, Hardy s'era lasciato convincere da Freeman ad John T. Lescroart
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abbandonare molte idee valide, e adesso non era dell'umore più ricettivo. "David, il socio principale dello studio di Los Angeles è stato ucciso meno d'un mese dopo Larry Witt." "Sì, ma non capisco come questo possa mitigare la condanna di Jennifer, anche se tu riuscissi a convincere la Villars ad ascoltarti... e non ci riuscirai. Ora vorresti sostenere, mi sembra di capire, che c'era veramente un sicario misterioso del quale la difesa, e cioè noi, non ha mai parlato durante il processo e della cui esistenza non ci sono prove." "Ciò non significa che non esista." "Credi che Jennifer abbia detto la verità?" Hardy non era del tutto convinto, ma forse i giurati avrebbero potuto crederlo. "Lascerò che siano loro a decidere." "La Villars non ti permetterà di esporre la teoria. Ma, se anche fosse disposta a farlo, Powell farà obiezione e la spunterà, a meno che tu non abbia qualche prova, e non ce l'hai." "E così Jennifer resta nei guai," disse Hardy. Freeman finì il vino. "C'è sempre stata," borbottò. Ma Hardy non era più disposto ad ascoltare i consigli di Freeman, anche se erano giusti. Gli restavano quattro giorni, e pensava che, se fosse riuscito a trovare la prova di cui aveva parlato il collega, sarebbe riuscito almeno a farsi ascoltare dalla Villars. Dopotutto era una questione di vita o di morte, non una discussione accademica. Se avesse scoperto qualcosa di valido, pensava che il giudice Villars l'avrebbe ascoltato. Naturalmente tutto dipendeva dal fatto che esistesse davvero qualcosa, ma Hardy non aveva altro e doveva presumere che esistesse. Chissà dove.
43 L'indomani andò a parlare con tre medici dell'YBMG: due non avevano investito e uno sì. I primi due, comprensibilmente, erano scocciati ma non pensavano che ci fosse sotto una grossa cospirazione. Il Gruppo aveva guadagnato parecchio e tutti e due rimpiangevano di non essere della partita, ma era come una lotteria. Chi avrebbe potuto prevedere quel colpo di fortuna? Il fortunato dottor Seidl era un giovane socio del Gruppo e aveva avuto John T. Lescroart
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diritto a novantadue cent, e poi non ci aveva più pensato. Il mese precedente, quando aveva ricevuto la sua parte, 13.142 dollari e 12 cent, era stato molto soddisfatto. Ma, dedotte le tasse, la somma era un po' inferiore ai diecimila dollari. Certo, era meglio di una botta in testa, ma non avrebbe cambiato la sua vita. Hardy cominciava a pensare che sarebbe stato difficile sostenere la teoria della cospirazione se non avesse scovato qualcuno che aveva guadagnato una barca di soldi, e almeno in teoria aveva avuto tutto l'interesse a tappare la bocca a un impiccione come Larry Witt. Nel pomeriggio andò in biblioteca e controllò nell'annuario i nomi dei membri del consiglio d'amministrazione dell'YBMG; ma erano tutti sconosciuti. Scoprì che la società doveva detenere il cinquantun per cento delle azioni, e i medici il quarantanove per cento... se tutti avessero investito. Si chiese se c'erano disposizioni che riguardassero le azioni non acquistate dai medici, ma non ne trovò il minimo cenno nel prospetto. Fece qualche calcolo e si accorse che, se soltanto il dieci per cento dei medici aveva acquistato le azioni, ce n'erano più di centoventicinquemila che nessuno aveva voluto... e che adesso avevano un valore di circa diciassette milioni di dollari. Il venerdì mattina andò in ufficio e chiamò la polizia di Los Angeles. Non aveva ancora scoperto un collegamento tra gli affari dell'YBMG e Larry Witt. La sera prima aveva parlato di nuovo con Jennifer, ma lei non rammentava che cosa avesse detto o fatto il marito a proposito dell'offerta di azioni. Poi aveva ricordato che a Los Angeles erano avvenuti due omicidi e quindi dovevano esserci state le relative indagini. Sapeva che i poliziotti erano molto suscettibili quando c'erano di mezzo casi non risolti... ma forse avrebbe potuto scoprire un legame. "Restoffer. Omicidi." La voce era di un uomo anziano ma non stanco. Hardy si presentò, cercò di parlare in fretta e di essere molto chiaro: era un avvocato penalista di San Francisco e forse aveva scoperto un possibile nesso fra la sua cliente e l'assassinio di Simpson Crane. Un silenzio piuttosto lungo. "Come ha detto che si chiama?" Hardy glielo disse. Un'altra pausa. "Un minuto solo. Resti in linea." Quando Restoffer tornò all'apparecchio, c'era meno chiasso in sottofondo. "Ha detto che chiama da San Francisco?" John T. Lescroart
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"Sì." "L'ascolto." Hardy si spiegò, un po' più lentamente. Quando ebbe finito, Restoffer disse: "È un legame molto tenue, signor Hardy". L'ispettore aveva ragione. Simpson Crane aveva diretto lo studio legale che rappresentava il gruppo medico di cui aveva fatto parte Larry Witt. Personalmente, Crane non era stato il legale dell'YBMG e neppure di Larry. E Jody Bachman non aveva avuto con Larry alcun rapporto professionale. Hardy sapeva che non era il caso di insistere. Un poliziotto si irritava se un privato cittadino, in particolare un avvocato difensore, andava a caccia di appoggi per una teoria non suffragata dai fatti. Ci volevano fatti per convincere Restoffer. "Ecco," disse Hardy, "pensavo di doverlo segnalare a qualcuno per togliermi il peso dallo stomaco." A quel punto Restoffer avrebbe potuto tagliar corto, invece restò in linea. "Siamo praticamente sicuri che sia stato il sindacato, ma non abbiamo trovato alcuna traccia. Hanno fatto un lavoro molto abile..." "Anche qui a San Francisco. Ma hanno riconosciuto la mia cliente colpevole di aver ucciso il marito, Larry Witt, per incassare l'assicurazione." "Hanno già emesso il verdetto?" "La settimana scorsa. Il mio problema è che non ha una linea di difesa; dice semplicemente che non è stata lei e che aveva visto qualcuno per strada. Forse era un sicario, e quindi sto cercando una possibile ragione per cui un sicario avrebbe dovuto uccidere Witt. E la ragione potrebbe essere questa." Vi fu un lungo silenzio. "Fra quattro mesi andrò in pensione," disse Restoffer. "Mi piacerebbe chiudere il caso dei due omicidi: Crane era un personaggio molto noto, e anche la moglie. Ma in questo momento sono alle prese con cinque casi. Quando lo trovo, il tempo? Be', ha qualche documento?" Hardy aveva soltanto la lettera e il prospetto: disse che li avrebbe inviati per fax, se a Restoffer interessavano. "Di che somma stiamo parlando?" "Intorno ai diciassette milioni di dollari." "Diciassette milioni?'' "Crede che fosse un motivo sufficiente perché qualcuno usasse le John T. Lescroart
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maniere forti?" Restoffer borbottò. "Qui da noi bastano diciassette dollari, e qualche volta diciassette cent... Bene, perché non mi manda quello che ha? Darò un'occhiata." A quel punto Hardy avrebbe dovuto riattaccare, ma non voleva mettere fuori strada Restoffer. Doveva dire tutto. "Ispettore..." "Mi chiami pure Floyd." "Be', Floyd, c'è un'altra cosa che dovrebbe sapere e che contrasta con la teoria del sicario." "Mi dica." "Non conosco le abitudini dei killer professionisti... Non so se fanno queste cose. Ma Witt è stato ucciso con la sua pistola." Il silenzio si protrasse. Hardy ebbe l'impressione di sentire un respiro profondo. "Anche Crane," fu poi il commento di Restoffer. "Mi mandi quella roba." Finalmente sembrava che le cose cominciassero a quadrare, inclusi i particolari che in apparenza non avevano un'importanza particolare. Per esempio, il pacco recapitato dalla Federai Express. Mentre compilava il modulo per chiamare Ali Singh come testimone della difesa, Hardy aveva ricordato che la bolla della Federai Express era stata presentata come prova; non doveva far altro che vedere chi aveva spedito il pacco. Aveva controllato, aveva scoperto che era stata Nancy DiStefano e aveva rammentato che la settimana prima del delitto Tom era andato a casa di Jennifer per portare il suo regalo, mentre Nancy aveva avuto intenzione di aspettare per consegnare il suo personalmente quando i Witt fossero andati a trovarli per Natale. I Witt non s'erano fatti vedere e Nancy aveva mandato il pacco a Matt per mezzo della Federai Express. Non aveva importanza che regalo fosse... Evidentemente s'era perso fra tutti gli altri che Matt doveva aver ricevuto. Ma, anche se non costituiva una prova, l'informazione consolava un po' Hardy. Gli interrogativi privi di risposta erano ormai molto pochi. Sembrava che l'acquisizione dell'YBMG puzzasse d'imbroglio. La teoria di Hardy non era ancora sviluppata né provata, ma quel che cominciava a sospettare lo attirava come una candela attira le falene. Se Larry Witt e Simpson Crane, per ragioni diverse e seguendo strade diverse, avevano John T. Lescroart
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minacciato di smascherare una transazione poco chiara e molto lucrosa, chi la manovrava avrebbe dovuto eliminare i due ostacoli prima di condurre in porto l'affare. Qualcuno era stato incaricato di fare quello sporco lavoro e l'assassinio di Simpson Crane e della moglie, presente per caso, sembrava opera di un sindacato estremista, mentre l'uccisione di Larry Witt e di suo figlio, anche lui presente per caso, era stata attribuita alla moglie. Se non altro, era un parallelo interessante. Era domenica mattina e Hardy friggeva uova e bacon nella padella metallica. Frannie, in vestaglia, leggeva il giornale nella cucina assolata. Rebecca dava da mangiare al fratellino Vincent, e riusciva a mettergli in bocca circa il venti per cento della banana schiacciata. Squillò il telefono. "Non rispondere," suggerì Hardy. Ma Frannie s'era già alzata. "Dev'essere Susan. Ha detto che mi avrebbe chiamato per dirmi se è incinta." Sollevò il microfono, ascoltò e aggrottò la fronte. "Un momento, glielo passo. Era Floyd Restoffer. "Ho una notizia bella e una brutta," esordì. "La brutta è che mi hanno tolto il caso." "Le hanno tolto il caso?" Che cos'è successo?" "Una faccenda politica, credo. Quando venerdì ho ricevuto il suo fax ho parlato con Todd Crane, il figlio di Simpson, il quale mi ha dato il permesso di interrogare qualcuno dei suoi soci. Non gli ho detto molto... solo che seguivo una pista nuova per l'uccisione dei suoi genitori. Gli ho chiesto se suo padre aveva avuto a che fare con l'Yerba Buena Medicai Group." "E allora?" "No, se ne occupavano Bachman e un paio di associati. Così ho parlato con Bachman. Sembrava disposto a collaborare. Gli ho chiesto se conosceva Witt, e ha risposto che lo conosceva di nome. Poi ha ricordato che Witt l'aveva cercato, ma lui non l'aveva richiamato. Il messaggio s'era perso. Questa volta ha preso un appunto... e penso che la chiamerà. Gli ho domandato se Simpson poteva aver avuto a che fare con la cessione del gruppo; Bachman ha detto che gli pareva impossibile. Non avevo altro da chiedergli." "Gli ha accennato ai diciassette milioni?" "Sicuro. Ha risposto che la cifra gli sembrava molto esagerata ma John T. Lescroart
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comunque avrebbe controllato. Poteva esserci stato qualche pagamento sotto forma di gratifica, ed era sicuro che i membri del consiglio d'amministrazione avessero un'opzione di riacquisto, ma non c'era niente di segreto." "Allora perché le hanno tolto il caso?" "Perché qualcuno lo ha chiesto. Ieri mi ha chiamato a casa il mio vicecapo. Una specie di suggerimento: perché mi occupavo di un duplice omicidio di dieci mesi prima quando mi mancano quattro mesi per andare in pensione?" Hardy fu colpito da un dubbio. "E come sapeva che se ne stava occupando? Il suo vicecapo gliel'ha spiegato?" "Gli ho fatto la stessa domanda. Evidentemente il consiglio era partito dal capo in persona, che a sua volta era stato imbeccato dal signor Kelso." "Chi è il signor Kelso?" "Già, è vero. Lei non è di qui. Frank Kelso è uno dei nostri illustri supervisori. Ha telefonato al capo per chiedergli perché stavamo infastidendo personaggi di riguardo del nostro ambiente legale, per giunta colpiti da gravi lutti. È chiaro che alludeva a Todd Crane." Un supervisore di Los Angeles! La faccenda scottava, pensò Hardy. Aveva toccato un nervo scoperto. "E allora come continuiamo?" "Io? Purtroppo non continuo affatto. I pezzi grossi vogliono che lasci perdere, e io obbedisco." "Le hanno imposto di lasciar perdere un omicidio?" "Ogni tanto succede. Anch'io ho fatto la stessa domanda. Sa qual è stata la risposta? Avevo qualcosa di solido per le mani oppure sparavo alla cieca? Gli ho parlato della sua cliente, e lui ha detto che, sì, pescavo nel buio. Ho ribattuto che qualche volta ne vale la pena, e lui ha risposto che non era il caso." Restoffer sospirò. "È un gioco di numeri, e devo chiudere altre cinque indagini prima di andare in pensione." Hardy tacque un momento, poi ritentò: "Vuole andarsene lasciando in sospeso una storia del genere?" Restoffer rise. "Sa quanti casi aperti mi lascio alle spalle? Forse potrebbe avere più fortuna con un investigatore privato. Posso raccomandargliene un paio." "Floyd, ho bisogno di un professionista, qualcuno che ci sia dentro direttamente." "Non posso, Hardy. Mi dispiace." John T. Lescroart
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"Capisco, Floyd. Grazie comunque per l'aiuto." Hardy stava per riattaccare, ma l'ispettore disse: "Non vuol sapere la bella notizia?" "Quale?" "Ieri sera ho avuto la sensazione che la faccenda puzzasse davvero di bruciato, e stamattina ho fatto qualche ricerca. Abbiamo gli elenchi che i colletti bianchi adoperano spesso: nomi di persone che offrono contributi per vari scopi e cose del genere. Ho pensato di confrontare la lista di quelli che hanno contribuito alla campagna del supervisore Kelso con quella dei membri del consiglio di amministrazione dell'Yerba Buena, per vedere se c'era qualcuno che potrebbe aver fatto pressioni sul nostro buon supervisore allo scopo di ottenere qualche favore. E indovini un po'?" "Ha trovato qualcuno." "Margaret Morency di San Marino. Una montagna di quattrini." "Ha chiamato Kelso?" "Non posso provarlo, ma ci scommetterei." "Può parlarne con il suo vicecapo? Mi pare che non si tratti più di sparare al buio." "Non è sufficiente, Hardy." Era chiaro che Restoffer non intendeva mettere in pericolo la pensione proprio negli ultimi mesi di lavoro. Ma almeno, pensò Hardy, lo stava aiutando. "Può avere un senso solo se si è disposti a vederlo," disse Restoffer. "Non ci sono collegamenti." "Sa qualcosa della Morency?" "Non so niente. Con ogni probabilità fa parte di dieci consigli di amministrazione. Mi ascolti. Fra quattro mesi andrò a vivere in riva a un lago del Montana, in una baita che ho già pagato. Abbandonerò per sempre questo circo, quindi perché dovrei cercare grane? Comunque, ho pensato di riferirle quello che ho scoperto. Veda se può servirsene." "Gliene sono grato, Floyd. Sinceramente." "Senta, se riuscirà a concludere qualcosa, io sono qui." "D'accordo." "A risentirci."
44 Hardy salì la scalinata del palazzo di giustizia. Era sceso un freddo improvviso e il sole del mattino era velato. John T. Lescroart
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Non avrebbe mai creduto di sentire la mancanza di David Freeman, ma adesso avrebbe voluto averlo accanto. Scese nella caffetteria ancora semivuota, ordinò un caffè, sedette a un tavolo e prese dalla borsa un blocco e una penna. Erano le sette e quaranta e l'udienza sarebbe incominciata alle nove e mezzo. Era arrivato alla conclusione che non ci fosse più tempo per andare a Los Angeles a indagare personalmente. Se fosse stato indispensabile l'avrebbe fatto, ma per il momento doveva condurre una difesa: Jennifer Witt sarebbe stata condannata a morte se lui non avesse esposto qualche argomento convincente. E non poteva servirsi di quello migliore. Ma in quella fase aveva una libertà d'azione più ampia di quella che aveva avuto Freeman. La fase in cui si giudicava la colpevolezza di un imputato era imperniata sul peso dell'evidenza, le prove, l'accertamento dei fatti. La fase della sentenza contemplava invece l'introduzione dei fattori che potevano convincere una giuria delle qualità umane che mitigavano la colpevolezza dell'imputato. Hardy poteva parlare della vita di Jennifer con il marito, del suo comportamento di madre. Poteva parlare della sua infanzia, dei suoi amici, persino dei suoi animali domestici. Il problema era che durante la settimana precedente, durante i colloqui quotidiani della durata di due ore, non aveva scoperto sulla vita di Jennifer molto più di quanto già sapeva; e sospettava che le cose che avrebbe potuto dire in proposito non avrebbero commosso la giuria. Larry Witt non le aveva permesso di avere amicizie, e lei s'era rassegnata. Non aveva neppure potuto occuparsi degli studi di Matt. Non andava mai a trovare i genitori e il fratello. Non aveva animali domestici. Le poche volte che uscivano a cena o andavano a qualche ricevimento cui Larry era invitato, recitava la parte della bellezza altera, della moglie intesa come trofeo. Jennifer si ostinava a rifiutare la terribile realtà del verdetto. Hardy insisteva che dal punto di vista dei giurati era una pluriomicida. Era una dura verità, e lei la evitava come aveva evitato tante altre verità spiacevoli della sua vita. Alla fine avevano raggiunto una specie di compromesso. Hardy avrebbe potuto esporre gli argomenti umanizzanti, cercare di salvarle la vita come se fosse veramente colpevole, purché omettesse ogni riferimento ai John T. Lescroart
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maltrattamenti da parte di Larry. Doveva continuare a presentare teorie alternative per i due omicidi, perché Jennifer non rinunciava all'idea che, insistendo sulla possibilità che a commetterli fosse stato un altro, avrebbe finito per seminare nella mente dei giurati dubbi sufficienti per evitare la condanna a morte. E, nonostante tutto, continuava ad aggrapparsi alla speranza che si trovasse il vero assassino e che lei venisse scagionata. Così, in base al materiale dell'YBMG e nonostante i moniti di David Freeman, Hardy aveva passato metà della notte a costruire la tesi che Larry fosse stato ucciso da un sicario, e a spiegarne le ragioni. Era per questo che aveva citato Ali Singh come testimone. Era più difficile cercare di presentare Jennifer come un luminoso modello di dolcezza. Non era il tipo della ragazza della porta accanto e non fingeva di esserlo. Era stata una bambina difficile ed era diventata un'adulta altezzosa, fredda, enigmatica, autodistruttiva. Molto spesso portava una maschera, e rivelava di rado ciò che vi era sotto. I giurati non potevano valutare in modo obiettivo alcune delle cose che lei aveva fatto dopo l'arresto, ma Hardy pensava che ne sapessero quanto lui e che non l'avrebbero dimenticato. Hardy aveva annotato gli elementi in mano ai giurati: dopo aver ucciso marito e figlio, Jennifer era andata a fare jogging creandosi un alibi, quella sosta al Bancomat che per poco non li aveva convinti. Poi, con un astuto raggiro, era evasa dal carcere, era rimasta irreperibile per tre mesi e in quei tre mesi aveva avuto una relazione con il suo psichiatra. Sebbene il giudice avesse spiegato ai giurati che non c'erano prove sufficienti per riconoscere Jennifer colpevole dell'uccisione del primo marito, Hardy pensava che tutti ne fossero certi. E quando fosse venuto il momento l'avrebbero ricordato. Sì, era carina, addirittura bella; ma Hardy sospettava che questo la danneggiasse: con il suo aspetto e la sua alterigia dava l'impressione di sentirsi al di sopra di tutto, anche della legge. Sarebbe stato utile che avesse pianto, ma Jennifer evitava le lacrime. Hardy aveva impiegato quasi un giorno per elaborare quelle che sarebbero state le istruzioni del giudice Villars alla giuria. "Signore e signori, buongiorno." Powell era a meno di quattro metri dal banco del giudice, e a due metri e mezzo dal palco della giuria. Parlava a voce bassa e in tono pacato. John T. Lescroart
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Sembrava deciso a lasciar perdere gli istrionismi: forse pensava che i giurati ne avessero già visti abbastanza. Un altro problema era che nei sondaggi, durante quel fine settimana, Powell aveva fatto un balzo in avanti di sette punti e sembrava destinato a essere eletto al primo turno. Hardy aveva la sensazione che i giurati lo sapessero, e, se era così, per Jennifer era una sfortuna. Powell continuò: "Negli Stati Uniti viene commesso un omicidio all'incirca ogni due ore, ogni giorno della settimana, ogni settimana dell'anno. Fino a pochi anni fa la pena di morte era una punizione piuttosto comune per chi era riconosciuto colpevole di omicidio, o anche di reati cosiddetti minori come lo stupro e certe rapine a mano armata. "Nella nostra epoca tutto è cambiato, e viviamo in una società e in uno stato che sanciscono la pena di morte solo per i reati più atroci: gli omicidi premeditati con aggravanti che, come vi ha spiegato il giudice Villars, includono i pluriomicidi, l'agguato, l'omicidio per scopo di lucro, l'omicidio di un membro della polizia. "Voi avete riconosciuto Jennifer Witt colpevole di omicidio e di due circostanze aggravanti. E questo non è più in discussione. Nell'attuale fase del processo, vi mostrerò perché lo stato della California chiede la pena di morte. "Da un punto di vista strettamente legale, le leggi di questo stato stabiliscono che la natura di tali reati comporta la pena capitale. Ma c'è una questione più ampia, l'indole dell'assassina, una donna così priva di sentimenti e di pietà da uccidere a sangue freddo non soltanto il marito ma anche il suo unico figlio". Hardy e Powell sapevano che era uno sfoggio della peggiore retorica: ma era legalmente esatto. Sebbene finora nessuno avesse contestato che l'uccisione di Matthew Witt non fosse stata accidentale, la sua morte era avvenuta come conseguenza diretta di un altro omicidio a sangue freddo. Chi aveva pianificato il primo delitto doveva rendersi conto della possibilità del secondo. O almeno questa era la tesi dell'accusa. In quel senso, da un punto di vista legale, i due reati avevano la stessa gravità o quasi; e Hardy intuì che, se avesse fatto obiezione, questa sarebbe stata respinta. Powell s'interruppe, si girò verso il tavolo della difesa. Jennifer sporse il mento e guardò in faccia il suo accusatore. Hardy le posò la mano sul braccio e la sentì tremare. Le strinse leggermente il polso per farle capire John T. Lescroart
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che non le sarebbe servito farsi coinvolgere in quello scambio di sfide. Ma nella prima fase del processo le allusioni a Matt erano state incidentali e poco numerose: questo, invece, era un crescendo, e Jennifer non era disposta a sopportarlo. Sottrasse la mano alla stretta di Hardy. "Lei è uno stronzo," disse a voce alta, incapace di trattenersi. L'aula esplose. Powell rimase a bocca aperta, ma senza dubbio era soddisfatto. Il giudice Villars batté il mazzuolo per ristabilire l'ordine. Alle sue spalle, Hardy sentiva il pubblico che mormorava. Cinse con un braccio le spalle della cliente, l'attirò vicina e le disse di tacere. La Villars cercava di farsi ascoltare in mezzo al baccano, ma era inutile. Jennifer stava per alzarsi e gridare qualcosa d'altro. Jennifer le strinse di nuovo il braccio cercando di trattenerla, di salvarla. "Ahi!" esclamò lei, ribellandosi. "Mi fa male! Mi lasci." Svincolò il braccio e si voltò verso il giudice, poi verso la giuria come una furia braccata, improvvisamente muta. I due messi del tribunale si avvicinarono al tavolo della difesa. Hardy si alzò di scatto, cercò di afferrarla e nello stesso tempo fece cenno ai messi di non intromettersi. Con voce calma continuò a ripetere: "È tutto a posto, è tutto a posto". Ma naturalmente non era vero. Jennifer si stava suicidando. La Villars si alzò e dimenticò il mazzuolo sul banco. Alle spalle di Hardy qualcuno chiamò Jennifer e lei si voltò. Ken Lightner s'era avvicinato alla barriera divisoria; Jennifer gli si buttò fra le braccia e lui le accarezzò la testa, come un padre che cerca di confortare la sua bambina. I messi attendevano, immobili. La crisi era durata pochi attimi e sembrava passata. La Villars sedette. Powell pareva sconcertato. Il giudice batté il mazzuolo, ordinò una breve sospensione e ingiunse a Hardy di seguirla nel suo ufficio. La faccia della Villars, che di solito era grigia, adesso era quasi cremisi. Powell non disse una parola. "La cosa non si ripeterà, vostro onore..." "Ci può giurare!" La Villars era in piedi dietro la scrivania. "Se non la faccio imbavagliare e se si azzarda a rifarlo, signor Hardy, riterrò lei responsabile. Non dormirà a casa per una settimana." Hardy, che si aspettava solo una ramanzina, si meravigliò per il tono della Villars, più coinvolto del previsto. Decise che era venuto il momento John T. Lescroart
