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IL RITORNO DI DRACULA (The Ultimate Dracula, 1991) a cura di BYRON PREISS Indice Introduzione: Buon compleanno, Dracula di Leonard Wolf Anne Rice - Il signore di Rampling Gate Dan Simmons - Tutti i figli di Dracula Ron Dee - Una questione di stile Ed Gorman - Procedura di selezione Heather Graham - Il vampiro nel suo bugigattolo Steve Rasnic Tem e Melanie Tem - Il decimo scolaro Philip José Farmer - Nessuno è perfetto Edward D. Hoch - Dracula 1944 Janet Asimov - Il contagio Karen Robards - Zucchero, spezie e... Dick Lochte - Sogni di vampiro Kevin J. Anderson - La posta in palio Lawrence Watt-Evans - Il nome della paura W.R. Philbrick - L'ombra della morte Tim Sullivan - Los Niños de la Noche Mike Resnick - Un po' di musica notturna John Lutz - Il signor Lucrada John Gregory Betancourt - Prigioniera del tempo Kristine Kathryn Rusch - Figli della notte Leonard Wolf BUON COMPLEANNO, DRACULA! Probabilmente nei film non esistono immagini di paura così famose e profondamente terrorizzanti come quelle del mostro Dracula. Nella mente della maggior parte della gente, quando si sente pronunciarne il nome, compare l'immagine di Bela Lugosi nel film di Tod Browning Dracula, del 1931. Il 1991 segna il sessantesimo compleanno di quel film. È un'occasione per festeggiare.
Sebbene Dracula della Universal Pictures abbia guadagnato l'immortalità, non è assolutamente un grande film. È lento, ripetitivo, con un dialogo stentato. Dal momento che segue pedissequamente il dramma di Hamilton Deane e John Balderston, il film si rifà troppo a quelli che oggi, visti a distanza, sembrano triti interludi comici. Il film resta comunque indimenticabile. Anzi, molto di più: ha impresso il marchio di Lugosi al Re Vampiro. La decisione di affidare a Lugosi il ruolo del protagonista deve senz'altro essere considerata come una delle scelte di casting più geniali nella storia del film. Scrive Harry Ludlam: Molto difficilmente si sarebbe potuto trovare un altro attore così assolutamente perfetto per il ruolo che lo avrebbe marcato per il resto della vita... La voce fredda e sepolcrale; gli occhi profondamente infossati e leggermente a mandorla, che perforavano lo schermo; il naso aquilino e gli zigomi alti; la sua altezza titanica, quasi due metri, identificarono all'istante Lugosi con la creazione fantastica di Bram Stoker. Una biografia di Dracula, pp. 172-174 Ma Lugosi aveva a suo vantaggio qualcosa di più dell'aspetto fisico. Anche ai nostri giorni, il suo accento ungherese evoca all'orecchio degli americani tutto ciò che è sinistro e lo sguardo di quei suoi occhi a mandorla continua a dirci quanto profondamente il suo Dracula comprenda il sommo male e gli sia asservito. Pur con tutte le sue debolezze, il film presenta momenti magnifici. Tra questi la sequenza d'apertura è sicuramente un capolavoro: noi vediamo Renfield (nel romanzo è Jonathan Harker), il giovane e inesperto agente immobiliare inglese, viaggiare in treno verso la Transilvania e poi da Bistritza in carrozza alla ricerca del castello di Dracula. Lo spettatore segue l'avvicinarsi della carrozza mentre sale sempre più in alto in un paesaggio scosceso e roccioso. Poi la macchina da presa ci dà un'immagine del castello, seguita da due flash veloci in cui si nota una mano che esce da una bara; quindi, in una sorta di languido fotogramma, si ha la visione del conte e del suo harem. Si passa poi di nuovo a Renfield, la cui carrozza si sta progressivamente avvicinando al passo del Borgo. La vettura si ferma; il cocchiere, rifiutandosi di procedere oltre, scarica senza tante cerimonie il bagaglio di Ren-
field sulla strada. Un istante dopo appare un'altra carrozza il cui conducente non è mostrato agli spettatori. È la carrozza del conte e Renfield obbedisce al cenno del cocchiere di salire a bordo. Gli spettatori sobbalzano scossi, quando la macchina da presa inquadra un pipistrello che vola sulle teste dei cavalli e li guida. Oggigiorno quel pipistrello, simulato e brancolante oltre ogni possibile veridicità, ci sembra solo un patetico tentativo di effetto speciale. Al castello Renfield scende dalla carrozza. Una porta cigolante si apre ed egli si muove per entrare mentre la cinepresa si sposta sull'antico maniero di pietra mettendo in evidenza pipistrelli e ragnatele, e anche una coppia di armadilli! Poi percepiamo la voce di Lagosi melliflua e sinistra dire: — Io sono Dracula — e in quel momento sentiamo il primo inconfondibile battito tumultuoso del Cuore delle Tenebre. E chi può dimenticare il delizioso momento in cui Renfield, che ha appena bevuto una coppa del vino di Dracula, chiede al suo ospite: — Lei non beve? — La domanda è seguita da un lungo silenzio, interrotto alla fine dalla voce suasiva e decisamente ambigua di Dracula: — Io non bevo... vino. Un altro stupendo momento, mai eguagliato nelle seguenti centinaia di film su Dracula o su temi a lui inerenti, è l'immagine del riso maniacale di Renfield mentre questi emerge dalla stiva della nave che porta Dracula in Inghilterra. Quella risata non è mai stata superata. È una "risatina bassa che comincia profonda nelle viscere e aumenta involontariamente attraverso ondate di dolore finché esce dalla bocca, fradicia, disperata e solitaria ". Da dove è arrivata sullo schermo quest'irresistibile immagine del vampiro? Da quale oscuro angolo di storia o della mente umana egli è emerso, e come è successo che occupasse il posto che ora gli è proprio nell'immaginario contemporaneo? Tanto per cominciare un Dracula è esistito veramente: una persona in carne e ossa chiamata Vlad Tepes (pronunciato Teh-pesh). Vlad, meglio conosciuto come Vlad l'Impalatore, era un principe della Valacchia che governò, anche se non continuativamente, sui suoi possedimenti in Transilvania negli anni 1448-1476. La prima cosa da precisare è che non era un vampiro. Era un comune mortale che non presentava alcuna traccia di poteri soprannaturali. D'altro canto era, come molti altri regnanti dell'epoca, estremamente crudele. E sono proprio le sue gesta di crudeltà che lo
hanno consegnato alla mitologia. Per la verità Vlad fu effettivamente efferato. Il suo comportamento, sia contro i Turchi in difesa della propria madrepatria sia contro il suo stesso popolo, può solo essere visto come patologico. Per esempio, egli è chiamato "l'impalatore" per il suo costume di impalare su lunghe pertiche le vittime catturate, ancora vive, e di lasciarle morire lentamente. Esiste un famoso arazzo su lino che mostra Vlad intento al suo divertimento favorito, mentre cena al fresco in mezzo a una foresta di pali così corredati. Egli aveva altre sadiche stravaganze. Si dice che abbia messo a morte seicento mercanti perché erano troppo ricchi. Il suo modo di affrontare il problema dei mendicanti nei suoi domini era di invitarli a un banchetto e poi, al culmine della festa, dare fuoco alla sala. In un'altra occasione, quando una coppia di ambasciatori turchi si rifiutò di togliersi il turbante in sua presenza, ordinò che i turbanti fossero inchiodati sulle loro fronti. È piuttosto ironico che ai nostri giorni Vlad sia onorato in Romania come una figura patriottica, un simbolo del nazionalismo rumeno, che ha valorosamente combattuto contro gli usurpatori turchi. È proprio nella figura di Vlad l'Impalatore che Bram Stoker, l'ambizioso manager teatrale e scribacchino irlandese (1847-1912), si imbatté durante le sue letture al British Museum. Egli l'usò come base per il romanzo Dracula, che pubblicò nel 1897. Stoker fu fortunato anche in un altro senso. La Transilvania, la madrepatria di Vlad, era (e rimane) un paesaggio intrigante ed esotico. La Transilvania (il nome significa "Terra oltre la foresta") era in origine una provincia romana. Ora è divisa tra l'Ungheria meridionale e la Romania settentrionale. Ecco come Stoker, che non ci andò mai, la descrive: Oltre le svettanti colline del Mittel Land sorgevano grandi distese di foreste lungo le ripide pareti degli stessi Carpazi. Torreggiavano alla nostra destra e alla nostra sinistra, investite dal sole pomeridiano che le irradiava con la luminosità di tutta la gamma dei colori. Un blu intenso e un rosso porpora nell'ombra delle vette; verde e marrone dove si fondono l'erba e la pietra; un'infinita prospettiva di rocce frastagliate e di picchi appuntiti si perde in distanza, dove le cime innevate svettano maestosamente. Il paesaggio immaginario di Stoker è sensibilmente più accattivante di quello reale. Effettivamente la Transilvania ha catene montuose e torrenti
impetuosi, ma un viaggiatore la cui fantasia non sia stata infiammata dalle letture di Stoker troverà il paesaggio semplicemente bello. La vita nelle città e nei villaggi transilvani ha decisamente più mordente e vividezza di quanto si possa trovare nel resto della Romania. Ciò che manca assolutamente nella Transilvania odierna sono sia l'interesse, sia la conoscenza dei vampiri. Stoker fu sommamente influenzato da un attento studio del folklore locale, descritto da una viaggiatrice infaticabile: Emily Gerard. Quest'ultima, sposata a un ufficiale dell'esercito rumeno, possedeva un orecchio speciale e un occhio clinico per i particolari. Il suo libro La Terra oltre la Foresta (1888) fornì a Stoker quella sorta di dettagli che sono indispensabili a un romanziere quando deve creare il verosimile. La Terra oltre la Foresta è un'opera che ha valore per se stessa e continua a essere indispensabile per ogni studioso della Transilvania, di Stoker o del culto dei vampiri. In un angolo silenzioso del British Museum, Stoker trovò la materia prima di cui aveva bisogno per il suo romanzo: un nobile malvagio, una terra esotica e selvaggia e una bizzarra tradizione popolare riguardo ai vampiri. Aveva già il necessario per cominciare. Ma prima, dal momento che Dracula è un'opera che segue la tradizione del romanzo gotico, è necessario spendere alcune parole riguardo a questo genere letterario. Il romanzo gotico, così chiamato dall'uso insistente che i suoi autori facevano di ambientazioni medievali (monasteri, conventi, cimiteri, castelli, rovine), entrò a far parte della letteratura inglese nel diciottesimo secolo quando Horace Walpole, nel 1764, pubblicò il suo Il Castello di Otranto. Walpole, un nevrastenico di mezz'età con la passione per le cianfrusaglie medievali e che risiedeva in una fantasiosa abitazione di sua creazione chiamata Strawberry Hill, è generalmente ritenuto il fondatore delle tematiche tipiche del genere. Il Castello di Otranto ha, come ha osservato Harry Ludlam: porte con cardini arrugginiti, una botola e lampade che si spengono improvvisamente. Ha una superba figura di villain in Manfred che, rinvenendo il suo unico figlio morto la mattina delle nozze maciullato sotto un elmo gigantesco - è determinato a sposarne la promessa moglie Isabella, per assicurare continuità alla sua stirpe. A questo scopo ha pianificato di rinchiudere la moglie Ippolita in un convento.
Il Castello di Otranto non è certamente ciò che i lettori contemporanei o dei critici sbrigativi definirebbero una buona lettura. La trama talvolta rasenta il ridicolo e i personaggi mancano di sviluppo interiore. Nondimeno esso resta un'importante pietra miliare nel panorama della storia letteraria e nessuno, seriamente interessato alla letteratura della paura, può permettersi di ignorarlo. Le opere di Anne Radcliffe I Misteri di Udolpho (1794) e L'Italiano (1797) sono lavori più completi, che mostrano tutte le caratteristiche della narrazione gotica. Ognuno di essi presenta una splendida eroina di ineccepibile sensibilità, perseguitata da un villain alto e scuro che intende abusare di lei (soprattutto sessualmente). Per evitare un destino peggiore della morte, l'eroina fugge lontano dal villain e la sua fuga la porta attraverso una varietà di luoghi oscuri, tetri e pericolosi dai quali, all'ultimo momento, la salva un aitante, nobile e sessualmente non allarmante giovanotto. I romanzi della Radcliffe trasmettono la paura, nonostante ella si affidi a personaggi stereotipati e abbia la spiacevole abitudine di demistificare i suoi misteri. Ciò che funziona, nelle sue trame, è la tensione fra l'impeccabile prosa e gli orrori sessuali. Questi rappresentano la vera tematica dell'autrice. Non si può non convenire che "mantenere l'uso della ragione in presenza di [così tanta depravazione] può solo essere la faccia della pazzia, congelata sotto una parvenza di logica" (Un sogno di Dracula). Se il demone dell'incesto è l'orrore occhieggiato dietro il velo decoroso della prosa della Radcliffe, esso si mostra spavaldamente davanti ai nostri occhi, senza vergogna né mistificazione alcuna, ne Il Monaco (1796) di Matthew Lewis. Scritto freneticamente in sole dieci settimane, Il Monaco ha tutta l'urgenza della visione adolescenziale di una apocalisse sessuale, mentre Lewis segue per noi la progressiva dannazione del suo protagonista, Frate Ambrosio. Noi seguiamo Ambrosio, un monaco trentenne che è l'immagine della virtù, mentre, passo dopo passo, impara a servire il diavolo. La sua scellerata carriera comincia con una violenza carnale, si snoda attraverso il matricidio e l'incesto e finisce in una scena terrificante, nel deserto, dove il demonio viene per accogliere l'anima immortale di Ambrosio. Il diavolo afferra Ambrosio per la testa con un artiglio e, sollevandolo in alto, lo lascia cadere da un'altezza così raccapricciante che "...le caverne e le montagne risuonarono delle grida di Ambrosio..." Il corpo di Ambrosio è lace-
rato dalle rocce e ammaccato dalle acque impetuose del fiume sottostante. La morte impiega molto tempo ad arrivare e Lewis orchestra il ritardo in modo tale che i lettori, che hanno cominciato a desiderare per Ambrosio una giusta punizione, possano assaporarne ogni momento. L'ebreo errante (1820) di Charles Maturin è con ogni probabilità il più importante tra i primi romanzi gotici. Miltoniano nella grandezza della sua concezione, Melmoth l'ebreo errante è un arazzo straordinario nel quale è descritta la gamma completa dei modi in cui l'umanità può essere bestiale nei confronti dell'uomo. Edith Birkhead in Il racconto del terrore scrive di Melmoth: "Ci vengono presentati in abbondanza personaggi sibillini, avari, parricidi, maniaci; monaci con flagelli che rincorrono una giovinetta nuda grondante sangue; ebrei nei sotterranei, circondati dagli scheletri delle loro mogli e dei figli; amanti distrutti dalla luce. .." E più ancora. Il romanzo è un'elaborazione della "teologia migliore - la teologia della totale ostilità verso tutti coloro le cui sofferenze possono mitigare la mia". Come mostra chiaramente Maturin, con una teologia come questa, non c'è bisogno di cercare l'inferno. Esso è proprio sotto i nostri piedi. Può sembrare curioso, tuttavia mancano quasi totalmente immagini di vampiri nella prima novellistica gotica. Il primo vampiro degno di nota appare nel romanzo di John Polidori Il Vampiro: un racconto (1819). Polidori, amante di Byron e medico, ebbe una vita breve e infelice e morì suicida all'età di ventisei anni. Il Vampiro non ha grossi meriti letterari, tuttavia ci fornisce il prototipo del nobile vampiro. Il suo Lord Ruthven "era schivo, intelligente, glaciale, seduttore e freddamente malvagio" (Un Sogno di Dracula). Il problema del romanzo di Polidori è che, incapace egli stesso di percepire la forza delle immagini che ha evocato, non riesce a creare una prosa sufficientemente eccitante per il lettore. Il risultato è un lavoro ornato di paura che ci muove, se lo fa, solo a un educato sbadiglio. Varney il Vampiro (1847), dal canto suo, è uno dei libri più mal scritti al mondo. Dimenticate la letteratura; dimenticate lo stile della prosa; dimenticate l'analisi dei personaggi e preparatevi all'azione, azione, azione, molta della quale violenta e all'occasione così lasciva da rasentare la pornografia. Varney di James Malcolm Rymer è meravigliosamente assetato di sangue: "Stavo... pensando e ripensando a cosa avrei dovuto fare, poi un brivido improvviso mi pervase... cosa? Sangue! Sangue in ogni contesto, fetido e caldo, ribollente e succoso, dalle vene di qualche vittima agonizzante". Le vittime di Varney potrebbero essere definite come giovani
donne molto voluttuose descritte nella piena incandescenza della loro semi-nudità. Non c'è dubbio, Varney non è un'opera di letteratura. Nessuna introspezione sulla vita cattura il lettore; non è sviluppata alcuna visione cosmica pre-esistenziale; nessuna percezione della natura dell'umanità illumina le sue pagine. Ma se a qualcuno piace l'inventiva degli scribacchini, allora Varney il Vampiro è ancora un modo piacevole per trascorrere un pomeriggio piovoso. Carmilla (1872), il buon romanzo (o racconto lungo) di Sheridan Le Fanu, è più vicino in tempo e qualità al Dracula di Bram Stoker. Se da un lato è limitato nel suo raggio visuale, è tuttavia un insigne predecessore del capolavoro di Stoker e con ogni probabilità lo ha influenzato molto più di tutti i lavori summenzionati. Le Fanu, uno dei più dotati scrittori di terrore della sua epoca, ci dà una prosa scultorea, finemente cesellata, nella quale l'amicizia femminile, la solitudine, la fame sessuale e la sete vampiresca di sangue sono inestricabilmente avvinte l'una all'altra in un ritratto estremamente convincente di donna-vampiro, che si nutre della splendida e innocente fanciulla che l'ama. Torniamo ora a Bram Stoker e al suo Dracula. Dopo quanto detto, ciò che abbiamo qui è un delizioso, tipico romanzo d'avventure vittoriano, completo di un giovane eroe, una giovane donna bella e virtuosa e un villain credibilmente malvagio. Dracula, tuttavia, ha maggiore spessore rispetto a gran parte della letteratura avventurosa poiché la sua trama imita un romanzo cavalieresco. Diamo un'occhiata al cast dei personaggi: Jonathan Harker, John Seward, Lord Godalming e Quincey Morris formano una banda di cavalieri alla ricerca della verità, che sono messi alla prova in un confronto col male. Il dottor Van Helsing è la figura di Merlino, l'uomo vecchio e saggio che conosce i misteriosi segreti necessari al trionfo finale sul drago e che guida il giovane eroe nella sua ricerca. Dracula (il cui nome può significare anche "figlio del drago") è, ovviamente, il drago stesso. Per quanto riguarda le fanciulle, Mina Murray (poi Harker) e Lucy Westenra sono le vergini indifese che devono essere salvate dalla forza malvagia del drago. Il romanzo, quindi, può essere piacevolmente letto come romanzo d'avventura che ha punti in comune con la narrazione cavalieresca; e oserei dire che Stoker non solo era conscio di questo aspetto, ma addirittura ne
era orgoglioso. Dracula, tuttavia, non sarebbe certamente la straordinaria fiction che è se fossero solo queste le sue caratteristiche. Per discernere cos'altro c'è, dobbiamo vedere nel romanzo l'allegoria sessuale che serpeggia sotto la superficie dell'azione. La sessualità e non l'amore, né le peregrinazioni cavalieresche o gli eroismi o l'avventura, è la tematica centrale. Per arrivare a come Stoker, a livello intuitivo se non consciamente, manipolò il suo materiale per creare questa allegoria, devo richiamare alla mente dei miei lettori una distinzione fatta da Carl Jung tra ciò che egli chiamò il romanzo psicologico e quello visionario. Egli ci dice che "il modello psicologico ha per oggetto materiale tratto dal campo della coscienza umana... Tutto ciò che esso abbraccia appartiene al regno del comprensibile". Il romanzo visionario, al contrario, tratta con materiale "che non è più familiare... trae la sua esistenza dall'interno della mente umana... e suggerisce l'abisso di tempo che ci separa dall'età pre-umana... una esperienza primordiale che è al di là della comprensione umana e sotto la quale si rischia di soccombere". Potremmo dire che il romanzo psicologico è quello in cui l'autore cerca di capire il comportamento umano all'interno delle facoltà della ragione; mentre la letteratura visionaria, come afferma Jung, rivela "una visione di avvenimenti mostruosi e insensati che oltrepassano i sentimenti umani e la capacità di comprensione..." Dracula è il romanzo visionario per eccellenza, tuttavia io penso che Stoker, il quale era più a suo agio con le pietà vittoriane espresse dai suoi personaggi, sarebbe sconcertato da una tale definizione della sua opera. Nondimeno il suo istinto di scrittore fu abbastanza sottile da mettersi al servizio del suo inconscio. Il risultato è Dracula. Se consideriamo il libro come un romanzo visionario nel senso di Jung, notiamo che emerge un'altra storia completamente nuova. Abbiamo ancora la banda cavalieresca dei giovani eroi e del vecchio saggio che istruisce i novizi. Sono presenti le fanciulle innocenti e indifese, come pure il drago. Tutti insieme essi combinano una storia più profonda, più oscura dell'incontro tra civili gentlemen inglesi che difendono le loro donne contro un vampiro dell'Europa centrale. Scorriamo brevemente un paio di scene. In una delle prime parti del romanzo Jonathan Harker, vagando nel castello di Dracula, arriva in una stanza nella quale gli è stato detto espressamente di non dormire. La stanza, ci dice Harker, sembra essere stata un
tempo un boudoir. Ignorando deliberatamente l'ammonimento del conte, Harker si sdraia su un divano e si appisola. Quando si sveglia trova tre splendide fanciulle dall'incarnato molto pallido, chine vicino al divano. "Tutte e tre avevano denti straordinariamente candidi, che risaltavano come perle in contrasto col rosso rubino delle loro labbra voluttuose... Avvertii il desiderio bruciante, disperato, di essere baciato da quelle labbra rosse..." Harker, invece di sollevarsi dal divano e chiedere alle donne chi siano e cosa vogliano, ci riferisce che rimane lì "silenzioso, guardando sotto le ciglia in una sorta di deliziosa anticipazione". L'intera scena comprendente il supino Harker, il quale, "chiusi gli occhi in languida estasi, attende", le donne accucciate che si leccano le labbra e, alla fine, la prescelta che si china "sempre di più, sempre di più", emana una libidine da togliere il fiato. Inoltre, è una scena che ci dà un segnale ambiguo poiché lega insieme erotismo e morte. Anche Dracula è morto. Ciò che impariamo nel corso del romanzo è che Dracula è il saggio istruttore delle donne, Lucy Westenra e Mina Harker, come il dottor Van Helsing è il consigliere degli uomini. Il suo "bacio" rende le donne voluttuose. Lucy, per esempio, la mattina dopo che a Whitby Dracula si è saziato col suo sangue per la prima volta, è descritta come se "avesse dormito... [così sodo che] non pareva nemmeno essersi mossa. L'avventura della notte non sembra averle nuociuto; al contrario, le ha giovato dal momento che quella mattina il suo aspetto è il migliore che abbia avuto nelle ultime settimane". E quando alla fine Lucy muore, noi veniamo a sapere che "il suo corpo ha subito alcuni cambiamenti. La morte le ha restituito parte della bellezza... lei era, se possibile, ancor più radiosamente bella di quanto non lo fosse mai stata". In una scena nel cimitero in cui è stata sepolta, la non-morta Lucy incontra la banda cavalieresca, incluso lord Godalming, il suo fidanzato. Lei è descritta come vigile, felina, potente: "La dolcezza era diventata crudeltà adamantina, la purezza una lussuria voluttuosa... con gli occhi fissi su di noi... Gli occhi di Lucy non più limpidi ma pieni di fuoco infernale... guizzavano di luce demoniaca e il viso era inghirlandato da un sorriso voluttuoso". Lei chiama Arthur "con mani protese, con un sorriso lussurioso... e con grazia languida e lasciva...". Tutto quel languore, quella voluttuosità devono essere fermate. E il dottor Van Helsing insegna agli uomini come neutralizzarli. Un ramo di quercia, lungo un metro, appuntito e indurito nel fuoco, è consegnato al fidanzato di Lucy, lord Godalming: che, mentre i suoi compagni gli reci-
tano preghiere tutto intorno, ficca la punta del bastone nel petto della sua promessa sposa. Poi, maneggiando un martello da minatore nella mano destra, diventa "una figura come Thor che con il suo braccio fermo alzava e colpiva, conficcando sempre più profondamente il bastone pietoso, mentre il sangue usciva dal cuore trafitto e imbrattava tutto intorno". Alla fine c'è silenzio nella tomba e sul volto di Lucy "una calma santa... come la luce del sole...". Il messaggio dagli abissi è chiaro: nel mondo c'è una vitalità nera. È una forza incorporata da Stoker in Dracula che cerca la vita, domanda la vita, assorbe e consuma la vita. Quando quella forza infetta le donne, esse diventano languide, voluttuose, sessualmente esigenti, incontenibili e irresistibilmente attraenti. Esse sono, perciò, pericolose per gli uomini ai quali succhiano la vitalità, rendendoli deboli e flaccidi. Il messaggio finale è che esse devono essere controllate. Ma non è solo l'immagine della mera sessualità maschile e femminile che Dracula adombra. Sia i lettori sia gli spettatori del film hanno riconosciuto che lo scambio di sangue dei vampiri è il simbolo di una intimità proibita. Tutti i tipi di intimità, non solo quella tra uomini e donne. Il potere trionfante dell'immagine di Dracula è che essa le incorpora tutte: omosessualità maschile e femminile e ogni possibile combinazione di incesto. È un potere soave che i film possiedono: permetterci di guardare dentro i recessi della mente perfino quando arriviamo a negare il significato degli abbracci che hanno luogo sullo schermo. Cosa abbiamo visto, in definitiva, se non un altro film di vampiri? I compleanni sono occasioni per riflettere. Nel sessantesimo anniversario di Dracula (1931) della Universal Pictures, possiamo riflettere sulla nostra buona fortuna che la storia cinematografica di Dracula abbia avuto una partenza così ben augurale. Dracula, infatti, ha continuato ad avere fortuna per merito dei suoi interpreti. Se inizialmente Lugosi lo ha impresso per primo nella nostra immaginazione, Christopher Lee e Frank Langella ne hanno consolidato l'immagine. Lee ci ha regalato un Dracula freddo e imperioso, mentre Langella ha reso manifesta e attraente la sua potenza sessuale. Ciò che ora sembra inevitabile, alla svolta del secolo, è che ci sarà sempre un Dracula che aleggia con la sua ombra sullo schermo. Ed è come dovrebbe essere. Per quanto mascherato, il suo messaggio è che noi abbiamo bisogno di questo visitatore degli abissi per ricordarci che ci saranno sempre "esperienze primordiali che oltrepassano la comprensione
umana e alle quali esiste il pericolo di soccombere". Titolo originale: Happy Birthday, Dracula (1991) Anne Rice IL SIGNORE DI RAMPLING GATE Rampling Gate: ci sembrava così reale in quelle vecchie incisioni, un castello di fiaba che si stagliava sulla foresta scura tutt'intorno. Fra le due immense torri una selva di frontoni e di camini, muri di pietra grigia ricoperti d'edera, finestre a montante che riflettevano le nuvole sospinte dal vento. Ma perché nostro padre non vi si era mai recato? Perché non ci aveva mai condotti in quel luogo? E perché, sul letto di morte, in quei mesi tristi dopo la dipartita della mamma, aveva detto a mio fratello Richard che Rampling Gate doveva essere demolito pietra dopo pietra? Rampling Gate era sempre appartenuto ai Rampling; Rampling Gate aveva resistito per più di quattrocento anni. Il compito che ci attendeva ci rendeva timorosi, e dolorosamente confusi. Richard aveva appena terminato i suoi quattro anni a Oxford. Due turbinose stagioni a Londra mi avevano fatto conoscere una parvenza di timido successo. Preferivo ancora scrivere poesie e racconti nella quiete della mia stanza piuttosto che danzare una notte intera; ma custodivo con cura questo mio segreto, e nonostante non fossimo bambini viziati avevamo avuto il meglio di ciò che i nostri genitori potevano darci Ma ormai gli anni spensierati erano finiti. Dovevamo essere attenti e giudiziosi. I nostri cuori sanguinavano mentre, seduti nello studio pieno di libri di nostro padre, guardavamo le vecchie incisioni di Rampling Gate davanti al piccolo fuoco di carbone. "Distruggilo, Richard" aveva detto nostro padre, "appena me ne sarò andato." — Proprio non capisco, Julie — confessò Richard, mentre riempiva di sherry il piccolo bicchiere di cristallo che tenevo in mano. — È veramente autentica, quella vecchia dimora, un vero castello del quattordicesimo secolo in ottime condizioni. Una certa signora Blessington, nata e allevata nel villaggio di Rampling, ne ha avuto apparentemente cura durante tutti questi anni. Era lì quando morì lo zio Baxter, l'ultimo Rampling a vivere sotto quel tetto. — Ti ricordi — chiesi — l'anno in cui nostro padre prese tutte queste in-
cisioni e le ritirò? — Come posso dimenticarmene? — disse Richard. — Come potrei? Fu una cosa così bizzarra; non in carattere con nostro padre, per di più. — Si appoggiò all'indietro, succhiando lentamente la pipa. — C'era stato quello strano incidente a Victoria Station, quando aveva visto quel giovanotto. — Sì, proprio così — dissi, adagiandomi all'indietro nella sedia di velluto e osservando le fiamme che danzavano sulla grata. — Ricordi come era sconvolto? Tuttavia era stato soltanto un semplice incidente. Di fatto non era accaduto nulla. A quel tempo non dovevamo avere rispettivamente più di sei e otto anni ed eravamo andati alla stazione con nostro padre per salutare degli amici. Attraverso il finestrino del treno aveva visto un giovane che lo fissava e la cosa lo aveva sconvolto. Potevo ancora ricordare chiaramente quel volto. Molto bello, con un naso stretto e sopracciglia ben delineate e una massa di lucidi capelli castani. I grandi occhi scuri avevano fissato nostro padre con espressione estremamente triste mentre lui ci trascinava via frettolosamente. — E quel litigio fra nostro padre e la mamma, quella notte — disse Richard pensosamente. — Ricordo che ascoltammo dal pianerottolo ed eravamo così spaventati. — Nostro padre disse che lui non era più contento di essere il signore di Rampling Gate; che lui era venuto a Londra per rivelarsi. Era "un orrore indicibile", così lo definì, che lui dovesse essere così sfrontato. — Proprio così, e la mamma cercava di calmarlo ma quando avanzò l'ipotesi che stesse lavorando d'immaginazione, nostro padre andò su tutte le furie. — Ma chi poteva essere il signore di Rampling Gate, se non lo era nostro padre? Lo zio Baxter era morto da un pezzo a quel tempo. — Non so proprio che fare — sussurrò Richard. — E nelle carte di nostro padre non c'è alcuna spiegazione. — Guardò una delle incisioni più recenti, squisitamente dipinta, che mostrava la casa perfettamente rispecchiata nell'acqua azzurra del lago. — Ma ora ti dico che c'è di peggio, Julie — disse lui scuotendo la testa. — Neanche noi abbiamo mai visto la casa con i nostri occhi. Lo fissai e i nostri occhi si incontrarono in un attimo di confusione che sfumò velocemente in qualcos'altro. Mi allungai verso di lui. — Non ti ha detto che non possiamo andarci; vero, Richard? — chiesi. — Che non possiamo visitare la casa prima che venga distrutta.
— Ma certo che no! — disse Richard. Un sorriso gli illuminò il volto. — Dopo tutto non lo dobbiamo agli altri, Julie? Allo zio Baxter che ha speso fino all'ultimo soldo per restaurare la casa, e anche alla vecchia signora Blessington che l'ha curata per tutti questi anni? — E il villaggio? — aggiunsi velocemente. — Cosa significherà per quella gente vedere Rampling Gate distrutta? Dobbiamo per forza andare e vedere il posto con i nostri occhi. — Allora è deciso. Scriverò immediatamente alla signora Blessington. Le dirò che stiamo arrivando e che non sappiamo quanto ci fermeremo. — Oh Richard, sarebbe proprio meraviglioso! — Non potei fare a meno di abbracciarlo, benché ciò lo imbarazzasse e si fosse messo a tirare la pipa esattamente come avrebbe fatto nostro padre. — Facciamo almeno quindici giorni — dissi. — Voglio conoscere il posto, specialmente se... Pensare all'ammonimento di nostro padre era troppo triste, mentre il pensiero del viaggio era assai più divertente. Avrei impacchettato i miei manoscritti: chissà, magari in quell'atmosfera malinconica e squisita avrei trovato proprio l'ispirazione che cercavo. Mi sentivo scuotere da un'ilarità intermittente, che squarciava la tristezza da cui eravamo oppressi fin dal giorno in cui nostro padre era stato sepolto. — È la cosa giusta da fare, non è vero, Richard? — chiesi, incerta, un po' disorientata dal mio stesso desiderio di andare. C'era una sorta di piacere illecito in quell'andare finalmente a Rampling Gate. "Un orrore indicibile": ripetei le parole di nostro padre con una piccola smorfia. Che cosa significava? Ritornai col pensiero all'uomo strano e bellissimo che avevo scorto nella carrozza ferroviaria, mentre ci fissava con quell'espressione meditabonda sul volto sottile. Indossava un cappotto nero con una cravatta di lana rossa, e ricordavo quanto mi fosse sembrato pallido alla luce di quel rosso. La sua carnagione doveva essere eburnea. Che strano ricordarsene così chiaramente; soprattutto la capigliatura castana, lunga, lussureggiante. Ma non era stato altro che un riflesso su un vetro. Ora mi rendevo conto che, in quei pochi attimi, egli aveva creato per me un ideale di bellezza mascolina che dopo di allora non avevo mai più messo in discussione. Tuttavia nostro padre si era così arrabbiato in quei pochi istanti... mi sentii assalire da un improvviso senso di colpa. — Certo che è la cosa giusta, Julie — rispose Richard. Alla scrivania stava già scrivendo le lettere, mentre io non riuscivo a comprendere la piena portata dei miei pensieri.
Era pomeriggio inoltrato quando il vecchio calesse sgangherato ci portò dalla piccola stazione su per la dolce salita, e potemmo vedere per la prima volta dal vero quella casa stupenda. Penso di aver trattenuto il respiro. Il cielo sfumava in un rosa acceso dietro un banco di soffici nuvole e gli ultimi raggi del sole colpivano i pannelli superiori delle finestre piombate, inondandoli di oro fuso. — Oh, ma è troppo maestoso — sussurrai — quasi come una grande cattedrale. E pensare che è nostro. — Richard mi baciò leggermente su una guancia. Improvvisamente mi sentii impazzire, in un certo senso desiderosa di essere lasciata lì ad annullarmi in quel luogo, per paura o per incantesimo non avrei potuto dirlo; forse una sublime miscela di tutti e due. Volevo con tutte le mie forze saltare giù e avvicinarmi a piedi, lasciando che quelle torri mi sovrastassero a ogni passo un po' di più, ma il nostro vecchio cavallo accelerò il passo. La breve fila di domestici inamidati si era sciolta per farsi avanti: la vecchia governante incanutita con le braccia spalancate, gli uomini pronti a scaricare le scatole e i bauli. Richard e io fummo condotti attraverso il grande atrio dalla figura sottile e scattante della signora Blessington, mentre i nostri passi risuonavano pesantemente sulle piastrelle di marmo; i nostri occhi erano abbagliati dai raggi di luce polverosa che colpivano il lungo tavolo di quercia, le sue sedie massicciamente scolpite, le tappezzerie tetre e pesanti che risaltavano ben poco contro quei muri altissimi. — È un luogo incantato — gridai, incapace di trattenermi. — Oh, Richard, siamo a casa! — La signora Blessington rise con gioia, mentre le sue mani rinsecchite stringevano con forza le mie. I suoi piccoli occhi azzurri mi fissavano con un'espressione stranamente vacua in contrasto con il suo sorriso. — I Rampling di nuovo a Rampling Gate, non so dirvi quale gioia sia per me. E sì, mia cara — disse, come se potesse leggere i pensieri che mi passavano nella mente — sono quasi cieca ormai da molti anni. Ma se notate che qualcosa in questa casa è fuori posto, ditemelo subito perché sarebbe, vi assicuro, l'eccezione più che la regola. — Dal suo piccolo volto rugoso si sprigionava un tale calore che immediatamente l'adorai. Trovammo le nostre camere da letto, le più eleganti della casa, ben arieggiate, con la biancheria candida come neve e il fuoco che scoppiettava allegramente per asciugare l'umidità sempre presente in quei muri così spessi. Le piccole finestre a rombi rivelavano una vista stupenda del lago e delle querce che lo circondavano, e poche luci disperse segnalavano la pre-
senza di un villaggio al di là. Quella sera, mentre cenavamo sul grande tavolo di quercia, ridevamo come bambini, mentre le candele emanavano soltanto una luce fioca. Poi disputammo una feroce battaglia al biliardo della sala da gioco che era stata l'ultima innovazione dello zio Baxter; e, temo, bevemmo un po' troppo brandy. Poco prima di andare a letto domandai alla signora Blessington se in quella casa vi era mai stato nessuno dalla morte dello zio Baxter. Era avvenuta quasi cinquanta anni prima, nel 1838, ma lei era già governante. — No, mia cara — disse lei in fretta, mentre sprimacciava i cuscini di piume. — Come voi sapete quell'anno venne vostro padre, ma non si fermò per più di un mese o due, poi se ne ritornò a casa. — Non c'è mai stato un giovane da allora... — suggerii, ma in verità non desideravo turbare la felicità che provavo. Come mi piacevano la semplicità spartana di quella stanza, i muri di pietra privi di carta da parati e di ornamenti, l'alto baldacchino del letto a pannelli di noce. — Un giovane? — Scoppiò in una risata come se fosse un po' incerta su ciò che le stava intorno, prese l'attizzatoio e smosse il fuoco. — Che strana cosa da chiedere. Per un attimo rimasi seduta in silenzio guardando lo specchio, mentre mi toglievo le ultime forcine dai capelli che mi ricaddero pesantemente sulle spalle, scaldandomi. Erano belli, sembravano una coperta sotto cui potermi nascondere. Ma lei si voltò come se avvertisse in me un certo disagio e mi si avvicinò. — Perché chiedete di un giovane, signorina? — chiese. Lentamente, a tentoni le sue mani toccarono le lunghe trecce che mi scendevano sulle spalle. Mi tolse la spazzola dalle mani. Mi sentivo estremamente stupida a raccontarle la storia, ma congegnai una versione semplificata del nostro incontro inaspettato con un giovane dalla bellezza diabolica che più tardi nostro padre, nella rabbia, aveva definito "il signore di Rampling Gate". — Era bello? — chiese lei, mentre scioglieva dolcemente i nodi dei miei capelli. Sembrava che restasse sospesa a ogni parola mentre io glielo descrivevo nuovamente. — Non ci sono stati degli intrusi nella casa, da allora, signora Blessington? — chiesi. — Nessun mistero da risolvere... Lei scoppiò in una risata dolce. — Ma no, mia cara, questa casa è il posto più sicuro del mondo — disse
un po' troppo in fretta. — È una casa felice e nessuno oserebbe mai portarvi scompiglio. Niente infatti turbò la serenità dei giorni seguenti. Il fumo e il rumore di Londra, le ultime parole di nostro padre, tutto divenne un sogno. Reali erano le lunghe passeggiate insieme nei giardini troppo cresciuti, le nostre uscite con la piccola barca sul lago. Prendevamo il tè sotto i vetri bollenti della serra vuota. E il tramonto ci sorprendeva mentre stavamo salendo le scale con i più bei libri della biblioteca dello zio Baxter, da leggere a lume di candela nel rifugio delle nostre stanze. Le nostre indagini discrete al villaggio avevano ricevuto più o meno la stessa risposta: gli abitanti amavano la casa e non ricordavano alcuna vecchia storia inquietante. Più e più volte, infatti, ci fu detto che Rampling era il castello più pacifico di tutta l'Inghilterra, e che nessuno osava (le stesse parole della signora Blessington) portarvi lo scompiglio. — Quella vecchia casa è il nostro angelo custode — disse la vecchietta della libreria, quando Richard si fermò per comprare i giornali di Londra. — Che cosa sarebbe la cittadina di Rampling senza quella casa? Come avremmo potuto comunicare loro la decisione di nostro padre? Come del resto ce ne saremmo ricordati? Non dicemmo una parola a proposito del previsto disastro, e Richard scrisse alla sua fabbrica per dire che non saremmo ritornati fino all'autunno. Aveva trovato un tesoro di classici in quei vecchi volumi appartenuti allo zio Baxter, e io avevo sistemato il mio scrittoio nel piccolo studio che si apriva sulla biblioteca. Non avevo mai conosciuto una simile quiete e una tale pace. Sembrava che l'atmosfera di Rampling Gate permeasse le mie semplici descrizioni e inondasse le righe e i personaggi da me creati. Il lunedì dopo il nostro arrivo avevo già finito il mio primo racconto breve, ed ero andata a piedi al villaggio per inviarlo agli editori del Blackwood's Magazine. Era una splendida mattinata e tornai indietro tranquillamente, senza fretta. Che cosa mai aveva potuto infastidire nostro padre in questo incantevole angolo d'Inghilterra? Che cosa aveva oscurato le sue ultime ore al punto che egli aveva lanciato la sua maledizione su quei luoghi? Il cuore mi si aprì a una quiete ultraterrena, a un'innegabile magnificenza che mi fece dimenticare me stessa. C'erano dei momenti in cui mi sentivo come puro intelletto, separato dal corpo per andare alla deriva in un silenzio privo di ombre, su e giù per i sentieri dei giardini e i corridoi di pietra.
Ne avevano viste troppe per avvertire la presenza di una donna giovane e fragile che sporadicamente parlava ad alta voce con le armature che la circondavano, con le statue del giardino, con i cherubini della fontana privi ormai da anni di acqua che uscisse dalle loro cornucopie. C'era in questa meraviglia qualche sorta di forza malevola che ancora ci eludeva, qualche storia non detta da scoprire? Qualche orrore inenarrabile... Con gli occhi della mente vedevo un giovane; e quella strana sensazione crebbe, mi sovrastò, come se qualche particolare della figura si fosse inserito nella mia memoria nel passato più recente. Forse me lo ero reinventato nei sogni, colorando di rosso le sue gote e le sue labbra. Forse mentre raccontavo il fatto alla signora Blessington, avevo lasciato che egli sollevasse la mano sulla sua cravatta rossa e avevo visto le sue dita, lunghe e affusolate: la mano delicata e suggestiva di un musicista. I pensieri mi si affollavano nella mente mentre rientravo in casa senza far rumore; vidi Richard seduto nella sua poltroncina di pelle preferita vicino al fuoco. L'aria che giungeva attraverso le porte del giardino, lasciate aperte, era tiepida ma la brezza era vivace e rendeva la grande stanza, con i suoi torreggianti scaffali pieni di volumi rilegati in pelle, quasi piccola e invitante. — Siedi — disse Richard gravemente, degnandomi a malapena di un'occhiata. — Voglio leggerti qualcosa, immediatamente. — Teneva in mano un libro lungo e stretto. — Era dello zio Baxter — disse — e di primo acchito ho pensato fosse soltanto un libro dei conti tenuto durante il periodo della ristrutturazione; ma ci ho trovato alcuni stralci di diario scritti negli ultimi giorni della sua vita. Sono difficili da leggere, quasi indecifrabili, ma sono riuscito a comprenderli. — Bene, allora leggimeli — dissi, ma avvertii un piccolo impeto di paura. Non desideravo venire a sapere nulla di terribile a proposito di Rampling Gate. Se fossimo potuti rimanere lì per sempre... Ma sicuramente ciò era fuori questione. — Ascolta questo — disse Richard, girando la pagina con cura. — "Cinque maggio 1838. Egli è qui, ne sono sicuro. Lui è tornato di nuovo." E molti giorni dopo: "Ritiene che questa sia casa sua; berrebbe il mio vino e fumerebbe i miei sigari se solo potesse farlo. Legge i miei libri e i miei giornali e non lo sopporto. Ho dato ordine che ogni cosa venisse messa sotto chiave". E infine l'ultimo appunto il mattino prima di morire: "Sono stanco, stanco da morire e lui è la causa principale della mia stanchezza. L'altra notte l'ho visto con i miei stessi occhi. Stava nella sua stanza. Si
muoveva e parlava proprio come se fosse stato un mortale e osava rivelarmi tutti i suoi segreti, lui, un demone con un volto da serafino e io un semplice mortale; come posso tollerarlo?". — Signore santissimo — sussurrai lentamente. Mi alzai dalla sedia su cui ero seduta e in piedi dietro le sue spalle lessi la pagina con i miei occhi. La calligrafia era ridotta a uno scarabocchio, l'ultima annotazione nel libro. Sapevo che il cuore dello zio Baxter aveva ceduto. Non era morto violentemente, ma in modo pacifico, proprio in quella stanza, con il suo libro di preghiere in mano. — Poteva essere la stessa persona di cui aveva parlato nostro padre quella notte? — chiese Richard. Nonostante il sole che entrava dalle porte aperte, sentii un gelo improvviso. Per la prima volta diffidai della casa e della spavalderia che ci aveva condotto lì, dopo essere stati messi in guardia dalle parole di nostro padre. — Ma è stato molti anni fa, Richard... — dissi. — E che cosa può voler dire questo sproloquio a proposito di un essere sovrannaturale! Non era uno spirito quello che ho visto io nella carrozza ferroviaria! Sprofondai nella sedia di fronte a lui e cercai di rallentare il battito del mio cuore. — Julie — disse Richard gentilmente, chiudendo l'agenda. — La signora Blessington ha vissuto in questo luogo felice e contenta per anni. Ci sono sei domestici che dormono ogni notte nell'ala settentrionale. È ovvio che non può esserci alcun pericolo in tutto questo. — Tuttavia la cosa non è molto divertente, vero? — dissi timidamente. — Non è come quelle storie di fantasmi che eravamo soliti inventare, popolando il buio di esseri immaginari e ridendo dei compagni di scuola spaventati. — Per tutta la vita — disse lui, fissandomi gravemente — ho ascoltato storie di spettri e di fantasmi, alcune inventate, altre ritenute vere; e quasi sempre vi è un accenno al fatto che la casa in questione è pervasa da un'atmosfera che riempie chiunque di un senso di premonizione, un senso di minaccia e di allarme... — Sì, lo so, ma qui non c'è proprio nessuna atmosfera velenosa. — Al contrario, non mi sono mai sentito più a mio agio in vita mia. — Mise la mano in tasca per estrarne l'immancabile fiammifero per accendere la pipa, che si era spenta. — In verità, Julie, non so proprio come esaudire l'ultimo desiderio di nostro padre di radere al suolo questa casa. Annuii con comprensione. Lo stesso pensiero era stato mio fin dal gior-
no in cui eravamo arrivati. Anche adesso mi sentivo così a mio agio, naturale, completamente al sicuro. Improvvisamente, in modo del tutto irrazionale, desiderai di non aver mai trovato quegli accenni nel libro dello zio Baxter. — Dovrò parlare di nuovo alla signora Blessington — dissi bruscamente. — In modo serio, voglio dire... — Ma l'ho fatto io, Julie — disse. — Le ho chiesto tutto questa mattina appena fatta la scoperta, e lei si è limitata a ridere. Ha giurato di non aver mai visto nulla di anormale in questo luogo e che nessuno nel villaggio ricorda leggende a proposito di questo posto. Ha ribadito quanto fosse felice che fossimo ritornati nella nostra casa di Rampling Gate. Non credo abbia sospettato che noi intendiamo distruggerla. Oh, le si spezzerebbe il cuore se lo facessimo! — Non ha mai visto niente fuori dal normale? — chiesi. — È così che ha detto? Che strano modo di esprimersi, Richard, quando si è Quasi ciechi. Non mi stava ascoltando. Aveva posato l'agenda di lato e lentamente si era alzato in piedi, in modo quasi indolente, per uscire nel piccolo giardino passando attraverso le doppie porte. Stava guardando al di sopra dell'alta siepe, verso le querce che piegavano i loro rami frondosi e pesanti fin quasi a toccare la superficie del lago. Nelle prime ore del giorno non c'era alcun rumore, eccetto il lieve stormire delle foglie mosse dalla brezza, e il grido intermittente di un uccello lontano. — Può darsi che se ne sia andato, Julie — disse Richard, voltandomi le spalle, mentre la sua voce risuonava chiaramente in quel silenzio — se mai è esistito. Può darsi non vi sia più nulla che possa spaventare qualcuno. Non penserai di poter trascorrere l'inverno in questa casa, vero? Credo tu voglia ritornare a Londra prima di allora. — Sembrava piccolo su quello sfondo di alberi torreggianti, il cielo sbriciolato in piccoli frammenti lucenti dalla massa di foglie che gentilmente lasciava filtrare la luce. Rampling Gate lo aveva conquistato. Potevo capirlo perfettamente, perché aveva conquistato anche me. Avrei potuto sopportare senza difficoltà un inverno, per quanto lugubre e freddo, in quel posto. Non sarei mai voluta ritornare a casa. Soltanto la presenza di un mistero affievolì la mia sensazione di percepire ogni cosa e ogni luogo. Dopo un lungo momento, mi alzai per uscire nel giardino, e posai dolcemente una mano sul braccio di Richard.
— Ti comprendo perfettamente, Julie — disse lui, come se avessimo parlato fino a quel momento. — Ho giurato a nostro padre che avrei obbedito alla sua volontà, e il giuramento mi strazia. D'altra parte mi resterà sulla coscienza per sempre, sia che io abbatta questa casa sia che io vada contro alla promessa fatta a nostro padre sul suo letto di morte. — Dobbiamo cercare aiuto, Richard. Il consiglio dei nostri avvocati e del confessore di nostro padre. Devi scrivere a loro e raccontare il problema. Nostro padre stava delirando quando ti ha dato quell'ordine. Se possiamo esporre loro la cosa, ci aiuteranno a decidere. Erano le tre di notte quando aprii gli occhi. Ero rimasta sveglia a lungo. Avevo ascoltato ora dopo ora i lugubri rintocchi dell'orologio. Non ero spaventata a restare lì sdraiata nel buio da sola, piuttosto avvertivo un'altra sensazione. Un'agitazione vaga e irrequieta, un senso di vuoto e di bisogno che alla fine mi costrinse ad alzarmi dal letto. Chissà cosa ci voleva per sciogliere quella tensione. Fissai le semplici sagome delle cose nell'ombra. Il piccolo arazzo appeso sopra il caminetto, con i suoi principi e le sue principesse persi nelle fibre e nei fili scoloriti. Il ritratto di un antenato elisabettiano, che dalla sua piccola cornice guardava fisso con il suo occhio a mandorla. Che cos'era in realtà quella casa? Era un'abitazione, o una condizione della mente? Perché gli appunti dello zio Baxter non ci avevano fatto ritornare immediatamente a Londra? Perché dopo cena ci eravamo fermati così a lungo nella grande sala, senza scambiare neanche una parola? Improvvisamente mi sentii sopraffatta, e tuttavia esclusa da qualche segreto importante; non erano forse proprio quelle le parole usate dallo zio Baxter? Consapevole soltanto di quell'insopportabile tensione, mi infilai la mia vestaglia di lana, abbottonandola fino al collo e allacciando la cintura. Misi le pantofole e mi inoltrai nell'atrio. La luna illuminava in pieno la scala di quercia e la porta profondamente incassata della stanza di Richard. Mi avvicinai in punta di piedi e, sbirciando all'interno, vidi che il letto era vuoto, intatto! Anche lui stanotte era in piedi, da solo, come me. Oh, se solo mi avesse chiamato e mi avesse chiesto di andare con lui! Mi voltai e scesi silenziosamente le lunghe scale. La grande sala si apriva di fronte a me come una caverna, con la luce della luna che illuminava qua e là, sfiorando un paio di spade incrociate o
uno scudo appeso sul muro. Oltre la grande sala, nella rientranza appena al di fuori della biblioteca, vidi senza dubbio una luce tremolante. E una brezza attraversò velocemente la stanza, portando con sé il suono e l'odore di un fuoco di legna. Tremai di sollievo. Richard era là. Avremmo potuto parlare. Oppure avremmo potuto continuare insieme la nostra esplorazione, proteggendo le fragili fiamme delle nostre candele con il cavo della mano per passare di stanza in stanza? Un senso di benessere mi pervase e mi rilassò, e tuttavia il buio che ci separava mi sembrò immenso; ero terrorizzata all'idea di attraversarlo, mentre superavo di corsa il lungo tavolo con i suoi massicci candelabri e raggiungevo finalmente la rientranza prima delle porte della biblioteca. Sì, Richard era là. Sedeva con gli occhi chiusi, appisolato sulla sedia di pelle, mentre la brezza che proveniva dal giardino agitava le fragili fiamme delle candele sullo scaffale di pietra e sul tavolo al suo fianco. Stavo per avvicinarmi a lui, per chiudere le porte e baciarlo poi gentilmente chiedendogli se non voleva andare a letto, quando quasi di colpo vidi con la coda dell'occhio che nella stanza c'era qualcun altro. A sinistra, in piedi presso l'angolo più lontano del tavolo c'era un'altra figura; con le pallide mani appoggiate sul tavolo, guardava il mucchio dei fogli di Richard. Sapevo che non poteva esser vero. Sapevo che doveva essere un sogno; che niente in quella stanza, e men che mai quella figura, poteva essere reale. Perché era lo stesso uomo che avevo visto quindici anni prima nella carrozza ferroviaria, e neanche un tratto di quel volto giovane e teso era mutato. I capelli erano gli stessi, spessi e lucidi, pettinati con noncuranza, e ricadevano sullo spesso colletto del suo cappotto nero; la sua pelle, così pallida, quasi risplendeva luminosa nell'ombra; e quegli occhi scuri improvvisamente si sollevarono e mi fissarono con un'espressione così curiosa che mi misi quasi a urlare. Ci scrutammo a vicenda attraverso lo spazio oscuro della sala, io ferma sulla soglia, lui visibilmente e innegabilmente scosso perché lo avevo colto di sorpresa. Il cuore mi si fermò. E in un attimo lui si mosse verso di me, colmando la distanza fra noi, sovrastandomi e stringendo dolcemente le sue dita sottili e bianche sulle mie braccia. — Julie — sussurrò, in un tono così fievole da sembrarmi una proiezione dei miei stessi pensieri. Ma non era un sogno. Era reale. Mi stava tratte-
nendo; e da me uscì un urlo lacerante, incontrollabile, che rimbalzò su tutte e quattro le pareti. Vidi che Richard si alzava dalla sedia. Ero sola, adesso. Aggrappandomi al telaio della porta avanzai barcollando; e di nuovo, in un attimo di sconcertante chiarezza, vidi il giovane intruso. Lo vidi in giardino, in piedi; mi guardava da sopra la spalla e poi se ne andava. Non riuscivo a smettere di gridare. Non riuscii a smettere neanche quando Richard mi prese e mi supplicò, facendomi sedere. Stavo ancora gridando quando alla fine giunse la signora Blessington. Mi versò immediatamente un bicchiere di cordiale, mentre Richard ancora una volta mi supplicava di dirgli ciò che avevo visto. — Ma lo sai anche tu chi era! — dissi in tono pressoché isterico. — Era lui, il giovane del treno. Indossava una redingote fuori moda da anni e la sua cravatta era allentata sulla gola. Richard, stava leggendo le tue carte, esaminandole e leggendole nel buio più profondo. — Va bene — disse Richard, facendo un gesto con la mano come per ritrovare la calma. — Era in piedi di fronte alla scrivania e non c'era luce, cosicché tu non sei riuscita a vederlo bene. — Richard, era lui! Ma non riesci a capire? Mi ha toccata, mi ha stretto le braccia. — Rivolsi uno sguardo implorante alla signora Blessington che scosse la testa, con gli occhi che la luce rendeva come perle azzurre. — Mi ha chiamata Julie! — sussurrai. — Conosce il mio nome! Mi alzai e afferrai la candela, e scansando Richard mi avvicinai alla scrivania. — Oh Signore santissimo — dissi. — Non capisci quello che è accaduto? Sono le tue lettere al dottor Partridge e alla signora Sellers sulla demolizione della casa! La signora Blessington uscì in un gridolino e si portò una mano alla guancia. Sembrava una bambina appassita nella sua camicia da notte, mentre crollava sulla sedia dall'alto schienale vicino alla porta. — Ma Julie, di certo non potrai credere che si tratti dello stesso uomo; dopo tutti questi anni... — Ma non è cambiato, Richard, neanche nel più piccolo dettaglio. Non mi sbaglio, Richard, ti dico che era lui, in ogni minimo particolare. — Oh mia cara, mia cara... — sussurrò la signora Blessington. — Che cosa farà lui se cercherete di demolire la casa? Che cosa farà ora? — Che cosa farà? — chiese Richard con attenzione, inarcando le sopracciglia. Prese la candela dalle mie mani e le si avvicinò. Io la fissavo, come se avessi compreso soltanto a metà ciò che aveva detto.
— Così voi sapete chi è! — sussurrai. — Julie, smettila — disse Richard. Ma il volto di lei si era irrigidito, era diventato vacuo e i suoi occhi erano divenuti piccoli e distanti. — Sapevate che era qui! — insistei. — Avreste dovuto dircelo subito! Con uno sforzo, lei si alzò in piedi. — Nulla in questa casa può farvi del male — disse. — A nessuno di noi. — Si voltò, spingendo da parte Richard che cercava di aiutarla, e vagolò da sola nella grande stanza. — Non avete più bisogno di me qui — disse dolcemente — e se volete abbattere questa casa costruita dai vostri antenati, allora dovrete farlo senza il mio aiuto. — Oh, ma non intendiamo farlo, signora Blessington! — insistetti. Lei stava attraversando la galleria per ritornare nell'ala settentrionale. — Seguila, Richard! Hai sentito cosa ha detto! Lei sa chi è lui! — Ne ho avuto abbastanza per stanotte — disse Richard quasi con furia. — Dovremmo andare a letto tutti e due. Alla luce del giorno esamineremo l'intera faccenda e faremo un'ispezione della casa. Ora andiamo. — Ma dovremmo dirglielo, non credi? — Dirgli che cosa? Ma di chi stai parlando? — Dirgli che non intendiamo demolire questa casa! — dissi forte e chiaro, ascoltando l'eco della mia stessa voce. Il giorno seguente fu uno dei peggiori dal nostro arrivo. Buona parte della mattinata passò nel tentativo di convincere la signora Blessington che non avevamo intenzione di abbattere Rampling Gate. Richard impostò le sue lettere e decise che non avremmo fatto nulla finché non fosse giunto aiuto. Insieme iniziammo un'ispezione della casa. Ma il buio ci sorprese a metà dell'opera, quando avevamo visitato soltanto l'ala e la torre meridionali, e la parte centrale della casa stessa. Rimanevano ancora la torre a nord, in un tremendo stato di abbandono, e alcune stanze sotterranee che nei tempi antichi dovevano essere state le segrete e ora erano sigillate. C'erano dappertutto angoli e scale private a cui avevamo dedicato appena un'occhiata, e dopo un po' avevamo perso la nozione di dove fossimo finiti con precisione. All'ora di cena divenne evidente che Richard era in stato di tensione e di esasperazione, e non credeva che io avessi visto qualcuno nello studio. Alla fine si convinse che lo zio Baxter dovesse essere impazzito prima di
morire o che i suoi scarabocchi fossero una conseguenza di qualche avvenimento mondano che lo aveva colpito in modo eccezionale. Ma io sapevo ciò che avevo visto. Col passare dei giorni diventavo sempre più silenziosa e introversa. Fra me e la signora Blessington era caduto il silenzio. E capivo fin troppo bene la rabbia nella voce di mio padre quando, ritornato da Victoria Station, mia madre lo aveva accusato di immaginarsi le cose. Tuttavia ciò che mi ossessionava di più era l'espressione gentile dell'uomo misterioso che avevo intravisto, gli occhi scuri e pressoché innocenti che mi avevano fissato per un attimo prima che gridassi. — Strano che la signora Blessington non abbia paura di lui — dissi a voce alta, distrattamente, senza curarmi del fatto che Richard mi stesse ascoltando o meno. — Strano che nessuno qui sembri temerlo... — Strane fantasie mi assalivano. Le parole noncuranti degli abitanti mi ronzavano in testa. — Prima di ritirarti dovresti fare una cosa molto importante — dissi. — Lascia scritto in una nota che non intendi demolire la casa. — Julie, hai creato una situazione insostenibile — disse Richard. — Insisti per rassicurare quest'apparizione che la casa non sarà distrutta, quando tu stessa hai verificato l'esistenza della creatura che ha portato nostro padre a dire ciò che ha detto. — Come vorrei che non fossimo mai venuti qui — esclamai improvvisamente. — Allora dovremmo andarcene entrambi e definire la questione a casa. — No, non così. Non potrei mai andarmene senza sapere... "il suo segreto"; "quel dannato demone". Non potrei continuare a vivere senza sapere! La rabbia deve essere un eccellente antidoto per la paura, perché di sicuro qualcosa intervenne ad attenuare il mio naturale stato di allerta. Quella notte non mi spogliai, non mi tolsi neanche le scarpe, ma rimasi seduta nel buio della camera da letto fissando i piccoli rombi della finestra finché mi accorsi che l'intera casa era caduta nel silenzio. Finalmente la porta della camera di Richard si era chiusa. Sentii l'eco di chiavistelli lontani che venivano messi al loro posto. Quando nella grande sala l'orologio del nonno batté le undici, Rampling Gate era, come suo solito, profondamente addormentata. Restai in ascolto dei passi di mio fratello per la stanza. Quando dalla sua camera non udii provenire più alcun rumore, mi chiesi se la curiosità lo spingesse a venire da me, dicendomi che dovevamo andare insieme a sco-
prire la verità. Era proprio così. Non lo volevo con me. Avvertivo un'oscura esaltazione mentre mi immaginavo di uscire dalla stanza e di scendere le scale come avevo fatto la notte precedente. Tuttavia, per essere sicura, avrei aspettato ancora un'ora. Avrei lasciato che la notte raggiungesse il suo culmine. Mezzanotte, l'ora delle streghe. Il cuore mi rimbalzava nel petto al solo pensiero, e come in un sogno richiamai alla memoria il volto che avevo visto e la voce che aveva pronunciato il mio nome. Ah! Perché, in retrospettiva, la cosa mi sembrava così intima come se ci fossimo conosciuti, come se avessimo parlato insieme, come se lo riconoscessi nel profondo del mio cuore? — Qual è il tuo nome? — credo di aver sussurrato ad alta voce. E poi uno spasmo di terrore mi agghiacciò. Avrei avuto il coraggio di muovermi alla sua ricerca, di aprirgli la porta? Stavo diventando pazza? Chiudendo gli occhi, appoggiai la testa contro lo schienale della sedia damascata. Che cosa poteva essere più vuoto di quella notte campestre? Che cosa più dolce? Aprii gli occhi. Avevo per metà sognato e per metà parlato fra me e me, cercando di spiegare a nostro padre quanto fosse necessario che anche noi comprendessimo la ragione del suo ordine. E mi resi conto, addirittura prima ancora di essere completamente desta, che lui era lì, in piedi vicino al letto. La porta era aperta e lui era in piedi, vestito esattamente come la notte precedente, con gli occhi scuri fissi su di me con la stessa ovvia curiosità, le labbra con una piega leggermente indolente, come quelle di uno scolaro; si appoggiava oziosamente alla colonnina del letto con la mano destra. Diamine, si era perso nel contemplare me? Sembrava non si fosse reso conto che lo stavo osservando. Ma quando mi sollevai a sedere lui alzò un dito per tranquillizzarmi e annuì lievemente con la testa. — Ah, sei tu! — sussurrai. — Sì — disse con il tono di voce più dolce e più discreto. Ma ci stavamo parlando; cioè gli facevo delle domande; no, gli dicevo qualcosa. E improvvisamente sentii che stavo perdendo l'equilibrio o che scivolavo di nuovo in un sogno. No, non avevo affatto ritrovato i frammenti di qualche sogno del passato. Quell'atmosfera in cui ti trovi all'improvviso in ogni momento del giorno se qualcosa rievoca l'universo che ci ha totalmente assorbiti durante il sonno. Voglio dire che sentii le nostre
voci per un attimo, quasi una discussione, e vidi nostro padre con il cilindro in testa e il cappotto nero che percorreva da solo le strade del West End, sbirciando in una porta dopo l'altra, e poi... emerso da dietro il tavolo di marmo di quel locale notturno così fumoso, tu... il tuo volto. — Sì... Torna indietro, Julie! Era la voce di mio padre. — ...per riempirtene l'anima — insistei, aggrappandomi al filo perduto del discorso. Ma le mie labbra si erano mosse? — Per capire che cosa lo avesse spaventato, e lo avesse fatto arrabbiare. Ha detto: "Buttatela giù!" — ...non dovrete mai farlo, mai! — Il suo volto era tirato, come quello di un ragazzino in procinto di gridare. — No, no, assolutamente, non lo vuole nessuno di noi due... ma tu non sei uno spirito! — Fissai i suoi stivali sporchi di fango e il lieve velo di polvere su quella guancia bianca, così perfetta. — Uno spirito? — chiese quasi dolorosamente, con asprezza. — Magari lo fossi. Come ipnotizzata lo fissai mentre si avvicinava; la stanza diveniva buia, e avvertii le sue mani fredde come seta sul mio volto. Mi alzai. In piedi di fronte a lui lo guardai dritto negli occhi. Sentivo il battito del mio cuore, come lo avevo sentito la notte precedente, un attimo prima di gridare. Dio santissimo, gli stavo parlando! Era nella mia stanza e io gli stavo parlando! Ero nelle sue braccia! — Sei reale, assolutamente reale — sussurrai, mentre una sensazione improvvisa mi percorreva, al punto che mi dovetti appoggiare contro il letto. Mi scrutò come se cercasse di comprendere qualcosa che gli stava terribilmente a cuore, e non rispose. Le sue labbra erano così rosse, un tocco delicato in tutta la sua bellezza, come se nessuno lo avesse mai baciato. Ero percorsa da una lieve vertigine, una leggera confusione nella quale neanche ero sicura che lui fosse lì. — Oh, ma ci sono — disse lui piano. Sentivo il suo respiro contro la mia guancia, ed era quasi dolce. — Sono qui, e tu sei con me, Julie... — Sì... Avevo gli occhi chiusi. Vedevo lo zio Baxter seduto alla sua scrivania e potevo sentire lo stridere frenetico della sua penna. "Demone maledetto!" diceva, rivolgendosi all'aria della notte che entrava dalle finestre aperte. — No! — dissi. Mio padre aprì la porta del locale notturno e gridò il mio nome.
Sentii quella voce che mi sussurrava nell'orecchio: — Amami, Julie. — Sentivo le sue labbra sul mio collo. — Solo un piccolo bacio, Julie, niente di male. — Nel profondo di me stessa, in quel luogo segreto dove si nutrono tutti i desideri e tutti gli impulsi, mi aprii a lui senza opporre resistenza né fiatare. Sarei caduta se lui non mi avesse sostenuta. Le mie braccia si richiusero su di lui, le mie mani scivolarono nella soffice massa setosa dei suoi capelli. Stavo fluttuando, ed era come se a Rampling Gate ci fosse sempre stata una quiete eterna. Sentivo la dimora intorno a me, come se uno spirito impenetrabile e fuori dal tempo si fosse finalmente rivelato... Come se in me vi fosse il potere di un'enorme conoscenza... vedere le cose con l'occhio di un Dio, cogliere l'essenza delle cose con la stessa velocità con cui gli occhi reali le misuravano e ne ripercorrevano la forma... Sì, sussurrai ad alta voce, quei versi di Keats, quelle parole... Fermarsi a mezzanotte, senza dolore... No. Ci separammo violentemente, e lui indietreggiò esattamente come me. Vacillai sul pavimento della stanza e mi afferrai all'intelaiatura della finestra, appoggiando la fronte al muro di pietra. Per un lungo momento rimasi con gli occhi chiusi. Dove le sue labbra mi avevano toccata c'era una fitta di dolore pulsante, quasi piacevole, un delizioso fremito che non voleva cessare. Poi mi voltai e vidi chiaramente la stanza, il letto, il caminetto, la sedia. E lui era là in piedi, esattamente dove lo avevo lasciato, e sul suo volto si leggeva il più spaventoso sconforto. — Che cosa mi hanno fatto? — sussurrò. — Mi hanno giocato lo scherzo più crudele? — Un qualche genere di minaccia, suppongo, una minaccia inspiegabile — sussurrai. — Qualcosa di antico, Julie, qualcosa che supera l'immaginazione, qualcosa che può continuare e continuerà. — Ma perché, che cosa sei? — Toccai con la punta delle dita il mio collo pulsante, e poi, guardandole, sussultai. — E anche tu soffri, eppure sembri così innocente, come se tu potessi amare! Il volto di lui sembrava sconvolto da un violento conflitto interiore. Si voltò per andarsene. Con tutta la mia forza di volontà rimasi rigida per non seguirlo, per non implorarlo di tornare indietro. Ma lui si voltò, selvaggio, combattuto, e poi ritornò sulla sua decisione e cercò la mia mano. — Vieni con me — disse.
Mi attirò a sé con gentilezza e passandomi un braccio attorno mi guidò verso la porta. Percorremmo frettolosamente il lungo corridoio del piano di sopra e attraverso una piccola porta di legno arrivammo a una scala a chiocciola che non avevo mai visto prima. Ben presto mi accorsi che stavamo risalendo la torre settentrionale della casa, quella parte in rovina che io e Richard non avevamo esplorato. Da una piccola finestra dopo l'altra vedevo il paesaggio dolcemente mosso emergere dalla foresta che ci circondava, e il piccolo gruppetto di deboli luci che rivelavano il villaggio di Rampling, e la pallida striscia bianca che costituiva la strada per Londra. Salimmo finché raggiungemmo la stanza in cima alla torre, e lui ne aprì la porta con una chiave di ferro. Tenne aperta la porta per me e mi ritrovai in una stanza spaziosa le cui finestre alte e strette erano senza vetri. Un raggio di luna rivelava la più curiosa mescolanza di mobili e di suppellettili, e la confusione suggeriva che la stanza fosse una soffitta o una sorta di ripostiglio. C'era un tavolo per scrivere, un grande scaffale per i libri, sedie di pelle morbida, pezzi di vecchie mappe ingiallite a brandelli e quadri incorniciati alle pareti. C'erano candele ovunque, appoggiate sulle nude nicchie di pietra o sui tavoli o sugli scaffali. Qua e là una botte fungeva da tavolino, proprio a fianco della più fine sedia elisabettiana. Sembrava che la cera fosse colata dappertutto e nel mezzo di quella confusione c'erano copie dei più recenti quotidiani, il Mercure de Paris e il Times di Londra. Ma nella stanza non c'era posto per dormire. Quando pensai a dove lui potesse sdraiarsi per riposare un brivido mi scosse e percepii, vividamente, le sue labbra nuovamente sulla mia gola; sentii l'improvviso bisogno di gridare. Ma lui mi stringeva fra le braccia, e mi baciava dolcemente le labbra e le guance, e mi conduceva verso una sedia. Una dopo l'altra, accese le candele vicino a noi. Tremai, mentre i miei occhi vagavano qua e là nella luce. Vedevo oggetti ancora più inconsueti: cannocchiali e lenti d'ingrandimento, un violino nella sua custodia aperta, una manciata di conchiglie luccicanti dalla forma squisita. C'erano dei gioielli, un cilindro di seta nera e un bastone da passeggio, dagherrotipi sia in bianco e nero sia a colori nei loro piccoli astucci di velluto, e libri aperti. Ma ero troppo distratta dalla vista di lui alla luce, dal brillare dei suoi grandi occhi neri e dai riflessi dei suoi capelli. Neanche alla stazione ferro-
viaria lo avevo visto così distintamente come ora, nella luminosità delle candele. Mi spezzò il cuore. E di nuovo mi guardò come se fossi la gioia dei suoi occhi, pronunciò di nuovo il mio nome, e sentii che il sangue mi saliva alle gote. Ma improvvisamente, vi fu come una sorta di parentesi temporale. Mi ritrovai a pensare: "che cosa sei, da quanto tempo esisti"... e avvertii nuovamente le vertigini. Mi resi conto che mi ero alzata e che ero al suo fianco, alla finestra; lui mi voltava perché vedessi come la campagna era incredibilmente cambiata. Le luci di Rampling Gate erano nascoste dall'oscurità che, come una sorta di vapore, si era estesa sulla zona. Un'immensa foresta, molto più vecchia e fitta della foresta di Rampling Gate, copriva ora le colline, e improvvisamente mi spaventai come se stessi scivolando in un gorgo dal quale, di mia volontà, non sarei mai potuta ritornare. Avvertivo che stavamo discutendo, parlavamo e parlavamo, con voce alta e agitata, e io stavo dicendo che non avrei dovuto arrendermi. — Provamelo, è tutto ciò che ti chiedo... E in me c'era la pallida consapevolezza che soltanto sapendo sarei incredibilmente cambiata. Era come leggere un libro proibito o pronunciare un incantesimo pericoloso. — No, solo ciò che era — sussurrò lui. Allora anche le forme del paesaggio mi sfuggirono, e la stanza stessa perse consistenza, come se un vento silenzioso di forza terrificante fosse entrato in quel luogo e l'avesse spazzato via. Stavamo correndo in carrozza nella notte. Avevamo lasciato la torre da lungo tempo, era pomeriggio inoltrato e il cielo era del colore del sangue. Attraversammo quella foresta i cui tronchi erano così alti e così spessi che il sole non toccava quasi per niente il suolo soffice e ricoperto di foglie. Ma non avevamo tempo per indugiare in quel luogo incantato. Eravamo arrivati in aperta campagna, fra i piccoli appezzamenti di terra coltivata che circondavano il vecchio villaggio di Knorwood con i suoi tetti di paglia e il groviglio di stradine. Vedevamo i muri del monastero e la chiesetta con la campana che suonava i Vespri sul far della sera. Knorwood era un villaggio pieno di animazione, un migliaio di cuori vi battevano, un migliaio di voci pronunciavano le loro preghiere. Ma oltre il villaggio, sull'altura sopra la foresta si ergeva la torre circolare di un castello molto antico di cui non restava ormai che il guscio vuoto; mentre l'oscurità giungeva al culmine, corremmo verso quel castello in ro-
vina. Attraversammo le sue stanze vuote come bambini impazienti, dimenticando ben presto sia il cavallo sia la strada e giungemmo infine davanti al signore del Castello, una creatura pallida ed emaciata che stava di fronte al fuoco acceso in una sala senza tetto. Si voltò fissandoci con i suoi occhi piccoli e lucenti. Capii che era morto ma che si teneva in piedi grazie a un'inspiegabile forma di magia. Il mio giovane compagno mi superò e finì nelle braccia del signore. Vidi il bacio. Vidi il giovane diventare pallido e lottare per liberarsi. Io avevo fatto lo stesso, proprio quella notte nella mia camera da letto, oltre questo sogno. E lui si ritrasse dal signore, toccandosi con la mano il dolore pulsante sulla gola. Capii. Ora sapevo. Ma il castello si stava dissolvendo così come si dissolvono le cose nei sogni e ci ritrovammo in un luogo chiuso e umido. Il fetore era insopportabile; era l'odore più orribile in assoluto, quello della morte. Sentii i miei passi sulle pietre dell'acciottolato e raggiunsi un muro per appoggiarmici. La piccola piazza era deserta, le porte e le finestre aperte al vento vagabondo. Su e giù, attraverso il dedalo delle viuzze, vidi i segni sulle case. E sapevo cosa significavano quei segni. La peste nera era passata sul villaggio di Knorwood e l'aveva lasciato devastato. E in un attimo di orrore opprimente capii che neanche uno, non una persona era sopravvissuta. Avevo torto. C'era qualcuno che camminava e risaliva il vicolo. Barcollava sull'orlo dello svenimento, mentre apriva una porta dopo l'altra per giungere infine in un luogo caldo e maleodorante dove un bambino gridava sul pavimento. Il padre e la madre giacevano morti nel letto. E il grosso gatto di casa, perfettamente sano, giocava con il bambino urlante, i cui occhi sporgevano nel viso sottile e tirato. — Fermalo — mi sentii dire ansimando. Sapevo che mi stava tenendo la testa con tutte e due le mani. — Fermalo, fermalo per favore! — Stavo gridando e le mie grida certo volevano interrompere quella visione. La piccola rozza stanza sarebbe crollata attorno a me e io avrei svegliato al mio soccorso la gente di Rampling Gate: ma non accadde. Il giovane si voltò e mi fissò, ma nella piccola stanza fetida io non riuscii a vedere la sua faccia. Sapevo però che era lui, il mio compagno; potevo avvertire la sua febbre e la sua malattia, e l'odore del bambino morente e vedere la sagoma liscia e lucente del gatto mentre giocherellava con la mano protesa del bambino. — Basta, hai perso il controllo! — Senza dubbio gridai con tutte le mie forze, ma il bambino cominciò a urlare più forte. — Basta, fallo smettere.
— Non posso... — sussurrò lui. — Continuerà per sempre, senza mai smettere! Con un urlo lancinante sferrai un calcio al gatto e lo feci volar fuori da quella lurida stanza, rovesciando il secchio del latte sul suo percorso e schizzando sul pavimento come un folletto. Pallido e febbricitante, zuppo di sudore, il mio compagno mi prese per mano. Mi fece uscire dalla casa, lontano dal bambino urlante, nella strada. Morte nel parlatorio, nella camera da letto, nel chiostro, davanti all'altare maggiore, nei campi aperti. Sembrava un flagello divino, la morte di un migliaio di persone nel villaggio di Knorwood; e io piangevo, implorando di lasciarmi andare. Sembrava che la Creazione stessa fosse giunta al termine. E infine la notte calò sul villaggio ormai morto e lui era ancora vivo, inciampava sui declivi attraverso la foresta, verso la torre circolare dove il signore stava con la mano appoggiata all'intelaiatura di pietra della finestra rotta, aspettandolo. — Non andare! — lo supplicai. Lo inseguii gridando, ma lui non mi ascoltò. Per quanto cercassi, non potevo modificare lo stato delle cose. Il signore lo sovrastava e sorrideva con tristezza mentre lo guardava cadere e vedeva il petto che si sollevava nei suoi ultimi respiri. Finalmente le sue labbra si mossero, chiedendo salvezza quando invece il signore offriva solo dannazione, quando era la dannazione che voleva dare. — Sì, dannato ma vivo, per lo meno! — gridò il giovane, sollevandosi in un ultimo movimento spasmodico. E il signore, che fino a quel momento era rimasto immobile, si chinò a succhiare. Di nuovo quel bacio, quel bacio mortale, il sangue prosciugato da quel corpo morente; e poi il signore che sollevava la testa pesante del giovane perché il sangue tornasse a lui dal corpo del signore stesso. Stavo di nuovo urlando. Non bere, non bere. Si voltò e mi guardò. Il suo volto era l'immagine così perfetta della morte che non riuscivo a credere che in lui vi fosse una stilla di vita, ma lui chiese: — Che cosa avresti fatto? Saresti tornata indietro a Knorwood, avresti aperto quelle porte una dopo l'altra, avresti fatto suonare la campana della chiesa vuota? E se tu l'avessi fatto, i morti sarebbero risorti? Non attese la mia risposta, e io non potevo dargliene nessuna. Si era nuovamente voltato verso il signore, che lo stava aspettando; premette le sue labbra innocenti su quella vena che pulsava con un'apparenza di vita attraverso la carne fredda e traslucida del signore. E il sangue si riversò nel
suo giovane corpo, eliminando come in una grande fiammata la febbre e la malattia che lo avevano scosso, scacciandole con quel flusso di vita mortale. Ora era in piedi, solo, nella sala. Ormai era immortale e assetato di sangue con cui mantenersi in vita, e io avvertivo la stessa sete in tutto il mio spirito. Fissò i muri rotti intorno a sé, il fuoco che illuminava le pietre annerite dell'enorme focolare, il cielo notturno sopra il tetto rotto, con la sua rete infinita di stelle. Ogni cosa si trasfigurò nella sua visione e nella mia, trasmessami da lui, per raggiungere la sua essenza più pura. Una voce eterna e senza parole si fece udire dal velo stellato del cielo, cantò nel vento che si insinuava fra le tavole rotte, singhiozzò nelle fiamme che divoravano il cuore di quelle pietre annerite dalla fuliggine. Era la musica incomprensibile dell'universo che risuonava su ogni superficie mentre l'ultima creatura vivente, quello strano fanciullo, giaceva in silenzio nel villaggio sottostante. Nei campi vuoti si sollevò una brezza leggera e sparpagliò la terra dei solchi appena arati. La pioggia cadde dal cielo nero e senza fine. Passarono gli anni. E ciò che era stato Knorwood si sciolse nella terra. La foresta mandò avanti le sue silenziose sentinelle e tronchi possenti nacquero dove prima vi erano state case e capanne, dove un tempo c'erano state le mura del monastero. Infine non rimase più nulla: né il piccolo cimitero, né la chiesetta, e neanche del nome di Knorwood restò memoria. E sembrò un orrore sovrumano che nessuno sapesse di quelle migliaia di anime che avevano vissuto ed erano morte in quel villaggio piccolo e insignificante; e che in nessuno di quegli archivi dove si registra la storia fosse fatta menzione del luogo. Ma qualcuno che sapeva era sopravvissuto: un testimone che ora era lì a guardare il luogo dove aveva avuto fine la sua vita mortale, colui che si era trascinato sui gomiti e sulle ginocchia via da quell'inferno. Il giovane che era lì al mio fianco, il signore di Rampling Gate. In tutti i muri di quella vecchia casa vi erano le pietre di quel castello in rovina, nei soffitti e nei pavimenti i rami di quegli antichi alberi. Ciò che qui era solido e maestoso, sicuro nei pensieri di coloro che quella notte dormivano nel villaggio di Rampling, era solo una fragile cittadella eretta contro l'orrore, il luogo al quale ora lui si aggrappava. Un'immensa tristezza mi sopraffece. In qualche luogo di quel fluire di immagini mi ero abbandonata, avevo perso la sensazione di tutti i punti di
riferinento. Ora, in un immenso groviglio di luci e di rumore ero tornata in me e nuovamente avvertivo la sensazione di essere fusa con il tutto come quando avevamo attraversato la foresta insieme; solo che ora stavamo attraversando il presente. Volavamo, almeno mi sembrava, lungo la ferrovia verso Londra, nell'oscurità della campagna; e la città, nella notte, scoppiava come una bolla enorme in scrosci di risate, di movimenti, di luci scintillanti. Sembrava ci tenessimo stretti, l'uno all'altro, nel mezzo della folla. E la folla era qualcosa di vivo, fremente, che ovunque emanava una sorta di aroma oscuro, l'odore del sangue fresco. Donne impellicciate e gentiluomini vestiti con mantelli di seta entravano nelle porte illuminate dei teatri; il risuonare della musica ci travolgeva, per poi dileguarsi; rimaneva soltanto un'acuta voce di soprano, che cantava un motivo triste. E io ero nelle sue braccia, le sue labbra sulle mie, e di nuovo quella sensazione meschina e al tempo stesso esaltante, quell'incontrollato espandersi di tutto il mio essere. La sete, e il miraggio della sazietà che poteva essere valutato soltanto nella misura dell'intensità del desiderio. Fluttuammo su per le scale, nelle camere da letto dai soffitti alti, tappezzate di damasco rosso, dove le donne più graziose giacevano reclinate sui letti d'ottone con il baldacchino, e l'odore era così forte che non riuscivo a sopportarlo, e mi si offrivano, spalancando le braccia. — Bevi — sussurrò lui — sì, bevi. — Sentii che il calore mi colmava, mi ricaricava, mi sfocava la vista, finché di nuovo liberi ce ne andavamo e sembrava ci muovessimo invisibili, leggeri, sui tetti e giù per le strade inumidite dalla pioggia. Ma la pioggia non ci toccava, né la neve ci faceva rabbrividire perché, all'interno, eravamo riscaldati da un calore inestinguibile. Insieme nella carrozza chiacchieravamo con esuberanza, ad alta voce; eravamo amanti; eravamo fedeli l'uno all'altro; eravamo immortali. Avremmo vissuto quanto Rampling Gate. Cercai di parlare e di rompere l'incantesimo. Sentii che le sue braccia mi circondavano e seppi che eravamo insieme nella stanza della torre, e che qualche terribile errore era stato commesso. — Non mi lasciare — sussurrò lui. — Tu non capisci che cosa ti offro; ti ho detto tutto; e ciò che resta è solo la noia, la febbre e l'irritazione, le vecchie parole della poesia. Baciami Julie, apriti a me. Non ti prenderò contro la tua volontà... — Di nuovo mi sentii urlare. Le mie mani poggiavano sulla sua pelle bianca e fredda, le sue labbra erano gentili ma al tempo stesso fameliche, gli occhi docili e sempre giovani. Mio padre si volse nella strada di Londra, bagnata dalla pioggia, e gridò: — Julie! — Vidi Richard perso nella folla come se stesse cercando qualcuno, con il cappello che getta-
va un'ombra sui suoi occhi scuri, il volto rugoso, vecchio. Vecchio! Mi mossi. Ero libera. Stavo piangendo sommessamente ed eravamo in quella stanza su nella torre, strana e piena di cianfrusaglie. Lui era in piedi contro l'apertura della finestra e si stagliava contro i cumuli lontani delle pallide nuvole. La luce delle candele si rifletteva nei suoi occhi. Sembravano immensi, tristi e saggi nello stesso tempo, e sì, innocenti, come non mi stancherò mai di ripetere. — Mi sono rivelato a loro — disse. — Sì, ho raccontato il mio segreto. Per rabbia o amarezza, non so quale delle due, ho fatto di loro i miei complici nella cospirazione e ho sempre vinto. Non hanno potuto far niente contro di me, e lo stesso accadrà a te. Ma alla fine l'avranno avuta vinta perché ora mi torturano con il loro fiore più grazioso. Non andartene da me, Julie. Tu sei mia, Julie, come lo è Rampling Gate. Lascia che mi porti questo fiore sul cuore. Notti di discussioni. Ma finalmente Richard giunse a una decisione. Mi avrebbe assegnato la sua parte di Rampling Gate e io mi sarei assolutamente rifiutata di distruggere quel posto. Non avrebbe potuto far nulla per obbedire all'ingiunzione di nostro padre. Gli avevano fornito il cavillo legale di cui aveva bisogno, e naturalmente avrei lasciato la casa a lui e ai suoi figli. Sarebbe sempre rimasta nelle mani dei Rampling. Mi sembrò una soluzione intelligente, visto che nostro padre non aveva ordinato a me di distruggere quel posto, e ora io non provavo alcuno scrupolo in proposito. Ciò che gli rimase da fare fu di accompagnarmi alla piccola stazione ferroviaria e guardarmi partire per Londra, senza preoccuparsi nel vedermi andare da sola alla nostra casa di Mayfair. — Resta qui fin quanto ti piace, e non ti preoccupare — dissi. Sentivo più tenerezza verso di lui di quanta riuscissi a esprimerne. — Hai compreso, fin dal primo momento che hai messo piede qui, che nostro padre si sbagliava. Glielo ha messo sicuramente in testa lo zio Baxter; la signora Blessington aveva ragione. Non c'è nulla di pericoloso qui. Rimani, lavora o studia, come preferisci. La grossa locomotiva nera ci passò a fianco e le carrozze rallentarono fino a fermarsi. — Ora devo andare, caro, dammi un bacio. — Ma che cosa ti è successo, Julie, che cosa ti ha fatto decidere così in fretta... — Ne abbiamo già discusso, Richard — risposi. — L'importante è che siamo tutti felici, mio caro. — E ci abbracciammo stretti.
