GARY GYGAX GORD IL MISERABILE 2 IL MARE DELLA MORTE («Gord The Rogue™ - Sea Of Death», 1990) Questo libro è dedicato all...
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GARY GYGAX GORD IL MISERABILE 2 IL MARE DELLA MORTE («Gord The Rogue™ - Sea Of Death», 1990) Questo libro è dedicato alle mie figlie, Elise, Heidi e Cindy, che adoro! Tutte e tre si sono avventurate nei regni di Tarre... e una di esse potrebbe addirittura leggere questa storia! «Sea of Death si svolge, in parte, nei luoghi descritti nella serie Fantasy Game: World of Greyhawk, che è stata ideata da Gary Gygax. I personaggi, le città, i luoghi e gli scenari di quella serie sono utilizzati su licenza della TSR, Inc. Tutti i personaggi e i nomi della presente pubblicazione sono immaginari. Ogni riferimento a persone contemporanee, vive o morte, o a luoghi e avvenimenti reali, è puramente casuale. Questo libro è protetto dalle leggi sul copyright degli U.S.A. - Ogni riproduzione o altro uso non autorizzato del testo o delle illustrazioni in esso contenute è proibito senza l'esplicita autorizzazione scritta del proprietario del copyright».
Mappa della parte orientale del Flanaess, regione del continente di Oerik - pianeta Tarre LEGENDA: Città/paesi 1 Bardillingham 2 Città Dimenticata 3 Ghastoor 4 Hlupallu 5 Jakif 6 Karnoosh 7 Tashbul 8 Yolakand Altro B Montagne Barring C Montagne della Nebbia Cristallina D Fiume Chaban G Picchi Grandsuel K Lago Karnoosh P Colline Pennor R Rovine T Fiume Toosmik Y Picchi di Yolspur DESERTO DI CENERE
Città/paesi 1 Dolle Port 2 Ocherfort Altro B Foresta dell'Intrico di Rovi D Fiume Chaban E Lago di Smeraldo F Picchi Inferno O Fiume Ocra P Pen-Wilds
Montagne
Colline
Foresta
Paludi
Costa
Capitolo 1 «Salve, Graz'zt, Re degli Abissi» intonò un coro di Demoni, in un miscuglio di ruggiti, grugniti gorgheggi e gracidii. «Re Graz'zt, Dominatore del Principe Ariax» gridò con voce squillante una Demoniessa dal corpo di serpente e dalle molte braccia. Lamie, succubi ed altre creature presenti fecero eco al grido, in un frastuono incomprensibile e spaventoso per qualsiasi orecchio umano o semiumano. Il saluto era rivolto a un'imponente figura dal colore dell'ebano e dal sorriso accattivante, nonostante le zanne che le spuntavano dalle labbra. L'essere, che sembrava scolpito nell'ossidiana levigata, sollevò una mano con sei dita; in un batter d'occhio la folla dei Demoni tacque e Graz'zt parlò. «Re Mi proclamate e re sono! La Mia recente vittoria su Ariax ora estende i Nostri domini su ben otto dimensioni. Governiamo infatti il cuore dell'Abisso e tra breve anche il resto dovrà inchinarsi davanti a Noi!» Il nuovo re si interruppe momentaneamente per dar modo ai Demoni di esprimere la loro gioia con grida di giubilo, e sul suo volto scuro si leggevano orgoglio e soddisfazione. Poi la sua espressione mutò leggermente. «Basta!» tuonò, e la folla si azzittì. L'essere autoproclamatosi re indicò una grottesca figura dalla testa di iena alla sua destra e riprese a parlare. «Onori anche al Nostro braccio destro, il principe Yeenoghu! Ecco il nuovo viceré!» ruggì Graz'zt, facendo al Demone cenno di alzarsi, e di nuovo si levò quel coro cacofonico. Il re attese che la folla raggiungesse il culmine della gioia e cominciasse a calmarsi, indi la zittì di nuovo e abbassando la mano ordinò a Yeenoghu di sedersi. «Gloria al Nostro maresciallo, il nobile Kostchtchie!» tuonò ancora Graz'zt, sollevando il braccio sinistro, mentre un Demone di statura massiccia si poneva alla sua sinistra. La creatura, che aveva la pelle giallastra e glabra, fatta eccezione per le sopracciglia setolose, gli occhi infossati e le gambe storte, ghignò e alzò sopra la testa il pesante martello di ferro. Nonostante l'invito di Graz'zt, si udì solo qualche acclamazione sparsa e poco convinta. Quel Demone tarchiato era talmente odioso che persino la folla degli esseri infimi trovava difficile applaudirlo. Kostchtchie tuttavia sembrava più che contento, anche se gli applausi a lui rivolti non avevano raggiunto l'intensità di quelli dedicati a Yeenoghu. Quando Graz'zt abbassò la mano sinistra e Kostchtchie si rimise a sedere, era già tornato il silenzio. Il re lo spezzò con una nuova dichiarazione. «Il Principe Yeenoghu e il nobile Maresciallo Kostchtchie ora Mi ac-
compagneranno... altrove» disse il re. A quella notizia, un mormorio serpeggiò tra la folla palesemente sorpresa. Secondo ciò che egli stesso aveva annunciato anni prima, Graz'zt era costretto da qualche potere soprannaturale a rimanere a Mezzafgraduun, il 333° girone dell'Abisso, per molti altri anni o addirittura decenni. Il nuovo re lasciò mormorare per qualche istante i Demoni e le altre creature al suo servizio, poi riprese il discorso. «Silenzio!» tuonò, e la folla obbedì. «Dubitate di Me?» chiese, e uno sciocco Demone-rospo poco lontano rispose con un gracidio di assenso. Non era un gesto dettato da cattive intenzioni, ma solo dalla volontà di accettare le affermazioni del monarca in qualsiasi caso, vere o false che fossero; ma Graz'zt, infuriato per quella che credeva una risposta affermativa alla propria domanda, sollevò una mano in direzione del temerario. Dal palmo scaturì un raggio nero che colpì il Demone facendolo urlare di dolore; il suo corpo si inarcò e i muscoli si contrassero a tal punto da sollevarlo in aria; prima di toccare nuovamente terra, si era già dissolto in una pozza di sangue. «Qualcuno ha ancora dei dubbi?» chiese Graz'zt, e i membri dell'assemblea non si limitarono a tacere ma si prostrarono in omaggio al loro re. Un fugace sorriso si dipinse sul volto del Demone, che proseguì il discorso. «Vuron, il Nostro Nobile Cerimoniere, governerà durante la Nostra breve assenza. Obbeditegli, o affronterete la Mia ira al Nostro ritorno!» A ciò, Graz'zt si voltò e lasciò l'anfiteatro, una vasta conca di origine apparentemente naturale, scavata in un materiale madreperlaceo; i suoi attendenti lo seguirono, reggendogli lo strascico. Alla processione regale si accodarono i Demonietti, suoi sudditi. Svolazzando e saltellando, strisciando e volando, zoppicando e rotolando, quella folla eterogenea seguiva Graz'zt in un frastuono agghiacciante. Chi camminando, chi strisciando sul terreno che sembrava d'opale, e chi sorvolandolo, lasciarono il teatro dell'udienza per sparpagliarsi nel parco che lo circondava. Il re non prestava orecchio al loro chiasso e non si curava che calpestassero le felci delicate, i teneri fiori ed i cespugli che rallegravano il paesaggio. Se tutta Mezzafgraduun fosse stata ineffabilmente bella quanto i Possedimenti della Corona, quel girone dell'Abisso sarebbe stato un vero paradiso. Bizzarri alberi dal tronco traslucido, di un luminoso color tortora e dalla lussureggiante chioma nera, ondeggiavano e fremevano dolcemente nella brezza. Sotto le palme e i cedri cresceva una profusione di piante tropicali in tutte le sfumature del grigio e dell'ebano, inframmezzate da una fitta erba color fuliggine. In quella giungla esotica ronzavano sciami di in-
setti di tutti i colori dell'arcobaleno e creature scimmiesche si dondolavano sulle cime degli alberi, simili a chiazze di luce giallo limone e blu elettrico. Tra le piante nerastre si aggiravano cervi dai vivaci colori e altre creature dal manto lucente che sembrava tempestato di pietre preziose. Un Demone-avvoltoio piombò su un nido di uccelli simili al pavone e ne dilaniò con gioia gli abitanti, adulti e pulcini, mentre un Demone-babbuino si divertiva ad inseguire le scimmie e a decapitarle con le zanne e con gli artigli. La morte si spargeva cruenta nei giardini di Re Graz'zt, che assisteva alla scena con un sorriso benevolo. «Quando i sudditi se la spassano con i giochi» puntualizzò la bella creatura agli astanti, «significa che non tramano misfatti.» Girando leggermente la testa, Graz'zt attrasse l'attenzione del Demone alto e ossuto che lo seguiva a rispettosa distanza. «Vuron» gli disse, «fai in modo di ripopolare i Nostri parchi durante la Nostra assenza, aggiungendo creature grosse e rumorose; il divertimento sarà ancora maggiore! Anzi, puoi anche indire una battuta di caccia a Nostro nome.» Vuron, Demone dalla pelle color del cuoio, si inchinò in direzione di Graz'zt prima di rispondere. «Sei un maestro dei divertimenti, potente re» disse. «Tutti apprezzeranno la Tua generosità ed il Tuo gentile pensiero.» «Naturalmente» commentò Graz'zt con noncuranza. Kostchtchie, abituato a deserti di ghiaccio e a venti gelidi, sudava profusamente nel caldo tropicale dei domini regali ed emanava un fetore tale da disgustare persino molte delle creature che gli stavano accanto e che, quanto a ripugnanza, non scherzavano affatto. Graz'zt, tuttavia, deliziato dal paesaggio e dal proprio ruolo, non sembrava turbato dal tanfo del maresciallo, né si preoccupava del suo disagio. Circondato da belle lamie e da succubi affascinanti, Graz'zt entrò nel vasto edificio che ospitava il suo palazzo, ornato da numerosi porticati e da una copertura dorata. Prima della partenza il re avrebbe partecipato come ospite d'onore ad un banchetto indetto per celebrare il suo recente trionfo. La vittoria faceva prevedere nuove grandi conquiste, e Graz'zt indulgeva a sogni di gloria pensando al futuro. *
*
*
«Gli ambasciatori delle tribù della Tigre e del Lupo sono a tua disposizione, Signore del Male». Il sacerdote pronunciò queste parole con voce esitante e colma di umiltà, rivolgendosi al vecchio avvizzito che gli sedeva davanti.
«Imperatore del Male» tuonò quello, ansando per lo sforzo. Il Gran Sacerdote Modu-Koduz, Ciambellano del dio Iuz, si prostrò chiedendo pietà, in preda al terrore. Quando ritenne che il sacerdote si fosse umiliato a sufficienza, Iuz decise di perdonarlo. «Sei sciocco e inutile, Modu-Koduz, ma purtroppo devo accontentarmi di quello che Mi è stato dato. Vai, ora, e conduci qui quegli sporchi nomadi affinché Mi rendano omaggio. Tutte queste continue richieste Mi stancano, ma Mi farò forza.» Mentre il ciambellano, ancora tremante, si affrettava ad obbedire agli ordini, la sagoma seduta sull'imponente mucchio d'ossa e di teschi che ne costituiva il trono sembrò dissolversi e mutare. Quello che un istante prima era un vecchio rugoso e sdentato ora si era tramutato in un enorme mostro demoniaco - un Cambion, così venivano chiamati quelli della sua razza dalla pelle rossiccia e dalle zanne appuntite. «Questo aspetto è più adatto a degli sciocchi come quei cavalieri barbari» mormorò Iuz tra sé. I sudditi che lo attendevano erano troppo lontani dal trono per udire quell'osservazione - che d'altra parte non era destinata ai loro orecchi - ma sarebbero di certo stati d'accordo se l'avessero sentita. Per tutto il mese precedente Iuz aveva ricevuto gli omaggi dei signorotti dei Regni dei Banditi, il tributo della Lega del Pugno di Pietra, la sottomissione di tutti i capi rimasti nelle terre una volta appartenute alla Società Cornuta e i rispetti di un numero apparentemente infinito di leader umanoidi, venuti a giurare fedeltà a Iuz come loro feudatario e loro divinità. Ora, con la delegazione dei selvaggi cavalieri nomadi appartenenti alle tribù della Tigre e del Lupo, giungeva il massimo trionfo. Quegli umani selvaggi sarebbero serviti a tradurre in concreto il piano di Iuz. Il Cambion si mise a ridacchiare allegramente proprio mentre la voce del ciambellano echeggiava all'esterno della porta che conduceva nella sala reale. «Imperatore Iuz, Signore del Dolore e prossimo Padrone di tutta Tarre!» proclamò Modu-Koduz. L'eco delle sue parole risuonava ancora mentre i guerrieri nomadi coperti di pellicce entravano nella sala per tributare il proprio omaggio. Il monarca apprezzò le loro lodi e i loro doni, distribuendone alcuni in cambio, e lesse loro il consueto messaggio in cui richiedeva lealtà incondizionata, avvertendoli che le ricchezze ed i favori concessi potevano esser loro tolti altrettanto facilmente, e che quella non sarebbe stata la sola punizione per coloro che avessero manifestato scarsa devozione. A quel punto gli ambasciatori se ne andarono, e ben presto la vasta sala fu deserta, fatta eccezione per i Demoni tarchiati, dall'aspetto vagamente
umanoide, che vi montavano perennemente la guardia. L'Imperatore Iuz si era recato ad un concilio cui partecipavano coloro che ora si ritenevano suoi pari ma che egli si riprometteva di assoggettare, proprio come avrebbe costretto ad inchinarsi davanti a lui tutte le nazioni di Tarre. *
*
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Sagoma senza forma, luminosità senza luce, eventi in una dimensione senza tempo: era questa la natura dello spazio zero creato da Iggwilv, o almeno così lo percepivano coloro che la circondavano. Era forse la più grande delle Streghe - almeno secondo alcuni - e aveva creato quel nonluogo, o forse aveva fatto in modo di potervi accedere assieme agli altri. Non era molto importante: ciò che contava era che Iggwilv aveva procurato i mezzi grazie ai quali potersi incontrare con gli altri professionisti del male. La strega era vecchissima, ancor più di Iuz; in realtà era la madre del Cambion che progettava di impadronirsi di tutta Tarre. La sua infamia era nota al di là dei confini di Tarre, negli altri mondi paralleli che occasionalmente si incontravano con esso. In uno di tali mondi la strega veniva chiamata Ychbilch, in un altro Louhi; ma, a prescindere dal nome o dal titolo conferitole, comunque, era soltanto ciò che era: la signora del dweomerismo, la madre di Iuz, l'artefice di piani malefici contro i signori del Bene... e talvolta anche contro quelli del Male. Ora si trovava in uno stato di benessere, e esibiva la bellezza voluttuosa di una delle forme che era capace di assumere. Forse era il suo aspetto reale, ma in ogni caso neppure un volto stupendo come quello che mostrava in quel momento poteva mascherare il male che dimorava in lei. Con lei - e con è l'unica parola atta a consentire una localizzazione nello spazio inesistente in cui si trovava, poiché non esistevano direzioni né luoghi né un ordine identificabile - c'erano altri esseri. C'era Iuz, alto ed orgoglioso nella sua forma demoniaca, vestito di abiti eleganti e con la grande spada in mano; poi c'era una massa di funghi pulsanti, sulla quale saltellava e strisciava un rospo di bruttezza spaventosa. Quella massa non era altro che Zuggtmoy, la Demoniessa Regina dei Funghi, compagna di Iuz, sua alleata... e sua signora? Il Cambion avrebbe riso di scherno a quell'ipotesi, e Iggwilv avrebbe fatto lo stesso, mentre Zuggtmoy non avrebbe fatto commenti di sorta: anche lei era quel che era. In quello stesso non-luogo apparvero in un istante altri tre esseri: il ne-
rissimo Graz'zt, Yeenoghu dalla testa di iena e il ripugnante Kostchtchie. I primi tre avevano con sé armi e chissà cos'altro, provenienti dai loro arsenali, ma anche i potenti Demoni non erano da meno: Graz'zt impugnava la spada dalla lama ondulata, Yeenoghu la famosa mazza e Kostchtchie il martello preferito. L'atmosfera della riunione si poteva definire perlomeno tesa, se non addirittura ostile, visto che quegli strumenti di morte venivano esibiti con ostentazione. Del resto, la fiducia reciproca tra simili esseri era inconcepibile, e tutti loro lo sapevano. Dopo una serie di brevi presentazioni e di convenevoli, Graz'zt si rivolse direttamente a Iuz e menzionò quella che considerava la ragione principale di quell'incontro. «L'oggetto è Mio di diritto, e voi me lo consegnerete seduta stante» tuonò colui che si era proclamato re. «Non ci penso neppure» ribatté Iuz in tono sdegnoso. Il gigante dalle gambe incurvate e il Demone tarchiato dalla testa di iena fecero gesti di minaccia al Cambion mentre egli pronunciava queste parole. Zuggtmoy emise un flusso di pensieri minacciosi, ma un pacato avvertimento di Iggwilv riportò tutti alla calma. Graz'zt corrugò leggermente le sopracciglia, poi sorrise e riprese a parlare. «Principe figlio di Tarre, la Mia richiesta non dev'essere motivo di turbamento per te» disse in un tono che voleva essere conciliante. «È più che ragionevole. Rammenta infatti che se non fosse stato per me, non saresti mai giunto fino a quel punto. L'oggetto...» «...L'ho strappato al pericolo con l'aiuto della cara Regina Zuggtmoy» lo interruppe Iggwilv. Ignorando l'espressione contrariata del volto di Graz'zt, la grande Strega aggiunse: «In quanto madre di Iuz, Mi spetta il pieno diritto di decidere la destinazione dell'... oggetto in questione.» «Giustissimo, cara» gorgogliò Zuggtmoy. «Non farti prendere in giro da quello sciocco.» «Sciocco?» ruggì il nero principe dei Demoni, controllandosi a malapena. Iggwilv non si lasciò impressionare dal suo scatto d'ira. «In effetti è sciocco chiedere alla Nostra prole uno strumento che, come sai perfettamente, gli è necessario per portare a termine quelle due cosette che gli restano da fare.» Graz'zt digrignò le zanne e disse: «Hai scelto davvero bene la parola, Iggwilv, si tratta proprio di cosette! Ne va del destino di intere dimensioni e tu e quella massa amorfa di...» «Ti farò vedere che cosa vuol dire amorfo!» tuonò Zuggtmoy, trasfor-
mandosi nel giro di due secondi in un'enorme massa fungosa che rassomigliava a un elefante. Nello stesso momento una pozza di melma luccicante cominciò a formarsi proprio all'estremità dei suoi pseudopodi. «Il trattato è infranto!» latrò Yeenoghu con la sua voce da iena, notando che la massa repellente continuava a crescere. «Attento, Re Graz'zt, quella sgualdrina sta facendo intervenire il suo congiunto, Szhublox!» A ciò, Graz'zt si mise a gridare parole che mandavano scintille, mentre Iggwilv e Iuz pronunciavano sillabe gutturali e stridule. Demoni grandi e piccoli, umani ed Elfi dalla pelle scura apparvero dal nulla in quello spazio inesistente, originariamente predisposto soltanto per quelle sei creature. Il nulla si allargava e si dilatava, cercando di inserire nella propria nullità la presenza dei nuovi venuti; iniziò a diffondersi un non colore che produceva crepe e spaccature simili a quelle che si sviluppano nel ghiaccio o nella roccia durante un terremoto. Nel vedere gli effetti di quello che lei e gli altri avevano provocato, Iggwilv pensò di passare allo scontro diretto, ma lo stesso campo di battaglia sembrava minacciato, e se avesse riportato gravi danni, cosa sarebbe mai accaduto ai suoi occupanti? «Basta! Moriremo tutti» gridò la Strega. Graz'zt, rendendosi anch'egli conto del pericolo avvertito da Iggwilv, ordinò ai propri servitori di desistere, non prima però che Yeenoghu e Kostchtchie avessero massacrato un paio di Demonietti ciascuno. In quello stesso breve lasso di tempo, Szhublox aveva avvolto nella propria bava e tormentato parecchi degli scagnozzi chiamati da Graz'zt e dai suoi alleati. Poi la mischia si interruppe e la maggior parte delle creature convocate dai principi svanirono per ritornare là da dove erano venute. Una volta ripristinata la calma, erano tuttavia rimaste alcune creature demoniache di minore importanza da entrambe le parti. Un gruppetto di Lamie e di Succubi fluttuava a fianco di Graz'zt e dei suoi accoliti, mentre un altro gruppetto di Demoni-avvoltoio e di Demoni-rospo si era schierato dietro Zuggtmoy e Iuz. Iggwilv si era messa da un lato, leggermente più vicina a Iuz che a Graz'zt, ma pur sempre in una posizione intermedia fra i due invece che dalla parte di suo figlio. «La presenza di alcuni spettatori non sembra minacciare l'integrità di questo luogo» annunciò Iggwilv in tono severo. Gli altri le credettero sulla parola, accettando il fatto che la sua conoscenza della natura di quello spazio inesistente fosse maggiore di quella di tutti loro. La Strega proseguì, con una franchezza che tradiva la sua preoccupazione: «Ma dovranno essere appunto spettatori; sono liberi di restare o di andarsene, e se rimangono
possono osservare noi e le nostre azioni, ma non possono decifrare le nostre parole. Questo luogo era destinato a noi soli, e soltanto noi siamo in grado di comunicare in maniera soddisfacente. Gli altri potranno anche passare all'attacco, se qualcuno sarà tanto pazzo da ordinarlo loro; ma, nel caso scoppi un conflitto in cui anch'essi vengano coinvolti, nessuno di noi può essere certo della propria sopravvivenza, qualora questo luogo venga distrutto!» Alla fine del discorso la Strega era visibilmente agitata e per qualche istante un silenzio teso avvolse quello strano luogo mentre i presenti soppesavano l'importanza delle parole di Iggwilv. «Dunque... dobbiamo parlare, non litigare» disse dolcemente Iggwilv, riprendendo il controllo di sé. «Ma certo» ammise Graz'zt con un'ombra di sarcasmo nella voce. «Riprendiamo pure la nostra conversazione amichevole» sghignazzò. Poi, in tono nuovamente serio, si rivolse ad Iggwilv: «Il tuo comportamento ingannevole, caro essere umano, è come sempre talmente sorprendente e le tue pretese talmente incredibili da farmi venir voglia di ridere. Sembra proprio che quel rospo schifoso, appollaiato su quella massa di funghi altrettanto repellente, abbia fatto pendere la bilancia in tuo favore; infatti siete quattro contro tre. Per vostra fortuna quella creatura ignobile non vale nulla, e se volessi potrei sbarazzarmene in un colpo solo. Ma ecco che arriva Szhublox, e la faccenda si fa molto diversa! Pensi che permetteremo a quella pozza melmosa di partecipare al nostro convegno?» «Sono proprio la tua follia e la tua brama a far nascere costantemente conflitti tra noi» rispose Iggwilv, con aria di condiscendenza. «Il rospo, ovviamente, è una figura insignificante, come lo sono le sgualdrine di cui ti circondi. Per quanto riguarda il Demone della Melma, non credo di dover far notare che il caro congiunto di Zuggtmoy non è intervenuto per attaccare: è soltanto un ritardatario.» «Non dire sciocchezze, vecchia Strega» ribatté Graz'zt. «Avevamo detto che le forze dovevano essere pari per evitare trucchi. Si era parlato di tre contro tre.» «Szhublox è il terzo» intervenne Zuggtmoy, sputando una nuvola di spore. A questa osservazione Kostchtchie ghignò e disse la sua: «Sei troppo stupida anche per pensare, Regina del Marciume.» Zuggtmoy si limitò ad ignorare l'insulto del Demone, mentre Iggwilv lo umiliò ancor di più rivolgendosi nuovamente a Graz'zt. «Io sono imparziale» spiegò pazientemente. «Non potrebbe essere diversamente, visto che
sono la madre del tuo amato figlio. Pertanto Zuggtmoy, Szhublox e il caro Iuz sono in tre, proprio come tu e i tuoi due Thegns siete in tre.» Yeenoghu gettò all'indietro la testa orrenda e si esibì in una serie di latrati per dimostrare la propria ira, mentre la pelle di Kostchtchie assunse un intenso color senape per la rabbia suscitata dalle parole di Iggwilv. Sollevò il grosso martello di ferro e si diresse verso la bellissima Strega; era evidente che intendeva distruggerne la bellezza in un colpo solo ma, prima che potesse avvicinarsi sufficientemente al bersaglio, Graz'zt intervenne. «Fermati, Maresciallo degli Abissi!» ordinò il principe demoniaco. «E anche tu, Viceré, controlla la tua ira! Questa donna vi parla con tracotanza, ma miserabili insulti e parole ingannevoli sono tutto ciò che potete aspettarvi da lei. Non vi muovete; Mi occuperò io della faccenda.» Entrambi i Demoni fissarono stupefatti il loro capo ma gradualmente riuscirono a controllare la propria rabbia. Yeenoghu continuava a ringhiare scoprendo le zanne; Kostchtchie lanciava sguardi di fuoco, tuttavia abbassò il martello in una posizione meno minacciosa. «Tu e i tuoi accoliti siete in quattro» proseguì Graz'zt, «ma visto che tu e il tuo marmocchio contate al massimo per uno, sarò clemente e chiuderò un occhio sul vostro tentativo di turbare il convegno.» Iggwilv si limitò a sorridere sarcastica alle parole tracotanti di Graz'zt, ma Iuz dimostrò tutto il proprio risentimento. La sua pelle diventò marrone scuro mentre si preparava a rispondere per le rime. «Vedremo chi conta e quanto, Graz'zt! Dammi la tua orda di Demoni e tutta Tarre sarà Mia!» Ora toccava al cosiddetto re rispondere: «Dammi il Theorpart, ragazzo, ed avrai ai tuoi ordini diecimila dei Miei Demoni più feroci!» «Cosa? Come osi...» Le parole irose di Iuz furono troncate da Graz'zt. «Ora sono il re», tuonò il grande Demone d'ebano. «Posso osare qualsiasi cosa! Una dozzina di gironi dell'Abisso si inchinano davanti a me e un'altra dozzina mi è tributaria. Orcus Mi rifugge! Mandrillagon si nasconde piuttosto che affrontarMi sul campo di battaglia! Tuttavia il Principe Lugush rimane neutrale, Eblitis e Marduk temporeggiano mentre Var-Az-Hloo ed i suoi leccapiedi Chidun, Zomar e Yuibiri Ci muovono guerra. Se Bulumuz e Azazel si schierassero dalla loro parte, la Nostra avanzata sarebbe bloccata e quel grassone testa di capra di Orcus e il bizzarro Mandrillagon si farebbero nuovamente avanti per reclamare il potere qua e là...». Graz'zt fece una pausa, sorrise al Cambion che aveva generato e poi disse: «Perciò, caro figliolo, tuo padre ti
impone di prestarGli obbedienza filiale in modo che possa coprire di gloria la sua discendenza. DamMi il Theorpart!» Erigendosi in tutta la sua considerevole altezza, Iuz confutò le affermazioni appena fatte dal nuovo re: «Sappi, Graz'zt, che ora Io sono l'Imperatore del Flanaess! È vero, alcuni piccoli regni devono ancora essere soggiogati, ma il nord è Mio, l'ovest è assediato e il cuore del paese ben presto cadrà in Mio potere. Nonostante queste vittorie schiaccianti, il Theorpart deve rimanere in mano Mia. Aerdy è alla testa di legioni di Demoni mentre la Feccia Scarlatta nasconde i Gerarchi e recluta nemici di Iuz e dell'Abisso». Puntando un dito accusatore contro il massiccio Demone dalle sei dita che lo aveva generato, il Cambion disse: «Mi assegnerai alcune truppe cosicché la Mia conquista di Tarre possa essere completata a dispetto dei Miei... dei Nostri nemici.» «Bah, stai soltanto parlando a vanvera», ribatté Graz'zt con un ghigno sul volto gradevole anche se demoniaco. «Mi darai il Theorpart, come ti ho ordinato. Poi, come fedele vassallo, caro Iuz, figlio Mio, avrai a disposizione orde su orde dei Miei Demoni non appena tutto l'Abisso si piegherà al mio volere.» «Ci vorranno millenni, se mai accadrà» ribatté Iggwilv in tono affettato. Kostchtchie grugnì irosamente e sollevò il martello di ferro: «Vecchia carcassa umana bugiarda e perversa! Inchinati al volere di Re Graz'zt o per Tutti Gli Empi...» «Brutto bastardo dalle gambe storte! I miei funghi divoreranno le tue schifose carni giallastre!» esclamò Zuggtmoy, mentre cambiava forma e strani boccioli spuntavano sul suo corpo amorfo. «Ti sbagli, rospo!» ringhiò Yeenoghu, avanzando con la mazza alzata. «Spargerò spore e pezzi del tuo corpo dappertutto, cosicché i tuoi funghetti resteranno senza capo!» Detto ciò, il Demone dalla testa di iena lanciò come un grido di battaglia la sua risata agghiacciante. Szhublox allungò alcuni pseudopodi viscidi per replicare alle minacce di Yeenoghu mentre Graz'zt affrontava Iggwilv e Iuz, entrambi lividi di rabbia. I Demoni minori rimasti sul posto potevano assistere alla scena; assunsero un atteggiamento minaccioso ma non intervennero perché non avevano ricevuto ordini in merito e non si stava ancora svolgendo un combattimento vero e proprio. Non erano in grado di influenzare il corso degli eventi, ma comprendevano chiaramente che in pochi istanti quello spazio inesistente sarebbe diventato un inusitato campo di battaglia. «Lo sapevo che saremmo arrivati a questo!» esclamò Graz'zt con voce
stridula, sollevando lo spadone. «Almeno in questo hai ragione» ringhiò Iuz, sollevando a propria volta l'arma che impugnava. «Fermi!» Fu Iggwilv a pronunciare quella parola, frapponendosi tra i due rivali con mossa fulminea. Iuz rimase stupefatto, sospettando immediatamente qualche tiro mancino da parte di sua madre, ma anche Graz'zt, già vittima un tempo di quel terrore umano, sembrava sorpreso e sconcertato. Il gesto di Iggwilv bastò a fermare il Demone e il Cambion. «Se combatteremo tra noi, anche se qualcuno riuscirà a sopravvivere, tutti i nostri nemici ne approfitteranno» disse la Strega. «Rifletti, Graz'zt: Orcus e tutti quelli dell'Abisso impazzirebbero di gioia. Immagina, Iuz, quanto coraggio darebbe un simile evento ai Gerarchi, alla Confraternita e a tutti gli altri! Gli Inferi esulterebbero! Si celebrerebbero feste nell'Ade, nel Tartaro e nella Geenna! La feccia delle dimensioni superiori si inorgoglirebbe e i signorotti dei regni di Tarre godrebbero di una tregua. Se vogliamo vincere, dobbiamo collaborare; mettetevi a combattere tra voi e quelli che vogliono ostacolarci riusciranno tranquillamente nel loro intento!» «Sagge parole, o grandissima tra le Streghe» commentò Graz'zt abbassando leggermente lo spadone. «Tuttavia la questione si può risolvere in un solo modo...» «Infatti» concordò Iuz, «e Io mi terrò ciò che è Mio!» Mentre si svolgeva questa breve conversazione, i gruppi avversari continuavano a guardarsi in cagnesco, ma non si verificarono atti di violenza. Mentre la tensione calava leggermente, Iggwilv chiocciò un «Bene, bene» che suonò strano e spaventoso provenendo da una gola tanto bella. Poi, con atteggiamento più autoritario, aggiunse: «Ora smettetela con i vostri sciocchi esibizionismi, tutti quanti!» Quando gli antagonisti si furono calmati, Iggwilv riprese a parlare. «Entrambi avete ragione e avete torto» disse rivolgendosi a Iuz e a Graz'zt contemporaneamente. Il principe dei Demoni a quelle parole assunse un'espressione torva e il Cambion sputò, ma Iggwilv li ignorò e proseguì: «Iuz ha il Theorpart, e siccome è più debole di te, caro Graz'zt, dovrà tenerlo ora e per sempre.» Graz'zt inspirò profondamente volendo rispondere per le rime a quell'affermazione, ma Iggwilv gli troncò le parole in bocca prima che potesse cominciare. «Aspetta! Esiste più di un Theorpart, Graz'zt, e tu potresti a-
verne un altro» disse. «Sai benissimo che ora è nelle mani di quella miserabile Confraternita» brontolò il re-Demone. «Nemmeno io posso toglierlo a quel branco di bastardi. Il suo potere e l'autorità dei Duchi dell'Inferno si alleano per fermarmi.» Iggwilv annuì, concordando con quell'affermazione; poi, con un sorriso, sottolineò un fatto nuovo: «La parte dell'oggetto in possesso della Confraternita Scarlatta è un Theorpart, ma non è quello di cui parlo. L'ultimo è nascosto da qualche parte.» Graz'zt aggrottò le sopracciglia: «Pensi che Io vada in giro a cercarlo?» disse, e scoppiò in una risata piena di scherno e derisione. «Dovrei sprecare la Mia forza per dar la caccia alle ombre, prigioniero della Mia dimensione, mentre i miei nemici coalizzati, senza dubbio con il tuo incoraggiamento, avranno la possibilità di attaccarMi e di rovesciarMi? Mi credi tanto sciocco e ingenuo, Iggwilv? Ho in serbo per te una dolcissima vendetta, vecchiaccia!» «Suvvia, rifletti» rispose la Strega, indifferente come di consueto allo scatto del Demone. «Non avere tanta fretta, Graz'zt. E se la Mia cara amica ed alleata, la regina Zuggtmoy, e suo fratello, il Principe Szhublox, diventassero tuoi fedeli alleati?» «Alleati?» «A certe condizioni, naturalmente.» Graz'zt girò di scatto il capo massiccio e sbirciò la Demoniessa fungoide. Zuggtmoy riuscì in qualche modo a manifestare un atteggiamento disponibile, nonostante non fosse in possesso di mezzi riconoscibili per farlo. Il gigante d'ebano rifletté sull'offerta, accarezzandosi la mascella quadrata con la mano dalle sei dita. «Mi garantisci l'alleanza e l'ultima parte dell'importante oggetto?» chiese ad Iggwilv, cercando conferma alla promessa. La Strega ridacchiò con voce chioccia, felice di aver attirato l'interesse del Demone. «Non solo, Graz'zt» rispose. «Avevo menzionato delle condizioni. L'alleanza prevede termini accettabili per Zuggtmoy, quindi penso che saranno accettabili anche per te. La parte finale dell'oggetto spetterà al vincitore di... una gara, diciamo così. Io ho scoperto il nascondiglio dell'ultimo Theorpart; il premio andrà al primo che riuscirà a toccarlo!» «Smettila di incensarti, ex-moglie, e forniscimi qualche particolare dei termini e delle condizioni di cui vai cianciando» disse Graz'zt in tono irritato, per nascondere il rispetto e il timore che nutriva verso quella donna
tremenda, in grado di far tremare anche i grandi Demoni. Iggwilv si lanciò nella spiegazione del proprio piano: innanzitutto Graz'zt e Zuggtmoy avrebbero gareggiato assieme, tentando entrambi di sottrarre l'ultima parte del Theorpart al suo nascondiglio. Una volta fatto ciò, a prescindere da chi si fosse impadronito dell'oggetto, sia Graz'zt sia Zuggtmoy avrebbero inviato le proprie forze in aiuto di Iuz. La Confraternita Scarlatta, pur con tutte le sue legioni di Diavoli e Demoni, non avrebbe potuto resistere alla potenza del Cambion, spalleggiato dalle orde dell'Abisso e dai poteri di due Theorpart, l'uno già in possesso di Iuz e l'altro ancora da trovare. La parte dell'oggetto attualmente in mano alla Confraternita Scarlatta sarebbe stata conquistata nel corso del conflitto e sarebbe poi andata a chi ancora non ne possedeva una, cioè a Graz'zt o a Zuggtmoy. «Quindi, ex-marito, governerai su tutto l'Abisso assieme a Zuggtmoy» concluse Iggwilv. «Tu e la Regina dei Funghi, ciascuno in possesso di un Theorpart, dominerete sui regni che deciderete di spartirvi.» «Come mai tanta generosità?» chiese il Demone dalla pelle scura con aria sospettosa, perché non ci si poteva mai fidare di Iggwilv. «Motivi di sopravvivenza, che altro?» rispose. «Le tre parti della chiave non devono mai unirsi. Quando ciascuno di voi due ne possiederà una, nessuno dei due desidererà quella di Iuz. L'Abisso sarà salvo, e Iuz ne è soltanto un riflesso, come ben sapete; dunque farò in modo che conquisti tutto Tarre e vi regni supremo. Il nostro potere, la forza dell'Abisso, si diffonderà in tutto il multiverso!» Graz'zt si girò a parlare brevemente con i suoi attendenti, che si profusero entrambi in esclamazioni di gioia e di giubilo. In effetti quel piano avrebbe soddisfatto i desideri di entrambe le parti, dissero al loro capo. Naturalmente si sapeva che, una volta o l'altra nel corso dei secoli futuri, uno dei due, Graz'zt o Zuggtmoy, sarebbe diventato il capo supremo, ma bisognava lasciar fare al tempo. Il nero principe dei Demoni ascoltava con un orecchio i suoi accoliti, traendo allo stesso tempo le proprie personali conclusioni. Poi, sospettoso come sempre, pose termine ai festeggiamenti. «Le Mie narici avvertono puzza di fiori in boccio!» disse a Yeenoghu e Kostchtchie. «Perché questo essere umano ci mette l'uno contro l'altro in una gara per raggiungere qualcosa che lei afferma di sapere dove si trovi? Quella sgualdrina tenta di imbrogliarci, di farci sterminare a vicenda per impadronirsi del Theorpart!» «Ottima deduzione, Graz'zt il Furbo!» esclamò Iggwilv, «ma ignori an-
cora alcuni fatti importanti. Chi ha parlato di sapere? O di raggiungere? Fate attenzione, tutti quanti. Sono a conoscenza del luogo in cui si trova la chiave, e anche delle condizioni alle quali può essere ottenuta. Ma io non posso entrarne direttamente in possesso, e neppure qualcuno della vostra schiatta, Demonietti!» Graz'zt, cosa insolita, rifletté sulle parole di Iggwilv invece di reagire sullo stesso tono. «Ciò riguarda la gara» disse, dopo averci pensato su per qualche istante. «Sì, Graz'zt», rispose la Strega. «Il Theorpart è circondato da un potente dweomer, e quindi soltanto mortali in gara fra loro possono impegnarsi nella sua ricerca. Certamente uno di noi o più potrebbero tentare, ma ciò innescherebbe il potere del dweomer e attirerebbe sul luogo tutti i potenti del multiverso, che combatterebbero con noi nel tentativo di impadronirsi dell'oggetto. Molti verrebbero distrutti, da entrambe le parti, e Tarre crollerebbe sotto il peso delle forze concentrate laggiù.» «Quindi il mio piano è semplice. Meglio fare tutto in famiglia, per così dire, piuttosto che si immischino nella faccenda coloro che consideriamo nemici, non vi pare?» Le parole di Iggwilv suscitarono un mormorio di approvazione da entrambe le parti. Poi Graz'zt chiese: «Zuggtmoy, hai un campione da far partecipare alla gara?» «Naturalmente» gorgogliò la Regina dei Funghi. Il grosso rospo saltò giù dalla massa fungosa, rimanendole tuttavia vicino, e improvvisamente si tramutò in un Nano dal volto malvagio. «Obmi, inchinati a re Graz'zt» ordinò Zuggtmoy. Il Nano abbassò leggermente la testa per un istante, con la stessa espressione malevola sul volto. Contemporaneamente Graz'zt guardò di lato, trattenne a stento un ghigno e poi alzò la testa con un'espressione di superbia sprezzante. «E chi gareggerà per te, dunque?» chiese Iggwilv. Graz'zt, dopo una piccola pausa di riflessione, indicò una Succube poco lontana, alla sua destra. Mentre la creatura si avvicinava al gruppo, il principe dei Demoni pronunciò una sfilza di sillabe quasi impercettibili; quando l'essere raggiunse Graz'zt, divenne chiara la sua vera natura: non era un vero Demone ma una Drow, rappresentante della malefica razza di Elfi neri di Tarre. «Ti presento Eclavdra, colei che ho scelto come Mia rappresentante nella gara», disse Graz'zt ad Iggwilv, ignorando ostentatamente Zuggtmoy e Obmi. «E così sia», rispose la Strega. «Ora stabiliremo le regole e le manovre
diversive da usare per mascherare le nostre attività. Non vorrei che degli estranei si mettessero a cercare il nostro oggetto.» «Estranei?» fecero eco Graz'zt e Zuggtmoy, in coro. «Altri potrebbero venire a sapere ciò che io ho appreso» ammise Iggwilv a denti stretti; «i Gerofanti, la Cabala o quella vecchia ciabatta di Morrdenkainen, per non parlare della Confraternita, dell'Ade o dei caporali dell'Inferno.» «Ma tu, che cosa sei venuta a sapere, alla fin fine?» ringhiò Graz'zt. Iggwilv non rispose subito, per chiarire che offriva spontaneamente, e non su richiesta del Principe dei Demoni, le informazioni di cui era in possesso. «Il Deserto di Cenere nasconde molte cose» iniziò col dire. «La grande capitale dell'impero, svanita sotto la sabbia, ora è nota soltanto come Città Dimenticata. I Signori dell'Impero perduto avevano lì la propria sede, e si servirono del Theorpart nella battaglia finale. Ora il Theorpart si trova laggiù, sepolto sotto uno strato di polvere tanto spesso che in superficie si riesce a scorgere soltanto qualche vaga traccia della città perduta.» «Perché facciamo partecipare alla gara esseri tanto deboli?» chiese Szhublox con la sua vocetta gorgogliante. «Solo i mortali, umani o semiumani, possono recuperare qualsiasi parte della Chiave che Libera il Dormiente, e auguriamoci che ciò non accada! Lo sappiamo da quanto è trapelato dalle due parti già trovate e dall'esame del dweomer che circonda la parte ancora da scoprire» disse Iggwilv. «Ma una volta che una delle parti viene ritrovata, i mortali che ne entrano in possesso possono farne ciò che vogliono. La Confraternita possiede la parte sintonizzata con l'Abisso, e con essa vorrebbe condurci come schiavi dal Dormiente. Iuz ed Io possediamo invece la parte che concederebbe il dominio sulle Tenebre dell'Ade, nell'eventualità che i Theorpart venissero uniti. In qualche punto del Deserto di Cenere invece giace l'ultima parte della chiave, quella che impone la schiavitù e l'obbedienza ai Nove Inferi e ai loro duchi. Tutti i grandi si accorgeranno del momento in cui quell'oggetto tanto potente tornerà alla luce.» «Invierò un esercito a sorvegliarlo» annunciò Iuz in tono grandioso. «No» ribatté Graz'zt, «invierò i miei Demoni a circondarlo, una volta che Eclavdra l'avrà trovato!» Zuggtmoy rispose con una battuta irosa: «E se quella sgualdrina tutt'ossa fallisce? Il mio servo, Obmi, sarà scortato da un'orda dei Miei più feroci...» «Contegno, signori» esclamò Iggwilv con voce piatta e autoritaria. «Se una simile moltitudine di individui e di poteri si riunisse nel Deserto di
Cenere, se simili forze osassero soltanto avvicinarsi, tutto sarebbe perduto. Non immaginate che ogni nostra mossa verrà osservata? I nostri avversari non hanno forse spie? Solo i rispettivi campioni potranno recarsi laggiù e solo loro, o meglio, uno di loro, potrà tornare con l'oggetto.» «E dove si recheranno i campioni al loro ritorno?» chiese Graz'zt. «Yolakand, nella terra di Yoll, mi sembra il luogo adatto» suggerì Iggwilv. «Ocherfort, nella terra dei Pirati è più vicina» obiettò Graz'zt, «e meno influenzabile da quella marionetta di tuo figlio.» «È anche figlio tuo» chiocciò Iggwilv. «Marionetta? Non sono una marionetta!» protestò Iuz, saltellando qua e là per la rabbia. «Zuggtmoy, Regina dell'Abisso, dice che il suo campione porterà il Theorpart a Yolakand!» gorgogliò la massa fungoide. «Graz'zt, Re dell'Abisso, decreta che la Sua serva, Eclavdra, porterà l'ultima parte della Quintessenza del Male a Ocherfort, nelle terre dei Pirati!» ribatté il Demone nero. Iggwilv intervenne per l'ennesima volta: «È nel nostro interesse recuperare l'oggetto. Non possiamo accordarci che ciascun campione, in caso di vittoria, porti l'oggetto nel luogo prescelto dal proprio signore? Diciamo pure che il luogo non conta. Chi dei due rientra nel luogo fissato con il Theorpart ha vinto in nome del proprio padrone, d'accordo?» «I campioni possono essere uccisi?» Fu Iuz a porre la domanda, notevolmente irritato per il fatto di essere relegato ad un ruolo di spettatore; ovviamente voleva accertarsi se avrebbe potuto influenzare il corso degli eventi. «Non dall'avversario, Iuz» replicò Iggwilv con forza. «Se si permettesse una cosa simile, la gara non sarebbe più una ricerca, ma una prova delle rispettive capacità di sopravvivenza e di eliminazione del nemico. Sarà un duello, ma non all'ultimo sangue. E soprattutto non dobbiamo perdere di vista la necessità di ritrovare l'oggetto per il bene dell'Abisso. Naturalmente non saranno preclusi gli atti di violenza, che però non dovranno mirare ad uccidere, mentre l'ipocrisia e l'inganno non solo sono possibili ma anche auspicabili in due partecipanti come questi.» «E l'assistenza?» si informò Zuggtmoy nel suo gorgoglio monocorde. «Se il Mio campione dovrà percorrere un lungo cammino per raggiungere la Città Dimenticata sano e salvo, tanto da poter ritrovare l'oggetto, gli saranno necessari guardie e servi.»
Dopo una lunga discussione i Demoni finalmente accettarono che i due campioni fossero accompagnati da due assistenti ciascuno. Ognuno di loro, inoltre, avrebbe potuto ingaggiare fino a dodici mercenari o altri combattenti da utilizzare come guardie e uomini di scorta. Simili gruppetti, di dimensioni limitate anche quando tutti i rappresentanti di una fazione viaggiavano insieme, erano abbastanza ridotti da sembrare normali, e allo stesso tempo sufficientemente forti da sopravvivere nei deserti e nelle terre selvagge ed ostili che avrebbero attraversato lungo il cammino. «Le decisioni finali sono le seguenti» dichiarò Iggwilv. «I partecipanti alla gara partiranno da Hlupallu, nel Regno di Ket, tra due settimane. Da lì viaggeranno per via di terra con qualsiasi mezzo possiedano o siano in grado di procurarsi, fino al Deserto di Cenere e alla Città Dimenticata. Il viaggio costituirà di per sé una prova e una parte importante della gara, da non sottovalutare in nessun caso. Se per caso uno dei due campioni dovesse giungere prematuramente alla fine del proprio viaggio, l'altro dovrà ugualmente trovare l'oggetto e riportarlo al sicuro. Se entrambi invece riusciranno a proseguire fino alla Città Dimenticata, non mi stupirei se per uno scherzo del Destino vi giungessero nello stesso momento...» A quest'ultima osservazione, la Strega sorrise brevemente, affrettandosi poi a concludere. «Ciò nonostante, localizzare per primi l'oggetto e recuperarlo non garantisce la vittoria, anche se rappresenta indubbiamente un vantaggio. La gara non termina finché non viene raggiunto uno dei due luoghi prefissati. In parole povere, il campione che porterà il Theorpart sano e salvo a Yolakand o ad Ocherfort, lo vincerà per Graz'zt o per Zuggtmoy.» «D'accordo!» esclamarono in coro i Demoni riuniti, fatta eccezione per il Cambion. Se il piano di Iggwilv fosse stato realizzato con successo, Iuz ne avrebbe tratto enormi vantaggi... ma non poteva impedire che un'espressione preoccupata comparisse sul proprio volto. Capitolo 2 «Dieci cavalle, venti cammelli e la sua altezza in pezzi d'argento!» Il grido dello sceicco Foudhi sembrò cadere nel vuoto mentre la bella danzatrice dai capelli platinati continuava a contorcersi sensualmente nella luce dorata delle lampade fumose che circondavano il palco. Aveva la pelle lucida di olio profumato e di sudore, poiché faceva caldo e i movimenti erano faticosi, nonostante l'apparente scioltezza che li contraddistingueva. Gli
spettatori maschi trattenevano il respiro all'unisono ogni volta che, senza sforzi visibili, la donna si toglieva un altro velo trasparente e lo lasciava fluttuare sul pavimento di marmo del palcoscenico sul quale danzava muovendo ritmicamente i piccoli piedi e curvando con grazia e agilità incredibili il corpo flessuoso. Il trio di musicisti continuava a suonare la strana melodia che accompagnava la danza di quella donna stupenda, che a sua volta sottolineava il ritmo dei propri movimenti con cembali di argento lucente. La folla mormorò e trattenne nuovamente il respiro quasi come un sol uomo; una simile reazione dimostrava il successo di quella rappresentazione molto più di qualsiasi lode. Era il tributo alla bellezza e all'abilità della danzatrice da parte di uomini che avevano visto almeno un migliaio di danze del genere, eseguite da altrettante donne attraenti. Ma quell'uditorio di rudi guerrieri e di aristocratici esausti contemplava ogni mossa della stupenda creatura con un'ammirazione inusitata. Quella sera nella taverna chiamata Dar Peshdwar, una delle più popolari di Hlupallu, erano riuniti uomini provenienti sia da Oriente sia da Occidente; mercenari e mercanti di Perrenland, Bissel e Veluna stavano a contatto di gomito con soldati e commercianti di Ket. Fra loro, inoltre, erano sparsi nomadi delle Pianure di Bayomen, dal volto velato e dal capo coperto, nobili con turbante provenienti da Jakif, Tusmit e dalla lontana Ekbir, Bakluniani dagli occhi scuri e uomini delle colline dagli occhi grigi, appartenenti ad una dozzina di tribù sconosciute. Questa folla composita riempiva fino all'inverosimile l'ampio locale dai soffitti alti, ornato di piastrelle multicolori. Nobili accompagnati dai servitori, gente comune, soldati e guardie sembravano parimenti incapaci di distogliere lo sguardo dalla danzatrice che si esibiva sul palcoscenico. L'artista era soprannominata «Perla di Perfezione». Non era la prima a ricevere quell'appellativo; molti fra i presenti l'avevano sentito rivolgere ad almeno una dozzina di altre donne, ma solo questa lo meritava del tutto. Gli uomini ardevano di desiderio per lei, e i più ricchi e potenti fra loro erano ansiosi di comprarla. In otto minuti si ebbero altrettante offerte, a partire da quella piuttosto misera del meschino sceicco Foudhi. Il proprietario del locale, una montagna di grasso di nome Omar, Kettita ma di chiara origine Tusmita, si torse le mani e si inchinò al portavoce dell'offerta. Con voce tremante espresse il proprio sincero rincrescimento al dover declinare un'offerta tanto generosa, definendosi mille volte sciocco per non essere in grado di accettare tanta munificenza. Cento, duecento, persino cinquecento
pezzi d'oro non erano sufficienti ad acquistare quella donna incredibile. L'aria, già greve di profumi, di odore di incenso, di fumo e di chissà quanti altri effluvi, si fece ancor più pesante per l'emozione quasi palpabile degli acquirenti man mano che l'esibizione volgeva al termine. Poi una voce si fece udire al di sopra dello stridio delle cornamuse, del vibrare degli strumenti a corda e del rullo dei tamburi. «Io, Kufteer, Scià di Wadlaoo, Visir di Jakif, offro mille dokshee d'oro e questa grossa perla per la Perla dell'Estrema Perfezione!» Lo scià infilò una mano nel borsellino appeso alla cintura e ne trasse una grossa perla di forma perfetta, delle dimensioni di un uovo di piccione e di lucentezza pari a quella della pelle della danzatrice. A quella vista i presenti bisbigliarono e trattennero il respiro, in una reazione appariscente quasi quanto lo era stata l'approvazione per l'esibizione della fanciulla. Dopo qualche secondo di riflessione, Omar fece tre volte un inchino e batté forte le mani, facendo ballonzolare le braccia adipose e il grosso ventre. «Aggiudicato!», esclamò, tendendo le mani per prendere la perla. La moneta d'oro nominata dallo Jakifiano nella sua offerta era circa la metà della moneta orientale detta orb, ma il grasso Kettita si affrettò a concludere l'affare non appena ebbe messo gli occhi sulla perla. Poi, recitando la parte fino in fondo, una volta impadronitosi della perla, cominciò a battersi il petto. «Quale disperazione!» si lamentava. «Sono stato ingannato! Questa perla insignificante sembrava molto più grossa da lontano! Non è giusto! La nomea di sciocco mi perseguiterà per sempre... Che posso fare? Che posso fare?» Alcuni spettatori maledissero il grassone per aver insultato la loro intelligenza, altri risero delle sue bizzarrie. Tutti comunque sapevano che aveva concluso un affare tale da farne l'uomo più ricco di Hlupallu e indirizzarono occhiate lascive e basse insinuazioni sia al compratore sia al venditore. Nel frattempo la Perla di Perfezione aveva continuato a danzare vorticosamente, apparentemente ignara della transazione e del tumulto che la seguì. Quando l'esibizione raggiunse il culmine, la donna eseguì una serie di contorsioni e di oscillazioni che si protrassero per tutto il negoziato e il trambusto successivo. Mentre il rozzo proprietario esprimeva con voce piagnucolosa il proprio rammarico, la fanciulla rallentò i movimenti e si diresse verso un giovane seduto da solo ad un tavolo basso sul bordo della pista da ballo. Nella sala cadde il silenzio quando la fanciulla si prostrò in segno di remissione ai piedi dell'uomo. Poi alzò lo sguardo, fissando gli
occhi grigio-argento in quelli dell'altro, e con un sorriso disse ad alta voce: «Che tu possa custodire per sempre questa Perla nel cuore come io custodirò te nel mio, Nobile Padrone.» I presenti rimasero a bocca aperta di fronte a tanta audacia. Omar lanciò uno strillo e si diresse ondeggiando verso la danzatrice, con un'espressione furiosa in volto ed il pugno alzato. Ignorando quello scatto d'ira, la ragazza si tolse l'ultimo velo e lo avvolse intorno al collo del giovane. Ora era sdraiata supina ai piedi del guerriero solitario, un giovane alto e di bell'aspetto che, a giudicare dai lineamenti e dagli abiti, apparteneva al popolo dei Tusmiti. Il giovane sorrise; ora la Perla di Perfezione indossava soltanto un pezzetto di stoffa trasparente che le copriva a malapena i lombi. Era davvero un modello di perfezione, e anche il suo modo di onorarlo era singolare. Il giovane si chinò e con un solo rapido movimento la tirò in piedi, baciandola quando l'ebbe di fronte. Tutti i presenti applaudirono e si profusero in commenti osceni, fatta eccezione per lo Scià Kufteer, livido di rabbia, e Omar, che facendosi strada fra la folla era riuscito ad avvicinarsi alla coppia. Il rozzo Kettita alzò una mano sudata sulla ragazza ma il colpo non arrivò a segno perché il guerriero fu più svelto: imprigionò il polso del grassone in una morsa e con l'altra mano gli sferrò un pugno che colse Omar proprio nel ventre adiposo. All'omone cedettero le ginocchia mentre si comprimeva lo stomaco, e quando crollò al suolo rassomigliava più che altro ad una massa gelatinosa e piagnucolosa. Ora toccava allo Scià Kufteer occuparsi della faccenda, o meglio affidarne la risoluzione a qualcun altro. «Ammazza quel cane!» urlò lo Jakifiano infuriato. «Ha osato toccare la mia nuova concubina e dovrà pagare con la vita!» Un uomo scuro di pelle e dall'aria malvagia che gli stava al fianco balzò in piedi ringhiando. Gli uomini che stavano tra la guardia del corpo dello scià e il suo bersaglio si fecero da parte, per non trovarsi sulla sua traiettoria; tutti meno un piccolo orientale che invece fece un passo avanti verso lo scagnozzo dello scià, come a chiarire le proprie intenzioni. Aveva la pelle abbronzata ed era tutto vestito di cuoio nero, e quell'abbigliamento faceva spiccare i suoi freddi occhi grigi, fissi sull'uomo che si trovava a meno di tre metri di distanza. L'attendente dello Scià Kufteer non sapeva, o forse non se ne curava, che l'ometto fosse di Veluna o di qualche altro paese straniero. Il torvo sicario aveva in mente una cosa sola: passare a fil di spada il giovane che, dopo
aver rimesso la leggera sciarpa di seta sulle spalle della fanciulla, ora le teneva un braccio attorno alla vita mentre con l'altra mano si apprestava ad estrarre il pugnale infilato nella cintura. Aveva in pratica firmato la propria condanna a morte, e il servo dello scià era deciso ad eseguire la sentenza. Tuttavia sembrava proprio che prima avrebbe dovuto occuparsi dell'intruso che gli sbarrava il passo. Con mossa serpentina lo Jakifiano estrasse un micidiale pugnale ricurvo minacciando l'uomo vestito di nero, ma costui rimase dove si trovava, limitandosi a fissare il sicario infuriato. «E così, cane straniero, vorresti sbarrare la strada a Zameer Dey?» ringhiò l'assassino prezzolato, mirando a distrarre l'orientale con la voce e con i gesti; mentre gridava quelle parole, infatti, brandiva minacciosamente il pugnale ricurvo. Inoltre aveva estratto con la mano destra un corto coltello da lancio, perfettamente bilanciato; era questa la vera minaccia, poiché la lama di quel coltello era intinta in un veleno mortale. Visto che lo straniero nerovestito non si muoveva e offriva un bersaglio perfetto, Zameer alzò il coltello sopra la testa e lo lanciò in una parabola discendente verso la gola dell'uomo, ghignando: «Muori, dunque, bastardo insolente!» Ma la vittima designata non era ciò che sembrava: nell'istante in cui la lama lasciò le dita dell'assassino, l'orientale si spostò con movimento fulmineo e là dove un secondo prima si trovava una gola nuda pronta per essere trafitta dalla lama micidiale, ora c'era il vuoto. La lama sibilò attraverso l'aria e ricadde sul pavimento con un rumore metallico, scivolò per qualche metro e poi si fermò. Nell'istante in cui il coltello era stato scagliato, infatti, l'orientale si era gettato di lato, mandando a terra alcuni spettatori, e quando l'arma si era fermata sul pavimento, era già a fianco del killer Jakifiano. In un batter d'occhio balzò in piedi e si mise in posizione di combattimento, impugnando un pugnale lungo e sottile. Aveva già dimostrato di sapersi muovere con agilità e rapidità da gatto, ma anche nell'aspetto aveva qualcosa di felino, con le labbra strette e gli occhi spalancati dallo sguardo indecifrabile. Nell'osservare quel volto, l'assassino Jakifiano non riuscì a reprimere un brivido di terrore. Zameer Dey era un omicida, ma quell'uomo era un modello di freddezza. Gli avventori, nel frattempo, accortisi che lo sconosciuto nerovestito non era una vittima facile, arretrarono per lasciar libero uno spazio circolare intorno ai due antagonisti. Il giovane guerriero restò a fianco della ragazza impugnando l'arma, ugualmente pronto ad affrontare l'assassino nel caso in cui il benefattore non si fosse dimostrato all'altezza delle aspettative. Non prendeva nemme-
no in considerazione l'ipotesi di fuggire con la ragazza, sia per una questione d'onore sia perché era interessato quanto gli altri spettatori agli sviluppi del duello. Nessuno infatti intendeva perdersi un simile spettacolo. I nobili mercenari, guerrieri e decaduti apprezzavano una simile dimostrazione di virilità ben più della danza, e i due avversari promettevano un'esibizione delle migliori: l'orientale freddo e misterioso con il suo pugnale micidiale contro il più feroce tra gli assassini Jakifiani, armato di una lama ricurva affilatissima. «Sei veloce, pallido maiale d'Oriente» sibilò il killer serpentino, preparandosi ad affrontare l'avversario. «Dev'essere il terrore della morte imminente a donarti tanta rapidità, ma servirà soltanto a rimandare di poco la tua fine!» A quelle parole la gente di Ket, Tusmit, Ebir ed altre regioni occidentali lanciò alte grida di incoraggiamento allo Jakifiano, mentre i Bisseliti e i Perrenlandesi, per tutta risposta, ringhiarono e sputarono, ed un gruppo di mercenari Velunesi lodò a suon di fischi l'abilità di combattenti degli occidentali e le loro armi. L'assassino dalla pelle scura puntò verso l'alto la lama curva della sua arma, che costituiva un prolungamento del suo braccio, mentre la ruotava verso l'interno per attaccare l'avversario. Era uno stile di combattimento piuttosto inconsueto, ma letale. Chi ne era l'oggetto, di solito si ritrovava a fette prima di rendersi conto che la lama ricurva parava sì i colpi ma nello stesso tagliava le membra dell'avversario, grazie ai movimenti rotatori di chi la brandiva e allo stretto contatto fra i due contendenti. Gli abitanti delle estreme regioni occidentali del Califfato amavano molto questo tipo di combattimento, raramente utilizzato invece nelle regioni centrali come appunto il Ket. L'uomo vestito di pelle non replicò alle minacce e al sarcasmo dell'avversario, e continuò ad osservarlo con sguardo duro e implacabile. Mentre lo Jakifiano si avvicinava sempre più, l'orientale si spostava, tenendo sempre il pugnale dalla lama diritta tra sé e il sicario; ne studiava attentamente i movimenti ma non attaccava. L'uomo di nome Zameer Dey indossava un corto caffettano a strisce multicolori, tipico dello Jakif; in vita portava una fusciacca di tessuto dorato e sotto il caffettano un paio di ampi pantaloni di satin turchese, infilati negli stivali dalla punta lunga tanto popolari tra le sue genti. Sopra il caffettano portava inoltre un indumento imbottito e ricamato, simile ad un camiciotto, ma aperto davanti. La linea curva del petto faceva intuire che sotto il caftano ci dovesse essere una corazza protettiva, forse una camicia di cuoio. L'assassino sembrava impaziente, e forse
un tantino più fiducioso. «Vieni, bastardo Ourmi!» esclamò con un sorriso falso stampato sul volto malvagio. «Vuoi ballare con me? O sarai abbastanza coraggioso da usare quella stupida lama che mi punti contro?» Mentre parlava, Zameer Dey si accucciò, continuando a brandire il pugnale con la punta rivolta verso l'alto e ad osservare il nemico con gli occhietti neri e lucenti, pronto a coglierne il minimo errore; era pronto a bloccare, tagliare, sventrare o trafiggere il nemico non appena gli si fosse presentata l'opportunità. I suoi movimenti erano difficili da seguire, e sarebbe stato altrettanto difficile contrastarli una volta che fosse passato all'azione. La folla scoppiò a ridere quando Zameer Dey pronunciò i suoi insulti, ma l'uomo vestito di nero non apparve affatto turbato. Quando l'assassino iniziò a spostarsi lentamente verso sinistra seguendo una traiettoria ad arco, il giovane si limitò a muoversi anch'egli verso sinistra per poter tenere d'occhio lo sguardo e l'arma dello Jakifiano. Sebbene la sua pelle fosse scura come quella dei Kettiti che lo deridevano ed anche i suoi capelli rassomigliassero a quelli degli individui di ascendenza Bakluniana, non c'erano dubbi sulle sue origini orientali e sul fatto che nelle vene gli scorresse sangue Oeridiano. Se Zameer Dey pensava che chiamarlo Ourmi, termine spregiativo usato per tutti gli orientali, avrebbe avuto l'effetto di turbarlo, doveva rimanere deluso. Il giovane straniero mostrava la calma letale e la prudenza imperturbabile dell'esperto combattente. Appesa al fianco recava una daga dalla lama diritta, ma non fece la mossa di usarla; teneva invece puntato davanti a sé, come una spada, il pugnale dalla lama lunga una trentina di centimetri; e anche questo era uno strano modo di combattere. Stanco di quei temporeggiamenti, o forse timoroso che il suo padrone diventasse impaziente, lo Jakifiano dalla pelle scura balzò in avanti con una finta. Il lungo pugnale si scontrò con la lama ricurva, spingendola leggermente verso il basso, ma poi colui che lo brandiva lo tirò indietro, per evitare di rimanere incastrato o di essere ferito al braccio. L'assassino Jakifiano fu lesto, e abbandonò immediatamente la posizione semiaccucciata, portando un colpo verso l'alto. Lo sconosciuto arretrò di scatto, ma solo di un passo, e iniziò a menare fendenti con il lungo pugnale. La prima mossa fu una finta, destinata a portare ancor più a lato il pugnale dell'assassino. Fu la seconda mossa a fare il «danno»; il giovane in nero si limitò a girare di scatto il polso, cambiando a metà strada la direzione della lama; la puntò verso l'alto proprio mentre Zameer Dey si rad-
drizzava, praticando un taglio trasversale sulla parte anteriore del suo turbante di seta. Il fendente, potenziato dalla mossa dello stesso assassino, sezionò diversi strati della stoffa sottile; contemporaneamente l'orientale fece un balzo all'indietro, accontentandosi a quanto sembrava di lasciare che gli eventi seguissero il proprio corso. I resti del turbante piovvero sul volto di Zameer Dey, rivelando che sotto portava un elmetto chiodato. Non era un danno grave, ma se non avesse rinunciato alla contromossa per liberarsi dei brandelli di stoffa, si sarebbe reso vulnerabile all'attacco. Arretrò quindi di scatto, strappandosi dal capo i pezzi di tessuto, cosicché l'elmetto metallico, non più fissato dal turbante, cadde a terra con un tonfo, sovrastato dalla voce del suo proprietario. «Schifoso figlio appestato di una dozzina di padri innaturali!» imprecò il sicario, con i lineamenti distorti dall'ira. «Sappi che mi chiamo Gord di Falcovia, viscido assassino», rispose il giovane senza espressione né emozione, riassumendo la posizione accucciata. «L'ultimo uomo che tenterai di ammazzare con l'inganno e con il veleno.» Lo Jakifiano passò alla mossa seguente prima che l'avversario avesse terminato di parlare. Al primo passo colpì col piede l'elmetto cadutogli dal capo e lo fece rotolare verso il giovane; continuò comunque ad avanzare, seguendo la traiettoria dell'elmetto ed apprestandosi a terminare il combattimento. Ma il giovane che aveva detto di chiamarsi Gord di Falcovia non aveva intenzione di attendere l'elmetto chiodato o la lama ricurva senza reagire; fece invece un salto, seguito da una capriola volante proprio sulla testa dell'avversario. Girandosi a mezz'aria, atterrò alle spalle del nemico, e non aveva nemmeno toccato terra con i piedi che la lama del suo pugnale era già penetrata tra le scapole di Zameer Dey. Con mossa fulminea, Gord estrasse la lama e la conficcò nuovamente nel corpo del nemico fino all'elsa. L'uomo diede un debole colpo di tosse, poi cadde a faccia in giù, morto; il suo sangue scorreva sulle piastrelle multicolori e sul marmo del pavimento. La taverna piombò in un silenzio mortale. Neppure i mercenari orientali avrebbero immaginato una conclusione tanto sorprendente del duello, mentre i Kettiti e gli altri occidentali erano costernati, dopo aver prospettato una facile vittoria al killer Jakifiano. Ad un tratto il silenzio fu spezzato. «Ammazzatelo!» Il grido proveniva da Kufteer, Scià di Wadlaoo e Visir del Califfo di Jakif. Questa volta ad obbedire all'ordine fu una mezza dozzina di uomini, che
costituivano la guardia personale dello Scià. Quegli individui avevano già abbandonato la loro posizione lungo la parete posteriore del locale durante il duello fra Zameer Dey e lo straniero; ora, mentre la folla si apriva frettolosamente per lasciar loro il passo, si precipitarono a compiere il proprio dovere, confidando nella superiorità di numero. Alla testa delle guardie si trovava un gigante con un turbante globoso e un paio di pantaloni trasparenti; indossava inoltre un usbergo di maglia metallica, adornato da grosse catene sul petto, ed agitava un mostruoso tulwar con una mano sola, come se fosse stato una bacchetta di salice. Il resto delle guardie trotterellava a diversi passi di distanza, pronto a seguire il capo anche se il gigante guerriero sembrava più che sufficiente ad occuparsi del piccolo bastardo Ourmi che aveva osato uccidere il servitore del nobile Jakifiano. «A...a...l R...u...u...h...k!» L'omone urlò il proprio nome come un grido di battaglia, avventandosi sull'avversario con il tulwar sollevato, pronto per un fendente micidiale. Un colpo simile, se fosse andato a segno, lo avrebbe certamente spaccato in due, ma Gord, invece di scansarsi da una parte o dall'altra, sguainò la daga con la mano sinistra, piegò leggermente le ginocchia e rimase immobile pronto a ricevere il colpo. Se il massiccio Jakifiano pensava che il suo impeto e il suo grido di guerra avessero terrorizzato l'avversario, dovette ben presto ricredersi. Mentre il gigante si avvicinava, apprestandosi a menare il fendente mortale, infatti, Gord sollevò entrambe le armi, prese la lama dell'avversario nella X da esse formata, si girò contemporaneamente verso sinistra e deviò così il colpo. Poi si piegò verso destra, cosicché l'impeto del gigante si ritorse contro il medesimo; il suo lungo spadone tagliò l'aria alla sinistra di Gord e colpì il pavimento, spaccando le piastrelle nel punto dell'impatto. Sbilanciato e confuso, il massiccio Jakifiano tentò di ripetere il colpo, ma Gord non intendeva accordargli una seconda possibilità, come invece aveva fatto con l'assassino. Con un rovescio della mano sinistra colpì con la daga il collo nudo del gigante, mentre con una mossa fulminea della destra fece penetrare il pugnale nell'usbergo dell'avversario come nel burro, proprio all'altezza del cuore. «Addio, elefante!» esclamò lo straniero ad alta voce, estraendo il pugnale dal cadavere. La massiccia guardia era già morta prima di toccar terra. Un mormorio di sconcerto serpeggiò fra gli astanti mentre Gord estraeva il pugnale: anche in quella mossa la lama tagliò alcune maglie di ferro dell'usbergo come se fossero state fili di cotone. Nessuno di loro aveva mai
visto tagliare a quel modo un usbergo Keshrun, con una lama di pugnale! Le altre cinque guardie del corpo si erano bloccate vedendo Al Ruhk cadere morto davanti a loro, ma ora venivano incoraggiate ad agire dai fischi e dalle urla degli spettatori. I mercenari orientali tuttavia sostenevano Gord a gran voce, imitati questa volta da alcuni Rettiti. Ecco uno spadaccino ed un'arma di cui non si erano mai visti simili! Le guardie Jakifiane si disposero a semicerchio e presero ad avanzare lentamente ma con determinazione. Avevano già affrontato avversari spietati, e il loro piano era chiaro: intendevano circondare il nemico e, mentre due o tre di loro lo tenevano impegnato, gli altri lo avrebbero colpito ai fianchi o alle spalle. Certamente cinque degli scagnozzi di Kufteer non avrebbero impiegato molto a sbarazzarsi di quel bastardo Ourmi; erano tutti piuttosto grossi, anche se non quanto il defunto Al Ruhk. Il più alto del gruppo, al centro del semicerchio, era pure massiccio, con strati di grasso che gli mascheravano le fasce muscolari. Costui tentò di impegnare Gord per primo, tenendolo occupato mentre gli altri si mettevano in posizione, e si avventò su di lui ancor prima di averlo a tiro; in quanto membro più anziano del gruppo, infatti, gli spettava la possibilità di sbarazzarsi del nemico da solo, anche se gli altri lo avrebbero ugualmente circondato... per ogni evenienza. Il massiccio Jakifiano passò all'attacco, agitando furiosamente la spada davanti all'avversario e coprendolo di insulti e parolacce. «Te la cavi bene, per essere uno sporco mucchio di sterco di maiale» disse Gord, intento a parare e a scansare i primi colpi. Gli altri quattro spadaccini l'avevano quasi circondato quando quello che gli stava davanti perse un attimo di tempo per preparare un potente fendente. Gord gli balzò addosso all'improvviso, puntando la spada verso l'alto e spingendola contemporaneamente verso l'esterno. Preso alla sprovvista, il grassone Jakifiano tentò di arretrare; riuscì ad evitare il primo colpo per un pelo, ma la sua lentezza non gli permise di parare la pioggia di colpi che seguì. Gord lo ferì dapprima al torace con un colpo di pugnale, poi con un colpo di spada gli squarciò la coscia sinistra, non protetta dall'armatura. La guardia cadde all'indietro, comprimendosi la gamba ferita, e perse conoscenza non appena toccò terra. Gord lo superò con una capriola mentre cadeva ed atterrò di fronte ai quattro superstiti, che stavano per colpire lo spazio vuoto. «Rinfoderate le spade» disse Gord in tono piatto, «e dimenticherò quest'incidente. Ma se continuerete ad attaccarmi, non avrò pietà.» «Ammazzatelo!» ripeté lo Scià Kufteer.