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di parlarne con franchezza. "Ha del risentimento verso di me personalmente, vostro onore?" "Sono risentita verso la sua cliente che scatena il finimondo nella mia aula. Questo è il problema. Perché, ha qualcosa da ridire?" "Non credo che si tratti di questo," disse Hardy. La Villars si erse in tutta la sua statura. "Che cosa?" domandò fissandolo. "Che cos'ha detto?" "Ho detto: non credo che si tratti di questo." Il giudice socchiuse le palpebre e parlò con voce soffocata dalla collera. "La mia aula è un modello di equità, signor Hardy. È difficile rendere giustizia, e quindi faccio l'impossibile per seguire le regole ed essere imparziale, e mi offende che qualcuno insinui che non è così." "Non ho detto niente del genere, vostro onore. Ma non mi è sfuggito il fatto che ha multato David Freeman per disprezzo della corte, e adesso sta addirittura minacciando di mandare me in galera." "Farei lo stesso con il signor Powell, mi creda." Il giudice lanciò un'occhiata al procuratore che stava facendo una bella imitazione della carta da parati. "Nessuno può urlare oscenità nella mia aula. Nessuno. Freeman non era in linea, come fa spesso. Non è una questione personale, come lei sembra supporre. La ragione principale per cui non farò imbavagliare la sua cliente è che proverrebbe ancora di più la giuria nei suoi confronti. A parte questo, ha fatto tutto da sola. Tuttavia, lei ha garantito per il suo comportamento e se l'imputata darà ancora in escandescenze prenderò le opportune misure. Contro tutti e due. Chiaro?" "Chiarissimo." La Villars continuò a guardarlo male. "Vostro onore," soggiunse Hardy. La perorazione di Powell richiese un'altra ora e finì in tempo per il pranzo. Mentre lo ascoltava, Jennifer stringeva il braccio di Hardy, a volte con tanta forza da dare l'impressione che gli affondasse le unghie nella carne attraverso la manica della giacca e della camicia. La tesi di Powell sulle circostanze aggravanti era che, nel piano di Jennifer per uccidere il marito e incassare l'assicurazione, era implicita la consapevolezza che potesse rendersi necessario uccidere anche il figlio. Non era stato "un errore". Jennifer sapeva che Matt sarebbe stato presente, e sapeva anche che avrebbe dovuto ucciderlo. John T. Lescroart
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Hardy temette che Jennifer stesse per balzare dalla sedia per aggredire Powell. Anche lui provava lo stesso impulso. Powell stava attaccando senza esclusione di colpi. "Chi parlerà per la vittima?" concluse il procuratore. "Se una persona che ha deciso di uccidere il figlio non ha perduto il diritto di vivere, dove andremo a finire? Può esistere una violazione di fiducia più grave? E quale punizione, se non la pena capitale, può pareggiare il conto?" Miracolosamente, Jennifer resistette in silenzio. Più volte aveva incominciato a piangere e s'era asciugata rabbiosamente le lacrime: ma quando Powell concluse sembrava composta. "Tagli le palle a quel bastardo," disse a Hardy mentre Powell tornava al tavolo dell'accusa. Hardy si augurò che nessuno dei giurati l'avesse sentita. "Avete ascoltato il signor Powell descrivere Jennifer Witt come una persona che, data la natura dei suoi crimini, ha perduto il diritto di vivere. E, se li avesse effettivamente commessi, potrei essere d'accordo con lui." Powell alzò una mano. "Obiezione, vostro onore. La colpevolezza dell'imputata è già stata riconosciuta." "L'ho ammesso, vostro onore." Hardy pensava che la sua unica speranza di far abbracciare un'altra teoria sugli omicidi consisteva nell'essere molto preciso a proposito di ciò che la giuria aveva già deciso. La Villars rifletté per un momento. "Purché sia chiaro. Continui," disse a Hardy. Era una risposta abbastanza enigmatica. Powell reagì come se la sua obiezione fosse stata respinta e Hardy fosse pronto ad approfittarne. Hardy chinò leggermente la testa in direzione del giudice e si rivolse di nuovo ai giurati. "L'evidenza, nella prima fase del processo, vi ha convinti che Jennifer è colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio. Ma ora siete chiamati a decidere della vita di questa donna, e qui sopravvengono altri criteri: un errore che portasse alla sua esecuzione non potrebbe essere corretto. Se in futuro emergessero prove che la scagionassero o che, almeno, rappresentassero attenuanti, sarebbe troppo tardi. "La legge riconosce un concetto, e il giudice vi darà istruzioni in proposito: si tratta del dubbio persistente. Il dubbio persistente non annulla ciò che avete concluso al di là di ogni ragionevole dubbio, ma contempla una situazione come quella cui ci troviamo di fronte. Anche se avete ritenuto colpevole Jennifer, consideriamo ciò che persino l'accusa ammette che non abbiamo, e vediamo perché ognuno di voi, se votasse per la pena John T. Lescroart
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di morte, potrebbe trovarsi negli anni futuri alle prese con qualche inquietante e grave dubbio persistente." Come Powell, Hardy aveva incominciato a parlare al centro dell'aula, ma via via si era avvicinato al palco dei giurati. Erano attentissimi... Dopotutto era la prima volta che parlava davanti a loro, ed erano incuriositi. Ma pensava che ci fosse qualcosa di più: fino a quel momento, sembrava che la sua perorazione colpisse nel segno. Andò al tavolo, finse di consultare qualche nota e bevve un sorso d'acqua. Poi tornò nel punto dal quale si era mosso. "Numero uno, signore e signori, non abbiamo nessuno che abbia visto Jennifer Witt sparare a qualcuno. Nessuno. Nessun testimone. Abbiamo sentito il signor Alvarez dire di aver notato Jennifer davanti alla sua casa subito dopo gli spari. La signora Barbieto ha detto di aver sentito Jennifer gridare all'interno della casa prima degli spari. Ma nessuno dei due ha assistito al delitto. E permettetemi di ricordarlo: la signora Barbieto non ha saputo dire quanto tempo è passato esattamente fra le grida di Jennifer e gli spari, e c'è la possibilità che il signor Alvarez abbia visto un'altra donna ferma davanti alla casa quella mattina, e abbia creduto che fosse Jennifer." "Obiezione, vostro onore. La difesa sta discutendo l'evidenza. "No, sto ricordando alla giuria le testimonianze precedenti. Niente altro, vostro onore." "Questa non è una tavola rotonda, signor Hardy. Ma l'obiezione è respinta." "Grazie, vostro onore." Hardy si rivolse di nuovo alla giuria. "L'evidenza lascia inspiegato qualcos'altro? È vero, Jennifer avrebbe incassato cinque milioni di dollari, ed è il movente che le viene attribuito. Ma se così fosse, se si trattasse di un omicidio meticolosamente premeditato a scopo di lucro... dove sono le prove della premeditazione? Che significava la lite che ha sentito la signora Barbieto? Se Jennifer ha ucciso il marito, non può essere stato perché litigavano? Non è possibile che l'abbia fatto nel calore della discussione, senza premeditazione? E che Matt, per una tragica fatalità, si sia trovato in mezzo? Sono interrogativi che non trovano risposta nell'evidenza." Fece un'altra pausa per lasciare che le parole si imprimessero nella mente dei giurati. "Ci sono due considerazioni finali che ci tengo a fare. La prima è questa: Jennifer ha sempre asserito di non aver commesso quei delitti. Potete ritenere che è un'affermazione interessata, ma Jennifer Witt John T. Lescroart
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l'ha sempre sostenuta incrollabilmente durante il processo. Si è dichiarata non colpevole e non ha cambiato posizione. Non ha mai ammesso di essere stata preda d'un raptus di follia temporanea, o di circostanze sfuggite al suo controllo, e neppure di aver cercato di sottrarsi ai maltrattamenti. Avrebbe potuto farlo e sperare che al massimo l'avreste giudicata colpevole di un reato molto meno grave dell'omicidio premeditato. Ma non l'ha fatto. Non si è aggrappata a difese fantastiche per salvarsi; e, credetemi, il mio collega David Freeman avrebbe potuto suggerirgliene molte." Tornò al tavolo della difesa e bevve un altro sorso d'acqua mentre riordinava le idee. "L'ultimo punto, signore e signori, riguarda un fattore fondamentale che finora non è comparso nei verbali del processo, ed è questo: nessuno ha visto Jennifer uccidere Larry e Matt Witt, e quindi rimane la possibilità che il delitto sia stato commesso da qualcun altro." Powell si affrettò ad alzarsi. "Vostro onore, c'è già un verdetto." Ma anche questa obiezione fu respinta. Hardy non stava contestando un'incongruenza logica. Poteva continuare... con la dovuta prudenza. Hardy si rivolse alla giuria. "Non sono qui per dimostrarvi che il vostro verdetto è sbagliato. Ma resta il fatto che qualcun altro poteva avere una ragione per uccidere Larry Witt e potrebbe averlo fatto. Perciò, in questa fase del processo, ascolterete diverse informazioni sul conto di Larry Witt: che uomo era, i suoi rapporti d'affari, le cose che gli interessavano. Credo che molte di queste considerazioni siano convincenti e potrebbero portarvi a quel dubbio persistente cui ho accennato prima. S'interruppe e respirò profondamente. "Signore e signori, c'è un'ultima cosa. Il signor Powell ha molto insistito nella perorazione iniziale..." "Obiezione. Non è il momento delle confutazioni." La Villars non esitò. "Accolta." E attese. Hardy aveva quasi la sensazione che lo sfidasse. "Sta bene," disse rivolgendosi ai giurati. "Ora devo assolutamente dire qualcosa a proposito della morte di Matthew Witt." Fece un'altra pausa, e non solo per ottenere un effetto drammatico. Non sopportava l'idea che la morte del bambino venisse esposta alla giuria in modo sbagliato. "Non è stata presentata alcuna prova, né potrà essere presentata, che Jennifer Witt fosse una cattiva madre. Se ci fossero medici in grado di dimostrare che Matthew Witt era maltrattato, credetemi, sarebbero qui come testimoni per l'accusa. Ma non ce ne sono. John T. Lescroart
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"E per quale ragione?" Hardy si voltò e indicò la sua assistita. "Perché Jennifer Witt era un'ottima madre. Nessuno ha mai insinuato il contrario. Amava il figlio. La sua morte l'ha straziata. Non ha ideato alcun piano che potesse mettere in pericolo il suo bambino. E questa, signore e signori, è la verità." Hardy lanciò un'occhiata alla Villars. Si aspettava che Powell facesse ancora obiezione e che questa venisse accolta. Ma non accadde nulla. S'era tenuto sul vago e, dopotutto, la sua non era altro che un'introduzione. Decise che era il massimo che poteva ottenere in quella fase. Ringraziò la giuria e sedette. Erano le sei e mezzo e Hardy era seduto al banco del Little Shamrock e beveva un Black & Tan, un miscuglio di birra chiara e birra scura. Lui e Moses erano molto orgogliosi del modo in cui lo preparavano, separando perfettamente le due birre, con la scura in alto. Ma il nuovo barista, Alan, non aveva ancora imparato, e la bevanda risultava insipida. O forse la colpa era del modo in cui era andata la giornata. Dopo l'udienza, Hardy pensava che non sarebbe stato opportuno tornare a casa con i nervi tesi. Aveva chiamato Frannie per spiegarle che aveva bisogno di un po' di tempo per scaricarsi. A quell'ora del lunedì nel bar c'erano solo altre cinque persone: due coppie ai tavoli vicino al bersaglio delle freccette e una donna giovane e bella che parlava con Alan. Alan rise, si voltò per controllare se Hardy stava bevendo il suo Black & Tan, e sorrise come se nessuno gli avesse mai mentito. Forse è questo, pensò Hardy... nella mia professione mentono quasi tutti. È previsto e quasi dovuto. Bevve ancora un sorso per educazione, lasciò qualche banconota e alzò la mano per salutare. Si sentiva un estraneo nel suo bar. Era quasi l'imbrunire e c'era una luce accesa in casa DiStefano, alla finestra di sinistra. Sul vialetto non c'erano macchine. Hardy parcheggiò a mezzo isolato di distanza e ripose la citazione piegata nel taschino della camicia. Si avviò attraverso il prato. Dalla finestra illuminata vide Nancy che lavorava in cucina. Quando arrivò sotto il portico, si fermò per ascoltare. Nessuno parlava. Se Phil fosse stato in casa, avrebbe dovuto entrare di prepotenza... o almeno avrebbe dovuto tentare. John T. Lescroart
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Suonò il campanello. Si accese la luce del portico. Nancy apparve dietro la porta a zanzariera. "Salve," disse. E guardò la strada dietro di lui. "Phil è in casa?" Lei scosse la testa e aprì. "L'hanno chiamato per un lavoro." Ancora una volta Hardy fu colpito dal suo aspetto giovanile. "Sono venuto a chiederle se è disposta a parlare di sua figlia. Sul banco dei testimoni." "Parlare di Jennifer? E che cosa vuole che dica?" "Che le vuole molto bene." Nancy deglutì e sgranò gli occhi. "Le voglio bene," disse. "Lo so. Desidero che lo ripeta alla giuria." "Perché?" "Perché può servire a salvarle la vita. Perché è qualcosa che possono capire. L'aspetto umano." Gli occhi di Nancy si velarono. Spesso anche gli occhi di Jennifer assumevano la stessa espressione. Hardy aveva la sensazione che succedesse quando l'una o l'altra pensava di essere sul punto di fare qualcosa che le sarebbe costata un pestaggio. La incalzò. "Ho bisogno di lei, Nancy. Jennifer ha bisogno di lei. Il procuratore sta presentando tante persone che fanno un ritratto estremamente negativo di Jennifer." "Lo so. Guardo la TV." Nancy scrutò di nuovo la strada e rimase in silenzio. "Che c'è?" "Lui." Hardy aveva conosciuto altre donne che indicavano sempre come "lui" l'uomo presente nelle loro vite. E ogni volta si sentiva gelare. "Phil vorrebbe che lei salvasse la vita di sua figlia, Nancy. Non mi dica che non è così." "Questa storia... Non la sopporta. E non sopporta che tutti sappiano che stanno processando sua figlia." "È preoccupato per quelle che potrebbero essere le conseguenze per lui?" "Non è soltanto preoccupato. È furioso. Ha detto che vorrebbe che non l'avessimo mai avuta. Non mi permette neppure di parlare di lei." "Nancy, che cosa proverà suo marito se la giustizieranno? Lei che cosa proverà?" John T. Lescroart
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L'espressione supplichevole era inequivocabile: non farmi questa domanda. Amava la figlia e al contempo aveva una paura tremenda del marito. E in quel momento sembrava augurarsi soprattutto che lui se ne andasse. Ma Hardy non era venuto per andarsene. Prese il foglio dal taschino. "Questa è una citazione, Nancy. Ho bisogno che lei venga in tribunale. Ho bisogno che qualcuno dica che Jennifer amava il figlio, che ha qualcosa da offrire e che merita di essere salvata. Dimostri alla giuria che qualcuno le vuole bene." Nancy si strinse al petto la citazione. "Nancy, quanti anni ha?" chiese all'improvviso Hardy. Lei si sforzò di sorridere. "Quarantotto." "Non è ancora troppo tardi," osservò Hardy. Nancy continuò a stringere il foglio. Sospirò, un sospiro che era quasi un brivido. "Ho paura di sì," rispose. Il telefono squillò nel cuore della notte. Era Freeman. "L'hai saputo? Ti ha chiamato qualcuno?" Hardy batté le palpebre e guardò l'orologio. Le quattro e mezzo. "No, David, non mi ha chiamato nessuno." "Be', hanno chiamato me. La madre di Jennifer ha appena cercato di uccidere il marito."
45 Erano tutti e due allo Shriners' Hospital: Phil sotto i ferri in sala operatoria, Nancy in una camera piantonata. Hardy arrivò prima delle sei, prima che sorgesse il sole e arrivassero altri avvocati e i mass media. "Lei guarirà. Lui, non lo so." L'ispettore Sean Manion aveva conosciuto Hardy allo Shamrock ed era in buoni rapporti con lui. Adesso stavano nel corridoio davanti alla camera di Nancy, che era sotto gli effetti dei sedativi e per un po' non avrebbe potuto parlare con nessuno. "Che cos'è successo?" Manion era teso. Era più basso di Hardy, aveva la faccia butterata e i capelli che sembravano tonsurati. Sempre curvo, con le mani in tasca, masticava chewing-gum e parlava in fretta. "Lui l'ha pestata una volta di John T. Lescroart
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troppo, credo, e lei ha preso un coltello e l'ha colpito. Quattro volte, mi pare. No, cinque." E' grave? "Tre coltellate alle braccia e un paio al ventre. Forse hanno intaccato il cuore. Ha perso una tonnellata di sangue. Ci ha chiamati lei. Dopo." "Avete intenzione di denunciarla?" "Non lo so. Chiedilo alla procura. Ne dubito. Quale sarebbe l'imputazione?" "Tentato omicidio?" Manion sbuffò. "No, merda, è stata legittima difesa. Dovresti vederla. Quel figlio di puttana merita di crepare. E se sopravvive, sarà lui a essere denunciato." "Sean, sei stato tu a telefonare a David Freeman?" "A chi?" "Non importa. Forse è stata lei, prima del vostro arrivo." Hardy tornò verso la camera di Nancy. "È priva di conoscenza, no?" Manion annuì. "Dorme. Puoi provare verso mezzogiorno." "Non posso," disse Hardy. "Ho un'udienza." "Be', tanto stasera la troverai ancora qui. Non è in condizioni di muoversi." "È ridotta così male?" L'ispettore annuì. "Abbastanza. Ma almeno è viva. Poteva andarle peggio." Hardy sapeva che la causa era lui. Se non fosse andato a consegnare la citazione, se non avesse cercato di convincere Nancy a testimoniare... Così era successo quel che era successo e marito e moglie si trovavano all'ospedale. Avrebbe dovuto sentirsi esausto, ma quando entrò nella stanzetta degli interrogatori al terzo piano, poco dopo le otto, era tenuto su dalle scariche dell'adrenalina. Jennifer non si era ancora vestita per andare in aula: indossava la tuta rossa. "Qual è il consiglio del giorno?" chiese. Si comportava come se stesse perdendo la fiducia in lui. Hardy riferì quel che era accaduto. Lei era in piedi, come al solito, con le braccia conserte e la schiena appoggiata alla porta. Sedette, stordita, prima che Hardy avesse finito di parlare. "Jennifer?" John T. Lescroart
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"Sì." Poi: "Che significa?" "Penso che sua madre volesse testimoniare per lei, e per questo ha litigato con suo padre." "Ma perché ha corso il rischio? Lo conosce..." "Non pensa che l'abbia fatto perché le vuole bene?" Jennifer lo fissò muovendo le labbra in silenzio. Appoggiò la testa sulle braccia e cominciò a singhiozzare. Harlan Poole, molto a disagio, era tornato al banco dei testimoni. Sembrava che fosse dimagrito di sei chili in quelle due settimane. Questa volta non avrebbe parlato per sentito dire. Dean Powell era all'attacco. Le elezioni erano dietro l'angolo e il candidato incalzava. "Dottor Poole, lei ha detto che dopo la morte del primo marito di Jennifer Witt decise di rompere con lei. È esatto?" Poole, che stava già sudando, lo ammise. "Può dirci che cosa successe allora fra lei e Jennifer?" "Noi... ecco, cercai di staccarmi." "Sebbene Jennifer lavorasse tutti i giorni con lei?" Poole annuì. "Era la mia impiegata." "Ma sentì la necessità di prendere le distanze." "Io... smettemmo ogni intimità." Poole si guardò intorno e allentò il colletto. Poi mormorò: "Non ci riuscivo più... Può sembrare strano ma avevo paura di lei..." Hardy si alzò di scatto ma l'obiezione fu respinta. Cominciò a discutere con il giudice Villars, ma lei gli chiese se era sordo e non aveva sentito la sua decisione. Hardy dovette fermarsi. Rischiava una citazione per disprezzo della corte, e peggio ancora rischiava di perdere il rispetto della giuria. In quanto a Powell, non intendeva esporsi alla possibilità di un annullamento del processo ripetendo le ragioni per cui il dottor Poole aveva avuto paura. Ma non era necessario. I giurati ricordavano la fine di Ned Hollis. "E allora che cosa accadde?" "Cercai di dire a Jennifer che era inutile, che non funzionava più, ma lei... uhm..." Poole guardò di nuovo Jennifer. "Parli pure con calma," lo esortò Powell. Poole cercò il modo più adatto per esprimersi. "Alla fine decisi di rompere con lei e di licenziarla." John T. Lescroart
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In aula ci fu una certa agitazione. Alcuni dei giurati si tesero per sentire meglio e Hardy fece altrettanto. Anche questa non l'aveva mai sentita. "E poi che cosa successe?" "Ecco, si comportò come una pazza..." "Che intende dire? Si fece minacciosa? Diventò violenta?" "L'uno e l'altro." Poole s'interruppe e deglutì. "Non so come spiegarmi." Powell era preparato. "L'aggredì fisicamente?" "Sì." "Con un'arma?" "Con gli strumenti medici affilati che c'erano nello studio." "La ferì?" "Mi fece vari graffi sulle braccia e sul viso." Poole scosse la testa. "Era impazzita." Hardy si alzò. "Vostro onore, è la seconda volta che il testimone presenta l'imputata come una pazza." Impassibile, la Villars si rivolse alla giuria. "Non tenete conto del commento," disse. "Accolta, signor Hardy," concluse rivolgendogli un sorriso freddo. Powell continuò. "Le fece vari graffi alle braccia e al viso?" Istintivamente, Hardy si alzò di nuovo. "Il testimone ha già risposto alla domanda." Powell si girò verso di lui, poi verso la giuria, e allargò le braccia. La Villars non perse tempo. "Lasci che l'accusa interroghi il testimone, signor Hardy. Lei potrà farlo più tardi. Respinta." Per la terza volta i giurati sentirono dire che Jennifer aveva graffiato le braccia e il viso di Poole. Quindi Powell chiese: "Ha detto anche che l'imputata la minacciò. Che genere di minacce?" Poole deglutì e rispose con voce gracchiarne: "Disse che se non l'avessi ripresa mi avrebbe ucciso". "L'avrebbe uccisa," ripeté Powell. "Sì." "Crede che l'avrebbe fatto?" Hardy si rendeva conto che Powell lo stava provocando, ma non poté fare a meno di alzarsi per obiettare. Il procuratore sorrise garbatamente. "Ritiro la domanda. A lei il testimone." Se Powell aveva trovato il ritmo, Hardy sentiva di aver perso il suo. Ma John T. Lescroart
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non poteva far altro che continuare. "Dottor Poole, l'aggressione da parte di Jennifer Witt... avvenne dopo che aveva rotto con lei oppure dopo che l'aveva licenziata?" "Ecco... i due fatti erano contemporanei." "Bene. Quanto era durata l'intimità con la signora Witt prima di quel momento?" "Circa sei mesi, mi pare." "Non ricorda esattamente?" "No, non esattamente." Era la risposta che Hardy preferiva da parte di un testimone ostile. Ritentò. "Sta bene. Ora ci dica quali armi usò contro di lei... gli strumenti affilati che ha ricordato prima." "Ecco, erano strumenti medici." "Sì, questo l'ha detto. Ma quali?" Poole aggrottò la fronte. "Non ricordo esattamente. Me ne lanciò contro parecchi." "Oh, dunque la signora Witt le lanciò contro vari oggetti. Lei ruppe con una donna dopo una relazione intima che era durata sei mesi e che aveva allacciato approfittando della sua posizione di datore di lavoro..." "Obiezione," disse Powell. "Non era andata così..." Hardy alzò la voce, sinceramente indignato. "E nello stesso tempo l'ha licenziata, e la signora Witt le ha tirato addosso vari oggetti in preda alla collera. È questo che ci sta dicendo?" La Villars batté il mazzuolo. "La difesa sta tormentando il testimone, vostro onore," scattò Powell. "Obiezione accolta. Signor Hardy, questa sarebbe una domanda?" Hardy respirò profondamente, si rivolse ai giurati con un mezzo sorriso. "Dottore, può citare qualcuno degli strumenti che Jennifer scagliò contro di lei?" "Be', sì. Cioè no. Ma non era soltanto questo. Devastò lo studio. Mi ferì." "Prendiamo queste affermazioni una alla volta. Le devastò lo studio?" "Completamente. " "Fece molti danni?" "Per ottomila dollari. Dovetti chiudere per una settimana." "Ottomila dollari. Immagino che un danno simile l'avrà denunciato alla John T. Lescroart
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polizia." Poole tacque. "Dottor Poole, denunciò l'episodio?" "Non volevo..." "Mi dispiace, dottore, ma deve rispondere sì o no. Denunciò l'episodio alla polizia?" Poole deglutì un paio di volte. "No." "Perciò, niente prova che le cose fossero andate come ha detto? Sì o no?" "No, probabilmente non risulta nulla." "Bene, torniamo alle ferite. Jennifer Witt gliele fece con uno degli strumenti odontoiatrici?" "No, erano graffi." "Oh." Hardy si rivolse di nuovo alla giuria. "Non furono ferite, ma graffi." "Mi prese a unghiate sul viso e sulle braccia." "Bene, questo chiarisce tutto. E ha testimoniato che erano lesioni gravi? Andò da un medico?" "No, non volevo..." "Grazie. Le sono rimaste cicatrici, dopo questa presunta aggressione?" Poole si portò le mani alla faccia. "Sono passati quasi dieci anni." "Sarebbe un no?" "Sì, è un no." "Grazie. Un'ultima domanda, dottore. Passiamo alle presunte minacce. Ricorda le parole esatte pronunciate da Jennifer?" "No, non le ricordo esattamente." Poole ansimava. Si alzò e puntò l'indice contro Jennifer. "Però disse che mi avrebbe ucciso." Il giudice gli ordinò di calmarsi. "Cercò davvero di ucciderla? La seguì, le telefonò, la perseguitò in qualche modo?" "No. No. Non la vidi più, almeno prima di venire qui." "Non la vide più. In altre parole, indipendentemente da quanto potrebbe aver detto in un momento di rabbia e di dolore dopo essere stata piantata e licenziata, sparì dalla sua vita. È vero?" "Sì, è vero." "Grazie. Non ho altre domande."