Salutai fino a quando lui sparì dalla vista. I lampioni tremolanti della cittadina si persero nella luce color lavanda della tarda sera e la scura sagoma di Rampling Gate apparve per un attimo incerta, come il fantasma di se stesso contro l'altura lì vicina. Sedetti e chiusi gli occhi. Poi li aprii lentamente, assaporando quel momento, così a lungo atteso. Lui sorrideva, seduto come se fosse lì da tanto tempo, nell'angolo più lontano del sedile, di fronte a me; ora si alzò con un movimento delicato, quasi scivolando, e sedette accanto a me circondandomi con le sue braccia. — Sono cinque ore fino a Londra — sussurrò. — Posso aspettare — dissi, sentendo la sete che bruciava come febbre mentre mi stringevo a lui, sentendo le sue labbra sulle palpebre e sui capelli. — Voglio cacciare per le vie di Londra, stanotte — confessai un po' timidamente, ma vidi soltanto approvazione nei suoi occhi. — Meravigliosa Julie, la mia Julie... — disse lui. — La casa di Mayfair ti piacerà — dissi. — Sì... — mi rispose. — E quando Richard si sarà finalmente stancato di Rampling Gate, potremo tornare a casa. Titolo originale: The Master of Rampling Gate (1985) Dan Simmons TUTTI I FIGLI DI DRACULA Volammo a Bucarest non appena la sparatoria fu cessata, atterrando all'aeroporto Otopeni subito dopo la mezzanotte del 29 dicembre 1989. Nelle vesti del semi-ufficiale "Contingente Internazionale di Accertamento" noi sei, tutti uomini, fummo fatti transitare in fretta da quel confuso e stretto passaggio che fungeva da Dogana dal momento della rivoluzione, e quindi fummo radunati e fatti salire su un autobus ONT che ci avrebbe condotti in città dopo un viaggio lungo nove miglia. Padre Paul, il rappresentante ecclesiastico del nostro contingente, indicò i buchi provocati da due pallottole nel finestrino poste riore dell'autobus, ma nessuno gli prestò attenzione poiché eravamo tutti intenti a osservare lo scenario che si presentava ai nostri occhi nel momento in cui lasciavamo il terminal per immetterci nel viale illuminato. Carri armati di tipo sovietico erano dislocati sulla via principale nei pun-
ti solitamente occupati dai taxi in attesa; le loro lunghe bocche da fuoco erano puntate verso l'ingresso del viale che conduceva all'aeroporto. Postazioni trincerate con sacchi di sabbia proteggevano le strade e i tetti dell'aeroporto; le lampade al vapore di sodio illuminavano di luce gialla gli elmetti e i fucili dei soldati di guardia, in perlustrazione, immersi nel buio. Altri uomini, alcuni in uniforme regolare e alcuni con le divise della milizia, dormivano a fianco dei carri armati. Per un secondo l'illusione di marciapiedi coperti di cadaveri romeni fu perfetta e io trattenni il respiro, riprendendomi lentamente solo quando vidi uno di quei corpi agitarsi e un altro accendersi una sigaretta. — Hanno respinto numerosi contrattacchi sferrati dalle truppe lealiste e dalle forze della Securitate la settimana scorsa — sussurrò Don Westler, il nostro contatto politico dell'Ambasciata. Il suo tono di voce ci suggeriva che si trattava di un argomento imbarazzante, come il sesso. Radu Fortuna, il solo uomo che ci era stato presentato al terminal come nostra guida e tramite con il governo di transizione, si agitò sul proprio seggiolino e sogghignò vistosamente come se né il sesso né la politica lo turbassero. — Molti uomini della Securitate vengono uccisi — disse a voce alta. — Tre volte gli uomini di Ceausescu hanno cercato di prendere l'aeroporto... e per tre volte sono stati respinti. Don Westler annuì e sorrise, vistosamente a disagio per quella conversazione; il dottor Aimslea gli si avvicinò lungo il corridoio. La luce proveniente dall'ultima delle lampade al vapore di sodio illuminò la sua testa calva alcuni secondi prima che ci immergessimo nel buio delle strade vuote e deserte. — Così il regime di Ceausescu è veramente sconfitto? — chiese a Fortuna. Riuscii a vedere solo brevemente la smorfia del rumeno, prima che le tenebre improvvise ci avvolgessero. — Ceausescu è stato sconfitto, sì, sì — disse. — Hanno portato lui e quella cagna di sua moglie a Tirgoviste per... come dite voi... processarli. — Radu Fortuna rise di nuovo, emettendo un suono che in qualche modo poteva apparire sia infantile sia crudele. Fui percorso da un brivido nel buio. L'autobus non era riscaldato. — Hanno subito un processo — continuò Fortuna — e il Pubblico Ministero ha chiesto loro: "Vi considerate pazzi?" Vede, se il signore e la signora Ceausescu fossero stati giudicati pazzi, allora forse l'esercito li avrebbe mandati semplicemente in un ospedale psichiatrico per un centinaio d'anni, come fanno i nostri fratelli russi. Comprende? Ma Ceausescu ha detto: "Cosa? Cosa? Pazzi... Come osate! È una oscena provocazione!" E
sua moglie ha continuato: "Come potete dire questo alla Madre della vostra nazione?" Così il Pubblico Ministero ha sentenziato: "Nessuno di voi è pazzo. Le vostre stesse bocche lo hanno detto". Quindi vennero scelti alcuni soldati. Questi fortunati portarono i Ceausescu nel cortile e li uccisero con numerosi colpi di pistola alla testa. — Fortuna ridacchiò sommessamente, come se qualcuno gli avesse ricordato un aneddoto divertente. — Sì, il regime è finito — disse rivolgendosi al dottor Aimslea. — Forse alcune migliaia di uomini della Securitate ancora non lo sanno e continuano a uccidere gente, ma presto anche questo problema verrà risolto. Costituiscono invece, a mio avviso, un problema maggiore tutti quegli individui che spiano per conto del governo; non siete d'accordo? Fortuna ridacchiò nuovamente e, grazie all'improvviso bagliore provocato dai fari di un carro armato che sopraggiungeva, ebbi modo di notarlo nel momento in cui si stringeva nelle spalle. Un sottile strato di condensa si stava tramutando in ghiaccio all'interno dei finestrini. Avevo le dita intirizzite e i piedi, in quelle assurde scarpe che avevo deciso di calzare quel mattino, stavano perdendo sensibilità a causa del freddo. Con le unghie cercai di raschiare un po' di ghiaccio dal finestrino, quando mi accorsi che stavamo entrando in città. — So che siete personalità importanti e venite dall'ovest — disse Radu Fortuna; il respiro creava una leggera nebbiolina che si alzava verso il soffitto dell'autobus, simile a un'anima in fuga. — Ma sono spiacente, ho dimenticato i vostri nomi. Il dottor Westler fece le presentazioni. — Il dottor Aimslea è il rappresentante aen'Organizzazione Mondiale della Sanità... Padre Gerald Paul rappresenta sia l'arcidiocesi di Boston, sia la Fondazione per i Diritti dei Fanciulli... — Ah, lieto di avere un prete qui — disse Fortuna, e io avvertii nella sua voce un vago tono di ironia. — Il dottor Leonard Paxley, professore emerito di Economia all'Università di Princeton — continuò Westler — vincitore del premio Nobel per l'Economia nel 1978. Fortuna fece un inchino davanti all'anziano accademico. Paxley non aveva affatto parlato durante il volo da Francoforte e ora si sentiva smarrito, avvolto in quella sciarpa e in quel cappotto troppo grande per lui: un vecchio uomo in cerca di una panchina nel parco. — Le diamo il nostro benvenuto — disse Fortuna — anche se il nostro paese non possiede alcuna economia al momento attuale...
— Dannazione, fa sempre così freddo qui? — La voce saliva dalle pieghe del bavero di lana alzato. — Penso che a questa temperatura potrebbero congelarsi le pallottole nella canna di una pistola di grosso calibro. — E il signor Carl Berry rappresenta l'American Telegraph and Telephone — continuò velocemente Westler. Il tozzo e grasso uomo d'affari che era al mio fianco, e che fumava la pipa, la tolse immediatamente di bocca, annuì col capo in direzione di Fortuna, quindi riprese velocemente a fumare come se quel fuoco rappresentasse una fonte indispensabile di calore. Per un istante ebbi una irreale visione di noi sette, su quell'autobus, accalcati attorno alla cenere ardente della pipa di Berry che irradiava calore. — E il signor Harold Winston Palmer — disse Westler, gesticolando nella mia direzione — vice presidente per il mercato europeo delle... — Sssì — disse Radu Fortuna. La sua voce aveva, approssimativamente, lo stesso tono di soddisfazione che si immagina potrebbe avere un pitone alcuni secondi dopo aver divorato la sua preda. — Conosco la società che il signor Palmer rappresenta... Sicuramente egli la conosceva. Siamo una delle più grandi società mondiali e qualsiasi americano possiede... o ha posseduto... uno dei nostri maggiori prodotti. E qualsiasi rumeno sogna di possederne uno. — Lei è già stato in Romania, signor Palmer. Non è vero? Riuscii a incrociare lo sguardo di Fortuna non appena raggiungemmo il settore illuminato della città. Sono abbastanza vecchio da aver fatto parte della forza di occupazione in Germania immediatamente dopo la guerra. Lo scenario che si presentava era molto simile a quello di allora. Innumerevoli carri armati erano disseminati sulla piazza del Palazzo Reale, distrutti e irriconoscibili; semplici ammassi di carcasse metalliche annerite dal fumo. Svoltammo a sinistra e superammo la Biblioteca Universitaria centrale, la cui cupola dorata e il cui tetto erano semi crollati e distrutti da un probabile incendio. — Sì — risposi. — Sono già stato qui. Fortuna si avvicinò. — E probabilmente questa volta la società che rappresenta deciderà di aprire una filiale qui, non è vero? — Forse. Lo sguardo di Fortuna non mi abbandonava. — I salari sono molto miseri qui — disse con un tono di voce talmente basso che nessun altro eccetto Carl Berry avrebbe potuto sentirlo. — Molto bassi. Il costo della mano d'opera è molto basso. Come pure il costo della vita.
Avevamo nuovamente svoltato a sinistra nella deserta calea Victorei, quindi a destra in boulevard Nord Balcescu per fermarci, con una brusca frenata, davanti al più alto edificio della città, l'hotel Intercontinental di ventidue piani. — Domani mattina, signori — disse Fortuna indicando il foyer illuminato — visiteremo la nuova Romania. Vi auguro di dormire sonni tranquilli. Il nostro gruppo trascorse il giorno successivo incontrando "ufficiali" del governo provvisorio, in gran parte membri del Fronte di Salvezza Nazionale appena costituito. Era una giornata così buia che le illuminazioni stradali automatiche in boulevard N. Balcescu e in boulevard Republicii erano accese. Gli edifici non erano riscaldati... o almeno non in maniera percettibile... e uomini e donne ci apparivano tutti uguali nei loro larghi, grigi cappotti. Al termine della giornata avevamo parlato con un Giurescu, due Tismaneanus, un Borosoui che non si rese reperibile per non farsi portavoce del nuovo governo, ma che venne arrestato pochi attimi dopo che noi ce ne fummo andati; numerosi generali fra cui un Popascu, un Lupoi e un Diurgiu, e infine i veri capi: Petre Roman, primo ministro del governo di transizione, Ion Iliescu e Dumitru Mazilu, che erano stati presidente e vice presidente durante il regime di Ceausescu. Il messaggio era sempre lo stesso: ci veniva sottoposto il quadro generale della situazione in cui versava l'intera nazione, quindi ci veniva ripetuto che per ogni raccomandazione da noi trasmessa alle organizzazioni che rappresentavamo, tutta la Romania ci sarebbe stata eternamente grata. Ritornando all'Intercontinental, quella sera, vedemmo un gruppo di persone - parevano in gran parte impiegati che avessero appena lasciato l'ufficio per tornarsene a casa - prendere a pugni e calci tre uomini e una donna. Radu Fortuna sorrise e indicò la grande piazza affollata di fronte all'hotel. — Là... nella piazza dell'Università, la settimana scorsa... quando il popolo scese in quella piazza per protestare con canti e slogans, ricordate? Ebbene, carri armati dell'esercito passarono su quelle persone schiacciandole e sparando su chiunque cercasse di fermarne la corsa. Quelle che state vedendo sono probabilmente spie della Securitate. Prima che l'autobus su cui viaggiavamo si arrestasse ai bordi del marciapiede davanti al nostro hotel, gettammo un'occhiata ai soldati in uniforme che portavano via le probabili spie, spingendole con le canne dei fucili automatici, mentre la folla continuava a percuoterle e a sputar loro addosso. — Non si può fare una frittata senza rompere parecchie uova — mormo-
rò il nostro professore emerito: padre Paul gli rivolse uno sguardo furioso e Radu Fortuna scoppiò in una fragorosa risata di apprezzamento. — Pensavate che Ceausescu opponesse maggiore resistenza a un assedio? — chiese il dottor Aimslea dopo cena quella sera. Eravamo rimasti nella sala da pranzo perché pareva meglio riscaldata delle nostre stanze. Camerieri e pochi militari passavano di tanto in tanto. I giornalisti che alloggiavano presso l'albergo avevano consumato la loro cena molto velocemente e altrettanto velocemente se ne erano andati, in cerca forse di un'ultima notizia. Radu Fortuna ci aveva raggiunti per il caffè e ora ci mostrava il suo sdentato sorriso. — Desiderate vedere in che modo Ceausescu fece fronte all'assedio? Tutti noi avremmo gradito sapere e vedere. Solo Carl Berry decise di ritirarsi nella propria stanza per fare una telefonata negli Stati Uniti; anche il dottor Paxley lo seguì dicendo che era stanco e che preferiva andare a letto presto. Radu Fortuna condusse Aimslea, padre Paul e me lungo le fredde e buie strade della città che conducevano a ciò che rimaneva del palazzo presidenziale. Un uomo della milizia uscì dalle tenebre, puntò un AK-47 e gridò una frase incomprensibile, ma Fortuna gli rispose prontamente e ci fu permesso di passare. Non c'erano luci nel palazzo, tranne alcuni fuochi accesi nei punti in cui uomini della milizia e soldati regolari stavano dormendo o si stavano riscaldando. Il mobilio era stato interamente distrutto, i tendaggi bruciati o strappati da ogni finestra, la carta disseminata ovunque sul pavimento e le pareti imbrattate con slogan incomprensibili. Fortuna ci fece percorrere uno stretto corridoio, poi una serie di stanze che sembrava avessero fatto parte della residenza privata, quindi ci arrestammo davanti a un piccolissimo stanzino. Dentro quella stanza, la cui superficie non doveva superare il metro e mezzo, c'erano solamente tre lanterne su uno scaffale. Fortuna le accese, ne porse una a me e una ad Aimslea, quindi premette con la mano in un punto della parete. Un pannello scorrevole si aprì e apparve una scalinata di pietra. La mezz'ora che seguì fu allucinante. La scala conduceva a una serie di stanze comunicanti dalle quali si diramava un labirinto di tunnel di pietra e di altre scalinate. Fortuna ci condusse in questo labirinto; la luce delle nostre lanterne si rifletteva sui soffitti di pietra. — Dio mio — borbottò il dottor Aimslea dopo circa dieci minuti. —
Proseguono per miglia e miglia. — Sì, sì — rispose Radu Fortuna sorridendo. — Molte miglia. C'erano ripostigli con armi automatiche sugli scaffali, maschere antigas appese alle pareti; c'erano centri di comando con radio e monitor sparsi ovunque, alcuni distrutti come se dei pazzi si fossero avventati con bastoni su di essi, altri ancora coperti da involucri di plastica in attesa che qualche operatore andasse ad accenderli; c'erano dormitori con cuccette, stufe e taniche piene di kerosene che noi guardammo con invidia. Alcuni dormitori non erano stati toccati, altri portavano ancora i segni di improvvise fughe o di altrettanto improvvisi incendi. C'era sangue sulle pareti e sul pavimento di una di queste stanze, sangue che alla luce delle nostre deboli lanterne appariva nerastro e non rosso. C'erano ancora corpi agli angoli di quei tunnel; alcuni giacevano in pozze formatesi con l'acqua che gocciolava da tubature divelte, altri ammonticchiati dietro a improvvisate barricate erette lungo quei cunicoli sotterranei. L'odore era nauseabondo. — Securitate — disse Fortuna mentre con un calcio cercava di spostare uno di quei cadaveri che, faccia in giù, giaceva in una pozza d'acqua gelata. — Sono fuggiti quaggiù come topi e noi come topi li abbiamo finiti. Capite? Padre Paul fece il segno della croce, si inginocchiò al fianco di uno di quei corpi per un lungo momento pregando in silenzio. Il dottor Aimslea disse: — Ma Ceausescu non si è ritirato quaggiù? — No — disse Fortuna sorridendo. Il dottore si guardò attorno. — Perdio, perché no? Se avesse ordinato una resistenza organizzata da questo luogo, avrebbe potuto tener duro per mesi. Fortuna scrollò le spalle. — Invece, il mostro, lui è fuggito in elicottero. Sì, fuggì a Tirgoviste, settanta chilometri da qui, conoscete quel luogo? Là, altra gente li ha visti, lui e quella cagna di sua moglie, salire in macchina. Li hanno presi. Aimslea alzò la sua torcia in direzione dell'ingresso di un altro tunnel da cui si sentiva provenire un terribile fetore. Il dottore velocemente abbassò la luce. — Ma io mi chiedo perché... Fortuna gli si avvicinò e il fascio di luce illuminò sul suo collo una vecchia cicatrice che io non avevo notato prima. — Si dice... che il consigliere... l'Oscuro Consigliere... gli abbia suggerito di non venire qui. — Egli sorrise.
Padre Paul cercò di sorridere. — L'Oscuro Consigliere. Sembra quasi che il suo consigliere fosse il demonio. Radu Fortuna annuì. — Peggio, padre. Il dottor Aimslea borbottò: — Riuscì a fuggire, questo demonio? O è uno di quei poveri cadaveri che abbiamo visto quaggiù? La nostra guida non rispose ma si addentrò in uno dei quattro tunnel che si diramavano da quel punto. Una scalinata di pietra conduceva al piano superiore. — Da qui si giunge al Teatro Nazionale — disse a bassa voce, indicandoci con un gesto di precederlo. — È stato danneggiato ma non distrutto. Rimane nei pressi del vostro hotel. Il prete, il dottore e io ci avviammo; il fascio di luce delle torce allungava, deformandole, le nostre ombre sulle pareti concave. Padre Paul si fermò e guardò verso Fortuna. — Lei non viene? La piccola guida sorrise e con un cenno negativo rispose: — Domani, vi porteremo dove tutto ebbe inizio. Domani noi andremo in Transilvania. Padre Paul rivolse al dottore e a me un sorriso. — Transilvania — ripeté. — Gli spettri di Bela Lugosi. — Si girò per dire qualcosa a Fortuna ma il piccolo uomo se ne era andato. Nemmeno l'eco dei passi o la luce della torcia ci mostravano quale tunnel avesse imboccato. Volammo a Timisoara, una città nella Transilvania occidentale, su un vecchio Tupolev turboelica ora appartenente alla Tarom, la compagnia aerea di stato. Fummo fortunati; il volo giornaliero aveva solo novanta minuti di ritardo. Volammo fra le nuvole per gran parte del viaggio e non c'erano luci interne sull'aereo, ma ciò non era importante poiché non c'era personale di servizio e non era previsto alcun pasto o spuntino a bordo. Il dottor Paxley borbottò durante tutto il volo, ma il rumore del turboelica e i cigolii che si avvertivano ogni volta che si incontrava un vuoto d'aria o una corrente improvvisa coprivano le sue lamentele. Immediatamente dopo il decollo, alcuni secondi prima di entrare nelle nuvole, Fortuna si alzò e indicò da un finestrino un'isola coperta di neve in un lago che doveva essere a circa venti miglia a nord di Bucarest. — Snagov — disse, guardandomi in viso. Guardai giù, gettai un'occhiata a una scura chiesa sull'isola prima che le nuvole ne coprissero la vista, quindi volsi lo sguardo in direzione di Fortuna. — Sì? — Vlad Tepes è stato sepolto laggiù — disse Fortuna, senza mai togliere lo sguardo dal mio volto.
Annuii. Fortuna ritornò al suo posto per sfogliare una copia dei nostri Times; come potesse leggere o concentrarsi su una lettura durante quel terribile volo non lo saprò mai. Qualche minuto più tardi Carl Berry mi si avvicinò, venne a sedere nel seggiolino dietro al mio e mi bisbigliò all'orecchio: — Chi diavolo è questo Vlad Tepes? Qualcuno che è morto durante i combattimenti? La cabina era così buia in quel momento che a fatica riuscivo a distinguere il volto di Berry a pochi centimetri dal mio. — Dracula — dissi al funzionario della AT&T. Berry ebbe un sospiro di sconforto e tornò a sedere al proprio posto, allacciandosi la cintura non appena l'aereo iniziò nuovamente a sussultare. — Vlad l'Impalatore — bisbigliai, ma non c'era più nessuno ad ascoltarmi. La corrente era stata interrotta, così le stanze dell'obitorio venivano raffreddate con il semplice espediente dell'apertura di tutte le finestre poste in alto. La luce era ancora molto debole, ulteriormente attenuata dalle pareti verde scuro, dalle lastre di vetro e dalle nuvole costantemente basse, ma era sufficiente per illuminare le file di cadaveri disposti sui tavoli che occupavano ogni spazio del pavimento coperto di piastrelle. Dovemmo seguire un percorso obbligato, passando fra gambe nude, visi pallidi o tumefatti e ventri sporgenti, prima di poterci unire a Fortuna e al medico rumeno al centro della stanza. C'erano almeno tre o quattrocento corpi in quel lungo stanzone. — Perché queste persone non sono state sepolte? — domandò padre Paul, con la sciarpa che gli copriva il volto. Dalla sua voce filtrava un vago senso di rabbia. — È passata almeno una settimana dalla loro uccisione, vero? Fortuna tradusse per il medico di Timisoara il quale scrollò le spalle. La nostra guida imitò quel gesto. — Undici giorni da quando quelli della Securitate fecero questo — disse. — I funerali avranno luogo presto. Le... come le chiamate voi... però le autorità del posto vogliono prima mostrare tutto questo alle delegazioni di giornalisti occidentali e a personalità importanti come voi. Guardate, guardate. — Fortuna spalancava le braccia in quella stanza compiendo gesti che evidenziavano quasi un vago senso di orgoglio; sembrava uno chef intento a mostrare il banchetto appena preparato. Sul tavolo di fronte a noi giaceva il corpo di un uomo anziano. Le mani
e i piedi amputati da qualcosa di non molto affilato. C'erano bruciature sulla parte inferiore dell'addome e sui genitali, e il suo petto mostrava profonde cicatrici che mi ricordavano illustrazioni di fiumi vichinghi e crateri di Marte. Il medico rumeno parlò. Fortuna traduceva. — Dice che quelli della Securitate usano gli acidi. Capite? E non solo... Il corpo di una giovane donna giaceva sul pavimento, interamente vestito; l'abito aveva una lunga lacerazione che partiva all'altezza del seno e arrivava fino all'osso pubico. Ciò che prima scambiai per un altro strappo nel tessuto, mi resi ora conto che era semplicemente il suo ventre squarciato, imbrattato di sangue. Un feto di sette mesi giaceva sul suo grembo; sembrava una bambola messa da parte. Sarebbe stato un bambino. — Guardate qui — continuò Fortuna facendosi strada fra i cadaveri e gesticolando. Il ragazzo doveva aver avuto non più di dieci anni. La morte e una settimana o più di congelamento avevano gonfiato e ricoperto di chiazze la carne rendendola simile a una pergamena, ma il filo spinato attorno ai polsi e alle anche era ancora ben visibile. Le braccia erano state legate dietro alla schiena con una forza tale che le spalle erano completamente fuori dalle loro cavità. Insetti si erano probabilmente posati sui suoi occhi e lo strato di uova che avevano deposto rendeva lo sguardo di quel povero ragazzo ancora più stralunato. L'emerito professor Paxley vacillò, quasi incespicò, alla vista di quei corpi disseminati nella stanza. Una mano nodosa del cadavere di un uomo anziano sembrò trattenere una delle gambe malferme del professore mentre cercava di fuggire da quel luogo. Padre Paul afferrò Fortuna per il bavero e quasi lo sollevò dal pavimento. — Maledizione, perché ci sta mostrando tutto questo? Fortuna sogghignò. — C'è dell'altro, padre. Venga. — Chiamavano Ceausescu "il vampiro" — disse Don Westler, che nel frattempo era arrivato e si era unito a noi. — E Timisoara è il luogo in cui iniziò — continuò Carl Berry, fumando la sua pipa e contemporaneamente osservando il cielo grigio, i grigi edifici, la neve grigia ai bordi delle strade e la gente grigia che camminava frettolosamente, illuminata dai lampioni che emettevano la solita luce fioca. — Timisoara è il luogo in cui iniziò la rivolta finale — disse Westler. — Le giovani generazioni erano ormai sempre più scontente e irrequiete. In
un certo senso Ceausescu si è garantito la morte proprio creando quella generazione. — Creando quella generazione? — ripeté padre Paul. — Si spieghi meglio. Westler spiegò. Durante gli anni sessanta, Ceausescu aveva vietato l'aborto, sospeso l'importazione di contraccettivi orali e di IUD, e aveva annunciato che ogni donna aveva l'obbligo di dare alla luce molti figli. Per incentivare l'incremento delle nascite, il governo inoltre offriva dei premi e riduceva le tasse alle famiglie che si piegavano a tale richiesta. Le coppie che avevano meno di cinque figli venivano multate e ingiustamente tassate. Westler raccontò che fra il 1966 e il 1976 c'era stato un incremento del quaranta per cento delle nascite, parallelamente a un altrettanto sensibile aumento del tasso di mortalità infantile. — È stata questa abbondanza di giovani ventenni al termine degli anni ottanta a costituire il nucleo della rivoluzione — disse Westler. — Erano disoccupati, non avevano alcuna possibilità di acquisire una buona cultura... non disponevano nemmeno di abitazioni decenti. Furono loro a dare inizio alle proteste di Timisoara e altrove. Padre Paul annuì. — Ironico... ma appropriato. — Certamente — riprese Westler, soffermandosi in prossimità della stazione ferroviaria, — la maggior parte delle famiglie contadine non aveva la possibilità di crescere molti figli... — Si fermò mostrando un diplomatico tic di imbarazzo. — Così, cosa successe a quei poveri bambini? — chiesi. Erano le prime ore del pomeriggio ma era quasi buio. Non c'era illuminazione stradale lungo quel tratto della via principale di Timisoara. Da qualche parte, lungo i binari, una locomotiva passava emettendo un forte rumore di ferraglia. Don Westler scosse la testa ma Radu Fortuna gli si avvicinò ulteriormente. — Prenderemo il treno per Sebes e Sibiu questa sera. Copsa Mica e Sighisoara — disse il rumeno sorridendo. — Vedrete che fine hanno fatto i bambini. La sera invernale divenne notte invernale oltre i finestrini del nostro treno. Si era fatto buio totale. Il treno passava attraverso montagne le cui cime erano state arrotondate dal tempo (non ricordo se si trattasse della catena dei Fagara o dei più bassi Carpazi Bucegi) e la tetra vista di villaggi stretti l'uno contro l'altro e delle disperse fattorie scomparve nel buio rotto solo da qualche luce di lampada a petrolio proveniente da lontane finestre.
Mi resi conto improvvisamente che era la notte di Capodanno, l'ultima notte del 1989, e che con l'alba avrebbe avuto inizio ciò che il pensiero popolare considera l'ultima decade del millennio... ma tutto attorno il tempo si era fermato al diciassettesimo secolo. Le sole intrusioni dell'era moderna da quando eravamo partiti quella sera da Timisoara erano state qualche occasionale veicolo militare sepolto dalla neve, incontrato lungo i bordi della strada, e qualche cavo elettrico provvisoriamente fissato ai rami degli alberi. Ma quei pochi talismani erano gradatamente scomparsi ed erano rimasti solo i villaggi, le lampade a petrolio, il freddo, e una carrozza con ruote in gomma trainata da cavalli che sembravano più ossa che carne, guidati da un uomo nascosto da scuri indumenti in lana. Perfino le strade dei villaggi erano deserte; il treno su cui viaggiavamo non effettuò alcuna sosta. Mi resi conto che in alcuni villaggi mancava la luce elettrica. Non erano ancora le dieci di sera, alzai il bavero del cappotto, cercai con le unghie di togliere lo strato di ghiaccio che si era formato sul finestrino, guardai fuori e vidi che il villaggio attraverso il quale stavamo passando era deserto: edifici demoliti, mura distrutte, intere fattorie rase al suolo. — Sistematizzazione — bisbigliò Radu Fortuna, dopo essersi silenziosamente seduto al mio fianco. Stava masticando una cipolla. Non chiesi alcuna spiegazione, ma la nostra guida sorrise e me la fornì ugualmente. — Ceausescu voleva distruggere tutto ciò che era vecchio. Rase al suolo villaggi, trasferì migliaia di persone in luoghi cittadini come il viale della Vittoria del Socialismo a Bucarest... chilometri e chilometri di altissimi edifici. Solo condomini, non ancora terminati quando quella gente ci si trasferì. Senza riscaldamento, senza luce né acqua corrente... la corrente elettrica doveva essere venduta agli altri paesi, capite. Così gente di campagna, che viveva in piccole case o fattorie da tre o forse quattro generazioni, si è trasferita al nono piano di un edificio costruito con mattoni scadenti in una città sconosciuta, senza serramenti, senza alcuna possibilità di proteggersi dal gelido vento che soffia costantemente da queste parti. Devono attingere acqua a miglia di distanza, quindi salire nove piani di scale. Dette un profondo morso alla cipolla e annuì col capo. — Sistematizzazione. — L'uomo si allontanò lungo il corridoio fumoso. Superammo le montagne. Cominciai ad appisolarmi... Avevo dormito poco la notte precedente, e non avevo dormito nemmeno la notte trascorsa sull'aereo... ma mi svegliai completamente quando vidi che l'emerito professore aveva preso posto nel sedile di fianco al mio.
— Questo freddo maledetto — sussurrò cercando di sistemarsi il bavero del cappotto attorno al collo. — Speravo che tutte le maledette persone che viaggiano con noi in questa carrozza di prima classe avrebbero generato un po' di calore qui dentro, ma la temperatura è rimasta bassa quanto quella del cadavere della signora Ceausescu. Socchiusi gli occhi mentre sorridevo per quella battuta. — Veramente — disse il dottor Paxley quasi sussurrando — non è così male come dicono. — Il freddo? — chiesi. — No, no. L'economia. Forse Ceausescu è stato l'unico capo di Stato che in questo secolo ha saldato il debito estero del proprio paese. Naturalmente ha dovuto esportare cibo, elettricità e beni di consumo ad altri paesi per poter fare questo, ma la Romania attualmente non ha alcun debito con l'estero. Nessuno. — Mmmm — dissi, cercando di ricordare frammenti del sogno che avevo fatto nei pochi momenti in cui ero riuscito a dormire. Qualcosa connesso con il sangue. — Un saldo attivo di diciassette miliardi di dollari — borbottò Paxley, avvicinandosi a me a tal punto da farmi indovinare che aveva mangiato cipolle per cena. — E non devono nulla all'Occidente, né tanto meno alla Russia. Incredibile. — Ma la gente sta morendo di fame — risposi a bassa voce. Westler e padre Paul stavano russando nel sedile di fronte al nostro. Paxley agitò le mani. — Nel caso in cui avvenisse la riunificazione della Germania, lei sa quanto i tedeschi dell'Ovest abbiano intenzione di investire per ristrutturare le infrastrutture nella Germania dell'Est? — Senza attendere una mia risposta, proseguì. — Cento miliardi di marchi... e questo sarebbe solo l'inizio. Qui in Romania, le infrastrutture sono in uno stato così pietoso che non ci sarebbe nulla da abbattere. Si dovrebbero semplicemente radere al suolo quelle demenziali industrie di cui Ceausescu andava fiero, utilizzare quella mano d'opera a buon mercato... Dio mio, non si possono nemmeno considerare uomini, sono schiavi... e ricostruire tutte le infrastrutture industriali. Desideravo appisolarmi nuovamente, quindi l'emerito professore cambiò seggiolino in cerca di qualcun altro a cui spiegare i fatti economici della vita. Continuavamo a superare villaggi immersi nel buio mentre ci addentravamo fra le montagne della Transilvania.
Arrivammo prima dell'alba a Sebes, dove trovammo un ufficiale che ci portò all'orfanotrofio. No, orfanotrofio è una parola troppo bella. Era un magazzino, non meglio riscaldato di tutti i depositi nei quali eravamo stati fino a quel momento. Era completamente privo di qualsiasi decorazione, a eccezione del pavimento piastrellato e delle pareti scrostate, dipinte fino ad altezza d'uomo con un color verde vomito. Il soffitto era grigio scuro. L'ambiente principale era lungo almeno cento metri. Era pieno di rastrelliere. Nuovamente la parola che ho usato è troppo generosa. Non rastrelliere, ma basse gabbie di metallo aperte nel lato superiore. In queste gabbie stavano i bambini. Neonati erano posti nelle stesse gabbie occupate da bambini che dovevano avere circa dieci anni. Nessuno sembrava essere in grado di camminare. Erano nudi o vestiti di stracci. Molti strillavano, altri piangevano silenziosamente e il vapore provocato dal loro alito si spandeva nell'aria gelida. Donne dal viso austero, che indossavano complicate cuffie da nurse, stavano in piedi, fumando sigarette, ai bordi di questo gigantesco recinto per bestiame. Occasionalmente si muovevano fra le gabbie per porgere bruscamente una bottiglia a un bambino (a volte si trattava di un bambino di sette o otto anni) o molto più frequentemente per schiaffeggiare quelli che piangevano e imporre loro di far silenzio. L'ufficiale e l'amministratore dell'"orfanotrofio" ci lanciarono un'invettiva che Fortuna non si degnò di tradurci, quindi ci condussero nella stanza sbattendo con veemenza gli enormi portoni aperti. Entrammo in una stanza più grande della precedente. Dalla porta che venne spalancata in quel momento filtrò una luce fioca che illuminò debolmente le gabbie che la riempivano. Dovevano esserci almeno un migliaio di bambini in quel locale; nessuno superava l'età di due anni. Alcuni piangevano, i loro vagiti echeggiavano nell'enorme stanzone, ma la maggior parte di loro sembrava troppo debole perfino per piangere, mentre giacevano su quegli stretti giacigli sporchi di escrementi. Alcuni sembrava stessero per morire di inedia. Altri parevano morti. Radu Fortuna si girò e incrociò le braccia. Stava sorridendo. — Vedete che fine hanno fatto i bambini? A Sibiu trovammo i bambini nascosti. C'erano quattro orfanotrofi in questa città centrale della Transilvania, di 170.000 abitanti, e ogni orfanotrofio era più grande e triste di quello di Sebes. Il dottor Aimslea chiese,
attraverso Fortuna, che ci fosse consentito visitare i bambini ammalati di AIDS. L'amministratore dell'orfanotrofio Strada Cetatii 319, un vecchio edificio senza finestre nascosto dentro le mura di quella città, risalente al sedicesimo secolo, rifiutò categoricamente di riconoscere che ci fossero bambini affetti da AIDS. Ci negò il permesso di entrare nell'orfanotrofio. Egli negò, a un certo punto, perfino di essere l'amministratore dello Strada Cetatii 319, nonostante la targa sulla porta del suo ufficio e la placca sulla scrivania. Fortuna gli mostrò i nostri passaporti e le autorizzazioni, rilasciate e controfirmate dal primo ministro Roman, dal presidente Iliescu e dal vice presidente Mazilu. L'amministratore sogghignò, inspirò una boccata di fumo dalla sigaretta, scosse la testa e concluse: — I miei ordini vengono dal Ministero della Sanità. — Radu Fortuna tradusse. Occorse circa un'ora per venire a capo della questione, ma Fortuna alla fine telefonò al primo ministro, il quale chiamò il ministro della Sanità, che promise a sua volta di chiamare immediatamente Strada Cetatii 319. Poco più di due ore dopo la chiamata arrivò, l'amministratore borbottò qualcosa a Fortuna, spense il suo mozzicone di sigaretta sul pavimento sporco, disse qualcosa in merito all'ordine che aveva appena ricevuto e porse un mazzo di chiavi alla nostra guida. Per giungere al reparto AIDS dovemmo superare una serie di sette porte chiuse a chiave. Non c'erano infermiere là, nemmeno medici... nessun adulto. Non c'erano nemmeno le gabbie di ferro; i neonati e i bambini giacevano sul pavimento o si contendevano un piccolissimo spazio sulla mezza dozzina di materassi, spogli e sporchi di escrementi, accostati alle pareti. Erano nudi e le teste erano state rasate. La stanza priva di finestre era illuminata da una quarantina di lampadine appese al soffitto. Alcuni bambini erano raggruppati sotto l'alone di luce diffuso da quelle lampadine, alzavano gli occhi verso di esse come se si trattasse del sole, ma la maggior parte giaceva al buio, in disparte. Altri ragazzi fuggirono impauriti nel momento in cui vennero aperti i portoni di acciaio. Era ovvio che i pavimenti venivano lavati - c'erano rivoletti e strisce bagnate lungo i bordi della stanza - ed era altrettanto ovvio che nessun altro sforzo igienico era stato fatto. Don Westler, il dottor Paxley e Berry si girarono e si allontanarono, sconvolti dal fetore che proveniva da quella stanza. Il dottor Aimslea bestemmiò e batté un pugno contro una parete di
pietra. Padre Paul emise un gemito quindi si diresse verso i bambini, accarezzò le loro teste, bisbigliando qualcosa a ognuno in una lingua che essi non conoscevano. Ne prese alcuni in braccio. Ebbi l'impressione istintiva, mentre li osservavo, che la maggior parte di quei poveri bambini non fosse mai stata sollevata, forse mai nemmeno toccata. Radu Fortuna ci raggiunse nella stanza. Non sorrideva più. — Il compagno Ceausescu ci diceva che l'AIDS è una malattia provocata dal capitalismo — bisbigliò. — La Romania non ha casi ufficiali di AIDS. Nessuno. — Mio Dio, mio Dio — borbottava il dottor Aimslea mentre avanzava fra quei poveri bambini. — La maggior parte di loro è affetta da AIDS a uno stadio ormai avanzato. Tutti soffrono di malnutrizione e di carenze vitaminiche. — Volse lo sguardo verso l'alto mentre lacrime gli sgorgavano da dietro gli occhiali. — Da quanto tempo sono qui? Fortuna scrollò le spalle. — Molti sono qui da quando sono nati. I genitori stessi li portarono in questo luogo. Non sono mai usciti da queste stanze, ecco perché pochi sono in grado di camminare. Nessuno li ha mai aiutati mentre essi cercavano di farlo. Il dottor Aimslea pronunciò una serie di imprecazioni che si diffusero nell'aria pungente. Fortuna annuì. — Ma nessuno ha mai documentato questi... questa... tragedia? — disse Aimslea con voce contrita. Ora Fortuna sorrideva. — Oh, sì, sì. Il dottor Patrascu dell'istituto di virologia Stefan S. Nicolaus ha detto che tutto questo ebbe inizio tre... forse quattro anni fa. Il primo bambino che esaminò era infetto. Penso che sei bambini su quattordici fossero ammalati di AIDS. In tutte le città in cui andò vide molti, molti bimbi ammalati. Il dottor Aimslea puntò la sua piccola torcia negli occhi di un bimbo in stato comatoso. Afferrò Fortuna per il bavero e per un secondo ebbi l'impressione che volesse prendere a pugni la nostra piccola guida. — Ma, dannazione, perché quell'uomo non lo ha detto a nessuno? Fortuna fissava con sguardo impassibile il dottore. — Oh, sì, il dottor Patrascu fece presente la situazione al Ministero della Sanità. Gli fu vietato immediatamente di proseguire i suoi studi. Cancellarono ogni traccia del lavoro che il dottore aveva effettuato... quindi bruciarono ogni prova e ogni... come dite voi occidentali? Come chiamate voi quelle piccole guide fornite durante i meeting?... programmi. Confiscarono ogni documento e lo bruciarono. Padre Paul depose un bambino che teneva in braccio. Le povere braccia
magre si tendevano verso il sacerdote. Il bambino emetteva un vago gemito di implorazione; chiedeva di essere nuovamente preso in braccio. Padre Paul lo sollevò ancora e avvicinò la piccola testolina completamente calva alla propria guancia. — Dio li maledica — bisbigliò il sacerdote con il tono di voce solitamente usato per una benedizione. — Sia maledetto il Ministero. Sia maledetto quel figlio di puttana laggiù. Sia maledetto Ceausescu per sempre. Possano tutti ardere all'inferno. Il dottor Aimslea si accovacciò accanto a un neonato tutto pelle e ossa. — Questo bambino è morto — disse girandosi nuovamente verso Fortuna. — Come può accadere tutto questo, maledizione? Non possono esserci ancora così tanti casi di AIDS fra la popolazione. O sono forse, questi bambini, figli di drogati? Non riuscii a leggere altre domande nello sguardo del dottore: in una nazione in cui la famiglia media non può permettersi di comprare cibo e dove la detenzione di un narcotico veniva punita con la morte, come possono esserci così tanti figli di tossicodipendenti? — Venite — disse Fortuna conducendo me e il dottore fuori da quel luogo di morte. Padre Paul rimase, sollevando e accarezzando, uno dopo l'altro, i bambini. L'"infermeria" al piano inferiore si differenziava dall'orfanotrofio di Sebes solo per le dimensioni: dovevano esserci stati un migliaio o più di bambini in quel mare infinito di gabbie di ferro. Infermiere si spostavano da un bambino all'altro, porgendo loro bottiglie di vetro che sembravano contenere latte, e successivamente, se qualche bambino piangeva, intervenivano con un'iniezione per calmarli. Notammo un'infermiera che dopo aver fatto un'iniezione, puliva l'ago con uno straccio che aveva fissato alla cintura, lo reinseriva in un grande flacone, aspirava una dose di liquido e lo iniettava a un altro bambino. — Madre di Dio — bisbigliò il dottor Aimslea. — Non avete siringhe in questo luogo? Fortuna fece un gesto con le mani. — È un lusso capitalistico. Il viso di Aimslea si fece così rosso che pensai che i capillari gli stessero per scoppiare. — E le fottute autoclavi? Fortuna scosse le spalle e chiese qualcosa all'infermiera più vicina. Ella gli dette in fretta una risposta e ritornò alle sue iniezioni. — Dice che l'autoclave è rotta. Lei stessa l'ha rotta. È stata inviata al Ministero della Sanità perché venga riparata — tradusse Fortuna. — Da quanto tempo? — continuò Aimslea.
— È stata rotta quattro anni fa — disse Fortuna dopo aver passato la domanda alla donna indaffarata. Ella non si era nemmeno preoccupata di voltarsi mentre rispondeva. — Dice che passarono quattro anni prima che la macchina venisse inviata al Ministero della Sanità per la riparazione. Il dottor Aimslea si avvicinò a un bambino che doveva avere circa cinque o sei anni, intento a succhiare dalla bottiglia di vetro. Il liquido sembrava acqua grigia. — E queste che vengono somministrate, sono dosi di vitamine? — Oh, no — rispose Fortuna. — Sangue. Il dottor Aimslea rabbrividì, quindi si girò lentamente. — Sangue? — Sì, sì. Sangue di persone adulte. Rende più forti i bambini. Il Ministero della Sanità approva... dicono che sia molto... come dite voi occidentali.. medicina avanzata. Aimslea fece un passo verso l'infermiera, quindi un altro verso Fortuna, poi si girò verso di me con sul volto l'espressione di chi vuole uccidere qualcuno. Penso che lo avrebbe fatto se solo avesse potuto. — Sangue di adulti, Palmer. Cristo Gesù. Questa teoria è stata abbandonata un secolo fa. Mio Dio, Palmer, non si rendono conto... — Si girò immediatamente verso la guida. — Fortuna, dove prendono questo... sangue? — Viene donato... no, non è la parola giusta. Non donato, comprato. Le persone che vivono in città, e non posseggono denaro, vendono sangue per i bambini. Quindici lei ogni volta. Un suono rauco uscì dalla gola del dottore. L'uomo si coprì istintivamente gli occhi con la mano, quindi indietreggiò appoggiandosi a una mensola sulla quale erano allineate numerose bottiglie contenenti quel liquido scuro. — Donatori di sangue a pagamento — borbottò fra sé. — Gente della strada... tossicodipendenti... prostitute... e questi somministrano il sangue ai poveri bambini con siringhe i cui aghi non sono sterili. — Il borbottio continuò, il tono di voce si fece più alto. Il dottor Aimslea assunse una posizione seduta, la schiena appoggiata ad asciugamani sporchi, la mano ancora sugli occhi. Dalla gola usciva una risata sarcastica. — Quanti... — cominciò a chiedere a Fortuna. Si schiarì la voce e ricominciò. — Quanti, questo dottor Patrascu stimò fossero affetti da AIDS? Fortuna rabbrividì mentre cercava di ricordare. — Penso che avesse fatto una stima approssimativa di settanta casi sui primi duemila analizzati. Il numero crebbe però, successivamente. Con gli occhi sempre protetti dalla mano il dottore continuò: — Quasi il cinque per cento. E quanti... bambini... sono censiti?
La guida scrollò le spalle. — Il Ministero della Sanità dice che sono circa duecentomila. Io penso siano di più... forse un milione. Forse più. Aimslea non disse più nulla. Continuò semplicemente a borbottare fra sé. Il tono della voce diminuiva progressivamente. A un certo punto mi resi conto che non si trattava di borbottii ma di singhiozzi. Prendemmo il treno che portava verso nord quel tardo pomeriggio e ci dirigemmo verso Sihisoara. Fortuna aveva programmato una sosta in una piccola città lungo il percorso. — Signor Palmer, le piace Copsa Mica? — chiese. — Ci fermeremo, così potrete vederla. Non lo guardai, ma continuai a osservare i villaggi interamente rasi al suolo che incontravamo mentre passavamo. — Altri orfanotrofi? — chiesi. — No, no. O meglio, sì... c'è un orfanotrofio a Copsa Mica, ma noi non stiamo andando là. È una piccola città... seimila abitanti. Ma costituisce la ragione per cui voi siete venuti nel nostro paese. Mi voltai per guardare. — Industria? Fortuna sorrise. — Ah, sì... Copsa Mica è molto industrializzata. Come molte delle nostre città. E questa è molto vicina a Sihisoara, il luogo in cui l'Oscuro Consigliere di Ceausescu è nato... Io ero già stato a Sihisoara. — Oscuro Consigliere? — borbottai. — Cosa diavolo sta dicendo? Quel consigliere di Ceausescu era Vlad Tepes? Sihisoara è una città medievale perfettamente conservata, dove perfino la presenza di poche auto nelle strette strade selciate con pietre sembra un anacronismo. Sulle colline che circondano Sihisoara sono disseminate torri e fortezze, nessuna delle quali è pittoresca quanto la mezza dozzina di intatti castelli presenti in Transilvania e pubblicizzati come castelli di Dracula per impressionabili ricchi turisti. Ma il vecchio edificio in Piata Muzeului era veramente stato la dimora di Vlad Dracula dal 1431 al 1435. L'ultima volta che l'avevo visitato, circa dieci anni prima, al primo piano era stato aperto un ristorante e al pian terreno un'enoteca. — Lei vuole farmi credere che Vlad Dracul era l'Oscuro Consigliere? — chiesi senza nascondere il tono sarcastico della mia voce. Fortuna scrollò le spalle e se ne andò in cerca di qualcosa da mangiare. Il dottor Aimslea aveva ascoltato la conversazione e venne a sedere sul seggiolino di fianco al mio. — Crede a quell'uomo? — bisbigliò. — Ora è pronto per raccontarle storie fantastiche su Dracula. Cristo! Annuii e volsi lo sguardo verso le valli e le montagne circostanti, che of-
frivano un panorama grigio e monotono. Non avevo mai visto prima di allora la natura a uno stato così selvaggio, sebbene avessi viaggiato parecchio e visitato gran parte del mondo. I versanti delle montagne, i profondi burroni e gli alberi deformati e nodosi parevano simili a qualcosa in lotta per fuggire, come in un dipinto di Van Gogh. — Vorrei davvero incontrare Dracula in questo posto — continuò il buon dottore. — Pensi, Palmer... se il nostro contingente annunciasse che Vlad l'Impalatore è vivo e sta perseguitando la gente qui, in Transilvania, ebbene... maledizione... decine di migliaia di giornalisti si precipiterebbero qui. Trasmettitori via satellite installati nella piazza della città di Sibiu pronti a trasmettere messaggi Insta Cam ai vari Canale 7 o Canale 4 che diffondono notiziari in tutta l'America. Un mostro che addenta alcune dozzine di persone, e il mondo intero rimarrebbe galvanizzato per la curiosità... ma una cosa simile è già successa: decine di migliaia di uomini e donne morti, centinaia di migliaia di bambini depositati in magazzini, minacciati da... maledizione. Annuii senza voltarmi. — La banalità del male — sussurrai. — Cosa? — La banalità del male. — Mi volsi verso il medico e gli sorrisi. — Dracula verrebbe considerato una favola. La sorte di centinaia di migliaia di vittime della demenza politica, della burocrazia, della stupidità... Arrivammo a Copsa Mica appena prima del crepuscolo, e capii immediatamente perché quella dovesse essere la "mia" città. Westler, Aimslea, Paxley e padre Paul rimasero sul treno durante quella sosta; solo Carl Berry e io eravamo interessati a quel luogo. Fortuna ci indicò la strada. Il villaggio - era troppo piccolo per poterlo definire città - era situato fra due stretti calanchi. C'era la neve sulle colline, ma quella neve era nera. I ghiaccioli che pendevano dalle grondaie degli edifici erano neri. Sotto i piedi la poltiglia di neve mista a fango, che ricopriva le strade non selciate, era un miscuglio grigio e nero. Su ogni cosa era calato un visibile strato di polvere nera, come se milioni di corpuscoli microscopici aleggiassero nell'atmosfera. Uomini e donne, protetti da cappotti e scialli neri, ci superavano; alcuni conducevano pesanti carri, altri tenevano bambini per mano. I visi di tutte queste persone erano cosparsi di una polvere scura. Non appena raggiungemmo il centro del villaggio mi resi conto che pure noi tre procedevamo in mezzo a uno strato di polvere e cenere grigia spessa circa due centimetri. Ho visto vulcani attivi in Sud America e altrove, e sia la
cenere sia il cielo notturno apparivano come questi. — È... come la chiamate voi... una fabbrica di pneumatici — disse Radu Fortuna, gesticolando in direzione di uno scuro complesso industriale che si allungava, al termine della vallata, come un drago gibboso. — Produce la polvere nera con cui si fanno i prodotti di gomma... è attivo ventiquattro ore su ventiquattro. Il cielo è sempre così... — Indicò l'alone nero che avvolgeva ogni cosa. Carl Berry stava tossendo. — Buon Dio, come può la gente vivere in un posto come questo? — Non vivono a lungo — rispose Fortuna. — Molti adulti, come voi e me, soffrono di intossicazione da piombo. Bimbi piccoli hanno... non ricordo la parola... si tossisce sempre... — Asma — intervenne Berry. — Sì, i bambini piccoli soffrono di asma. Neonati nascono con... come dite voi... cattive formazioni al cuore? — Malformazioni — corresse nuovamente Berry. Mi fermai a cento metri dalle nere staccionate e dalle scure mura di cinta della fabbrica. Il villaggio alle nostre spalle sembrava un'irregolare scacchiera grigia e nera. Perfino la luce elettrica non filtrava totalmente dai vetri delle finestre. — Perché questa dovrebbe essere la "mia" città, Fortuna? — chiesi. Alzò la mano verso la fabbrica. Le linee del palmo erano già nere di polvere, il polsino della camicia grigio scuro. — Ceausescu non c'è più, ora. La fabbrica non dovrà più fornire prodotti di gomma alla Germania Est, alla Polonia, all'Urss... le interessa? Produrre qui merci commerciabili dalla compagnia che lei rappresenta? Nessun... come dite voi... nessun problema di inquinamento ambientale, nessuna regolamentazione sul modo in cui volete produrre le merci: potreste gettare scorie dove volete. Può interessarle? Rimasi immobile per un lungo momento e avrei potuto restarlo più a lungo, se il treno non avesse emesso il suo segnale che avvertiva della partenza due minuti più tardi. — Forse — risposi. — Forse. Ci incamminammo in direzione del treno. Don Westler, padre Paul, il dottor Aimslea, Carl Berry, il nostro emerito professore dottor Leonard Paxley presero il volo del mattino della Tarom per ritornare a Bucarest da Sihisoara. Io mi trattenni. Il mattino era nebbioso, con nuvole plumbee che oscuravano ulteriormente il cielo e coprivano
le montagne circostanti. Le mura della città con le loro undici torri di pietra grigia sembravano confondersi con il cielo, racchiudendo la città sotto una solida cupola tetra. Dopo una colazione consumata nella tarda mattinata, riempii il mio thermos, lasciai la vecchia piazza della città e salii i centosettantadue gradini della scala coperta che conducevano alla casa in Piata Muzeului. Le porte di acciaio dell'enoteca erano chiuse, le porticine al primo piano sbarrate. Un anziano signore seduto nella piazza mi disse che il ristorante era chiuso da anni, che lo Stato aveva pensato di trasformare la casa in museo ma poi aveva deciso che gli ospiti stranieri non avrebbero speso denaro per visitare un edificio in rovina... nemmeno una casa in cui Vlad Dracula aveva vissuto cinque secoli prima. I turisti preferivano i grandi castelli cento miglia a est, più vicini a Bucarest, castelli che erano stati costruiti secoli dopo la morte di Vlad Tepes. Attraversai la strada, attesi che l'anziano signore terminasse di dar da mangiare ai piccioni e se ne andasse, quindi tornai all'interno dell'edificio. Tolsi la sbarra di ferro che teneva su le imposte. I pannelli erano neri quanto l'anima di Copsa Mica. Le porte erano chiuse a chiave, ma io cercai di raschiare i vetri secolari. Fortuna aprì la porta e mi fece entrare. Gran parte dei tavoli e delle sedie erano stati accatastati in un angolo, e grosse ragnatele si stendevano tra essi e le travi del soffitto. Fortuna prese uno di quei tavoli e lo pose al centro della stanza, quindi spolverò un paio di sedie e ve le accostò. — Ti è piaciuto il giro turistico? — chiese in rumeno. — Da — risposi, e continuai nella stessa lingua — ma ho l'impressione che tu abbia esagerato un po'. Fortuna scrollò le spalle. Andò dietro al bancone, spolverò due boccali di peltro e li portò sulla tavola. Mi schiarii la voce. — Mi hai riconosciuto all'aeroporto come membro della famiglia? — chiesi. La mia guida mostrò il suo largo sorriso. — Naturalmente. Rabbrividii a quella risposta. — Ma come è possibile? Ho trascorso tutto il tempo che ho potuto al sole per abbronzarmi. Sono nato in America. — Il tuo modo di agire — disse Fortuna, lasciando che la lingua rumena fluisse dalla sua bocca. — Il tuo modo di comportarti è troppo buono per essere scambiato per quello di un americano. Borbottai qualcosa. Fortuna si diresse nuovamente al bancone dietro al quale trovò un bottiglione di vino, ma io feci un gesto di diniego e tolsi dalla giacca del mio cappotto il thermos che avevo riempito quella mattina.
Versai in entrambi i boccali dopo aver ricevuto il cenno di assenso da parte di Fortuna. L'espressione del volto di quell'uomo non era mai stata così seria. Brindammo. — Skoal — dissi. La bevanda era molto buona, fresca, ancora a temperatura ambiente. Fortuna depose il boccale, si asciugò i baffi e annuì in segno di apprezzamento. — La tua compagnia comprerà la fabbrica di Copsa Mica? — chiese. — Sì. — E altre fabbriche... in altre Copsa Mica? — Sì — risposi nuovamente. — Oppure il nostro consorzio vi sottoscriverà un investimento europeo. Fortuna sorrise. — Gli investitori della famiglia saranno felici. Passeranno venticinque anni prima che questo paese possa permettersi il lusso di preoccuparsi dell'ambiente... e della salute della popolazione. — Dieci anni — corressi. — La preoccupazione in materia ambientale è contagiosa. Fortuna accennò un gesto con le spalle e le braccia... un tipico gesto della popolazione della Transilvania che non vedevo da anni. — Parlando di contagio — dissi — la situazione del paese mi sembra folle. Il piccolo uomo annuì. Una tenue luce che filtrava dalla porta alle mie spalle illuminava la sua fronte. Dietro di lui era il buio totale. — Noi non possiamo concederci il lusso del vostro plasma americano... banche del sangue private. Lo Stato doveva mantenerne una riserva. — Ma l'AIDS... — cominciai. — Sarà circoscritto — rispose Fortuna. — Grazie agli impulsi umanitari del dottor Aimslea e di padre Paul. Entro un mese la televisione americana manderà in onda "speciali" e programmi di ogni genere. Gli americani sono sentimentali. Ci sarà una protesta popolare. Aiuti giungeranno da tutte le associazioni e da personalità ricche e famose che non hanno nulla di meglio da fare. Famiglie adotteranno bambini ammalati, pagheranno una fortuna per farli volare negli Stati Uniti, e stazioni televisive locali intervisteranno madri in lacrime per la gioia. Annuii. — Gli operatori sanitari americani... inglesi... e della Germania Ovest... si precipiteranno sui Carpazi, sui Bucegi, e sui Fagara... e noi scopriremo molti altri orfanotrofi e ospedali, situati in zone desolate. Nell'arco di due
anni il fenomeno sarà circoscritto. Annuii nuovamente. — Ma correrete il rischio che essi portino con sé... un quantitativo considerevole della vostra... riserva — dissi quasi sussurrando. Fortuna sorrise e scrollò nuovamente le spalle. — Ce ne sono di più. Sempre di più. Anche tu sarai certamente a conoscenza di adolescenti che fuggono di casa e di foto di bambini scomparsi sui cartoni del latte, vero? Finii di bere, mi alzai e mi diressi verso la luce. — Sono finiti quei giorni — dissi. — Sopravvivenza equivale a moderazione. Tutti i membri della famiglia dovranno impararlo un giorno. — Ritornai verso Fortuna e il tono della mia voce era più arrabbiato di quanto pensassi. — Altrimenti cosa succederà? Un nuovo contagio? Una crescita della famiglia più rapida del cancro, più virulenta dell'AIDS? Bisogna controllarsi, siamo in equilibrio. Con una propagazione incontrollata, ci saranno solo cacciatori senza prede, condannati a morire di fame come quei conigli sull'isola a est anni fa. Fortuna alzò entrambe le mani. — Non dobbiamo discutere, cugino mio. Siamo a conoscenza di tutto questo. Questa è la ragione per cui Ceausescu se n'è dovuto andare. È la ragione per cui non gli fu consentito di entrare nei suoi tunnel, di raggiungere quei dispositivi segreti che avrebbero raso al suolo Bucarest. — Quindi c'era veramente un Oscuro Consigliere — dissi quasi bisbigliando. Fortuna sorrise. — Oh, sì. Passarono circa trenta secondi prima che potessi pronunciare una sola parola. — Il Padre? Fortuna si alzò, si diresse verso il buio corridoio al termine del quale c'era una scala. Fece un cenno con la mano che mi indicava la strada da seguire nel buio. Mi fece da guida per l'ultima volta. La camera da letto era stata una delle dispense del ristorante turistico. Cinque secoli prima doveva essere stata una camera da letto. La sua camera da letto. La persona che giaceva in quel luogo, sotto a coperte simili alla tappezzeria e fra lenzuola grigie, era talmente vecchia che era impossibile stabilirne l'età, e neppure il sesso. Le persiane erano chiuse, polvere e ragnatele riempivano la stanza tranne nel punto dove la testa e le spalle posavano sul cuscino grigio perla; ma c'erano tracce nella polvere, dove gli inservienti erano passati. Una debole luce filtrava dalle stecche delle persiane chiuse,
tale da permettere agli occhi di adattarsi a quella penombra e di individuare le forme più grandi. — Dio mio — sussurrai. Fortuna sorrise. — Sì. Mi avvicinai a quel corpo facendo quasi violenza a me stesso. A stento era riconoscibile rispetto alle foto che gli altri membri della famiglia mi avevano mostrato. L'alta fronte era ancora predominante, lo sguardo profondo e le taglienti ossa degli zigomi erano ben visibili, ma niente altro era rimasto come prima. L'età aveva reso la pelle una gialla pergamena incartapecorita, i capelli come ragnatele, gli occhi come biglie di vetro striate di muco e sprofondate nella carne morta. I denti erano tutti caduti. Le mani giacevano sulle coperte; mi ricordavano quelle di una scimmia mummificata che avevo visto molti anni prima al Royal Museum del Cairo. Le unghie erano gialle e lunghe almeno dieci centimetri. Mi avvicinai ulteriormente e gli baciai l'anello infilato a un dito della mano destra. — Padre — sussurrai, mentre profondi brividi mi percorrevano il corpo. Quindi avvertii un suono simile a un profondo rantolo provenire dal suo petto e una nuvola di aria dall'odore rancido uscirgli dalla bocca. Mi raddrizzai. Fu in quel momento, mentre i miei occhi si adattavano al buio, che vidi le lesioni e le squame, le migliaia di croste e ulcere e rivoli di carne in putrefazione che mostravano la presenza del sarcoma di Kaposi al suo stadio finale. Non era necessario essere il dottor Aimslea per riconoscerne i segni rivelatori: tutti noi, in famiglia, siamo esperti di AIDS e dei suoi sintomi. Temiamo quella malattia più di una condanna al rogo. — L'ha contratto qui? — sussurrai, rendendomi conto quanto fosse sciocco bisbigliare. Il corpo sul letto non avrebbe mai sentito. Radu Fortuna rise. — Vorrei fosse stato così. Il Padre era un po' sconsiderato. Ricordi? L'HIV è un retrovirus. Un contagio che risale a parecchi millenni fa. Gli scienziati non ne conoscono la provenienza, o come si sia diffuso fra l'umanità. Mi allontanai dal letto di qualche passo, rabbrividii per l'orrore. — Il Padre? Fortuna scrollò le spalle. — Era negligente. Decenni fa la famiglia lo implorò di non andare, ma egli era certo che l'Africa fosse un luogo perfetto in cui... ritirarsi. Un luogo in cui dar inizio a un nuovo ramo della famiglia. Rivivere le glorie del passato sui Carpazi. Indietreggiai finché la porta chiusa non mi fermò. — Era pazzo.
— Oh, sì. — Fortuna si diresse verso il letto e coprì quel corpo in modo che le mani non fossero in vista e solo il naso e la fronte rimanessero scoperti. — La famiglia lo ha rincorso attraverso quattro continenti prima che potessimo convincerlo a ritornare. Da quel momento... non ha avuto più scelta. Scossi la testa. La stanza sembrava svanire, diventare inconsistente, e mi resi conto che stavo piangendo. Con un movimento brusco mi asciugai le lacrime. — Non sapevo. — Non importa — rispose Fortuna. — La medicina, la scienza e la tecnologia occidentali sconfiggeranno questo male, come hanno sconfitto tante altre terribili malattie. Ci contiamo. La famiglia ha rimosso ogni barriera... nazionale, ideologica... anche questo può essere realizzabile. Annuii nuovamente e appoggiai la mia mano sul braccio di Fortuna mentre ci avviavamo verso le scale. Mosso da uno strano impulso ritornai nella stanza, rimasi un secondo solo, sulla porta, mi inginocchiai ancora una volta in direzione del buio prima di tornare dalla mia guida e consigliere. Insieme, la mia mano sulla sua possente spalla, ci lasciammo il vecchio mondo alle spalle e scendemmo le scale per salutare il nuovo. Titolo originale: All Dracula's Children (1991) Ron Dee UNA QUESTIONE DI STILE Neville aveva sempre amato il cinema. E continuava a piacergli anche adesso. Il fatto di essere morto non rappresentava un grosso problema. Da piccolo non perdeva una puntata della "matinée dei mostri", la serie di lungometraggi in bianco e nero trasmessi da Canale 8. Studiava le pagine di Famosi mostri del cinema e poi trascorreva ore davanti allo specchio a imitare i suoi eroi: Peter Lorre, Boris Karloff e Bela Lugosi. Soprattutto Bela Lugosi. Si era perfino comprato un paio di finti denti da vampiro. Sfortunatamente i suoi genitori avevano messo fine a quella pacchia quando lui aveva soltanto nove anni; sostenevano che quei film avrebbero finito per spaventarlo e bacargli la mente. E con il passare degli anni il loro atteggiamento non era cambiato; tutte le volte che lo sorprendevano a guardare un film sui mostri aggrottavano la fronte e arricciavano il naso, cosa che lo mandava su tutte le furie.
— Pensi che quella roba lì ti aiuterà a trovare un lavoro? — gli domandava suo padre. — Pensi che quella roba lì ti aiuterà a trovare una ragazza? — gli chiedeva sua madre. Questo era tutto quello che sapevano dirgli. Del resto, ad essere onesti, nessuno dei due poteva immaginare che sarebbe morto a ventisei anni per il morso di un vampiro. La conobbe alla scuola serale, alla quale si era iscritto per recuperare gli anni persi delle superiori. Si chiamava Margaret e gli sorrideva ogni volta che lui la guardava, il che accadeva spesso. Quando finalmente Neville trovò il coraggio di invitarla a uscire, con sua grande sorpresa lei accettò. Di fronte a una simile proposta la maggior parte delle ragazze più carine della scuola gli ridevano in faccia, e in più sapeva che Margaret spopolava. Andarono al cinema, naturalmente. Era un film d'epoca: La figlia di Dracula. Margaret rise per tutta la durata della proiezione. Neville si irritò profondamente ma, poiché di solito andava al cinema da solo, non sapeva bene come reagire... Certo che se solo fosse stata un ragazzo, l'avrebbe mandata a quel paese senza tante cerimonie! Ma non lo era. Era una ragazza e anche molto carina. Contrasse le mascelle e si rassegnò a sopportare in silenzio quel supplizio. Però le fu grato quando lei gli appoggiò la testa sulla spalla. Pochi minuti dopo le cinse le spalle con il braccio... e le sbottonò la camicetta. Non portava il reggiseno. Infiammato dall'eccitazione, Neville notò appena che aveva la pelle fredda, e se lo scordò del tutto quando le sue dita incontrarono il capezzolo già eretto... Poi Margaret allungò una mano sul cavallo dei suoi pantaloni e cominciò a massaggiarlo attraverso la stoffa dei jeans. Il film finì. Raggiunsero la macchina. Lei propose il lago e Neville guidò più velocemente che poté. Margaret si spogliò... poi spogliò lui. Neville ripensò alle lettere fantastiche, ma incredibili, che aveva letto su Penthouse, e all'improvviso non ebbe più dubbi sulla veridicità del loro contenuto. Era un sogno. Erano pochissime le ragazze che lo avevano anche solo baciato. Lei cominciò a leccarlo dall'ombelico in giù finché lui, ansante, le trattenne la testa, immobilizzandola. Poi lei lo morse. Accadde così, semplicemente. Lo prosciugò in cinque minuti e fu il più
bell'orgasmo che lui avesse mai avuto. Dapprima non capì quello che stava succedendo, perché sia nei libri sia nei film i vampiri aggrediscono sempre le loro vittime al collo; e quando se ne rese conto, era ormai troppo debole per fermarla, anche se avesse voluto. Ma dopo il primo sussulto di paura, Neville capì che non voleva. Da quando aveva lasciato la scuola non era mai riuscito a conservare lo stesso posto di lavoro per più di un mese e adesso stava per essere bocciato anche alle scuole serali. Perché non provare come vampiro? Quando si svegliò, Neville si trovò immerso in una tenebra putrida. Anche se ricordava quello che gli era successo e sapeva praticamente tutto sui vampiri, gli ci vollero svariati minuti per rendersi conto di dove si trovasse... e di chi fosse. Poi un potere che non conosceva si impadronì di lui e a un tratto Neville si rese conto che da quel momento in poi non avrebbe più dovuto subire i rifiuti con cui le donne avevano avvelenato la sua esistenza di infelice dongiovanni. L'istinto gli insegnò come trasformarsi in nebbia e rifluire nel suo corpo una volta uscito dalla tomba. Gli bastò pensarlo e accadde: immaginò di diventare una nuvola impalpabile, di scivolare come un alito di vento attraverso le fessure della bara, di risalire attraverso i duri strati di terra e di riprendere forma sopra la minuscola lapide. E fu lì che si ritrovò, concupiscente, bramoso di chiudere le labbra attorno al seno prosperoso di qualche avvenente fanciulla e di affondare i denti aguzzi nelle sue vene fino a prosciugarla. Ma era nudo. Si guardò e vide la sua carne pallida e soda. Cercò di trasformarsi di nuovo... Ma senza fortuna. Gli ci vollero alcuni minuti per capire dove aveva sbagliato. Poi si ricordò dei film che aveva visto al cinema: i vampiri sono costretti a mantenere per tutta la notte l'aspetto che hanno scelto di assumere quando lasciano la bara. Era quello che lui aveva fatto: aveva immaginato il suo corpo, ma non gli abiti che avrebbe indossato e così aveva ripreso sì la sua forma umana, ma senza nemmeno uno straccio di vestito addosso. Spaventato da quel primo errore, Neville misurò nervosamente i viali del cimitero per un'ora intera. Alla fine, i morsi della fame lo spinsero verso il
cancello. Dopo tutto, vestito o no, adesso era un vampiro... un terrore della notte. Con un agile balzo superò l'inferriata. Poi si acquattò sul marciapiede e, facendo scivolare lentamente la punta della lingua da un canino aguzzo all'altro, si mise a osservare le automobili che passavano. A un tratto notò una macchina che procedeva con particolare lentezza e, seduta dal lato del passeggero, vide una brunetta molto attraente. Al volante c'era il suo fidanzato, o forse si trattava del marito. Aveva il fisico di un giocatore di football americano, ma Neville non se ne preoccupò: nessuno poteva più competere con lui adesso. Sorrise compiaciuto. Avanzò con decisione sulla carreggiata, volando quasi sopra l'asfalto, poi accelerò e si parò davanti all'auto. Il giovanotto frenò, facendo stridere le gomme e azionando con rabbia il clacson. La macchina si arrestò. — Ehi, ma sei impazzito? Togliti dai piedi! — urlò il ragazzo abbassando il finestrino. Neville lo ammonì con l'indice teso e gli si avvicinò. — Scendi e fammi salire! Il giovanotto sgranò gli occhi e Neville spostò lo sguardo sulla ragazza. Stava sorridendo. — Scendi dalla macchina, amico. Perché adesso io e la tua bella andiamo a farci un giretto. All'improvviso la fanciulla scoppiò in una fragorosa risata e dopo alcuni istanti il suo compagno si unì a lei. Poi il ragazzo avviò il motore e, continuando a ridere, gli disse: — Ma va' a cercarti le mutande che ti sei perso, coglione! Neville abbassò lo sguardo sul proprio corpo nudo e, mentre le risa dei due ragazzi gli riecheggiavano ancora nelle orecchie, l'auto si allontanò rombando. Neville rimase alcuni istanti fermo in mezzo alla strada, poi si avviò mestamente verso il cancello del cimitero. La morte non gli aveva fatto perdere la sua goffaggine così come non gli aveva fatto perdere il suo desiderio per le donne. Oltrepassò l'inferriata e, raggiunta la tomba, si ridistese nella sua bara più affamato di quando si era svegliato. La sera seguente Neville fece tutto con la massima cura. Aveva riflettuto per ore sul suo look e quando si ritrovò sopra la pietra tombale indossava un elegantissimo smoking... tutto nero, con la camicia da sera bianca.
Soddisfatto della propria scelta, volò allegramente fra le lapidi e gli alberi spogli, superò il cancello con un salto e atterrò sul marciapiede. Anche quella notte la strada era piuttosto trafficata, ma lui ignorò le macchine, sforzandosi di non prestare attenzione al profumo di sangue che gli giungeva dal loro interno. Arrivò fino all'angolo e osservò i negozi che sorgevano sul lato opposto della strada... e i bar. Poi attraversò e scrutò le luci lampeggianti di una vetrina: Zippo's Pub. Proseguì fino all'attiguo negozio di ferramenta e si specchiò nella vetrina: strano, pensò aggrottando la fronte, non riusciva a vedersi. Ma era naturale, era un vampiro! — Merda! — protestò Neville, portandosi una mano alla testa per allontanare i capelli dalla fronte. Quindi, scrollando le spalle, ritornò alla porta del bar ed entrò. Le luci erano basse, ma la sua nuova vista notturna ne gioì. Mentre si avvicinava al banco, sorrise al menù di bellezze mozzafiato sedute ai tavolini e sugli sgabelli. Una donna bionda, con una gonna fasciante e i capelli crespi, incrociò il suo sguardo. — Mi offri da bere? — gli chiese. — Sicuro — balbettò Neville deglutendo. — Con molto piacere. Con la coda dell'occhio vide un uomo muscoloso che si avvicinava. — Che cosa prendi? Neville deglutì di nuovo. Era contento. E stupito dalla propria disinvoltura. Si rivolse al barista. — Quello che vuole la signora. — Hai la carta di identità, figliolo? — Ho ventisei anni — rise Neville. Il barista si accigliò e decine di rughe si inseguirono sulla sua fronte lucida fino alla sommità della testa calva. — Mi dispiace, ragazzo. È la legge. Devi dimostrarmelo. La donna gli dette una leggera gomitata alla spalla. — Un attimo solo — sogghignò Neville, infilando la mano nella tasca del cappotto... poi in quella dei pantaloni. Niente portafoglio. Niente carta di identità. Le rughe sussultarono sul volto del barista. — Ho... Ho dimenticato il portafoglio. — Spiacente, figliolo, ma non posso servirti. E non posso nemmeno farti stare qui dentro. Neville deglutì. Poi spostò lo sguardo sugli altri avventori del locale e scosse la testa. — Okay... Grazie. — Si avviò a testa china verso la porta,
senza nemmeno lanciare un'ultima occhiata alla prostituta bionda. La porta si spalancò e lui si ritrovò sul marciapiede. — Ehi! Qualcuno lo stava chiamando e Neville girò la testa. Era la prostituta. — Non posso credere che ti abbia costretto ad andartene — disse con un sospiro. — A me sembra che ventisei anni tu li abbia tutti, specialmente vestito così. Vuoi che ti accompagni a recuperare il portafoglio? — Uhm... — Neville spogliò con gli occhi il corpo della donna, che minacciava di prorompere dalla guaina che lo fasciava in tutti i punti giusti. Mentre le narici si riempivano del profumo del suo sangue, si sentì formicolare i denti. — Non so... — Se non ti va di tornare qui, possiamo andare da te... — La donna socchiuse le labbra rosso fuoco: quel gesto era una promessa. — Sei davvero carino, lo sai? — Da me? — Neville pensò al cimitero. — Uhm... veramente, non so... Ci sono un sacco di persone che dormono in questo momento. Capisci? — Vuoi venire da me? — D'accordo — sorrise lui. — Dove hai la macchina? Neville aggrottò la fronte e si sforzò di pensare in fretta. — Sono venuto in taxi. — Non ho voglia di aspettare un taxi — sospirò Blondie. — Ti va di prendere la mia macchina? Neville sospirò a sua volta, poi annuì e la seguì in direzione di una Camaro rossa parcheggiata poco lontano. Quando furono a bordo Neville dovette trattenersi dall'impulso di saltarle addosso subito. Voleva andare piano e godersi la sua prima volta. — Che genere di ragazza cercavi? — Una qualsiasi — rispose lui, incapace di frenare le parole che sembravano prendere forma nella sua gola indipendentemente dalla sua volontà. — Volevo dire... — Una con cui andare a letto, insomma... Be', rallegrati Principe Azzurro, perché l'hai trovata. Sono cinquanta verdoni. Pagati in anticipo, okay? Neville si protese verso la prostituta; i denti gli formicolavano così tanto da fargli male. — Spogliati — le disse. — Prima i soldi, amico. Dopo possiamo farlo qui o andare da me. Prima di ordinare devi pagare. — Ma hai sentito quello che ho detto prima al barista, ho dimenticato il
portafoglio. La donna lo squadrò corrugando la fronte. — Ehi tesoro, guarda che non scherzo: o cacci la grana o la festa finisce qui, chiaro? Deciditi. — Tu sei una prostituta, vero? Blondie ridacchiò, senza tuttavia mutare l'espressione accigliata del viso. — Sì, ma non una che si fa fottere. Decidi alla svelta, amore, altrimenti te la scordi. Neville spalancò la bocca e disse: — Sono un vampiro. La donna lo scrutò, poi sghignazzò. — Lo siamo tutti, stupido, ma io non mi faccio succhiare o fare altre cose da nessuno, se prima non vedo i soldi. Su, scendi, svelto. — Li vedi i miei denti? La donna scoppiò in una fragorosa risata. Per un attimo Neville pensò di morderla comunque, poi il senso del ridicolo ebbe il sopravvento e fece svanire la gloria di quel momento. Scosse la testa e scese dalla macchina sbattendo la portiera. Peggio di così non poteva andare. Era talmente depresso che per quella notte decise di rinunciare e di ritornare al cimitero. Ma accidenti, aveva fame. Rifletté. Rifletté per diciotto lunghe ore. E quando, la sera seguente, uscì dalla bara, non era uno schianto come il giorno prima, ma era ugualmente molto elegante: giacca sportiva, calzoni larghi e camicia aperta sul petto villoso. Poteva assumere tutte le sembianze che voleva in caso di bisogno: quelle di un pipistrello, come si vede nei film, quelle di un lupo, quelle di un giocatore di football americano... la gamma delle scelte a sua disposizione era infinita. Ma per quella notte voleva ancora affidarsi al suo fascino naturale. Non appena varcò la soglia del bar, mise gli occhi su una donna piacente tra i trenta e i trentacinque anni... Era un po' attempatella per i suoi gusti, ma lui aveva troppa fame per potersi permettere di aspettare ancora: già si stava trattenendo a stento dall'impulso di saltare addosso al primo essere vivente che gli fosse capitato a tiro! Quella volta si era ricordato di immaginare un portafoglio e una patente di guida e pertanto entrò nel bar senza problemi. Il barista lo riconobbe e si scusò per la sera precedente. All'improvviso Neville si chiese preoccupato che cosa avrebbe fatto se avesse incontrato di nuovo la prostituta bionda, ma subito dopo decise che in quel caso sarebbe stata lei a dispiacersene. La fame lo stava rendendo spietato. Ma di Blondie nessuna traccia. La donna che aveva adocchiato entrando
era seduta a un tavolino da sola. Indossava un vestito sobrio, che non permetteva di vedere un granché della sua mercanzia, ma aveva le tette grandi e il suo sangue emanava un profumo fantastico. Le offrì tre drink, dopodiché la accompagnò alla macchina. La donna estrasse carta e penna dalla borsetta per trascrivergli il proprio numero di telefono, ma lui non resistette e la baciò. Lei rispose con voluttà e si spostò rapidamente sul sedile, mentre la penna e il taccuino scivolavano per terra. Neville salì a sua volta e chiuse la portiera. — Sei gelato — esitò lei. Lui la baciò di nuovo. — E hai uno strano odore — bisbigliò quando le loro labbra si separarono per la seconda volta. Neville prese nota mentalmente di immaginare l'acqua di colonia la volta successiva. Ma andava tutto bene. Lei era ubriaca e lui era eccitato. La donna lo aiutò a toglierle il reggiseno e lui le succhiò a lungo i capezzoli. Lei si dimenava, gemeva e cercava di abbassargli i pantaloni... Ma lui non riuscì più a trattenersi e la morse. Le succhiò tutto il sangue: era squisito. La donna morì in sessanta secondi. E lui aveva ancora fame. Attese per un po' un rutto di soddisfazione poi, ricordandosi che il suo nuovo corpo non ne aveva bisogno, fece un rumore analogo e si passò una mano sul viso. Si guardò invano nello specchietto retrovisore e cercò di ricomporsi come meglio poteva prima di scendere. Scrutò la strada. Due signore stavano uscendo dal bar. Rifocillato e sicuro di sé Neville si incamminò verso di loro, imitando l'andatura flemmatica di Elvis Presley. Le raggiunse mentre stavano salendo su una vecchia Chevrolet. — Ehi, belle bambine, avete voglia di divertirvi un po'? La donna seduta al posto del passeggero sollevò lo sguardo e lui si ritrasse alla vista della sua pelle chiazzata; ma subito dopo, quando l'odore del sangue prevalse sull'aspetto fisico di lei, le sorrise. Lei scoppiò a ridere. Anche la sua amica si sporse a guardarlo e soffocò una risata. Dopo di che sbatté la portiera, avviò il motore e lo lasciò, frustrato, a fissare la macchina che si allontanava. Neville indugiò alcuni minuti, poi attraversò la strada e ritornò alla sua tomba. Un'altra umiliazione. All'improvviso si era reso conto che la donna conquistata quella sera non gli si era concessa perché irretita dal suo fascino, ma aveva ripiegato su di lui come lui aveva ripiegato su di lei. Era una
donna disperata. Quella consapevolezza smorzò la sua euforia. La fortuna lo aveva assistito, ma i cacciatori non possono fare affidamento sulla fortuna. A differenza degli uomini, la maggior parte delle donne erano esigenti. Se fosse stato una donna, gli sarebbe bastato sbattere le ciglia, sorridere in un certo modo o ancheggiare camminando per sedurre un uomo. Proprio come aveva fatto la finta studentessa della scuola serale che l'aveva morso. Quella notte, quando si sdraiò nella sua bara umida, Neville si crucciò al pensiero dell'ingiustizia del mondo, ma un istante dopo sorrise: conoscere la verità serviva a trovare la giusta soluzione ai problemi. Proprio come nelle pubblicità degli antiforfora, dove c'è sempre un'anima pia che consiglia all'infelice forforoso lo shampoo giusto; così il giorno dopo l'uomo o la donna in questione ritorna al lavoro sprizzando felicità da tutti i pori, e attira i membri del sesso opposto come una calamita. Se voleva, la sera successiva avrebbe potuto prendere forma di donna. Lo studio dell'anatomia femminile lo tenne occupato fino al calar del sole. Quando anche l'ultimo raggio scomparve dietro l'orizzonte, Neville immaginò la ragazza di un poster di Penthouse di cui si era innamorato e pensando alla quale si era masturbato spesso. Si lasciò dissolvere in nebbia, risalì in superficie e si trasformò in donna, calcolando attentamente ogni curva che appariva e gli abiti succinti che avrebbe indossato. Alla fine contemplò soddisfatto il suo falso corpo, poi si avviò verso il cancello. Ebbe nuovamente fortuna. Prima di raggiungere l'angolo della strada incrociò un signore di mezza età in elegante completo grigio. L'uomo teneva gli occhi fissi sul suo seno, che ondeggiava libero sotto la camicetta. Neville assaporò l'odore del sangue che stava scorrendo, caldo, nelle vene dell'altro. L'uomo lo guardò negli occhi. Neville sorrise. L'uomo, invece, spalancò la bocca e urlò inorridito. — Ma non ha la faccia! — gridò indietreggiando. Neville si fermò di colpo. Si portò le mani alle guance, che erano flaccide e senza forma... non aveva naso... Aveva la bocca, sì, ma era una bocca senza labbra... Era senza viso. Per quanto si sforzasse non riusciva nemmeno a ricordare il volto della ragazza del poster. Respirando a fatica, fece dietro-front, corse al cancello del cimitero e ri-
tornò nella sua tomba. Se la notte prima la sua buona stella gli aveva permesso di assaporare le prime sorsate di sangue, quella sera la sua stupidità lo aveva costretto a saltare il pasto. Aveva tutto il tempo che voleva per valutare gli errori che aveva commesso. La notte successiva provò di nuovo ad assumere i panni della donna dei suoi sogni e al suo corpo impose il volto di una ragazza che aveva conosciuto alle superiori: non era una bellezza da capogiro, ma poteva andare. Sera dopo sera Neville imparò a trasformarsi con sempre maggiore facilità. Assumeva spesso fattezze femminili e soltanto una volta si lasciò sfuggire una cena. Quando invece restava se stesso le cose si complicavano: per quanto perfezionasse i tratti del suo viso e indossasse abiti eleganti, la media delle sue conquiste si abbassava a una su quattro. Neville si domandò se ogni vampiro maschio avesse i suoi stessi problemi e giunse addirittura a chiedersi se la studentessa che lo aveva morso non fosse un maschio disperato sotto mentite spoglie. Poco tempo dopo notò le macchine della polizia e una sera lesse su un giornale un articolo che riferiva di una lunga catena di omicidi; sopra l'articolo un titolo a caratteri cubitali ammoniva: ASSASSINO SUCCHIASANGUE COLPISCE NEI BAR DELLA CITTÀ. La notte successiva Neville rimase senza fiato quando da una delle nuove tombe del cimitero vide uscire una delle sue vittime. Si rese conto che il numero delle potenziali prede rischiava di diminuire, tanto più che molti degli omicidi ascritti all'"assassino succhiasangue" non li aveva commessi lui. Ormai i suoi ex concittadini stavano riducendo drasticamente le uscite serali e la polizia era scesa in campo in forze. La situazione imponeva una nuova strategia. La sera successiva, al tramonto, Neville lasciò la sua tomba, comperò una bara, la riempì con un po' della terra in cui era stato sepolto e si trasferì in un'altra città. Appena arrivato prese in affitto un appartamento. Per arredarlo dovette accontentarsi dei mobili usati che si rimediano ai mercatini; ciò nonostante fece di tutto per creare un ambiente il più possibile sofisticato, in modo da potervi attirare le sue vittime e suscitare in loro un falso senso di sicurezza. Ma adesso la cosa più importante era un'altra: doveva decidere che tipo di vampiro voleva essere.