Un po' incerti, i quattro guerrieri si accinsero ad affrontare nuovamente l'avversario, costretti ad obbedire dall'ordine del padrone ma riluttanti ad affrontare quel terribile piccolo nemico. «Alla vostra morte, dunque» disse Gord, senza traccia di emozione o di minaccia nella voce. Le guardie dello Scià di Wadlaoo non avevano preso alla leggera le parole dell'orientale, ma non avevano scelta. Non attaccarlo significava andare incontro a morte sicura, ma lo stesso sarebbe accaduto se lo avessero fatto e se l'avvertimento dell'ometto si fosse avverato. Mentre Kufteer li avrebbe fatti bollire vivi se avessero fallito, l'Ourmi offriva loro una fine pulita e rapida, quindi i quattro guerrieri si gettarono quasi contemporaneamente sullo straniero, senza preoccuparsi di predisporre un piano di attacco. Sull'uomo vestito di nero piovvero colpi furiosi, fendenti e piattonate da dietro e di fianco, ma con grande dispetto dei sicari, quando il colpo di spadone arrivava a segno, l'ometto non era mai nel punto dove si trovava soltanto un secondo prima. Nel corso di quella confusa serie di scambi, i quattro sicari sembravano intralciarsi fra loro, mentre lo straniero con le sue armi praticava un'infinità di piccole ferite sui loro corpi sudati. La folla taceva, stupefatta dalle imprese di quel guerriero solitario che prima si era sbarazzato di un mortale assassino, poi di uno spadaccino gigantesco, senza apparenti emozione o sforzo. Un terzo avversario giaceva al suolo, privo di conoscenza e più morto che vivo, e ora lo straniero era deciso a combattere all'ultimo sangue contro quattro guerrieri esperti contemporaneamente. Ancora illeso, teneva a bada quattro tulwar, mentre coloro che li impugnavano grondavano sangue dalle ferite che aveva loro inflitto. La scena ora si stava facendo insopportabile per gli spettatori occidentali, quasi un insulto. Alcuni abitanti di Jakif, Tusmit ed Ekbir si infuriarono e sguainarono le loro scimitarre e i pugnali dalla lama ricurva. I nomadi presenti invece non sembravano parteggiare per nessuno in particolare, e si limitavano a commentare lo stile dei combattenti. La maggior parte dei Rettiti, tuttavia, assieme ai mercenari orientali, si era schierata apertamente dalla parte dell'omino che rispondeva al nome di Gord di Falcovia ed applaudiva ai suoi successi, ridendo dei goffi tentativi fatti dagli Jakifiani per colpirlo. Ormai era chiaro a tutti che quella scaramuccia poteva risolversi in una sola maniera, e che la fine doveva arrivare presto. Tutte e quattro le guardie Jakifiane erano ferite e ansavano per la fatica di sollevare ed agitare ri-
petutamente i loro spadoni. Nel giro di un minuto o due, ne sarebbe caduto prima uno, poi un altro, finché in breve tutti coloro che avevano osato affrontare l'ometto si sarebbero ritrovati a terra come già tre dei loro compagni. Quando l'ennesimo cadavere crollò sul pavimento di piastrelle, lo scià ritenne di aver visto abbastanza e si gettò personalmente nella mischia. Il suo pugnale aveva l'elsa incrostata di pietre preziose, ma la lama ricurva era di acciaio affilatissimo, estremamente funzionale, ed emanava un oscuro fascino. Kufteer si precipitò silenziosamente verso Gord da un punto alle sue spalle, pronto ad infliggergli un fendente micidiale al fianco sinistro mentre il giovane era impegnato con le tre guardie superstiti. Gord non diede a vedere di essersi accorto che lo scià stava arrivando, ma all'ultimo istante fece un balzo di lato tale che Kufteer, con enorme sorpresa, gli passò davanti in diagonale e il suo pugnale micidiale tagliò l'aria. Poi, trafiggendogli il fianco con il pugnale e dandogli un calcio sull'anca, Gord fece perdere l'equilibrio all'aggressore e lo mandò dritto contro le spade delle sue guardie. La più vicina di loro tentò di spostare l'arma sollevandola in alto, ma l'unico risultato fu quello di farla strisciare di taglio sul collo del suo capo. Lo scià tentò di urlare, ma non riuscì a produrre alcun suono, e crollò al suolo. La guardia che aveva involontariamente colpito il padrone rimase immobile per un istante, inorridita di fronte a ciò che aveva fatto. Le armi di Gord lampeggiarono nuovamente e il guerriero Jakifi non dovette più preoccuparsi di aver ucciso il proprio capo perché anch'egli si ritrovò cadavere in un batter d'occhio. Mentre costui si afflosciava sulla salma di Kufteer, i due superstiti lasciarono cadere le armi e fuggirono; preferivano rischiare la conseguente cattura ed essere tagliuzzati su tutto il corpo e rotolati nel sale, piuttosto che dover affrontare ancora quell'uomo vestito di nero. Per un attimo nella taverna regnò un silenzio totale. Il proprietario tremava visibilmente mentre scrutava infuriato il locale e capiva in quale situazione si era messo. Era già un guaio che quella mezza cartuccia avesse vinto; ora infatti l'affare non poteva essere concluso e Omar avrebbe perduto i mille dokshees d'oro e la perla; l'aspetto peggiore della faccenda era tuttavia la morte di un grande personaggio come lo Scià di Wadlaoo proprio nel suo locale, che probabilmente avrebbe fatto scatenare su di lui le ire del superiore dello scià, il Governatore di Ket. Sempre più furioso e tremante, Omar comprese che il giovane straniero doveva essere ucciso a tutti i costi, e diede sfogo alla propria rabbia in uno strillo acuto, puntando
un dito contro Gord ed urlando di attaccarlo. Parecchi dei servi di Omar si avvicinarono riluttanti al circolo in cui Gord si trovava, tra i cadaveri degli avversari. Nello stesso istante nell'auditorio si scatenò un putiferio: gli spettatori ne avevano abbastanza di stare a guardare. «Hoddo Ekbir!» «Veluna e Struthburt!» «Tusmani Akbur!» In pochi secondi sfide e grida di battaglia echeggiarono per tutta la taverna, che divenne un vero e proprio campo di battaglia tra Oriente e Occidente. I Kettiti si schieravano dall'una o dall'altra parte, a seconda dell'umore, schiamazzando e menando colpi di spada. I mercenari orientali e i fuorilegge generalmente combattevano contro gli occidentali dalla pelle scura e dal turbante, mentre Gord rimaneva solo come un'isola in quella tempesta, perché nessuno osava affrontarlo. Alla sua destra vide la Perla di Perfezione dirigersi verso di lui facendosi strada fra la folla; non c'era però traccia del giovane che era con lei. Uno dei servi del grasso proprietario si gettò sulla fanciulla, che aveva quasi raggiunto Gord, ma questi risolse facilmente il problema gettandosi su di lui a sua volta e colpendolo. Ormai la folla era diventata una massa informe e aveva finito per riempire anche lo spazio vuoto che aveva circondato Gord fino a poco prima. La fanciulla gli si avvicinò e gli afferrò un braccio. «Svelto, seguimi!» gli gridò in un orecchio, poi gli lasciò il braccio e si mise a correre tra la folla, diretta verso un arco riparato da una tenda sul retro del vasto locale. Gord la imitò, e gli schiamazzi sembravano aumentare là dove passava la ragazza seminuda; a quanto pareva, però, nessuno voleva assumersi la responsabilità di far del male a quella creatura tanto ambita e preziosa. Nessuno osò d'altro canto attaccare direttamente Gord, perché tutti avevano visto che cosa era in grado di fare, ma il giovane doveva comunque restare costantemente all'erta per non essere ferito di striscio mentre seguiva la stessa via presa dalla danzatrice. Passò attraverso la tenda che schermava la porta ad arco e si ritrovò in un corridoio ampio e mal illuminato, dove ebbe una breve visione dei capelli chiari della Perla che spariva dietro un angolo. Sentiva un forte odore di cibi speziati rancidi: Gord immaginò che la fanciulla fosse diretta in cucina, dove probabilmente si trovava un'uscita secondaria. Si affrettò quindi a percorrere il breve corridoio e, girato l'angolo, giunse in una vasta sala.
«Muoviti!» gli gridò la Perla quando lo vide arrivare. Si trattava proprio della cucina, ma cuochi e sguatteri dovevano aver preso parte alla rissa, oppure se l'erano data a gambe. «Dobbiamo andarcene immediatamente», disse la fanciulla; insieme attraversarono la cucina, un altro corridoio e un giardinetto recintato. Un uomo alto, avvolto in un fluente burnus, con il volto velato secondo l'uso dei Tusmiti, teneva aperto il pesante cancello. Ai suoi piedi giaceva una guardia; in una mano teneva un pugnale e nell'altra il mantello del morto. «Chi è...» fece per chiedere l'uomo, ma la fanciulla gli troncò la parola in bocca. «Non vedi?» ribatté in tono di rimprovero quando assieme a Gord raggiunse il cancello. «È l'Ourmi che si è messo tra te e la morte!» Il guerriero velato non aggiunse altro. Con una rapida mossa avvolse la danzatrice seminuda nel burnus e l'accompagnò al di là del cancello. Gord li seguì da presso e il Bakluniano richiuse il pesante portone, rimettendo a posto il chiavistello. L'uomo e la donna dovettero fermarsi per un attimo in modo da potersi orientare, visto che nel vicolo in cui si trovavano era buio pesto. Gord invece possedeva una speciale vista notturna che gli permetteva di vedere chiaramente, come se il cielo fosse stato illuminato dal sole, e non da quella manciata di stelle e dalla pallida mezzaluna di Celene, il più piccolo dei due satelliti di Tarre. «Ti ringrazio per avermi dato modo di uscire da quel luogo, Perla di Perfezione» disse, con sincera riconoscenza. «Il braccio che reggeva la spada ormai cominciava a farmi male.» «Perché hai combattuto per me?» chiese il compagno della danzatrice, levandosi il cappuccio del burnus. Gord lo riconobbe immediatamente per il guerriero che aveva ricevuto le manifestazioni d'affetto della Perla all'interno del locale. Non c'erano dubbi che Gord gli avesse salvato la vita, ma il giovane orientale capiva benissimo che l'orgoglio di quell'uomo aveva subito uno smacco. Rispose quindi senza ombra di irritazione: «Per essere sinceri, questa nottata è stata come un brutto sogno per me. Un tempo conoscevo una bella danzatrice: anch'essa doveva essere venduta. Ma non importa. Ho fatto ciò che mi pareva giusto, e spero che tu sia soddisfatto della mia opera.» La ragazza strinse il braccio di Gord: «Grazie, straniero. Hai contribuito a ridarmi la vita e la speranza. Non immagini nemmeno quanto ciò che hai fatto significhi per me.» «Sì, mille grazie, guerriero dell'Est» disse l'alto Kirkiro, con una certa
ammirazione, pur riluttante, nella voce. Poi, in tono più entusiasta, proseguì: «Vieni con me. Porterò la Perla a casa, nei Pennor, dove la tribù Albabur del popolo Kirkiro vaga libera e felice. Un uomo come te sarà di certo il benvenuto.» «Oh, sì, Zulmon, fai venire anche lui!» fece eco la danzatrice, aggiungendo poi in tono concitato: «Ma dobbiamo affrettarci, perché presto tutta Hlupallu sarà in tumulto, dopo quanto è accaduto. Prima di tutto dobbiamo andarcene di qui, poi potremo parlare lungo la via.» A Gord non importava di lasciare la questione momentaneamente irrisolta. Il terzetto si avviò rapidamente lungo il vicolo, per poi entrare in un altro ancor più stretto che, dopo parecchie svolte, sboccava in una piazzetta aperta. Vi si trovavano quattro cavalli, due dei quali sellati. Zulmon si avvicinò ad uno di essi e dalla sacca che portava sul dorso estrasse un mantello simile al suo, di un colore indefinibile. Lo gettò a Gord, che si affrettò ad indossarlo sugli abiti di pelle. «Sai cavalcare a pelo?» gli chiese Zulmon, mentre faceva montare la ragazza su uno dei cavalli sellati. «Certamente» rispose Gord. «Quei due sono cavalli di riserva» spiegò il guerriero a bassa voce, mentre montava a sua volta. «Scegli quello che preferisci e portati dietro l'altro.» I tre lasciarono il bazar attraverso la strada stretta che si apriva di fronte al vicolo da cui erano arrivati. Per le orecchie sensibili di Gord, gli zoccoli ferrati dei cavalli facevano un chiasso tale da svegliare tutta Hlupallu mentre passavano rapidamente davanti agli edifici che costeggiavano la strada; si guardò nervosamente intorno, ma in giro non c'era nessuno, e tutte le finestre rimanevano chiuse. Dicendosi che preferiva di gran lunga il proprio modo di muoversi in silenzio nelle città addormentate, Gord si abbassò sulla propria cavalcatura per seguire più agevolmente gli altri due. Per ora era meglio restare con la donna e il guerriero, concluse; sembrava che avessero un piano per lasciare la città, e anche Gord doveva per forza fare lo stesso. Tutte le sue cose erano rimaste nel caravanserraglio dove alloggiava, ma si trattava solo di qualche abito e di pochi denari. «Scendi da cavallo e conduci entrambi per le briglie» gli disse Zulmon a bassa voce. «Siamo arrivati alle porte della città, e per il momento devi fingere di essere il mio schiavo.» Gord ubbidì senza commenti. Camminando a passo svelto per non resta-
re indietro, il giovane seguì gli altri due a piedi per il centinaio di metri che mancavano per raggiungere la porta. La porta era sorvegliata da quattro uomini, armati di archi ricurvi, lunghe lance e spade; costoro si rifiutarono di lasciar passare il trio e chiamarono il loro caporale, che si trovava nella caserma. L'uomo cominciò a minacciarli e a fare un sacco di storie ma, quando Zulmon mise alcune monete di rame e di bronzo in un borsellino e glielo gettò, si calmò ed ispezionò rapidamente i cavalli e i cavalieri, senza nemmeno curarsi di Gord. La porta fu quindi aperta e i tre uscirono dalla città, inghiottiti dalle tenebre notturne. Capitolo 3 All'alba il gruppetto era a qualche miglio dalla città, ma per Gord la direzione seguita non aveva alcun senso. Quando chiese delucidazioni a Zulmon, questi gli spiegò il trucco: «Ci dirigiamo a sud-est, nella zona centrale di Ket, ma gli abiti che indossavamo ieri sera, quando siamo arrivati alle porte della città, erano di tipo Tusmita; penso quindi che gli eventuali inseguitori perlustreranno il nordovest e l'ovest, sicuri che noi siamo diretti a Tusmit». Scoppiò in una grassa risata e aggiunse: «Quale persona sana di mente cercherebbe di evitare gli scagnozzi del Governatore dirigendosi proprio nel cuore del suo regno?» «Che strano modo di fuggire» commentò Gord seccamente. «Tra l'altro in questo modo io mi trovo in una posizione alquanto scomoda, visto che avevo intenzione di dirigermi verso sud-ovest.» «Perché mai, Gord di Falcovia?» chiese la Perla con la sua voce dolce. «Perché non vieni con noi e non ti unisci alla tribù di Zulmon?» Prima che il giovane avesse il tempo di rispondere, tuttavia, Zulmon chiarì meglio la situazione: «Punteremo molto presto verso sud, Gord. Il fiume Toosmik scorre alla nostra sinistra, e quando piegherà verso sud, lo stesso avverrà per il cammino da noi seguito». Il guerriero guardò Gord con aria interrogativa, e il giovane nerovestito gli fece cenno di continuare. «La regione tra la grande foresta che voi orientali chiamate Groviglio di Rovi e il fiume è selvaggia ed ostile. I banditi potrebbero molestarci, ma nessuno dell'esercito di Ket ci intralcerà. Guaderemo il Toosmik ed entro domani sera avremo raggiunto le colline.» Le previsioni di Zulmon si avverarono, e i tre cavalieri raggiunsero le pendici delle Colline Pennor prima del tramonto. Gli indigeni li evitarono e l'unica minaccia venne da un gruppetto di fuorilegge dagli abiti variopin-
ti, che però fu facilmente scoraggiato dall'arco del Kirkiro, tanto grande che il nomade doveva scendere da cavallo per incoccare la freccia. La Perla rimase in silenzio per diverse ore durante la cavalcata, con un'espressione impassibile. Alla fine, quando il sole era sceso del tutto sotto la linea dell'orizzonte e Zulmon aveva deciso che era tempo di fermarsi per la notte, la fanciulla smontò da cavallo con una certa stizza. Come se quel gesto avesse segnato il momento di ricominciare a parlare, la ragazza prese a lamentarsi dei propri guai, rivolta a nessuno in particolare. «Odio andare a cavallo» gridò. «Oh, quanto odio andare a cavallo!» Era la prima volta che Gord la udiva parlare con voce tanto aspra, e anche il suo aspetto lasciava piuttosto a desiderare, infangata e arrabbiata com'era. «Non riuscirò mai più a danzare se dovrò stare tanto tempo a cavallo» aggiunse, «e voglio un letto morbido e un bagno ristoratore!» «Mi rincresce, mia colomba d'oro» tentò di rabbonirla Zulmon, con voce dolce, «ma possiamo riposare solo qualche ora. Ci vuole però solo un altro giorno di viaggio per raggiungere le terre del mio popolo: laggiù troverai tutto ciò che desideri.» La Perla brontolò un pochino, e pur con aria stanca ed infelice, sospirò rassegnata e cercò di sistemarsi nel miglior modo possibile sulla dura terra. «Ahi! Le pietre mi pungono» gridò. «E il fetore dei cavalli mi dà la nausea!» Zulmon si offrì per il primo turno di guardia, cosicché Gord si scelse una zona di terreno piatto, si sdraiò su un fianco e tentò di dormire. Nel frattempo il guerriero cercava di mettere a suo agio la futura sposa, rassicurandola più e più volte sul fatto che tutto sarebbe andato bene ed incoraggiandola a riposare mentre egli la sorvegliava. La vita non sarebbe stata tutta rose e fiori per quella coppia, rifletté Gord. Sapeva qualcosa della vita dei nomadi, e su quelle colline la Perla non avrebbe di certo trovato tutte le comodità che agognava. Comunque, pensò, si sarebbe ben presto abituata alla situazione; difficilmente avrebbe potuto trovare un uomo migliore di Zulmon, ma in ogni caso adattarsi sarebbe stato difficile per entrambi. Finalmente si addormentò. Quando Zulmon lo svegliò per il nuovo turno di guardia, la Perla stava dormendo; dormiva di un sonno intermittente che però durò fino all'alba. La tribù Al-babur accolse con entusiasmo i tre, quando essi giunsero al campo nel tardo pomeriggio. Gord rimase sorpreso e leggermente impressionato nell'apprendere che Zulmon era il primogenito del capotribù, fatto che Zulmon stesso non aveva ritenuto opportuno rivelare. Il ritorno del
giovane con quattro splendidi cavalli e con la stupenda fanciulla che aveva scelto come sposa costituiva un motivo più che sufficiente per entusiastici festeggiamenti. Gord fu accettato come membro della tribù dal capo, che si chiamava Mulha, dopo che Zulmon ebbe descritto la rissa scoppiata a Dar Peshdwar e la vittoria del giovane avventuriero su tanti spadaccini. Come tutti i Kirkiri, anche quelli della tribù di Al-babur non erano nomadi veri e propri; costruivano infatti villaggi con case di pietra, e le loro donne coltivavano i campi. periodicamente, però, la tribù si spostava da un villaggio all'altro, in concomitanza con le diverse stagioni. Gli uomini si dedicavano alla caccia e alla guerra; a volte nasceva qualche scaramuccia tra le tribù Kirkire, che di solito però combattevano contro i Bayomen e gli Yoli vagabondi. La festa tuttavia era doppia in quanto, oltre al ritorno di Zulmon, si celebrava anche il trasferimento dal villaggio estivo alla fortezza in cui la tribù si stabiliva per i mesi autunnali. Come promesso, l'ultima parte del viaggio aveva riportato Gord nella direzione desiderata, e con lo spostamento della tribù, se avesse deciso di unirsi ad essa, avrebbe percorso un altro tratto di cammino, arrivando fino alle colline che sorgevano tra le praterie meridionali reclamate dagli Yoli e le vaste steppe in cui i Bayomen vagavano in bande assieme alle loro mandrie. «Rimani con noi per questa stagione, Gord di Falcovia» implorò la Perla, quando il terzetto si riunì nella tenda di Zulmon durante una pausa dei festeggiamenti. «Qui mi annoio, e sarebbe bello avere qualcuno che conosca la vita civile per poter conversare.» A quelle parole, sul volto di Zulmon si dipinse momentaneamente un'espressione truce; l'uomo però si trattenne, e riuscì addirittura a sorridere quando riprese a parlare: «Sia fatto ciò che la mia sposa desidera, Gord, fratello mio. Anch'io ti chiedo di rimanere con noi. Un guerriero come te sarà un grande onore per la tribù di Al-babur, e ben presto diventerai ricco e rispettato. Mio padre mi ha detto che già due uomini vorrebbero darti la propria figlia in sposa!» A quest'ultima osservazione, Gord si mise a ridere. «Molto onorato» disse in fretta, per non offendere l'ospite, «ma immagina un uomo come me che tenti di mettere su famiglia con due donne, non una! Impazzirei o fuggirei nel giro di un mese. La tua proposta mi onora molto, Zulmon, fratello mio, ma non riesco a stare fermo per molto in un luogo, e inoltre ho un dovere da compiere. Domani sarò costretto a prendere congedo da te.» «Sei troppo giovane per vagabondare a questo modo» commentò la Per-
la in tono petulante. Zulmon fece per intervenire irosamente in difesa di Gord, ma questi si giustificò da solo: «Non sono poi così giovane, cara sorella; dimostro una ventina di primavere, ma ne ho qualcuna di più. Il tempo è stato clemente con me...» «E a sedici anni i guerrieri di Al-babur girano a cavallo da soli per rubare i destrieri dei nemici» disse il Kirkiro alla futura moglie. «Tu offendi Gord, insinuando che non sia all'altezza della sua età.» Adducendo qualche vaga scusa, Gord riuscì finalmente ad allontanarsi dalla tenda. Fu salutato con gioia da diversi guerrieri, e ben presto si ritrovò a bere vino e a parlare di cavalli con loro. La riunione si protrasse per buona parte della notte, e il padre di Zulmon non faceva che cantare le lodi del giovane orientale che tanto aveva contribuito a far rientrare suo figlio sano e salvo. Quando venne il momento di partire, il mattino dopo, a Gord fu dato un piccolo stallone veloce di nome Windeater, come dono di ringraziamento da parte del capo. L'animale era assai più forte di quanto sembrasse, disse Mulha, assicurando Gord che era in grado di galoppare per ore senza stancarsi. Il giovane montò su una sella borchiata d'argento; anche le bisacce, che contenevano i suoi vecchi abiti e parecchie provviste, avevano ornamenti d'argento. Ora l'avventuriero indossava il costume Kirkiro sopra la cottamaglia. Prima di partire, Gord fece in modo di rimanere per qualche istante solo con la Perla e con Zulmon, per un rapido saluto. La fanciulla parlò per prima: «Mi dispiace di averti coinvolto nei fatti spiacevoli di Dar Peshdwar, ma so che capisci che non desideravo finire i miei giorni come schiava in qualche harem». Era di nuovo in forma, e riusciva ad essere seducente anche mentre si profondeva in scuse. «È stato un onore poterti aiutare, signora» rispose Gord, ansioso di por termine alla conversazione e di mettersi in viaggio. Ma la fanciulla insisté nel continuare il racconto. «Omar, la montagna di grasso, intendeva servirsi di me come di uno strumento per accrescere la propria influenza alla corte del Governatore» gli disse la Perla. «Ho tentato il tutto per tutto per sfuggirgli, e Zulmon ha parlato in mia difesa, ma invano. Quando mi sono inchinata davanti a lui nella tradizionale offerta del mio corpo, mi stavo giocando l'ultima possibilità. Ritenevo infatti che Zulmon potesse sbarazzarsi facilmente del grasso Omar, il che è puntualmente avvenuto. Ma sapevo anche che avremmo avuto bisogno di aiuto per sopraffare gli scagnozzi di Omar e di Kufteer, o
per fuggire. Avevo la speranza che tu, Gord di Falcovia, saresti intervenuto, ma non avrei mai immaginato che fossi tanto formidabile.» «Dice la verità» aggiunse Zulmon «Ogni qual volta tentavo di avvicinarmi alla Perla, Omar me lo impediva, e non ascoltava nemmeno le mie offerte di acquistarla. Sono sicuro che assieme ad alcuni agenti di Ket aveva progettato di infiltrare la Perla nel serraglio di Jakif come spia. In cambio della libertà avrebbe dovuto fornire tutte le informazioni richieste dagli agenti. Forse avrebbero mantenuto la promessa, anche se è molto più probabile che, una volta terminato il suo compito, fossero intenzionati ad eliminarla con il veleno.» «Perché hai pensato che potessi aiutarti?» chiese Gord, trovandosi suo malgrado a partecipare alla conversazione, nonostante avesse fretta di partire. «Ho visto qualcosa nei tuoi occhi» disse la Perla. «Il tuo volto era privo di espressione, Gord, ma i tuoi occhi erano come una finestra aperta sul tuo cuore: due occhi grigi che mi guardavano danzare ma vedevano qualcun altro. Potrei dirti che un uomo come te doveva per forza odiare Omar, e lo Scià Kufteer e i loro simili, ma potevo solo sperare che tu ci aiutassi a fuggire da Dar Peshdwar usando le tue lame.» «Avrei potuto morire» commentò Gord, con un pizzico di irritazione nella voce, poiché aveva capito che si erano approfittati di lui. «Lo stesso valeva per me, e per la Perla» ribatté Zulmon. «Ma perché mi guardi come se avessi appena saputo che il tuo miglior stallone è diventato sterile?» aggiunse il nomade, con gli occhi che gli brillavano di malizia. «Ci hai aiutato, e ti sei guadagnato la gloria. Ora siamo felici, e tu sei un onorato fratello di sangue della tribù Al-babur. Non ti supplicherò di rimanere con noi, Gord, ma giuro di esserti sempre fratello: sarai sempre il benvenuto tra i Kirkiri.» Ricusando offerte di cavalli, di greggi di capre e di parecchie mogli, il giovane si diresse ad ovest, senza voltarsi a guardare le ripide colline che si era lasciato alle spalle. Doveva percorrere molte leghe e pensare a molte cose prima di entrare nello Yolakand. Si trattava in effetti di cento leghe, più di trecento miglia di viaggio attraverso le vaste pianure ondulate che si stendevano ad ovest delle colline Pennor, in zone ancora sconosciute. Gord non sapeva perché si stesse dirigendo verso la grande città degli Yoli, ma era proprio lì che si sarebbe recato. Mentre trottava in groppa a Windeater, Gord ricordò il commento della Perla sul suo aspetto giovanile e ridacchiò fra sé. Ma quanti anni aveva?
Era una buona domanda, e non era del tutto sicuro della risposta. Da quando era cresciuto nei sobborghi della Città Vecchia di Falcovia, Gord non aveva un'idea precisa della propria età. La sua matrigna non gliene aveva mai parlato, se poi ella la conosceva, e di questo Gord dubitava. La vecchia Leena pensava solo a se stessa, mai a Gord, di cui si serviva soltanto per ottenere qualcosa che da sola non riusciva a procurarsi. Ricordava gli anni dell'adolescenza, vissuti da ladro e da accattone, il periodo trascorso a studiare in città, presso la grande università, e i lunghi viaggi nel vasto mondo. Contando gli intervalli fra i vari viaggi, in cui aveva vagabondato per Falcovia sotto le spoglie del Gatto Nero, il ladro più abile che si fosse mai visto in città, e del Gord giocatore d'azzardo e libertino, ed assommandoli agli altri anni, riusciva a calcolare la propria età con buona approssimazione. Prese in considerazione anche il periodo trascorso nello strano regno del Signore dei Gatti, ma aveva la netta impressione di non essere invecchiato, allora, o perlomeno di essere invecchiato molto lentamente. Tutto considerato, riteneva di essere intorno ai ventottotrent'anni. Per questo era sempre molto sorpreso quando sentiva commenti sul suo aspetto giovanile, e lo era ancor di più quando si guardava allo specchio. Forse, si disse Gord, era un effetto secondario del tempo passato nei domini del Signore dei Gatti. Non avendo nulla di meglio da fare mentre Windeater lo conduceva a ovest, Gord riandò con la memoria alla serie di strani eventi che lo avevano portato in quel tempo e in quel luogo... Gord aveva messo la parola fine alle sue avventure nella città di Falcovia quando aveva deciso di accompagnare un suo amico, il semi-Elfo Curly Greenleaf, nella ricerca dell'oggetto che il guardiano dei Druidi chiamava Chiave di Mezzo. Si trattava di parte di un malefico oggetto, costruito per risvegliare un essere considerato l'incarnazione di tutti i mali, se le tre parti di cui era costituito fossero state ricomposte. Un gruppo pericoloso, noto come Confraternita Scarlatta, era in possesso della Chiave Iniziale, mentre Gord e compagni cercavano di impadronirsi della Chiave di Mezzo per tenerla fuori dalle grinfie di oscuri malintenzionati. Non erano riusciti nell'intento, poiché il prezioso oggetto era caduto nelle mani del semi-Demone Iuz; il danno non era poi così grave, tuttavia, in quanto anche il malvagio Cambion non aveva alcun desiderio di veder ricomposto il pericoloso oggetto, non più di tutte le altre forze di Tarre, sia che si schierassero dalla parte del Bene sia che si impegnassero nel riequilibrio del Bene e del Male. Sulla via del ritorno da quella pericolosa missione, Gord si era imbattuto
in una terribile creatura: un Diavolo sotto le spoglie di un cinghiale. Aveva dovuto affrontarlo, e nella lotta la bestia lo aveva fatto a pezzi, e in effetti lo aveva ucciso! Gord si meravigliava ancora nel ripensare a quell'episodio. Anche l'avversario era rimasto ucciso nello scontro spaventoso, ma a differenza di Gord non possedeva un'immunità magica alla morte. Il giovane ladro giocherellava con l'anello mentre ricordava quei fatti. Anche in un'altra occasione, prima dell'incontro con il Diavolo-cinghiale, era stato ucciso e si era risvegliato in un regno dell'aldilà, appartenente ad un certo Rexfelis, il Signore dei Gatti, solo che in quell'occasione non si era reso conto di essere morto e poi resuscitato. Il Signore dei Gatti gli aveva spiegato, allora, che il crisoberillo verde «occhio di gatto» incastonato nel suo anello aveva proprietà particolari. Quell'anello, a cui Gord si era affezionato, era stato creato infatti dallo stesso Rexfelis assieme ad altri otto, per uno scopo che il nobile non aveva rivelato al giovane avventuriero dalla pelle scura. Nemmeno dopo la prima resurrezione Gord era riuscito a credere che l'anello avesse il potere di farlo resuscitare nove volte, il numero proverbiale delle vite di un gatto, ma la seconda volta che si era risvegliato nel regno del Signore dei Gatti, non aveva più avuto dubbi. Mentre si riprendeva, Gord aveva provato soltanto una piacevolissima sensazione di benessere, e aveva la tentazione di rimanere laggiù. Dopo tutto quello che gli era capitato, non c'era da meravigliarsi che desiderasse fermarsi nel regno bizzarro ma tranquillo di Rexfelis e dei suoi gatti. Laggiù vivevano felini di ogni sorta: erano i sudditi del Signore dei Gatti? Forse. Se lo erano davvero, comunque, servivano volentieri il loro sovrano, e con profondo rispetto. Anche Gord, se lo desiderava, poteva trasformarsi in una pantera, grazie all'anello che portava. Rexfelis non gli aveva chiesto mai nulla in cambio dei numerosi benefici offertigli dall'anello; concedeva infatti liberamente omaggi e li riceveva con grande maestà. Ma oltre al fascino di quel regno e alla sua bellezza, era un'altra la ragione che induceva Gord a restare: si chiamava Tirrip... Era un essere umano, e allo stesso tempo una tigre. Questa aveva spiegato a Gord che sul suo mondo la specie dominante era appunto quella delle tigri, e che solo laggiù, con Rexfelis, al suo popolo era dato di assumere la forma umana o quella felina a seconda dei propri desideri. Il giovane amava quella strana donna, e insieme avevano passato un considerevole numero di giorni e di notti. Avevano vagato per il regno di Rexfelis sotto spoglie umane o feline, a seconda dell'umore, e Gord aveva sperato che l'idillio non dovesse avere mai termine... ma non era stato così, ovviamente. Un
giorno Tirrip gli aveva detto tristemente che doveva tornarsene nel suo mondo, per una ragione che non poteva rivelare. Vi era stata una discussione, anzi, un vero e proprio litigio, almeno da parte sua, ma non era servito a nulla. La donna se n'era andata qualche giorno dopo e Gord si era sentito più solo che mai, più ancora di quando era stato mandato in casa di correzione per un furto nella Città Vecchia di Falcovia, quando era bambino. Dopo aver visto Gord depresso per quello che riteneva un tempo troppo lungo, Rexfelis lo aveva convocato affinché lo raggiungesse nei suoi appartamenti privati, situati nella villa sconfinata che costituiva la sua residenza reale e la residenza di chissà quanti gatti di tutte le razze. Accarezzando un micio dal lucido pelo nero, il Signore dei Gatti aveva detto: «Presto mi recherò a Tarre, Gord, nella città di Bardillingham. Vuoi venire con me?» Gord era sembrato perplesso. «Bardillingham? Non ho mai sentito questo nome. In quale paese si trova?» «Sei qui da tanto che hai dimenticato il tuo mondo, Gord?» gli aveva chiesto Rexfelis ridendo. Gord non sapeva bene come prendere quell'osservazione. Gli sembrava uno scherzo, ma poi aveva dovuto ammettere che forse si era trattenuto troppo a lungo nella tana del Signore dei Gatti. «No, Signore» aveva risposto prudentemente. «Temo che le mie conoscenze sul Flanaess si limitino alla piccola parte che ne ho visitato e a ciò che ho letto sulle altre regioni quando andavo a scuola.» «Una piccola parte del Flanaess? Su, su ragazzo mio! Da quanto ho sentito, hai visitato un bel pezzo dell'Oerik orientale. Non c'è tuttavia da sorprendersi che tu non sappia nulla di Bardillingham» aveva proseguito Rexfelis. «Non è propriamente una città e si trova in un luogo ignoto alla maggior parte delle persone. La comunità conta a malapena tremila abitanti, e si trova nel cuore del paese governato dal Demiurgo Basiliv. Può darsi che tu abbia già sentito parlare di quel luogo come della Valle dell'Arcimago.» Il Flanaess prendeva nome dall'antica razza che originariamente abitava il cuore di Oerik, uno dei quattro grandi continenti di Tarre. La nazione di Flan si era estinta da secoli, anche se popoli di origine Flan, alcuni rimasti relativamente puri, si erano stabiliti nel Flanaess e vi avevano costruito i loro regni. Gord aveva visitato parte di quel territorio quando aveva percorso l'est in lungo e in largo come saltimbanco e in seguito, più approfon-
ditamente, quando era impegnato nella ricerca della Chiave di Mezzo. La Valle dell'Arcimago, tuttavia, era un luogo quasi mitico o almeno così pensava, e a quanto dicevano si trovava in qualche punto delle montagne che separavano gli Stati Bakluniani dell'ovest dalle nazioni Oeridiane e Suel dell'est. Nonostante tutte le sue peregrinazioni, Gord non si era mai spinto oltre Veluna, e le parole di Rexfelis sulla Valle dell'Arcimago erano musica per le sue orecchie. «Intendi dire che esiste?» aveva chiesto il giovane. «Sì, amico mio, esiste... ed esiste anche la città di Bardillingham. Le sorgenti del Fiume Chaban, che sgorgano nella catena delle Montagne Inaccessibili, hanno formato una serie di laghi freddi e profondi e hanno scavato un'ampia valle lussureggiante nel corso dei millenni. Si tratta appunto della Valle dell'Arcimago, almeno così viene chiamata sulle mappe dov'è segnata. Il cosiddetto Arcimago in realtà è un Demiurgo, e si chiama Basiliv. Ho degli affari con lui.» «E Bardillingham?» «È l'unica vera comunità di tutta la valle. Ci sono anche villaggi e paesini sparsi, ma nient'altro. La città comunque è piuttosto squallida.» «Ho letto qualcosa sulla Valle dell'Arcimago» aveva detto Gord. «Che si tratti o meno di fole, si dice che laggiù gli stranieri siano... assai malvisti.» «Se acconsentirai a venire, l'accoglienza sarà sufficientemente calorosa» lo aveva rassicurato Rexfelis facendo le fusa. «Io, ovviamente, non sono affatto straniero in quella città, e chiunque porterò con me sarà ben accolto e rispettato. Inoltre Basiliv vuole conoscerti.» Quest'ultima affermazione aveva messo in ansia Gord. La reputazione di quella terra inaccessibile e del suo signore non era certo delle migliori. E perché mai il Signore dei Gatti aveva parlato di lui con il Demiurgo Basiliv? Gord non era sicuro di volerlo sapere, quindi aveva suggerito a Rexfelis un'altra possibilità. «Mmm» aveva mormorato questi, fingendo di considerare accuratamente la questione. «Forse un'altra volta, Signore; ho degli affari urgenti da sbrigare a Falcovia. Forse dopo potrei dirigermi ad ovest ed offrire i miei rispetti al Demiurgo. Nel frattempo, non potresti riportarmi semplicemente nella mia città natale?» Rexfelis aveva ridacchiato sommessamente. «Molto diplomatico, davvero! Soddisferei volentieri la tua richiesta, se solo potessi, Gord» aveva detto il Signore dei Gatti con un sorriso sincero, «ma ora come nel passato sul Flanaess si intrecciano molti poteri. Le cose non vanno proprio bene laggiù, lo sai, ma suppongo che tu non debba più preoccuparti di simili que-
stioni, ormai. In parole povere, posso rimandarti ad Tarre solo attraverso la porta tenuta aperta ed attiva dalle forze di Basiliv; devi passare per forza di là, se vuoi tornare nel tuo mondo. Ma devi sentirti a casa tua anche qui, Gord, e se vuoi puoi passarvi tutta la vita, poiché senza dubbio appartieni alla mia schiatta» aveva aggiunto con calore il Signore dei Gatti. Scoraggiato, Gord aveva chiesto: «Ma un essere dotato dei tuoi poteri non può andare dove desidera?» «Io? Certamente. Io posso andare dove desidero, ma tu non sopravviveresti ad una simile fatica. Non vorrai mica consumare un'altra delle tue preziose vite solo per tornare là da dov'eri partito?» «Ti prego, Signore dei Gatti, dimmi che cosa succede» lo aveva supplicato Gord ansioso. «Qui il tempo è diverso» gli aveva spiegato Rexfelis. «A volte un giorno di qui può corrispondere ad un mese di Tarre oppure può verificarsi il contrario. I mesi che hai trascorso qui sono passati meno rapidamente su Tarre. Il Male tenta ancora di impadronirsi dello strumento di cui tu cercavi una parte. Molti dei Demoni dell'Abisso si sono uniti, radunando i loro poteri; lottano con gli Inferi e con tutti gli altri rappresentanti del Male, e da questa guerra noi tutti traiamo beneficio. A chi può importare se un Demone uccide un Diavolo? Anche i Grandi delle dimensioni superiori si stanno muovendo, però, e nel multiverso abbondano strani flussi e strane tendenze. È impossibile viaggiare attraverso le dimensioni senza un grande dispendio di energia, e c'è sempre un certo rischio. Le porte di comunicazione sono sorvegliate, ci sono molte trappole e abbondano i segnali ingannatori. Basiliv è abbastanza forte da mantenere perfettamente funzionante la propria porta, e naturalmente io lo assisto nell'opera. Neppure il Demiurgo, infatti, è sufficientemente forte da resistere da solo a coloro che ora entrano in attività.» Gord non aveva ragione di dubitare della verità di quelle parole, o di qualsiasi altra pronunciata dal Signore dei Gatti. Tuttavia non riusciva ancora a convincersi che la scelta prospettatagli fosse la migliore. Dopo averne discusso ancora per un po', tuttavia, Gord aveva accettato di partire con Rexfelis per la Valle dell'Arcimago. Bardillingham era una città semplice e priva di attrattive, o perlomeno così l'aveva vista Gord in confronto ad altre come Falcovia, Dyvers, Rel Mord o addirittura Wintershiven. Contrariamente a ciò che aveva letto e sentito sulla Valle dell'Arcimago, i suoi abitanti non sembravano né ostili né misteriosi e la città era tutt'altro che ricca e sfarzosa. Le autorità di Bar-
dillingham lo avevano accolto cerimoniosamente; il conte che risiedeva nel castello vicino aveva fatto loro onore e Gord era stato sorpreso di non essere stato ricevuto solo come ospite del Signore dei Gatti, ma come un personaggio minore per suo diritto. Nonostante la pompa ostentata per l'occasione, aveva trovato il castello poco interessante e dopo quasi tre giorni passati a percorrerne i corridoi e a vagare per le strade di Bardillingham era annoiato ed impaziente. «Quando saprò perché mi trovo qui?» aveva chiesto a Rexfelis nel tono più cortese che era riuscito a trovare. «Molto presto» aveva risposto il Signore dei Gatti. «Entro domani Basiliv ci riceverà.» Il giorno seguente Gord e Rexfelis avevano passeggiato per la città; ad un certo punto il Signore dei Gatti si era fermato davanti ad un modesto edificio di pietra nel centro della città, in una zona che non avevano ancora visitato. Gord aveva la sensazione che l'incontro stesse per avere luogo, ma era possibile che il Demiurgo avesse scelto come residenza un tugurio simile? Ci sarebbe stato a malapena posto per un ufficio, figuriamoci per un sovrano! Quando l'avventuriero glielo aveva fatto notare, Rexfelis si era messo a ridere e lo aveva rassicurato dicendogli che le stranezze abbondavano nel bizzarro regno retto da Basiliv. Una volta entrati nell'edificio, Gord aveva compreso il significato di quelle parole. Chissà come, l'interno era grande come quello del più vasto palazzo di cui Gord avesse mai sentito parlare, e il giovane aveva pensato che qualche potente dweomer permetteva ad uno spazio così ampio di essere contenuto in un edificio tanto piccolo. Lo sfarzo di quel luogo contrastava talmente con l'aspetto squallido e dimesso del resto della città che Gord non riusciva a trattenere la propria meraviglia. Rexfelis naturalmente sembrava molto meno impressionato. «Non meravigliarti troppo» gli aveva detto. «Altri sono in grado di utilizzare un simile trucchetto. Sapevi invece che quando Basiliv è lontano da qui, tutto ciò che vedi lo segue? Se fossimo venuti ieri, avremmo trovato soltanto una piccola struttura vuota». Gord, un po' imbarazzato dalla propria reazione di sorpresa, era rimasto in silenzio mentre assieme al Signore dei Gatti passava sotto l'arco che si apriva sulla sala delle udienze di Basiliv. Basiliv, con espressione impassibile, aveva fatto un cenno nella direzione di Gord, come per dimostrare di essersi accorto della sua presenza. Dopo un breve scambio di convenevoli con Rexfelis, si era rivolto diretta-
mente al giovane avventuriero. «Non sei più al servizio dei Gerofanti e della Cabala» aveva detto. Era un'affermazione, non una domanda, e per un attimo Gord non era stato sicuro della risposta. L'episodio della Chiave di Mezzo lo aveva lasciato stanco e scoraggiato, con la sensazione che egli e i suoi compagni fossero stati semplici pedine in una battaglia che superava di molto i limiti della loro comprensione. Quando Rexfelis gli aveva riferito che quella parte della Quintessenza di Tutti i Mali era nelle mani di Iuz e dei suoi orribili accoliti, Gord si era sentito più che inutile. Detestava il male, ne era certo, ma detestava anche che ci si servisse di lui. Nel silenzio che era calato per qualche attimo nella sala, Gord aveva deciso che avrebbe continuato a lottare contro i poteri maligni per quanto gli fosse stato possibile, ma che l'avrebbe fatto a modo suo. Prima di impegnarsi in una nuova impresa, si sarebbe sempre informato approfonditamente e non avrebbe mai più combattuto alla cieca. «Sì, Demiurgo, ora agisco per conto mio» aveva risposto. Basiliv e il Signore dei Gatti si erano scambiati un sorriso di intesa, senza preoccuparsi troppo di dissimularlo. «Nessuno di noi può farlo veramente, giovane Gord di Falcovia» aveva ribattuto Basiliv, sorridendo benevolmente. «Tuttavia l'intenzione di essere indipendente è ammirevole... se le parole corrispondono ai fatti!» A quel punto Gord era rimasto veramente sconcertato; di che cosa mai stava parlando quel grande mago? E perché Rexfelis annuiva in segno d'assenso? «Non so davvero che cosa rispondere, Nobile Demiurgo» aveva ammesso. «Non serve rispondere. So tutto della tua vita, Gord. Sei arrivato lontano ed hai fatto molto per uno della tua età. Dovresti ringraziare i tuoi progenitori per averti donato geni tanto validi! Ma ora parliamo di affari, vuoi?» Gord aveva continuato a non avere idea di che cosa stesse dicendo quel bizzarro individuo. Geni? Forse si trattava di qualche genio guardiano, chissà. E non aveva capito nemmeno quali affari il Demiurgo avrebbe potuto concludere con lui. Nonostante il potere che emanavano i due personaggi di cui era in compagnia, il giovane aveva cominciato ad irritarsi. «Sembra che tu ed il Signore dei Gatti vogliate approfittarvi di me» aveva detto. «Non ci capisco nulla, come ho già fatto presente prima! Ma se dovrò fare qualcosa, ditemi prima di che cosa si tratta.» Le sue parole avevano suscitato l'ilarità del Demiurgo e del Signore dei Gatti, ma le loro risate erano state sincere ed amichevoli. «È raro che qual-
cuno riesca ad approfittarsi di te, oggi come oggi, Maestro Gord» aveva detto Basiliv dopo essersi ricomposto. «Lasciamo questa sala delle udienze tanto formale e trasferiamoci nelle mie stanze private» e così dicendo si era alzato senza troppe cerimonie. Gli ospiti lo avevano seguito, e ben presto tutti e tre si erano ritrovati seduti in una specie di studio, colmo di oggetti ma confortevole. Per Gord, molto di ciò che aveva veduto era sconosciuto, ma comunque c'erano anche libri, carte geografiche e mappe a profusione, oltre a tutti gli attrezzi utili alla magia. Ciascuno di loro aveva inoltre a disposizione uno strano seggio imbottito, comodissimo. Nell'aria erano fluttuati vassoi di bevande e di gustose leccornie che avevano servito i tre a turno: prima il Signore dei Gatti, poi Gord e infine Basiliv. «Oh, così va meglio» aveva detto il Demiurgo soddisfatto mentre si accomodava sul proprio seggio e sorbiva la bevanda alla frutta che aveva scelto. «Rexfelis» aveva continuato, guardando Gord, «mi avevi detto che costui era un tipo insolito, ma fino ad ora non avevo ancora capito quanto.» «Come al solito, Basiliv, ho la tendenza a sminuire i fatti. Supponiamo che si tratti semplicemente di voce del sangue...» Con uno scatto del capo massiccio, ornato da una criniera corvina, Basiliv per un attimo si era girato a guardare Rexfelis, poi aveva ripreso ad osservare Gord. «E così desideri qualche informazione, vero?» gli aveva chiesto. «Farò del mio meglio per fornirtela.» Il Demiurgo aveva narrato a Gord di come aveva seguito in passato lo svolgersi degli eventi, di quegli eventi che riguardavano le tre parti del malefico meccanismo che avrebbe svegliato dal sonno Tharizdun, Signore di Tutti i Mali, colui che avrebbe fuso insieme Demoni e Diavoli e avrebbe piegato l'Abisso e gli Inferi al suo malvagio volere. Basiliv aveva detto di sapere che la Confraternita Scarlatta aveva scoperto la Chiave Iniziale e la utilizzava, e aveva rivelato di aver fatto il possibile per confonderli e non permettere loro di raggiungere la parte centrale dell'oggetto. «Fazioni avversarie operano contro le forze del Bene e quelle che cercano l'equilibrio, oltre che contro quelle del Male» aveva fatto notare il Demiurgo. «Troppi desiderano sfruttare i poteri malefici di quell'oggetto per i propri scopi, ma dal Male non viene mai nulla di buono, Maestro Gord, ricordalo! Anch'io, negli scapestrati anni della giovinezza, ho abusato dei miei poteri per causare danno e non ho cercato altro che l'isolamento. Ora tutti mi temono e mi odiano, lo so, e anche se ora i loro sentimenti non
hanno ragione di essere negativi, il passato li giustifica. Ma sto divagando». Basiliv si era interrotto per un altro sorso della sua bevanda, poi aveva continuato. «Il mio amico ed alleato Rexfelis ha sempre creduto in questo, come ora accade anche a me. È per tale motivo che abbiamo deciso di unirci allo scopo di raggiungere un certo fine. Egli quindi mi ha suggerito che tu, Gord, forse saresti la persona adatta a mettere in pratica i nostri desideri e mi sembra che la sua supposizione sia esatta». Dopo un'altra breve pausa, il Demiurgo si era spiegato meglio. «Le fazioni avversarie che vogliono impadronirsi della Chiave Finale sono talmente impegnate a combattersi da essersi autoescluse dal campo di battaglia, per così dire. O almeno così dovrebbe essere. Ma i Signori delle Dimensioni Superiori possono usare, o tenere, la Chiave? È improbabile. I suoi malefici poteri la porterebbero ben presto nelle mani di coloro che vogliono risvegliare... l'essere oscuro. E i Cabalisti potrebbero riuscirci? E i Gerofanti? Mai. E io stesso non ho la capacità di usare un simile oggetto più di Mordenkainen o degli altri che lo bramano. Al di là delle migliori intenzioni, si ritroverebbero a diventare malvagi quanto colui la cui essenza si cela in quell'oggetto. Capisci?» «Ti ho ascoltato attentamente, Nobile Demiurgo» aveva replicato lentamente Gord. «Penso di intuire fin dove vuoi arrivare. Non capisco tuttavia perché mi dici che non hai alcuna intenzione di possedere tu stesso la Chiave Finale.» «Per forza! Non capisci perché ancora non sai ciò che è accaduto di recente. Beviamo ancora qualcosa e poi io e Rexfelis, ragazzo mio, ti racconteremo tutto ciò che è necessario tu sappia sull'argomento.» Parecchie ore dopo, Gord aveva potuto vedere la questione sotto una luce nuova e molto diversa. Non aveva prestato giuramenti né fatto voti, ma dentro di sé sapeva che cosa doveva fare. Dopo aver stretto la mano a Basiliv ed aver fatto un inchino di congedo al Signore dei Gatti, era uscito dallo strano palazzo del Demiurgo; in meno di un'ora aveva incontrato un gruppo di soldati del sovrano, che evidentemente lo stavano aspettando, aveva preso le proprie cose, che gli erano state portate dalla stanza che aveva occupato al castello, e si era apprestato ad uscire dalla città. Si era diretto verso nord con un gruppo eterogeneo di uomini dalla bocca cucita e di Elfi taciturni. Questi ultimi si davano il nome di Grughma, ma venivano chiamati «Elfi della valle» (in termini spregiativi) dagli uomini e dagli altri Elfi che dimoravano fuori dal regno di Basiliv. Non era stato un
viaggio particolarmente piacevole. I soldati del Demiurgo avevano mostrato grande rispetto e deferenza a Gord, ma si erano tenuti alla larga. Il paesaggio, almeno, era interessante, il che aveva reso più sopportabile il cammino. Il gruppo aveva percorso la valle fino ai piedi delle colline e alle montagne, le prime che Gord avesse mai visto. Il secondo giorno dopo aver lasciato la città, raggiunto il cuore delle Montagne Inaccessibili, gli Elfi e gli uomini erano tornati indietro, portando con sé il cavallo che Gord aveva montato. Non uscivano mai dai confini del regno. Ma l'avventuriero aveva trovato una nuova scorta ad attenderlo, cosicché non aveva dovuto preoccuparsi di essere abbandonato tra le rocce maestose che torreggiavano sopra di lui. I cinquanta soldati del Demiurgo erano stati rimpiazzati da un numero quattro volte superiore di Nani barbuti dall'aria arcigna, che indossavano armature di ferro e acciaio e si sbarazzavano sommariamente di qualsiasi predatore si azzardasse ad avvicinarsi. Gord e il suo piccolo esercito avevano avanzato faticosamente, arrivando sempre più in alto; ad un certo punto, ricordava, l'aria si era fatta talmente fredda e rarefatta che gli era sembrato di soffocare. I Nani, con il loro ampio torace, non avevano sembrato lamentare disturbi, ma si erano preoccupati del giovane essere umano e avevano scelto un sentiero più lungo che però evitava maggiori altitudini. Gord era stato molto contento quando il sentiero aveva iniziato a scendere, e aveva tirato alcuni profondi sospiri di reale sollievo. Era stato sorpreso di vedere che i Nani rimanevano con lui anche quando ormai avevano lasciato le montagne, quattro giorni dopo aver iniziato la discesa su un terreno meno accidentato. Avevano raggiunto le pendici delle colline sul versante settentrionale delle Montagne Impenetrabili, in una zona detta Landa Selvaggia, in cui scarseggiava la popolazione ma abbondava la selvaggina. Gord aveva fatto buona caccia e apprezzato enormemente la selvaggia bellezza di quel luogo solitario. I Nani lo avevano notato e si erano sgelati un po' nei suoi confronti. «Dimmi, Gord di Falcovia, hai la possibilità di girare così anche nel tuo paese?» gli aveva chiesto una sera il capo della banda, mentre erano accampati. Gord aveva risposto negativamente, ma poi aveva raccontato all'interlocutore le proprie avventure in altri luoghi, le battute di caccia e gli scontri con vari mostri. «Ora capisco perché sei un Eletto» aveva tuonato il Nano quando Gord aveva finito. «Questo è il nostro dono» gli aveva detto, tendendogli un largo braccialetto d'oro multicolore. Era un oggetto molto bizzarro, in cui l'o-
ro assumeva sfumature inusitate che andavano dal giallo-sole all'arancio al verde dorato al violetto, oltre alla consueta sfumatura che gli è propria. «Non posso accettare un simile tesoro!» aveva esclamato Gord. «Non puoi rifiutarlo» aveva ribattuto severo il semiuma «Dipendiamo tutti da te, e questo è il nostro contributo al tuo successo.» Gord aveva preso il bracciale, e se lo era messo intorno al bicipite senza discutere oltre. Il giorno dopo erano giunti in una zona in cui le colline si facevano più dolci ed erano punteggiate di alberi. In lontananza si vedeva una foresta, che copriva le ultime alture della Landa Selvaggia; la compagnia dei Nani aveva comunicato a Gord che il loro compito era terminato. «Ora ti trovi ai margini della Foresta 'Intrico di Rovi', Gord» gli aveva detto il rugoso capitano della banda. «Quel ruscelletto laggiù è la sorgente del fiume che gli umani Bakluniani chiamano Toosmik. Se terrai la sinistra, ti guiderà fino a Hlupallu attraverso la foresta.» Un discorso simile era fin troppo lungo per un Nano, e Gord ne era rimasto colpito. «Mille grazie, mio buon Capitano. Posso farti una domanda?» Al suo cenno di assenso, Gord aveva proseguito chiedendogli: «Perché mi definisci un Eletto?» «Il nostro popolo conosce il Demiurgo Basiliv e il Signore di Tutti i Gatti» aveva risposto il capitano. «Non siamo al loro servizio e non ci curiamo molto dei loro capricci, ma ora è all'opera una forza ben più grande, lo sappiamo perfettamente. Sono loro a mandarti, ma la meta è stata fissata da qualcun altro, e cioè dal potere superiore». Detto ciò, il Nano dalle ampie spalle e dalla barba ricciuta si era coperto la bocca con le mani e aveva incrociato le braccia. Per quanto lo riguardava, aveva risposto alla domanda di Gord. «Capisco» aveva risposto il giovane che, pur non comprendendo perfettamente, aveva accettato quel misticismo come qualcosa in cui il Nano accettava di credere. «Addio, capitano, a te e a tutta la compagnia». Mentre si allontanava dirigendosi verso Nord, il tarchiato semiumano gli aveva gridato dietro: «Il bracciale che porti, Gord di Falcovia, fu forgiato molto tempo fa dagli orafi di Grotheim. In un certo modo ti donerà la forza del nostro popolo!» A ciò, Gord si era voltato nuovamente verso i Nani e si era inchinato leggermente in segno di ringraziamento e di rispetto. Non avrebbe mai immaginato che il bracciale fosse più che un prezioso gioiello, ma allora aveva saputo che era speciale non solo per l'oro con cui era stato fabbrica-
to. Il capitano della compagnia gli aveva fatto un cenno e i guerrieri alle sue spalle avevano sollevato le armi in un silenzioso saluto. L'episodio aveva commosso profondamente Gord. «Veleni e dweomer, amico! I Nani ci resistono benissimo!» aveva gridato il capitano; poi, la compagnia aveva fatto dietro front, diretta nuovamente alle colline della Landa Selvaggia. Che i Nani avessero conosciuto o meno le capacità di Gord, quella di indirizzarlo alla foresta era stata un'ottima idea. Una volta rimasto solo e protetto dalla fitta vegetazione della parte meridionale della foresta, Gord si era trasformato in pantera ed era stato molto sollevato al vedere che il braccialetto era rimasto intatto, come tutte le sue cose. Nella foresta si aggiravano animali pericolosi, mostri e occasionalmente alcune bande di fuorilegge; quelli che Gord non era stato in grado di evitare, di solito avevano evitato lui o in breve si erano accorti che era meglio non affrontare una simile creatura. Una pantera nera delle dimensioni di un giaguaro era a dir poco una creatura insolita, e troppo pericolosa anche per un leone, una scimmia carnivora o un Orco verde della foresta. Quando aveva raggiunto le terre coltivate al di là 'dell'Intrico di Rovi', Gord aveva ripreso la forma umana. I pastori ed i contadini di Ket erano una razza mista, anche se in essi prevaleva il sangue Bakluniano. Sebbene Gord fosse scuro di pelle quanto loro, gli abiti e la lingua rivelavano le origini straniere, e quindi i nativi lo avevano evitato. Tuttavia non aveva incontrato ostacoli sul suo cammino aveva potuto soddisfare le proprie esigenze nelle locande e nei caravanserragli. Al suo arrivo a Hlupallu, Gord aveva chiesto di entrare nell'esercito del Governatore ed era stato accettato. Aveva dimostrato di essere un buon cavaliere, e pertanto era stato assegnato ad una truppa di lancieri mercenari. Dalle prove con le armi era risultato che la nuova recluta non sapeva assolutamente usare l'arco ricurvo, ma era almeno in grado di puntare correttamente la lancia; era stato inserito quindi come soldato semplice nella compagnia dei lancieri di Malik Ibn Urchi. Avvolto nel mantello marrone con lo stemma bianco e arancio del regno Kettita, Gord aveva percorso centinaia di miglia nelle terre che circondavano la capitale, all'inseguimento di Bayomen, ladroni delle tribù collinari o banditi locali. Aveva imparato discretamente il Kettita, una lingua di ceppo Bakluniano come la sua, e i suoi compagni gli avevano detto che aveva perso l'accento orientale. Poi, d'un tratto, una sera aveva abbandonato la truppa, senza un saluto o un rimpianto, e si era avviato da solo per le strade affollate di Hlupallu.