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Forse Hardy aveva vinto ai punti quella ripresa, ma era una vittoria molto dubbia. I giurati avevano sentito parlare nuovamente di Ned Hollis e nonostante le istruzioni del giudice era impossibile che non fossero convinti che Jennifer avesse ucciso anche il primo marito. Inoltre, Hardy temeva di essersi alienato la Villars una volta per tutte, e da questo non poteva venire niente di buono. E, anche se aveva esposto una motivazione ragionevole per la sfuriata di Jennifer, non aveva potuto smentire che avesse aggredito Poole. Jennifer appariva come una squilibrata che era pericoloso contrastare. Non era probabile che ripetesse con altri quegli atti di violenza? Powell non aveva puntato molto sulle fotografie durante la prima fase del processo, ma a titolo di cortesia incaricò il giovane assistente, Justin Morehouse, di comunicare a Hardy, mentre uscivano per andare a pranzo, che l'accusa avrebbe presentato le foto nel pomeriggio con il commento del coroner, il dottor Strout. Era una decisione macabra ma dal punto di vista del procuratore aveva un senso preciso. Powell intendeva dimostrare che le uccisioni erano state compiute a sangue freddo, e mettere in risalto l'orrore della morte di Matt. E Hardy, che aveva già visto le fotografie, sapeva che avrebbero avuto un'efficacia tremenda. Justin era un giovane atletico ed elegante che durante il processo era rimasto nell'ombra di Powell. Quando passò il messaggio a Hardy cercò di non dare l'impressione di aver adottato l'atteggiamento accusatorio così comune a tanti assistenti procuratori. "Per Jennifer sarà un colpo durissimo," disse Hardy. "Lo riferisca a Dean." "Che cosa?" "Vedere le fotografie del figlio morto." Justin si dondolò, impacciato. "Allora non avrebbe dovuto ucciderlo," disse con riluttanza, come se non volesse sembrare spietato ma non avesse il minimo dubbio. Era una specie di monito per Hardy. Per gran parte dei presenti in aula Jennifer era una pluriomicida impenitente, pronta a uccidere di nuovo alla minima provocazione. Persino Justin Morehouse, che sembrava un tipo a posto, non perdeva il sonno all'idea di farla condannare a morte. Hardy temeva che Justin fosse una cartina di tornasole per le reazioni della giuria. Se era così, per Jennifer sarebbero stati guai. A giudicare John T. Lescroart
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dall'impressione che i suoi controinterrogatori avevano fatto su Morehouse, non sarebbe neppure valsa la pena che Hardy si presentasse in aula. Alla riapertura dell'udienza Hardy si alzò e chiese al giudice il permesso di avvicinarsi al banco. "Vostro onore," esordì, e spiegò le intenzioni di Powell. "Data la reazione fortemente emotiva che quelle foto produrranno, le chiedo di permettere che Jennifer Witt non sia presente in aula durante la testimonianza." La Villars abbassò sulla punta del naso gli occhiali da lettura e fissò Hardy. "In questo paese non si fanno processi per omicidio in contumacia, signor Hardy. La sua cliente rimane." La legge era quella, ma la rigorosa applicazione in quel caso sapeva di crudeltà gratuita. Però Hardy non poteva dirlo. "Potrebbe svenire, vostro onore." Il giudice si tolse gli occhiali. "In questo caso, signor Hardy, sospenderemo la seduta fino a che non si sentirà meglio." In realtà le cose andarono peggio di quanto temesse Hardy... Sembrava una caratteristica tipica di quel processo. Un'esplosione emotiva avrebbe potuto, almeno, rendere più umana Jennifer. Ma lei non reagiva. Sembrava in stato di shock e stava immobile, a occhi asciutti, e gli stringeva il braccio con la mano destra mentre gli ingrandimenti delle fotografie, posate di volta in volta sul cavalletto accanto al banco dei testimoni, mostravano a lei e alla giuria com'era ridotto suo figlio dopo essere stato colpito. Metà dei giurati reagì con le lacrime o con manifestazioni di nausea. Ma Jennifer restava immobile, con la mano sul braccio dell'avvocato, e guardava nel vuoto. Insensibile. Nonostante la stanchezza, Hardy tornò allo Shriners' Hospital al termine dell'udienza. Non c'erano agenti di guardia alla porta della camera di Nancy. Era l'ora delle visite, e Hardy poté entrare senza problemi. La madre di Jennifer era semiseduta sul letto e teneva le palpebre chiuse. Una fasciatura candida le copriva il naso e sopra la benda gli occhi erano John T. Lescroart
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gonfi, nero bluastri. Hardy si schiarì la gola e lei si scosse. "È il piantagrane," mormorò. "Sì," rispose Hardy. Nancy si assestò sul cuscino e, con una smorfia, girò la testa per guardarlo. "Avevo detto a Phil che avrei testimoniato e che lei era venuto a parlarmi." Hardy annuì. "L'avevo immaginato." "Come sta?" Hardy s'era informato al banco delle infermiere. "È molto grave." Nancy esalò un respiro forse di sollievo, forse di disappunto, poi strinse i denti. Doveva avere qualche costola rotta. "Non so," disse. "Che cosa ho fatto?" "A me sembra che si sia difesa contro qualcuno che l'ha aggredita e picchiata senza pietà." "Non so... ho paura." "Di lui?" "Di quel che ho fatto. Adesso che cosa succederà?" "Ha parlato con la polizia?" Nancy annuì, anche se ogni minimo movimento le costava dolore. "Sono venuti qui. Gli ho spiegato ciò che è successo." Un altro sospiro. "Ma dopo?" "Che intende dire?" Una risata secca si trasformò in un grido di dolore. "Credo che sia la fine del matrimonio. Non so che cosa farò, che cosa accadrà." Hardy non sapeva rispondere e pensava che fosse meglio lasciare che lo capisse da sola. "Che cosa hanno detto? La polizia ha intenzione di denunciarla?" "Hanno detto di no. Almeno per ora. Dicono che Phil mi avrebbe uccisa. Secondo me, non si rendeva conto..." S'interruppe. "No, non lo giustificherò più. Sapeva quel che faceva, e continuava a picchiare. L'ho pregato di smettere, l'ho implorato... "È quel che ha detto alla polizia?" "È quel che è successo," rispose Nancy, e lo guardò negli occhi. "Quando vuole che venga a testimoniare?" "Quando uscirà da qui?" Nancy scosse la testa con un'aria di sfida che ricordava Jennifer. "Mi John T. Lescroart
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dica quando mia figlia ha bisogno di me, e ci sarò, a costo di trascinarmi per la strada."
46 L'accusa finì il mercoledì pomeriggio. Per quattro giorni Powell aveva chiamato testimoni solidi, sicuri di sé e sorprendentemente poco eccitabili, dato che li aveva presentati per convincere la giuria a votare per la condanna a morte. I giurati avevano ascoltato, assorti, mentre lo psichiatra chiamato dall'accusa esponeva la sua opinione professionale dopo tre colloqui durante i quali Jennifer non aveva collaborato: secondo lui era una sociopatica irrecuperabile, insensibile, ostile e pericolosa. L'opinione dello psichiatra non sarebbe stata ammissibile se prima Hardy non avesse introdotto l'argomento chiamando uno specialista di parte. Ma Jennifer aveva fatto un favore all'accusa aggredendo lo psichiatra e quindi la testimonianza era ammissibile, sia che Hardy ne chiamasse o no un altro. Durante l'ultimo colloquio lo aveva scottato con la sigaretta sul dorso della mano. ("L'ho appena toccato. E poi mi aveva chiesto se avevo ucciso Matt perché non raccontasse che abusavo sessualmente di lui!") Poi era stata la volta di Rhea Thompson, la detenuta che aveva scambiato identità con Jennifer in primavera per permetterle di evadere. Hardy sospettava che Rhea avesse fornito le informazioni per ottenere un patteggiamento più favorevole; ma quando raccontò alla giuria che Jennifer aveva detto di essere pronta a uccidere chiunque cercasse di impedirle la fuga, sembrò del tutto convincente. "Era solo una battuta. Chiunque poteva capirlo," si era difesa Jennifer. Se la vita di Jennifer con i due mariti era stata simile al modo con cui si comportava con Hardy, un miscuglio di atteggiamenti sbagliati e di errori di giudizio, si poteva cominciare a capire che forse li aveva provocati. Hardy non li perdonava ma gran parte di ciò che faceva Jennifer sembrava includere un istinto di autodistruzione. Pareva che sentisse la necessità di perdere, di mettersi in una posizione in cui poteva dire: visto? Te l'avevo detto che non ero niente di buono. E ci riusciva. Hardy decise che era venuto il momento di metterla di fronte alla realtà. John T. Lescroart
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Erano nel solito ufficio durante una pausa di un quarto d'ora; poi Hardy avrebbe chiamato Ali Singh e avrebbe giocato tutte le sue carte. "Jennifer, non capisce che la gente, là fuori, sta cercando di capire chi è lei? È questo ciò che conta. E lei dà dello stronzo a Powell di fronte al mondo intero, usa come portacenere il dorso della mano dello psichiatra dell'accusa, parla di uccidere altra gente se si renderà necessario. In questo caso sta uccidendo se stessa, Jennifer. Lo capisce?" "E che dovrei fare? La commedia?'' Un tempo Hardy aveva creduto che Jennifer sapesse ciò che faceva. Adesso non più. "Sicuro! Sarebbe una gran bella cosa! Vorrei che facesse un po' la commedia. Gli mostri un'altra Jennifer, con un po' di dolcezza dietro la facciata dura." "Perché? Perché dovrei mostrarla?" Hardy abbassò la testa. "Per favore. Abbiamo solo un paio di giorni, Jennifer. Non può tentare..." Le voltò le spalle di scatto. "Maledizione!" "È arrabbiato con me." "Sì, sono arrabbiato con lei. E con ciò?" La sentì muoversi, venirgli alle spalle, premere contro di lui. Sentì la mano che gli passava sull'addome e cominciava a scendere. Si girò fulmineamente e indietreggiò contro la finestra. "Che cosa diavolo sta facendo?" Jennifer alzò gli occhi verso di lui con un'espressione sorpresa. "Non vada in collera con me," bisbigliò. Hardy tentò di indietreggiare ancora di più, ma non c'era lo spazio necessario. Jennifer si avvicinò di un mezzo passo. Non doveva succedere. Per un secondo la stanza e la luce sparirono. L'afferrò per le spalle, la spinse indietro con tutte le sue forze. Nello stesso istante subentrò un barlume di autocontrollo che gli impedì di scagliarla contro il muro. Continuò a tenerla stretta, a braccia tese. Lei, adesso, aveva di nuovo quell'espressione da cane bastonato. La lasciò. "Non lo faccia mai più. Mai più." Jennifer indietreggiò. Hardy sentì la necessità di voltarsi di nuovo, di vedere qualcosa al di fuori della stanza. La nebbia, l'autostrada, la città. Cercò di riprendere fiato. Dietro di lui, Jennifer disse: "È solo... Mi scusi. Non ci pensi più". John T. Lescroart
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Hardy continuò a guardare nel vuoto, fuori della finestra. Sapeva che questa volta lei non si sarebbe mossa. Attendeva. Inspirò di nuovo, si voltò. "Non si scusi," disse. Andò alla porta, con le gambe che tremavano ancora un po'. Voleva lasciarla sola. Il messo del tribunale poteva sorvegliarla fino alla ripresa dell'udienza. "Non si scusi," ripeté. "Cambi atteggiamento." La Villars li aveva chiamati nel suo ufficio. Powell aveva lasciato che Hardy interrogasse Singh per una decina di minuti prima di chiedere di conferire in privato. Il giudice aveva acconsentito con la solita riluttanza. "Vostro onore..." Powell era in piedi a fianco di Hardy davanti alla scrivania. "L'accusa ha ascoltato con pazienza l'interessante racconto del signor Singh, ma non capisce quale attinenza abbia con questo procedimento. Ne abbiamo già discusso e il signor Hardy continua a ripetere che collegherà tutto questo all'uccisione dei due Witt. Io non credo che sia possibile." Il giudice Villars rifletté un poco prima di parlare: "Signor Hardy, devo dichiararmi d'accordo con l'accusa. Può spiegarci dove intende arrivare?" In un minuto Hardy espose una versione abbreviata della sua tesi: in entrambi i casi le vittime erano state uccise con le loro pistole, c'era in gioco una somma enorme, a Los Angeles la polizia sospettava che fosse stato un sicario ad assassinare Simpson Crane e la moglie. Quando ebbe terminato, la Villars sembrava ancora perplessa. "Sta dicendo che Simpson Crane è stato ucciso con l'arma di Jennifer Witt?" Hardy rispose che, no, Witt era stato ucciso con la propria pistola, e anche Crane con la propria. Il giudice si rivolse a Powell. "Mi è sfuggito il nesso?" Powell si affrettò a intervenire. "Anche se ci fosse..." La Villars gli accennò di tacere. "Esiste un nesso circostanziato, signor Hardy?" "C'è una teoria alternativa plausibile sui delitti che la giuria, come minimo, dovrebbe ascoltare." "Forse non mi ha sentito. Le ho chiesto se esiste un nesso circostanziale." "Sì, certo." Dopo un attimo, il giudice volle sapere se Hardy era disposto a spiegare John T. Lescroart
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qual era. "Witt faceva parte dell'Yerba Buena Medicai Group, vostro onore. Aveva fiutato la truffa delle azioni e intendeva rivelarla. È stato ucciso per questo." "Da chi?" "Da chi ha ucciso Simpson Crane." La Villars tamburellò con le dita sulla scrivania. "Come fa a saperlo?" "Credo di poterlo sostenere in modo convincente." Powell si lanciò nella breccia. "Vostro onore, questo è ridicolo. Non è il luogo né il momento per le teorie alternative. La giuria ha già ritenuto colpevole Jennifer Witt. Se il signor Hardy aveva qualche prova, avrebbe dovuto raccomandare a Freeman di parlarne durante la prima fase del processo." "L'ho scoperto durante lo scorso fine settimana." Powell allargò le braccia. "Be', mi sembra molto comodo. O no?" La Villars alzò l'indice. "Signori, per favore. È in gioco la vita di una donna e, se vogliamo servire la giustizia, dobbiamo trovare spazio anche per questo. Se ci sono prove, sono pronta ad ascoltarle in qualunque momento. Signor Hardy, il signor Crane, che è stato ucciso..." "Delle indagini si è occupato Floyd Restoffer della polizia di Los Angeles. Potrei citarlo come testimone." "E sospettano di qualcuno?" "No, ma sono sicuri che sia stato un sicario di professione." La Villars tacque un momento. Non sembrava molto entusiasta. "Bene, che cos'ha scoperto sul conto del Gruppo, questo Restoffer?" "Il Gruppo era rappresentato dallo studio legale di Crane, come le ho detto." "Da Crane personalmente?" Hardy esitò, ma non poté eludere la domanda. "No, da un altro socio." "Un momento," scattò Powell. 'Vostro onore, il signor Hardy ci sta dicendo che Crane non rappresentava il Gruppo?" "Spero di no," rispose il giudice. "Non è questa la sua prova, vero, signor Hardy?" Così non andava assolutamente. "Ecco, non è stato incriminato nessuno, se è questo che intende, ma..." La Villars si era rannuvolata. Alzò la voce. "È appunto ciò che intendo. Restoffer ha per le mani un caso legato in qualche modo agli omicidi John T. Lescroart
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commessi qui, oppure no?" "Il caso è ancora aperto." "È ancora aperto dopo dieci mesi? E che cosa sta facendo quel Restoffer con un caso così vecchio?" "Al momento non fa nulla. Glielo hanno tolto, vostro onore." Hardy si rendeva conto che il presunto legame appariva forzato. Forse, anzi sicuramente, si stava rovinando la credibilità professionale. Ma che altro poteva fare? Jennifer sarebbe stata condannata a morte se non avesse escogitato qualcosa. Aveva bisogno di altri dieci minuti per tentare almeno di riferire le informazioni più recenti fornite da Restoffer: la riccona di San Marino aveva contribuito a finanziare la campagna elettorale di Frank Kelso, il supervisore di Los Angeles, che faceva inoltre parte del consiglio di amministrazione dell'YBMG. Doveva esserci sotto qualcosa. Aveva bisogno di conferire per dieci minuti con la Villars, da solo. "Vostro onore, non potremmo parlarne in privato?" "No," rispose il giudice. "In un caso capitale deve essere messo tutto a verbale." 'Vostro onore," s'intromise Powell in tono educato ma fermo, "vorrei che considerasse un'altra possibilità. Eccola: indipendentemente da ciò che lei ha deciso e da ciò che avrebbe potuto concludere la giuria se le cose fossero andate diversamente, consideriamo la possibilità che il primo marito di Jennifer Witt, Ned Hollis, sia stato ucciso dieci anni fa dallo stesso sicario. Se lo ammettiamo, potrebbe diventare una difesa plausibile?" Powell si girò verso Hardy. "È assurdo. È offensivo." Il giudice annuì. "Sono d'accordo. Ho ascoltato con attenzione, signor Hardy. Ho fatto tutto il possibile perché, come lei ha fatto notare, è in gioco una condanna a morte. Ma non capisco perché quanto ha detto debba essere ammesso." "Vostro onore, deve esserci un nesso." Lo credeva davvero, o parlava per disperazione? "Mi conceda un rinvio d'un paio di giorni. Andrò a Los Angeles..." "Vostro onore, la prego!" si intromise Powell. La Villars alzò la mano. Non aveva bisogno delle sollecitazioni di Powell. "Non è possibile. Ha già fatto perdere più di due mesi alla giuria. Ho cercato di capirla. Ho sentito dire che era un ottimo avvocato quando lavorava per la procura. Mi sembra un uomo sincero e laborioso. Ma più John T. Lescroart
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volte, in questo processo, ho notato che rifiuta il modo in cui facciamo le cose in questo stato. Nelle ultime due settimane mi sono sentita rimproverare di esserle ostile e di lasciarmi condizionare nelle mie decisioni. Poi ha evocato lo spettro della sindrome della donna maltrattata, non ha presentato la minima prova e lo ha lasciato cadere. Oggi ha avuto la prima vera occasione di chiamare qualche testimone disposto a parlare in favore della sua assistita..." "Vostro onore..." Il giudice batté la mano sulla scrivania ma non alzò la voce. "In questo ha ragione il signor Powell. La prima fase del processo è finita. Ci siamo comportati secondo le regole. La sua parte ha perduto. È così che facciamo le cose. Ecco perché è un sistema equo." "Sarà equo, vostro onore, ma hanno sbagliato. Jennifer non ha ucciso il marito e il figlio..." "Allora lo provi, quando sarà finita questa fase. Le garantisco che, se troverà un altro assassino, la signora Witt sarà libera. Ma nel frattempo il suo compito è presentare elementi che servano a mitigare la condanna. Voglio sapere se è disposto a farlo o no." Hardy respirò profondamente. "Uno dei miei argomenti principali è che a ucciderli sia stato qualcun altro." "Con l'evidenza di cui dispone, mi sembra una strategia imprudente." La Villars si assestò la toga, diede un'occhiata all'orologio a muro e cambiò marcia. "Bene, signori, sono le quattro e un quarto. Ora torneremo in aula e aggiorneremo l'udienza. Signor Hardy, domani mi aspetto che presenti testimoni che dicano qualcosa alla giuria. Qui è l'evidenza che deve parlare." Si alzò, girò intorno alla scrivania e si avviò alla porta precedendo di cinque passi i due uomini. Hardy uscì dall'aula a testa bassa. Non vedeva nulla. Era andato tutto a pezzi. Non solo aveva reso un cattivo servizio alla sua cliente, ma si era rovinato la reputazione. Con la coda dell'occhio notò Powell davanti alle telecamere: avrebbe fatto bella figura per qualche secondo ma non avrebbe violato l'ordine di non parlare, soprattutto adesso che le cose si mettevano molto bene per lui. Stava dissertando sul problema della criminalità e sulle sue idee in proposito. John T. Lescroart
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Hardy ne aveva abbastanza di Dean Powell. Voleva tornare nel suo studio; ma all'improvviso l'ispettore Terrell gli si parò davanti. "Mi hanno mandato giù a chiamarla," disse Terrell con fare enigmatico. "C'è qualcuno che chiede di lei." Hardy si fermò. Che cosa voleva Jennifer, adesso? E poi un altro interrogativo gli si affacciò nella mente: perché a portargli il messaggio era venuto Terrell? "Al sesto?" chiese, alludendo al carcere. "No, al terzo." Al terzo piano c'era la squadra omicidi. "Stiamo per interrogare la madre della signora Witt. Il marito è morto due ore fa, e lei vuole il suo avvocato. Abe Glitsky ha detto che sapeva dove trovarla." C'erano Glitsky, Sean Manion e il tenente Frank Batiste della omicidi. Non avevano ancora denunciato Nancy. Nessuno negava che l'avesse ucciso, ma avevano bisogno della sua dichiarazione, anche se si trattava di legittima difesa. Nancy era seduta su una poltroncina di finta pelle gialla in una delle stanze per gli interrogatori. Hardy entrò, salutò i presenti con un cenno, annunciò che per prima cosa doveva parlare da solo con la signora DiStefano e chiuse la porta. Lei lo salutò con un sorriso stanco. Hardy notò subito che respirava a fatica ed era pallidissima. "Come si sente? Perché è in giro?" "Mi hanno dimessa stamattina. Sono un po' debole, sì. Ma se sono venuta è per vedere Jennifer." "Possiamo provvedere. Ma che cosa vogliono quei tipi?" Nancy scosse la testa. "Non lo so. L'ispettore che ho visto in ospedale, Manion, mi sembra, aveva detto che non mi avrebbero denunciata e poi quando... quando Phil è morto è arrivato un tale più giovane e ha chiesto se ero disposta a collaborare." "Disposta a collaborare? Ha detto così?" Non aveva senso. Potevano denunciarla o non denunciarla, ma era assurdo farla andare al palazzo di giustizia in quelle condizioni per farla interrogare dalla squadra omicidi. Perché quei quattro, Batiste, Glitsky, Manion e Terrell, volevano interrogare una donna che non intendevano denunciare? "Ha parlato con loro?" chiese Hardy. Prima che Nancy potesse rispondere si sentì un brusio nell'altro ufficio. John T. Lescroart
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Si alzarono tutti e Hardy aprì la porta. Era arrivato il procuratore distrettuale in persona, Christopher Locke, seguito da Dean Powell e da metà delle telecamere d'America. Adesso tutto era più chiaro. Hardy non guardò Locke. I loro sentimenti reciproci erano stati espressi un anno prima. Si avvicinò a Powell. "È uno scandalo. Un insulto." Terrell si staccò dal suo gruppo e spiegò a Powell: "Ha chiesto del suo avvocato". Ma perché mai dava spiegazioni al procuratore? "Non so di che cosa tu stia parlando," disse Powell a Hardy. "Allora te lo dico io. Sto parlando del circo dei media. Sto parlando del modo in cui ti servi di questa donna e della sua tragedia personale perché i giurati del processo della figlia possano leggerlo domattina mentre prendono il caffè e perché tu possa comparire in televisione ancora una volta prima delle elezioni." "È ridicolo!" "Non credo. Credo invece che tu abbia fatto aspettare Terrell allo Shriners' Hospital nel caso che il padre di Jennifer morisse, per trascinare qui la moglie davanti alle telecamere... Tale la madre, tale la figlia. Giusto?" Sarebbe stato meglio, pensò Hardy, se anche in California le giurie fossero state tenute nell'isolamento. Frank Batiste era un poliziotto concreto e sbrigativo che, sebbene in minoranza, sentiva di essere nel proprio regno. Avanzò verso l'orda dei media. "Volete uscire, tutti quanti? Grazie." Quando anche l'ultimo cameraman se ne fu andato, chiuse la porta e si voltò. "Sono sicuro che aspetteranno." Locke decise di prendere in pugno la situazione. "Spetta al procuratore distrettuale denunciare o no una persona per un reato, non alla polizia." "Ehi, io ho già preparato il rapporto." Manion non intendeva permettere che venisse messa in discussione la sua professionalità. "Se non è stata legittima difesa, può prendersi il mio distintivo." "Non voglio dire che non si sia trattato d'un caso del genere." Come al solito, Locke temporeggiava in attesa di capire da che parte soffiava il vento. "Ma la decisione spetta a me." Hardy non lo contestava: ma il problema non era quello. "Perché c'è anche Dean Powell, Chris? Posso saperlo?" Locke ci rimase male ma si riprese subito. "Il signor Powell è un viceprocuratore capo. Ha il diritto di essere presente." John T. Lescroart
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Batiste avanzò di un altro passo. "Senza dubbio, signore. Allora ha deciso di denunciare questa donna? Vuole che la portiamo di sopra per la solita procedura?" Hardy non conosceva bene Batiste, ma provò ammirazione per lui. Non c'era ironia nel suo tono. Stava dicendo al procuratore distrettuale che, se aveva capito bene, dovevano procedere. E nel contempo stava mettendo in luce il bluff di Locke. Il procuratore distrettuale rimase lì come un salame. Per la prima volta guardò Nancy DiStefano che stava appoggiata allo stipite della porta con le braccia conserte per proteggere le costole fratturate. "Non ho letto il rapporto dell'ispettore che ha effettuato l'arresto," disse Locke. "Avevo l'impressione..." S'interruppe. "Deciderò quando l'avrò visto." Powell lo seguì ripetendo "nessun commento" ai rappresentanti della stampa. Nel locale della squadra omicidi scese un silenzio che si protrasse a lungo. Alla fine Batiste si rivolse a Terrell. "La procura distrettuale assume investigatori, Walt. Se vuoi, presenta la domanda e io accelererò le pratiche." E rientrò nel suo ufficio. Hardy raggiunse Nancy che sembrava sul punto di svenire, la aiutò a sedere e notò che ansimava per lo sforzo. Glitsky si avvicinò. "Avrebbe potuto chiamare o te o Freeman. Ho pensato che tu fossi a portata di mano." Hardy gli posò la mano sulla spalla per ringraziarlo. "Vuole che la porti a casa, Nancy?" Si capiva che lei soffriva molto; ma alzò gli occhi e scosse la testa. "Vorrei vedere Jennifer, se è possibile." Dopo un breve riposo, Nancy DiStefano annunciò che se la sentiva di raggiungere l'ascensore per salire al sesto piano. Quando si trovò nello spazio chiuso dalle sbarre davanti alla porta del carcere, Nancy si portò una mano alla bocca. C'era il solito odore di disinfettante e di sudore. In distanza echeggiava il consueto brusio di voci. Sentirono qualcuno urlare, e il tonfo di qualcosa che veniva scagliato a terra. Era l'ora di cena. Nancy gli si aggrappò al braccio. "Non sapevo che fosse..." Non finì la frase. Non era necessario. Nessuno sapeva che cos'era il carcere se non ci entrava. 'Volevo venire, ma Phil..." Hardy sapeva anche questo: Phil non glielo aveva consentito. John T. Lescroart
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Hardy aveva ottenuto per Nancy il permesso di entrare nella saletta degli avvocati. Lui era accanto alla porta quando condussero Jennifer. Nancy era seduta al lato opposto della piccola stanza. Si morse le labbra e alzò il viso. La porta si chiuse. "Ti hanno detto di tuo padre?" Jennifer annuì e tenne le braccia contro i fianchi. Nancy si alzò e mosse un passo incerto verso la figlia. Jenn... Jennifer sussurrò: "Oh, mamma..." Rimasero immobili. Nancy tese le mani e Jennifer si avvicinò, incerta. Si abbracciarono. Nancy cinse il collo della figlia. Il suo viso era contratto per il dolore alle costole, ma non la lasciò. Continuò a stringerla con tutte le sue forze. "Devo trovarlo." "No," disse Freeman. "Devi lasciar perdere." "Non ho niente altro. Quella donna non ha amici. Ha una madre, ma è l'unica traccia del suo passato. È sana di mente quanto te e me. È l'unica possibilità. Devo insistere." Erano nell'ufficio di Hardy, verso le undici. Era rimasto nella stanzetta dei colloqui, dimenticato, durante l'ora in cui madre e figlia s'erano parlate o, più esattamente, avevano cercato di riallacciare un legame. C'erano stati lunghi silenzi e lacrime frequenti, ma si erano sempre tenute per mano e avevano parlato di cose personali... Non avevano mai accennato al processo di Jennifer. Dopo aver lasciato il carcere e aver mandato Nancy a casa in tassì, era andato direttamente allo studio. Freeman stava ancora lavorando anche se era tardi: si occupava di un nuovo caso di omicidio e preparava nel contempo l'appello di Jennifer. Ora Freeman ascoltava il suo inquilino e collega che sproloquiava, fuori di sé per la frustrazione e la stanchezza. "Sai con quante persone ho parlato in questi sei mesi? E il risultato? Ho soltanto la madre e lo psichiatra di Jennifer, e allo psichiatra i giurati non crederanno. È tutto quel che ho per cercare di salvarla." "Hai Jennifer." "Ma che bella idea..." Hardy stava camminando avanti e indietro. "Chiamerò Jennifer, così guarderà negli occhi i giurati e dirà: se avete intenzione di votare per giustiziarmi, potete andare a farvi fottere. Chissà come si addolciranno." John T. Lescroart
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Freeman era andato a sedere alla scrivania di Hardy. "Ma non hai altro." Hardy si fermò. "È quel che sto cercando di dirti, David. È completamente distaccata dal mondo. Come se non lo sapessi! È troppo bella perché le altre donne si fidino di lei, e non è il tipo platonico con gli uomini. A parte il figlio, sembra che non avesse simpatia per i bambini. Dopo che Ned le uccise il gatto, non ha più avuto un animale domestico. Le giurie amano chi ama i gatti. Perché non se n'era procurato un altro? Il fatto è che non ho trovato un'anima disposta a dire qualcosa di buono sul conto di Jennifer Witt. Ma penso di aver ragione, David. Sono sicuro che Simpson Crane aveva scoperto la truffa." "E credi davvero che abbiano ucciso Larry o l'abbiano fatto uccidere?" "Almeno una ragione ci sarebbe." "E ci sarebbe anche l'aborto, ricordalo. Ne abbiamo già discusso, Dismas. E il fratello di Jennifer non odiava forse Larry? E il rancore del sindacato nei confronti di Simpson Crane non è valido quanto l'idea dell'imbroglio? Non potrebbero averlo ucciso per quello?" "Non lo so. Non so che cosa avesse scoperto Restoffer." "Non ha importanza, ma evidentemente è bastato per tenere vivo il suo interesse durante le indagini, no?" Il punto di vista di Freeman era chiaro, anche se Hardy non era dell'umore più adatto per ascoltarlo. Sapeva che ogni evento della vita poteva alimentare un numero quasi infinito di possibilità e di scenari plausibili che spiegavano tutto, se la fantasia era l'unico metro di giudizio. I processi non sarebbero mai finiti se si fosse permesso agli avvocati di introdurre altri modi in cui un fatto avrebbe potuto accadere senza tener conto dell'evidenza. Per questo, oberati di lavoro com'erano, i giudici non tolleravano le affermazioni riportate per sentito dire, le invenzioni, le teorie non suffragate dai fatti. Hardy cominciò a risistemare i fascicoli. "Che cosa devo fare, David?" "Non scherzavo, poco fa," rispose Freeman. "Prima farei testimoniare la madre, poi chiamerei Jennifer..." "Però tu non l'hai fatto!" "Era una situazione diversa. Io credevo di potermi concedere questo lusso. Tu no. È l'ultima carta da giocare. I giurati devono avere la possibilità di conoscerla meglio, di capire chi è in realtà, dietro la maschera..." "Powell la sbranerà." John T. Lescroart
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"È possibile. Può darsi che si condanni da sé. È un rischio. Ma tutta la vita è un rischio, ragazzo mio. E poi, hai un'altra scelta?"