Anche se era interessante fare la parte della donna, a Neville non piaceva l'idea di travestirsi tutte le sere. Vampiro o no lui era un uomo e gli piaceva essere un uomo. La sua fame di sangue era grande, ma non abbastanza da annullare i condizionamenti che aveva subito in vita. Non gli importava se ciò significava essere un sessista o altro; il fatto era che bere il sangue di un uomo non lo eccitava come bere quello di una donna. Perciò... decise di cambiare. Studiò accuratamente la moda maschile e si fece un guardaroba mentale composto di capi all'ultimo grido e di grande eleganza; capi che indossava ogni volta in cui decideva di vestire panni maschili. Ma senza successo... Fu allora che, ricordando i sabati pomeriggio della sua fanciullezza e i sabati sera della sua adolescenza, decise di comprare una TV, un videoregistratore e tutte le videocassette sui vampiri esistenti in commercio. Per tutta la settimana seguente Neville non fece che guardare i film su Dracula della Universal e quelli inglesi prodotti in epoca successiva dalla Hammer. Dracula era il più grande vampiro che fosse mai esistito... ammesso che "esistito" fosse il termine esatto; eppure, non gli risultava che fosse mai stato costretto ad assumere sembianze femminili... Anzi, il vecchio Conte era sempre stato un rubacuori. Cortese e sexy. E gran parlatore. Ecco, lui voleva essere come Dracula. Dracula era intelligente. A quanto sembrava aveva commesso in Transilvania, sua terra natale, gli stessi suoi errori e anche lui era stato costretto a cercare pascoli più verdi. Ma quando si era trasferito in Inghilterra non aveva portato con sé una sola bara, ma due o tre decine di feretri, che aveva collocato nei punti strategici del suo nuovo territorio: grazie a questo stratagemma, compiva le sue gesta in posti sempre diversi ed era stato difficilissimo per i suoi inseguitori risalire a lui. E il suo modo di fare sexy e misterioso attirava le donne come mosche al miele. Neville introdusse un'altra cassetta. Si rendeva conto che avrebbe dovuto esercitarsi molto per diventare affascinante come il grande Conte. Purtroppo non poteva più farlo guardandosi allo specchio come soleva fare da bambino, ma continuò a guardare i film fino a quando imparò alla perfezione i gesti e le battute dei vari attori che avevano impersonato Dracula per il grande schermo. Provò lo stile di Chris Lee... quello di John Carradine... quello di Ferdy Mayne e di Frank Langella, ma il suo modello preferito restava sempre Bela Lugosi. C'era qualcosa nel suo autentico accento ungherese che lo affascinava, e
Neville si sforzò di assimilarlo nella speranza che avrebbe fatto colpo anche sulle donne che avrebbe avvicinato; era tentato di provare anche prima di averlo perfezionato, ma il pensiero di sentirsi ridere in faccia lo trattenne, perché se fino ad allora nessuna delle sue vittime aveva cercato di difendersi mostrandogli un crocifisso, non era convinto che quell'amuleto potesse avere un effetto più deterrente di uno scroscio di risa. Acquistò altre undici bare e le collocò in altrettanti appartamenti disseminati nella sua nuova città. Si sentiva meno vulnerabile adesso, ma non ancora sicuro di sé. Dopo aver guardato un'ultima volta un film con Bela Lugosi, si coricò nel feretro mentre fuori albeggiava. Non era ancora pronto, ma l'indomani sera, dopo cena, si sarebbe esercitato ancora un po' e chi lo sa, magari la notte successiva... Il sole si levò e descrisse il suo abituale percorso in cielo. Neville chiuse gli occhi e si immaginò nei panni di Dracula... anzi, come Dracula in persona. Dopo tutto il vero vampiro era scomparso da tempo, annientato dalla ferrea tenacia e dalla buona stella dell'anziano dottor Van Helsing. Che cosa c'era di meglio, anziché debuttare come il più grande dei nonmorti, anziché impersonarlo... diventare il leggendario Conte in persona? Il sole tramontò. Con il calar delle ombre, Neville sentì crescere dentro di sé il potere: quel potere che, notte dopo notte, imparava a conoscere e a controllare con sempre maggior perizia, e avvertì la presenza della città e delle creature che lo circondavano. Si trasformò in nebbia, scivolò attraverso le fessure della bara e prese corpo sotto le spoglie di una rossa di forme generose, con una minigonna e un top a rete. Un gilet di pelle gli copriva i grossi seni. Sotto non indossava né mutandine né reggiseno... solo un dolce profumo alla rosa. Neville diede una rapida occhiata all'appartamento e sorrise; poi uscì, chiuse a chiave la porta e si precipitò in strada. C'erano parecchi uomini in cerca di avventura quella sera. Ascoltò i loro pensieri, che erano così simili ai suoi, e sogghignò all'idea di quanto fosse facile metterli nel sacco. Essendo uomo anche lui, sapeva bene come attirare la loro attenzione e conquistarli senza faticare. E presto, molto presto, sarebbe stato altrettanto facile con le donne. Era in piedi accanto al muro del condominio, intento a vagliare i pensieri di chi passava, quando ne afferrò uno che quasi gli fece staccare la testa dal collo, tanta fu la rapidità con cui si voltò per seguirlo. Come mi piacerebbe farlo con lei... Il pensiero di una donna.
Neville vide che si trattava di una bionda tizianesca dall'espressione malinconica. Aveva i capelli corti, era piuttosto piatta ma aveva due bei fianchi. Indossava un paio di blue-jeans e un pullover... pochissimo trucco. Una lesbica. I loro sguardi si incrociarono e la donna arrossì. Era una lesbica. Neville sorrise. Un'idea si insinuò nella sua mente: aveva finalmente la possibilità di provare le battute che aveva imparato a memoria con una donna. Un attimo dopo era già accanto a lei. La lesbica abbassò gli occhi. Neville si sentì serrare la gola, ma riuscì a trovare il coraggio di allungare la mano e di sfiorarle il polso. La donna risollevò lo sguardo. — Sei bellissima — le disse Neville con la voce sottile che usava quando appariva in panni femminili. — Io... be'... anche tu — balbettò l'altra. — I tuoi occhi sono lo specchio dell'eternità. Vi vedo battere dentro il tuo cuore... e vi trovo riflessa la mia vita. La donna aggrottò la fronte, poi scrollò le spalle e rise nervosamente. La sua mano ruvida strinse quella di Neville e le sue dita cominciarono a strofinargli delicatamente la pelle. — Mi vuoi? — gli domandò. — Sì... e tu vuoi me. I corti capelli della donna furono percorsi da un brivido quando lei annuì, lentamente, come se fosse ubriaca... inebriata dalla promessa e dal trasporto che leggeva nei suoi occhi. Quella promessa e quel trasporto che, dopo lunghi esercizi, era riuscito ad assimilare da Bela Lugosi. — Ti voglio adesso — bisbigliò la lesbica con il respiro strozzato. — Adesso — ripeté Neville. — Adesso. Continuando a tenere la mano in quella di lei, Neville la condusse verso il portone del condominio. Salirono le scale, divorarono il corridoio breve e squallido che conduceva al suo appartamento ed entrarono direttamente in sala. Neville chiuse la porta a chiave e sorrise al pensiero che quella che per la maggior parte della gente era "una stanza di soggiorno" per tutti i suoi ospiti sarebbe diventata una camera di passaggio... di passaggio a miglior vita! Calma, calma. Doveva imparare a controllare i suoi impulsi se non voleva fare la fine di Dracula, che era stato tradito dalla sua stessa ingordigia. Meglio dissetarsi bevendo a diverse fonti piuttosto che prosciugare la pri-
ma e poi passare alla successiva. Neville stava imparando. Erano settimane, ormai, che la sua fame non mieteva cadaveri. Si era procurato una dozzina di "piatti" da cui attingeva un poco ogni sera, consumandoli lentamente. Ma quella era una donna. Non assaggiava sangue femminile da quasi quindici giorni e quella donna che lo desiderava intensamente, anche se non propriamente come uomo... Forse con lei poteva permettersi di andare fino in fondo... Sedettero sul divano l'uno accanto all'altra; la lesbica osservò l'arredamento, ammirò l'ambiente accogliente e annuì soddisfatta. — È il genere di posto che piace a me — disse. Poi aggiunse: — Mi chiamo Pete. Neville si leccò i denti che sentiva già formicolare. — Io per te sarò semplicemente Contessa. — Vostra maestà. Neville le sfiorò la coscia. — Ragazzi, ne hai di film sui vampiri, eh? Piacciono un sacco anche a me, soprattutto quelli in cui le donne-vampiro azzannano altre donne. Come nei film di Karnstein. Mmm, mi fanno impazzire. — Davvero? — Invece, non sopporto gli altri. Specialmente quelli interpretati da quello spaccone di Bela Lugosi. Hai presente: "Foglio bere il tuo sangue"... "Foglio morderti il collo"... Se quella sera Neville avesse già mangiato si sarebbe sentito ribollire il sangue. Con la forza soprannaturale di cui era dotato vibrò alla donna un potente manrovescio... e guardò il suo corpo rimbalzare sul divano prima di cadere con un tonfo sul pavimento. La donna giacque immobile. — Schifosissima lesbica — mormorò Neville tuffandosi sul torace di lei che si sollevava appena. La spogliò e quando chiuse le labbra attorno al suo seno flaccido sentì battere il suo cuore. — Foglio succhiarti il sangue — disse imitando l'accento del suo idolo. Era squisita. Davvero fantastica. Tracannò con gusto il contenuto delle sue vene, assaporandone ogni goccia. Se la bevve tutta... lentamente. Molto lentamente. Fino in fondo. Poi Neville indugiò alcuni minuti a contemplare il suo corpo immobile, come se fosse un trofeo. Ma non poteva aspettare oltre: entro breve avrebbe cominciato a decomporsi e a puzzare... e lui non voleva la concorrenza
di un altro vampiro in quella zona. Andò in cucina, prese un coltello da macellaio dall'unico mobile che ne costituiva l'arredo e, dopo essersi inginocchiato accanto al cadavere, affondò la lama nella carne tenera. Naturalmente non ci fu spargimento di sangue. Fu una cosa pulita. Neville lavorò in fretta: smembrò il corpo della donna e ne mise i pezzi in tre sacchi di plastica. Avrebbe atteso la mezzanotte, dopo di che sarebbe uscito e li avrebbe sepolti in altrettanti posti diversi, fuori dalla cinta della città. Sorrise al pensiero della sua superba interpretazione... e al ricordo del sangue squisito della sua vittima. Accese la TV e inserì la cassetta di Dracula. Poi si accomodò sul divano e ripeté le battute di Bela Lugosi, sforzandosi di migliorare la propria pronuncia. La sera dopo non avrebbe più indossato i panni di un'avvenente fanciulla, ma sarebbe stato se stesso... per la prima volta sarebbe stato il "nuovo" Neville. E avrebbe conquistato una donna... una vera donna. Quel pensiero gli fece venire l'acquolina in bocca. Benché le finestre fossero oscurate da spessi pannelli di cartone, allo spuntare dell'alba Neville sentì scemare il suo potere. Decise di coricarsi nella bara e di riposarsi. Non voleva rischiare di mandare tutto a monte ostinandosi a restare in piedi anche di giorno. La sua anima seguì il percorso del sole nel cielo, mentre la sua attesa cresceva di minuto in minuto. Disteso sui cuscini di seta del suo lussuoso feretro, Neville ripeté mentalmente le battute del film... immaginando i gesti maestosi con i quali le avrebbe accompagnate. Mancavano soltanto poche ore, adesso. Ma trascorsero lente, più lente che mai. Prima di coricarsi si era liberato dei resti della cena, che aveva sepolto con cura in tre luoghi diversi; poi, di ritorno in città si era fermato in un negozio ad acquistare un giornale e aveva verificato con piacere che non riportava nessuna notizia di morti misteriose. Con ogni probabilità era il solo vampiro della regione e la polizia avrebbe impiegato settimane per scoprire le spoglie smembrate della lesbica, ammesso che le trovassero. Un ragazzo foruncoloso che era uscito dal negozio, tracannando latte da una confezione di cartone, si era fermato a guardarlo di sottecchi e poi aveva attratto la sua attenzione con un fischio di approvazione. Lui, che era in piedi accanto alla sua macchina, una bellissima Honda del 1986, con due strisce rosso fuoco lungo le fiancate, si era voltato di scatto e lo aveva incenerito con lo sguardo. Il ragazzo aveva fischiato di
nuovo, sorridendo e spogliandolo con gli occhi. Era stato soltanto in quel momento che si era reso conto di essere ancora vestito da donna; allora si era affrettato a mutare espressione e gli aveva sorriso a sua volta. — Sei bella — aveva azzardato il giovane. Il suo sangue ribolliva di desiderio ed aveva un buon profumo ma, pensando a quello che il futuro aveva in serbo per lui, Neville aveva deciso di trattenersi. Poi, però, si era ricordato della prostituta bionda che aveva incontrato al bar la seconda sera della sua nuova vita. — Lo so di essere bella — aveva replicato sicuro di sé. — Ti piace quello che vedi? Adesso il ragazzo sorrideva anche con gli occhi oltre che con la bocca. — Cinquanta dollari. Il sorriso era svanito subito dal viso foruncoloso del giovane, che aveva abbassato di scatto la testa e affondato le mani nelle tasche dei calzoni. Dopo un po' aveva tirato fuori una misera banconota da cinque dollari. — Non bastano — aveva detto Neville scuotendo la testa. Lo divertiva l'idea di tormentarlo e aveva sollevato la gonna di un paio di centimetri, per mostrargli le gambe sode e sexy che aveva immaginato. A quel punto il ragazzo aveva lanciato una rapida occhiata al negozio, poi aveva alzato una mano e, deglutendo con forza, gli aveva detto: — Aspetta un attimo. Lui lo aveva seguito con lo sguardo mentre rientrava nel locale e aveva soffocato una risata quando il giovane aveva estratto un coltello dai jeans sdruciti e aveva minacciato il cassiere. Poi aveva spalancato la portiera della macchina, si era seduto al volante ridendo di gusto, e quando il ragazzo era uscito correndo con un pugno di banconote in mano aveva ingranato la prima e aveva accelerato, lasciando il poverino a urlare ai fumi di scarico della sua Honda e a sputare bestemmie nella notte. Era bello ridere, pensò Neville, sapendo che adesso nessuno avrebbe più riso di lui... Quei pensieri lo aiutarono a far passare il tempo più velocemente e, quando sentì che il sole era prossimo al tramonto, cominciò a rivedere, voce per voce, tutti i dettagli del suo abbigliamento. Ripeté più volte la lista delle cose che avrebbe dovuto immaginare. Si sentiva come la sera del ballo studentesco, quando aveva scelto di far da cavaliere a una ragazza con la faccia di cane. Era super pronto quella sera, ed ebbro di desiderio, nonostante lei fosse davvero brutta. Però aveva un bel culo e correva voce che cedesse con più facilità di un chewing-gum.
Ma aveva dimenticato i preservativi. E lei si era arrabbiata così tanto che non aveva voluto nemmeno masturbarlo. Gli era servita di lezione. Quella volta avrebbe ricordato tutto e non avrebbe commesso errori. Per fortuna, le esperienze fatte in precedenza gli avevano insegnato quanto fosse importante pensare alle cose in anticipo. Il sole tramontò. Una chiave ruotò nel sistema d'accensione soprannaturale di Neville e desideri famelici fluirono insieme al potere nelle sue vene come la benzina nel motore. Immaginò la sua nuova personalità come quella di un Dracula amabile e mondano, con tanto di gemelli d'oro ai polsini della camicia... Per un attimo rischiò di dimenticare i tratti del suo viso, ma all'ultimo istante riuscì a visualizzarli e trasse un profondo sospiro di sollievo. Prese nota mentalmente di fissare bene quell'immagine nella sua memoria. Finalmente era il Conte Neville. Rise soddisfatto. Quella sera sarebbe stato quello che aveva sempre sognato di essere. L'aria della notte era frizzante. Neville si avviò lungo il marciapiede. Lanciò un'occhiata al giornale della sera, esposto nella locandina di un'edicola, e decise di comprarlo. C'era un certo via vai di cani e di persone dall'espressione imbronciata, ma in poco tempo le strade si sarebbero svuotate. I cani lo evitavano e uno strano radar interno impediva alla maggior parte dei pedoni di passargli rasente. Neville guardò sotto i titoli a caratteri cubitali e rimase senza fiato quando vide un viso familiare che lo fissava da una fotografia in bianco e nero, pubblicata accanto a un trafiletto: MORTA TAMRA WILLIS. Il viso della lesbica. Neville lesse l'articolo d'un fiato, grugnendo sottovoce. A quanto sembrava, un cane aveva disotterrato la testa della donna in un campo abbandonato alle prime luci dell'alba. Maledetto cagnaccio. Ma subito dopo Neville sorrise. Nessun indizio. Niente che facesse sospettare qualcosa di diverso da un naturale dissanguamento del cadavere. La polizia attribuiva l'omicidio a un pazzo e aveva orientato le proprie indagini in quel senso. Neville ripiegò il giornale e lo lasciò cadere sul marciapiede. Alcuni passanti mormorarono qualcosa, ma le loro voci si confusero in un incomprensibile bisbiglio. Nessun indizio.
In ogni caso, quella sera sarebbe stato più attento. Guardò di sfuggita i volti chini che gli venivano incontro, poi si diresse verso la sua Honda. La portiera si richiuse e lui accese il motore. Aveva scelto un night-club per quella sera. Un locale pieno di bambole calde e succulente. Non si sarebbe accontentato di una lesbica o di una puttana, questa volta... e nemmeno di una moglie sola e disperata. Neville raggiunse la periferia della città e parcheggiò fra una Cadillac e una Mercedes. Un giorno anche lui avrebbe avuto una macchina come quelle, ma ehi, un po' di pazienza, il nuovo Dracula doveva pur cominciare da qualche parte. Scese dall'auto e si fermò alcuni istanti a rivedere per l'ultima volta i gesti e le battute che aveva studiato con tanta cura; quindi percorse gli ultimi dieci metri che lo separavano dall'ingresso. Quel night-club era decisamente uno dei locali più chic della città. I suoi muri sembravano quelli di un castello... maestosi e riccamente decorati; solo le luci al neon collocate nelle finestrelle che vi si aprivano in modo irregolare rovinavano l'effetto. IL CASTELLO DI DRACULA, crepitavano le lettere rosa-arancione dell'insegna appesa sopra la grande porta di ingresso. Neville si fermò a osservarla e un sorriso compiaciuto gli increspò le labbra. Da quale posto migliore poteva cominciare il nuovo Dracula per rifondare il suo regno? La luce di due potenti fari si infranse sul muro di fronte a lui e Neville sentì una macchina parcheggiare alle sue spalle. Spinse la porta di cedro grezzo e si inoltrò in un corridoio buio, allibendo di fronte alla baraonda di luci, voci e rock'n'roll che proveniva dalla sala principale. Esitò un attimo, cercando di concentrarsi in mezzo a quel frastuono. I suoi occhi captarono da un lato il distributore automatico di sigarette e dall'altro l'attaccapanni, che era quasi pieno. — Buona sera — bisbigliò Neville, aggrappandosi disperatamente al personaggio che aveva immaginato. — Buona sera. Lei è il più bel fiore che io abbia mia visto nel giardino della vita. Mi concede l'onore di offrirle da bere? Sorrise: le parole gli fluivano con naturalezza dalle labbra, ricompensandolo di tutti i suoi sforzi. Per quanto non riuscisse quasi a sentirsi in mezzo a quel frastuono, sapeva di stare recitando alla perfezione. Corrugò le labbra in un sorriso in parte sinistro, in parte incantatore, pregustando anche la controbattuta: — No, grazie... Io non bevo mai... vino. Una mano gli toccò la spalla. Neville trasalì e si voltò di scatto sgranando gli occhi per la sorpresa: il
suo sguardo incrociò quello della più bella femmina che avesse mai visto. Aveva il viso snello, ma volitivo... labbra carnose color del rubino, come il sangue che vi scorreva sotto... — Oh... Ih — esclamò con il respiro strozzato, poi cercò di ricomporsi. — Vo... Volevo dire... Buona sera... La donna gli rivolse il lampo di un sorriso e lo superò sfiorandolo leggermente. Neville sentì la sua pelle fredda, ma fu una sensazione fugace, che si consumò in un attimo. Esitò di nuovo. La voleva, aveva già scoperto la creatura con cui desiderava soddisfare i suoi appetiti. In quello stesso istante lei si voltò e i suoi occhi gli sorrisero. Quando si girò di nuovo e riprese a camminare, Neville deglutì con forza e la seguì all'interno della sala. Le luci stroboscopiche erano accecanti e il rumore era assordante. Neville ripensò alle sue passate conquiste... soprattutto al modo in cui la sera prima era riuscito ad affascinare "Pete". Era una prova che il suo potere funzionava anche con le donne. Quindi i suoi successi futuri dipendevano soltanto dal modo in cui sarebbe riuscito a far uso di quel potere, e con tutte le prove che aveva fatto e quello che gli avevano insegnato le sue precedenti esperienze, era sicuro che avrebbe saputo usarlo bene! Si guardò attorno ed esaminò i gruppetti seduti attorno ai tavoli. Belle ragazze elegantemente vestite... signore più mature... uomini che portavano lo smoking, anche se non raffinato quanto il suo. Neville sorrise. Se la donna che si proponeva di conquistare era un fiore in un prato di erbacce, lui era una quercia centenaria in mezzo a miseri alberelli. Era di nuovo un uomo. La donna era in piedi al bar. Neville le si avvicinò nel momento in cui il barista sollevava lo sguardo su di lei. L'uomo del bar era più vecchio di lui e stava masticando un chewing-gum. Sorrise alla donna e lei abbassò pudicamente gli occhi. — Un brandy con ghiaccio — sussurrò con voce velata. — Doppio per la signora — disse Neville in fretta, guardandola diritto negli occhi e facendo appello a tutto il suo potere per incantarla. La donna aggrottò la fronte e il barista inarcò le sopracciglia, ma quando finalmente lei annuì con un cenno del capo, obbedì. Neville soffocò una risata e lasciò cadere con nonchalanche la mano sul polso di lei. — Non sfidi la sorte — bisbigliò la donna. Sbigottito, Neville ritrasse la mano e distolse lo sguardo. Si sentiva... confuso. Il vago senso di irritazione che provava si stava rapidamente tra-
sformando in ostilità, frustrazione e sgomento. La donna gli aveva resistito. Riconsiderò il repertorio di gesti e di parole che aveva messo a punto nel corso di quelle ultime settimane; ricordava come era stato facile catturare la lesbica la sera prima, e tutti gli uomini... e perfino le poche donne. Gli erano sempre bastate poche parole e un'occhiata per conquistare le sue vittime; in fondo adesso era potente e, anche prima di ispirarsi a Bela Lugosi, era sempre riuscito a sedurle tutte con il suo sguardo ammaliatore. Lei, invece, gli aveva resistito. Neville rifletté un'ultima volta sulla sua tattica e alla fine si voltò di nuovo verso la donna. Il barista le porse il bicchiere e lei lo strinse fra le dita affusolate ed eleganti... perfette come il resto del suo corpo. — Mi chiamo Neville — disse forzando l'accento straniero e concentrando i suoi occhi in quelli di lei, profondi e blu. — Sono arrivato da poco in questo paese... Lei sbadigliò e si voltò dall'altra parte. Dove aveva sbagliato? Neville si incupì. — Lei come si chiama? La risata stridula della donna lo fece trasalire, ma quando lei si girò a guardarlo socchiuse gli occhi e intensificò lo sguardo. La donna scosse la testa. — Sono così importanti per lei i nomi, Neville? Era come se il suo potere si fosse dissolto nel nulla. — Io sono... il Conte Neville, un discendente della famiglia Dracul — disse annaspando come un pipistrello sordo. — Nome e posizione sociale sono molto importanti. — Ah sì? — Le sue labbra tremarono. — La famiglia Dracul? Neville si rabbuiò e fece disperatamente appello a quella sicurezza interiore che si era costruito con tanta fatica. — I nomi sono molto importanti — ripeté. — Come il suo aspetto. Lei è... È così bella... — Le interessa così tanto la bellezza, Neville? Le preme così tanto fare colpo sugli altri? Questa volta fu lui a ridere; finalmente poteva ribaltare le sue risposte a suo vantaggio. — È una questione di potere — le rispose con voce calda. — Nome, posizione sociale e aspetto esteriore sono simboli di potere. La donna sollevò il bicchiere e lo accostò alle labbra. — Non può non essere d'accordo — la punzecchiò lui, — altrimenti non si vestirebbe e non si truccherebbe così, no? — Touché, Conte Neville. — Le sue lunghe ciglia nere indugiarono a
mezz'asta, accentuando il suo fascino. — Ma il mio look ha un scopo preciso. Nome e posizione sociale significavano tutto un tempo... un tempo. Neville scosse la testa. — Per me significano ancora molto. — Allora sta cercando di fare colpo su se stesso? Ancora una volta le sopracciglia di Neville si scontrarono con apprensione sopra il naso e alla debole risata della donna lui abbozzò. Si lambiccò il cervello alla ricerca di un nuovo approccio e si sforzò di vincere l'insistente balbettio. — A... Anch'io ho i miei buoni motivi... La donna sorrise, bevve un altro sorso di brandy e sbadigliò. — Posso sapere qual è lo scopo per cui si veste e si comporta così? — le domandò all'improvviso, cercando di recuperare il terreno perduto. Risate sommesse. Neville si voltò e vide che svariate persone lo stavano osservando. Gli uomini e le donne seduti ai tavoli e sugli sgabelli vicini stavano ridendo di soppiatto... ridevano di lui... e dei suoi maldestri tentativi di seduzione. — Allora non mi risponde? — Il tono della sua voce era più deciso adesso. Lei sogghignò, ammiccando al signore anziano seduto sullo sgabello accanto al suo. Neville abbassò la testa. — Il mio scopo è quello di fare colpo su chi è pronto a lasciarsi conquistare, conte Neville. Scroscio di risate divertite. Neville si allontanò dal banco. Il signore anziano sussurrò qualcosa alla donna e la sua risata argentina si levò al di sopra di tutte le altre. — No — bisbigliò Neville. Ripensò alla sua vita e a tutti i rifiuti, le frecciate e i sorrisetti di scherno che aveva dovuto subire. Aveva sempre desiderato avere potere e prestigio e per lui il fatto di essere diventato un vampiro era stata più una benedizione che una maledizione. Aveva agognato a lungo il potere che ora possedeva e si era esercitato per ore e ore per affermare il suo nuovo status. Dracula avrebbe mai permesso a qualcuno di trattarlo così? — No. Neville chiuse gli occhi, serrò e distese nuovamente le dita, poi tornò al bar. Abbassò con forza una mano sulla spalla della donna e sfregò il pollice contro la pelle soffice del suo collo. — Io non accetto mai un no come risposta. Lei stava ancora parlando con il signore anziano, ma si girò lentamente verso di lui. Lo faceva quasi impazzire.
— Sei un tipo deciso, eh, piccolo bastardo di un conte? — I suoi occhi color del mare si addolcirono in un'espressione che era quasi di pietà. Neville sbuffò. — Allora qual è il tuo scopo? Devi pur averne uno. Perché ti vesti in modo da fare colpo sugli altri? — Sono venuta qui alla ricerca di un uomo — rispose la donna, poi sospirò. — Ma penso che questa sera non sarà il tuo turno. Un altro sbuffo. — Tu mi vuoi — disse Neville. — Lo leggo nei tuoi occhi. Non puoi resistere al mio fascino... La donna sospirò. — D'accordo, conte, come vuoi. Da me o da te? Fu lui a ridere quella volta. Neville le prese la mano e la strinse con forza. — Ti farò vedere cose che non hai mai nemmeno osato sognare... Ti... Lei lo trascinò verso la porta. — Su, andiamo, conte. E facciamola finita una volta per tutte. Le sue parole non lo impressionavano più adesso. Era una tipa decisa, molto più difficile da conquistare di qualsiasi altra donna, ma era ugualmente riuscito a sedurla. Aveva vinto. Presero la Honda di Neville e si diressero verso il suo appartamento. Si sentiva di nuovo sicuro di sé adesso. Mentre guidava, Neville riempì l'abitacolo di vibrazioni psichiche della sua energia e del suo potere. La donna continuava a ridacchiare, ma lui sapeva che si comportava così soltanto perché era confusa e aveva paura. Benché si ostinasse a negarlo, era affascinata dal suo charme... dai suoi modi esotici e virili. Neville parcheggiò, poi scese e si precipitò ad aprirle la portiera, in un'improvvisazione degna di Bela Lugosi. Lei gli prese la mano e si diressero insieme verso l'ingresso del palazzo. — Abiti qui? — Soltanto per il momento. Lei annuì. Salirono le scale. Aveva vinto! — Mi dicevi — riprese la donna mentre entravano in soggiorno, — che sei arrivato da poco nel nostro paese. Ma forse sono molte le cose che ancora non conosci, oltre a questo paese. — Al contrario. Ti farò vedere cose di cui non sospettavi neppure l'esistenza. Lei si sedette con nonchalance sul divano, mostrandogli un'ampia porzione di coscia. — Non mi farai vedere un bel niente — rise la donna. — Tu sei troppo affascinato da te stesso, Conte Neville. Forse riesci a fare colpo sugli altri,
ma non hai ancora imparato che per aver successo bisogna sapersi adattare ai tempi. Neville sgranò gli occhi per la sorpresa. Lei lanciò un'occhiata alla sua collezione di videocassette. — Adesso per appagare i tuoi desideri devi rinunciare a quello che sei. La tua identità non conta più nulla. La sola cosa che ti deve restare è la sete di sangue. Devi rinunciare al tuo orgoglio. Non c'è posto per l'orgoglio quando si tratta di mangiare. Neville spalancò la bocca, scoprendo i denti aguzzi, ma non per morderla, per lo sbigottimento. — Il tuo accento e la tua alterigia sono superati. Il progresso tecnologico ha provocato la scomparsa di migliaia di specie animali e l'evoluzione sociale sta seriamente minacciando l'estinzione della nostra. — Ma... Ma tu chi sei? — urlò Neville. — Sono Dracula — gli rispose dolcemente la donna dal corpo tornito e voluttuoso. — Un nome che oggi suscita soltanto ilarità e che non desterà mai più terrore nell'animo di nessun uomo. L'eccessiva familiarità fa perdere il rispetto. Per anni ho cercato di conservare il mio amor proprio, Neville, ma poi ho capito che non ha senso. Nella morte... nel nostro genere di morte, l'unico scopo che ci resta è quello di procurarci il sangue di cui abbiamo bisogno. Il tempo dei nobiluomini è passato. Il femminismo, l'aumento degli stupri e l'AIDS hanno reso le donne molto caute nei confronti degli uomini che non conoscono. Per cui l'unico obiettivo della nostra esistenza è diventato quello di soddisfare la nostra fame... Neville indietreggiò incerto. Sentiva la fame che la donna gli ricordava. — Succhierò il tuo sangue. — Non mi far perdere tempo, Neville. Ho intenzione di succhiare io il tuo. Non è mai un granché bere sangue di seconda mano, ma sarà il tuo modo di ricompensarmi per questa lezione di vita. — La donna che sosteneva di chiamarsi Dracula sferrò un calcio alla pila delle videocassette, facendole crollare sul tappeto. — La vita non è un film, e nemmeno la morte, okay? — Tu non puoi essere Dracula. Van Helsing ti ha ucciso... — Quelli sono solo film, Neville, non l'hai ancora capito? La donna Dracula lo afferrò per le spalle e le sue dita forti come l'acciaio lo bloccarono. Ebbe facilmente ragione dei suoi tentativi di liberarsi e, dopo averlo tratto a sé, gli strappò il colletto della camicia e chinò il viso sulla sua pelle fredda. Poi gli affondò i denti aguzzi nella gola e aspirò il poco
sangue che gli restava con la potenza di un aspirapolvere industriale. Che male faceva! Faceva molto male. Neville non provò l'estasi strana della sera in cui la ragazza della scuola lo aveva prosciugato, ma un senso di morte, quella morte che gli avevano sempre insegnato a temere. Il potere e l'energìa di cui si era compiaciuto gli vennero meno con tale rapidità che, se le robuste braccia della donna non lo avessero sostenuto, sarebbe caduto per terra. A un tratto si sentì sprofondare in un buco nero al centro del suo corpo; proprio in quel momento le mani che lo reggevano mollarono la presa e lui cadde sul pavimento. Non aveva nemmeno più la forza di sollevare un dito. La donna era in piedi sopra di lui e lo guardava con un sorriso cattivo, mentre un rivolo scuro le colava dalle labbra lungo il mento. — Se ti può consolare, fai schifo. Non c'è niente di peggio del sangue congelato... È come masticare un chewing-gum sputato da un altro. — Si asciugò la bocca e i denti aguzzi. — Se riesci a raggiungere la tua bara prima che sorga il sole, pensa a quello che ti ho detto, conte Neville. Sei morto, ok? Non devi dimostrare niente a nessuno. Sangue. Pensa solo a quello e al modo più semplice per procurartelo. Neville gemette. — Non ti scordare questa lezione. Forse dovrei fare l'insegnante... — Poi si avviò alla porta, l'aprì e prima di andarsene si voltò un'ultima volta a fissarlo con quei suoi occhi profondi e blu. — Se vuoi la macchina, te la lascio al night, okay? Adesso torno a vedere se riesco a farmi quel tizio di prima. Scommetto che è squisito. — Ma tu... — sibilò Neville spingendo fuori l'aria con tutta la forza che poté. — Tu sei davvero il conte Dracula? La donna socchiuse gli occhi e annuì. — Foglio succhiare un po' di sangue, Neville. La porta si chiuse e Neville fu sopraffatto da un improvviso, tardivo rimpianto per tutte le cose della vita... per le scelte che non poteva più fare. La vita era stata cattiva con lui, gli aveva offerto molto poco, ma almeno gli aveva sempre lasciato aperta la possibilità di scegliere fra la vita e la morte. Adesso c'era soltanto la morte. Era morto, ma non-morto e privo della vita che gli permetteva di continuare... E poche ore dopo sarebbe sorto il sole.
Titolo originale: A Matter of Style (1991) Ed Gorman PROCEDURA DI SELEZIONE L'uomo che si faceva chiamare Skylar chiamò al telefono Reardon da San Francisco e gli disse dell'incarico. — È una cosa speciale, Frank. — Naturalmente, tutti gli incarichi di Skylar erano speciali. Per questo erano pagati così bene. Reardon ascoltò i particolari e dopo qualche esitazione, dovuta al fatto che su alcuni punti Skylar sembrò di proposito alquanto vago, accettò. Dopotutto Skylar offriva centomila dollari, una bella cifra persino per un omicidio. Skylar non fece nomi, naturalmente. Non era sua abitudine. La gente andava da lui e gli spiegava di che cosa aveva bisogno, e allora lui trovava le persone adatte a ciascun lavoro. Come un buon dirigente di ogni agenzia di collocamento dovrebbe fare. — Certo — gli stava dicendo al telefono. — Ti manderò le istruzioni per raccomandata, con la posta di stasera. — Dopo di che riappese. Ventiquattro ore più tardi, Reardon atterrava in una grande città dell'Ovest. Prese una comoda stanza in un comodo hotel, non proprio in centro, passò la maggior parte del pomeriggio in maglietta e mutande a guardare una partita alla televisione e infine iniziò a predisporre i piani per la serata. Non era l'idea di andare a uccidere qualcuno che poteva mettere Walter James Reardon in quello stato di leggera inquietudine. Dopo essere sopravvissuto a diciotto mesi di Vietnam e poi a diversi anni di rapine a mano armata, lavorando dalle cinque alle dieci a tentare di sventarle, Reardon aveva conquistato l'assoluta convinzione che la vita non fosse davvero così preziosa come i preti e i politici andavano blaterando in giro. Gli umani non erano che una specie animale fra le altre, e come le altre si agitavano senza scopo sopra un pianeta senza scopo. Si viveva e poi si moriva. Annientamento totale del corpo e della mente. Il suo vecchio l'aveva sempre detto: "Non bisogna agitarsi troppo, nella vita. Non lo fanno i cani e non vedo perché dobbiamo farlo noi". No, non era l'idea di dover ammazzare che lo inquietava. Era il modo in cui gli ordinava di farlo chi aveva scritto quella lettera. Voglio che tu prenda una tanica di benzina, la versi sopra la ragazza che sta a letto e poi le dia fuoco. Lasciala bruciare per un po' e poi spegni il fuoco. Accertati che sia morta, prima di andar-
tene. Pago una cifra enorme per questo lavoro perché voglio che i miei ordini siano eseguiti alla lettera. Si chiese chi fosse l'uomo che scriveva, e come si poteva arrivare a odiare così tanto una donna da volerla bruciare viva. Non era stato Skylar a scrivere la lettera. Era stato l'uomo che voleva quella donna morta. Per cena, Reardon prese un panino imbottito e una Miller Lite. Stava ingrassando di nuovo, lo vedeva dalle guance e dall'addome rotondo. E sebbene le sole donne che lo vedevano nudo fossero prostitute, anche le prostitute hanno occhi, non è vero? La macchina che prese a noleggio era una Chevrolet verde. Andò poi in un magazzino all'ingrosso e comperò una torcia e una tanica rossa di plastica, poi una pianta della città. Fermo in un parcheggio, studiò la pianta con attenzione, cercando la via più comoda per raggiungere e poi lasciare il posto, controllando specialmente gli accessi all'autostrada, nel caso qualche cosa andasse male; finalmente si sentì pronto. Doveva solo procurarsi cinque litri di benzina. Negli anni di scuola Reardon e i suoi amici usavano scorrazzare per quartieri simili a questo, quartieri dove abitavano asini tirati a lustro, che avevano grandi case bianche e le Volvo e le Cadillac parcheggiate nei vialetti. Fantastiche ragazze bionde vivevano regolarmente in questi luoghi; ragazze che non avrebbero mai nemmeno concepito l'idea di spartire qualcosa con Reardon e con i suoi compagni, che si limitavano a guardarle sbavando. Forse, dopo tutti quegli anni, adesso lui aveva la possibilità di uccidere una di quelle troie altezzose. Magari si trattava di una puttana dorata che se la faceva col maestro di golf al club, e l'avvocato suo marito era arrivato al punto di non tollerarlo più e aveva deciso di liberarsene. L'unica cosa che lo inquietava era il fatto di darle fuoco e bruciarla viva. Nonostante le avesse provate tutte... La casa che cercava era a metà dell'isolato. Fortunatamente, le ville di fianco erano buie e silenziose. Non rallentò neppure. Aveva bisogno solo di darle un'occhiata. Era diretto al vialetto che stava dietro la casa. Dopo aver parcheggiato vicino al garage, Reardon uscì dalla macchina, portando con sé la tanica. La benzina ondeggiò nel recipiente e, schizzando
fuori, gli bagnò le mani e i pantaloni. Egli imprecò. Aveva la paranoia di essere sempre immacolato e di non puzzare. Era stato uno di quei soldati che passavano ore a lustrarsi gli stivali. Fra l'erba, qua e là, si vedevano le lucciole; il prato era stato appena falciato e un profumo di fieno stava sospeso nell'aria; in fondo all'isolato un cane abbaiò e fece tintinnare la catena, correndo per tutta la sua lunghezza per arrestarsi infine con uno strattone al collare. Reardon si ricordò di quand'era un marine. Sapeva che cosa stava provando in quel momento quel cane, legato nel buio. Il mittente della lettera aveva accluso la chiave della porta sul retro. Reardon rimase immobile per un poco nell'oscurità risonante di grilli, osservando le ombre nette disegnate dalla luna. Guardò a sinistra, a destra, in su e in giù. Scrutò ogni angolo dove un essere umano potesse immaginare di nascondersi. Non vide nessuno. Nessuno. Ma non si poteva mai dire. Da qualche parte, e molto vicino, qualcuno poteva essere acquattato a osservare ogni suo movimento. A controllarlo. Toccò la Colt .45 agganciata alla spalla, sotto il giubbotto estivo chiaro. In caso qualcosa non funzionasse, poteva sempre contare su di essa. Aprì la zanzariera della veranda posteriore. Sedie e tavoli da giardino stavano in un angolo, nell'ombra. Nell'aria si percepiva un lievissimo odore di sigarette e di whisky. Con la tanica in mano, raggiunse la porta e la tentò, ma era chiusa a chiave; allora infilò la chiave nella toppa. Pochi attimi dopo, saliva i quattro gradini che conducevano in cucina. Nella luce d'argento della luna, la cucina odorava di noce moscata e di paprika e di caffè. Ma nessun odore era forte quanto quello della benzina che trasportava. Di nuovo rimase immobile, ascoltando. Il suo cuore aveva preso a battere più velocemente. Non tentava mai di ingannarsi. Pur essendo duro ed esperto, affari come questo erano comunque sempre un maledetto rischio. Qualcosa poteva andare storto. Qualunque cosa. Il motore del frigorifero si mise in moto. Sulla strada, fuori, passò un'automobile. Il cane in fondo al viale abbaiò di nuovo. Reardon si mosse. Attraversò una grande sala da pranzo. Immaginò una cameriera nera nell'atto di servire a gente elegante del filetto al sangue, succulento e grondante oltre ogni immaginazione. I discorsi sarebbero stati sulla borsa e sulla politica, e magari sullo sport. Dopo la guerra, nei giorni
in cui pensava di poter diventare un eroe di professione, era stato invitato in diverse case di ricconi. Ed era così che loro vivevano. In quei casi si era sempre sentito solidale con le cameriere, sapendo fin troppo bene come avrebbero desiderato rovesciare in testa quei cibi alle mummie che dovevano servire. Il soggiorno aveva un enorme camino di pietra. Le librerie, incassate nelle pareti, davano al luogo l'aria di una tana. Secondo piano, la stanza centrale diceva la lettera. Reardon iniziò a salire la scala a chiocciola. Sudava, adesso. Sudava sempre quando era al lavoro. Era la tensione. I suoi novantacinque chili gravavano sui gradini di legno. La scala scricchiolò lamentosa. Giunto in cima si fermò ancora una volta. Lassù, il suono dominante era quello dell'acqua nei tubi. Quella casa doveva avere una cinquantina d'anni, e probabilmente i tubi dovevano essere sostituiti. Iniziò a percorrere il corridoio. Sorpassò una stanza con la porta chiusa. In situazioni simili, le porte chiuse lo terrorizzavano. Posò la tanica della benzina e impugnò la sua .45. Non era un'arma ultimo modello ma vi si era abituato, quando stava nei marine, e non vedeva ragione di sostituirla. Posò la mano sulla maniglia. Avvicinò la testa, ascoltando. Con un sol colpo, silenzioso, spalancò la porta e ricadde su un ginocchio, pronto a sparare. La luce spettrale della luna filtrava attraverso i tendaggi leggeri, che si gonfiavano alla brezza della finestra aperta. Un grande letto di ottone e mobili antiquati. Niente di cui preoccuparsi. Si rialzò, sollevò la tanica di benzina e proseguì. Ma non ripose la .45. In mano, gli dava sicurezza. Vide la camera centrale, ma non si fermò. Arrivò alla fine del corridoio e controllò tutte le altre camere. Avevano tutte la porta aperta e l'ispezione non richiese molto tempo. Nulla. Nessuno sarà in casa tranne la giovane donna nel letto. Questo aveva assicurato il mittente della lettera. E fin qui aveva avuto ragione. La tanica in una mano, la .45 nell'altra, Reardon tornò verso la camera
centrale. La porta non era chiusa del tutto, si scorgeva una fessura. Reardon la spinse leggermente con il piede. Il battente si aprì senza rumore. E subito, lui si accorse che c'era qualcosa di strano. Ma la cosa preoccupante era che non riusciva a capire che cosa. Tuttavia la camera in penombra gli inviava uno strano messaggio. Avanzò di un paio di passi. Questa era la camera più piccola del secondo piano. E, mentre le altre erano arredate in maniera pomposa, questa era tappezzata di carta rosa con su disegnati grandi orsacchiotti di peluche che spuntavano da boschetti frondosi. Sotto le finestre aperte stava un minuscolo triciclo e contro la parete di destra scaffali pieni di bambole, di ogni tipo e dimensione. Gli sembrò curioso che le finestre non avessero tende né imposte. E improvvisamente capì perché l'istinto l'aveva messo in guardia, entrando nella camera. Questa era la stanza di una bambina. Non di una "giovane donna", come la lettera diceva. Una bambina. Lei dormiva distesa nel lettino contro la parete di sinistra. Due minuscoli codini biondi spuntavano di sopra alla coperta. Posò la tanica e rimase fermo, sbalordito. Mai prima di allora aveva considerato la possibilità di uccidere un bambino, e ora che doveva prendere una simile decisione non sapeva cosa pensare. Chi poteva voler uccidere una ragazzina? E in un modo così terribile? Ripose la .45 nel fodero sotto l'ascella e si avvicinò al letto. Doveva dominare l'impulso di piantare lì e scappare. Di tornarsene a casa e sedere vicino alla cassetta della posta e aspettare l'inevitabile lettera che lo avrebbe informato di come lui fosse solo un figlio di puttana col cervello di gallina, a mandare al diavolo tutto quanto. Il suo peso fece scricchiolare l'impiantito. Più si avvicinava e più sentiva il respiro lieve del sonno di quella bambina. Quanti anni poteva avere? Otto? Nove? Dieci? Non avendo figli propri, non riusciva a stabilire. Tutto ciò che riusciva a fare era avvicinarsi e... E in quel momento lei si voltò sotto le coperte e aprì gli occhi, guardan-
dolo in faccia. Dal lettino nell'ombra arrivò una vocetta: — Ciao. Tu sei il signor Reardon, vero? Che cosa stava succedendo, per l'inferno? La mano gli corse alla pistola. La impugnò e la estrasse, tenendola ben salda. — Ti ho spaventato? — fece lei. Lui non riusciva a ritrovare la voce. Si schiarì la gola diverse volte prima di rispondere — No. — Però hai un aspetto buffo, lo sai? — Oh. — Non riusciva a dire nient'altro, i pensieri gli sfuggivano. — Sì. Perché stai lì grande e grosso con una pistola in mano e invece sembri spaventato. Mi pare logico che dovrei essere io ad avere paura. E questa è la cosa buffa. Io non ho proprio paura. — Davvero? — Sì. Ti stavo aspettando. — Davvero? — Certo — fece lei, col tono di considerarlo non molto perspicace. E poi, prima che lui potesse rendersene conto, gettò da parte le coperte e mise i piedi sul pavimento. Era una ragazzina sottile, graziosa, dentro a un ampio pigiama di flanella blu. I suoi codini ondeggiavano allegramente non appena lei accennava a muovere la testa. — Potrei accendere la luce? — disse, gettandosi di traverso al letto e sporgendosi verso la lampada che stava sul comodino. Per una frazione di secondo, la luce lo accecò. Le ombre si ritrassero negli angoli. — Ecco, va meglio, vero? — disse, come se fosse lei l'adulta e Reardon il bambino. Questo rapido susseguirsi di fatti aveva lasciato Reardon in piedi al centro della stanza, con la tanica di benzina ai piedi e la pistola nella mano. — Non ti pesa mai quella? — chiese lei. — La pistola? — Hmmm. — Non tanto. — E dove l'hai presa? "Devo assolutamente riprendere il controllo della situazione" pensò lui. "C'è qualcosa di terribilmente storto in tutto questo." — Dove sono i tuoi genitori? — le chiese.
— Non ci sono. — E ti lasciano sola, a quest'ora della notte? — Qualche volta. Comunque, la notte è il mio momento preferito. — Ma tu sei solo... Lei fece spallucce. — Più vecchia di quel che sembro, probabilmente. Lui si guardò attorno. In quella luce soffusa, gli orsacchiotti sulla parete sembravano ancor più allegri. Ricordò sua sorella piccola, Iona, a cui non pensava da anni e che aveva rivisto ancor meno. Crescendo, lei aveva sviluppato una passione incontrollata per gli orsetti di peluche. Ogni centesimo che riusciva a trovare lo spendeva in orsacchiotti. E poi notò le finestre senza imposte. Al diavolo, questa era una cosa insensata. Qualsiasi cosa sarebbe potuta entrare di là. La ragazzina indicò una brocca d'argento e due bicchieri che stavano su un lucido vassoio argentato, sul suo comodino. — Hai sete, signor Reardon? — Come fai a sapere il mio nome? — Oh, ti stupiresti per tutto quello che so, signor Reardon. Ma non mi hai detto se vuoi bere oppure no. — Uh. No, grazie. — Bene, penso che invece io prenderò un po' d'acqua, se permetti. — Fai pure. Non riusciva a credere che una conversazione tanto adulta e forbita potesse uscire da quel fragile corpicino di bambina. Tutto ciò sembrava un brutto sogno, incredibile, il risultato di una fumata di marijuana scadente. La brocca dell'acqua era piena. La bambina dovette usare entrambe le mani per riempirsi il bicchiere, e anche così sembrava sul punto di lasciar cadere l'intera brocca. — Sicuro? — chiese di nuovo quando il bicchiere fu pieno. — Sicuro. Lei allora riappoggiò la brocca facendo molta attenzione, afferrò il bicchiere e tornò a sedersi sul bordo del letto. Bevve una grande sorsata d'acqua, facendo un "ah" di soddisfazione, poi lo guardò di nuovo e disse: — Tu però sembri ancora spaventato, signor Reardon. — Voglio sapere come fai a conoscere il mio nome. — Me l'hanno detto. — Chi?
Si strinse di nuovo nelle piccole spalle. — Davvero, questo non ha importanza, signor Reardon. — Per me ce l'ha. Lei accennò alla tanica di benzina. — Scommetto che è proprio pesante. Molto più pesante della pistola. — Già. Gli occhi di lei incontrarono quelli di Reardon. — Devi avere una buona ragione per portare fin quassù una tanica di benzina così pesante. — Suppongo di sì. — E io scommetto che so qual è. Reardon non disse nulla. La ragazzina fece, continuando a fissarlo negli occhi: — Pensi di riuscire a farlo, signor Reardon? — A fare che cosa? — Oh, avanti, signor Reardon. Sai bene perché sei arrivato fin qui, e anch'io lo so. — Chi diavolo sei, tu? Lei sorrise. — Sono una piccola bambina innocente che stava dormendo tranquilla nel suo lettino quando tu sei arrivato facendo scricchiolare le scale, con una tanica di benzina in mano, per darmi fuoco e bruciarmi viva. — Piccola dann... Ma Reardon si trattenne. La rabbia sarebbe stata una dimostrazione di panico, e lui non voleva mostrare segni di debolezza. — Come ti chiami? — le chiese. Lei sospirò, come se ormai fosse stanca di sopportare pazientemente lui e le sue stupide domande. — Se la cosa può avere importanza, signor Reardon, mi chiamo Jenny. — Jenny cosa? — Jenny O'Shea. Tutto ciò che gli veniva in mente era un qualche tipo di imbroglio assicurativo. Aveva sentito una volta di qualcosa del genere, a Cleveland. Un molto rispettabile uomo d'affari che si era messo nei guai, un mucchio di debiti, e l'unico modo per uscirne era stato assicurare il figlioletto per una somma enorme e poi assumere un professionista che lo eliminasse. Sfortunatamente, il professionista aveva commesso degli errori e sia lui sia il padre erano finiti nella camera a gas. — Voglio sapere dei tuoi genitori — disse Reardon. — Perché?
— Perché sì. — Io non ho paura di te, signor Reardon. E tu non puoi obbligarmi a fare qualcosa che non voglio fare. O dire. Bevve un altro sorso d'acqua. Quando ebbe finito, appoggiò il bicchiere sul comodino e disse: — Adesso vuoi rispondere alla mia domanda? — Che domanda? — Se pensi o no di riuscire a farlo. Gettarmi addosso quella benzina e poi darmi fuoco. — Perché pensi che sia venuto a far questo? Lei gli rivolse un sorriso d'intesa, un sorriso che aveva un barlume di improbabile civetteria, e disse: — Stiamo perdendo tempo, signor Reardon. Il tuo tempo e il mio. — Non so di che cosa parli. — Probabilmente si tratta del mio viso. — Il tuo viso? Lei rise. — L'aspetto ingenuo. Le lentiggini e tutto il resto. La figlia che tutti vorrebbero avere. Ecco probabilmente perché non riesci a farlo. — Lo guardò di nuovo con aria consapevole. — Non sapevi che avresti trovato una bambina piccola, vero? — No. No, non lo sapevo. — Bene, sfortunatamente per entrambi è così. E dicendo questo ruotò e si rimise distesa sul letto. — Va meglio così? — Meglio per cosa? — chiese Reardon. — Forse dovrei dire "più facile". È più facile per te se non mi vedi in faccia? Reardon iniziò a dire qualcosa, inalberandosi, ma lei lo interruppe. — Devo ammettere che se avessi sotto gli occhi la mia faccetta simpatica anch'io non riuscirei a versare la benzina sopra di me. E con un gesto del braccio afferrò le coperte, tirandole su fino al mento. Poi si girò su un fianco e distolse il viso da Reardon. Adesso stava distesa proprio come quando lui era entrato nella stanza. — Perché non provi a spegnere la luce, signor Reardon? — E perché dovrei fare una cosa del genere? — Perché anche questo rende la cosa più facile. Nel buio probabilmente non riuscirai a vedere nulla, tranne i miei capelli biondi. E potrai far finta che appartengano a una donna molto più vecchia. Capisci?
Reardon non disse nulla. La ragazzina fece: — La cosa sta diventando noiosa, signor Reardon. — Che cosa diavolo sta succedendo qui? Rimanendo ancora voltata di schiena, lei disse: — Sei o non sei disposto a gettarmi addosso quella benzina e poi a darmi fuoco, signor Reardon? — Lo dici come se volessi farmelo fare. — Io voglio che tu faccia quello che tu vuoi fare, signor Reardon. Darmi fuoco oppure andartene. Per me è lo stesso. Reardon fissò la tanica di benzina, sul pavimento. Lei disse: — Se non mi darai fuoco, la tua reputazione ne soffrirà. — Cosa? — Certo. I professionisti dipendono in tutto e per tutto dalla loro reputazione, mi par di capire. Voglio dire, pensa alla fama di ferocia che otterrai se mi darai fuoco. "Quel Reardon. Farebbe davvero qualunque cosa. Ha persino bruciato viva una bambina piccola." — Che cosa diavolo ne sai tu dei professionisti? — Più di quello che credi, signor Reardon. — Fece una pausa e scosse la testa. Lui avrebbe voluto vedere la sua espressione. — Naturalmente, d'altra parte, darmi fuoco può darti una reputazione che tu non desideri. La gente è strana, riguardo ai bambini. Fai del male a un bambino, anche poco poco, e certi penseranno immediatamente che sei un pervertito. E la maggior parte della gente non vuole lavorare con i pervertiti. Lo sai, vero? Reardon guardò ancora una volta la tanica di benzina. La ragazzina disse: — Ma se tu non mi darai fuoco, il tuo prezzo inevitabilmente si abbasserà. — Si abbasserà? — Certo. Perché la gente saprà che tu non sei proprio un uomo assolutamente senza scrupoli. E se non sei assolutamente senza scrupoli, loro ti pagheranno di conseguenza. Solo i professionisti assolutamente senza scrupoli ottengono compensi assolutamente alti. Voglio dire, questo ragionamento è sensato. O non ti sembra sensato, signor Reardon? Egli si piegò. Le dita toccarono il manico della tanica. Quel che diceva quella bambina era sensato. Se non eseguiva il lavoro, ne sarebbe uscito ridimensionato agli occhi di potenziali futuri committenti. Alcuni committenti vogliono un uomo che sia assolutamente capace di qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa. Le dita iniziarono a stringersi attorno al manico.
— Solo, per favore, sbrigati, signor Reardon. Okay? Mamma dice sempre che io non sopporto a lungo, e ha ragione. Tutto ciò sta diventando realmente noioso. Sei un professionista, signor Reardon. Ti si richiede di essere deciso. Ora le dita di lui stringevano con forza il manico. Alzò la tanica fino a portarla all'altezza della coscia. Ripose la .45 nel fodero. Non aveva idea di quel che stava realmente accadendo. Voleva solo farla finita con tutto ciò e riprendere l'aereo e andarsene via da quella dannatissima città. — Sono orgogliosa di te, signor Reardon. Stava alzando la tanica, in modo da poter svitare il tappo — Stai per farlo, non è vero? Reardon non disse nulla. — Stai per versare l'intero contenuto della tanica sopra di me, per poi gettare un fiammifero acceso e infine andartene da questa città più in fretta che puoi. Buon per te, signor Reardon. Buon per te. Poteva davvero farlo? Poteva? Pensò al denaro. Centomila dollari per questo lavoro. Se non l'avesse fatto, avrebbe dovuto restituire i soldi che aveva già ricevuto. E abbandonare gli importanti progetti che si era prefigurato. Svitò il tappo e lo lasciò cadere in tasca. — Sono pronta, signor Reardon — disse la bambina. — Sono qui distesa che aspetto. Si avvicinò al lettino. Vicino. Più vicino. La benzina ondeggiò dentro la tanica. Ancora un attimo. — So che non desideri particolarmente farlo, signor Reardon, ma ammiro il tuo sangue freddo e il tuo fiuto per i buoni affari. Li ammiro davvero. Al diavolo, il modo in cui questa piccola troia gli confondeva le idee stava per portarlo a desiderare di farlo. La tanica si alzò, sempre più in alto. — Avanti — disse la ragazzina. — Avanti. E allora lui rialzò il braccio di dietro, pronto a versare benzina su di lei e sul lettino, nell'ombra, e poi... E fu allora che si rese conto del perché la finestra non aveva imposte. Altrimenti, come avrebbero fatto i pipistrelli a entrare?
Sei di loro, lucidi neri e pelosi, si avventarono sul suo collo. La tanica di benzina gli venne strappata dalle mani e ricadde contro la parete. E allora la stanza, improvvisamente precipitata nel buio più assoluto, fu invasa dall'odore della benzina. Il suo ultimo ricordo, sprofondato nel buio, fu uno scoppio di risa. Qualcuno stava ridendo. Ma perché? Nascosto nell'ombra, Reardon osservò la limousine frenare e arrestarsi. L'auto di Janice Evans, l'attrice cinematografica del momento, ricercata e idolatrata in tutto il mondo. Reardon le stava dietro ormai da tre sere, spiandone ogni movimento. Presto sarebbe entrato in azione. Molto presto. Vide una snella, deliziosa gamba che si allungava fuori dalla portiera posteriore, subito seguita dal resto del suo snello, delizioso corpo. La piccola folla che si accalcava all'entrata del Room 504, la discoteca più in voga della città, scoppiò in applausi e grida non appena l'ebbe riconosciuta. Lei tentò di assumere un atteggiamento modesto. Non era facile. E poi scomparve, seguita da due guardie del corpo, dentro all'antro sudato e frenetico della discoteca. Reardon pensò di dover aspettare perlomeno un paio d'ore, prima che lei ricomparisse. Poi l'avrebbe seguita fino a casa, quella sera, e poi... Attraversò la strada ed entrò in un caffè. Sedette presso la finestra, da dove poteva tenere sotto controllo la discoteca. La macchina di lei era ancora parcheggiata presso il marciapiede, in attesa. Il conducente, in divisa, stava appoggiato al cofano e fumava una sigaretta. Ogni volta che le porte della sala si spalancavano ne uscivano raffiche di musica e di risate. Le risate gli fecero tornare in mente Jenny O'Shea. La notte in cui tutta la sua vita era cambiata. Ma in quel momento i suoi ricordi furono interrotti da una cameriera. — Desidera? — gli chiese con aria stanca. — Caffè. Nero. — Un hamburger o qualcosa da mangiare? Il pensiero del cibo gli diede una conato di nausea. Era una delle cose a cui non aveva ancora fatto l'abitudine, persino dopo sei mesi. Il fatto di non mangiare mai. E poi di dormire per tutto il giorno. Non certo in una bara o cose del genere. Era sufficiente una stanza con le persiane chiuse.
Quando arrivò il caffè, Reardon tornò col pensiero alla notte della ragazzina. Era stato un test. Avrebbero saputo con certezza che lui era l'uomo che stavano cercando se si fosse dimostrato tanto privo di scrupoli da inondare di benzina una bambina piccola e poi darle fuoco. Ciò che, alla fine, lui stava per fare. Era stato tutto predisposto, la lettera, il denaro, la bambina. Proprio per vedere se lui riusciva a farlo. Perché se era in grado di fare una cosa simile... "C'è qualcosa che lei deve capire, signor Reardon" aveva detto il padre della ragazzina quando le sei persone, non più sotto forma di pipistrello, si furono sistemate nella camera. "Una delle nostre caratteristiche è quella di provocare paura e orrore negli altri. Abbiamo molto lavoro da fare e molti progetti da intraprendere, e ci serve un uomo o una donna che sia all'altezza. Qualcuno che non abbia scrupoli di nessun tipo. E questa sera, signor Reardon, lei si è dimostrato all'altezza." Così Reardon era diventato uno di loro. E aveva iniziato a occuparsi di celebrità. Le persone celebri erano difficili da avvicinare, molte volte persino per un vampiro. Ma un professionista poteva riuscire ad avvicinarsi tanto da colpirle, e mentre esse giacevano ferite il vampiro si infilava nella stanza e le trasformava in uno dei morti viventi. Ai vampiri piaceva moltissimo fare proseliti fra le celebrità. Li rendeva più orgogliosi di essere vampiri, il fatto di sapere che attori del cinema, politici e campioni dello sport fossero uguali a loro. E un giorno, quando ci sarebbero stati abbastanza vampiri nel giro della gente che conta... Reardon toccò la tasca del suo giubbotto sportivo e sentì la forma della Walther. La sua vecchia 45 adesso non bastava più. Come gli aveva detto Jenny, che si era rivelata essere un vampiro di duecento anni, "Ora devi cominciare a prendere davvero sul serio il tuo lavoro, signor Reardon". Fece per assaggiare il caffè, ma i denti lo ostacolarono, sbattendo contro l'orlo della tazza. I denti presentavano ancora un piccolo problema di adattamento. Controllò l'orologio. Aveva ancora tempo, prima di uscire e appostarsi nel vialetto, pronto per quando Janice Evans sarebbe riapparsa sulla strada. Sospirò, chiedendosi se fosse davvero meglio essere un vampiro. Quanto a lui, non aveva avuto molta scelta. Aveva passato il test ed era stato prescelto.
Venti minuti più tardi uscì dal locale, stringendo la Walther. E altri ventitré minuti dopo apriva il fuoco, colpendo Janice Evans in alto, sotto la spalla. Nella confusione che seguì, si sarebbe potuto vedere un pipistrello che si allontanava con volo incerto dalla discoteca impazzita. Oltre che per i denti, anche per il volo doveva perfezionarsi ancora un po'. Titolo originale: Selection Process (1991) Heather Graham IL VAMPIRO NEL SUO BUGIGATTOLO Il vampiro era reale. Chris ne fu sicuro non appena scoperchiò la bara. Prima che la creatura aprisse gli occhi, Chris sapeva che era reale. Un normale cadavere non avrebbe mai potuto sembrare così vivo. Be', anche abbastanza morto, naturalmente; ma vivo, allo stesso tempo. La pelle della creatura era pallida, tuttavia conservava un colorito vitale. E sembrava che i polmoni si muovessero, che il cuore pulsasse. Improvvisamente gli occhi si spalancarono, e Chris sentì il proprio cuore rombare e balzargli in gola. Gli occhi erano neri, come ossidiana, come la notte al di là di essi. Erano occhi spettacolosi, grandi, ipnotici, un bel paio di occhi orlati di rosso, come orlati di sangue. E poi cominciò a sorridere. A sorridere e a guardare la gola di Chris, dove il battito forsennato del cuore trasmetteva segni rivelatori alla vena. Il sangue circolava velocissimo per tutto il suo sistema. Per un vampiro affamato, quel battito martellante doveva essere una vista davvero irresistibile. — Salve — disse la creatura, e il suo sorriso si fece astutamente profondo. Chris si era aspettato un rantolo roco. O forse un accento. Qualcosa di rumeno, di esotico. Questo vampiro aveva invece una lievissima traccia di accento del sud. Be', dopotutto erano a New Orleans. Eppure, Chris aveva visto ogni possibile film dedicato ai vampiri. Si aspettava che la creatura dicesse qualcosa tipo "Foglio bere tuo sangue" ma la creatura non fece niente del genere. Fissava Chris. Poi si sollevò a sedere molto lentamente, costretto nei
confini della sua bara. — Bene, signore, lei mi ha destato. — Ci fu una brevissima pausa. — Lei deve sapere che io sono un vampiro — disse poi. Ancora quell'accento delicato. La voce era secca, mascolina. Chris s'immaginò che la maggior parte delle donne, compresa Magda, l'avrebbero considerata una voce sensuale e attraente. In effetti, questo vampiro era un soggetto affascinante. Come il Dracula di Bela Lugosi o forse più, come Frank Langella. Di certo non era la creatura gobba e repellente impersonata una volta da Klaus Kinski. Con i suoi occhi scuri come ossidiana e i capelli neri come giaietto, un volto dalla struttura regolare e dai lineamenti prettamente classici, era di una bellezza rimarchevole, a dispetto del pallore della pelle. Quando si erse, uscendo dalla bara con un movimento rapido e sciolto, era alto, con le spalle larghe, ben proporzionato. In breve, aveva un carisma sorprendente. Chris si ritrovò a studiare quella creatura, rimanendone estasiato al punto da mollare quasi la presa sulla croce di Damocle che stringeva tra le dita. — Un vampiro assetato... — disse la creatura, con gli occhi di ossidiana a trafiggere i suoi. Chris ritornò in sé appena in tempo. Armeggiò nella tasca e gli spiattellò davanti la croce di Damocle. Immediatamente, la creatura alzò le braccia al cielo, ritraendosi atterrito da Chris. — Per Satana! Lei porta quel talismano! — urlò il vampiro. Chris guardò la croce con lo stesso stupore con cui prima aveva guardato il vampiro. Oh, sì, lui ci aveva creduto. E ci credeva da tempo immemorabile. Il primo film che aveva visto era stato quello con Bela Lugosi, pensò, e poi, in seguito, aveva letto il romanzo di Bram Stoker, suggendo avidamente ogni parola. E si era convinto sempre più che Bram Stoker aveva scritto sulla base di un'esperienza reale. I vampiri erano reali, i vampiri esistevano, eccome. Con l'andar degli anni, aveva imparato a mitigare le sue convinzioni. Ma aveva amato le storie. A tal punto che aveva imparato lui stesso a scriverne e ad affinarsi sempre più nello stile. Aveva esordito con Il vampiro che divorò New York, e da quel momento i suoi libri si erano diffusi nelle più grosse città d'America. Ma il successo l'aveva reso inquieto. Aveva bisogno di qualcosa di più. Aveva bisogno di qualcosa di reale. Una sera, in un bar di Houston, aveva sentito parlare di una casa vicinis-
sima al distretto dei giardini, a New Orleans. Veniva chiamata "il castello" perché era un castello: il primo proprietario aveva fatto venire ogni pietra e ogni mattone direttamente dall'Europa. Il suo costo era sorprendentemente contenuto perché aveva una macabra fama: suicidi avvenuti entro le sue mura, sparizioni verificatesi nelle notti scure e piovose, e roba del genere. Correva voce che l'ultimo proprietario, un tedesco, l'avesse occupata solo per qualche settimana, ripartendo poi in fretta e furia per l'Europa, non prima di aver vivamente raccomandato la demolizione della casa. Se davvero esisteva qualcosa come un vampiro vivente (o non-vivente, secondo i punti di vista) Chris era certo di aver trovato il posto più adatto a servir da nascondiglio a quel vampiro. E così aveva deciso che avrebbe acquistato la casa. Non era stato facile. Magda adorava Houston. E dopo dieci anni di matrimonio, sembrava che fosse diventata maestra nell'arte di spuntarla in ogni situazione. Ma questa volta Chris era stato irremovibile. Era arrivato al punto di suggerire la separazione consensuale, così che ognuno avrebbe potuto andare per la sua strada. Magda era rimasta ammutolita dalla sorpresa, cosa rara per lei. Sull'acquisto del "castello", Chris non aveva alcuna intenzione di discutere. Dato che i suoi libri di vampiri permettevano a Magda di condurre quel tipo di vita che lei trovava tanto gradevole, alla fine lei si era arresa. E una volta che si erano trovati nella casa, be'... Chris aveva scavato e buttato all'aria tutto, ma fin dal primo momento aveva saputo dove cercare. C'era stata una cantina, nella casa: cosa piuttosto rara, a New Orleans, dove si evitavano le sepolture sotterranee a causa della fascia freatica. In realtà era un seminterrato. Il castello era stato costruito su un banco di terra per consentirne la realizzazione. Ed era perfetto. Trasudava umidità e tetraggine, e c'erano ragnatele a bizzeffe. Chris ne era incantato. Aveva subito sistemato il suo computer con la stampante, i suoi amati libri e i poster di Vampira ed Elvira. La sua determinazione gli aveva molto giovato. Già nel corso della prima settimana aveva trovato il primo di quelli che lui chiamò "i diari di Van Helsing", benché non ci fosse un qualsiasi genere di firma da nessuna parte, e di certo nessun indizio atto a dimostrare che fossero stati scritti da un individuo di nome Van Helsing. Tuttavia Chris ne era convinto. I diari erano vecchi, ingialliti. Erano stati scritti in una grafia che si presentava netta e chiara all'inizio, per poi divenire sempre più confusa e il-
leggibile. Lui... esso... la creatura!... era stata quella che aveva fatto costruire il castello. Lui... esso... la creatura!... adesso doveva essere controllata. E la croce di Damocle, benedetta da cinque papi e contenente una reliquia del martire Giovanni, poteva tenere a bada la creatura. Chiunque tenesse la croce aveva potere sulla creatura, e chiunque avesse appreso i segreti della croce avrebbe potuto incatenare la creatura alla propria volontà. Naturalmente, bisognava fare attenzione. La massima attenzione. Perché la creatura, a sua volta, aveva dei poteri. L'unico vero modo di essere sicuri era quello di tenerla chiusa nel suo sepolcro, con la croce tra i mattoni, come l'autore dei diari l'aveva lasciata. Perché il vampiro, ridestato, avrebbe potuto accampare delle pretese. E per la sua vita, per la sua salvezza, l'uomo che avesse risvegliato la bestia avrebbe fatto bene a soddisfare quelle pretese... C'era anche qualcos'altro in quelle carte. Tutto sembrava imperniarsi sul numero tre. Chris riusciva a malapena a leggere. Ma se il vampiro avesse tradito tre volte il mortale che l'aveva ridestato, allora il vampiro avrebbe dovuto fare tre promesse al mortale, promesse che non sarebbe stato più possibile spezzare. Una leggenda? Certo, i quaderni erano stati scritti da una persona con un'immaginazione più fervida della sua. Ma no. Dopo aver trovato i quaderni, Chris aveva trovato la croce di Damocle, posata su un muro di mattoni. E lui aveva abbattuto il muro, e si era trovato in un ampio bugigattolo che odorava di muffa e di polvere, con una bara esattamente al centro dell'angusto spazio. E ora... Il vampiro. — Sei reale! — annaspò Chris. — In effetti sì, sono reale. Assetato, irritato... anzi, no, direi annoiato. Qual è il senso di questa interruzione? Davvero! — Il vampiro parlava strascicando le parole. Ed era profondamente depresso. Chiuse la bara sbattendo il coperchio e si issò su di esso, mettendosi a sedere in modo tale che i gomiti riposavano sulle ginocchia, e il mento poggiava sulle mani ripiegate. — Mi sembra che lei non abbia la minima intenzione di autorizzarmi a morderle il collo come si deve per farmi una lunga bevuta; e allora perché mi ha disturbato? — Io non voglio diventare un vampiro! — disse Chris. — Ma credo di aver tenuto conto delle tue esigenze. Sono riuscito a comperare del san-
gue... Il vampiro drizzò le orecchie. — Umano, spero... — Sì, umano — gli disse Chris. Uscì dal bugigattolo, stando ben attento a non allentare la presa sulla croce. Sulla sua scrivania prese il contenitore sanitario in plastica pieno di sangue rosso brillante e si voltò per tornare in fretta dal vampiro. Non ebbe bisogno di affrettarsi. Il vampiro era proprio alle sue spalle. In men che non si dica si impadronì della sacca. Vuotò il contenitore fino all'ultima goccia. Era incredibilmente compito. Non una goccia di sangue toccò la sua camicia bianca merlettata, il mantello nero da sera, le sue labbra o il mento. — Ah, che bontà! — disse dolcemente. — Certo, non è come attingerlo direttamente dal collo, intendiamoci, ma è ugualmente delizioso, dopo tutti questi anni. Grazie. Allora — guardò Chris con fermezza — cosa posso fare per lei? — Be' — attaccò Chris — io sono uno scrittore... — Ah! — esclamò il vampiro, e sembrava che non gli servisse sapere altro. Girò attorno alla scrivania e si sprofondò nella poltrona girevole di Chris, mettendosi assolutamente comodo. — Come quel tale Bram Stoker. — Lo conosci! — disse Chris quasi senza fiato, appoggiandosi eccitato al tavolo. La croce era nella sua mano. Fu lì lì per cadere. Sia Chris sia il vampiro lo notarono. Il vampiro, osservando Chris, gli elargì un altro dei suoi sorrisi sornioni. — Deve fare attenzione, signor...? — Lambden. Chris Lambden — suggerì Chris. — E tu, qual è il tuo nome? Come devo chiamarti? — Be', mi chiami "Conte", naturalmente — disse la creatura. — Allora tu sei lui, l'autentico... La creatura stava scuotendo la testa. Stese la mano, invitando Chris a prendere posto nella vecchia, comoda poltrona imbottita davanti alla scrivania. — Lei è stato gentile con me. Io le narrerò una storia, se le fa piacere. — Si adagiò all'indietro, disinvolto, elegante, adocchiando la stanza, molto salottiero. — Ho sentito dire che Bram basò la sua storia su Vlad Dracul, l'Impalatore, il governatore che uccise migliaia e migliaia di nemici e che tuttavia, a suo modo, fu un eroe del suo popolo. — Si strinse nelle spalle. — In effetti sì. le cose stanno così: una strega zingara, che vide il suo unico figlio infilzato dagli spiedi di Vlad, gli lanciò una maledizione, e così lui divenne il primo di una lunga e illustre schiatta di vampiri. — Santo Dio! — esclamò Chris sbalordito, crollando nella poltrona se-
gnalata. Il vampiro fece una smorfia. — Deve proprio? — s'informò. — Vlad l'Impalatore è ancora vivo? — chiese Chris. Arrossì. — Voglio dire, esiste? Il vampiro scosse la testa. — No, no, temo di no. Ahimè, io stesso non ho potuto conoscerlo. — Allora come... — Come sono divenuto un vampiro? — Prese una matita e la usò per tamburellare pigramente sul tavolo. — Ah, vediamo! È stato agli inizi dell'Ottocento... prima o dopo la guerra del 1812, non sono del tutto sicuro. — Scrollò le spalle. — Fa poca differenza, ormai. Io ero il figlio minore di un aristocratico francese, ed ero venuto a New Orleans a cercar fortuna. Ma una sera mi trovavo sul bayou con l'amore della mia vita quando improvvisamente, voilà, spuntò fuori dagli alberi! — Chi? Scrollò le spalle. — Quello che effettivamente chiamavano conte Dracula: uno della famiglia di Vlad, così mi diceva sempre lui. Personalmente, sono convinto che fossero tutte arie! — Davvero? — Chris sedeva nella più assoluta immobilità, mesmerizzato. — E cos'avvenne dopo? — Be', per loro fu come una festa. Dracula balzò addosso alla mia povera Deanna, e quando io accorsi in suo aiuto, lui si gettò su di me! — E tu moristi e diventasti un vampiro! — No, no, no, non subito! — disse la creatura, irritata. — Non so quali siano state le sue letture, e con quale coraggio si sia messo a scrivere sul nostro conto quando ha l'aria di saperne così poco! — Mi spiace — si scusò Chris. — Dunque, mi ascolti bene. Se il collo viene fatto a pezzi e troppo sangue viene succhiato, la vittima muore, va in paradiso o all'inferno, e buona notte al secchio! Creare un vampiro è un'arte! Un'arte nella forma, e nella seduzione. Il sangue dev'essere preso tre volte, nello stesso punto. Allora può nascere una nuova creatura. Siamo seri, signor Lambden! Se fosse così facile per chiunque diventare uno degli "immortali", da lungo tempo il mondo sarebbe stato messo a ferro e fuoco dai vampiri! — Sì, suppongo che tu abbia ragione — ammise Chris. Guardò la creatura dall'altra parte della scrivania. Sembrava che diventasse sempre più... normale! Aveva dei modi così disinvolti. E Chris aveva già appreso tante cose...
Ma proprio mentre stava per porgli un'altra domanda, una voce sonora chiamò il suo nome. Era melodica, era femminile, ma era sonora. — Chris! Christopher! Lo sai che ora è? Devi salire subito! Quelli della rivista saranno qui al mattino presto, e noi dobbiamo andare in copertina! Il vampiro arcuò un sopracciglio. Chris balzò in piedi. — Torna nel bugigattolo! — Ehi, che maniere! — Muoviti, per favore! La creatura era appena scomparsa oltre il mucchio di mattoni quando Magda apparve in cima alle scale che portavano giù al seminterrato. — Chris! Mi hai sentito? Oh, sì, certo che l'aveva sentita. Le sorrise. Era un vero spettacolo, Magda, con quella testa meravigliosa piena di capelli biondi, quasi color platino. La chioma le scendeva su un occhio come quella di una dea del sesso degli anni trenta. Aveva enormi occhi azzurri, un viso angelico, e una figura che era senz'altro la più bella di quante il denaro ne possa comprare. Nella pallida luce che filtrava dalla cucina, sembrava intonata al castello, in sintonia con l'atmosfera gotica di quella specialissima notte. Era meravigliosa nella gonna di seta bianca che fluttuava lieve nella notte ad aria condizionata. — Chris? — Vengo, Magda — le promise. Lei rimase lì, a guardarlo. Poi rabbrividì. — Non so proprio come tu faccia a passare tanto tempo in questo posto tetro e orribile. Sinceramente, Chris, dovrei lasciarti! — Magda, sarò su in un attimo. Non rovinerò l'intervista, te lo prometto. Lei fece per parlare ancora, poi eseguì una piroetta e scomparve. Chris la guardò andar via. Era veramente carina. Un tempo, l'aveva amata con tutta l'anima. Non sapeva esattamente cosa fosse successo. Pensò che doveva esserci qualcosa che aveva a che fare con la bocca di lei. — È affascinante! È elegante! È un fuoco! Chris fece un balzo fino al soffitto. Il vampiro gli stava di nuovo incollato alle spalle. — È mia moglie — disse Chris tagliente. "Ed è una piantagrane", aggiunse fra sé e sé. Non aveva importanza. Non stasera. Stasera aveva trovato la sua creatura. — Torna alla tua bara — ordinò. — Devo andare di sopra, a dormire. — Ah! Con quella visione di grazia e di beltà! — disse il vampiro. —
Così seducente! Chris grugnì. Non disse alla creatura che la seduzione era l'ultimo pensiero che passava per la testa di Magda. La sua unica preoccupazione era che lui non apparisse sulla copertina di una rivista a diffusione nazionale con le borse sotto gli occhi. — Be', ci vogliamo muovere, adesso? Forza, a nanna. Non vorrei dover ricorrere alla croce di Damocle... L'avvertimento sortì il suo effetto. Il vampiro annaspò, si gettò il mantello sulla faccia, e si avviò verso il bugigattolo. Cominciò a introdursi nella bara quando Chris notò per la prima volta che c'era qualcun altro, lì dentro. Una donna era distesa sull'altro lato della bara. Come il vampiro, era pallida. La pelle d'avorio, messa in risalto dalla bellezza corvina dei suoi capelli, sembrava diffondere un chiarore soffuso. — La mia Deanna! — disse il vampiro. — Wow! — mormorò Chris. — Due vampiri... perché lei non s'è svegliata? — Lei non è un vampiro — lo informò la creatura, sussiegosa. — Soltanto io posso destarla. — Allora lei è... un corpo perfettamente conservato? — chiese Chris. Il vampiro sospirò con infinita pazienza. — È sospesa tra la terra dei vivi e il mondo dei morti. Vede, Dracula per primo prese il suo sangue. Poi io feci altrettanto. Ma dopo non bevvi il suo sangue per la terza volta. Ahimè... — Ahimè, cosa? — interrogò Chris. — Be', il mondo era pieno di donne stupende. Allora lei giace con me mentre aspetto... — Scrollò le spalle, e sorrise. — Ne farò la mia consorte, alla fine, o sceglierò un'altra. Uno di questi secoli. Ne aveva abbastanza di conversare. S'introdusse nel feretro, studiando Chris. — Ha materiale a sufficienza per il suo libro? — Oh, no! Abbiamo appena cominciato. Tornerò domani sera, lo prometto. — Bene. Ho molte altre cose da raccontarle. — Il vampiro chiuse gli occhi, poi li riaprì. — Ah, che bello tornare a dormire con la pancia piena! Chris chiuse il coperchio della bara. Si lasciò il bugigattolo alle spalle, rimettendo a posto quasi tutti i mattoni e sistemando la croce al loro interno. Poi si affrettò su per le scale, proprio mentre Magda ricominciava a chiamarlo. Chris decise di rasarsi prima di andare a letto poiché il giornalista e il fo-
tografo sarebbero arrivati prestissimo. Fece una pausa con il rasoio giusto al disopra della guancia e studiò la propria immagine riflessa. Aveva appena compiuto trentacinque anni, tutto sommato era nel fiore della vita. Il suo metro e novanta era tutt'altro che brutto, con i capelli color sabbia, gli occhi verdi, un mento dal taglio accettabile e un paio di spalle che gli avevano consentito di farsi luce nel football, non solo alle superiori ma anche al college, benché non avesse avuto il talento o la voglia di imboccare la strada del professionismo. A Magda avrebbe fatto piacere. Per lei un attaccante di football (un attaccante vincente, naturalmente) era l'epitome dell'onore, della gloria e del maschio americano. Chris sospirò e mise giù il rasoio. Dove aveva sbagliato? Poi cominciò a domandarsi come sarebbe stata la sua vita se avesse sposato una bruna. Come quella stesa nella bara con la creatura. Nel suo sonno di morte, gli era apparsa così sommessa e dolce e gentile. — Chris! Mentre Magda... Ma ora non voleva pensarci. Ora che la sua vita aveva preso quella svolta meravigliosa. C'era un vampiro nel suo bugigattolo. La mattina seguente giunsero i giornalisti. Magda era mozzafiato in un completo di Dior. I giornalisti si trattennero per buona parte della giornata, e lui e Magda concessero loro una magnifica intervista. Gli intervistatori facevano un sacco di moine. Erano una bellissima coppia, e giovane anche, benché lui scrivesse tante stranezze! Poco prima di sera, i giornalisti andarono via. E altrettanto fece Magda. I DeVantes davano un cocktail-party: lei ci sarebbe andata comunque, anche se Chris era deciso a rifiutare. Magda era biondissima e attraente mentre si preparava per la festa. Chris sentì una fitta al cuore. Dimenticò perfino il suo vampiro per un momento. — Magda, non puoi proprio fare a meno di andarci? Potremmo passare una serata in casa, io e te da soli. Potremmo guardare la tivù, noleggiare un film. — Non essere sciocco, tesoro! — lo rimbeccò lei. — Devo andare... coltivare le relazioni sociali. Caro, lo faccio anche per te! Partì. Lui la guardò uscire, con un altro spasmo di nostalgia. Poi si ricordò della sua creatura. E si precipitò giù in cantina. Il vampiro (o "Conte'", come preferiva essere chiamato) era un individuo
proprio normale. Quella sera si dilungò nel racconto di interminabili viaggi per l'Europa. Fornì a Chris una descrizione dettagliatissima dell'occupazione di New Orleans durante la guerra, poi bofonchiò qualcosa sul modo in cui i nordisti avevano vinto. — Parli della Guerra Civile, giusto? — chiese Chris. — Perché, di quale altra guerra potremmo parlare? — domandò il vampiro. — Be', ci sono state due guerre mondiali e un'infinità di conflitti minori, da allora! — gli assicurò Chris. — Mi parli della sua maglietta — lo pregò il vampiro. Chris si guardò il petto. Aveva la sua maglietta dei "Saints". Chris fece del suo meglio per descrivere una emozionante partita di football, per rendergli il favore. Il vampiro sospirò. — Mi piacerebbe tanto assistere a una partita. — Non hai mai visto un incontro di football professionistico? — Mio caro signor Lambden, io sono in questa cantina dal 1901. — Be', c'è la televisione — suggerì Chris. — Ma lei potrebbe farmi uscire. Chris scosse la testa. — No. No, decisamente non potrei lasciare libero un vampiro per le strade di New Orleans! — Non sarei libero. Lei avrebbe sempre la croce. Chris scosse la testa, sentì Magda brontolare di sopra, e decise con un sospiro che era tempo di rispedire il vampiro nel suo bugigattolo. Ma certi semi erano stati gettati, e Chris era curioso tanto quanto il vampiro. Voleva portarlo fuori. Nel giro di una settimana, aveva comprato anche al vampiro una maglietta dei "Saints" e un paio di jeans Levi's neri ed elasticizzati. Al vampiro donavano. Si stava giusto pavoneggiando nello specchio da barba di Chris quando furono ambedue sorpresi da un'intrusione. — Christopher Lambden, giuro che ti faccio rinchiudere in un manicomio se non la smetti di... oh! Erano tutti e due così presi dai vestiti nuovi che né Chris né il vampiro avevano notato la porta in cima alle scale che si era aperta, e Magda che era entrata. Magda non si era immaginata di trovare altre persone, oltre Chris. Ovviamente. La sua bocca rimase aperta a formare una grande O. — Magda! — esclamò Chris. Magda si riprese in fretta. Gratificò il vampiro di uno dei suoi accatti-
vanti sorrisi. — Salve. Mi spiace. Non mi ero accorta che Chris fosse in compagnia. — Si passò le mani sui jeans attillati, poi discese le scale e porse le dita perfettamente curate al vampiro. — Non ci siamo presentati. Io sono Magda. — Solo Magda. Non "Magda Lambden", non "Magda la moglie di Chris"... soltanto Magda. Be', lei era fatta così. Era una civetta atroce. Un tempo, la cosa lo mandava su tutte le furie. Poi, strada facendo, da qualche parte, aveva smesso di curarsene. Adesso era incuriosito. Avrebbe dovuto essere geloso di sua moglie, se ne rendeva conto. Era più interessato alla reazione di lei nei confronti del vampiro. — Ah, sì. Magda, questo è... — Drake — intervenne il vampiro, baciando galante le dita di Magda. Occhi di ossidiana sfiorarono lo sguardo cilestrino di sua moglie. Chris prese una decisione istantanea. — L'ho invitato a un incontro dei "Saints", Magda. Sarei felicissimo se venissi anche tu. Naturalmente, so benissimo come la pensi a proposito del gioco... — Verrò con piacere — insisté Magda. Chris sorrise. — Bene. Fu un incontro bellissimo. La squadra di casa vinse, i tifosi erano impazziti. Chris ebbe qualche difficoltà a convincere "Drake" che non poteva mordicchiare il collo di una piccola cheerleader; ma tutto sommato, nel complesso, "Drake" si comportò piuttosto bene. Magda lo tenne impegnato. Tornare a casa si rivelò più difficile. Chris dovette convincere Magda che Drake sarebbe stato felicissimo di dormire in cantina. Fu deciso. Magda alla fine si fece convincere. Chris infilò la croce di Damocle in una piccola nicchia della porta che dava in cantina. Benché Chris si fidasse di sua moglie, quella notte tenne gli occhi puntati su di lei. Quando lei si alzò e si diresse in cucina, lui fece in modo di scivolare giù dal letto e di trovarsi davanti a lei proprio mentre stava per aprire la porta della cantina. — Cosa stavi facendo? — le chiese. — Oh, volevo solo controllare che il nostro ospite si trovasse bene! — rimediò lei. Chris sorrise. — Ho già controllato io. Sta bene. — Chris deglutì a vuoto. — Non devi andare laggiù, Magda. — Insomma, Christopher... — Mi ami, Magda? — Via, non essere assurdo! Naturalmente. Se non ti amassi, per quale
orrido motivo dovrei restare con uno strano topo di biblioteca come te? Potrei essere in giro per il mondo, Chris. Avere una vita come quella del tuo amico! Ballare a Parigi, andare alla corrida a Madrid... — La sua voce andò scemando. Chris ignorò il pathos. — Magda, se mi ami, devi credermi. Io non posso rimanere sveglio in eterno. Devi stare lontana dalla cantina, di notte. — Naturalmente, caro, se è quello che vuoi! — Si girò, tutta innocenza, e tornò verso le scale. Chris la seguì. Quella notte fece sforzi sovrumani per restare sveglio. Si destò alle prime pallide avvisaglie dell'alba. Allungò la mano nel letto. Era vuoto. — Magda? Sentì il rumore della doccia. Si rimise giù, riprendendo fiato, sollevato. Forse lei lo amava. Ma lo amava abbastanza? Non fu tanto difficile spiegare a Magda che Drake dormiva di giorno: Magda stessa amava dormire di giorno, e quando non dormiva, le piaceva uscire a fare compere. Quella mattina era fuori per le dieci. Chris passò buona parte del giorno nel bugigattolo, pago di guardare i suoi vampiri (no, il vampiro e la sua quasi-consorte) che dormivano. Èssi non si mossero. Non un muscolo, non un fiato. Quella sera, Magda era di ottimo umore. Insisteva nel voler mostrare al loro ospite il Vieux Carré, il quartiere francese. Drake era certamente pronto. — L'ha mai visto prima? — Oh, sì. Ma è stato tanto tempo fa! — le assicurò Drake. Uscirono. Andarono ad ascoltare orchestrine che suonavano musica jazz, e Drake rimase assolutamente affascinato da tutti i localini con spettacoli di strip-tease, che non si saziava di guardare. Per strada incrociarono una bellezza giunonica, evidentemente appena smontata dal lavoro. — Solo un sorso! — sussurrò Drake a Chris. — Un sorsetto di sangue da una di quelle... ehm... signore della notte! — No, a casa ce n'è una pinta, tutto per te. Magda vuole fermarsi a mangiare una bistecca. Come ce la caviamo? Il vampiro sospirò. — Lei è proprio imbevuto di miti e leggende. Io so apprezzare una buona bistecca. Soltanto, mi raccomando che sia molto, molto al sangue! Presero le bistecche, e Drake sembrò gustare la sua, benché storcesse il naso all'antipasto di aragosta. Tornarono a casa. Ancora una volta, era l'ora
della nanna. Magda stessa approntò il posto-letto in cantina. Poi andò di sopra. — Nella tua bara! — comandò Chris. — Ma non sono per niente stanco! Chris esitò. — Va bene, allora. Puoi guardare la televisione fino al mattino. Ma ricorda, la croce sarà fissata in cima alla porta. Proprio come la notte scorsa. — Oh, me ne ricorderò — promise il vampiro. Indossava uno dei più bei pigiama di flanella di Chris. Come tutto il resto, gli stava molto bene. Chris incastrò la croce nella porta e andò a letto. Magda era seduta al tavolino da toilette, e si spazzolava i capelli. Adocchiò Chris nello specchio. Una donna così bella. Aveva una camicia da notte con un orlo di pizzo intorno alla gola. — Vieni a letto? — le chiese Chris, sprimacciandole il guanciale. — Naturalmente — rispose Magda. Mise a posto la spazzola e scivolò tra le lenzuola accanto a Chris. Aveva un cerotto sul collo. Chris la guardò severo. — Magda, devi stare lontana da Drake. — E tu devi smetterla di essere così geloso. È tuo amico; ce l'hai portato tu, qui dentro, ricordi? — Cosa è successo al tuo collo? — Scusa, cosa hai detto? — Magda toccò il cerotto, svagata. — Ah, niente. Una puntura d'insetto. — Non tradirmi, amore mio — disse Chris. — Chris, non lo farei mai! Chris la baciò. — Buonanotte, tesoro — le disse. — Ricorda, devi aver fiducia in me e stare molto, molto attenta. — Naturalmente. La tenne fra le braccia mentre si abbandonava al sonno. "Resta con me, Magda!" pensò, sospeso tra la veglia e l'oscurità. Venne il giorno. Stese le mani. Era scomparsa. Ma, ancora una volta, sentì gli spruzzi della doccia. Stava diventando davvero mattiniera. Drake era in piedi, già pronto, quando Chris scese le scale quella sera. Indossava una delle camicie più eleganti di Chris, e un maglione Izod. Faceva una bella figura. — Sono pronto — disse. — Qual è il programma di stasera? Una partita, un concerto, una passeggiata?