La città era un miscuglio di culture, più occidentale comunque che orientale. Era costituita da una grande fortezza, detta casbah; da un affollato mercato, il souk; da un quartiere residenziale, detto medina; da un quartiere per gli stranieri chiamato ourmistan e infine dalla zona dei depositi e affini. Ogni zona della città era divisa dalle altre mediante un muro, eretto appositamente e non per caso, come avveniva in altre città orientali. Gord si era stabilito nel quartiere degli stranieri; da lì aveva perlustrato Hlupallu in lungo e in largo, vestito del costume locale, osservando attentamente usi e costumi indigeni per poterli imitare e passare anch'egli per un Kettita. Aveva solo poche setti. mane a disposizione, ma era riuscito ugualmente ad ottenere buoni risultati. Come gli avevano predetto il Demiurgo e il Signore dei Gatti, si sarebbe verificato un evento che l'avrebbe allontanato dalla capitale di Ket, ma nessuno sapeva dire di preciso di che cosa si sarebbe trattato. Basiliv comunque aveva spiegato a Gord che il suo viaggio si sarebbe svolto verso ovest e verso sud, e Rexfelis l'aveva assicurato che una volta in cammino avrebbe riconosciuto il nemico e avrebbe saputo per istinto che cosa doveva fare. Più di così, nessuno aveva potuto dirgli. Gord si era fermato quindi a Hlupallu aspettando un segno del destino. Aveva continuato ad esercitarsi nella ginnastica e nell'uso delle armi, oltre ad affinare le proprie abilità di ladro; in realtà, comunque, si era trattato di un semplice ripasso, e a volte si era sentito frustrato perché gli sembrava di diventare sempre più abile come spadaccino e sempre meno abile come ladro. Ciò faceva mal presagire per la sua borsa, perché la paga dei mercenari, a prescindere dall'abilità personale, era ridicola a paragone dei proventi di una sola missione come quelle che aveva portato a termine sotto le sembianze di Gatto Nero lo scassinatore. Poi era venuta la sera in cui, seduto al Dar Peshdwar, aveva osservato l'esibizione di una stupenda danzatrice, ricordando però un'altra danzatrice, un altro tempo e un altro luogo, molto lontani sia nello spazio sia nel tempo. La zuffa nella taverna e la sua fuga nei Pennor con Zulmon e la Perla erano forse il segno che aspettava? Forse sì e forse no. Ora non importava poi molto, poiché non poteva far nulla in quelle circostanze. Quel che era accaduto era accaduto, e ora Gord doveva passare all'azione. Sebbene non avesse incontrato alcun nemico, contrariamente a quanto gli era stato detto, sembrava che fosse giunto il momento di dirigersi verso ovest. Una volta lasciata Hlupallu, il giovane avventuriero aveva avuto la netta sensazione di dover seguire un nuovo filo del destino. Quelli che cercavano l'ultima
parte del malefico oggetto dovevano per forza passare di là, rifletté ora, nuovamente. Ne conseguiva perciò che era necessario proseguire per incontrarli in qualche località diversa dalla città. Quella convinzione, sia che nascesse dalla sua intelligenza sia che derivasse da un potere superiore, doveva dimostrarsi corretta. Capitolo 4 Obmi se ne stava davanti allo spaventoso trio, visibilmente agitato. Zuggtmoy, Regina demoniaca dei Funghi, aveva assunto sembianze umane, ed appariva meravigliosamente bella anche agli occhi giallastri del Nano. Accanto a lei si trovava Iggwilv, e anch'essa sembrava soltanto una giovane donna stupenda. Le due si scambiavano qualche «pettegolezzo», rivolgendosi solo saltuariamente a Iuz. Il Cambion era irritato da quel comportamento, ma non osava farlo notare alle due donne. Anzi, gongolò Obmi fra sé, quando il massiccio Demone aveva iniziato a sfogare la propria frustrazione prendendosela con lui, Zuggtmoy e Iggwilv erano intervenute. «Smettetela!» aveva ordinato la grande Strega. «Sì, Iuz, lo sai anche tu che ormai il Nano non è più tuo» aveva aggiunto Zuggtmoy. «È mio, ora, e non tollererò interferenze estranee nei confronti dei miei servi!» Alla fine, incapace di sopportare oltre quella situazione, Iuz interruppe le due donne con una vibrata protesta: «Se avete intenzione di perdere tempo, sono affari vostri, ma Io ho di meglio da fare. Se mai vi occuperete di questioni importanti, informateMi; eventualmente potrei intervenire e fornirvi il contributo della Mia saggezza!» «Rimani, Iuz» disse Iggwilv. Il tono era leggero, ma l'espressione non lasciava dubbi sul significato delle sue parole; non concepiva un simile comportamento da parte di suo figlio. Zuggtmoy sorrise al Cambion infuriato. «Molto bene, caro Iuz. Abbiamo spettegolato abbastanza, penso. Ora la cosa più importante è far conoscere a coloro che ti debbono obbedire da che parte sono tenuti a schierarsi» disse, rivolgendo casualmente lo sguardo ad Obmi. Iuz digrignò il centinaio di dentini aguzzi che aveva in bocca, adirato per il modo in cui l'aveva trattato sua madre. Non disse nulla, ma nel suo cuore iniziò a crescere un fortissimo odio per la Strega più antica e potente fra tutte. Presto Iggwilv si sarebbe pentita del suo atteggiamento verso il figlio, ma prima Iuz si sarebbe servito di lei per ottenere il dominio su tutta
Tarre. «Esaudirò il tuo desiderio, Grandissima Signora» disse, con un sorriso e un cenno affermativo del capo. «Ritengo soltanto che mio padre, possa la sua pelle scabrosa marcire, agirà più speditamente...» «Accetto le tue scuse, Iuz» rispose Iggwilv, sapendo benissimo che simili parole lo avrebbero infastidito; intendeva dare una lezione a quel marmocchio, ma non finché le fosse stato utile. Agitò una mano nella direzione del Nano, tutto sudato, e chiese a Zuggtmoy: «Sei pronta ad istruirlo?» «Ti piaceva essere il Mio rospo?» si informò la Demoniessa, sorridendo rivolta al Nano. «Beh, Grande Regina, devo dire che ho avuto il privilegio di provare quest'esperienza per la prima volta, grazie alla tua gentilezza» replicò Obmi. «Non importa!» lo interruppe Zuggtmoy, prima che il furbo Nano potesse continuare. «Non avrai l'opportunità di sperimentare di nuovo... le gioie... di quella forma, se Ci obbedirai e riuscirai nell'impresa. Recupererai la chiave per Nostro conto, vero?» «Sì, Grande Regina dell'Abisso! Puoi sempre fidarti di...» «Non mi fido di nessuno!» La frase uscì con inusitata potenza dal corpo snello ma formoso di Zuggtmoy. «Se fallirai, Nano, sarai morto o desidererai di morire!» «Iuz ti ha addestrato bene, vero, Obmi?» chiese Iggwilv, tornando alla conversazione precedente. Ora desiderava che Zuggtmoy arrivasse al punto. «Sì, o massima fra le Streghe» disse Obmi, facendo un inchino a Iggwilv. «È molto forte, Zuggtmoy» disse Iggwilv. «Vedi che fasci di muscoli? Costui possiede una forza straordinaria per un mortale, sia esso uomo o Nano.» «No, cara» la contraddisse Zuggtmoy. «Non è forte quanto potrebbe esserlo un Nano dotato di poteri soprannaturali, ma è una mancanza a cui rimedierò presto, per assicurarmi che non fallisca.» «Eccellente idea, Zuggtmoy!» esclamò Iuz, tanto per non restare escluso dal discorso, ma, dopo aver ricevuto un'occhiata arcigna da ambedue le donne, mise il broncio e tacque. Iggwilv tuttavia aveva qualcosa di importante da aggiungere. «Anch'io ti farò un dono che possa aiutarti a servire meglio la Regina Zuggtmoy, Obmi» e, dicendo questo, tirò fuori un quadratino di stoffa ripiegata, di un materiale molto strano, sul quale erano disegnati dei glifi che
si muovevano e mutavano continuamente. Dispiegò accuratamente il quadrato di stoffa, che sembrò allargarsi e trasformarsi e una volta aperto era molto più grande di quanto il pacchettino originario sarebbe potuto diventare, se si fosse trattato di un normale pezzo di tessuto. In breve, infatti, la stoffa aveva ricoperto completamente le ginocchia di Iggwilv, ricadendo a terra fra i suoi graziosi piedini. In grembo la Strega teneva uno strano oggetto, evidentemente uscito dalla stoffa: «Ecco la tua seconda arma, Campione di Zuggtmoy!» Il Nano si avvicinò e prese il dono che Iggwilv gli porgeva. Era un cosiddetto «martello d'arme», una sorta di piccozza dal manico corto che sull'estremità posteriore recava appunto un martello. Aveva uno strano colore e intarsi d'argento sulla testa e sull'impugnatura. «Ti sarò eternamente grato, munifica Signora delle Streghe» disse Obmi in tono cerimonioso, ma dall'espressione del suo volto trapelava un certo nervosismo. Avvertiva chiaramente l'irritazione di Zuggtmoy per lo scambio appena avvenuto; in realtà la Regina-Demone intendeva essere lei a celebrare le virtù dell'arma, ma non aveva avuto la possibilità di esaminarla prima che Iggwilv la porgesse ad Obmi, e senza uno studio accurato non era in grado di informare il Nano dei poteri di cui era dotata. Un sorriso beato si dipinse sul volto stupendo di Iggwilv. Era chiaro che apprezzava il disagio della Regina Zuggtmoy e se ne compiaceva, ma si crogiolò in quella sensazione per qualche istante di troppo. «Il martello, Obmi, mio ex-schiavo, è uno strumento magico fatto ovviamente di ottone, intarsiato d'argento per agire anche contro i cani degli Inferi, e dotato di poteri estremamente efficaci» disse Iuz in tono compiaciuto. Iggwilv, battuta sul tempo, lanciò al figlio un'occhiata che avrebbe raggelato chiunque, ma il Cambion si limitò a fare un leggero inchino, come se avesse ricevuto un complimento, e sorrise mostrando le numerose file di denti aguzzi. «Iuz dice il vero, Nano, per quanto può saperne» proseguì la Strega in tono acido. «Quel martello è abbastanza potente da ferire i più grandi Duchi degli Inferi. È fatto di rame e stagno, cioè d'ottone, come ha detto Iuz, ma il suo dweomer è talmente forte da renderlo duro come l'adamantite. Inoltre, la ruggine e il magnetismo non hanno alcun effetto su di esso. Se dovessi decidere di non usare il tuo martelletto, Obmi, quest'arma ti sarà estremamente utile... e io te la do in onore della tua padrona, la Regina Zuggtmoy» concluse la Strega, rivolgendo alla suddetta un dolce sorriso.
«Ti ringrazio a nome del Mio servo» replicò Zuggtmoy in tono regale. «Sei stata saggia, cara Strega, a capire che è più facile favorire la Mia causa - che sarà di certo quella vincente - aiutando il Mio campione per far sì che anche i tuoi scopi vengano raggiunti. Ma ora dobbiamo occuparci dell'aspetto più serio dell'impresa.» Si passò alla fase delle istruzioni. Zuggtmoy comunicò ad Obmi che il giorno seguente avrebbe dovuto lasciare la tetra città di Molag; gli sarebbero stati restituiti tutti gli attrezzi magici, l'armatura, il martello e gli stivali, con l'aggiunta di un cappello magico che gli avrebbe permesso di assumere sembianze ben diverse dalle proprie. Quando partì, il mattino successivo, Obmi sembrava infatti una vecchia femmina di Elfo, intenzionata a recarsi in pellegrinaggio a Celene e al Grande Tempio di Ehlonna prima di morire. Naturalmente non sarebbe mai andato laggiù; una volta raggiunte le Colline di Kron, avrebbe usato il cappello magico per assumere le sembianze di uno Gnomo e dirigersi così verso Yolakand, al di là delle Montagne di Larkill, delle Colline di Longridge e delle Pennor. «Dovrai fare una piccola deviazione, Obmi, e recarti a Hlupallu, nel Ket. Là troverai la scorta e gli assistenti. Hai capito?» chiese Zuggtmoy. «Sì, Regina dell'Abisso» rispose il Nano. La Demoniessa sembrava soddisfatta. «Quando lascerai le colline per dirigerti verso Hlupallu, elimina quelli rimasti con te. Questo veleno e le armi che possiedi serviranno allo scopo» gli disse Zuggtmoy, porgendogli una fialetta. «Senza dubbio uno di quelli che ti accompagneranno, se non di più, sarà una spia, un agente di Graz'zt o qualche altro intruso. Quando entrerai a Hlupallu, dovrai assumere le sembianze di un semi-Elfo con la barba a punta e gli occhi gialli. Quindi ti recherai al locale che prende il nome di Dar Peshdwar, dove troverai ad aspettarti guardie ed assistenti.» «Chi devo cercare?» chiese Obmi in tono umile. «Non ora!» lo ammonì Zuggtmoy. «Lo saprai al tuo arrivo a Hlupallu; saranno coloro che cerchi a trovare te, e non viceversa. Nel frattempo non voglio che ti sfugga qualche parola di troppo; quelli che si metteranno al tuo servizio ti daranno le rimanenti istruzioni.» «Lasciaci, ora, Nano» ordinò freddamente Iggwilv. Obmi esitò solo per un istante, per vedere se la Demoniessa avrebbe revocato l'ordine, ma il volto di Zuggtmoy era assolutamente privo di espressione, bello e impenetrabile come il ritratto di un maestro pittore. Obmi uscì dalla saletta dalle pareti di metallo indietreggiando carponi e ringraziando tutti con alate parole. I suoi veri sentimenti erano accuratamente schermati da immagini
mentali di gratitudine e servilismo, grazie ad un trucco che aveva imparato molto bene da quando aveva a che fare con Streghe e Demoni. Quando fu uscito, Iggwilv attirò l'attenzione dei compagni dicendo: «Quello lì non è altro che un serpente e uno sciacallo.» «Un ottimo servo, davvero» commentò Iuz. «E incomparabile fra i Nani. È un guerriero assai più abile di gran parte degli esseri umani, se non di tutti» disse la Regina dei Funghi in lode del suo nuovo servo. «È lo strumento migliore che abbiamo per sconfiggere Graz'zt.» «Bah!» ribatté Iuz in tono sprezzante. «Mi avrebbe abbandonato prima, se voi due non aveste salvato la situazione nel Vesve e non vi foste impadronite della Chiave di Mezzo.» «Ha imparato molto da allora, penso» disse la Demoniessa. «Assieme a quelli che gli manderemo in aiuto, riuscirà senz'altro nell'impresa» intervenne Iggwilv con una nota gelida nella voce. «Ma ora occupiamoci di un argomento ancor più importante: Graz'zt e quei suoi schiavi schifosi.» A ciò, Zuggtmoy si rizzò a sedere e Iuz guardò sua madre con occhi severi, ma la Strega sorrise calorosamente ad entrambi. Notando di aver attirato l'attenzione dei suoi interlocutori come desiderava, Iggwilv si spiegò meglio: «Mai e poi mai, neppure fra un migliaio di anni, il possesso di uno dei Theorpart da parte di Graz'zt e dei suoi lacchè tornerà a nostro vantaggio.» «Ma tu...» fece per interromperla Iuz. «Ho parlato diversamente? Certo! Abbiamo bisogno della sua collaborazione per recuperare la Chiave Finale, e una volta che questa sarà in possesso della cara Regina Zuggtmoy, essa potrà rivoltarsi contro Graz'zt e il malvagio Kostchtchie e gli altri. Non avranno più alcun potere su di lei, a quel punto, e i nemici faranno a pezzi il regno di quegli sbruffoni dimensione per dimensione.» «Sei un tesoro!» disse la Demoniessa, precipitandosi ad abbracciare Iggwilv. Anche il Cambion fu costretto a sorridere, pensando alla situazione in cui il suo odiato genitore sarebbe venuto a trovarsi. «Sono orgoglioso di essere tuo figlio, Madre!» esclamò. «Ottimo!» disse seccamente Iggwilv, rivolgendo un ghigno a Iuz. «Pensando al futuro, tuttavia, dobbiamo decidere esattamente la via da seguire una volta che Zuggtmoy sarà entrata in possesso della Chiave Finale». Gli
altri due assentirono vigorosamente, e la Strega continuò: «Graz'zt sarà messo sotto pressione dal crescente numero di nemici, ma la cosa peggiore per quel porco presuntuoso sarà l'essere confinato nei suoi territori. Questa circostanza, Zuggtmoy, ti permetterà di inviarci rinforzi; a quel punto tu, Iuz, assieme ai tuoi Demoni - e con il Theorpart ne comanderai molte orde - e Io con le Mie capacità e i miei poteri, annienteremo la Confraternita. Distruggerai quella feccia e così potremo impadronirCi anche della Chiave Iniziale.» «Sarò Imperatore di Tarre!» gracchiò Iuz, trattenendosi a malapena dal battersi il petto in segno di trionfo. Zuggtmoy aggrottò leggermente le sopracciglia di fronte a quello sfogo e Iggwilv si affrettò a calmarla. «Non allarmarti, sorella» disse la Strega, stringendo la graziosa manina di Zuggtmoy. «Nella sua eccitazione Iuz si è erroneamente convinto che dopo la distruzione della Confraternita Scarlatta, la Chiave Iniziale rimarrà a lui. In realtà non ne avrà bisogno per assicurarsi il potere, e quale destinazione migliore per un simile oggetto, se non quella di essere donato a colei che Ci avrà assicurato il successo? Chi, se non tu, adorata Zuggtmoy, dovrebbe servirsi della Chiave Iniziale per diventare Regina e Signora di tutto l'Abisso?» A quelle parole, Iuz si irritò leggermente, ma fu tanto saggio da tenere a freno la lingua. Ancora sospettosa, la Demoniessa guardò severamente Iggwilv e chiese: «E perché mai dovresti cedermi tanto volentieri una cosa così importante?» «Senza citare l'amore imperituro che io e Iuz nutriamo per te, grande Regina, basterà che io ti ricordi due semplici fatti. Primo, quando tutto il mondo sarà Nostro, che cosa Ce ne faremmo di un'altra Chiave, oltre a quella che già possediamo? Secondo, chi più di te, la Nostra più fedele amica ed alleata, sarebbe adatto a possedere due Chiavi e ad assicurarci così il dominio sull'intero Abisso?» «La tua saggezza e i tuoi poteri sono superiori a quelli di qualsiasi mortale» disse la Regina dei Funghi in tono solenne. «Avevo deciso di parlare dei problemi che il disonesto Graz'zt avrebbe potuto causare qualora fosse entrato in possesso della Chiave Finale o anche di quella Iniziale, e sono felice che tu, carissima Iggwilv, abbia prevenuto così i Miei desideri. Il tuo ex-marito non dimenticherà mai l'onta ricevuta per tua stessa mano e vi renderà le cose molto difficili, se mai riuscirà ad impadronirsi di un Theorpart. Il fatto che tu abbia capito tutto questo e la tua professione di lealtà nei Miei confronti indicano che il Mio precedente giudizio era corretto. Tu
Iggwilv, e anche tu, Iuz, sarete i favoriti quando dominerò sull'Abisso. Parola della Regina Zuggtmoy!» Iggwilv e Iuz abbracciarono la Demoniessa, profondendosi in ringraziamenti. «Perché ora non lasciamo perdere questi problemi così difficili e non ci divertiamo un po'?» propose la strega con una certa eccitazione. Iuz implorò Zuggtmoy di seguire il suggerimento, ma la Demoniessa si schermì: «Ora devo assolutamente occuparMi di alcune questioni nella Mia dimensione. Dopotutto, devo avvisare Szhublox e gli altri e fare i preparativi del caso». Detto ciò, la Regina dei Funghi si congedò, promettendo che sarebbe tornata il prima possibile. Non appena si fu allontanata, Iuz si rivolse alla madre in tono furioso: «Sei impazzita? Come ti è saltato in mente che quella lì si tenga due Chiavi? Gliele hai addirittura promesse!» «Frena la lingua, Iuz, o dovrò punirti severamente. Non dimenticare che sono tua madre e la tua guida!» Poi, addolcendo un po' il tono e sorridendo, Iggwilv abbracciò il Cambion. «Tu sei il Mio figlio diletto! Non tradirei mai la Mia stessa carne e il Mio stesso sangue. Non pensare nemmeno lontanamente che io possa dare il Theorpart a qualcun'altro. Governerai su Tarre con il potere di due Chiavi e nessuno potrà sottrarsi al tuo dominio. Che l'Abisso si azzuffi e combatta pure come i suoi principi! Tanto meglio per noi. Neppure Zuggtmoy oserà sfidarci, quando due terzi di quell'oggetto saranno in mano nostra.» «E se Graz'zt riuscisse ad impadronirsi della Chiave Finale e a vincere la gara?» «Lascia fare a Me. Ho già preso in considerazione questa possibilità e me ne occuperò molto presto. Tu vai e divertiti come preferisci, Iuz. Scenderò personalmente nell'Abisso per incontrarmi con tuo padre e risolvere il problema di cui parli. Penserò Io a tutto, e tu non dovrai preoccuparti di nulla. Presto l'intera Tarre si inchinerà a te, figlio Mio, come all'Imperatore Iuz, Signore di Tutto!» Mormorando una nenia funebre a bocca chiusa, il Cambion si apprestò a fare come Iggwilv gli aveva consigliato. I divertimenti lo aiutavano sempre a togliersi le ragnatele dal cervello; ora, poi, sapeva che doveva elaborare piani accurati per liberarsi della presenza oppressiva e intrigante di quella donna non appena fosse stato in possesso di due parti dell'oggetto. Nel frattempo poteva benissimo spassarsela un po'. Capitolo 5
La profonda oscurità del girone dell'Abisso in cui dimorava Graz'zt piaceva ad Eclavdra, e le ricordava quella della sua terra natale, celata nelle viscere di Tarre. L'ironia della presenza di un paradiso tropicale dove i Demoni infliggevano sofferenze e dolori ad ignare creature, soddisfava i suoi sensi. Neppure le zone più malfamate della città Drow di Urlisindatu, una cloaca di lascivia e vile crudeltà, potevano competere minimamente con quel luogo meraviglioso, regno del Demone Graz'zt. Più di tutto, però, la bella femmina di Elfo dalla pelle scura apprezzava la propria posizione in quel bizzarro girone dell'Abisso. Grazie al proprio valore e alla palese benevolenza di Graz'zt, infatti, Eclavdra aveva ottenuto un rango di poco inferiore a quello del grande signore del luogo. Yeenoghu dalla testa di iena, lo spregevole Kostchtchie e certi altri Demoni avevano ovviamente la precedenza su di lei, ma col tempo la situazione si sarebbe risolta a suo favore, ne era certa. Non aveva dubbi, infatti, di riuscire vincitrice nella gara per il possesso della Chiave Finale; in quel caso Graz'zt le avrebbe concesso favori ancor maggiori ed Eclavdra sarebbe divenuta Principessa dei Demoni, un'autorità di fronte alla quale tutti i Drow avrebbero dovuto chinarsi. Davanti a lei si elevava l'edificio nero e lucente, ornato di colonne, che ospitava il vasto palazzo di Re Graz'zt. Il marmo e l'ossidiana nera di cui era rivestito riflettevano come uno specchio le fronde color dell'ebano e il cielo infuocato, donando loro una sfumatura ancor più scura. Di lì a poco Eclavdra si sarebbe trovata di fronte alla corte riunita di Re Graz'zt per ricevere ufficialmente l'incarico. La prospettiva la eccitava, e non vedeva l'ora di iniziare. Non era stata nominata sua ancella personale, dopotutto? Ora poteva aspettarsi soltanto onori ancora maggiori, e sarebbe divenuta nota come il membro più importante della casata cui apparteneva: il clan di Eilserv. L'Elfo nero raddrizzò le spalle perfette scuotendo la testa, cosicché le trecce, lunghe fino alle spalle, le incorniciarono d'argento i lineamenti delicati. I suoi occhi dai riflessi violetti erano ombreggiati da lunghe ciglia argentee ed arcuate, e la bocca sensuale poteva apparire calda ed invitante, ma anche dura e tagliente, a seconda dell'umore. Tutte le Drow vantavano una lucente pelle nera quasi priva di imperfezioni, ma tra esse nessuna poteva competere con Eclavdra, e lei lo sapeva benissimo. Con la schiena diritta e il seno perfetto in fuori, visibile sotto la veste trasparente di una tinta color violetto che si intonava a quella dei suoi occhi, e una grossa ametista
al collo, Eclavdra entrò nel palazzo e si diresse verso le grandi valve che racchiudevano la sala del trono di Graz'zt. «Eclavdra, Gran Sacerdotessa di Re Graz'zt!» tuonò all'unisono la coppia di massicci Nabassu per annunciare il suo arrivo. Notò il ghigno sulle facce orrende dei due Demoni mentre passava sotto l'arco; avrebbero ricevuto una bella lezione al momento del suo ritorno trionfale, pensò, mentre li superava impettita, apparentemente senza notare il loro comportamento irrispettoso. Si diresse verso il centro della sala tra due ampie ali di spettatori, si avvicinò al trono posto sul fondo e, raggiuntolo, cadde in ginocchio chinandosi in avanti in segno di supplica. «Alzati, Gran Sacerdotessa» la invitò Graz'zt. Eclavdra si raddrizzò davanti al trono opalino del Signore dei Demoni. Quel trono era stato ricavato da un'unica enorme pietra, e Graz'zt era orgoglioso di averla scelta di un colore che si intonava perfettamente a quello della propria carnagione. Aveva i capelli di un nero-blu, ma il suo colorito era molto simile a quello di Eclavdra, che pertanto apprezzava molto il suo gusto in fatto di troni. Forse un giorno anche lei ne avrebbe avuto uno, magari un po' più piccolo per via della statura, e di un opale nero perfettamente levigato, ancor più bello di quello sul quale sedeva Graz'zt. Muovendosi in modo da far risaltare il più possibile il bel corpo, Eclavdra chinò il capo grazioso e disse: «Grazie, Re dei Demoni, Signore dell'Abisso. Io, Eclavdra sono venuta come tu mi hai ordinato.» «Ti ho convocato qui al Mio cospetto, Gran Sacerdotessa, affinché i Miei Pari ed i Miei vassalli possano vederti e ascoltare il tuo giuramento.» «Sì, potente Graz'zt.» «Parla, dunque, Eclavdra!» «La mia vita e la mia obbedienza sono nelle tue mani, o sovrano. Accetto umilmente l'incarico, ti servirò come campione nella prossima gara. Ho un solo desiderio: vincere e compiacere così il Mio re. La mia vita non significa nulla senza il tuo favore, e piuttosto di sopportare il fallimento, sono pronta a morire!» «E così sia» concluse Graz'zt, impassibile. «Hai detto bene, Gran Sacerdotessa» aggiunse. Poi, rivolto alla folla dei Demoni presenti, tuonò: «L'udienza è terminata. Siete liberi, tutti tranne il Nostro cerimoniere Vuron ed Eclavdra. Dobbiamo discutere di alcune piccole questioni.» I principi e i nobili si congedarono rapidamente, seguiti Hai Demoni cui Graz'zt aveva concesso il favore di considerarli vassalli particolari. Le grandi speranze di Eclavdra si erano un po' ridimensionate al sentir
menzionare Vuron. Il Gran Cerimoniere era un albino androgino, bianco quanto Graz'zt era nero. Di tutti i Demoni associati o alleati con il Signore dalle sei dita, Vuron forse era il più malvagio e il più intelligente. Con sua gran sorpresa, la Drow l'aveva visto dimostrare a Graz'zt una lealtà e una devozione incrollabili, e ciò la sconcertava e la insospettiva. Eclavdra si era aspettata una conversazione privata con il suo signore, ma la partecipazione di Vuron era stata un'indesiderata doccia fredda. Graz'zt condusse gli ospiti in una stanza isolata, protetta per magia da qualsiasi forma di spionaggio, e si sdraiò su un divano, facendo cenno anche ad Eclavdra e a Vuron di accomodarsi. Vuron parlò per primo. «Sai che questa gara non mi piace affatto, Mio re; perché chiedi il Mio consiglio?» chiese. «Proprio perché sei contrario, Nobile Vuron!» fu la risposta. Il Demone fu preso alla sprovvista. «Se sei intenzionato a portare avanti il piano di Iggwilv, a che cosa servirà la Mia opposizione?» Eclavdra non credeva alle proprie orecchie. Vuron si era esposto troppo, e certamente lei non avrebbe voluto perdersi il momento in cui si sarebbe pentito della propria audacia. Dopo tutto lei non era maggiormente qualificata per assumere la carica di massimo consigliere di Graz'zt? Ma certo. Ma proprio mentre la Gran Sacerdotessa riordinava i pensieri, pronta ad esprimere la propria opinione, il Re dei Demoni parlò. «Chi si fida di un Diavolo deve avere una dozzina di avvocati che lo consiglino sulle condizioni che sicuramente saranno poste dagli abitatori degli Inferi. Chi si fida di un Demone dev'essere tanto potente da non temere alcun inganno. Chi si fida della Strega Iggwilv è soltanto un povero sciocco!» «Prego, mio signore?» «Vuron, sei il Mio braccio destro in questioni come questa perché sei il meno demoniaco che abbia mai conosciuto tra quelli dell'Abisso.» Il Cerimoniere si inchinò replicando con estrema sincerità: «Fatta eccezione per te, grande re.» «Bah! Ho le stesse debolezze di tutti gli appartenenti alla nostra specie, Mio nobile cerimoniere. Se il mio comportamento è diverso, è tutto merito tuo, che mi hai dato l'esempio.» «Il mio signore è alquanto saggio nello scegliere i propri servitori» intervenne Eclavdra per ingraziarselo. «Troppo onore!» si schermì Vuron con un'umiltà che sembrava reale, caso unico fra i Demoni. «In cos'altro posso servirti, Signore? Ho detto tut-
to il possibile riguardo a questa questione.» «Forse, ma io ritengo di no. Ora fate entrambi attenzione; voglio spiegarvi tutto» disse Graz'zt. «È un fatto indiscutibile che tutti gli interessati desiderino che le tre Chiavi rimangano separate, o almeno che le due rimanenti non si uniscano a quella già ritrovata. Zuggtmoy certamente trama di recuperarne due, e lo stesso avviene per Iggwilv e per il suo marmocchio Iuz. Ma anch'Io ne desidero due, e non c'è da sorprendersi che in simili circostanze gli inganni abbondino su tutti i fronti.» Eclavdra parlò non appena il Re dei Demoni si interruppe e la guardò: «Come tuo campione, Re Graz'zt, non mancherò di farti ottenere la Chiave Finale! Grazie al suo potere, poi, riuscirai senz'altro a strapparne un'altra, come desideri, a Iuz o agli Scarlatti.» «Non cercare di avere due chiavi, Mio Signore» intervenne Vuron con una certa veemenza. «Un presagio sinistro mi impone di avvertirti. Credo infatti che il possesso di due Chiavi attirerà inevitabilmente la terza, tutti sanno con quali disastrose conseguenze...» «Tu suggerisci la viltà!» protestò la bella Drow. «Se Zuggtmoy dovesse impadronirsi anche di una sola Chiave, quale sarebbe il destino del Mio Signore? Se quella fungo-fila ne possedesse due, tutto sarebbe perduto. Lo stesso vale per Iggwilv, se non peggio» continuò Eclavdra. «Farebbe in modo che la sua alleata Zuggtmoy entri in possesso della terza Chiave, perché è senza dubbio nemica di Re Graz'zt. Tu vuoi la caduta del Mio re!» «Niente affatto, piccolo Elfo» ribatté il pallido Demone. «Anzi, esorto Graz'zt a riprendere il Theorpart che Iuz gli ha sottratto. E allora Iggwilv pianga pure e si lamenti con il frutto del suo grembo, Zuggtmoy si adiri e bruci pure d'odio, e tutti gli altri si combattano fra loro per il possesso della Chiave Finale: il Mio re avrà ciò di cui ha bisogno! E soprattutto lo terrà al sicuro nella vastità dell'Abisso, cosicché l'oggetto non si ricomporrà mai.» «Possedendo già una Chiave, Iuz e Iggwilv sono troppo forti perché il Nostro re possa fare ciò che suggerisci. Quella cagna umana ha umiliato Re Graz'zt e con i suoi trucchi l'ha confinato quaggiù per parecchi decenni.» Il nero Re dei Demoni sollevò un dito e, a ciò, Vuron chiuse la bocca che aveva aperto per controbattere, ed Eclavdra chinò il capo in segno di sottomissione. «Il mio campione dice bene, Vuron. C'è del vero nelle sue parole. Devo avere la Chiave Finale e per questo sono costretto a partecipare alla gara
indetta da Iggwilv. Ciò non significa che io la perdoni o dimentichi le sue ingiurie; mi limito a prendere tempo. Una volta o l'altra si presenterà l'occasione... Quello che ora devi fare, Vuron, è contribuire alla Mia vittoria. Poi decideremo il da farsi, e tu potrai nuovamente consigliarmi come meglio credi. Ora dimMi ciò che pensi, te lo ordino!» Vuron si inchinò con calma, accettando il comando senza traccia d'emozione: «Sì, signore. Ecco ciò che penso. La Strega e il Cambion si serviranno di tutti i loro poteri per far sì che il più debole dei partecipanti si accaparri l'oggetto. In questo caso Obmi sarà il favorito. Poi, una volta che il Nano avrà preso la Chiave Finale, quei due lo cattureranno con trappole e insidie, cercando di sottrargli il Theorpart. Se non ci riusciranno, lo lasceranno a Zuggtmoy, o meglio, l'aiuteranno tenendo fede ad un patto che certamente hanno già stipulato. Se sarà così, Zuggtmoy si lascerà ingannare, e presterà loro il proprio aiuto nella guerra contro la Confraternita Scarlatta ed i suoi diabolici aiutanti. Non posso dire quale delle due fazioni, Zuggtmoy o Iggwilv e Iuz, riuscirà a quel punto ad impadronirsi della Chiave Finale. Nasceranno dissensi tra la Strega e il Cambion, e tra Zuggtmoy e Szhublox, ne sono certo. A meno che non si mettano a litigare fin dall'inizio, Mio Signore, riusciranno senza fallo a prendere la Chiave Iniziale, perché uniranno i loro poteri per combattere due contro uno.» «Sei agitato, Vuron» disse Graz'zt, osservando da vicino il Demone albino. «Sì, Mio Re. Se la tenzone si svolgerà con due contro uno, penso che i poteri interferiranno e le tre parti finiranno per ricomporsi!» Quella frase fece rabbrividire Eclavdra, che però riuscì a contenersi e disse: «Ma se il Mio Signore avrà due Chiavi, non sarà necessario che combatta per la terza! Che ci giocherellino pure gli schiavi Scarlatti degli Inferi! Peggio per Iggwilv e per il maledetto Cambion che ha generato!» «E come farebbe Re Graz'zt a impadronirsi di due Chiavi?» La domanda di Vuron era la sfida che Eclavdra attendeva. «Molto semplice, Nobile Vuron» rispose la Drow, facendo sembrare quel titolo onorifico un insulto con la sola inflessione della voce. «Io recupererò la Chiave Finale per il Mio signore; a quel punto Iggwilv e Iuz dovranno implorare il suo aiuto per sottrarre l'altra alla Confraternita, con il pretesto di consegnarla a Zuggtmoy ma con il reale intento di tenerla per sé. Il possesso della chiave Finale libererà il Mio Re dai confini di questa dimensione! Prendere con la forza o con l'inganno ciò che è in loro possesso sarà cosa da nulla per un Demone potente come Re Graz'zt.»
«Eccellente» chiocciò Graz'zt. Posò la grossa mano con sei dita sul capo argenteo di Eclavdra e disse: «Mi raccomando, campione: vinci e ti eleverò al Mio stesso livello, nominandoti allo stesso tempo Prima Concubina!» «Il Mio signore è troppo generoso...» Vuron, comprendendo che le sue parole sarebbero cadute nel vuoto, passò alle questioni pratiche. «Come posso far sì che la vittoria tocchi al tuo campione, Signore?» chiese. Graz'zt non sembrò notare che Vuron evitava di rendere onore a Eclavdra, ma l'interessata sì. Un'altra voce sulla lista di ciò che farò pagare a questo pallido verme, quando arriverà il momento, pensò. Ma, invece di tradire la propria ira, Eclavdra sorrise in modo estremamente accattivante a Vuron, assicurandosi che Graz'zt vedesse bene la scena. Poi disse: «Sì, Nobile Cerimoniere, ti prego di comunicarmi il tuo parere. Tutto ciò che può aiutarmi a portare a termine con successo l'impresa contribuisce a farci servire meglio il nostro re.» Graz'zt assunse nuovamente un'espressione compiaciuta, ma il Demone albino si limitò ad alzare un sopracciglio candido come la neve: «Mediterò e analizzerò con costanza la questione, Mio signore, per dare accurate istruzioni al nostro campione quando giungerà il momento della partenza... Fra quanto, se posso chiederlo?» Senza aspettare risposta, Vuron aggiunse: «Ho a disposizione certe cosette che Eclavdra troverà molto utili nella sua missione su Tarre. Posso offrirle delle calotte, schermi per proteggere gli occhi dalle radiazioni cocenti del sole». Ciò dicendo, Vuron strinse le palpebre per qualche secondo, come se avvertisse davvero le radiazioni di cui parlava. «E che altro, Nobile Cerimoniere?» chiese Graz'zt in un tono che tradiva la delusione per un'offerta così misera. Eclavdra era soddisfatta, sebbene pensasse anch'essa che le si dovesse dare qualcosa di più, poiché l'impresa non era facile, e la vittoria non era assicurata, nonostante volesse far credere il contrario. Che fosse pure lo stesso Vuron a fornirle i mezzi per soppiantarlo! «C'è dell'altro, ovviamente, Re Graz'zt» disse il Cerimoniere con una nota offesa nella voce. «Oh, per favore, dimmi di che cosa si tratta, Nobile Vuron» supplicò Eclavdra, lanciando un'occhiata ansiosa al Demone albino. Vuron vide l'espressione di Graz'zt, oltre a quella della Gran Sacerdotessa, e disse: «Tra le molte cose a mia disposizione ci sono protezioni, armi e altro, e prego il Mio signore di perdonarmi se in questo momento non pos-
so elencare tutto. Mi hai incaricato di fare il possibile, e desidero ancora un po' di tempo per soddisfare al meglio le tue esigenze.» «Assicurati che sia così!» lo ammonì Graz'zt con la sua voce profonda e autoritaria. «Ora ti permettiamo di andare, Cerimoniere. FacCi una relazione giornaliera dei tuoi progressi; è meglio non ritardare troppo la partenza di Eclavdra.» Il Demone dalla pelle nivea lasciò la stanza privata con dignità, mentre Graz'zt rivolgeva la propria attenzione alla Drow, che si era lanciata in una spiegazione del proprio piano per riportare la vittoria nella tenzone; il Re dei Demoni l'ascoltava con piacere. I resoconti quotidiani di Vuron non dettero risultati, e il monarca era sempre più agitato. Parecchi giorni dopo, convocò infuriato il Cerimoniere per un'altra udienza nella piccola stanza protetta, «Un simile ritardo è inconcepibile, Vuron» tuonò il Demone nero. «Spiegati, o ti spetterà una giusta punizione!» «Come piacerà alla tua Maestà Abissale» disse il Cerimoniere in tono formale, inchinandosi davanti a Graz'zt. Il Re dei Demoni annuì, ma non fece cenno a Vuron di sedersi. Eclavdra osservava la scena dal proprio divano, posto accanto a quello reale. Dopo una breve pausa, Vuron si raddrizzò e cominciò a parlare. «Dopo molte riflessioni e studi accurati, Mio signore, proprio oggi ho finito di elaborare un piano che soddisferà le tue esigenze. È molto semplice, e allo stesso tempo molto complesso; comunque, Mio Re, ti procurerà un vantaggio sugli altri.» «Un vantaggio? E la sicurezza?» chiese Graz'zt. «La sicurezza» rispose Vuron, «è compito di qualcuno molto più potente di me. Io posso offrire il vantaggio della sorpresa, quello della precauzione e quello dello speciale equipaggiamento che posso procurare... ma nulla più.» Invece di cadere preda di un attacco di rabbia, nonostante ne avesse tutta l'aria, Graz'zt fissò per un attimo il Demone albino; poi si rilassò e sorrise: «Le tue parole, Nobile Vuron, Ci sembrano come sempre dettate dal buon senso e le apprezziamo. ParlaCi del tuo piano.» «Eclavdra, ben protetta da un mantello, partirà dalla città libera di Dyvers. Laggiù sorge un tuo tempio, Mio Re, e sarà possibile trasportare la Sacerdotessa nelle catacombe sotterranee senza suscitare inutili sospetti. Non correrà gravi rischi, perché ai tuoi oppositori non importa, perdona le mie parole, se tu lasci questa dimensione.»
Graz'zt assunse un'espressione contrariata ed Eclavdra ebbe un ghigno di disprezzo: «In questo modo avrò parecchi giorni di svantaggio rispetto a quel rospo, Obmi! Le spie hanno riferito che è partito da Molag una settimana fa.» Ignorando il suo scatto d'ira, Vuron proseguì in tono calmo: «La seguirà una scorta di mezzosangue Drow in grado di tollerare la luce del sole cui saranno esposti per tutta la durata del viaggio. Suoi luogotenenti saranno due abili cavalieri dotati di notevoli poteri magici. Le altre sei guardie saranno anch'esse mezzosangue Drow: un assassino abilissimo e crudele, un ladro in grado di combattere strenuamente e altri quattro guerrieri senza specifiche abilità ma di grande valore.» «Secondo le regole poste da Iggwilv, mi spettava una scorta di dodici persone!» protestò Eclavdra. «Sì, Sacerdotessa, infatti al gruppo se ne aggiungeranno successivamente delle altre. Arrivati nel Ket, si uniranno a voi sei dei più forti cavalieri barbari Yoli. Li incontrerete a Hlupallu, in un luogo segreto, e avranno il compito di proteggere ulteriormente la spedizione e di guidarla attraverso Yoll e le Pianure Desolate fino al Deserto di Cenere.» «Sciocchezze!» gridò Graz'zt alzandosi in piedi e puntando minacciosamente il dito contro il Cerimoniere. «Con i tuoi consigli perderemo di certo. Tutti potranno vedere quel gruppo, spiarlo, pedinarlo, ostacolarlo e bloccarlo! E se tutto andrà bene, arriverà a destinazione molto tempo dopo che lo sciacallo di Zuggtmoy avrà raggiunto la Città Dimenticata e l'avrà lasciata!» «Lo so, Re Graz'zt» rispose il Demone albino senza traccia d'emozione. Vi fu un attimo di silenzio teso, e poi Graz'zt prese ad avanzare verso Vuron con uno sguardo terribile negli occhi. Il Demone sembrò farsi ancor più pallido, ma non si ritrasse. «Eclavdra però non farà parte del gruppo, mio signore; è questo il bello del mio piano» spiegò finalmente. Il Re dei Demoni si raddrizzò, dondolò all'indietro sui talloni e fissò nuovamente Vuron; poi scoppiò in una risata e disse: «Non avrei mai dovuto dubitare della tua astuzia e della tua doppiezza, Mio buon Vuron! Continua pure.» «La Grande Caverna del Drow, signore, è accessibile ad Eclavdra grazie alle arti magiche. È lì che la manderemo e da lì potrà emergere nel mondo. A Ghastoor c'è una porta che conduce negli Inferi, non è vero?» La domanda era rivolta all'Elfo nero, e quando lo sguardo interrogativo di Graz'zt seguì quello del Demone albino, Eclavdra annuì, confermando l'e-
sistenza dell'accesso. «Là, Mio Signore, l'attenderà la vera scorta, composta da guerrieri-cammellieri duri e obbedienti, originari delle Pianure Desolate, e da due furfanti che derubavano i morti nel Deserto di Cenere. Uno è un mago, l'altro un ladro di grande abilità. Mentre i nostri nemici spieranno la falsa Eclavdra, e saranno tutti contenti di trovarsi in gran vantaggio rispetto a lei, la vera starà già scavando nella Città Dimenticata per recuperare la Chiave Finale, Mio Re!» «Come farete a trovare una mia sosia?» chiese Eclavdra in tono studiatamente neutro. «Una statua verrebbe immediatamente scoperta.» «In questo hai ragione, Grande Sacerdotessa di Graz'zt. Ma quando sarai ben lontana, nascosta nella profonda Caverna del tuo mondo natale, ci serviremo di un clone.» «Ma un clone potrebbe...» «Essere eliminato prima che ti procuri difficoltà, sacerdotessa Drow. Una volta sconfitto il nemico, farò in modo che il tuo duplicato non abbia la possibilità di discutere con te a chi spetti il diritto di esistere.» «Piano accettato, Nobile Cerimoniere» disse il Principe d'ebano. «Siamo soddisfatti.» Vuron fece un sorrisetto cauto: «Grazie, Maestà. Ma c'è ancora un particolare. Per assicurarsi che nessuno la riconosca, la tua serva Eclavdra riceverà uno speciale olio magico che le schiarirà la pelle in modo da renderla simile a quella dei nomadi delle steppe. La splendida armatura e le armi del suo popolo non emanano alcuna aura, ma le radiazioni del cielo aperto, in assenza di quelle della Caverna, danneggiano il metallo; io quindi ho preparato alchimisticamente una soluzione che interromperà il processo di decadimento per settimane, se non per mesi. Eclavdra farà il suo viaggio armata di protezioni invisibili; l'elisir protegge anche gli abiti, quindi potrà indossare anche vesti Drow, se lo desidererà.» «Ora mi compiaccio veramente di te, Nobile Vuron, Mio fedele consigliere!» esclamò Graz'zt. Un altro sorrisetto si dipinse sul volto bianco e allungato del Demone, una piccola espressione soddisfatta che solo Eclavdra notò mentre il Cerimoniere si inchinava umilmente davanti a Graz'zt. «Inoltre, Mio signore, ho raccolto per il nostro campione qualche oggettino che potrebbe esserle utile: una caraffa che getta acqua quand'è necessaria, una maschera magica che permetterà alla tua Sacerdotessa di respirare liberamente polvere e acqua come se fossero aria, e un assortimento di altri ammennicoli che potranno servirle nell'adempimento dei tuoi ordini.»