47 I bambini non erano ancora svegli, ed era un miracolo. Le sei erano passate da poco e Frannie stava leggendo il giornale del mattino. Anche se non c'erano denunce, la madre dell'assassina aveva ucciso il marito e questo faceva notizia. E così, nonostante gli sforzi di Hardy, Powell aveva realizzato il suo scopo. Non soltanto il suo nome e la sua foto erano riapparsi sulle prime pagine, ma i giurati potevano farsi un'idea del modo in cui le donne della famiglia DiStefano risolvevano i loro problemi: ammazzavano i mariti. "Ne parlano come se fosse una maledizione biblica tramandata di generazione in generazione," commentò Frannie. Hardy annuì, stancamente. Era rientrato dopo mezzanotte e per un'altra ora non era riuscito ad addormentarsi. "Mi auguro che la giuria non la pensi così." Frannie posò il giornale. Qualcosa nella voce di Dismas... "Pensi che perderai?" "È possibile." Il massimo dell'eufemismo. "Posso fare qualcosa?" "Per esempio?" "Non so. Aiutarti in qualche modo. Ho l'impressione di aver abbandonato Jennifer. L'hanno riconosciuta colpevole. Che cosa dovrei pensare? Che cosa dovrei fare? Non posso limitarmi a continuare a negare..." "Non c'è bisogno che lo spieghi a me, Frannie. È una donna difficile. Indispone tutti." Frannie si morse le labbra. "Che cosa succederà se perderai?" "Se Powell sarà eletto e continuerà a puntare sul caso, l'appello di Jennifer non avrà speranze. Vedi, anche se volesse, il che non è, lui non potrebbe far altro che continuare a far pressioni." "È ingiusto." Hardy le prese la mano. "Non è ancora finita." Avrebbe fatto testimoniare prima Nancy e poi Jennifer. John T. Lescroart
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Nella redazione del Times di Los Angeles c'era una cronista mondana, Lucy Pratt, quando Hardy telefonò da Sutter Street un'ora dopo. Disse a Hardy che in effetti sapeva chi era Margaret Morency, anzi proprio quel fine settimana avevano pubblicato una sua foto. Margaret e il fidanzato avevano organizzato un'asta a beneficio della biblioteca di San Marino. "Chissà perché," disse Hardy, "avevo avuto l'impressione che fosse vecchia. Un vecchio patrimonio di San Marino, capisce?" La Pratt rise. "Oh, mi pare che Margaret non abbia ancora trent'anni. Il matrimonio sarà celebrato all'Huntington in dicembre. In città non si parla d'altro." Più che altro per educazione, Hardy chiese: "Chi è il fidanzato?" "È un po' la storia di Cenerentola a rovescio. Jody viene dai quartieri poveri. Però..." "È Jody Bachman, l'avvocato?" "Sì, il fortunato è lui. Lo conosce?" "Sicuro," rispose Hardy. "Tutti gli avvocati si conoscono. Siamo una grande confraternita." Lasciò un messaggio per Restoffer e poi, dato che nonostante il raffreddore voleva avere tempo per riflettere, andò a piedi al palazzo di giustizia, rintracciò Powell e si recò con lui nell'ufficio del giudice Villars. Il giudice non sembrava molto felice di vederli. "Spero che abbia preparato qualcosa per oggi, signor Hardy," disse. "Non prenderò in considerazione un'istanza di rinvio. E adesso, vuole ancora parlarmi?" Hardy rispose di sì; la Villars tornò alla sua poltrona e sedette. "Il momento per un appello personale viene dopo la decisione della giuria." Alludeva al balletto precostruito che accompagnava i casi di pena capitale in California. Dopo che la giuria rientrava con un verdetto di condanna a morte, non era ancora finita. La difesa presentava automaticamente un'istanza per chiedere che il verdetto non venisse preso in considerazione, e nel contempo presentava istanza per un nuovo processo per un qualunque motivo. Come si diceva in gergo, il giudice diventava il tredicesimo giurato. In pratica le istanze venivano accolte raramente. Se, nel ruolo di tredicesimo giurato, il giudice capovolgeva un verdetto e una sentenza, il procuratore distrettuale esercitava il diritto alla ricusazione in ogni John T. Lescroart
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occasione possibile e finiva per rovinargli la carriera. Ma la Villars era un tipo duro e i giudici della Corte Superiore avevano un grande potere. Hardy rimase in piedi. Powell sedette e ascoltò in silenzio. "Intendo chiedere un suo parere," incominciò Hardy, e spiegò che cosa aveva scoperto quella mattina sul conto di Jody Bach-man e di Margaret Morency. La Villars non lo interruppe. "Quindi, vostro onore, abbiamo un membro del consiglio di amministrazione dell'YBMG che ha bloccato le indagini di Restoffer a Los Angeles ed è fidanzata con l'avvocato del gruppo in questione. Penso che la giuria debba esserne informata." Il giudice si assestò sulla poltrona. "Come ha fatto quella donna a bloccare le indagini?" "Ha chiamato Kelso, il supervisore. E Kelso ha girato l'ordine al capo della omicidi." "Ha le prove?" Hardy sapeva che era il punto più difficile. "La signorina Morency ha contribuito a finanziare la campagna di Kelso ed è nel consiglio d'amministrazione dell'YBMG. So che è stato Kelso a telefonare al capo della omicidi dopo che Restoffer ha interrogato Bachman." "Non è una prova," obiettò la Villars. "In questa fase i criteri sono meno rigorosi. Io sto cercando di indurre la giuria a un dubbio persistente." La Villars attese. Hardy continuò: 'Vostro onore, questi sono fatti, non congetture. Simpson Crane è stato ucciso con la propria pistola come Larry Witt; anche lui con la propria. C'è un legame fra i due uomini, il Gruppo, e un filo che passa per Jody Bachman e una somma enorme che non si sa dove sia finita. Le indagini sull'assassinio di Crane sono chiuse. La fidanzata del legale del Gruppo ha influenza su Kelso. Permetta che i giurati vengano a saperlo, e forse cominceranno a interrogarsi. Non è una teoria. Nasce dai fatti." La Villars rifletté per un altro minuto. "È un castello di carte." "Vostro onore..." attaccò Hardy. "Posso intervenire, vostro onore?" Il giudice annuì e Powell si alzò. "Ieri ho adottato una linea dura con lei, signor Hardy, ma, contrariamente a ciò che crede, non sono ansioso di veder condannare a morte qualcuno. Perciò ieri sera sa che cosa ho fatto? Ho chiamato Los Angeles e ho parlato con il capo della omicidi, che mi ha passato il capo della polizia. La squadra John T. Lescroart
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omicidi è assolutamente sicura che Simpson Crane sia stato ucciso da qualcuno pagato dalla quarantasettesima sezione del sindacato macchinisti. Il caso non è chiuso anche se l'ispettore Restoffer non se ne occupa più: è passato per competenza alla polizia federale. Non c'è alcun sospetto che sia stato ucciso da qualcuno al soldo dell'Yerba Buena Medicai Group." "Comunque hanno tolto il caso a Restoffer." La Villars seguiva la discussione e prendeva appunti. Powell sospirò. "Evidentemente l'ispettore era irritato per l'intervento dei federali. Quando ha pensato che ci fosse la possibilità di tornare a occuparsene, ha pestato i piedi a qualcuno. Il caso gli è stato tolto perché non dava tregua a troppa gente e non si comportava da buon poliziotto." Il giudice si alzò. Senza la toga aveva l'aria di una brava nonna, e la sua voce non era tagliente. "Signor Hardy, l'ho ascoltata con attenzione per l'ultima volta. Ora spero che ascolti me. È possibile che a Los Angeles ci siano chissà quali intrighi finanziari, ma non riguardano questo caso. Si tratta di semplici coincidenze. Larry Witt non era coinvolto, o se lo era non ci sono prove." "Aveva telefonato alla Crane & Crane." "A questo proposito? Aveva parlato con Crane o Bachman? E se anche l'avesse fatto? Mi dispiace, signor Hardy, davvero. Mi rendo conto che sta facendo l'impossibile com'è suo dovere, ma non ammetterò teorie non suffragate da prove, e questo è quanto." Si avviò verso la porta. "Ora vi prego di scusarmi. Devo esaminare diverse memorie difensive."
48 Evidentemente molti dei presenti avevano letto i giornali del mattino o visto i notiziari televisivi. Quando Hardy chiamò Nancy al banco dei testimoni, la reazione fu vivace. Nancy, che era seduta a fianco del dottor Lightner, si alzò con movimenti rigidi, come ci si poteva aspettare da una persona con le costole fratturate. Aveva ancora la benda sul naso, e gli occhi erano neri e gonfi. I reporter cominciarono a scattare fotografie. Il giudice Villars si irritò e batté il mazzuolo. "Basta con le foto. Sedete tutti quanti. Da questo momento proibisco la presenza delle macchine fotografiche in aula. Chi intende usarne una può anche andarsene subito." John T. Lescroart
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I messi del tribunale si avvicinarono al divisorio. I reporter se ne andarono o consegnarono le macchine fotografiche. Nancy DiStefano varcò il cancelletto della barriera, si fermò al tavolo della difesa e prese le mani di Jennifer. Poi si raddrizzò a fatica, raggiunse il banco dei testimoni e giurò. Hardy si piazzò a tre metri da lei. "Signora DiStefano, è parente dell'imputata?" "Sono la madre." "Signora DiStefano, posso chiamarla Nancy?" "Certo." Hardy pensò che la cosa migliore da fare fosse buttarsi a capofitto. "Vuole parlarci delle sue lesioni in modo da informare la giuria, Nancy?" Powell balzò in piedi. "Obiezione, vostro onore. Non è pertinente." Sorprendentemente, la Villars chiese che Hardy esponesse le sue ragioni, prima di decidere. "Vostro onore, la signora Witt è cresciuta in casa della madre. Là si è formata la sua personalità. I giurati devono conoscere questo ambiente." La Villars disse che ammetteva la domanda e Hardy la ringraziò. Poi si avvicinò al banco dei testimoni. "Nancy, lei è stata da poco dimessa dall'ospedale, è vero?" "Sì." "Vuole parlare delle sue lesioni?" Nancy descrisse le fratture alle costole, la frattura al naso, le lesioni ai reni, i lividi sul seno, sul torso, sulle cosce. "Come mai è ridotta così?" "Mio marito mi ha picchiata." Tutti i presenti ascoltavano assorti. "Suo marito, Phil DiStefano, il padre dell'imputata?" "Sì." "Era la prima volta che la picchiava?" Mentre ne parlava, Nancy cominciava a chiudersi in se stessa e ad ingobbire le spalle, come faceva la figlia. Scosse la testa e il giudice Villars si sporse verso di lei. "Deve rispondere a parole, per favore." "No," disse Nancy. "Non era la prima volta." Hardy si avvicinò al palco della giuria e si voltò a guardare la sua assistita. Jennifer aggrottava la fronte, irritata. Hardy si rivolse di nuovo a Nancy. "Suo marito la picchiava spesso?" John T. Lescroart
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La testimone scosse la testa, ricordò l'invito del giudice e rispose: "Sì". "Da quanto tempo sua figlia se n'era andata da casa?" "Da circa dieci anni." "E prima che se ne andasse, suo marito la maltrattava già?" "Sì... l'ha sempre fatto. Phil beveva troppo, si arrabbiava per niente e mi picchiava." "Succedeva anche in presenza di Jennifer?" "Sì." "Suo marito ha mai picchiato la figlia?" Nancy scosse la testa. "No, la minacciò un paio di volte, ma io mi mettevo in mezzo. Le voleva bene." Le lacrime cominciarono a scorrerle sulle guance. "Perdeva il controllo, ecco." "Perdeva il controllo," ripeté Hardy. Si avvicinò alla giuria di altri due passi e continuò: "Secondo lei, Nancy, il fatto che suo marito la picchiasse aveva qualche effetto evidente sul comportamento di Jennifer?" Nancy lasciava che le lacrime continuassero a scorrere ma, come faceva anche Jennifer, parlava in modo chiaro. "Non ne discutevamo mai." Non era una risposta alla domanda, ma ci si avvicinava. "Non discutevate di che cosa?" "Erano cose che succedevano e poi passavano, e tutto tornava come prima." "Negava quel che succedeva? La famiglia lo negava?" "Sì. Fingevamo che non fosse successo niente." "E Jennifer?" "Diventava sempre più taciturna. Poi se ne andò." "Direbbe che era diventata chiusa, diffidente, soggetta a sbalzi d'umore?" Hardy sperava di spiegare alla giuria l'apparente insensibilità di Jennifer di fronte all'autorità della corte. "Sì." Nancy guardò la figlia. "Era una bambina così dolce. Era la mia piccola..." Sebbene avesse conservato la compostezza, Nancy era avviluppata nelle proprie emozioni, e il viso le si inondava di lacrime. La Villars si tese di nuovo verso di lei. "Signora DiStefano, vuol fare una pausa?" Stavano continuando. "Nancy, sua figlia le parlava mai di ciò che provava per Matt?" John T. Lescroart
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"Matt era la sua vita.'" "Matt era la sua vita." Hardy guardò la giuria, poi si rivolse di nuovo alla testimone. "Amava il figlio?" "Immensamente. Oh, Dio, sì." "Ha mai visto qualcosa che inducesse a pensare che lo trattava male o qualcosa del genere?" "No. Semmai, pensavo che fosse iperprotettiva. Forse lo viziava più di quanto avrei fatto io. Ma capivo perché lo faceva." "E perché?" "Ecco, per quello che aveva visto succedere fra suo padre e me. Anche Larry era iperprotettivo. Non volevano che succedesse qualcosa a Matt." Questo andava bene, perché metteva Jennifer e Larry dalla stessa parte. Al tavolo della difesa, Jennifer guardava davanti a sé e piangeva in silenzio. "Nancy," disse all'improvviso Hardy, "sua figlia avrebbe potuto uccidere Matt, sia pure per errore?" Trattenne il respiro e attese. Lei scosse la testa. "No. Se l'avesse fatto, sia pure per un incidente, si sarebbe suicidata." Powell si alzò. Sapeva che era una testimonianza emotiva e non voleva sembrare insensibile, ma doveva obiettare che si trattava di una semplice ipotesi. La Villars gli diede ragione. Ma Hardy aveva ottenuto finalmente ciò che voleva. Passò alle ultime domande che aveva preparato e alla risposta che si aspettava ma che credeva sincera. "Quali sono i suoi sentimenti per sua figlia?" "Le voglio bene," disse Nancy. "Mi è rimasta soltanto lei." Powell sapeva di avere un compito difficile, soprattutto perché la Villars aveva negato una sospensione prima del controinterrogatorio. Aveva di fronte una donna maltrattata fisicamente ed emotivamente sconvolta, e doveva screditarla, farla a pezzi. Se voleva riuscirci, doveva muoversi in punta di piedi. Sorrise per rompere il ghiaccio. Sapeva che lei lo ricordava dopo quanto era accaduto la notte precedente alla squadra omicidi, ma non aveva scelta. Doveva mostrarsi amichevole e fingere di voler chiarire qualche piccolo particolare. Lei stava sulla difensiva, ma gli rivolse un sorriso incerto. Era un inizio. "Signora DiStefano, lei e suo marito avete avuto anche un figlio John T. Lescroart
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maschio, no?" Nancy rimase un po' sconcertata. "Sì. Tom." "E Tom è mai stato vittima di maltrattamenti da parte del padre?" "Phil picchiava qualche volta Tom quando era piccolo, ma erano soltanto sculacciate. Non gli faceva male sul serio." "E adesso come sono i rapporti fra i due? Buoni?" Hardy si alzò. "Vostro onore, il signor Powell sa che il signor DiStefano è morto." Quel modo di formulare la frase aggirava l'ammissione che era stata Nancy a ucciderlo. Powell si scusò con un gesto. "Tom ha mai visto suo marito picchiarla?" "Sì." "Come Jennifer?" "Sì. Voglio dire, fino a più tardi." "Che cosa successe più tardi?" "Ecco, quando Tom è diventato grande, be', cercava di difendermi. E Phil aspettava che Tom non fosse in casa." "Ma con Jennifer non era così?" "Mi scusi. Che cosa non era così?" "Il suo defunto marito, Phil, la picchiava anche se c'era Jennifer?" "Qualche volta." "E Jennifer non cercava di fermarlo?" "Non poteva... come non potevo fermarlo io..." Nancy s'interruppe. S'era resa conto che finalmente lo aveva fatto. "Era troppo forte. Jennifer si nascondeva, credo." "Dunque Jennifer si nascondeva e stava a guardare il padre che picchiava lei, e non cercava di aiutarla. Ma suo figlio Tom tentava di intervenire. Che cosa prova per suo figlio?" "Tom? È un bravo ragazzo." "Gli vuole bene?" "Certo. È mio figlio." "E naturalmente le madri vogliono bene ai figli." "Sì." Powell attese un momento. "Eppure poco fa ha affermato che le resta soltanto Jennifer." Nancy si guardò intorno, angosciata, guardò Hardy e lui le accennò che andava bene così, che se la cavava benissimo. John T. Lescroart
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"Era un modo di dire," rispose Nancy. "È la mia unica figlia." "Le è affezionata?" "Sì. Molto." "Le è molto affezionata. Può dire alla giuria quante volte, più o meno, durante l'ultimo anno prima dell'arresto di sua figlia, è andata a trovarla a casa?" Hardy si portò la mano alla fronte. La trappola stava per scattare. Jennifer gli strinse il polso. Nancy esitò, per la prima volta. I secondi passarono lentamente. "Signora DiStefano," intervenne la Villars, "risponda alla domanda." Powell attese. Non era incalzante: quella domanda era semplice e ovvia, e aleggiava nell'aula. Nessuno, e Nancy meno di tutti, l'aveva dimenticata. "Durante l'ultimo anno, mai," disse finalmente. "Non è mai andata a casa di sua figlia durante l'ultimo anno?" "No." "E sua figlia è mai venuta a trovarla?" "No." "Mai?" "Mai." Powell girò su se stesso, sfoggiando un'espressione di profonda sorpresa. "E l'anno prima?" Nancy cominciava a tradire un tono irritato. "No, non li vedevamo spesso. Larry... Larry non voleva." "Larry non voleva." Powell si mostrava generoso, come se non volesse ferire i sentimenti di Nancy. "Allora, dato lo stretto legame che c'era tra voi, doveva parlare spesso al telefono con sua figlia." Nancy abbassò gli occhi. "Aveva tanto da fare." "Sua figlia aveva tanto da fare. Lavorava?" "Io lavoravo. E lavoro anche adesso." "Però restavano le sere e i fine settimana, giusto?" Hardy si alzò. "Vostro onore, l'accusa sta tormentando la testimone." "Obiezione respinta." Powell chiese: "Signora DiStefano, ci dica approssimativamente con quale frequenza parlava con sua figlia". Nancy continuò a tenere gli occhi bassi. "Una volta alla settimana? Una volta al mese?" John T. Lescroart
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"Telefonava sempre per il mio compleanno, e io la chiamavo per il suo." Powell lasciò che la risposta parlasse da sola. Annuì e tornò al tavolo dell'accusa. "Vorrei sapere ancora una cosa... Lei ci ha detto, signora DiStefano, che Matt era la vita di Jennifer, che lo viziava. Vorrei che fosse più precisa." Nancy guardò di nuovo Hardy per invocare aiuto. "Che intende dire?" "Intendo dire, se non vedeva quasi mai Jennifer e Matt, e lo ha appena detto, come poteva sapere quel che provava sua figlia per lui e come lo trattava?" "Ecco, quando era più piccolo..." "Allora Matt era tutta la vita di Jennifer?" "Sì." "E anche adesso?" "Sì." Powell continuò a fingersi gentile e generoso. Si avvicinò al banco dei testimoni e parlò a voce bassa. "Signora DiStefano, non capisco come possa saperlo. Me lo spieghi, per favore." Nancy rimase in silenzio per quindici secondi interminabili. Finalmente Hardy si alzò e chiese se quella si poteva considerare una domanda. Powell attese ancora un poco, quindi sospirò e disse che in effetti non lo era, e che la signora DiStefano poteva andare.