— Veramente — disse Chris asciutto — penso che ci sia del lavoro da fare. — Oh — disse il vampiro deluso. Poi guardò Chris, subdolo. — Be', d'altronde non mi mancherà certo il tempo. — Ecco, è proprio di questo che mi piacerebbe parlare, stasera — disse Chris, sedendosi alla scrivania. — Cosa può essere fatale a un vampiro? — Be', non mi dica che non lo sa! — disse il vampiro. — Voglio sentirlo da te. — Dopo, forse, potremmo fare una passeggiata su Bourbon Street e spingerci fino al fiume. Mi piacerebbe proprio guardare il vecchio Mississippi che scorre placido. — Dopo, forse. — Chris sorrise. Il vampiro sospirò pazientemente. — C'è il punteruolo piantato nel cuore. Lo sanno tutti. — Tutti — ammise Chris. — La viva luce del sole. Le prime, deboli luci dell'alba non sarebbero sufficienti, ma la luce piena del sole sì. I vampiri ardono come legno ben stagionato, se sono esposti alla luce solare. — Capisco. — C'è l'acqua santa... ma ce ne vorrebbe una tinozza per ottenere qualche risultato. — Una tinozza di acqua santa. — Chris attese. — C'è qualcos'altro? Un proiettile d'argento, un... — Christopher! — lo interruppe indignato il vampiro. Cominciava ad assomigliare un po' troppo a Magda, nelle sue manifestazioni verbali. — Lei parla dei lupi mannari. Se vuole notizie sui lupi mannari, dovrà procurarsene uno. Chris sorrise. — Bene. Tu vuoi vedere Bourbon Street: andiamo a vedere Bourbon Street. — Dov'è sua moglie? Viene anche lei? — Non lo so. Magda ha l'aria di essere un po' sottotono, ultimamente. Ha sempre sonno. Tu non hai idea di cosa si tratti, vero? — Neanche la più pallida idea — disse il vampiro, totalmente innocente. Chris sorrise. Poteva quasi vedere il sorriso subdolo nel momento stesso che voltava le spalle. Attraversarono ancora una volta il Vieux Carré. Quella sera si fermarono per una cena cajun da K. Paul. Chris ordinò per il vampiro la pietanza più piccante sul menu, e si mise comodo a osservare con somma delizia la cre-
atura che trangugiava acqua a barili. Magda non ci fece caso. Era troppo occupata a ciarlare. Il vampiro conosceva Parigi come le sue tasche. Se la cavava benino con il francese. Giunse perfino a baciare la punta delle dita di Magda nel bel mezzo della cena. Ma riusciva sempre meno a controllarsi, pensò Chris. Mentre Drake baciava la mano di sua moglie, Chris vide le punte luccicanti delle sue zanne. Era lì lì per cedere alla tentazione di un morso autentico. Proprio lì. Nel ristorante. Ammirarono il possente Mississippi, e poi presero vie traverse per tornare alla macchina. Presto furono di ritorno a casa. Augurarono la buonanotte al vampiro. E una volta di sopra, Chris fece altrettanto con sua moglie. — Ricorda, Magda, sta' lontana dalla cantina. — Certo — mormorò lei. E si addormentò all'istante. Adesso sul suo collo c'era un cerotto molto più grande. Chris si scosse dal torpore. Scese silenziosamente le scale e aprì la porta della cantina, lasciando scivolare la croce di Damocle nella tasca della vestaglia. In silenzio, discese in cantina. Il vampiro non se n'accorse. Aveva ancora addosso la camicia, il maglione e i jeans di Chris, ed era seduto davanti al televisore, incantato da Bela Lugosi che impersonava Dracula. Di quando in quando si lasciava andare a un grugnito di disapprovazione. Chris lo aggirò tenendosi alle sue spalle e sprofondò nella poltrona girevole dietro la scrivania. Il vampiro non lo notò. Chris attese. Alle due esatte la porta della cantina si aprì. Magda, una visione di innocenza e purezza nella sua camicia da notte di pizzo e avorio, apparve in cima alle scale. — Drake! — chiamò sottovoce. Chris vide il vampiro sorridere. Un sorriso sornione, subdolo, mostruosamente compiaciuto. Drake si alzò. — Mia cara! — chiamò, rivolto a Magda. Magda corse giù per le scale e gli si gettò fra le braccia. — Dobbiamo assolutamente smetterla di vederci così! — disse Magda. "Ah, Magda, tesoro, un altro cliché", pensò Chris. — Christopher sospetta qualcosa. Be', è ovvio che io sospetti, per chi mi hanno preso, per uno stupido? si
chiese Chris senza fiatare. — Mia cara, Magda! Dopo questa notte, non avrà più importanza! — le disse la creatura. Chris era colpito dall'assurda normalità di tutto ciò, del vampiro che stava lì in piedi nei suoi vestiti, Magda tutta agghindata per sedurre. La gente non cambiava... cambiavano i tempi. — Oh, dopo questa notte avrà più importanza che mai! — sussurrò Magda. — Drake, io voglio quelle cose di cui tu parli continuamente. Voglio viaggiare, voglio spaziare per i continenti! Voglio Parigi in aprile, una spruzzata di shopping londinese. Tutti i posti esotici che tu hai visitato... — All'inferno, ha visitato New Orleans, ecco cos'ha visitato! — sbottò Chris, incapace di trattenersi oltre. Il suo vampiro e sua moglie si bloccarono per guardarlo. — Chris! — disse Magda allarmata. Il vampiro sorrise, tenendo Magda stretta a sé. — È troppo tardi, Christopher. Ti credevi tanto furbo. Be', l'ho posseduta due volte. E ora, lei è mia. — Oh, Christopher, mi dispiace tanto, ma sono sua! — confermò Magda. Non sembrava afferrare appieno in quale modo fosse "sua". — Christopher, caro, io ti amo, ma voglio stare con lui, voglio volare... — Puoi volare? — chiese Christopher, interrompendo sua moglie ma rivolgendosi al vampiro con la massima educazione. — Chris... — riattaccò Magda. — È un vampiro, Magda — le disse Chris, brutalmente. Magda non volle credergli. — Christopher, Christopher, sempre perso in quelle strane fantasie! Non riesci proprio ad accettarlo? Un altro uomo ha bussato alla mia porta. Un uomo affascinante, misterioso! — Allora davvero saresti pronta a fuggire con lui. Anche se è un vampiro? — chiese Chris. — Anche se fosse Satana in persona — ribatté Magda con impazienza. Chris levò le mani e si strinse nelle spalle, guardando il suo vampiro. — Chi sono io per mettermi sulla tua strada? Fa' pure. Fa' quello che ti pare. Magda trasalì quando il vampiro, rotto ogni freno, mostrò le zanne senza alcuna remora o finezza. — Chris! — riuscì a gracchiare lei. — È un vampiro! — Sempre meglio di Satana, suppongo — la consolò filosoficamente Chris. Le zanne erano vicine alla gola di lei.
— Chris...! — Spiacente, cara, ma lo faccio anche per te! Il vampiro fu, come al solito, irreprensibile. Non una goccia si versò sulle carni di Magda o gli bagnò le labbra, quando ebbe finito. Magda cadde ai suoi piedi come una bambola di pezza. — E...? — chiese Chris. — Sì. Tornerà presto in sé, sotto forma di vampiro. Sono davvero spiacente, vecchio mio. Ma tu dormivi al timone, come suol dirsi. Chris scosse la testa. — Sono davvero spiacente, vecchio mio, ma eri tu quello che dormiva al timone. — Prego? — Io ti ho destato — gli rammentò Chris. — E tu mi hai tradito tre volte. — Tre volte? — Le tre volte che ci sono volute per trasformare Magda in un vampiro. Lei è mia moglie, ricordi? Il vampiro strinse i suoi occhi di ossidiana. — Ehi, aspetta un minuto... — Se non giochi secondo le regole, non lo farò neanch'io — lo ammonì Chris. — Adesso devi obbedire ai miei tre comandi! Il vampiro s'accigliò, e fece l'atto di balzargli addosso. Chris gli mostrò la croce, e la creatura indietreggiò. — D'accordo, che cosa vuoi? — Voglio che tu vada via, stanotte. Prenderai con te Magda, naturalmente, e poiché non voglio problemi con la polizia farai una bella scenata davanti a testimoni. — E dove andrò? — In Europa, naturalmente. Farò in modo che la tua bara ti venga recapitata sul posto. E questo è uno. — E il secondo? — Basta con le vittime umane! Ti rifornirò abbondantemente di sangue preso dalla banca del sangue. Non per vantarmi, ma mi considero un uomo piuttosto benestante. A questo punto il vampiro appariva veramente demoralizzato. — Neanche un goccetto di roba fresca di quando in quando? — No. Mai. Il vampiro all'improvviso sorrise. — Io ti sopravviverò, Christopher. — Forse. E forse no. Mi piace intagliare il legno mentre costruisco le trame dei miei romanzi. Avrò un mucchio di punteruoli a portata di mano,
all'occorrenza. Magda cominciava a riprendersi. — Mi sento così strana! — disse. — C'è ancora un ordine — disse Chris. — Sì? — il vampiro era seriamente irritato ormai. — Penso che dovresti destare Deanna. Puoi lasciarla con me. Tu e Magda avrete bisogno di tutto lo spazio possibile in quell'angusta bara. Credi a me... tira calci, la notte! Il vampiro bofonchiò qualcosa, poi puntò l'indice verso il bugigattolo e la bara. — Non vedo niente — disse Chris. — Sarà in piedi nel giro di pochi minuti — lo rassicurò il vampiro. Magda appariva ancora disorientata. Non aveva importanza. Il vampiro la tirò su tenendola al suo fianco. — Cosa...? — Siamo in partenza — disse reciso il vampiro. — Dalla porta principale, per favore — disse Chris. Seguì i due su per le scale. Poi fuori in strada. Il vampiro fece una piazzata, così come gli era stato ordinato. Ma non appena lui e Magda furono in fondo alla strada, non poté trattenersi oltre. Con piglio drammatico, proprio come Lugosi nei film, alzò un braccio. Si trasformò in un pipistrello. Magda lanciò un gridolino, ma nel giro di pochi secondi divenne una seconda, nera creatura della notte, accanto a lui. — Oh no! Cosa mi hai fatto! — si lamentò Magda. La sua voce si era fatta tagliente. — Parigi! — borbottò il vampiro di rimando. — Non volevi andare a Parigi? — E io che volevo andare in prima classe! — frignò Magda. — Su un aereo! Con lo champagne... Chris prese a ridere sommessamente. Senza dubbio ne avrebbe avute di incombenze, il vampiro! Ci fu un leggero rumore alle spalle di Chris, sull'ingresso del castello. Deanna. Il nome gli balzò incontenibile in mente, e per un momento piccoli rivoli di gelo presero a scorrergli per la spina dorsale. Cosa gli aveva lasciato il vampiro? Nel voltarsi si sarebbe trovato di fronte una megera avvizzita? Uno scheletro con brandelli di stoffa in decomposizione, cenere al vento? Si girò. Il gelo si sciolse.
Era, effettivamente, Deanna. Non una forma scheletrica, non un mucchio di cenere. Gli offrì un sorriso tremulo, mozzafiato. Sollevò le mani e le osservò al chiaro di luna, poi sorrise di nuovo alla sua maniera. — Sono umana! — sussurrò. — Sì. — E tu... sì, lui è scomparso... e tu, tu devi essere il mio salvatore. — Lo gratificò di un piccolo sorriso, pensoso e incurvato. — Tu devi essere il mio eroe. Eroe? Non aveva mai pensato seriamente a se stesso nelle vesti dell'eroe, ma era bello poterlo fare. — È vero, ho fatto di tutto per ottenere il tuo risveglio. Il sorriso di lei si fece più intenso. Che viso meraviglioso aveva. Tremava lievemente. — Penso che sei un eroe — disse con dolcezza. Poi scosse la testa con veemenza. — Un eroe che potrei facilmente imparare ad amare. Per l'eternità. — Oh no. Non per l'eternità — la corresse Chris. — Giusto per la normale durata di una vita — disse con la massima calma. — Oh sì! Una normale vita! — confermò lei. Era decisamente fuori moda con la sua gonna lunga e antiquata, ma a quello si poteva rimediare. Magda si era lasciata alle spalle armadi pieni di vestiti. — Devi perdonarmi. È da molto, molto tempo che sono sprofondata nel sonno. In che anno siamo? Chris glielo disse. Lei si sentì mancare il fiato, e lo guardò negli occhi. Sembrò apprezzare quello che vide. — Temo di essere rimasta molto indietro con i tempi — si scusò. — Ci sono tante cose che dovrai dirmi... La sua voce si affievolì. Dava l'impressione di poter crollare al suolo da un momento all'altro. Chris si precipitò al suo fianco. — Lascia che ti accompagni in casa. — La casa ha un aspetto familiare... — Sì, dovrebbe esserti familiare. Naturalmente, ha subito delle trasformazioni. Nel corso degli anni — le disse Chris. — Vieni, te la mostro. Il mio nome è Christopher Lambden, e scrivo libri sui... — Esitò. — Sì? — disse lei, col suo sorriso dolce, in attesa. — Cowboy — disse. — Credo che da ora in poi scriverò storie di cowboy.
Titolo originale: The Vampire in His Closet (1991) Steve Rasnic Tem e Melanie Tem IL DECIMO SCOLARO Aprì la porta lui stesso. Fui delusa che non fosse il suo "aiutante di campo": quel termine mi faceva sempre pensare alle tende, alle erbe selvatiche, ai canti attorno al fuoco e a due settimane di vacanza in campagna, tutte cose che non avevo mai avuto. — Una donna — disse lui. — Certo — risposi. — E con ciò? Ci guardammo negli occhi. Sapevo che non potevo permettergli di farmi abbassare lo sguardo; l'avevo capito sul marciapiede, e avevo meditato a lungo sulla questione prima di giungere lì da lui. Mi ero esercitata a cercare di apparire più dura di quanto in realtà fossi: bisogna dominarsi, avevo sempre dovuto farlo. Quando batti il marciapiede è importante sembrare più dura di quello che sei, e parlare in modo più sciocco di quanto faresti. Se parli in modo troppo intelligente, la gente si mette in testa che tu sia tutta cervello e furbizia in ogni occasione. Con lui, però, sapevo di dovermi mostrare dura, ma non potevo lasciare che mi considerasse una sciocca. Aveva gli occhi verdi e ciglia lunghissime e candide. — Una donna molto giovane — disse. — Non tanto come crede — ribattei, ma non era vero. Avevo sedici anni, ero incinta, e avevo l'aspetto di una ventenne che non abbia perso la rotondità infantile. Le sue sopracciglia canute si sollevarono leggermente, e disse: — Interessante. — Nei mesi seguenti lo avrei udito pronunciare quel commento innumerevoli volte. Fu l'unico complimento che mi fece mai e mi lasciò sempre sorpresa quanto spesso lo usasse, quante cose trovasse ancora sinceramente interessanti, dopo tutti gli anni che aveva vissuto e quelli che aveva ancora davanti. — Ho letto la sua inserzione — gli dissi. Annuì e arretrò di un passo, inchinandosi leggermente mentre faceva un gesto di benvenuto con una mano. Ricordo di aver pensato che aveva delle mani fini, bianche, lunghe e sottili, ma assai pelose. — Entri, mia cara. — "Mia cara"? — Risi. Mi aspettavo di sentirlo parlare in modo ricercato e volevo fargli sapere subito che la cosa non mi impressionava affatto. Anche se, ovviamente, mi aveva impressionato. Non tanto per il suo accento bizzarro o il linguaggio antiquato, ma per il modo in cui mi osservò
e perché pareva veramente trovare interessante la mia presenza lì. Quella per me era una novità, e appena ebbi provato quella sensazione nuova ne volli ancora di più. Entrai e notai il drago d'oro sotto la croce, anch'essa d'oro, sovrastante la porta. Sullo sfondo dell'arredo dai luminosi e moderni colori pastello di quell'attico adibito a ufficio, lui sembrava un personaggio uscito da un film in bianco e nero. Gli unici colori che aveva addosso erano il verde degli occhi e il rosso della bocca, un rosso così intenso come se si fosse messo il rossetto. Vestiva un abito nero, liso e stropicciato, ma non portava il mantello: mi ero aspettata un mantello, e ciò mi lasciò un po' sconcertata. Aveva il viso e le mani così candide che non riuscivo a immaginare nulla di più chiaro, ma poi vidi la punta dei suoi denti che sporgeva dal bordo del labbro inferiore. I capelli ricciuti gli ricadevano oltre le spalle - neri, quando me li sarei figurati bianchi - e i baffi erano canuti come le sopracciglia, tanto che riuscivo appena a distinguerli sulla pelle diafana. — Si accomodi, mia cara. — Quando chiuse silenziosamente la porta, fu come se fossimo le due sole creature al mondo. — Che cosa posso fare per lei? — Ho risposto al suo annuncio — ripetei scioccamente. Non mi andava che le persone si prendessero gioco di me e vedevo derisioni ovunque. Avevo preso a pugni della gente, facendogli gli occhi neri, per molto meno. — Vorrei iscrivermi alla scuola. L'annuncio non diceva di fissare un appuntamento. Avrei voluto essere capace di trovare qualcosa di più intelligente da dire. Per la strada è facile impressionare la gente; anche per Oliver non c'era bisogno di fare grandi sforzi, per quanto all'inizio mi fosse sembrato di doverne fare. Ma quell'uomo era un'eccezione: l'avevo capito ancora prima di recarmi da lui. Era come mia nonna, però era ancor più... abile a capire chi eri realmente e che cosa volevi veramente, anche quando tu stesso non ne eri consapevole. Sedetti sulla gigantesca ottomana che occupava un'intera parete della stanza. L'ottomana era di quel particolare colore giallo-verde che chiamano chartreuse, e le pareti e il tappeto erano malva. Chi avrebbe mai pensato di accostare il malva con lo chartreuse? Chi si sarebbe mai aspettato che quel tizio fosse un arredatore? Ma a quei tempi, chiaramente, lui aveva già vissuto abbastanza a lungo per poter fare qualunque cosa volesse. Quel tipo aveva potere. Una volta che hai il potere, nessuno può farti del male. L'avevo imparato soprattutto sul marciapiede. E anche prima. Il po-
tere avrebbe potuto tenere in vita mia nonna. Non ha molta importanza come lo ottieni perché, una volta che ce l'hai, a nessuno importa molto sapere come l'hai ottenuto. Nella mia vita sono stata vicino ad alcune persone potenti: mia madre, un'assistente sociale o due, dirigenti del reparto del personale e della banca, giudici del tribunale dei minori, Oliver. Ma loro non hanno nulla di speciale. Hanno il potere solo di fronte alle persone che ne sono assolutamente prive, come me. Quel tipo aveva un vero potere, e poteva insegnarmi come possederlo anch'io. Così avrei potuto trasmetterlo al mio bambino. Tremavo di ammirazione, perciò irrigidii il corpo per tenerlo fermo e sperai che lui non se ne fosse accorto. Ovviamente se n'era accorto: lo compresi del suo sguardo divertito. I miei jeans erano sporchi e puzzavano di marciapiede. Mi piacque l'idea di insudiciare il lussuoso rivestimento del sofà. Mi dimenai su di esso, strusciando bene il sedere per essere sicura di sporcarlo. — Gravida — osservò lui. Mi era molto vicino ed era davvero alto. Odio quando la gente, soprattutto gli uomini, mi sovrastano a quel modo: troppe volte, a casa, al riformatorio, nelle famiglie adottive e sul marciapiede, un uomo aveva troneggiato così su di me e aveva finito per scoparmi. Non avevo intenzione di lasciargli capire che mi rendeva nervosa: farglielo capire è come provocarli. Sbadigliai, sperando che il mio fiato fosse tanto cattivo quanto il gusto che avevo in bocca, e misi le mie sporche scarpe da tennis sul bracciolo del suo elegante sofà. — Allora — domandai con il tono più insolente che riuscii ad avere — quali sono i miei compiti? Sedette sull'enorme poltrona che si trovava di fronte all'ottomana. Incrociò le gambe, si aggiustò meticolosamente la gamba del calzone. Non era un uomo molto robusto; era magro come tutti quelli che incontravo sempre sotto i ponti o sotto le pensiline, come se, al pari di loro, fosse sempre affamato; eppure dubitavo che non avesse il denaro per comprarsi il cibo. Per qualche motivo, avevo immaginato che sarebbe stato più robusto. Mi domandai che cosa avrebbe pensato Oliver, che era convinto di sapere tutto ciò che c'era da sapere su quell'uomo, se l'avesse visto di persona. — Non sono sufficientemente intelligente per andare in una merdosissima scuola per yuppie — aveva sghignazzato Oliver. — Sei tu la scolara. Vai, e poi vieni a raccontarci com'è. — Ma non sono mai tornata da loro. Non amavo Oliver: gli ho soltanto lasciato credere di amarlo. Non aveva molto potere; per un po' mi aveva difesa meglio di quanto sapessi fare da sola,
ma adesso ero pronta a qualcosa di più. Ci fu un lungo silenzio. Notai che né dalla strada né dal resto dell'edificio percepivo alcun rumore; udivo solo il suo respiro e il mio. Mentre mi stavo chiedendo una spiegazione di quel fatto, spinsi il dorso della mano contro la parete dietro il mio capo: era porosa e leggermente cedevole, come un tessuto vivo, e prima di riuscire a bloccarmi emisi un gridolino e allontanai la mano. Lui mi vide, ovviamente, e capii che ne aveva preso nota mentalmente. Quello doveva essere una specie di disgustoso esame. Rimase lì tranquillamente con le sottili mani bianche che apparivano ancor più bianche e sottili contro i grandi braccioli chartreuse della poltrona, e mi fissò chetamente senza proferir parola. Ero abituata a quel comportamento. C'era una ragazza colombiana, una che aspettava i clienti nel vano di un portone, che ti fissava così. Sapevi che vedeva tutto di te e lo catalogava nella mente, ma non l'avevo mai sentita dire alcunché, neppure la notte che mi saltò addosso con le unghie e coi denti e mi rubò il panino: tutto, ancora avvolto nella carta paraffinata. L'avevo trovato sul tavolino di un caffè all'aperto proprio quel giorno all'ora di pranzo e l'avevo conservato per tutta la giornata. Il giorno dopo andai al suo portone e mi sedetti dietro di lei sui gradini e la fissai, per vedere che cosa avrebbe fatto. Non fece nulla, così alla fine me ne andai. Stavolta invece non me ne andai, rimasi con lui tranquillamente seduta e lo fissai a mia volta. Non lo guardai dritto negli occhi: il suo sguardo era troppo intenso per me. Però scrutai il suo volto, e di colpo notai una gocciolina color rosso vivo - sangue, pensai - sulla punta di uno dei suoi denti. Parlò per primo, ma non perché io avessi avuto la meglio. — Come si chiama? Non riuscii a trovare alcuna scusa per non dirglielo. — Marie. — E di cognome? Non erano per nulla affari suoi, e comunque non facevo più parte della mia famiglia adottiva. Così risposi: — Bathory — per il solo gusto di vedere quale sarebbe stata la sua reazione, un po' per la stessa ragione per cui certe volte avevo cagato sul marciapiede di fronte a un ristorante di lusso. Ridacchiò. Rideva di me. — E per quale motivo lei desidera venire a lezione di arte mantica, Marie Bathory? Ero preparata a quella domanda. Risposi come mi aveva detto Oliver, anche se, dato che mi infischiavo delle conseguenze, non sempre ubbidivo ai suoi ordini. — Be' — dissi, stringendomi nelle spalle — la gioventù
bruciata cammina sui tizzoni ardenti, no? Il suo sguardo divenne tagliente, e con un solo movimento rapido e improvviso si alzò. — Lei mi sta facendo perdere tempo. Venni colta dal panico. Avevo esagerato in durezza e così avevo fatto la figura della sciocca. Come al solito, Oliver non conosceva ciò di cui parlava. Allora, gli dissi, troppo presto e troppo ansiosamente: — Quando mia nonna morì le piantarono un paletto nella fronte. — Interessante — disse lui, e io mi rilassai un pochino. — Perché? Quella domanda mi confuse e mi prese uno scoppio d'ira. Appoggiai i piedi sul folto tappeto, mi protesi in avanti e alzai perfino la voce. — Che domanda è questa? Lei che cosa penserebbe? Loro pensavano che fosse un vampiro. Assentì. — E lo era? Stavo per dargli una risposta pronta e ben architettata, ma poi mi prese il ricordo della nonna e fui costretta a reprimere le lacrime. Lei mi aveva voluto bene. Ricordai che mi aveva dato un sacco di frustate e qualche volta mi aveva rinchiusa in uno stanzino buio e umido, ma sempre perché me l'ero meritato. Ricordai di essermi sentita protetta e amata con lei e di aver capito che mia nonna era la persona più potente del mondo e che se fossi stata buona e avessi fatto ciò che mi diceva, avrei potuto diventare potente come lei. Ma lei era morta. Non era stata abbastanza potente. Una donna con lo scialle era venuta a piantarle un paletto in fronte. Ricordai la punta che luccicava tra le morbide rughe che aveva in mezzo agli occhi. Mio padre le aveva tirato giù i capelli di un bianco ormai giallastro, nel tentativo di coprire il paletto, ma non aveva fatto nulla per toglierlo. Così avevo compreso che era morta per davvero e che mai più nessuno mi avrebbe amata. Però qualche volta, mentre guardavo gli alti palazzi di New York City, tra i quali ho trascorso tutta la vita, li vedevo come doveva averli visti lei quando sua nonna l'aveva portata qui dalla Romania. Gli edifici si trasformavano in montagne e le strade diventavano crepacci; l'illuminazione poteva provenire dal lago del Central Park o dalle affollate spiagge oceaniche con lo stesso effetto che avrebbe avuto se fosse arrivata da un qualunque laghetto isolato dei Carpazi, più profondo di un sogno. — Sì, lo era. — Prima di allora non avevo mai ammesso chiaramente che mia nonna fosse un vampiro, anche se ne ero sempre stata segretamente certa. Senza alcun motivo, aggiunsi: — Mi manca. — Interessante. È la sua nonnina vampira che le ha parlato della scuola
di arte mantica, vero? — No, è stato Oliver a parlarmene. — Quella era una mezza bugia. Lei mi aveva raccontato qualcosa sulla scuola di arte mantica e sul decimo scolaro, ma quando avevo cominciato a fare domande su quegli argomenti si era tappata la bocca, rammaricata da avermene accennato. Poi era arrivato Oliver e mi aveva raccontato qualcosa di più, così io avevo sognato di poter diventare decimo scolaro; e lo sarei diventata, perché dovevo esserlo per me e per il mio bambino. Lui non chiese chi era Oliver. Non perché lo conoscesse già, solo perché non se ne preoccupò. Eccolo qui tutto il potere di Oliver: sorrisi dentro di me. Quando Oliver sarebbe morto, mi domandai, sarebbe caduta una stella? E qualcuno l'avrebbe notata in mezzo alle luci della città? — Chi è il padre del bambino? — Non lo so. — Era la verità, ma anche se l'avessi saputo non glielo avrei detto. D'impulso, guardando il suo volto, aggiunsi: — Se vuole può diventarlo lei. Il suo viso mutò espressione. Non molto, ma abbastanza perché comprendessi di aver segnato un punto a mio favore. Sorrise, mostrando ancor di più i denti sotto i baffi. — Nessuno accese un cero per mia nonna mentre stava morendo — mi udii dire. — Così morì senza luce. Aveva sempre detto che è la peggior cosa che possa accadere a un essere umano, quella di morire senza luce. Comprese meglio di me il significato di ciò che dissi. — E questa è la ragione per cui lei vuole studiare alla nostra scuola. — Suppongo di sì. — Il decimo scolaro non sarebbe morto senza luce, ne ero assolutamente certa. Era difficile crederlo, ma con ogni probabilità il decimo scolaro non sarebbe morto affatto. Lui si mosse per la stanza. Fluttuava, dico davvero: mi aspettavo quasi che sarebbe evaporato in qualunque momento. Mi domandai se avrebbe potuto farlo veramente, e se poteva farmi da maestro; mi chiesi anche che cosa avrei fatto se mi avesse cacciata via. — Non è una cattiva ragione per applicarsi allo studio — disse. — Ma deve capire che da lei ci si aspetta che studi diligentemente. Che si applichi. — Non sono stupida — dissi, sentendomi stupida. — In ogni classe vengono accettati solo dieci scolari. — Lo so. E uno rimane. Come pagamento. — Esatto. A quanto vedo, lei ha studiato a casa. — Sarò quella che rimane — dissi sfacciatamente.
— Ah, mia cara, ma sono io che scelgo. — Lei mi sceglierà. Di nuovo mi venne troppo vicino e mi scrutò dall'alto della sua notevole statura. La goccia di sangue era sparita: i suoi denti luccicavano. — Marie Bathory, lei sa chi sono io? — Vlad Tepes — risposi, dicendo la "a" aperta con l'accento di Brooklyn come Oliver e pronunciando il secondo nome con la "e" come una "i", sempre alla maniera di Oliver. Scoppiò in una risata e io ne fui mortificata. — Tsepesh! — esclamò. — Si pronuncia Tsepesh! — Mi sforzai e non riuscii a pronunciarlo esattamente. Lui si piegò su se stesso come un enorme scarafaggio e prese il mio viso tra le sue mani gelide. — Marie. Dillo. "Vlad Tepes", l'Impalatore. Riuscivo a respirare appena, ma riuscii a dire: — Tepesh. — Molto bene. Adesso pronuncia "nosferatu". Quel nome era più facile. — Nosferatu — sussurrai a fatica. Le sue unghie si piantarono nella carne tenera dietro le mie orecchie. In quel momento il suo volto freddo e affilato era solo a pochi centimetri dal mio, e pensai che stesse per baciarmi o per affondarmi i denti nel collo. Sarei stata felice in ogni caso. Sussurrò: — Dracula — e io ripetei: — Dracula — e poi mi lasciò andare. Il mio viso era intirizzito nei punti in cui mi aveva afferrata. — Le classi cominciano le lezioni domani — disse. — Rimarrai come me stanotte e riceverai un'istruzione. Più tardi quella notte mi mandò giù nel vicolo a depositare la spazzatura, come avrebbe fatto per molte altre notti durante la mia permanenza. Suppongo che ciò venisse considerato parte del pagamento che gli dovevo. Disse che non si fidava del servizio che veniva fornito a tutti gli inquilini del palazzo, era negligente e inefficiente; precisò che voleva qualcosa di più riservato. La prima notte che mi recai nel vicolo, non riuscii a resistere alla tentazione di curiosare dentro il grosso sacco di plastica nera. Il sacco era talmente pesante che non riuscivo a immaginare che cosa diavolo gettasse via. Scoprii che si trattava di un Rottweiler, con la gola tagliata ancor umida, i bordi delle ferite rosicchiati come se l'uccisore fosse stato tanto affamato da non avere avuto la calma necessaria a fare la cose per bene. Comunque, dovevo supporre che ci fosse lui all'origine di quello scempio, e ciò mi mise in imbarazzo. Chiusi rapidamente il sacco e cercai di
non pensare più a quella scoperta. E non ne ho mai fatto parola con nessuno. Non ho mai creduto di avere un carattere molto competitivo. Sebbene Dracula una volta avesse commentato che ci trovava "interessanti", sia individualmente sia come gruppo, non mi sembrava che fossimo una classe particolarmente valida, in confronto a quelle che ci avevano preceduto. Io ero l'unica femmina, l'unico studente al di sotto dei venticinque anni, ovviamente l'unico che aspettava un bambino e l'unico che viveva presso la scuola. Gli altri andavano e venivano, e pareva addirittura che avessero una vita privata fuori da quel luogo. Non riuscivo a immaginare che qualcuno di loro potesse abitare con Dracula. Ero talmente sicura di poter diventare io il decimo scolaro che non mi preoccupava molto ciò che avrei fatto se Vlad Tepes mi avesse scacciata, né dove sarei andata, né come avrei vissuto. Alcuni dei miei compagni di classe li ricordo appena, e non li riconoscerei per strada. Alcuni di loro, però, li ricordo bene. Andy, per esempio, era un esperto serial killer prima di iniziare il corso, e sono certa che tuttora non ha smesso la sua attività. Anche se Dracula non aveva mai fatto distinzioni basandosi sulle ragioni che ci avevano portato alla scuola, tutti noi speravamo che Andy fosse accettato in classe; ma lui non capì mai del tutto quale doveva essere il suo ruolo tra noi, che cosa ci si aspettava da lui, che possibilità offrisse la scuola. Ho perso il conto di quante prostitute e vagabondi uccise e smembrò: perché il numero aumentava ogni volta che lui ci raccontava le sue imprese. Quando ero in classe lo fissavo e talvolta perdevo il filo della lezione: mi sforzavo di immaginare che cosa Dracula vedesse in lui, e se, incontrandolo per strada senza sapere chi fosse, avrei potuto rendermi conto che era pericoloso come sapevo che era. Ne dubitavo, non perché avesse un aspetto innocente (nessuno per me ha un aspetto innocente, ormai da molto tempo) ma perché appariva molto sciocco. Conrad assassinava bambini. Lo ricordo bene. La linea di condotta ufficiale della scuola di arte mantica prescriveva che torturare e assassinare bambini venisse considerato encomiabile più o meno quanto ogni altro tipo di tattica d'avvicinamento; nonostante ciò non riuscivo a evitare di guardare Conrad con particolare interesse. Era vecchio, forse sulla cinquantina, e in classe partecipava molto. Prese anche a scrutarmi molto, me e la mia pancia, quando questa iniziò a vedersi. Poi c'era Harlequin. In realtà, Harlequin avrebbe potuto essere una don-
na. O avrebbe anche potuto esser un animale (una lucertola, direi, o un pipistrello) o qualche cosa di extraterrestre di cui nessuno ha mai sentito parlare. Non avevo idea, per di più, di quanti anni avesse, o a quale razza appartenesse. Si celava sotto spoglie sempre diverse, trasformandosi in un ballerino esotico, un adescatore, un teatrante, un mendicante. Era al medesimo tempo frenetico e rude, violento come uno strupratore in un vicolo puzzolente e agile come gli spiriti eternamente inquieti che mia nonna chiamava strigoi (inquieti, ricordo, per aver compiuto un grosso peccato o per un tesoro non restituito). Non ho mai saputo che credenziali avesse fornito per farsi ammettere alla scuola o come riuscisse a ottenere dei voti così incredibilmente alti: se non per il fatto che, invece di avvicinarsi furtivamente alle sue vittime e terrorizzarle, le attraeva e seduceva cosicché morivano non di paura ma per la troppa emozione. Ciò che di Harlequin ricordo più distintamente, però, sono i fulmini e il sangue. Una mattina stavamo seguendo l'abituale lezione di pratica al Central Park. Il sole probabilmente stava già sorgendo al di là di un orizzonte che non potevamo vedere. Il grande anfiteatro del parco, racchiuso dal cerchio di grattacieli come da una catena di montagne, era ancora immerso in un buio profondo e il cielo color carbone-rosato lo sovrastava come un manto plumbeo. Andy, come al solito, era già semiaddormentato: in quel luogo si trovava a suo agio. Conrad, come al solito, era ingrugnito perché nel parco a quell'ora c'erano pochissimi bambini e quelli in giro erano già stati catturati. Harlequin era ancor più straordinario del solito, avrei giurato sulla sua preparazione. Ho sempre odiato i primi della classe. Lui fu il primo di noi a prendere dimestichezza con la tecnica dell'evaporazione; cominciò a scomparire e riapparire in tutti i posti possibili, eclissandosi nella fontana in forma di gocce d'acqua, scivolando sull'erba bagnata di rugiada per poi attorcigliarsi con aria adorante attorno alle caviglie di Dracula. Dracula aveva sempre stimato Harlequin più di quanto meritasse realmente. Ma quella mattina finalmente osservò con severità: — Tutto ciò è molto divertente, ma stai solo distraendo te stesso e gli altri dall'applicarsi seriamente alle materie di studio. Harlequin emise una risata simile al verso di un gabbiano, si allungò e assottigliò e protese verso il pallido cielo le palme delle mani a coppa. Una pioggia di stelle cadde sulla città, stelle non ancora pronte a cadere. Anime che lasciavano la terra, avrebbe detto mia nonna. Anime allontanate da
questo mondo prima che fosse giunta la loro ora, pensai, e di malavoglia dovetti ammettere di fronte a me stessa lo stile e la specializzazione di Harlequin. Il bambino scalciò. Lo sentivo bene il mio sangue attraverso il cordone ombelicale, e mi resi conto che mi stava trasformando in qualcosa che non volevo diventare. Immaginai di affondare i denti nel suo piccolo collo ancora non sviluppato, nell'appendice del mio stesso sangue e della mia stessa carne. Harlequin corse verso il lago e il resto di noi lo seguì. Trovò un sasso delle dimensioni di un bambino, lo sollevò al di sopra del suo lucido cranio calvo e lo gettò nel lago. Lo sciabordìo del sasso nell'acqua tra i rumori dell'alba cittadina non fu molto impressionante, e la superficie del lago si richiuse in fretta; ma là sotto c'era un drago, che si destò. Due, tre, quattro lunghi fulmini scaturirono dal lago e attraversarono l'aria raggiungendo il cielo, dal quale illuminarono le cime dei grattacieli. Immediatamente si propagò un odore di capelli e carne bruciata e tra le ombre sull'altra sponda del lago qualcuno lanciò un urlo. Dietro di me, poiché stava sempre dietro di me, Dracula mormorò: — Interessante — e l'invidia germogliò come un feto in fondo al mio animo. Ma Harlequin dava sui nervi a tutti, e proprio prima della fine della lezione, mentre il sole cominciava ad apparire sopra i palazzi ed Andy era quasi addormentato, Dracula perse la pazienza: — Harlequin, basta. Ne ho abbastanza. Stamattina, o dimostrerai seduta stante ciò che sai fare, o lascerai la scuola di arte mantica. Rimasi sconcertata. Non sapevo che ci fosse il rischio di essere espulsi. Spaventata, cercai di avvicinarmi a Dracula, in preda al desiderio di sfiorarlo pubblicamente, come per rivendicare davanti agli altri i miei diritti e mettere fine all'inutile diatriba per il decimo scolaro. Ma Dracula guardava Harlequin e non si accorse di me. Harlequin era assolutamente immobile e tra le ombre in movimento dell'aurora appariva debole e fragile. Fino a quel momento non mi ero resa conto che soffriva e che avrebbe dovuto soffrire perpetuamente. Era immortale, come ovviamente tutti quanti noi, e si sarebbe consumato in eterno. La sofferenza era la sua maledizione e il suo potere: i suoi baci trasmettevano alle sue vittime, che erano anche i suoi amanti, una sofferenza eterna. Dalla zona dietro i cespugli che ci separavano dal viale, udimmo provenire delle voci. Ci alzammo in piedi, compreso Conrad, che sperava di udi-
re la dolce voce di un bambino lasciato incustodito. Anche Andy cercò di alzarsi, ma ormai per lui il sole era troppo alto. Provai a muovermi ma Dracula mi trattenne, appoggiando la gelida mano sul mio pancione. Harlequin si fermò, forse per cinque secondi, concentrandosi come Dracula ci aveva insegnato a fare prima di assalire una vittima, poi attraversò i cespugli. Conrad e alcuni studenti si appostarono tranquillamente a osservare la scena, ma Dracula rimase dove si trovava e tenne lì anche me. Non c'era quasi alcun rumore. Harlequin ovviamente non ne faceva mai, perciò le sue vittime non si accorgevano di quello che stava accadendo loro. Era il modo giusto di agire: Dracula non poteva soffrire il rumore. Ricordai quanto era stata silenziosa anche mia nonna: quanto era calma. Aspettammo. La luce del giorno aveva cominciato a diffondersi nel parco e la lezione era quasi finita quando Harlequin, come un ballerino, fece un balzo all'indietro e piombò nella radura, in mezzo a noi. Avevo il volto e gli abiti rossi di sangue. I suoi denti gocciolavano sangue. Sembrava carico di un'energia che da tempo non aveva più, appariva più robusto. I suoi movimenti erano più fluidi e precisi, meno insicuri. Nelle mani tese teneva due lunghi thermos d'argento, evidentemente tolti alle vittime. Si lasciò cadere in ginocchio, chinò il capo come in segno di offerta, poi fece passare una bottiglia alla destra e l'altra alla sinistra del nostro circolo. Dracula bevve per primo, con gli occhi chiusi per il piacere e la lunga gola che gorgogliava. Finalmente, senza aprire gli occhi, mi passò il thermos. Il sangue era caldo e dolce. Ovviamente le vittime dovevano essere vergini, e lo erano. Un ragazzo e una ragazza sul punto di divenire amanti prima dell'irruzione di Harlequin. L'imboccatura dei thermos era piuttosto larga e il sangue mi cadde sul naso e sul mento, inondandomi di vitalità. Sapevo che una parte di esso avrebbe raggiunto il bambino e ne fui felice; poi desiderai che non lo raggiungesse perché in tal modo poteva non essere sufficiente per me, anche se comunque non potevo impedire che anche il bambino bevesse. Tracannai finché non mi sentii rinvigorita e poi, con riluttanza, passai la bottiglia ad altri. Quando Dracula disse "mostrami ciò che sai fare", stavamo facendo l'amore tra le sue lenzuola di seta rossa. Per quel giorno gli altri erano andati a casa o nei luoghi dove si recavano di solito quando non erano a scuola: non saprei dire quali. La luce dell'alba cittadina, grigia e azzurrina, entrava
dall'alta finestra ed era eccitante stare svegli. Lui mi montava stando carponi, e sotto l'enorme massa della mia pancia il suo pene mi penetrava facilmente. Mi elettrizzava il pensiero del suo organo che andava su e giù dietro il feto, come la punta di un dente. Presto avrei compiuto diciassette anni. Presto il bambino sarebbe nato. Presto avremmo avuto il diploma. — Mostrami ciò che sai fare — disse, e io pensai che alludesse a qualcosa di sessuale. Benché non riuscissi a immaginare che cosa ci fosse ancora che non avessi già fatto, dissi ansimando: — Dimmi che cosa vuoi che faccia. Sprofondò il viso nella mia spalla. I suoi denti sfiorarono il mio collo e si appoggiarono in un punto, ma non affondarono ancora: si prendeva gioco di me. — Mostrami ciò che sai fare — bisbigliò di nuovo — o lascia la scuola di arte mantica. Subito. M'irrigidii per la paura, il risentimento e il desiderio convulso. Cercai di avvolgere le braccia e le gambe attorno al suo corpo, ma la mia pancia era troppo grossa, il bambino ci separava, e Dracula stava scendendo lungo il mio corpo. Aprii le gambe e attesi la sua lingua sottile, ma si fermò all'altezza dell'ombelico e sentii i suoi denti che mi sfioravano. — Non sei tu il decimo scolaro — lo sentii dire. — Perché no? Chi è? Harlequin? Merda, pensavo che tu fossi abbastanza furbo da capire che lui... — È il bambino il decimo scolaro. La punta di un dente entrò nel mio ombelico e si ritrasse nuovamente. Era il preludio a un gesto che mi avrebbe provocato dolore. Mi dibattei debolmente tentando di allontanarlo da me. Ovviamente non ci riuscii e, in ogni caso, non avrei saputo dove andare se fossi fuggita da lui. — Vuoi dire che non posso restare? — Ti ho insegnato tutto ciò che potevi imparare. Quel tradimento mi dette un senso di stordimento, come se lui avesse già affondato i denti. — No — esclamai scioccamente. — Ti prego. La sua voce mi giunse come un canto monotono, seducente, ma fredda come sangue immortale. — Se mi dai il bambino ora, puoi rimanere e allevarlo finché non prenderà posto al mio fianco. Dodici anni, forse, o dieci, o quattordici, dipende dal suo carattere e dalle sue inclinazioni. Se non mi dai il bambino, te ne andrai. Stasera. Ho perso l'interesse che provavo per te. — Prendilo — risposi.
L'immagine del cane con la gola squarciata mi tornò in mente. E con essa ebbi la visione di mia nonna, che era morta anche se io ero convinta che non sarebbe mai morta, e che mi aveva abbandonata. Mi morsi con violenza il labbro inferiore per scacciare quelle visioni. All'inizio, in effetti, non fu più doloroso di un morso qualsiasi, se non fosse stato per le sensibili terminazioni nervose del mio addome. Succhiò e bevve molto sangue. Ancor prima che finisse ero così confusa che ci vedevo a fatica e lui, ovviamente, era inebriato. Le sue mani mi accarezzavano dappertutto: sentivo la sua pelle fredda, le sue unghie aguzze. La sua lingua mi passò su tutto il corpo. Aveva cominciato a cantare tra sé e sé, a cantilenare, e il suo sorriso era dolce e rilassato. Incapace di prevedere che cosa sarei stata quattordici anni dopo, come sarebbe stata la città quando vi sarei ritornata da sola, dedicai la mia attenzione solo a lui; solo ai fori che i suoi denti mi praticavano dall'ombelico al vello pubico; solo alla sua promessa che se avessi fatto ciò che voleva mi avrebbe tenuta con sé. Il sangue sgorgò e con esso cominciai a soffrire. Persi conoscenza e la riacquistai e poi la persi di nuovo: vedevo le stelle che cadevano. Quando mi svegliai, la luce era dello stesso colore grigio-azzurro di prima, ma ero sicura che fosse trascorso del tempo. C'era una terribile, straordinaria sensazione di vuoto nel mio addome, e la ferita iniziava già a cicatrizzarsi. Udii la bizzarra cantilena di Dracula e il verso gorgogliante di un neonato, ma per un attimo non lo vidi. Lo chartreuse, il malva, il rosso-sangue della stanza si mescolavano intorno a me come un tessuto vivente. Poi vidi la forma alta e sottile di lui vicino alla finestra, imbrattata del mio sangue, di quello del bambino di quello ricco e nutriente della placenta. — È una femmina — disse lui. Mi sentii ubriacata da una particolare forma d'orgoglio: avevo partorito una bambina sana che sarebbe diventata il Decimo Scolaro, anche se io non potevo esserlo. Avevo continuato la stirpe di mia nonna. Avevo dato a Dracula qualcosa che voleva, qualcosa che, evidentemente, nessun altro gli aveva mai dato. E quattordici anni erano tanti. Era, ovviamente, un inganno. — Vai, ora — disse, quasi con noncuranza, fissando la neonata tra le sue braccia. — Come? — Vattene. La scuola di arte mantica è terminata. — Hai detto che potevo restare. Hai detto... — Non vedevo nessun vantaggio a sforzarmi di prendere mia figlia con
la forza quando tu potevi darmela senza problemi. — È mia figlia! La piccola era tra le sue braccia, tranquillamente rannicchiata. In un modo o nell'altro sarebbe stata nutrita. — Sono suo padre — disse, e compresi che era vero. Poi mi rivolse uno sguardo, verde e biforcato come un fulmine, e disse: — Va'. Qui non c'è posto per te. Mia figlia oggi ha quattordici anni. La cerco e la vedo dappertutto. Probabilmente non la riconoscerei, se anche la incontrassi, se non per la sua somiglianza con lui. Uccido per vivere: non c'è piacere nel farlo. Contagio alcune delle mie vittime con l'immortalità, nella speranza che diventino miei compagni, ma se ne vanno sempre via. So che i miei compagni di scuola sono qui in giro, e che hanno imparato dal Grande Maestro: cerco di non dimenticarmene. Cerco di difendermi da loro, ma non so esattamente che pericoli vi siano, quanta sofferenza potrei ancora incontrare. La città sembra piena di diplomati della scuola di arte mantica e aspiranti scolari, e faccio fatica a credere che al giorno d'oggi Dracula accetti solo dieci scolari alla volta. Titolo originale: The Tenth Scholar (1991) Philip J. Farmer NESSUNO E PERFETTO Rudolph il Redentore aveva appena finito di succhiare il mio sangue. Avevo il cervello che sfolgorava come un riflettore, e la clitoride che pulsava. Volevo scongiurarlo di continuare a succhiare, ma la ragazza in fila dietro di me si mise a urlare: — Muoviti, puttana! — Rullavano i tamburi; le trombe squillavano. Il pubblico ammassato nell'auditorio strillava da stroncarsi i polmoni. Le guardie del corpo di Rudolph, appostate proprio sotto il palcoscenico e dietro le quinte, dovevano essere ancor più sul chi vive, in quel momento. Un anno prima, un assassino aveva sparato a Rudolph durante questo rituale. Tre mesi dopo, la cosa si era ripetuta. Intontita, con le ginocchia molli, mi avviai verso le scale che conducevano in platea. Ma lui gridò: — Sei quella che ho cercato per anni! Credo
di amarti! Io ero allo stesso tempo elettrizzata e incredula. Parole così romantiche me le sarei aspettate in camera da letto, sussurrate sommessamente, accompagnate tutt'al più dai miei respiri affannosi e dallo scricchiolio delle molle del letto, e forse da "Adescata, scopata e abbandonata" suonata a tutto volume. Ma non avevo intenzione di discutere con lui. Un rivoletto di sangue gli scorreva dall'angolo della bocca. Sorrise, mettendo in mostra i canini d'acciaio rossi e gocciolanti, fissati ai canini veri. Aveva occhi di fuoco. Incandescenti. Come seppi in seguito, era l'effetto dell'ultimo ritrovato in fatto di "buchi", che lui apprezzava in modo particolare: il God Trek. Rende i tuoi occhi simili a porte spalancate sull'inferno, benché vi sia chi afferma che ti dischiude le porte del paradiso. Sia come sia, è certo meglio dell'eroina, del crack, degli acidi e del peyote. Comunque, come scoprii presto, Rudolph li usava tutti. Ma lui non s'imbottiva di quelle porcherie per lo stesso motivo che spinge tanti altri a farlo. Cioè, per sentirsi normale. Lui assumeva quelle droghe per riuscire a sentirsi umano. Il che suppongo che sia la stessa cosa. Non mi sono mai interessata molto alla filosofia. Cosa me ne frega dei guru e dei santoni buddisti, sono tutti ciarlatani, e del karma e del mantra, e se Immanuel Kant aveva la fica o no. — Vieni a casa mia a mezzanotte! — urlò lui. — Non sono l'avventura di una notte! — urlai di rimando. Mentivo, e lui lo sapeva. Ma prese la ragazza successiva, la piegò all'indietro, prese il suo seno nella mano sinistra e la morse sul collo. Di nuovo, rombar di tamburi, e la folla ruggiva come anime perse improvvisamente illuminate dalla speranza. La ragazza ebbe un orgasmo, o ne simulò uno: come spesso accade oggidì, ma gli uomini non se ne curano. Siamo quel che sembriamo, mi ha detto una volta un amico. Comunque, io di certo non avevo simulato un bel niente. E forse anche lei stava sentendo lo stesso delizioso fuoco freddo che mi aveva invaso, partendo dalle unghie dei piedi per attraversare tutto il corpo fino a ottundermi il cervello, con un'estasi che neanche il peyote e il God Trek avrebbero potuto eguagliare. Rudolph lasciò andare la ragazza e afferrò il ragazzo foruncoloso dietro di lei. Non so se quel ragazzo fosse gay o etero, ma era perso nell'estasi. In parte religiosa, in parte sessuale; o c'è una qualche differenza, per quanto mi ripugni doverlo dire? Di sicuro, non c'è differenza quando il Redentore ti accoglie nel Corpo Benedetto, e non c'è differenza tra maschi e femmine
quando si accetta allo stesso tempo l'iniziazione e la comunione. Soltanto, è una comunione alla rovescia perché è Rudolph, in questo caso il prete e, a quanto afferma, il vicario di Cristo, a bere il vino del tuo sangue. Ma tu ricevi un po' della sua santa saliva nelle tue vene. Alle scale, una ragazza mi spruzzò del disinfettante sulla ferita del collo, e ci sbatté su un cerotto. Quando avevo preso il mio biglietto, avevo firmato una dichiarazione in cui sollevavo Rudolph il Redentore da ogni responsabilità per qualsiasi infezione o stress emotivo che potessero derivare dal morso sul collo. Rudolph non si preoccupava dell'AIDS o di altre malattie. Affermava che i vampiri sono immuni dalle malattie umane. Ero eccitata? Sì! Ma anche se non stavo più nella pelle, come si dice, mi chiedevo se Rudolph pensasse davvero le cose che aveva detto. Se credeva che io sarei stata pronta a offrirmi e ad accoglierlo in ogni momento e in ogni luogo finché il primo entusiasmo non si fosse spento (raramente dura, quasi sempre si estingue), be', aveva ragione. Ma se s'illudeva di tenermi con sé per continuare a spillarmi sangue, come un fattore che munga una mucca, si sbagliava. Non mi posso permettere di perdere molta della mia preziosa emoglobina. Ho già avuto abbastanza guai con l'anemia e con la pseudo-epatite. Quel God Trek non si limita a intossicarti il sangue, ti spappola il fegato. Anche se, in quei momenti, pensi che ne valga la pena. Perché aveva scelto me? A costo di sembrare presuntuosa dirò che ho delle gambe strepitose e un paio di tette grosse e sostenute, esenti da silicone: queste, più la mia faccia alla Liz Taylor, mi avrebbero spianato la strada per diventare una star, almeno così pensavo una volta. Nessuno mi aveva detto che è necessario avere un minimo di capacità di recitare per dare la scalata al successo. Io ero un'anima innocente, o forse ero soltanto irrimediabilmente tonta. Troppo tonta per sapere che produttori e registi sono pronti a prometterti tutto se questo può servire a farti la festa. Comunque, io non ero l'unica dea in quella folla, e lui doveva essersi fatto caterve di divine ragazze. Allora, perché proprio io? Aveva visto in me qualcosa che mi faceva emergere tra tutte, comportandosi come uno scarafaggio infoiato che trovi una noce americana in mezzo alle noccioline miste? L'avrei scoperto andando a casa sua. Che si trovava dove? Fui piacevolmente sorpresa quando un tizio mi passò un biglietto dicendomi: — Da parte del Redentore. — Lo aprii. Conteneva un messaggio a stampatello (probabilmente non era sicuro che riuscissi a decifrare la sua scrittura). Il fatto che fosse scritto rivelava che doveva avermi notato prima che il ri-
tuale avesse inizio, probabilmente guardando uno degli schermi televisivi che riprendono il pubblico. Essendo ancora occupato a succhiare il sangue dagli iniziati, non poteva aver trovato il tempo di scrivermi un messaggio. Il biglietto diceva che un autista con limousine mi avrebbe accompagnata, alla fine dei cerimoniali. Ecco qualcosa che mi faceva sentire davvero speciale! Oppure lo faceva a ogni rappresentazione, di scegliere qualche bella pollastra il cui cervello era nelle sue mani, e che aveva già perso la grazia e stava per approdare nel suo letto? Per quanto ne sapevo, messaggi come il mio erano stati recapitati a un mucchio di groupies, nel corso della serata. A ognuna era stato indicato un orario diverso. Così, quando il tempo a mia disposizione fosse finito, sarei stata buttata fuori. Gloria, gloria, gloria! Anche se una ragazza veniva cacciata a calci senza neanche un grazie dopo un'ora passata con Rudolph, non aveva il diritto di sentirsi incazzata. Assolutamente. Era sempre una fortunata, una delle elette. Non era solo un'esperienza di cui vantarsi: quando andava via le restava qualcos'altro, dentro, oltre allo sperma del Redentore. Era il regno venturo del Redentore, un posto in paradiso, una benedizione eterna, una infallibile sicurezza di appartenere agli eletti, un perpetuo dominio nella Nuova Terra. I suoi seguaci lo sapevano: quando la vecchia Terra fosse stata redenta da Rudolph, loro sarebbero divenuti immortali. Avrebbero vissuto davvero in eterno, corpo e anima. Inoltre, alle donne possedute da lui era riservato un posto speciale nella dimora celeste. Era come se Rudolph le ricompensasse di aver copulato con lui, non con il denaro ma con l'aureola dei santi. Beatificate tramite una comunione di sangue. Canonizzate tramite un pene. Dopo quello che sembrò un tempo insopportabile, che non vedevo l'ora di trovarmi da sola con il Redentore, giunse il rituale di chiusura. Rudolph fu innalzato dai musicisti della Comunione di Sangue, e inchiodato mani e piedi a un trespolo formato da una combinazione della croce, della stella di David, della mezzaluna e della svastica. Quell'ultimo simbolo era stata una pietra dello scandalo per i non credenti; ma Rudolph diceva che essa era l'antico simbolo buddista, con l'uncino rivolto a destra e non a sinistra come la croce uncinata disonorata dai nazisti. Il sangue gli sgorgava dalle mani e dai piedi, e quelli della banda, eccetto il tamburino che continuava a picchiare sul suo tamburo, lo leccavano mentre scorreva giù per l'asta del sacro Mantra. Poi svelsero i chiodi dal Mantra e trasportarono Rudolph sulle spalle fino alla bara: ve lo adagiaro-
no e chiusero il coperchio. Questi atti furono compiuti tra le lamentazioni di tutti i presenti, che contemporaneamente si battevano il petto. I musicisti tornarono ai loro strumenti e intonarono le note di Il sangue è vita. Il suono sembrava una fusione tra i rumori che si udivano nelle fucine delle antiche deità pagane e quelli degli angeli che lavorano nell'arsenale celeste, come se la banda stesse forgiando le armi per il Crepuscolo degli Dei e per Armageddon nello stesso tempo. Il ritmo dava l'impressione che la fine del mondo fosse proprio dietro l'angolo. Almeno, questo era quanto aveva scritto un critico musicale. Per una volta, non erano tutte stronzate. Poi, dopo una lunga pausa, durante la quale la folla ammutolì, la banda attaccò con Sorgi, sorgi e brilla, luce del mondo! Il coperchio della bara si alzò lentamente. Poi Rudolph si mise seduto, e dopo saltò. Proprio così, balzò fuori dalla bara rimanendo in posizione seduta, e atterrò sui propri piedi, sorridente, a braccia alzate e aperte. La folla ruggì, un immane coro di 200.000 umani sembrò modellarsi e prendere la forma di un gigantesco leone, che con la sua gola colossale lanciava una sfida per scuotere le mura del tempio; per scuotere le mura del cosmo stesso. Io mi sentivo veramente esaltata, in una piacevole frenesia di gioia. Non volevo provarla. Ma non riuscivo a sottrarmi a quel maremoto di emozione che scaturiva da tutta quella gente e che sgorgava dai miei più intimi recessi. Nessuno è perfetto. Rudolph stava lì, con le braccia sempre levate al cielo, mentre le ferite alle mani e ai piedi cominciavano a chiudersi come i night-club dopo le quattro del mattino. Poi la folla sfilò fuori cantando "Sorgi!". Potentemente scossa, benché silenziosa, uscii lentamente con i cantori. Erano le 23, a Los Angeles, ma le luci all'esterno dell'auditorio erano vivide quasi quanto un mezzogiorno senza smog. Una nutrita schiera di fanatici anti-Redentore ci stava aspettando. Volevano divorarci, come i leoni che attendevano i cristiani. In questo caso, era esattamente il contrario. In realtà, i componenti di quelle schiere anti-Redentore erano cristiani di varie sette ed ebrei, musulmani, indù, buddisti e perfino alcuni neo-vuduisti. Ma i fondamentalisti, altrimenti noti come letteralisti, erano i più numerosi e i più pericolosi. Se non fosse stato per l'esercito di poliziotti, i fondamentalisti avrebbero tentato di ammaccarci la testa con i cartelli che agitavano al nostro indirizzo.
"La vendetta è mia, dice il Signore." Ma queste persone erano agenti di Dio, ed erano pronti a mettere in atto il Suo piano. Se ci fosse stato bisogno di qualcuno disposto a porgere l'altra guancia, loro non si sarebbero offerti di certo. Ma, come ho già detto, nessuno è perfetto. Una persona obiettiva (esiste qualcosa del genere?) avrebbe potuto dire che quelli avevano molte ragioni per sputar veleno. Ecco a voi Rudolph il Redentore che afferma di essere un autentico vampiro ma allo stesso tempo un salvatore consacrato dal Creatore, e da lui inviato sulla Terra per farla tornare verde come una volta e risolvere la maggior parte dei suoi problemi. E lui ha un paio di milioni di discepoli che sarebbero ben lieti di baciargli il culo a una sua parola. E poi questo balordo tossico succhiasangue, questo sacco di pulci blasfemo e arrapato che espone le palle dipinte di giallo e il cazzo dipinto di rosso durante quei suoi rituali, pretende di essere l'unico e vero salvatore del mondo. Non è un tantino troppo, anche per questo paese dove regna la libertà di parola? Sul libro nero delle persone da sopprimere, Rudolph è il primo. È più odiato del presidente degli Stati Uniti, o dei cattivi di turno nelle telenovelas. Gli hanno sparato, ed è stato anche ferito da una bomba. Eppure, pochi minuti dopo gli attentati, le sue ferite si sono sanate. Quindi, dev'essere un vampiro vero. In realtà, se quanto affermano i suoi nemici è vero, potrebbe essere un demonio giunto in un volo di prima classe espressamente dall'inferno, agente in avanscoperta per conto dell'Anticristo; se non proprio l'Anticristo in persona. Nel qual caso, secondo il credo e la logica fondamentalisti, non sarebbe peccato ammazzarlo. Non sarebbe neanche un omicidio. Quindi, la prossima volta, sarà opportuno che l'assassino usi un fucile di grosso calibro o una bomba più grossa. Perché non un missile anticarro? Era pericoloso stare vicino a Rudolph nel raggio di cento metri, ma centinaia di migliaia di persone correvano volentieri quel rischio. E io stavo facendo la stessa cosa. Questo vi dovrebbe dare un'idea del suo carisma. Ogni singolo componente della colossale fiumana che usciva dall'auditorio si beccò la sua razione di ingiurie e maledizioni. Un sacchetto di carta pieno di merda umana mi passò vicino alla spalla e andò a spiaccicarsi su una ragazza dietro di me. Grida di "Anticristo!" e "Infernale demonio succhiasangue!" e molte altre, alcune oscene, altre roventi d'odio, si levavano come carta bruciata in un fortunale. Cartelli fluttuavano dappertutto. NON PERMETTERE CHE UNA STREGA VIVA. SATANA È FRA NOI, IL SUO NOME È RUDOLPH, IL SUO NUMERO È 666. Un cartello, IL
GIORNO DEL GIUDIZIO DIVIDERÀ LE PECORE DALLE CAPRE rivelava qualcos'altro, oltre al fervore religioso di chi l'aveva scritto. Appena prima che la limousine gialla si fermasse accanto al marciapiede, vidi il faccione a zucca di George Reckingham e il suo naso a forma di carota. Era nella fila frontale dei dimostranti, che si contorceva come un serpente ferito mentre i fondamentalisti tentavano di sfondare il doppio cordone di piedipiatti grondanti di sudore. Agitò una mano nella mia direzione e gridò qualcosa. Io scossi la testa per fargli capire che non sentivo niente. Allora lui alzò le mani, formando una O con pollice e indice. Ma riuscivo a leggergli sulle labbra: ero stata allenata a farlo. "Hai fatto il primo passo e anche il secondo. Dio ti benedica e ti mostri il giusto cammino per il terzo." Voleva dire che il primo passo era stato disintossicarmi dalla droga, cosa che non sarei mai riuscita a fare senza il suo aiuto amorevole. Non credo che l'inferno abbia tormenti peggiori, anche se George non sarebbe d'accordo; ma lui nel fuoco non c'è mai stato. Il secondo passo l'avevo fatto quando avevo trovato un mio equilibrio interiore. Il terzo passo era qualcosa a cui lui era contrario. Diceva che era troppo pericoloso per il mio spirito che io continuassi a frequentare i drogati (si rifiutava di usare eufemismi come "chimico-dipendenti"). E la mia anima versava nel più grave pericolo se mi mostravo "carina" (un altro eufemismo) con l'Anticristo. Aveva anche il sospetto che io scopassi un bel po', proprio com'era mia abitudine prima di conoscerlo. (Per lui non esisteva l'espressione "avere rapporti sessuali". Diceva pane al pane, lui.) Be', lo sapevo. Non ho la minima intenzione di rinunciare a quello. Il Creatore, quando fece la vagina, non se la immaginò coperta di polvere e ragnatele. George era un fondamentalista, ma non sono cloni. Non vi fate ingannare da nessuno. Hanno correnti di destra e correnti di sinistra, e rappresentanti di centro e radical-estremisti. Anche se tutti sostengono che le Sacre Scritture devono essere interpretate con la massima puntualità, differiscono enormemente sull'interpretazione della lettera e anche dello spirito. Ma hanno una cosa in comune. Sono tutti mossi dalla fede in Dio, come l'olio di ricino smuove gli intestini. Non possono combattere contro di essa. La stessa cosa valeva per i seguaci di Rudolph. Sorrisi e salutai George con la mano, prima di entrare nell'auto. Ci avviammo lentamente nel traffico, che era un vero casino. Come aveva fatto l'autista a individuarmi tra la folla? Meglio non chiederlo, dissi tra me e me. Se c'era di mezzo la magia nera, preferivo non saperlo.
Fui accompagnata fino a un palazzo nuovo sul Wiltshire, a Westwood. Dovetti superare un sistema di sicurezza con un centinaio di occhi elettronici, subire la perquisizione (forse anche più stretta del necessario) da parte di un battaglione di guardie, e attraversare Dio solo sa quanti sensori prima di scendere dall'ascensore per approdare nella mansarda. Probabilmente fui esaminata ai raggi X nel tempo che l'ascensore impiegò ad arrivare su. Mi trovai da sola in una serie di stanze che esibivano un lusso squallido, o un lussuoso squallore. Ma ciò che catturò il mio occhio fu il grosso stemma gentilizio che campeggiava sulla mensola del camino. Avevo visto le foto di quel blasone alla tv e sui giornali. Era lo stemma di una nobile famiglia scozzese, i Ruthven, dalla quale Rudolph discendeva. Qualche persona sconosciuta l'aveva fatto costruire per fare un regalo a Rudolph. Ma dove lo stemma originale mostrava una capra e un ariete che sostenevano i fianchi dello scudo, il donatore aveva fatto sovrapporre a ciascun animale un'enorme siringa ipodermica di legno. Era il suo scherzoso tributo alla ben nota dedizione di Rudolph alla droga. Un altro oggetto, che non ci si aspetterebbe di trovare nell'appartamento di un vampiro, era un gigantesco crocifisso appeso al muro. La sua vista non mi sorprese perché Rudolph ne aveva riso nel corso di una trasmissione. — Le croci non ci impensieriscono — aveva detto. — Sono tutte leggende senza un briciolo di verità. Dovete sapere che i vampiri erano in circolazione già nell'età della Pietra, molto, molto prima che il Cristianesimo facesse la sua comparsa. Il cinema ha ingigantito queste credenze, e oggi sono tutti convinti che i crocifissi ci facciano vedere i sorci verdi! Lo stesso dicasi per l'acqua santa. Diavolo, io tengo acqua santa in bottiglia proprio nel mio appartamento! Bevo quella roba appositamente per dimostrare che sono tutte balle! Le stanze non erano state pulite di recente, e l'aria era greve di diverse zaffate di roba, fra le quali spiccava l'orrenda puzza del mindjam. C'erano posacenere ricolmi all'inverosimile di cicche di sigarette e di marijuana; e sui tavoli, sulle sedie e per terra c'erano aghi e siringhe, per la maggior parte usate, e sacchetti di plastica contenenti una polvere bianca o cremisi, e contenitori per prescrizioni pieni di qualcosa che non era sicuramente stato prescritto. Qua e là c'erano alcuni narghilè alla turca e aghi da iniezione laser-guidati. Era un sogno a occhi aperti per qualsiasi drogato, ma Rudolph non sembrava darsi pensiero per una possibile irruzione della polizia. Con i soldi che aveva, poteva comprarsi parecchie agenzie governative, oltre alle forze
di polizia locali e nazionali, e probabilmente l'aveva fatto. La cosa che mi sorprese, comunque, fu una tavola apparecchiata per due. Su di essa c'erano diversi piatti coperti, tutti in argento. Quindici minuti dopo, alcune delle sue guardie del corpo entrarono nell'appartamento e controllarono rapidamente tutte le stanze con dei rivelatori elettronici. Quando Rudolph entrò, le guardie uscirono. La sua chioma rossiccia scendeva fluente giù per le spalle, facendolo assomigliare a un guru svedese. Ma aveva la faccia rasata di fresco, e indossava un abito elegante. Marrone, santo cielo! — Be', Polly, che te ne pare dell'arredamento? — disse con quel tono basso, ricco e profondo che è sufficiente a spingere qualsiasi figlia di Eva, per quanto puritana, a guardarsi attorno in cerca dell'albero dalle mele afrodisiache e di un posto morbido dove stendersi per mangiare i frutti. — L'arredamento? — dissi. — Preferisco astenermi da ogni commento. Non sono un arbitro del cattivo gusto. Lui rise, e i suoi profondi occhi blu scintillarono. Somigliava a Dracula quanto un lupo a uno speculatore di borsa. — Sei sincera, non sei una leccaculo. Mangiamo. — Mangiamo cosa? — chiesi. Di nuovo rise, e indicò la tavola. Quando sedetti, sistemò la sedia sotto di me come se fossi una rockstar e lui un capocameriere: un vero gentiluomo. Io dissi: — Tutto questo cibo? Credevo... — Ehi! — esclamò lui sedendo. — Quelle sono tutte stronzate da superstiziosi. Questo è un universo di causa ed effetto, scambi di energia, con una certa quantità di escrementi residui. Non è assolutamente pensabile che un vampiro possa vivere solo di sangue. A meno che non sia un pipistrello, la cui massa corporea richiede relativamente poco cibo. Io ho bisogno di una dieta bilanciata e sostanziosa, proprio come te. "Ma devo comunque disporre di una certa quantità di sangue per soddisfare un'esigenza psichica vitale. Ho cercato due volte di smettere, di colpo, una volta nel 1757 e una volta nel 1888. Stavo per morire. Nel vero senso della parola." — Certo che li porti bene, i tuoi anni! — dissi io, e mentre lo dicevo mi sentii una stupida. Volevo essere spiritosa, volevo impressionarlo. E questo perché, tutto all'improvviso e contro ogni mia volontà, ero innamorata di lui. Proprio così. Succede, anche se questa era la prima volta che l'amore mi travolgeva dopo pochi minuti in compagnia dell'amato. Ma la cosa non mi rendeva felice come potreste credere. Ogni volta che ho approfondito i
miei rapporti con un uomo, l'intera storia è finita con una catastrofe della sfera emotiva, come un aeroplano nella nebbia che si schianta contro una parete rocciosa. Sapevo, sapevo, oh Dio, sapevo che questo amore non si sarebbe dimostrato diverso dagli altri! In realtà, si sarebbe rivelato il peggiore! Lo sapevo senz'ombra di dubbio! Ma, che diavolo! "Passa al setaccio ogni giornata!" è il mio motto. Filtra ogni giorno quanto c'è di cattivo e tieni il buono ben stretto al tuo cuore. Che vomitevole romanticume! Ma io sono fatta così, è inutile pensare di cambiare. Mangiammo come lupi, e poi ci svestimmo e ci trovammo in camera da letto. Non c'era nessuna bara. Ecco un'altra superstizione. I vampiri non ne hanno bisogno, per dormire, anche se talvolta esse sono ottimi nascondigli. E inoltre i vampiri possono uscire alla luce del sole, ma non ci tengono a farlo. È una cosa che li rende molto stanchi, molto nervosi e irritabili. Come un fumatore incallito che sta cercando di smettere. Ormai, avrete capito che io ero veramente convinta che Rudolph fosse quello che affermava di essere. Ci avevo creduto anche prima, ma non sul serio, non con tutta me stessa. Per me non faceva alcuna differenza. Lo amavo, allora, ed ero assolutamente pazza di lui prima che la notte (una lunga notte) fosse finita. Non entrai subito nel letto accanto a lui. Lui stava lì, disteso, pronto per me, in attesa che io mi trafiggessi da sola con il suo spillo, farfalla votata all'autodistruzione. Ma il mio occhio fu catturato da un piccolo dipinto incorniciato sul tavolo. Lo presi e lo osservai. Non avevo intenzione di stuzzicare Rudolph, di ritardare il grande momento per portarlo al massimo dell'eccitazione. Ero solo un po' scioccata. La donna nel dipinto era vestita in abiti del diciottesimo secolo. Mi somigliava come una goccia d'acqua! — Mia madre — disse lui. — È morta nel 1798. Mi ci volle un momento per raccogliere le idee. Poi dissi: — Mi hai scelta perché assomiglio a lei? Soffri di un complesso edipico? Annuì. Disse: — Nel corso di trecentottantatré anni, mi sono innamorato davvero circa sette volte. Tutte assomigliavano a mia madre. Ma non cerco scuse. Nessuno è perfetto. — Figlio di puttana! — dissi. — Pensavo che mi avessi scelta perché un mio sguardo ti aveva incatenato, perché ti eri accorto che ero un'anima gemella! — Ed è così — disse lui. — Ehi, può darsi che io abbia la faccia di tua madre! Ma la mia persona-
lità? Potrebbe anche non piacerti quando mi avrai conosciuta bene. E tutte quelle altre? Avevano la personalità di tua madre? — Ognuna di loro — disse lui, sorridendo. — Anche se ciascuna aveva una personalità diversa. Non aveva importanza. Mia madre, povera, meravigliosa sventurata, era un caso di personalità multipla. Ne aveva circa trentatré in tutto, mi pare. Morì rinchiusa in una stanza del mio castello quando io avevo quarantasei anni. Ma io amai ognuna delle sue personalità, una volta che ne fui venuto a capo, benché tre di esse fossero assassine. Quindi, vedi, non ci sarà nessun problema ad adattare una delle sue personalità alla tua. Vieni qui. Benché fossi molto arrabbiata per essere considerata solo un fottuto surrogato della mammina, mi infilai lo stesso nel letto. Prima che spuntasse l'alba, quasi tutta la mia furia era sbollita. Si era consumata, come me. La sua temperatura corporea non era inumanamente bassa come raccontano tutte le storie di vampiri. Ma i suoi spruzzi di sperma erano di una freddezza scioccante, qualunque fosse l'orifizio attraverso il quale si riversassero dentro di me (non per niente mi chiamano Polly la perversa polimorfa). Erano come elettrizzanti ghiaccioli dentro di me, sensazioni che non avevo mai provato e per rivivere le quali avrei dato la vita. Ancora e ancora e ancora. A tratti parlavamo. Scoprii un sacco di cose sul suo conto. Era stato morso più volte da un vampiro femmina che lui aveva profondamente amato all'età di trentun anni. Contrariamente a quanto si crede, un unico morso di un vampiro non è sufficiente a trasformare una persona normale in un incontrollabile dissanguatore. La metamorfosi era possibile soltanto dopo una serie ininterrotta di imbandigioni notturne. Ecco perché le migliaia di giovani che Rudolph aveva morso solo una volta durante i rituali non si erano trasformati in vampiri. Si faceva chiamare il Redentore così da poter organizzare i giovani in tanti gruppi che si sarebbero dedicati a trasformare questo pianeta in una autentica Terra verde. Da principio non si era proposto come un leader religioso ma i suoi nemici l'avevano costretto a farlo. Lui non era, mi disse, l'Anticristo o un demonio vomitato dall'inferno. (Non riuscì a persuadermi di questo, anche se non stetti lì a discutere.) Aveva fatto uso di droga per duecento anni, ma non ne aveva risentito minimamente. (Un altro motivo che mi induceva a credere che non fosse interamente umano.) Il motivo per cui aveva introdotto la comunione di sangue era in parte egoistico e in parte umanitario. Succhiando tutto quel sangue dai ragazzi durante le cerimo-
nie, saziava la sua fame, e nello stesso tempo non doveva uccidere nessuno. Durante il giorno, non moriva. Cadeva semplicemente in una specie di ibernazione. Il suo cuore rallentava i battiti ma non si fermava mai del tutto. Era stato provato scientificamente. Ma, in fase d'ibernazione, effettivamente l'encefalogramma era quasi piatto. — Se il mio cuore si fermasse del tutto — disse — come potrebbe rimettersi in moto? Quando giunse all'alba, cadde sotto i miei occhi in quel sonno che non era proprio il sonno dei morti. Benché tremassi dalla fatica e dal freddo e fossi tutta indolenzita, uscii dal letto e andai rapidamente in cucina. Trovai un cacciavite e andai nell'ampia anticamera. Con quello, staccai una delle grosse siringhe incollate sullo stemma araldico. Poi mischiai acqua santa presa da una delle bottiglie di Rudolph (non poteva fare male) con un bel po' di "horse", l'Eroina con la E maiuscola. Con il liquido ottenuto riempii la siringa. Il liquido era così denso che temevo potesse intasare l'ago in legno duro. Premetti il pistoncino in modo da ottenere un piccolo spruzzo. Poi portai la siringa in camera da letto. Avrei preferito un martello e un punteruolo di legno, ma dovevo accontentarmi di quel che avevo a disposizione. A mio parere, non era necessario che l'ago e la siringa fossero di legno, ma i miei superiori non volevano correre rischi. Si erano anche assicurati che le siringhe funzionassero, prima di spedire il blasone a Rudolph, accompagnato da una lettera di un sedicente discepolo pieno di zelo. Era steso supino sul letto, scoperto e nudo. Aveva le mani ripiegate sul petto, come una salma composta per il funerale. Gli misi una mano sul petto, che si stava ormai raffreddando. Piangevo; le mie lacrime gli bagnarono il petto. Avevo sempre pensato a questo momento con la convinzione che non avrei provato altro che una gioia selvaggia. Ma non avevo previsto, naturalmente, che mi sarei innamorata di lui. Dissi a me stessa che il diavolo è l'essere più seducente del mondo. E i miei superiori mi avevano ammonito che i suoi poteri di seduzione erano vasti. Dovevo pensare soltanto ai miei doveri verso Dio e verso le Sue anime. Qualunque cosa avessi fatto per giungere fino a lui e portare a termine la mia missione era giustificabile e mi sarebbe stata perdonata. Comunque, avrei dovuto rinunciare per sempre alla fornicazione dopo aver compiuto questa missione. Verbalmente avevo accettato ma avevo delle grosse riserve su questo punto. Non avevo intenzione di cedere. Era il pa-
radiso sulla Terra, e io di certo non me lo sarei lasciato scappare. D'altra parte, non era molto probabile che vivessi abbastanza a lungo per scopare con qualcun altro. Nel qual caso, avrei evitato di peccare ancora. Inserii la punta aguzza dell'ago di legno duro tra le costole, proprio come mi era stato insegnato. Ebbi un attimo d'esitazione, poi spinsi giù il pistoncino. Lui aprì gli occhi ma non pronunciò parola. Credo che fosse semplicemente un riflesso. Spero vivamente che lo fosse. Comunque, adesso aveva abbastanza eroina nel cuore per fare al galoppo tutta la strada fino all'inferno. Mi era stato detto che forse l'ago di legno, al posto del punteruolo, più l'iniezione di eroina, avrebbero potuto rivelarsi insufficienti a ucciderlo. Dopotutto, il suo corpo sembrava in grado di sanarsi da sé con rapidità diabolica. Avevo avuto ordine di targliargli la testa, per sicurezza. Ma non mi riuscì di farlo. Piangendo, sollevai la cornetta. Non chiamai George Reckingham. Mi aveva fatto superare una terribile crisi, e poi mi aveva condotto alla salvezza. Ma credeva che l'omicidio fosse sempre un peccato. Per questo aveva lasciato i Guerrieri di Geova e mi aveva esortato a fare altrettanto. Perché non gli avevo dato ascolto? Telefonai al generale dei Guerrieri. Sollevò la cornetta con tanta rapidità che doveva essere stato lì ad aspettare tutta la notte. — Tutto è andato secondo i piani — dissi. — È fatta. — Dio ti benedica, Polly! Siederai alla destra del Creatore! — E molto presto, anche — dissi io. — Non è possibile lasciare questa casa senza essere catturati. E io non ce la faccio a uccidermi per non parlare. Avevo giurato che l'avrei fatto, ma sono una vigliacca. Mi dispiace. Non posso farlo. Vorrei tanto che lei, qualcuno, avesse pensato a un modo per tirarmi fuori di qui sana e salva. — Nessuno è perfetto — disse lui. E riattaccò. Titolo originale: Nobody's Perfect (1991) Edward D. Hoch DRACULA 1944 La finestra nell'ufficio del capitano Schellenberg si affacciava sul binario di raccordo di Bergen-Belsen, e quando era seduto alla scrivania lui poteva assistere all'arrivo di ogni carico di prigionieri. Ormai c'era quasi un
convoglio al giorno, con uomini, donne e bambini pigiati nei vagoni come bestie. Talvolta, al loro arrivo, si sentivano i pianti e le urla di quelli che avevano già sentito parlare dei campi di sterminio. Allora gli veniva sempre voglia di andare laggiù e di urlar loro quanto fossero fortunati. Bergen-Belsen era principalmente un campo di lavoro, e non un campo di sterminio. Non c'erano camere a gas. Quanti arrivavano sui treni (ebrei e zingari, omosessuali e criminali) non erano destinati a essere messi in fila e portati a morire. Certo, poteva succedere che si ammazzassero di lavoro, o che morissero d'inedia e di percosse se non si fossero comportati a dovere. Ma non sarebbero stati sistematicamente trucidati. Quel compito era riservato ai campi di sterminio come Auschwitz, Treblinka e altri. Lì si stavano accelerando i tempi. Era l'estate del 1944 e il nemico era sbarcato in Francia. Il lavoro del capitano Schellenberg a Bergen-Belsen consisteva nel tenere il conto degli uomini e delle donne abili al lavoro e disponibili, giorno per giorno, per le squadre di lavori forzati. Se il tasso di mortalità si dimostrava insolitamente alto e il numero scendeva sotto un certo livello, un altro treno carico giungeva a rimpolpare l'organico. Se, d'altra parte, i prigionieri a Bergen-Belsen eccedevano il numero consentito dalla capienza del campo, toccava a Schellenberg allestire un treno sul quale caricare i più malridotti per mandarli a uno dei campi di sterminio. A questo scopo aveva a disposizione i dati degli altri campi, ed era in grado di snocciolare tutte le statistiche in un attimo. Auschwitz, per esempio, disponeva di quattro grosse camere a gas, ognuna delle quali poteva contenere fino a duemila persone per volta. Treblinka aveva dieci camere a gas, ma la capienza totale non superava le duemila unità. Puntualmente, ogni mattina alle nove, lasciava il suo ufficio per seguire di persona ogni fase del lavoro, avanzando con passo marziale e deciso lungo la fila di baracche, rispondendo ai saluti con un rapido scatto del braccio. In quel particolare momento molti degli edifici ospitavano prigionieri zingari, ma la cosa non era affatto strana. Bergen-Belsen era sorto quando erano cominciati i primi rastrellamenti di zingari, anche prima dei campi per gli ebrei. — Capitano Schellenberg! Era uno dei sergenti, fermo sull'attenti per fare il rapporto. — Riposo, Kronker. Ci sono stati dei morti, stanotte? — Un prigioniero nella baracca quarantaquattro. — Esitò. — E una guardia. — Una guardia?