«Quali pericoli e quali rischi prevedi, Vuron?» chiese il Re dei Demoni, facendo sedere il Cerimoniere accanto a sé sul divano reale. Vuron li descrisse per esteso, interrotto da frequenti esclamazioni di Graz'zt. Dopo un po', il Demone dalla pelle nera alzò lo sguardo e vide che Eclavdra aveva un'aria infastidita e petulante, e non si curava di nascondere la propria irritazione. «Partirai domani, Eclavdra. Ora torna nelle tue stanze e riposa; ti vedrò domattina. Ci sono ancora molte cose che voglio discutere con Vuron questa notte, e tu non puoi dare alcun contributo a questo discorso. La Drow fu tanto intelligente da nascondere la propria vergogna e la propria ira, e obbedì immediatamente agli ordini di Graz'zt, lasciando la stanza. Ma il giorno del suo trionfo non era lontano, e sarebbe toccato a Vuron imprecare. Capitolo 6 «Salam, straniero! Potrei entrare nel tuo accampamento?» Gord aveva notato la presenza del nomade già da un po'; faceva parte di un terzetto di cavalieri che si erano spinti ad un tiro di sasso da lui e poi avevano mollato le redini e si erano divisi. Gli altri due si erano fermati ai lati, al di fuori della luce del falò. Il terzo invece era a malapena illuminato dalle deboli fiamme accese dal giovane avventuriero per cuocersi una pernice abbattuta con la fionda al crepuscolo. «Ma certo che puoi venire avanti» rispose Gord, in tono casuale, «e lo stesso vale per quei due che si nascondono.» A quelle parole il nomade si mise a ridere, perché l'Ourmi, il suo accento non lasciava dubbi sulle sue origini, non si era nemmeno preoccupato di alzare gli occhi dall'uccello che stava mangiando. «Devi avere gli occhi e le orecchie di un gatto, straniero! Venite, fratelli» gridò agli altri due. «Avremo l'ospitalità di un fuoco per questa notte!» «Non mi piacciono quelli che si avvicinano furtivamente ai viandanti solitari» disse Gord mentre il suo interlocutore si avvicinava. «Bisogna essere prudenti nelle Pianure» rispose quello, senza traccia di scusa nella voce. «Questo è vero, Okmaniano» disse il giovane avventuriero fissando l'uomo dalla pelle scura alla scarsa luce del falò. Il suo mantello a strisce grigie e verdi, i motivi operati della cintura e degli stivali di cuoio e lo spadone che portava di traverso sulla schiena ne indicavano l'origine in
una delle tribù Okmaniane che abitavano la zona a nord delle Guglie di Yolspur. Il nomade sembrò sorpreso del fatto che Gord conoscesse il suo popolo. «Dunque la fama degli Okmaniani è giunta fino ai regni Ourmi?» chiese. «I ladroni e i briganti si conoscono su tutto Tarre» osservò seccamente Gord. «E di' ai tuoi... fratelli... di smettere di nascondersi e di venire qui, altrimenti mi toccherà uccidervi sui due piedi.» «O sei un grande guerriero, occhi grigi, o uno stupido spaccone» disse l'Okmaniano. Osservando Gord, notò la spada e il pugnale che aveva indosso e la lancia posata poco lontano; i suoi movimenti erano fluidi e precisi; seguiva il principio dell'economia in tutto ciò che faceva, e dal suo comportamento non traspariva alcun timore. «Avanti, venite» disse il nomade ai compagni. «Il nostro ospite è un bell'esemplare di guerriero, quindi accampandoci qui saremo al sicuro.» Gord guardò il nomade, che sembrava apprezzare il suo atteggiamento noncurante e la sua sicurezza di sé di fronte a tre potenziali nemici. «Mi chiamo Gord» disse. «Salve, Gord l'Ourmi. Io sono Eflam e questi sono i miei compagni, Hukkasin e Ushtwer» aggiunse, mentre due uomini abbigliati in modo simile si avvicinavano esitanti al falò. «Non siate timidi, ragazzi» disse Gord senza sorridere. «Sedetevi. È rimasta soltanto la metà della pernice che ho arrostito, ma potete prenderla, se avete fame. Assieme potrete mangiare questo pane ed insaporirlo con il mio sale.» Gli altri due esitarono ad accettare l'offerta, ma Eflam sorrise e prese un pezzo della pagnotta piatta che Gord aveva tirato fuori. L'Okmaniano spolverizzò di sale il pezzo di pane e lo inghiottì tutto in una volta. «Mangiate anche voi!» riuscì a dire con la bocca piena. Mentre Hukkasin e Ushtwer obbedivano, ingozzandosi avidamente, il guerriero Okmaniano inghiottì il boccone, sorrise e disse a Gord in tono ammirato: «E così sai che il mio popolo segue i costumi di tutti coloro che dimorano nelle regioni aride. Sei un tipo molto insolito, pur essendo straniero. Ma il nome Gord non mi piace; ha un suono troppo esotico per uno che ha tanta dimestichezza con le usanze della gente vera. Ti chiamerò Pharzool, il nome dato nella mia lingua ai gatti dal mantello grigio striato che vivono sulle colline dell'Okmanistan.» Gord alzò le spalle con indifferenza, mentre gli altri due nomadi applaudivano ed esprimevano ad alta voce il loro assenso. «Vede e sente come un
pharzool» disse Ushtwer. «Ed è altrettanto aggressivo, Eflam. Un nome davvero azzeccato!» Poi i quattro uomini si misero a conversare, condendo il tutto con una buona dose di spacconate. Quando Gord menzionò la tribù di Al-babur, i tre Okmaniani aggrottarono le sopracciglia; quella tribù era nemica della loro da generazioni. Poi Eflam, il più acuto e quindi capo naturale del gruppo, si mise a ridere. «Anche noi Okmaniani siamo percettivi» disse. «Sei stato adottato dalla tribù di Al-babur, la Tribù della Tigre, capisci?» Gord scosse la testa. «Noi ti abbiamo dato il nome di un felino!» esclamò Eflam. «Il popolo della Tigre non ha alcun merito, ora, perché io ti ho nominato fratello degli Okmaniani, Pharzool!» Tutti e tre i guerrieri balzarono in piedi e diedero pacche sulla schiena al giovane avventuriero. Gord, pur non volendo sminuire il privilegio concessogli, non poteva fare a meno di chiedersi come mai queste tribù proclamassero tanto facilmente qualcuno loro fratello; prima gli era capitato con quella di Al-babur, e ora con gli Okmaniani. Stava proprio per dire qualcosa al proposito quando scoprì che cosa significava la parola «fratello» per gli Okmaniani. «Non hai molto da darci in cambio dell'onore che ti abbiamo concesso» disse Ushtwer, adocchiando il bel cavallo di Gord. La bestia, all'avvicinarsi del nomade, abbassò all'indietro le orecchie e poi sbuffò scoprendo i denti. L'uomo fece cautamente un passo indietro. «Non ti preoccupare, fratello» disse Hukkasin a Ushtwer. «Domani troveremo qualche carovana da depredare o cavalli selvaggi da catturare. Allora il nostro nuovo fratello, Pharzool il Generoso, ci darà i suoi doni in segno di apprezzamento.» «Ho un'idea migliore» disse Gord ad alta voce, per assicurarsi l'attenzione di tutti e tre gli interlocutori. «In segno di gratitudine per la vostra generosità nel fare di me un guerriero della vostra valorosa tribù, vi darò una lezione nell'uso delle armi». A ciò, il giovane si alzò in piedi, con il lungo pugnale e la daga in pugno. I nomadi, che non lo avevano visto sguainare le armi, erano convinti che si trattasse di una magia. «Non c'è bisogno che tu ci faccia dei doni, fratello» lo assicurò Eflam, vedendoselo davanti in posizione di combattimento. «Per noi è già un grande onore condividere il tuo cibo e il tuo accampamento ed annoverarti fra gli Uomini di Okman!» Sia Hukkasin sia Ushtwer sembravano assolutamente d'accordo con quell'affermazione e smisero di sudare solo quando Gord rinfoderò le armi e si rimise seduto. Poi iniziarono a raccontarsi sto-
rie finché non si sistemarono per la notte intorno al fuoco di Gord. Il mattino portò con sé una fitta nebbia in banchi. Gord riusciva a distinguere le caratteristiche fondamentali del paesaggio, ma i dettagli si potevano scorgere solo ad un centinaio di metri di distanza. Capì che la sua vista speciale non gli era di alcun beneficio in simili circostanze; ciò lo preoccupava, ma non più di tanto. Quando tutti erano ormai pronti per mettersi in cammino, all'improvviso Eflam indicò qualcosa in lontananza e lanciò un lungo grido acuto. Gli altri due Okmaniani lo imitarono, e Gord volle sapere che cosa significasse tutto ciò. «No, niente di grave, Pharzool» disse Eflam in tono vagamente accondiscendente. «Vedi quella fila di cavalieri laggiù? È il resto del nostro gruppo. Ben presto anche gli altri guerrieri della nostra tribù ti daranno il benvenuto, e tutti assieme potremo saccheggiare le terre dei cani Yoli!» I nomadi montarono a cavallo e spinsero i destrieri al galoppo, senza curarsi di vedere se il loro nuovo fratello li seguiva, desiderosi com'erano di riunirsi agli altri predatori Okmaniani. Hukkasin, il più piccolo dei tre, che cavalcava l'animale più veloce, si mise alla testa del gruppo con un vantaggio di alcune decine di metri sugli altri due. Gord li seguì, mantenendo però Windeater al trotto e lasciando che i nomadi guerrieri andassero avanti. Non riusciva ancora a capire quanti uomini si stessero avvicinando nella nebbia, perché sembrava che cavalcassero molto vicini l'uno all'altro. Ad un tratto le grida di giubilo di Hukkasin si trasformarono in un grido d'allarme e Gord frenò il cavallo. «Corri, Pharzool!» urlò Eflam. «Davanti a noi ci sono i bastardi di Yoll!» Rallentò l'andatura, imitato dal compagno più vicino; Hukkasin aveva fatto dietrofront e li aveva quasi raggiunti. «Che cosa vi faceva pensare che quelli fossero i vostri uomini?» chiese Gord una volta vicino ai nomadi. «Vedi quelle due basse catene di monti all'orizzonte?» gli disse Eflam, indicandole con un cenno del capo mentre estraeva un piccolo arco dalla bisaccia appesa al fianco del cavallo. «Lo spazio centrale costituisce un luogo d'incontro per i guerrieri Okmani. Quegli Yoli appestati devono essere passati di là per caso.» «E adesso?» chiese il giovane avventuriero. Il tono era sbrigativo, ma Gord si tolse contemporaneamente la fionda dalla cintura e prese un sasso nella borsa. Eflam sembrava rassegnato mentre incoccava una freccia dalla punta larga. «Staremo qui ad aspettarli scoccando le nostre frecce, e quando sa-
ranno qui, combatteremo» e così dicendo scagliò la prima freccia sugli Yoli all'attacco. Gord vide che gli altri due Okmaniani avevano fatto lo stesso, quindi fece roteare la fionda e lanciò una pietra. Un paio di nemici caddero colpiti dalle frecce, e dopo un istante la pietra di Gord colpì un cavallo; l'animale inciampò, disarcionando il cavaliere, che rimase schiacciato sotto gli zoccoli degli altri cavalli. «Bel colpo, Pharzool!» gridò Eflam. «Manda un altro bacio del genere a quei cani!» Non ce n'era il tempo, e Gord lo sapeva. Gli Okmaniani stavano nuovamente incoccando frecce, ma per lui sarebbe stato troppo lungo ricaricare la fionda. Ripose quindi l'arma e sfilò la lancia leggera dalla manica della veste di cuoio proprio mentre uno Yoli cadeva con una freccia Okmaniana nel petto. Chino sul cavallo, con la lancia puntata, Gord mise al trotto Windeater dirigendosi verso gli Yoli. Il trotto si stava lentamente trasformando in galoppo quando Gord si ritrovò circondato dai nemici. Da quel punto poté vedere a che cosa andavano incontro lui e gli Okmaniani. I guerrieri Yoli erano armati di scimitarre, e alcuni impugnavano una lancia molto simile a quella di Gord; avevano anche una custodia per l'arco; mentre si avvicinava ai nemici, Gord immaginò che disdegnassero l'uso delle frecce contro un solo avversario, oppure che non desiderassero sprecarle. Era difficile colpire da un cavallo al galoppo, e pochi erano in grado di farlo anche con l'aria limpida, ma con quella nebbia sarebbe stato praticamente impossibile centrare un bersaglio solitario. Era rimasta ancora una ventina di Yoli, cinque per ognuno di loro, calcolò Gord, e ora si erano aperti a ventaglio, evidentemente allo scopo di circondarli. Il giovane, comunque, fu contento di vedere che mantenevano le loro posizioni anche in quella formazione, poiché ciò significava che avrebbe dovuto combattere solo con due o tre nemici alla volta. «Yoll-Yoll-Yoll!» Il grido avvolgeva Gord mentre faceva di tutto per impedire agli Yoli di colpirlo alle spalle. Scelse un bersaglio nel momento in cui il predestinato sceglieva per bersaglio lui: vide arrivare contro di sé un guerriero con la lancia puntata, che ripeteva a tutta forza quello strano urlo. Mentre si avvicinavano, Gord si inclinò rapidamente sull'alta sella per evitare la lancia dalla lama ondulata che minacciava di trafiggergli il petto. La sua lancia invece colpì lo Yoli ad una spalla, causandogli poco danno; l'intenzione era di mirare al cuore, ma il movimento fatto per evitare l'arma dell'avversario aveva deviato il colpo. Tuttavia il guerriero Yoli fu disar-
cionato e Gord lo superò, voltando subito il cavallo per attaccare di nuovo. Proprio prima di ributtarsi nella mischia, Gord credette di scorgere un altro gruppo di cavalieri nella nebbia, e temette immediatamente il peggio: se gli Yoli con cui erano impegnati in quel momento costituivano soltanto l'avanguardia, Gord e i compagni erano perduti. Il giovane decise quindi per un altro passaggio attraverso le file nemiche, in cui avrebbe fatto del suo meglio; poi però si sarebbe allontanato dalla scena della battaglia il più in fretta possibile in groppa a Windeater, senza più curarsi di una causa tanto futile. Abbassò nuovamente la lancia, avventandosi contro un guerriero che tentava di colpire Hukkasin di lato: prese lo Yoli vestito di rosso e arancione in pieno fianco, spezzando addirittura l'asta della lancia. Utilizzò poi il pezzo di legno scheggiato rimastogli in mano per confondere un altro aggressore, lanciandoglielo in faccia, quindi sguainò la daga e si preparò ad affrontare un altro guerriero che gli tagliava la fuga. Proprio mentre si apprestava ad attaccare, udì alle sue spalle uno scalpitio di zoccoli e alte grida; il secondo gruppo di guerrieri si stava avvicinando, ma questa volta il grido di guerra era diverso. «Yii-yii-yii, Okman!» Le due dozzine e più di guerrieri che Eflam e i suoi uomini attendevano si lanciarono sugli Yoli confusi e sconcertati, e i mantelli a strisce grigie e verdi si mescolarono agli scacchi rosso fiamma e rosa che adornavano le vesti dei guerrieri Yoli. Pur sorpresi dall'arrivo dei nuovi nemici, gli Yoli non si lasciarono spaventare né scoraggiare; ora che le probabilità erano tutte contro di loro circa due a uno per gli Okmaniani - rinunciarono a combattere a casaccio, come avevano fatto fino a quel momento, e diventarono molto più feroci. Gord scambiò alcuni colpi di spada con un cavaliere, ma poi furono separati dalla calca e il giovane avventuriero si ritrovò ad affrontare un nuovo avversario. Dopo aver dato e ricevuto parecchi colpi, Gord riuscì ad infilarsi sotto il piccolo scudo del cavaliere Yoli e a trafiggergli il cuore con la daga. Gli Okmaniani, tuttavia, non se la cavavano bene quanto Gord; gli avversari avevano serrato le file e menavano colpi furiosi. Per un momento il giovane avventuriero ebbe modo di chiedersi cosa sarebbe accaduto se quella mischia fosse continuata; poi, improvvisamente, la situazione sembrò rivolgersi contro i guerrieri Yoli, sei dei quali caddero in pochi secondi. Nel frattempo, Gord udì altre grida di battaglia in lontananza, seguite da urla provenienti dall'altra estremità del campo, cioè dalla zona più vici-
na al nuovo gruppo di aggressori. Si girò a guardare in quella direzione e vide che le urla venivano da guerrieri Okmaniani colpiti da dardi di luce fulgida, nei quali riconobbe proiettili magici; si appiattì quindi sul dorso di Windeater e lo spinse al trotto con un colpo di ginocchia, allontanandosi dai guerrieri in avvicinamento. Un rapido sguardo alle proprie spalle gli rivelò che i nuovi arrivati erano in minima parte Yoli, ma che la maggioranza era costituita da uomini avvolti in vesti mai viste e di certo non Yoli. Gord credette di aver visto un Nano assieme a loro, ma non ne era certo, e non c'era tempo per indagare; spronò di nuovo Windeater con i calcagni e il piccolo stallone si mise a correre; in pochi attimi il veloce animale lo aveva condotto lontano dalla mischia, in direzione ovest. Gord si voltò indietro e vide alcuni mantelli a strisce sventolare nella fuga; erano probabilmente i guerrieri Okmaniani superstiti che cercavano di sfuggire ai nemici in tutte le direzioni. Windeater arrivò in cima ad una salita non molto ripida e iniziò a scendere dal lato opposto; Gord fece piegare leggermente verso sinistra la testa della cavalcatura per farla puntare in direzione sudovest; sapeva che almeno per un po' eventuali inseguitori non sarebbero riusciti a vederlo, e intendeva restare fuori vista, se possibile. Nella direzione che aveva scelto, il terreno si abbassava, formando una lunga depressione fiancheggiata da terreni paludosi da entrambi i lati, ed era certo che, una volta raggiunto il bassopiano, i cavalieri nemici non sarebbero riusciti a vederlo. Che si trattasse di un arco o di un incantesimo, Gord non aveva alcun desiderio di fare da bersaglio. Windeater continuò a galoppare senza dar segni di cedimento. Avevano già percorso due leghe, lasciandosi così la nebbia alle spalle di parecchio, quando il giovane sussurrò qualche parola dolce al coraggioso animale e tirò delicatamente le redini. Il cavallo si mise al piccolo galoppo e Gord lo lasciò continuare a quel ritmo. Quando gli sembrò di essersi sbarazzato di eventuali inseguitori, Gord fece arrestare Windeater, smontò e gli tolse rapidamente la sella. Prima che potesse ripulirgli i fianchi dal sudore, tuttavia, il cavallo nitrì di piacere e cominciò a rotolarsi nell'erba alta. «Bene, amico mio» gli disse il giovane, «apprezzo il fatto che ti arrangi da solo, ma non metterci troppo!» Come se avesse capito le sue parole, Windeater si fermò e si rimise in piedi con un balzo, mettendosi a pascolare e ingoiando l'erba il più velocemente possibile. Gord lo lasciò al suo pasto e si arrampicò sull'altura alla sua destra, abbastanza elevata da permettergli di vedere il panorama verso ovest e anche
la zona da cui era venuto. Non vedeva nulla di interessante davanti a sé, ma ad est, in lontananza, scorse una fila di cavalieri al trotto che seguivano la stessa via presa da lui. «Merda!» esclamò sottovoce. Gli Yoli sembravano decisi a catturarlo e, sebbene si trovassero ad alcune miglia di distanza, evidentemente seguivano le tracce di Windeater; se era così, non c'era modo di evitarli. Chiedendosi perché si dessero tanta briga di inseguire un solo fuggiasco incontrato per caso, Gord scivolò giù per il pendio e rimise al cavallo la coperta e la sella. «Forza, Windeater, andiamo! Non vorrai mica finire nelle mani di uno Yoli!» Il cavallo sbuffò scuotendo la testa e Gord rise, guidandolo verso ovest al trotto, per mantenere la stessa velocità di quelli che lo inseguivano. Gli inseguitori rimasero sulle sue tracce per due giorni e una notte. Il giovane avventuriero riuscì a fare una sosta di notte per far riposare Windeater e dormire anch'egli un pochino, quando fu chiaro che i suoi nemici avevano fatto lo stesso. La seconda notte decise di prendere in mano la situazione, per così dire. Lasciò pascolare tranquillo Windeater, legato sommariamente ad un cespuglio, e quando fu parecchio lontano dal cavallo si trasformò in pantera e tornò sui propri passi. Dopo circa tre miglia in direzione est, si imbatté nell'accampamento degli inseguitori; c'erano tre uomini di guardia, mentre altri dieci dormivano. Dal proprio nascondiglio la pantera Gord intuì che almeno una delle sentinelle era un essere semiumano dotato di visione notturna, poiché i suoi occhi riflettevano il fuoco quando guardava verso il campo. Cercò dunque di tenersi il più alla larga possibile da quella guardia mentre scivolava lungo il perimetro dell'accampamento sotto le spoglie di un grosso felino. Riuscì così ad avvicinarsi abbastanza da ispezionare l'equipaggiamento di alcuni dei dormienti. Non tutti avevano accanto a sé la corazza e le armi, quindi significava che dovevano esserci almeno due maghi tra loro. Era tutto ciò che poteva appurare, pertanto si allontanò in silenzio com'era venuto. Il giovane avventuriero era deluso; aveva sperato almeno di raggiungere i cavalli e di farli fuggire, lasciando a piedi i nemici; in questo modo la caccia sarebbe terminata, perché gli inseguitori avrebbero impiegato almeno un giorno per ritrovare i cavalli, se poi li avessero ritrovati tutti. Purtroppo la sentinella che vedeva al buio era appostata proprio accanto ai cavalli e gli aveva rovinato i piani. Aveva anche pensato di attaccare il gruppo e di ridurre il numero dei componenti, ma la scoperta che tra essi si tro-
vavano dei maghi o dei chierici esperti di incantesimi, o entrambi, lo aveva distolto dal progetto. Gord si sentiva frustrato, ma non scoraggiato. Se non poteva liberarsi facilmente di quegli indesiderati compagni di viaggio, si sarebbe affidato a Windeater e li avrebbe distanziati. In questo modo la risoluzione del problema sarebbe stata più lunga e difficile, ma era sicuro che l'inseguimento, alla fine, sarebbe cessato. Anche i migliori segugi avrebbero perso le sue tracce quando la distanza fosse stata sufficiente da permettergli di servirsi del terreno, delle condizioni climatiche e di altri animali per depistarli. Come se gli elementi volessero favorirlo, l'alba rischiarò un cielo plumbeo e poco dopo iniziò a piovere a tratti. Mentre Gord sonnecchiava in sella, Windeater proseguiva al trotto, e sembrava apprezzare quel tempo così brutto quanto il sole e il sereno. All'improvviso un rombo di tuono riportò in sé il cavaliere; l'erba si agitava come un mare in tempesta e grossi nuvoloni piatti si accumulavano in cielo, neri e sinistri, illuminati ad intervalli dai fulmini. A Windeater la pioggerellina non dispiaceva, ma tuoni e fulmini erano un'altra cosa. Il cavallo aveva gli occhi spalancati tanto da mostrare il bianco, e le narici dilatate; Gord lo accarezzava sul collo parlandogli dolcemente, ma le scariche elettriche vanificavano le sue fatiche. Poi il vento aumentò e incominciò a cadere una pioggia battente; il frastuono del temporale martellava in maniera insopportabile i sensi del povero Windeater, che divenne ingovernabile. Gord cercò di farlo piegare verso sud, l'unica direzione in cui la furia degli elementi sembrava meno violenta, e allentò le redini. Il cavallo si mise a correre e il giovane si aggrappò a lui con tutte le forze. Ad un certo punto il terreno si fece più duro e scivoloso; si trattava di una zona rocciosa che rendeva difficile il cammino, ma Gord lasciò che il cavallo proseguisse per quella via invece di cercarne una più sicura. Sapeva che là avrebbe probabilmente trovato una caverna o uno spuntone di roccia dove entrambi avrebbero potuto ripararsi. E in effetti trovarono un grossa sporgenza rocciosa che fornì loro un rifugio sufficientemente asciutto e comodo dove attendere la fine del temporale. Gord tolse la sella allo stallone, lo legò e gli diede una manciata di grano; poi si stese sulla roccia dura e si addormentò di colpo. Quando si svegliò era l'alba; era intirizzito, con le membra doloranti e tutto bagnato, ma allo stesso tempo rinfrancato dalla certezza che sarebbe stato impossibile per i suoi inseguitori rintracciarlo sulle rocce e con tutta quella pioggia. Windeater sembrava essersi ripreso dagli effetti della tre-
menda esperienza. Durante la notte, quando aveva smesso di piovere, era uscito dal suo riparo e ora pascolava a una trentina di metri di distanza, cercando di strappare la scarsa vegetazione che spuntava qua e là nel terreno pietroso e sulle pareti di roccia che li circondavano. Il temporale non si era esaurito, perché Gord vedeva ancora qualche fulmine a nord; a sud, invece, il cielo era nuvoloso ma non manifestava fenomeni temporaleschi. Alla sua sinistra vide una linea scura che poteva indicare solo una catena montuosa, mentre a ovest immense nubi si accumulavano sulla pianura, dimostrando che il temporale si spostava verso sudovest. «Windeater, dobbiamo andare a sud, tra il temporale e le montagne» disse allo stallone, rimettendogli la coperta e la sella. «Ma almeno non avremo più cani Yoli alle calcagna!» Capitolo 7 La terra era completamente bruciata dal sole. C'erano delle zone di deserto sabbioso e altre di sabbia mista a roccia, ma più che altro si trattava di terra tanto secca da aprirsi in mille crepe, punteggiata di piante scheletriche. Nelle depressioni e nelle cunette crescevano cactacee e alberi stenti. «Penso che qui piova... qualche volta» disse Gord accarezzando il collo del cavallo mentre osservava quella zona desertica. «Sono contento che tu sia un bravo ragazzo, Windeater, altrimenti saremmo proprio in difficoltà». Lo stallone proseguì muovendo le orecchie, per dimostrare che udiva le parole del suo padrone, ma era interessato unicamente a dove metteva gli zoccoli. Viaggiavano in quelle lande da due giorni. Windeater era riuscito a trovare foraggio a sufficienza, ma il terreno crepato gli dava fastidio. La sabbia e la roccia non gli procuravano alcun problema - anzi, si spostava agevolmente tra i granelli di sabbia e sulle lastre di roccia - ma la terra secca e polverosa, le succulente spinose e le buche lo mettevano a disagio; per questo, su terreni del genere prestava soprattutto attenzione a dove metteva le zampe. Ad un certo punto il terreno si fece molto disagevole e Gord scese dal cavallo conducendolo poi per la briglia; non voleva rischiare una caduta o una zampa rotta. Scesero lungo un ripido pendio e si ritrovarono in un deposito alluvionale cosparso di massi che evidentemente doveva essere il letto di un torrente. L'alveo, relativamente piano e poco accidentato, era più agevole da percorrere, e Gord e il suo stallone fecero rotta verso sudovest seguendone il corso. A metà mattina svoltarono un'ansa piuttosto
stretta e gli occhi di Gord si illuminarono proprio nell'istante in cui Windeater dilatava le froge. «Guarda, Windeater, acqua!» tuonò Gord. «Acqua, finalmente!» Tempo un batter d'occhio, l'uomo e l'animale avrebbero bevuto da una pozza profonda a lato del letto asciutto del torrente. Evidentemente le inondazioni temporanee che periodicamente interessavano l'alveo avevano riempito la buca. La pozza d'acqua doveva essere piuttosto frequentata, a giudicare dalle orme di zoccoli e zampe che la circondavano, ma assetati com'erano, i due non se ne curarono più di tanto; dopo aver dato una rapida occhiata in giro per controllare che non ci fossero predatori nascosti nelle vicinanze, Gord smontò dalla cavalcatura, si inginocchiò e cominciò a bere avidamente. Anche Windeater abbassò il muso e si mise a succhiare grandi sorsate del prezioso liquido, proprio come il suo padrone. «Se ti muovi, sei morto, cane Bayomen!» Gord si irrigidì. Alzando impercettibilmente il capo riuscì soltanto a scorgere le ombre di uomini che scendevano lungo il pendio alle sue spalle. Il cavallo alzò la testa di scatto e sbuffò infuriato al suono di quella voce sconosciuta; poi si sentì un acciottolio di sassi spostati dagli intrusi che si avvicinavano e a ciò Windeater sbuffò di nuovo, e balzò al trotto giù per il letto del fiume. «Kodan! Vahkta!» gridò la voce che aveva minacciato Gord. «Fermate quel cavallo! Varrà molto più di questo, al Tran Bazar!» Poco lontano Gord scorse due uomini in groppa a cammelli che apparvero sull'orlo dell'alveo sdutto e vi entrarono nel tentativo di intercettare il cavallo fuggiasco. Nella confusione seguita all'incidente, Gord decise di fare un tentativo. Con un unico movimento rotolò verso destra, balzò in piedi e se la diede a gambe lungo la via presa da Windeater. Aveva fatto solo pochi passi quando un lazo gli imprigionò le braccia, stringendogliele al corpo e bloccandolo. Un istante dopo, un altro laccio gli si strinse attorno al collo mentre qualcuno gli puntava un'arma contro il fondoschiena. Gord restò immobile; ormai lo avevano catturato e non c'era modo di evitare il pericolo. Ad un certo punto non si sentì più l'arma nella schiena, e due dei suoi aggressori, in groppa ai cammelli, gli si misero di fronte e lo studiarono mentre anch'egli li fissava. «Non è uno di Al-babur, anche se è vestito come loro. Vedi gli occhi?» «Se non fosse per i capelli, potrebbe sembrare uno dei nostri.» Lo sguardo di Gord passava dall'uno all'altro. Entrambi vestivano abiti
color cuoio, indossavano il turbante e avevano il volto velato. Tutto quello che riusciva a vedere di loro erano la pelle scura delle mani che impugnavano le armi e gli occhi grigi nelle fessure del velo. «Chi sei?» gli chiese uno dei due. La corda che gli circondava il collo fu stretta ulteriormente da qualcuno che si trovava ancora alle sue spalle, e il giovane dovette scuotere leggermente la testa per poter far uscire qualche parola dalla gola contratta. «Sono un pacifico viandante proveniente dal Nord» rispose. «Bugiardo!» tuonò il suo interlocutore. Contemporaneamente, l'altro uomo che gli si trovava di fronte gli puntò la lancia a pochi centimetri dal ventre. «Dal nord vengono solo banditi e vagabondi. Dov'è il resto della tua banda?» «Sono solo» rispose Gord. «Un'altra bugia!» gridò quello che gli teneva la lancia puntata contro, avvicinandola ulteriormente per dimostrare cosa pensava della falsità. «Sei l'esploratore di quella banda di cani Yoli che ti seguono da presso.» Quelle parole gli fecero gelare il sangue. I suoi vecchi inseguitori erano ancora sulle sue tracce? Se erano davvero tanto vicini, allora tutti, compresi i cammellieri, avrebbero cessato di vivere entro breve. «Quegli Yoli sono miei nemici e mi vogliono morto!» protestò il giovane, cercando di essere il più convincente possibile. «Quando li prenderemo, lingua biforcuta, faremo dire la verità a tutti.» «Attento, guerriero» lo avvertì Gord. «Tra i miei inseguitori ci sono anche dei maghi.» «Facciamola finita con costui, Yahoud. Per me è un rinnegato che guida i nostri nemici alle pozze d'acqua e alle oasi di nostra proprietà.» «Forse, Haradoon» obiettò quello che brandiva la lancia, «ma non ne sono poi tanto sicuro. Lascialo legato e sorveglialo». Detto questo, l'uomo, evidentemente il capo del gruppo, guardò un punto alle spalle di Gord e diede un altro ordine: «Bokhir, prendi i tuoi uomini e spia le mosse degli Yoli.» «Sarà fatto, Yahoud» rispose Bokhir. «Che cosa dovrò fare quando li raggiungerò?» «Usa gli occhi, pensa e poi agisci. Sei il mio braccio destro» disse quello che rispondeva al nome di Yahoud. Bokhir girò il cavallo, fece un cenno a un gruppetto di nomadi e assieme a loro puntò nella direzione da cui Gord era venuto. Gord, un po' con le buone e un po' con le cattive, fu condotto in un luogo
riparato a un centinaio di metri di distanza, dove il letto asciutto del fiume faceva una curva che, assieme ad alcune rocce, nascondeva lui ed i suoi aggressori alla vista. I nomadi rimasti con lui, quattro, gli tolsero tutte le armi e le attrezzature, lasciandogli soltanto gli abiti, e lo legarono con alcune corde, tanto strettamente che riusciva a malapena a muoversi. Due di loro si appostarono di guardia poco lontano, mentre gli altri due rimasero accanto a Gord, pronti a colpirlo con le lunghe spade se solo avesse fatto la mossa di liberarsi. Poco dopo essere stato legato, il giovane udì lo scalpitio di cavalieri in avvicinamento, seguito da una serie di sbuffi che potevano significare una cosa sola: Windeater era stato catturato. «È una bestia veloce e cocciuta» spiegò un uomo rivolto ai compagni, «ma finalmente siamo riusciti a prenderlo con un cappio. Bell'animale, non è vero?» Gord fu rattristato dal fatto che Windeater non fosse riuscito a fuggire; anzi, si sentiva più addolorato per lui che per se stesso. Le ombre scomparvero mentre il sole si avvicinava allo zenith; Gord sudava e si chiedeva che cosa sarebbe accaduto. Poteva morire da un momento all'altro, se solo gli uomini che lo tenevano prigioniero avessero deciso di ucciderlo. Pensò di tramutarsi in pantera, ma poi abbandonò l'idea. Ci sarebbe voluto del tempo, e non era sicuro di essere invulnerabile nel corso della trasformazione, anche se nessuno di quei guerrieri era in possesso di una spada magica. Il giovane avventuriero attendeva pazientemente il momento opportuno, ma le guardie non gli toglievano mai gli occhi di dosso. Dopo altre due ore almeno, udì lo scalpitio dei cammelli che si avvicinavano lungo il letto del torrente, quindi ascoltò la conversazione che si svolse poco lontano dal luogo in cui lo tenevano prigioniero. «E allora, Bohkir?» «Il prigioniero dice la verità, Yahoud. Gli Yoli lo inseguono, e fra loro ci sono dei maghi.» «Dunque?» «Ho parlato con quegli sciocchi. Quando ho detto loro che abbiamo catturato uno straniero vestito nel costume di Al-babur, hanno chiesto la sua resa. Mi hanno offerto argento in cambio, minacciando di massacrarci e di prenderlo con la forza se non avessimo accettato.» «Ma non sei morto, mi pare. Dove sono gli Yoli?» Bohkir rise in tono di disprezzo. «Sono idioti come tutti gli altri Bakluniani, mio sceicco. Quando ho dato ai miei guerrieri il segnale di farsi vedere, i cani Yoli mi sono parsi impressionati. I miei soldati hanno fatto in modo di sembrare centinaia, e tenevano ben in mostra le balestre. A quella
distanza e con quella copertura, i maghi in compagnia degli Yoli non sarebbero stati di grande aiuto, una volta iniziato il combattimento.» «E che cosa ti hanno offerto, allora, quei cani?» chiese Yahoud, senza nascondere affatto il proprio disprezzo per gli Yoli. «Il capo del gruppo era uno di quei maghi stranieri. Lui e il capo dei guerrieri Yoli hanno discusso per un po', poi lo Yoli mangiatore di sterco mi ha detto che per la bontà di cuore del suo potente capitano ci avrebbero risparmiati, se solo avessimo promesso di ammazzare il prigioniero.» «E allora?» «A quell'affermazione sono scoppiato a ridere, chiedendo a quei briganti come facevano ad essere tanto sicuri che noi avremmo risparmiato loro. 'Noi Arroden possiamo uccidere chi vogliamo quando vogliamo' ho detto loro. Lo Yoli si è messo quindi a parlottare con il capo dalla pelle chiara e poi abbiamo iniziato a contrattare.» «Dal tuo tono, Bohkir, mi è parso di capire che gli Yoli fossero faciloni come al solito» disse Yahoud in tono allegro. «Alla fine, sceicco, mi hanno dato più di cento pezzi d'argento, questi due bei cavalli e una collana d'oro. In cambio, noi li abbiamo lasciati tornare indietro indisturbati. L'argento era per assicurarsi che il nostro 'ospite' morisse» concluse. «Hai dato la tua parola?» chiese incredulo Yahoud. «Che sarebbe morto sicuramente? Certo, sceicco. Ma non ho specificato quando! Ci procurerà un altro bel quantitativo d'argento al mercato degli schiavi di Karnoosh. Gli schiavi venduti laggiù muoiono comunque in fretta, almeno quelli che vengono inviati alle miniere di Zondabad. Uno come questo, piccolo ma muscoloso, verrà certamente acquistato dagli agenti di Kizam proprio a quello scopo.» «Ben fatto, Bohkir. Assicurati che gli Yoli siano sorvegliati, perché non mi fido di loro, e riunisciti a noi il più presto possibile. Andremo a Karnoosh.» Gord fu sciolto quel tanto che gli permetteva di cavalcare e messo in groppa ad un cammello senza tante cerimonie. Bohkir e un piccolo gruppo di nomadi si diressero verso nord, mentre gli altri, Gord compreso, partirono nella direzione opposta, guidati da Yahoud. Dopo circa due miglia, si riunirono al grosso dell'esercito nomade, cosicché il gruppo diretto verso sud ad un certo punto contava circa un centinaio di uomini. Oltre ai cammelli che fungevano da cavalcatura, ce n'erano parecchi altri che trasportavano attrezzature e cibarie. Con loro c'erano anche Windeater, gli altri due
cavalli avuti dagli Yoli e una mezza dozzina di animali meno preziosi, probabilmente cavalli selvaggi o il bottino di qualche scorreria. Gord non vedeva altri prigionieri, per questo immaginò che i cavalli più piccoli fossero selvaggi. Il giovane era tuttora sorvegliato da quattro guardie nonostante non fosse in grado di agire, appollaiato com'era in groppa ad un cammello; l'animale era tenuto per le briglie da una guardia, fiancheggiato da altre due e seguita da una quarta. Questi Arroden, così si facevano chiamare erano molto pignoli e cauti. Nonostante avessero confiscato a Gord tutti i suoi averi, non volevano assolutamente rischiare che scappasse o che fossero costretti ad ucciderli in un tentativo di fuga. Evidentemente, pensò Gord, la sua persona aveva un notevole valore per gli Arroden, visto che desideravano lasciarlo vivo e tenerselo ben stretto finché non avessero raggiunto il mercato degli schiavi. Ma non sapevano ancora quali risorse aveva a disposizione, naturali e non. Era sicuro di riuscire a slegarsi in pochi istanti, se solo ne avesse avuta l'opportunità; inoltre aveva il potere di vedere di notte, una capacità donatagli in un primo tempo dall'anello con «l'occhio di gatto», che però poi gli era rimasta, tanto che poteva sfruttarla anche quando l'anello non lo indossava. Per il momento poteva essere impossibilitato ad agire, ma non era ancora senza speranza. Nonostante i carcerieri lo trattassero piuttosto duramente e il viaggio a dorso di cammello si rivelasse una vera e propria tortura, Gord ebbe cibo e acqua ogni volta che gli Arroden decisero di rifocillarsi. Dopo un paio di giorni si abituò alla bizzarra cavalcatura e il dolore ai muscoli si attenuò, tanto che ebbe modo di osservare i dintorni nel corso del viaggio. La zona in cui si trovavano era molto simile a quella percorsa da lui e Windeater prima della cattura. La guardia alla destra di Gord, un uomo di nome Brodri, si era dimostrata un po' più socievole delle altre; vale a dire che Gord poteva occasionalmente parlarle senza ricevere per tutta risposta un grugnito e un colpo violento. Notando he non puntavano più verso sud, rischiò la punizione e chiese informazioni a Brodri. «Andiamo più verso ovest che verso sud» commentò Gord senza espressione. «Ci sono alcune carovane vicino a Ghastoor.» «Vi occupate di commercio?» «Non essere sciocco! È agli Yoli che i guerrieri Arroden prendono ciò di
cui hanno bisogno» disse il guerriero velato, girando la testa per parlare direttamente al prigioniero. «Uomini come voi Arroden possono farlo di sicuro» disse Gord con una nota di disprezzo nella voce, «ma certamente le orde di cavalieri Yoli opporranno resistenza. Un numero tanto ridotto di guerrieri è in grado di sopraffare tutti quelli che proteggono la carovana?» «A volte ci sono solo poche guardie, a volte si uniscono a noi altri membri della tribù...» «Smettila di chiacchierare come una donnicciola!» L'ordine era partito da uno dei luogotenenti guerrieri; dopo il rimprovero Brodri lanciò un'occhiata irosa a Gord e poi girò la testa guardando sempre avanti, senza più proferire parola. Il racconto del nomade tuttavia dava al giovane una piccola speranza. Una battaglia, o almeno la confusione dell'incontro fra i nuovi guerrieri e il gruppo che lo teneva prigioniero, gli avrebbe fornito l'occasione che attendeva. I guerrieri Arroden cavalcavano formando un ampio semicerchio; si dirigevano verso sudest e avevano rallentato il passo. Una dozzina di esploratori si teneva a sinistra, mentre altrettanti erano andati in avanscoperta ed erano scomparsi alla vista. Era chiaro che il capo, Yahoud, cercava una carovana di passaggio, come aveva detto Brodri. Quel giorno tuttavia non accadde nulla, e il giorno dopo si rimisero in cammino verso est, come Gord poté capire dal sole che gli sorgeva proprio di fronte mentre lo risistemavano sul cammello, come al solito con i piedi legati sotto il ventre dell'animale. Verso sera Gord scorse una linea scura e ondulata all'orizzonte, in direzione sud; doveva trattarsi di una serie di colline. I nomadi si fermarono e si dedicarono alle consuete occupazioni del campo. Il giovane cercava come al solito una via d'uscita, ma le guardie erano più all'erta che mai; abbandonò quindi l'idea, per il momento, e si sdraiò per dormire il più comodamente possibile, per quanto glielo consentissero le corde; ci avrebbe ripensato l'indomani. Il mattino seguente i nomadi velati fecero rotta verso sud, percorrendo circa due leghe in quella direzione. Ora Gord scorgeva montagne alla sua sinistra, forse la Catena delle Montagne Impenetrabili, ma non ne era sicuro. Poi gli Arroden puntarono improvvisamente verso est, tornando verso la regione da cui erano venuti. A quella mossa Gord restò perplesso e decise di sondare Brodri. «Stiamo andando a Karnoosh?» chiese. Per un attimo il nomade guardò Gord con espressione dura, ma poi il suo volto si addolcì leggermente e disse: «È solo perché potresti avere il nostro
sangue, il sangue degli Arroden, cioè, che ti parlo... ma non vorrei morire in schiavitù, straniero. Karnoosh si trova a sud, a diversi giorni di cammino; andremo laggiù, ma nel nostro viaggio ci dirigeremo anche verso est e verso ovest. Il nostro sceicco è in cerca di prede, così setacciamo la regione a caccia di Yoli o di altri individui tanto audaci da attraversare le terre degli Arroden.» «Avete altri nemici qui, dunque?» «Naturalmente. Molti vanno e vengono dal lago Karnoosh e dai ricchi mercati del bazar di laggiù. I Bayomen, gli Yoli e gli scuri Jahindi si recano molto spesso in quella città, e vi si vedono addirittura abitanti di Sa'han e Behow Risparmiamo la vita alla maggior parte di quei visitatori, a patto che ci paghino in merci o in bestiame quando li incontriamo. Ma quando i cani di Yoll osano passare sulle «tre terre, applichiamo la nostra tariffa speciale.» «Tariffa speciale?» «Saccheggio e morte» disse Brodri con un tetro sorrisetto. L'incontro avvenne proprio il giorno dopo. Cammelli in corsa dall'andatura ondeggiante, che continuava a sembrare strana a Gord, nonostante ne cavalcasse uno da tempo riportarono indietro gli esploratori. Costoro gridarono che gli Yoli stavano venendo verso di loro da nord. «Ci sono molti animali carichi di merci, sceicco!» esclamò un guerriero, che poi aggiunse: «E molti schiavi, o meglio schiave! Ma quei cani hanno anche molte guardie!» Yahoud convocò immediatamente i luogotenenti e tenne un concilio. Al termine, Gord ebbe modo di sentire il piano progettato mentre veniva comunicato dal capo alle sue guardie. «Attenderemo l'oscurità, perché quei vili bastardi non amano combattere quando non vedono abbastanza bene da usare l'arco. Quando ci fermeremo al crepuscolo, tenete ben legato il prigioniero» disse il guerriero velato accennando a Gord. «Al momento dell'attacco dovrete venire tutti con noi, tranne uno.» «Nessuno di noi vuole perdersi gli onori e il bottino» osservò una delle guardie. «Chi dovrà rimanere?» «Gli altri gruppi di sentinelle tirano a sorte» disse il luogotenente mentre si allontanava. «Potete farlo anche voi, o mettervi d'accordo in qualsiasi altro modo, a patto che nessuno si faccia male.» Le guardie decisero di lasciare al caso la decisione, e gli altri tre insistettero che a Brodri toccava per ultimo perché era il più giovane. Nessuno si sorprese quando Brodri perse; infuriato, egli affermava di essere stato im-
brogliato, ma naturalmente gli altri non lo avrebbero mai ammesso. Gord non disse una parola per il resto del viaggio, sapendo bene che la guardia non era affatto in vena di conversare. Quella notte rimase sveglio in silenzio per parecchi minuti dopo la partenza degli Arroden per l'assalto agli Yoli. Sapeva che Brodri era ancora furioso, ma tentò di rivolgergli una domanda e per tutta risposta si prese un calcio nelle costole. «Frena quella maledetta linguaccia o per il Fulmine e il Vento te la strapperò!» strillò la giovane guardia. E così, pensò Gord, non c'era modo di parlare con lui e di convincerlo ad allentare un po' le corde. Avrebbe dovuto attendere, ma l'attesa non si rivelò molto lunga. Rimase in silenzio ancora per qualche minuto, mentre Brodri gli sedeva accanto, rimuginando. Ad un certo punto questi assunse un'espressione rassegnata; si alzò in piedi, si guardò intorno, si avvicinò al proprio zaino e ne tolse un vasetto. Gord sentì l'odore inebriante del vino di datteri quando il sorvegliante gli si sedette nuovamente di fronte bevendo ogni tanto un sorso del liquido. Il recipiente si svuotò nel giro di mezz'ora, e Brodri si alzò, ruttò, gettò il vasetto da una parte e si spostò pesantemente alla sinistra di Gord, in cerca di un posto dove liberarsi. Forse la guardia credeva che le numerose corde e i nodi complicati fossero sufficienti a tener prigioniero Gord. oppure quel vino così forte lo aveva reso imprudente: comunque commise un errore ancor più grave quando udì il frastuono della battaglia echeggiare debolmente nell'aria immobile di quell'arida landa. Infatti, nella speranza di sentire meglio, si allontanò di qualche decina di metri in direzione del rumore. Gord era già riuscito ad allentare leggermente i nodi nei due minuti in cui Brodri era occupato a liberarsi, l'unica occasione in cui era rimasto incustodito da quando era stato catturato. Nel lasso di tempo che la guardia impiegò a percorrere quelle poche decine di metri e a rimanere in ascolto con le orecchie tese per cogliere meglio i suoni lontani, Gord finì di sciogliersi e poi, rapido e silenzioso, strisciò alle spalle della guardia ignara, con in mano una delle corde che lo tenevano legato. Un rantolo soffocato fu l'ultimo suono emesso da Brodri, poco prima che la corda strettagli da Gord attorno al collo gli troncasse la voce e il respiro contemporaneamente Il giovane provò una piccola fitta di rimorso nel veder crollare al suolo il corpo della guardia, perché quell'Arroden si era comportato in maniera relativamente gentile verso di lui durante la prigionia. Nonostante ciò, tuttavia, non si trattava certo di un'amicizia destinata a durare. Gord ritrovò in breve tutta la sua risolutezza; si chinò sul cadavere
e prese la lunga spada e il pugnale del morto. Ora si sentiva molto meglio; doveva molto a quegli Arroden, e li avrebbe ripagati della loro gentile ospitalità. Voleva recuperare le sue cose, e servendosi della sua speciale vista notturna e del suo udito finissimo, si accertò che non ci fossero guardie nei pressi delle tende; non c'era anima viva, neppure accanto alla tenda dello Sceicco Yahoud, dove presumeva fossero stati depositati i suoi averi. Non ci andò immediatamente, tuttavia; riteneva che ci dovessero essere sentinelle almeno accanto agli animali da soma per impedire che si facessero del male o che fuggissero, e non voleva nessuno tra i piedi mentre setacciava la dimora dello sceicco per trovare i suoi preziosi beni. La sua intuizione si rivelò esatta. Percorse silenziosamente il perimetro del campo, nascondendosi dietro le tende e i cespugli, e scoprì due guardie nel punto in cui erano legati i cammelli di riserva e i cavalli. Colpì la prima sentinella alle spalle, servendosi della spada poco familiare ma micidiale. Il nomade non poté rendersi conto di cosa fosse successo: era morto prima di cadere sul terreno sabbioso che aveva percorso solo qualche istante prima. Il tonfo del suo corpo tuttavia mise in allarme il compagno che gridò: «Che succede, Lafdan?» «Ssst...» fece Gord, lasciando affievolire quel suono indistinto. Il nomade si acquattò e si diresse prudentemente verso il punto da cui era venuto il sibilo. Si muoveva con il passo felpato tipico della sua razza, brandendo la spada davanti a sé, ma non gli servì a molto, poiché Gord gli si era già messo di fianco e lo attaccò da sinistra. L'Arroden avverti la presenza del giovane e tentò di menare un fendente all'ultimo momento, ma fu colpito dalla spada e dal pugnale di Gord prima che potesse difendersi. Soffocato dal proprio sangue, il nomade velato seguì il compagno là dove vanno i guerrieri Arroden morti. «Ecco qua, negriero; questa è la ricompensa per il tuo lavoro» mormorò il giovane in tono aspro. Non si curò più dei due cadaveri e si diresse rapidamente verso la fila di tende, cercando la più grande, che doveva essere quella di Yahoud. Nella fretta spostò la cortina che celava l'entrata e finì quasi sulla spada del guerriero di guardia all'interno, L'uomo menò un fendente balzando in avanti, e Gord dovette gettarsi di lato per evitare una ferita mortale; riportò ugualmente un lungo taglio, anche se non molto profondo. Il nomade approfittò del vantaggio con una pioggia di colpi tanto furiosi che Gord non poté far altro che arretrare per uscire dallo spazio ristretto dell'entrata. Lo scontro si trasferì all'esterno e l'avversario del gio-
vane si impigliò momentaneamente con la spada in una delle corde che sostenevano la tenda vicina; mentre l'avversario si dava da fare per liberare la propria arma, Gord riuscì a mettersi nella posizione giusta e i due ingaggiarono un vero e proprio duello. Si udiva soltanto il cozzare delle lame d'acciaio. L'Arroden doveva sapere o che quel rumore era sufficiente a richiamare i compagni, oppure che essi erano troppo lontani e allora nulla sarebbe valso ad attirare la loro attenzione, nel qual caso era meglio risparmiare il fiato e combattere in silenzio. Nel giro di pochi secondi i due combattenti compresero che non c'era nessun altro nel campo, vivo, perlomeno. Il nomade era leggermente più alto di Gord e molto abile, e il giovane non era sicuro se un duello alla luce del giorno ad armi pari avrebbe garantito la vittoria al suo avversario, ma in quel momento non era in vena di magnanimità o di lealtà. Dopotutto gli Arroden lo avevano preso e derubato di tutti i suoi averi, ed erano ben decisi a venderlo come schiavo per una breve vita di sofferenze in cambio di qualche pezzo d'argento. La mente di Gord era occupata soltanto da pensieri di vendetta e dalla volontà di recuperare ciò che era suo. Con uno scatto fulmineo del polso, Gord abbassò il grosso pugnale, spingendolo contemporaneamente in avanti. La punta si conficcò proprio dove aveva mirato, nel bicipite dell'avversario e precisamente in quello del braccio che reggeva la spada, proprio nell'attimo in cui il nomade si apprestava a menargli un potente fendente al collo. «Aargh...!» gridò il nomade, quando il pugnale gli trafisse le carni; non era riuscito a parare il colpo né a trattenere la spada. Gord si abbassò, anche se non era più necessario, e la lunga spada volò nel buio seguendo una traiettoria obliqua, sibilando sopra la testa di Gord. L'Arroden tentò di proseguire il duello, rimanendo nella stessa posizione ed estraendo il pugnale con il braccio sano, ma con due colpi di spada e una pugnalata Gord si liberò di lui. Non impiegò molto a localizzare le ricchezze nascoste dello sceicco Arroden, che ovviamente erano chiuse a chiave in uno scrigno sepolto sotto terra. Il giovane sollevò rapidamente il tappeto e dissotterrò lo scrigno, usando la lunga spada per far scattare la serratura poiché temeva che fosse protetta da aghi avvelenati e non aveva né tempo né voglia di servirsi della propria abilità di ladro per neutralizzare gli eventuali congegni protettivi della cassaforte. Vi ritrovò tutti i propri tesori, eccetto la cottamaglia fabbricata dagli Elfi. «E così, Yahoud, ti piace la mia armatura, non è vero?» disse ad alta vo-
ce, allacciandosi la spada e rimettendo il pugnale magico nel fodero. «Vedremo quanto ti servirà, quando la lunga zanna del mio pugnale bacerà il tuo corpo pidocchioso!» L'anello, il bracciale, la fionda e tutto il resto erano nello scrigno, e Gord se li rimise, assaporandone il contatto; prelevò anche una grossa borsa di monete d'oro e poi si precipitò fuori dalla tenda, diretto al recinto degli animali. Era curioso di vedere come stava andando la battaglia e poi la sua vendetta non era ancora compiuta. Con un po' di fortuna, gli sarebbe stato possibile trovare Yahoud attorniato da pochi guerrieri, e Gord giurò che, se ciò fosse accaduto, avrebbe rischiato il tutto per tutto pur di pareggiare i conti con lo sceicco. Windeater lo riconobbe non appena gli arrivò vicino, e non fu difficile slegarlo e trovargli la sella. Poco prima di levare le tende, per così dire, Gord tagliò le corde che tenevano legati i cammelli e gli altri cavalli e, in groppa a Windeater, si precipitò verso di loro, urlando e agitando le braccia. Gli animali, terrorizzati, si sparsero in tutte le direzioni, mentre cavallo e cavaliere si diressero verso nord, dove echeggiavano fiochi rumori di battaglia. Dopo circa venti minuti di galoppo, Gord fece fermare Windeater in cima ad una piccola altura; a qualche centinaio di metri di distanza scorse l'accampamento Yoli: gruppi di guerrieri Arroden erano disposti a semicerchio nella pianura, e dal suo punto di osservazione il giovane notò che il campo era circondato per i due terzi. All'interno brillavano diversi globi di luce fissa che sembravano magici e dovevano essere stati lanciati dagli Yoli nel corso dei combattimenti. Probabilmente in origine erano di più, ma, immaginava Gord, probabilmente anche gli Arroden avevano i propri sacerdoti e i propri sciamani, in grado di contrastare quelle luci con tenebre magiche. Alcune tende in fiamme aggiungevano una sfumatura tremolante alla luminosità fissa delle sfere incantate. Anche se la sua visione notturna da lontano non serviva, il giovane riuscì a distinguere cosa accadeva nell'accampamento, e a capire parte di quanto era successo in precedenza, grazie a quella strana combinazione di luci. Sembrava che ad un certo punto gli aggressori si fossero trovati in mezzo ai difensori, in quanto qua e là per il campo erano sparsi i corpi degli Arroden, avvolti nei mantelli color ocra. Erano morti anche parecchi Yoli ma, a quanto poteva vedere, i difensori dovevano essere riusciti a respingere la prima ondata dei guerrieri velati. Non vide tracce di combattimento all'interno del campo, tuttavia ad ogni minuto che passava gli Arroden stringevano le estremità del semicerchio, nel chiaro intento di circondare
l'accampamento Yoli. Gli Yoli, assediati, ora erano pancia a terra perché gli Arroden li bersagliavano con dardi. Chiunque si lasciasse illuminare da una fonte di luce costituiva un bersaglio; all'inizio gli Yoli avevano avuto bisogno della luce per usare gli archi, proprio come avevano immaginato gli Arroden, ma ora quella luce si rivelava pericolosa e tendevano ad evitarla. Gord scorgeva chiazze di terreno bruciato e fumante sparse qua e là per il campo. Se c'erano ancora dei maghi vivi tra i difensori, di loro non c'era traccia; quindi, o la loro magia si era esaurita, o erano morti subito dopo aver formulato i loro incantesimi. Il giovane si chiedeva quanti guerrieri Yoli fossero rimasti, ma era difficile capirlo da quella distanza. Gord legò Windeater ad un cespuglio poco lontano in un punto in cui una sporgenza del terreno avrebbe nascosto la presenza dello stallone, a meno che qualcuno non si fosse avvicinato a pochi metri. Il giovane ladro scese in silenzio lungo il pendio e proseguì alla sua sinistra, avanzando verso i guerrieri velati che assediavano il campo. La strategia degli Arroden era logica e priva di sorprese: circondando il nemico potevano impedirgli di avanzare e contemporaneamente colpirlo più facilmente, badando però a non ferire con le balestre i compagni disposti dall'altro lato. I cammelli erano legati a piccoli gruppi lungo il bordo esterno del circolo, ma i loro sensi erano già stati vessati a tal punto dal frastuono della battaglia che non si curarono di un'altra presenza umana nelle vicinanze. E, come Gord ebbe modo di scoprire, gli aggressori stessi non immaginavano nemmeno di poter essere sorpresi alle spalle... Fu tanto facile da sembrare ridicolo. Tutti i guerrieri Arroden si trovavano ad una cinquantina di metri dal margine dell'accampamento Yoli, ma ciò che contava di più era che ognuno di essi distava almeno una ventina di metri, se non trenta, dal proprio vicino; lo spazio non era sufficiente per permettere agli Yoli di fuggire in gruppo, ma era perfetto per ciò che Gord aveva in mente. Per cominciare, scelse un punto del circolo e da lì si spostò implacabile lungo tutta la circonferenza, uccidendo come fa il gufo quando piomba silenzioso sul topo con i suoi potenti artigli. Uno dei primi guerrieri uccisi portava una bella collana, e Gord se ne appropriò; poi, mentre procedeva, si divertì a vendicarsi sottraendo a molte delle sue vittime i braccialetti d'argento, appendendoli via via alla collana. Le vecchie abitudini sono dure a morire. pensava Gord, e gli Arroden senza dubbio morivano molto più facilmente. Uno degli uomini uccisi con l'inganno fu lo stesso Yahoud, che Gord
ebbe cura di colpire con una pugnalata al collo per non rovinare la cottamaglia che il nomade gli aveva rubato. Il suo unico rimpianto fu di dover pugnalare lo sceicco alle spalle per fare in fretta, cosicché il capo degli Arroden non seppe mai chi l'avesse ammazzato. Ad un certo punto aveva perso il conto, ma calcolò che aveva ucciso almeno una ventina di nemici, circa un quarto di circolo. Poi la sua presenza fu scoperta, ma non da coloro che stava uccidendo. Fu proprio il successo a rovinarlo. Gli Yoli assediati dovevano aver notato che non arrivavano più proiettili dalla zona in cui Gord stava portando avanti la sua vendetta. Un rapido movimento in quella direzione non provocò reazioni da parte degli aggressori e, all'insaputa degli assedianti, alcuni intelligenti difensori riuscirono a spargere la voce di quanto stava accadendo. Per quanto riguarda gli aggressori, erano talmente distanziati fra loro e le due metà del circolo erano tanto lontane che non si accorsero dell'assottigliarsi delle file. Gord rischiava di farsi scoprire solo quando un guerriero osservava che il compagno alla sua destra doveva aver finito i dardi, poco prima di cadere egli stesso vittima della lama di Gord. Ci fu all'improvviso un'intensa attività all'interno del campo, protetta tuttavia da occhi indiscreti grazie alle tende e a grandi paraventi di stoffa. Alcuni Arroden continuarono a tirare indiscriminatamente sulla massa, ma la maggior parte cessò il fuoco e fece il possibile per prepararsi a quello che doveva essere l'attacco finale. Poi l'attacco iniziò contemporaneamente nelle due direzioni. Mentre gli animali che si potevano sacrificare venivano scacciati verso il lato opposto a quello dove si trovava Gord, un altro gruppo di uomini e animali si diresse verso il settore di cerchio rimasto incustodito. La tattica fu scoperta in pochi minuti dai nomadi velati, quando cioè quelli che si trovavano nel settore ancora intatto compresero da che cosa venivano «attaccati». Nel circolo di guerrieri echeggiarono grida e urla, ed uno sciamano Arroden si avvicinò allo spazio rimasto vuoto e lo illuminò con un globo di luce per mostrare ai fratelli che cosa stava accadendo. La sfera si accese poco lontano dal punto in cui Gord si era acquattato, e il guerriero Arroden che avrebbe dovuto essere la vittima successiva si alzò in piedi, guardando alternativamente gli Yoli all'attacco e lo strano spettacolo rivelato dal globo luminoso. «È il prigioniero!» urlò il nomade, puntando la piccola balestra contro Gord e tirando il grilletto nel tentativo di colpirlo rapidamente. «È fuggito dall'accampamento dopo aver ucciso
Thotir!» Il dardo colpì l'ampio mantello che avvolgeva Gord, ma non gli procurò alcun danno. Il giovane gridò un insulto all'uomo che lo aveva scoperto e si precipitò all'attacco senza pensarci due volte; ormai era pervaso dal desiderio di combattere e dalla sete di sangue. L'Arroden lasciò cadere la balestra e si difese con la spada, e prima di morire riuscì a tenere Gord occupato abbastanza a lungo da permettere ad altri due di gettarsi nella mischia. Mentre accadeva tutto ciò, gli Yoli in fuga notarono non solo che i loro nemici erano stati presi alla sprovvista, ma anche che non erano tanto numerosi quanto avevano fatto credere, e in questo modo ebbero l'opportunità di vendicarsi degli odiati nemici. Sparpagliati com'erano, infatti, gli Arroden avrebbero trovato difficoltà a riunirsi per contrattaccare il nucleo di guerrieri che era appena riuscito a superare l'accerchiamento nemico e si preparava a combattere con ferocia. Mentre quelli che non combattevano si davano precipitosamente alla fuga, i guerrieri Yoli iniziarono ad allargarsi lungo entrambi i lati del circolo ormai pezzato, e a cavallo affrontarono i nemici appiedati, calestandoli e trafiggendoli. Mentre il rumore di zoccoli si avvicinava, Gord si svincolò dai due Arroden che lo affrontavano e fuggì dal campo di battaglia, mentre una mezza dozzina di Yoli arrivava proprio nel punto in cui si trovava un istante prima. I due guerrieri velati riuscirono a disarcionare uno degli Yoli, ma vissero solo il tempo di vederlo calpestare dagli zoccoli dei cavalli dei suoi stessi compagni. Tutti gli Arroden ormai avevano capito che cosa stava succedendo e molti di loro erano risaliti a cavallo e avevano iniziato a ricostituirsi in gruppi. La battaglia non era affatto al termine, e nessuno poteva dire con certezza quale sarebbe stato l'esito, ma a Gord non interessava affatto. Era giunto il momento di mettere da parte i desideri di vendetta, e di allontanarsi il più in fretta possibile da quella battaglia confusa. Non ebbe problemi a tornare là dove aveva legato Windeater; salì a cavallo e partì lungo una via diversa da quella scelta dalla maggior parte degli Yoli, anche se non poteva evitarli tutti, perché una volta usciti dall'accerchiamento si erano sparpagliati e avevano preso varie direzioni. Dopo qualche centinaio di metri vide la sagoma di un cavallo morto spiccare sul terreno più chiaro davanti a sé; in lontananza udiva lo scalpitio di altri cavalli e di cammelli e le grida di cavalieri che si stavano allontanando dal luogo in cui giaceva l'animale caduto. Si sentiva anche un cozzare di spade, e Gord dedusse che alcuni Arroden dovevano aver abbando-