49 E finalmente, dopo il pranzo, sul banco dei testimoni prese posto l'imputata. Indossava un tailleur fumo di Londra con un foulard multicolore. Hardy non sapeva che cosa pensarne: irradiava messaggi contrastanti. Da una parte allontanava ancora di più Jennifer dalla gente comune che formava la giuria. Ma le statistiche dimostravano che nei casi riguardanti la pena di morte entravano in gioco dinamiche sottili. Una giuria avrebbe votato verosimilmente per la condanna capitale solo se si fosse convinta che l'imputato era una specie di mostro. E l'abbigliamento di Jennifer avrebbe contribuito a evitare quell'impressione. Così vestita non era un mostro, era una presenza umana. E, soprattutto, nella sua bellezza e nel suo portamento c'era qualcosa che in America era molto apprezzato. Hardy si augurava che i giurati, soprattutto gli uomini, non contribuissero col loro John T. Lescroart
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voto a trasformare in un cadavere quella bellezza sofferente. Certo, aveva paura che appena avesse aperto bocca avrebbe rovinato l'effetto. E la sapeva capace di assumere atteggiamenti che avrebbero esasperato anche quelli che erano meglio disposti verso di lei. Avevano discusso il tono della testimonianza, e avevano deciso che Jennifer avrebbe detto quanto aveva da dire con voce modulata e con la massima correttezza. Il rischio sarebbe venuto con il controinterrogatorio di Powell. Intanto, Hardy doveva muoversi con prudenza. "Jennifer, oggi è qui per difendere la sua vita. C'è qualcosa che vuol fare sapere ai giurati e al giudice?" Jennifer si voltò verso di loro. "So che avete ritenuto che gli indizi fossero sufficienti per giudicarmi colpevole." Deglutì nervosamente e guardò Hardy che annuì. "Non sono qui per difendere la mia vita, come dice il signor Hardy. Sono qui per dirvi che non ho fatto niente. Non ho ucciso mio marito, e tanto meno ho ucciso mio figlio. Ammetto di non essere stata, forse, la madre migliore del mondo, ma volevo bene a Matt..." S'interruppe e si morse il labbro inferiore. Poi si scosse con un sorriso forzato. "Credo che sia tutto." Powell scribacchiava furiosamente... che cosa? Hardy aveva intenzione di farle qualche domanda su Larry, ma l'affermazione di Jennifer era così chiara da ispirargli la tentazione di fermarsi. Ora i giurati l'avevano sentita negare di aver commesso gli omicidi... e forse sarebbe stato sufficiente. D'altra parte, i giurati potevano pensare che fosse facile simulare in una dichiarazione così breve. Doveva farla parlare ancora un po'. "Vuol parlarci della mattina del 28 dicembre?" Powell si alzò. "Vostro onore, questa testimonianza avrebbe dovuto essere resa nella prima fase del processo." Hardy intervenne prima che la Villars decidesse. "È la versione di Jennifer Witt e la giuria ha il diritto di ascoltarla, vostro onore." Il giudice si accigliò, ma diede ragione a Hardy. Si rivolse a Jennifer. "Ci parli di quella mattina, signora Witt." Jennifer annuì. "Mi ero alzata di buon'ora perché la sera prima avevamo cenato tardi e non avevo ancora lavato i piatti. Larry sarebbe rimasto a casa tutto il giorno; anzi, tutta la settimana, quindi volevo che la casa fosse in ordine. Avevo anche intenzione di andare a fare un po' di jogging, come al solito, e così ho messo la tuta e sono scesa. John T. Lescroart
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"Era piuttosto tardi, intorno alle otto e mezzo, ma Larry era in ferie e pensavo che poteva dormire quanto voleva. Poi è sceso. Matt dormiva ancora. Gli piaceva dormire. "Larry legge i giornali mentre fa colazione. Lo fa sempre..." S'interruppe e si riprese. 'Voglio dire che lo faceva sempre. Ma quella mattina, quando è sceso, era arrabbiato." "Perché?" chiese Hardy. "Perché non ero vestita nel modo giusto." "Non ha detto che aveva la tuta?" Jennifer annuì. "Ma dovevo uscire dopo circa un'ora, capisce? E avevo l'aria di essermi appena alzata. Avevo i capelli in disordine e non mi ero truccata." "Non era alzata da un po' per pulire la casa e lavare i piatti?" Anche se Jennifer non voleva confessare che Larry la picchiava, quei particolari potevano esserle utili. Quel sant'uomo di Larry non ci faceva una bella figura, e Hardy cercava di farla continuare. "Ecco, sì, ma... a lui non piaceva." "Si è messo a urlare?" "No. Ma ho intuito che era agitato. Capisce?" "Credo di sì." Hardy guardò i giurati. "E poi che cos'è successo?" "Ecco, gli ho servito il caffè e ho cercato di massaggiargli le spalle perché gli piaceva, quando era teso; ma me lo ha impedito." "L'ha allontanata fisicamente?" "No. Sa, non gli piaceva che stessi vestita in quel modo. Allora gli ho detto che sarei salita a cambiarmi se voleva..." "Anche se doveva andare a fare jogging meno di un'ora dopo?" Jennifer annuì. "Se voleva. Per me non aveva importanza. Ma lui mi ha detto di non disturbarmi; era sveglio da un pezzo ed era rimasto di sopra a guardare i nostri conti. Era preoccupato per le spese di Natale." "Poi che cos'è successo?" "C'è stata una discussione sui conti." Jennifer si rivolse alla giuria. "Succede a tutti." "Sì, e dopo?" "È sceso Matt. Si strofinava gli occhi come faceva sempre quando si svegliava... Non volevo che ci sentisse litigare e allora ho taciuto, sono andata in cucina e gli ho preparato un French toast, una cosa che gli piaceva tanto. Poi sono salita per rifare i letti. Pensavo che tutto sarebbe John T. Lescroart
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sbollito." "Ed è andata così?" "No... Quando sono scesa, Larry ha ricominciato a criticarmi per come ero vestita. Aveva creduto che fossi andata di sopra a cambiarmi. Gli ho detto che stavo per uscire, ma lui era ancora arrabbiato per i conti... per tutto. Abbiamo litigato di nuovo e Matt si è messo a piangere. Ho pensato che fosse meglio andarmene, e sono uscita." "È andata a fare jogging?" "Sì." "A che ora è uscita?" "Non lo so. Ho camminato per un paio di isolati, come faccio sempre per scaldarmi i muscoli. Poi ho cominciato a correre." Jennifer raccontò tutto... la sosta alla banca, il ritorno a casa, l'inventario in cui non aveva annotato la scomparsa della pistola perché non era entrata nella camera da letto. Hardy si stava convincendo che Freeman avesse commesso un errore non chiamandola a testimoniare. Jennifer aveva una versione coerente da raccontare e la raccontava bene. La voce acquistò man mano sicurezza finché non smise, poco prima della pausa per il pranzo. Purché reggesse altrettanto bene al controinterrogatorio di Powell... "Vorrei cominciare chiedendole di chiarire una cosa. D'accordo?" Jennifer annuì con calma. "Lei ha detto, cito testualmente: 'Non ho ucciso mio marito, e tanto meno ho ucciso mio figlio'. Significa che non è altrettanto sicura di non aver ucciso Larry?" Era una domanda molto abile, ma Hardy non intendeva lasciar fare a Powell. "Vostro onore, dov'è la sostanza della domanda?" La Villars era d'accordo. Jennifer non era tenuta a rispondere, ma Hardy si accorse che la domanda aveva già intaccato la sua sicurezza. Alzò leggermente la mano per raccomandarle di stare calma. Powell sorrise e ricominciò. "Se non le spiace, signora Witt, vorrei chiarire una parte della sua versione che non ho capito. Ha testimoniato che quando è scesa dopo aver rifatto i letti ha ricominciato a litigare con suo marito." "Larry ha ricominciato a gridare, sì." "E Matt si è messo a piangere?" John T. Lescroart
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"Sì." "E la sua reazione di madre al pianto di Matt è stata uscire di casa?" "Sono uscita per troncare il litigio." "Sì, capisco. Ma ha cercato di consolare suo figlio? Lo ha abbracciato? Gli ha detto che gli voleva bene?" "No, allora no. Pensavo che, finito il litigio fra me e Larry, avrebbe smesso di piangere..." "E questo era l'importante, no? Farlo smettere?" "Ecco, no. Voglio dire, avrebbe smesso." "Quindi lo ha lasciato lì ed è uscita?" Hardy si alzò. "La testimone ha già risposto alla domanda, vostro onore." Aveva risposto in modo disastroso. Powell ritirò la domanda e si avvicinò ancora di più a Jennifer. "Bene, signora Witt. Un'altra cosa... Ha detto che lei aveva litigato con suo marito per il bilancio familiare come succede a tutti. È esatto?" "Sì." Hardy intuì che Powell aveva un asso nella manica. Tornò con calma al tavolo dell'accusa e prese il documento che Morehouse gli porgeva. Tornò al centro dell'aula. "Vostro onore, ho qui copia del rendiconto della Pioneer's Bank, presso la quale la signora Witt aveva un conto corrente. Vorrei che fosse registrato come reperto 14 dell'accusa." Jennifer si tese. Hardy provò una fitta allo stomaco. Quando Powell si avvicinò al suo tavolo per mostrargli il rendiconto, decise di guadagnare un po' di tempo. "Vostro onore, posso avvicinarmi?" Con una smorfia, il giudice indicò a Powell e Hardy di accostarsi. "E adesso che altro c'è, signor Hardy?" "Vostro onore, il documento non figurava nell'elenco dei reperti dell'accusa. Chiedo che non venga presentato in questa fase," disse Hardy. "L'avvocato difensore sbaglia, vostro onore." Powell era preparato. Accennò a Morehouse di raggiungerlo. Il giovane assistente portò un fascio di fogli che Powell passò a Hardy e alla Villars. "Riga diciotto, pagina uno dell'elenco dei reperti, vostro onore." Hardy lesse. C'era scritto: "Documenti finanziari". Powell sventolò il fascio di carte. "Abbiamo consegnato questi documenti alla difesa il primo agosto." Naturalmente Hardy e Freeman avevano ricevuto il pacco, che adesso John T. Lescroart
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doveva trovarsi nello studio di Hardy in mezzo a sette raccoglitori pieni di dichiarazioni, interviste, rapporti della polizia. Siccome Powell non aveva ritenuto opportuno presentarli in aula nella prima fase del processo, Hardy aveva sperato vagamente che non li avesse notati in mezzo alla massa degli altri documenti. Ma era andata diversamente. Il fascio che Powell teneva in mano aveva uno spessore d'una decina di centimetri e conteneva all'incirca cinquecento fogli di dichiarazioni dei redditi, moduli assicurativi, rendiconti bancari, certificati azionari, copie di assegni pagati, ricevute di vario tipo. Non erano in ordine e non c'era un indice... una vera mimetizzazione per l'unico documento che avrebbe danneggiato Jennifer... il rendiconto d'una pagina che rivelava l'esistenza del suo conto segreto. "Eccolo, vostro onore." La Villars controllò, si assestò gli occhiali, annuì. "Infatti c'è, signor Hardy." Il documento fu registrato come reperto e Powell partì all'attacco. "Ora, signora Witt, dia un'occhiata a questo. È il suo conto?" L'espressione limpida era sparita dagli occhi di Jennifer e aveva lasciato il posto al panico. E Hardy non poteva aiutarla: anche lui era nella stessa situazione. Jennifer annuì. "Sì, è il mio conto." "Suo marito ne conosceva l'esistenza?" Jennifer deglutì. "Sì, certo." Hardy sapeva che la falsa testimonianza non era grave in confronto all'omicidio. Ma quella menzogna lo irritava, sebbene sapesse perché lei l'aveva detta. "Signora Witt, vuol leggere alla giuria l'indirizzo del rendiconto?" Jennifer diede un'occhiata alla copia che aveva in mano. "Casella postale 33449, San Francisco, California." "Una casella postale? I rendiconti non le venivano inviati a casa?" "No." "Perché, signora Witt?" Jennifer sbarrò gli occhi e si girò verso Hardy. "Non lo so." "Non lo sa!" La voce di Powell diventò più alta e profonda. "Non lo sa? Non è vero, signora Witt, che suo marito non sapeva dell'esistenza del conto?" "No..." "...e aveva scoperto che qualcosa non andava nel bilancio familiare? Aveva scoperto che gli mentiva sulle spese?" John T. Lescroart
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"No, non è vero..." Ma era vero, e Hardy lo sapeva. Powell non aveva ancora finito. Abbassò di nuovo la voce e attaccò da un'altra direzione. "Signora Witt, non ha ancora ricevuto l'assicurazione sulla vita del suo defunto marito?" Forse sconcertata da quel cambiamento di linea, Jennifer dovette credere per un momento che Powell stesse allentando la presa. Rispose di no. "Lei e Larry avevano un grosso conto corrente?" "No, non proprio. Credo che fossero ventimila dollari, più o meno." Powell si rivolse alla giuria. "Qualcuno potrebbe dire che era un conto cospicuo, signora Witt, ma le crederò sulla parola." "Poi avevamo il fondo per pagare il college a Matt." Jennifer non sapeva dove volesse arrivare Powell e cercava di spiegare. "Erano altri ventimila dollari." "E la casa?" Hardy si alzò. "Vostro onore, dove stiamo andando a parare?" Powell gli lanciò un'occhiata. "Glielo dico io, dove stiamo andando a parare, vostro onore. Questo dimostra chiaramente che gli omicidi furono commessi per avidità." Sventolò di nuovo il rendiconto della Pioneer's Bank, e si girò verso Jennifer. "Signora Witt, il conto per cui aveva dato l'indirizzo di una casella postale che somma conteneva quando è stata arrestata per i due delitti?" Jennifer si guardò le mani. "Posso dirlo io, se non lo ricorda. È in questi rendiconti. C'erano un po' più di trecentomila dollari, signora Witt, una somma che aveva sottratto a suo marito in sette anni, una somma che aveva rubato alla sua famiglia!" Jennifer scattò con voce stridula. "Non uscivamo mai! Non capisce? Lui non mi permetteva mai di far niente. Non sa che vita era, e come era lui. Non s'era neppure accorto che quei soldi erano spariti..." "Ma se n'era accorto quella mattina, no, signora Witt? E il suo amatissimo Matt era lì..." "Vostro onore, obiezione!" "È andata a prendere la pistola..." "Obiezione!" La voce di Hardy era salita di un paio di ottave. La Villars batté il mazzuolo. Powell alzò il tono e si avvicinò ancora di più a Jennifer. "Era venuto il momento di agire. Suo marito le ha detto che si riprendeva quella somma, non è così? Non è stato per questo che l'ha John T. Lescroart
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ucciso?" Jennifer balzò dalla sedia e si avventò contro Powell. Era stravolta. "No. NON l'ho ucciso io, figlio di puttana!" "Sedete tutti quanti. Signor Powell..." La Villars batté il mazzuolo. Jennifer urlava irrefrenabilmente. "Ordine! Ordine!" Ma persino i messi non osarono intervenire e lasciarono che Jennifer si scaricasse fino a che non raddrizzò la sedia e tornò a sedere. Powell la fissò e incurvò le spalle. "Non ho ancora capito perché doveva uccidere Matt," mormorò. Si voltò e annunciò che non aveva altre domande. Ci vollero due votazioni e due ore e diciassette minuti perché la giuria, come voleva la legge, raggiungesse l'unanimità. Per la pena di morte.
PARTE QUINTA 50 Hardy si svegliò, sudato e ansimante. La piccola stanza verde si stringeva intorno a lui mentre il gas dall'odore di mandorle amare gli scendeva bruciante nella trachea, nei polmoni, lo gettava in un'agonia muta... L'urlo lo svegliò dal sogno. Nella realtà, in quel modo di morire, l'urlo sarebbe stato silenzioso, soffocato nel momento in cui nasceva. Ma era nella sua camera, e Frannie dormiva raggomitolata al suo fianco. L'orologio accanto al letto diceva che erano le tre passate da poco: aveva dormito quasi due ore. Si alzò e andò nudo in bagno per lavarsi la faccia. I capelli erano incollati dal sudore. Trangugiò acqua e aspirina. Andò a sedersi sulla sua poltrona. Aveva freddo, più freddo di quanto avesse mai avuto. Dopo un paio di minuti sentì un suono di passi, e Frannie gli venne accanto. "Un brutto sogno?" Gli sedette sulle ginocchia e gli cinse il collo con le braccia. "Sei tutto sudato." Hardy non riusciva a parlare. "Vado a prenderti una coperta." John T. Lescroart
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Quando Frannie tornò, lui era scosso dai brividi. Gli mise addosso la coperta e andò a prenderne un'altra. Al ritorno, vide che si era riaddormentato e respirava pesantemente. Lo avvolse nell'altra coperta, gli passò la mano sulla fronte che scottava e si sdraiò sul divanetto sotto la finestra, con la testa su un cuscino accanto alle ginocchia del marito. Hardy si svegliò di nuovo. Doveva mancare ancora molto all'alba. Non si alzò dalla poltrona. Rimase in ascolto nell'oscurità. Qualcosa, forse un rumore, era penetrato nella sua coscienza. Fu assalito dal freddo e da una fitta di paura. Se era sulla strada giusta, forse c'era qualcuno che cercava di impedirgli di dire ciò che sapeva? Non ricordava d'essere andato a letto, non ricordava di essersi seduto sulla poltrona, e non sapeva perché Frannie fosse lì. Gettò via le coperte, e pensò che doveva essere entrato... poi s'era tolto le scarpe ed era crollato. Le sue pistole! Le pistole del tempo in cui era nella polizia erano chiuse in casseforti, sull'ultimo ripiano sopra il suo banco da lavoro, dietro la cucina. Si alzò barcollando, attraversò la casa accendendo le luci. La cassaforte era intatta. L'aprì. Le pistole erano ancora al loro posto. S'era spaventato senza motivo. Nessuno sarebbe venuto a ucciderlo in casa sua. Ma poi si disse che forse anche Larry Witt aveva pensato la stessa cosa. E anche Simpson Crane. E tutti e due erano stati uccisi nelle loro case, con le loro armi... Assurdo. Con la 380 in pugno decise di fare il giro della casa. Alla fine tornò sui suoi passi e spense le luci. Niente. Era pazzo. Guardò la pistola carica. Sapeva che era così che accadevano gli incidenti nelle case. Una stanza semibuia, una moglie o un figlio che sopraggiunge inaspettatamente mentre il marito ha in mano un'arma carica perché crede di aver sentito un ladro. Tornò nella stanza da lavoro. E mentre riponeva la pistola nella cassaforte, gli venne un'idea improvvisa. Gli mancarono le gambe. No, era troppo grottesco. Dovette sedersi. Larry aveva picchiato Matt. Più di una volta. Forse Matt era entrato durante il litigio e aveva preso le parti della madre, aveva tirato indietro il padre, e Larry aveva perso la testa, l'aveva colpito alla faccia con la canna John T. Lescroart
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della pistola. Poi s'era reso conto di ciò che aveva fatto. Il bambino, forse, aveva la mascella rotta, ed era la prova vivente di ciò che Larry era diventato. Sarebbe stata la fine per la sua carriera, per la sua vita ordinata... In un batter d'occhio, mentre Matt era a terra accanto al bagno e Jennifer lo implorava di smettere, gli era venuta in mente l'unica soluzione. Distruggere la prova di ciò che aveva fatto. Un proiettile avrebbe cancellato il segno dove aveva colpito il figlio. Ma poi non era rimasto alcun motivo per continuare a vivere, e si era sparato. Ma prima di farlo s'era rivolto a Jennifer e aveva detto: "È tutta colpa tua". E lei, dato che era ciò che era, gli aveva creduto. Ma naturalmente non poteva essere andata così. La scomparsa della pistola escludeva quella possibilità. O forse Jennifer, che si riteneva responsabile del litigio e di ciò che aveva causato, aveva preso la pistola ed era andata a gettarla nel cassonetto? Così non sarebbe stata colpa di Larry. La sua reputazione sarebbe stata salva. E lei, Jennifer, avrebbe avuto ciò che meritava per essere stata la causa di tutto. Era troppo tortuoso. Eppure qualcosa quadrava: la fermezza con cui Jennifer negava di aver ucciso il marito e il figlio. E soprattutto corrispondeva al suo profilo: l'odio per se stessa, il senso di colpa, il bisogno d'essere punita. Hardy si appoggiò al muro, tormentato dalla febbre. No, non era andata così. Aveva altre idee da approfondire, idee che avevano più senso. Era in delirio. "Oggi non puoi andare." La febbre di Hardy si era stabilizzata a trentotto e mezzo. Si sentiva le ossa peste ed era arrivato alla terza tazza di caffè. "L'appuntamento è alle nove. Devo andare. Mi restano solo tre giorni." Tre giorni prima che la Villars, il tredicesimo giurato, emettesse la decisione finale; martedì alle nove e mezzo del mattino. Hardy doveva preparare l'istanza contro il verdetto e nonostante tutto credeva di avere ancora una possibilità di ottenere che la condanna fosse tramutata in ergastolo. Purché fosse riuscito a portare alla Villars qualcosa che le sembrasse ammissibile. Dopo il verdetto aveva trascorso metà della notte con Jennifer a parlare John T. Lescroart
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delle possibilità. Aveva nascosto il suo asso nella manica, la decisione di esporre la questione dei maltrattamenti al giudice se fosse risultato che era l'unica cosa in grado di mitigare la condanna. Ma intanto aveva informato Jennifer della situazione dell'YBMG e lei lo aveva autorizzato a fare quanto era necessario per trovare le prove. Adesso, almeno, voleva vivere. Per prima cosa alle otto di sera del venerdì aveva telefonato al presidente del consiglio d'amministrazione del Gruppo. Il dottor Clarence Stone viveva a San Francisco e gli aveva dato appuntamento a casa sua per il sabato mattina. Influenza o no, Hardy doveva andare. Clarence Stone viveva in una casa lussuosa nella zona di Seacliff, geograficamente a meno d'un chilometro e mezzo dalla casa di Hardy, e psicologicamente in un'altra galassia. Un maggiordomo gli aprì e lo precedette in un lungo corridoio, lo fece entrare nella biblioteca dove un uomo dai capelli bianchi e dai baffetti ben curati sedeva a una scrivania enorme. Indossava una vestaglia di seta marrone e scriveva con una stilografica. Quando Hardy entrò smise di scrivere, posò la penna, si alzò e gli tese la mano. "Non ha una bella cera, figliolo." Hardy non ne dubitava. "Un po' d'influenza," rispose. "Nient'altro." Stone ordinò al maggiordomo di portare il tè con molto limone e miele. Invitò Hardy a sedere su una poltrona e a togliersi il cappotto e si offrì di dargli un'occhiata gratis. "Dorme abbastanza? Dovrebbe stare a letto, lo sa?" Hardy accennò una risata sebbene battesse i denti. "Questa settimana ho dormito otto ore. Sto benissimo." Stone prese la sua vecchia borsa da medico, la posò sul pavimento e tirò fuori qualche strumento. Auscultò il torace di Hardy, gli misurò la febbre e gli osservò la gola. "Sì, è proprio influenza." Il maggiordomo portò il tè e Stone preparò un paio di bicchieri. Deve trattarsi di una cosa importante," osservò. "Non dovrebbe andare in giro." "È molto importante." "Ieri sera, mi pare, ha detto che riguarda l'YBMG." Hardy gli riferì tutto in breve, incluse le preoccupazioni di Larry Witt per la circolare e il prospetto. Stone non rispose immediatamente. "Conosce molti medici, signor Hardy?" John T. Lescroart
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"Qualcuno." "Sa quanta gente cerca di vendergli qualcosa? Non passa giorno senza che un medico affermato riceva dieci prospetti di società per azioni, due o tre moduli per la richiesta di una carta di credito e così via. Anche se si rivolge alla posta per chiedere che questo tipo di corrispondenza non gli venga recapitato, si ritrova sepolto sotto una valanga." "Capisco." "Sì, ma se crede che una presentazione vistosa sia utile, sbaglia. Ne riceviamo ogni giorno. Il consiglio di amministrazione ha deciso proprio per questo di emanare una circolare molto sobria, tutt'altro che sensazionale. Non volevamo alimentare grandi speranze di successi dopo che il Gruppo fosse diventato un'azienda a scopo di lucro. Nessuno, soprattutto nel consiglio di amministrazione, prevedeva l'interesse della PacRim e un simile guadagno." "E perché avevate concesso un'opzione tanto breve?" "Non era breve. I medici sanno leggere ma, come tutti, spesso non agiscono fino all'ultimo momento. Perciò si fissa una scadenza: per farli decidere. E ricordi che era un investimento inferiore ai venti dollari, come massimo. Non era una decisione da discutere con la moglie o con un avvocato. Era molto chiara, e offriva una possibilità a tutti." "Ma non tutti hanno comprato." Stone scrollò le spalle. "Se ci vede una cospirazione, purtroppo a questo punto dovremo lasciarci." Sarebbe stato più facile se Stone fosse stato sulla difensiva: invece era tranquillo e soprattutto ragionevole. Hardy si tese verso di lui. "Ali Singh ha detto che solo trenta medici hanno acquistato le azioni." "Forse quaranta. Non so. Certo, quelli che oggi vorrebbero averlo fatto sono molti di più. Ma sono cose che succedono. Chi non vorrebbe aver comprato azioni della Apple o di McDonald's, quando sono nate?" "Ma il dottor Witt aveva protestato." "Con chi? Forse voleva semplicemente chiedere un'estensione, o aveva qualche domanda da fare. Chissà. Non lo conoscevo personalmente, quindi non ne ho idea." Il colloquio stava assumendo un senso di déjà vu. Il giudice Villars aveva fatto le stesse obiezioni. E Hardy non aveva in mano niente di concreto. Un'altra ondata di nausea lo assalì. Si appoggiò alla spalliera e John T. Lescroart
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chiuse gli occhi. "Signor Hardy?" "Sarà meglio che vada. La ringrazio. Mi è stato molto utile." Il dottor Stone gli prese il braccio, lo accompagnò al corridoio. "Sa," azzardò Hardy, "avrei un'altra domanda da farle, se non le spiace... Che fine hanno fatto le azioni che nessuno ha comprato?" Stone non esitò. "In parte sono finite in un conto bloccato, in parte sono confluite nel patrimonio del Gruppo. Altre le abbiamo date come gratifica. Altre ancora in cambio di servizi." "Per esempio servizi legali?" Stone sorrise. "Per la verità, sì. Il signor Bachman ci ha guadagnato parecchio. E noi pensavamo che fosse un ottimo affare. Un affare incredibile, anzi." Erano arrivati alla porta. Stone continuò: "Di solito Crane si faceva pagare duecentocinquanta dollari all'ora, e Bachman ha proposto di occuparsi delle pratiche per la trasformazione, in cambio di cinquantamila azioni. Abbiamo calcolato che ci sarebbero volute cento ore di lavoro e che le azioni valevano duemilacinquecento dollari... a quel tempo. Un affarone. Quindi il consiglio d'amministrazione ha accettato." "Cinquantamila azioni?" "A cinque cent l'una, lo ricordi. Erano noccioline. Naturalmente adesso..." Hardy attese. "Be', ci è andata così bene che non possiamo certo lamentarci di Bachman. Ha lavorato parecchio e ha contribuito ad arricchirci tutti. Le sembra una colpa?" "E Bachman quanto ci ha guadagnato?" Stone sporse le labbra e sorrise. "Credo che sia di dominio pubblico. Comunque posso dirglielo io... un po' più di sette milioni di dollari." Hardy ripeté quella cifra a voce alta. Stone ammise che era stato un ottimo affare. "Ma adesso sarà meglio che lei vada a casa e si metta a letto. Prenda un'aspirina ogni quattro ore." "E devo bere molti liquidi." Il medico sorrise. "Giusto. Poi mi mandi cinquanta dollari." Il sorriso si allargò. "Mi scusi, dimentichi i cinquanta dollari: è la forza dell'abitudine." Ma Hardy non andò a casa. John T. Lescroart
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David Freeman stava ascoltando un concerto di musica classica nel suo soggiorno. Hardy buttò la borsa sul pavimento e si lasciò cadere sul divano, si strinse addosso un paio di cuscini per stare più caldo. E si assopì. Quando si svegliò la nebbia velava ancora le finestre. Freeman gli aveva gettato addosso una coperta. C'era silenzio. Il vecchio avvocato stava lavorando al tavolo della cucina: leggeva un fascicolo e prendeva appunti. "Che ore sono?" Hardy si sentiva le ossa così pesanti che non riusciva a sollevare il polso. Freeman alzò la testa. "Le due passate. Di solito anch'io sto male dopo un processo." "Non posso star male." Hardy cercò di raddrizzarsi ma non ci riuscì molto bene. "Perché sono venuto qui?" "Perché siamo qui? Che cos'è la vita? I grandi interrogativi. Ecco perché mi sei simpatico. Ti va di mangiare qualcosa? Io ho una fame tremenda." "Non credo che riuscirei a mangiare." "Okay." Freeman, comunque, andò a frugare nel frigo. "Adesso ricordo." Hardy si alzò e si avvolse nella coperta. "Jody Bachman ha guadagnato sette milioni di dollari." Freeman smise di frugare. "Cinquantamila azioni," aggiunse Hardy. Freeman sporse la testa sopra lo sportello del frigo. "Quali dei due?" "Tutti e due." "Vuoi dire che ha avuto sette milioni di dollari più cinquantamila azioni?" Freeman scosse la testa. "Abbiamo sbagliato mestiere." "No, ha avuto cinquantamila azioni che adesso valgono sette milioni." Freeman rinunciò a frugare nel frigo e andò a sedere all'estremità del divano. Si grattò la barba. "Ha accettato le azioni come pagamento? E quanto valevano?" "Cinque cent l'una," rispose Hardy. "Che cosa stai pensando?" "Penso che forse hai trovato qualcosa." "L'ho pensato anch'io." Ma Hardy aveva bisogno di conferme. Troppe volte era partito senza riuscire a mettere le mani sui fatti. Non doveva più accadere. "Ma non so di che cosa si tratti." Freeman gli spiegò il suo ragionamento. I grandi studi legali come Crane & Crane di regola non permettevano agli associati e ai soci giovani di accettare azioni senza valore in cambio John T. Lescroart
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degli onorari. L'ambizioso Jody Bach-man aveva concluso un accordo con la PacRim, oppure sapeva che la PacRim aspirava a un accordo con l'YBMG. Freeman non era sicuro dei particolari, ma pensava che senza dubbio fosse stato Bachman a convincere il Gruppo ad accettare l'idea delle azioni. Sarebbe filato tutto liscio se non ci fosse stato Simpson Crane, socio dirigente di Crane & Crane. Bachman lavorava per centinaia di ore senza portare un soldo nelle casse dello studio. E questo puzzava di marcio. Forse Simpson gli aveva chiesto spiegazioni, oppure Bachman s'era rivolto a lui e aveva chiesto il permesso di accettare le azioni. Ma se la Crane & Crane avesse preso l'abitudine di accettare azioni con un valore nominale massimo di duemilacinquecento dollari anziché una parcella garantita di settantacinquemila, lo studio sarebbe andato in rovina molto presto. Simpson Crane doveva aver detto di no. E questo avrebbe mandato a rotoli i piani di Jody. Forse avrebbe messo addirittura in pericolo il fidanzamento con la milionaria Margaret Morency. Se Simpson Crane era l'unico ostacolo fra Bachman e tutto ciò che desiderava, e se Simpson aveva minacciato di bloccarlo... non sarebbe valsa la pena di ucciderlo? Poteva darsi che Simpson avesse minacciato di licenziare Bachman. Freeman, al suo posto, l'avrebbe fatto. "Ecco tutto," concluse Freeman. "Ti va l'idea?" Hardy aveva gli occhi che bruciavano e la bocca impastata, ma aveva ascoltato attentamente. Era abbastanza vicino allo scenario che aveva immaginato. Adesso non doveva far altro che provarlo. "Direi che merita un nove." Freeman lo guardò come se avesse di fronte un marziano, poi andò in cucina per chiamargli un tassì. Nonostante i consigli benintenzionati di tutti, non sarebbe andato a casa. Non ne aveva il tempo. Martedì mattina doveva parlare con la Villars, e se nel frattempo non avesse trovato ciò che voleva, avrebbe dovuto passare il lunedì a preparare l'istanza che avrebbe rappresentato l'ultima trincea. Ma quella era la possibilità migliore. Poteva funzionare. Chiamò Frannie dall'aeroporto di San Francisco e sopportò la sua sfuriata. Aveva tutte le ragioni di arrabbiarsi. Ma lui avrebbe trovato il modo di farsi perdonare. Il processo gli aveva insegnato molte cose. Quella era una vita pazzesca, e c'era cascato. Ora intendeva uscirne, fare John T. Lescroart
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qualcosa d'altro, o farlo in un altro modo. Appena il processo fosse finito. Ma prima doveva finirlo.