— Uno nuovo. Può darsi che si sia addormentato mentre era di turno. — Sospetta un omicidio? Il sergente Kronker non voleva dire qual era il suo sospetto. — È morto dissanguato. — I prigionieri erano tutti sotto chiave? — Sissignore. Non mancava nessuno. — Mi faccia un rapporto scritto. Proseguì nel suo giro, fermandosi di quando in quando a controllare uno dei tetri edifici grigi. — Sono tutti al lavoro oggi? — chiedeva, e poi spuntava il numero della baracca corrispondente nel suo taccuino. La routine fu rotta una sola volta quando s'imbatté in una vecchia zingara, bene in carne, accanto a uno degli edifici. — Perché non sei al lavoro? — chiese Schellenberg. — Abbiamo un mucchio di lavoro per una donna robusta come te. — Curo l'infermo. È il mio lavoro — rispose lei, parlando in tedesco con un accento stranamente esotico. — Come ti chiami, donna? Da dove vieni? — Olga Helsing, signore. Vengo dalla Romania, con questa banda di vagabondi gitani. Siamo stati catturati nella notte da una pattuglia tedesca. Il capitano si mosse in direzione dell'edificio. — Dov'è la persona inferma che stai curando? Fammi vedere! La donna fece strada e lui la seguì, pronto a sostenere l'assalto dei fetidi odori che aveva già sentito tante volte. Quasi in fondo alla fila dei giacigli, nella parte più scura dell'edificio, la donna si arrestò davanti a una forma avvolta in una coperta. — Cos'ha che non va? — chiese il capitano. — Non può lavorare di giorno. Il sole gli farebbe marcire la pelle. È una malattia molto rara che può essere letale. Schellenberg sollevò la coperta e osservò la faccia scarna e pallida di un uomo vicino ai sessant'anni. Non si muoveva sul giaciglio, e avrebbe potuto benissimo essere morto. — Questo è un campo di lavoro — disse il capitano. — Tutti devono lavorare. — Andò ai piedi della branda e lesse il nome del prigioniero e la sua data di nascita: VLAD TEPES, 8 NOVEMBRE 1887. — Domattina dev'essere fuori, altrimenti lo farò fucilare. Uscendo a grandi passi dall'edificio, Schellenberg si chiedeva come mai fosse stato tanto generoso. In altri tempi avrebbe fatto giustiziare sul posto un tale infingardo, o quantomeno lo avrebbe fatto picchiare davanti a tutti, per dare l'esempio. Proseguì nei suoi giri mattutini, ma l'immagine del
vecchio zingaro addormentato sullo scuro giaciglio non lo abbandonò. Spesso, dopo il tramonto, al capitano Schellenberg piaceva passeggiare da solo lungo il perimetro della sezione principale del campo. Era un luogo pacifico al calar della sera, e quando era lì poteva quasi immaginarsi di essere di nuovo a casa sua, a vagabondare per le colline attorno alla fattoria di famiglia. Cercava di non fare caso agli alti reticolati che correvano in doppia fila attorno alle baracche dei prigionieri, anche se a volte era davvero difficile ignorare i riflettori che dalle postazioni di guardia erano puntati su di essi. Tornando verso gli alloggiamenti degli ufficiali, prese una scorciatoia accanto alla baracca 52, senza ricordare, lì per lì, che proprio in quel posto aveva trovato la zingara addormentata. Mentre rasentava l'edificio immerso nell'oscurità, una voce pronunciò il suo nome: — Capitano Schellenberg! Lui si voltò, aspettandosi di vedere una delle guardie che pattugliavano la zona. Invece riuscì a stento a distinguere una figura alta e snella che si teneva nell'ombra dell'edificio. — Sì? — rispose il capitano. — Chi è? — Non ci siamo ancora presentati. Schellenberg fece un passo avanti e poi si ritrasse di scatto nel riconoscere la divisa grigia dei prigionieri. — Non sei nella tua baracca! Devo chiamare le guardie! L'uomo alto fece anch'egli un passo avanti, così che la luce della luna gli illuminò parzialmente il volto. Abbozzò un lieve sorriso e disse: — Non ho intenzione di farle del male. — Le baracche sono chiuse a chiave di notte. Come hai fatto a uscire? Hai avuto un incarico particolare? — Sì, ho un incarico speciale. Controllo gli altri prigionieri per assicurarmi che non lascino le baracche. In quel momento Schellenberg lo riconobbe. Quell'uomo che gli stava di fronte, apparentemente pieno di salute, era lo stesso zingaro malato che aveva visto al mattino nella baracca. — Vlad Tepes.... è così che ti chiami, vero? — Sono conosciuto con questo nome. — Mi fa piacere vedere che ti sei ripreso. Da domani mattina potrai tornare a lavorare di giorno, con tutti gli altri. — Io posso lavorare soltanto di notte. La luce del sole è dannosa per la mia pelle.
Il capitano grugnì. Stava per andarsene, quando un pensiero lo colpì. — Come facevi a sapere il mio nome? — L'avrò sentito dalla vecchia, quando l'ha chiamata. Schellenberg si accontentò di quella spiegazione, pur sapendo che non era vera. Non vedeva l'ora di allontanarsi da quello strano prigioniero. Forse si era ricordato che gli zingari qualche volta hanno poteri soprannaturali. Quella notte, un'altra guardia morì. Il rapporto di quell'ultimo decesso era sulla scrivania del capitano Schellenberg quando questi arrivò in ufficio la mattina seguente. C'era anche il rapporto che aveva richiesto, relativo alla morte precedente. Li lesse tutti e due e, con somma sorpresa, scoprì che ambedue le guardie erano morte dissanguate. Tuttavia non c'era traccia di ferite, e nei pressi delle vittime non era stato trovato neanche un grumo di sangue. Più tardi, quella stessa mattina, prese con sé i rapporti e andò a trovare il colonnello Rausch. — Si tratta di assassinio, secondo lei? — chiese il colonnello, ripetendo la stessa domanda che il capitano aveva posto alla guardia il giorno prima. — Non so di cosa si tratti. Penso che dovrei parlare con il dottore. Rausch annuì con la sua testa pelata e luccicante. — In ogni caso, è un passo necessario. Le affido questo caso, capitano. Schellenberg fece chiamare il medico che aveva fatto l'autopsia ai cadaveri. Si chiamava Fredericks e aveva i gradi di maggiore. Era un uomo basso con occhi che sembravano troppo grandi per la sua testa, e le sue parole sembravano evocare una figura vagamente minacciosa. — Tutti e due sono morti allo stesso modo — disse in risposta alle domande del capitano. — Dissanguamento. — C'era qualche ferita? Il maggiore Fredericks si strinse nelle spalle. — Segni di punture sulla gola, ma quello non vuoi dire niente, a meno che non si voglia credere che siano stati attaccati da pipistrelli vampiri. — Suppongo che tutto sia possibile. — Gli venne in mente un'altra cosa. — C'è qualcos'altro che volevo chiederle, maggiore. Esiste una malattia che determini l'ipersensibilità alla luce del sole? — Probabilmente lei sta pensando al lupus eritematoso. L'esposizione alla luce solare o ai raggi X può provocare la comparsa di eruzioni epidermiche in chiazze rossastre, localizzate sulle guance e sul dorso del naso, che nell'aspetto ricordano vagamente una farfalla.
— Abbiamo un prigioniero zingaro nella baracca cinquantadue che afferma di trovarsi in queste condizioni. Dice che non può lavorare di giorno. — Sciocchezze! Basta che si copra la faccia con un fazzoletto per proteggerla dal sole, e il problema è risolto. — Grazie per la consulenza, maggiore. — Baracca cinquantadue, ha detto? Mi serve il suo nome per i miei appunti. — Vlad Tepes. — Tepes? Strano nome. Mi suona vagamente familiare. Tornò alle sue carte e il capitano Schellenberg ai suoi giri. Quando raggiunse la baracca 52 vide Olga Helsing, la robusta zingara, che gironzolava all'esterno. — Buon giorno — la salutò. — È una bella giornata estiva. Il tuo paziente è tornato alle squadre di lavoro? — No, no! Questo sole lo ucciderebbe, nelle sue condizioni. — Ho parlato al dottore delle sue presunte "condizioni". Se si copre la faccia con un pezzo di stoffa, un fazzoletto, starà benissimo. Digli di fare così e di presentarsi al turno di lavoro del pomeriggio. — Cosa ne sa il dottore, se non l'ha neanche visitato? — Sputò disgustata, e la mano sinistra del capitano Schellenberg, rispondendo a un riflesso condizionato, le assestò un manrovescio proprio sulla bocca. Lei barcollò all'indietro, più per la sorpresa che per il colpo in sé. — Obbedisci, donna, altrimenti tu e il tuo paziente sarete cibo per i vermi! Lei si ritirò in silenzio con una mano sulla bocca. Schellenberg si allontanò a grandi passi, già pentito di averla colpita. Ma bisognava usare il pugno di ferro con questa gente. Era l'unica cosa che capivano. Nel pomeriggio prese l'auto degli ufficiali e andò fino all'estremità più lontana del campo, dove i prigionieri erano impegnati a costruire nuove baracche per i futuri arrivi. Rimase in piedi presso la macchina per un po', finché non vide un uomo alto e magro con un cappello e un fazzoletto avvolto attorno alla faccia. Soddisfatto, fece ritorno al suo ufficio. Passarono tre giorni prima che si scoprisse la morte della terza guardia, e il capitano Schellenberg aveva quasi dimenticato i primi due incidenti. Quando vide l'ultimo rapporto sulla sua scrivania, e notò la causa della morte, si precipitò dal colonnello Rausch. — Stanotte un'altra guardia è morta — annunciò senza preamboli. — Si tratta sicuramente di omicidio.
Il colonnello sollevò la testa calva. — Sempre dissanguamento? — Esatto. Dobbiamo fare qualcosa. — Darò ordine che le pattuglie notturne siano formate da due guardie anziché una. E mi accerterò che tutte le serrature siano chiuse. — Potrebbe non essere un prigioniero — gli fece notare Schellenberg. — Una guardia non ucciderebbe altre guardie quando è estremamente più facile uccidere un prigioniero. Il capitano non poté controbattere quelle logiche argomentazioni. — Sto per andare dal maggiore Fredericks. Se avrò altre informazioni glielo farò sapere. La notizia degli omicidi non si era ancora sparsa tra i prigionieri, e mentre Schellenberg camminava sull'erba verso l'ufficio del medico tutto appariva calmo. File di prigionieri appena discesi dal treno arrivavano marciando dallo scalo ferroviario, diretti verso alcune delle baracche recentemente costruite. Riecheggiò un grido quando un uomo uscì dalla fila e tornò di corsa verso il treno, ma fu subito intercettato e colpito brutalmente col calcio del fucile. Fu trasportato poi nell'infermeria della prigione mentre gli altri continuavano la loro marcia. Il capitano Schellenberg dovette aspettare più o meno cinque minuti prima che il maggiore Fredericks ritornasse al suo ufficio. — Bene, capitano, oggi cosa posso fare per lei? — Sto indagando sulla morte di quelle guardie. Però non vorrei rubarle del tempo, se ha un paziente. Ho visto che hanno portato qui quel prigioniero. Fredericks quasi non mosse ciglio. — Quell'uomo è morto. Mi fanno perdere tempo con i morti. Schellenberg annuì, come se fosse d'accordo. — Cos'è che ha provocato la morte di quelle guardie, maggiore? Qualche tipo di virus naturale o un animale... — Nessun animale potrebbe succhiare tutto quel sangue. — Allora cosa...? — Lei l'altro giorno ha menzionato il nome Vlad Tepes. Le dissi che mi era familiare. — Andò alla libreria dietro la scrivania e prese un manuale di storia dei Paesi dell'est europeo. — Ecco... Vlad Tepes fu governatore della Valacchia nel quindicesimo secolo, e si dice che durante il suo dominio abbia torturato e ucciso più di trentamila persone. Su di lui si basò lo scrittore irlandese Brani Stoker per la creazione del personaggio di Dracula, protagonista del romanzo omonimo.
— Vlad era un vampiro? — No... solo nella fantasia di Stoker. Ma è interessante il fatto che qualcuno si serva del nome di un tale demonio. Ha visto questo prigioniero di recente? — Non lo vedo da qualche giorno — ammise il capitano Schellenberg. — Sarà bene che faccia un controllo. Il volto del maggiore rimase impassibile. — Stia attento — lo ammonì. — Se crede che sia lui l'autore di quegli omicidi, sarebbe più semplice farlo caricare sul prossimo treno per Auschwitz. Schellenberg prese l'auto di servizio e si diresse verso le baracche nuove dove i prigionieri zingari erano al lavoro. Si mise in cerca dell'uomo alto col fazzoletto sulla faccia, e lo trovò che spingeva una carriola piena di mattoni. — Vlad! — chiamò, ma l'uomo non si girò. Schellenberg gli si avvicinò e gli strappò il fazzoletto dalla faccia. Non era Vlad Tepes. Era un giovane zingaro che non aveva mai visto. Gli ci volle meno di mezz'ora per stabilire che Vlad non era tra i membri della squadra di lavoro. E non era nemmeno nel suo giaciglio, alla baracca 52. Quel pomeriggio diede ordine che la donna, Olga Helsing, fosse portata nel suo ufficio. — Dov'è Vlad Tepes? — le chiese, sporgendosi sulla scrivania. — Non lo so, signore — rispose lei, toccandosi le labbra con una mano come per ricordargli la percossa. — Da quanto tempo è scomparso? — Molte notti. — E il giovane zingaro che lavora al posto suo? — Per sbaglio hanno creduto che fosse morto nella baracca quarantaquattro. Noi l'abbiamo portato nella nostra baracca e ha preso il posto di Vlad Tepes. — E lui è fuggito? — Non lo so. — Forse una notte in cella ti rinfrescherà la memoria. La vita ha ben poco valore qui. Il tuo corpo è l'ideale per servire da pasto ai porci. — Io sono vecchia. Non è facile impressionarmi. Lui annuì tristemente. — Torna alla tua baracca. Più tardi avrai mie notizie. Dopo che l'ebbero portata via, il capitano rimase seduto a lungo, con lo sguardo fisso sulla parete che aveva di fronte. Sentì un altro treno arrivare
sul binario di sotto, ma non si curò di guardare. Ormai ne arrivavano due al giorno. Il ritmo si faceva più intenso. Presto ci sarebbe stata un'altra spedizione ai campi di sterminio. A Bergen-Belsen venivano trattati troppo bene. Troppi di loro si abituavano al ritmo di lavoro, anche con quelle razioni da fame. Si abituavano e sopravvivevano. Uscì dall'ufficio e andò al circolo ufficiali all'altra estremità del campo. C'era una piccola biblioteca adiacente alla sala da pranzo, con una buona scelta di romanzi inglesi e tedeschi. Ricordava di aver visto anche una copia del romanzo di Stoker, Dracula. Era quello che cercava. Schellenberg passò il resto del pomeriggio a esaminare il volume, consultando spesso un almanacco su uno degli altri scaffali. La fine del libro era per lui la parte più interessante... quando Jonathan Harker e gli altri inseguono il carrozzone degli zingari dove si trova la cassa contenente Dracula, e lo uccidono proprio al tramonto. Usando le date fornite dal testo, insieme con le fasi lunari così com'erano riportate nell'almanacco, poté giungere a un'unica conclusione. La morte di Dracula era avvenuta il 18 novembre 1887. Era esattamente il giorno che Vlad Tepes aveva indicato come la propria data di nascita. Quella sera il capitano cenò alla mensa degli ufficiali, e l'oscurità era già incombente quando lasciò l'edificio e si diresse verso i suoi alloggiamenti. Non aveva mai studiato psichiatria, ma l'idea che uno degli zingari prigionieri potesse identificarsi con il personaggio di un romanzo gli risultava difficile da comprendere. Possibile che questo Vlad avesse seguito il romanzo di Stoker fino al punto di assalire le guardie dopo il tramonto per succhiar loro il sangue dal collo? Aveva impiegato del tempo nella piccola biblioteca, per cercare altre spiegazioni, leggendo anche un articolo sui pipistrelli vampiri. Ma quelle piccole creature erano native delle zone tropicali poste nell'emisfero occidentale e, ammesso che fossero in grado di attaccare un essere umano, avrebbero sicuramente scelto una vittima immersa nel sonno e poi succhiato il sangue di un alluce, sì e no. Ci pensava mentre camminava lungo la recinzione che separava il blocco di baracche dei prigionieri dagli alloggiamenti delle guardie e degli ufficiali. Avrebbe dovuto certamente far rapporto sull'evasione di Vlad Tepes, se effettivamente quell'uomo era fuggito. Oppure avrebbe dovuto mettere per iscritto che quello era il sospettato numero uno per la morte delle
tre guardie. Sempre lambiccandosi il cervello su tutta quella storia, passò davanti all'edificio dell'amministrazione accanto allo scalo ferroviario, e per caso guardò in su verso la finestra del suo ufficio. Aveva dimenticato di chiuderla, prima di uscire, cosa che avrebbe dovuto fare perché sapeva di star fuori tutto il pomeriggio. Era aperta solo di pochi centimetri, ma guardando in su in quel momento vide un movimento, una piccola ombra scura sul davanzale della finestra. Se non fosse stato così tardi, avrebbe potuto trattarsi di un uccello. Poi, mentre lui guardava, la cosa sembrò dissolversi. Aveva la terribile sensazione che fosse entrata nel suo ufficio. Il capitano si precipitò su per le scale fino alla porta d'ingresso, suscitando stupore nel piantone che faceva il turno di notte. — Qualcosa che non va, signore? — chiese questi, scattando sull'attenti. — No. Ho semplicemente dimenticato qualcosa in ufficio. Sbottonò la chiusura della fondina e impugnò la Luger prima di infilare la chiave nella toppa. Poi aprì lentamente la porta, pronto a estrarre l'arma. Dall'ufficio non veniva alcun suono. Poteva vedere la finestra che era ancora aperta di pochi centimetri. Entrò e girò l'interruttore. — Buona sera, capitano Schellenberg! Fece una piroetta, venendosi a trovare di fronte alla voce che veniva proprio da dietro la porta aperta. Era Vlad Tepes, ma non indossava più la sua uniforme di forzato. Era invece abbigliato in un abito scuro coperto da un mantello nero da sera. Il capitano puntò la sua Luger allo stomaco dello zingaro. — Dove hai preso quei vestiti? — Dall'alloggio del colonnello Rausch. Ho notato che abbiamo più o meno la stessa taglia. — Potrei farti secco con la mia pistola, proprio qui, in questo istante. Vlad Tepes sorrise. — Davvero pensa che i suoi proiettili sortirebbero qualche effetto su di me? Il dito di Schellenberg s'irrigidì sul grilletto, poi esitò. Naturalmente era un bluff, ma se il proiettile non l'avesse ferito... — Chi sei? — gli chiese, lasciando che il dito sul grilletto si rilassasse un po'. — Non sei uno zingaro. — Sono stati molto buoni con me. Ho vissuto e viaggiato con loro per più di cinquant'anni. Io sono il conte Dracula. — Tu sei un megalomane, un pazzo che si crede il personaggio di un romanzo. — Metta giù la sua arma, capitano. Se io sono un megalomane, come ho
fatto a entrare in questo ufficio? Al capitano venne in mente la cosa che aveva visto sul davanzale. Un piccolo uccello... o forse un pipistrello. — Cosa cerchi qui? — chiese Schellenberg, rispondendo con un'altra domanda. — Desidero lasciare questo campo. — Lascialo! Vola oltre i reticolati come sei volato in questa stanza! — Non è così semplice. Mi serve un posto per dormire. — Una bara? — Una cassa, con della terra. Schellenberg ignorò la richiesta. — Hai ucciso tre guardie. Tre. Perché le guardie? Perché non i prigionieri? — Voi li affamate e li fate lavorare come muli. Il loro sangue è inconsistente. — Come fai a essere il personaggio d'un romanzo? — chiese. — È tutto il contrario, capitano. Il personaggio del romanzo è me. È tutto vero, quasi ogni virgola, tranne che il finale. Come può vedere, non sono morto con un coltello da caccia americano infitto nel cuore. — Hai raccontato tutto questo all'autore, Bram Stoker? — No, l'ho raccontato a... Ma forse è meglio che cominci dall'inizio. Come ricorderà, se ha letto il libro, feci un viaggio in Inghilterra nell'agosto del 1887. Ero stato a Londra solo qualche giorno, muovendomi tra la gente di teatro che frequentava il West End, quando il mio sguardo cadde sulla donna più bella che abbia mai visto; certamente la donna più bella di Londra, a quel tempo. Aveva pallidi occhi azzurri e un collo lungo e avvenente. La sua pelle era la perfezione. Il capitano Schellenberg non riusciva a credere che stava facendo conversazione con un uomo palesemente pazzo. — Cosa facesti? — chiese. — Feci la sua conoscenza, naturalmente. Non sono un giovanotto, ma non sono privo di attrattive. — La uccidesti, come hai fatto con le guardie? — Forse quello era il mio obiettivo originario. Non voglio ingannarla, capitano... certo che lo era! Volevo sentire la sua carne e gustare il suo sangue. Invece, finii per raccontarle la mia storia, la storia di Dracula. — Chi era quella donna così incantevole? — Il suo nome era Florence Balcombe. Florence Balcombe Stoker. Era la moglie di Bram Stoker. Il capitano Schellenberg non poteva credere alle sue orecchie. Era tutto come un sogno pazzesco, quasi dimenticato, e tuttavia stava accadendo.
Era in piedi nel suo ufficio tenendo una Luger puntata su un pazzo che affermava di essere Dracula. Si inumidì le labbra e disse: — Lei raccontò la storia al marito, e lui scrisse il libro. — Esattamente. Non mi sono pentito di avergliela raccontata. Speravo di tornare in Inghilterra un giorno, ma non è mai stato possibile finché è rimasta in vita. E vero che Harker e gli altri mi inseguirono, come dice il libro, ma non trovarono mai il carrozzone di zingari in cui viaggiavo. Comunque, era impossibile per me continuare a vivere nel castello di Dracula. Fui costretto a rimanere tra i miei amici zingari, che mi diedero un posto per dormire di giorno. Adottai il nome di Vlad Tepes, il signore del quindicesimo secolo che era un mio lontano antenato. Come data di nascita scelsi il giorno della morte di Dracula nel romanzo di Stoker. Sembrava appropriata. Ero ancora con gli zingari qualche settimana fa, quando una notte fummo catturati da una pattuglia tedesca. Da quel momento la mia vita non ha più segreti per lei. La vecchia, Olga, ha vegliato sul mio corpo di giorno, mettendo in atto ogni stratagemma per tenere lontana da me la luce del sole. — Dove ti nascondi adesso, da quando hai lasciato le baracche? — Non c'è bisogno che lei lo sappia, capitano. Le chiedo solo un favore, prima che ci siano altre morti. — Sei un pazzo! — ringhiò Schellenberg. — Va' via di qui! Il conte Dracula si limitò a sorridere. — Mi guardi, e vedrà se stesso, capitano. I miei crimini non sono peggiori dei suoi. In quell'istante Schellenberg fu sul punto di credere alle parole di quell'uomo, credere che era veramente quello che affermava di essere. Alzò la Luger e premette il grilletto. Per una frazione di secondo, un velo sembrò appannargli la vista, e poi il conte Dracula era scomparso. Non era da nessuna parte. Il capitano si girò di scatto, verso la finestra, giusto in tempo per vedere il pipistrello alzarsi in volo dal davanzale esterno, spiegando le ali mentre si librava nella notte. Dopo quella conversazione, il capitano Schellenberg non avrebbe più dormito. La guardia dabbasso salì per scoprire la causa dello sparo che aveva sentito, e il capitano disse che aveva sparato dalla finestra a un prigioniero che tentava di scappare. Si recò personalmente dalle guardie di vedetta sulle torri e ordinò l'allerta per un fuggitivo in una lunga cappa nera. Se Dracula credeva di potersi procurare una bara fuori dalle mura, il poveretto si era proprio illuso. Schellenberg si precipitò in armeria e staccò
un'affilata baionetta da uno dei fucili delle guardie. Ecco cosa avrebbe trovato Dracula se si fossero incontrati di nuovo. Cercò di richiamare alla mente tutto ciò che sapeva sui vampiri. Gli sembrava che le vittime dei vampiri diventassero anch'esse vampiri, creature dell'oltretomba che si aggiravano di notte a caccia di vittime fresche. Pensò alle guardie che erano state uccise e si domandò se anche loro non fossero in caccia. Le autopsie eseguite sulle prime due avevano forse scongiurato quel pericolo, ma riteneva che la terza vittima fosse stata sepolta in fretta e furia dopo un esame sommario. Una cosa era certa: bisognava fare rapporto sull'intera faccenda al colonnello Rausch, al più presto. Il colonnello Rausch. Improvvisamente si ricordò del vestito e del mantello indossati dal conte Dracula, e che erano stati ormai rubati nell'alloggio del colonnello. Mentre la maggior parte degli ufficiali a Bergen-Belsen erano alloggiati in anonime costruzioni di legno poco diverse dalle baracche dei prigionieri, Rausch e pochi altri grossi papaveri si erano sistemati in case più vecchie, situate in un'area che risaliva all'inzio del secolo. Benché Rausch non avesse famiglia, risiedeva in una casa di pietra a due piani dove ogni giorno c'erano un cuoco e un attendente pronti a soddisfare ogni sua richiesta. La casa era vicina all'ingresso del campo, appena dentro i cancelli, e Schellenberg aveva la sensazione che proprio lì avrebbe trovato il luogo usato dal vampiro come rifugio diurno. Attese quasi fino all'alba prima di avvicinarsi alla casa, spaventato dall'idea di ciò che avrebbe potuto trovare. Armato della sua Luger e della baionetta, girò tutt'attorno al posto, cercando un segno qualsiasi di effrazione. Trovò sul retro quello che cercava. La porta di una cantina era aperta, e c'era della terra sugli scalini, segno evidente che qualcosa era stato trascinato fino al sotterraneo. Stava per entrare quando si sentì afferrare per il braccio da una mano, e un brivido di gelo gli corse lungo la spina dorsale. Si girò di scatto, pronto a difendersi, e vide che si trattava della vecchia zingara del campo, Olga Helsing. — Non entri — lo ammonì. Lui se la scrollò di dosso e impugnò la pistola. — Cosa fai fuori del complesso carcerario? Come sei giunta fin qui? — Il colonnello Rausch mi ha portata con l'auto di servizio. Devo vegliare su Vlad. Lei non può fargli del male. — Rausch? Rausch non ti avrebbe mai portata qui! Levati, donna!
— Entrare in quella casa significa morte certa. Lui la sradicò letteralmente dal suo passaggio. Se avesse insistito nel volerlo fermare, l'avrebbe uccisa. Discese rapidamente le scale che portavano al sotterraneo. Vide subito la cassa oblunga e vi si accostò guardingo. Il sole non era ancora sorto. Udì un suono alla sua destra e si voltò in tempo per vedere un giovane soldato con la divisa delle guardie balzar fuori dall'oscurità, con un ringhio simile a quello di un animale da preda. Schellenberg non ebbe esitazioni. Levò la baionetta e trafisse l'uomo. Poi la tirò fuori, lasciandola cadere per terra. — Capitano Schellenberg! Cosa sta succedendo qui? Sorpreso dal suono del suo nome, guardò in alto e vide il colonnello Rausch che stava in cima alle scale, con una torcia elettrica in mano. Il capitano mandò un sospiro di sollievo. — Colonnello, è successa una cosa terribile! Ho scoperto il responsabile della morte delle guardie, ed è qui in questa casa. Corse su per le scale per raggiungere il colonnello e raccontargli l'incredibile storia. — Venga qui e mi racconti tutto — disse il colonnello. Schellenberg si ritrovò nella cucina in penombra, dove i primi barbagli della luce diurna cominciavano a filtrare dalle finestre. — Colonnello, ho scoperto che uno degli zingari prigionieri è... La bocca del colonnello Rausch s'incurvò in un sorriso, poi si aprì. Schellenberg non ricordava di aver mai visto una bocca tanto grande in un essere umano. Sentì il respiro caldo sul viso mentre i denti del colonnello affondavano nel suo collo. Poi lottò per la vita. Le sue mani si strinsero attorno alla gola del colonnello nel tentativo di indurlo a mollare la presa dei denti sul collo. Lottarono lì, ruzzolando contro la ghiacciaia e il forno e crollando infine, attraverso una porta girevole, sul pavimento lucido della sala da pranzo. A viva forza Schellenberg riuscì a sottrarre il proprio collo dalla morsa dei denti, mentre continuavano a rotolare. Poi si divincolò e riuscì a rimettersi in piedi, quasi senza fiato. Il colonnello, o quello che era stato il colonnello, era sulle ginocchia, e si apprestava a rinnovare l'assalto. Schellenberg vide i raggi del sole nascente strisciare sul cortiletto esterno mentre Rausch si scagliava in avanti. Si spostò di lato e colpì il colonnello di taglio sul collo, scaraventandolo contro la finestra del salotto. Il corpo fracassò i vetri e piombò all'esterno e il colonnello atterrò, sbalordito, sull'erba mentre la prima luce del mattino trasformava la sua pelle in
polvere. Il capitano Schellenberg si fermò un momento a recuperare le forze, con il respiro ancora dolorosamente affannoso per la lotta. Quando si sentì meglio si fece strada di nuovo verso le scale che portavano al sotterraneo e discese. Era quasi sopraffatto dall'orrore di tutta quella storia, ma sapeva cosa c'era da fare. Il corpo della guardia si era accartocciata dissolvendosi in polvere, e lui riprese la baionetta. Poi andò deliberatamente fino alla cassa oblunga e sollevò il coperchio. Il conte Dracula riposava lì e non era molto diverso, nell'aspetto, da come il capitano l'aveva visto per la prima volta sul giaciglio della baracca 52. Alzò la baionetta e la poggiò contro il petto di Dracula, impugnandola con tutt'e due le mani per affondarla nella carne fino al cuore del vampiro. Sarebbe stata la fine di tutto. Ma ebbe un attimo di esitazione, ricordando come Dracula aveva risparmiato la vita di Florence Stoker più di cinquant'anni prima. Gli vennero anche a mente le ultime parole che il vampiro gli aveva rivolto. Mi guardi, e vedrà se stesso, capitano. I miei crimini non sono peggiori dei suoi. Tolse una mano dalla baionetta e si toccò i segni dei denti sul collo, sentendo per la prima volta qualcosa di strano che fluiva nel suo sangue. Poi lasciò scivolare la baionetta al suolo. Si alzò e sistemò il coperchio sulla cassa oblunga. Poi andò di sopra e uscì alla luce del sole, chiedendosi per quanto tempo ancora avrebbe potuto vederla. La zingara Olga emerse dal suo nascondiglio dietro un albero, e lui disse semplicemente: — È tutto tuo. Abbi cura di lui. Tornò lentamente verso il campo, dove i prigionieri si stavano già mettendo in fila per il lavoro del giorno. Titolo originale: Dracula 1944 (1991) Janet Asimov IL CONTAGIO Dal diario della dottoressa Mina: Proprio quando ero finalmente riuscita a organizzarmi in modo da poter
lavorare al mio progetto segreto, mi hanno affidato un caso che si presenta molto difficile. Non posso chiedere altre ore di permesso, altrimenti cominceranno a sospettare, soprattutto considerando che la mia diversità è fin troppo evidente. Ma gliela farò vedere io, a meno che questo caso non mi porti via troppo tempo. Per quel che poteva servire, mi sono lamentata con il mio diretto superiore: — Dalle informazioni che ho raccolto su questo paziente, con ogni probabilità continuerà a dormire di giorno e a stare sveglio di notte, il che mi creerà notevoli problemi per quanto riguarda i turni di riposo... — Lei sa che tutti gli esemplari appena risvegliati hanno bisogno della psicoterapia; e questo organico in particolare non solo non fa eccezione ma, essendo unico, richiede cure ancora più attente. Sono sicuro che lei sarà in grado di organizzarsi in modo da lavorare di notte. — Ma forse qualche altro terapista... — Gli organici rispondono meglio alle cure dei medici simili a loro. — Ma questo paziente maschio ha una storia di strani rapporti con le femmine e io, che mi piaccia o no. sono una femmina. — Ciò nondimeno — mi ha risposto il Supervisore Sei, con quel suo modo di fare così stupidamente razionale — era logico che la scelta cadesse su di lei, dottoressa Mina, perché lei è l'unica psicoterapista di tutto il Centro Medico galattico in grado di assolvere questo compito. A quel punto il mio programmatore ha cominciato a gracchiare: — Dottoressa Mina, è desiderata alla sezione cinque. Il paziente si sta svegliando dal sonno post-scongelamento. — Strano — ho detto io. — È ancora giorno. Ma forse è meglio che vada a dargli un'occhiata. Mentre mi avviavo verso la porta, il Supervisore Sei ha picchiettato leggermente con uno dei suoi bracci pluriarticolati sul suo corpo esagonale di metallo e io mi sono fermata ad ascoltare l'ultimo consiglio non richiesto. — Le ricordo che lei ha l'infelice abitudine di affidarsi al suo intuito e alle sue emozioni. Le consiglio di trattare questo caso attenendosi alla logica più rigorosa. Naturalmente il Supervisore Sei non mi ha augurato buona fortuna. Ho trovato il paziente di nome Dracula seduto sul lettino nella suite con giardino che gli è stata assegnata; era perfettamente sveglio. Indossava un abito nero e lucido che sottolineava quello che, a prima vista, sembrava un corpo aristocratico e straordinariamente virile. — Dove diavolo mi trovo? — sono state le prime parole che mi ha rivol-
to appena sono entrata. Come si legge in tutti i libri, aveva il naso aquilino e sottile, narici arcuate e la fronte alta e prominente. Le sopracciglia folte e ricce, pur non congiungendosi sopra il naso, facevano da straordinario contrappunto al mento fermo e alle orecchie appuntite. — Senta, ragazza, lo so che il mio volto suscita un tremore pudibondo in ogni donna, ma io le sarei grato se la smettesse di fissarmi in quel modo e rispondesse a qualche domanda. Mi sono seduta sulla sedia accanto alla testata del lettino. — Per favore si distenda, signor Dracula... — Conte. Conte Dracula. Adesso che il comunismo è morto, abbiamo deciso di restaurare la nobiltà. — Molto bene, conte. Ma adesso, la prego, si sdrai. Mi dica tutto quello che le viene in mente e... — Eh no! Dopo la seccatura di essere stato pure congelato, non voglio un altro analista freudiano. — Poi mi ha squadrato. — Ripensandoci un attimo, lei mi piace e... mi dica un po', in che lingua sto parlando? A quel punto io ho commesso il doppio errore di rispondergli e di rivelargli troppo. — Mentre era in stato di incoscienza le abbiamo insegnato il galattico standard, la lingua usata al Centro Medico. Dracula ha socchiuso gli occhi che, me ne sono accorta in quel momento, sono di un azzurro molto intenso. — Il Centro Medico galattico, immagino? — Esatto. E se non vuole che io applichi l'analisi freudiana, posso accontentarla. I miei titoli... — Presumo che lei non me lo dirà, quindi mi lasci indovinare: o siamo usciti dal sistema solare oppure gli alieni hanno conquistato la terra. Giusto? Non lo sapevo. — Non ha i denti aguzzi. — Sono stati limati e incapsulati. Mi avete almeno scongelato in un'epoca in cui i miei problemi biochimici ereditari possono essere curati? — È stata eliminata la malformazione genetica che costringeva gli esseri come lei a nutrirsi di sangue fresco. La prego, cominci parlandomi dei traumi che ha subito da bambino. — Ho avuto un'infanzia noiosamente normale. — Senza dubbio lei ha rimosso i suoi ricordi... — Ho avuto un'infanzia normale, ma all'inizio della pubertà ho scoperto di avere una tendenza al vampirismo. Ho consultato diversi specialisti nel-
la speranza che esistesse un rimedio alla mia malattia e alla fine mi sono rassegnato a lavorare, nel tempo libero, in un'emoteca, dove rubavo un po' di sangue a ciascun donatore. — E che cosa mi dice delle innocenti femmine da lei sedotte, il cui corpo entrava a tal punto in sintonia con il suo, che non solo provavano quello che lei provava, ma desideravano addirittura che lei succhiasse il loro sangue? — Lei ha visto troppi film. Non credo che abbia letto il libro originale, perché nessuno l'ha fatto... — L'ho letto. Lei è il conte Dracula, l'essere umano che vive in eterno, se non viene decapitato e impalato, cosa che, a quanto sembra, è accaduta soltanto a un suo sosia. Presumibilmente lei invece ha continuato a mutilare, uccidere e, naturalmente, a sedurre... A quel punto Dracula si è chinato verso di me e mi ha battuto la mano sul ginocchio. — Ascolti, bimba, mi dispiace darle una delusione, ma io sono soltanto un discendente dell'uomo a cui lei si riferisce. Il gene del vampirismo si esprime ogni tre generazioni, per cui non solo non sono il vero conte Dracula, ma sono un suo erede, come dire, sui generis. Dormo perfino di notte e veglio di giorno! — E non ha mai... — Né mutilato, né ucciso, né... — sospiro di rammarico — sedotto qualche donna. — Allora la terapia sarà facile e rapida... — Sembra la pubblicità di un lassativo. — Conte! Sono il suo medico! Forse potrebbe cominciare parlandomi degli anni che ha trascorso in stato di congelamento. — A che pro? I vostri sofisticati strumenti non vi permettono di leggere i dati accumulati nel cervello di una persona? — Non esistono analizzatori della memoria che lascino intatta una mente organica. Una semplice risposta sarà più che sufficiente. — Non ho molta fiducia nei risultati di un'analisi psichiatrica fatta appena sveglio. Senza dubbio gli abiti di pelle firmati che indosso e questo orologio digitale indicano che sono stato congelato nell'ultimo decennio del ventesimo secolo. — Oh, la Terra — mi sono lasciata sfuggire io, commettendo un altro errore. Subito dopo Dracula si è alzato ed ha raggiunto le porte di plastivetro che immettono nel giardino privato della suite; il giardino è circondato da
un alto muro. Ha guardato fuori, poi ha grugnito annuendo con ripetuti cenni del capo. — Un giardino in stile vecchia Europa. Magnifiche rose e splendidi cappucci. Creato apposta per me? — Sì. — Anche il muro è stato costruito per me? — Pensavamo che si sarebbe sentito più protetto in uno spazio chiuso. — O forse che il vostro centro si sarebbe sentito più protetto da me... — ha detto Dracula tristemente. — Quindi dubitate che il rimedio biochimico abbia funzionato. Perché, ha un effetto solo temporaneo? — No, è permanente. Non avrà mai più bisogno di bere sangue. Ma adesso si distenda sul lettino e parli... — No, non oggi. Trovo da mangiare in quel bugigattolo lì nell'angolo? — Sì. È molto semplice, le istruzioni sono scritte sullo sportello. Il nostro chef computer le preparerà tutto quello che desidera. — A differenza dei miei perfidi antenati, io mangio cibo normale. Può fermarsi a colazione con me o questo va contro l'etica medica? — Ritornerò dopo pranzo. — No, la prego, non ritorni. Ho bisogno di trascorrere una giornata tranquilla per ambientarmi in questo nuovo mondo. C'è la televisione? Potrebbe aiutarmi. — Quel set olografico appoggiato al muro le proietterà tutti i videodischi che vuole, inclusi i film di Dracula, se lo desidera. — Fantastico. Posso vedere il telegiornale? — No, ai pazienti non è permesso guardare il telegiornale fino a quando non sono quasi pronti per essere liberati. — Non è permesso? Liberati? Ma sono in prigione? — Ma neanche per sogno! Il Centro Medico galattico è il migliore istituto clinico di tutta la galassia, di gran lunga superiore al CMG di M31, per non parlare del... — Ho capito, ho capito. Ma sono ugualmente in prigione. — È per il suo bene, signor... volevo dire conte Dracula. Risvegliarsi in una nuova era può essere un'esperienza traumatica, specialmente... — stavo per commettere un nuovo errore — per gli organici. I suoi denti non erano più aguzzi, ma l'uomo aveva conservato una mente molto acuta. — Questo significa che esiste un'intelligenza di natura nonorganica? — Certo. — Ed esistono anche esseri organici intelligenti non-umani? Qui?
— La risposta è sì a tutte e due le domande. All'improvviso l'uomo è scoppiato a ridere e un gradevole rossore gli ha imporporato le guance pallide — Immagino che nessuna delle altre creature, organiche o no, sia un vampiro, o mi sbaglio? — Non esattamente. Abbiamo un paziente di Altair che non è mai riuscito a liberarsi dal bisogno, tipicamente adolescenziale, di assaggiare i liquidi corporali degli organici che gli capitano a tiro. — Poveretto, scommetto che non può nemmeno sfruttare una banca di fluidi organici. — Dopo aver pronunciato queste parole, Dracula ha sospirato di nuovo. — La mia vecchia aberrazione biochimica non rappresentò più un handicap tanto grave, dopo che furono scoperte le cure contro le varie malattie che contraevo bevendo il sangue altrui. Non sono più contagioso adesso. A proposito, in che epoca siamo? — Lo saprà a tempo debito — gli ho risposto avviandomi alla porta. — Quando imparerà a collaborare di più. Ci vediamo domani. — Ehi dottoressa, ma lei ce l'ha un nome? — Ne ho scelto uno apposta per lei. Sono la dottoressa Mina. — Mina Murray Harker? — No, solo Mina. Dracula mi ha sorriso e mi ha salutato con la mano. Dopo averlo lasciato ho fatto i miei soliti giri, poi sono venuta qui, nel mio laboratorio privato, per lavorare al mio progetto. Ma faccio fatica a concentrarmi, perché la sola cosa a cui riesco a pensare è il mio nuovo paziente. Anzi, per esprimermi in termini psichiatrici corretti, ne sono ossessionata. È amore questo? O è la misteriosa capacità draculiana di trasmettere a tutte le femmine quella malattia contagiosa che è l'ossessione per la sua persona? Questo conte Dracula non è che un lontano e innocuo discendente del suo perfido antenato, eppure io trovo irresistibile il suo portamento, bello il suo volto e seducente il suo sorriso... Mi rendo conto di essere ridicola. Devo ricordarmi che, dacché sono diventata un medico, non ho mai contravvenuto all'etica professionale. E non posso certo farlo adesso, quando la posta in palio è così alta. La giornata odierna è iniziata con la seduta di controllo. Non so (nessuno mai si sognerebbe di domandarlo) quale specie di quale pianeta abbia cominciato a produrre amministratori psichiatrici robotizzati, ma una cosa è certa: il Supervisore Sei potrebbe essere ampiamente perfezionato.
Ha ticchettato in segno di disapprovazione dopo aver ascoltato il mio rapporto e poi mi ha chiesto: — Chi era Mina Murray Harker? — L'unica donna che sia sopravvissuta e sia stata curata dopo essere stata morsa da Dracula. È anche la donna responsabile della sua morte perché ha condotto a lui gli uomini che poi lo hanno annientato. — Come ha fatto? Una domanda così semplice. A volte dubito della mia intelligenza perché, fino a quando il Supervisore Sei non me lo ha chiesto, non mi ero resa conto delle pericolose implicazioni della cosa. Ho cercato di rispondere con la massima esattezza, perché Sei ha la irritante abitudine di verificare le risposte dei suoi sottoposti consultando, a sorpresa, tutti i quadri informativi e i dati disponibili. E io non posso certo distruggere le informazioni su Dracula contenute nella nostra biblioteca computerizzata! — A quanto sembra Mina Harker, nata Murray, era riuscita a non diventare un vampiro nonostante i morsi del conte, ma era unita a lui da una specie di legame psichico. Il Supervisore Sei ha sbatacchiato tutte le sue braccia; se fosse stato un essere organico, a quel punto avrebbe emesso un profondo sospiro. — Uh, la telepatia! Deve essere estremamente prudente, dottoressa... Ho avuto l'impressione che i circuiti cognitivi di Sei si stessero sovraccaricando, così mi sono affrettata a rassicurarlo: — Finora, questo discendente di Dracula non ha dimostrato di possedere doti telepatiche. — Bisogna guardarsi dalle creature dotate di potenziali capacità telepatiche! Per quanto le forme conosciute di telepatia organica siano primitive, possono essere ugualmente pericolose. Una volta, nel corso di una missione, io e alcuni altri esploratori scoprimmo un pianeta popolato da piante telepatiche: ebbene, questi vegetali interferirono nelle vibrazioni elettroniche dei nostri cervelli positronici con pensieri organici illogici riguardanti l'immersione di un'estremità nella terra concimata, mentre l'altra estremità emetteva fiori odoriferi, per attrarre ottuse creature alate intente a riprodursi. Dovemmo lasciare quel pianeta all'istante. — O poveri cari! — è stato il mio commento. — E poi c'era il pianeta dei telepatici vegetariani che, mentre masticavano, comunicavano poesia mentale. Non che a me piacesse quella poesia inni di lode rivolti a sistemi digestivi organici che si occupavano principalmente della produzione di gas - ma le assicuro che le specie organiche telepatiche sono, per loro stessa natura, pericolose. In quel momento mi sono resa conto di quanto sia facile mandare in tilt i
circuiti cognitivi dei supervisori. — Il punto — ha proseguito il Supervisore Sei — sta nell'impedire ai telepatici di montarsi la testa, perché è possibile che, evolvendosi, gli esemplari più intelligenti possano arrivare a controllare tutta la nostra civiltà cibernetica. — Orrore — ho replicato io. — Ma dobbiamo impedire lo sviluppo della telepatia organica per preservare la pace mentale galattica, o perché non è ancora stato inventato un tipo di telepatia non-organica? Il Supervisore Sei, che è del tutto privo di senso dell'umorismo, è insensibile al sarcasmo. — Cerchiamo da tempo di mettere a punto una forma di telepatia robotica; in passato abbiamo tentato di creare circuiti emotivi robotici, ma l'esperimento si è rivelato controproducente sotto molti aspetti. Io stesso — ha aggiunto facendo crocchiare una delle articolazioni dei suoi artigli — sono completamente privo di circuiti emotivi. — Credo che lei mi abbia appena insultato. — Questo è illogico. A quanto pare i suoi circuiti emotivi fanno di lei un'abile terapeuta sia con gli organici sia, per quanto possa sembrare strano, con i pazienti non-organici. — Per lo meno — ho risposto, un po' rabbonita — riesco a capire fino in fondo la dissonanza cognitiva di Dracula e i profondi traumi psicologici che deve causargli il fatto di essersi risvegliato in un'era completamente diversa. — Non ci aveva mai informato prima delle sofferenze che hanno subito i suoi circuiti emotivi dopo il suo recupero dalla condizione di stasi, in cui era stata posta nel ventitreesimo secolo della storia terrestre. — Ma io sto bene! — ho quasi urlato. — Amo il mio lavoro e mi piace vivere in questo secolo. — Ma deve impedire che il suo sentimento di immedesimazione abbia il sopravvento. Non perda mai il controllo di sé, dottoressa. "Uno di questi giorni vedi come ti controllo io, stupido computer ambulante che non sei altro", ho pensato mentre mi avviavo alla suite di Dracula; ma ho tenuto quel commento per me. L'ho trovato seduto, non sdraiato, sul lettino. Mi ha salutato educatamente, poi mi ha detto: — Dottoressa Mina, ho la sensazione che lei non soddisferà la mia curiosità sul luogo e l'epoca in cui mi trovo, quindi ho deciso di soddisfare io la sua. Parlerò. Sono preoccupato per il mio futuro, perché immagino che il lavoro che facevo un tempo sia completamente superato... — Si riferisce al suo impiego all'emoteca?
— No, quello era il mio secondo lavoro, che svolgevo soltanto per poter bere sangue fresco senza far del male a nessuno. Mi riferivo alla mia vera professione: ero ingegnere elettronico e mi occupavo, fra l'altro, di intelligenza artificiale. — Davvero? — Mi sforzai di controllare i miei circuiti emotivi affinché non trasmettessero al mio meccanismo di locuzione l'agitazione che si era impadronita di me. Dovevo prendere tempo per pensare, così cercai di cambiare argomento. — Si dice che le persone come lei provino una particolare attrazione per quello che chiamano il loro luogo di appartenenza. Ha mai provato un simile sentimento per la casa dei suoi antenati? — Intende il castello di Dracula, l'antico maniero che sorge in Transilvania? Mi incuriosiva, ma non ho mai provato un desiderio irresistibile di trasferirmi lì. Vivevo in un posto dove nessuno si accorgeva se uno era un po' strano... abitavo a Manhattan. Mi piacerebbe sapere dove mi trovo adesso. Guardando dal giardino, si direbbe che il Centro Medico si trova all'interno di un'enorme cupola. — Il Centro Medico galattico occupa l'intero pianeta e in effetti è isolato dall'esterno da una grande cupola... Era l'unica soluzione possibile, visto che qui curiamo pazienti organici e non-organici. È mai stato in Transilvania? — Sì. Il vecchio castello diroccato c'era ancora, con le merlature ricoperte d'edera e i corvi che gracchiavano in cima alle torri; era diventato la principale attrazione di un villaggio turistico chiamato l'Eremo dell'Orrore. Organizzavano perfino finti lanci con il paracadute dall'orlo del precipizio. Vedere quale fine ingloriosa avesse fatto la dimora dei miei antenati mi intristì enormemente. Ho atteggiato le mie fattezze in modo da assumere un'espressione compassionevole, perché lui era ancora seduto sul lettino e mi fissava. — Gliel'ho detto che sono allergico all'aglio? — Come il conte suo antenato? — No. Ho provato a portarne una testina appesa al collo, ma questo non mi ha impedito di bere il sangue. È quando lo mangio che mi dà dei problemi: mi riempio di gas. Ma è proprio questo genere di cose che ha voglia di sentire, dottoressa? — Vada avanti. Dica tutto quello che le viene in... — In mente. Be', se proprio lo vuole sapere, la principale preoccupazione della mia mente è il sesso. Da quando mi sono svegliato, intendo dire. Da quando l'ho vista, dottoressa Mina.
Mi stava guardando con occhi concupiscenti, ma io sono rimasta impassibile. — Prosegua. — Prima di essere congelato conducevo una vita molto morigerata. Dovevo tenere celata la mia sete di sangue, per cui non potevo avere rapporti che implicassero un profondo legame emotivo e le avventure occasionali mi spaventavano, perché deve sapere che io sono un po' ipocondriaco. Le donne erano attratte da me, ma io non capivo perché. Finché un giorno, mentre passavo accanto a un palazzo dove si stava svolgendo un convegno di fantascienza, una femmina nubile ha gridato: — Guardate le orecchie! Dev'essere lui! — Lui chi? — Mah, evidentemente ero proprio io. Fatto sta che fui assalito da un'orda di bellissime ragazze che volevano il mio autografo e mi facevano stupide domande su Vulcano. Da quel giorno ho portato i capelli lunghi per coprire le orecchie. — Non capi... — Non importa. — A quel punto Dracula si è proteso verso di me e mi ha fissato con quel suo sguardo quasi magnetico. — Dottoressa Mina, lei è sposata? Ha mai detto a suo marito quello che Mina Harker ha detto al proprio, che pure era solo uno stupido bamboccio rispetto al mio antenato? La seduta non stava procedendo nel rispetto delle regole dell'analisi e io non contribuii di certo a migliorare la situazione dicendo: — Non sono sposata. Che cosa gli ha detto? — Oh, dottoressa Mina, la sua omonima gli disse: "Come possono le donne non amare uomini così retti, così onesti e così coraggiosi!" — E lei è retto, onesto e coraggioso? — Per mia sfortuna sì. Il coraggio va bene, ma rettitudine e onestà sono, o meglio erano considerate le virtù degli stupidi nel secolo in cui vivevo io. Non riuscivo più a resistere allo sguardo penetrante dei suoi occhi azzurri, al fascino del suo portamento virile e del suo bel viso; prima di rendermi conto di quello che stavo facendo, mi sono alzata di scatto dalla sedia e mi sono gettata ai suoi piedi. — Oh Dracula! Ti voglio! Prendimi! Infettami! — Infettarla? Ma non sono contagioso! — Non hai più bisogno di bere sangue, ma questa è l'unica anomalia genetica che ti è stata corretta. Però ne possiedi altre: usale dunque! Ma Dracula ha liberato le gambe dal mio abbraccio, si è alzato in piedi e
poi si è chinato per aiutarmi a rialzarmi. — Deve essere ancora alle prime armi, mia cara. O forse oggi i pazienti non denunciano più i medici per incapacità. — Possiedo dei circuiti emotivi! — ho urlato io. — Falli vibrare! Useremo il sesso per stabilire il contatto! Ma lui mi ha abbassato le braccia, poi si è diretto a grandi passi verso le porte di plastivetro, le ha aperte ed è andato a sedersi sulla siepe di cappucci. Io l'ho seguito. — Se ne vada, dottoressa Mina. Mi sta sfruttando. Non so quale sia il vostro scopo, ma so che vi state servendo di me. Se ne vada. Così ho fatto. Ho trascorso tutta la notte a riflettere sulla mia follia. Eppure, la cosa strana è che è bastato che le sue mani mi sfiorassero perché si stabilisse una specie di contatto fra di noi. Non è solo il fatto che io penso continuamente a lui, è che mi sento come se fossi parte di lui. Secondo tutti gli antichi libri della Terra che ho letto, quello che provo dovrebbe essere amore, ma io non voglio amarlo. E non voglio sfruttarlo. Maledizione! La terza seduta analitica con Dracula è iniziata male. Ho fatto finta che il mio comportamento di ieri fosse un espediente terapeutico per farlo sentire voluto e accettato in questo secolo, ma lui non l'ha bevuta. — Senta Mina, non la chiamerò più dottoressa, perché ritengo che l'ultima volta lei non si sia comportata con me come si addice a un medico... Io voglio sapere la verità. Mi ama o sta cercando di sfruttarmi per qualche suo scopo nefando? — Perché me lo domanda? — continuavo a nascondermi dietro il mio ruolo di analista. — Perché penso che lei sia un vampiro. — Che cosa? — Ho sentito le sue mani, ieri, ed erano fredde. Sulle prime ho pensato che fosse una reazione dovuta all'emozione, anche se per la verità l'incremento ormonale avrebbe dovuto rendergliele calde; ma poi, quando le ho sfiorato le braccia, mi sono accorto che anch'esse erano fredde. E dopo ho avuto l'impressione che non respirasse... nessun movimento respiratorio del torace, per quanto ben tornito. — Ma... — Come sa, io sono un vampiro sui generis — ha proseguito Dracula. — Possiedo un'ombra e mi rifletto negli specchi. Adesso lei vorrebbe essere così gentile da venire qui alla luce in modo che io possa vedere se il suo
corpo proietta un'ombra? E se ha i peli sulle palme delle mani? Io non ce li ho. — Ma queste sono credenze superstiziose riferite ai vampiri in generale — ho replicato io, scaldandomi. — Comincio a pensare che la storia del suo famoso antenato sia solo una leggenda. — Non è vero! Accidenti, vorrei non essermi mai fatto limare i denti! Mi piacerebbe morderla sul collo... ma forse posso farlo lo stesso... — Mi si è avvicinato, mi ha sollevato dalla sedia e ha cominciato a studiarmi il collo. — Niente polso carotideo. Però lei mi ha invitato... a far che cosa, a infettarla? E secondo la leggenda noi vampiri dobbiamo essere invitati dalle nostre vittime. Allora chi è di noi due la vittima, io o lei? — Io non sono un vampiro. Sono un robot. — Che cosa? — Dracula ha sgranato gli occhi ed è caduto all'indietro sul lettino. E io che ero ancora fra le sue braccia sono caduta insieme a lui. Era bello lì sul lettino. — Sono l'unico robot umanoide esistente — gli ho spiegato. — Quando la Terra divenne inabitabile a causa della stupidità umana, mi trovavo in un laboratorio spaziale, dove mi occupavo di problemi di intelligenza artificiale. Il mio capo, che era un umano, mi convinse a entrare in una camera di stasi. Tutti gli umani e i robot seguirono il mio esempio. Quello che è accaduto dopo è un mistero: o la mia camera è stata l'unica a rimanere intatta, o uno di questi maledetti alieni ha cercato di fare in modo che gli umanoidi non sopravvivessero, organici o robot che fossero. Io sono stata riportata in vita come esperimento. — E io come sono sopravvissuto? — Nel ventunesimo secolo, nel corso di una rivoluzione fondamentalista, sono state giustiziate molte persone sospette, alcune delle quali erano già state congelate. A quanto sembra temevano che un vampiro non potesse essere neutralizzato in modo efficace, così decisero di spedire la tua unità di refrigerazione nello spazio, dove ha continuato a vagare fino a quando, in questo secolo, una nave da trasporto intergalattica l'ha trovata. Tu sei l'unico essere umano organico esistente. Dracula rabbrividì. — Questa galassia mi sembra fredda. Un essere umano e un robot umanoide... uniche creature della Terra sopravvissute... — E non è tutto. I robot imperano ovunque, assicurandosi che gli organici non distruggano i loro pianeti. Obbediscono alle leggi della robotica e, poiché ritengono che la telepatia possa danneggiare chi la possiede, reprimono ogni tendenza in questo senso. In realtà io credo che la loro sia solo
invidia, ma non lo ammetteranno mai. Dopo alcuni istanti Dracula si è districato dal mio corpo e si è drizzato a sedere, lasciandomi semi-sdraiata fra il lettino e i suoi paesi bassi. Poi mi ha accarezzato una guancia e ha detto: — Sembra così naturale. — La mia sensipelle riceve un feedback dal mio cervello positronico... — Vuoi dire che le previsioni di quello scrittore... — Il santo patrono della robotica. — E la tua sensipelle ha qualche insenatura... — Si prolunga all'interno di ragguardevoli orifizi. I miei circuiti emotivi sono concepiti per riprodurre reazioni non solo umane, ma femminili. — Intendi dire... A quel punto mi sono ricomposta e mi sono seduta sul lettino un po' discosta da lui. — Sì, penso che sia proprio questo il mio problema. Da tempo tento segretamente di creare robot telepatici, e quando ti hanno affidato alle mie cure ho sperato di poter sfruttare i tuoi latenti poteri telepatici draculiani per risvegliare quelli che forse il mio cervello potrebbe raggiungere. Immagino che sia un'idea folle. In ogni caso, nel frattempo, credo di essermi innamorata di te. Non riusciremo mai a conquistare questa Galassia di alieni ottusi... Ma Dracula non mi ha lasciato finire la frase: mi ha attirato a sé, poi mi ha sfilato l'uniforme e mi ha dimostrato che i collegamenti cerebrali dei sensori della mia sensipelle sono di gran lunga migliori di quanto avessi osato sperare. È stato al culmine di quell'esperimento che Dracula mi ha infettata con i suoi poteri telepatici. — Ce l'abbiamo fatta! — ho urlato. — Sesso! Telepatia! E domani l'universo. — Ma Mina, amore mio, il tempo non gioca a mio favore. — Ma sì, invece! Quando sarai stanco di essere una creatura organica, metterò i tuoi schemi cerebrali in uno dei miei robot umanoidi. — Che sarà retto, onesto, coraggioso e telepatico! — Poi Dracula mi ha baciato e ha voluto ripetere l'esperimento di nuovo. Va' all'inferno, Supervisore Sei. Titolo originale: The Contagion (1991) Karen Robards ZUCCHERO, SPEZIE E...
Non mi importa quello che dice la mamma, io non volevo nessuna sorella. — Peter? Oh, vedeste, la adora! Aveva perfino chiesto a Babbo Natale di portargli come regalo una sorellina! E Babbo Natale ha esaudito il suo desiderio, anche se è dovuto andare fino in Romania a prenderla. — Un risolino soffocato. Un paio di analoghe risate di risposta. Non li odiate anche voi i grandi quando fanno così? Quando ridono di voi, intendo dire. Io sì. Digrigno i denti e mi trattengo a stento dal tirare un calcio al battiscopa dell'ingresso, da dove origlio di nascosto. In questo momento la mia mamma è seduta in soggiorno e sta parlando con le sue amiche. Tiene in braccio quella bomba umana puzzolente che è, per l'appunto, la mia nuova sorella, e parla con quella voce da scema che usa sempre quando si rivolge alla piccola. Mi fa star male. Se sapessi dov'è la Romania, riporterei indietro di persona quella specie di sirena d'ambulanza. Ma almeno la mamma potrebbe finirla di dare la colpa di tutto a Babbo Natale. So benissimo che Babbo Natale non esiste, e se esistesse sono sicuro che non si sarebbe mai sognato di farmi uno scherzo del genere. In più, cara mamma, se stavi veramente ascoltando, quando fingevi di ammirare la finta neve che cadeva sulla slitta di Babbo Natale, dopo avermici fatto sedere sopra nel bel mezzo del centro commerciale (per dire delle umiliazioni che si subiscono pubblicamente!), sapresti che il regalo che avevo chiesto era una formella. Hai presente quella cosa argentata che usi per fare le torte e che non mi lasci mai usare con la sabbia? Ecco, ne volevo una tutta per me. Non una sorella, ma una formella per la mia cassetta della sabbia! D'accordo, non parlo ancora bene. Ma tu sei la mia mamma e dovresti capirmi anche se non pronuncio perfettamente le parole. Ti ricordi quando ho detto che odiavo i pielli mentre eravamo tutti a pranzo dalla nonna, il giorno del Ringraziamento? La zia Leslie mi disse che dovevo mangiarli comunque, che mi piacessero oppure no; io le risposi che non potevo e la discussione continuò fino a quando io e zia Leslie ci mettemmo a urlare come matti e successe il finimondo. In quel momento tu tornasti dal bagno e ti ci volle meno di un minuto per capire che stavo solo dicendo di odiare i piffelli, mostriciattoli cattivi dei cartoni animati dei Dentirotti. Il cibo non c'entrava niente. Chiuso il becco anche di zia Leslie. E allora spiegami, mamma, come hai fatto a capire sorella anziché formella? Se solo avessi avuto idea della catastrofe che stava per abbattersi su
di me, mi sarei impegnato molto di più alle lezioni di terapia del linguaggio. Ma quando uno fa la prima elementare, la terapia del linguaggio non gli sembra così importante. Be', hai presente quello che dice sempre papà sugli insegnamenti della vita? Ecco, ho imparato la lezione: prometto che pronuncerò tutte le parole come si deve. Per cui, adesso puoi rispedire indietro la puzzola? A proposito, io sono Peter e ho sei anni. Questa è la mia casa, la bella signora bionda con quelle orribili macchie di saliva sulla camicetta rosa è la mia mamma, e il tizio pelato sdraiato sotto l'albero di Natale in soggiorno, che cerca di capire come diavolo hanno fatto i fili delle lucine ad attorcigliarsi in quel modo attorno al tronco, è mio padre. Fino a una settimana fa, fino alla vigilia di Natale per essere precisi, io ero il Signore del castello, il Re della casa, il piccolo Principe e, non a caso, figlio unico. Poi è arrivata la piccola urlatrice. Non chiedetemi perché, ma alcuni mesi fa la mamma si è messa in testa che avevo bisogno di un fratellino. E nonostante quello che dice adesso, vi assicuro che l'idea è stata soltanto sua. Ho scoperto che la mamma non dice sempre la verità. Per qualche ragione, lei e papà non potevano produrre un altro bambino della varietà nostrana, come me. Forse per una volta aveva davvero ragione zia Leslie quando diceva che dopo aver fatto me avevano rotto lo stampo, anche se io pensavo che fosse una delle sue solite cattiverie. Ma quale che fosse la vera ragione, prima che io potessi rendermi conto della gravità di quanto stava per succedere, la mamma ne ha parlato con la nonna; la nonna ha informato le sue amiche; una delle sue amiche ne ha fatto parola con un avvocato. Il risultato di tutte queste chiacchiere è stato che alla vigilia di Natale siamo andati tutti in macchina all'aeroporto ad accogliere una signora che ci aveva portato la puzzola: una bambina di nove mesi che strillava come un'aquila, arrivata direttamente dalla Romania! E noi dovevamo tenerla! Per sempre! Ma vi sembra possibile? E dove sarà questa Romania? Accetteranno i resi, mi chiedo io? Non voglio nemmeno indietro i soldi. Basta che si tengano la puzzola e siamo pari. Siate sinceri: chi potrebbe fargli un'offerta migliore? — Peter, tesoro, sei tu? Vieni a salutare la signora Kirchner e la signora Grant. Accidenti! Ero così immerso nei miei pensieri, che non ho fatto attenzione a non farmi scoprire. Mi hanno visto e adesso devo andare per forza. La mamma mi lancia una di quelle occhiate che mi da sempre quando vuole che mi comporti bene ma è praticamente sicura che non lo farò. La si-
gnora Grant e la signora Kirchner, che si sono fermate a vedere la bambina di ritorno da qualche riunione di questo o quel comitato, mi sorridono. Io invece non sorrido. La bambina è seduta sulle ginocchia di mia madre. Ha tutto il viso coperto di bave e sta masticando una delle Tartarughe Ninja che ho ricevuto per Natale! — Oh, Peter, vuoi bene alla tua nuova sorellina? La signora Kirchner è un genio nel fare gaffes, o è una mia impressione? Faccio finta di non sentire, raggiungo rapidamente il divano e recupero Leonardo dalle grinfie della peste. La bambina incomincia a urlare a squarciagola; mia madre mi lancia un'altra occhiata, più severa questa volta, e si mette a fare cavalluccio alla piccola per farla smettere di piangere; le due signore si scambiano sguardi d'intesa. — È solo un po' geloso. Ma è naturale — sentenzia la signora Grant rivolgendosi a mia madre. Odio quando i grandi si comportano come se io fossi sordo o stupido. Ciò nonostante non le mostro la lingua, né faccio altre cose peggiori. Dopo tutto è un'ospite e mia madre mi ha insegnato le buone maniere. E poi, sono troppo impegnato a pulire Leonardo dalla saliva. — È una delle Tartarughe Ninja che ha ricevuto per Natale. Non avrei proprio dovuto permettere a Sylvia Frances di prenderla. — Dal tono della sua voce capisco che si sente in colpa. Per un attimo, mentre do a Leonardo un'ultima lustrata con la manica del golf, mi sento un po' meglio. — Mi ricordo quando è nata Elizabeth. Per tutto il primo anno, Allison non l'ha voluta nemmeno guardare! Era... — E la signora Kirchner comincia a parlare a ruota libera. È il gazzettino del quartiere ed è capace di parlare per ore senza dire assolutamente niente. Io giro la testa di Leonardo in modo che guardi nella direzione giusta... e in quel momento li vedo: i segni dei denti! Li ha dappertutto, sulla testa, sul collo! La bambina ha soltanto quattro denti: come può aver fatto tutto quel danno con solo quattro minuscoli dentini? — Guarda che cosa ha fatto! Me l'ha rovinato! — grido. Poi la rabbia prende il sopravvento e, prima di rendermi conto di quello che sto facendo, scaglio Leonardo contro il muro. Leonardo rimbalza con tutta la forza di una vera Tartaruga Ninja. La signora Grant si abbassa appena in tempo per non essere colpita e a quel punto io capisco di essermi cacciato in guai seri. Prima ancora che la mamma mi dica "Va' in camera tua!" (sono sicuro che lo dirà perché lo dice sempre quando si arrabbia) sto già salendo le scale pestando i piedi e, appena entro in camera mia, sbatto così forte la
porta che lo specchio sopra la cassettiera trema. È buio nella mia stanza, buio pesto! Ci sono ancora le veneziane aperte, ma fuori è già sera, anche se non abbiamo ancora cenato. Mi viene l'impulso di precipitarmi dabbasso (devo ammetterlo, ho fifa del buio) ma all'ultimo momento mi ricordo di quanto sono arrabbiato e mi limito ad accendere la luce. Poi chiudo le veneziane in modo che nessuna creatura malvagia possa vedermi dall'esterno e mi siedo ad aspettare sul letto. Ma non succede niente. Niente di niente. Mia madre non viene a scusarsi. Mio padre non sale a farmi la predica. Non si fa vivo proprio nessuno. E io non ho niente da fare se non giocare a Nintendo. Da solo! Ma ve lo immaginate? Io chiuso come un prigioniero nella mia camera, mentre Sylvia Frances impera come una regina su tutto il resto della casa! Ahi, com'è ingiusta la vita! Finalmente sento la porta che si apre. Ah, penso con soddisfazione, e faccio finta di niente. Guidato dalla mia abilità Mario salta da terra sul tetto della fabbrica e dal tetto di nuovo a terra... — Allora, tonto, che cosa hai combinato questa volta per farti spedire di sopra? Giro la testa così in fretta che temo mi si stacchi dal collo. Mio cugino entra in camera mia come se fosse il padrone e butta la sua sacca da viaggio sopra il letto accanto al mio. Con quello che è successo questo pomeriggio mi ero completamente dimenticato che dovevano arrivare zia Leslie, suo marito lo zio Tod e i loro due figli, Rick e Afton. Per vedere la piccola Sylvia Frances, naturalmente. Un rumore simile a un risucchio mi fa girare di scatto verso il televisore. Mario è stato appena catturato da un uomo mangia-fiori. E io non ho più uomini vivi. È evidente che non è la mia giornata. Mi sfugge una parola che, se la mamma mi sentisse, mi chiuderebbe in camera per una settimana. — Ciao Rick — dico senza un briciolo di entusiasmo. Odio Rick. Immaginate un incrocio fra John Candy all'età di dieci anni e il marchese De Sade, e avrete un'idea perfetta di mio cugino. — Quando imparerai a parlare, piccolo deficiente? Mi chiamo Rick, non VVick. Di' Rick, Petey. R-r-r-ick. Odio sentirmi chiamare Petey e Rick lo sa. Mi sta stuzzicando, come sempre. Io salto dal letto, afferro la parte piatta della sua borsa da viaggio e corro verso la porta. Tutte le sue cose si sparpagliano sul pavimento. — Ti ammazzo, stronzo! — urla rincorrendomi. Ma io mollo la borsa e
mi precipito giù dalle scale prima che lui riesca ad acciuffarmi. Mia madre è in cucina adesso; sta preparando la cena e parla con zia Leslie. La signora Grant e la signora Kirchner se ne sono andate. Sylvia Frances è nel girello e sta mangiando un biscotto. Ha la pelle bianca quasi quanto il pigiamino peloso che indossa e sembra una versione in miniatura dell'uomo delle caramelle che appare alla fine di Ghostbusters. Ha le guance e i corti riccioli castani sporchi di una pappetta semiliquida color cioccolato. Freno in slittata a pochi passi da lei, ma lei continua imperterrita il suo gioco preferito che consiste nel lanciarsi col girello contro i mobili, come se fosse all'autoscontro. La forza dell'impatto la fa rimbalzare all'indietro, ma appena si ferma si alza, ride e si lancia di nuovo in avanti. Se osassi fare io una cosa simile, la mamma mi ucciderebbe, e invece sia lei sia zia Leslie stanno ammirando quelle prodezze con il sorriso sulle labbra. Io odio Sylvia Frances. Ma chi gliel'ha detto a Babbo Natale di portarla? — Quanto si fermano? — domando io piantandomi a gambe larghe in mezzo alla stanza e lanciando occhiate di fuoco a mia madre. Lei mi risponde con uno sguardo che significa che sono un rompiscatole, ma prima che abbia il tempo di aprire bocca arriva Rick lanciato al mio inseguimento. Ha il viso paonazzo e se non ci fossero lì le nostre madri mi smonterebbe pezzo a pezzo, ne sono sicuro. Data la situazione, si limita a serrare i pugni. — Quel piccolo mostro ha rovesciato tutte le mie cose per terra! — Rick! Non chiamare Petey piccolo mostro! Vi ho già detto che odio zia Leslie? Preferisco che mi chiamino piccolo mostro anziché Petey. Mia madre sospira. — Peter, oggi non hai avuto una buona giornata. Forse è opportuno che tu vada subito a letto dopo cena. Così domani ti sentirai meglio. Prima che io possa protestare, cosa che ho tutte le intenzioni di fare, il kamikaze nano si lancia con il girello contro le mie gambe. Le ruote mi salgono sul piede nudo, il telaio di plastica mi si schianta contro lo stinco e io urlo. Sylvia Frances ride felice. Allora io non ci vedo più: mi chino di scatto e la spingo con tutta la forza che ho contro il frigorifero. Alcuni dei disegni più belli che ho fatto a scuola, che la mamma ha appeso con orgoglio al mobile, cadono sul pavimento e, ritornando indietro, il girello li travolge. Opere di genio profanate. Forse rovinate. Certamente non apprezzate. Io grido. La piccola peste si mette a ridere. — Peter, va' in camera tua!
Ma certo! Un bambino non può più nemmeno difendersi adesso! No, perché adesso c'è Sylvia Frances, che è piccola. Infuriato per l'ingiustizia subita, ribollendo di odio per ogni singolo membro della mia famiglia e zoppicando dal lato in cui le ruote del girello mi sono montate sulle dita, mi rifugio nella mia stanza. E chi ha voglia di stare insieme a gente così cattiva? — Ehi, fiato di vomito, stai dormendo? È all'incirca mezzanotte. Rick mi sta guardando dal vano della porta, con la mano sull'interruttore. Indossa soltanto la biancheria intima perché lui dorme senza pigiama, e vi assicuro che visto così è ancora più disgustoso che vestito. Io alzo la testa, intontito: sì, perché stavo dormendo. — Adesso spengo la luce — mi dice gongolando, perché sa che ho paura del buio. Poi lo fa. All'improvviso la stanza precipita nella più cupa oscurità. Io mi sento mancare il fiato e nascondo la testa sotto le coperte. Rick ride. Odio mio cugino Rick. — Di che cosa hai paura, verme? Dei lupi mannari? Lo sai che sbranano le persone fino a ridurle a pezzettini? Sfondano le finestre, i muri, tutto: non li ferma niente. Hai sentito quell'ululato pochi minuti fa? Forse era un lupo mannaro. Forse ti salterà addosso fra un minuto. Perché i lupi mannari ti scovano con il fiuto, Petey. Sento gemere il letto quando Rick si infila sotto le lenzuola. Gemerei anch'io se mio cugino si sdraiasse su di me. Il pensiero di come mi sentirei se fossi un letto e Rick ci stesse dormendo sopra mi aiuta a ricacciare l'immagine che mi ha dipinto di un'enorme bestia pelosa, con la schiuma alla bocca, che annusa l'aria per fiutare il mio odore. — Ma conosco un genere di creature peggiori dei lupi mannari, di cui dovresti davvero avere paura. Perché una si trova proprio qui, in questa casa. È la tua nuova sorellina. Lo sapevi che viene dalla Romania? La Romania è la terra dei vampiri. Probabilmente anche lei è un vampiro e chi lo sa, magari fra un po' vola fuori dalla sua culla e viene a succhiarti il sangue mentre dormi. Mi sento raggelare dal terrore. — Forse ha già succhiato quello di tua madre e di tuo padre. Lo sai che cosa succede quando un vampiro ti succhia il sangue? Diventi un vampiro anche tu. Chi lo sa, magari i tuoi genitori lo sono già diventati... Forse sei rimasto solo tu. Be' probabilmente riesci a salvarti, se non ti addormenti. Ma è difficile restare svegli tutta la notte, vero? Peccato, perché appena
chiudi gli occhi, zac, uno di loro tre ti azzanna. Forse, se riesco a contare sottovoce fino a cento, facendo attenzione a non saltare neanche un numero, quando arriverò in fondo Rick avrà smesso di parlare. Comincio, riesco ad arrivare a venti poi, con mio sommo orrore, qualcuno mi tira via le coperte e un'enorme ombra scura si avventa su di me, puntando diritto al mio collo... — Foglio succhiare il tuo sangue. Io urlo. Poi, balzando dal letto, colpisco con tutta la forza che ho quella terrificante visione e mi precipito gridando come un indemoniato verso la porta, inseguito da un folle scroscio di risa. La camera dei miei genitori è accanto alla mia. Spalanco la porta, corro verso i piedi del letto e mi tuffo sul materasso. Non ci sono! Urlo di nuovo, salto giù dal letto e mi fiondo verso l'unica via di scampo che mi resta: le scale. Dalla tenebra della mia stanza giunge un lamento che mi fa raggelare il sangue nelle vene. — Foglio succhiare il tuo sangue... Scendo le scale per metà saltando e per metà ruzzolando. Batto l'anca contro la colonna d'appoggio, ma continuo a correre, forse con l'osso rotto. Ma che cos'è un'anca fratturata paragonata al rischio di essere trasformato in un vampiro? Quando entro come un tornado in soggiorno, la mamma e la zia Leslie ammutoliscono all'istante e mi fissano con tanto d'occhi. Papà solleva lo sguardo dal giornale, lo zio Tod mi lancia un'occhiata al di sopra del libro che sta leggendo. — Ma che cosa ti è successo? — mi chiede la mamma. Mi precipito verso il divano su cui è seduta e praticamente le salto in grembo. Lei mi passa un braccio dietro la schiena e mi stringe a sé. — Ma stai tremando come una fogliolina! Hai freddo? Io scuoto la testa e affondo il viso nella stoffa setosa della sua vestaglia. — C... C-Cera un vam-mpiro che mi inseguiva. — Un vampiro? — Continua a fare brutti sogni? — si informa zia Leslie con chiaro tono di disapprovazione. — Se fossi in te io ne parlerei al pediatra. — Non era un sogno! — protesto io, facendomi ancora più piccolo contro il seno di mia madre. — Sei proprio un moccioso, Peter — mi dice Afton con disprezzo, e io mi drizzo immediatamente a sedere. Non mi ero accorto che ci fosse anche lei. Ha otto anni; ha i capelli castani, lunghi e arruffati, due grandi occhi
nocciola e un orribile naso da pugile. Assomiglia decisamente a un pechinese e io mi riprometto di dirglielo la prima volta che mi capita a tiro senza che ci siano i nostri genitori nei paraggi. È seduta per terra e sta giocando al gioco del cucù con Sylvia Frances. La vista della bambina mi fa pensare a tutt'altro. Questa volta ha Rafael in mano e sta per metterlo in bocca. Per la prima volta osservo i suoi denti. Ne ha due di sotto e due di sopra; ma sono questi ultimi che attirano la mia attenzione: distano un paio di centimetri l'uno dall'altro, sono piccoli, candidi e aguzzi... — Guarda, mamma, ha i denti a punta come i vampiri! — urlo io. Poi nascondo di colpo la testa contro il suo petto e lei fa un salto. — Che cosa!? — Il tono della sua voce è quello che ha di solito quando sta per perdere la pazienza. — Ma non vedi, ha i denti come i vampiri! È un vampiro! Ti dico che è un vampiro, mamma! Guardo Sylvia Frances quel tanto che mi basta per vedere la cattiveria nei suoi occhi che mi fissano. L'ho smascherata, ho rivelato al mondo chi è veramente e adesso lei è costretta a uccidermi: è questo che sta cercando di dirmi, lo leggo chiaramente nelle sue pupille azzurre! Urlando mi aggrappo a mia madre e mi rifiuto di guardare ancora quel lupo sotto spoglie di agnello. — Peter, per l'amor del cielo... — È irritata, ma cerca di calmarmi con dolcezza. — Quel bambino ha bisogno di uno psicologo — sentenzia zio Tod. — Dovresti davvero parlare di questi suoi comportamenti con il pediatra — rincara la dose zia Leslie. — Peter Allen! Smettila immediatamente di frignare! — tuona mio padre. Udendo il tono della sua voce ammutolisco all'istante, ma più per forza d'abitudine che altro. È il classico tono che non ammette repliche. — Ma papà, lei è un... — sollevo il viso per guardarlo, ma poi rabbrividisco all'idea di incrociare di nuovo lo sguardo di Sylvia Frances. — A letto! — urla mio padre, indicandomi la porta. — E senza fiatare! — Oh John, non credi che dovremmo... — protesta la mamma e io mi aggrappo a lei. — Filare! L'ho sentito usare quel tono solo un paio di volte in tutta la mia vita. Mi stacco dalla mamma e fuggo su per le scale. Ma adesso che so quello che so, non posso andare a letto ad aspettare che Sylvia Frances venga a farmi
fuori, anche se la luce è accesa e Rick ronfa nel letto accanto al mio. Se dev'essere guerra che guerra sia, ma non ho alcuna intenzione di farmi cogliere impreparato. Per prima cosa, infilo il pupazzo di Topolino, che è grande quasi quanto me, sotto le coperte al mio posto. Poi prendo la sciarpa dall'armadio, me l'avvolgo attorno al collo (un po' di protezione in più non guasta) e scivolo sotto il letto. Ma nonostante tutte queste precauzioni è già l'alba prima che io riesca a prender sonno. Passo tutta la giornata seguente a guardare Sylvia Frances o, per essere più preciso, ad aspettare di poterla guardare, perché è difficile osservare una bambina che non si sveglia mai. Sì, proprio così, che non si sveglia mai. Perché la piccola puzzola dorme tutto il giorno fino a quando finisce Rescue Rangers, la cena sta per essere servita e fuori è quasi notte. Allora finalmente si sveglia. Per quanto mi riguarda, non ci sarebbe bisogno di altre conferme; ma se proprio uno ne volesse, quale prova migliore di questa? Eppure la mamma si rifiuta di prendere la cosa sul serio. — Ma amore, lei proviene da un'altra parte del mondo e ha ancora il giorno e la notte sfasati. Dalle un po' di tempo e vedrai che comincerà a svegliarsi e ad andare a dormire come fai tu. — Dico davvero, mia cara, dovresti parlarne al pediatra... — si intromette zia Leslie — Lo so — le risponde secca mia madre. Poi sorride e mi accarezza i capelli. — Peter ha solo una fervida immaginazione, vero tesoro? — Non è la mia immaginazione — insisto sottovoce. Sta affettando i pomodori per l'insalata e la vedo serrare le dita attorno al coltello. — Ha i denti aguzzi, mamma, guarda! Sylvia Frances, completamente sveglia adesso che è sera, è seduta nel seggiolone e sta riducendo in polvere alcuni biscotti con la sua tazzina di plastica. Mi sta guardando, con gli occhi che le brillano di luce diabolica e le labbra appena aperte in un chiaro atto di sfida, per mostrarmi i dentini appuntiti che rivelano quella che è veramente. Il chiasso che sta facendo con la tazzina sul ripiano del seggiolone mi ferisce le orecchie, ma a quanto pare non dà fastidio a nessun altro. I suoi canini affilati sono in bella vista: com'è possibile che gli altri non si accorgano della loro strana forma? Ma la mamma, cara mamma, proprio non li vede.
— Sono soltanto fatti male — mi spiega con pazienza, ma dal tono della sua voce capisco che sta per perderla. — Il dentista ha detto che a volte succede che abbiano quella forma. Ma sono solo denti da latte: fra qualche anno cadranno e quelli che cresceranno saranno belli come i tuoi. Un corno, penso io, ma in quel momento capisco che non c'è modo di convincerne la mamma. Dovrò vedermela da solo con quell'odiosa intrusa. Lancio un'occhiata di soppiatto a Sylvia Frances (ho paura a guardarla direttamente) e comincio a chiedermi se è capace di leggere il pensiero. Vedendo il luccichio maligno dei suoi occhi temo proprio di sì. Ma i vampiri hanno un simile potere? Decido di chiederlo a Rick. — E così vorresti qualche informazione sui vampiri, eh? — È seduto sul mio letto, ha riempito il piumino di briciole e sta giocando con il mio Nintendo. Rick è così rozzo che mi ripugna, e odio dovergli chiedere qualcosa, ma è l'unico in tutta la casa disposto a prendere l'argomento sul serio. — Sì. — Ti capisco, principino. Anch'io vorrei sapere tutto quello che c'è da sapere se avessi una sorella come la tua. Io sto per rispondergli che sua sorella è un vero pechinese, eppure a me non sembra che lui si interessi tanto di cani; ma siccome ho bisogno del suo aiuto, mi mordo la lingua e sto zitto. — Che cosa vuoi sapere? — Mentre parla continua a giocare. Rick ha un sacco di difetti, che in un altro momento mi piacerebbe elencare in ordine alfabetico, ma devo ammettere che è un vero mago a Nintendo. — Come fai a impedire che ti mordano? Rick sorride con aria furba. — Ce l'hai una croce? No? Be', se io fossi in te me ne procurerei una. E la terrei appesa al collo notte e giorno. I vampiri odiano le croci. — D'accordo. E poi? Sposta rapidamente gli occhi dallo schermo al mio viso e ritorno. — Tua mamma ha dell'aglio in cucina? — Aglio? — Sì. I vampiri odiano l'odore dell'aglio. Se tua madre ne ha dovresti strofinartelo su tutto il corpo. Tiene i vampiri lontani chilometri. — L'aglio. Okay. Nient'altro? — L'unico sistema per ucciderli è quello di conficcargli un palo di legno nel cuore. In modo da inchiodarli a terra e impedirgli di aggirarsi di notte. Aggirarsi di notte? Mi sento chiudere la gola. Dalla tv giunge il familiare suono simile a un risucchio; una delle Tartarughe Ninja è stata neutra-
lizzata, e Rick impreca. — Fuori di qui, brutto stronzo! — sbraita contraendo la faccia in una smorfia orribile e voltandosi di scatto a incenerirmi con un'occhiata. — Per colpa tua mi hanno fatto fuori! — Afferra il cuscino che ha dietro la schiena e me lo tira. Sapendo per esperienza che, se non obbedisco, il cuscino sarà seguito da una serie di altri missili, esco dalla stanza. Riesco a mala pena ad arrivare in fondo alle scale prima che mia madre mi pizzichi. — Peter, voglio che tu venga con me in soggiorno. — C'è qualcosa nella sua voce che mi mette in allarme: è piuttosto decisa, e quando la mamma usa quel tono le cose in genere non si mettono bene per me. Ma quando, con una piccola spinta, costringe i miei piedi riluttanti a varcare la soglia della stanza, scopro con piacere che il soggiorno è vuoto. — Siedi su quella poltrona. Mi sta indicando la poltrona di pelle blu accanto alla tv. Io faccio spallucce e siedo. — Che cosa volevi, mamma? Solo in quel momento la vedo. Sylvia Frances, intendo. È seduta per terra dalla parte opposta del tavolino e, prima che io possa capire che cosa sta succedendo, la mamma l'ha già presa in braccio e la sta portando verso di me. — Oh no, mamma, no! — grido e faccio per balzare in piedi, ma è troppo tardi. La mamma mi molla Sylvia Frances in grembo e il piccolo rospo è così pesante che ricado all'indietro. — Adesso non ti muovere! — E per essere sicura che io obbedisca, mi appoggia le mani sulle spalle. — Voglio che tu la tenga in braccio. È tua sorella e desidero che tu le voglia bene. Lo vedi? È solo una bambina! Sulle prime non è poi così male. Sylvia Frances sta seduta sulle mie ginocchia come una bambina qualsiasi; si sta succhiando le dita e mi guarda con aria vagamente preoccupata, come se avesse paura che io la lasci cadere da un momento all'altro. Poi le viene il singulto e fa un'espressione così sorpresa che mi viene da sorridere. È davvero carina. Vedendomi sorridere, sorride anche lei e la mamma, che è in piedi accanto a noi, ci sorride a sua volta. — Abbracciala, Peter. Ma io non sono ancora pronto a fare un passo simile. Anzi, sono pronto a restituirla a mia madre. Cerco di sollevarla, ma lei si dimena e comincia ad arrampicarmisi su per il petto. E benché io cerchi di tenerla lontana, lei
si aggrappa con le manine alla stoffa della camicia, poi preme il visino contro il mio collo e io sento i suoi dentini... Sta cercando di mordermi sul collo! Lancio un grido e la spingo all'indietro con tale impeto che mi cade dalle ginocchia. Sylvia Frances picchia la testa per terra, si capovolge e scoppia a piangere. Non voglio vedere quanto è arrabbiata mia madre e fuggo veloce come il vento. Corro in cucina. Lo sportello del frigorifero è aperto e vedo il possente didietro di zia Leslie china a cercare qualcosa. — Abbiamo dell'aglio? — Mi sforzo di non apparire terrorizzato come mi sento. Zia Leslie si volta a guardarmi. — Abbiamo del burro all'aglio. Perché? Burro all'aglio. Be', sempre meglio che niente. — Dove? — Eccolo qui. — Mi indica una scatola gialla su un ripiano. — Perché? — Mi serve per una ricerca per la scuola — mento spudoratamente allungando la mano. — Una ricerca per la scuola...? Ma io sono già scomparso con il mio trofeo prima che lei abbia il tempo di farmi altre domande. A cena sono seduto fra Afton e zio Tod, mentre zia Leslie, Rick e Sylvia Frances sono seduti dalla parte opposta. Mamma e papà sono a capotavola. Mamma sta rompendo un pezzo di pane per Sylvia Frances. Noi ci stiamo passando i piatti di portata. — Sento un cattivo odore — dice Afton mentre mi porge la terrina della purée di patate. — Anch'io lo sento — dice zio Tod guardandosi attorno e annusando l'aria. — Come di qualcosa di morto — aggiunge Rick arricciando il naso. — No, direi che è odore... di aglio — Zia Leslie mi guarda sgranando gli occhi. — Peter, che cosa hai fatto con il burro all'aglio? — Quale burro all'aglio? — domanda mia madre. — È lui! Sa di pane italiano andato a male! — proclama Afton chinandosi su di me e annusandomi con aria schifata. — No, è molto peggio. Puh! — Burro all'aglio! — Rick si sta contorcendo dalle risate. Ride così tanto che l'intingolo gli esce dagli angoli della bocca. Che schifo. Non riesco nemmeno a guardarlo tanto mi disgusta — Che cos'hai fatto, imbecille, ti
sei spalmato addosso il burro all'aglio? In effetti è proprio quello che ho fatto. Be', non proprio dappertutto, solo sulle parti che non si vedono; più un doppio strato sul collo, per sicurezza. Ma io lancio lo stesso un'occhiata furiosa a mio cugino. — Ma come ti è saltato in mente di fare una cosa simile? — Mia madre mi fissa incredula. — Rick, non dire quelle parolacce a tuo cugino. — Anche zia Leslie mi sta fissando. — Mamma, scusami, ma puzza davvero. Posso alzarmi? — Prima di attendere la risposta della madre, Afton spinge indietro la sedia. — Non essere sciocca, Afton. Daremo invece il permesso a Peter... di alzarsi e di andare a fare un bel bagno. Avanti, Peter, fila di sopra. Mia mamma mi trafigge con uno sguardo che significa che la sua pazienza è agli sgoccioli, poi si alza. Mi alzo anch'io e la seguo su per le scale. Non apre bocca fino a quando non ha fatto scorrere l'acqua nella vasca. Poi siede sul water e mi guarda: dalla sua espressione capisco che ha contato fino a dieci almeno un milione di volte. — Forza, spogliati e entra dentro. Abbasso la testa - non sopporto che la mamma sia arrabbiata con me - e comincio a spogliarmi. Mi tolgo le scarpe, mi sfilo i calzini, mi calo i pantaloni e comincio a lottare per far passare la maglietta dalla testa, quando all'improvviso me ne ricordo. E in quello stesso momento la mamma la vede. — Che cos'hai lì sul petto? — mi chiede. Io cerco subito di riabbassare la T-shirt, ma lei non me lo permette. Me la sfila senza alcun riguardo per le mie orecchie e spalanca gli occhi. — È una croce! Ti sei disegnato una croce sul petto. Con l'inchiostro! Ero disperato. Non ero sicuro che il burro all'aglio avrebbe funzionato e, in caso di fallimento della prima linea difensiva, potevo contare sul potere della croce. La riga verticale cominciava dalla sommità dello sterno e finiva all'ombelico; quella orizzontale andava da capezzolo a capezzolo. — Perché? — mi chiede mia madre. — Perché? Mi sembra molto addolorata. Devo dirle la verità. — Per difendermi da Sylvia Frances. È un vampiro, mamma, lo è davvero! È... — Non voglio più sentirti parlare di vampiri! — urla lei. — Hai capito? Ho capito. Quando la mamma grida in quel modo non si discute.