nato il campo di battaglia per inseguire gli Yoli in fuga. Rallentò il passo: non aveva più senso avvicinarsi troppo a loro, ormai; la sete di sangue lo aveva abbandonato e il giovane si sentiva disgustato, nauseato ed esausto. Era privo di forze, sia fisiche sia spirituali, e desiderava più di ogni altra cosa un luogo dove riposare e recuperare le energie. Quando giunse a circa una ventina di metri dal cavallo caduto, udì un grido acuto ma esitante: «Aiuto!» Gord bloccò Windeater e scrutò attentamente il cavallo: da quella distanza lo vedeva perfettamente, come se il cielo fosse stato illuminato da entrambe le lune di Tarre nel loro pieno splendore. Notò una figura snella, avvolta in un gran mantello, che giaceva a terra accanto al cavallo; oppure era rimasta parzialmente intrappolata sotto l'animale? Dal suo punto di osservazione non riusciva a distinguere bene. Fece avvicinare ancora un po' Windeater, girando attorno alla carcassa per vedere meglio ed estraendo per precauzione il pugnale. Poco dopo, però, riuscì a vedere di che cosa si trattava; l'animale era effettivamente morto, probabilmente per una ferita infertagli in battaglia, e la figura stesa accanto ad esso era una donna, con una gamba imprigionata sotto il corpo della bestia. Probabilmente non era riuscita a liberare il piede dalla staffa al momento della caduta. «Non mi farai del male» disse la donna debolmente, in tono affermativo più che interrogativo. Poi, con un certo panico nella voce chiese: «Che cosa mi è successo? E tu chi sei?» Era chiaro che non aveva riportato ferite gravi, ma più che altro era confusa e disorientata. «Non sono né un amico né un nemico, solo uno contento che la battaglia sia finita» disse Gord per tutta risposta, cercando di essere rassicurante. «Potresti aiutarmi, per favore? Ho la gamba intrappolata!» esclamò, di nuovo con quella punta di panico nella voce. «Se lo farai, verrai ricompensato!.» «Non ho bisogno di ricompense, signora» replicò Gord. smontando da cavallo e dirigendosi verso di lei. «Ti libererò e poi ce ne andremo tutti e due da questo carnaio.» Capitolo 8 Molto, molto tempo fa due grandi imperi si scontrarono in una guerra per annientarsi reciprocamente. Uno dei due, quello Bakluniano, si frammentò e regredì ad uno stato primitivo, e le sue terre divennero aride e sterili. Ancor oggi i Bakluniani non sono più una nazione ma un'accozzaglia
di tribù che si combattono a vicenda per il dubbio privilegio di ottenere il controllo sulle lande aspre e brulle del Flanaess occidentale. Le popolazioni del secondo impero, tuttavia, soffrirono ancor di più quando i Bakluniani si diedero alle rappresaglie e le loro belle terre furono danneggiate da una tempesta di fuoco magico: fiamme incolori distrussero qualsiasi forma di vita. Quando tutto fu finito, quasi tutto il secondo impero, detto Suloise, un tempo tanto potente, era svanito sotto uno strato di polvere e cenere. Questa specie di sudario grigio e senza vita, bruciato dal sole e smosso dal vento, copriva il suolo per mille e più miglia in ogni direzione a partire dal centro. Da lontano sembrava una distesa d'acqua, ma la zona divenne nota in tutto il continente di Oerik come Deserto di Cenere. Quando l'Invisibile Tempesta di Fuoco cessò, tutti coloro che videro quel paesaggio apparentemente infinito di polvere e cenere, un deserto nero-grigiastro nato dalla distruzione, conclusero che nulla avrebbe potuto vivere in un luogo simile. Naturalmente si sbagliavano di grosso. I maghi del decimato impero Suloise erano talmente abili nelle arti magiche che riuscirono a proteggere la loro capitale dalla tempesta di fuoco prima che questa si abbattesse su di essa, e per un certo tempo, almeno, la vita continuò nella metropoli sepolta sotto una trentina di metri di detriti. Anche altre tra le maggiori città di Suel riuscirono ad impedire che la furia delle fiamme incolori provocasse danni irrimediabili e divennero roccaforti isolate di maghi e sacerdoti che continuarono la loro opera nonostante le devastazioni. Cenere e polvere, tuttavia, si stendevano su una vasta parte del paesaggio, tanto che avrebbero potuto benissimo coprirlo tutto. Peggiorando le cose, inoltre, il fenomeno aveva portato alla nascita di alcuni vulcani che eruttavano cenere e lapilli sullo strato già esistente, smosso e deformato da violente tempeste. Passarono anni, decenni e secoli, e le roccaforti Suloise finirono per essere soffocate e sepolte. Ma la vita è tenace, specialmente nei mondi in cui le leggi mutevoli della magia hanno la precedenza su quelle immutabili della scienza. Mentre gli esseri umani morivano, altre forme di vita scoprivano il Deserto di Cenere e lo trovavano piacevole. Contemporaneamente, alcuni esseri viventi, sopravvissuti in qualche modo alla distruzione delle loro terre, si adattarono e mutarono per resistere nel loro nuovo ambiente. Mostruose creature ameboidi unicellulari nuotavano sotto la polvere e le ceneri, nutrendosi dei residui del fuoco e lasciando tracce di materia organica e di umidità grazie alle quali prosperavano altri minuscoli organismi. Gigantesche masse pluricellulari, colonie animali, per così dire, si nutrivano di silicati e materiali carboniferi, e ri-
cambiavano il favore producendo come scorie altri tipi di minerali di cui si avvantaggiavano gli esseri inferiori. Sul terreno preparato da queste creature inferiori si svilupparono poi esseri mostruosi: varie specie di limacce, all'inizio di dimensioni ridotte, scoprirono di non avere nemici sotto i numerosi strati di polvere e cenere e prosperarono grazie alla vegetazione che vi si era insediata. Ad un certo punto iniziarono a crescere parecchio, anche se la specie più grossa rimaneva sempre più piccola di un uomo di media statura, e si spinsero ancor più giù, ove trovarono le sorgenti e i pozzi che sgorgavano e scorrevano in profondità. Grazie al cibo che trovarono nel sottosuolo e all'abbondante provvista di acqua, le limacce divennero sempre più gigantesche e aprirono la via ad altre forme di vita. Per le loro dimensioni e per la loro stessa natura, quelle creature si muovevano scivolando su una specie di muco che secernevano da tutta la superficie corporea e che si induriva rapidamente. Le più piccole scavavano sotto le ceneri e la polvere delle gallerie piuttosto strette, ma le più grandi ne scavavano di considerevoli. In breve il Deserto di Cenere fu percorso da una rete labirintica di tunnel sotterranei, che di solito conducevano da una sorgente all'altra. Dopo un po' le gallerie più vecchie crollavano, alcune al passaggio di limacce più grandi, altre per opera degli ameboidi e delle colonie di mostri sopravvissuti - i cui simili altrove venivano chiamati gelatine - mentre altre ancora venivano abbattute dalla pressione della vegetazione insediatasi in superficie. Nel frattempo, tuttavia, nascevano nuove gallerie, e il mutamento quasi non si notava, tanto meno da parte di quelle creature prive di intelligenza che trascorrevano tutta la vita in quello strano e inaccessibile regno. Le piante erano resistenti, e alcune sopravvissero alla distruzione per poi ricrescere. Dai semi nacquero radici che penetrarono in profondità alla ricerca dell'umidità superstite, e fusti e viticci che perforarono il manto di cenere alla ricerca della luce. Dove il manto era molto spesso, addirittura decine di metri, la vegetazione non riusciva a farsi strada, ma in alcuni punti lo strato era piuttosto sottile e permetteva a qualche pianta di spuntare. Tuttavia, quelle che riuscivano a germogliare spesso non sopravvivevano, a causa del calore ardente e dei venti impetuosi che trasportavano minuscole particelle abrasive. Altre, pur resistendo agli elementi, cadevano preda di insetti e di mammiferi robusti che abitavano ancora la superficie e si nutrivano di foglie, semi e fusti. Ma come accade a tutte le forme di vita, anche le piante si adattarono e molte svilupparono stratagemmi difensivi
finché, nel corso dei secoli, una dozzina di specie con una dozzina di varietà ciascuna riuscirono a sopravvivere, se non a prosperare, nel deserto di sabbia e di cenere. Sottoterra si nascondevano alcuni insetti che vivevano in simbiosi con le piante o se ne nutrivano. Anche certi uccelli avevano nidificato fra la scarsa vegetazione o in buche nel terreno, e si nutrivano anch'essi di vegetali o di insetti. Non tutti gli insetti comunque si nutrivano di vegetali; alcuni preferivano altri insetti, volatili o addirittura piccoli mammiferi. Un complesso ecosistema si sviluppò in quelle terre ingrate. Nacquero nuove specie di cactacee e alberi filiformi di cui si vedevano solo le punte dei rami, o poco più, quando una tempesta smuoveva la sabbia. La vegetazione sopravviveva grazie alla fotosintesi clorofilliana, o intrappolando creature ricche di proteine, oppure attendeva le scarse piogge per germinare e crescere in fretta finché c'era un po' di umidità a disposizione. Topi, ratti ed altri roditori scorrazzavano qua e là per il deserto, a volte infilandosi nei labirinti sotterranei, a volte rimanendo in superficie. Ben presto ad essi si aggiunsero toporagni, talpe e tassi, che scelsero le zone sotterranee, e volpi e cani selvatici, che invece vagavano sulla superficie bollente e nero-grigiastra del deserto. Infine c'erano serpenti e lucertole: anch'essi vivevano di preda. Qualche centinaio d'anni dopo l'Invisibile Tempesta di Fuoco, il Deserto di Cenere era noto in tutto il continente come un luogo di morte e desolazione, oggetto di canzoni nell'Oerik orientale, di poemi in lingua Jakifiana fra i Bakluniani e di leggende in tutto il Flanaess. Se c'era qualcuno in grado di smentire quella fama sinistra, non si era mai fatto avanti; i pochi viaggiatori ed esploratori che avevano osato avventurarvisi si erano limitati a dire che il Deserto di Cenere era una landa disabitata in cui solo le piante più resistenti e tenaci potevano sopravvivere. Considerate le poche aree in cui si sarebbe potuta scorgere qualche traccia di vita animale, e i colori mimetici e protettivi che prevalevano nella fauna - un verde tanto scuro da sembrare nero o tanto slavato da sembrare grigio, pelli bigie, piume nere, pellicce color della fuliggine, pelami di colore incerto - era difficile credere che le cose stessero diversamente. In realtà in quel bizzarro deserto la vita esisteva sotto diverse forme e, pur non prosperando, era abbastanza feroce e tenace da superare le difficoltà quotidiane. Certe persone molto discrete o poco disposte a parlare conoscevano in realtà la vera natura del Deserto di Cenere; alcuni nomadi infatti si aggiravano nei pressi dei confini settentrionali, e anche i cavalieri delle Pianure
Desolate, a cavallo o in groppa ai cammelli, e i selvaggi dei Picchi Grandsuel, le alture che riparavano le steppe dalla polvere, a volte si avventuravano laggiù. Alcuni esploratori delle Terre dei Pirati, inoltre, erano riusciti a valicare i Picchi Inferno per cercare ricchezze nella zona orientale del Deserto di Cenere, e lo stesso avevano fatto alcune spedizioni inviate dal capo del libero stato di Yeomanry. Probabilmente altri erano penetrati almeno per un tratto nel Deserto di Cenere: i popoli leggendari di stati favolosi come Changol, Jahind e Mulwar a sud, e Sa'han, Nehow e Chomur avrebbero sicuramente avuto il coraggio di farlo. La maggior parte comunque avrebbe convenuto che il deserto era morto e soprattutto mortale, e anche coloro che l'avevano visitato ammettevano che si trattava di una landa ostile in cui non esistevano risorse per la sopravvivenza degli esseri umani, e che non si poteva esplorare completamente. I saggi e i conoscitori dell'arcano, se interrogati, avrebbero riferito che in quel luogo la vita era esistita, almeno per un periodo (e proprio nelle peggiori condizioni), e avrebbero informato gli interessati che senza dubbio il trascorrere dei secoli aveva migliorato relativamente le cose. Gli studiosi sapevano infatti che alcune forme di vita si erano adattate alla sopravvivenza nel Deserto di Cenere. Ma si sarebbero avventurati nel cuore di quella landa fuligginosa? Difficilmente. E potevano consigliare qualche mezzo di sopravvivenza a chi - pazzo o squilibrato - fosse stato intenzionato a farlo? Certo, potevano offrire qualche consiglio, ma di certo non una garanzia. Di fatto, comunque, ora c'erano almeno tre persone seriamente decise ad avventurarsi nel Deserto di Cenere, individui pronti a correre qualsiasi rischio e a superarlo per cercare la metropoli perduta che era stata il centro dell'impero Suel. Obmi il Nano era già partito in cerca della Città Dimenticata. Eclavdra, Elfo nero e Gran Sacerdotessa di Graz'zt, si accingeva a fare lo stesso. E anche Gord, cittadino di Falcovia, ex-accattone, ladro e scassinatore, ora agente volontario di Rexfelis, Signore di Tutti i Felini, e del Demiurgo Basiliv, aveva il compito di percorrere il deserto di sabbia e cenere non segnato sulle mappe per scoprire il nascondiglio della Chiave Finale, ultima parte dell'Oggetto del Male che, se unita alle altre due, avrebbe risvegliato Tharidzun, la più grande forza malefica mai conosciuta. Costui avrebbe piegato il male alla sua perversa volontà, avrebbe distrutto la luce e avreb-
be creato in tutto il multiverso un regno di dolore talmente terribile che il bene avrebbe potuto esserne sradicato per sempre. L'oggetto cercato da questi tre personaggi - e forse da altri ancora - era sepolto in qualche punto del Deserto di Cenere. Tra l'oggetto e i suoi inseguitori si stendeva quella vasta landa arida... e tutto ciò che la abitava. Capitolo 9 «È impossibile!» Il mago si inchinò in segno di sottomissione. Dopotutto era soltanto uno stregone di bassa categoria, un funzionario al servizio di una signora ben più potente. «Così sembrerebbe, Nobile Obmi» disse. «Io posso solo riferire le informazioni fornitemi da una persona che mi ha assicurato di riportarmi fedelmente le parole di Iggwilv.» «Non sono più suddito di quella Strega, furfante! Ora sono il campione della Regina Zuggtmoy!» gli disse il Nano in tono acceso. «Certo, signore, ma la più grande delle Streghe non è forse un'alleata dell'eminente Demoniessa? È stata Kalfeen, la Signora dei Sabba, a dirmi ciò che la grande Iggwilv desiderava farti sapere. Affermava inoltre che anche Zuggtmoy era in possesso delle medesime informazioni.» Obmi ghignò sotto la folta barba. «Allora che sia la mia padrona a parlarmene» ringhiò. Prima di continuare, si guardò in giro per assicurarsi che nessuno degli altri avventori stesse origliando. «Bah, dev'essere una manovra di Iggwilv o della mente contorta di Iuz, mirante a rallentare il mio cammino verso la vittoria. Nessuno può creare un clone tanto in fretta, e nessun clone potrebbe vivere sano e vitale con Eclavdra ancora in vita. Anch'io, Nano contrario alla magia, ho qualche conoscenza di queste cose.» Sfidando le ire di quello spaventoso combattente, lo stregone insisté: «I poteri superiori possono creare duplicati e mantenerli inattivi, Nobile Obmi, e forse i maghi più grandi possono spezzare il vincolo mortale e la spinta all'esistenza autonoma che lega l'individuo al proprio clone.» «Inganno e menzogna! Ho provveduto io stesso all'uccisione di quella feccia Drow e delle sue guardie. Eclavdra, il mancato campione di Graz'zt, è morta, e rimango solo io a portare a termine la gara. Puoi informarne la tua padrona, e lei potrà dirlo a chi vuole: a Iggwilv, o a Iuz o a tutta Tarre!» Il Nano era paonazzo di rabbia e lo stregone senza nome fece un passo indietro temendo un raptus omicida da parte di Obmi. Mentre il subalterno
arretrava, il Nano infuriato si calmò un po'. «Non aver troppa fretta di andartene, amico» disse in tono un po' più tranquillo. «Di' ai tuoi superiori che io, Obmi, ho adempiuto ad ogni singola regola e ad ogni condizione con tale scrupolo che nemmeno la stessa Iggwilv potrebbe trovare qualche lacuna nel mio comportamento. Sebbene la Drow sia stata presa in un'imboscata, io non l'ho nemmeno toccata. Altri hanno visto lei e la sua scorta come un facile bersaglio, dopo che io mi ero limitato ad avvertirli della sua esistenza e della sua posizione, e sono stati appunto loro a farla fuori. Io non ero neppure nelle vicinanze quando l'hanno passata a fil di spada; ero lontano quando è successo il fatto, questo nessuno può negarlo. E ora vattene!» Lo stregone chinò il capo incappucciato, forse un po' più profondamente di quanto non avrebbe fatto normalmente per un Nano, ma questo era il campione della terribile Zuggtmoy, Demoniaca Regina dei Funghi. Per lui contava soprattutto che quel Nano era furioso, e non aveva alcuna intenzione di esserne vittima. Sarebbero stati i suoi padroni gli arbitri della faccenda, egli era soltanto un ambasciatore. «Vi auguro ogni prosperità, signore» disse nell'andarsene, ma Obmi, che in cuor suo l'aveva già congedato, non gli prestò attenzione. In realtà, nonostante la sua spacconeria, il Nano non era poi tanto sicuro di riuscire. Solo due giorni prima aveva completato una parte importante del suo viaggio, il tratto tra Hlupallu e Ghastoor, ma sapeva che le prove più importanti dovevano ancora venire, anche se ormai riteneva di non avere più avversari. La gara non si svolgeva solo fra i campioni delle varie potenze; era anche una prova di sopravvivenza, e tutto ciò che Obmi sapeva era che il Deserto di Cenere godeva di una fama sinistra. A ciò si aggiungeva il problema di localizzare la Città Dimenticata e di trovare il Theorpart da qualche parte, fra le rovine dell'antica metropoli. Mentre rifletteva su tali questioni, Obmi si disse che avrebbe trovato il modo di risolvere le cose, ma che ora aveva bisogno soprattutto di informazioni e di tempo per perfezionare i suoi piani, per prepararsi a lasciare Ghastoor e dirigersi verso Karnoosh. Nel frattempo si sarebbe riposato un po', senza tralasciare qualche divertimento, e si sarebbe goduto l'ospitalità della città di Ghastoor, raccogliendo i dati e gli aiuti necessari a proseguire. Avrebbe dovuto occuparsi degli ultimi preparativi nella città carovaniera sulla sponda del Lago Karnoosh, ma a quel punto avrebbe avuto tutti i mezzi a disposizione. Ritrovò rapidamente la fiducia: non avrebbe fallito, e Zuggtmoy avrebbe apprezzato i suoi successi. Oltre alla fiducia in se stes-
so, tuttavia, ritrovò il suo comportamento arrogante, quando si accorse che il personale della taverna gli aveva lasciato il bicchiere vuoto per troppo tempo. «Ehi, tu! Portami dell'altro vino!» ordinò l'arcigno Nano ad una cameriera che serviva alcuni avventori lì accanto. La donna si affrettò ad obbedire, ma per l'ansia di soddisfare la richiesta, versò un po' di liquido sulla manica del Nano. Era proprio la scusa di cui Obmi aveva bisogno: afferrò il braccio della ragazza e glielo torse, mentre la poveretta, sul cui viso si leggeva un'espressione di dolore, gli chiedeva umilmente perdono. Obmi sorrise e le torse il braccio ancor più forte; quando glielo spezzò, la malcapitata svenne, concedendogli la sola soddisfazione di un breve grido e di qualche lamento prima che l'incoscienza la liberasse da quella tortura. Il Nano le diede un calcio, ma la serva non si riebbe, e il divertimento finì. Chiamò altri servi a portarla via e gettò loro dietro alcuni pezzi d'argento per evitare recriminazioni da parte delle autorità locali. Poi si rimise seduto e, assaporando il vino, rifletté sul modo perfetto in cui il suo piano aveva funzionato fino a quel momento... Era stato semplice convincere i due «luogotenenti» del gruppo di guardie originario a far fuori il resto della scorta che lo aveva accompagnato alla periferia di Hlupallu. «Uno di essi è una spia» aveva detto Obmi al duo, e ciò era bastato ad indurre quel semi-Orco poco intelligente a propinare agli altri il veleno del Nano. C'era voluto un po' di più, invece, a convincere il sacerdote della coppia che anche il suo compagno era un nemico. Alla fine però, con bugie estremamente fantasiose e forza di persuasione, oltre alla promessa di una certa quantità d'oro, Obmi aveva tirato il chierico dalla sua parte. Con l'aiuto di un incantesimo Paralisi il sacerdote aveva neutralizzato il semi-Orco e poi aveva avuto la bella idea di offrirlo in sacrificio alla Demoniessa che tutti e tre servivano. Il Nano si era congratulato con il chierico per l'ottima pensata e poi lo aveva accompagnato in un canyon isolato fuori città. Mentre quello, fiducioso, dopo aver immolato il semi-Orco paralizzato, era intento a concludere la cerimonia rituale, Obmi gli si era avvicinato alle spalle e lo aveva colpito con il martello magico, infiggendo più volte la penna appuntita nel corpo del malcapitato, come se volesse battezzarla con il suo stesso sangue. «E anche questo è in onore della nostra regina!» aveva esclamato con la sua voce chioccia, ma il chierico era già privo di conoscenza e ormai prossimo alla fine, quindi gli aveva dato il colpo di grazia con una martellata ben assestata al cranio, temperando così anche la testa della sua nuova arma. Secondo gli ordini, si
era sbarazzato di tutti i membri della sua prima scorta, e così era entrato travestito nella taverna Dar Peshdwar per attendere il nuovo gruppo di servitori. Hlupallu possedeva numerose attrattive, e Obmi vi aveva soggiornato più del dovuto proprio perché si divertiva troppo. Ma, pensò in retrospettiva, doveva essere stato l'istinto a trattenerlo, perché il ritardo si era rivelato molto vantaggioso. Pochi giorni dopo l'incontro con la nuova scorta, fu informato che Eclavdra era a qualche giorno di viaggio da Hlupallu e procedeva lentamente. «Devi affrettarti, signore» lo incoraggiò uno degli informatori. «Se partirai subito, potrai avere un centinaio di miglia di vantaggio o anche più»: Invece di seguire il consiglio, Obmi aveva preso tempo e si era affidato alla propria astuzia. Una parola qua e un ricatto là, si era messo in contatto con alcuni banditi e il suo piano cominciò a funzionare. Naturalmente il Nano era troppo furbo per violare le condizioni poste per la gara, quindi non avrebbe torto un capello a nessuno degli scagnozzi di Graz'zt... personalmente. E non aveva neppure assoldato dei sicari, perché la mente contorta di Iggwilv avrebbe potuto indurre i Demoni a considerarlo un attacco diretto ad Eclavdra. No, lo stratagemma che aveva escogitato era molto più astuto... Quattro giorni dopo Obmi fu informato che Eclavdra e il suo seguito erano entrati a Hlupallu e che quella sera avrebbero fatto il giro di diversi locali pubblici. Si recò quindi al Dar Peshdwar, incontrò uno dei capi dei banditi che conosceva e lo invitò al proprio tavolo. Meno di un'ora dopo arrivò una donna-Elfo dall'aspetto regale, accompagnata da due robuste guardie del corpo. «Vedi quella? Quella strana donna-Elfo?» chiese Obmi in tono casuale. Il nomade seduto accanto a lui annuì. «Viaggia con un tesoro di gemme preziose, oggetti magici di valore e molto denaro!» continuò. Il predone scosse la testa. «La città è troppo ben sorvegliata per rischiare qualche mossa al suo interno» disse. «Prendere lei e le sue guardie sarebbe un compito molto difficile.» «Se ti rivelassi la strada che prenderà per uscire dalla città, alcuni particolari sulle sue guardie e il nome di uno stregone che potrebbe aiutarti nell'impresa, tu e i tuoi guerrieri sareste interessati?» «Certamente, ma a te che parte di bottino spetterebbe?» chiese il capo. «Nulla» disse il semi-Elfo che invece era Obmi, grazie al suo cappuccio magico. «Quella è una nemica giurata del mio clan». Il nomade capiva be-
nissimo e annuì alle parole del Nano. «Tutto quello che desidero in cambio dell'aiuto che ti do è la morte di quella donna Elfo. Sei d'accordo?» «Puoi considerarla già morta, effendi» disse il bandito con un sorriso maligno. «Ora raccontami tutto.» Anche Obmi non poté fare a meno di sorridere, riflettendo sulla questione. Gli sarebbe stato molto utile avere una spia che agisse per suo conto al seguito di Eclavdra. All'inizio aveva dubitato delle informazioni fornitegli, che però si erano rivelate vere, e ora accettava eccitato il fatto che assieme alla gran sacerdotessa Drow ci fosse qualcuno fortemente intenzionato ad eliminarla. Sfruttando le informazioni ottenute dalla spia ignota, era riuscito a mettere l'intera scorta in mano ai banditi, senza che si potesse risalire a lui in alcun modo, perché ben presto anche la spia sarebbe morta. «Molto bene» disse il Nano. «Ora ascolta attentamente...» Due sere più tardi Obmi, ancora travestito, era nuovamente seduto nella taverna quando fu raggiunto da un membro della sua nuova scorta, uno stregone di nome Bolt. «Porto notizie tragiche» disse costui, con un sorriso ironico. Non erano le parole che Obmi si aspettava di sentire; per un attimo non colse il sarcasmo dell'interlocutore e d'istinto alzò una mano per colpirlo. Lo stregone allora decise di non perdere altro tempo e di arrivare subito al punto. «Si dice che la notte scorsa un gruppo di orientali, tra i quali si trovava anche una bella donna-Elfo, sia caduto in un'imboscata e sia stato sterminato dai banditi, a poche miglia da questa città. Un evento raro, che speriamo non si ripeta» concluse. Bolt era naturalmente lo stregone di cui Obmi aveva parlato nella sua conversazione con il capo dei banditi; in pratica, quindi, non riportava notizie di seconda mano, ma aveva partecipato attivamente all'assalto. Il Nano si limitò a grugnire. Irritato con Bolt perché questi aveva iniziato con un'osservazione fuorviante e imbarazzato perché non era riuscito a coglierne il reale significato, Obmi non aveva intenzione di ignorare un comportamento tanto irrispettoso e di congratularsi con lo stregone o tantomeno di dimostrare compiacimento a quelle notizie. Bolt, avvertendo la tensione nell'aria, si congedò qualche istante dopo, e fu solo allora che Obmi, nell'intimità dei propri pensieri, permise che sul suo volto si dipingesse un ghigno malvagio. Il Nano e il suo gruppo lasciarono Hlupallu il giorno seguente e trascorsero i dodici giorni successivi in un viaggio piuttosto piacevole verso sudovest, da Hlupallu a Ghastoor, seguendo generalmente il margine delle
praterie che confinavano con i Pennors e con le Montagne Inaccessibili. Durante il viaggio i viaggiatori non furono disturbati e non lamentarono ritardi, e ciò per tre motivi principali: primo, il gruppo era piccolo e poco appariscente, cosicché nessuna banda di nomadi o di briganti poteva aspettarsi un ricco bottino depredandolo; secondo, come aveva accennato Bolt nel suo racconto di quanto era accaduto vicino a Hlupallu, succedeva raramente che una banda di nomadi occidentali assaltasse un gruppetto di stranieri; sebbene tutte le tribù di nomadi condividessero un certo disprezzo per gli stranieri, gli scontri veri e propri avvenivano con altri; terzo, nelle tre occasioni in cui un pugno di nomadi in cerca di avanzi avevano minacciato di avvicinarsi, era bastata una dimostrazione di forza di Bolt per uccidere o mutilare uno dei predoni da lontano e per mettere in fuga i superstiti, in un diluvio di imprecazioni. I nomadi occidentali non ignoravano la magia, ma pochi fra loro avevano esperienza con i dweomer quanto Bolt... Con la coda dell'occhio Obmi notò che Bolt aveva preso posto al suo tavolo, ma udì vagamente quello che gli diceva, perché i suoi pensieri erano rivolti altrove. Stava infatti ricordando la conversazione avuta quello stesso giorno con lo stregone messaggero. «No» mormorò tra sé e sé, «non esiste nessun'altra Eclavdra, non esiste nessun clone. Qualcuno cerca di passarmi informazioni sbagliate per confondermi e farmi rallentare. Forse avrebbe potuto esserci un clone, ma ora è troppo tardi.» «Hai detto qualcosa, signore?» Obmi si girò a guardare Bolt; il fatto che le sue parole fossero state udite lo irritava non poco, e non intendeva certamente parlare ad alta voce. «No» disse, «ho soltanto mosso la lingua in concomitanza con i miei pensieri. Se hai sentito qualcosa, dimenticalo.» «Non c'è nulla da dimenticare, signore. Ho sentito soltanto i suoni, non il senso di ciò che hai detto.» «Sarà meglio, altrimenti ti staccherò le orecchie! E ora dimmi perché sei qui.» Bolt chinò leggermente la testa, cercando di non lasciarsi intimorire. Dopo tutto, si disse, questa spregevole creatura ha molto più bisogno di me di quanto io non ne abbia di lei. «I preparativi sono quasi completati» disse cortesemente, ripetendo l'affermazione già fatta in precedenza. «Mi sono procurato i rifornimenti, oltre ai documenti e ai progetti necessari per il... veicolo... e ora sono venuto a chiederti quando sarai pronto a partire.» «Bene» grugnì Obmi. «E ora procurati un seguito affidabile, una caro-
vana abbastanza numerosa da scoraggiare l'attacco dei banditi che infestano la via da qui a Karnoosh. Avremo un carico piuttosto ingente in questa parte del viaggio, quindi non ha senso partire da soli. Il passo lento della carovana ingannerà i nemici; infatti non immagineranno mai che procediamo ad un ritmo così lento.» «Mi sono preso la libertà di chiedere informazioni sulle partenze, signore, e una carovana come quella che desideri si sta preparando proprio ora; partirà tra due giorni» comunicò Bolt al Nano. «Quante persone ne faranno parte?» «Tre squadroni di guardie, in tutto novanta guerrieri, che proteggeranno davanti, di fianco e dietro un seguito di duecento cammelli, cento cavalli, alcuni di quegli strani carretti utilizzati dagli indigeni e diverse centinaia di mercanti, mandriani e portatori» spiegò lo stregone, enumerando la composizione della carovana sulla punta delle dita. «È il gruppo più imponente in viaggio per il mercato annuale degli schiavi che si tiene a Karnoosh. Gli informatori mi hanno riferito che assieme alla carovana viaggeranno anche piccoli gruppi di mercanti di schiavi con la loro mercanzia, e mercanti di fama che hanno ingaggiato alcuni mercenari che aiuteranno quelli già presenti a proteggere il gruppo. In tutto ci saranno un migliaio di persone dirette verso sud.» Obmi non poté evitare un moto di sorpresa all'udire quel numero, ma celò i propri sentimenti sotto la maschera dell'asprezza. «E quante guardie ci saranno in tutto?» chiese. «Circa centocinquanta, signore» fu la risposta. «Ottimo!» esclamò il Nano. «Sembrano tante, ma è un numero irrisorio se si considerano le dimensioni delle bande di predoni. Anche i più rozzi commercianti Bakluniani dovrebbero rendersene conto! Certamente nessuno si sognerà di negare l'accesso ai nostri dodici rudi cavalieri, senz'altro migliori di un numero anche doppio delle loro guardie; non possono permettersi di rifiutare un simile contributo.» «Ben detto, mio signore» disse Bolt in tono melenso. «Anche i venti cammelli che possediamo saranno utili, perché quei porci calcolano sempre di lasciarne un certo numero nelle grinfie dei banditi. Dobbiamo aspettarci comunque che ci lascino in coda, nella speranza che eventuali assalitori attacchino prima noi.» Il Nano aggrottò le sopracciglia: «Ma è una cosa inaccettabile!» esclamò. «Certo, signore, nella maggior parte dei casi sarebbe una posizione peri-
colosa. Ma chiunque vedesse lo spettacolo dei nostri uomini, con le loro lance e lo stendardo Muzier, e dei carrettieri che abbiamo ingaggiato, tutti armati di pesanti balestre, deciderebbe senz'altro di attaccare la carovana in un altro punto oppure di non attaccare affatto. Inoltre, i miei incantesimi distruggeranno chiunque si azzardi a fare una mossa contro di noi.» «Un Nano civilizzato non può nemmeno vivere in questo paese, figuriamoci viaggiare!» ringhiò Obmi. «Non voglio scontri di nessun genere; rallenterebbero il viaggio o lo renderebbero più spiacevole di quello che certamente sarà. Usa altri dei fondi a nostra disposizione e di' ai tuoi agenti di corrompere i nomadi delle steppe affinché non assaltino la carovana.» «Mi sembra un'idea saggia, signore» concordò Bolt, anche se dubitava che qualsiasi somma di denaro potesse dissuadere quei selvaggi dall'arraffare quello che potevano, se il bottino sembrava facile o abbondante. «Ma le tue parole mi fanno pensare ad un'altra alternativa, nobile Nano. Non potresti usare il denaro per permettere ai mercanti di schiavi minori di ingaggiare mercenari propri? Un altro centinaio di guerrieri sarebbe sufficiente a scoraggiare i predoni.» Obmi ci pensò per un minuto e poi disse: «Sono contento che tu impari dalla mia saggezza, stregone. Puoi usare il denaro nel modo che adesso ti illustrerò: scegli i candidati migliori tra i mercanti di schiavi locali e assicurati che utilizzino il denaro per ingaggiare delle guardie. Noi dimostreremo il nostro assoluto rigore nell'attenerci alle regole della gara, perché le guardie non sono per noi... Tuttavia, stregone, fai in modo che chi ci è debitore si ricordi chi è il suo benefattore. Qualche persona in più tra noi e gli aggressori potrebbe significare la differenza tra la vita e la morte.» Due giorni dopo la carovana partì da Ghastoor. Era ancor più grande di quanto non avesse immaginato Bolt, in quanto all'ultimo momento vi si erano aggiunte diverse decine di guardie al seguito di vari mercanti di schiavi. Le operazioni per la partenza naturalmente furono lente e confuse, a causa delle modifiche dell'ultimo minuto e delle dimensioni del gruppo. Fu solo poco prima di mezzogiorno che gli ultimi componenti uscirono dalla città e si avviarono lungo i pendii che portavano alle Pianure Desolate. Il nucleo principale si era già accampato e aveva già finito il pasto serale quando Obmi e il resto del gruppo di coda arrivarono all'accampamento, a dieci miglia dal punto di partenza. Il giorno seguente le cose si sveltirono un po', poiché tutti i componenti della carovana ormai conoscevano il loro posto e cominciavano ad avere una certa fretta. Nel primo accampamento infatti si erano udite alcune notizie che avevano indotto i viaggiatori a dar-
si una regolata. Bolt, che passeggiava per l'accampamento con le orecchie tese, aveva udito quelle voci e si era precipitato a riferirle al Nano. «Posso entrare, nobile Nano?» chiese, rimanendo all'esterno della tenda di seta di Obmi. «Entra, entra! Ma sarà meglio che tu abbia qualcosa di importante da dirmi per interrompermi a questo modo.» Bolt sollevò il lembo di stoffa che copriva l'ingresso e si abbassò per entrare. Obmi aveva poche comodità nella sua tenda, nonostante il suo comportamento facesse capire che vi fosse abituato; era duro come il ferro e resistente come il cuoio conciato. Lo stregone si inchinò e disse: «Superstiti di una carovana Yoli che ci precedeva sono venuti nel nostro accampamento. Una settimana fa sono stati attaccati da guerrieri Arroden, più di cinquecento, dicono!» «Hai saputo altri particolari?» «Non sono sicuro della loro veridicità, grande nano, ma da ciò che mi pare di capire, gli Yoli avevano a disposizione potenti maghi che hanno inflitto forti perdite ai predoni prima di morire. I superstiti affermano di aver realmente sconfitto gli Arroden, anche se il loro popolo odia e teme talmente quella tribù che afferma sempre di aver vinto, ma spesso mente. Hanno alcune teste, qualche trofeo e del bottino, ma roba simile si può rimediare anche in una sconfitta, se la retroguardia riesce a liberarsi e a fuggire.» «Le informazioni incomplete sono inutili, stregone! Torna indietro e scopri altri elementi, ma tieni per te tutto ciò che verrai a sapere. Me lo riferirai domattina, quando riprenderemo il cammino.» Bolt si alzò in piedi: «Obbedisco, signore. Riposa bene». Poi, mormorando fra sé e sé, si ritirò e si accinse ad eseguire gli ordini. Avrebbe preferito riposare, tuttavia non si fidava di affidare ad altri il compito di raccogliere le informazioni desiderate da Obmi. Inoltre, se avesse delegato quel compito ad un altro, il prescelto forse - anzi, di certo - avrebbe approfittato delle proprie conoscenze per soppiantare Bolt in qualche maniera. Fino a quel momento lo stregone era riuscito a rimanere il luogotenente capo del gruppo, e intendeva continuare. Se al Nano fosse capitata qualche disgrazia, Bolt sarebbe diventato campione al suo posto. Sorrise e si mise al lavoro. Cavalcava al fianco di Obmi quando, il mattino dopo, ebbero levato le tende, ma di proposito non gli diede alcuna informazione; era deciso a lasciare che fosse il Nano a fare la prima mossa, e dopo qualche minuto il
suo desiderio fu soddisfatto. «Beh, che cos'altro hai saputo?» ringhiò Obmi. Contento di aver vinto in quello scontro di volontà, Bolt non tralasciò nulla di quanto aveva appreso. «La carovana Yoli era piuttosto ridotta, mio signore» disse. «Portava a Karnoosh merci e schiavi, e i mercanti che la componevano speravano di essere fra i primi per poter ottenere prezzi migliori. Sapevano di correre grossi rischi perché erano pochi, ma erano protetti da alcuni guerrieri e da due potenti maghi, un dweomercraefter e un sacerdote. Solo un mercante, però, è riuscito a tornare, e ha perduto tutta la merce.» «Gli Yoli non hanno sconfitto gli Arroden, quindi» disse Obmi in tono piatto. «Perdonami, signore, ma penso che i superstiti per una volta dicano la verità, nonostante questo possa sembrare strano per dei Bakluniani.» Il Nano aggrottò le sopracciglia e chiese a Bolt da dove venisse quella sua convinzione. «Quel mercante, grande Nano, pareva dire la verità, mentre si batteva e si strappava la barba per aver perso tutte le merci. Proseguire il viaggio o tornare indietro a passo lento, carichi di tutte quelle masserizie e con un pugno di uomini, avrebbe invitato all'attacco qualsiasi predone. Gli Yoli, pur avendo ucciso un gran numero di Arroden e averli respinti, non osavano recuperare i propri beni e viaggiare con essi. Si sono diretti a nord portando con sé soltanto il bene più prezioso: la vita.» «Ben fatto, stregone!» disse Obmi, d'un tratto insolitamente entusiasta. «Le notizie sono splendide e penso che anche la tua valutazione sia giusta. È un eccellente presagio per noi. Gli Arroden per un po' si leccheranno le ferite. Certo, riuniranno i loro guerrieri in una delle bande più grandi e assetate di sangue mai viste dai figli di Yoli, ma non ci riguarderà più, perché saremo al sicuro a Karnoosh... se non più in là. Tribù meno feroci degli Arroden, e sono la maggior parte, esiteranno ad attaccare qualsiasi tipo di carovana per un po'. La notizia della sconfitta di quei predoni si diffonderà presto in questo deserto e scoraggerà gli altri briganti. Scommetto che il nostro sarà un viaggio sereno in una terra tranquilla.» Le previsioni di Obmi si rivelarono giuste, ma fu una fortuna, in un certo senso, che il suo ottimismo non fosse condiviso dalla maggioranza dei viaggiatori. L'imponente carovana percorreva poco più di venti miglia al giorno, una buona media per un gruppo così numeroso di uomini e animali, ma guide, mercanti e guardie erano spronati dal timore che vendicativi
guerrieri velati, i terribili Arroden, si avventassero a migliaia su di loro. Percorrevano la più occidentale delle due ampie piste che da Ghastoor portavano alla città sulle rive del Lago Karnoosh; la pista era un po' più lunga di quella orientale, ma correva perlopiù lungo il letto asciutto di un fiume che si stendeva in direzione sud dai Picchi di Yolspur al Lago Karnoosh. Ogni due o tre giorni si imbattevano in un uadi dove potevano trovare acqua, in una pozza lungo l'alveo del fiume o poco sotto la superficie. Per due volte, poi, la carovana trovò una fonte d'acqua permanente, una vera oasi e un pozzo. Nei pressi dell'oasi e del pozzo, e in qualche altro luogo, si trovavano alcuni villaggi fortificati. Nonostante gli abitanti non fossero né forti né numerosi, il capo-carovana pagava sempre un tributo in denaro o in natura in cambio dell'acqua e di altre provviste che i paesani potevano procurare. I locali iniziavano col chiedere somme esorbitanti per i datteri, le uova, i polli e altri prodotti, ma alcune tenaci contrattazioni riportavano i prezzi a livelli accettabili. Il mercanteggiamento costituiva naturalmente la principale fonte di divertimento per i membri di quelle tribù, che avevano ben poco da fare. I capocarovana che transitavano da quelle parti imparavano rapidamente come comportarsi, o pagavano un prezzo alto per la loro ostinazione; acqua avvelenata o cibo guasto erano solo due degli strumenti che gli indigeni utilizzavano per vendicarsi di chiunque cercasse di prendere acqua o provviste senza pagare. Si poteva ottenere tutto ciò di cui il villaggio non aveva bisogno, ma in cambio veniva richiesto del denaro. Era la legge non scritta vigente in quelle zone, e nessuna persona saggia si aspettava qualcos'altro. La via per Karnoosh era abbastanza diretta, perché la steppa era relativamente piana e non c'erano molti ostacoli. Il viaggio di seicento miglia fu portato a termine in poco più di trenta giorni e tutti i carovanieri veterani si meravigliavano di tanta rapidità, trattandosi di una carovana così imponente. Scontri occasionali con carnivori selvaggi si risolsero agevolmente, perché Bolt e gli altri maghi del gruppo erano preparati a simili evenienze. Le piccole bande di nomadi delle steppe che si avvicinavano alla carovana erano impressionati dalle sue dimensioni e non si azzardavano a minacciare, ma parlavano, concludevano qualche affare e poi se ne andavano pacifici com'erano venuti. Come disse ad Obmi una guardia esperta, il fatto che questi guerrieri di mezza tacca si aggirassero per le steppe significava che gli Arroden avevano subito una grave sconfitta, perché di solito quei no-
madi non osavano spingersi tanto a nord proprio per timore dei terribili guerrieri velati. Circa a metà strada, la natura del paesaggio cambiò. Le steppe vedevano di rado la pioggia, ma nelle zone distanti dalle montagne le precipitazioni erano regolari. Procedendo verso sud, quindi, la carovana incontrò praterie ben irrigate che prendevano il posto delle pianure aride. I cammelli non erano più essenziali in luoghi simili, e sebbene potessero certamente sopravvivere, non costituivano il mezzo di trasporto più adatto. I cavalli erano favoriti da quel tipo di terreno e quindi gli Arroden, che viaggiavano sempre a dorso di cammello, non si avventuravano nella prateria per le loro scorrerie. La minaccia dei guerrieri velati ora era superata del tutto. Grandi tribù e gruppi di cavalieri si aggiravano nelle praterie intorno al Lago Karnoosh, ma molti di essi erano pagati dalla città affinché non molestassero i commercianti, e quindi tendevano ad attaccare quelli che a loro volta attaccavano le carovane. Gli scontri continui tenevano sotto controllo i guerrieri nomadi mentre una parte del bottino sottratto alle carovane, precisamente quella che entrava in città, finiva nelle mani di coloro che proteggevano i mercanti. Naturalmente la minima offesa, reale o presunta, poteva indurre tribù in precedenza pacifiche a lanciarsi nelle scorrerie ma, quando ciò accadeva, altri clan erano prontissimi ad accaparrarsi tangenti e tributi per invertire i ruoli. Costoro quindi andavano alla ricerca dei gruppi divenuti ostili, a pagamento, ben contenti di poter depredare quelli che a loro volta avevano depredato qualche carovana. Obmi, che ammirava moltissimo quel sistema, decantava a Bolt la praticità e la logicità su cui si basava, e lo stregone si trovava d'accordo. La città di Karnoosh era caratterizzata da cupole, torrette ed edifici di mattoni. La parte compresa nella cinta muraria - la città vera e propria - era relativamente piccola e non vi abitavano più di sette o ottomila anime. Intorno all'abitato, tranne che nella zona a ridosso del lago, sorgevano villaggi e paesi satelliti che quadruplicavano o quintuplicavano la popolazione, e che per la maggior parte possedevano numerosi caravanserragli e diverse taverne in cui commercianti e lavoratori potevano trovare ospitalità e divertimento durante la loro breve permanenza. Nella città si riversava un afflusso costante di mercanti perché Karnoosh era un punto d'incontro in cui fornitori del nord, del sud, dell'est e dell'ovest potevano scambiarsi merci. Il mercato all'aperto era sempre affollatissimo e vi si vendevano schiavi, spezie, animali, avorio e un'infinità di altri articoli. La casbah di mattoni ospitava un numero di soldati sufficiente ad
incoraggiare chiunque a trattare pacificamente i propri affari, ma per ogni evenienza fortezze ausiliarie sorgevano ai due lati della città. Lo Scià di Karnoosh era molto ricco e potente. Non esistevano stati forti attorno al suo piccolo regno, e quindi per circa un secolo non c'erano state guerre; la pace e la prosperità avevano perciò portato un numero di mercanti ancor maggiore nella città, che era diventata un centro cosmopolita molto fiorente secondo gli standard dell'Oerik. Ma l'atteggiamento di Obmi nei confronti del luogo negava la realtà dei fatti. «Non è una vera città» osservò in tono petulante. La ragione per cui la snobbava era comunque ovvia: Karnoosh era retta da uomini, non da semiumani, e di certo non da Nani; soltanto una mezza dozzina di costoro viveva in città. In effetti gli esseri non umani non erano molti, il che meravigliava persino Bolt; venendo da oriente come Obmi, infatti, egli era abituato ad incontrare un numero non trascurabile di esseri non umani in qualsiasi città o cittadina. Anche nelle città occidentali di Hlupallu e Ghastoor avevano visto abbastanza Elfi e Nani da non sentirsi fuori posto, né lui né Obmi; le cose non stavano però così nella steppa. Qui vivevano uomini e donne dalla pelle scura, con sfumature brune, bigie, bronzee, gialle o rossastre; ce n'erano di alti, di bassi, di magri e di grassi; alcuni avevano il naso piccolo, altri adunco, e ognuno era diverso dall'altro, ma in generale erano tutti esseri umani, con poche eccezioni. Questa gente viveva e lavorava in una certa armonia, in quanto tutti erano comunque legati dal retroterra razziale, ma non consideravano propri pari Elfi, Nani e simili. Così, invece di sostare in quella città esotica come aveva fatto a Hlupallu e a Ghastoor, Obmi chiese di andarsene il più presto possibile. L'ordine mise sotto pressione Bolt, che dovette procurarsi altre provviste e attrezzature, far imballare e caricare accuratamente il tutto e assicurarsi contemporaneamente che eventuali spie non si accorgessero di quanto stava accadendo. Impiegò quattro giorni a sistemare le cose, ma alla fine il seguito del Nano lasciò Karnoosh prendendo la pista a sudest, che costeggiava il lago per più di settanta miglia, suddividendosi poi in tre diramazioni più piccole che portavano in direzioni diverse. Il gruppetto decise di prendere la pista più stretta, quella di centro, che conduceva a sud verso la città di Tashbul e poi a sudest verso i picchi Grandsuel. «A Tashbul troveremo tutto ciò di cui abbiamo bisogno» disse Obmi a Bolt in tono compiaciuto, anche se non era del tutto sicuro di quanto affermava, perché sapeva che lo stregone non aveva alcuna conoscenza di
questa parte dell'occidente mentre egli aveva raccolto qualche informazione al riguardo a Karnoosh. Sebbene la maggior parte dei sapienti del Flanaess non potesse vantare grandi conoscenze su quella zona, Obmi approfittò dell'ignoranza dello stregone per ingannarlo. «Sei molto colto, signore» rispose Bolt con una punta di asprezza nella voce. Obmi, che si crogiolava in quella lode riluttante, continuò a far sfoggio della propria cultura: «Questa estremità del vecchio Impero Bakluniano, mio caro Bolt, conserva ancora vestigia della grande civiltà scomparsa con la Devastazione Invocata. Ora ci vive un popolo decaduto ma interessante, che certamente comprenderà i nostri bisogni.» «Mi inchino alla tua saggezza, signore» mormorò lo stregone, giurando di ricambiare il favore alla prima occasione. Tra il quinto e il sesto giorno di viaggio arrivarono a Tashbul, trovarono un alloggio decente e fecero gli ultimi preparativi prima di entrare nel Deserto di Cenere. Anche in questa città c'erano pochi esseri non umani come a Karnoosh, ma qui Obmi e la sua schiatta vennero considerati come una piacevole novità, e non come paria da evitare. Il Nano si divertì molto, secondo il suo concetto della parola, per un'intera settimana di libertinaggio nella città antica, ma poi giunse il momento di partire. Bolt aveva dedicato le giornate ad eseguire nuovi ordini di Obmi, a cercare le persone e i materiali di cui avevano bisogno, ad ampliare e a riorganizzzare la carovana e a fare di tutto affinché le cose andassero come previsto. Il giorno della partenza era stanco morto e quasi fuori di sé, ma era riuscito a portare a termine tutti i propri compiti. Il viaggio da Tashbul al passo montano che li avrebbe condotti attraverso i Grandsuel fino alle antiche e desolate terre Suel fu relativamente tranquillo. Poi, dopo aver percorso poco più di novanta miglia in sei giorni tra praterie e terre aride, giunsero nel punto in cui sarebbero subentrate le guide ingaggiate da Bolt a Tashbul, che avrebbero accompagnato il gruppo al di là delle montagne. Il passo era tortuoso, ripido e ingannevole, e per attraversare un tratto di venticinque leghe in linea d'aria dovettero coprire una distanza doppia, dovendo seguire i sentieri fra le rocce che costituivano l'unica via sicura tra i crepacci. Il viaggio fu reso ancor più difficile dai carri necessari a trasportare le attrezzature richieste da Obmi, ma dopo più di due settimane di cammino faticoso, pesante e difficoltoso fra le pietre, la comitiva arrivò nella zona in cui le rocce nude lasciavano il posto alla vasta distesa di sabbia e cenere che si allargava a sud, a est e a ovest, fin dove
l'occhio più acuto poteva arrivare. A quel punto la maggior parte del gruppo fece dietrofront; le guide montane non erano più necessarie, e neppure i carrettieri, in quanto i carri stessi avevano già eseguito il loro compito. Prima che la maggior parte del gruppo si congedasse per tornare verso nord, alcuni artigiani montarono gli oggetti che i carri avevano trasportato attraverso le montagne. Lavorarono giorno e notte mentre Obmi camminava su e giù rimuginando; a volte ispezionava i lavori, ma più spesso trascorreva il tempo all'interno della propria tenda. All'alba del secondo giorno Bolt si recò da Obmi, che aveva appena finito di fare colazione, e lo condusse gentilmente fuori. «Eccola, nobile Obmi, fedelmente ricostruita dai disegni che mi sono procurato a Gastoor» disse lo stregone, senza tentare di nascondere il proprio orgoglio. L'oggetto indicato dallo stregone era una sorta di nave che poggiava su quattro ruote cilindriche; le ruote erano state ricavate dalla pelle di larve di coleotteri giganteschi, nativi delle lussureggianti valli semitropicali che si estendevano ad ovest di Tashbul. Le larve erano state trasportate dalla città ai margini del Deserto di Cenere, assieme ai pezzi smontati della nave, per costruire un mezzo di trasporto unico nel suo genere. Le pelli erano state tagliate nella forma adatta e poi laboriosamente cucite assieme; le cuciture a loro volta erano state sigillate con il calore e i cilindri ottenuti gonfiati per mezzo di mantici. Il corpo del veicolo, somigliante a un vascello, era stato riempito con provviste e attrezzature varie; nonostante assieme al gruppo viaggiasse un clerico eventualmente in grado di procurare provviste con la magia, era stato saggio portare anche cibo e acqua, perché sarebbe sempre potuto accadergli qualcosa. Il veicolo aveva una sola grande vela, non ancora spiegata, e nell'insieme dava un'impressione di incongruità e contemporaneamente di logica estrema, visto il «mare» che avrebbe dovuto solcare. Durante il soggiorno del gruppo a Ghastoor, Bolt era riuscito a scoprire alcune informazioni molto utili: addirittura un trattato su una spedizione condotta nel Deserto di Cenere, più di un secolo prima, da un saggio avventuroso. Quel coraggioso aveva tenuto un diario delle peripezie nella landa desolata, illustrato da disegni particolareggiati del vascello che aveva impiegato per completare il viaggio dal versante occidentale dei Picchi Inferno lungo le pendici dei Grandsuel. Lungo la strada aveva trovato città in rovina, aveva scoperto il regno montano di Zufon e infine era rientrato a casa.
Basandosi sui disegni e sulle informazioni scoperte, Bolt si adoperò per emulare l'impresa del sapiente ma anche per apprendere il possibile sul futuro del viaggio. La sopravvivenza veniva al primo posto, la conoscenza al secondo; e se anche non era diventato capo a causa di un qualche errore del Nano - ma ci sarebbero state fin troppe occasioni per rimediare in quella distesa di cenere vasta ed ostile - lo stregone avrebbe sempre potuto esigere lodi per aver fornito il veicolo che aveva portato al successo il campione della Demoniessa. Obmi naturalmente avrebbe sminuito qualsiasi suo contributo, ma Bolt si sentiva abbastanza in gamba da reclamare ciò che meritava al momento opportuno. Dopotutto non era affatto timido. «Sei certo, stregone, che i venti metteranno in moto questo marchingegno?» «I venti caldi vengono sempre da oriente, grande Nano. Ho osservato le stelle, e ci troviamo allo stesso grado di longitudine del luogo che cerchiamo, esattamente a nord delle rovine sepolte. Il vento tenterà di spingerci verso ovest, ma virando con cautela riusciremo a mantenere la rotta verso sud, proprio come farebbe una nave sull'oceano. Fra due settimane, al massimo tre, vedremo le torri diroccate della Città Dimenticata spuntare dal loro sudario di cenere.» «Lo dici tu. È ora di partire, dunque, e di accertarci della veridicità delle tue affermazioni». Detto ciò, Obmi fece un segno e i suoi uomini, una dozzina, si imbarcarono sul vascello. Alcuni di loro erano abituati ad andar per mare, e avrebbero insegnato agli altri ad attrezzare, issare ed ammainare la grande vela. A differenza delle navi normali, questa veniva pilotata da prua, e il Nano prese posto accanto al timoniere. Quando si fu messo a proprio agio, diede un segnale e la vela latina fu issata. Sebbene il vento non fosse molto forte, la tela si gonfiò e il sartiame cominciò a scricchiolare e a sibilare; in breve la nave prese a scivolare sulla superficie polverosa del Deserto di Cenere, mentre l'uomo a fianco di Obmi si sforzava di tenere il timone inclinato affinché il vascello mantenesse la rotta verso sud. «Bene» mormorò il Nano fra sé, quando fu persuaso che il marchingegno effettivamente funzionava. «I fallimenti sono inaccettabili, e se Bolt si fosse sbagliato, il suo fallimento sarebbe stato anche mio». Dicendosi che avrebbe dovuto tener d'occhio quello stregone intelligente e ambizioso, Obmi si apprestò a godersi il viaggio. Capitolo 10
«Sono sicura di poterlo usare» disse l'esile donna Elfo, mentre finiva di mettere la corda al piccolo arco. «Dammi un bersaglio qualsiasi e io lo colpirò.» Gord rimase impressionato dalla facilità con cui la fanciulla aveva approntato l'arma, in quanto il piccolo arco Yoli era fatto di corno, tendine e legno ed era piuttosto difficile da piegare. Rivolse lo sguardo al territorio che si stendeva di fronte a loro, e dopo un istante disse: «Ci sono tre gazzelle al pascolo in quel boschetto, vedi? Ad un centinaio di metri alla tua sinistra, Leda.» Il braccio le tremò per una frazione di secondo mentre incoccava la freccia e la tirava con facilità all'indietro fino a toccarsi la guancia con la penna, ma fu un attimo. Leda lasciò andare la freccia che partì secondo una traiettoria impossibile da seguire. Qualche secondo più tardi uno degli animali fece un balzo, e poi tutti e tre si diedero alla fuga. «Ecco fatto!» gridò felice la fanciulla. «Abbiamo rimediato la cena!» «Temo di no, Leda» obiettò Gord. «Non vedi come corrono?» «Certo, ma quella che ho colpito non andrà lontano. Vieni!» Leda balzò in sella al suo cavallo e si precipitò al galoppo nella direzione presa dalle gazzelle. Gord salì in groppa a Windeater e le fu al fianco in un batter d'occhio. «Stai attenta! Il terreno è troppo accidentato per tenere un simile passo!» Leda si limitò a ridacchiare e costrinse il cavallo ad accelerare ulteriormente. L'animale, cresciuto nella steppa, era veloce, ma non poteva confrontarsi con il corsiero di Gord, e la fanciulla lo sapeva. Tuttavia era entusiasmante galoppare a quella velocità, e ridere per l'eccitazione della gara. Leda fece di tutto per vincere, scegliendo la via più difficile affinché la velocità contasse fino ad un certo punto; sebbene non fosse troppo abile come amazzone, era audace ed atletica, e la sua aggressività compensava eventuali lacune in quel senso. «Prendimi, se ci riesci, lumacone!» gridò voltandosi indietro. Gord aveva trattenuto il proprio stallone in modo da poter osservare Leda nella sua corsa. Era un gioco pericoloso, e il giovane avventuriero temeva che potesse terminare in una disgrazia, ma sapeva allo stesso tempo che sarebbe stato inutile cercare di interrompere la gara; l'unica possibilità era quella di far rallentare Windeater in modo che il cavallo di Leda non potesse competere con lui, e tenersi a poca distanza per ogni evenienza. Dopo un centinaio di metri, Gord individuò la gazzella morta nello stesso istante in cui la fanciulla la indicava. «Hai vinto!» gridò. «Ho visto la pre-
da!» Leda fece rallentare il cavallo, balzò di sella quando l'animale si fermò a parecchi metri di distanza dalla preda e corse nel punto in cui questa giaceva. «Io l'ho uccisa, Gord, quindi tu la scuoierai e la preparerai per cena» disse tutta allegra al giovane, che si avvicinava a lei con qualche difficoltà. Brontolando con finto disappunto, Gord ubbidì; portò ben presto a termine l'incarico, e assieme alla fanciulla preparò un piccolo accampamento. Stava per calare la sera, e il luogo era adatto a trascorrervi la notte. «Che cosa ti preoccupa, fanciulla?» chiese Gord a Leda dopo che ebbero finito un ottimo pasto composto da selvaggina e bacche selvatiche. Da un po' ella aveva smesso di parlare e fissava tristemente le fiammelle del fuoco morente. «Hai mai sentito parlare di una tribù chiamata Al Crevad?» gli chiese, in risposta alla sua domanda. «No, ma non sono molto pratico delle regioni occidentali, Leda. Perché me lo chiedi?» «La mia situazione è molto preoccupante, Gord, non ti sembra? Quando mi hai salvato, una settimana fa, pensavo che la mia amnesia fosse soltanto temporanea, conseguenza della caduta e nient'altro. Leda è un nome grazioso e mi piace, ma non mi sembra vada bene.» Gord le sorrise rassicurante: «Su, su, una settimana non basta a riprendersi da una simile caduta, lo sai. Ancora qualche giorno e la memoria ritornerà.» «Spero che tu abbia ragione, Gord, ma la faccenda mi inquieta parecchio. Chi sono? Perché cavalcavo verso Karnoosh con un gruppo di Yoli? Dove si trova la mia gente? Sappiamo tutti e due che gli Elfi non praticano questi luoghi, ma io sono di sicuro un semi-Elfo. C'è qualcosa che non va, ne sono certa!» Gord in cuor suo era d'accordo, ma non intendeva rivelare i propri dubbi alla fanciulla. «Penso che troveremo tutte le risposte a Ghastoor, Leda. È da lì che proveniva la carovana attaccata dagli Arroden. Resto quindi del parere che dovresti lasciarti accompagnare laggiù.» «E ritardare la tua missione? Come potrei? Se è importante come mi dici, e io so che è la verità, sarebbe impensabile per me pormi al di sopra dei tuoi doveri». Il giovane fece per ribattere, ma la fanciulla lo zittì, aggiungendo in tono di velato rimprovero: «Inoltre, come ti ho già rivelato sono profondamente convinta di dovermi recare anch'io a sud; è probabilmente questo il motivo principale per cui mi sono unita alla carovana Yoli. Ho la
vaga sensazione di dover compiere una missione laggiù, proprio come te.» «Sono in gioco forze misteriose e bizzarre, Leda» disse Gord in tono serio, «ed è possibile che tu agisca per conto di una di esse, proprio come me. Dapprima dubitavo di te, lo ammetto, e quando ho visto la tua abilità nel maneggiare la spada e il pugnale i miei dubbi sono diminuiti soltanto di poco. Ora che abbiamo passato una settimana assieme in queste aride pianure, Leda, ho capito le tue innegabili capacità di sopravvivenza, e la tua necessità di proseguire con me». Il giovane tacque e rifletté per qualche minuto. «Sono d'accordo con te» continuò. «Tu, anzi noi dobbiamo fare il possibile per farti tornare la memoria. Se anche tu hai una parte in questa faccenda, nella tua mente devono celarsi alcune conoscenze che potranno aiutarci a vincere.» Leda rispose con altrettanta franchezza: «Sì, Gord, lo so. È per questo che ti ho parlato degli Al Crevad; quel nome mi è salito spontaneamente alle labbra. Ma forse la parola giusta è El Cravad... beh, non importa. Penso di appartenere... a una tribù segreta che ha tenuto nascosta la propria esistenza ai nomadi selvaggi che la circondano. Io... noi... siamo un popolo prudente che deve rimanere costantemente all'erta, poiché le pianure intorno a noi brulicano di nemici. Sì!» gridò la fanciulla eccitata. «Ne sono sicura. Forse vengo dalle montagne del sud, dal luogo in cui ci stiamo recando. So che quelle alture vengono chiamate Grandsuels, e il pensiero dei monti mi rassicura, mi fa sentire a casa.» «Ottimo! Probabilmente significa che ti stai riprendendo. Una buona notte di sonno ti aiuterà, ne sono certo. Ora vieni a dormire, Leda, tocca a me montare la guardia. All'alba ti sveglierò, così preparerai i bagagli e la colazione mentre io dormirò un'oretta. Poi posso sempre appisolarmi in sella, tanto ci sono abituato» disse Gord in tono realistico. «E tra l'altro mi basta un sonnellino per sentirmi fresco e riposato» concluse, sorridendo. Dopo qualche protesta pro forma per quel trattamento di favore, Leda si avvolse nel burnus e si addormentò di colpo. Gord si allontanò leggermente dal fuoco e iniziò la sua ronda silenziosa intorno alla sporgenza rocciosa accanto alla quale si erano accampati. Avevano percorso un cammino molto lungo dalla notte in cui aveva estratto la ragazza da sotto il suo cavallo morto. Windeater non aveva trovato difficoltà a trasportarli entrambi lontano dal campo di battaglia, ma fortunatamente non aveva dovuto durare tanta fatica per molto. All'alba del giorno seguente si erano imbattuti in un cavallo sellato che pascolava pacifico accanto al proprio cavaliere defunto.