51 L'aereo doveva atterrare a Burbank un'ora prima dell'imbrunire. Hardy dormiva su un sedile accanto a un finestrino, avvolto in un plaid, quando il pilota annunciò l'inizio della discesa. Aprì gli occhi, poi li richiuse fino a quando l'aereo non si fermò. Era un'idea stupida, pensò mentre si avviava cercando di non barcollare verso il più vicino autonoleggio. Bene o male arrivò a Pasadena. Era già stato all'Embassy Suites e ricordava vagamente dove stava andando. Dopo meno di un'ora dal momento dell'atterraggio fece la doccia, lasciò un messaggio per Frannie per farle sapere che era arrivato, e s'infilò sotto le coperte. Dormì quattordici ore e si svegliò fra le lenzuola fradice di sudore. Cominciava a credere che sarebbe sopravvissuto. Era quasi mezzogiorno di domenica 24 ottobre. Dopo un'altra doccia chiamò di nuovo casa sua, ma anche questa volta non rispose nessuno. Lasciò un altro messaggio per dire che si sentiva meglio e che avrebbe richiamato la sera. Restoffer rispose al terzo squillo. Lo salutò abbastanza cordialmente; ma quando Hardy cominciò a spiegargli le ragioni della sua trasferta, notò subito un cambiamento, un riserbo quasi malaugurate. Restoffer l'interruppe. "Lasci perdere. O almeno mi lasci fuori." Era una sorpresa spiacevole. L'ultima volta che avevano parlato Restoffer gli aveva confermato di essere a sua disposizione. Adesso si tirava indietro. "Che cos'altro è successo?" "Niente. Ma il suo procuratore ha chiamato il mio capo." Silenzio. Non c'era bisogno di aggiungere altro. Hardy aveva causato guai seri a Restoffer nei mesi precedenti alla pensione. Non ne voleva altri. "Devo scappare." La comunicazione s'interruppe. Hardy andò in bagno, prese altre tre aspirine e si guardò allo specchio. Aveva gli occhi cerchiati, la barba lunga e sentiva il bisogno di dormire per altre quattordici ore. Non trovò il coraggio di misurarsi la febbre. Si aggirò nella stanza per un quarto d'ora, ordinò la colazione e richiamò John T. Lescroart
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Restoffer. "Sapeva che Margaret Morency è fidanzata con Jody Bachman?" Ci fu un lungo silenzio, poi Hardy continuò: "Devo pure cominciare da qualche parte, Floyd. Sono a Pasadena. Ho bisogno di un aiuto. La prego". Attese. "La Morency è sull'elenco telefonico. Ho controllato." Dopo un altro istante l'ispettore aggiunse: "San Marino". E riattaccò. Hardy lasciò un messaggio per Jody Bachman allo studio Crane & Crane. Era sicuro che si fosse trattato d'una semplice dimenticanza perché Bachman aveva tanto da fare, però non lo aveva richiamato per parlare della questione Larry Witt. Sarebbe rimasto a Los Angeles quel giorno e l'indomani. Forse avrebbero potuto vedersi a pranzo. Lasciò il numero dell'albergo e quello della stanza. La fortuna l'aveva abbandonato. Sì, Clarence Stone l'aveva ricevuto. Freeman era arrivato più o meno alle stesse conclusioni. Aveva trovato posto sull'aereo e in albergo. Ma era tutto. Adesso Restoffer non voleva parlare con lui, Frannie non era a casa, Bachman non era in ufficio perché era domenica e il telefono di Margaret Morency non aveva la segreteria telefonica. Un'ondata di stordimento lo assalì. Provò la tentazione di abbandonarsi all'inerzia, sdraiarsi, dirsi che era stato un errore e tornare a casa nel pomeriggio. Si buttò sul letto e chiuse gli occhi. La rabbia lo costrinse ad alzarsi. Era disgustato con se stesso, con la propria debolezza. Prese la camicia, fradicia e grinzosa. Non andava bene. Doveva procurarsi qualcosa da mettere addosso. Doveva continuare a muoversi... La casa di Clarence Stone a Seacliff era una villa grande e bella ma di proporzioni umane. La residenza di Margaret Morency a San Marino era tutta un'altra cosa. Per Hardy era una specie di lezione sulla comunità degli investitori: c'erano gli agiati, c'erano i ricchi e c'erano quelli che possedevano case non visibili dalla strada. Il viale, al di là del cancello di ferro battuto, si snodava in mezzo a una foresta di querce, superava un dosso e scompariva. Hardy fermò la macchina al cancello e scese per suonare. Quando aveva John T. Lescroart
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telefonato l'ultima volta nessuno aveva risposto, ma adesso era passata un'ora e forse era cambiato qualcosa. Una voce femminile, giovane e profonda, parlò dal citofono. "Sì?" "La signorina Morency?" "Sì." Hardy pensò che non poteva imbarcarsi in una lunga spiegazione. Doveva vederla. "Non sono riuscito a comunicare con lei per telefono," disse. La donna rise. "Lo so. Lo lascio suonare. Non so neppure perché lo tengo. Con chi parlo?" Hardy rispose che era un conoscente di Jody. "Oh, un momento." Un ronzio e il cancello cominciò ad aprirsi. "Mi troverà accanto alla piscina." "Do sempre la domenica libera al personale." Erano seduti sulle poltroncine da picnic sotto l'ombrellone. Sul tavolo c'erano due caraffe, una di tè freddo e una di limonata. La prima reazione di Hardy, quando l'aveva vista, era stata che c'era in circolazione di meglio. Margaret Morency aveva il mento un po' troppo sporgente, un po' troppa lanugine sulle guance, l'attaccatura dei capelli troppo bassa. La grande ricchezza poteva mascherare molti difetti. E poi aveva imparato alla perfezione l'arte di distogliere l'attenzione dal viso. I capelli biondi e splendenti scendevano sulle spalle. Indossava le mutandine nere di un bikini e un top bianco semitrasparente. Una catena d'oro le cingeva la vita snella. Le gambe erano lunghe e affusolate e un'altra catena luccicava intorno alla caviglia. "Come mai conosce Jody?" chiese. Hardy aveva tutte le ossa indolenzite e sentiva il sudore che gli colava fra le scapole mentre la febbre lo riassaliva. Bevve un sorso di limonata e sorrise fiaccamente. "Purtroppo sono avvocato anch'io." Margaret Morency aveva una risata profonda, disinibita. Rovesciò la testa all'indietro, allegramente. "Gli avvocati non hanno paura di nulla, o almeno così dice Jody." "Io ho paura." "Di che cosa, signor Hardy? Mi sembra in grado di badare a se stesso." "In questo momento sto combattendo contro un raffreddore e credo che John T. Lescroart
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anche un bambino di otto anni potrebbe stendermi senza fatica." Lei lo guardò con aria interrogativa. "Dove eravamo rimasti?" "Mi ha chiesto come ho conosciuto Jody. Non lo conosco." Per un attimo negli occhi di Margaret Morency passò un lampo. Timore? Irritazione. "Non è della polizia, vero?" "Perché? Jody ha qualche guaio con la polizia?" "Non vedo come potrebbe. E lei non mi ha risposto." "Gliel'ho detto. Sono avvocato, non un poliziotto." Lei incrociò le braccia e restò impassibile. "Che cosa pensate che abbia fatto? Dovreste lasciarlo in pace." Hardy annuì. "Sì, è quello che ha detto il signor Kelso all'ispettore Restoffer. Ma io agisco di mia iniziativa e sto cercando di salvare la vita della mia cliente." Riferì brevemente la storia di Jennifer. Quando terminò, lei bevve un sorso di limonata. "Non è stato Jody a chiamare Frank... il signor Kelso. Sono stata io, Jody non ne sapeva niente; ed è probabile che non sappia niente neppure adesso." "Perché lo ha chiamato?" "Perché, signor Hardy, Jody non ha certo bisogno di queste storie. È molto sensibile e non ha fatto niente di male. Quel Restoffer ha cominciato a interrogarlo come se fosse un criminale. Accuse ridicole che lo facevano a pezzi. Sa chi è Jody?" "So che è il suo fidanzato. Ed è tutto, più o meno." "È una persona eccezionale. Passa metà del tempo ad aiutare la gente. È venuto dal nulla e ora fa parte dell'élite. Raccoglie denaro per molte cause ammirevoli. È socio del suo studio legale e guadagna bene. È fidanzato con me, quindi il denaro non è un problema. Non ha bisogno di fare niente di illecito. Non è al denaro che mira." "Jody le ha detto che Restoffer l'aveva accusato di aver fatto qualcosa?" "Non esattamente, ma era chiaro che secondo lui Jody poteva avere qualcosa a che fare con la morte di Simpson Crane. È assurdo. Simpson Crane era come un padre, per lui. Ha pianto quando ha saputo che era stato ucciso. Ero con lui e l'ho visto. Certi sentimenti non si possono simulare, signor Hardy." E invece succede, pensò Hardy. "E poi, tutti sanno chi ha ucciso Simpson: quel maledetto sindacato. Era John T. Lescroart
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convinto che i sindacati fossero padroni del paese, e non gli dava tregua. Ci riusciva anche troppo bene: per questo l'hanno assassinato. Sono tipi così." Si alzò dalla poltroncina, prese un telo di spugna e se lo drappeggiò sulle spalle. Anche Hardy si alzò. "Grazie per avermi ricevuto." Margaret Morency si avvicinò e gli posò una mano sul braccio. "Vorrei che lasciasse in pace Jody," mormorò. "Ancora grazie," disse Hardy. "Troverò la strada da solo." Il telefono squillava. Erano le sei e mezzo, secondo la sveglietta sul comodino, e in un primo momento Hardy non ricordò chi era e neppure se era giorno o notte. Sollevò il ricevitore. Era Jody Bachman. "Margaret mi ha detto che è andato da lei. Mi spiace che non ci siamo visti. E, sì, non l'ho mai richiamata. Che cosa posso dire? Ho avuto molto da fare. Ho trovato il suo messaggio in ufficio. Vuole che ci vediamo?" "Stasera no. Ho un raffreddore tremendo." "Allora domani, se sarà ancora in città. È libero per pranzo? Ho un tavolo prenotato al City Club. Si mangia benissimo e la vista è splendida. Va bene a mezzogiorno?" "Benissimo," rispose Hardy. Si abbandonò di nuovo sul letto. Quando chiuse gli occhi ebbe la sensazione che la stanza gli girasse intorno. Si sollevò a sedere con uno sforzo di volontà. Stava dimenticando qualcosa, qualcosa d'importante, forse di decisivo; ma non riusciva a identificarlo. Tentare di pensare era faticoso. I minuti passarono. Cominciò ad assopirsi. Il telefono squillò di nuovo. "Stai ancora male?" "Sì." La collera di Frannie aveva lasciato il posto alla preoccupazione. "Perché non torni a casa, Dismas? Dovresti farti vedere da un dottore." Hardy le parlò dell'appuntamento con Bachman per il giorno dopo. In un modo o nell'altro sarebbe stata la conclusione. Doveva restare. Frannie non insistette più. Disse che i bambini stavano bene e che Rebecca sentiva molto la sua mancanza. La sentiva anche sua moglie. E lui John T. Lescroart
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doveva riguardarsi. Hardy promise. Andò in bagno, prese altre aspirine, bevve due bicchieri d'acqua. Era tutto indolenzito. Andò alla finestra per chiudere la veneziana. Sulla città regnava un crepuscolo violaceo. Si appoggiò con un braccio alla finestra. Nel parcheggio sotto di lui un uomo scese da una macchina, chiuse la portiera e andò ad aprire il portabagagli. Poi, in fretta, aggirò l'entrata principale ed entrò direttamente nell'ala dove alloggiava Hardy. Anche a casa s'era sentito così. Paranoide. Stupido. Ma era inutile. Sapeva che doveva andarsene. Aveva comunicato a Jody Bachman il numero della sua stanza e aveva detto che non si sarebbe mosso per tutta la notte. Jody Bachman, che, secondo lo scenario di Hardy, aveva assoldato qualcuno per uccidere Simpson Crane e la moglie, e Larry e Matthew Witt. E adesso Hardy era l'unico ostacolo che si frapponesse fra lui e i sette milioni di dollari... Non c'era molta roba da mettere nella borsa. E non c'era nessuno nel corridoio quando uscì. L'ascensore si aprì e si trovò davanti a un uomo magro, bruno e benvestito. Portava la stessa borsa che aveva visto prima, o una molto simile. Hardy gli passò accanto ed entrò nell'ascensore mentre l'uomo usciva e cominciava a guardare i numeri delle camere.
52 Jody Bachman era in ritardo di venti minuti. Se era sorpreso di vedere Hardy ancora vivo, non lo lasciò capire. La febbre era passata dopo altre dodici ore di sonno in un motel vicino a Glendale. Hardy aveva ancora i muscoli indolenziti. Capì che era Bachman prima ancora che raggiungesse il tavolo. Entrò come se il locale fosse suo. Era uno degli ex surfisti della California meridionale che sembravano invecchiare con un ritmo diverso da quello dei comuni mortali. Se era socio dello studio Crane doveva avere trentacinque anni ma ne dimostrava dieci di meno. I capelli, che quindici anni prima dovevano essere stati biondissimi, adesso erano castano chiaro e ricadevano sulla fronte in un ciuffo alla Kennedy. Se non usava le John T. Lescroart
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lampade abbronzanti, doveva passare molto tempo in riva alla piscina di Margaret Morency. Mentre Bachman si avvicinava, Hardy beveva un club soda. "Scusi il ritardo. Jody Bachman." Bachman sedette. "Che cosa beve?" Hardy inclinò il bicchiere. "Club soda." "Prenderò qualcosa anch'io." Bachman scosse la testa. "Dunque, che posso fare per lei?" "La mia cliente è stata condannata a morte venerdì scorso." Bachman si fermò con il bicchiere in mano. Lo posò. "Gesù," disse. "La moglie di Witt, giusto?" "Giusto. Jennifer." Bachman zufolò in silenzio. Il cameriere si avvicinò, mise sul tavolo un bicchiere pieno di qualcosa che sembrava succo di mirtilli. "Per me il piatto del giorno, Klaus, qualunque cosa sia." "Va bene." Quando Klaus si fu allontanato, Hardy disse: "Sto cercando di convincere il giudice a commutare la condanna in ergastolo". "Pensavo che avrebbe presentato appelli." "Se si arriverà a questo," disse Hardy. "Ma Jennifer sostiene di essere innocente e... e sono ancora tentato di crederle. Quindi devo ispirare qualche dubbio al giudice. Non è necessario che sia molto..." "E pensa che la telefonata fattami da Witt...?" "Non so, signor Bachman. A questo punto è l'unica strada che ho tentato." Bachman si appoggiò alla spalliera e prese il succo di mirtilli. "Se è quanto ha di meglio... Dopo che abbiamo parlato, ieri sera, ho cercato di controllare, ma ho potuto accedere al computer solo questa mattina." Hardy attese. Bachman si frugò nella tasca della giacca e prese due fogli piegati e spillati insieme. Li aprì e li porse. "Sul retro ho copiato le ore lavorative... A volte sbagliano a trascriverle." Il primo foglio era parte del riepilogo dattiloscritto delle ore di lavoro messe in conto da Bachman. Il 23 dicembre, incominciando dalle diciotto e dieci, aveva messo in conto .20 all'YBMG. Sotto la dicitura "descriz. serv." era battuto a macchina: "Tcon c/Witt.???" Bachman tradusse: "Era una chiamata per rispondere a certe domande. Mi pare di averne ricevute una decina, e una era di Witt". "Ricorda di che cosa si trattava?" John T. Lescroart
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"Non ne ho idea. L'ho messa in conto al Gruppo, quindi doveva avere a che fare con l'offerta, ma non ricordo con precisione. Mi dispiace." Hardy guardò di nuovo il conto. "Però la chiamata era durata venti minuti. Non è un po' troppo per non ricordarla?" Per la prima volta Bachman tradì una certa irritazione. Il sorriso sparì per un momento. Sporse le labbra, bevve un po' di succo di mirtillo. Quando posò il bicchiere, si era ripreso. "Ha capito male: .20 non sta per venti minuti. Il conteggio degli onorari si fa in base ai decimi di ora. Due decimi sono dodici minuti... Ma, davvero, non ricordo. Che altro posso dire?" Hardy girò il foglio. Dopo "Tcon c/Witt" c'era scritto qualcosa, circa due righe, ma era stato cancellato. "Sì." Bachman anticipò la domanda di Hardy. "Non so. Forse la penna perdeva, forse avevo steso una descrizione troppo lunga. La mia segretaria protesta se sono troppo verboso." Hardy fissò la cancellatura ancora per un momento. Avrebbe voluto mettere le mani sull'originale e vedere se un esperto poteva far riaffiorare lo scritto. Ma qualunque cosa avesse annotato Bachman, non poteva incriminarlo al punto di essere utile a Jennifer. Alzò gli occhi. Bachman lo scrutava attentamente. "Vede, sono lieto di aiutarla, se posso, e mi pare d'essere stato molto franco. Però mi domando quando finirà questa specie di inquisizione a proposito dell'YBMG. Voglio dire, è quel che succede quando si conclude un affare: tutti vogliono la loro fetta." "Io non voglio alcuna fetta." "Sì, lo so, non è questo che intendevo. Ma tante domande..." "C'è una giovane donna che rischia di essere giustiziata se non provo che il marito è stato ucciso da qualcun altro. Mi rincresce, ma per me giustifica qualche domanda." Klaus tornò a servire il pranzo: un avocado farcito di gamberetti, tre foglie di lattuga, una fetta di pane pumpernickel. Bachman rigirò la lattuga nel piatto. "È comprensibile," ammise. "Ma che cosa c'entra la telefonata del dottor Witt con la sua morte? Non vorrà insinuare che a ucciderlo è stato uno dell'YBMG?" "Non lo so. È un interrogativo rimasto senza risposta. Sapevo che Witt le aveva telefonato, e il suo avvocato di San Francisco mi ha detto che era molto irritato a causa del prospetto. Mi sono chiesto se per caso l'ha John T. Lescroart
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minacciata..." "E io l'ho assassinato? Perché? Non parlerà sul serio!" "Se le interessa posso darle una spiegazione ipotetica." Hardy pensava che sarebbe stato istruttivo vedere la reazione di Bachman. Raccontò tutto, dalla telefonata a Simpson Crane alla decisione di togliere il caso a Restoffer. Quando ebbe finito, Bachman annuì. "Di questi tempi molti avvocati scrivono romanzi, signor Hardy. Forse dovrebbe provarci anche lei." Hardy allargò le mani. "Questo non è un romanzo." "Sì, e qui nessuno nasconde niente. È tutto alla luce del sole." "Simpson Crane le aveva permesso di farsi pagare in azioni le ore di lavoro?" Bachman tacque per un momento. "Sicuro." "Di suo studio lo fa spesso? Corre rischi del genere?" Bachman si passò una mano sul labbro superiore. Forse cominciava a sudare. "Di questi tempi si accetta quello che capita." "E Simpson non trovava niente da ridire?" "No, certo. Eravamo amici. Non avrei fatto niente che potesse danneggiarlo. Ne avevamo parlato a lungo, e pensavamo che con ogni probabilità ci saremmo rifatti. Ed è andata così. Lo studio ha guadagnato due milioni di dollari, grazie alle mie ore di lavoro. Ha rischiato, sì, ma direi che ne valeva la pena. Non le sembra?" "E gli altri cinque milioni?" chiese Hardy. Bachman esitò mentre si portava il bicchiere alle labbra, bevve, lo posò con forza. "Quali altri cinque milioni?" Hardy aveva finalmente la certezza di averlo costretto a mentire. "Clarence Stone mi ha detto che il Gruppo l'ha pagata con cinquantamila azioni. Cioè sette milioni di dollari. Se due sono andati nelle casse dello studio, dove sono gli altri cinque?" Bachman deglutì. "Era una gratifica personale." "Ha appena detto che non c'erano altri cinque milioni." "Voglio dire per lo studio legale." "Quindi gli altri cinque milioni ci sono?" "È andato tutto bene, signori?" Era Klaus. "Vogliono il dessert? Un cappuccino? Un espresso? Abbiamo un tiramisù delizioso." Bachman s'era scostato dal tavolo. "Niente," disse. Klaus non degnò Hardy di un'occhiata. L'interruzione aveva lasciato a Bachman il tempo di riflettere. Non era in John T. Lescroart
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preda al panico: c'era semplicemente un altro ostacolo da superare. "Sì, ho guadagnato una barca di quattrini. Ma non è un reato." Hardy si tese verso di lui e cercò di ritrovare lo slancio. "Witt aveva minacciato di informare tutti gli altri medici e di far saltare l'affare, no?" Bachman tornò a sorridere. "Se intende muovere accuse del genere, signor Hardy, sarà bene che abbia qualche prova. Ci sono leggi contro la diffamazione, in questo stato, che potrebbero ridurla sul lastrico, e dovrebbe saperlo." "Chi ha assoldato?" "Non ho assoldato nessuno. Ma, se l'avessi fatto, crede che sarei stato tanto stupido da lasciare tracce? Crede che avrei dato un assegno al sicario? E ora, se vuole scusarmi..." Si alzò. "Ho un appuntamento alla una e non voglio arrivare in ritardo."