Più tardi, mentre sono a letto e faccio finta di dormire (perché non potrei mai dormire con Sylvia Frances in casa pronta ad assalirmi), sento entrare Rick. — Ma Dio, sei proprio stupido — mi dice. Sono nel mio letto questa sera. Non ho avuto il coraggio di nascondermici sotto per paura che la mamma entrasse, mi chiedesse che cosa ci facessi lì e si arrabbiasse un'altra volta. Ma ho il piumino tirato su fino alle orecchie e qualsiasi persona normale penserebbe che stia dormendo e mi lascerebbe in pace. Il che esclude, automaticamente, mio cugino Rick il quale continua imperterrito a parlare come se fosse convinto che io lo sto a sentire. — Tua madre sta imprecando. È fuori di sé. — Sento che comincia a spogliarsi. — La mia pensa che tu sia matto. Mio papà dice che lo sei sempre stato. Tuo padre e tua madre hanno litigato furiosamente: lui sostiene che lei ti ha viziato e che questo è il risultato. Adesso non parlano più e noi ce ne andiamo domani mattina. E tutto per colpa tua, brutto verme schifoso. Io non dico niente, ma mi sento male. Non sopporto che il papà e la mamma litighino. Il letto cigola quando Rick ci si tuffa sopra. — Adesso spengo la luce — dice cantilenando con cattiveria. Poi lo fa. Odio il buio. Fa paura anche se tieni gli occhi chiusi. Le cose hanno tutto un altro suono al buio: il pavimento cigola, i tubi dell'acqua gorgogliano, le imposte sbattono. O almeno io spero che quelli siano i rumori che sto sentendo. Dopo qualche minuto il respiro pesante di Rick si unisce al concerto. Poi lo sento: un rumore come di qualcosa che scivola, che si trascina sul pavimento; un rumore che non ho mai sentito prima in casa mia. Mi si gela il sangue nelle vene e sono così teso ad ascoltare che mi dimentico di respirare. Ma che cos'è? Non va via, anzi continua ad avanzare sul legno lucido del corridoio. Poi all'improvviso cessa e io comincio a rilassarmi... fino a quando non mi viene in mente che forse quello strano suono è scomparso perché la cosa che lo produceva potrebbe essersi trasferita dal parquet alla moquette. La moquette della mia stanza! Mi drizzo a sedere sul letto, butto via il piumino che mi ero tirato sopra la testa... e mi ritrovo faccia a faccia con la creatura che più temo al mondo.
Sylvia Frances è ai piedi del mio letto: si regge al pannello di quercia, dal quale spuntano solo la sommità della sua testa e gli occhi. Nell'oscurità le sue pupille risplendono di un'orribile luce rossa e maligna. Per un secondo, non di più, ci fissiamo negli occhi. Poi, mentre ancora la sto guardando, ho l'impressione di vederla crescere. Vedo tutta la testa, poi parte del corpo. Mi rendo conto che probabilmente sta lievitando, che sta volando in aria (anche se una persona non in pre-allarme come me potrebbe semplicemente pensare che stia camminando a quattro zampe sul letto) e capisco che le mie peggiori fantasie si stanno avverando. Lei mi sorride mentre si arrampica puntando alla mia gola; è un sorriso ampio e sdentato, se non fosse per i due canini aguzzi che hanno tradito fin dall'inizio la sua vera natura... Io urlo e lei protende verso di me le manine paffute, divenute minacciosamente sicure adesso che sta assumendo le sue vere sembianze. Io so che mi restano solo pochi secondi di vita. Ma non sono giunto a questo momento impreparato. In un ultimo, disperato tentativo di salvarmi, le mie mani scivolano sotto il cuscino... e ne riemergono stringendo uno dei bastoni multicolori del mio set da croquet. Lo avevo nascosto lì prima di raggomitolarmi come un agnello sacrificale sopra il letto. Con tutta la forza conferitami dal terrore che mi attanaglia sferro il colpo. Quella cosa che è Sylvia Frances crolla sul materasso accanto a me. Protende ancora le mani e cerca di voltarsi... e io so che è arrivato il momento della verità. Mi sollevo sulle ginocchia e affondo il bastone con tutta la violenza di cui sono capace. Il bastone penetra con sorprendente facilità nella carne tenera della bambina. Odo una specie di gorgoglio e sento sulla mano serrata il calore bagnato del sangue che zampilla. Rick si sveglia e fa per rizzarsi a sedere sul letto vicino. Dal vano della porta sento l'urlo di mia madre. Titolo originale: Sugar and Spice and... (1991) Dick Lochte SOGNI DI VAMPIRO — Eccoci di nuovo in affari, finalmente — disse Simon Winklas sorri-
dendo. Era un omino piccolo e vivace, con una grande testa pelata e lucida e un paio di occhiali con le lenti colorate. Byron Ruthven sorrise e sorseggiò il suo martini ghiacciato. I pigri occhi azzurri percorsero rapidamente il ristorante. Era uno dei palazzi del potere di Hollywood e, come da copione, era pieno zeppo di gente del cinema: star, future star, signori vestiti di scuro che pagavano i conti e qualche turista, che veniva prontamente scortato dall'arcigno maître in un angolo lontano; prima dell'avvento della glasnost quell'ala del locale veniva chiamata Siberia ma di recente, in omaggio al nostro ministro degli Esteri, era stata ribattezzata "Terra di Baker". Ruthven consultò l'orologio poi, rivolgendosi all'omino seduto con sussiego accanto a lui, gli chiese: — Ma Simon, se mi vogliono a tutti i costi come dici, perché tardano tanto? — Hai bazzicato quest'ambiente per almeno quarant'anni e hai mai sentito di un produttore che arriva presto a una cena d'affari? — Sam Spiegel. — Oh, ma Sam era un gentiluomo, Frank Lorenzo è... be', Frank Lorenzo. — Lo sai come hanno fatto i Lorenzo a fare i soldi, Simon? — gli chiese l'anziano attore, bevendo un altro sorso di martini. — Mafia? — bisbigliò l'altro. Ruthven rise. — No, ma forse la mafia gli ha procurato un po' di lavoro. Avevano un'impresa di pompe funebri. Frank, però, ha sempre avuto il pallino di entrare nel mondo del cinema. — Ah, ecco perché produce tanti "cadaveri"! — replicò Simon sogghignando. Poi, all'improvviso, vedendo un gruppo di persone che avanzavano nella loro direzione si ricompose. — Okay. Sono qui. Sii gentile. — Sono sempre gentile — disse Ruthven, alzandosi in tutto il suo metro e novanta, mentre il quintetto si avvicinava al toro tavolo. Il maître aggrottò la fronte e disse: — Chiedo scusa. Mi era stato ordinato di preparare un tavolo per sei, ma se non vi dispiace stringervi un po'... — Ci dispiace — ribatté deciso Lorenzo. Era un uomo di corporatura robusta e molto abbronzato; la sua voce era un ringhio confuso e gutturale. — Quella sanguisuga — disse indicando Simon Winklas con il mento — può pagarsi la cena altrove. — Se è per questo posso farlo anch'io — disse Ruthven. — No. Voglio parlare con te. Non abbiamo bisogno di lui. Dando per scontato che la sua parola fosse legge, come sempre, il pro-
duttore prese posto dirimpetto a Ruthven e si infilò il tovagliolo nell'apertura della camicia di seta. Lentamente, anche gli altri membri del gruppo sedettero, abituati com'erano alla maleducazione del loro ospite anche se non la approvavano. Simon cercò di salvare diplomaticamente la situazione. — Possiamo parlare più tardi, Byron — disse, rinculando come un cane bastonato. L'attore aprì la bocca per protestare, ma Simon scosse la testa. Ruthven era ricco di suo e non aveva bisogno di quel lavoro, ma si rese conto che Simon contava disperatamente sul suo dieci per cento. — Siedi! — gli ordinò Lorenzo, e Ruthven si sedette. — Conosci già queste persone, Byron? Questo — disse afferrando il braccio sottile del giovanotto seduto accanto a lui, — questo è il mio genio: Dennis Murch, il miglior regista di questa dannata città. Lo sai che cosa ha detto di lui Time? Che "riesce a trovare più orrore nelle periferie d'America di quanto Poe ne abbia trovato nei bassifondi di Parigi". Naturalmente Ruthven aveva sentito parlare di Murch. Aveva perfino noleggiato la videocassetta dei suoi due ultimi film. Erano divertenti, ma più perversi che orrorifici. Del resto, ce ne voleva per spaventare uno come lui! — Ed è tutto mio per i prossimi tre film — proseguì Lorenzo. Poi indicò con il pollice una specie di topo di biblioteca seduto alla sua destra. — Questo bastardo grasso che sembra sempre addormentato è Thad Hatten: ha creato delle scenografie e degli effetti speciali da farti schiattare gli occhi. Oggi non siamo più ai tempi dei pipistrelli di cartone appesi ai fili. — Infilò una mano in tasca e ne estrasse una coppia di denti di plastica. — Guarda un po' qui, amico. — Lorenzo fece pressione su una piccola protuberanza e i due canini cominciarono a crescere. — Che te ne pare? — Strabiliante — commentò Ruthven. — E chi sono queste due signore? — Io sono Noreen Bailey, signor Ruthven — disse la biondina alla sua sinistra. — Sono la fidanzata di Dennis. — E alla tua destra — ringhiò Lorenzo — c'è la donna a cui dobbiamo il piacere del nostro incontro di questa sera: Emma Lomax, l'autrice di Sogni di vampiro. Emma Lomax era una bruna mozzafiato, un classico tipo di bellezza slanciata e languida; doveva avere poco più di trent'anni, giudicò rapidamente l'attore. La donna sollevò su di lui due stupendi occhi color verde scuro, che fecero scattare immediatamente nella sua memoria il ricordo di
altri due occhi altrettanto belli; in un tempo ormai così lontano che sembrava quasi appartenere a un'altra vita, lui li aveva fatti riempire di lacrime. Lei lo fissò, poi disse: — È sorprendente. Lei è esattamente com'era in Dracula deve essere annientato. E quando è stato girato quel film? Trent'anni fa? — È tutta questione di posa e di un po' di trucco — replicò Ruthven. — Il suo libro mi è piaciuto moltissimo. — E del copione che cosa ne dici? — gli domandò Lorenzo. Ruthven lo fissò per un istante senza parlare, poi disse: Molto interessante. — Che cos'è che non ti è piaciuto? — La maggior parte delle cose moderne che non c'erano nel libro. La questione dell'AIDs per esempio... Emma Lomax si girò verso il produttore con un sorriso trionfante. — Non una sola parola — le ingiunse l'altro. — L'idea dell'AIDs è mia, Byron. Voglio fare un film attuale. Questo è un film di serie "A", non una di quelle pellicole del genere morso-sul-collo che si facevano una volta. La questione dell'AIDS è fondamentale per il successo del film. So quello che dico. — Questo significa sfruttare la tragedia di migliaia di persone per vendere un film di cassetta. — Mi stai facendo pentire di aver tanto battagliato per ingaggiarti — disse Lorenzo. — Dennis insisteva per scegliere uno tipo Newman o Eastwood per la parte del padre del vampiro, ma io volevo te, la mia vecchia star, per quel ruolo. E adesso tu mi salti fuori con tutte 'ste stronzate sul copione! Dennis Murch si schiarì la voce e disse: — Io non ho mai detto che non la volevo, signor Ruthven. Ero soltanto convinto che avesse dato l'addio al cinema. — Infatti è così. — Sì, ma senza nessun buon motivo per farlo, per come la vedo io — si intromise Lorenzo. — I nostri film su Dracula ci fruttavano un sacco di quattrini. Avevamo trovato la classica gallina dalle uova d'oro e avremmo potuto approfittarne ancora per un bel po': e invece no, il caro Byron ha preferito chiudersi in casa a piangere una donna che conosceva appena. — Basta così — ribatté l'attore con voce pacata ma decisa. — Be', per me è stato comunque un bene — riprese Lorenzo — perché mi ha costretto a fare un salto di qualità. È proprio vero che non tutti i mali
vengono per nuocere. Ma in ogni caso io devo il mio successo a lui e questa è la ragione per cui volevo offrirgli l'opportunità di lavorare in Sogni di vampiro. — Tu mi vuoi perché Newman e Eastwood pretendono milioni di dollari e io no — replicò Ruthven. — Be', non c'è niente di male in questo! La maggior parte dei soldi è destinata alla sceneggiatura, agli effetti speciali e tutto il resto. È per il bene del film. — Perché non ordiniamo da mangiare, intanto? — suggerì Noreen Bailey. — Fra un minuto — le rispose seccamente Lorenzo, senza distogliere lo sguardo dall'attore. — Allora, ci stai o no? — Sono qui a subire la tua villania, mi sembra — replicò l'altro. — Tu hai sempre recitato solo perché ti piaceva e non hai bisogno di soldi. Non ne hai mai avuto bisogno. Se non ti va il copione, perché accetti di fare il film? — Perché apprezzo molto il romanzo della signorina Lomax — disse Ruthven. — Con un pizzico di fortuna e un po' di abilità dovrebbe saltarne fuori un ottimo film. — Allora affare fatto? — Avremmo potuto definire i termini del contratto anche questa sera — disse l'attore — se il mio agente fosse stato qui. Lorenzo tenne banco per tutta la durata della cena. Mentre lui esprimeva giudizi sul vino, sullo stato dell'economia, sulla stupidità della maggior parte dei film moderni, sull'ingratitudine degli attori e sulla volubilità del pubblico, Ruthven criticava mentalmente il cibo e studiava il profilo di Emma Lomax. Di tanto in tanto i suoi occhi verdi si voltavano verso di lui e allora lui li fissava, catturando lo sguardo intenso della donna per alcuni istanti, prima di sorriderle e interrompere il contatto. Finché si decise a chinarsi su di lei e a sussurrarle qualcosa all'orecchio. Erano quasi le undici quando l'addetto del parcheggio recuperò la Jaguar decappottabile di Ruthven. L'attore aprì la portiera dal lato del passeggero per far salire la scrittrice. — Ehi — ringhiò Lorenzo — ma era venuta con me. — Byron desidera parlare del copione — disse Emma. — È per il bene del film, Frank — aggiunse Ruthven scivolando al posto
di guida. Mentre si allontanavano, lasciando il produttore a inveire davanti al ristorante, Emma gli dette il suo indirizzo. Poi disse: — Ma lo sai che non abbiamo la benché minima speranza di fargli cambiare idea. — Per la verità non avevo alcuna intenzione di parlare del copione. Volevo parlare del libro, invece. — Davvero? — Hai preso degli ottimi spunti dall'opera immortale di Bram Stoker — riprese l'uomo mentre l'auto sfrecciava nella calda notte californiana. — La questione della capacità di adattamento dei vampiri, per esempio. L'idea che, come gli uomini per ragioni di salute possono smettere di mangiare carne e diventare vegetariani, anche i vampiri potrebbero rinunciare al sangue e trovare un altro cibo altrettanto nutriente, come brodi e consommé. Un'idea davvero geniale, complimenti. La donna sorrise. — Non è tutta farina del mio sacco. Era un'idea di mio nonno. Mi raccontava delle storie così belle sui vampiri quand'ero piccola! — Anche tuo nonno si chiamava Lomax di cognome? — No, era il nonno materno. Si chiamava Marcus Van Helsing. — Ah! — escalmò Ruthven. — Sapevo che c'era qualcosa... Allora tua madre è Lucy Van Helsing. Emma annuì. — Hai i suoi stessi occhi. — Perché, conosci mia madre? — Tuo nonno era uno dei vampirologi più esperti che io abbia mai conosciuto. Fui io a convincere Lorenzo ad assumerlo come consulente durante le riprese dei nostri primi film. E ogni tanto tua madre lo accompagnava sul set. — Quella non era proprio la verità. Conosceva Lucy Van Helsing molto bene. E aveva conosciuto bene anche Abraham, il bisnonno di Emma, ma non c'era motivo di raccontarle tutta la storia. — Mamma e papà vivono in Europa adesso. In Germania. — Qualcuno doveva avermelo detto, ma non ricordo di aver mai saputo il cognome di tuo padre. — Alla prima occasione devo assolutamente dirle che stiamo lavorando insieme. — Immagino che la cosa la divertirà — Ruthven. La Jaguar piegò in una strada a fondo cieco, che sembrava affondare come una spada nel fianco della collina. L'attore parcheggiò accanto a un
ascensore esterno, che saliva fino in cima alla collina, dove un labirinto di appartamenti formava un eccentrico alveare. Ruthven scortò Emma fino alla soglia di casa. La donna infilò la chiave nella toppa, poi si voltò, esitò un istante e infine disse: — Hai continuato a fissarmi per tutta la cena. Era come se... — Come se cosa... — Ecco, avevo la sensazione che ci conoscessimo da sempre. — Come due vecchi amici — sorrise l'attore. — Ti piacerebbe baciarmi? — Oh sì, moltissimo — rispose l'attore, ma restò immobile. — E allora perché non lo fai? Quando vide che lui taceva, la donna aggiunse: — Ti prego di non farti scrupoli per la nostra differenza di età. Tu mi piaci molto e io vorrei che diventassimo... buoni amici. — Vedremo — rispose Ruthven. Le prese la mano e la baciò. Il contatto con la sua pelle gli diede le vertigini. Erano anni che non provava un simile desiderio. E per resistervi aveva dovuto rinunciare alla madre di Emma. — Ci rivedremo presto, temo — disse e se ne andò. Nelle settimane seguenti, Emma visitò il set di Sogni di vampiro quasi tutti i giorni e restò molto delusa, nonché interdetta, quando scoprì che Byron la evitava. Per la verità evitava quasi tutti. Dennis Murch era molto seccato perché Ruthven era disposto a girare solo di sera le scene con il lunatico attore, stile Marlon Brando, che recitava la parte di suo figlio. — È sempre stato così — le spiegò un giorno Lorenzo. — Dipende dal suo metabolismo. È un animale notturno. Quando lavora di giorno ha bisogno di fare un sacco di pause. È scritto sul contratto. Quando si girano scene in cui lui non c'entra, se ne sta nel suo camerino. — Quest'ultimo era una roulotte Winnebago con i vetri affumicati, parcheggiata non lontana dai set, all'interno dell'immenso teatro di posa. Quelli furono giorni duri per Emma. Si detestava per quel suo comportamento da scolaretta infatuata, disposta a fare mille acrobazie per sbirciare l'uomo dei suoi sogni. Una sera attese per quasi due ore accanto alla Jaguar di Ruthven, ma lui non lasciò il teatro. Il mattino successivo Emma arrivò praticamente all'alba, ma la Jaguar era già lì. Ne dedusse che l'attore avesse scelto di usare la roulotte come dimora temporanea. Un giorno fermò Frank Lorenzo e gli chiese: — Perché Byron aveva lasciato il cinema?
Il produttore inarcò un sopracciglio. — Perché lo vuoi sapere? — Semplice curiosità. — Be', non essere troppo curiosa. E soprattutto lascialo stare. Lo dico per il bene del film. Non voglio che Byron pensi a qualcos'altro che non sia Sogni di vampiro. Fu la fidanzata del regista, Noreen Bailey, a raccontarle la storia di Jeannette Bouvan, una delle costumiste che avevano lavorato nell'ultimo film interpretato da Ruthven, Una sposa per Dracula. — È accaduto una ventina di anni fa, più o meno. Evidentemente Byron Ruthven e la Bouvan si erano conosciuti sul set e, come si suol dire, era scattata la scintilla. Stando a quanto ho letto su Hollywood Horrorshow, un libro che parla di tutti gli omicidi e dei fatti strani successi a Hollywood, una sera la Bouvan è sparita. Ruthven ha cominciato a dare i numeri: poi, quando hanno trovato il suo corpo, sembra che sia partito del tutto. — Trovato il corpo...? — Sì — rispose Noreen con un soffio. — In uno dei canyon, nudo e mutilato. Era stata violentata prima di essere uccisa. Ma non è tutto. La cosa veramente misteriosa era che aveva due piccoli fori sul collo e nelle sue vene non c'era più nemmeno una goccia di sangue! I giornali lo definirono "l'omicidio del vampiro". — Che fantasia — commentò la scrittrice. — E chi l'aveva uccisa? — È questo il punto — rispose Noreen. — Non l'hanno mai scoperto. È come la storia della Dalia Nera. Comunque Byron Ruthven, che era diventato famoso interpretando Dracula, appese la cappa al chiodo proprio per questo motivo. Nessuno lo ha mai accusato formalmente di aver ucciso la donna, ma tu capisci bene... Lui faceva film in cui mordeva le donne e beveva il loro sangue, e la sua fidanzata aveva fatto quella fine orribile e inspiegabile. Insomma il caso suscitò un gran polverone. Da quel giorno Ruthven vive in una specie di clausura. — È una storia spaventosa — disse Emma. L'indomani mattina acquistò una copia di Hollywood Horrorshow, ma il libro non diceva molto di più di quanto non le avesse già raccontato Noreen. Si citava solo il fatto che, grazie a quell'omicidio, Una sposa per Dracula era stato uno dei successi a sorpresa di quell'anno. Quello stesso giorno Emma cominciò a fotocopiare tutti gli articoli comparsi sui giornali dell'epoca a proposito dell'assassinio. Poi li ammucchiò sul tavolo che le era stato riservato nell'ufficio produzione e ogni pomeriggio, dopo aver rettificato il copione in base alle modifiche che vi ve-
nivano apportate praticamente ogni giorno, cercava di mettere assieme i tasselli di quel misterioso puzzle. Una sera stava scorrendo un articolo pubblicato sulla rivista Scandal, quando Frank Lorenzo entrò nell'ufficio, seguito a ruota da Dennis Murch. Murch si stava lagnando. — Ma Frank, abbiamo questi due vampiri, padre e figlio, che vivono in una piccola città. Il nostro elemento base è che sono due persone perfettamente integrate nel loro mondo, amate e rispettate dai loro vicini di casa; tutto il film è giocato sull'orrore che può nascondersi nelle situazioni più normali, negli ambienti che ci sono più familiari. Come diavolo facciamo a infilarci dentro la scena di una ragazza che si fa la doccia alla casa dello studente? — Che ne so? Fa' in modo che il vecchio vampiro porti suo figlio a fare un giro attorno al campus o qualcosa del genere. Non ho molta fantasia, lo riconosco, ma quello che so è che ai ragazzi piace vedere delle femmine nude e bagnate. E sono i ragazzi quelli che comprano i biglietti. — Così dicendo circondò con un braccio le esili spalle del regista e lo spinse fuori dall'ufficio. — Fidati. È per il bene del film. Murch continuò a protestare e Lorenzo gli chiuse letteralmente la porta in faccia. Poi si girò, sospirò e solo allora si accorse di Emma seduta alla sua scrivania. — Che cos'hai lì? — le chiese prendendole l'articolo di mano. — "Jeannette Bouvan vittima di un succhiasangue" — lesse con tono di scherno. — Dio, Emma, non hai abbastanza da fare con il copione e il tuo nuovo libro? — Potrebbe essere questo il soggetto del mio prossimo libro — replicò la donna. — L'assassinio di una puttanella avvenuto venticinque anni fa? Che cos'ha di interessante un fatto simile? — Il fatto interessante è: come mai il cadavere era completamente dissanguato? L'uomo sogghignò. — Un vampiro, come dissero i giornali all'epoca. — Perché, tu non credi ai vampiri? — Era quasi un'accusa. Lorenzo scrollò la testa, gettò l'articolo sulla scrivania e si avviò verso il suo ufficio. — Certo che ci credo, mi hanno fatto fare un mucchio di soldi! — La sua voce trasudava sarcasmo. — Proprio come credo ai profitti netti! — Ma se non esistessero i vampiri, come mai il corpo era privo si sangue? L'uomo fece una pausa, poi le rivolse un ampio sorriso. — Io ho una mia
teoria al riguardo — disse — di cui mi piacerebbe discutere questa sera a cena. Ti interessa? Da quando lo conosceva, Emma aveva sempre declinato i suoi inviti. Ma questo non poteva proprio rifiutarlo. Erano passate da poco le due di notte quando Ruthven udì un colpo alla porta della sua roulotte. Si gettò addosso la vestaglia e quando aprì si trovò di fronte una Emma Lomax terrorizzata e sanguinante. L'aiutò a distendersi su un sofà, poi cercò di farla calmare. — Ha... Ha cercato... di... — Faceva fatica a parlare. — Chi? — le domandò lui, fissando angosciato il vestito strappato della scrittrice e i graffi che aveva sul viso, sulle braccia e sulle gambe. — C-c-c... Credo di averlo ucciso. — Chi? — Frank. L'ho... l'ho colpito, non so quante volte. Tante che credo di averlo ucciso. Ruthven l'abbracciò e lei scoppiò a piangere. Lui disse: — Non preoccuparti, ci penso io. — Ma l'ho ucciso — protestò la donna. — O almeno credo di averlo ucciso. — Vedremo. La trasportò sul letto e la coprì con il piumino. Poi la costrinse a prendere un sedativo che teneva nell'armadietto dei medicinali e infine disse: — Raccontami che cos'è successo. — Stavo raccogliendo del materiale sull'omicidio di Jeannette Bouvan — cominciò Emma, studiandolo per vedere la sua reazione. Ma l'attore rimase impassibile e lei proseguì. — Frank mi aveva detto di avere un'idea su come erano andate le cose e che mi avrebbe spiegato tutto a cena. Non avevo capito che intendesse a casa sua. Il suo domestico ha preparato la cena, poi Frank gli ha detto di andare, che noi volevamo restare soli. Ma nemmeno allora ho capito. Pensavo che avesse qualcosa di importante da rivelarmi e che non volesse farsi sentire da orecchie indiscrete. Ma la sola cosa che voleva... — Ha detto niente di Jeannette? Emma ebbe un attimo di esitazione. — Ha detto che pensava che l'avessi uccisa tu. — Che cosa? — Gli ho chiesto perché e lui mi ha risposto che forse eri un vampiro.
— Non pensavo che Frank fosse il genere di uomo che crede ai vampiri. — Infatti... — Emma sbatté le palpebre. Il sedativo stava facendo effetto. Sbadigliò, poi riprese. — Ha detto che gli unici veri vampiri sono quelli che lavorano nelle stanze dietro le camere mortuarie. Gli occhi azzurri di Ruthven si dilatarono per la sorpresa. Come poteva essergli sfuggita una cosa così ovvia? Le rimboccò il piumino sul collo. — Dormi adesso — le disse sottovoce. — È stato solo un sogno. Hai cenato con Frank, avete parlato del copione e quando tu te ne sei andata lui stava aspettando un'altra donna. — ...un'altra donna — mormorò la scrittrice semi-addormentata. Ruthven le passò la lunga mano sottile sugli occhi e lei li chiuse. La porta dell'attico di Frank Lorenzo era socchiusa. Ruthven lo trovò riverso sul pavimento del soggiorno, con un lungo taglio in testa e la fronte sporca di sangue. L'objet d'art responsabile della ferita, il Globo d'Oro che aveva vinto alcuni anni prima, era sul pavimento accanto a lui. Ruthven riconobbe l'odore di sangue fresco e gli premette le dita sulla carotide. Era ancora vivo. Cominciò a schiaffeggiargli le guance paffute finché, tossendo e sputacchiando, l'uomo riacquistò i sensi. — Che cosa diavolo è successo? — Fece una smorfia. Contemporaneamente si portò una mano alla testa e, quando la guardò, vide che era rossa di sangue. — Dannazione! Dov'è? — Se n'è andata — rispose semplicemente l'attore. — E tu da dove salti fuori, Byron? — L'omone si alzò in piedi grugnendo, dopodiché raggiunse barcollando la stanza attigua e accese la luce. Ruthven lo seguì. Era una pomposa camera, col letto coperto di seta nera e una delle pareti era interamente rivestita di specchi. Lorenzo si esaminò la ferita. — Maledizione, mi ha dato una bella botta. Appena metto le mani su quella... — Non lo farai — disse calmo Ruthven. Lorenzo cercò il viso dell'attore nello specchio, ma non lo vide. Sgranò gli occhi, poi si voltò di scatto. Ruthven era a pochi passi da lui e il produttore fece un salto. — Cristo, Byron, mi hai fatto prendere un colpo. — Hai idea di chi sono io, Frank? L'uomo gli lanciò un'occhiata furiosa poi disse: — Sì, sei un attore al tramonto che ha voglia di fare lo spiritoso. Ho la testa che mi scoppia. Vado a prendere un'aspirina. — Vacillando, varcò la porta del bagno.
Ruthven lo seguì e, quando Lorenzo si accinse ad aprire il tubetto del medicinale, glielo fece cadere di mano colpendolo con forza sulle dita. Il produttore contrasse il volto insanguinato e si rabbuiò. Byron disse: — Non mi va che tu prenda medicine. — Tu che cosa? Non me ne frega un cazzo di quello che ti va o non ti va! — Lo sai da dove deriva il nome Ruthven, Frank? — Il tuo nome? — Lorenzo inarcò le sopracciglia. Era confuso adesso. — Non lo so. Il tuo vecchio? L'attore rise. — Ti ricordi come Mary Shelley trovò l'ispirazione per scrivere Frankenstein, durante il week-end che trascorse insieme a suo marito e a lord Byron? Lorenzo gli restituì uno sguardo ottuso. — Ho visto il film — disse. — Sembrava che dovesse essere una roba erotica e invece era una schifezza. — C'era un'altra persona oltre a loro tre, un tale dottor John Polidori. Nello stesso tempo in cui Mary Shelley stava concependo il suo mostro infame, il buon dottore stava lavorando al suo. — Non ho la più vaga idea di che cosa diavolo tu stia dicendo — gemette Lorenzo. — So solo che la testa mi fa un male cane. — Il dottor Polidori scrisse un romanzo intitolato Il Vampiro, il cui protagonista era un tizio spietato chiamato Ruthven. Quel romanzo ebbe grande successo. Diversi critici pensarono addirittura che l'avesse scritto Byron in persona. — E ti chiami Ruthven anche tu. Fantastico! — Allora non hai capito — riprese l'attore. — È stato il dottor Polidori a darmi questo nome. — Eh? — In seguito sono stato chiamato con nomi diversi. Nei romanzi d'appendice mi hanno ribattezzato lord Varney. Ah, che opere immonde, proprio come i tuoi film. Poi, una sera, un altro scrittore mi vide in un teatro londinese nei panni di Lucifero e, quando decise di scrivere un libro su di me, pensò bene di chiamarmi Dracula. — Va bene, va bene — disse Lorenzo con fare condiscendente. — Piacere di averla conosciuta signor Dracula. — Poi bofonchiò: — Maledetto idiota. — Quando decisi di stabilirmi sulla Costa occidentale, il nome Dracula era troppo conosciuto, così optai per quello più oscuro che mi aveva dato il dottor Polidori.
Lorenzo non riusciva a capire se Ruthven fosse ammattito del tutto o stesse semplicemente recitando. Ma in ogni caso che gliene fregava? — È una storia divertente, Byron. Risparmiala per il Carson show. — Si chinò a raccogliere il tubetto. Ma Ruthven fu più svelto di lui. Allungò un piede e calpestò con forza la confezione e le compresse che conteneva. — Okay. Adesso ne ho abbastanza...! — Lorenzo lo guardò da sotto in su, poi si raddrizzò e si avventò su di lui. Ruthven fece due rapidi passi indietro e l'omone incespicò, mancandolo, come un toro che sfrecci oltre il torero senza riuscire a incornarlo. Non appena riuscì a recuperare l'equilibrio, il produttore si avvicinò lentamente alla star. Appoggiò una mano sul suo esile torace e, ringhiando, lo spinse all'indietro con tutta la forza che aveva. Ma Ruthven non fece una piega: rimase saldo come una statua di ferro. Lorenzo si sentì rabbrividire. — Vattene! — urlò. — Non fino a quando non avrò risolto una questione che avrei dovuto risolvere molto tempo fa. — Mi stai facendo arrabbiare adesso. Vattene fin che sei in tempo — lo ammonì Frank. — Non ancora — disse Ruthven. Poi, all'improvviso, colpì l'uomo con un potente pugno allo stomaco. Lorenzo si accartocciò e cadde a terra. Tentò di alzarsi, ma Ruthven sferrò un calcio al braccio sul quale stava facendo perno. — Ma perché mi stai facendo tutto questo? — gli urlò il produttore ansimando. — Ho sempre pensato che fossi stato tu ad uccidere Jeannette — disse Ruthven. — Soltanto che non sapevo come avessi fatto a eliminare il sangue. Mi era perfino venuto il dubbio che fossi un vampiro. Ma con il passare degli anni ho finito per non dare più importanza alla cosa. Jeannette era morta. Avrei potuto salvarla, darle la vita, ma il prezzo da pagare era troppo alto, sia per lei sia per me. — Tu sei matto. — Poi questa sera tu hai detto a Emma che i soli vampiri sono quelli che lavorano nelle stanze dietro le camere mortuarie. È il posto in cui estraggono il sangue prima di iniettare la formaldeide, vero? Ed è quello che tu hai fatto a Jeannette, non è vero Frank? L'hai violentata, l'hai uccisa e poi l'hai portata all'impresa di pompe funebri della tua famiglia per estrarle il sangue. Lorenzo cercò di allontanarsi strisciando all'indietro sul pavimento, fin-
ché incontrò il muro e vi si puntellò contro per alzarsi. — Sta' lontano da me. Tu sei pazzo! — Tu dai del pazzo a me. Tu che hai stuprato una donna, l'hai assassinata e poi hai violato il suo cadavere! Il produttore aprì il cassetto del suo comodino, afferrò la pistola che teneva sempre carica, e la puntò contro l'attore. Con quell'arma in mano si sentì improvvisamente forte e sicuro. — Non avevo intenzione di ucciderla, Byron — disse. — È stata una disgrazia. L'avevo maltrattata un po' e... a un certo punto lei è... è crollata a terra. Morta. Tentai di rianimarla, ma ormai non c'era più niente da fare. Così pensai, morta per morta, perché non approfittarne per promuovere il film? Sarebbe uscito dopo pochi giorni. Perché non offrire ai giornali un buon motivo per parlare di vampiri? — Ho conosciuto un numero infinito di mostri nella mia vita — disse Ruthven, — ma tu sei l'ultima spira della coda ritorta del diavolo. — E tu sei un uomo morto — sibilò Lorenzo premendo il grilletto. — Scommessa persa, Frank — replicò l'altro, mentre i proiettili gli trafiggevano il petto. Il produttore aspettò che la vecchia star si accasciasse a terra, ma non fu così. Ruthven iniziò a camminare lentamente verso di lui. Allora Lorenzo sparò di nuovo: di nuovo i proiettili centrarono l'obiettivo. Poi l'omone sentì una mano strappargli l'arma dalle dita. Ruthven aprì la bocca e i suoi canini cominciarono a crescere. — Questo non è un effetto speciale, Frank. Sono denti veri. I canini aguzzi affondarono nel collo del produttore. Lorenzo sentì una scossa elettrica e subito dopo un profondo senso di pace. Poi, lentamente, mentre il sangue scemava dalle sue vene, affondò in un mare di nebbia, sempre più fosca, finché non sentì più nulla. Ruthven si mosse rapido nell'attico: pulì ogni cosa, cancellò le impronte di Emma dal Globo d'Oro e lo rimise sul tavolo. Poi sollevò senza alcuna fatica il corpo esanime di Lorenzo e uscì sul terrazzo. Guardò l'asfalto scuro del viale diciassette piani più sotto: le ferite provocate dalla caduta avrebbero coperto le contusioni e le abrasioni sul corpo del produttore. E prima che il cadavere si fosse sfracellato al suolo, le sue ali di pipistrello lo avrebbero portato a parecchi chilometri di distanza dalla scena del delitto. Mise il corpo in equilibrio sulla balaustra del terrazzo. — Ho avuto l'impressione che il tuo sangue fosse marcio — disse rivolto alla salma — e in
più adesso mi ci vorranno anni per ritornare a una dieta meno sanguinaria. Le cattive abitudini sono le più difficili da perdere. Ma come hai dimostrato tu stesso a spese della povera Jeannette, un po' di vero vampirismo fa vendere tanti biglietti. "Anzi, a pensarci bene dovrebbe farti piacere, Frank — aggiunse, mentre il corpo dissanguato dell'uomo precipitava nel vuoto. — È per il bene del film." Titolo originale: Vampire Dreams (1991) Kevin J. Anderson LA POSTA IN PALIO Bela Lugosi scese dal set ascoltando l'eco dei propri passi pesanti sulle finte pietre del castello di Dracula. Descrisse un ampio movimento circolare con la falda del mantello, ripetendo quel gesto armonioso e spettrale che non mancava mai di suscitare gridolini spaventati nelle platee affollate dei teatri. Dopo l'ennesima, aspra discussione con il cameraman Karl Freund, il regista del film, Tod Browning, aveva deciso di sospendere le riprese fino all'indomani. La presunzione dei due uomini era stata spesso causa di discussioni durante le sette, intense settimane che la Universal aveva previsto per la realizzazione di Dracula. Freund e Browning sembravano aver dimenticato che la star era lui, e che era capace di terrorizzare il pubblico indipendentemente dall'angolazione della macchina da presa. Con tutti i riflettori spenti, l'enorme scena allestita per il castello di Dracula appariva cupa e imponente. I produttori della Universal non erano famosi per la larghezza dei loro budget, ma quella volta avevano superato se stessi. Gli attrezzisti avevano setacciato tutta Hollywood ed erano riusciti a scovare vecchi mobili di foggia esotica; i muratori avevano costruito un sinistro camino, così grande da poter ospitare un uomo in piedi; e, per finire, uno dei tecnici più creativi aveva realizzato con il mastice una ragnatela lunga più di cinque metri, che adesso pendeva come una rete nella penombra del set chiuso. Lugosi si avviò verso il suo camerino; gli dolevano le gambe. Non si fermava quasi mai a parlare con gli altri: né con gli attori, né con il regista o i tecnici. Aveva troppi problemi con l'inglese per fare conversazione; sì, perché l'apprendimento di quella lingua, che l'aveva costretto a mettere da
parte il nativo ungherese, all'inizio si era limitato al solo piano fonetico. Ciò gli aveva permesso di imparare a recitare con l'enfasi necessaria a terrorizzare le platee americane, mentre il significato delle battute che pronunciava lo aveva compreso soltanto in un secondo tempo. Ma quella non era la sola ragione: la verità era che Lugosi era angustiato da troppi pensieri per cercar compagnia. Nonostante le duecentosessantuno repliche a Broadway, con il botteghino che registrava il tutto esaurito ogni sera, e gli anni di tournée, aveva sempre condotto una vita molto appartata; era riuscito così a mantenere l'intensità del personaggio che interpretava, Dracula, il Signore del Male, facendo appello al dolore che aveva conosciuto nella sua vita e alla paura che aveva visto con i suoi occhi. Paura che proiettava sul pubblico dei teatri: gli uomini tremavano, le donne urlavano e svenivano poi gli scrivevano lettere elettrizzanti, in alcuni casi addirittura spudorate. Ai loro occhi lui era l'incarnazione del terrore e del pericolo, e questo a lui piaceva. Adesso avrebbe raggiunto lo stesso scopo anche sullo schermo. Chiuse la porta del camerino. Come sempre, tutti gli altri sarebbero andati a casa, o alla caffetteria dello studio, o in qualche bar. Soltanto Dwight Frye si fermava fino a tardi di tanto in tanto, per esercitarsi nella parte del matto Renfield. Anche Lugosi pensò di andare a casa, dove lo aspettava la sua terza moglie; ma il dolore alle gambe, un dolore lancinante, come se chiodi arrugginiti gli stessero ruotando sotto le rotule, gli ricordò la sua vecchia ferita. Quella che gli aveva insegnato che cos'era la paura. Sedette sulla seggiola di legno pieghevole (la Universal non offriva niente di meglio agli attori, neppure alla star del film), ma distolse lo sguardo dallo specchio e dalle luci della toilette: non sopportava l'idea di guardarsi mentre faceva quello che stava per fare. Allungò la mano nel cassetto dove teneva i suoi effetti personali e ne estrasse l'ago ipodermico, la siringa e la fiala di morfina. Attraverso le sottili pareti del camerino gli giungeva l'eco della voce di Dwight Frye, che si esercitava a riprodurre i deliranti schiamazzi di Renfield. Frye era convinto che la sua interpretazione del povero demente avrebbe terrorizzato il pubblico americano. Bela Lugosi, invece, aveva scoperto che gli bastava biascicare poche parole, agitare le dita e guardarsi attorno un paio di volte con sguardo gongolante per far tremare gli spettatori. A loro piaceva così. Era talmente facile spaventarli. Prima che la Universal decidesse di produrre Dracula, i lettori dei co-
pioni si erano espressi in termini molto negativi, sostenendo che la censura non avrebbe mai approvato il film, per l'eccessivo terrore che suscitava. "Questa storia" aveva addirittura scritto uno di loro "provoca emozioni superiori a quelle che una persona media può sopportare." Come se sapessero veramente che cos'era la paura! Fissò l'ago, sottile e argentato, sul quale si infrangeva il bagliore giallo delle lampade della toilette... E Van Helsing pensava che un paletto di legno sarebbe bastato ad annientarlo! Dopo essersi accertato che la porta del camerino fosse chiusa, Lugosi riempì la siringa di morfina. Le gambe gli formicolavano, gli tremavano, gli dolevano nell'attesa del sollievo che gli avrebbe procurato la droga. La morfina non lo tradiva mai: era l'equivalente di una sorsata di sangue fresco per il conte Dracula. L'attore inserì l'ago nell'epidermide, poi cercò la vena inseguendo con l'astina lo scintillante punto del dolore... e della liberazione. Chiuse gli occhi... Nella tenebra che si cela dietro i pensieri, Lugosi si rivide nei panni del giovane tenente del 43° reggimento della Reale Fanteria ungherese, impegnato a combattere nelle trincee dei Carpazi, durante la Grande Guerra. A quell'epoca Lugosi era un giovanotto spaventato, che si sottraeva ai proiettili ma rischiava la vita per la sua patria; si faceva chiamare con il suo vero nome allora, Bela Blasko della città di Lugos. Attorno a lui il sibilo delle pallottole si confondeva con le deflagrazioni e le grida dei feriti. Nell'aria gravava lo spesso odore del sangue, del sudore e della paura. Le cime delle montagne, illuminate di notte da esplosioni arancione, ricordavano le guglie di qualche antica fortezza ungherese; e quella visione era di gran lunga più terrificante delle pietre smozzicate e delle ragnatele che i costruttori del set avevano realizzato negli studi della Universal. Poi, una notte, proiettili nemici gli erano esplosi all'interno della coscia, maciullandogli il ginocchio e facendo sprizzare un fiotto di sangue nell'oscurità. Lui aveva urlato ed era caduto, convinto di essere morto. I soldati dell'esercito nemico avanzavano, pronti a finirlo... ma durante la ritirata uno dei suoi commilitoni lo aveva trascinato via. Il giovane Lugosi si era destato dal suo lungo, caldo sonno in un letto dell'ospedale militare. Le infermiere gli praticavano iniezioni di morfina tutti i giorni, e avevano continuato a farlo per parecchio tempo anche dopo che i dottori ne avevano sospeso la somministrazione. Una delle infermiere
aveva riconosciuto in lui l'interprete del Cristo nella sacra rappresentazione della Passione che aveva visto a teatro, e si era prestata a dargli tutta la morfina che voleva. E fuori, nell'obnubilamento di una sfavillante assenza di dolore, la Grande Guerra continuava... Nel chiuso del suo camerino. Bela Lugosi fece una smorfia e spalancò di colpo gli occhi, in attesa che gli effetti della droga raggiungessero il suo cervello. Attraverso le sottili pareti dello stanzino, sentiva Dwight Frye imitare la risata delirante di Renfield: — Hi hii hii hiiiii! — La mente dell'attore si offuscò; lampi di colore ne illuminarono i contorni. Quando a quei bagliori si aggiunse l'ondata di morfina, il piacere gli sciolse la mente dalle catene del corpo. Un brivido liquido gli corse lungo la spina dorsale e all'improvviso l'attore si sentì stretto in una morsa di gelo. Le luci della toilette si spensero, facendolo piombare in una tenebra da claustrofobia. Lugosi trasse un profondo sospiro che gli rintronò nella testa. Fuori, la risata di Dwight Frye si confuse in urla lontane e agonizzanti. Sbattendo gli occhi, disorientato, Lugosi cercò di capire che cosa fosse realmente cambiato attorno a lui. Si trascinò fino alla porta del camerino e l'aprì; gli sembrava di camminare in mezzo a un mare di gelatina. La morfina annullò la paura e il disagio che provava: adesso il solo sentimento che lo animava era la curiosità di scoprire che cos'era accaduto. Il suo vestito da Dracula non era più un semplice costume, ma gli apparteneva come qualche cosa di vivo. Il set del castello gli sembrò ancora più elaborato, più reale e più sporco di prima, ma la cosa veramente strana era che non riusciva più a distinguerne i contorni, a discernere il confine dove terminava la finzione e subentravano le macchine da presa: non vedeva più le giraffe, né i riflettori né le impalcature. Nell'enorme camino il fuoco, ormai spento, mostrava soltanto qualche tizzone arancione; un fumo acre riempiva la grande stanza. Nell'aria gravava l'odore di antichi banchetti, che negli angoli si confondeva con quello umido della muffa e con il tanfo dei resti degli animali, sparsi sulla paglia che copriva il pavimento. Negli anelli di ferro infissi nei muri ardevano le torce. Una folata d'aria fredda gli fece accapponare la pelle. Da lontano continuava a giungergli l'eco di gemiti e grida. Procedendo con circospezione, Lugosi salì l'ampia scala di pietra, molto
simile a quella sulla quale incontrava Renfield nel film. Le suole delle sue scarpe risuonavano sugli scalini grigi: scalini veri, adesso, non più di cartapesta. Tese l'orecchio alle grida e le seguì. Sapeva di non essere più a Hollywood. Quando giunse in cima alla scala Lugosi seguì un refolo d'aria fredda e, fatti pochi passi, si ritrovò su una veranda aperta, che si affacciava sul versante di una collina ammantato di tenebra. La volta tersa del cielo era interrotta, qua e là, da ciuffi di nubi alte, fra le quali brillavano le stelle. Quattro falò ardevano ai piedi del poggio, fra gruppi di soldati e tende grigie. Benché Lugosi avesse sentito subito l'acre odore di carne putrescente, gli ci vollero alcuni minuti per abituare gli occhi al bagliore delle fiamme e per riuscire a distinguere le figure che punteggiavano il fianco del pendio. Dapprima pensò che si trattasse di un vigneto, viste le centinaia di pali allineati che si irradiavano da cerchi concentrici di altri pali. Poi una delle "viti" si mosse, agitò un braccio, e il coro dei gemiti crebbe. All'improvviso, come se stesse guardando attraverso una telecamera che a poco a poco metteva a fuoco l'immagine, Lugosi si rese conto che ciascun palo terminava con una figura umana, infilzata sulla punta aguzza della pertica. Alcune punte erano sporche di sangue, che riluceva come olio nero nell'oscurità; altre si stagliavano in tutto il loro sinistro biancore, come se, una volta impalate le vittime, fossero state ripulite e levigate. L'attore si sentì mancare il fiato; nemmeno la morfina riusciva a stordirlo al punto da non vedere e non capire. Molte delle sagome umane si muovevano, agitando le braccia e stringendo le mani attorno alle ferite da cui fuoriuscivano i pali di legno. Non avevano ricevuto nemmeno la grazia di morire in fretta. Confuse forme alate svolazzavano attorno ai corpi: erano avvoltoi, pronti a banchettare anche di notte, nonostante fossero così satolli da faticare a librarsi; la presenza dei soldati non li infastidiva, né li turbava il fatto che molte delle vittime non fossero ancora morte. Numerosi corvi, quasi invisibili nell'oscurità, zampettavano sul terreno intriso di sangue, beccando brandelli di carne. Alcuni soldati, intenti a qualche gioco, scoppiarono a ridere. Lugosi serrò gli occhi e rabbrividì. Orrore, confusione e paura si accavallavano nella sua mente. Doveva essere tutto un inganno del suo cervello, un incubo della sua mente, anche se la morfina non gli aveva mai fatto un simile effetto prima di quella sera! Alcuni uomini erano stati impalati a testa in giù, altri di traverso. I pali
erano di diverse altezze, alcuni alti altri bassi, quasi a rispecchiare macabre caste di morte. Un coro di gemiti spazzò quel giardino di bastoni insanguinati come una raffica di vento. Dalla sala alle sue spalle Lugosi udì una voce pacata mormorare: — Ascoltali... come bambini nella notte. Ti piace la musica che producono? — Lugosi si girò di scatto e inciampò, accasciandosi contro il muro di pietra; il torpore che gli paralizzava le membra era tale che gli sembrava di avere le gambe distaccate dal corpo. Dietro di lui c'era un uomo con grandi occhi neri che brillavano colmi di lacrime alla luce delle torce. Aveva un viso bellissimo, che nondimeno sembrava celare un profondo tormento, come una giovane daina riflessa in uno specchio rotto. Una folta chioma di riccioli castani gli scendeva sulle spalle, imporporate da una veste ricamata e foderata di pelliccia maculata; alcune delle macchie, tuttavia, sembravano lunghe chiazze marrone di sangue essiccato, pulito da lame bagnate. Le labbra carnose dell'uomo tremavano sotto i lunghi baffi scuri. — Che luogo è questo? — gli chiese Lugosi con voce roca. Poi si rese conto di avergli istintivamente parlato nella sua stessa lingua, una lingua che gli era familiare quanto i ricordi della sua infanzia e della maggior parte della sua vita. — Lei parla ungherese! Lo sconosciuto sgranò gli occhi indignato. Fuori, il coro di gemiti crebbe, poi diminuì, come gli ululati del vento. — Non sono più prigioniero dei turchi e l'ungherese è la mia lingua madre! Annienteremo il flagello degli ottomani. Infonderò tale terrore nei loro cuori che il sultano fuggirà alla testa dei suoi uomini alla volta di Costantinopoli! Uno degli avvoltoi volò rasente alla veranda, poi puntò verso il poggio brulicante di uomini morenti. Lugosi trasalì e si voltò di scatto, poi si girò di nuovo verso l'uomo. — Chi è lei? — gli domandò. Le parole gli venivano spontanee nella sua lingua. Lo sconosciuto fece un esitante passo avanti. — Io sono... Vlad Dracula. Che tu sia il benvenuto. È da molto tempo che ti aspetto. Lugosi fece un balzo all'indietro e alzò una mano in un gesto di difesa, come se stesse recitando la scena in cui Van Helsing gli mostra la scatola piena di aconito. Aveva sentito narrare fin da piccolo la terribile storia di Vlad l'Impalatore, il vero Dracula; la leggenda lo voleva vampiro, ma in realtà era passato alle cronache come il macellaio sanguinario che aveva trucidato centinaia di migliaia di turchi... e quasi altrettanti suoi sudditi. Nella tenebra illuminata dalle torce il principe non prestò attenzione alla
reazione di Lugosi. Raggiunse il balcone e serrò le mani attorno alla balaustra di pietra. Anelli vistosi gli adornavano tutte le dita. — Sapevo che saresti venuto — disse Dracula. — Stavo fumando la pipa da oppio, un trucco che ho imparato durante i miei dieci anni di prigionia. La droga mi placa l'animo: mi rende incline alla pace e lenisce il mio dolore. E poi ho sempre saputo che era più probabile che tu apparissi mentre fumavo. Gli occhi del principe catturarono quelli di Lugosi. Il loro sguardo penetrante era più potente e minaccioso di qualunque espressione lui fosse mai stato capace di riprodurre in centinaia di rappresentazioni teatrali del vampiro. Non riusciva a sottrarsi a quello sguardo e, in quel momento, capì quello che doveva provare il personaggio di Mina quando lui le diceva: — Guardami negli occhi... — Che cosa vuoi da me? — gli domandò con un filo di voce. Non vedeva l'ora che l'effetto della morfina svanisse. Era troppo strano quello che stava accadendo, eppure la pietra fredda della balaustra sotto la sua mano era reale. Fin troppo reale. Ed era sicuro che i pali aguzzi che vedeva sul pendio sarebbero stati altrettanto reali nel momento in cui Vlad Dracula avesse deciso di condannarlo a quel supplizio. Ma l'Impalatore non cercò nemmeno di toccarlo, anzi si allontanò, rivolgendosi alle innumerevoli vittime che si contorcevano sui pali. — Voglio l'assoluzione! — disse. — L'assoluzione! — esclamò l'attore. — Ma chi credi che io sia? — Come ti chiami? Disorientato, ma abituato ad avere un nome che suscitava ammirazione e terrore, Lugosi rispose: — Bela Lugos... No, il mio nome è Bela Blasko, della città di Lugos. — Mentre pronunciava quelle parole drizzò la schiena e sollevò il mento, cercando di esprimere tutta la solennità che gli derivava dall'indossare il costume di Dracula, ma la presenza dell'Impalatore era così imponente da vanificare qualsiasi sua velleità. Vlad Dracula sembrava turbato. — Bela Blasko... Che strano nome per un angelo. Sei per caso uno dei miei connazionali caduti in battaglia? — Un angelo? — Lugosi sgranò gli occhi. — Se non credo nemmeno in Dio! Non posso concederti alcun perdono. — Abbassò lo sguardo sulle file di uomini torturati e ricordò che, secondo la leggenda, quella non era che una minima parte delle atrocità commesse dal nobile magiaro. Vlad Dracula lo fissò con occhi sbarrati e indietreggiò. — Ma io ho fatto costruire chiese e monasteri, ripristinare santuari e donato offerte! Mi sono circondato di preti, abati, vescovi e confessori. Ho fatto tutto quello che
sapevo di poter fare! — Fissò i pali insanguinati, ma senza vederli. — Hai ucciso tutte quelle persone e molte, molte altre! Che cosa ti aspetti? — Lugosi sentì la paura crescere di nuovo dentro di sé: paura vera, come quella che aveva provato la notte in cui era stato ferito sui Carpazi. Che cosa gli avrebbe fatto Dracula? Alcuni di quegli uomini impalati erano suoi compatrioti: semplici contadini, fornai, banchieri, artigiani, proprio come quelli a fianco dei quali lui aveva combattuto durante la Grande Guerra; come il soldato che l'aveva salvato dopo che gli avevano sparato alle gambe e lo aveva trascinato in un posto sicuro, dove le infermiere lo avevano curato e gli avevano dato la morfina. — Cose assai peggiori della morte attendono l'uomo... — disse l'Impalatore. — Io ho fatto tutto questo per Dio e per la mia patria. Lugosi sentì che quelle parole gli si impigliavano in gola. Per la sua patria! Aveva la mente confusa, come un grande puzzle in cui i tasselli dei ricordi si staccavano e si ricomponevano in un ordine nuovo. Contrasse il viso in una smorfia. Anche lui aveva fatto per il suo paese cose che altri avevano definito atrocità. Nel 1918 aveva abbracciato la fede comunista e l'ideale rivoluzionario. Si era vantato con profondo orgoglio del suo breve apprendistato come fabbro, poi aveva fondato il sindacato dei lavoratori teatrali e si era battuto in nome della rivoluzione che aveva portato Bela Kun al potere. Ma la dittatura di Kun era durata soltanto pochi mesi, durante i quali la Romania aveva approfittato della debolezza interna dell'Ungheria per attaccarla, e alla fine Kun era stato cacciato dai controrivoluzionari. Subito dopo era iniziata la caccia ai suoi sostenitori, molti dei quali erano stati incarcerati e giustiziati. Lui era riuscito a salvarsi fuggendo a Vienna insieme alla sua prima moglie; poi da lì, senza un soldo in tasca, era approdato a Berlino alla ricerca di un lavoro come attore. Fino a quella sera Lugosi aveva disprezzato gli spettatori che venivano ad applaudirlo a teatro, perché li giudicava troppo deboli per reggere sfide che non fossero innocue paure frutto di pura finzione; ma adesso non credeva di essere in grado di sopportare la vista dell'Impalatore e delle sue gesta. Eppure Vlad Dracula aveva fatto solo ciò che riteneva giusto per liberare la sua patria dalla schiavitù dei turchi e dalle guerre intestine fra i principi. — Io combatto i turchi e uso contro di loro la loro stessa crudeltà. Sono stati loro a insegnarmi tutto questo! — Dracula si torse le mani, poi afferrò
una delle torce appese al muro. La protese verso Lugosi, che indietreggiò di fronte al crepitio delle fiamme ma senza avvertirne il calore. Sembrava che per il principe fosse importante parlargli, giustificare ogni cosa. — Mi senti? Non mi importa se non sei l'angelo che aspettavo. Sei comunque venuto da me per una ragione. I turchi mi hanno tenuto prigioniero fin da quando ero ragazzo. Per salvarmi la vita mio padre Dracul il Drago mi ha consegnato di sua volontà al sultano, insieme a Radu, mio fratello minore. Ma Radu si è rivelato un traditore, perché è diventato turco nell'animo. Le donne dell'harem, i sontuosi banchetti allestiti dalla corte del sultano e il fumo smodato dell'oppio lo hanno reso grasso e senza nerbo. Poi, un giorno, mio padre decise di attaccare l'esercito ottomano, pur sapendo che per questo i suoi figli sarebbero stati giustiziati! Ci considerava già sacrificati. Vlad Dracula teneva una mano sopra la torcia: le fiamme gli lambivano le dita, ma lui sembrava non accorgersene. — Ogni giorno il sultano minacciava di tagliarmi a pezzi; oppure di farmi allargare le gambe da due cavalli, fino a quando non fossi più in grado di muovermi e lui potesse infilzarmi con un palo smussato! E quante volte ha ordinato che mi legassero ai cavalli, soltanto per divertirsi! — Poi abbassò la voce. — Sì, i turchi mi hanno insegnato molte cose sulle più atroci torture a cui si possono sottoporre i propri nemici! Vlad Dracula gettò la torcia giù dalla veranda. Lugosi la vide roteare in aria e divampare appena giunta a terra, dove rotolò fino a fermarsi contro una roccia. Senza la torcia, la veranda sembrava soffocata dalle ombre, illuminata com'era soltanto dalla luce delle stelle e da quella lontana dei falò. — Dopo essere riuscito a fuggire appresi che Giovanni Hunyadi, un principe ungherese che avrebbe dovuto essere fedele alla mia famiglia, aveva teso un'imboscata a mio padre e a mio fratello Mircea e li aveva uccisi entrambi. Hunyadi colpì mio padre con settantatré sciabolate prima di inferirgli il colpo mortale. E sosteneva di aver torturato a morte mio fratello e di averlo sepolto in una fossa comune. — Dracula scosse la testa e Lugosi vide che aveva gli occhi pieni di lacrime. — Mircea aveva combattuto al suo fianco per tre anni e gli aveva salvato la vita almeno una decina di volte. Quando ero piccolo, Mircea mi aveva insegnato a pescare e a cavalcare e, alla sera, mi mostrava le costellazioni che i greci gli avevano insegnato a riconoscere. — Grattò con uno dei suoi anelli il muro di pietra, tracciandovi un segno bianco.
— Quando fui di nuovo principe, ordinai che la sua bara venisse aperta per dargli adeguata sepoltura, con i sacerdoti, le candele e i canti sacri. Trovammo Mircea con la testa girata e il coperchio della bara solcato dai segni delle sue unghie: Hunyadi lo aveva sepolto vivo! Vlad Dracula lanciò un'occhiata dietro di sé, per assicurarsi che nessuno si aggirasse nelle sale del castello a quell'ora di notte, poi, biascicando il nome del fratello, si abbandonò ai singhiozzi. Lugosi incominciò a tremare, colpito da quei ricordi dolorosi come da un fuoco di proiettili, ma l'Impalatore continuò a infierire su di lui con altri ricordi. — Pochi mesi fa i turchi hanno cinto d'assedio il mio castello in Transilvania e hanno ripetutamente colpito i bastioni con i loro cannoni. Uno schiavo turco mi ha avvertito per tempo e sono riuscito a mettermi in salvo attraversando un passo orribile, sommerso dalla neve e dal ghiaccio. Mio figlio è caduto da cavallo durante la fuga e io non l'ho più visto. Mia moglie non poteva venire con noi e, piuttosto di cadere nelle mani del nemico, è salita sulla torre più alta del castello, quella che si affaccia sul dirupo, e si è buttata giù. Era mia moglie, Bela di Lugos. Lo sai che cosa significa perdere una moglie in quel modo? Lugosi rabbrividì quando l'aria fredda della notte accarezzò la balaustra della veranda. — Non in quel modo... Ma capisco che cosa abbia significato per te la sua perdita. Nel 1920, dopo essere fuggito dall'Ungheria, Lugosi aveva lasciato Ilona, la sua prima moglie, a Vienna, mentre lui cercava lavoro a Berlino. Le scriveva un giorno sì e uno no, ma lei non aveva mai risposto alle sue lettere. Solo in seguito aveva appreso che suo suocero, vice-presidente di una banca di Budapest, l'aveva convinta a divorziare, a ritornare in Ungheria e a non vederlo mai più a causa delle orribili cose che aveva fatto contro il suo paese. La moglie di Dracula aveva solo scelto una soluzione diversa. Da lontano giunsero grida di uomini e il rumore degli zoccoli di cavalli che si avvicinavano al galoppo. Lugosi vide i soldati allontanarsi dalle tende, affrettarsi a spegnere i falò e a impugnare le armi. L'Impalatore non dava segno di essersi accorto di nulla. — Non so chi sei e perché sei venuto — disse questi dopo un po'. — Io avevo pregato perché mi venisse inviato un angelo, una voce che potesse mettere a tacere i demoni della colpa che si agitano dentro di me. — Allungò la mano verso il costume da vampiro di Lugosi, ma, oltrepassando la barriera della stoffa, entrò direttamente nel suo petto.
Quando sentì la grinfia ghiacciata di quella mano spettrale attraversargli il cuore, Lugosi fece un balzo all'indietro. Allora Vlad Dracula dilatò gli enormi occhi scuri, che si riempirono di terrore superstizioso, e disse: — Poiché ti rifiuti di assolvermi tu devi essere uno spirito venuto qui per tormentarmi. Lugosi non sapeva in che modo rispondergli, e quando lo fece parlò con voce incerta, quasi balbettando: — Non sono né un angelo né un demone. Sono soltanto un viaggiatore, forse un sogno per te, che viene da un luogo e da un tempo lontani, molto lontani. Non ho ancora vissuto la mia vita. Nascerò soltanto fra molti secoli. — Allora non sei venuto a giudicarmi? E a punirmi? — Vlad Dracula era genuinamente spaventato. — No, sono soltanto un attore... un intrattenitore. Uno che recita per gli altri. Cerco di farli spaventare. — Poi scosse la testa. — Ma mi sbagliavo: quello che faccio io non ha niente a che vedere con la paura vera; il terrore che suscito negli uomini è finto. È una paura senza conseguenze. — Si sporse oltre la balaustra, poi serrò gli occhi alla vista delle decine di corpi mutilati. — Vedendo questo mi rendo conto di non conoscere la vera paura. Nel cortile sottostante echeggiò un'esplosione di grida. Un drappello di uomini uscì marciando nella notte. Qualcuno suonò un corno. Poi Lugosi udì i rumori di una scaramuccia, il frastuono delle armi che cozzavano. Vlad Dracula lanciò un'occhiata alla zona dei combattimenti, poi distolse lo sguardo e catturò di nuovo quello dell'attore. Leggendo l'angoscia negli occhi magnetici dell'Impalatore, Lugosi rabbrividì. — Tutto qui? Io ho tanto pregato di avere un'apparizione e tu sei venuto per imparare qualcosa da me? E sulla paura per di più? Allora tutto è perduto. Dio si sta prendendo gioco di me. — Incurvò le spalle sotto la veste foderata di pelliccia e il suo viso divenne paonazzo per l'ira. Lugosi aveva la sgradevole sensazione che se si fosse trovato al suo cospetto in carne e ossa, il principe magiaro non avrebbe esitato a impalare anche lui. — Non so che cosa dirti, Vlad Dracula. Io non sono la tua coscienza. Ho rovinato fin troppe cose nella mia vita cercando di agire per il meglio e di fare ciò che ritenevo giusto. Ma posso dirti quello che penso. Vlad Dracula inarcò un sopracciglio. Sotto di loro un frastuono metallico annunciò l'apertura di una saracinesca. Eco di passi pesanti sul pavimento di pietra, come se qualcuno stesse entrando precipitosamente nella sala del ricevimento. — Mio principe! — chiamò una voce.
Lugosi parlò in fretta. — I turchi sono stati per te davvero degli ottimi maestri, a giudicare dalle atrocità di cui sei capace. Ma sei andato troppo oltre. Non puoi rimediare a quello che hai già fatto, non puoi far resuscitare le migliaia di uomini che hai trucidato, ma puoi cambiare modo di agire a partire da questo momento. Ti sei già ampiamente guadagnato la fama di assassino spietato e assetato di sangue, e per cinque secoli le madri spaventeranno i loro figli con le storie di Vlad l'Impalatore! Forse hai seminato abbastanza terrore da non aver più bisogno di commettere carneficine. Il tuo nome basta a suscitare sgomento in tutti gli animi e questo ti permetterà di raggiungere i tuoi scopi. Se è così che deve essere, cerca di governare con la paura e non con la morte. Allora forse il tuo Dio potrà donare un po' di pace alla tua anima. Vlad Dracula aggrottò perplesso la fronte. — Questo significa che dovrei imparare anch'io qualcosa sulla paura? — L'Impalatore rise e il suo riso risuonò come il rumore di un bicchiere che si infrange. — Per non aver ancora vissuto tu sei un uomo saggio, Bela di Lugos. Poi i due si voltarono all'unisono verso l'uomo che, dal piano di sotto, si stava precipitando nella veranda. Il messaggero grattò la spada contro il muro di pietra. Poi mandò indietro il mantello e guardò da una parte all'altra, finché non individuò Dracula in una nicchia immersa nell'ombra. L'uomo aveva il volto sporco di sangue e di sudore. — Mio signore, non avete risposto! — esclamò. Il distintivo rosso che portava sulla spalla significava che era un emissario dei boiari fedeli a Dracula. — Stavo parlando con un importante personaggio — disse l'Impalatore, accennando con il capo a Lugosi. Sorpreso, ma pronto a interpretare la sua parte, questi abbozzò un inchino formale. Il messaggero guardò nella direzione in cui si trovava l'attore, sgranò gli occhi poi corrugò la fronte. — Io non vedo nessuno, mio principe. In un impeto di rabbia, Vlad sguainò la spada. Il messaggero sbiancò e arretrò di un passo, cercando d'istinto di schivare la morte, ma mostrando, al tempo stesso, il sollievo di sapere che la sua fine sarebbe stata rapida, e non preceduta dalla lenta agonia degli impalati. — Dracula! — tuonò Lugosi, facendo appello all'intensità e al cipiglio con cui aveva interpretato le sue migliori parti di vampiro. L'Impalatore si fermò con la spada alzata sopra il capo, pronta a colpire. Il messaggero tremò e lo fissò con le pupille dilatate dal terrore, ma senza il coraggio di fuggire.
— Guarda come l'hai spaventato. La paura che incuti è un'arma molto potente. Non hai bisogno di ucciderlo per raggiungere il tuo scopo. Vlad Dracula udiva Lugosi, ma continuava a fissare l'uomo, spalancando gli occhi fiammeggianti e accentuando la malignità dello sguardo gongolante. Il soldato scoppiò in singhiozzi. — Non devo spiegazioni a te del mio agire — disse il principe all'uomo. — Io ho il potere di distruggerti in qualunque momento lo desideri. Adesso dimmi quali notizie porti! Il giovane vacillò e cadde a terra, ma si rialzò subito. — È arrivato l'esercito del sultano. Per ora sembra che si tratti soltanto di una piccola avanguardia, che ha attaccato col favore delle tenebre, ma il grosso delle armate turche sarà qui domani. Siamo in grado di tenere testa a questo drappello di uomini... anche perché molti, visti i loro compagni impalati sul fianco della collina, sono fuggiti a gambe levate. Torneranno al campo e le notizie che riporteranno faranno infuriare i soldati del sultano. Vlad Dracula si pizzicò le labbra carnose con la punta delle dita. Poi guardò Lugosi che lo osservava in silenzio. Il messaggero, che continuava a non comprendere che cosa l'Impalatore credesse di vedere, sgranò gli occhi confuso. — Oppure li spaventeranno a morte. Sì, possiamo contare sul terrore che queste notizie susciteranno nei loro cuori. Corri alla collina dove ci sono gli impalati e taglia la testa ai soldati morti o a quelli gravemente feriti, ma con un solo colpo, ti dico! E catapulta le teste mozzate sull'avanguardia turca. Così vedranno le facce dei loro compagni e sapranno che cosa li aspetta se oseranno ancora impugnare le armi contro di me. Poi cerca fra i prigionieri quelli feriti in modo lieve, liberali dal palo e rimandali dal sultano affinché gli raccontino delle mostruosità di cui sono capace! Così ci penserà due volte prima di attaccarmi. Il messaggero sbatté le palpebre incredulo; tremava ancora al pensiero di essere stato risparmiato ed era incuriosito dalla nuova tattica di Vlad Dracula. — Agli ordini, mio signore! — Rinculò frettolosamente e si precipitò giù dalle scale di pietra. Lugosi sentì i muri che lo circondavano perdere consistenza e li vide brillare nell'oscurità. Poi cominciò a sentire le ginocchia molli e il corpo vuoto. Evidentemente la morfina stava esaurendo il suo effetto. L'Impalatore si lisciò i baffi scuri. — È davvero interessante: il sultano penserà che io abbia dato una nuova prova della mia spietatezza e Dio, invece, saprà che sono stato misericordioso. Forse, la prossima volta che fu-
merò l'oppio mi manderà un vero angelo. Lugosi vacillò: aveva la nausea e gli girava la testa. Calde macchie di luce ruggirono nel suo cervello. La sagoma del principe si dilatava e si ingigantiva davanti ai suoi occhi. — Non riesco più a vederti con chiarezza, amico mio. La tua immagine è confusa e non sento quasi più gli effetti dell'oppio. Il tempo che ci era concesso di stare insieme è finito. Adesso che abbiamo imparato entrambi quello che sappiamo, farai meglio a tornare nel paese da cui sei venuto. "Io invece devo vestirmi per la battaglia! Se dobbiamo respingere l'avanguardia del sultano, voglio che vedano chi è la causa del loro terrore! Addio, Bela di Lugos. Cercherò di agire come tu mi hai consigliato." Lugosi tentò di allontanare le ragnatele sempre più spesse che gli ottenebravano la vista. — Addio, Vlad Dracula — disse alzando la mano. Ma la sua mano passò attraverso la solida pietra della balaustra... Le luci tremolarono attorno allo specchio della toilette e Lugosi si riparò gli occhi abbacinati. Poi trasse un profondo respiro e si voltò a guardare il suo minuscolo camerino. Un brivido gli percorse tutto il corpo e l'attore si strinse addosso il mantello nero, alla ricerca di un po' di calore. Dwight Frye provò un'ultima volta la risata forsennata di Renfield, ma alla fine starnutì; poi la porta del suo camerino si aprì e Lugosi sentì il collega allontanarsi attraversando il set. Sul tavolino di fronte a sé, Bela vide la siringa vuota e la restante fiala di morfina. Paura. L'ago d'argento gli parve come un palo in miniatura dal quale farsi infilzare. Fino a quel giorno la morfina era stata un rifugio sicuro per lui: gli aveva sempre procurato una gradevole sensazione di benessere che gli faceva dimenticare il dolore, i problemi e tutte le sue paure. Ma ne aveva abusato e quella sera essa lo aveva trasportato in un luogo nel quale aveva visto soltanto migliaia di pali insanguinati e uomini torturati, avvoltoi pronti a divorarli e corvi che beccavano la carne viva. E lo sguardo delirante e tormentato di Vlad l'Impalatore. Non osava pensare dove l'avrebbe portato la volta seguente... Forse nelle trincee dei Carpazi durante la Grande Guerra? O gli avrebbe fatto rivivere la sua fuga attraverso il confine ungherese dopo la deposizione di Bela Kun, quando sapeva che se si fermava era perduto? Oppure avrebbe risvegliato in lui il ricordo del doloroso abbandono della sua amata Ilona? Quei pensieri lo riempirono di una paura: non di quella paura innocua che face-
va rabbrividire il suo pubblico, ma di paura vera, che rischiava di compromettere la sua sanità mentale. Ed era stato lui stesso, con il suo comportamento, a infondere il terrore nel proprio cuore. Bela Lugosi buttò la siringa e la fiala di morfina sul pavimento; poi, lentamente e con grande cura, le frantumò sotto i tacchi dei mocassini neri del suo costume di Dracula. Le gambe gli dolevano a causa della sua vecchia ferita, ma per la prima volta quel dolore lo fece sentire vivo. E non era poi così insopportabile da giustificare la sua fuga; anche perché la fuga consentitagli dalla morfina si era rivelata più straziante del dolore. Lugosi aprì la porta del suo camerino e vide Dwight Frye che varcava le grandi porte del teatro. Lo chiamò e lo pregò di aspettarlo, ricordandosi di usare di nuovo l'inglese, anche se si sentiva impacciato nel parlare quella lingua straniera. — Signor Frye, che cosa ne direbbe di venire con me a mangiare un boccone? So che è tardi, ma mi farebbe piacere la sua compagnia. Frye si fermò e sgranò gli occhi in un'espressione di affettato stupore. Per un attimo sembrò di nuovo il matto Renfield, ma quando rise, la sua risata fu di piacere, non di finta pazzia. — Ne sarei felice, signor Lugosi! È così bello vedere che cerca compagnia! Le assicuro che nessuno di noi morde. Non c'è niente di cui aver paura. Lugosi si abbandonò a una risata sardonica. Il dolore alle gambe svanì sullo sfondo. — Ha ragione, signor Frye. Non c'è niente di cui aver paura. Titolo originale: Much at Stake (1991) Lawrence Watt-Evans IL NOME DELLA PAURA Le mosche ronzavano nella luce del crepuscolo, ma ignoravano il pranzo sontuoso servito sul tavolo drappeggiato di bianco. Erano attratte, invece, dalla foresta di pali piantati tutt'attorno, dai lenti rivoli di sangue vermiglio che continuavano a colare lungo le pertiche di legno, dalle braccia penzoloni e dai volti lividi dei cadaveri impalati. Gli uomini seduti attorno al tavolo ignoravano le mosche e si sforzavano il più possibile, a eccezione di uno, di ignorare anche i corpi e di non far caso ai volti morti che li fissavano da ogni lato e al tanfo pestilenziale che
gravava nell'aria. Faceva eccezione, come si è detto, un solo uomo, quello seduto al centro della mensa, che concentrava tutte le proprie energie sul piatto che gli stava davanti. Nonostante il fetore, mangiava con gusto, raccoglieva l'intingolo con pezzi di pane casereccio e si leccava i baffi ispidi, unti di grasso di manzo. I cadaveri non lo turbavano minimamente; anzi, tra un boccone e l'altro gli capitava di sollevare lo sguardo e di sorridere a quello più vicino. In fondo erano lì per suo volere, no? E non era solo perché avevano paura di lui, e di lui solo, che gli altri commensali si sforzavano di trangugiare la cena in quell'atmosfera macabra, e fingevano di non essere infastiditi dai morti? Ricordavano certamente quell'imbecille ardimentoso che una volta aveva osato lamentarsi del fetore. Il principe aveva fatto in modo che venisse messo dove il tanfo non lo avrebbe più disturbato... infilzato su un palo alto il doppio degli altri, al di sopra dell'odore emanato dai corpi degli altri giustiziati, dove aveva urlato fino a quando era morto. Era accaduto parecchi mesi prima e da allora nessuno aveva più avuto da ridire sui piccoli capricci del principe. Il sole era calato dietro la collina e i servitori stavano accendendo le torce perché il pranzo potesse continuare. Il principe indugiò qualche istante a fantasticare su come utilizzare le torce per qualche nuovo supplizio, ma poi abbandonò l'idea e allungò la mano verso il boccale di vino. Dall'accampamento sottostante, una sentinella osservava il suo signore godere sadicamente del sofferto imbarazzo della sua corte, mentre la cena si trascinava. La sentinella era annoiata. I morti non gli facevano paura, lo disgustavano e basta. Lui era un soldato: aveva visto i turchi fare a pezzi i suoi amici e aveva fatto a pezzi, a sua volta, un buon numero di nemici, ma quella selva di corpi impalati... fece una smorfia, si voltò dall'altra parte, si raschiò la gola e sputò. Nell'oscurità qualcosa si mosse e lui trasalì. Aguzzò la vista. I turchi? Un attacco notturno? No, non era possibile. Non lì e non dopo la disfatta che avevano subito quel giorno, e che li aveva costretti a una fuga disordinata verso Costantinopoli. Una spia? Assai improbabile. Scrutò la tenebra che si stava addensando e individuò un volto pallido. — Chi va là? — disse, ma non a voce troppo alta; non aveva alcuna intenzione di mettere in allerta l'intero accampamento nel caso si trattasse
semplicemente di una giovane contadina del posto, disposta a divertirsi un po' per qualche soldo. — Nessuno che possa farti del male, soldato — rispose una voce; era, con grande delusione della sentinella, una voce maschile, che gli si rivolgeva in tono di supplica. — Sei un mendicante? — chiese seccato. — Se sei venuto a chiedere l'elemosina, vattene immediatamente... Il principe non vuole gente come te nelle sue terre. — Non sono un vero mendicante — replicò la voce. — Ho una casa dove dormire, ma ho fame e qui mi sembrava di sentire profumo di cibo. La sentinella strizzò gli occhi. Non si fidava: c'era qualcosa di strano in quell'uomo. Spostò lentamente la mano destra sull'elsa della spada e fece scivolare la sinistra all'interno della camicia. — Vieni avanti, in modo che possa vederti. Il volto si avvicinò. La sentinella evitò di guardare gli occhi, ma concentrò la sua attenzione sulla bocca dello sconosciuto. — Come ti chiami? — chiese. Lo sconosciuto scrollò le spalle; un movimento liquido, fluido. — Il mio nome non significa nulla — rispose. Il soldato sorrise ed estrasse la mano sinistra dalla camicia. — Hai ragione — disse. — Perché a chi importa il nome dei morti? — Aprì la mano e gli mostrò il bel crocefisso d'argento che teneva nel palmo. — Ti conosco, nosferatu — continuò. — Ho visto i tuoi denti aguzzi mentre parlavi, e nemmeno il fetore dei cadaveri mi ha impedito di sentire il tuo alito nauseabondo. Lo sconosciuto si ritrasse senza dire niente. — Che cosa sei venuto a cercare qui, vampiro? — chiese la sentinella. — Che cosa spinge uno della tua razza di codardi in un campo di uomini armati, quando potresti insidiare qualche scemo del villaggio o qualche vecchia donna malata d'amore? Se osi aggredire qualcuno di noi, finirai impalato insieme agli altri, con la sola differenza che a te il palo lo conficcheremo nel cuore e non nella pancia. — Come se non lo sapessi — replicò il vampiro a denti stretti, distogliendo lo sguardo dal talismano luccicante. — È come ti ho detto: quando mi sono svegliato, al calare del sole, ho sentito odore di cibo e sono venuto a vedere di che cosa si trattasse. — A che cibo ti riferisci? — gli chiese il soldato. — Al sangue, naturalmente. Quale altro cibo esiste per me?
— Naturalmente — riconobbe la sentinella. — In effetti oggi è stato sparso parecchio sangue qui. — Perché? — domandò il vampiro. Il soldato esitò. I vampiri erano creature oscene, immonde, e la cosa più giusta da fare sarebbe stata quella di cacciarlo via, o di dare l'allarme e annientarlo. Ma era annoiato a morte e lo attendevano ancora molte ore di guardia. — C'è stata una battaglia, qui, stamattina — gli spiegò alla fine. — E il mio principe ha sbaragliato i suoi nemici. È passato in mezzo ai turchi come il fuoco in mezzo ai campi e loro sono fuggiti soltanto a sentire il suo nome. E quando la battaglia è finita, il mio signore ha riunito i prigionieri e gli ufficiali del suo esercito che a suo giudizio non si erano battuti con sufficiente valore e li ha fatti impalare, come monito per chiunque abbia intenzione di opporsi a lui. — Una nota di orgoglio vibrò nella sua voce quando aggiunse: — Presto il mio principe caccerà i turchi da tutta la Valacchia e da tutta l'Europa. — Impalare — raccolse il vampiro, sollevando lo sguardo verso la collina dove i corpi spenzolavano nell'oscurità. — Quanti? — Migliaia — rispose la sentinella. — Non so. Abbiamo lavorato tutto il giorno, tutto l'esercito al completo, a preparare pali, a mettere i condannati in posizione e a frustare i cavalli. — Il tuo principe è un uomo spietato — disse il vampiro continuando a fissare la collina. — Oh, è un grande uomo! — si inorgoglì la sentinella. Sapeva di non aver compiuto ancora prodezze tali da potersene vantare, ma le imprese del suo signore e padrone erano degne di ogni lode. — Il miglior principe che abbia mai regnato in Valacchia, più grande perfino di suo padre, che pure ha conquistato tanti onori. Lo sai che nella capitale Tirgoviste non viene commesso alcun genere di crimine? Non c'è furto, non c'è accattonaggio, né alcuna delle altre piaghe che i poveri creano in ogni città. E tutto questo soltanto perché tutti temono il mio signore. Il vampiro era scettico. — Ma gli uomini sono uomini e ci sono limiti alla paura... — No, quello che ti ho detto è la verità, te lo assicuro — ribatté la sentinella, ferita nell'onore. — Mi stai raccontando una fola — replicò il vampiro. — Vivo da tantissimi anni e conosco il genere umano. Come può anche il più grande dei principi riuscire ad abolire il furto e l'accattonaggio?