L'animale aveva accettato volentieri la fanciulla semi-Elfo e le armi dello Yoli morto le avevano fornito l'occorrente per proteggersi. Il guerriero era piuttosto minuto, e Leda aveva indossato la sua armatura con la naturalezza di un veterano. Si era poi impadronita delle armi e le aveva provate, dimostrando nel maneggiare la scimitarra e il pugnale una dimestichezza che aveva fatto capire a Gord di non trovarsi di fronte a una cortigiana o a una dama. «Ma chi sei e che cosa fai nella vita?» le aveva chiesto. La domanda aveva sconcertato la ragazza, che si era quasi lasciata prendere dalla disperazione quando si era accorta di non saper rispondere. «Non... non lo so!» aveva gridato. «Che cos'ho? Se solo mi chiedo come mi chiamo, chi sono e da dove vengo, mi fa male la testa e lo stomaco mi si contrae». Nel dire ciò barcollava, e Gord aveva dovuto precipitarsi a reggerla per impedirle di cadere svenuta. «Non preoccuparti di questo, ora» le aveva detto in tono rassicurante, aiutandola a sedersi. «Per ora è importante che tu sia viva. La memoria tornerà presto.» Quel giorno Gord le aveva elencato una serie di nomi mentre cavalcavano, e quando era arrivato a quelli che iniziavano per L, la fanciulla aveva dimostrato un maggiore interesse; il giovane poi aveva pronunciato il nome Leda, che gli piaceva particolarmente, e la fanciulla aveva detto che poteva chiamarla così, almeno finché non le fosse tornato alla memoria il nome vero. Nei giorni seguenti Gord aveva sempre cercato di aiutarla a ricordare, ma il procedimento era lungo e presentava aspetti bizzarri. Leda sembrava in grado di sfruttare le proprie capacità acquisite di fare ciò che doveva fare, ad esempio cavalcare, maneggiare armi, tirare con l'arco; era tuttavia sconcertante vedere come il ricordo delle varie capacità la metteva a disagio, pur nel piacere che le procurava il ritrovare qualche elemento su di sé. Il nome «Leda» le piaceva e la disturbava allo stesso tempo, e lo pronunciava come se fosse stato un'eco del suo vero nome. All'inizio, inoltre, l'uso delle armi del guerriero le procurava una certa agitazione e addirittura il mal di testa, come se quella dimestichezza avesse potuto evocare altri ricordi; e persino il cavalcare a volte la turbava. «Sei il semi-Elfo più forte che io abbia mai visto, Leda» aveva osservato Gord una volta. La fanciulla si era arrabbiata moltissimo, e sembrava soprattutto offesa per il termine «semi-Elfo», anche se poi aveva ammesso di non capire il motivo di quell'irritazione. «Ti chiedo perdono, fanciulla, ma
nei miei viaggi ho conosciuto molti Elfi e semi-Elfi» aveva proseguito Gord. «E anche quelli con i capelli scuri hanno la pelle chiara. Ma gli Elfi occidentali devono appartenere ad una razza unica, a quanto si può vedere dalla tua carnagione scura e dai capelli chiari.» «Essendo figlia di due razze, Gord» aveva ribattuto la fanciulla seccamente, «non potrei aver ereditato il colore scuro della pelle dai Bakluniani?» «Non hai né la sfumatura olivastra né il naso imponente dei Bakluniani... ma suppongo che potrebbe essere come dici. In ogni caso hai i lineamenti più da Elfo che da essere umano». Dopo di che avevano parlato d'altro e non erano più tornati sull'argomento. Ora, riflettendo sui discorsi e sugli avvenimenti più recenti, a Gord sembrava probabile che Leda avesse ragione sulle proprie origini, in quanto maneggiava le armi Bakluniane con abilità, come aveva dimostrato usando l'arco il pomeriggio precedente. In ogni caso Gord era felice di essere in sua compagnia; Leda, infatti, oltre ad essere molto graziosa, era capace e forniva un innegabile contributo alla missione. Fino a quella stessa notte aveva montato anche lei di guardia, con un coraggio degno di un uomo, e la sua vista da Elfo si era dimostrata utile soprattutto al buio. I consueti carnivori notturni si aggiravano nella zona mentre Gord faceva da sentinella, ma nessun animale era tanto feroce da non lasciarsi scoraggiare dal focherello, da un po' di rumore o da un colpo di fionda ben assestato. Quando il cielo si rischiarò leggermente verso oriente, Gord si recò dalla fanciulla addormentata, che si svegliò immediatamente al suo leggero tocco e si mise di guardia mentre il giovane si addormentava di sasso. Leda lo lasciò dormire più di quanto avesse voluto, ritenendo che potessero benissimo permettersi un'ora di riposo in più; poi si inginocchiò accanto a lui e gli diede un colpetto nelle costole. «Sveglia, dormiglione» gli disse in tono allegro. «Il sole è sorto da due ore e tu sei ancora a letto! La colazione è pronta e i cavalli sono sellati. Rinfrescati e mangia, così possiamo metterci in cammino.» Gord si girò per alzarsi in piedi, ma proprio in quel momento scorse diverse macchioline all'orizzonte, in direzione nord. Mentre le faceva notare anche a Leda, era già in piedi e pronto a prendere le armi; tutta la stanchezza si era dissolta, fugata dal flusso di adrenalina. I due montarono a cavallo e si alzarono entrambi in piedi sulle staffe per avere una visione migliore; quattro, no, cinque cavalieri si dirigevano al trotto verso il loro
accampamento, che tuttavia permetteva una facile difesa, in quanto la sporgenza rocciosa e i cespugli fornivano un buon riparo. Leda preparò le otto frecce che le rimanevano nella faretra e Gord scelse otto belle pietre per la fionda nella borsa che portava alla cintura. «Farò loro cenno da lontano, e vedrò se sono disposti a parlamentare» disse alla ragazza. «Se saranno ostili o si dimostreranno in malafede, scaglia le tue frecce contro il mio interlocutore, poiché sarà il capo.» Leda annuì e controllò nuovamente l'arco, la corda e le frecce. Quelle migliori sarebbero state usate per prime, dovendo coprire una traiettoria più lunga; in caso di battaglia, invece, le frecce con la penna rovinata o l'asta leggermente curva sarebbero servite per gli scontri ravvicinati. «Buona fortuna, Gord» gridò la fanciulla, mentre il giovane si arrampicava sulla sporgenza per farsi vedere dai guerrieri in avvicinamento. Gli uomini avvolti nel burnus misero immediatamente i cavalli al passo, non appena videro Gord in piedi sulla roccia con una mano alzata. Il giovane rimase immobile in quella posizione per circa un minuto, mentre i guerrieri continuavano ad avanzare affiancati. A circa trecento metri di distanza, i cinque cavalieri si fermarono e si riunirono per qualche istante a discutere fra loro. Poi uno di essi si staccò dal gruppo e si avvicinò a Gord, tenendo il cavallo al passo e la lancia puntata verso il cielo. Sperando di impressionare gli stranieri, Gord saltò giù dalla roccia con un balzo di circa quattro metri. Atterrato sull'erba secca sottostante, rotolò su se stesso, si alzò in piedi e si diresse a passo di corsa verso il guerriero, in una sequenza di movimenti estremamente fluida. Il nomade si alzò sulle staffe mentre il giovane avventuriero gli si avvicinava, fissandolo sbalordito dopo l'insolito spettacolo a cui aveva appena assistito. Quando Gord fu a circa venti metri da lui, il guerriero abbassò la lancia, come per fargli capire che avrebbe fatto meglio a restare dove si trovava. «Sono Achulka Aka Saufghi, della tribù di Al Illa-Thuffi» gridò l'uomo. «E tu chi sei, forestiero?» «Coloro che mi chiamano compagno mi hanno dato il nome di Pharzool» rispose Gord. «E gli Arroden ti danno forse qualche nome particolare?» «Forse negli Inferi» replicò il giovane, sputando mentre pronunciava quelle parole. Il nomade fissava insistentemente la collana di Gord, il gioiello accompagnato dai braccialetti d'argento di cui si era impadronito nel corso del suo attacco solitario ai guerrieri velati. «Hai preso quei bracciali d'argento
ai guerrieri velati?» chiese il nomade. Gord giocherellava soprappensiero con la collana e i braccialetti, senza mai distogliere lo sguardo dal cavaliere che gli stava di fronte. «Beh, ne avevo molti di più sotto la spada» disse con espressione impenetrabile, «ma ho preso solo questi per ricordo»: Achulka sollevò la lunga lancia in modo che la punta, ornata di nappine gialle, si trovasse ben sopra il capo di Gord. Poi, con un movimento lento e cauto, la puntò nuovamente verso il basso, conficcandola in terra vicino alla propria gamba. A ciò, i suoi quattro compagni iniziarono lentamente ad avvicinarsi. «Ora parliamo in pace, Farzeel il Forestiero. Puoi dirlo anche ai tuoi compagni, poiché non vogliamo scontri nemmeno per sbaglio.» «Dirò alla mia donna di raggiungermi, ma un altro dei miei resterà indietro finché non vedremo se dici la verità, guerriero degli Al Illa-Thuffi. E il mio nome è Pharzool» aggiunse. Poi girò leggermente il capo e gridò: «Leda, prendi l'arco e raggiungimi!» Lo scuro Achulka rise di cuore, mostrando i denti bianchi in un sorriso sincero: «Sì, Leone di Montagna Grigio... Farzeel è senz'altro un nome adatto a te. Perché mai sbagliarne la pronuncia come fanno quelli del nord? E perché fingere di essere in tre mentre siete soltanto in due?» Allora toccò a Gord ridere. «Più che giusto, uomo degli Al Illa-Thuffi. Ti saluto come amico e ti chiedo per quale motivo vuoi parlare con me e la mia donna.» Gli altri quattro guerrieri raggiunsero il capo proprio mentre Leda raggiungeva Gord, con arco e freccia sollevati e gli occhi socchiusi. Achulka, nel vederla bene per la prima volta, alzò le sopracciglia e fischiò come un falco, in omaggio alla bellezza bizzarra ma sconvolgente della fanciulla. Leda fu irritata ma anche compiaciuta da quella scena, e abbassò l'arco, prendendolo con noncuranza nella mano sinistra, assieme alla freccia. Achulka smontò da cavallo, imitato dai compagni, che si allargarono alle sue spalle in una schiera rudimentale. Mentre parlava con Gord, il capo continuava a guardare la fanciulla. «Ora capisco perché sei tanto fiero. Anch'io sarei un leone, se avessi una donna come questa. Non indossa forse un abito Yoli? Lo riconosco, come le armi che porta. Chi dei due li ha sottratti a quei cani?» Leda rispose senza la minima esitazione: «Sono stata io. con le mie mani. Quello che indossava questa cotta e brandiva queste armi ora è cibo per gli avvoltoi.» A ciò Gord annuì, il volto una maschera impassibile. La donna parlava
con tanto fervore che fece uno sforzo per non scoppiare a ridere. Naturalmente diceva la verità! «Ora dobbiamo discutere fra noi» disse Achulka, indicando i compagni per far capire chi intendeva con «noi». «Avrei una proposta, ma prima devo prendere accordi con i miei fratelli.» Gord non voleva aspettare che i nomadi decidessero sul da farsi. «Noi siamo diretti a sud» disse, senza tanti giri di parole. «Se vorrete dirci qualcos'altro, ci troverete da quella parte. Leda, prendi i cavalli. Addio a voi, uomini di Al Illa-Thuffi». Mentre Leda tornava verso l'accampamento, Gord rimase di fronte ai nomadi, mantenendo una posa vigile ma non minacciosa, con le gambe leggermente divaricate e le mani sui fianchi, vicine alle armi. I cavalieri alle spalle di Achulka sembrarono sorpresi a quell'affermazione, e diversi sguardi torvi si incrociarono mentre le mani andavano all'elsa delle spade. Il capo si girò verso di loro sibilando qualcosa, e i quattro si ricomposero. «Molto bene, Farzeel» disse dopo qualche istante, irrigidendo le mascelle. «Se ci andrà di parlare ancora con te e con la tua donna-guerriero, ti cercheremo a sud. A dire il vero anche noi siamo diretti da quella parte, ma non partiremo prima di aver preso accordi.» Gord guardò uno alla volta tutti i guerrieri, senza sorridere, ma anche senza sfidarli. Lo fece semplicemente per ricordarsi il loro volto anche in seguito, se fosse stato necessario. Tutti i guerrieri distolsero lo sguardo da quello del giovane avventuriero dopo pochi istanti, fatta eccezione per Achulka, l'ultimo che Gord guardò; il capo, infatti, ricambiò con uno sguardo calmo ma fermo. Gord ruppe il silenzio dicendo: «Se verrete, venite in pace». Poi girò sui tacchi e seguì Leda nel luogo in cui erano legati i cavalli. Non pensava che i cavalieri potessero attaccarlo alle spalle, e infatti, quando raggiunse la sporgenza rocciosa e si voltò indietro, li vide seduti tutti e cinque in circolo, evidentemente impegnati in una conversazione. Gord e Leda cavalcarono per la maggior parte della giornata. Il giovane stava particolarmente all'erta, guardandosi furtivamente alle spalle quando pensava che la fanciulla non potesse vederlo. Dopo aver trottato per un po' verso sud, Gord deviò leggermente verso est e incitò il cavallo al piccolo galoppo. Leda non aveva bisogno di spiegazioni per capire che la mossa aveva lo scopo di ampliare la distanza tra loro e i cinque nomadi. La distanza e la velocità erano importanti, ma non a costo di danneggiare i cavalli, quindi di tanto in tanto Gord e Leda smontavano e camminavano per brevi tratti, permettendo così ai cavalli di riposare. Questi facevano
qualche boccone di erba dura mentre camminavano, e anche Gord e Leda mangiarono per strada. In questo modo riuscirono a proseguire senza soste, ma a metà pomeriggio la fatica incominciò a farsi sentire per Gord, che non era riuscito a sonnecchiare in sella come avrebbe voluto. «Per quanto ancora puoi farcela, Gord?» chiese Leda, con espressione sinceramente preoccupata. Il giovane le sorrise. «Per il resto della giornata e anche per questa notte, se sarà necessario, fanciulla. Non dovremo tenere questo passo per molto ancora. Comincio a pensare che probabilmente i nomadi non ci disturberanno, ma la prudenza non è mai troppa.» A ciò, la fanciulla semi-Elfo sembrò momentaneamente sollevata, ma poi un altro pensiero le attraversò la mente. «È per me che sei così prudente, vero?» disse. «Achulka sembrava molto interessato alla mia persona, quindi pensi che lui e i suoi compagni tenteranno di rapirmi.» Gord effettivamente aveva pensato anche a una simile eventualità, ma desiderava soprattutto mettere una certa distanza fra loro due e i cinque cavalieri: era certo che volessero qualcosa da lui e dalla sua compagna, e non vedeva alcuna utilità nello sfidare il destino. «Non voglio offenderti, Leda» disse Gord, «ma oltre alla tua innegabile bellezza esotica abbiamo anche cavalli, armi e altri beni preziosi per cui la maggior parte di quei nomadi non esiterebbe ad uccidere. Prima che potesse vederti da vicino, infatti, il capo mi sembrava molto interessato a questi bracciali d'argento» fece il giovane, indicandosi il petto. «Quindi sono molti i motivi per cui ho voluto che ci affrettassimo. Meglio essere lontani da possibili amici che vicini a dei nemici.» «Se è così, dovremmo cominciare a cavalcare» disse Leda con un sorriso forzato, voltandosi e montando in sella. «Ma dimmi una cosa, Gord: che cos'è più importante per te, io o il tuo stallone?» Senza attendere risposta, si allontanò al piccolo galoppo e poi si lanciò in un galoppo vero e proprio. Il giovane avventuriero si mise subito al suo inseguimento, e Windeater la raggiunse quasi subito. «È una scelta difficile!» gridò Gord, affiancando la giovane donna. «Tu sei più carina, ma il cavallo è più malleabile e non è così impulsivo». Leda gli sorrise dolcemente ed entrambi riportarono i cavalli al passo, trascorrendo le due ore seguenti in un piacevole silenzio. Gord non aveva più tanta fretta, e riuscì a dormire per qualche minuto mentre Windeater seguiva l'altro cavallo. Nel tardo pomeriggio Gord e Leda si guardarono contemporaneamente alle spalle dopo essere arrivati in cima ad una piccola altura, ed entrambi
videro le stesse sagome dirigersi verso di loro di buon passo, a meno di un miglio di distanza. «Sembra che ci seguano, Gord» disse Leda. «Che cosa facciamo?» «Facciamola finita una volta per tutte» rispose Gord, e smontò da cavallo, imitato dalla fanciulla. «Odio essere inseguito, anche senza cattive intenzioni. Aspetteremo qui, pronti tuttavia a nasconderci dietro questo pendio se i nostri inseguitori mostreranno gli archi. Nel frattempo tira fuori le frecce per quel tuo arco e cerca di disarcionarne un paio prima che gli altri si avvicinino. A quel punto io potrò occuparmi tranquillamente di due di loro, se tu penserai al terzo.» «Oh, che uomo!» sbottò Leda in tono di finto rimprovero, mentre incoccava una freccia. «Forse tu ti occuperai di uno mentre io penserò agli altri due. Vedremo presto come andrà a finire; vuoi fare una scommessa?» Proprio in quel momento i cavalieri al galoppo rallentarono la corsa, vedendo che i due inseguiti si erano fermati. Quand'erano ancora fuori portata dall'arco di Leda, una figura si staccò dal gruppo e si avvicinò al trotto: naturalmente si trattava di Achulka. La fanciulla sollevò l'arco e mirò all'uomo, pronta a colpire se lui o gli altri avessero fatto qualche mossa minacciosa. Il guerriero arrivò ad un centinaio di metri di distanza e gridò: «Non scagliare le tue frecce, donna-guerriero. Veniamo in pace per offrire le nostre spade a te e Farzeel!» «E ci avrebbero seguiti fin qui solo per questo?» chiese Leda, scettica. «Mmm... ne dubito anch'io, fanciulla» replicò Gord, gridando quindi le proprie condizioni al nomade che si avvicinava: «Se dici il vero, fa avvicinare i tuoi uomini; poi lasciate i cavalli e venite qui a piedi, disarmati»: Achulka smontò immediatamente, poi fece cenno ai compagni di raggiungerlo. Poco dopo, quattro degli Al Illa-Thuffi si diressero verso Leda e Gord, mentre il quinto era rimasto indietro a badare ai cavalli. Gli uomini avevano lasciato gran parte dell'equipaggiamento, ma Gord vedeva bene che non erano disarmati. Era lì lì per dire a Leda di colpire quando Achulka, ad una quarantina di metri da loro, si fermò assieme al gruppo e parlò nuovamente. «Sei prudente, ma noi lo apprezziamo» disse il capo dal volto aquilino. «Abbiamo deposto gli archi e le lance, ma abbiamo ancora le spade». Achulka estrasse il suo tulwar e lo prese orizzontalmente con entrambe le mani, come a volerlo offrire. «Se ci prometterai soltanto due cose, saremo i tuoi uomini.» Gord attese senza parlare e Achulka interpretò il suo silenzio come un
assenso a proseguire il discorso. «Prima di tutto chiediamo di avere la nostra parte di bottino quando ci scontreremo con dei nemici» disse. Gord annuì e fece un sorrisetto che il nomade non avrebbe comunque potuto vedere. Sembrava proprio che quei guerrieri parlassero seriamente, poiché le loro richieste erano senz'altro ragionevoli. «Si può fare» ammise, senza sbilanciarsi troppo. «Secondo: ti chiediamo che alla fine del nostro servizio tu ci consegni i bracciali Arroden che porti come trofeo.» A ciò, Gord sorrise nuovamente, con espressione leggermente beffarda. «Così farete credere di averli sottratti agli Arroden?» azzardò. «Mai!» esclamò Achulka in tono ferito. Mentre continuava a parlare, si avvicinava lentamente a Gord, tenendo sempre la spada davanti a sé. «Mi addolora, Farzeel, che tu abbia così scarsa stima dei guerrieri di Al IllaThuffi, ma ti perdono perché sei forestiero. Tu non comprendi il valore dei braccialetti che porti solo per ornamento; non sai» disse il guerriero in tono serio, «che ciascuno di essi contiene potenti incantesimi per proteggere la vita e guidare il braccio di chi li indossa?» Il capo dei nomadi si arrestò, aspettando risposta. Invece di far notare che l'Arroden defunto, al quale erano appartenuti in precedenza quei pezzi di metallo, non ne aveva tratto grandi vantaggi, Gord incrociò le braccia in un gesto di pace e rimase in silenzio per qualche istante. Poi disse al nomade avvolto nel burnus: «Noi siamo diretti verso i Picchi di Grandsuel.» «Al di là non c'è altro che il Deserto di Cenere» lo informò Achulka. «È lì che abbiamo intenzione di andare» ribatté Gord. Il nomade alzò le spalle e poi disse: «Che la pioggia cada su di noi, allora, quando ci troveremo laggiù.» «Sareste disposti a rischiare la vostra vita laggiù per questi ciondoli che indosso?» «Non solo per quelli. Siamo già stati un paio di volte fra la sabbia e la cenere, Farzeel, e sappiamo che laggiù si possono trovare molte cose» concluse Achulka con un sorriso d'intesa. Leda posò la manina sulla spalla di Gord. «È inutile stare lontani da questi astuti guerrieri» gli sussurrò. «Dovremmo accettare i loro servigi, invece di lasciare che ci seguano per tutta la strada, fino a destinazione.» Gord rifletté solo per qualche attimo; in realtà aveva già deciso ancor prima che Leda parlasse. «Le vostre condizioni sono accettabili» gridò. «Potete unirvi a noi.»
Ben presto tutti e sette cavalcarono assieme sul terreno arido e piatto, verso la lunga linea frastagliata di picchi che si intravedeva all'orizzonte a sud. Due giorni dopo si diressero verso est lungo le pendici dei Grandsuel, viaggiando parallelamente ad essi mentre Achulka continuava a perlustrare il territorio alla loro destra. Il nomade affermava di conoscere una via attraverso le montagne, e Gord non aveva ragione di dubitare delle sue parole, quindi lo seguiva. Alla fine Achulka lanciò un grido di giubilo e si irrigidì sulla sella. «Ecco, vedi quella grande roccia che somiglia ad un pugno con il pollice sollevato?» chiese a Gord, indicando a sud-est il punto di riferimento che aveva appena individuato. Quando Gord e Leda annuirono, il nomade sorrise pieno d'orgoglio. «Ma che ce ne importa di quella strana roccia?» chiese Leda in tono caustico. «È l'imbocco di un passo che soltanto noi Thuffi conosciamo; tutti gli altri pensano che esista una sola via per raggiungere il deserto al di là dei Grandsuel!» si vantò il guerriero. In effetti trovarono il passo ed iniziarono a valicarlo. Gord espresse la propria sorpresa al vedere delle torrette costruite sulle colline, e Achulka spiegò che erano state costruite per difesa e venivano usate dalla sua gente in piena estate, quando la siccità più tremenda colpiva la steppa, anche se a volte cadeva qualche goccia di pioggia e molto spesso la foschia velava le pendici dei Grandsuel. In quella zona veniva allevato il bestiame e si coltivava qualche piantagione. In quei periodi tuttavia gli Hokrodden, un ramo meridionale dei feroci cammellieri Arroden, compivano le loro scorrerie nel territorio Thuffi. A volte, narrò Achulka a Leda e Gord, le torri di guardia erano questione di vita o di morte per la sua gente; ora tuttavia quelle costruzioni di mattoni di fango erano disabitate, poiché la calura estiva non aveva ancora raggiunto il culmine. Il gruppetto vi passò accanto e iniziò a salire lungo la gola che prendeva il nome di Passo del Pugno Chiuso. Impiegarono due giorni a raggiungere il punto che, a quanto dicevano i nomadi, si trovava circa a metà strada. Si trattava di una valletta verdeggiante, e da là, si potevano scorgere mura ed edifici di pietra in alto sui fianchi dei monti. «Chi vive lassù?» chiese Leda. «I Chepnoi. Sono montanari, gente strana» fu la risposta di Achulka. «Riesci a credere che siano nostri cugini? Che un qualsiasi Al Illa-Thuffi abbandoni cavalli e steppe per scegliere una vita simile, stentata e monotona, è davvero incredibile. Ci scambiamo visite in piena estate: essi vengo-
no da noi nel mese del cinghiale, mentre noi veniamo quassù al tempo dello scoiattolo. Entrambi i popoli concludono buoni affari. Tra quattro lune la valle sarà piena di gente, di montanari e di uomini della mia tribù impegnati a commerciare e a contrattare. Devo ammettere che i Chepnoi hanno alcuni pregi» disse il nomade in tono sincero. Nella loro valle producono un ottimo vino, e conoscono anche le terre della sabbia! «Che cosa intendi dire, Achulka?» chiese Gord. «E non parlo del vino, ricorda!» «Questi montanari sono abituati a camminare, quindi non trovano difficoltà a farlo nemmeno nel Deserto di Cenere. Sono stati proprio loro ad insegnarci l'importanza di quei luoghi, portando per primi agli incontri con il nostro popolo oggetti trovati nel deserto.» «E ora i Thuffi si recano anch'essi spesso fra la cenere?» chiese la fanciulla semi-Elfo. «Beh non molto spesso» ammise Achulka, «ma mio zio c'è stato ed è tornato con una grossa moneta d'oro ed uno scudo di bronzo come prova della sua visita.» Mantenendo il discorso su quell'argomento, i viaggiatori smontarono da cavallo e si accamparono su un prato ombroso poco fuori dal sentiero che conduceva al villaggio più vicino. In pochi giorni avrebbero raggiunto il deserto, ma ciò che cercavano era ben più importante delle monete d'oro o degli scudi di bronzo. Capitolo 11 Nessun Chepnoi era disposto ad unirsi alla spedizione nel deserto, non dopo che Gord aveva rivelato ai guerrieri montanari che il viaggio li avrebbe portati fuori della vista dei Grandsuel. «Sarebbe la morte, Leone Grigio» disse in tono solenne il capo Chepnoi. «Anche se rimani in vicinanza delle montagne, una tempesta può seppellirti vivo in pochi minuti. Allontanarsi troppo dai picchi significa stuzzicare la morte in molti modi; finiremmo di sicuro soffocati dalla cenere: infatti non passa settimana senza che il vento faccia mulinare la polvere in un turbine abrasivo.» A quel punto Achulka prese la parola e cercò di svergognare i fratelli montanari: «Avete robuste coperte di seta e bastoni cavi per risolvere questo problema. Che cosa sarà un po' di sabbia quando vi sarete rifugiati al sicuro proprio sotto quella sostanza che tanto temete? Troveremo sicuramente acqua a sufficienza, e anche molti tesori! Le vecchie e i ragazzini
potranno forse temere i pericoli del Deserto di Cenere, ma voi non siete guerrieri Chepnoi?!» «Preferiamo vivere per poter combattere, grazie» rispose laconico il capo, senza nemmeno prendere come un insulto l'osservazione del nomade. «Tutti evitano l'interno del Deserto di Cenere, tranne i pazzi.» «Dunque noi, uomini dei Thuffi, e Farzeel e la sua donna siamo dei pazzi» disse Achulka con un ghigno. «Sì» fu tutto ciò che il capo Chepnoi ebbe da dire. La discussione era terminata. I montanari non accettarono di unirsi a loro, ma collaborarono in altri modi. In cambio di una somma di denaro, fornirono ai viaggiatori provviste e attrezzature che li avrebbero aiutati a sfidare la sabbia e la cenere, e permisero a Gord di fare una copia della loro mappa incompleta del Deserto di Cenere, che indicava approssimativamente alcune delle caratteristiche più importanti della regione e la localizzazione della Città Dimenticata. Gord non aveva modo di sapere se questo dato fornito dalla mappa - o anche gli altri - fosse accurato, ma immaginava che anche un'informazione vaga fosse meglio di niente. Gord e Leda rimasero calmi e fiduciosi nonostante le parole scoraggianti del capo Chepnoi, ma i nomadi Thuffi si incupirono. Anche se la prospettiva della ricchezza costituiva un buon incentivo, i racconti sulle tempeste micidiali e sulla morte in agguato narrati dai loro fratelli di montagna avevano inflitto un serio colpo al loro morale. Quando pagò in argento la roba avuta dai Chepnoi, Gord approfittò per distribuire anche ad ognuno degli Al Illa-Thuffi diverse monete, in pratica tutte quelle che gli rimanevano, riservandone una in più ad Achulka. Ciò riportò il buonumore fra i cavalieri della steppa, ma soltanto per un breve periodo. «Perché non ci limitiamo a saccheggiare le rovine che si trovano ad est?» suggerì Achulka, indicando una località segnata sulla mappa. «Sappiamo che in quel luogo si celano molte ricchezze, che il viaggio per raggiungerlo non presenta eccessivi pericoli e che possiamo tenere facilmente d'occhio le montagne per tutto il percorso.» Gord, che non era d'accordo con quel piano, disse: «Quelle rovine devono essere state visitate da molti nel corso degli anni, ma dove intendiamo arrivare noi due i tesori sono ancora intatti». Non lo sapeva per certo, ma voleva infiorare un po' la verità per tenersi stretti Achulka ed i suoi uomini; ora che, grazie alle parole dei Chepnoi, sapeva cosa avrebbe dovuto affrontare, infatti, gli sembrava improbabile riuscire nell'impresa solo assie-
me a Leda, senza l'aiuto dei nomadi. Achulka non era dell'umore giusto per obiettare. Scosse la testa e si sedette con le labbra serrate e con le braccia incrociate sul petto. Gord tentò di provocare il capo Thuffi proprio come questi aveva fatto con il collega Chepnoi: «Se voi cinque non volete più quelle ricchezze e avete deciso che gli amuleti Arroden che indosso non hanno più potere, forse dovreste rimanervene a casa al sicuro con... i paurosi.» Achulka abbassò lo sguardo in silenzio, sempre più cupo col passare dei minuti. Era chiaro che l'uomo non si sarebbe lasciato fuorviare da una tattica che non aveva funzionato quando egli stesso l'aveva sperimentata. La situazione sembrava senza via d'uscita... ma ad un tratto Leda parlò. «Conosco soltanto un tipo d'uomo peggiore del codardo» disse in tono aspro, «l'ipocrita. Ti ho sentito circuire ed insultare il capo di quei montanari, e va bene; ma ora con la tua inerzia ti dimostri nient'altro che un guscio vuoto che sputa parole ma non contiene alcuna sostanza. È facile parlare di coraggio, non è vero, Achulka?» Non occorse altro. Le parole sferzanti di Leda, unite all'attrazione e all'ammirazione che provava per lei fecero cambiare idea al capo nomade, che sollevò la testa per incontrare lo sguardo d'acciaio della fanciulla, e poi ebbe una breve conversazione sottovoce con i compagni. Quando rivolse nuovamente lo sguardo a Leda, i suoi occhi manifestavano un insieme di rispetto e irritazione. «Sono contento di non aver mai conosciuto nessuno del tuo popolo, donna-guerriero» disse Achulka seccamente. «Se i vostri uomini combattono bene quanto immagino tu sia in grado di fare e hanno la lingua altrettanto tagliente, sono di certo più temibili di un'intera banda di Arroden alla carica. Verremo, e che il destino sia clemente con tutti noi!» Gord fu preso un po' alla sprovvista. Con parole che non l'aveva mai udita pronunciare nemmeno lontanamente, quella fanciulla bella e misteriosa aveva ottenuto qualcosa che a lui non era riuscito. Ma chi era mai quella donna-guerriero? Dopo parecchi altri giorni di viaggio attraverso passi di montagna e lungo le distese rocciose e accidentate che delimitavano il Deserto di Cenere, i sette avventurieri si congedarono dai Chepnoi che li avevano accompagnati fin lì. Come parte dell'affare concluso, i montanari avrebbero badato ai loro cavalli e alle loro masserizie per tre mesi; dopo di che, se non fossero tornati, le loro cose sarebbero rimaste ai Chepnoi. Era un accordo più che onesto, viste le circostanze. Gord odiava doversi separare da Windeater,
ma quella landa polverosa non era posto per un cavallo, tantomeno per uno splendido stallone come lui. I viaggiatori indossavano tuniche e mantelli bianchi, che consentivano un miglior isolamento dal calore del deserto; ognuno portava le proprie provviste e il resto del materiale necessario in un grosso zaino e tutti indossavano strane scarpe piatte, fatte di strisce di pelle intrecciata tenute ferme da una cornice circolare di legno duro. Recavano inoltre un lungo bastone cavo con un puntale ad un'estremità e un tappo all'altra; tenendolo con il puntale verso il basso, serviva da sostegno per camminare; capovolgendolo, invece, si poteva sondare la profondità della sabbia. Le scarpe erano molto larghe e robuste, e distribuivano il peso di chi le portava su un'area piuttosto ampia, ma i Chepnoi avevano avvertito il gruppo dell'esistenza di zone in cui la polvere era talmente fine che neppure le calzature da deserto, così venivano chiamate, sarebbero state sufficienti a mantenere un uomo in superficie. Affondare significava morire soffocati in pochi istanti, poiché le minute particelle abrasive riempivano immediatamente orecchi, bocca e polmoni. Togliendo contemporaneamente il puntale e il tappo, tuttavia, il bastone che faceva parte del loro equipaggiamento poteva essere usato come respiratore, nel caso ci si ritrovasse sepolti dalla cenere. Però lo stratagemma funzionava soltanto se il malcapitato aveva il tempo di coprire entrambe le estremità del tubo con pezzetti di seta a trama fine, con la funzione di filtro. Nemmeno questo assicurava la sopravvivenza, ma anche una sola possibilità era sempre meglio di niente. Ognuno di loro inoltre portava una tenda molto simile a un bozzolo, voluminosa ma leggera, e assolutamente indispensabile. L'unico modo di sopravvivere a una violenta tempesta nel Deserto di Cenere era infatti nascondersi sotto la superficie, al riparo dal vento, altrimenti le particelle impazzite avrebbero strappato le vesti dal corpo e la carne dallo scheletro nel giro di pochi istanti. Il procedimento da seguire prescriveva di togliersi le calzature da deserto, infilarsi nel bozzolo assieme all'equipaggiamento e saltellare sulla sabbia polverosa, in modo da sprofondarvi gradualmente; in questa maniera il bozzolo arrivava a ricoprire tutto il corpo. Una volta al riparo sotto la superficie, entrava in gioco il bastone cavo, accompagnato da preghiere che la tempesta non accumulasse una duna di sabbia e cenere più alta dell'estremità del respiratore. Il calore era spaventoso, e sebbene all'inizio gli abiti bianchi non gli fossero piaciuti, Gord fu ben presto felice di averli indossati. I Chepnoi ave-
vano consigliato a Gord di condurre il suo gruppo lungo una via che non era la più breve per la Città Dimenticata, ma era senza dubbio la più sicura. Poiché il terreno dello scomparso Impero Suloise era molto ondulato, in alcuni punti lo strato di sabbia era abbastanza sottile, ma in altri era tanto profondo da non poter essere misurato, o addirittura attraversato. Il giovane seguì dunque il consiglio di dirigersi per un breve tratto verso est, tenendo le montagne a sinistra finché tutti non si fossero abituati a spostarsi sulla sabbia e ad affrontare gli altri aspetti negativi di quell'ambiente. Gord notò segni di vita nel deserto fin dall'inizio del viaggio; non era tuttavia sicuro di che cosa avrebbero trovato più in là. L'esistenza di strane piante e di forme di vita primitive ai margini del deserto gli facevano sospettare che le storie secondo cui la zona era totalmente disabitata non fossero molto attendibili. Quando raggiunsero una pozza d'acqua, il suo sospetto divenne certezza. Nel punto in cui l'acqua nerastra sgorgava per poi scorrere verso sud nel terreno sabbioso, cresceva una bassa vegetazione dal fogliame scuro. Qua e là, in qualche crepa o spaccatura del terreno, spuntavano alberi e altri tipi di piante dall'aspetto normale. «Si dice che i frutti delle palme dalle foglie coriacee siano gustosi» osservò uno dei nomadi, raccogliendo diversi pugni di baccelli duri e legnosi. «Mettiamoli in ammollo per un'ora e vediamo cosa succede.» Tutti seguirono il consiglio e poi si apprestarono a fare scorta d'acqua. Nell'acqua della pozza era sospesa un'infinità di particelle di cenere nerastra, ma bastò filtrarla con un pezzo di stoffa per ottenere un liquido limpido e potabile. L'acqua non sarebbe stata dannosa anche senza filtraggio, ma eliminando le particelle ci sarebbe stato più spazio nei contenitori. Tutti erano lieti di potersi riposare in un luogo relativamente comodo e di togliersi le calzature da deserto, anche se solo per poco. Mentre si concedevano un po' di relax, Achulka narrò a Gord e Leda un sunto del folclore della sua tribù riguardante la flora locale. «Gli alberi bassi che crescono nel punto in cui il ruscello scompare vengono chiamati 'alberi della visione mortale'» iniziò. «Masticando una foglia si avranno visioni e sogni strani e portentosi; due foglie possono uccidere e tre danno morte certa. Le piante verde scuro che crescono ai bordi dell'oasi le chiamiamo 'foglie grasse'. Se vengono strinate forniscono cibo, anche se sanno di cera e in quantità eccessive possono provocare mal di pancia. Le foglie sono coperte di peli che danno prurito e bruciori, ma il fuoco li elimina facilmente: basta stare attenti a non bruciare tutta la fo-
glia.» C'erano diversi tipi di cactacee, cespugli e varie altre piante, fra le quali vivevano numerose specie di insetti, piccoli uccelli, lucertole e topi saltatori. Tutti avevano colori intonati all'ambiente, dal grigio pallido al nero fuliggine. «Ci sono molte forme di vita, qui, Achulka» disse Gord, guardandosi intorno. «Perché dovrebbe essere tanto pericoloso spingersi all'interno? Chiunque sia a conoscenza delle caratteristiche di queste zone aride può sopravvivere facilmente.» «Non è proprio così, Farzeel. A sud, immediatamente al di là di questa zona rocciosa, lo strato di sabbia e polvere si ispessisce e non ci sono oasi come questa. Le tempeste e la sete possono uccidere facilmente chi si avventuri laggiù.» «Ma voi ci andrete» disse Gord, in parte come una lode e in parte come un dato di fatto. Il nomade alzò le spalle. «Tu e la donna-guerriero sembrate capaci e determinati, e potreste anche essere fortunati. La ricchezza mia e dei miei uomini ora è una questione di fato...» La conversazione fu interrotta da un urlo. Uno dei guerrieri Al IllaThuffi si era avvicinato a un gruppetto di piantine dalle foglie a strisce e dai frutti argentei per esaminarle, ma ad un tratto la sabbia si era smossa e l'aveva inghiottito come se si fosse trattato di sabbie mobili. Il suo grido aveva fatto accorrere gli altri, ma senza le scarpe speciali dovevano camminare cautamente per evitare di fare la stessa fine, e una volta giunti nel punto dell'incidente lo sventurato era già scomparso. «Povero Hammadan! Avrebbe dovuto stare più attento» gridò un altro nomade, sul cui volto scuro si leggeva chiaramente il dolore. «Non ho mai visto uno spettacolo più terribile! Torniamo indietro!» La tragedia fece sorgere tra i nomadi nuovi dubbi, contrastati da Gord e Leda con numerosi argomenti. Alla fine i quattro superstiti acconsentirono ad accompagnare la coppia più oltre, ma furono necessarie promesse di altro oro e gemme, e molte parole convincenti. I nomadi inoltre richiesero che, invece di prendere a sud, il viaggio proseguisse verso est lungo le pendici dei monti, in direzione di un'altra serie di rocce e colline dove, secondo la mappa di Gord, si trovava una nuova oasi. Una volta raggiunta quell'appendice rocciosa che penetrava nel Deserto di Cenere, avrebbero fatto rotta verso sud, ma solo quando si fosse reso strettamente necessario. Quella rotta probabilmente li avrebbe portati lontano dal punto in cui si pensava sorgesse la Città Dimenticata, ma Gord comprese che era più sen-
sato seguire le alture il più possibile. Inoltre, e soprattutto, i nomadi non avrebbero accettato altre alternative. Comunque la deviazione avrebbe permesso loro di fare esperienza di viaggi nel deserto e prima di allontanarsi dalle montagne avrebbero avuto la possibilità di fare scorta d'acqua. L'elemento più importante, però, era che il terreno circostante lo sperone roccioso sembrava offrire una via d'accesso relativamente agevole al cuore del deserto. In base alle informazioni fornitegli dai Chepnoi, il giovane avventuriero immaginava che da quella zona si estendesse verso sud una serie di colline. Ricordando i racconti dei montanari, Gord si era detto che la sabbia e la cenere si comportavano in un modo molto simile all'acqua; infatti scorrevano riempiendo gli avvallamenti e depositandosi in uno strato sottile sulle alture. E così i sei sopravvissuti si incamminarono verso est. «Se potessi, Gord, tornerei indietro immediatamente» disse quietamente Leda una sera. «Persino adesso che mi sono relativamente abituata, camminare su queste pianure mi sembra un suicidio.» Gord le passò un braccio attorno alle spalle. «Tu sfrutti le calzature da deserto molto meglio di me» disse, «e sei dura come il cuoio di cui sono fatte. Qualunque sia il motivo per il quale ti trovi qui, raggiungerai la meta. Ehi, fanciulla, persino la tua pelle si è scurita ed è diventata quasi parte del mondo nerastro in cui vaghiamo.» Leda gli si accoccolò accanto. «Lo so, Gord. Pur essendo coperta da questi abiti, divento sempre più scura in tutto il corpo. E ogni notte i miei sogni si fanno più vividi. Penso che presto ricorderò tutto, e ciò mi spaventa più di qualsiasi altra cosa». Detto ciò, Leda gettò le braccia al collo del giovane e lo baciò. «Mi starai vicino quando avrò bisogno di te?» «Naturalmente» rispose Gord, e ricambiò il bacio, dapprima con dolcezza e poi con crescente passione. Si allontanò da lei e la guardò negli occhi mentre proseguiva: «Per chissà quale ragione stabilita dal fato, io e te facciamo la stessa strada. Saremo insieme quando entreremo nella Città Dimenticata» la rassicurò in tutta sincerità. «Tu e io siamo compagni ed amici.» «E allora possiamo anche diventare amanti» disse Leda, accarezzandogli il volto e le spalle con le piccole mani mentre avvicinava le labbra alle sue in un lungo bacio. Ben presto la passione li vinse e fecero l'amore per lunghe ore meravigliose. Mentre giacevano insieme, Gord sentì Leda rabbrividire e poi scoppiare a piangere. «Che cosa c'è, amore mio?» le chiese, sinceramente preoccupato. «Ho fatto qualcosa...»
«Non essere sciocco Gord» disse Leda. Poi, sforzandosi di soffocare i singhiozzi, tentò una spiegazione: «È per me che piango! Che cosa devo fare? Ogni giorno qualcosa cresce dentro di me. In me c'è il male, un male spaventoso, lo sento! Tento di combatterlo ma, man mano che piccoli ricordi mi ritornano alla mente, l'ombra spaventosa che cova nel mio cervello si fa più potente. Sei il solo che possa impedirmi di perdermi nelle tenebre che vogliono inghiottirmi, Gord! Aiutami, ti prego!» Il giovane non sapeva che cosa dire, ma tentò di consolarla: «Ti vedo ogni giorno, Leda, e non sei più malvagia di qualsiasi altra persona, essere umano, Elfo o che altro. Anzi, sei più generosa e gentile e coraggiosa della maggior parte di quelli che conosco.» «Ma è perché combatto strenuamente per esserlo. Vedi che cosa mi succede, Gord. Tu stesso hai osservato che la mia pelle continua a scurirsi; devo essere un Drow, almeno in parte. Ancora non so chi sono e cosa faccio, ma c'è malvagità in me, le qualità peggiori della razza degli Elfi e di chissà che altro.» La fanciulla ricominciò a singhiozzare e Gord la tenne stretta a sé. «Combatteremo insieme» disse. «Io vedo che sei buona, quindi se in te c'è qualcosa d'altro, lo cacceremo per permettere al bene di vincere. Anch'io ho il mio lato malvagio, Leda, che spesso tenta di affiorare; a volte ci riesce, e io devo fare uno sforzo tremendo per reprimerlo e dominarlo. Se accade lo stesso anche a te, si può rimediare: l'amore ci aiuterà! Probabilmente ti sta tornando la memoria, e il male riemerge prima del bene.» «Sì, Gord» disse la fanciulla Elfo con voce debole. «Forse è così. Ma ti prego, non smettere di amarmi, qualsiasi cosa accada.» «Puoi contare su di me, amore; ti do la mia parola». A ciò Leda si calmò ed entrambi si addormentarono, l'uno nelle braccia dell'altro. I giorni che seguirono furono travagliati per il caldo e i pericoli, ma le notti furono cariche di passione e di consolazione. Il gruppo raggiunse una zona di basse colline, alcune delle quali mostravano rocce argillose solcate da vene di sabbia e cenere. Da lì virarono verso sud, poiché i Picchi di Grandsuel penetravano nelle lande desolate che si stendevano davanti a loro. Il paesaggio era ancora caratterizzato da colline e valli coperte di sabbia, ma rimanendo in cima alle colline e percorrendo le creste montuose non trovarono grandi difficoltà. Ad un certo punto puntarono leggermente a est, e in mezza giornata di duro cammino, giunsero alla seconda oasi; somigliava moltissimo alla prima, ed era chiaro che le forme di vita che riuscivano a sopravvivere lungo i margini del deserto erano pressappoco
sempre le stesse. La vita nel deserto seguiva quindi uno schema fisso, ma ben presto Gord si accorse che anche i nomadi ne seguivano uno proprio. Ogni volta che raggiungevano un'oasi, la loro determinazione a proseguire il viaggio si indeboliva. Il giovane osservò che due degli uomini indicavano furtivamente l'est e assisté ad una conversazione sottovoce fra tutti e quattro i nomadi nella prima parte della loro permanenza all'oasi. Più tardi Achulka si avvicinò a Gord e Leda cercando di mostrarsi tranquillo, ma senza riuscire a nascondere il proprio imbarazzo. «Dobbiamo andare a est, ora, Farzeel?» chiese in tono artificiosamente amichevole. «Le rovine della città si trovano solo a qualche giorno di distanza in quella direzione: andiamoci e torniamo presto, sani, salvi e ricchi!» Grazie a ciò che aveva visto e sentito, Gord non si lasciò cogliere di sorpresa, e questa volta era pronto ad esercitare pienamente la sua autorità, senza lasciare che Leda gli togliesse le castagne dal fuoco. «Mi meravigli, Achulka!» esclamò, con evidente disprezzo. «Pensavo tu fossi un guerriero di parola, ma ora devo sentire i borbottii di un vecchio pigro e pauroso; chi è adatto soltanto a badare ai bambini e all'accampamento dovrebbe lasciar perdere le imprese da uomini. Vattene!» Questa volta gli insulti funzionarono, alla fin fine. Dopo un breve scambio di manate sul petto, proteste e minacce, tutti e quattro i guerrieri Thuffi acconsentirono a proseguire con Gord e Leda come deciso, ma come ricompensa Gord dovette cominciare a distribuire i braccialetti Arroden. Se non avesse creduto che la loro apprensione fosse reale, il giovane avrebbe accusato i Thuffi di approfittarsi di lui. Achulka indossò orgogliosamente il primo braccialetto. Gli altri sarebbero stati distribuiti uno ogni secondo giorno, finché ogni guerriero non ne avesse avuto un esemplare. Gord si sarebbe tenuto la collana e i due braccialetti rimanenti per tutta la durata della missione, consegnandoli ai nomadi dopo il ritorno ai Grandsuel. Risolta la questione - almeno per il momento, si disse Gord, pessimista il gruppo puntò verso sud, invece che verso est. Il secondo giorno si trovarono in mezzo a una spaventosa tempesta di sabbia, e solo grazie alle rocce fra le quali si trovavano si erano salvati dalla sua furia. Non avevano nemmeno dovuto ricorrere alle tende e ai respiratori, in quanto le creste rocciose offrivano loro riparo sufficiente. Le colline terminarono quattro giorni dopo, e il gruppo si ridusse ad arrancare nuovamente nella sabbia con quelle scarpe bizzarre. In quel frangente Gord indirizzò il gruppo verso sudovest. I viaggiatori
proseguirono in riga, ciascuno di essi ad un centinaio di metri di distanza dal vicino. In questo modo speravano di individuare l'eventuale presenza d'acqua. Avevano scorte almeno per un'altra settimana, se le avessero razionate con prudenza, ma ben presto il rischio di patire la sete si sarebbe fatto grave. Fu Leda a scoprire le rovine. Si trovava all'estrema destra della riga e all'inizio pensava di essersi imbattuta in una formazione rocciosa naturale che poteva indicare la presenza di acqua poco sotto la superficie. Gridò e fece dei cenni, e ad uno ad uno tutti gli altri avanzarono faticosamente nella sua direzione per vedere cos'aveva scoperto. Asportarono con cautela la sabbia e la cenere tutt'intorno alla pietra sporgente, e ben presto ebbero la prova che non si trattava di una formazione naturale. Trovarono infatti torri diroccate e resti di mura. I nomadi erano eccitati. «Scavate ancora!» incitò uno di loro. «Dobbiamo cercare il tesoro!» esclamò un altro. Leda era d'accordo sul perlustrare la zona, ma per un altro motivo. «Gord, nessuna città avrebbe potuto sorgere qui se non ci fosse stata una vena d'acqua per sostentare i suoi abitanti. Vediamo se riusciamo ad introdurci nell'edificio sotto di noi e cerchiamo di localizzare una fonte o una vecchia cisterna» suggerì. Gord fu d'accordo, e tutti e sei si misero a scavare con lena sempre maggiore per asportare lo strato di polvere. In un punto, circa un metro sotto la cenere e la sabbia, trovarono una superficie solida che si rivelò un tetto intatto. Una volta ripulita una buona parte della superficie, Gord notò un rettangolo di legno separato dal resto della struttura; fece leva con il pugnale nella fessura e scoprì che si trattava di una botola. Due dei nomadi afferrarono la botola dal lato opposto ai cardini e la sollevarono; si aprì in pochi istanti con uno scricchiolio, lasciando cadere un po' di polvere e cenere nel pertugio quadrato di circa un metro che si apriva sull'oscurità sottostante. Per Gord non fu difficile aggrapparsi al bordo dell'apertura e lasciarsi cadere sul pavimento. Temeva che le tavole di legno fossero marcite e potessero cedere quando vi fosse atterrato, circa sei metri sotto la superficie del tetto, ma riuscì a compiere la sua incursione senza problemi. I suoi compagni avrebbero potuto servirsi di una corda per scendere, ma Gord trovò poco lontano una scala dal legno perfettamente conservato grazie all'aridità del luogo. In pochi attimi Leda, Achulka e gli altri tre nomadi furono al suo fianco. Lasciarono la botola semiaperta, appoggiata all'estremità superiore della scala, per impedire che la polvere tappasse l'uscita e li
bloccasse all'interno. Si tolsero gli zaini e le altre attrezzature non indispensabili, quali i bastoni e le calzature da deserto; Gord e i nomadi si tennero le armi, ma Leda lasciò anche spada ed arco con il resto dell'equipaggiamento. «Laggiù c'è una scala che scende» disse Gord indicando un angolo. «Iniziamo ad esplorare?» «E come faremo a vedere nel buio?» chiese Achulka. Leda con la sua vista da Elfo e Gord con la sua vista fatata non avevano problemi, ma i nomadi non godevano di tali vantaggi; una volta fuori dalla fioca luminosità proveniente dalla botola aperta, sarebbero stati seriamente impediti. Gord si guardò intorno, ma non vide nulla di utile. «Aspettate qui» disse ad Achulka. «Dev'esserci qualche mezzo di illuminazione qui dentro». Scese e dopo pochi istanti tornò con una bugia e un lumicino. «È talmente vecchio che il grasso è diventato più duro del legno» disse ai quattro uomini della steppa, «ma farà abbastanza luce da permettervi di vedere, almeno finché non troveremo una torcia o una lampada che possano aiutarci meglio.» Fecero cinque piani prima di arrivare al pianterreno; vedendo le carte e gli arazzi appesi alle pareti, Gord intuì che la torre quadrata era stata costruita probabilmente per l'osservazione delle stelle e per calcoli astrologici. Tutte le attrezzature, le mappe, i libri e le pergamene erano conservati nei piani inferiori, polverosi ma intatti. «I sacerdoti che occupavano questo edificio devono essersene andati senza fretta» disse Leda, mentre camminavano nel grande tempio pieno di echi che avevano trovato al pianterreno. «È una fortuna; altrimenti le persiane sarebbero rimaste aperte e sabbia e cenere avrebbero invaso da tempo questa sala.» Rivoletti di sabbia erano filtrati attraverso le fessure intorno alle finestre nel corso dei secoli, cosicché il pavimento era coperto quasi dappertutto da due centimetri di polvere, che si sollevava in nuvolette sotto i loro piedi. «È entrato abbastanza deserto» osservò Gord, «da dirci che nessuno mette piede quaggiù da anni.» «Perfetto!» esclamò Achulka. «I sacerdoti estorcono sempre denaro ai fedeli, e persone tanto prudenti da mettere al sicuro il proprio luogo di culto prima di lasciarlo devono essere state esigenti nelle loro richieste. Scoviamo i cofani di quegli ecclesiastici; oggi nessuno oltre a noi può rivendicare il possesso del loro oro!»
«Il tesoro sarà certamente nascosto nei sotterranei» disse Gord. Tutti iniziarono a cercare una via per scendere in cantina, e ben presto scoprirono una scala. Il giovane pensava all'acqua più che alle gemme, ma non ne fece parola con i nomadi; che cercassero pure il bottino, mentre egli si occupava di cose più serie. «Venite, vediamo cosa nascondevano quaggiù gli antichi abitatori del luogo» disse. «Leda e io costituiremo un gruppo, e voi vi dividerete in altri due. Date un segnale non appena avrete trovato qualcosa di importante.» Iniziata la discesa, Gord prese Leda per un braccio e le parlò in tono serio. «Non volevo sollevare questo argomento davanti agli altri» disse, ma poco fa mi sono accorto che non sei armata, e mi sconvolge vedere che hai ritenuto opportuno lasciare le armi nella sala di sopra. Che farai se ci capiterà qualche guaio qui sotto? «Sono sicura che non avremo problemi che tu non possa risolvere» disse con un dolce sorriso, tentando di spiegare il motivo del suo gesto. Vedendo però che la risposta non soddisfaceva il compagno, aggrottò leggermente le sopracciglia e riprese a parlare: «Non posso darti una spiegazione vera e propria; volevo semplicemente liberarmi delle armi per un po', perché mi impediscono i movimenti e mi appesantiscono. Inoltre qualcosa mi dice che possiedo armi ben diverse da quelle che si possono tenere in mano. Non sono affatto preoccupata, per ora, mio caro, e ti prego di non esserlo nemmeno tu.» Gord non sapeva esattamente come interpretare le parole criptiche di Leda, ma decise di lasciar perdere. In realtà non riteneva che la loro vita potesse essere in pericolo mentre perlustravano quel luogo abbandonato, quindi si poteva anche fare a meno di pensarci troppo. «Sarà come dici, amore mio» concluse. «Ora vediamo che cosa possiamo trovare.» Qualche istante dopo Leda scoprì una galleria dalla volta bassa che conduceva ad una scala a chiocciola fatta di solida pietra. «Guarda là» gridò. «Questo edificio somiglia ad una fortezza, e luoghi del genere hanno sempre la loro riserva d'acqua in caso d'assedio. Penso che l'abbiamo trovata, perché sento odore di umido.» Senza curarsi di chiamare gli altri, Gord e la fanciulla scesero i gradini stretti e scivolosi, che sprofondavano nel terreno per una dozzina di metri e portavano in un luogo il cui soffitto indicava le sue origini, almeno parziali, di caverna naturale. Alcuni segni sulle pareti indicavano che un tempo l'acqua aveva riempito la cavità almeno per metà, cioè per un'altezza di due-tre metri; ora però era svanita e il pavimento era coperto soltanto di
fango secco. «Maledizione, il clima esterno deve aver prosciugato la fonte» mormorò Gord. «No, Gord, guarda là. Mi sembra che ci sia una macchia scura, come se il fango fosse ancora umido, e nel muro c'è un'apertura, proprio nel punto d'incontro con il pavimento. Esaminiamolo più da vicino». I due attraversarono la stanza fino al punto indicato dalla fanciulla. «È proprio bagnato, volpe dall'occhio acuto!» disse Gord, assestando una pacca sul sedere rotondo della fanciulla dai capelli d'argento. Poi si mise carponi e sbirciò nella stretta apertura che aveva permesso all'acqua di defluire. «E non c'è solo fango, ragazza, ma una grande pozza d'acqua dolce! Ne sento l'odore e il rumore delle gocce che cadono sulla sup... Ahi!». Gord si girò di scatto mettendosi in ginocchio per vedere cosa l'aveva colpito tanto forte. «E adesso te lo tieni, porco!» Leda aveva approfittato dell'occasione per vendicarsi dell'attacco di Gord al suo posteriore. «Voi Drow siete davvero creature malvagie» disse ridendo, tentando poi di afferrarla e di baciarla, ma Leda arretrò con un'espressione irosa in volto. «Un giorno potresti sperimentarlo di persona, porco dalla pelle pallida! Fino ad allora, non scherzare con gli Elfi neri!» Gord saltò in piedi e la prese per le spalle. «E tu, Leda, ricordati che anche con me c'è poco da scherzare!» le disse, scuotendola fino a farle battere i denti. «Combatterai le tenebre che cercano di sopraffarti, o ci penserò io! La donna che amo non si trasformerà in un Demonio proprio sotto i miei occhi!» Leda lo abbracciò e lo tenne stretto. «Grazie, caro. Non so che cosa mi sia successo, ma ora sto bene. Andiamo a chiamare gli altri, e mostriamo loro la pozza d'acqua.» «No, che diavolo! Prima facciamoci un bagno e divertiamoci. Quei barbari saranno impegnati per parecchio nella ricerca del bottino, e saremmo pazzi a non approfittare dell'occasione.» Leda fu subito d'accordo, e solo parecchio tempo dopo i due risalirono la scala a chiocciola per andare in cerca dei quattro nomadi. Non fu difficile trovarli. Le tracce lasciate sull'onnipresente strato di polvere andavano di qua e di là, ma alla fine si riunivano in un corridoio. Gord e Leda arrivarono ad una porta semiaperta dalla quale filtrava una luce. I quattro guerrieri si trovavano proprio là, ma quello di nome Nizamee
era steso sul pavimento in mezzo alla stanza e si strofinava una mano gonfia e paonazza, lamentandosi debolmente. Gli altri tre invece erano un po' più lontani dalla porta, in piedi davanti a diversi cofani di pietra, e sembravano in trance. «Che succede, qui?» gridò Gord, confuso e arrabbiato allo stesso tempo. «Posso... posso occuparmi io di lui» disse Leda con voce incerta. «Vai a vedere cosa è successo agli altri.» Mentre Leda si chinava su Nizamee, Gord si precipitò dagli altri tre nomadi, immobili come statue. Uno sguardo bastò a fargli capire qual era il problema: avidità eccessiva. Erano riusciti a sollevare il coperchio di quattro dei cofani di pietra posti in mezzo alla stanza, e il giovane poté vedere che ciascuno di essi conteneva una fortuna in oggetti preziosi: monete, gioielli, gemme grezze, lingotti di metallo; evidentemente i nomadi erano troppo presi da quella scoperta per prestare attenzione alle condizioni del loro fratello Nizamee. Gord si avvicinò ad Achulka, lo afferrò saldamente per una spalla e lo scosse. «Il tuo compagno muore e tu stai lì a contemplare il tesoro!» gli disse in tono sprezzante. «Ma che uomo sei?» Gli tirò uno schiaffo che sembrò ridestare Achulka dal suo torpore. «È così...» disse il nomade, scuotendo il capo come se volesse allontanare delle ragnatele. Poi i suoi occhi riacquistarono espressione e quando vide Leda e Nizamee prese a parlare con voce agitata: «Ora ricordo... Nizamee! È stato imprudente ed un ago affilato gli si è conficcato nel palmo. Ma è l'ultimo fatto che ricordo prima di...» «Non c'è più da preoccuparsi, ora» disse Leda. Era inginocchiata accanto al nomade biancovestito e gli passava lentamente le dita sulla mano e sul braccio feriti. Il gonfiore paonazzo era svanito, e sembrava che l'uomo dormisse. La fanciulla alzò lo sguardo sui due che la fissavano ad occhi sgranati per la sorpresa e spiegò l'accaduto: «Quando ho capito che era stato avvelenato, qualcosa è scattato dentro di me, ed è stato come se una marea mi inondasse il cervello. All'improvviso mi sono ricordata di saper usare gli incantesimi, così mi sono inginocchiata, mi sono concentrata e ho rievocato quello che tramuta le tossine in sostanze innocue che vengono eliminate dal sangue o dal corpo. Mentre tu scuotevi Achulka dal suo torpore, Gord, io formulavo il mio incantesimo su Nizamee, appena in tempo. Ora dormirà per un po' e al risveglio si sentirà male, ma vivrà.» «Vedi che cosa stava per causare la vostra stupida avidità?» disse Gord al nomade, in tono di rimprovero.