53 Qualunque cosa credesse di avere scoperto a Los Angeles, restava il fatto che non poteva provarne neppure una parola. In aereo prese appunti sulle strade che poteva prendere: poteva chiamare quelli dell'FBI e convincerli ad approfondire le indagini sulla morte di Simpson Crane. Forse sarebbe stato possibile scoprire un prelievo da uno dei conti di Bachman, se fosse riuscito a interessare alla cosa qualche agente federale. Ma era un grosso "se". Un'altra possibilità consisteva nel rivolgersi a Todd Crane, il figlio di Simpson che adesso era il socio dirigente. Forse gli sarebbe interessato sapere che Jody Bachman aveva consegnato allo studio appena quindicimila delle cinquantamila azioni guadagnate da lui. O forse Todd lo sapeva già? Forse era ben felice di aver incassato due milioni di dollari per una parcella di settantacinquemila. Hardy se ne rendeva conto: era soltanto una sua fantasia personale, l'idea che Bachman avrebbe dovuto versare tutte le sue cinquantamila azioni. Se quei due tentativi fossero falliti, forse Restoffer... No, non era una prospettiva realistica. Restoffer era fuori dalla storia. Tutto dipendeva dal giudice Joan Villars nel suo ruolo di tredicesimo giurato... Tutto dipendeva da ciò che sarebbe riuscito a farle credere. Le sue teorie non contavano. Non poteva provarle. Non sarebbero state utili a Jennifer. Doveva tentare un'altra strada. John T. Lescroart
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Almeno avrebbe cominciato con una verità, la verità che era stata sempre negata ma era rimasta costante... Jennifer era stata maltrattata dal marito. Avrebbe scavalcato le obiezioni di Jennifer e avrebbe esposto alla Villars alcuni fatti... l'intrattabilità di Jennifer, la dichiarazione giurata di Freeman, le decisioni della difesa. Non gli sfuggiva l'ironia della situazione. Non poteva servirsi di ciò che sapeva sui rapporti fra Jody Bachman e l'YBMG. E ciò che poteva presentare direttamente non aveva alcun riferimento diretto con quanto era accaduto il 28 dicembre nella camera da letto dei Witt. L'aereo discese sopra la baia. Erano quasi le quattro e l'indomani mattina alle nove e mezzo avrebbe dovuto affrontare la Villars. Ormai gli restava solo un'ultima freccetta per colpire il bersaglio. "Certo, farò qualunque cosa." Il dottor Lightner era incorniciato dalla vetrata del suo ufficio. La segretaria era andata a casa. Il boschetto di eucalipti dietro di lui era in ombra. "Bene. Voglio che dica al giudice che Larry picchiava Jennifer." Lightner si tese verso di lui. Hardy aveva assunto un tono quasi supplichevole. "So che le chiedo molto, ma è l'unica speranza di Jennifer. È sempre stato dalla sua parte in tutta questa storia tragica." Ma stare dalla parte di qualcuno e tradire il segreto professionale erano due cose ben diverse. Dopo un paio di secondi Lightner si alzò. Voltò le spalle a Hardy e guardò il boschetto. "Non posso credere che siamo arrivati a questo." Hardy lo raggiunse. "Dopo la morte di Larry, quando vedeva Jennifer, non ha mai...?" Lightner stava già scuotendo la testa. "Non voleva parlarne." Hardy provò una stretta alle viscere e un senso di vertigine. Per un istante pensò che fosse tornata l'influenza. Lo riassalì un pensiero terribile: era stata lei, dopotutto? No, smettila. Lightner appoggiò un braccio allo stipite della porta e guardò fuori. "È come la confessione ricevuta da un prete, no?" "Sì." "Dovrei tradire il segreto professionale. Tradire la fiducia di Jennifer." John T. Lescroart
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"Per salvarle la vita." Lightner si girò verso Hardy. Aveva la faccia pallida e tirata. "E i medici che le ho indicato? Non potrebbero aiutarla?" "Che cosa potrebbero dire? Dove sono le prove?" A quel punto non sarebbero bastate le dichiarazioni sui lividi e le abrasioni. Aveva bisogno della conferma del terapeuta. Lo psichiatra aprì la porta e uscì. Hardy lo seguì. Percorsero una trentina di metri. "Che cosa pensa che sia accaduto quella mattina?" Lightner esalò un lungo respiro. Dalla Diciannovesima Strada giungevano i rumori smorzati del traffico. "Credo che sia andata più o meno come ha detto Jennifer. Ma ha omesso la parte fisica." "La parte fisica?" "Il fatto che Larry la picchiava." "L'ha picchiata anche quella mattina?" Lightner si voltò. "Diciamo che ho visto i lividi la prima volta che l'ho incontrata, due giorni dopo. Credo che Larry picchiasse anche Matt. Non dico che lo facesse, ma è possibile." "Matt non presentava lividi." Lightner scrollò le spalle. "La testa di Matt..." Hardy comprese che cosa intendeva. Se Larry aveva percosso la testa di Matt, il proiettile avrebbe distrutto ogni traccia. Era un'eventualità molto simile alla sua teoria delirante di qualche notte prima. "Non so che cosa sia successo," ripeté Lightner. "Che cosa pensa che sia successo, dottore? È in gioco la vita di Jennifer. Devo farlo capire alla Villars." "Bene, ecco che cosa penso che sia successo." Si girò e gli ultimi raggi del sole gli tinsero di rosso la barba. Sembrava che finalmente avesse deciso. "Jennifer stava per lasciarlo e portare con sé Matt. Ecco la ragione del litigio. L'aveva malmenata la vigilia di Natale. Lei mi aveva telefonato per dirmelo." "Allora che cosa ha fatto?" "Le ho consigliato di andarsene. Lei ha risposto che temeva che Larry l'avrebbe uccisa. Mi ha parlato della pistola. Era nascosta nella testata del letto, e lui l'avrebbe usata. Le ho raccomandato di prenderla e di fuggire. Naturalmente non l'ha fatto." "E poi?" John T. Lescroart
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"Il lunedì è ricominciato tutto come prima." Lightner cominciò a sviluppare uno scenario dalla plausibilità agghiacciante. Hardy ascoltava trattenendo il respiro. "Lui la picchia e lei dice che se ne andrà per sempre, poi grida per chiamare Matt che non risponde. Forse si è nascosto. Comunque, all'improvviso Larry decide che ne ha abbastanza. Corre di sopra. Jennifer intuisce che sta andando a prendere la pistola, lo rincorre, lo supplica. Urla, in preda all'isteria, come ha detto la testimone della casa accanto. "Ma Larry non è in camera da letto, e invece c'è la pistola. Jennifer la prende, sente un rumore alle sue spalle, si volta. Vede un'altra pistola che spunta dalla porta del bagno... Lui è là dentro. Jennifer spara, ma è Matt. Ha colpito Matt, che è rimasto nascosto in bagno con il nuovo regalo di Natale. La pistola giocattolo che gli hanno mandato i nonni. "E all'improvviso Larry piomba verso di lei con i pugni alzati per colpirla. Gli spara a bruciapelo..." Lightner batté le palpebre come se tornasse da molto lontano. "Era finita. Più tardi Jennifer ha cercato di mascherare l'accaduto. Ma non aveva scelta. Larry l'avrebbe uccisa..." Hardy rimase immobile. Il rumore del traffico era cessato. Il sole era tramontato. Era una linea di difesa formidabile, se era vero. "Io credo che sia andata così. Larry era salito a prendere la pistola. Non c'è stata premeditazione. Jennifer voleva solo andarsene. Avrebbe dovuto farlo molto tempo prima. Sono convinto che sia stata legittima difesa..." "Domani lo testimonierà? Se preparerò una dichiarazione giurata, la firmerà?" "A che proposito? Non ci sono prove. Questo lo so persino io. Lo sapeva anche Hardy. Ma aveva bisogno di Lightner, aveva bisogno della sua versione. "Lasci che sia io a preoccuparmene. Voglio sapere se posso contare su di lei. Dirà al giudice ciò che ha appena detto a me?" Con un sospiro stanco, finalmente Lightner annuì. "D'accordo. Se Jennifer me lo permetterà." 'Vieni a letto? Non è per domani?" "Ancora un minuto." "Dismas." Gli occhi di Frannie avevano un'espressione tenera e preoccupata. Si avvicinò e gli posò la mano sulla spalla. "Tesoro, sono le undici." Hardy era seduto davanti alla macchina per scrivere al tavolo della John T. Lescroart
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cucina. Era sfinito e il suo cervello ronzava come una sega elettrica. Non riusciva a smettere di pensare. Stava scrivendo da tre ore. Per prima cosa aveva ritoccato la dichiarazione giurata di Lightner. Poi aveva rivisto la sua istanza da presentare ai sensi del codice penale della California, sezione 190.4 (e) per chiedere che la condanna venisse commutata nell'ergastolo senza possibilità di libertà sulla parola: questo rientrava nella più totale discrezione del giudice. La seconda istanza era più complessa: sapeva di non poter sperare di spuntarla se non avesse avuto motivi legittimi per chiedere un nuovo processo. Per questo scopo aveva usato due argomenti: il primo era che il rinvio a giudizio per l'omicidio di Ned Hollis oltre a quello per l'assassinio di Larry e Matt aveva gravemente prevenuto la giuria in punto di diritto. Certo, Freeman e Jennifer avevano rinunciato a quella possibilità; ma era una questione che si poteva risolvere. Hardy sosteneva che un avvocato competente non avrebbe potuto evitare di chiedere l'annullamento del processo in quelle circostanze, e che l'acquiescenza di Jennifer era stata il risultato di un consiglio incompetente. Sapeva che Freeman non avrebbe battuto ciglio: l'importante era salvare la vita della cliente. La seconda argomentazione rappresentava la sua speranza migliore: era stato tenuto nascosto che Jennifer era stata maltrattata dal marito. E Hardy sapeva che a quel punto la situazione diventava difficile. Chi, dopotutto, aveva nascosto l'evidenza se non la stessa Jennifer? Avrebbe dovuto cercare di spiegare il perché. Stava tentando di trovare un'argomentazione convincente in favore dell'ergastolo secondo le linee fissate dal codice penale. A quel punto l'argomentazione poteva essere usata soltanto per ottenere la mitigazione della pena, non il capovolgimento del verdetto di colpevolezza. Probabilmente era inammissibile come base per un nuovo processo. Per arrivare a un nuovo processo, quindi, la Villars avrebbe dovuto arrampicarsi sugli specchi e Hardy dubitava che l'avrebbe fatto. Ma non aveva scelta: doveva augurarsi che la Villars tenesse alla giustizia e alla verità. Gli aveva detto che l'idea della pena di morte le causava molti scrupoli, che la responsabilità la opprimeva. Ma avrebbe dovuto chiederle di annullare le decisioni che aveva preso durante i due processi. E, se lei avesse esitato, Powell si sarebbe messo a urlare. E Powell era destinato a diventare procuratore generale dello stato, e la John T. Lescroart
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Villars non aveva interesse a inimicarselo proprio in quel momento... Hardy capiva che si stava illudendo. Sapeva che in pratica non avvenivano mai cambiamenti di decisione in quella fase. Le istanze venivano presentate come l'ultima trincea dell'imputato, ma il vero scopo era offrire al giudice la possibilità di evitare un errore che portasse alla riforma della sentenza. Sulla carta l'ultimo ostacolo poteva avere effetto su un'applicazione più equa della pena di morte: ma in realtà non cambiava quasi mai la situazione. Passò il resto della notte controllando e ricontrollando i fascicoli delle testimonianze e delle prove e riconsiderando gli interrogatori fin dall'inizio. Gli appunti su Tom DiStefano. Ciò che gli avevano detto i medici sugli "incidenti" e i lividi di Jennifer. La dichiarazione giurata con cui Freeman attestava che Jennifer gli aveva proibito di imperniare la difesa sui maltrattamenti subiti. Gli aborti. La prima testimonianza del dentista Harlan Poole. E, grazie a Dio, aveva parlato chiaro e aveva insistito perché venisse messo tutto a verbale. Pensava che la Villars gli avrebbe dato una possibilità, gli avrebbe permesso d'incominciare. Ma l'avrebbe tenuto d'occhio: se qualcosa non era a verbale non gli avrebbe permesso di parlarne l'indomani per la prima volta. Ne era sicuro. Frannie gli diede un bacio sui capelli e andò in camera da letto. Hardy si alzò e prese il telefono, poi chiuse la porta alle sue spalle. L'altro apparecchio squillò cinque volte prima che rispondesse una voce fiacca. "Nancy, mi scusi se l'ho svegliata, ma c'è ancora una cosa che devo sapere."
54 Arrivò al palazzo di giustizia alle sette e mezzo. C'era già movimento, tre minicam piazzate in Bryant Street e un paio di gruppi di professionisti dell'informazione che bevevano caffè e mangiavano pasticcini. Quando Hardy si avvicinò, lo riconobbero e corsero ad attorniarlo per chiedergli una dichiarazione. Hardy si fermò. Avrebbe voluto evitarlo perché poteva portargli sfortuna. "Che cosa volete sapere? Il verdetto non è John T. Lescroart
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stato ancora confermato." Riprese a camminare ripetendo che non poteva fare commenti. Scorse David Freeman che stava svoltando dalla Settima a Bryant Street. Avrebbe dovuto essere un grande sollievo avere un alleato con cui parlare, ma non se la sentiva. "Ecco David Freeman," disse indicandolo ai media. Lo sciame si spostò e Hardy salì l'ampia scalinata, entrò nell'atrio, superò il metal detector, prese un ascensore vuoto e andò a rifugiarsi al secondo piano, nella sala vuota per la selezione della giuria. I due avvocati erano vestiti in modo identico: abiti antracite, camicie bianche, cravatte rosse. Erano radunati in aula. Hardy scambiò un saluto con Freeman e Lightner che erano seduti vicini. Consegnò a Lightner la dichiarazione giurata che aveva preparato e attese conversando con Freeman fino a che lo psichiatra non l'ebbe letta, corretta e firmata. Rivolse un cenno di saluto a Powell che stava appoggiato al banco e quella mattina era solo. Doveva aver pensato che la presenza del suo assistente Morehouse non fosse necessaria. Sarebbe stata un'udienza breve. Entrò Jennifer. Era vestita in modo molto semplice: scarpe scure senza tacchi, gonna blu, camicetta bianca. Niente trucco e niente gioielli. Si voltò verso il pubblico e alzò una mano. Hardy vide Lightner farle un cenno di saluto. Jennifer si illuminò. "C'è mia madre," annunciò. "E Tom." Nancy era appena entrata e il figlio le teneva il braccio. Tom era ridiventato il suo bravo ragazzo. Aveva ritrovato i figli. Il cancelliere annunciò che la Corte Superiore dello stato della California, città e contea di San Francisco, era in seduta, e presiedeva il giudice Joan Villars. Il giudice sedette al banco. Il caschetto di capelli grigi perfettamente pettinati incorniciava il viso severo. La stenografa, Adrienne, aspettava. "Bene," disse il giudice assestandosi la toga. "Buongiorno. Signor Powell, ha una dichiarazione da fare?" "No, vostro onore. La giuria è stata molto chiara." Powell diede un'occhiata all'orologio e sedette. "Signor Hardy?" Hardy si alzò e andò a consegnare le sue carte. "Vostro onore, ho due istanze. A norma delle sezioni 1179-1181 del codice penale dello stato della California, presento alla corte un'istanza per chiedere un nuovo John T. Lescroart
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processo. Contemporaneamente, a norma della sezione 190.4 (e), ho preparato un'istanza perché la corte commuti la condanna nell'ergastolo senza possibilità di libertà sulla parola." La Villars annuì. Se lo aspettava. "Ha nuove prove da presentare a sostegno di queste istanze?" "Sì, vostro onore." Powell alzò la testa e lo fissò. Hardy proseguì: "Ho due dichiarazioni giurate, vostro onore. Permette?" Si avvicinò di nuovo al banco e le consegnò al giudice che le esaminò per qualche istante, poi chiamò: "Signor Powell". Quando Powell fu a fianco di Hardy, la Villars si alzò. "Nel mio ufficio," disse. Poi annunciò: "La corte si ritira per dieci minuti". La Villars sedette alla scrivania e rimase con lo sguardo fisso nel vuoto mentre Powell leggeva le dichiarazioni giurate e le posava. "Non accetterò nessuna delle sue argomentazioni relative alla richiesta di un nuovo processo, signor Hardy," esordì il giudice. "Ho deciso più volte su tali questioni durante il processo e sono certa che la corte d'appello mi darà ragione." Hardy esalò un lento respiro e si preparò al peggio. Sentiva che Powell era euforico. La Villars riesaminò le istanze e aggrottò la fronte. Finalmente chiese: "Lightner è lo psichiatra con cui Jennifer Witt andava a letto?" Era uno spiraglio? Hardy si buttò. "Questo non è mai stato accertato, vostro onore." Powell si alzò a mezzo. "Come sarebbe a dire? Vostro onore, le dichiarazioni giurate dovevano essere presentate giorni fa in modo che potessimo approfondirle..." "Signor Powell, le domande le faccio io. Signor Hardy?" "La dichiarazione giurata parla da sé, vostro onore. Il dottor Lightner afferma di avere informazioni in precedenza non rivelate, e riguardanti le condizioni di Jennifer la mattina degli omicidi. Il marito la picchiava. Se l'ha ucciso, l'ha fatto per salvare la propria vita. Non c'è stata premeditazione..." "Vostro onore!" Powell non era disposto a tollerare quell'intervento all'ultimo minuto. "La legittima difesa è una giustificazione per un omicidio, signor Hardy. John T. Lescroart
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Se era la vostra linea difensiva, lei e il signor Freeman avevate tutto il tempo di servirvene prima." Hardy se l'aspettava ed era preparato. "Questo punto è esaminato nell'altra dichiarazione giurata, vostro onore. La dichiarazione di David Freeman. Lui ha avuto il tempo, io no. E ha deciso di non servirsi di quella linea difensiva. Io non ero l'avvocato della signora Witt durante la prima fase. La mia cliente non deve essere penalizzata adesso a causa della strategia del signor Freeman." La faccia della Villars era impenetrabile come una maschera. "Vostro onore," insistette Powell, "la questione dei maltrattamenti non è mai stata sollevata. Non figura a verbale." Hardy fece per rispondere ma la Villars lo prevenne. "Lo so, signor Hardy, non c'è bisogno che me lo ricordi." Fece un cenno. "Rammenterà senz'altro, signor Powell, che è stata introdotta esplicitamente dallo stesso signor Hardy." "Ma non ha nulla a che fare con i reati di cui Jennifer Witt è stata riconosciuta colpevole." La Villars non era della stessa opinione. "È stato lei a mettere insieme i capi d'imputazione in questo processo, signor Powell. Ma," e si rivolse di nuovo a Hardy, "questa dichiarazione giurata non dice qual è l'evidenza fornita da Lightner." Hardy lo sapeva. "Emergerà dalla testimonianza." "Oh, per tutti i diavoli..." La Villars puntò l'indice contro Powell. "Attento a come parla, signor Powell. Questa corte non ammette imprecazioni del genere." "Chiedo scusa, vostro onore, ma non capisco dove vogliamo arrivare. Ha già detto che non ammetterà le cosiddette prove del signor Hardy..." "Per quanto riguarda l'istanza per un nuovo processo. Per l'istanza di commutazione, ritengo di dover ascoltare quanto ha da dire il dottor Lightner. Se il signor Hardy, grazie alla testimonianza dello specialista, può provare che la signora Witt era stata maltrattata psicologicamente e fisicamente, dovrò tenere in considerazione il fatto prima di pronunciare la condanna." "Purché si tratti di fatti, vostro onore. Il signor Hardy non ha chiarito se è così o no." Il giudice rifletté. "Signor Hardy, può dirci qualcosa della sostanza della eventuale testimonianza del dottor Lightner?" John T. Lescroart
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"Mi rincresce, vostro onore. Può leggere la dichiarazione del dottor Lightner... Esito a tentare di parafrasare la sua testimonianza in modo più specifico... Potrei involontariamente disinformare la corte." Questo lo capivano tutti. Hardy non sapeva ciò che avrebbe potuto ricavare da Lightner ma non poteva ammetterlo. "Lascerò che il dottor Lightner incominci, signor Hardy," disse alla fine il giudice. "Ma l'avverto..." Hardy aveva già capito. "Che cosa dirà?" mormorò Jennifer a Hardy stringendogli il braccio. "Mi crede colpevole." Hardy era costretto ad ammirarla. Non s'era mai scostata dalla sua versione in tutti quei mesi. Non era stata lei. Naturalmente, non sarebbe stata il primo assassino che negava fino alla morte. Si tese verso la sua cliente. "Si fidi. Non interrompa. Io le credo. Mi ha sentito? Le credo." La Villars stava guardando Lightner. "Dottore, voglio chiarire una cosa. La sua testimonianza di oggi non sarà ammissibile per quanto riguarda l'innocenza o la colpevolezza della signora Witt. Questo è già stato deciso. Tuttavia alla corte risulta che lei abbia informazioni che potrebbero avere qualche influenza per commutare la pena di morte già decisa dalla giuria.'' Lightner deglutì. "È così?" Lo psichiatra scrollò le spalle e guardò Hardy per chiedere aiuto. "Sì, vostro onore, credo di sì." La Villars annuì. "Bene. Signor Hardy?" Hardy si alzò. "Dottor Lightner, quali sono i suoi rapporti con l'imputata?" "Sono suo amico e il suo psichiatra." "Da quanto è il suo psichiatra?" "Da circa quattro anni." "E suo amico?" "L'ho sempre considerata un'amica." "E nel ruolo d'amico, ha visto la signora Witt in circostanze diverse da quelle professionali? In occasioni di pranzi, cene, cose del genere?" "Sì." Lightner non si rendeva conto del prezzo che Hardy stava per esigere. John T. Lescroart
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"Molte volte?" "Diverse volte, sì." Poi Hardy lanciò la bomba. "Dottor Lightner, al tempo della morte di Larry e Matt Witt, era l'amante di Jennifer?" Allibito, Lightner girò la testa verso il giudice. "Vostro onore...?" La Villars scosse la testa. "Risponda alla domanda." In realtà Lightner aveva già risposto. Hardy gli ricordò che aveva giurato, e Lightner lanciò un'occhiata impotente a Jennifer. "Sì," mormorò. Powell esplose: 'Vostro onore, il testimone ha già dichiarato sotto giuramento di non aver avuto rapporti intimi con la signora Witt". Il giudice si sporse leggermente dal banco. "Sta ammettendo una falsa testimonianza, dottore. Se ne rende conto?" Lightner annuì e rispose affermativamente. In aula si levò un brusio e la Villars batté il mazzuolo. Accennò agli avvocati di avvicinarsi al banco. "Questo sarebbe il testimone a favore?" chiese. Ma era una domanda che non richiedeva una risposta. Hardy si voltò a guardare la sua assistita. Jennifer era una statua. Le aveva chiesto di fidarsi di lui, le aveva detto che le credeva. Doveva farglielo capire. Hardy tornò di fronte a Lightner e chiese: "Dottore, ha mai ipnotizzato l'imputata?" "Sì." "E le ha spiegato, mentre era sotto l'effetto dell'ipnosi, che avrebbe dovuto negare di avere una relazione con lei?" Lightner aspirò una boccata d'aria e deglutì. "Pensavo che avrebbe danneggiato la sua linea difensiva, che l'avrebbe compromessa. Ha già anche troppi problemi nell'affrontare quanto le sta accadendo." "Si riferisce alla morte di Larry e Matt?" "Sì." Hardy indugiò un momento, si avvicinò di qualche passo al palco della giuria raccogliendo i propri pensieri, quindi si voltò di nuovo. "Dato che aveva una relazione con Jennifer, parte del tempo che passava con lei non aveva alcun riferimento con la sua attività professionale?" "Infatti." Era il punto cruciale, e Lightner lo capiva. Affinché Jennifer avesse una speranza di vivere, la relazione doveva venire a galla, anche se gettava su John T. Lescroart