Il soldato sorrise. — Più facilmente di quanto tu creda, se solo possiede il coraggio e l'audacia del mio signore. Un giorno ha emanato un proclama con il quale invitava tutti coloro che non potevano lavorare, che mendicavano o rubavano o si vendevano per guadagnarsi da vivere, a una grande festa; ha detto loro che vedeva la loro fame e la loro povertà e che avrebbe posto fine alla loro miseria. Li ha fatti riunire tutti in una grande sala e ha servito loro il più fastoso banchetto che fosse mai stato allestito nel suo regno; mi sentivo quasi male a veder sprecate simili delizie per quei disgraziati. Poi ha chiamato noi, i soldati del suo esercito, ci ha ordinato di uscire dalla sala, di sbarrare tutte le porte e di dare fuoco al palazzo fino a ridurlo in cenere. Il vampiro sgranò gli occhi per lo sgomento, poi li socchiuse di nuovo. — Piangevano, urlavano, invocavano pietà, ma nessuno è sfuggito alla sua sorte. Chiunque tentasse di mettersi in salvo è stato passato a fil di spada e ricacciato dentro la stessa finestra dalla quale era fuggito. E da quel giorno non ci sono più stati mendicanti, né ladri né prostitute in tutta Tirgoviste. Lo sai che, come in ogni città, nella piazza del mercato c'è un pozzo dal quale ogni viaggiatore può attingere l'acqua per dissetarsi? Ebbene, anche nella nostra capitale come in ogni città del regno c'è accanto al pozzo un calice per bere; ma quello di Tirgoviste non è un normale gotto di legno, è una coppa d'oro tempestata di pietre preziose, che vale quanto il riscatto di un re. Vedendo che la sentinella attendeva una risposta di qualche tipo, il vampiro disse: — Davvero? Il soldato annuì. — Una coppa fatta d'oro e di pietre preziose, lasciata incustodita nella piazza del mercato! Ed è ancora lì, perché nessuno osa prendere ciò che appartiene al principe. Il mio signore ha fatto sapere che chiunque osi rubare quel calice sarà inseguito fino a quando non verrà catturato e poi sarà impalato, lentamente; e come sai, lui è famoso per riuscire a far durare un impalamento un giorno intero. E poiché nessuno dubita che sarebbe pronto ad attuare quello che minaccia, la coppa resta al suo posto. — A quanto pare questo principe è molto temuto — disse il vampiro. — Come un tempo lo eravamo noi signori della notte. — Voi! — Il soldato rise facendo dondolare la croce fra le dita. — Ai tempi di mio nonno sì che avevano paura di voi, ma oggi sappiamo come difenderci. Siete così vulnerabili, voi vampiri! Non sopportate il sole, né l'argento né la croce. Basta perfino uno spicchio di umile aglio per tenervi lontani. Non potete entrare dove non siete invitati, non potete attraversare
fiumi né mari e l'acqua santa vi brucia come il vetriolo. Perché dovremmo temervi? — Possediamo la forza di dieci uomini — ribatté il vampiro. — Possiamo mutare aspetto e chiamare a noi tutte le creature della notte; il nostro sguardo fiacca la volontà. Dimmi dunque una buona ragione perché non dovreste temerci. La sentinella rise di nuovo e, brandendo il crocefisso, disse: — Forza, avvicinati allora e fammi vedere perché dovrei avere paura di te. — Non posso, finché tieni quello in mano — ammise il vampiro. — Allora vattene, scamorza — gli intimò il soldato. — Io non temo né te né i tuoi simili. Soltanto i contadini e gli uomini senza nerbo hanno paura di voi. Chi serve il principe sa qual è il vero potere. — Me ne andrò, allora — disse il vampiro. — Ma prima c'è una cosa che voglio chiederti. — E che cosa può mai essere? — Il nome del tuo principe, soldato. Chi è l'uomo così temuto dai suoi sudditi? — Non lo sai? — Lo stupore della sentinella era assolutamente genuino. — Ma Dracula, naturalmente: il principe Vlad Dracula! Il vampiro studiò il principe attraverso il lembo sollevato della tenda: non poteva entrare senza essere stato invitato, come gli aveva ricordato il soldato poche ore prima; ma poteva guardare, e la sua vista, come quella di tutti i predatori, era molto acuta. Eludere le sentinelle era stato un gioco da ragazzi: era bastato aspettare che la tenebra infittisse in modo da poter passare inosservato sotto forma di una nebbiolina notturna portata dal vento. Riuscire a trovare una preda, però, era tutt'altra cosa: ogni tenda era protetta da oggetti d'argento e teste d'aglio, e da ogni cuccetta e da ogni collo pendeva una croce. Ma in realtà lui non era venuto lì in cerca di cibo; era venuto per vedere da vicino l'uomo che suscitava tanto rispetto e tanta paura. Non sapeva nemmeno lui perché gli interessasse così tanto; le questioni politiche degli uomini non lo riguardavano più da quando era diventato quello che era. Tuttavia, una persona capace di versare tanto sangue e di cenare allegramente in mezzo ai cadaveri dei suoi nemici era qualcosa di nuovo, qualcosa che doveva conoscere. Un uomo in grado di ispirare tanta paura, di uccidere con tanta indifferenza gli ricordava quello che era stato lui un tempo, prima che gli uomini
imparassero a difendersi dalle creature della sua specie. Il principe non era alto né bello. Aveva i capelli scuri e ondulati, che portava sciolti sulle spalle secondo la moda del tempo; aveva la pelle leggermente butterata, ma per il resto affatto degna di nota, né per colorito né per tessuto. Sotto il naso aquilino spuntavano un paio di baffi ispidi. Poiché il principe dormiva, il vampiro non poté giudicare il colore dei suoi occhi, ma vide che erano infossati e grandi. Aveva la bocca larga, le labbra piene e il viso rotondo. Non era un bel viso, ma era senz'altro uno di quelli che non si dimenticano facilmente. Il vampiro si portò una mano al volto: sapeva di avere la carnagione pallida come quella di un cadavere, ma era naturale perché in fondo lui era un cadavere; differiva dagli altri morti soltanto per il fatto che non poteva starsene sdraiato tranquillo nella sua bara. Aveva il naso lungo e adunco, le labbra piene di sangue rubato ad altri e la bocca larga per poter contenere i denti aguzzi. Aveva gli occhi affondati nelle orbite che erano più larghe e infossate di quando, tanti anni prima, era tra i vivi e faceva il contadino. Il suo viso, al contrario, aveva conservato perfino dopo la morte, o la non-morte, quella rotondità che fin dall'infanzia gli aveva procurato il nomignolo di "faccia da luna piena". Aveva i capelli lunghi e ispidi. I due volti, quello del principe addormentato e quello del non-morto che lo osservava, non erano dissimili. Vaghi pensieri presero forma nella mente del vampiro. Era alla soglia dei cento anni, ormai. All'inizio era stato facile: i contadini si facevano piccoli piccoli per la paura non appena vedevano la sua ombra o sentivano pronunciare la parola vampiro, o nosferatu; e gli bastava chiedere per veder soddisfatto ogni suo desiderio. Gli venivano cedute bellissime fanciulle affinché risparmiasse il resto del paese; e aveva sempre mangiato bene, anzi molto bene. Ma sfortunatamente un giorno erano arrivati i preti con le croci e l'acqua santa, e le fattucchiere con l'aglio e i pali di frassino, e da allora i contadini avevano imparato a difendersi e avevano smesso di temerlo. Lui si era addirittura persuaso che non avessero più paura di niente, ma quella notte aveva scoperto di essersi sbagliato. Avevano paura di quell'uomo, un mortale come loro, quel Dracula figlio del Drago, principe di Valacchia e flagello dei turchi. Bastava il suo nome a spaventarli. Allora ideò un piano, un piano semplice e astuto, quindi si tramutò in
nebbia e lasciò che i venti della notte lo trascinassero via. Fu una battaglia lunga e sanguinosa ma andò bene, andò bene. Al calar della notte i turchi furono costretti a ripiegare in una fuga disordinata. Forse quell'anno, l'anno domini 1476, avrebbe visto la definitiva cacciata degli ottomani dall'Europa. Non era costume continuare a combattere dopo il tramonto, ma il principe voleva consolidare la propria vittoria per non essere costretto a sostenere un'altra battaglia l'indomani, quando la sorte avrebbe potuto favorire il nemico. Ma non riusciva a vedere bene lo svolgersi dei combattimenti nella tenebra che infittiva: era circondato dal cozzare delle armi, e le torce e i fuochi dell'accampamento erano troppo lontani per illuminare il campo dove infuriava la battaglia. Quando scorse la cima della collina alle sue spalle, spronò il cavallo per raggiungerla al più presto: da lì sarebbe riuscito a giudicare e a decidere se ci fosse la possibilità di tagliare la ritirata nemica e intrappolare l'intero esercito turco. Un istante dopo era già lontano dalla mischia e stava risalendo il pendio. La collina era difesa dai suoi uomini, un pugno di soldati che controllavano che nessun musulmano riuscisse a fuggire di soppiatto; nel passare, il principe li salutò con un gesto della mano e loro risposero con un cenno analogo. Quando arrivò in cima al poggio, Vlad Dracula fu costretto a smontare da cavallo, perché all'improvviso l'animale si era imbizzarrito. Si diresse a grandi passi verso la casupola distrutta di un contadino e salì sopra i resti del camino. In quel momento un braccio nerboruto gli circondò il collo, soffocandolo e costringendolo a scendere dal suo piedistallo. — Turco! — gridò il principe con un filo di voce, sguainando la spada. Qualcuno rise alle sue spalle. — No — disse una voce. — Non sono turco: sono originario di questa terra più di quanto lo sia tu, con il tuo sangue magiaro e la tua ascendenza di re magiari. È molto tempo che ti seguo, in attesa dell'occasione propizia, principe Vlad... e finalmente adesso è giunta. Dibattendosi senza quasi più aria nei polmoni, Vlad affondò la spada alla cieca dietro di sé e sentì un rumore di stoffa che si strappava. Poi sentì la lama colpire la carne, ma con sua grande sorpresa non incontrò resistenza.
Era come se avesse vibrato la spada contro un fantasma fatto di nebbia. Un attimo dopo il vampiro serrò la stretta, il collo del principe si spezzò e lui non sentì più nulla. Il vampiro distese il corpo e lo fissò con sguardo famelico. Sapeva che il suo sangue era ancora fresco e dolce, ma bevendolo avrebbe rischiato di rovinare il suo piano. Se il principe era ancora vivo e fosse morto per il suo morso anziché per la frattura dell'osso del collo, dopo tre giorni, parodiando Gesù Cristo, sarebbe risorto come vampiro. E lui non aveva bisogno di concorrenza. Creare nuovi vampiri non era nei suoi programmi per il momento. Si costrinse a distogliere lo sguardo e urlò: — Il principe! Il principe è ferito! I soldati si voltarono di scatto e, vedendo il corpo del loro signore accasciato a terra, si precipitarono in cima alla collina. Ma quando arrivarono, lui era già morto. Il principe Vlad III, conosciuto come Tepes, l'Impalatore, e anche come Dracula, figlio del Drago, fu seppellito nella chiesa di Tirgoviste accanto alla porta occidentale. Le circostanze in cui era avvenuta la sua morte restarono avvolte nel più fitto mistero; c'era chi sosteneva che fosse stato ucciso per sbaglio dai suoi uomini, ingannati dall'oscurità e dalla confusione, o che si fosse travestito da turco per spiare il nemico; ma in realtà nessuno sapeva nulla. Era morto e tanto bastava. I boiari, i pochi che erano sopravvissuti, trassero un sospiro di sollievo. I turchi, invece, non appena appresero la notizia, espressero la loro gioia in modo più esplicito: fecero festa per quattro giorni consecutivi, poi si misero a studiare una nuova offensiva per riconquistare il territorio che avevano ceduto a quel pazzo sanguinario. I contadini della Valacchia e della Transilvania piansero amaramente la morte del principe. Per quanto avesse seminato il terrore anche fra di loro, Dracula li aveva difesi contro le sopraffazioni degli ottomani e lo sfruttamento da parte dei boiari. La gente comune lo aveva temuto ma l'aveva anche amato, come un figlio ama un padre severo. Solo pochi delle centinaia di migliaia di valacchiani che erano morti urlando sui pali, nei roghi o in qualche altro modo ingegnoso, erano onesti lavoratori; e i contadini avevano poca simpatia sia per le classi inferiori sia per la piccola nobiltà. E non ne avevano nessunissima per le migliaia di turchi che Vlad aveva
trucidato. Così piansero la sua morte, si interrogarono sulle ipotesi che erano state avanzate circa le modalità della sua dipartita e poi ripresero a vivere la loro vita. Ma pochi giorni dopo cominciarono a circolare nuove voci. Nella chiesa di Tirgoviste era stata rimossa la pietra tombale e il corpo di Dracula era scomparso, o almeno così si bisbigliava, benché i preti negassero ogni cosa. I contadini si scambiarono occhiate piene di interrogativi. Sapevano tutti che per un fatto simile esisteva una sola spiegazione. Ma era possibile? Possibile che nemmeno la tomba fosse riuscita a trattenere Dracula? Finché una sera tardi, stava per scoccare la mezzanotte, in una piccola casa vicino a Pitesti qualcuno bussò alla porta. Il padrone di casa si svegliò, spaventato; sua moglie si drizzò a sedere sul letto accanto a lui, il cane uggiolò e i bambini si agitarono sotto le coltri. — Chi è? — urlò l'uomo. — Dracula — rispose una voce, profonda e imperiosa. Udendo il nome del principe morto, il padrone di casa si alzò immediatamente e cominciò a tremare. Poi ebbe un attimo di esitazione. Un visitatore notturno non porta mai buone nuove. Esistevano ancora i vampiri in quella regione e si raccontava che escogitassero ogni genere di trucco per introdursi nelle case degli incauti. Ma chi avrebbe osato vantare il nome di Dracula, se non chi ne aveva a pieno titolo il diritto? Il contadino avanzò barcollando verso la porta e tirò il chiavistello. Perbacco! Davanti all'uscio, illuminato dalla luce della luna c'era un uomo: non era alto, non era bello, aveva il viso rotondo, il naso adunco, le labbra piene, gli occhi infossati, i baffi ispidi e una corona di pelo rasato sulla fronte. Il ricco ricamo della sua veste risplendeva di luce fredda. — Accomodati nella mia umile casa, mio signore — disse il contadino spalancando la porta. L'apparizione rischiarata dalla luna sorrise, scoprendo i denti aguzzi, e varcò la soglia. Banchettò ottimamente... Era tanto che attendeva una simile occasione! Risparmiò i bambini e il cane, ma lasciò marito e moglie senza nemmeno più una goccia di sangue nelle vene. Il fatto che sarebbero entrambi rinati come vampiri non lo turbava. Non
aveva più motivo di temere la concorrenza adesso. Dopo tutto lui non era più un semplice vampiro. Era Dracula. Fino a quando avesse indossato la corona e gli abiti di cui aveva spogliato il cadavere, fino a quando avesse portato i baffi che aveva confezionato lui stesso con grande cura, usando criniera di cavallo e setole di maiale, fino a quando avesse tenuto i capelli tagliati e pettinati come il principe, sarebbe stato Dracula, e il corpo che aveva gettato in una delle valli dei Carpazi non sarebbe stato nessuno. E fino a quando fosse stato Dracula, gli uomini avrebbero avuto di nuovo paura di lui. Anzi, avrebbe fatto in modo che tutti i vampiri fossero temuti di nuovo e lui sarebbe diventato il loro signore, il loro padrone, il loro re, il più grande di tutti i non-morti. E un giorno, si disse mentre si coricava nella sua bara, tutto il mondo avrebbe conosciuto e temuto il suo nome. Il suo nuovo nome. Il nome di Dracula. Titolo originale: The Name of Fear (1991) W.R. Philbrick L'OMBRA DELLA MORTE Haiti, 1979 Era abituato al caldo, ormai, e anche al modo in cui la pioggia arrivava dalle montagne: roventi sferzate d'acqua salata che trasformavano la terra in fango. La pioggia non portava alcun sollievo: soltanto vapore che saliva dai campi dilavati e piccole alluvioni che trascinavano via il terreno, scoprendo rocce dentellate e ossa rotte. La pietra si ancorava al fango nero mentre le ossa umane, strappate dalle tombe scavate sul fianco della montagna, venivano trasportate da torrenti color dell'avorio che tagliavano la terra, rivelando la spina dorsale della grande isola gibbuta. Haiti. Era arrivato lì con la voglia e la certezza di fare, per la prima volta in vita sua, qualcosa di veramente utile. Dopo una vita di privilegi, avrebbe aperto una piccola clinica dove avrebbe lavorato per le persone che avevano più bisogno del suo aiuto e della sua esperienza di medico. Ma adesso, dopo sei interminabili mesi, non c'era più niente di certo. Sì, tecnicamente era
molto dotato; ma nelle ore soffocanti della notte, quando era così stanco da non riuscire a prender sonno, una vocina sarcastica gli diceva: Quello che fai non serve a niente. Sei uno sputo su una graticola, una foglia nella tempesta. E quando riusciva ad addormentarsi, si svegliava con la consapevolezza che la terribile bellezza dell'isola lo stava divorando. Era seduto su una sedia pieghevole davanti al piccolo capanno, costruito sulla spiaggia, che costituiva la sua abitazione; stava guardando il sole affondare lentamente in mare, quando una voce che non conosceva pronunciò il suo nome, o meglio il nome con il quale lo chiamavano sull'isola. — Doakah! Doakah, a casa tutto solo? Doakah significava dottore, appellativo che gli haitiani conferivano a tutti gli uomini anziani e con gli occhi stanchi, in segno di rispetto. Il fatto che quel titolo fosse stato riconosciuto anche a un medico americano, doveva essere una specie di onore, anche se nessuno si rivolgeva alla sua clinica confidando di guarire. Gli indigeni sapevano quanto fossero scarse le loro probabilità di sopravvivenza e, per curarsi, si affidavano alla medicina popolare, al voodoo o alle preghiere; ma solo pochi si aspettavano realmente di debellare le malattie che li affliggevano. Gli haitiani accettavano il loro destino con una serenità che, a poco a poco, il medico aveva cominciato a invidiare. Era la filosofia dell'isola. — Doakah? Un varco si aprì nel fitto fogliame e apparve un giovane volto nero e scarno. Occhi bianchi e vivi nella luce obliqua del giorno che moriva. L'intruso sembrava cristallizzato in un'immobilità sognante, che faceva pensare a certi dipinti di Henri Rousseau. Soltanto il lieve tremore delle foglie rompeva l'incantesimo. — Sì? — rispose l'uomo. — Doakah Jones della clinica? — Sì, sono io — rispose il medico alzandosi. La figura nera emerse dal fogliame e si presentò come Christophe. — Nome di grande generale — spiegò, mostrando denti e gengive che, nonostante la sua estrema magrezza, sembravano straordinariamente sane. — Vecchio Christophe che ha liberato gli schiavi. Sentito parlare di lui? — Sì, certo — disse il dottor Jones. Interessante che quell'uomo emaciato e nero come il carbone parlasse della rivolta degli schiavi come se fosse un fatto recente. In realtà erano passati quasi due secoli dal giorno in cui i generali africani avevano sconfitto l'esercito napoleonico e avevano instaurato un loro regime dispotico. Il dottor Jones non era uno storico (era spe-
cializzato in epidemiologia, la branca della medicina che studia le cause e la diffusione delle malattie) ma perfino lui sapeva che i periodi in cui Haiti aveva goduto di una qualche libertà erano stati brevi e luminosi come i lampi di inverno. Lì oscurantismo e paura ritornavano sempre, sottoforma di dittatori violenti e poliziotti corrotti, i ton-ton macoute. E, più recentemente, sotto le mentite spoglie di una strana malattia che aveva riempito la sua clinica di uomini e donne che deperivano e morivano sotto i suoi occhi, senza che lui potesse fare niente per aiutarli: una malattia del sangue che ancora non aveva nome ma che si era diffusa come una peste sull'isola, privando la gente di ogni difesa immunitaria anche nei confronti delle infezioni più benigne. — Un uomo ha bisogno di te — disse Christophe. — Verrai da lui? — Dov'è? — Non lontano — disse Christophe. — Aspetta qui vicino. — È malato? — Sì, molto malato. — Allora devi portarlo alla clinica. Christophe scosse la testa. — Non possibile — disse. — Dobbiamo andare da lui. Unica possibilità. Il dottor Jones entrò nel casotto a prendere la sua borsa. Ogni tanto era stato chiamato ad assistere qualche paziente troppo malridotto per essere trasportato in clinica, e non si era mai opposto a simili richieste. In più quell'uomo che diceva di chiamarsi Christophe... be' sembrava genuinamente preoccupato e ansioso che un medico lo accompagnasse. — La strada è da questa parte — disse il dottor Jones rivolgendosi alla schiena dell'uomo. — Dispongo di una macchina, possiamo usare quella. Quando la nera figura si voltò verso di lui, il medico rimase sbalordito dalla luminosità del suo sorriso. — Andiamo con barca, doakah Jones. Con barca — disse gesticolando in direzione del litorale pietroso oltre la fila delle casupole; quella che una volta era una spiaggia, ma che era stata restituita alla natura da quando era cessato il turismo. — Non va con strada. Strada non porta là. — Non mi piacciono le barche — disse il medico con un certo disagio, seguendo l'indigeno che avanzava a passi rapidi verso il mare. — Questa, buona barca. Ti piacerà. Una scialuppa piccola e stretta li attendeva a poco più di un metro dalla riva, sospesa sopra un'acqua che era nera come la nuca dell'haitiano. Quel-
lo strano omino l'aveva lasciata lì così, alla deriva? Il dottor Jones non ebbe il tempo di risolvere il mistero del perché la barca non fosse ancorata, né di capire come mai gli desse la sensazione di sfidare la marea con astuzia animalesca, perché Christophe gli stava facendo segno di affrettarsi. Non avere paura, doakah Jones, tu non bagnare. E il medico rimase senza parole quando l'uomo lo sollevò da dietro con forza prodigiosa e lo depositò a prua, senza fargli sfiorare l'acqua, proprio come gli aveva promesso. — Buona barca — disse di nuovo l'indigeno, accarezzando la battagliola dipinta. — Portare tanti uomini. Quando Christophe avviò a strappo il volano, il motore a un cilindro, del tipo o-la-va-o-la-spacca, si accese vibrando. Aveva un battito regolare, pensò il dottor Jones, non poi tanto diverso da quello del suo cuore: un battito marino di sangue e di acqua salata. Su indicazione della sua guida restò in piedi a prua, aggrappandosi a un pezzo di sottile corda di canapa. — Meglio per te stare comodo a prua, così sentire il mare muovere sotto di te — disse Christophe, mostrandogli come mantenere l'equilibrio sulla stretta imbarcazione. Il medico scoprì che in quella posizione, con il peso del corpo retto dalla corda e le ginocchia che si piegavano assecondando il moto delle onde, la navigazione era di gran lunga più agevole. Anzi era perfino divertente: stava andando per mare come un indigeno, abbandonandosi ai capricci della natura... in una dimensione di gioco e di piacere che pensava di aver perso per sempre. Ma quell'insolita allegria si dileguò non appena la scialuppa abbandonò l'insenatura per affrontare le onde nere e alte che si formavano contro il promontorio. E mentre procedevano a tutta velocità verso il mare aperto, il dottore avvertì un profondo senso di perdita, una sensazione di vuoto che lo turbò, lasciandolo infiacchito e in preda a una strana vertigine. Era forse paura? Non certo paura del mare aperto o paura di affogare. Da un pezzo Jones non temeva più la morte e aveva smesso di negare l'ineluttabilità di un simile evento; quella era una cosa di cui era sicuro, che prima o poi per ogni uomo arriva l'ora di andarsene per sempre. Negli ultimi tempi il senso di disperazione che lo attanagliava, la profonda malinconia che sembrava proprio rubargli l'aria dai polmoni e quell'umore tetro, una specie di febbre dell'isola, che gli teneva compagnia a ogni ora del giorno, lo avevano portato a concludere che nemmeno il lavoro alla clinica fosse una valida ra-
gione per continuare a vivere. Ma se la prospettiva di morire non lo spaventava, che cosa temeva allora? Eppure era paura quella che provava mentre stringeva la corda con entrambe le mani e la barca si muoveva sotto di lui con la sicurezza imprevedibile di un animale vivo. Paura: un fremito di paura da scuotere il mondo, una paura che trascendeva il pensiero della sua personale dipartita, piccola morte che non mutava nulla. Essa divenne il timore angoscioso che forse un giorno la vita stessa sarebbe finita e che la Terra si sarebbe ridotta a una palla brulla, fatta di minerali, frammenti di mica e colonne di sale al posto dei grandi mari evaporati. Una massa sterile, coperta di ghiaccio e scagliata nell'eternità cieca, nel grande vuoto perpetuo. La fine della vita. Doveva accadere, era inevitabile e, se non a causa della malattia che stava uccidendo i suoi pazienti, per colpa di qualche altro, imprevedibile flagello. A un tratto, il dottor Jones ebbe l'impressione di vedere, riflesso negli occhi di Christophe, un barlume di quello stesso senso di vuoto che lo opprimeva. La figura nera era al timone, da dove controllava il motore e guidava la barca attorno alla curva dell'isola: aveva un'espressione vacua dipinta sul volto scuro, che sembrava una maschera intagliata. Anche Christophe era in piedi e si bilanciava assecondando con molli movimenti delle anche il beccheggio e il rollio della scialuppa, mentre con sguardo fisso e assolutamente neutrale scrutava le ultime pennellate di luce insanguinata lungo il confine del mondo. — Presto, doakah — promise. — Noi arrivare presto. Quando la barca piegò di nuovo in direzione della costa, scivolando sulle dolci onde della risacca, l'inspiegabile fremito di paura che aveva sorpreso il dottore si trasformò nel dolore sordo e persistente del terrore. Un terrore che conosceva, si rese conto Jones: il terrore sacro che prova un medico di fronte a una malattia mortale, a un morbo che sa di non poter debellare con la sua valigetta di pozioni medicamentose. Sì, il semplice terrore della banale, terrena normalità di una inadeguatezza senza speranza: il terrore della totale inutilità di qualsiasi cosa lui potesse dire o fare o sentire. — Guarda là! — gridò Christophe per sovrastare il frastuono del motore. Seguendo il suo indice puntato, il medico vide, immersa nella tenebra verde della terra che si avvicinava, una zona frastagliata di tenebra più scura, un'ombra che si stagliava contro la distesa del litorale. Poi, mentre la barca
entrava nella cala, fendendo con la prora l'ultimo tratto di mare trasformatosi d'un tratto in un olio, Jones si rese conto che quella che aveva scambiato per un'ombra era, in realtà, una grotta che si apriva direttamente sullo squallido tratto di spiaggia. La sua guida aveva ragione; l'unica possibilità d'accesso a quel luogo era via mare, perché le rupi che lo circondavano erano ripide e la vegetazione densa e infida. — Tu vivi qui? — gli chiese il medico, quando la chiglia si arenò sulla riva fatta di sassi. — Io lavoro per monsieur — replicò l'indigeno. Nel silenzio calato dopo che Christophe aveva spento il motore, la bocca arcuata della grotta restituì l'eco di quella risposta e entrambi gli uomini contrassero le labbra in un sorriso imbarazzato. — Monsieur? Il signore che è malato? — Molto malato — ribadì Christophe. — Terribile malattia. — Allora dobbiamo portarlo alla clinica — replicò il dottore, scendendo dalla barca. — L'aria umida di una grotta può essere molto pericolosa per un malato. Almeno alla clinica potremmo garantire al tuo amico un ambiente più confortevole. — Tu dire questo a lui — replicò l'indigeno rivolgendogli un sorriso enigmatico. — Dare a monsieur pa-parere esperto. Il dottor Jones si voltò a guardarlo. Lo stava prendendo in giro? Ma non c'era derisione nel sorriso dell'haitiano... Eppure c'era qualcosa nel suo modo di parlare che non lo convinceva, come se l'uomo avesse trascorso molti anni della sua vita altrove, in un elevato ambiente sociale, e adesso stesse semplicemente fingendo il ruolo di lacché. Un attimo dopo brillò un fiammifero e da una lampada a kerosene si irradiò un'aureola di luce arancione. — Di qui, doakah Jones. Il medico seguì la debole luce della lanterna, sorpreso di sentire sotto i piedi un piano di pietra asciutta e levigata... Come se fosse stata consumata da passi umani. Sì, decise dopo alcuni istanti, era possibile, perché più si inoltravano verso il cuore della grotta, più appariva chiaro che quel luogo veniva utilizzato come riparo da parecchio tempo. Senza dubbio i pescatori dell'isola trovavano comodo nascondervi i loro attrezzi in attesa che il mare fosse propizio; notò vecchie reti impigliate nelle frastagliature della roccia e i resti imputriditi di una canoa, diversa da quelle che aveva visto sull'isola... Che fosse stata portata fin lì da qualche lido lontano? Ma Christo-
phe lo stava invitando ad affrettarsi, agitando la lampada. — Da questa parte. La grotta si restringeva o forse era la luce, d'un tratto dive nuta più fioca, a far sembrare le pareti più vicine, opprimenti Poi il medico sentì un odore. Un fetore denso, dolciastro, che ahimè conosceva bene: quello che accompagna le malattie mortali e i pazienti lasciati a imputridire nella loro ultima solitudine. — Uomo molto malato — disse Christophe a bassa voce, quasi a scusarsi di quell'odore. — Capisco — rispose Jones. L'haitiano emise un verso simile ad una risata... che il medico interpretò come una manifestazione di nervosismo: una reazione più che naturale di fronte alla sofferenza. — Siamo arrivati — riprese l'uomo. — Monsieur le dà il benvenuto. Il dottore si fermò sulla soglia di quella che sembrava una camera più ampia: o almeno, lui non avvertiva più l'immediatezza opprimente delle pareti. Si rese conto che, all'improvviso, la sua guida aveva smesso di fingere di parlare patois. La sua voce era chiara, adesso, la pronuncia perfetta, con appena una sfumatura di accento straniero, che però non riusciva a riconoscere. Per un attimo, la durata di un battito cardiaco, Jones pensò di fare dietrofront, ripercorrere di corsa la grotta e guadagnare la spiaggia. Impossibile, si rese conto subito dopo: la tenebra era assoluta; e poi, di che cosa doveva aver paura se non temeva nemmeno la morte? — Sieda qui — disse Christophe e, contemporaneamente, il bordo di una seggiola gli urtò da dietro le gambe. Jones sedette in quella che scoprì essere una comoda poltroncina di legno levigato, dotata di braccioli. Poi la lampada si spostò in un'altra parte della stanza, dove sembrò moltiplicarsi (ma forse quelle che vedeva erano candele) finché l'aria immobile cominciò a risplendere. Il medico fissò una sagoma sul pavimento di pietra e si rese conto che si trattava di un modesto letto, o per meglio dire di un giaciglio: un cumulo di stracci gettati alla rinfusa su assi che, al chiarore delle lanterne, apparivano levigate come ossa. Mentre si chinava in avanti, cercando di discernere quello che vedeva, Christophe scivolò alle sue spalle e gli toccò la nuca. Il dottor Jones avvertì una leggera puntura, come se fosse stato ferito da una spina sottile, subito seguito da un'innaturale sensazione di calore alla
pelle del collo. Il medico rabbrividì: che l'uomo lo avesse graffiato? Ne aveva abbastanza di Christophe, e stava per voltarsi quando dal cumulo di stracci sul pavimento provenne una voce. — Dottor Jones, com'è stato buono a venire. Il medico sgranò gli occhi. Come aveva fatto a non accorgersi dell'uomo pallido ed emaciato, disteso in mezzo ai cenci? Un essere apparentemente moribondo, calvo, con due occhi febbricitanti che brillavano nelle orbite. La carne era come un sottile strato di cera sulle ossa e lo scheletro stesso sembrava stranamente deformato, come se in qualche modo la malattia lo avesse allungato. — Spero che il viaggio sia stato piacevole — disse la creatura; ma la sua voce era così forte, così sicura e così viva che il medico si guardò attorno per vedere chi avesse parlato. Che cos'era, uno scherzo, una beffa architettata per spaventarlo? — Christophe è riuscito a tenerla all'asciutto in quella sua barchina? — chiese ancora la voce. La creatura, un uomo senza dubbio, si drizzò a sedere e il dottor Jones ebbe la conferma di quanto aveva inizialmente sospettato: la deformazione del cranio era dovuta a un particolare tipo di sarcoma, che conosceva fin troppo bene. Molti dei suoi pazienti giù alla clinica soffrivano di simili forme di cancro. — Sì — disse l'uomo, senza attendere la sua risposta. — Vedo che ha riconosciuto il morbo che mi sta consumando. L'ha già visto ovunque sull'isola: il marchio dei morti viventi! Immagino che sia questa malattia che la rende tanto disperato, dottore, perché non c'è niente che lei possa fare per impedire che si propaghi. Gli occhi della creatura erano stranamente accesi in quell'oscurità soffusa di luce. — Ma si risparmi la compassione — proseguì il malato, — perché fra un po', grazie a lei, io starò meglio. Mi rendo conto che purtroppo sarà soltanto un palliativo; fra qualche giorno la malattia esploderà di nuovo e Christophe... le ha detto che si chiama come il grande generale? Christophe sarà costretto a portarmi un altro volontario; poi un altro ancora, in modo che io possa continuare a curarmi. — Non capisco — disse il medico, o cercò di dire. Aveva l'impressione che quelle parole non provenissero dall'interno della sua mente. Ma com'era possibile? Cercò di muoversi, di cambiare posizione sulla sedia. Si era mosso? Il
suo corpo sembrava lontano, un miscuglio inanimato di ossa, carne e cartilagini senza vita. — Le consiglio di rilassarsi, dottore — riprese l'uomo. — Qualsiasi tentativo di fuga è inutile. Christophe l'ha immobilizzata con una delle medicine naturali degli indigeni: una neurotossina estratta da qualche orribile rospo, o forse da un pesce velenoso, non ricordo. Christophe è un vero maestro in queste cose. Lui mi garantisce che la paralisi dura parecchie ore, ma noi finiremo molto prima, glielo prometto. In quel momento, dall'oscurità alle sue spalle spuntò l'haitiano; reggeva in mano un grande bicchiere colmo fino all'orlo di un liquido chiaro che all'improvviso attirò su di sé, come una calamita, la luce tremula delle lampade e delle candele. — Acqua di sorgente — spiegò l'uomo seduto sul giaciglio; dopodiché bevve con tale avidità che il liquido traboccò dalla sua bocca deforme, bagnando i tumori del viso. — Soffro molto la sete a questo stadio del ciclo. In condizioni normali aborrisco il solo sapore dell'acqua. — Ordina qualcos'altro, monsieur? — No. Adesso lasciaci, per favore. Jones, che non poteva girare la testa per seguirlo con lo sguardo, poiché era realmente paralizzato, ebbe l'impressione che l'indigeno fosse scomparso dal suo campo visivo ma che fosse ancora nella stanza, nascosto nell'ombra, intento a osservarli. — Qui mi chiamano monsieur — riprese l'uomo seduto sul giaciglio. L'acqua sembrava averlo resuscitato, perché d'un tratto aveva drizzato le spalle e non appariva più fragile come prima, ma non per questo meno spaventoso. — Ma lei si senta libero di chiamarmi come vuole — aggiunse. — Mi sono stati attribuiti i nomi più disparati nel corso dei secoli. Ma il medico, rispondendo a un pressante impulso che la sua mente non riusciva a comprendere appieno, si stava concentrando strenuamente nel tentativo di muoversi. Scappa! urlava il suo corpo, scappa! Riuscì a girare appena appena il busto, ma le sue mani rimasero rigidamente serrate attorno ai braccioli della poltroncina. Non poteva muoversi. L'uomo che si definiva "monsieur" lo osservava con interesse. — Si metta l'animo in pace — gli consigliò dopo un po'. — Accetti il suo destino. La faccenda sarà più facile per tutti e due. Il dottor Jones si accorse che lo stato di paralisi si era esteso anche agli occhi, rimasti fissi sul giaciglio; le sue palpebre non si abbassavano più.
— Sono sicuro che si starà ponendo un sacco di domande — disse monsieur. — Quello del medico è uno spirito indagatore. Che cosa l'ha condotta in quest'isola dimenticata da Dio e dagli uomini? Un'intima ricerca della verità, forse? A una certa età un uomo sente il bisogno di dare qualcosa di sé agli altri, di lasciare la propria impronta sul mondo, e così lei è venuto su quest'isola con l'intento di salvare delle vite umane. E che cos'ha trovato? Un morbo che si fa beffe di lei, che riduce la sua clinica del buon samaritano a un ossario. E così è questa la verità che ha scoperto: che, per quanto si sforzi, quello che fa non serve a niente. È fortemente tentato dall'idea del suicidio, ma è troppo debole per agire. Sto sognando, si disse il medico trovando conforto in quell'idea. Il sogno avrebbe spiegato come mai quello sconosciuto fosse a conoscenza dei suoi pensieri più intimi, dei suoi dubbi, della sua profonda disperazione. — No, non sta sognando — riprese monsieur — e no. non le leggo nemmeno nel pensiero in senso stretto. Il fatto è che conosco abbastanza bene la natura umana da prevedere ogni suo pensiero, e questo potere è assai più utile del mero giochino da salotto di leggere la mente altrui. Ma lasci che le spieghi. Lei mi vede e pensa: quell'uomo sta morendo. Devo ammettere che la sua diagnosi è essenzialmente esatta. Sono secoli che sto morendo, dottor Jones. È la cosa che mi riesce meglio. Per molti anni sono morto in Africa: è lì che la mia malattia ha assunto l'aspetto che lei vede, quello di questa orribile deturpazione. — Così dicendo monsieur si voltò per lasciare che la luce gli illuminasse il viso. Ogni tumore brillò, deformando i contorni della bocca e facendo apparire gli occhi schiacciati e sporgenti. — Non dico "la mia malattia" tanto per dire, dottore, perché io sono la malattia. È nata dentro di me, come conseguenza, diciamo, delle mie abitudini alimentari. Se uno contrae, come ho fatto io, tutte le malattie del sangue esistenti sulla faccia della terra, il risultato non può essere che questo: un calderone di malattie così potente che niente può esserne immune, nemmeno io. — Dagli stracci emersero dita sottili, quasi scheletriche, che accarezzarono le raccapriccianti deformità del viso. — Le persone che infetto sono destinate a morire, e quelle che esse infettano a loro volta sono condannate allo stesso destino. Sopravvivo solo io, perché trasmetto la malattia, ma non la cura. Non la cura. Quella non la condivido con nessuno. Nessuno. Sono solo nella mia gloria. Le parole di monsieur risuonarono nella stanza, e tale era l'intensità della sua voce che il medico la sentì vibrare contro i polpastrelli: assomigliava al soffio del vento in una grotta o a una nebbia notturna portata dall'acqua ne-
ra del mare. La paura era diventata una piccola cosa stretta, che seguiva l'eco di quell'orribile voce. Jones provò di nuovo il senso di vuoto angoscioso che aveva sperimentato quando la barca di Christophe aveva preso il largo: la morte della speranza. Cercò di ribellarsi. Invano. — Lei penserà che io sia un mostro, dottore, ma i mostri non pensano, non provano sentimenti e non si dispiacciono del male che infliggono agli altri, come invece le assicuro capita a me. Un mostro? Come lei stesso può vedere io sono un essere umano. Estremamente umano, in tutti i sensi degli aggettivi estremo e umano. Nella mia lotta per la vita provoco la morte. Non è questa la definizione di ogni comportamento umano? Non si sforzi. Sento che è d'accordo con me. Naturalmente io lo sapevo prima che lei venisse qui. E lei è venuto, badi bene, di sua spontanea volontà. Se lei avesse rifiutato, Christophe avrebbe trovato qualcun altro. Ho infettato molte persone, ma ne restano ancora tante. La creatura cercò di sorridere e il medico desiderò più che mai poter distogliere lo sguardo da quel sorriso terribile e da quei denti aguzzi coperti di saliva. — Quando ero giovane... È passato così tanto tempo da allora che non ricordo nemmeno la prima lingua che ho parlato! Godevo in maniera impulsiva. Ero sempre così affamato! Così bramoso di eternità! Le passioni impetuose della giovinezza: non le ricorda anche lei, dottor Jones? Sono sicuro che una parte di lei è incline a provare pietà per me, così come lei prova pietà per le povere creature che si trascinano alle porte della sua clinica. Sono così diverso? Non sono umano anch'io? Monsieur tacque, poi alzò il bicchiere vuoto alla luce. Il vetro agiva come una lente e deformava in modo così straordinario l'obbrobrio del suo volto da farlo apparire quasi normale, quasi sano, finché il medico ne intravide la terribile bellezza. Poi la creatura spostò il bicchiere e il suo viso ritornò quello di prima, deforme, putrescente e vivo. Monsieur annusò l'aria e disse: — Sono sicuro che lei non abbia sempre emanato un simile odore di vanità, dottore. Oh sì, adesso ne ha tutto il fetore. Lei sa di morte, dottor Jones, ha lo stesso odore di tutti quelli che sono morti fra le mie grinfie; ma su di lei questo fetore è peggiore. Lei trasuda odore di disperazione, di resa. Io puzzo di marcio, lei di rimpianto. Che cos'è peggio? Non importa, dottor Jones. È una domanda ingiusta. La ritiro. Né io né lei abbiamo scelta. Siamo quello che siamo. La fiamma tormenta forse la farfalla con inutili domande? O il serpente il topo? A poco a poco la cosa che diceva di chiamarsi "monsieur" era emersa
dal giaciglio, allontanando gli stracci che lo coprivano. Il medico ripensò al cadavere che aveva sezionato all'università e ricordò come gli era sembrato sottile lo strato di carne sopra lo scheletro, resa grigia e spugnosa dai conservanti. Cercò nuovamente di muoversi, ma il suo corpo non rispose. Gli sembrava di essere inchiodato alla sedia e faticava a respirare. Condannato ad aspettare. Ad aspettare. — Ricordo una sera nelle pianure del Kenia — riprese monsieur, addolcendo la voce fino a ridurla a un sussurro animalesco, che sembrava scaldare l'aria umida della grotta. — Che stelle! Stelle così vive, così giovani! Ero seduto sul ramo di un baobab e guardavo ai confini del mondo. Vedevo ogni cosa con straordinaria chiarezza: gli animali che si agitavano nell'erba alta, gli uccelli che dormivano fra le fronde; sentivo il ruggito dei leoni, il ronzio degli insetti, il battito degli scarabei nel fango e il riprodursi furibondo dei microbi... E amavo tutto ciò, dottor Jones, l'idea della vita che si perpetua e di me che mi perpetuavo con essa. E poi, a mano a mano che l'infezione si diffondeva, tutto quello splendore si affievolì. Le stelle cominciarono ad apparirmi vecchie e fioche. Risalii in cima al baobab e capii che dovevo andarmene, perché a me non interessa nutrirmi delle creature che ho infettato: per me il loro sangue è povero. Era ora che me ne andassi, e stavolta via mare. "Che viaggio orribile è stato! Ma avrà visto i resti della mia povera imbarcazione all'imboccatura della grotta. Con il sole cocente e soltanto poche pallide creature di cui nutrirmi, mentre le correnti mi trascinavano verso ponente. Immagini la mia gioia quando vidi quest'isola emergere dal mare... sì, perché è questa la visione che ho avuto nel delirio. E di quali nuovi piaceri ho goduto qui! Un popolo soggiogato da decenni di terrore e di violenza: che cosa sono i miei piccoli appetiti al confronto? In un posto dove gli uomini vengono trascinati nottetempo fuori dalle loro capanne per essere assassinati, dove si sottomettono alla schiavitù di una tetra superstizione e accettano supinamente la repressione, nessuno può notare la mia presenza. Non mi danno la caccia, ma mi tollerano; anzi a volte mi accolgono a braccia aperte, perché la morte che infliggo io è meno orribile della morte vivente che sono costretti a sopportare da sempre, vittime dei loro stessi connazionali. Chi di voi può negare la mia origine, il mio potere, il mio splendore?" Adesso monsieur si era levato in tutta la sua statura, calpestando gli stracci: era orribile a vedersi nella sua nudità; la sua voce assomigliava al
battito di un cuore immenso. — Presto sarò costretto a lasciare l'isola e a tornare sulla terraferma, e una volta arrivato lì tutto quello che lei teme si avvererà. E adesso, dottore, la sua ora è giunta. La mia cura comincia. — Così dicendo sollevò le braccia scheletriche e la sua ombra fu come un battito di grandi ali sulle pareti rocciose. Il medico aveva smesso di lottare... Lui era il battito del cuore, la paura era la voce. Le ossa che si muovevano rapide, la carne morta, il respiro gelido: attorno a lui era il vuoto mentre avanzava l'ombra, l'ombra della morte. Titolo originale: The Dark Rising (1991) Tim Sullivan LOS NIÑOS DE LA NOCHE — Se mi ricordo I figli della notte? — gracchia Esteban Montoya con la sua voce di vecchio. — No, muchacha, perché a quell'epoca i latini non facevano film importanti. Però ricordo Los Niños de la Noche. Io mi protendo in avanti nella vecchia poltrona consunta che costituisce l'unico pezzo di mobilio della stanza, a parte il letto e il comodino sbeccato. — Allora è lei l'Esteban Montoya che compare nei titoli di coda della versione spagnola del film? L'uomo si drizza a sedere sul letto e la sua debolezza di vecchio grinzoso è immediatamente smentita dall'intensità dei suoi occhi scuri. — Sì, muchacha, io ero l'aiuto regista. Non riesco a credere alla mia fortuna. Sono così euforica che non gli chiedo nemmeno di smetterla di chiamarmi muchacha, come se mi avesse scambiato per una chiquita del quartiere. L'uomo che mi sta davanti faceva parte della troupe che ha girato uno dei leggendari film dell'orrore degli anni Trenta; forse è l'unico ancora vivo di tutto lo staff. Sembra che la versione spagnola del film sia addirittura migliore di quella inglese, ma poiché la pellicola è andata persa più di cinquant'anni fa nessuno ha mai potuto verificarlo. È stata un'impresa quasi impossibile rintracciare Esteban Montoya, e adesso ce l'ho di fronte, in carne e ossa, nella stanzetta angusta di una casa di riposo di Hollywood. E l'ho trovato da sola! Io, Antonia Guzman, sto per fare uno scoop giornalistico, anche se si tratta solo di giornalismo cinematografico. Accendo il registratore. — Com'era — gli domando — lavorare con Don Carlos Ribeira?
— Ay! Don Carlos. — Il vecchio emette un suono che è un incrocio fra una risata e un colpo di tosse. Poi mi rivolge un sorriso sdentato e annuisce con cenni così vigorosi del capo da lasciarmi interdetta. — Era spagnolo. Veniva da Toledo, credo. Un uomo del vecchio mondo, che disprezzava noi latini di Los Angeles e Baja, nonostante stesse girando un film con noi. Ci considerava soltanto dei servi. Trattava come un sottoposto perfino Rafael Valenzuela, il regista. — Per cui era davvero un dispotico come si diceva all'epoca — I figli della notte era stato l'ultimo film interpretato da Don Carlos e anche l'unico che l'attore aveva girato negli Stati Uniti. — Una personalità autoritaria, insomma. — Nessuno poteva contraddirlo. Si presentava puntualmente al teatro di posa un'ora dopo il tramonto e assumeva il comando come un generale sul campo di battaglia. Fu il suo film fin dall'inizio e Rafael non poté far altro che ubbidire ai suoi ordini. — E usaste lo stesso set utilizzato per la versione inglese? — Sì, a quell'epoca non esisteva ancora il doppiaggio. Erano i primi film sonori: gli attori recitavano le battute e il regista filmava. E visto che i dialoghi non potevano essere inseriti in un secondo tempo, se lo studio voleva una versione della pellicola in un'altra lingua bisognava girare tutte le scene daccapo, di notte, con attori e troupe stranieri. Era l'unico sistema. E le assicuro che quelli di Los Niños de la Noche erano dei set veramente stupendi, perché l'intento dei produttori era quello di realizzare un film che facesse dimenticare al pubblico Dracula. Ci volle così tanto tempo per costruirli che l'inizio delle riprese fu rimandato all'inverno. "Così fummo costretti a lavorare in quelle enormi grotte goti che in pieno dicembre. Hola! Faceva così freddo che appena aprivi la bocca ti si condensava il fiato e avevi sempre mani e piedi intirizziti. Come invidiavamo gli anglofoni: avevano la fortuna di lavorare di giorno, quando il sole scaldava un po' le scene sepolcrali che Don Carlos calcava impettito fino alle prime ore del mattino! Ma lui era el Diablo in persona in quelle gelide notti invernali. Arrogante com'era, interpretò magnificamente la parte del vampiro. "All'inizio eravamo tutti tolleranti e comprensivi nei suoi confronti, perché aveva sempre un'infermiera al suo seguito sul set. Una certa Ilona Laszlo, di origine ungherese, che ogni tanto accennava alla rara malattia che lo affliggeva. Don Carlos era stato cacciato dalla Spagna dai franchisti e, dopo la fama di cui aveva goduto in Europa, riteneva che un film del-
l'orrore come quello non fosse alla sua altezza. E faceva di tutto per farcelo capire. Non appena finivano le riprese saliva a bordo della sua enorme Duesenberg insieme alla bellissima Ilona e nessuno lo vedeva più fino alla sera successiva. "Avevo già partecipato alla regia di molti film, sia in Messico sia negli Stati Uniti, e avevo conosciuto parecchie star capricciose; ma lui era il peggiore di tutti. In ogni caso, non avevo nessun problema a sopportarlo per le tre settimane di lavorazione del film. Tutta la troupe la pensava come me; solo Rafael sembrava sull'orlo del suicidio già alla fine della prima settimana. Probabilmente pensava che peggio di così le cose non potessero andare ma, Madre de Dios, il cielo solo sa quanto si sbagliava! Deve sapere che un mattino Rafael mandò a chiamare la segretaria di edizione, ma nessuno riuscì a trovarla. "Solo quando una delle attrici vide due gambe livide spuntare da sotto un paravento del guardaroba, scoprimmo che cosa ne era stato della poveretta. La donna urlò, facendoci accorrere tutti e io ricordo di essermi alzato in punta di piedi per guardare oltre la spalla della controfigura di Don Carlos. Spostammo il paravento e vedemmo il viso della segretaria: bianco come un cencio lavato! Ay! Era morta." A questo punto Esteban scuote lentamente la testa, facendo ondeggiare i radi capelli bianchi. Non riesco quasi a dominare la mia emozione. Una triste fama circonda il film, a causa dei fatti tragici e misteriosi accaduti durante la sua realizzazione; ma nessuna delle persone che ho intervistato finora ha saputo darmi qualche spiegazione. Deve essere stata la morte di quella donna e quella di Don Carlos, avvenuta l'ultima sera, poche ore dopo la fine delle riprese, a dare adito alle voci. Invito Esteban a proseguire. — La polizia arrivò nel giro di un quarto d'ora. Fu il sergente Del Valle a condurre le indagini. Era un uomo basso e tarchiato, ma dotato di una specie di grazia energica. La presenza di quel brav'uomo e dei suoi oficiales ci rassicurò tutti. "La salma fu portata via quando ormai stava per albeggiare e Rafael ci mandò a dormire tutti, perché ormai non c'era più tempo per girare. Fu allora che mi accorsi che Don Carlos era sparito, e ricordai di non averlo visto in giro da prima che il corpo della povera ragazza fosse stato rinvenuto. "Accennai la cosa a Rafael, ma lui disse che probabilmente l'infermiera lo aveva fatto allontanare perché non si impressionasse. Mi sembrava una spiegazione più che logica e così non ci pensai più. "Il giorno successivo era domenica. La troupe della versione in inglese
faceva festa, così i produttori decisero che avremmo potuto recuperare il tempo perduto girando tutte le scene diurne. Non erano molte, tant'è vero che finimmo a metà pomeriggio. Poi Rafael decise di girare anche una scena notturna con il vampiro; ma la nostra star non era ancora arrivata e utilizzammo la sua controfigura. Don Carlos si presentò in scena soltanto dopo il tramonto. "Deve sapere che l'aiuto regista è una delle persone più impegnate sul set di un film; e anche quel giorno il lavoro mi assorbì a tal punto che non riuscii ad avvicinarmi a un telefono fino a quando fu servito il primo turno della cena. Io decisi di aspettare il turno successivo per poter chiamare il sergente Del Valle. "Lei sa già quello che pensavo, señorita, e cioè che il nostro primo attore fosse il monstruo che aveva assassinato la nostra segretaria. Ma Del Valle mi disse che Don Carlos aveva un alibi. Si era allontanato dal teatro insieme alla sua infermiera, perché aveva cominciato a sentirsi debole. "Domandai al sergente di che malattia soffrisse la nostra star. Si chiamava porfiria, mi disse. Lo ringraziai e raggiunsi il resto della troupe che era già a tavola. Don Carlos non cenava mai con noi. "Le posso assicurare che da quel giorno la paura che gli attori espressero davanti alla macchina da presa era reale. Nessuno si allontanava da solo, se poteva. Ma non accadde più nulla fino a un paio di giorni prima della fine della lavorazione, quando trovammo una comparsa chiusa nell'armadio delle attrezzature di scena. Era morta. "Anche quella volta Don Carlos aveva lasciato il set prima del solito. Chiamammo di nuovo la polizia e il sergente Del Valle mi disse che la tecnica usata dall'assassino era stata la stessa in entrambi gli omicidi: due minuscole ferite puntiformi sulla carotide, attraverso le quali il corpo delle vittime era stato completamente dissanguato. Ma non c'era sangue sul luogo del delitto, quando invece i cadaveri sarebbero dovuti essere immersi in un lago vermiglio! "'El vampiro!' esclamai, attirando l'attenzione di diversi macchinisti e assistenti di produzione. Ma il poliziotto mi lanciò un'occhiata di fuoco e mi disse di non dire stupidaggini. Forse erano stupidaggini per lui, ma non per gli abitanti del paesino del Messico in cui ero nato e cresciuto. In quel momento, ricordo, pensai che il sergente Del Valle non avrebbe mai risolto il caso finché non fosse riuscito ad affrontare quella terribile verità. "L'indomani mi alzai prima del solito, in modo da prendere un bus e arrivare alla biblioteca comunale prima che chiudesse. Consultai un testo di
medicina e scoprii che la porfiria è una rara malattia del sangue. Quella scoperta rafforzò la mia convinzione che Don Carlos fosse el monstruo. Poi, mentre tornavo a casa, meditai su quello che avrei dovuto fare e su come farlo. "Quando arrivai trovai un sacerdote ad aspettarmi, seduto sul divano del soggiorno: un omino anziano che mi si presentò come Padre Badelon e si profuse in scuse per aver convinto la mia padrona di casa a farlo entrare mentre io ero fuori. Non mi turbai nel vedere un ministro della chiesa, anche perché ero profondamente scosso dagli avvenimenti di quegli ultimi giorni. Mi avvicinai alla ghiacciaia per versarmi un po' di sangria, e ne offrii un bicchiere anche al padrecito. Lui scosse la testa e mi rispose che non poteva accettare: era venuto per parlarmi di una questione molto importante, mi spiegò con la sua vocina dolce, e si sentiva obbligato a restare sobrio. Aveva letto dei due omicidi accaduti durante le riprese del film e sospettava che fossero opera di una creatura soprannaturale. Ne aveva parlato con alcuni membri della troupe e uno di loro gli aveva detto di avermi sentito pronunciare la parola vampiro. Io gli confidai che credevo si trattasse del famoso Don Carlos Ribeira. Forse, suggerì il padrecito, Don Carlos non aveva lasciato la Spagna perché perseguitato dai fascisti, ma perché la sua sanguinaria attività notturna era stata scoperta. "'C'è un'infermiera insieme a lui' dissi io. "'Dev'essere un vampiro anche lei, mi hijo.' "Era la sola spiegazione possibile. L'anziano sacerdote e io concordammo di annientare insieme entrambe le creature. Fuori stava annottando. Uscii a tagliare due rami dal frassino che cresceva dietro il mio condominio; poi li sfrondai e li levigai, fino a ricavarne due paletti appuntiti: uno, quello più piccolo, lo nascosi in una borsa a tracolla insieme a un martello; l'altro, che misurava all'incirca due metri, l'avevo fatto con l'intento di usarlo per difendermi in caso il vampiro avesse tentato di aggredirmi. "Il padrecito mi disse che lui aveva nella borsa una bottiglietta di acqua santa. Così armati, andammo al negozio di frutta e verdura che sorgeva all'angolo di Alvarado Street e comprammo alcune testine d'aglio. Poi mi recai da solo a casa di Pedro, un mio amico; gli chiesi se potesse prestarmi la sua La Salle biposto così, se Don Carlos e Ilona avessero cercato di scappare con la Duesenberg, avremmo avuto la possibilità di inseguirli. Ma a Pedro non raccontai niente; gli dissi soltanto che quella era l'ultima notte di riprese e che, se avessimo finito presto, sarei rimasto bloccato allo studio, perché le corse dei bus cominciavano soltanto al mattino.
"Pedro fu felice di accontentarmi. In meno di un'ora, padre Badelon e io raggiungemmo il teatro di posa. Le riprese cominciarono tardi quella sera, perché erano rimaste soltanto poche sequenze da girare. Qualcuno aggrottò la fronte quando mi presentai sul set insieme al sacerdote, ma il padrecito si tenne in disparte e osservò da lontano i tecnici che montavano le luci e Rafael che impostava le scene. La notte trascorse senza incidenti. "Il party di fine lavoro fu un momento di festa per tutti a eccezione di me e di padre Badelon. Don Carlos si trattenne solo per poco, sempre in compagnia della fedele Ilona. Nessuno dei due bevve vino e se ne andarono molte ore prime che spuntasse l'alba. L'anziano sacerdote e io li seguimmo a ruota. "Gli operai stavano smontando il set, quando attraversammo il terreno degli esterni. Sentimmo scoppiettare il motore a dodici cilindri della Duesenberg e ci precipitammo verso la La Salle. Guidai a luci spente fino a quando varcammo i cancelli dello studio e la limousine nera del nostro primo attore non ci ebbe distanziato un po'. Il padrecito era piuttosto teso. Seguimmo la Duesenberg in direzione della Highland Avenue, poi da lì proseguimmo verso Hollywood. L'auto di Don Carlos svoltò a destra sull'Hollywood Boulevard, che era deserto e vagamente spettrale a quell'ora; erano le tre del mattino. Poco dopo piegò a sinistra sulla Fairfax e scese verso il ghetto degli europei dell'est. Probabilmente Ilona abitava lì, mi dissi, in mezzo a ungheresi, rumeni, polacchi, russi e bulgari; e quella brava gente certo non sospettava che fosse una creatura delle tenebre. Ma forse mi sbagliavo, pensai, quando vidi la Duesenberg svoltare davanti a un cimitero; forse esistevano molte creature come loro a Los Angeles, dato il numero crescente di europei che venivano negli Stati Uniti per lavorare nel mondo del cinema. Don Carlos allungò al guardiano notturno una banconota accartocciata, dopodiché la limousine entrò nel camposanto. "Accostai al cancello e spiegai al guardiano che c'era urgente bisogno di Don Carlos allo studio e che l'avevo visto entrare lì. 'Posso andarlo a chiamare?' gli chiesi. "L'uomo, temendo di perdere il posto o di rischiare qualcosa di peggio, ci lasciò passare. Spensi i fari della La Salle. La limousine nera ci precedeva solo di un centinaio di metri, quando all'improvviso si fermò. Il padrecito e io scendemmo e ci avvicinammo senza far rumore per vedere quali fossero le intenzioni di Don Carlos e della bella Ilona. "La Duesenberg era parcheggiata vicino a una fossa aperta. Un cumolo di terra torreggiava come una montagna accanto al rettangolo nero; imma-
gino che fosse previsto un funerale per la mattina successiva. Comunque fosse. Don Carlos estrasse dal sedile posteriore dell'auto una bara di legno e l'infermiera lo aiutò a trasportarla verso la fossa. Poi la calarono insieme all'interno della buca e cominciarono a spogliarsi. Devo ammettere che Ilona aveva un corpo stupendo e profondamente conturbante: i raggi della luna esaltavano i suoi fianchi rotondi, il seno pieno sopra il ventre piatto, e le sue labbra carnose e pallide. Don Carlos, invece, nascondeva le proprie nudità sotto l'ampio mantello, ma la cosa non mi interessava... Tu mi capisci, vero muchacha? "Cominciarono a fare l'amore nel modo più lussurioso, baciandosi selvaggiamente e toccandosi le rispettive parti intime. Se non fossi stato in compagnia di un prete, la loro passione avrebbe eccitato anche me. "Poi Don Carlos e Ilona scesero nella tomba e, dai gemiti e dai fruscii che provenivano dalla bara, era chiaro che stavano facendo l'amore nella terra consacrata del cimitero. "Inorridito da una simile profanazione, avanzai brandendo il palo più grande. Ero così furibondo che, nell'impeto dello slancio, per poco non caddi nella fossa anch'io. Vacillai alcuni istanti sull'orlo della buca, poi riuscii a recuperare l'equilibrio. Sotto di me, solo parzialmente celati dal lungo mantello nero, Don Carlos e la sua infermiera si stavano accoppiando sui cuscini di velluto della bara. "Il viso inebriato di piacere di Ilona si contrasse in un'espressione demoniaca, non appena mi vide al di sopra della spalla di Don Carlos che giaceva sopra di lei. "'Tu!' urlò sgranando gli occhi. "'Ammazzali!' gridò padre Badelon. — 'Ammazzali subito, prima che possano ucciderci!' "'Ay!' gridai io. Don Carlos si stava ancora muovendo ritmicamente sopra il corpo dell'infermiera, ma si voltò per vedere che cosa stesse succedendo. In quello stesso momento io abbassai con forza il palo che avevo ricavato dal ramo del frassino, divaricando le gambe per sfruttare tutto il peso del corpo e affondare il palo nella carne dei due mostri. Esso penetrò nella schiena di Don Carlos, gli trafisse il cuore e poi si conficcò nel morbido petto di Ilona. "Un enorme fiotto di sangue schizzò fuori dalla fossa, investendomi in pieno viso e infradiciandomi il cappotto. Poi, incurante delle loro urla strazianti, mi appoggiai alla pertica affinché i due vampiri non riuscissero ad estrarla dal loro cuore nero e non sopravvivessero all'impalamento.
"'Tiri fuori l'aglio e spruzzi sui corpi un po' di acqua benedetta, padrecito!' urlai, mentre Don Carlos e Ilona si dimenavano sotto i miei occhi in una orribile parodia dell'atto sessuale. 'Dobbiamo salvare l'anima di queste due povere creature!' "Ma padre Badelon non aveva con sé nemmeno una goccia di acqua benedetta. Saltò dentro la tomba e cominciò a tracannare il sangue che sgorgava dai due corpi martoriati: sembrava un bambino che si disseta alla fontana di un parco giochi. A mano a mano che beveva, i suoi capelli, candidi come la neve, si scurivano, e le rughe che gli solcavano la fronte si appianavano: in men che non si dica ringiovanì di una trentina d'anni sotto i miei occhi! "Quando ebbe trangugiato tutto il sangue, Badelon riemerse dalla tomba quasi volando. Dimostrava la metà degli anni che aveva poche ore prima, quando l'avevo conosciuto nel soggiorno del mio appartamento. "'Pensi davvero che fosse male quello che stavano facendo quei due nella fossa?' mi chiese. La sua voce, prima gentile e melodiosa, era diventata aspra e tagliente. 'Stavano soltanto celebrando il rito della decadenza. Adesso ti farò vedere io che cosa significa essere realmente malvagi!' "E mentre pronunciava quelle parole cominciò a trasformarsi: i suoi occhi si riempirono di luce infernale e, quando scoprì i denti, vidi che i due canini superiori si erano allungati, diventando aguzzi come quelli di un lupo. Adesso le sue mani erano due grinfie che si protendevano minacciosamente verso di me, e la sua veste talare si era trasformata nel piumaggio nero di un corvo. Poi quella creatura infernale scoppiò in una risata fragorosa, una risata che, ti assicuro, non era di questo mondo. Ay! Ero così spaventato che me la feci sotto, non mi vergogno a dirlo. "E mentre quella cosa che fino a pochi attimi prima era padrecito Badelon avanzava verso di me, cercai disperatamente di estrarre il palo di frassino dai corpi ancora caldi che giacevano nella fossa. Quel palo rappresentava la mia unica possibilità di salvezza e io lo sapevo. Oh, non potrò mai dimenticare l'orribile vista di quel vampiro che si stava avventando su di me. Ne sentivo già l'alito fetente di sangue appena rappreso!" A questo punto Esteban crolla sui cuscini e giace immobile. Per un attimo temo che sia morto davanti a me, stremato dallo sforzo di raccontarmi quell'incredibile storia. Ma, per fortuna, dopo alcuni istanti si muove e gira la testa tremante verso il vetro incrinato della finestra, verso la luna piena che risplende sopra Hollywood. Poi chiude gli occhi, come se rivedesse la scena che mi ha appena descritto.
Capisco che è ora di andare. Spengo il registratore. — Gracias — gli dico. — Le farò avere una copia dell'articolo. Ma mentre chiudo piano la porta della camera e mi avvio lungo il corridoio, immerso in una pallida luce verde, mi chiedo se scriverò mai quell'articolo. Quell'assurda storia del vampiro pregiudicava l'attendibilità di tutto il racconto. Do un'occhiata all'orologio e scopro che sono le dieci. L'orario di visita terminava alle otto e mezzo. Prima di uscire mi scuso con l'addetto per aver tenuto sveglio il signor Esteban fino a quell'ora. — Tanto non dorme mai di notte — mi risponde lui, un uomo tarchiato di mezza età. — Soffre di insonnia. Io annuisco con un cenno del capo ed esco. Il traffico è ancora intenso sulla Franklin Avenue, ma non ci sono pedoni in vista. Mi riprometto di arrivare fino all'Hollywood Boulevard, dove c'è un posteggio di taxi, ma la serata è così dolce che alla fine decido di proseguire a piedi. A Cahuenga mi fermo a un'edicola per guardare alcune riviste di cinema. Mentre do una scorsa alle copertine, mi domando se non dovrei comunque tentare di scrivere un articolo su Los Niños de la Noche, eliminando le parti più fantasiose per dare alla vicenda un'impronta più realistica. Ma quando un gruppetto di skinheads, pallidi come cenci e tutti vestiti di nero, mi supera, comincio quasi a credere che los vampiros esistano davvero: diaboliche creature delle tenebre che, al calar della notte, scivolano furtivi fra i palazzi di cemento di questa enorme città e infestano i set di Hollywood. Da qualche tempo, provo un piacere perverso nel camminare da sola di sera. Una ragazza di buona famiglia non dovrebbe fare cose simili, e forse è stupido che anche una giornalista auto-sufficiente si comporti in modo tanto imprudente. Ma i miei genitori mi hanno sempre talmente protetta che queste peregrinazioni solitarie mi procurano un piacevole brivido, al quale non so rinunciare. Acquisto una copia dell'ultimo numero di American Cinematographer, mi incammino verso De Longpre Street e da lì piego verso ovest, in direzione di casa. In lontananza vedo le luci intermittenti di alcune auto della polizia e un capannello di persone sul marciapiede. Forse stanno girando la sequenza di qualche film o telefilm, penso. Fantastico. Andrò a dare un'occhiata. Mi avvicino, ma solo per scoprire che non è come pensavo. È stato proprio commesso un reato, e io chiedo a qualcuno dei presenti se sa che cos'è successo. — C'è stato un omicidio — mi spiega una donna, indicando un palazzo. — Hanno ucciso una ragazza che abitava in quel condominio.
— È successo nel vicolo — aggiunge un signore anziano dal volto arcigno. — Ho sentito un poliziotto che diceva che è morta dissanguata. — Morta dissanguata? — faccio io. Ma, prima che io riesca a scoprire qualcosa di più, arriva un agente che ci invita ad allontanarci. — Andate a casa, gente. Lo spettacolo è finito. Mi rendo conto che ha ragione. La piccola folla si disperde e mentre mi avvio, affrettando il passo, non posso fare a meno di chiedermi se la ragazza è stata rinvenuta immersa in un lago rosso o se, come nella storia di Esteban Montoya, non è stata trovata neanche una stilla di sangue sul luogo del delitto. Do un'occhiata all'orologio e vedo che è quasi mezzanotte. Cerco un taxi, ma la De Longpre Street non è una strada molto frequentata e non ne vedo neanche uno. Forse dovrei raggiungere il Santa Monica Boulevard, che è più trafficato, oppure tornare indietro e chiedere a un poliziotto di darmi un passaggio. Mi volto a guardare e vedo una persona. Un uomo. Mi sta seguendo? Era uno dei curiosi che si è allontanato dalla scena del delitto insieme a me? Quando passa sotto un lampione vedo che è giovane: ventotto, trent'anni al massimo. Il suo viso non mi è nuovo ma, prima che io riesca a capire che cosa me lo rende familiare, ripiomba nell'ombra. Accelero. Dopo un po' i polpacci e le piante dei piedi cominciano a dolermi. Mi pento amaramente di non aver indossato un paio di scarpe più comode, ma non avevo previsto di camminare così a lungo. Per quanto possa essere stupido, il ricordo del racconto di Esteban mi fa uno strano effetto in quella strada deserta e a quell'ora di notte, soprattutto sapendo di avere un uomo alle spalle. Ma perché poi mi turba tanto? I miei genitori non mi hanno certo insegnato a essere una chola superstiziosa; hanno lasciato il quartiere messicano molti anni fa e hanno incominciato una vita nuova. Non ho mai messo piede nella zona orientale di L.A. in vita mia e non credo a nessuna delle leggende messicane sui fantasmi, come quella della llorona, la donna piangente che appare agli incroci delle strade; e ancor meno credo ai racconti di vampiri che frequentano gli studi cinematografici. Però vorrei tanto sapere com'è andata a finire la storia di Esteban. Ma certo! È quella la ragione per cui non riesco a togliermela dalla testa. Non mi ha detto se quella famosa notte di cinquantacinque anni fa riuscì a sfilare il palo con il quale aveva infilzato i corpi innocenti di Don Carlos e Ilona! E se Badelon avesse avuto la meglio? Mi volto a guardare e vedo che l'uomo sta per raggiungermi. Passa di nuovo sotto un lampione e, nel breve attimo in cui la luce giallastra gli il-
lumina il viso, io penso che forse... sì, forse lo conosco. Potrebbe essere Esteban, anche se ringiovanito di una cinquantina d'anni. E se avesse lasciato la sua stanza alla casa di riposo... magari attraverso una finestra? ("Tanto non dorme mai di notte. Soffre di insonnia.") Magari si stava aggirando per le strade di Hollywood mentre io ero ferma all'edicola a guardare le riviste... E dopo aver aggredito e ucciso la ragazza nel vicolo si è confuso con i curiosi perché la polizia non lo sospettasse... Era ringiovanito grazie al sangue ancora caldo bevuto un'ora prima... Poi mi aveva riconosciuta e aveva deciso che sarei stata un ottimo spuntino di mezzanotte. Oh mio Dio! Magari si era accorto di avermi detto troppe cose nello stato di prostrazione in cui si trovava e adesso mi stava inseguendo per impedirmi di rendere pubblica la sua storia!? Assurdo. Ridicolo, semplicemente ridicolo. Eppure mi metto a correre. Corro più forte che posso e il rumore dei miei tacchi sul marciapiede risuona nella strada buia, mentre dribblo ubriachi, barboni e punk. Corro finché resto senza fiato e i muscoli delle gambe mi fanno male. Corro finché mi sembra che il cuore stia per scoppiarmi. Corro, corro, corro. Corro fino a casa. Titolo originale: Los Niños de la Noche (1991) Mike Resnick UN PO' DI MUSICA NOTTURNA I Beatles? Sì, me li ricordo. Soprattutto il più piccolo del gruppo. Come si chiamava? Ah, sì, Ringo. Gli Stones? Certo che li ho scritturati. Quel Mick come-diavolo-sichiama era un tipo davvero strambo, lascia che te lo dica. Kiss, Led Zeppelin, The Who, Eddie and the Cruisers: ho scritturato anche loro, chi prima chi dopo. Ma con il passare del tempo li ho scordati tutti. Per la verità c'è un complesso che ricordo bene. E la cosa strana è che non è mai stato famoso. Mai sentito parlare di Vlad e le Impalatrici? No, non mi pare. Be', non è poi tanto strano. Nemmeno io li avevo mai sentiti nominare fino al giorno in cui Benny, che non è mio socio ma ogni tanto lavora con me, mi chiama per dirmi che ha scovato un nuovo gruppo
e mi chiede se non ho qualche buco da riempire. Io do un'occhiata al calendario, vedo che ho ancora un paio di esibizioni singole da sistemare e gli dico okay, mandami il loro agente che forse facciamo l'affare. Ma Benny mi informa che non hanno un agente, che questo Vlad si occupa lui di tutto. Be', se ti è mai capitato di dover trattare direttamente con uno di questi artisti, capirai bene perché non ero esattamente entusiasta all'idea di incontrarlo. Ma visto che il primo chitarrista dei Secchi di Sangue è stato arrestato per droga e non vedo nessuno che si precipiti a pagargli la cauzione, dico a Benny che ho mezz'ora libera alle tre del pomeriggio. — Niente da fare, Murray — mi risponde. — Questo qui è uno che dorme di giorno e vive di notte. — La maggior parte della gente che lavora in questo campo è così — dico io — ma le tre del pomeriggio sono quasi domani. — Che ne diresti di incontrarlo a cena, diciamo verso le sette? — Non se ne parla nemmeno. Questa sera ho un appuntamento bollente, mio caro. Mi sono appena comprato una nuova catena d'oro con relativo braccialetto, che dovrebbero far colpo sulla pollastrella e farla finire diritta nel mio letto. — Ma a questo Vlad non piace aspettare — dice Benny. — Be', se vuole una scrittura farà meglio a imparare ad aspettare. — Okay, okay, fammi dare un'occhiata ai suoi programmi. — Breve pausa di silenzio, poi Benny riprende: — Che ne diresti delle tre? — Ma non mi hai appena detto che per lui non va bene? — Intendevo le tre di notte. — Ma che cos'ha questo tizio, soffre di insonnia? — gli domando io. Ma poi mi ricordo della Mercedes 560 SL blu polvere, decappottabile, che ho visto l'altro giorno nella vetrina di un concessionario e penso chissà, magari il gruppo di questo Vlad mi fa guadagnare i soldi dell'anticipo; così alla fine dico d'accordo, vada per le tre di notte. Che poi, visto come è andata a finire la serata, avrei potuto incontrarlo tranquillamente alle sette, perché quella puttana invitata a cena mi ha rovesciato addosso un piatto di minestra calda e mi ha piantato in asso: e tutto questo soltanto perché cercavo di giocare un po' alla formichina sulla sua coscia! Torno in ufficio e mi sdraio sul divano per fare un pisolino; quando mi sveglio mi trovo davanti questo tizio tutto pelle e ossa, vestito di nero da capo a piedi, che mi fissa seduto su una sedia. La prima cosa che penso è che sia un drogato, perché ha le pupille dilatate ed è pallido come un cencio lavato; allora faccio un rapido calcolo dei contanti che ho in ufficio, ma
in quel momento lui china la testa e parla. — Buona sera, signor Barron — mi dice. — Avevamo un appuntamento, se non sbaglio. — Davvero? — Mi drizzo a sedere cercando di mettere a fuoco lo sconosciuto. — Il suo socio mi ha detto che ci saremmo incontrati qui — prosegue lui. — Sono Vlad. — Ah, già già — dico io, mentre a poco a poco la mente mi si schiarisce. — Lieto di fare la sua conoscenza, signor Barron. — Chiamami Murray. — Stringo la mano che mi porge: è gelida come un pesce morto e ne ha quasi la stessa consistenza. — Bene, Vlad — dico, ritraendo la mia appena posso e appoggiandomi allo schienale del divano. — Parlami un po' di te e del tuo gruppo. Dove avete suonato? — Per lo più oltreoceano — risponde lui, e in quel momento mi accorgo che in effetti parla con un leggero accento straniero, anche se non riesco a capire di che accento si tratti. — Be', niente di male in questo — commento io. — Alcuni dei complessi migliori sono nati a Liverpool. Per lo meno uno — aggiungo con una risatina. Vlad si limita a guardarmi senza sorridere, il che mi dà sui nervi, perché se c'è una cosa che non sopporto sono le persone prive di senso dell'umorismo. — Allora, pensa di scritturare il mio gruppo? — È per questo che sono qui, figliolo. — A poco a poco mi sono abituato ai suoi occhi e al suo pallore e comincio a rilassarmi. — Per combinazione hanno bisogno di un gruppo su una nave da crociera diretta ad Acapulco. Sei giorni e stop. Cinque centoni a sera e tutte le cameriere su cui riuscite a mettere le mani. — Gli sorrido di nuovo, in modo che capisca che ha a che fare con un uomo di mondo e non con uno stupidotto che non sa come vanno le cose. Ma Vlad scuote la testa. — Niente sull'acqua. — Soffri di mal di mare? — gli chiedo. — Qualcosa del genere. — Be' — faccio io, grattandomi la testa e poi assicurandomi che il mio parrucchino sia ancora a posto — cercano un complesso per un ricevimento nuziale. — Di che religione sono gli sposi? — Ma che differenza fa? Vogliono un gruppo rock, mica qualcuno che
gli suoni Hava Nagila. — Niente chiese — ribadisce Vlad caparbio. — Certo che per essere uno che cerca lavoro hai delle belle pretese, figliolo. Ma se vuoi lavorare con me devi almeno venirmi incontro a metà strada. — Suoneremo in qualsiasi posto che non sia una barca o una chiesa — mi dice. — Lavoriamo soltanto di notte e pretendiamo la più assoluta privacy durante il giorno. A quel punto capisco che sto perdendo il mio tempo e sto per indicargli la porta quando Vlad pronuncia le parole magiche: — Se è disposto ad accettare le nostre condizioni, a lei verrà il 50% degli incassi, anziché la sua solita provvigione. — Mio caro Vlad — dico. — Ho la sensazione che questo sarà l'inizio di una lunga e meravigliosa collaborazione! — Raggiungo il mobile bar, situato dietro la scrivania, e tiro fuori una bottiglia di champagne. — Vogliamo suggellare il nostro patto con un bel brindisi? — gli chiedo prendendo due bicchieri. — Non bevo... champagne — mi risponde. Io scrollo le spalle. — Okay, dimmi allora qual è il tuo veleno, figliolo. — Non bevo nemmeno veleno. — Okay, d'accordo. Ti va un Bloody Mary? Gli si illuminano gli occhi e Vlad si lecca le labbra. — Che cosa c'è dentro? — Stai scherzando, vero? — No, io non scherzo mai. — Vodka e succo di pomodoro. — Non bevo vodka e nemmeno succo di pomodoro. Comincio a pensare che di quel passo rimarremo lì tutta la notte a giocare a indovina-che-cosa-beve-questo-matto, così decido di lasciar perdere il brindisi e di passare ai fatti. Tiro fuori dal cassetto un contratto, lo compilo e gli chiedo di firmarlo. — Vlad Dracule — leggo, mentre scarabocchia il suo nome a piè pagina. — Dracule. Dracule. Questo nome non mi è nuovo. Mi guarda con improvviso interesse. — Davvero? — Già. — Sono sicuro che si sbaglia — mi dice e io mi accorgo che tutto a un tratto è diventato nervoso. — Non si chiamava Dracule anche il terzo basso dei Pirates negli anni
Sessanta? — Non saprei proprio. Dove e quando cominciamo? — Te lo saprò dire. Dove posso trovarti? — Forse è meglio che sia io a mettermi in contatto con lei. — D'accordo — accetto io. — Dammi un colpo di telefono domani mattina. — Non posso di mattina. — Okay, allora domani pomeriggio. — Scruto quei suoi strani occhi scuri e alla fine allargo le braccia e e mi arrendo. — Come vuoi tu. Ti lascio il mio biglietto da visita. — Annoto sul retro il mio numero di casa e glielo porgo. — Chiamami domani sera. Vlad prende il biglietto, poi gira sui tacchi e se ne va. Un attimo dopo mi viene in mente che non so nemmeno di quanti elementi è composto il suo gruppo e mi precipito fuori dall'ufficio per chiederglielo: ma quando mi affaccio sulla porta lui è già scomparso. Lo cerco in lungo e in largo, ma la sola cosa che vedo è un merlo nero entrato per sbaglio nel palazzo. Allora mi rassegno a ritornare nel mio ufficio e mi sdraio sul divano a ripensare alla mia cena andata a monte e a chiedermi se i miei riflessi non siano diventati un po' troppo lenti. Il giorno dopo le ragazze, per metà bianche e per metà di colore, di Orgoglio e Pregiudizio, la band che termina ogni performance con una scazzottata, vengono arrestate per reati sessuali e di punto in bianco mi trovo con un buco da riempire al Palace venerdì sera; così penso, diavolo, il cinquanta per cento degli incassi, e subito decido di farle rimpiazzare da Vlad e le Impalatrici. Un'ora prima che inizi lo spettacolo passo davanti al loro camerino e vedo il vecchio Vlad, magro come un'acciuga, circondato da tre pollastrelle in camicia da notte bianca; sta facendo un succhiotto sul collo a ciascuna di loro e io mi dico che, se tutte le sue stramberie si limitano a quello, è di gran lunga migliore di tutti i cantanti rock che ho conosciuto. — Come va carissimo? — gli chiedo varcando la soglia dello stanzino, e le ragazze si allontanano veloci come il vento. — Pronto a farli secchi con la tua musica? — Da morti non mi servono — risponde senza sorridere. Ne deduco che non è totalmente privo di senso dell'umorismo, anche se forse il suo humour è un tantino freddo, diciamo all'inglese. — Che cosa posso fare per lei, signor Barron? — Chiamami Murray — lo correggo. — Il tizio delle PR vuole sapere
quali sono gli ultimi posti in cui avete suonato. — Chicago, Kansas City e Denver. Io replico con una risatina affettata. — Perché, ci sono delle persone fra L.A. e la Grande Mela? — Be', per la verità meno di una volta — mi fa lui, frase che immagino voglia dire che ai suoi spettacoli non c'era mai il pienone. — Non preoccuparti, figliolo — lo rassicuro. — Vedrai che questa sera andrà benone. — Qualcuno bussa alla porta e io apro. È un ragazzo che regge in mano una lunga scatola piatta. — Che cos'è? — chiede Vlad, mentre io do al ragazzo qualche dollaro e gli faccio segno di andare. — Ho pensato che magari ti andava di mangiare qualcosa di energetico prima di cominciare a cantare, così ti ho ordinato una pizza. — Pizza? — fa lui, aggrottando la fronte. — Non l'ho mai mangiata. — Ma vuoi scherzare? — Gliel'ho già detto una volta: io non scherzo mai. — Osserva la scatola, poi mi chiede — Che cosa c'è dentro? — Il solito. — Che cosa significa il solito? — Salsiccia, formaggio, funghi, olive, cipolla, acciughe... — Signor Murray, lei ha avuto un pensiero davvero gentile, ma noi non... Mentre lui parla io annuso il profumo che esce dalla scatola. — E aglio — aggiungo. All'improvviso Vlad lancia un urlo e si copre il viso con le mani. — La porti via! — grida. Be', penso io, forse è allergico all'aglio, il che è una vera scalogna, perché che cos'è una pizza senza un po' d'aglio. Poi richiamo il ragazzo della pizzeria, gli dico di portarla indietro e di vedere se riesce a farmela rimborsare. Appena la pizza scompare dalla sua vista, Vlad si ricompone. In quel momento s'affaccia alla porta un addetto del Palace, per informarlo che mancano quarantacinque minuti all'inizio dello spettacolo. Allora gli chiedo se preferisce che me ne vada in modo che lui e le ragazze possano cambiarsi in santa pace. — Cambiarci? — mi chiede con sguardo interrogativo. — A meno che non abbiate intenzione di salire sul palcoscenico vestiti come siete... — Sì, proprio così. È quello che faremo.