Leda intercesse per Achulka. «Non prendertela con lui, Gord. Il suo torpore, lo stesso dei suoi compagni, che non ne sono ancora usciti, come potrai vedere, è provocato da un dweomer che ha lo scopo di difendere la sala del tesoro. Pensavi forse che un posto simile non sarebbe stato ben protetto?» chiese all'avventuriero con un accenno di asprezza nella voce. «Sì, Leda cara, hai ragione. Scusami, Achulka; riscuoti i tuoi compagni dal loro torpore, e vediamo che cosa si può fare. Se vuoi perdonarmi, devo parlare in privato con Leda.» Gord prese la fanciulla Elfo per un braccio e la condusse nel corridoio. «Quali incantesimi puoi formulare?» le chiese sottovoce. «Quelli dei chierici, Gord. Conosco gli incantesimi propri delle donne Drow, o meglio delle femmine. Immagino che in breve mi trasformerò in una tipica femmina di Elfo nero.» «No, non tipica! Tu sei Leda, sei speciale e sei il mio amore. Se sei una sacerdotessa, a quale divinità ti appelli?» A ciò, la fanciulla alzò le spalle. «Non me lo ricordo assolutamente, e non ho alcun indizio che possa aiutarmi, neppure un simbolo. Anche l'incantesimo mi è venuto in mente con naturalezza, come un qualsiasi pensiero, quindi non posso basarmi nemmeno su quello.» «A quanto ricordo, Leda, i chierici possono produrre acqua dall'aria, se così si può dire. Mi sbaglio?» «Mmmm, fammici pensare un attimo». Ci fu una pausa, poi la bella fanciulla Elfo gli sorrise e disse: «Sì, Gord, posso farlo, e ne sono certa! Ora non avremo più problemi nella nostra ricerca.» I due tornarono nella stanza, ma prima di entrare, quasi soprappensiero, Gord scostò la porta solo di qualche centimetro, secondo un'abitudine acquisita quando faceva il ladro. Assieme a Leda si fermò per un istante sulla soglia e vide i nomadi, tutti in piena forma, fatta eccezione per Nizamee, ancora addormentato, che si davano da fare tra i numerosi tesori per arraffare i più preziosi e infilarli negli zaini. I due giovani non poterono fare a meno di ridere di fronte alla scena, e i guerrieri interruppero la loro attività frenetica volgendosi verso di loro con espressione imbarazzata. «Non fate caso a noi» disse Gord, ridacchiando. «Per quante cose possiate accaparrarvi, qui c'è una quantità di oggetti dieci volte superiore a quella che potremmo riuscire a portar via. Servitevi pure!» Leda si spostò in un punto da cui poteva osservare meglio il bottino e Gord si divertì a vederla sgranare gli occhi di fronte al contenuto dei cofani. C'erano grosse monete d'oro, spessi dischi di metallo giallo che su una
faccia recavano il volto di un uomo dall'espressione altera e sull'altra un sole; alcune erano d'argento, scurite dall'ossido depositatosi nei lunghi anni in cui erano rimaste fra i tesori perduti di quel tempio misterioso. Oltre alle monete c'erano gemme sfaccettate, pietre grezze, perle, ambra, avorio e corallo; c'erano collane di pietre preziose, gioielli lavorati e così via. Per qualche istante tutte quelle ricchezze attrassero l'attenzione di Leda, che poi raccolse un astuccio d'avorio e ne estrasse una pergamena; trascorse parecchi minuti a studiare lo scritto e Gord si chiese che cosa stesse facendo, ma non si diede la briga di chiederglielo. I nomadi, dal canto loro, non si curavano assolutamente della fanciulla, intenti com'erano a scegliere gli oggetti più preziosi. «Quando avrete preso tutto ciò che potete portare senza troppa fatica - e ricordatevi che dobbiamo fare ancora molta strada - vi mostrerò dove potremo fare provvista d'acqua» disse Gord ai nomadi. «Rimarremo qui fino a domani, e poi ci dirigeremo verso la Città Dimenticata.» Achulka ascoltò il sussurro dei due guerrieri che chiedevano la sua attenzione e poi si rivolse a Gord. «I miei fratelli dicono che non è necessario proseguire, Farzeel. Dicono che qui c'è tutto ciò che si possa desiderare, e io sono d'accordo con loro» spiegò. «Domani torneremo verso le montagne. Vieni con noi e ti faremo capo tribù; nessun Thuffi ti negherebbe un simile onore.» «Vi siete impegnati a servirci» disse lentamente il giovane, apparentemente senza traccia di irritazione. «Sì, ma abbiamo deciso di restituirti gli amuleti Arroden, e lo faremo immediatamente». A quelle parole Achulka e i compagni si tolsero i braccialetti e li posarono in cima ai mucchi di oggetti preziosi in cui avevano rovistato. «Naturalmente potete prendere anche quello di Nizamee, così saremo pari.» Leda fece una risatina sarcastica per la facilità con cui i nomadi venivano meno alla parola data, e iniziò a rampognarli. Gord si allontanò disgustato da Achulka e fece qualche passo verso la porta; intendeva sbarrare l'uscita e dire ai nomadi che, se non intendevano mantenere la parola, avrebbero dovuto vedersela con lui. All'improvviso udì un fioco rumore provenire dal corridoio. Si voltò, emise un sibilo per azzittire gli altri e con un gesto fece loro capire che secondo lui fuori c'era qualcuno o qualcosa. Mentre il giovane estraeva il pugnale e la daga, anche i nomadi sguainarono le spade e tutti e tre si spostarono in una posizione che permettesse loro di proteggere il compagno ferito.
Gord fece cenno a Leda di prendere la spada di Nizamee per difendersi, ma la fanciulla scosse la testa e in un sussurro gli disse: «Ne avrà bisogno, se si sveglierà. Io ho... altre risorse per difendermi». Gord non intendeva sprecare tempo prezioso litigando, quindi, senza profferir parola, indicò a Leda di spostarsi in un angolo lontano, mentre lui si posizionava accanto alla porta. Il rumore si fece più forte e vicino finché non fu chiaro che proveniva da destra, proprio fuori dalla porta. Ad un tratto cessò per qualche frazione di secondo... e la porta si spalancò di scatto verso l'interno, con gran fracasso. Capitolo 12 Dalla porta entrò un esercito di scimmie albine, con il muso distorto in un ringhio che mostrava i canini giallastri senza emettere alcun suono, che iniziarono ad invadere la stanza. L'avanguardia aveva spalancato la porta, ma siccome gli animali dapprima si erano fermati nel corridoio e perciò avevano perduto parte del loro impeto, e il portone era pesante e difficile da spostare, all'inizio ebbero qualche difficoltà ad entrare. Quelli che venivano dopo, invece, ebbero la possibilità di acquistare una certa velocità già nel corridoio, e giunsero ad investire le scimmie in prima fila, ferendone o stordendone alcune. La natura improvvisata dell'attacco concesse però agli avventurieri che si trovavano nella stanza alcuni secondi preziosi per preparare una contromossa. Dalla sua posizione accanto alla porta Gord era in grado di colpire e di difendersi allo stesso tempo. Quando la prima ondata di aggressori invase la stanza, riuscì a sgozzarne uno con la spada mentre ne sventrava un altro con il pugnale; le scimmie non si avventavano subito su Gord, infatti, poiché egli si trovava fuori dalla loro traiettoria di movimento. Il giovane ebbe così modo di valutare la situazione mentre le scimmie albine si aprivano a ventaglio per assalire i suoi compagni. Dovevano essere rimaste vive quattro o cinque dozzine di quelle piccole scimmie, calcolò Gord, e quasi tutte ora non si gettavano più allo sbaraglio ma avanzavano in circolo, cercando di sfruttare al meglio zanne e artigli senza ferirsi tra loro. I tre nomadi Thuffi incolumi avevano formato un rozzo cerchio attorno a Nizamee e avevano cominciato a menare colpi e fendenti con le spade, tenendo a bada la maggior parte delle scimmie e ammazzandone un paio che si erano avvicinate troppo. Nel frattempo Leda si era rifugiata nel suo angolo nascosto ed era sfug-
gita all'attenzione degli esseri scimmieschi. Gord la vide mentre si stava arrampicando verso il punto in cui il soffitto naturale della sala si curvava verso il basso incontrando la parete; la ragazza spezzò un pugno di piccole stalattiti e le tenne sollevate per qualche secondo. Gord era stupefatto: Leda intendeva forse servirsi di quei pezzettini di pietra come armi? In tal caso non sarebbero durate molto e non avrebbero provocato un gran danno. Ritenendo che i guerrieri Thuffi per il momento fossero in grado di sbrigarsela da soli, Gord iniziò a usare le armi per aprirsi una via a suon di fendenti verso l'angolo in cui si trovava Leda. «Tienili lontani da me, Gord!» gli gridò la fanciulla. «Farò del mio meglio» replicò il giovane. Man mano che si avvicinava, vide che dal pavimento di pietra tutto intorno alla fanciulla erano spuntate formazioni simili a stalagmiti, lunghe da sette a trenta centimetri, distanti fra loro una trentina di centimetri e molto aguzze. Una mezza dozzina di creature scimmiesche era rimasta impalata su quegli spuntoni di roccia. Tuttavia in un punto tre dei cadaveri disposti in fila formavano una specie di ponte che conduceva attraverso le stalagmiti appuntite; se le altre creature se ne fossero accorte e avessero pensato di sfruttare i compagni morti come passerella, avrebbero potuto raggiungere la ragazza prima di Gord. Ma i superstiti sembravano eccitarsi ancora di più alla vista e all'odore di tutto quel sangue, ed erano talmente ansiosi di gettarsi su Leda che alcuni di essi caddero sugli spuntoni mentre altri si combattevano e si uccidevano fra loro per il privilegio di usare il ponte di corpi, con il risultato che nessuno riuscì nell'intento. Se quelle terribili scimmiette non fossero state mute, la sala si sarebbe trasformata in una babele di ringhi e ululati: invece esse attaccavano senza far rumore e morivano in silenzio. Irrigidendo i muscoli, Gord prese a menare fendenti tutto intorno a sé per respingere le scimmiette che lo circondavano per attaccarlo, fece un passo indietro e poi un salto in avanti con rimbalzo. Riuscì ad evitare la siepe di stalagmiti ed atterrò accanto alla fanciulla. «Non devi più preoccuparti, Leda» le disse. Senza girarsi verso di lui, l'Elfo nero ringraziò e poi aggiunse: «Se riuscirai a tenerle lontane ancora per qualche minuto, darò una lezione a queste piccole bastarde!» «Contaci!» ribatté il giovane, iniziando subito a darsi da fare. Le scimmie morte erano talmente tante che era diventato facile farsi strada sui corpi, quindi doveva impegnarsi al massimo per contenere l'attacco. Colpiva come un forsennato, come se avesse il dono dell'ubiquità, e sebbene san-
guinasse da alcuni morsi alla coscia e al braccio, e gli artigli dei mostri gli avessero squarciato la guancia e una gamba, non era seriamente ferito. Aveva perso il conto degli esseri candidi dalla criniera gialla che aveva ucciso. Con la coda dell'occhio vide Leda accucciarsi accanto a una delle scimmie morte; voleva chiederle che cosa stesse facendo, ma poi la sentì cantilenare una formula e, sapendo che era impegnata in un incantesimo, non osò interromperla. Uno scimmiotto balzò in aria con la bocca spalancata, pronto ad azzannargli la faccia, ma Gord lo prese con il pugnale e la spada, squarciandogli la mascella con la lama più corta e trafiggendogli il ventre con quella più lunga. Per qualche istante tenne la creatura sollevata in aria, mentre il sangue gli colava addosso in una macabra doccia, poi, con tutte le proprie forze, scagliò il cadavere addosso a tre scimmie pronte all'attacco. Due di esse rimasero stordite, mentre la terza cadde all'indietro e morì trafitta dalle punte di pietra. «Ottimo lavoro, Gord; basta così, per ora, vai a vedere se gli altri hanno bisogno di aiuto» gli gridò Leda. Poi, con una voce diversa e più profonda, disse: «A me, scimmie! Uccidete tutti i compagni che si avvicinano!» Gord si girò rapidamente a guardarla: la fanciulla faceva dei cenni ai cadaveri delle scimmie poco lontano, che obbedirono prontamente. Una dozzina di carcasse coperte di sangue, con le viscere che fuoriuscivano, si alzarono e si disposero a semicerchio attorno alla fanciulla volgendole le spalle e affrontando i loro simili vivi con le zanne scoperte. Effettivamente Leda sembrava in grado di badare a se stessa, grazie anche a quei macabri aiutanti, quindi il giovane approfittò del momento per correre in aiuto dei nomadi assediati. «È una partita che si gioca in due!» gridò Gord alle mute creature che si erano momentaneamente ritratte dalle punte di pietra e dalla furia delle armi inzuppate di sangue impugnate dal giovane avventuriero. Questi balzò sul ponte di cadaveri menando fendenti mentre avanzava, e combatté a lato della selva di stalagmiti, nel punto più lontano da Leda. Le scimmie in prima fila tentarono di arretrare di fronte alla furia del nemico, ma quelle immediatamente dietro non furono sufficientemente veloci. Volò una testa tagliata; un'altra scimmia, con un braccio mozzato, cadde contorcendosi sul duro pavimento della sala, ormai invaso dal sangue. Assestando ogni colpo con precisione mortale, girandosi e gettandosi in avanti continuamente, Gord si fece strada nel branco di esseri mostruosi. Ora i superstiti indietreggiavano verso la porta della stanza, e Gord fu in grado di liberar-
sene e di raggiungere i nomadi assediati. Un altro uomo era caduto accanto a Nizamee, ma Achulka e il quarto, di nome Jahmut, resistevano ancora. «A morte, a morte!» gridava, avventandosi sugli esseri che ancora si trovavano fra lui e gli uomini della steppa. Due scimmie dalla criniera gialla caddero istantaneamente, colpite alle spalle da Gord, che si era avventato su di loro come un fulmine. Incoraggiati dagli eventi, i due nomadi ancora in grado di combattere raddoppiarono gli sforzi, gridando «Illa-Thuffi! Illa-Thuffi!» mentre roteavano le spade. Gord si aprì una via tra la dozzina di esseri scimmieschi riuniti per attaccare i nomadi. Contando quelli già uccisi dagli stessi nomadi, non restava viva nemmeno la metà di quelle creature. Le scimmie superstiti però si lasciarono prendere dal panico e iniziarono a fuggire, saltando e slanciandosi per abbandonare quella sala lordata di rosso e i terribili umani che le stavano facendo a pezzi. Gord pensava che Leda avesse messo in opera qualche incantesimo gettando il panico fra quei piccoli assassini quasi privi di intelligenza, ma non rifletté troppo sull'argomento. «Eliminateli!» gridò ai due nomadi, balzando subito all'inseguimento dei mostri albini fuggiaschi e lasciando tracce rosse ogni qual volta le sue armi toccavano la testa dalla criniera bionda o il dorso candido di un fuggitivo. Entrambi gli Al Illa-Thuffi si unirono a Gord per ammazzare le scimmie superstiti che si precipitavano verso la porta per rifugiarsi là da dove erano venute. Poi, all'esterno della sala, nel corridoio imboccato dalle sopravvissute, si sentirono voci umane urlare ed imprecare. Richiami come «Basta!» e «Indietro! Indietro!» echeggiavano al di là della soglia. Si potevano poi sentire i comandi «Uccidi!» e «Obbedisci!», pronunciati con voce profonda e diretti ai mostri in ritirata. I due guerrieri Thuffi erano impegnati a finire alcune scimmie ferite che si contorcevano sul pavimento o cercavano di fuggire strisciando. Mentre le voci all'esterno urlavano ordini agli esseri che si trovavano di là, Gord agì per ritardare un secondo attacco dei tremendi mostriciattoli. Allontanando una carcassa con un calcio e squartando una delle scimmie più coraggiose mentre essa tentava di rientrare nella sala, il giovane afferrò il pesante portone e fece per richiuderlo. Una lancia gli sfiorò le spalle, poiché la luce proveniente dall'interno della stanza rendeva Gord un bersaglio ben visibile. Un istante dopo la porta si bloccò e rimbalzò leggermente indietro, come se avesse urtato contro qualcosa. Si udirono un tonfo e un lamento ben distinto, e sorpren-
dentemente un dardo di balestra diretto a Gord si fermò improvvisamente a mezz'aria. Dopo una frazione di secondo, dalla porta entrò un pesante ceppo di legno coperto di punte, che colpì Gord al petto. La ferita provocata dalla lancia era una sciocchezza e anche l'aklys, così si chiamava la mazza chiodata, gli causò poco più che un graffio, poiché la maglia dell'armatura costruita dagli Elfi che portava sotto il mantello respingeva i ganci e le punte di ferro. Tuttavia le appendici appuntite dell'aklys si impigliarono nella pesante stoffa del burnus di Gord, e chi dall'esterno aveva lanciato la mazza, tirò forte la corda di cuoio attaccata al manico. Gord perse l'equilibrio e stava per cadere lungo disteso sul pavimento ma, prima che sbattesse contro il duro granito, qualcosa di assai poco morbido attutì la sua caduta. Per fortuna, mentre accadeva tutto ciò, i compagni si trovavano alle sue spalle; Achulka lo afferrò per i piedi e lo trascinò via dalla porta riportandolo nella sala, proprio mentre Leda si metteva dietro il portone semichiuso e spingeva con tutte le forze contro le tavole spesse che lo componevano. La porta si chiuse con un tonfo e la fanciulla abbassò immediatamente il chiavistello. Nel frattempo erano arrivate nella stanza diverse altre lance e una mezza dozzina di dardi, ma nessun colpo era giunto a segno, e si potevano sentire altri proiettili picchiare contro le assi della porta anche quando l'Elfo nero l'aveva chiusa a doppia mandata. La massa che aveva impedito a Gord di sbattere contro il pavimento era stata trascinata nella stanza assieme a lui. Grato a quella protezione invisibile, ma sgomento per l'intera faccenda, Gord si rialzò in piedi in fretta e furia e poi si chinò sondando l'aria con la punta della spada; ad un certo punto incontrò qualcosa... di solido. Leda gli si inginocchiò accanto e iniziò ad esaminare la massa invisibile spostando velocemente le mani sulla superficie. Un momento dopo teneva in mano uno strano anello, mentre ai suoi piedi era apparso un cadavere. «È un anello dell'invisibilità» disse a Gord e ai nomadi, infilandosi l'oggetto di metallo opaco nella cintura. «Che strano essere» aggiunse poi, guardando il morto. Si trattava di un albino esile, quasi un pigmeo, che pur essendo umano rassomigliava molto alle scimmie dalla criniera gialla che li avevano attaccati. «È stato ucciso da questo piccolo dardo» osservò Gord, notando l'oggetto che sporgeva fra le scapole del cadavere. «La carne intorno alla ferita è annerita... veleno?» «Sì» rispose Leda. «Qualcuno di voi è ferito?» chiese poi, rivolta ai nomadi.
«Non gravemente, e non per colpa di quei proiettili» fu la risposta di Achulka, «anche se temo che quelle scimmie abbiano fatto fuori i nostri fratelli. Forse abbiamo avuto troppa fretta di toglierci quegli amuleti Arroden...» Leda lo interruppe. «Gord, vedi cosa puoi fare per bloccare la porta» disse. «Quegli esseri là dietro cercheranno sicuramente di aprirla, con la forza fisica o con la magia. Nel frattempo cercherò di aiutare i nostri amici.» Mentre Leda si dedicava agli incantesimi, Gord si mise all'opera; innanzitutto prese la lancia che era stata scagliata nella stanza e la incastrò nella porta in modo da tenere bloccato il chiavistello; poi, per barricarla meglio, iniziò ad ammucchiare i cadaveri delle scimmie. Quando ormai la pila di corpi gli arrivava all'altezza del petto e stava trascinando l'ultimo cadavere per completare il lavoro, arrivò Leda, che aveva terminato i suoi rituali. «Per Nizamee è finita» sussurrò. «Quelle scimmie schifose gli hanno dato il colpo di grazia. Gli altri tre si riprenderanno in pochi giorni, anche se i miei poteri non erano sufficienti a guarirli perfettamente. Sapevo che anche tu avresti avuto bisogno della mia magia, infatti sei coperto di ferite. Ora stai fermo, farò del mio meglio per curare le peggiori.» La ragazza iniziò a mormorare alcune formule, accompagnate da gesti rituali, e dopo alcuni secondi prese a toccare il giovane sulle zone doloranti, facendogli desiderare di fuggire da quella tortura. L'orgoglio tuttavia spinse Gord a rimanere immobile in silenzio, e gradualmente il tocco di Leda si fece più leggero e fresco e non gli provocò più dolore. «Stai facendo un buon lavoro, ragazza» le disse. «Ecco fatto, signore» esclamò Leda alla fine, passandosi stancamente una mano sulla fronte sporca di sangue. I tre nomadi erano in piedi, intenti a ripulire le spade. Quando Leda si sedette sul pavimento accanto a Gord per riposare, il bel volto stravolto dalla fatica, Achulka si avvicinò. «Tra poco saremo pronti a riprendere il combattimento, Farzeel. Dobbiamo la vita a te e alla tua donna-guerriero, e per questo lotteremo fino alla morte, ma...» «Ma?» gli fece eco Gord, perplesso. «Ma se usciremo vivi da questo posto» disse il nomade in tono solenne, «non ci spingeremo oltre nel Deserto di Cenere. Due dei nostri fratelli hanno dovuto soccombere a causa di questo posto, del deserto e delle rovine. Giocheremo il tutto per tutto e torneremo indietro, da soli, se necessario, o con voi, se sarete tanto saggi da seguirci. Non è il modo di ripagare
chi ci ha salvato la vita, Farzeel, ma anche morire inutilmente non sarebbe una prova di virilità.» Fu Leda a rispondere alle affermazioni del nomade, prima che Gord potesse profferire parola: «Siamo bloccati quaggiù, Thuffi. Occupiamoci del presente, prima di pensare se dovremo andare a nord o a sud, se mai riusciremo a tornare in superficie. Discorsi simili sono soltanto fiato sprecato, finché non riusciremo a sbarazzarci dei nemici che sono dietro quella porta.» Achulka fece un sorriso torvo, sollevando il tulwar. «Ci riusciremo, nera donna-guerriero, non temere.» «Potremmo rimanere intrappolati in questa stanza per molto tempo, Leda» disse Gord con realismo, «e potremmo tranquillamente morirci. Anch'io penso che discorsi simili siano sciocchi, e penso che lo sia anche nascondersi. I nostri nemici potranno radunarsi e chiamare rinforzi, se ne avranno il tempo, e ciò permetterà loro di attaccarci quando saranno pronti. Prepariamoci invece ad assalirli ora, e a combattere alle nostre condizioni!» Tutti rimasero in silenzio per qualche istante, mentre fuori dalla porta barricata risuonavano il cozzare delle armi contro la pietra e il rumore dei passi. «Le tue parole sono molto sensate, Gord» disse Leda. «Farò ciò che posso, anche se non mi resta molto in termini di magia. Una volta esauriti i miei poteri di sacerdotessa, tuttavia, impugnerò la spada del povero Nizamee e mi adopererò al meglio per combattere al vostro fianco.» I guerrieri nomadi si batterono il petto alle parole di Leda, in segno di rispetto, e anche Gord si sentì incoraggiato dalle parole della piccola fanciulla Elfo. «E allora preparati, mia cara signora, a lottare con gli incantesimi e con le armi» le disse. «Noi quattro libereremo la porta e attaccheremo al tuo segnale.» In pochi minuti i quattro uomini avevano smantellato la pila di corpi accumulata da Gord; quindi tutti e cinque si riunirono in un punto lontano dalla porta per non farsi sentire all'esterno, e Leda illustrò la propria strategia. «Jahmut e Gord apriranno la porta» iniziò. «Non guardate fuori non appena sarà aperta, perché lancerò un incantesimo per disorientare il nemico. Al mio segnale potrete guardare, e il corridoio sarà illuminato. Voialtri due scaglierete frecce il più rapidamente possibile, e poi tutti assieme attaccherete il nemico con le spade». Gord non possedeva archi, ma avrebbe potuto usare la lancia finita nella stanza, scagliandola mentre si gettava in un
combattimento corpo a corpo con le scimmie e i loro padroni. Jahmut si avvicinò alla porta e posò le mani sul pesante anello di ferro inchiodato alle assi. Gord sollevò piano il chiavistello, assicurandolo mediante una sbarretta che gli impediva di riabbassarsi e di chiudere accidentalmente la porta, uno stratagemma escogitato secoli prima dagli antichi abitatori della fortezza. Gli altri due guerrieri Thuffi erano accucciati a qualche metro di distanza, dietro un muro di cadaveri, con gli archi pronti. Gord guardò Jahmut e gli fece un cenno; mentre il nomade tirava l'anello di ferro, il giovane fece un balzo indietro per mettersi al riparo dello stipite. Anche Leda era pronta; mentre il pesante portone di legno si apriva, pronunciò una formula magica e lanciò il suo incantesimo. Un coro di strilli e grida risuonò non appena la luce creata dalla magia di Leda invase il corridoio, illuminandolo a giorno. Vi si trovavano una dozzina di pigmei albini e un numero doppio di scimmie dalla criniera gialla, tutti colti di sorpresa dall'attacco improvviso. Leda gettò un urlo e Gord si ritrasse ulteriormente dal vano della porta, mentre i nomadi scagliavano alcune frecce nella massa dei nemici in tumulto. Non appena sentì il tonfo degli archi lasciati cadere a terra, però, il giovane si lanciò nel vano della porta, prese rapidamente la mira e tirò la piccola lancia a tutta forza. Jahmut era al suo fianco, con il tulwar in mano, e insieme si avventarono sui nemici. I pigmei e le scimmie erano ancora in pieno scompiglio, e giravano in tondo nel vano tentativo di non farsi accecare dal globo luminoso che fluttuava vicino al soffitto del corridoio. I loro occhi, abituati al buio, erano gonfi e doloranti per l'esposizione ad una luce più forte di quella che potessero sopportare. Gord venne rapidamente separato da Jahmut dall'ondata dei nemici, ma non se ne curò più di tanto. Era troppo occupato a colpire con la spada e il pugnale per badare a qualcosa di diverso dai suoi bersagli. Per buoni due minuti combatté da solo; poi Leda fu accanto a lui, con in pugno il tulwar appartenuto a Nizamee. «Attento, Gord!» gridò, indicando un punto davanti a loro. «Quello laggiù è un mago!» L'avvertimento giunse appena in tempo. Gord vide uno dei pigmei fare dei gesti, e proprio mentre costui pronunciava l'ultima formula magica e tendeva le mani verso di lui, fece un balzo in avanti. Mentre si trovava a mezz'aria, ebbe l'impressione che tutti i muscoli del suo corpo si irrigidissero, ma la sensazione svanì com'era venuta e Gord atterrò di fronte al nanetto stupito e lo colpì prima che questi potesse rendersene conto. Ma ora toccava a lui stupirsi. Un piccolo combattente poco lontano cercò di colpir-
lo e lo costrinse a scansarsi, impedendogli di assestare il colpo di grazia al mago. Contemporaneamente un altro mago, anche se meno potente, completò il proprio incantesimo e il globo magico di Leda svanì istantaneamente. Il primo mago pensava di poter sfuggire a Gord nello scompiglio, approfittando del buio, ma non aveva tenuto conto della vista eccezionale del giovane. Con il lungo pugnale Gord parò il colpo sferratogli dal soldato, gettandogli di lato l'arma, che colpì così una scimmia in procinto di intervenire nello scontro. Mentre il guerriero tentava di liberare la spada, Gord teneva d'occhio il mago ferito, che si era allontanato di corsa lungo il corridoio e aveva svoltato un angolo per tirarsi fuori da quella confusione. Arrivato ad una certa distanza, si girò, pronto a escogitare qualche altro maleficio, ma gli occhi, già grandi, quasi gli uscirono dalle orbite, quando scorse l'essere umano, che al buio non avrebbe dovuto vedere nulla, lanciarsi al suo inseguimento, procedendo a zigzag con la spada e il pugnale sguainati. Dietro di lui veniva una piccola folla di scimmie e di pigmei, che più che inseguirlo fuggivano di fronte alle spade dei suoi compagni. «Maledetto» gridò il nano vestito di grigio, tra gesti e brontolii furiosi. Un lampo violetto di elettricità gli scaturì dalle mani, e quasi raggiunse Gord al petto, ma il giovane si gettò da un lato non appena lo vide arrivare, e riuscì ad evitare di essere colpito in pieno; l'impatto fu ugualmente violento, tuttavia, e lo fece cadere a terra coperto di bruciature. La scarica proseguì lungo il corridoio, colpendo lungo la strada parecchi compagni del mago; alla fine si scontrò con la parete nel punto in cui il corridoio faceva angolo e tornò indietro sfrigolando. Dal punto in cui giaceva, stordito e in preda alla nausea per l'impatto con il fulmine, Gord lo vide tornare nella direzione da cui era partito. Un istante più tardi udì un intenso sfrigolio, sovrastato quasi immediatamente da un urlo tremendo; il mago pigmeo era crollato al suolo, vittima della sua stessa arma. Gord riuscì a rialzarsi e a tornare faticosamente indietro, scavalcando i cadaveri, per raggiungere Leda che combatteva furiosamente con una spada troppo grande per lei. I nomadi non erano più riusciti a vedere nulla dal momento in cui il globo luminoso si era spento, e la fanciulla aveva gridato loro di stare dietro di lei, mentre con una mano sola respingeva cinque o sei di quei pallidi guerrieri pigmei e delle loro scimmie dalla criniera gialla. Quando Gord iniziò a colpirli alle spalle, caddero come grano sotto la falce, e a quel punto i superstiti fuggirono come il vento; la battaglia era finita.
Mentre i Thuffi recuperavano il lumicino nella sala del tesoro e si accingevano a sbarazzarsi degli eventuali dispersi, Gord e Leda seguirono le orme lasciate dalla banda fuggiasca degli abitatori sotterranei. Solo pochi erano riusciti a fuggire, ma avevano lasciato tracce facili da seguire in quanto parecchi erano feriti e sanguinavano. Le tracce condussero i due giù per la scala a chiocciola fino al vecchio pozzo, per poi scomparire attraverso il pertugio che portava alla pozza d'acqua al di là del muro. «Lo temevo» disse Leda. «Probabilmente si servono di questo luogo, ma vi accedono da qualche altro ingresso. Prima, quando abbiamo fatto il bagno e abbiamo fatto l'amore, devono averci visto o sentito. Quelle scimmie devono possedere un fiuto tale da poter seguire agevolmente una traccia.» «Sì e no, amore» ribatté Gord. «Hai ragione sul fatto che siamo stati scoperti, penso, ma non riguardo alle scimmie. Il loro naso non è poi così efficace - non dimenticare che ho maneggiato parecchi dei loro cadaveri, e li ho guardati bene. Ci hanno seguito grazie alle orme che abbiamo lasciato nella polvere. Penso che quelle cosiddette scimmie appartengano alla stessa specie dei pigmei, ma ne rappresentino una degenerazione oppure vengano allevate come segugi.» Leda non gli credette finché non ebbe modo di esaminare parecchi cadaveri una volta tornati alla sala del tesoro. «Diavolo, Gord! Ma sono uomini per davvero!» esclamò, con voce piena di ribrezzo. «Non proprio uomini» la corresse Gord. «Sono una razza pigmea, discendenti albini di esseri umani che probabilmente vivono sottoterra da centinaia di generazioni. Non c'è da sorprendersi, tuttavia; la schiavitù non si differenzia poi molto dall'allevare degli esseri alterandone le caratteristiche o sfruttandone le degenerazioni. Ho visto i mentecatti allevati dal malvagio Iuz; e un simile comportamento è disgustoso verso chiunque, essere umano, umanoide o scimmia che sia!» All'udire il nome del Cambion, il volto di Leda divenne una maschera d'odio. «Quel porco schifoso!» disse. «Chissà dove, chissà come, qualcuno di nome Iuz mi ha fatto del male, o lo ha fatto a qualcuno che mi è caro. Ucciderei molto lentamente quel pezzo di sterco di cane se lo avessi fra le mani.» «Forse sì... se ne avessi la possibilità» disse Gord laconico. «Tuttavia trovo interessante che questo nome provochi in te una simile reazione, fanciulla. Quali altri ricordi ti tornano alla mente?» Leda lo guardò con espressione assente: «Nessuno, a parte il disgusto e l'odio per quel cane spregevole. Ma ora parliamo d'altro.»
«Sì» intervenne Achulka. «È ora che parliamo del nostro ritorno sulle montagne. I miei fratelli e io abbiamo preso tutte le ricchezze che possiamo trasportare, e quando ci saremo riposati, partiremo. Venite a nord con noi, Farzeel e Leda, Donna-Guerriero!» «Ne abbiamo già parlato, Achulka» disse Gord. «Leda e io abbiamo una... una missione da compiere. Ma se tu vuoi comportarti come un vecchio...» «Basta, Gord!» lo interruppe Leda. L'Elfo nero - e ora pareva proprio un vero Drow, nell'oscurità della sala sotterranea - prese Gord per un braccio, premendoglielo per avere tutta la sua attenzione. «I nostri guerrieri della steppa si sono comportati bene in questo deserto innaturale. Ci hanno aiutato a conquistare questo posto e a sopravvivere ai nemici; ora dovremmo mostrare loro l'acqua che abbiamo trovato, e poi Achulka e i suoi avranno il diritto di prendersi il loro bottino e di tornare indietro.» Gord guardò incredulo la fanciulla: «Ma che cosa stai dicendo?» «Scusateci un attimo, amici» disse Leda ai nomadi, stupefatti quanto Gord della sua disponibilità a soddisfare il loro desiderio di tornare indietro. La fanciulla uscì dalla stanza, tenendo il giovane per un braccio e parlandogli sottovoce: «Penso che possiamo proseguire sotto terra il viaggio verso la Città Dimenticata! Io so che tu riesci a vedere bene quanto me nel mondo delle tenebre, ma quei guerrieri non sono in grado di farlo. Ci sarebbero d'impaccio, quindi lascia che rischino la pelle tornando indietro da soli. Noi procederemo sotto la sabbia.» «Ti ha dato di volta il cervello?» chiese Gord, caustico. «Non c'è modo di procedere sotto il Deserto di Cenere, a meno di non trasformarsi in vermi della cenere, in talpe o in qualcuno di quegli animali squaliformi che i Thuffi chiamano diavoli della sabbia. E perché non in uccelli, per svolazzare sopra il deserto?» «Non è il momento di scherzare, uomo!» Leda lo fissò intensamente, inducendo alla serietà il giovane cocciuto. «Non ti ho mai mentito né tratto in inganno, vero Gord?» La domanda era ovviamente retorica, poiché l'Elfo proseguì immediatamente il discorso, «e non ho intenzione di cominciare ora. Tra i tesori dei cofani ho trovato una pergamena in cui si parla di gallerie che corrono sotto la sabbia. Sottoterra farà fresco, saremo al riparo dalle tempeste e troveremo facilmente l'acqua. Pensa, Gord, invece di faticare per dieci miglia con le calzature da deserto, potremo percorrere una distanza doppia o tripla senza timore di sabbie mobili, di piante o di rettili velenosi, o di essere arrostiti dal sole.»
«Non mi convince» ribatté Gord. «Come faremo a sapere in quale direzione andiamo, supponendo che esistano gallerie che conducano fuori di qui, e che cosa ti fa pensare che queste fantomatiche gallerie portino alla Città Dimenticata?» Leda dovette ammettere tra sé che su questo punto il giovane era nel giusto. «Potresti aver ragione, mio caro» disse. «Le poche informazioni che ho letto menzionano soltanto l'esistenza di gallerie che si estendono per miglia e miglia in tutte le direzioni. Forse una non basterà per condurci fino alla meta, ma percorrere una parte di strada sotto la sabbia sarà sempre meglio di niente. Poi potremo fabbricarci nuove attrezzature o trovarle pronte, e procedere nuovamente in superficie, più vicini al nostro obiettivo. E per quanto riguarda il modo di trovare la direzione giusta, non sai che noi Drow abbiamo un istinto innato per queste cose?» «So poco della tua gente, Leda» ammise Gord. Poi, abbracciandola, disse: «Ma se tutti sono come te, mi piacerebbe saperne molto, molto di più!» «Non scherzare su questo. Io non sono come gli altri miei simili, puoi giurarci. Questo piccolo Elfo nero è tutto ciò che devi conoscere sui Drow» disse la fanciulla in tono fermo. «La tua cultura in materia inizia e finisce con me. Ma ora siamo seri. Viaggiare tra la cenere e la sabbia mi causava gravi disagi, per usare un eufemismo. La luce del sole sembra darmi dei problemi, e tralasciando qualsiasi altra considerazione, sento di non riuscire a sopportare ancora per molto l'ambiente del deserto. Qualsiasi cosa io sia stata in precedenza, semi-Elfo o chissà che, la metamorfosi cui tu stesso hai assistito sembra avere effetti pesanti sulla mia persona. Penso che morirei prima di raggiungere la Città Dimenticata, se proseguissimo in superficie, ma se insisterai, ti accompagnerò attraverso le pianure di cenere e le dune di sabbia, amore mio. Forse i miei timori sono infondati, e noi raggiungeremo insieme la meta...» «Oppure?» «Oppure io morirò e tu la raggiungerai da solo. In ogni caso i nomadi non proseguiranno, che tu li rimproveri o meno. Se continuerai a ricordare loro l'impegno preso, riuscirai soltanto a inimicarteli. Lasciali andare. Possiamo viaggiare da soli, sia nell'inferno là sopra che nei tenebrosi regni sotterranei.» Si interruppe, attendendo la risposta che, come entrambi sapevano, avrebbe risolto la questione, in un modo o nell'altro. Gord la guardò negli occhi, come per scrutare nelle profondità della sua anima e nel futuro. Dopo un minuto aveva preso l'unica decisione possibile. «Proseguiremo... sot-
to terra» furono le sue sole parole. Leda lo abbracciò, e si tennero stretti per qualche istante prima di tornare nella sala. Tutti i nomadi avevano riportato ferite negli scontri appena terminati, ma le avevano pulite e medicate con l'abilità derivante da una lunga pratica. Ognuno di essi aveva bevuto quanto poteva del contenuto del proprio otre. «Mostraci dov'è l'acqua, ora, Farzeel, cosicché possiamo riempire gli otri e andarcene» disse Achulka con fervore. «Venite con me» disse Gord ai guerrieri. «Vi condurrò al pozzo». Leda nel frattempo si mise a rovistare nei cofani, prendendo strani oggetti che pensava avrebbero potuto tornarle utili in seguito. Quando tornò assieme ai nomadi, il giovane ormai si era totalmente rassegnato a quanto stava per accadere, quindi decise di fare buon viso a cattivo gioco e di dimostrarsi amichevole e premuroso. «Volete che nascondiamo Nizamee in uno dei cofani di pietra?» chiese. «Penso che apprezzerebbe la possibilità di riposare su una quantità di ricchezze molto maggiore di quella che chiunque avrebbe modo di vedere in tutta la propria vita.» «D'accordo, Farzeel! Una tomba da eroe per un coraggioso guerriero Thuffi!» esclamò il capo. Poi, portato a termine il compito, Achulka sorrise, indicando la porta. «Ora torniamo tutti in superficie, a rivedere il sole e a respirare nuovamente l'aria aperta, anche se è solo quella puzzolente del deserto!» Leda fu sorpresa di sentirlo parlare così. Evidentemente Gord non aveva ancora informato i nomadi della loro decisione finale. «Ve ne andrete da soli, guerrieri» disse. «Gord e io rimarremo qui per un po' e poi ci rimetteremo in cammino per la Città Dimenticata.» «Non puoi parlare sul serio, donna-guerriero! È vero, Farzeel...?» «Dice la verità, Achulka». Senza aggiungere altro, tutti e cinque tornarono sui loro passi e risalirono nella stanza dalla quale erano entrati nell'edificio. «Ecco» disse il giovane, mentre i nomadi si organizzavano e impacchettavano le attrezzature e i tesori. «Prendetevi anche i nostri otri e le nostre razioni. A noi non serviranno poiché sappiamo dove procurarci il necessario, in caso di bisogno.» «Non crederei ad una simile affermazione» disse Achulka, «se non fossi tu a farla, Farzeel. Non è facile ucciderti, lo so, altrimenti ora giaceresti sul pavimento della cripta. Quindi devi essere convinto di ciò che dici, e se lo sei tu non posso che esserlo anch'io». Accettò le provviste e assieme ai compagni si inchinò profondamente a Gord e Leda, in segno di grande ri-
spetto. I due giovani aiutarono i nomadi a trasportare le calzature, i bastoni e le altre attrezzature su per la scala e poi presero definitivamente congedo. Gord e Leda presero con sé il minimo indispensabile e, su suggerimento della fanciulla, tornarono nella sala del tesoro. Il giovane avrebbe voluto lasciare subito quel luogo tetro, ma Leda sembrava completamente a suo agio laggiù. «Fammi riposare un po'» gli disse, «così prima di partire riuscirò a guarire le scottature e le ferite che ti rimangono.» «Puoi farlo così facilmente? E allora perché non ti sei occupata anche di Achulka e dei suoi?» La sua espressione divenne improvvisamente gelida. «Ci hanno abbandonato» disse, sdegnosamente. «Sarà il tempo ad occuparsi di loro». Gord rimase un po' sconcertato da questo improvviso cambiamento, ma lo attribuì al fatto che la fanciulla aveva veramente bisogno di riposo. «Ora lasciami dormire e recuperare i miei poteri» disse Leda seccamente. «Probabilmente dovrò servirmene anche per procurarci cibo e bevande, quindi monta di guardia mentre io mi riposo.» «Come vuoi» replicò il giovane, altrettanto seccamente, ma se anche aveva notato il tono della sua risposta, la fanciulla decise di non farci caso. Quando Gord ebbe messo il chiavistello alla porta, Leda giaceva prona, prossima al sonno. Ben presto il giovane dimenticò la sua freddezza e si divertì a rovistare fra le pile di tesori rimaste nei cofani di pietra. Sapeva di non poter portare nulla con sé, ma per il momento, almeno, era tutto suo. Che cosa poteva volere di più, un ladro come luì? si disse ironicamente. Capitolo 13 Avevano seguito solo per qualche centinaio di metri un antico passaggio che partiva dal pozzo quando si videro davanti la sagoma di un mucchio di pietre, una frana che a prima vista avrebbe impedito loro di proseguire. Poi, però, Leda scorse una piccola apertura nel soffitto, proprio sopra il mucchio di pietre e detriti. «Guarda, Gord» disse, indicando il pertugio. «Ecco da dove vengono le scimmie e i pigmei!» Gord si precipitò rapidamente su per la pila di sassi e si sollevò all'interno del passaggio. Era molto stretto, ma ciò gli permetteva di arrampicarsi meglio, puntellandosi anche sulle pareti della galleria. Scomparve alla vista di Leda per qualche minuto, poi tornò giù a ritroso e si lasciò cadere agilmente sul pavimento della galleria. «C'è un labirinto di corridoi, lassù» riferì a Leda. «Quell'apertura nel soffitto sembra un'uscita di sicurezza, e
sopra ci sono antiche fognature, scantinati e chissà che altro. Alcune gallerie sono tuttavia di costruzione abbastanza recente, quindi devono essere opera dei pigmei; infatti sono alte soltanto un metro e mezzo, e molto strette.» «Qualcuna di quelle gallerie va nella nostra direzione?» chiese l'Elfo nero. «Sì, ma soltanto una di quelle più strette, che tra l'altro punta verso l'alto.» «Allora vediamo se riusciamo a portar via quei detriti e a proseguire in questa galleria.» «Che cosa ti fa pensare che ce la faremo, fanciulla? Quei nanetti bianchi ci avrebbero pensato da tempo, se fosse stato possibile.» «E perché avrebbero dovuto, visto che avevano già una via per uscire da qui? Non muoverti e stai a guardare; userò un piccolo trucco per scoprire se c'è effettivamente una via» gli disse Leda. Si inginocchiò, e con una pietra affilata incise uno strano simbolo sul pavimento della galleria. Era composto da tre spade, due puntate verso il basso, disposte ad angolo, e una puntata perpendicolarmente verso l'alto, a formare una specie di stella. La fanciulla iniziò a cantilenare sottovoce una formula ed estrasse una pallina di mercurio dal mantello; la mescolò ad un pezzetto di argilla raccolto nella cisterna del tempio, spalmò il miscuglio su una grossa roccia franata, pronunciò una serie di strane sillabe e fece un passo indietro. Gord stava per chiederle che cosa pensava di ottenere quando Leda parlò, senza però rivolgersi a lui. «Dimmi, pietra, cosa c'è dietro di te?» Una voce piatta e cavernosa, a malapena avvertibile rispose: «Un altro pezzo della galleria in cui ti trovi.» «Quante altre pietre si trovano fra te e la galleria?» «Dieci volte la lunghezza del tuo braccio.» «Dappertutto?» «No.» «Dove ce n'è di meno?» «Sopra.» «Sopra dove?» La serie di domande e risposte continuò. Sembrava proprio che le rocce potessero parlare ai chierici in grado di indurle o costringerle a farlo. Alla fine, la strana voce riferì che nell'angolo vicino al soffitto della galleria c'era soltanto un braccio di pietre da scavare per raggiungere il tratto seguen-
te. «Ma in quel punto ci sono altre pietre smosse che potrebbero cadere se scaviamo?» Una lunga pausa. «Sì» ammise infine la roccia. «E l'angolo opposto?» «Lo strato di pietre è solo un po' più spesso, ma il soffitto è solido» disse la voce cavernosa, e Gord avvertì una certa riluttanza in quelle parole. A ciò Leda si allontanò; evidentemente la conversazione era terminata. «Ma come può parlare una pietra?» le chiese, mentre la fanciulla gli faceva cenno di seguirla nel punto in cui avrebbero potuto aprirsi una via. «Le pietre appartengono alla dimensione terrestre. L'incantesimo risveglia un elemento in grado di leggere impressioni all'interno della pietra come io e te potremmo leggere un libro» spiegò impaziente l'Elfo nero. «Ma ora cominciamo a portar via le pietre.» Leda si tenne a distanza mentre Gord lavorava. Non fu troppo difficile, una volta sbloccati i primi frammenti; gli altri erano già smossi e si trattava soltanto di spostarli e di farli rotolare giù per la frana. «Whew!» fece Gord dopo circa dieci minuti di lavoro, mentre contemplava la piccola apertura praticata. «È stata dura, ma sono riuscito a scavare un buco abbastanza grande da consentirci di passare. Vuoi che ti dia una mano?» «No» rispose Leda. «Ce la faccio da sola», e passò subito ai fatti arrampicandosi agilmente lungo la frana e arrivando proprio dietro di lui. «Vai avanti, ti passerò le attrezzature; quando ti avrò dato tutto, spostati dall'altro lato e ti seguirò.» Il corridoio proseguiva per un altro centinaio di passi e poi si divideva in una specie di T. Uno dei rami sembrava andare verso ovest, quindi lo preferirono all'altro, che portava verso est. La galleria prescelta continuava in salita, e in breve i due, dopo aver smosso una pietra nascosta, si ritrovarono a guardare in una tubatura circolare scavata nell'arenaria. «È un acquedotto sotterraneo, Gord. Guarda là, c'è ancora un rivoletto d'acqua.» «Sembra proprio di sì» concordò Gord. «Il flusso scorre verso il tempio e il complesso urbano che un tempo probabilmente lo circondava. Penso che dovremmo imboccare questa conduttura, Leda, anche se in apparenza porta verso sud. Se tornassimo indietro e prendessimo ad ovest non sarebbe di certo meglio.» «D'accordo. Se questa tubatura portava acqua alla città e al tempio, ci farà fare molta strada. E inoltre troveremo acqua lungo il percorso.»
«Ma come avranno fatto gli Antichi Suloise a costruire una struttura simile? Questo tunnel ha un diametro di quasi sei metri e, se non ci sbagliamo, deve proseguire per miglia!» Leda rise della meraviglia di Gord: «Qualsiasi regno tanto potente da trasformare una pianura fertile in un'arida landa desolata, e da ottenere la punizione di essere sepolto da uno strato di sabbia, potrebbe fare qualcosa di simile, con la facilità con cui tu ed io camminiamo qui dentro. Pensa ai poteri che possedevano! Se avessi solo una minima parte della forza di quegli antichi, sarei regina di... Oh, non importa.» «Va bene, amore. Faremmo meglio a risparmiare il fiato per ciò che ancora ci attende, poiché secondo i calcoli, cento e più leghe ci dividono ancora dalla Città Dimenticata.» Il giorno dopo incontrarono la prima limaccia; non era affatto tra le più grandi della sua specie, e non apparteneva nemmeno al genere che sputava saliva velenosa. L'animale sguazzava nel rivoletto che scorreva lungo la tubatura e li aveva sentiti arrivare probabilmente avvertendo le vibrazioni trasmesse dall'acqua. Quando i due giovani le si avvicinarono, si sollevò e iniziò a strisciare sulla sua scia di limo, facendo oscillare le antenne e la proboscide appuntita. Gord, che in quel momento si trovava davanti, fu quasi sopraffatto dal balzo inatteso del mostro, in apparenza lento e privo di capacità sensoriali. D'istinto fece un salto indietro e cominciò a menar colpi con la mano sinistra, che brandiva il pugnale, perché la proboscide uncinata della creatura stava per colpirlo proprio da quella parte. Sebbene la pelle del mostro fosse piuttosto coriacea, la lama affilata tagliò di netto la pericolosa appendice, facendone scaturire un getto di liquido fetente. Il liquido colpì la gamba di Gord, provocandogli un dolore talmente intenso da farlo gridare; poi tutto si fece buio e il giovane non ricordò più nulla finché... «Come stai adesso, amore?» Il delizioso volto scuro di Leda si profilò offuscato ai suoi occhi, e Gord ricordò cos'era accaduto. «La gamba mi duole ancora» rispose, dopo aver riflettuto per qualche istante e aver mosso le membra, «ma il liquido che mi ha colpito sembra non provocare altri danni, oltre al tremendo bruciore.» «Si tratta proprio di bruciore» disse Leda, scuotendo le trecce color platino. «Quella sostanza velenosa ti ha ustionato quasi mortalmente e ho dovuto usare un incantesimo per disintossicarti e guarirti. Sei rimasto privo di sensi per mezza giornata!»
Non appena si sentì abbastanza forte, Gord strinse a sé l'Elfo nero. Nonostante le condizioni in cui si trovavano, scoprirono che baciarsi e fare l'amore poteva guarire quanto qualsiasi magia. «Ora, mia cara regina Drow, siamo pari» le disse. «Io ho salvato la vita a te e tu a me. Si riparte da tabula rasa come sono soliti dire gli studiosi.» Nel proseguire il viaggio, entrambi fecero maggiore attenzione ad eventuali pericoli e fu una buona cosa, poiché più si spingevano lungo la conduttura, più minacciosi erano gli esseri che incontravano. Videro un agglomerato brunastro, una specie di orrendo budino che si nutriva di rifiuti ma poteva anche cacciare. Incontrarono diversi tipi di creature ameboidi, grumi o nastri limacciosi in agguato nell'acqua o sul soffitto ad arco, e altre limacce di vario genere. Solo poche di esse potevano essere evitate, poiché si trovavano proprio sulla loro strada, e come Gord aveva avuto modo di sperimentare sulla propria pelle, erano in grado di compiere movimenti rapidi e fulminei a breve distanza. Si sbarazzarono delle limacce più piccole che non potevano scansare, ma ad un tratto, dopo una curva, si imbatterono in un esemplare mostruoso che occupava quasi tutta la galleria con la sua massa e strisciava verso di loro. «E adesso che facciamo?» chiese Gord, mentre si ritraevano di fronte a quell'orrore. «Questo bruto probabilmente ci inseguirà fino al punto da cui siamo entrati.» Gord poteva anche non avere risorse in una situazione simile, ma per Leda non era lo stesso. «Colpiscilo con la fionda, se ci riesci» disse. «Cerca di fermarlo, o almeno di rallentare la sua avanzata. Io tornerò indietro a prendere qualcosa che non piacerà nemmeno ad una creatura del genere.» Il giovane attese per qualche minuto, mentre la cosa avanzava inesorabilmente; quando ritenne che fosse alla portata della sua arma, cercò di tirare con la massima precisione; sfortunatamente però, a causa dell'altezza ridotta del tunnel, fu costretto a scagliare la pietra su una traiettoria piatta, e non riuscì a mandarla lontano quanto desiderava. Il sasso colpì la creatura di rimbalzo senza ferirla ma provocando l'emissione di una bolla di saliva. Lo spruzzo di liquido mancò il bersaglio, come era accaduto per la pietra, ma Gord capì il messaggio. Se fosse riuscito a colpire la limaccia con la fionda, l'animale sarebbe stato alla distanza giusta per ricambiare con spruzzi della sua saliva velenosa, e una sola dose di quel liquido sarebbe bastata ad ucciderlo. Il giovane armò la fionda ancora una volta, scagliò un'altra grossa pietra giusto per fare qualcosa e tornò indietro di corsa nel punto in cui si trovava Leda, intenta a fare dei gesti.
«Che belle gambe hai, Gord, con quel mantellino corto!» «Non c'è niente da ridere, Leda» ribatté il giovane in tono brusco. Parte del suo burnus era stata bruciata dal veleno della prima limaccia, perciò l'aveva tagliato riducendolo a una specie di tunica. «Quel figlio di puttana sta arrivando!» «Non si avvicinerà di molto. Sono riuscita a trovare ciò di cui avevamo bisogno; stiamo a vedere.» La limaccia gigantesca avanzò verso di loro per un altro minuto, poi si arrestò di colpo agitando selvaggiamente le antenne e contorcendosi tutta. Ad un tratto emise un verso stridulo, che Gord non aveva mai sentito fare alle altre limacce schivate o uccise in precedenza. «Guarda quel sacco di limo, ora, mio caro. Vedi come i visitatori che ho chiamato attraggono la sua attenzione?» «Che succede?» «Ho convocato gli insetti per attaccare la limaccia. Anche quaggiù ce ne sono molti, pronti a rispondere al mio richiamo, e a volte anche gli aracnidi obbediscono. Ci vorrà un po', e nel frattempo faremo meglio a toglierci di qui. I piccini compiranno la loro opera, e morsi e punture faranno fuori la limaccia; poi scarafaggi e coleotteri banchetteranno con quella carne limacciosa, e così potremo proseguire.» Gord rabbrividì al pensiero. Nemmeno un essere spaventevole come quello meritava una morte tanto orribile. D'altra parte, mors tua, vita mea, o loro o la limaccia; Leda da quel punto di vista manifestava un maggiore senso pratico. «Ci hai salvato, fanciulla» disse con tranquilla ammirazione. «Ottimo lavoro... ma non avresti potuto sbarazzartene in qualche altro modo?» Leda alzò le spalle. «Penso di no, ma che differenza fa? Il richiamo ha funzionato e lo sciame di insetti è venuto da me. Potremo proseguire, la faccenda è chiusa. Ma davvero ti preoccupi di quella limaccia?» «Che stupido, vero?» commentò il giovane, con disprezzo verso se stesso. «Quel bastardo mi avrebbe mangiato per pranzo senza pensarci su due volte, ma in tutti i casi è una brutta morte» disse, distogliendo lo sguardo dall'essere in agonia e allontanandosi di qualche metro assieme a Leda, in attesa che gli insetti completassero l'opera. Dopo un po' i due furono in grado di procedere, superando cautamente il punto in cui i coleotteri stavano ancora banchettando con i resti della limaccia. «Una cosa è chiara» rifletté Gord mentre proseguivano. «Il numero di forme di vita che abbiamo incontrato ultimamente spiega tutto.»