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entrambi una luce negativa. "Ha visto Jennifer, nel quadro dei suoi rapporti professionali o personali, dopo il 28 dicembre dell'anno scorso?" "Sì, certo. Gliel'ho detto. Quasi tutti i giorni. Era straziata per la morte del figlio. Si riteneva responsabile." Alle loro spalle si levò un altro breve brusio. "Ma Jennifer si ritiene sempre responsabile di tutto." "Tuttavia nega di aver ucciso il marito e il figlio." "Sì, è esatto." Quella di Hardy non era stata una domanda, ma Powell non fece obiezioni e la Villars non disse nulla. Hardy respirò profondamente e continuò: "Dottor Lightner, Jennifer le ha parlato di una decisione che aveva preso prima del 28 dicembre?" "Sì. Aveva intenzione di lasciare il marito. Mi aveva telefonato la vigilia di Natale." "Come amico, non come psichiatra?" "Sì." Hardy incominciò a guidarlo di domanda in domanda, lentamente e con un ritmo preciso. Il fatto che Larry aveva minacciato di uccidere Jennifer se se ne fosse andata. La pistola accanto al letto. La tensione crescente nell'ambiente familiare. Doveva continuare a far fluire le domande dalle congetture ai fatti, fra una quantità di particolari. Finalmente arrivarono alla mattina del lunedì. "Ora, dottor Lightner, Jennifer non le ha mai detto di aver sparato a Larry o a Matt. È così?" "Sì, è esatto." "Tuttavia, in base alla sua specializzazione e alla sua esperienza, e dopo aver assistito al processo, si è fatto un'opinione sullo stato d'animo della signora Witt al momento degli omicidi?" "Sì." "Nessuno le ha fornito rapporti della polizia, fotografie o informazioni provenienti dal tribunale?" "Nessuno." "Ci dica ora, dottore, qual è la sua opinione professionale circa lo stato mentale della signora Witt." "Fondamentalmente era in uno stato di panico dovuto alla sindrome della moglie maltrattata. Il marito l'aveva picchiata ripetutamente. Avevano appena litigato. Lui la stava inseguendo. Era atterrita..." John T. Lescroart
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"E allora che cosa ha fatto?" "Ha preso la pistola dalla testata del letto," disse Lightner. "E poi?" Jennifer si voltava. Sulla soglia del bagno c'era Matt con la pistolagiocattolo, il regalo di Natale appena arrivato... "E poi?" Matt. Larry che si avventava urlando verso di lei. Il colpo sparato a bruciapelo... In aula c'era silenzio. Trascorsero circa dieci secondi senza il minimo suono. "Ora, dottor Lightner, come lei ci ha detto, la signora Witt nega con fermezza di aver ucciso il marito e il figlio. Questa è la sua ricostruzione degli avvenimenti?" "Sì." "È esattamente questa?" "Sì, certo." Hardy tacque fino a quando non ebbe la certezza che la risposta si fosse impressa nella mente di tutti, quindi si avvicinò ancora di più al banco dei testimoni. "Dottor Lightner," chiese, "come sa che Matt impugnava una pistola giocattolo?" Il silenzio si protrasse. Mentre esponeva la sua versione, Lightner si era lasciato coinvolgere dall'emozione. Adesso era svuotato. Finalmente parlò: "Come ha detto?'' Hardy ripeté la domanda. Come sapeva della pistola giocattolo? Lightner batté le palpebre. "Non ne sono sicuro, infatti." "Ma la situazione che ci ha appena descritto... Jennifer non gliela aveva riferita così, vero?" Powell si alzò. "Vostro onore..." Il giudice Villars non esitò. "Respinta. Vorrei che il dottore rispondesse." "Devo averla vista nelle fotografie, allora. Qui, durante il processo." "Jennifer non gliene aveva parlato? A me ha detto che Matt non aveva alcuna pistola. Non glielo permettevano." Powell si alzò di nuovo ma la Villars scosse la testa. "No, è vero. Non deve avermelo detto lei. Devo averla vista nella foto." Hardy annuì, tornò al tavolo della difesa e prese la grossa busta che conteneva tutte le foto scattate durante l'autopsia e sulla scena degli John T. Lescroart
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omicidi. "Vorrei che le esaminasse e mi indicasse la pistola giocattolo, se la trova." Lightner prese la busta e cominciò a girare lentamente le foto. Hardy gli stava accanto e attendeva. La Villars era una sfinge. Lightner era arrivato a metà quando alzò la testa all'improvviso. "Ma la mia è soltanto una versione. Può darsi che la pistola non ci fosse. È semplicemente ciò che secondo me potrebbe essere successo. Una congettura." "No, dottor Lightner, è molto più di una congettura." Hardy tornò al tavolo della difesa. Frugò nella borsa e prese una delle grosse buste di plastica che venivano usate per contenere i reperti. Raggiunse di nuovo il banco dei testimoni, apri la busta ed estrasse l'"errore" di Terrell, la pistola giocattolo così realistica che era stata trovata nel cassonetto con l'arma del delitto. "La pistola è questa, no, dottore? È la pistola che Matt aveva in pugno, non è vero? La pistola che lei ha creduto autentica. La pistola che l'ha indotto a uccidere il bambino..." "Dio!" esclamò Jennifer alle sue spalle. "Ken?" Hardy non osava muoversi ma continuò a parlare. "Era nel pacco consegnato dalla Federai Express... il regalo natalizio di Nancy, la nonna di Matt. Come poteva sapere, nella sua versione, che era un regalo di Natale? Il pacco era stato recapitato a casa alle nove e mezzo, dopo che Jennifer era uscita per fare jogging. E prima che rientrasse, lei l'aveva portata via insieme con l'arma del delitto. Jennifer non ha mai saputo che in casa ci fosse stata la pistola giocattolo. Non è vero?" Lightner si agitò sulla sedia. Fissò Hardy, poi girò lo sguardo su tutta l'aula come per cercare aiuto. Finalmente si rivolse al giudice Villars. "Non sono obbligato a rispondere, no? Mi appello al Quinto Emendamento." La Villars annuì. "Se ritiene che la sua risposta possa incriminarla, va bene." Lightner si passò le mani sulle ginocchia. Guardò Jennifer, poi Hardy. "Mi appello al Quinto Emendamento," disse al giudice. "Non dirò niente senza un avvocato." Era l'unica possibilità, l'ultima possibilità. Lei l'aveva chiamato, come faceva sempre più spesso quando litigava con il marito. Larry la picchiava. Perché non lo lasciava? La situazione non sarebbe migliorata. La letteratura psichiatrica e i fatti erano concordi. Gliel'aveva detto. Ma lei John T. Lescroart
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non voleva piantare Larry. Pensava di dover insistere nel tentativo. L'aveva ascoltata. L'aveva consigliata. E, sì, aveva fatto l'amore con lei. Su questo aveva mentito a Hardy e alla corte, ma aveva detto la verità a Hardy quando gli aveva detto di essere affezionato a Jennifer. Affezionato? Era dire ben poco. Sì, Jennifer lo amava, e non era soltanto un transfert, si diceva. Ma aveva la sua famiglia. Non intendeva lasciarla. E quindi lui non avrebbe mai potuto averla. Quando gli aveva telefonato la vigilia di Natale non l'aveva fatto perché aveva deciso di andarsene. C'erano stati un altro litigio, un altro pestaggio, un'altra invocazione d'aiuto. Lui aveva risposto, come sempre, ma lei era tornata e aveva preso altre botte. E adesso, il lunedì mattina. Un'altra telefonata, altre percosse tremende. Era necessario farla finita. Era l'unica speranza per entrambi. Avrebbe potuto salvarla e averla per sé... Avrebbe fatto qualunque cosa per lei. Qualunque cosa... Olympia Way. La bella casa. La via deserta, morta, silenziosa sotto il sole freddo del mattino. Ci volevano dieci minuti, forse meno. Jennifer stava andando a fare jogging. C'era tempo a sufficienza. Lei non ci sarebbe stata... Per la strada, nessuno. Era già stato lì. Per tre volte, di pomeriggio, quando Larry e Matt non c'erano. E Jennifer l'aveva atteso. Conosceva la casa. Sapeva dov'era la pistola. No, non aveva intenzione di usarla davvero. No. Non sarebbe arrivato a tanto. Avrebbe parlato con il marito, gli avrebbe detto che sapeva che cosa aveva fatto, che cosa stava facendo a Jennifer. Adesso che era lì, sembrava... "Che cosa c'è?" "Dottor Witt? Dobbiamo parlare. Posso entrare, per favore? Si tratta di sua moglie. " Gli occhi colmi di colpa si socchiudevano. "Chi diavolo è lei?" "Lo psichiatra di Jennifer. "Si guardò intorno, scrutò la via deserta. "Sa di che cosa si tratta. È confidenziale. " Nessun altro suono. Erano soli in casa. "Be', che cosa significa?" "Jennifer ha bisogno di me, dottor Witt. Mi ha telefonato. È di sopra?" John T. Lescroart
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"Non ha bisogno di lei. Come, ha telefonato? Quando? Ma di che parla?" "Mi ha detto che l'avrei trovata qui, e che lei la stava picchiando un'altra volta. Sono venuto per portarla via..." "Non porterà via nessuno. Jennifer non c'è. " "Se me ne vado, chiamerò la polizia. La chiamerò immediatamente. " "Che cosa diavolo... che cosa vuole?" "Voglio vedere Jennifer. Voglio portarla via. È una mia paziente. Dovrebbe capire queste cose, dottore. " "Non c'è. Le ho detto che non c'è. " "Voglio vedere con i miei occhi. Lo giuro, chiamerò la polizia. Non posso permettere che rimanga qui..." "Vuole una prova? Le farò vedere tutta la casa." Adesso Larry Witt sembrava meno sicuro di sé. Finalmente erano di sopra, nella camera da letto. "Soddisfatto? Gliel'avevo detto: è fuori. E adesso se ne vada da casa mia!" La pistola era dove aveva detto Jennifer... nella testata del letto. "Non credo. " Non aveva bisogno di pensare. Gli avvenimenti gli prendevano la mano. "Che cosa vuol fare con quella? Maledizione..." Veniva verso di lui, il rumore, l'altro suono... forse era sempre stato presente a livello subliminale... l'acqua che scorreva in un lavabo? Non l'aveva neppure sentito. No. Il rumore cessò. Ecco. Era questo: là dentro c'era qualcuno. "Non si muova, " ordinò a Witt. Il sangue gli tumultuava nelle vene. "Che cosa diavolo crede di fare?" "Chi c'è lì dentro?" Witt girò la testa e urlò: "Matt, resta lì!" Cercava d'ingannarlo. "Non uscire!" E nello stesso istante appariva l'altra pistola dalla porta del bagno. Qualcuno gli sparava! Ma non c'era nessuno. C'era soltanto il panico. Un'ombra. Gli eventi si svolgevano troppo in fretta. Witt sta per avventarsi. Ma c'è anche qualcos'altro, nello stesso istante, sulla soglia del bagno. Con la coda dell'occhio scorge un'altra pistola. Dio! C'è qualcuno, un testimone. Peggio ancora: una minaccia. Non ha a disposizione neppure un secondo. Non ha tempo per fare più John T. Lescroart
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nulla, se non lanciare un'occhiata a lato. È una pistola... ma qualcosa non va, è troppo in basso, forse qualcuno che sta acquattato? Spara, la pistola spara... Non ha scelta. Si gira di scatto, punta la sua arma, preme il grilletto nell'istante preciso in cui vede... ...il bambino che esce stringendo una pistola? Un altro sparo. Non è possibile. Non può essere Matt, è a scuola. È un giorno di scuola e il padre è solo in casa... Deve fermarsi! Deve! Ma l'indice ha già premuto il grilletto. L'arma gli sobbalza nella mano, lo sparo è come lo scoppio di una bomba, e lo specchio del bagno si frantuma in un pulviscolo orribilmente rosso. Ormai non può più fermarsi. Ha solo un istante per muoversi mentre Witt ammutolisce, immobilizzato dallo sparo, da ciò che ha visto, e fissa il corpo accasciato del figlio... Un attimo mentre l'orrore si impone, ma è sufficiente. Lightner punta di nuovo la pistola su Witt che si avventa con un urlo rauco e le mani levate. La faccia, gli occhi, un pazzo che sta per piombargli addosso. Impossibile non sparare. Impossibile mancarlo... I giornalisti si precipitarono ai telefoni e alle minicam mentre Hardy voltava le spalle al banco dei testimoni. Si accorse vagamente che la Villars batteva il mazzuolo, e Powell era rimasto ammutolito al tavolo dell'accusa. Nancy si era alzata in piedi. Quella notte, quando le aveva telefonato, aveva confermato di aver mandato a Matt la pistola giocattolo. Lightner era accasciato sulla sedia dei testimoni. Hardy sedette a fianco della sua assistita che gli appoggiò il viso contro la spalla e pianse irrefrenabilmente. Powell ordinò a Terrell di prendere in custodia Lightner con l'accusa di falsa testimonianza. Il giudice Villars si chiuse da sola nel suo ufficio. Tornò mezz'ora dopo. Hardy e Jennifer rimasero al tavolo della difesa tenendosi per mano. Nancy e Tom erano in prima fila e Freeman aveva varcato la barriera divisoria. Powell, curvo al tavolo dell'accusa, fingeva di studiare un fascio di carte. Aveva un'espressione chiusa. La Villars era un po' rossa in viso, e le sue labbra erano contratte in una linea sottile. Guardò Hardy e Jennifer, poi Powell, e parlò con voce chiara John T. Lescroart
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e formale. "La corte accoglie l'istanza della difesa per un nuovo processo ai sensi della sezione 1181 del codice penale." Hardy si abbandonò finalmente contro la spalliera della sedia. L'accoglimento dell'istanza per un nuovo processo era una formalità legale: la Villars aveva deciso in base alla prima istanza di Hardy, ma era chiaro che per Jennifer Witt non ci sarebbero stati altri processi. Come aveva sempre sostenuto, non aveva ucciso né il marito né il figlio e finalmente tutti l'avevano capito. "Inoltre," continuò il giudice, "questa corte, ai sensi del codice di procedura civile, sezione 657.5, decide che il verdetto della giuria nei confronti di Jennifer Witt sia accantonato... A giudizio di questa corte l'evidenza presentata è priva della forza probatoria necessaria per convalidare i capi d'imputazione. "Signor Powell, non posso immaginare che lei si opporrebbe a una istanza per il rilascio dell'imputata sotto la propria responsabilità." Era un'affermazione, non una domanda. "Signor Hardy, vuole avvicinarsi?"
55 Dopo il processo Hardy aveva costruito una nuova bordura di mattoni per recintare le rose di Frannie, vicino allo steccato del giardino. Adesso ci teneva appoggiato un piede e guardava in direzione della casa. Isaac Glitsky, il primogenito di Abe, prendeva molto sul serio il suo lavoro: sollevò il coperchio del barbecue e punzecchiò la coscia del tacchino con il forchettone. "È ancora un po' rosa," annunciò. Abe, il giorno della Festa del Ringraziamento, teneva in mano quella che secondo Hardy doveva essere per lui la prima birra dell'anno. Parlò con gentilezza paziente, un tono che non usava mai nell'esercizio delle sue funzioni di poliziotto. "Basta che tu lo copra, Ike. Si cuocerà da solo." Il ragazzo obbedì, poi andò a raggiungere i fratelli che giocavano con i figli di Hardy sotto la tettoia. Era piuttosto caldo, e c'erano il sole e una brezza che soffiava da ovest. Fra poco sarebbero arrivati Moses e la moglie Susan che aspettava un bambino, e Frannie e Flo erano in casa a preparare i vassoi dei condimenti e i piatti di contorno. Hardy beveva quello che chiamava l'Old Fashioned del Ringraziamento: bourbon e soda, zucchero e bitter, fettina d'arancia e ciliegina e Dio solo John T. Lescroart
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sapeva che altro. Voleva goderselo in pace prima che arrivasse Moses il purista e cercasse di rovinargli il gusto. Sedette sul muretto nuovo e contemplò il suo mondo. "Funziona," disse. Aspirò l'aroma del tacchino alla brace, l'odore dell'erba appena falciata. Poi: "Non immagini chi mi ha telefonato ieri: Jennifer Witt". La brezza tiepida soffiò di nuovo per un momento. Isaac era tornato al barbecue e Abe gli disse di lasciar stare. "E gira quel berretto, figliolo. Ne abbiamo già parlato." Isaac portava il berretto dei Giants con la visiera all'indietro. Il padre ispettore della omicidi sosteneva che, sebbene fosse probabilmente una moda innocua, non era ammissibile che suo figlio ostentasse il pur minimo segno di affiliazione a una banda. Niente capi abbondanti, giubbotti dei Raiders, berretti da baseball portati all'incontrano per i figli di Abe Glitsky. Isaac girò il berretto e Abe guardò Hardy e scrollò le spalle. "Sto diventando conservatore. È piuttosto triste." "Vediamo," disse Hardy. "Un conservatore di San Francisco è pur sempre un po' a sinistra di Lenin, giusto?" Abe accennò un sorriso che sbiancò leggermente la cicatrice sulle labbra. "Dunque, come sta la signora Witt?" "È diventata ricca. Molto ricca." "Così in fretta? L'hanno pagata?" "Dovevano farlo. Non è stata lei a uccidere il marito e il figlio." L'ombra della casa li aveva raggiunti e Glitsky si spostò leggermente lungo il muretto. "Già, volevo chiedere spiegazioni." Hardy annuì. "Non c'erano impronte sulla pistola giocattolo." "E questo significa qualcosa?" "Direi di sì, per un investigatore esperto come te." Glitsky rifletté un momento e bevve un sorso di birra. "Era stata ripulita. Se un bambino ci avesse giocato, ci sarebbero state le sue impronte." "Vedi? Sapevo che ci saresti arrivato. Ma c'erano tante altre cose che mi erano sfuggite. C'era qualcosa che mi rodeva la mente, ma non sono riuscito a inserirlo nel quadro fino a che Lightner non ha commesso quella svista. Avrebbero dovuto esserci impronte intere o parziali, o almeno qualche ditata confusa." "Ma perché Lightner aveva incastrato Jennifer, se l'amava?" John T. Lescroart
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"Non ne aveva l'intenzione. Si era convinto che nessuno avrebbe pensato a lei come a una possibile colpevole. Era così sicuro da confidarmi che temeva che fosse stata lei, ma solo per salvarsi da Larry." "Lightner avrebbe dovuto rubare qualcosa," disse Abe. "In modo che sembrasse un furto finito male." "È facile per te dirlo, con i tuoi anni d'esperienza. Comunque, l'arresto di Jennifer aveva rovinato tutto. Lightner aveva sperato che, dopo la morte di Larry, lei avrebbe finito per sposarlo perché lo vedeva come un sostegno e un conforto. Diceva che era lei, quella affetta da una neurosi ossessiva, mentre invece era lui. E non aveva previsto che Matt sarebbe stato in casa per le vacanze di Natale. Aveva dimenticato il bambino." "Perché era andato in casa dei Witt proprio in quel momento?" "L'ho chiesto anche a Jennifer. Come poteva saperlo, Lightner? Gli aveva telefonato Jennifer quando Larry aveva cominciato a picchiarla, la mattina. Immagino che lei si ritenga responsabile anche di questo. Evidentemente Lightner ci aveva pensato; Jennifer doveva avergli parlato della pistola, gli aveva spiegato dov'era. E lui pensava che dopo la morte di Larry... Comunque, Jennifer mi ha detto che gli aveva telefonato quando era corsa di sopra durante il litigio. E lui le ha consigliato di uscire; doveva pensare che fosse il momento giusto. Ha detto alla fedele segretaria che fosse in riunione, ha chiuso la porta ed è uscito passando dal patio. Dal suo studio alla casa di Jennifer si arriva in meno di dieci minuti." Glitsky bevve un altro sorso. "E Terrell gli ha fornito l'alibi." Hardy annuì. "Sono sicuro che costui si troverà benissimo con il nuovo lavoro." Il trasferimento di Terrell alla procura distrettuale era stato disposto la settimana prima. "La segretaria di Lightner ha affermato che il suo capo era rimasto nello studio tutta la mattina, ed era appunto ciò che Terrell voleva sentire..." "Quadrava con la sua teoria." "Però adesso la segretaria non è più tanto sicura. Strano, eh?" "E Lightner finirà al fresco per un pezzo?" "Pare di sì. Comunque lo processeranno." "Avrebbe dovuto sparire quando hanno accusato Jennifer." "Non poteva farlo senza attirare l'attenzione su di sé. No, credeva di avere un alibi. E doveva restare per seguire la difesa di Jennifer. Non mi dava tregua. Insisteva perché adottassi la linea difensiva della moglie maltrattata. Era l'unico modo per togliere dai guai Jennifer senza che gli John T. Lescroart
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omicidi venissero attribuiti a lui. E se il sistema non funzionava, be', sarebbe stato tutto inutile. Ricorda che era ed è ancora ossessionato da Jennifer." "Però il marito la picchiava, no?" Hardy annuì. "Ma Jennifer ha sempre detto la verità: non lo aveva ucciso, punto e basta. Anche se era piena di complessi di colpa, non era disposta a crearsi una difesa per qualcosa che non aveva fatto. Il suo grosso problema era convincere gli altri a crederle... inclusi i suoi avvocati." La porta si aprì e Moses McGuire scese i gradini. Hardy finì di bere, masticò la ciliegina e buttò la fettina d'arancia per terra, poi la coprì. Si alzò insieme con Glitsky. "Ike, vuoi dare un'occhiata al tacchino?" chiese Abe. Moses tese una mano. Con l'altra teneva il bicchiere. "Per me è il primo. Voi mi avete preceduto? Tu che cosa stavi bevendo, Diz?" Hardy alzò il bicchiere vuoto. "Scotch liscio senza ghiaccio." "Bravo," commentò Moses. Si rivolse a Glitsky. "E l'industria degli omicidi come va? Continua a prosperare?" Sabato 11 dicembre l'altro "possibile colpevole" di Hardy, Jody Bachman, sposò Margaret Morency nella tenuta di quest'ultima a San Marino. Era uno dei grandi matrimoni dell'anno, e ne parlò anche il Sunday Chronicle. C'erano più di trecento invitati. Fra i divi e le celebrità, Hardy notò i nomi del sindaco e del capo della polizia di Los Angeles. C'era anche Frank Kelso, con un esercito di altri supervisori, membri della camera e del senato, leader civici e filantropi. Jody e Margaret sorridevano nella fotografia. A destra di Jody c'era Todd Crane, il suo testimone, socio dirigente dello studio legale Crane & Crane. Gli sposi partirono poi per un lungo viaggio di nozze nel Midi francese. Era una casa piccola, con tre camere da letto e due bagni, in una via senza uscita di Belmont, trentasette chilometri a sud di San Francisco. Quelli che l'avevano abitata l'avevano tenuta molto bene, e nel giardino l'erba era verde e curata. Vicino alla terrazza nuova c'erano alcune panchine di pietra intorno a una fontanella. La recinzione aveva una John T. Lescroart
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bordura di alberi da frutto, due aranci, un limone, un ciliegio e due susini, anche se ora, a metà gennaio, il ciliegio e i susini erano spogli. Jennifer Witt s'era alzata all'alba e aveva corso per cinque chilometri lungo Ralston e poi su, dietro il college. Non aveva più fumato dalla fine del processo. Seduta nell'angolo per la colazione, con la finestra socchiusa, beveva il caffè e mangiava un croissant acquistato presso l'ottima pasticceria in fondo alla strada. Il cielo era coperto ma si sentivano le voci degli uccelli e della fontana. Era il primo giorno del semestre di primavera e Jennifer aveva fatto la doccia e si era vestita entro le otto. La prima lezione era alle nove. Aveva deciso di studiare psicologia. Voleva capire finalmente se stessa, e pensava che potesse essere un buon inizio. Quando ebbe finito mise i piatti nel lavello, si buttò un maglione sulle spalle e andò ad aprire una porta. Sua madre dormiva ancora. Jennifer le diede un bacio sulla fronte. "Io vado," disse. "Vuoi che ci vediamo a pranzo?" Nancy DiStefano aveva dormito sempre a lungo da quando avevano traslocato. Si stirò e passò il braccio intorno al collo della figlia. "Resta là a pranzo," disse. "Fai qualche amicizia. Resta all'università." "E tu?" Nancy si sollevò dal cuscino. "Non preoccuparti per me." "Invece mi preoccupo." Jennifer le sedette accanto e la madre le accarezzò i capelli. "Non è mai andata così bene," disse Nancy. "Almeno per me." Jennifer annuì. "Lo so. Ma non avrei voluto arrivarci in questo modo." Nancy sorrise. "Almeno siamo qui. Credo che adesso sia importante continuare." "Sì, lo so." Jennifer strinse la mano della madre e si alzò. "Ma è così difficile." Nancy non la lasciò andare. "Bene, che ne diresti se solo per oggi venissi a mangiare all'università? Questa volta sola. Per farti passare la malinconia. E per uscire un po' di casa. Credo di essere pronta a farlo. E magari telefonerò a Tom." Jennifer rifletté. "Mi sembra una buona idea, mamma. D'accordo." L'ultima foto a colori di Matt, nell'ingrandimento di venti per venticinque, era in cornice su un tavolino accanto alla porta d'ingresso. Prima di uscire, Jennifer si fermò come faceva sempre. Questa volta la prese, la guardò. Matt le sorrideva. Lei baciò il vetro. Rimise a posto il ritratto, aprì la porta, respirò profondamente e uscì John T. Lescroart
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nella luce del mattino. FINE
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