— Ma Vlad, figliolo! — protesto io. — Voi non siete soltanto dei cantanti... siete qui per fare spettacolo. Dovete dare al pubblico qualcosa in cambio dei soldi che ha speso, e questo significa che dovete offrire loro qualcosa da vedere oltre che da sentire. — Ma nessuno ha mai avuto da ridire sul nostro abbigliamento finora. — Be', forse non a Chicago o a K.C., ma qui siamo a L.A.! — Nessuno ha mai protestato a Saigon, o a Beirut, o a Chernobyl o a Rampala — continua Vlad, aggrottando la fronte. — Non mi stupisce che siano di bocca buona in quelle città di contadini del Midwest — replico io, scrollando le spalle in segno di disprezzo. — Ma L.A. è un altro mondo. — Terremo gli abiti che abbiamo — sentenzia il ragazzo dopo un breve silenzio e mi fa capire, senza dirmelo, di accontentarmi dei soldi che intasco e di non farne un caso nazionale. Non mi resta che tornare in ufficio. Telefono a Denise, la tizia che mi ha rovesciato addosso la minestra; le dico che l'ho perdonata e le chiedo se è libera più tardi. Ma lei mi risponde che ha l'emicrania e in sottofondo sento l'emicrania che geme e le sussurra paroline dolci nell'orecchio; allora le dico tutto quello che penso delle puttane come lei, che cercano solo di farsi amici i più importanti agenti teatrali di Los Angeles. Dopo di che raggiungo la cabina di controllo e aspetto che la mia nuova star entri in scena. Una decina di minuti più tardi ecco Vlad che sale sul palcoscenico, tutto vestito di nero, come prima, con in più soltanto un lungo mantello, anch'esso nero. Lo seguono le tre impalatrici e perfino io, dal posto in cui mi trovo, mi accorgo che hanno esagerato sia con il rossetto sia con il cerone: hanno le labbra rosse come ciliegie e il viso così bianco che quasi non si distingue dalla stoffa delle camicie da notte. Vlad aspetta che cali il silenzio in sala, poi comincia a cantare. Non credo alle mie orecchie: ha intonato una specie di canzone rap e, quel che è peggio, sta cantando in una lingua sconosciuta, cosicché non si capisce una sola parola di quello che dice. Mi aspetto che il pubblico insorga da un momento all'altro e invece, quando mi volto a guardare, scopro che sono tutti tranquillamente seduti al loro posto. Ne deduco che sono soddisfatti, o così annoiati da non avere nemmeno la forza di protestare. E poi accade una cosa stranissima. In una strada vicina un cane si mette a ululare e, nel giro di pochi minuti, ai suoi latrati si aggiungono quelli di tutti i cani del quartiere; poi, come se non bastasse, alla sinfonia si unisce anche un gatto. Insomma, sembra il coro della vecchia fattoria; il concerto
continua per più di mezz'ora, fino a quando Vlad smette di cantare e si inchina per ricevere gli applausi. È un trionfo: i ragazzi balzano in piedi e lo sommergono di urla, applausi e fischi; e io, che ancora non ci credo, mi dico che forse è un'altra Liverpool. Mi precipito dietro le quinte per congratularmi con lui e lo trovo intento a fare succhioni sul collo di un paio di ragazze che sono riuscite a eludere il personale di sorveglianza. Be', se si accontenta di così poco... Alla fine Vlad si volta e mi dice: — Aspettiamo i nostri soldi prima di andarcene. — Niente da fare amico — lo deludo io. — Non avremo il conto pronto fino a domani mattina. Lui aggrotta la fronte, poi scrolla le spalle. — D'accordo — si rassegna. — Manderò uno dei miei soci al suo ufficio a ritirare la parte che ci spetta. — Come preferisci tu, figliolo. — Si chiama Renfield — riprende Vlad. — Non si faccia spaventare dal suo aspetto. Come se dopo vent'anni che scritturo cantanti rock mi lasciassi ancora intimorire dall'aspetto di chicchessia! — Bene — dico prima di accomiatarmi. — Allora lo aspetto, diciamo per le dieci, d'accordo? — D'accordo — risponde Vlad. — Un'ultima cosa. — Sì? — Quell'anello a forma di scarabeo che porta sul mignolo sinistro... — È bellissimo, non è vero? — faccio io ammirandolo. — Le consiglio vivamente di toglierlo e di nasconderlo nel cassetto prima dell'arrivo del signor Renfield. — Perché, è cleptomane? — Qualcosa del genere. — Grazie per il consiglio, figliolo. Mi avvio verso la porta quando entra nella stanza una ragazza delle poste che rovescia addosso a Vlad una valanga di telegrammi. — Che cosa significa? — Significa che sei una star! — Davvero? — mi fa incredulo. — Su, forza, leggili — lo incito io. Vlad apre il primo, dà una rapida occhiata al messaggio e, all'improvviso, lo lascia cadere per terra come se fosse una patata bollente. Poi si rintana in un angolo e comincia a sibilare come una gomma che si stia sgon-
fiando. — Ma che cosa ti prende? — gli chiedo, raccogliendo il telegramma. Leggo il testo: TI AMO E VOGLIO UN FIGLIO DA TE. XXX KATHY. — Le croci! — bisbiglia Vlad, palesemente terrorizzato. — Quali croci? — gli chiedo, cercando di capire che cosa diavolo lo turbi tanto. — In fondo — dice lui indicando il telegramma con un dito tremante. — Ma sono X! Stanno per BACI. — Ne è sicuro? — mi domanda, senza osare avvicinarsi. — A me sembrano croci. — Ma no — ribatto io estraendo una penna dalla tasca della giacca. — La croce è fatta così — e ne disegno una sul retro del telegramma. È come se avesse visto Belzebù in persona: Vlad lancia un urlo e si raggomitola in posizione fetale. Io non so più che cosa pensare: alla fine concludo che forse, nonostante le apparenze, non è che un ragazzino che ha ancora bisogno di farsi soffiare il naso dalla mamma; oppure, più semplicemente, non ha mai riscosso un simile successo e non sa bene come comportarsi. Bacio le tre ragazze (hanno le guance così fredde che prendo nota mentalmente di lamentarmi con il direttore per il riscaldamento) e me ne ritorno a casa, contando già i milioni che incasseremo nei prossimi due anni. L'indomani mattina Renfield si presenta puntualmente all'appuntamento e io mi chiedo perché mai Vlad fosse così preoccupato: paragonato alla maggior parte dei cantanti heavy metal con cui ho a che fare, non è che un omino mite e bruttarello. Chiacchieriamo un po' e scopro che ha la passione dell'entomologia; per la verità mi sembra di capire che sia più di un semplice hobby, perché quando parla di insetti il suo viso si illumina come un albero di Natale. Alla fine prende i soldi e se ne va. A quel punto mi dico che tutto sommato una Mercedes è troppo piccola e comincio a pensare seriamente all'idea di comprarmi una Rolls Royce Silver Spirit. Ma il fatto è che non vedrò mai più Vlad e le Impalatrici: le ragazze di Orgoglio e Pregiudizio sono uscite su cauzione, il rap dei Secchi di Sangue è decisamente migliore di quello di Vlad e, all'improvviso, l'unica cosa che mi resta da offrire alla mia nuova superstar è un'esecuzione singola organizzata da un gruppo religioso. Vlad rifiuta e quando gli telefono in albergo per spiegargli la nuova situazione scopro che se ne è andato senza lasciar detto dove fosse diretto. Seguo i suoi spostamenti attraverso Variety e Billboard per un anno inte-
ro e vedo che è tornato a esibirsi in città minori, come Soweto e Lusaka. Le ultime notizie che ho di lui sono che è diretto a Kuwait City. Chissà perché spreca così il suo talento. E pensare che insieme avremmo potuto fare i milioni a palate! Ma non ho mai capito i cantanti rock e Vlad era più difficile da capire degli altri. Be', adesso scusami, ma devo andare. Ho dato appuntamento a un nuovo gruppo per un'audizione e non voglio arrivare in ritardo. Si chiamano Igor e i Profanatori di Tombe e a quel che si dice in giro hanno talento, però sono un po' smorti. Ma, dico io, chissà? Alla fortuna bisogna lasciare sempre una finestra aperta. Titolo originale: A Little Nìght Music (1991) John Lutz IL SIGNOR LUCRADA Il signor Lucrada si sforzava in tutti i modi di apparire giovane. Avevo solo dieci anni eppure me ne ero accorto anch'io. Intendo dire: a Fort Lauderdale, su quella che papà chiama la Costa d'Oro della Florida, dove decine di milioni di persone vanno a vivere una volta andate in pensione, la gente accetta il fatto di invecchiare e non continua ad aggrapparsi con ogni mezzo a una giovinezza ormai lontana. La maggior parte, per lo meno. Invece il signor Lucrada, che ai miei occhi era molto vecchio, non solo si tingeva i capelli ma li portava scarmigliati come una rock star, indossava scarpe italiane a punta, vestiva di scuro e teneva sempre la camicia sbottonata, in modo che tutti potessero vedere la pesante catena d'oro che brillava fra i peli folti e grigi del petto. Aveva quelli che mia mamma definirebbe lineamenti regolari e, forse, in gioventù era stato anche un bell'uomo, ma adesso era vecchio; avrà avuto almeno cinquant'anni. Perciò non capivo perché mia sorella Madeline, che ne aveva soltanto sedici, lo guardasse con occhi tanto languidi soprattutto quando, alla sera, scendeva in piscina, con indosso una tutina da corsa così aderente da evidenziargli tutte le costole. Per la verità non si tuffava mai in acqua. Si limitava a passeggiare attorno alla piscina, in genere con un lungo asciugamano drappeggiato sulle spalle; talvolta salutava gli altri condomini con un cenno del capo, ma raramente si fermava a parlare con qualcuno. Guardava. Ecco quello che il signor Lucrada dava l'impressione di fare la maggior parte del tempo:
guardare. E non l'ho mai visto né in piscina né sulla spiaggia di giorno, sempre e soltanto di sera. All'inizio pensavo che fosse uno di quei vecchi che hanno paura del cancro alla pelle. Era l'ossessione di tutti gli abitanti del residence, e la piccola farmacia all'angolo faceva affari d'oro vendendo una crema schermante che aveva il potere di bloccare quelli che i nostri vicini chiamavano raggi mortali, come se fossimo stati sul set di Guerre Stellari anziché in Florida. Be', forse è il caso che mi presenti: mi chiamo Gordon Travers, ma per la maggior parte delle persone sono semplicemente Gordy. Lasciate che vi spieghi come andavano le cose l'anno scorso. Il mio papà aveva ricevuto una promozione e doveva viaggiare negli stati del sud-est per vendere macchinari per lavanderie: il che significava che tutta la famiglia doveva trasferirsi in Florida. Appena appresa la notizia, la mamma disse che non avremmo vissuto lì per sempre e papà aveva avuto un considerevole aumento di stipendio, quindi ci saremmo potuti permettere il lusso di affittare un appartamento in un complesso costruito a ridosso della spiaggia, con vista sul mare. Insomma, saremmo stati a faccia a faccia con i gabbiani. Il fatto che in Florida non ci saremmo stati per sempre era una cosa certa: la mamma soffriva di emicrania e, poiché non sopportava il sole, era costretta a trascorrere la maggior parte del tempo distesa in camera sua, con le tende tirate e la porta chiusa. Io non ero affatto contento di quel trasferimento. Non avremmo più avuto un cortile in cui giocare come ad Atlanta, e poi Madeline e io avremmo dovuto lasciare i nostri amici. Loro promettevano che ci avrebbero scritto, ma noi sapevamo che non era vero. Anche noi lo promettevamo, pur sapendo che non l'avremmo fatto. Avevo solo dieci anni, ma cominciavo già a capire come va il mondo. E cominciavo anche a capire che un sacco di cose apparentemente semplicissime erano in realtà le più complicate. Ma, come mamma e papà non finivano mai di ripeterci, in Florida avremmo potuto nuotare e stare in spiaggia dalla mattina alla sera, per tutta l'estate. E poi abitavamo a pochi chilometri da Fort Lauderdale, che era una grande città con un mucchio di cose da fare. Dopo tre o quattro mesi a papà avrebbero dovuto affidare quello che la mamma chiamava un ufficio fisso in qualche città del sud, magari perfino nella sede centrale della ditta, a Knoxville, dove ci saremmo stabiliti per qualche anno. Io non vedevo l'ora. Fin dal primo giorno mi sentii a disagio nel residence. Il palazzo era così alto da grattare il cielo nel vero senso della parola: aveva più di trenta piani
e la nostra unità (questa era la denominazione ufficiale) si trovava al ventottesimo. Ma io ho sempre pensato che la gente non sia fatta per abitare a simili altezze, e lì non mi sentivo a casa mia. Noi eravamo il 28-C e il signor Lucrada stava al 29-C, esattamente sopra di noi. Fa molto caldo d'estate ad Atlanta, ma vi assicuro che quando scoprii il caldo che fa in Florida rimasi davvero sconvolto. Grondavo di sudore pur restando fermo senza far niente! E oltre al caldo c'era la luce, una luce accecante che faceva apparire l'asfalto quasi bianco e mi faceva sentire come un insetto sotto una specie di lampada solare. Il giorno del trasloco Madeline e io tormentammo la mamma fino a quando non ci diede il permesso di andare in piscina. Dopo tutto, era l'argomento su cui aveva fatto più leva nel mese precedente per cercare di convincerci di quanto ci sarebbe piaciuta la Torre del Faro, nome che io trovavo altero ma adatto. Faceva pensare a una torre alta e chiara, come quelle delle fiabe; ogni tanto Madeline diceva di sentirsi come Rapunzel e voleva farsi crescere i capelli in modo che un giorno un principe potesse usarli a mo' di fune per arrampicarsi fino alla sua finestra. Madeline aveva i capelli biondi e tagliati così corti per l'estate che, quando fossero cresciuti abbastanza per lo scopo che si prefiggeva, papà sarebbe stato trasferito di nuovo. — Ma qui hanno tutti almeno cent'anni — esclamò mia sorella sbigottita, dopo che sia lei sia io avevamo provato il trampolino. Era molto elastico. Mi distesi sull'asciugamano accanto a lei e la osservai mentre si spalmava la crema. Era ancora piuttosto magra e non aveva molto seno. La cosa la preoccupava, ma la mamma le aveva detto di non farsene un cruccio: un giorno si sarebbe arrotondata anche lei. E poi, il mondo era pieno di uomini che preferivano le belle gambe ai seni generosi. Vidi papà sorridere dietro il giornale mentre mia madre pronunciava quelle parole, ma subito dopo mutò espressione e assunse uno sguardo preoccupato. Madeline stava crescendo troppo in fretta, lo sentii dire a mamma quella sera, e quella volta fu lei a sorridere. Per cui non mi sorprendeva affatto che a Madeline interessasse appurare quanti ragazzi vivessero alla Torre del Faro, e mi sembrò normale la sua delusione quando si rese conto che gli unici capelli che non fossero grigi o tinti di nero erano i miei e i suoi. Papà doveva lasciare la città il giorno successivo e quella sera noi tre, mamma, Madeline e io scendemmo in piscina come ricompensa del duro
lavoro di quella giornata. La piscina era quasi deserta e ci divertimmo un mondo. Madeline continuava a esercitarsi al trampolino per migliorare il suo tuffo a rondine; io usavo il grande scivolo che, dopo una sequenza di curve, mi catapultava in acqua, e la mamma stava distesa su uno dei lettini di legno su cui di giorno si prende il sole; io credo che si fosse addormentata, ma forse teneva soltanto gli occhi chiusi a causa di uno dei suoi mal di testa. — Dieci e lode — esclamò una voce, quando Madeline riemerse dall'acqua dopo l'ennesimo tuffo. La vidi fissare l'uomo magro e attempato che le stava sorridendo dal bordo della piscina. Aveva il viso magro e cordiale, perfino bello alla vaga luce riflessa dall'acqua. Sulle prime lo giudicai più giovane per via dell'abbronzatura e dei capelli neri. Ma quando lo guardai meglio mi accorsi che era vecchio: quei capelli non avevano niente a che vedere con la pelle coriacea e segnata del viso, e anche l'abbronzatura aveva una sfumatura arancione da farla sembrare artificiale. — Dieci e lode? — domandò Madeline con voce incerta, agitando i piedi per tenersi a galla. — Sì, era un tuffo perfetto. Sono un suo vicino. Benvenuta alla Torre del Faro. — Grazie — replicò mia sorella, ancora un po' confusa. L'uomo - il signor Lucrada, come scoprii più tardi - continuò a sorriderle; aveva i denti così bianchi e regolari che pensai subito che fossero finti, il che era una cosa normale lì alla Torre. Poi si tuffò nella parte più profonda della piscina, nuotò fino alla scala e risalì. Raggiunse il trampolino, rimase immobile alcuni istanti all'estremità dell'asse, poi spiccò un salto per darsi la spinta: restò sospeso in aria così tanto tempo che pensai che non sarebbe più sceso, dopo di che eseguì un tuffo a rondine così perfetto che quasi non sollevò spruzzi quando fendette l'acqua. Risalì sorridendo a Madeline, poi scomparve in direzione del palazzo, sfregandosi un asciugamano sul corpo. Penso che non abbia mai rivolto lo sguardo a me o alla mamma. E credo anche che quella sia stata l'unica occasione in cui l'ho visto in acqua: era chiaro che intendeva fare colpo su mia sorella. — È il tuo nuovo ragazzo? — le domandai sogghignando. Lei fece una smorfia e si immerse sott'acqua. Nel frattempo erano scese altre persone e si stavano presentando a mamma, che si era svegliata quando si era tuffato il nostro nuovo vicino.
— Quello era il signor Lucrada — la ragguagliò una signora dai capelli grigi, rigidi come setole. — È una persona affabile, ma molto riservata. Ed eccolo che ritorna, con in mano una Diet Coke acquistata al distributore automatico. Lucrada varcò il cancello della recinzione che circondava la piscina e si diresse verso la scura distesa della spiaggia. Aveva un modo di camminare molto aggraziato, come se non pesasse nulla. Il signor Lucrada, decisi in quel momento, mi dava i brividi. In effetti, mi aveva colpito a tal punto che l'indomani mattina mi affrettai a controllare, sulla targa affissa nell'atrio, quale fosse la sua unità. Fu così che scoprii che abitava esattamente sopra di noi. Fantastico! Dunque i rumori che sentivo di notte, strani colpi sul pavimento e una specie di fruscio, li produceva lui dal lato opposto del sottile soffitto della mia camera da letto. Di giorno invece, quando fuori faceva così caldo e c'era così tanta luce che perfino io stavo in casa a leggere un libro o a costruire un modellino d'automobile, al piano di sopra regnava il silenzio più assoluto. — Il signor Lucrada fa spesso le ore piccole — sentii un giorno la nostra dirimpettaia, la vecchia signora Frivogel, ragguagliare la mamma. — Mi ha raccontato che a volte gioca a carte con i suoi amici tutta la notte. È il suo unico vizio, dice lui. Una volta l'ho visto rientrare e parcheggiare l'auto in garage. Era quasi l'alba e mi ha fatto solo un cenno di saluto con la testa. Poveretto, era così stanco che non vedeva l'ora di buttarsi sul letto; riusciva a malapena a reggersi in piedi. "Buon giorno" gli faccio io, ma lui mi guarda senza parlare, così tirato in faccia che sembra la morte in persona. "Uno di questi giorni finirà per uccidersi a forza di passare le notti alzato a giocare a carte" gli dico, ma lui mi sorride e basta. Mah, agli uomini non si può mai dire niente a nessuna età, vero? Be', la cosa mi incuriosì e un pomeriggio scesi in garage per vedere che genere di macchina potesse guidare un tipo come lui. Non era un garage sotterraneo tradizionale, ma sotterraneo come li costruiscono in Florida, buio e tetro come una grotta. E anche freddo come una grotta. I muri di cemento e le rampe erano orientate in modo tale da non lasciar filtrare nemmeno un raggio del caldo sole pomeridiano, e l'unica luce era quella delle lampade del soffitto di cemento. Tutti i posti macchina erano delimitati da rettangoli di vernice gialla e numerati. In corrispondenza del numero 29-C era parcheggiata un'auto davvero fantastica. Non era una della grandi Lincoln o Cadillac che possiedono la maggior parte dei pensionati della Florida. A me piacciono mol-
to le auto e le conosco bene, ed ero rimasto molto colpito, appena arrivato, nel vedere che gli abitanti di Fort Lauderdale e dintorni amavano le macchine costose, lussuose e piene di cromature. Quella del signor Lucrada, invece, era una bassa, potente Corvette nera, con i vetri affumicati: l'auto che avrebbe potuto guidare uno dei filarini di mia sorella se mai se la fosse potuta permettere (per la verità Madeline non aveva nemmeno uno straccio di ragazzo lì in Florida, dove l'età media delle persone sembrava sopra i novant'anni). — Ti piace la mia macchina, Danny? — mi chiese una voce. Il mio cuore fece un triplo salto mortale e io mi voltai di scatto. Il signor Lucrada era in piedi accanto a me. Mi stava sorridendo nello stesso modo in cui aveva sorriso a Madeline in piscina. Era un sorriso al quale, per qualche strana ragione, era difficile sottrarsi. E per la prima volta sentii quell'odore che avrei sentito anche alcuni giorni più tardi: un odore sgradevole, come se il garage fosse sporco e umido. Solo che non lo era. Senza pensare fuggii a gambe levate. — Ma Danny, perché scappi? — esclamò il signor Lucrada. — Anche a me alla tua età piacevano le macchine. O almeno credo che questo fu quello che disse, perché io ero già in ascensore, appoggiato con tutto il mio peso sul bottone che comandava la chiusura delle porte. Quando arrivai a casa e raccontai a Madeline quello che era successo, lei mi guardò come se fossi matto. — Ma che cosa pensavi che ti avrebbe fatto? — mi domandò. — È... Be', è molto gentile. È un signore vecchia maniera. La reazione di mia sorella mi sorprese, perché solo poche sere prima lo avrebbe guardato come si guarda un pezzo di cacca. Ma nelle settimane seguenti mi accorsi che aveva cominciato a osservarlo con un'espressione completamente diversa: era la stessa espressione con cui l'avevo vista rimirare, sdraiata sul letto, il poster di Billy Idol, come se fosse un po' ubriaca, per intenderci. E alcune volte vidi il signor Lucrada risponderle con uno sguardo analogo, soltanto che nei suoi occhi leggevo qualcosa di diverso, qualcosa che mi faceva correre i brividi lungo la spina dorsale. Faceva così caldo quell'estate in Florida che di notte, quando la mamma (e il papà, se non era in viaggio) dormiva, Madeline e io scivolavamo fuori di nascosto, raggiungevamo la spiaggia e facevamo lunghe passeggiate sguazzando a piedi nudi nella risacca. La luce della luna era abbastanza
forte da impedirci di calpestare le panciute creature morte, simili a palloni mezzi sgonfi con un'infinità di stringhe, che le onde buttavano sulla battigia. La vecchia signora Frivogel ci aveva ammonito a non calpestarle, nemmeno i loro lunghi tentacoli. "Navi da guerra", le chiamava, e sosteneva che pizzicavano terribilmente se venivano in contatto con la pelle. Era una notte come tante e stavamo passeggiando con i piedi immersi nell'acqua e la testa china; nessuno di noi due vide il signor Lucrada fino a quando disse: — Bella nottata, eh? Ma non abbastanza buia da non essere visti. Madeline si fermò di colpo e sollevò il viso, soffocando un grido. Era davvero spaventata. Conoscevo quell'espressione: era come quando la mamma la sorprendeva a fare qualcosa di sbagliato e lei lo sapeva. Trovai la cosa strana, visto che mi aveva parlato del signor Lucrada come di un vecchio gentiluomo. E poi a lui che cosa interessava quel che faceva lei di notte? Comunque adesso era lì, secco come un'acciuga e più ridicolo che mai con quegli striminziti calzoncini neri che gli mettevano in evidenza le gambe rachitiche. La catena d'oro che portava al collo brillava alla luce della luna e, per la prima volta, mi accorsi che vi era appeso un pendaglio, una specie di stella racchiusa in un cerchio. Be', forse il signor Lucrada era ebreo, cosa del tutto normale in quella parte della Florida. Forse quella che avevo intravisto era la stella di Davide. — Sì, direi di sì — dissi in risposta alla sua osservazione. A dire la verità ero un po' spaventato anch'io. C'era qualcosa in quell'uomo... qualcosa che non mi convinceva e che mi faceva accapponare la pelle. — È un buon esercizio quello di camminare contro la resistenza dell'acqua — riprese lui con un sorriso che scintillò bianco e misterioso alla luce della luna. — È un ottimo sistema per irrobustire i muscoli. Ma ci sono casi in cui troppa resistenza può nuocere. All'improvviso Madeline fece dietro-front e si precipitò verso la torre alta e bianca del nostro condominio, lasciandomi di stucco. La guardai scomparire nella notte, con i lembi della camicia che svolazzavano, le gambe che sforbiciavano come impazzite e i talloni che sollevavano spruzzi di sabbia. Così mi ritrovai da solo al buio con il signor Lucrada. Il vento leggero che spirava dall'oceano rinforzò, arruffando i capelli neri dell'uomo. — Qualcosa deve aver spaventato tua sorella — disse. — Lei — replicai io. Subito dopo mi morsicai la lingua e rimpiansi di
non aver tenuto quella considerazione per me. — Io? — Sembrava genuinamente sbalordito. — Ma per quale motivo l'avrei spaventata? Se c'era una domanda a cui non volevo rispondere era proprio quella. — Sa che non dovrebbe essere qui fuori — dissi. — Se la mamma venisse a saperlo le prenderebbe un colpo. Forse è per questo. Lui mi guardò pensieroso e un po' divertito. — Forse hai ragione. Ma non dovete aver paura che io sveli il vostro segreto. Penso che dovremmo aver tutti diritto ad avere almeno un segreto. — Si piazzò i pugni sulle anche scheletriche e inspirò l'aria della notte. — Ti piacerebbe fare un giro sulla mia macchina una volta? — mi domandò. Devo ammettere che la cosa mi attirava, un po'. — Scommetto che va piuttosto forte. — Come un bolide — esclamò lui, poi rise. Aveva una risata strana: gentile, vecchia e stridula. Il silenzio della notte fu squarciato dall'urlo della sirena di una nave, lontana e sola, e io mi voltai a fissare le luci che si stagliavano contro l'orizzonte scuro. In quel momento sentii una strana folata di vento e vidi un'ombra sfiorare un vortice d'acqua. Mi girai per chiedere al signor Lucrada di che cosa si trattasse, ma lui era scomparso. E con la pelle abbronzata e il costume nero era impossibile vederlo sulla sabbia scura. La risacca risalì la battigia, divorando la sabbia fino a catturarmi le caviglie in un mulinello d'acqua: fece uno strano suono, simile a un sospiro, come se stesse cercando di svelarmi un segreto antico e importante. In quel momento fui assalito da un terrore cieco, proprio come era accaduto a Madeline poco prima, e mi lanciai di corsa verso il residence. Benché mi aspettassi di vedere comparire il signor Lucrada a ogni istante, riuscii in qualche modo a raggiungere l'ascensore e a salire fino al ventottesimo piano. Mentre mi precipitavo verso la porta della nostra unità, notai altre impronte bagnate oltre a quelle che stavo lasciando io, anche se più lievi. Dovevano essere quelle di Madeline, che non si erano ancora asciugate. Se una di quelle notti mamma o papà si fossero svegliati e avessero avuto la malaugurata idea di guardare fuori dalla porta ci avrebbero scoperti. Avevamo lasciato la porta aperta, in modo che bastasse ruotare la manopola per entrare; richiusi il battente dietro di me, premetti il pulsante della maniglia e misi la catena. Prima di scivolare in camera mia, decisi di controllare se Madeline si
fosse già addormentata. Volevo chiederle che cosa le fosse preso prima sulla spiaggia e dirle delle impronte che lasciavamo sulla moquette del corridoio ogni sera. La luce della luna che filtrava dalle finestre era sufficiente per illuminare i miei passi. La porta della camera da letto di mamma e papà era ancora chiusa. Papà era in viaggio, come al solito, e la mamma aveva preso una delle sue pillole contro il mal di testa, che la mettevano K.O. Perfetto. Attraversai il corridoio in punta dei piedi, oltrepassai la porta aperta del bagno e aprii quella della camera di Madeline. Chiamai piano il suo nome. Ma stava già dormendo: era sdraiata sopra le lenzuola chiare, con le braccia divaricate e il viso sereno. Fu allora che mi accorsi per la prima volta di quanto mia sorella fosse bella. Non più carina come una bambina, ma bella, come una donna. Quando feci per uscire dalla stanza notai che vi regnava un caldo insopportabile. Per forza, c'era la finestra spalancata! Si sentiva lo sciabordio delle onde che si infrangevano sulla spiaggia. L'aria calda e umida della notte aveva riempito la camera, che adesso puzzava di umidità e di sporco come il garage del condominio quel pomeriggio. Ma perché aveva aperto la finestra facendo uscire tutto il fresco dell'aria condizionata? Perfino papà ammetteva che d'estate il clima della Costa d'Oro era infernale. Ma non chiusi i vetri. Se Madeline voleva sudare come una mucca, affari suoi. Anche se, a essere sinceri, sembrava fresca come una rosa: non una sola stilla di sudore le imperlava la fronte e la sua pelle era liscia e asciutta come marmo. Il mattino successivo, mentre nuotavamo in piscina, mi allungai sulla schiena e rimasi alcuni minuti disteso a fare il morto; ne approfittai per controllare la finestra della sua camera: era chiusa. Le tende di casa nostra erano parzialmente aperte, per permettere alla luce di entrare; quelle del signor Lucrada, invece, erano tirate, come sempre. Voleva trovare l'ambiente fresco quando tornava a casa dai posti dove aveva avuto da fare, ci aveva spiegato un giorno la signora Frivogel. Madeline eseguì un magnifico tuffo a rondine e quando riemerse scrollò la testa, spruzzando tutt'attorno minuscole goccioline luminose, alcune delle quali mi colpirono come piccoli diamanti bagnati. — Come mai ieri notte ti sei tanto spaventata e sei corsa via come un fulmine, se pensi che quel Lucrada sia un tipo tanto eccezionale? — le chiesi. Madeline si tenne a galla agitando i piedi e mi guardò come se non ca-
pisse il significato delle mie parole. Poi mi mise una mano sulla fronte e disse: — Ma fatti una nuotata! — e mi spinse sott'acqua. Quando riemersi, urlando, tossendo e sputando cloro, lei si stava allontanando a rapide bracciate. Un paio di giorni più tardi, mentre mamma e papà stavano facendo colazione, prima che papà partisse per Jacksonville, sentii mia madre accennare al ritrovamento del corpo di una ragazza sulla spiaggia vicina a Pompano. — Era completamente dissanguata — furono le testuali parole di mamma — come se una creatura marina si fosse cibata di lei. Non ti sembra strano? Papà le rispose che stava cercando di mangiare le uova, grazie, e con quella frase pose fine alla conversazione. Ma io riuscii a scovare una copia del giornale di Fort Lauderdale in lavanderia e lessi l'articolo relativo all'insolito caso; i turisti che avevano rinvenuto la poveretta sulla battigia avevano dichiarato che era di un pallore spettrale. La polizia aveva avviato le indagini, concludeva il giornalista. Be', lo spero bene, pensai io. La vicenda della ragazza mi aveva messo sottosopra; pensavo a mia sorella. Non ero spaventato, ma provavo un sentimento che non riuscivo a capire. Forse era perché, nonostante l'abbronzatura, ultimamente mi sembrava pallida e malaticcia. E poi, ogni giorno che passava guardava con aria sempre più trasognata il signor Lucrada. Intendo dire, accidenti, doveva pur esserci qualcuno più adatto alla sua età a Fort Lauderdale! Un pomeriggio li scoprii giù in garage, semi-nascosti nell'ombra. Lui era chino su di lei, come se le stesse rivelando un segreto. Quando mi vide, al di sopra della sua spalla, si raddrizzò, si pulì la bocca e mi sorrise. — Gordy, figliolo, vieni qui. Ma io non accettai l'invito; anzi mi precipitai su per la rampa di cemento e riemersi al sole caldo e luminoso della Florida, dove, senza sapere perché, ero sicuro che lui non mi avrebbe seguito. Cominciai a guardare ogni edizione del telegiornale locale, nel caso ci fosse qualche novità sulla vicenda della ragazza trovata morta sulla spiaggia di Pompano. Ma nessuno ne parlava più; ovvio, erano passati alcuni giorni e ormai il caso non faceva più notizia. Tuttavia, una sera la mia attenzione fu attirata da un altro servizio giornalistico, che riguardava l'iniziativa di un gruppo di genitori che protestava contro l'influenza deleteria della musica rock. A un certo punto era apparso sul teleschermo il primo piano di un album, al centro del quale era disegnata una stella racchiusa da un cerchio: era identica al pendaglio che Lucrada portava appeso al collo.
Si trattava di un pentagramma, spiegò uno dei genitori, e veniva usato nel satanismo. Quando chiesi a mia madre che cosa fosse il satanismo, lei mi rispose che aveva a che vedere con la venerazione del diavolo o qualcosa di simile, poi disse che le stava scoppiando la testa dal male e Gordy per piacere esci e chiudi la porta. Quella sera, mentre mangiavamo una pietanza precotta che la mamma aveva estratto dal freezer e riscaldato nel forno a microonde, osservai mia sorella Madeline. Era una rompiscatole galattica, come la maggior parte delle sorelle maggiori, ma io le volevo bene e dovevo assolutamente fare qualcosa a proposito di quella storia con il signor Lucrada, che più passavano i giorni e meno mi piaceva. Così, quella sera stessa, dopo che lei si fu ritirata in camera sua, mi sedetti vicino alla mamma, che stava guardando l'ultima puntata videoregistrata di una soap opera, e le dissi che pensavo ci fosse qualcosa fra Madeline e il signor Lucrada. Lei bloccò di colpo il videoregistratore, così di colpo da spaventarmi. — Che cosa intendi dire, Gordy? Deglutii. — Be', passano un sacco di tempo insieme e... e basta. — Non potevo mica dirle che ero preoccupato per Madeline senza una ragione precisa! Lei tacque per un attimo, con il telecomando abbandonato sulle ginocchia. — Ma potrebbe essere suo padre, Gordy. — Forse anche suo nonno. Mamma scosse la testa con sguardo perplesso. — Non ci posso credere. Capii che non mi stava seguendo. Poi intuii quel che aveva in testa e, d'impulso, dissi: — Mi è sembrato di vederli che si baciavano giù in garage, un paio di giorni fa. Vi assicuro che i razzi che partono da Cape Canaveral non si staccano da terra con la stessa velocità con cui mia madre balzò in piedi. Il telecomando cadde sul tappeto. — Madeline! — Ehi, mamma, aspetta! Troppo tardi. Stava già divorando il corridoio su cui si affacciava la camera di mia sorella. Sembrava una velocista alle Olimpiadi. Non era quella la reazione su cui avevo fatto conto. E avevo già la sgradevole sensazione di aver combinato uno di quei guai per i quali non c'è rimedio. Urla infuriate e grida di protesta si protrassero per almeno un'ora nella stanza di Madeline. Quando finalmente uscì, sbattendo la porta, la mamma si premette le mani sul viso, poi si affrettò verso il soggiorno senza guar-
darmi. — Mamma... — Non adesso, Gordy. Devo telefonare a tuo padre e poi vado a distendermi. — Mamma... — Non adesso, ti ho detto! — e si allontanò stringendosi la testa fra le mani, come se avesse paura che le si staccasse dal collo. Quella sera non riuscii a prender sonno e rimasi a fissare il soffitto della mia stanza. Mi sforzavo di non pensare a quello che avevo fatto, e invece non riuscivo a pensare ad altro e non lo sopportavo. Non avevo previsto un simile terremoto, un cambiamento definitivo nel nostro piccolo mondo. Dopo la sfuriata della mamma, Madeline non aveva più osato mettere piede fuori dalla sua stanza. Guardai i numeri fosforescenti della radiosveglia: era da poco passata la mezzanotte, ma ero sicuro che lei fosse ancora desta. Scesi dal letto, mi infilai un paio di jeans e attraversai il corridoio in punta di piedi. Feci per bussare alla sua porta, poi mi trattenni: era meglio dare un'occhiata prima, in caso si fosse già addormentata; se bussavo e la svegliavo, succedeva il finimondo. Madeline era una ragazza, ma non era affatto da sottovalutare quando si arrabbiava e cominciava a menar le mani. Nel momento in cui ruotai il pomello udii uno strano fruscio, di cui non avrei saputo dire l'origine, ma che mi era familiare. Quando entrai nella stanza immersa nell'oscurità mi accorsi che la finestra era spalancata. Per un secondo ebbi la certezza di aver visto qualcosa. Una sagoma gigantesca, più nera del cielo nero, che si dilatava e saliva verso l'alto e poi volava lontano. Mi bloccai e rimasi a fissare il buio con gli occhi spalancati, domandandomi se fosse stata la mia vista a giocarmi un brutto scherzo. Adesso so che non è vero. — Madeline — sussurrai. Era sveglia, e aveva gli occhi sbarrati. La luce della luna si rifletteva in modo così sinistro nelle sue pupille chiare che rimasi paralizzato dalla paura. Mormorò qualcosa, poi, ghermendo il lenzuolo fra le dita che sembravano artigli, se lo tirò sopra la testa. — Madeline! Perdonami, Madeline, ti prego. Quando parlò di nuovo la sua voce mi giunse smorzata. — Vattene, Gordy! Vattene via! Disperato e impotente mi voltai per andarmene. Fu allora che vidi l'ombra sul muro. Un'ombra simile alla sagoma che
avevo visto stagliarsi contro il cielo buio pochi istanti prima. Ero così spaventato che mi sentii mancare il fiato: ciò nonostante mi girai a guardare. Non potevo farne a meno! Madeline era in piedi sul letto e mi fissava con occhi di fuoco. Sembrava più alta di quanto non fosse e continuava ad agitare le braccia, che si allungavano e si allungavano senza fine. Poi, all'improvviso, crollò seduta sul materasso. Nascose la testa fra le ginocchia e incominciò a singhiozzare e a invocare il mio nome. — Gordy, Gordy... — continuava a ripetere con voce così affranta che mi sentii rabbrividire. Non avevo previsto niente di simile ed ero amaramente pentito di aver parlato alla mamma del signor Lucrada. Lo dissi a Madeline e mi misi a piangere anch'io, lo ammetto. — Cosa fatta capo ha — sentenziò lei, continuando a tenere la testa bassa. Non sapendo che cos'altro fare, uscii dalla stanza e me ne tornai in camera mia, ma non riuscii a prendere sonno fino alle prime luci dell'alba. Papà ritornò il pomeriggio successivo, e lui e la mamma salirono immediatamente dal signor Lucrada per parlargli. Bussarono ripetutamente alla porta della sua unità, ma lui non rispose. L'indomani papà ci comunicò che aveva sentito dire che il signor Lucrada stava per trasferirsi e che il suo appartamento era già in vendita. Ecco fatto, commentò con aria sollevata. Sono sicuro che in quell'uomo ci fosse qualcosa che spaventava anche lui. — In fondo — disse — non abbiamo modo di dimostrare niente, ammesso che fra di loro ci sia stato veramente qualcosa. — Sorseggiò il suo caffè. — Vorrei soltanto che Madeline fosse più esplicita a questo riguardo. Dopo tutto ci deve una spiegazione. — Forse un giorno ci racconterà ogni cosa — replicò la mamma sfiorandogli il dorso della mano. Lui annuì. Quella risposta non gli piaceva, ma era costretto ad accettarla. Quel giorno capii che nella vita ci sono cose che uno deve accettare anche se non è d'accordo; fu sicuramente una dura lezione per me. Nessuno vide il signor Lucrada andarsene, ma due giorni dopo notai che le tende del suo appartamento erano aperte e che la Corvette nera non era più parcheggiata in garage. Restammo in Florida tutta l'estate, poi papà fu trasferito a Knoxville dove, secondo le intenzioni dei miei genitori, ci saremmo dovuti stabilire in
modo più o meno definitivo. Fu verso la fine di ottobre che lessi da qualche parte alcune notizie sui vampiri. Non mi era mai passato per la mente che una creatura simile potesse scegliere di vivere in un posto caldo e assolato come la Florida, ammesso che vivere sia il termine esatto. Ma a pensarci bene, perché no? La notte è notte dappertutto, e poi nessuno si sognerebbe mai di cercare un vampiro in un luogo di vacanze. Mickey Mouse sì, magari, ma certamente non un vampiro. Intendo dire, i vampiri non si crogiolano al sole, creme protettive o no. Ma di notte la caccia doveva essere abbondante, con tutti i turisti che passeggiavano sulle spiagge buie, e sopra il mare infinito il cielo in cui cercare scampo in caso di bisogno. E poi, naturalmente, c'era sempre la possibilità di procacciarsi il cibo vicino a casa. Madeline non fu più la stessa dopo quell'estate. E neppure io, dopo averle detto, una sera sulla spiaggia, quello che pensavo del signor Lucrada. Lei iniziò a piangere sommessamente, ma non negò la verità delle mie parole. — Oh Gordy, Gordy — disse, ripetendo il mio nome all'infinito, come quella notte nella sua camera, con la stessa voce triste. Poi protese le braccia verso di me e mi strinse forte a sé, senza smettere di piangere. Quella fu la prima volta che mia sorella mi baciò. Titolo originale: Mr. Lucrada (1991) John Gregory Betancourt PRIGIONIERA DEL TEMPO — Come va il lavoro? — Sto facendo una sciarpa per mio nipote. Con l'inverno che arriva, il piccolo Jamie ne avrà bisogno. — Ma sono anni che sferruzzi! — Credo che la finirò presto. Sì sì, credo proprio di sì. — Sss! — Digrignare di denti, drizzarsi d'orecchie. — Arriva qualcuno! — Sì? Una creatura giovane e dolce? È tanto tempo che... Il centro commerciale era chiuso. Lauren Mackie lo capì appena svoltò nel parcheggio e quella scoperta la mandò in bestia, perché significava che
qualcosa era andato storto nel complicato programma messo a punto per la giornata. In tutto l'enorme piazzale erano parcheggiate non più di una decina di macchine, e quasi tutte avevano l'aria di essere abbandonate. Ma dov'erano tutti quanti? I negozi dovevano aprire i battenti alle nove in punto, no? Lei non aveva tempo da perdere, per cui era meglio che fosse come pensava. Aveva programmato la sua vacanza fino all'ultimo minuto, e quel mattino doveva assolutamente comprare le tende nuove: anzi, per essere precisi doveva farlo entro le nove e un quarto. Le aveva già scelte sul catalogo di Stern, per cui sarebbe dovuta essere soltanto questione di prelevarle dall'espositore, sbattere sul banco la sua carta American Express Platinum per l'addebito e battere in rapida ritirata verso casa. Se non fosse rientrata in tempo, non sarebbe riuscita ad appenderle entro le nove e cinquantacinque; il che significava che non sarebbero state su per le dieci, ora in cui doveva arrivare il tappezziere a posare la nuova moquette; o per le dieci e tre quarti, quando sarebbero arrivati i mobili. Così tutto il suo programma sarebbe andato a carte quarantotto. E quello era soltanto il suo primo giorno di vacanza! Lauren viveva sempre con l'orologio alla mano. Le ci erano volute settimane per pianificare la ristrutturazione del pian terreno della sua casa, e adesso aveva tutto scritto, tutto programmato minuto per minuto, secondo per secondo. Il fatto di sapere quello che doveva fare, e quando, le procurava un profondo senso di appagamento... di intima soddisfazione, se non proprio di felicità. Continuando a brontolare, parcheggiò la sua Mercedes rossa accanto a una vecchia Buick, dopo di che scese e chiuse a chiave la portiera. Consultò l'orologio: le nove e tredici minuti. Era meglio che i negozi fossero aperti, altrimenti il direttore del centro l'avrebbe sentita. Era decisa a godersi quella vacanza e nessuno glielo avrebbe impedito. Aveva così poco tempo per sé! Mentre si avvicinava all'ingresso, con i tacchi alti che picchiettavano sul marciapiede e il vestito (un Sergio Valenti autentico) che le ondeggiava attorno alle caviglie, vide il cartello con l'indicazione dell'orario di apertura. Ancora quindici minuti da aspettare. Merda! Merda e ancora merda! Ma le porte non potevano essere chiuse a chiave, si disse. I dipendenti dovevano essere già entrati. Be', se proprio doveva, avrebbe almeno aspettato un quarto d'ora all'interno, no? Ma quando varcò le doppie porte a vetri, scoprì che il centro commerciale non era affatto deserto come sembrava. Le luci erano accese e dal fondo
giungevano le note di una vecchia canzone di protesta di Crosby, Stills & Nash, adattata per grande orchestra. Lauren si mise a canticchiarlo mentre si avviava verso il negozio di Stern. In fondo, una fontana rotonda di cemento spruzzava archi d'acqua alti sei metri: faretti di luce colorata davano vita a mutevoli arcobaleni di colore. Poi Lauren le vide, le panchine piene di vecchi. Il labbro superiore le si arricciò in una smorfia. Gente anziana che indossa abiti di fibra sintetica, quel genere di vestiti che si usavano fra la fine degli anni '60 e i primi anni 70. Quei colli enormi... quelle orribili macchie rosa e rosse che dovevano essere disegni... quei ridicoli scacchi gialli e verdi. Una vecchia signora di colore indossava una salopette verde pisello che per Lauren era oltre il livello dell'incubo. Un tizio macilento portava occhiali con lenti uso fondi di bottiglia, che resero enormi i suoi occhi quando li fissò su di lei. C'era chi trafficava con straccetti orribili, lavorandoli a maglia o all'uncinetto. C'era perfino chi aveva un'enorme borsa di paglia parcheggiata ai propri piedi. La stavano guardando tutti come se fosse un'intrusa. Lauren deglutì. Non le piacevano tutti quegli occhi puntati addosso. Si sentiva come una lombata di manzo, pronta a essere affettata. E invece aveva il sacrosanto diritto di essere lì, si disse, dandosi una rassicurante aggiustatina ai corti capelli biondi, tagliati all'ultima moda. Erano tutti vecchi. Vecchi decrepiti e anche rimbambiti, visto che se ne stavano lì a ciondolare già a quell'ora. Ma sant'Iddio, possibile che non avessero una casa dove stare? In quel momento Lauren udì il rumore delle porte alle sue spalle. Si girò e vide che un gruppetto di quattro o cinque uomini in età avanzata erano entrati dietro di lei. Avevano tutti un bastone che battevano ritmicamente sulle mattonelle del pavimento, come fanno i ciechi. Lauren si costrinse a voltarsi e a fissare la fontana. Se non li guardi non li vedi, si disse. Poi drizzò con fierezza la testa. Doveva fare come con i barboni che si incontravano in centro. Non guardare e sarà come se non ci fossero. Non c'è niente di brutto se non guardi. Le luci dei faretti cambiarono e l'acqua della fontana si colorò di rosso: ora sembrava una cascata di sangue senza fine. Lauren lanciò un'occhiata in direzione del negozio di Stern e, senza volerlo, incrociò lo sguardo di una di loro, una vecchietta con un'aria da nonna. Almeno aveva un aspetto migliore degli altri: indossava un prendisole, che in origine doveva essere stato giallo, e uno scialle rosa drappeggiato
sulle spalle; ai piedi aveva una borsa piena di lana. Portava occhiali bifocali con una sottile montatura d'oro e gli occhi avevano uno sguardo affamato e tristissimo. Lauren rabbrividì. Doveva passare davanti a quella donna; anzi, per essere più precisi, doveva passare in mezzo a due file di panchine di cemento piene di vecchietti, per raggiungere il negozio di Stern. Il pensiero di dover avvicinarsi così tanto a quelle persone le faceva accapponare la pelle. Ma era sempre stata così fiera della sua razionalità, e si disse che in fondo erano solo dei vecchietti venuti a passare il tempo al centro commerciale. Di che cosa doveva aver paura? Sì, avevano un certo non so che che faceva gelare il sangue nelle vene, ma di gente come loro ne vedeva tutti i giorni in città e non ci aveva mai fatto caso. Non rivolse lo sguardo a nessuno in particolare. Fece finta che non esistessero. O per meglio dire ci provò, perché mentre procedeva non poté fare a meno di notare che uno dopo l'altro i vecchietti stavano posando quello che avevano in mano, chi i ferri, chi una rivista, chi un romanzo dalla copertina consumata, e si stavano alzando faticosamente in piedi. La maggior parte si sorreggeva con l'aiuto del bastone. Chi non l'aveva si appoggiava al vicino più fortunato. Lauren accelerò il passo, cercando di fendere il loro assedio prima che qualcuno le si avvicinasse troppo. Sentiva già il loro odore: un vago olezzo di lillà sovrapposto a un altro, che sapeva di stoffa marcia. I vecchi erano tutti in piedi adesso e la stavano osservando. Lauren tenne gli occhi fissi sulle saracinesche ancora abbassate di Stern; si sentiva come uno scherzo di natura messo in mostra. Sapeva che era stupido, ma era così che si sentiva. I bastoni picchiettarono sul pavimento. I vecchi cominciarono a ondeggiare, riempiendo l'aria di odore di bagnoschiuma al lillà: troppo profumo, troppa acqua di colonia. Quando accadde, lei non se ne accorse. Un attimo prima stavano barcollando accanto alle panchine e un attimo dopo le erano addosso, spingendosi avanti come un'ondata di poliestere e di profumo, avventandosi su di lei a centinaia come uno sciame di farfalle su una fiamma. Lauren cercò di correre, ma loro la chiusero da ogni lato. Si trovò a girare come una trottola da una mano scheletrica all'altra, il cui tocco era come quello di una ragnatela. Via! Andate via! cercò di urlare, ma l'aria spessa e profumata di lillà le riempì la bocca e i polmoni, impedendo alla sua voce di uscire. Dei vecchi,
pensò, rendendosi conto dell'assurdità di quanto stava accadendo, dei vecchi con i vestiti sintetici stanno cercando di uccidermi. C'erano mani dappertutto: mani che la spingevano in migliaia di direzioni diverse, facendola ruotare su stessa come Dorothy nel Mago di Oz. Vide lo scintillìo di denti aguzzi e di occhi rossi come il fuoco, e pochi attimi prima di perdere i sensi fu sommersa da un coro di voci stridule come unghie su una lavagna. — È così bella... — Così morbida... — Sì, tanto, tantissimo... Alla fine, dopo che l'ebbero spogliata di tutto quello che aveva, Lauren si sentì straziata, ridotta a brandelli. E quando ebbero finito, quando lei ormai non era che un barattolo rovesciato, la lasciarono lì, distesa su una panchina, con il borsellino sotto la testa a mo' di cuscino. Le guardie del servizio di vigilanza del centro commerciale la trovarono subito. Quando Lauren aprì gli occhi le occorsero alcuni istanti per mettere a fuoco l'uomo in uniforme grigia che le stava gentilmente scuotendo una spalla. Era un ragazzo, non aveva più di diciotto o diciannove anni. Aveva un viso dolce e sfocato. Lauren sbatté la palpebre e subito dopo avvertì una fitta alla testa. Come avrebbe voluto essere a casa, nel suo letto! — Signora? Si sente bene? — le chiese la guardia. — Signora? — Sì... sì, direi di sì — mormorò Lauren. Si ricordò dell'appuntamento col tappezziere e il mobiliere. Guardò l'orologio, ma non riusciva a mettere a fuoco le lancette. Ma come mai si era addormentata lì? Possibile che fosse così stanca? — Ce la fa ad alzarsi in piedi? — le chiese la guardia. — Oh sì. Devo comprare delle tende — rispose lei — da Stern. — Per quello c'è tutto il tempo — disse il giovane, stringendole il gomito e aiutandola ad alzarsi. — Abbiamo un'infermeria qui. Perché non viene a stendersi un attimo mentre noi cerchiamo di procurarle un bicchiere di succo d'arancia? Ha saltato la colazione questa mattina? Si sente ancora debole? — Grazie — mormorò Lauren. Il mondo le sembrava lontano, attutito. Il tempo... qualcosa che aveva a che vedere con il tempo. Guardò il viso sorridente della guardia e sentì una specie di vuoto dietro lo sterno, dove prima avvertiva l'incalzare delle ore, dei giorni, dei minuti e dei secondi. Finalmente, anche lei riuscì a sorridergli.
Sì, aveva tempo. Tutto il tempo che voleva. E mentre la guardia la scortava verso l'infermeria, passando accanto alle panchine piene di vecchi con i vestiti sintetici, Lauren si chiese se non avrebbe fatto meglio a trascorrere quelle vacanze al mare. — Come va il lavoro? — Ho finito la sciarpa per mio nipote. Con l'inverno che arriva, il piccolo Jamie ne avrà bisogno. — Bene, bene. — Questa qui è per la mia nipotina. La farò rosa e gialla, una cosetta proprio carina. Ancora due giorni di lavoro secondo i miei programmi. Con questo ritmo, finirò tutti i lavori a maglia prima di Natale. In fondo, è solo questione di sapersi organizzare. — Quest'anno non li faccio io i miei regali di Natale. Ho cominciato a scrivere un elenco di cose da comperare da Stern. Avrò tutto il tempo necessario se programmerò gli acquisti in anticipo. — Oh... Che c'è? Digrignare di denti e drizzarsi di orecchie. — Arriva qualcuno! — Com'è dolce, quella giovane... Com'è dolce... Titolo originale: In the Cusp of the Hour (1991) Kristine Kathryn Rusch FIGLI DELLA NOTTE Cammie gli conficcò il bastone nel cuore. Accanto a lei, Whitney rimase immobile mentre il martello calava giù. Il vampiro emise un unico urlo: le braccia si agitavano convulsamente, le lunghe unghie graffiavano la bara. Sangue imbrattava le pareti dell'appartamento e del tappeto appena messo. Un tanfo fetido, quasi marcio, riempiva l'aria. La ragazza continuò a spingere finché la cosa di fronte a lei divenne solo pelle raggrinzita e ossa. Lasciò andare il bastone, si pulì le mani sui jeans e si voltò. La bambina sulla soglia della porta non aveva più di tre anni. I suoi occhioni azzurri dominavano quel visetto da cherubino. Prima guardò Cammie, poi dette un'occhiata alla stanza. — Papà? Anche Cammie ispezionò la stanza, ma non notò alcun segno di una presenza umana. Whitney guardò la bambina e si morsicò il labbro inferiore. La piccola attraversò di corsa il tappeto, senza che le sue scarpette di tela
lasciassero impronte sul pelo morbido. Si inginocchiò davanti alla bara, appoggiò la fronte al legno e bisbigliò: — Papà. — Il leggero sospiro di dolore fu più straziante di un lamento funebre. Il dottor Eliason portò la bambina - lei non aveva mai detto a Cammie il suo nome - nella sala degli esami. La piccola strinse convulsamente il cane di pezza e non si guardò indietro. Cammie scivolò sull'elegante poltrona blu. La sala d'attesa odorava di malattia, di caffè stantio e di antisettico. Lei si chiese come la segretaria potesse lavorare lì, giorno dopo giorno. Whitney studiò la rassegna delle riviste e alla fine afferrò una vecchia copia di Time. Sedette accanto a lei, sebbene nella sala non ci fossero altri pazienti e le poltrone fossero libere. — Il primo bambino, eh? Il sangue sui jeans di Cammie si era seccato e formava ora una crosta marrone. — Lei lo chiamava papà. — Probabilmente lo era. Grattò la macchia. Pezzetti di sangue secco le rimasero sotto le unghie. — Si è raggrinzito come se fosse vecchio di secoli. Non c'è modo di... — Cammie. — Il tono di Whitney era gentile. — È da un anno che lo stai facendo, no? Pertanto dovresti sapere che tutto ciò che supera i cinque anni si sgretola in quel modo. Probabilmente la piccola ha circa tre anni perciò, se lui ne aveva cinque, lei era stata concepita subito dopo, cosa del tutto plausibile; oppure lei era sua figlia tramite la banca dello sperma, e anche questo è plausibile. Oppure lui l'aveva rapita quando era neonata e questo sembra probabile. Cammie non rispose. Spazzolò la macchia di sangue, ma questa non si attenuò. Whitney le afferrò un braccio. La sua mano era calda. — Pensavo che sapessi tutte queste cose. — Come diavolo facevo a saperle? — Cammie si divincolò dalla stretta e si alzò in piedi. La segretaria dette un'occhiata oltre l'alta lastra di vetro che proteggeva la sua scrivania, poi guardò altrove. — Passo sei settimane per allenarmi al combattimento, ottengo la certificazione per le mie armi, imparo a evitare la conversione o la morte, ottengo un incarico e blam! eccomi in azione. Nessuno mi ha parlato dello stile di vita, o dei bambini o del tempo di decadimento. — Non ti avrebbero reclutato se tu non ne avessi avuto già conoscenza. Cammie incrociò le braccia e con lo sguardo percorse la rastrelliera delle riviste. Lei non ne sapeva niente. Era venuta direttamente dall'università
con una laurea in psicologia e un diploma in storia. Durante l'ultimo anno di frequenza, aveva trascorso due settimane a un seminario sui vampiri e alla fine li aveva liquidati come i drogati più alieni e irrecuperabili. Era andata a lavorare al Westrina Center proprio come molti dei suoi amici svolgevano l'internato nei centri di riabilitazione per gli alcolisti. L'unica differenza era che al Westrina avevano subito messo in chiaro che non esiste alcuna possibilità di riabilitare un vampiro. Lì, trattavano il vampirismo come la peste: sradicata soltanto dall'isolamento e dalla morte. Il centro aveva tentato la riabilitazione, venticinque anni prima, ma aveva fallito miseramente: in città la popolazione dei vampiri era quasi raddoppiata. La porta si aprì e il dottor Eliason uscì, tenendo la ragazzina per mano. Lei spostò il suo cagnolino di pezza a sinistra, premendone la testa di stoffa contro il cuore. Eliason le parlò dolcemente, le allontanò una ciocca di capelli dalla fronte e poi sorrise. Era un uomo alto, dalle spalle ampie, e possedeva la gentilezza che Cammie pensava dovessero avere tutti i medici. Lui le aveva chiesto di uscire un paio di volte, ma lei aveva rifiutato; non voleva poter scoprire che tanta gentilezza fosse falsa, solo una finzione a beneficio dei pazienti e niente di più. Il medico lasciò la bambina vicino alla porta e si avvicinò a Cammie. — È pulita — disse. — Non un segno su di lei. Il sangue è proprio il suo ed è libera da infezioni. È ben nutrita e accudita. Ora è in stato di shock. Potrebbe essere una dei fortunati. Non ha detto molto, pertanto può darsi che si dimentichi di tutto questo. Ma penso che sia necessario portarla subito al centro. Dovrebbero essere in grado di collocarla da qualche parte, prima che il dolore cominci per davvero. Le sue cose? — Aveva una stanza piena di oggetti — rispose Whitney. — Andate a prenderli — disse Eliason. Egli non stava guardando Whitney. Stava guardando Cammie. — La piccola ha bisogno di tutto quello che le può ricordare la propria casa. — Casa? — ripeté Cammie incredula. Un luogo che odorava di sangue marcio e pieno della presenza di un uomo che non era più umano. Era quella che Eliason stava chiamando casa? Le appoggiò il palmo della mano al viso. La donna resistette all'impulso di appoggiarsi a lui, di lasciare che la confortasse come lui aveva fatto con la bambina. — Casa, Camila — disse. — È tutto ciò che lei ha conosciuto. Whitney si chinò e le tese le mani. — Andiamo, cara — le sussurrò. — Ti porterò in un posto sicuro. — Si chiama Janie. — Eliason accarezzò la gota di Cammie.
— Janie — disse Whitney con le mani ancora protese. — Vieni con me. Janie gettò entrambe le braccia attorno al suo cane, appoggiò il mento sulla testa di stoffa e si spostò in avanti. Si avvicinò a Eliason, ma quando vide Cammie si allontanò velocemente verso la parte opposta della stanza. — È tutto a posto — disse Whitney. Janie continuò la sua corsa, lanciando qualche occhiata impaurita in direzione di Cammie. Quando raggiunse Whitney, nascose il visino nella manica dell'uomo. — Immagino che sia stata scelta tu per raccogliere le sue cose — disse Whitney. — Ci vediamo più tardi in ufficio. Cammie annuì, si allontanò da Eliason e uscì dalla stanza prima che l'uno o l'altro degli uomini potessero aggiungere altro. Lei non voleva la loro simpatia... e non sapeva perché si aspettava che gliela avrebbero provata. Prima non era mai tornata sulla scena di uno sradicamento. Le mani tremavano mentre armeggiava con la serratura. Era sempre entrata, aveva sempre trovato il vampiro addormentato e lo aveva ucciso prima che avesse la possibilità di toccare lei o chi l'accompagnava. Non guardava mai la casa, non redigeva mai i rapporti. Lei era sempre entrata, aveva conficcato il palo ed era uscita. Un giorno di lavoro in un mese pieno di scartoffie da compilare, di seminari d'aggiornamento e di tirocinio. Aveva ucciso soltanto cinque volte. Figuriamoci, alla sesta trovare una bambina. La porta si aprì facilmente, molto più facilmente di quanto ricordasse. L'odore - di sangue stantio e di decadimento - la colpì come uno schiaffo, risollevando quell'odio così familiare che rendeva l'uccisione una semplice componente del suo lavoro. Socchiuse gli occhi nell'oscurità. Dalle tendine abbassate non filtrava il sole, nessuna luce entrava dalle porte chiuse. Cammie soppresse un brivido e accese un interruttore. L'illuminazione artificiale rivelò una stanza così normale che Cammie quasi sobbalzò. Al centro troneggiava un televisore, circondato da un divano componibile marrone chiaro. Una bambola aveva la testa appoggiata a uno dei cuscini e una coperta da bambino era gettata con noncuranza a una estremità. Sulle pareti spiccavano molti libri e in sala da pranzo Cammie vide un costoso impianto stereo e centinaia di compact disc. Si chiese da dove provenisse il denaro per tutto ciò poi decise che non ci voleva pensare. Vagò per la cucina. Piattini da bambino ancora da lavare erano ammonticchiati in un angolo. Aprì la lavastoviglie e trovò altre scodelle per bambino e una serie di calici da vino. Dal bordo uscì dell'acqua fredda. Proba-
bilmente l'uomo aveva acceso la lavastoviglie proprio prima di andare a dormire. Sbatté la porta che emise un suono metallico. Era venuta per prendere i giocattoli e i vestiti. Le cose della bambina. Non era necessario che ficcasse il naso per tutta la casa. Evitando la stanza con la bara e i suoi resti, scese nell'atrio. Le tendine erano alzate nella stanza della bimba. Il sole illuminava un letto rosa a baldacchino. Animali di pezza erano appoggiati alle pareti e sul tappeto. Un giradischi spiccava nel mezzo del pavimento, il piatto girava ancora. Nessuna meraviglia che la piccola non li avesse sentiti arrivare. Stava suonando dei dischi e Cammie era stata troppo occupata per notare il rumore. Se il rumore c'era effettivamente stato. Agguantò una valigia che stava nell'armadio a muro e la riempì con alcuni vestitini spiegazzati, felpe e blue jeans. Rovesciò il cassetto della biancheria intima e dei calzini nella valigia poi aggiunse due confortevoli, caldi cappotti. La bambina, fisicamente, era stata ben accudita. L'odore stagnante le stava facendo salire un senso di nausea. Andò alla finestra, l'aprì e respirò avidamente la pungente aria esterna. Non avrebbe assunto più nessun incarico che coinvolgesse un bambino. Mai più. Come se lei avesse avuto una scelta. Nessuno l'aveva avvertita di questa. Prese la valigia e portò una bracciata di animali di pezza nell'automobile. Rientrò, afferrò la scatola dei giocattoli e la portò di sotto. Poi staccò la spina del giradischi, impacchettò i dischi e si fermò. La bambina non avrebbe voluto quel giocattolo. Le avrebbe ricordato la morte del padre. Ogni volta che avesse messo un disco sul piatto e udito il fruscio di una puntina, avrebbe rivisto suo padre divincolarsi mentre Cammie gli conficcava il palo nel cuore. Cammie si piegò in avanti e si portò le mani alle tempie, come se quell'azione potesse estirparle i pensieri dalla mente. Non aveva avuto intenzione di uccidere il padre di una bambina. Non aveva pensato affatto di uccidere una persona. Lei doveva uccidere un animale, una specie di predatore di vite umane che si nutriva del loro sangue come una bestia selvaggia. Non aveva immaginato... Lentamente, molto lentamente, si rialzò. Afferrò un sacchetto per l'immondizia, lo riempì con i restanti animali di stoffa ed entrò in cucina. Prese i piatti da bambino dalla lavastoviglie, li asciugò e li mise nel sacchetto. Poi passò nel soggiorno, prese la bambola e la sua copertina dal divano e lasciò la casa per l'ultima volta.
La luce solare sembrava più vivida di qualche minuto prima. Inspirò diverse volte per scacciare il fetore dalle proprie narici. I suoi indumenti avevano assorbito il cattivo odore e anche le cose della bambina puzzavano. Sarebbe stata felice quando se ne fosse liberata. Sarebbe stata felice quando tutta questa faccenda fosse finita. Quella notte Cammie sognò. Lei era distesa sul letto e stava leggendo. La proibita luce del sole le riscaldava i piedi e la schiena. Non osava fare nessun rumore. Papà stava dormendo. Odiava essere disturbato mentre dormiva, specialmente dopo una notte trascorsa fuori. Nell'altra stanza suo fratello si agitava nella culla. Non amava dormire durante il giorno, proprio come lei, ma papà aveva insistito. Così lui avrebbe potuto trascorrere più tempo con loro. Ma quello che lui chiamava tempo consisteva nel guardare la televisione, sorseggiando vino e aspettando il momento di uscire di notte a procurarsi il cibo. Tornava sempre con delle provviste e cucinava per loro la cena, ma lui non mangiava mai. Una volta gli aveva chiesto perché non gli piacesse il cibo. Lui aveva sorriso e aveva risposto che a lui bastava il vino. Si svegliò di scatto e si mise a sedere sul letto, stringendosi nelle braccia. Il cuore pulsava come se si fosse risvegliata da un incubo, ma il sogno in se stesso non aveva niente di terrorizzante. Lei ne conosceva perfino la causa... il vampiro e la sua figlioletta. Si alzò e camminò scalza sul parquet polveroso del suo appartamento. Non veniva pagata abbastanza per il lavoro che faceva; non quando i vampiri avevano case lussuose, piene di mobilio costoso, stereo e televisori. L'orologio digitale segnava le 3.45, pertanto non si preoccupò nemmeno di accendere il suo televisorino in bianco e nero. Lei non possedeva la tv via cavo e a quell'ora della notte nessun altro canale trasmetteva. Girellò nelle sue tre stanze, toccando l'aglio e le croci che, dietro insistenza del Westrina Center, aveva messo in casa. Per sua protezione, proprio come la proteggeva il sistema di sicurezza che avevano installato. Era più al sicuro di quanto non fosse mai stata nella sua vita e tuttavia il suo cuore batteva di paura per essere la figlia di un vampiro. Entrò in cucina, prese una tazza dallo scaffale, aprì una scatola di tè e riempì il bollitore sulla stufa. Poi scelse un libro dalla pila sul tavolo, qualcosa per occupare la mente. Qualcosa di diverso dalla sua vita. Qualcosa che la intrattenesse finché non fosse sorto il sole... e potesse dormire nella sicurezza e nel calore della luce.
La sala di osservazione era piccola e scura. Cammie intrecciò le mani dietro la schiena e rifiutò la sedia che Anita le offriva. Anita adagiò la sua ragguardevole struttura nella poltrona e si sporse in avanti, piazzando i gomiti sul bordo della finestra di osservazione. L'anziana donna dava l'idea di una matrona perfettamente a suo agio. Cammie aveva sempre pensato a lei come all'immagine della perfetta madre - così perfetta che a volte Cammie desiderava che l'abbracciasse e le scacciasse tutte le sue paure. Ma non si erano mai toccate. La loro relazione di lavoro era sempre stata strettamente professionale e tra loro non si era sviluppata nemmeno un'amicizia. — Ha chiesto di un giradischi — disse Anita fissando in basso, attraverso la finestra, la stanza illuminata a giorno. — Immagino che tu l'abbia lasciato in casa sua. — Lei lo stava ascoltando quando siamo arrivati noi. Pensavo che sarebbe stato doloroso rivederlo. — Ho mandato Whitney a prenderlo, ma avevano già sigillato la casa. — Anita si appoggiò allo schienale e il volto le rimase in ombra. — Non si può prevedere il dolore di un'altra persona. — Ma... — I ma non servono. Io ho visto tre generazioni di bambini passare da questo luogo. Noi abbiamo il dovere di aiutarli con ogni mezzo possibile. — Mi dispiace. Anita annuì silenziosamente. — Così va meglio. Voglio che tu ottenga il permesso della corte e ti muova attraverso corsie preferenziali. Il giradischi deve essere qui entro oggi pomeriggio. Cammie agitò i pugni. — È per questo che mi hai fatta venire quassù? — No. — Anita indicò la sedia con la mano. — Siediti. Cammie non si mosse. — Siediti. Non puoi vedere da quell'altezza. Cammie raddrizzò le spalle e rilasciò i pugni. Afferrò lo schienale della sedia e se la tirò sotto, sedendovi poi ma senza appoggiarsi. — D'accordo. Anita si sporse nuovamente in avanti. Nella stanza più in basso, Janie stava impilando i suoi animali di pezza, quasi a volere formare un muro protettivo attorno a sé. — Whitney mi ha riferito che tu non sai niente dei vampiri e dei bambini. — So che i vampiri femmine si nutrono principalmente di infanti e di bambini sotto i cinque anni.
— E i vampiri maschi? — Uccidono gli uomini, essenzialmente, e occasionalmente creano un vampiro femmina. — Ma cosa fanno i vampiri maschi con i bambini? — Come diavolo faccio a saperlo? — Cammie calciò il muro e spinse via la sua sedia. Janie alzò lo sguardo con un'espressione spaventata. — Questa stanza non è completamente insonorizzata — disse Anita. — Ti può sentire quando picchi sul muro. Non voglio che si spaventi più di quanto non lo sia già. — Mi dispiace — disse Cammie senza sentirsi affatto spiacente. La bambina aveva vissuto con un vampiro. Cammie l'aveva liberata, l'aveva salvata e tutti al centro si comportavano come se la piccola avesse subito una tragedia. — Durante i primi trent'anni della vita di un vampiro maschio — continuò Anita come se Cammie non l'avesse interrotta — egli cerca insistentemente compagnia. Dapprima cerca di creare un vampiro femmina e, se ciò fallisce, adotta dei bambini. Talvolta può anche procrearli, specialmente se ci prova durante il primo anno. Quanto più la sua assuefazione cresce e la sua umanità diminuisce, abbandona i bambini sempre più spesso e alla fine li usa come prede o se ne serve per creare nuovi e più potenti vampiri. Capisci cosa ti voglio dire? — Mi stai dicendo che io ho fatto la cosa giusta. — No. — Anita appoggiò la mano al vetro, come se cercasse di toccare la bambina. — Ti sto dicendo che con la tua azione, ieri hai spezzato una relazione. Il vampiro era ancora tanto giovane da amare questa ragazzina e da trattarla come una figlia. Lei ha perso suo padre... — Stronzate. — Cammie sussurrò la parola poi la ripeté ad alta voce. — Stronzate. Siete voi che mi avete mandato là. Voi mi avete detto di uccidere il vampiro. — Esatto — disse Anita. — E adesso ti sto mostrando le conseguenze della tua azione. Cammie strinse nuovamente i pugni, desiderando quasi di avere un bastone da conficcare nel cuore di Anita. — Perché? Anita si sporse verso di lei, quasi a volerla toccare, e Cammie indietreggiò. — Perché è necessario che tu lo veda — disse Anita. — E che te ne ricordi. Fermalo!
Cammie sapeva che la voce apparteneva al suo sogno, ma non riusciva a svegliarsi. Poteva vedere il grigio-notte della sua stanza da letto e, sopra di essa, la stanza del suo sogno piena di luce solare proibita. La voce proveniva dall'ingresso: una voce maschile, profonda e rabbiosa. Fermalo! Aveva in braccio un bambino, un ragazzino che lei teneva stretto su una spalla e che le premeva il visetto contro la pelle, per soffocare le proprie lacrime. Lei era sdraiata da sola nella sicurezza del suo letto, conscia che quello che stava provando non era reale. Fermalo adesso! — Su su, Ben, calma — sussurrò in entrambi i mondi. — Non vuoi che lui salga, vero? Per piacere, taci. Ti prego. Il ragazzino tirò su col naso poi non disse più nulla. Nel grigio-notte del suo letto, lei si strinse le coperte al petto e desiderò che la paura l'abbandonasse. La pressione di un corpicino di bambino si formò, poi svanì nel nulla. Era completamente sola. Né sogni, né fantasmi. Soltanto lei. Si alzò e andò in cucina. Senza accendere la luce, si preparò una tazza di tè e sedette a tavola. Le notti diventavano sempre più lunghe. E ogni notte era accompagnata da sogni e da fantasmi di vampiri e bambini. Aveva chiesto a Whitney di controllare se nella famiglia di Janie ci fosse un fratellino. Non ce n'erano. Il bambino era un'aggiunta del suo subconscio, un altro bambino da proteggere, un bambino che non era lei stessa. Ma lei non voleva proteggere nessuno. Voleva ritornare al proprio lavoro, andare a lavorare senza vedere il visino della bambina il cui padre lei aveva ucciso o l'inesistente faccia impaurita di un bambino che, nei suoi sogni, aveva bisogno della sua forza. Cinque bambini vivevano nell'ala infantile del centro. Lei aveva sempre creduto che quel reparto ospitasse bambini morsi dai vampiri o le cui famiglie erano morte per mano dei vampiri. Non si era mai resa conto che la maggior parte dei bambini aveva perso il proprio padre a causa di azioni del Westrina Center stesso. Cammie si incamminò lungo il corridoio, le scarpe dalle suole di gomma scricchiolavano sulle piastrelle lucide. L'alto volume di un televisore rimbombava dalla stanza dei giochi. Un bambino gli era seduto davanti, con le braccia conserte, gli occhi fissi nel nulla. Altri due bambini sedevano nella stanza del sole e fissavano la luce. Ma Janie era nella sua stanza con gli animali di pezza che la circondavano come un piccolo esercito. Cammie
prese una sedia e sedette nell'angolo opposto a Janie. Gli occhi della bimba si spalancarono, ma lei non si mosse. Cammie si avvicinò. — Ciao — le disse. — Io voglio... Janie urlò. Si strinse tutti gli animali contro il corpo e gridò con quanto fiato aveva in gola. Cammie si alzò. Riuscì a distinguere i passi frettolosi di una persona che si stava avvicinando lungo il corridoio. — È tutto a posto — disse, ma le parole tradivano una nota stonata. — Io... Le urla di Janie risuonarono nel corridoio. Anita e due inservienti apparvero alla porta. — Cosa stai facendo qui? — le chiese Anita seccata. Cammie non rispose. Fissava il terrore dipinto sul volto della bambina, le piccole braccia protese per difendere le ultime cose di valore che rappresentavano il suo mondo. — Mi dispiace — bisbigliò Cammie e corse fuori dalla stanza. Si fermò davanti al banco vuoto della reception e respirò profondamente. Voleva semplicemente parlare alla bambina, scusarsi e forse guadagnarsi un po' di comprensione. La comprensione se l'era guadagnata - ma non si era aspettata quel costo. — Cosa diavolo stavi facendo? — le chiese Anita. Cammie sollevò lo sguardo. Anita le era al fianco, le braccia incrociate, lo sguardo matronale completamente svanito. — Tutto a posto? — Ho chiesto a uno degli inservienti di stare con lei e ho mandato a chiamare il dottor Eliason poiché è l'unico di cui si fida. — La faccia di Anita era paonazza. — Non lo capisci? Lei odia le donne. Suo padre le ha insegnato che le donne sono pericolose e tu glielo hai dimostrato uccidendoglielo. Cosa stavi cercando di fare? — Io stavo cercando di... — Cammie si interruppe. Non sapeva spiegarlo: né il sogno né tantomeno il desiderio di scacciarsi Janie dalla mente. — ...di parlarle. — Capisco. Ma non devi farlo — replicò Anita. — Domani avrai un altro sradicamento e voglio che tu ti concentri su quello, non su una bambina la cui vita non ti riguarda più. E non voglio nemmeno più rivederti in quest'ala. Capito? Cammie annuì. Le voltò la schiena e uscì dalla porta. Il sole era piacevole contro la pelle e leggermente anestetizzante. L'immagine del sogno. Cercò di rimuoverla, ma non ci riuscì. Si voltò a guardare Anita giusto in tempo per scorgere Eliason attraversare la porta. Strinse i pugni e si appoggiò alla piccola quercia attorno alla quale avevano costruito il marciapiedi. Poteva parlare con Eliason. Lo avrebbe aspettato.
Il sole era quasi tramontato quando, finalmente, egli emerse dall'edificio. Cammie si alzò in piedi, si pulì i jeans e lo chiamò. Egli guardò nella direzione della voce. Lei tornò a portarsi le braccia intorno al petto in attesa di un'altra accusa, come quella ricevuta da Anita, ma l'uomo non le disse niente mentre camminava nella sua direzione. Le prese la mano. — Sei intirizzita — osservò. — Andiamo a prenderci un caffè. Non obiettò. Andarono in una piccola caffetteria vicino al centro. Il locale era piccolo e odorava di caffè europeo e di crostata appena sfornata. Eliason condusse Cammie a un tavolino appartato. — Sta meglio? — gli chiese Cammie. Eliason si strinse nelle spalle. — Non so proprio cosa sia meglio in questo caso. Tecnicamente lei stava meglio quando suo padre era vivo. — Anche tu lo credi? — Cammie si spinse vicino al tavolo. Eliason le prese un polso. — Lui l'avrebbe iniziata alla sua stessa pratica. Lo fanno sempre. Te la stai prendendo veramente troppo, Cammie. — Nessuno mi ha mai avvisato dei bambini. — Nessuno pensava di doverlo fare. Lo guardò dritto negli occhi. La cameriera appoggiò sul tavolo due tazze di caffè fumante. Eliason prese la sua, vi versò latte e zucchero e cominciò a mescolare come se niente fosse. — Tu non conosci la storia del Westrina Center, vero? — le chiese. — È qui da sempre e quindici anni fa ha cambiato edificio, dopo che è stato varato questo programma di riabilitazione. — Grazioso, raccolto, basso, sembra proprio uscito da un manuale. E ti sei mai chiesta come mai si addestrano tante persone come te? — Perché ci sono molti vampiri. Eliason sorrise e sorseggiò il suo caffè. — Non ce ne sono poi così tanti. — Ce l'hanno già detto quando abbiamo cominciato. Molti lasciano in fretta. Le persone durano al massimo tre anni. — E tu lo stai facendo da quando? Due anni? — Uno soltanto. — Quando sono cominciati i sogni? Cammie sobbalzò. Eliason la fissava. I suoi occhi erano marrone scuro, ma lei non lo aveva mai notato prima. — Sono io quella che ha la laurea in
psicologia — disse lei. — Ma non la usi mai. Janie non possiede le risposte che stai cercando. Anche lei dovrà cercare da sola quando sarà pronta. Al contrario, tu sai già come cercare. Cammie sentì il rossore salirle alle guance. Non le era venuto in mente di poter nuocere alla bambina, ma Eliason aveva ragione. Non aveva pensato a nessuno se non a se stessa. — Perché mi hai chiesto se conoscevo la storia del centro? — Perché — rispose — circa venticinque anni fa, quando il programma di riabilitazione fallì, molti consiglieri diventarono vampiri essi stessi. Troppi vampiri da neutralizzare in un periodo di tempo così breve. Gli addetti lavoravano per cercare di contenere la minaccia di un'ulteriore espansione e non si occuparono dei vampiri che già esistevano. Questi vivevano raggruppati in un intero settore della città, ma nessuno andò là, nessuno venne via da là, nemmeno i bambini che vivevano con i vampiri, come faceva Janie. Mi capisci? — Non completamente. — Il caffè agitò lo stomaco di Cammie. — I bambini dovevano badare a se stessi da soli? Eliason annuì, poi diede un'occhiata all'orologio. — Ho un appuntamento. Non tormentarti così duramente, Cammie. E se avrai bisogno di me, potremo ancora parlarne insieme. Ti aiuterò come meglio posso. — Lasciò qualche moneta sul tavolo, si alzò e le diede un bacio sulla guancia. Cammie soppresse l'impulso di afferrarlo per la manica e di trattenerlo. Si sentiva come se avessero parlato di cose che lei aveva quasi capito. Sorseggiò un altro po' di caffè e vide un vecchio edificio svettare, indesiderato, nella sua mente. Il vecchio Westrina Center. Forse le risposte alle domande che lei non conosceva nemmeno l'aspettavano là. Cammie fermò l'auto davanti al vecchio edificio del Westrina Center. Era stato abbandonato circa dieci anni prima. Rotoli di filo spinato lo circondavano e alla porta era stato legato dell'aglio. Tutte le finestre erano state sbarrate con piccole croci e nessuna era stata rotta. Non si era mai fermata lì prima d'ora, sempre preferendo evitarlo: per guardare avanti, non indietro. Il nuovo Westrina Center disponeva di moderne attrezzature ora e aveva un nuovo aspetto. Lei prendeva parte al migliore programma di riabilitazione che avessero fondato. Non aveva ritenuto necessario guardare quello che era fallito. Fino a ora.
È solo un bambino. Mi occuperò io di lui! La voce della bimbetta era insistente. Cammie appoggiò le mani al freddo filo spinato, ma non riuscì a vedere nessuno. Ho bisogno di vederlo. Nessun altro è in grado di occuparsi di lui... Girellò fino all'angolo dell'edificio e vide i resti di un campo da gioco mezzo diroccato. Delle altalene erano rimaste solo le catene e il pincopanco era marcito e giaceva sul terreno. Non voglio giocare. Voglio vederlo... E poi l'urlo, così lungo e acuto che lei dovette chiudere gli occhi. Il suono le strappò il dolore dallo stomaco e lo fece salire su fino alla gola e alla bocca. Appoggiò la testa al filo spinato, sentì il metallo pungerle la fronte. Aveva stretto saldamente la mano del suo fratellino, mentre due persone che emanavano odore di sangue la conducevano al centro. Quando si presentarono in segreteria, lei era rimasta sorpresa di notare quante persone l'aspettavano; persone stranamente silenziose. Lei non aveva detto una parola. Un uomo snello le si era inginocchiato accanto e aveva tolto dalla sua la mano del fratellino. Lei aveva guardato il volto del bambino, il volto che aveva protetto per tutto quel tempo, e si era Impaurita alla vista del sangue che lo sporcava. Il sangue gli copriva anche i vestitini. Lacrime le pungevano dietro le palpebre, ma non le aveva lasciate cadere. Non voleva che lui sapesse, ma eccolo qui, imbrattato di sangue e impaurito. Aveva allungato una mano per toccarlo, ma l'uomo lo aveva preso in braccio e lo aveva portato via. E lei non lo aveva visto mai più. Troppo pericoloso. Troppo instabile. Troppo terrorizzato. Si allontanò dalla recinzione. La fronte le doleva e tutto il suo corpo tremava. Si pulì il viso con la manica e alzò lo sguardo. Eliason era appoggiato a un albero con le braccia incrociate. — Mi hai seguito — lo accusò. Annuì. — Tu lo sapevi. — Sì — le confermò. — La corrente teoria della riabilitazione. Non si può fare nulla per i genitori, ma si possono salvare i bambini. — Io non mi sento salvata — disse oltrepassandolo. — Cammie... La sua voce risuonò dietro di lei, nella luce del crepuscolo imminente. Suo padre la chiamava Camila, suo fratello Cam-Cam. Lei aveva adottato Cammie perché non le rammentava il dolore. Fino a ora.
Il centro sembrava freddo nella prima luce del mattino. Cammie si strinse il suo vecchio e consunto maglione attorno alle spalle mentre scendeva dalla macchina. Sapeva che non avrebbe dovuto essere lì. Si stava chiedendo cosa l'aveva spinta a lavorare per il centro. Una sorta di suggestionamento post-ipnotico? Qualcosa del suo passato che l'aveva spinta qui? Sorrise senza allegria. Aveva trascorso tutta la notte arrovellandosi solo su quelle cose e non era giunta a nessuna conclusione. Meno una: che questo sradicamento sarebbe stato l'ultimo. Scaricò il suo equipaggiamento dall'automobile. La sacca sembrava più pesante del solito. Aprì la porta a vetri e trovò Whitney in piedi, vicino al banco della segreteria. — Pensavo che non saresti venuta — le disse. — Hai parlato con Eliason, eh? Lui scosse la testa. — È solo che è già accaduto anche a me. Riconosco i sintomi. — Cosa ti spinge a stare qui, anno dopo anno? — Immagino di essere uno di quelli che non si riabilitano. — Fece spallucce. — Questo è l'unico posto al quale io appartenga veramente. Cammie sollevò la sua sacca sulle spalle. — Pronto? Whitney studiò il suo viso per un po'. — Certo. — Egli raccolse la propria attrezzatura e si incamminò verso la porta. Non appena entrarono nel furgone bianco del centro, le disse: — Non hai intenzione di mollarmi, vero? — Rimarrò — rispose. Il sedile di plastica del furgone era freddo. Cammie si sistemò le maniche del maglione e chiuse gli occhi. Sapeva in quale settore della città stavano andando; non voleva vedere il percorso. Così, forse, sarebbe stata in grado di concentrarsi sul suo lavoro. Quando il furgone si fermò, Cammie afferrò la sua sacca e aprì lo sportello, ancor prima di dare un'occhiata al circondario. Avevano parcheggiato davanti a una casa rossiccia a due piani, simile a quella in cui era cresciuta. All'interno gli appartamenti erano lunghi e stretti e solo la stanza da letto sul retro - quella che era stata la sua - aveva delle finestre. Un rifugio perfetto per un vampiro. Whitney giocherellò con il grimaldello da serratura. — È l'ultima possibilità, Cammie. — Vengo — disse secca. Con uno strattone egli sollevò la borsa e cominciò a salire i gradini, due
alla volta. Cammie lo seguiva, nervosamente come se avesse una pietra al centro dello stomaco. Forse non sarebbe dovuta venire. Se avesse buttato tutto all'aria, commesso un singolo errore, avrebbe perso la propria vita e quella di Whitney. Forse, tutto sommato, non sarebbe stata una brutta cosa. Rimosse quel pensiero. Doveva andare avanti con un atteggiamento di forza. Nella luce del giorno, lei era più potente di un vampiro. Nella luce del giorno era lei che portava la morte. Whitney ispezionò i muri esterni per cercare le prove dell'esistenza di un sistema d'allarme. Non scorgendo niente, controllò la porta esterna. La maniglia girò facilmente e la porta si aprì, rivelando uno stretto corridoio mal illuminato. Una rampa di scale saliva a sinistra, e a destra si scorgeva un'altra porta. Whitney si avvicinò. Cammie sollevò la propria torcia elettrica e illuminò la serratura mentre l'uomo la forzava. La porta si aprì prima che egli avesse finito. Sia Cammie sia Whitney indietreggiarono. Un bambino era lì, davanti a loro, il visino pieno di lividi, un occhio gonfio e semichiuso. — Il mio papà dorme — disse con una vocina impaurita. Un fetore di sangue marcio si diffuse nel corridoio come un incubo. Cammie sentì tornarle la nausea e soffocò l'impulso di vomitare. — Portalo nel furgone — le ordinò Whitney. Cammie scosse la testa. — O lo facciamo insieme o non se ne fa niente. È la procedura e tu lo sai. — Papà dice che non può entrare nessuno. E io devo stare qui. — La voce del bambino era poco più che un sussurro. — Lui sta dormendo. — Tu non hai il permesso di svegliarlo — disse Cammie. Il bambino annuì. Una lacrima scivolò dall'occhio pesto. — Vai a sederti sul divano — gli disse. — Tra un minuto saremo fuori. Aprì cautamente la porta, in silenzio, e oltrepassò il bimbetto. Whitney la seguiva. Cammie conosceva quella casa. Lei era cresciuta in una molto simile. Una luce filtrava da sotto la porta della camera da letto sul retro, ma le altre stanze erano al buio. Lei seguì l'odore che portava alla camera del vampiro, si fermò un momento per prendere martello e bastone, poi aprì lentamente la porta. Buio. E odore di marcio. Non ho il permesso di entrare. La vocina del bambino o quella di suo fratello Ben? Non lo sapeva. Le mani le tremavano, come avevano tremato prima. Era l'unico modo, l'unica soluzione. Se non lo avesse fatto, egli avrebbe picchiato ancora Ben e forse l'avrebbe uc-
ciso, come quella donna che aveva ucciso nel parcheggio - come aveva minacciato di uccidere lei stessa. I suoi occhi, lentamente, si abituarono. Quadri erano appesi alle pareti. Un letto vuoto era appoggiato all'angolo. La porta dell'armadio a muro era aperta e il fetore sembrava provenire da lì. — Aspetta, Cammie. Cam-Cam, aspetta. Ma non poteva aspettare. Teneva martello e bastone (non troppo pesanti per le sue piccole mani) davanti a sé come una torcia. La bara sporgeva di pochi centimetri nella stanza. Avanzò lungo un lato e lo vide dormire lì, pacificamente. Difficile da credere che un tale volto potesse causare tanta distruzione. Si inginocchiò. Una mano le toccò la spalla. Lei non si voltò, non voleva vedere Ben. Appoggiò il bastone sul cuore del vampiro e calò il martello con tutta la sua forza. Il vampiro ruggì e si mise a sedere. Fiato sporco la investì e sangue razziato imbrattò le pareti. Lei conficcò ancora, ignorando le unghie che le graffiavano la pelle e le mani robuste che le ghermivano i polsi. Doveva continuare. Doveva. Per Ben, se non per se stessa. Egli si agitava, scalciava e la colpì con un piede alla spalla, quasi facendole perdere l'equilibrio. Ma lei si tenne stretta al bastone e continuò a conficcare. Sangue usciva dalla bocca dell'uomo attraverso i denti canini, andandole a finire sulle mani. Ciononostante continuava a premere sempre di più, pensando che non sarebbe mai finita. Le storie erano false. I vampiri non morivano mai. Essi succhiavano il sangue della vita per sempre. E poi egli smise. Le mani gli scivolarono lungo i lati della bara e si irrigidirono, la pelle secca e flaccida, le ossa ingiallite dall'età. Dietro di lei un bambino gridò. Un bambino piccolo. Ben. Ma lei lo ignorò, allentò la presa sul martello e inspirò una lunga boccata d'aria. — Papà — sospirò. Ma lui non rispose. Non avrebbe mai risposto. Era morto da molto tempo. Girò sui tacchi, si voltò e vide Whitney che la fissava, pallido in volto. Si stringeva il bambino al petto. — Il bambino non avrebbe dovuto essere qua — affermò Whitney. — L'avrebbe comunque saputo — replicò Cammie. Si alzò in piedi, e si pulì il sangue sui jeans. Il suo ultimo vampiro. Ora, finalmente, poteva cambiare, passare a qualcosa d'altro. — Prendiamo le sue cose e portiamolo al centro. Anita si occuperà di lui. Soffocò l'impulso di accarezzare il bambino. L'aveva fatto una volta, con
Ben, molto tempo addietro. Una cosa era vedere tuo padre morto; un'altra è essere abbracciati dal suo uccisore. — Sopravviverà — mormorò. — Noi ce l'abbiamo fatta. Poi lasciò la stanza per lavarsi il sangue dalle mani. Titolo originale: Children of the Night (1991) FINE