«Cosa vuoi dire?» «Poco lontano da qui dev'esserci un punto in cui il tunnel si collega con il deserto soprastante; i mostri e gli altri esseri non vengono certamente dall'interno dell'acquedotto.» Pochi minuti dopo Leda parlò: «»Avevi ragione, Gord. Lo vedi laggiù?«Indicò un muro di sassi e terra ad una trentina di metri di distanza, davanti al quale danzava una chiazza di luce che filtrava dall'alto.»Un'altra barriera«commentò disgustata mentre si avvicinavano.» «Sarebbe stato comodo seguire questa tubatura fino alla meta, e sembrava proprio che portasse a sud-ovest. Forse c'è modo di superare anche questo ostacolo come abbiamo fatto con quello precedente» disse Gord, speranzoso. Un leggero terremoto doveva aver provocato il crollo del tunnel; la frana aveva bloccato totalmente il passaggio dell'acqua, anche se un rivoletto riusciva a filtrare fra le rocce sul pavimento del corridoio. Gord e Leda tuttavia scoprirono di avere diverse alternative; in quel punto dell'acquedotto si aprivano diversi passaggi bui sia ai lati sia sul pavimento. Dovevano soltanto scegliere uno dei tunnel, in cui riuscire a passare comodamente. «Ora ci avventureremo in luoghi più interessanti» spiegò Leda. «Mi sento proprio a casa.» «Ricordi la tua casa, Leda?» chiese il giovane. «No... non ne ho un ricordo particolare. Comunque noi Drow viviamo in ambienti simili, mi pare di aver sentito, non è vero? E allora cosa può esserci di più naturale per me dell'arrancare sotto un Deserto di Cenere?» Gord fece un'espressione torva, ma iniziò ad esaminare le vie disponibili e alla fine ridusse la scelta a due di esse. «Possiamo provare questo grosso buco» disse, indicando l'apertura praticata probabilmente da una limaccia per entrare nell'acquedotto, «o seguire questo più piccolo. Va nella nostra direzione, ma mi sembra che lo stesso valga per quello più grande. Ora scegli tu.» «Apertura grande, mostro grande. Proviamo quella piccola.» La decisione si rivelò ottima. Dovettero chinarsi, ma il tunnel dalle pareti solide procedeva proprio verso sud-ovest, anche se andava leggermente in salita. Ben presto si intersecò con il pavimento di una galleria più ampia, scavata da una limaccia molto più grossa capitata da quelle parti parecchio tempo prima, a giudicare dalle cattive condizioni del tunnel. A nessuno dei due piaceva quel posto, ma furono costretti ad entrarvi, visto che anche la creatura più piccola l'aveva fatto; infatti non si vedevano trac-
ce del suo passaggio nelle vicinanze. La nuova galleria li portò più a sud che a ovest, un po' fuori rotta, ma andava bene lo stesso. Si imbatterono in strane escrescenze, una sorta di materia fungosa che necessitava di poca umidità, in esseri striscianti e occasionalmente in roditori: pipistrelli, ratti e probabilmente topolini. Ma Leda non batté ciglio. «E adesso?» chiese Gord quando arrivarono ad un altro labirinto di gallerie. Davanti a loro non c'era altro che sabbia e terra, e potevano scegliere tra due sole vie: un tunnel in discesa o un'altra galleria scavata dalle limacce che intersecava la loro ad angolo retto. «Giù» disse Leda senza esitare. «È lì che troveremo l'acqua. Ora dobbiamo essere vicini alla superficie, e sarebbe ora che penetrassimo nuovamente in profondità. Con un po' di fortuna troveremo un nuovo labirinto di gallerie.» «E se ne incontrassimo anche gli artefici?» «Tieni pronte le armi» rispose secca la fanciulla. Gord scagliò una grossa pietra piatta giù per il tunnel, e l'ascoltò scivolare; dopo parecchi secondi udì un tonfo fioco e poi più nulla. «Mmm... preparati a frenare dopo qualche secondo, Leda. Penso che al termine di questa galleria ci sia un salto. Dammi qualche minuto di vantaggio e poi seguimi» le disse. Afferrò il pugnale con la mano sinistra e si introdusse cautamente nell'imbocco della galleria. Procedere non fu facile come aveva sperato. Il giovane scoprì che per qualche istinto perverso la limaccia che aveva scavato il tunnel aveva deciso di cambiare inclinazione e di procedere quasi in verticale dopo una decina di metri. Dovette perciò fare appello a tutte le sue forze e puntellarsi contro le pareti con gli avambracci e le ginocchia per rallentare la discesa. Il tunnel tornò leggermente in orizzontale per qualche metro, ma poi, senza preavviso, Gord si trovò con i piedi nel vuoto. «Per tutti i rospi dell'inferno!» L'imprecazione gli venne spontanea, e fortunatamente fu lo stesso per l'istinto di impedire la caduta. Con la mano destra si puntellò immediatamente contro la parete della galleria, e lo stesso fece con la sinistra. La lama aguzza del suo pugnale si conficcò nel limo indurito che costituiva le pareti del tunnel e vi rimase incastrata, slogandogli quasi il braccio nel bloccare la caduta. «Fiuu, c'è mancato poco» mormorò Gord tra sé, appoggiandosi con i gomiti al bordo della voragine e sentendosi la parte inferiore del corpo ondeggiare nel vuoto; dal basso soffiava un vento che gli arruffava il mantel-
lo corto. «Probabilmente mi trovo sull'orlo di un baratro» pensò. Poi udì un fruscio proveniente dall'alto che lo terrorizzò. Probabilmente Leda stava scivolando lungo la galleria, proprio come le aveva detto di fare, senza dubbio con la spada puntata in avanti, pronta a trafiggerlo! Capitolo 14 In un punto qualsiasi della superficie, dove il vento trascinava grandi nuvole di sabbia e cenere attraverso le lande ondulate un tempo sede del Grande Impero di Suel, la lotta per la vita continuava come ormai avveniva da secoli. Alberi dai tentacoli filiformi intrappolavano gli animali incauti, come i bassi 'cespugli-frusta', che non crescevano mai accanto ai tentacoli degli alberi predatori. 'L'ottopunte' e 'l'erba-serpente' si accontentavano di bocconi più piccoli mentre roditori e insetti affamati banchettavano con i loro semi e i loro germogli. I 'cactus saltatori' e le 'piante di fuoco' acchiappavano uccelli ignari e altri esseri volanti mentre le 'piante-stoppino' spruzzavano pezzetti del loro legno su qualsiasi oggetto caldo passasse nelle loro vicinanze, cosicché potessero penetrare nelle carni della vittima, crescere e fiorire. Le 'piante-bacile' offrivano il miraggio dell'acqua mentre i 'cespugli-doccia' spruzzavano di tanto in tanto goccioline del prezioso fluido, e subito dopo un veleno mortale. I vermi della cenere che prosperavano poco sotto la superficie ingerivano minerali e depositavano scorie di cui si nutrivano altri esseri, e a loro volta servivano da nutrimento a insetti, uccelli, toporagni, talpe e a molte altre creature. Gli 'arcieri della sabbia' si scambiavano colpi con gli 'uccelli-ago'; le vipere maculate e le micidiali 'frecce della cenere' strisciavano fra la polvere in cerca di preda. I 'cavalieri delle sabbie' e i 'ragni-lupo' di grosse dimensioni si celavano fra la cenere o scorrazzavano qua e là, a caccia di lucertole dalle zampe palmate e di lunghi millepiedi neri, dei quali a volte divenivano preda. Al calare delle tenebre si scatenavano i branchi di cani, lupi, sciacalli e volpi dalle lunghe zampe e dai grossi piedi. A volte i 'pesci delle sabbie', acquattati in attesa della preda, catturavano qualcuno di quei canidi, a volte erano i canidi stessi a nutrirsi delle carni di quegli esseri dalle lunghe pinne. La vita continuava sotto molte forme e a diversi livelli di attività. A nord tre nomadi si trascinavano faticosamente fra detriti e dune. Erano ancora piuttosto distanti dalle montagne, ma ben presto sarebbero giunti all'oasi che cercavano. Le loro provviste d'acqua infatti cominciavano a
scarseggiare, poiché una pianta 'letto-di-chiodi' e un attimo di disattenzione erano costati loro due otri pieni. Inoltre, siccome dovevano ancora riprendersi dalle ferite, camminavano più lentamente di quanto non avessero fatto all'andata; con un po' di fortuna, tuttavia, tutti e tre ce l'avrebbero fatta. Più di cento leghe più a est, una dozzina di anime, totalmente ignare dell'esistenza dei nomadi, viaggiava attraverso il Deserto di Cenere su uno strano veicolo spinto dal vento. Già la metà delle ruote su cui procedeva erano state distrutte da rocce appuntite o da strane piante ma, quel che era peggio, aveva incontrato un pantano di sabbia estremamente vasto e pericoloso che lo aveva costretto a deviare di centoventi miglia per aggirarlo. Il ritardo, i giorni in più di stenti da sopportare e il fatto stesso che una cosa simile potesse essere accaduta rendevano furioso il capitano del vascello delle sabbie. Obmi diede una bella strapazzata al mago di nome Bolt per l'incidente, e poi, per buona misura, ordinò che il primo pilota fosse frustato; anzi, prese la frusta di mano all'esecutore che, secondo lui, non colpiva abbastanza forte il trasgressore. Il Nano invece fu fin troppo zelante, e la vittima morì prima dell'alba del giorno seguente, ma Obmi non se ne curò più di tanto; anzi, quella morte significava una bocca in meno da sfamare con lo scarso cibo e da dissetare con la scorta d'acqua ormai in via di esaurimento. Inoltre, a bordo c'erano altre due persone che potevano benissimo prendere il posto del pilota morto. Il vascello spinto dal vento che trasportava il Nano e il suo seguito attraverso la landa polverosa non era l'unico strano veicolo in viaggio nel Deserto di Cenere. Un altro, più piccolo e ancor più strano, sfrecciava ben più rapidamente del vascello a vela; aveva la forma di un pesce: rassomigliava a una cernia, non solo per la sagoma ma anche per i colori con cui era dipinto; aveva anche gli occhi, cristalli affumicati che permettevano a chi si trovava all'interno di guardare fuori, ma non viceversa. Il veicolo era perfettamente resistente alla sabbia e alle tempeste di vento, e poteva ospitare comodamente tre o forse quattro persone. Non c'era tuttavia modo di capire quante persone contenesse. Visto da lontano, lo strano «pesce» sembrava galleggiare ad una trentina di centimetri dalla sabbia e dalla cenere. A metà dei fianchi del veicolo c'erano alcune pale rotanti, fatte di cuoio spesso e rigido. Grazie al movimento rotatorio, il bordo veniva a contatto con il terreno e scagliava nuvole di sabbia e cenere verso la coda del veicolo, che in questo modo si spostava molto velocemente. Quando si fermava del tutto, però, si rimetteva in moto piuttosto lenta-
mente, e un uomo che fosse partito a piedi contemporaneamente al veicolo due o tre minuti dopo si sarebbe trovato ad un tiro d'arco di distanza, perché ad ogni pigro giro delle ruote il vascello si spostava solo di qualche metro. Dopo i primi giri, tuttavia, prendeva slancio, e in pochi minuti procedeva più in fretta del più veloce camminatore. Dopo un tempo relativamente breve lo strano marchingegno poteva raggiungere la velocità di un cavallo al galoppo, ma era troppo pericoloso percorrere a quel ritmo lunghe distanze attraverso la terra nuda e coperta di cenere del deserto. Le pietre sporgenti, i dislivelli improvvisi e gli altri pericoli erano troppo numerosi perché si potesse spingere il veicolo alla velocità desiderata dai suoi occupanti. Sebbene la chiglia fosse ricoperta di placche metalliche, le prime difficoltà della velocità troppo alta imponevano prudenza, e le ammaccature ed i graffi riportati dallo scafo erano una prova eloquente dei rischi dovuti alla fretta eccessiva. Comunque il «pesce» avanzava rapidamente, rallentando in salita e accelerando in discesa, e percorreva una media di dieci miglia all'ora, senza contare le soste per il riposo e la manutenzione. Aveva coperto settecento miglia in soli quattro giorni, e la zona particolarmente piatta e priva di ostacoli in cui ora si trovava permetteva agli occupanti di aumentare la velocità senza rischi inutili. Si può dire che volasse, e ad un certo punto il timoniere ne stimò la velocità in trenta miglia all'ora, e per la soddisfazione accompagnava le manovre canterellando. «Cos'è quella linea scura all'orizzonte» chiese il copilota. «Forse una tempesta di cenere» fu la risposta. «Penso di no, ma forse stiamo stringendo il vento» disse pensoso il copilota. Il timoniere continuò ad osservare la massa oscura che si stagliava all'orizzonte. «Mi sembra immobile» commentò. «La carta indica la presenza di montagne?» «Tutte le montagne sono state distrutte dalla Tempesta di Fuoco Invisibile, sciocco» ribatté l'altro. «C'è un solo modo per determinare che cosa c'è laggiù, allora» disse torvo il timoniere. Tirò un filo alla sua destra e la velocità delle ruote aumentò. Dal retro del veicolo provenivano fischi e sibili, ma entrambi li ignorarono; non si preoccupavano molto, poiché il vascello avrebbe retto. In pochi minuti erano arrivati a quaranta miglia all'ora, e continuavano ad acquistare velocità. «Presto saremo abbastanza vicini per vedere di che cosa si tratta. Devo rallentare?»
«No, continua così. Dobbiamo arrivare il più presto possibile» intimò il copilota. In breve il profilo scuro rivelò la sua natura: si trattava di una specie di scogliera nera che si estendeva da nord a sud per tutta la linea dell'orizzonte. Sembrava alta almeno quindici metri nei punti più bassi, ancor più alta altrove. «Rallenta e punta a sud» ordinò il copilota, imprecando. Il veicolo a forma di pesce curvò in modo da seguire la scogliera, puntò verso sud, alla velocità di un cavallo al trotto, e continuò a divorare il terreno con regolarità. Capitolo 15 Leda sfrecciò giù per il tunnel scavato dalla limaccia morta da tempo. Rassomigliava ad una J, con la parte superiore inclinata di circa trenta gradi rispetto alla verticale e l'uncino mancante quasi della metà. Sebbene la fanciulla non se ne curasse molto nella sua discesa, la parte mancante poteva essere stata eliminata dallo stesso cataclisma che aveva creato il baratro in cui terminava la galleria a forma di J. Quando raggiunse il punto in cui la galleria tornava orizzontale, la discesa precipitosa di Leda rallentò leggermente, con sua grande gioia; purtroppo non sapeva che in pochi secondi sarebbe stata catapultata nel vuoto per centinaia di metri, prima di raggiungere nuovamente una superficie solida. Gord temeva che Leda stesse scivolando verso la morte, e che, se non avesse preso in fretta qualche provvedimento, avrebbe trascinato anche lui con sé finché entrambi non fossero precipitati nel baratro per spiaccicarsi chissà dove. Mentre il rumore della discesa vertiginosa di Leda si avvicinava, Gord reagì con rapidità ed audacia. Con una spinta si sollevò nuovamente nell'imboccatura del tunnel, liberando contemporaneamente il pugnale dalla parete e, approfittando dello slancio iniziale, si spinse verso l'alto fino a trovarsi con la schiena contro il soffitto curvo della galleria. Guardando in basso dietro le proprie gambe sarebbe riuscito a scorgere la sagoma di Leda un istante prima che lo superasse. Il giovane agì proprio nel momento in cui il corpo della fanciulla gli sfrecciò fra le gambe. Conficcò il pugnale nel soffitto sopra la sua testa e si lasciò cadere stringendo le gambe come si fa per restare in sella ad un cavallo selvaggio. La punta affilatissima del pugnale era conficcata profondamente e Gord strin-
geva forsennatamente l'elsa con entrambe le mani. Qualcosa di morbido urtò contro le sue gambe proprio mentre le univa; udì un grido soffocato e avvertì un tremendo strattone che mise a dura prova i suoi muscoli doloranti; alla fine sentì due braccia aggrappate alle sue ginocchia. Il giovane era di nuovo parzialmente sospeso nel vuoto, e sentiva l'orlo tagliente del baratro penetrargli negli stinchi. «Non mollare» pregò Leda con voce tremante. Per fortuna non aveva la spada quand'era scesa, altrimenti Gord avrebbe riportato qualche brutta ferita. «Certo che no» rispose a denti stretti, «ma faresti meglio a tirarti su in fretta!» «Non... non ci riesco! Non ho il coraggio di staccare le mani dalle tue gambe! Sotto di me c'è il vuoto!» «Perfetto!» rantolò Gord. «Tienti stretta allora. Cercherò di tirare su io tutti e due». Il giovane era abbastanza forte da riuscirci, ma non appena iniziò a sollevarsi, Leda urlò e Gord sentì il pugnale smuoversi leggermente. «Fermati Gord! Se fai così, la schiena mi striscia contro la parete e mi fa perdere la presa.» «Nessun problema, fanciulla» le disse Gord. «Non ci riproverò, anche perché il pugnale che ci trattiene entrambi si è smosso con quel movimento.» «E allora cosa facciamo? Non posso mica restare così in eterno!» I piedi di Gord si toccavano dietro le spalle di Leda, ma non erano saldamente agganciati, e là fanciulla si teneva goffamente aggrappata alle sue gambe mentre tentava di raggiungere una posizione più sicura afferrandosi più in alto che poteva. «Sposta le mani dietro le mie ginocchia, Leda, e aggrappati lì» disse Gord. Sentì la fanciulla spostarsi obbedendo alle sue istruzioni e allora si sollevò verso il pugnale, poi scivolò nuovamente indietro e ripeté il movimento altre due volte. «Che stai facendo?» Il tono della domanda era iroso e spaventato allo stesso tempo. «Tienti stretta!» ringhiò Gord stringendo i denti. Si sollevò un'altra volta, puntò i gomiti contro le pareti della galleria il più saldamente possibile e con i polsi e gli avambracci fece leva sul pugnale conficcato nel terreno. La lama cedette improvvisamente e Gord fu immediatamente trascinato verso il baratro. «E... e... e... k!». Leda lanciò un grido stridulo d'orrore non appena si rese conto che entrambi stavano scivolando verso la fine.
Ma Gord aveva un piano, e i suoi riflessi da gatto ne resero possibile la realizzazione. Nel momento in cui con la metà del corpo superava il bordo della conduttura, sollevò nuovamente il pugnale e lo conficcò nella terra; ci riuscì anche questa volta, proprio sull'orlo dell'abisso. Ora era sospeso per le braccia e Leda dondolava sotto di lui, gemendo di terrore, ma sotto la sua apparente follia si nascondeva una strategia ben precisa. «Smettila!» disse alla fanciulla. «Il terrore esaurisce le forze. Non devi preoccuparti di nulla, ora; saremo fuori da questo guaio in un secondo». Detto ciò, fletté i muscoli delle gambe per assicurarsi di tenere stretta la fanciulla e per rassicurarla che si trovava in buone mani, se così si poteva dire. Stringendo forte il pugnale con la mano sinistra, Gord staccò la destra e tastò l'imboccatura della galleria; trovò presto ciò che cercava: una crepa abbastanza profonda da servire come appiglio. Si sollevò di qualche centimetro, facendo forza con la mano destra, poi staccò la sinistra dall'elsa del pugnale e la tese a Leda. «Aggrappati al mio polso» le ordinò, sentendo le dita della fanciulla solleticargli il dorso della mano. Leda ubbidì immediatamente e gli afferrò il polso in una morsa con la forza della disperazione. «Ora tieni duro. Lascerò andare la presa con le gambe, ma ti tengo per il polso e tu tieni me» le spiegò con calma, scandendo le parole. «Non appena avrò le gambe libere, troverò un appiglio per i piedi e poi ti tirerò su... Adesso!» Lo strattone dato al suo braccio dal peso della fanciulla gli fece quasi perdere la presa, ma le dita fortunatamente ressero. Puntò il piede destro contro la parete per impedire al suo corpo di oscillare, mentre con il sinistro cercava un qualsiasi appiglio. Per alcuni secondi gli parve che quella parete rocciosa fosse liscia come uno specchio, ma finalmente trovò una piccola sporgenza. Sollevò bene il piede in modo da appoggiarvisi con tutto il peso, per allentare un po' la tensione del braccio destro e permettere così ai muscoli di rilassarsi e al sangue di scorrere più liberamente e di dare maggior forza all'arto. «Tirati su, ora» gridò a Leda, infilando nuovamente le dita nella crepa e facendo forza sul piede sinistro mentre sollevava la ragazza con il braccio sinistro. Con quel movimento lo sforzo si trasferiva dalle braccia al piede; se la piccola sporgenza di calcare si fosse sgretolata o se il piede gli fosse scivolato, entrambi sarebbero stati perduti. Gord pregava in silenzio; poi Leda riuscì ad aggrapparglisi alla cintura e a sollevarsi accanto a lui. Il giovane allora guidò la mano sinistra della compagna all'elsa del pugnale conficca-
to nella parete del tunnel: «Ora lasciami il polso e afferra il pomo del pugnale; è conficcato saldamente nella roccia e reggerà facilmente il tuo peso.» Leda seguì le sue istruzioni. «Ce l'ho!» gridò gioiosa. Poi liberò la mano destra, e servendosi di entrambe le mani si sollevò oltre l'imboccatura, rientrando finalmente nel tunnel. In un secondo Gord riuscì ad afferrare nuovamente il pugnale, si tirò su e finalmente si trovò fianco a fianco con Leda nella conduttura; il dover condividere uno spazio tanto ristretto per il momento dava loro un senso di sicurezza. «Come torneremo su?» chiese Leda. Gord si soffermò a riflettere, poi disse: «Non sono sicuro che lo faremo.» «Hai forse un tappeto volante sottomano?» La voce della fanciulla era stanca e irritata. «No, ma dev'esserci una via per scendere, praticabile da tutti e due. Quella mostruosa caverna, o quello che è, sembra aprirsi verso sudovest, cioè nella nostra direzione.» «Tu vai avanti, se vuoi. Io tornerò indietro da dove siamo venuti» disse Leda, acida. Si voltò, dimenandosi per tornare indietro. Gord rimase dove si trovava, per vedere se la fanciulla parlasse seriamente. Leda non aveva fatto nemmeno dieci metri che si bloccò sui propri passi e Gord udì il rumore che l'aveva indotta a fermarsi: una specie di risucchio affannoso. Non aveva idea da dove provenisse, ma concluse che non gli interessava scoprirlo. Mentre Leda tornava cautamente da lui, il giovane si spostò sull'imboccatura del tunnel e sbirciò nel baratro. Circa un metro e mezzo alla sua sinistra, tre metri più sotto, si trovava una cengia che correva lungo la parete rocciosa fin dove si estendeva il suo campo visivo. Sembrava una via accessibile, e Gord avrebbe potuto raggiungerla senza difficoltà, facendo ricorso alle proprie capacità di acrobata, ma per Leda sarebbe stato impossibile arrivarci, senza il suo aiuto. «Non perdere il dweomer proprio adesso» sussurrò al pugnale mentre iniziava a scheggiare il calcare proprio sotto l'imboccatura, per creare una specie di gradino, tale almeno ai suoi occhi di esperto scalatore. Poi, più in basso e lateralmente, la lama magica riprese la sua opera, scavando un altro gradino nella pietra cedevole. Leda ormai era tornata, e lo guardava terrorizzata. «E adesso che facciamo?» gemette.
Invece di risponderle, il giovane raddoppiò gli sforzi; poi si allontanò dalla fanciulla scendendo sul gradino che aveva scavato sotto l'imboccatura per fabbricarne un altro in direzione della cengia. «Non andartene senza di me» supplicò Leda. «Non lo farò, non preoccuparti. Vieni qui e scendi immediatamente, altrimenti il mostro che sta arrivando ti mangerà per cena». Mentre la fanciulla guardava cautamente giù, Gord le mostrò dov'erano gli appigli per mani e piedi. Dapprima ella si mostrò riluttante, ma il tonfo di qualcosa di viscido alle sue spalle la spedì sul primo gradino in un lampo. «Seguimi; aggrappati sempre a tre appigli ed evita i movimenti bruschi» disse Gord, facendo sembrare la cosa molto più facile di quanto Leda ritenesse. Un'appendice gommosa spuntò strisciando dall'apertura che la fanciulla aveva appena lasciato; si fermò, tremolò per un istante e poi brancolò incerta nella sua direzione. Senza esitare, la fanciulla Elfo si spostò sul secondo gradino; ora la sua testa si trovava un metro e mezzo sotto l'imboccatura della galleria. La proboscide si allungò, a quasi trenta centimetri dal suo corpo. «Gord, fai qualcosa! Sta per prendermi!» Il giovane si spostò verso destra e si lasciò cadere sulla cengia, servendosi della parete rocciosa per rallentare la caduta e piegando le gambe per ammortizzare l'impatto. Si girò verso Leda, che capì di potersi spostare lateralmente di un metro circa, nel punto in cui si era trovato Gord un istante prima e così fece. Anche il tentacolo si allungò, e quasi la raggiunse; ad un tratto la toccò e con un grido involontario Leda si ritrasse, perse l'appoggio e cadde per quasi un metro, nelle braccia tese di Gord. «Andiamocene» le disse, adagiandola sulla cengia calcarea larga circa un metro. «Chissà cosa potrebbe farci, quel mostro». Detto ciò, iniziò a camminare lungo la cengia. Leda lo imitò, girandosi con il volto verso la parete e spostandosi rapidamente di lato per raggiungerlo. Dopo una sessantina di metri la cengia si interrompeva per un metro e mezzo, due, e ricominciava un po' più in basso rispetto al punto in cui ora si trovavano. Una frana doveva essersene portato via un pezzo. «Quella cosa continua a inseguirci» sibilò la fanciulla. «Non c'è tempo da perdere» osservò Gord. Una massa amorfa dotata di diverse appendici puntate nella loro direzione strisciava inesorabilmente lungo la cengia, ad una quindicina di metri di distanza. Con un po' di fatica, Gord riuscì a trovare un appiglio, circa un metro più in là sulla parete perpendicolare. Afferrandolo con la mano sinistra, il giovane avventuriero
fece oscillare il proprio corpo come un pendolo, inarcandosi verso l'estremità opposta della cengia, e atterrò agilmente dall'altra parte. «Leda, fai qualche passo indietro, prendi la rincorsa e salta! Ti prenderò io». Il mostro ora si trovava a circa tre metri da lei, quindi l'Elfo nero annuì e seguì le istruzioni. «Ora passa avanti» continuò Gord. «Vediamo se quella massa di letame riesce ad oltrepassare il crepaccio.» Leda fece qualche passo e poi si girò a guardare cosa faceva il compagno. Gord era rimasto sul bordo del crepaccio, ad osservare il mostro; uno degli pseudopodi ondeggiò verso di lui, mentre la massa informe esitava nel punto di interruzione della cengia. Il giovane si spostò leggermente mentre il tentacolo si agitava nell'aria e poi si posava a poca distanza da lui, attaccandosi alla cengia; fatto ciò, iniziò ad ingrossarsi, mentre la massa all'estremità opposta contemporaneamente si assottigliava. «Dannazione!» esclamò Gord, tra la meraviglia e il disgusto. «Fai qualcosa!» gridò la fanciulla. Mentre Leda lo incitava, Gord estrasse la daga. «Obbedisco, fanciulla!» mormorò. Con un'imprecazione, puntò la lama verso il basso, colpendo la sostanza nerastra proprio nel punto in cui iniziava a gonfiarsi. La lama penetrò facilmente, e un fiotto di ributtante liquido nerastro ne macchiò la lama. Si udì un lamento e in un attimo la cosa scomparve alla vista; poi Gord avvertì uno sfrigolio provenire dalla propria arma e si affrettò a guardare; non riusciva a credere ai propri occhi: il sangue della creatura stava dissolvendo il metallo! «Sono fottuto!» esclamò. «Esistono altre spade, amore mio» lo consolò Leda, stringendogli il braccio. «Ora siamo salvi, e vivi. È questo che conta, non la spada.» «Finché non dovrò combattere di nuovo» ribatté Gord. Non c'era niente da fare, tuttavia. Lasciò cadere l'elsa e il fodero nel baratro in cui era svanito il mostro, alzò le spalle e riprese la propria posizione in testa lungo lo stretto corridoio di pietra. «Mi resta almeno il fido pugnale» disse infine. «Certo, Gord, e io ho ancora la spada. Facciamoci coraggio!» Il giovane non si sentiva molto coraggioso in quel momento, ma almeno la fanciulla Elfo si era ripresa dallo spavento dovuto alla caduta quasi fatale nel baratro sotterraneo. Sarebbe toccato a lei risolvere la successiva difficoltà con la spada e con gli incantesimi; Gord ora desiderava soltanto uscire dal sottosuolo e rivedere il sole, anche a costo di riprendere il faticoso cammino nel Deserto di Cenere.
La cengia scendeva verso il basso e assumeva un profilo spezzato, come se le forze naturali che l'avevano creata avessero voluto procurarsi dei lunghi gradini in discesa; inoltre si allargava, quindi diventava piuttosto facile da percorrere, almeno finché non fosse arrivato un punto in cui si interrompeva del tutto. Alla fine la cengia distava soltanto tre metri dal fondo del baratro, e i due riuscirono a saltar giù. Si recarono quindi nel centro della caverna per perlustrarla; non riuscivano a scorgere il soffitto, e il diametro della cavità doveva misurare almeno trecento metri. «Non c'è né cenere né sabbia, quaggiù» osservò Gord, meravigliato. «Una grande magia aleggia ancora in questo baratro, Gord. L'ho pensato appena l'ho visto, poiché una simile bizzarra cavità sotterranea non può esistere senza la protezione di potenti incantesimi.» Tornarono al punto da cui erano scesi e ricominciarono a seguire la cengia, che ora riprendeva a salire. La caverna inoltre iniziava a restringersi, finché la cengia non divenne il pavimento di una galleria, anche se piuttosto ampia. «Abbiamo fatto miglia e miglia in salita, ormai» osservò Gord qualche tempo dopo. «Ora dovremmo trovarci in mezzo al deserto, Leda, e siamo ancora sotto terra. Questa galleria sembra proprio una strada. Che ne pensi?» «Che dovremmo riposare un po'» disse. Mentre si sdraiavano, la fanciulla si sentì in dovere di fornire una risposta valida alla domanda di Gord. «Sono abituata alla vita sotterranea. Per me è chiaro che questo luogo è stato creato dalla mano dell'uomo, probabilmente da coloro che governavano l'impero perduto di Suel. Forse la caverna che abbiamo visto prima doveva servir loro da rifugio finché non fosse passata la Tempesta di Fuoco Invisibile e non fossero riusciti a recuperare le loro terre». Tacque e si perse nei propri pensieri per parecchi minuti. «In qualche modo sento che laggiù c'è una città. Vuota, abbandonata. Un luogo che non fu mai usato come i suoi costruttori avevano progettato.» «Che cosa te lo fa pensare?» chiese Gord. «Soltanto una sensazione, direi. Pensa anche a quei pigmei albini, Gord. Credo che siano i discendenti dei signori del Grande Impero di Suel, la loro aristocrazia degenerata. E le scimmie sono i superstiti meno fortunati di quella razza infelice.» Gord si era sollevato su un gomito e fissava intensamente Leda mentre parlava. Era una Drow, ma aveva mai visto una fanciulla, no, una donna più bella? Sebbene il pensiero occupasse soltanto metà della sua mente, Gord sapeva già la risposta. Leda era certamente la femmina più deliziosa
a cui potesse pensare... «Gord, mi ascolti?» «Ma certo. Mi sembra che ricordi molte cose, Leda. Ora hai capito chi sei?» Ora toccò a lei fissare Gord. Il giovane la osservava con uno sguardo aperto e indagatore, e quando la fanciulla gli fece un piccolo sorriso lo ricambiò con interesse. Leda rispose il più sinceramente possibile: «So chi non sono, Gord; e so chi sono, quando sono nata e cosa devo fare.» «Le tue parole sono maledettamente confuse, donna.» Ignorando quell'appellativo, Leda si mise a sedere e disse in tono frenetico: «Non voglio confonderti. Ho bisogno di raccontarti tutto e di farmi accettare da te. Lo farai, Gord? Posso contare su di te?» Anche il giovane si mise a sedere, con un'espressione torva: «Tutti questi profondi, tenebrosi misteri, suvvia! Anch'io non so chi sono veramente, te ne ho parlato, perché sono orfano... ma non importa. Vai avanti e di' quello che hai da dire. Io e te siamo più vicini di chiunque altro, dunque come puoi dubitare di me?» «Vedremo. Sappi che sono nata solo alcuni mesi fa. Hai capito bene, mesi! Sono un clone, di tipo speciale, creato per svilupparsi pienamente in un tempo molto breve e dotato di qualcosa che un clone non dovrebbe avere... Gord, io sono il duplicato di una delle Drow più malvagie e degenerate mai esistite, quella che si fa chiamare Eclavdra Eilserv.» «Mai sentita» le disse Gord con un sorriso. «E tu non somigli molto alla descrizione della tua gemella - o dovrei dire genitrice? Quelli che nascono dalla carne di un'altra persona non dovrebbero essere copie esatte? Ma tu non sei affatto malvagia e degenerata, come dici.» Leda tirò un sospiro di sollievo. Nonostante Gord in apparenza contestasse l'ultimo punto, la fanciulla capiva che le credeva. Gli si avvicinò e lo strinse a sé: «Grazie, mio caro! Temevo che tu mi avresti creduto una bugiarda, o una demente, o che mi avresti odiata!» «Solo se ce ne fosse stato motivo» replicò Gord. Poi ricambiò l'abbraccio dicendo: «Continua. Penso che tu abbia altro da raccontare.» «Vedi, nella mia mente dimorano due serie di ricordi. Ci sono i miei, che iniziano con la notte in cui mi hai salvata, amore; e poi ci sono i suoi. Una fogna! Le esperienze di Eclavdra sono talmente schifose e crudeli che le tengo sotto chiave in fondo al cervello. Se solo potessi bruciarle! Beh, non mi sarà mai possibile, quindi te ne parlerò. Tu sai ogni cosa di me, poiché abbiamo condiviso tutto ciò che io sono. Ora ti racconterò di lei.»
«Eclavdra è l'ancella del grande signore dei Demoni; egli è nero come me, e ha sei dita alle mani e ai piedi. Non pronuncerò il suo nome; sai a chi mi riferisco?» Gord annuì lentamente. «Ho avuto motivo di studiare la Demonologia, a suo tempo, Leda. Ho combattuto contro un paio di Demoni minori e li ho sconfitti, ma so qualcosa anche dei grandi che spadroneggiano sull'Abisso, e mi è noto il nome di quello di cui stai parlando.» «Eclavdra è la sua Gran Sacerdotessa, e io stessa devo attivare dei collegamenti con la sua dimora per trarne i poteri necessari ad alcuni dei miei incantesimi, Gord. Ma Eclavdra è la sua schiava compiacente, Gord, e io non ho niente da spartire con questo! Il fatto è che sono sintonizzata con lei e che abbiamo gli stessi fremiti, sotto molti aspetti, ma io, Leda, ripudio questo legame!» «Per due secoli Eclavdra visse nella Cripta, la dimora dei Drow che si cela nelle viscere della terra. Cercava il potere, bramosa di governare la Grande Caverna dei Drow e tutti coloro che vi abitavano, ma quando i suoi piani sfumarono, abbandonò il clan e cercò il potere altrove. Il signore demoniaco di cui ti ho già parlato l'accolse, e lei tornò in patria piena di furia per rovinare i propri nemici, accompagnata da un'orda dei seguaci di quel Demone. Scoppiò una guerra civile in cui la fazione di Eclavdra trionfò, e ora il clan degli Eilserv e i suoi sostenitori signoreggiano sui Drow.» «Una volta appurato ciò che si trovava negli abissi, tuttavia, Eclavdra non fu soddisfatta di essere regina, o almeno è così che interpreto i ricordi che mi tormentano, quando ho la forza di analizzarli. Forse si trattava più che altro di dover servire altrove lui, il grande Demone. Ora, comunque, ella desidera regnare su qualcosa di ben più importante di qualche migliaio di Elfi neri che dimorano nel regno sotterraneo, perciò intrattiene relazioni con ogni specie di signori demoniaci e di esseri malvagi...» Fece una pausa, e Gord chiese: «E dov'è questa Eclavdra, ora?» Leda alzò le spalle. «Io dovrei essere lei, un duplicato che sa dove si trova il suo 'genitore' e lo odia; dovrei desiderare la sua morte, per poter diventare l'unica vera Eclavdra, ma non conosco perfettamente i suoi pensieri e non desidero diventare lei. La ucciderò, sì, perché devo farlo, ma solo per liberare Tarre da un essere tanto malvagio.» «Che cosa dici, Leda? Ti prego, non permettere che le emozioni alterino i tuoi pensieri» le disse. «Devo sapere chiaramente che cosa succede, se vuoi che ti aiuti.» «Hai ragione. Lascia che mi calmi un attimo» e così dicendo si rilassò
visibilmente e riacquistò la sua compostezza. «Poiché ho ricevuto, o forse ho sviluppato in qualche modo, un'identità unica e separata, una personalità ben distinta da quella di Eclavdra, non so dove essa si trovi in questo momento. Forse è nei paraggi, mi sembra di sentirlo, ma questo potrebbe soltanto essere un mio desiderio, nato dalla volontà di affrontarla e distruggerla. Eclavdra ha voluto che fossi creata come bersaglio, un'esca da uccidere al suo posto mentre lei raggiungeva indisturbata la meta.» Gord la interrogò nuovamente: «Quale meta?» «Anche lei cerca quello che cerchi tu. È in corso una gara, Gord: due fazioni demoniache lottano per il possesso della... Chiave Finale. Ne cito il nome perché so che tu ne sei al corrente. Anche quel volgare pezzo di sterco chiamato Iuz, colui che regna su Dorakaa e ora anche su Molag, e la sua madre innaturale si sono intrufolati nel gioco. Forse farebbero i creatori di re, ma sospetto che vogliano impadronirsi della chiave. So che io sono qui per impedire a tutti loro di riuscire.» «E questa è anche la mia missione, che ho accettato liberamente. Ma tu, perché devi fermarli?» «Eclavdra darebbe il multiverso in schiavitù pur di poter soddisfare la propria ambizione. Se dovesse sopravvivere, o addirittura impadronirsi della Chiave Finale, le conseguenze sarebbero terribili. È per questo che sono felice di averti trovato, mio caro, ed è una fortuna che tu sia dalla mia parte. Se non ci sarà altra scelta, Gord, dovrò dare la mia vita in cambio di quella di Eclavdra; morirò affinché possa essere annientata. Se ciò dovrà accadere, tu sarai con me per prendere l'ultima parte dell'oggetto e portarla dove ti è stato ordinato.» «Quindi due grandi Demoni lottano per la Chiave Finale, se ho ben capito» disse Gord, riflettendo sulle parole di Leda. «Eclavdra è l'agente di uno, ma chi lavora per l'altro?» «Il Nano» disse Leda, il bel volto una maschera d'odio. «Obmi.» «Aha, lo conosco quello! E ho un conto da saldare con lui» disse Gord, battendosi il fianco nel punto dove usava portare la spada. «Maledizione! Dovrò combattere con quel mucchio di letame e sono senza spada!» Leda fu pratica: «Se non ne troviamo un'altra per rimpiazzare la perdita prima che tu debba affrontare il Nano, ti darò la mia scimitarra; non è gran che, lo so, ma è meglio di niente. Abbiamo entrambi degli svantaggi, Gord, ma anche un grande vantaggio.» «E cioè?» «Eclavdra e Obmi sono venuti con l'intenzione di accaparrarsi perso-
nalmente la Chiave Finale. Entrambi sono feccia, schiavi di Demoni, ma si confronteranno fra loro, mentre io e te lavoriamo in équipe. Eclavdra dovrà combattere contro tre nemici, e così Obmi, ma noi ne abbiamo soltanto due, mi capisci?» «Certo, capisco benissimo, Leda. Il tuo ragionamento non fa una grinza, ma mi sembra che tu abbia dimenticato un elemento importante. Chi altro accompagnerà quei due?» L'Elfo nero aggrottò le sopracciglia. «Fammi pensare... Sì, hai ragione» disse dopo un po'. «I ricordi di Eclavdra contemplano un progetto che comprende molti servitori, almeno una mezza dozzina, capaci e ben attrezzati tanto da contrastare qualsiasi forza Obmi chiami a sostegno dei suoi sforzi.» «Le due fazioni si distruggeranno a vicenda?» «La gara prevede questa eventualità, ma temo che combatteranno prima contro di noi. Penso di essere stata troppo precipitosa a considerarci vincitori, troppo sicura di noi» disse addolorata, guardando Gord con aria mesta. Il giovane avventuriero chinò il capo riflettendo sulla questione. «Sì e no. Con questi ragguagli, Leda, siamo meglio preparati ad affrontare i nemici, quindi abbiamo un vantaggio: la sorpresa. Essi infatti non possiedono informazioni su di noi. Certo, la Drow potrebbe avere qualche sospetto sulla tua presenza, ma Obmi certamente no. E nessuno dei due saprà di me, a meno che io non decida di rivelare la mia presenza. Ora prepariamo un piano; essere pronti significa infatti avere a disposizione un gran numero di armi... e a questo proposito, dobbiamo anche cercare un'arma adatta a me. Quel Nano è un combattente valoroso, e non c'è da scherzare con il suo martello.» Parlamentarono per un po', poi Leda si servì della magia per procurare cibo e bevande. Riposati e rifocillati, i due proseguirono, discutendo dei loro piani lungo la strada. Ad un certo punto Leda ipotizzò che stessero salendo una galleria scavata in qualche altopiano nel cuore del Deserto di Cenere, poiché concordava con la valutazione fatta in precedenza da Gord. In caso diverso, infatti, si sarebbero ormai ritrovati in mezzo al deserto, poiché la via prescelta continuava a salire. Tutte le montagne e persino i colli dell'impero devastato erano stati distrutti e rasi al suolo dalla catastrofe che aveva colpito il Suel; rimanevano soltanto piccole sporgenze e collinette; tuttavia un vasto altopiano avrebbe potuto, anzi, doveva aver resistito al fuoco incolore che aveva divorato tutto il resto.
«Ci sono, Leda!» esclamò improvvisamente Gord. «Pensa ad un fiume che, nato su un altopiano, scorresse in questa zona e poi sprofondasse nel sottosuolo, scavando un letto profondo e alimentando un grande lago. È l'immagine suggerita dall'abisso e da questa strada.» L'Elfo nero rifletté per qualche istante. «Potresti aver ragione, poiché con una potente magia e numerosa manodopera coloro che un tempo signoreggiavano su queste terre sarebbero stati in grado di creare facilmente una cosa simile. E non sarebbe forse stata la loro capitale, a sorgere su un grande fiume come quello che immagini tu?» «Se solo avessero sospettato quale sarebbe stato il loro destino, Leda, avrebbero sfruttato queste prerogative naturali per farne il loro rifugio segreto. La catastrofe avrebbe interrotto il flusso dell'acqua, che però, pur se in quantità ridotta, avrebbe continuato a scorrere sottoterra, assicurando una provvista sufficiente a generazioni di sopravvissuti.» «Allora questa galleria, che sembra essere il letto di un antico fiume, dovrebbe portarci alla Città Dimenticata, Gord!» esclamò Leda. Il volto del giovane aveva un'espressione dubbiosa mentre si accingeva a rispondere. «Percorreremo altre cento miglia o più sotto terra? Mi sembra esagerato.» A ciò Leda scoppiò a ridere. «Tu sei un essere di superficie, caro Gord, e non hai dimestichezza con l'oscurità che regna nelle viscere del mondo rischiarato dai raggi del sole e della luna. Cento miglia? Un'inezia. Ci sono centinaia di migliaia di miglia di gallerie nei regni del sottosuolo, mio caro. Stai certo che questa è una via segreta creata nella notte dei tempi dai signori dell'impero perduto, per assicurarsi la sicurezza e la sopravvivenza.» Le parole di Leda si sarebbero rivelate profetiche. Capitolo 16 Un suono alle loro spalle li fece sussultare. In breve compresero che un gruppo di esseri, di natura imprecisata ma sicuramente numeroso, si stava avvicinando dall'estremità del tunnel: non avevano via di scampo. Si trovavano in posizione quasi isolata a circa trenta metri da un accesso sorvegliato, un muro grezzo e due torri di pietra quadrate difese da un gruppo di pigmei albini. Erano rimasti fermi per qualche minuto, a riflettere sul da farsi. Ora le loro alternative erano molto limitate, in quanto non potevano ritirarsi.
«Io posso arrampicarmi e nascondermi, penso, ma prima dobbiamo escogitare il modo di nascondere te.» «Aiutami a salire lassù» rispose Leda, indicando una cengia a due o tre metri dalle loro teste. «E non preoccuparti. Guarda!» Mentre parlava, scomparve per un istante, per poi riapparire in un lampo. «L'anello che avevi preso!» «Sì, quello del mago che hai mandato al tappeto con la porta. Mi va perfettamente al mignolo. E ora sollevami.» Gord intrecciò le mani per permettere all'Elfo di salirvi e poi le sollevò finché Leda non riuscì ad afferrare una pietra sporgente; la fanciulla allora gli appoggiò i piedi sulle spalle e salì sulla cengia. Gord la vide infilarsi in una cavità e poi scomparire alla vista. Scalare la parete della galleria era un gioco da ragazzi per lui. Nel calcare c'erano talmente tante sporgenze e cavità che arrampicarsi gli risultava facile quanto salire una rampa di scale. Arrivò il più in alto possibile, quindi si spostò di lato fino a trovare una fessura fra due lastre di pietra e vi si infilò. Al riparo anche dalla vista infravisiva, poteva ugualmente sbirciare giù per vedere che cosa succedeva, chi passava e che cosa accadeva quando qualcuno arrivava al posto di blocco più avanti. Si era nascosto giusto in tempo. Un branco di quelle scimmie mute dalla criniera gialla arrivò a grandi balzi lungo la galleria, camminando quasi costantemente a quattro zampe. Di tanto in tanto una o due di esse si alzavano in piedi per guardarsi intorno, e poi tornavano carponi. Le seguivano altrettanti nanetti bianchi, una mezza dozzina davanti, dieci di fianco e quattro dietro, alle spalle di una doppia fila di uomini curvi e gementi sotto il peso di tremendi carichi. I portatori non vedevano nulla in quel buio e camminavano a passi strascicati per non inciampare; erano tutti maschi, e alcuni - pochi in realtà - avevano ancora un aspetto sano e robusto. La maggior parte di essi tuttavia appariva molto provata, secondo Gord, e il modo in cui barcollavano e si lamentavano rafforzò la sua convinzione. Calcolò che più della metà degli schiavi non avrebbe più lavorato come bestia da soma dopo quell'esperienza estenuante. Si chiese poi se i loro padroni pigmei li avrebbero lasciati morire da soli o li avrebbero uccisi sui due piedi; erano probabili anche atti di cannibalismo, con esseri abietti come quelle creature albine. Pungolando senza pietà gli schiavi e ridendo crudelmente delle loro sofferenze, il gruppetto passò, senza immaginare di essere osservato dall'Elfo nero e da Gord. Quando raggiunsero il muro e le due torri, le pallide crea-
turine che montavano la guardia fecero dei segnali con le mani, e il leader del gruppo rispose allo stesso modo. Poi due dei pigmei si misero a parlare fra loro, ma Gord, nonostante il suo udito finissimo, non riuscì a percepire la conversazione. Mentre i due confabulavano, gli altri albini con calci e colpi incitavano gli schiavi a muoversi, finché la processione sfilò nel varco tra le massicce torri che proteggevano tutto ciò che si trovava al di là di esse. Il giovane si trovava a quasi quindici metri di distanza da Leda, ma impiegò solo qualche minuto a scivolare fuori dal nascondiglio e a scendere nel punto in cui la fanciulla lo aspettava. Mentre egli si portava sulla cengia, l'Elfo nero riapparve, nell'atto di uscire dalla nicchia in cui si era nascosta. «Sei riuscita a vedere che cosa succedeva?» le chiese Gord. «No, gli schiavi mi impedivano la visuale. Cos'è accaduto?» «Il capogruppo ha scambiato una serie di gesti con il capitano delle guardie, e poi i due si sono messi a parlare. Non so che cosa si siano detti, ma tutto il gruppo è entrato mentre parlavano. Cosa facciamo, adesso?» «Puoi scalare il muro accanto alle torri di guardia senza farti vedere?» chiese Leda. «Ottima domanda, mia cara. Il muro in sé non è nulla, ma non so quanto vigili possano essere quei piccoli bastardi pallidi. Se sono di guardia, dubito che non notino i miei movimenti.» «Ma se venissero distratti?» «Allora non ci sarebbero problemi. Posso arrivare in cima e passare dall'altra parte mentre le sentinelle sono occupate in altre faccende.» Leda gli sorrise. «È ciò che speravo di sentirti dire. Anch'io sono capace di muovermi silenziosamente, e con l'anello posso restare invisibile. Raggiungerò furtivamente le guardie, e quando sarò arrivata al cancello troverò il modo di provocare un po' di confusione; sarà il segnale: osserva le guardie, e quando vedrai che guardano da un'altra parte o si allontanano, fai la tua mossa. Allontanati in fretta dal muro; io ti aspetterò ad un tiro d'arco, sulla strada.» Gord fece scendere Leda sul pavimento della galleria, dove la fanciulla tornò invisibile e si allontanò per svolgere il proprio compito. Il giovane strisciò lungo la parete della caverna fino al punto in cui questa incontrava il muro. L'impresa era di una difficoltà ridicola: le pietre accatastate a difesa del passaggio erano sistemate talmente male che anche un bambino avrebbe potuto scalare senza pericolo i sei metri che portavano in cima. Tuttavia c'era un gran numero di sentinelle in giro, e la maggior parte di esse
impugnava piccole balestre di strana fattura. Ricordando cos'era successo al precedente proprietario dell'anello dell'invisibilità quand'era stato colpito da uno dei dardi avvelenati di quelle balestre, il giovane era ben contento di sapere che l'attenzione delle guardie sarebbe stata rivolta altrove, una volta che fosse giunto in cima. Senza far sospettare la propria presenza, Gord tenne attentamente d'occhio le sentinelle. Passarono parecchi minuti senza che si vedesse alcun segno di distrazione. Poi la guardia più vicina a Gord, che si trovava a circa dieci metri da lui, in cima al muro, iniziò a fare gran gesti, evidentemente in risposta a qualche compagno più vicino alle torri; il primo albino lasciò allora andare l'arma sul fianco e si precipitò di corsa alle torri. Ora che non c'era nessuno nel giro di dieci-quindici metri, Gord colse l'occasione per scavalcare la barriera, e lo fece in un batter d'occhio. Una volta in cima al parapetto, il giovane si spostò sull'altra estremità, si appese al bordo con le dita e poi si lasciò cadere sul pavimento di roccia dal lato opposto, raggomitolandosi e rotolando lontano dal muro mentre atterrava. Non si notavano grandi differenze tra i due tratti di galleria separati dal muro; perché dunque le guardie e i posti di blocco? si chiese Gord. Poi però notò che l'inclinazione del terreno era diversa; la galleria infatti saliva piuttosto ripida, di circa trenta centimetri ogni dieci o quindici metri. Il giovane ne dedusse che, più si saliva, più era facile incontrare qualche forma di civiltà. In base a quel ragionamento, si disse che dovevano trovarsi molto vicini a qualcosa. «Psst, Gord!» Leda riapparve immediatamente al suo fianco, e Gord istintivamente fece un salto. Aveva la vaga sensazione che si trovasse accanto a lui anche prima di togliersi l'anello, ma la sua improvvisa materializzazione lo aveva ugualmente sconcertato. «Non fare così!» le disse di riflesso. «Così come?» chiese Leda, civettuola. «Non importa... Come hai fatto a distrarre le guardie?» «È stato semplice, davvero. Sono scivolata furtivamente nel varco fra le due torri e ho iniziato a lanciare in aria dei sassolini in modo che colpissero la cima delle strutture. Nessuno riusciva a vedere da dove venissero, naturalmente, quindi tutte le guardie hanno concluso che doveva esserci qualche piccola frana o qualche crollo. Mentre la notizia passava di bocca in bocca, tutti si rifugiavano nelle torri. Probabilmente sono ancora lì rannicchiati, in attesa di una pioggia di sassi che non verrà. Io invece sono entrata tranquillamente dalla porta mentre parlavano concitatamente fra loro,
ed eccomi qui» concluse con un sorriso soddisfatto. Gord intimamente si divertiva alle immagini descrittegli dà Leda, ma era ancora irritato per il modo in cui l'aveva spaventato, quindi mantenne un'aria sostenuta. «Le guardie hanno detto qualcosa di utile? Hai un'idea di dove ci troviamo?» chiese. «No» rispose Leda. «Ma a giudicare da ciò che ci circonda, dobbiamo essere vicini alla Città Dimenticata, o come oggi la chiamano questi nanerottoli. So solo questo, e che ora dobbiamo stare molto attenti.» Gord grugnì, senza sbilanciarsi, e indicò la galleria. «Andiamo a vedere cosa possiamo scoprire. Terrò conto delle tue esortazioni alla cautela, fanciulla; preparati ad agire in fretta.» «Io ho l'anello, amore, ma tu che farai?» «Dipenderà dalle circostanze. Anch'io ho molte risorse, lo sai» le rispose con un sorriso mentre si avviavano a passo svelto. Dopo non più di un quarto di miglio di strada, scoprirono la ragione della presenza di un posto di blocco. Raggiunsero un punto in cui l'alveo del fiume, già ampio, si allargava ulteriormente e sboccava in un'enorme caverna. Si guardarono intorno, in uno scenario davvero sorprendente; se quella non era la Città Dimenticata, pensò Gord, allora doveva esserci un altro luogo ancor più profondamente nascosto sotto la sabbia, perché quella era certamente una città. L'ampia strada al livello più basso, proprio davanti a loro, era punteggiata di passanti, pigmei albini in piccoli gruppi, alcuni dei quali pungolavano gruppi ancor più piccoli di schiavi umani. Ad entrambi i lati della strada partivano scalinate e rampe che conducevano ad un livello superiore, circa quindici metri sopra le loro teste, caratterizzato da un traffico ancor più intenso. Al livello più alto Gord poteva vedere bassi edifici dall'aria strana ed antica, i cui piani superiori servivano da sostegno ad un solido tetto di pietra che ricopriva tutto il complesso. Il luogo era praticamente privo dell'illuminazione che Gord considerava naturale. Una serie di globi ovali emanava una fioca luce fissa, di colore rosso; erano disposti a grande distanza l'uno dall'altro, a parecchi metri da terra, e alloggiati in cavità della pietra. Il loro riverbero non disturbava la vista notturna del giovane che, nonostante la loro luce, riusciva a vedere a considerevole distanza nella penombra che pervadeva praticamente ogni angolo di quella bizzarra città sotterranea. «Penso che il tetto sia a cupola» disse Leda, osservando la scena. «Almeno noi Drow avremmo risolto così il problema, se avessimo dovuto pro-
teggere una città dalla caduta di oggetti dall'alto.» Gord guardò lo spazio che sovrastava il punto in cui si trovavano al momento. Il soffitto di lastroni di pietra si stendeva a circa cento metri sopra le loro teste. «Pensi che abbiano costruito una cupola di roccia sopra l'intera città?» le chiese. Leda scosse il capo: «No, non mi sembra probabile. Penso invece che si tratti di un emisfero eretto sopra il cuore della città e che noi siamo arrivati da una galleria laterale poco frequentata in un punto vicino al perimetro.» I due si trovarono ad affrontare un problema ben determinato: dovevano perlustrare il luogo, ma nella Città Dimenticata solo i pigmei albini potevano andare e venire liberamente. Vi abitavano anche esseri umani, ma erano schiavi, costantemente controllati dai pallidi padroni. Al momento sembrava tuttavia che l'attività rallentasse, e il flusso di persone nelle strade stava calando. Gord suggerì una mossa e Leda fu subito d'accordo. L'ex-ladro si appiattò nell'ombra, là dove l'alveo del fiume sboccava nella caverna, e poi si avviò, seguito da Leda, che si era fatta invisibile. Avanzava lento e furtivo, in attesa che l'attività al livello superiore diminuisse, com'era accaduto per il livello inferiore. Scelse una scala stretta e salì, senza fare alcun rumore; l'Elfo nero lo seguì altrettanto silenziosamente. In giro, quando Gord e Leda raggiunsero il livello soprastante, c'erano ancora alcuni pigmei, ma si stavano dirigendo verso vari edifici. In un paio di minuti tutti erano entrati in un edificio o nell'altro, e nessuno ne era uscito. Leda tornò visibile e sussurrò: «Sento una debole nota acuta; penso che sia il richiamo che invita i pigmei a rientrare.» «Io non sento nulla» rispose Gord, «ma di qualunque cosa si tratti, dobbiamo approfittare della situazione, finché dura». Si guardò intorno frettolosamente, notò quella che sembrava una struttura in disuso e indicò il tetto arcuato sopra di loro. «Entriamo là dentro e saliamo all'ultimo piano. Vedi quei ponti sospesi?» «Pensavo che fossero sostegni per il tetto, Gord. Forse lo sono, ma ora vedo che hanno dei fori nella pietra... finestre! Deve trattarsi di gallerie sopraelevate.» Il giovane avventuriero annuì. «Un tempo questo posto brulicava di gente, direi, specialmente se tutti gli abitanti della Città Dimenticata all'inizio risiedevano qui.» «Loro e molti altri» ipotizzò Leda, mentre entravano nell'edificio scelto
da Gord. La porta mancava, e l'entrata era a misura d'uomo. Qualunque fosse stata la destinazione originaria della costruzione, ora era adibita a magazzino, probabilmente abbandonato, perché le casse e le balle che vi si accumulavano apparivano molto vecchie e intatte da anni. Esaminarono brevemente il contenuto della stanza, ma non portarono via nulla, eccetto qualche metro di corda che secondo Gord poteva tornare utile. Dopo qualche ricerca, trovarono nel soffitto una botola che portava al primo piano e lì ne scoprirono un'altra che portava al piano superiore. I piani erano piuttosto alti, perciò il terzo dava accesso alle gallerie sopraelevate. Entrambi guardarono fuori dalle finestre prive di vetri per vedere cosa succedeva più in basso. Alcuni membri della strana comunità erano ancora visibili, ma la maggior parte delle strade era vuota. «Spero che tu abbia ragione, Leda.» «Che intendi dire, amore?» «Prima hai detto che probabilmente ci troviamo nel nucleo centrale della città, o di ciò che gli antichi riuscirono a salvare della loro capitale. Dobbiamo perlustrare questa metropoli sotterranea per trovare il nascondiglio della Chiave Finale, che probabilmente si troverà nel cuore vero e proprio di questo luogo.» L'Elfo nero gli rivolse uno sguardo indagatore: «Che cosa te lo fa pensare, Gord?» «Me l'ha detto chi mi diede le istruzioni per la missione, e non ho motivo di dubitare della sua saggezza o delle sue conoscenze.» «Pensavo che solo noi Drow conoscessimo alla perfezione il nascondiglio dell'ultima parte» aggiunse come spiegazione, vedendo che Gord la guardava con una strana espressione. «Noi Drow? Pensavo che tu avessi ripudiato la razza, ma ultimamente usi sempre più questa parola.» «Ciò che sapeva Eclavdra lo so anch'io, anche se non amo rievocare i suoi ricordi» gli disse Leda, seria. «In ogni caso, dammi pure le notizie che conosci tu. La Chiave Finale è visibile?» Gord annuì. «Mi è stato detto che è chiaramente visibile, in quanto è il principale oggetto di culto del grande tempio di questa città. Inoltre ho saputo che, nonostante questo, il Theorpart non può essere toccato né spostato.» «Sì, anch'io ho avuto la stessa informazione. Inoltre credo che sia incastonato all'interno di una grande sfera di materiate infrangibile, trasparente
come l'acqua, ma dura come il diamante.» Non volendo farsi superare dalla fanciulla, Gord aggiunse il resto di ciò che sapeva. «Gli abitanti di questi luoghi lo considerano l'ultimo tesoro rimasto, il loro unico legame con la loro grandezza e con l'impero perduto. Le loro malvagie teorie affermano che un giorno l'oggetto li riporterà all'antica potenza e che l'Impero di Suel trionferà fino a dominare tutto l'Oerik, quindi ai loro occhi è una sacra reliquia e chiunque profani il tempio, o si azzardi ad avvicinarsi troppo, viene messo a morte.» «Questo mi sembra il posto giusto per lasciare le attrezzature che non ci servono» osservò Leda, che non aveva altro da dire sull'argomento. «Che ne pensi?» «Sarà abbastanza facile ritrovare questo edificio, quindi sono d'accordo con te. Non avrebbe senso portare carichi inutili in una missione pericolosa come quella che dobbiamo affrontare. A proposito, mi serve ancora una buona spada; questo pugnale, per quanto valido, non può infatti sostituire la spada quando si tratta di combattere contro i nemici.» Utilizzando i passaggi abbandonati da tempo che correvano a mezz'aria, i due iniziarono un'esplorazione sistematica degli edifici più vicini. Gord insisté per farlo, poiché voleva essere sicuro della base prima di lanciarsi alla ricerca del tempio che ospitava l'ultima parte della Quintessenza di Tutti i Mali. Scoprirono che nessuno dei tre edifici connessi al magazzino era abitato e, una volta appurato ciò, si orientarono e si diressero verso gli edifici in cui erano spariti i pigmei quando Leda aveva avvertito la nota acuta. Nessuno dei piani superiori che visitarono era occupato, anche se grazie alle loro esplorazioni avevano accertato che i piani inferiori erano in uso. Il profondo canale del fiume prosciugato svoltava a sinistra, molto più in basso dell'altezza alla quale avevano viaggiato. Nessuna sopraelevata attraversava la zona, quindi dovettero scendere a livello dell'alveo. Ora nella città non si svolgeva praticamente alcuna attività. Tale fatto, secondo Gord, era incoraggiante. «Andrò a vedere là sotto» disse a Leda. «Se ora i pigmei dormono, è il momento migliore per scoprire cosa c'è laggiù.» «Se riusciamo a trovare un albino solitario, possiamo costringerlo a dirci quello che vogliamo sapere» disse l'Elfo nero. «I miei poteri mi permetteranno di capire se ci viene detta una bugia, e una falsità nota vale quasi quanto una verità ignota.» «Va bene. Usa di nuovo l'anello, e vediamo che cosa possiamo trovare
laggiù. Quei nanerottoli non dovrebbero essere tanto difficili da acchiappare.» L'antico palazzo, o meglio quel che ne rimaneva, era alto quattro piani. Quando i due scivolarono furtivamente lungo la scala per raggiungere il terzo piano, incontrarono immediatamente i pigmei. Una coppia dei pallidi ometti, infatti, sonnecchiava proprio sul pianerottolo, e volgeva le spalle a Gord e a Leda, ancora invisibile. Gord la localizzò al tatto, indicò i due nani e fece la mossa di sferrare dei pugni. Leda diventò visibile, annuì, sguainò la spada Yoli e la sollevò sopra la testa; il pesante pomo dell'elsa costituiva uno splendido prolungamento del suo piccolo pugno. Gord impugnò il pugnale allo stesso modo, e pochi secondi dopo entrambi i pigmei erano privi di coscienza. Gord li disarmò e infilò le loro piccole spade nella cintura, per utilizzarle in caso di bisogno. «Non penso che i loro compagni là sotto siano in allarme» sussurrò Leda. «Io ho fatto troppo chiasso quando ho colpito, ma tu sei stato assolutamente silenzioso, amore mio. Vorrei sapermi muovere bene come te.» «Tu non sei nata per fare la ladra, Leda, questo è certo; comunque, non preoccuparti. Il tonfo del tuo fendente e quello del corpo di questo piccolo bastardo non erano abbastanza forti da allarmare nessuno che non si trovasse nei paraggi, intento ad ascoltare. Questi albini sono imprudenti e sicuri di sé. Immagino che in questo posto non si vedano intrusi da anni, se mai se ne sono visti.» «Spero che tu abbia ragione. Leghiamoli, e poi imbavagliamone uno e gettiamolo in qualche stanza vuota qui vicino. Poi sottoporremo l'altro a un interrogatorio. Il ritrovarsi soli, senza conoscere la sorte del compagno, li spaventerà e li renderà più trattabili.» Fecero come consigliato da Leda, e poi si prepararono a porre le domande. Quei pigmei apparivano tanto simili che Gord non riusciva a distinguerli l'uno dall'altro, ma quello scelto per l'interrogatorio sembrava il più autorevole dei due. Portava infatti una cintura con dei pezzetti di argento incastonati, mentre l'altro indossava una veste grigia priva di qualsiasi ornamento. Quando l'albino, schiaffeggiato leggermente da Leda, si svegliò, i grandi occhi quasi gli uscirono dalle orbite. Gord assunse la sua espressione più terribile, mostrò al pigmeo il pugnale e poi glielo puntò al cuore. Ciò però non sembrò spaventarlo quanto la vista della fanciulla. «Un Drow qui!» squittì, con la voce roca per il disuso. «Fai ancora un chiasso simile, piccoletto» lo avvertì Gord, «e questa lama berrà il sangue del tuo cuore nel medesimo istante.»
L'albino guardò sprezzante Gord, con i suoi occhi rosati privi di pupille. Allora Leda si chinò e lo fissò a sua volta: «Ascolta quello che ti dice, nanerottolo, o ti accadrà qualcosa di peggio. Conosco un Demone affamato che ti apprezzerebbe moltissimo, prima come giocattolo, e poi come bocconcino.» «Io... io... non riesco a parlare sottovoce come vorresti» disse, quasi in un gemito, rivolto all'Elfo. «Di' al tuo servo di slegarmi le mani e parleremo a gesti.» Leda fece un cenno d'assenso e Gord slegò le corde che imprigionavano i polsi del pigmeo, ammonendolo ulteriormente: «Al primo segno di tradimento, nanerottolo, ti passerò da parte a parte. Possiamo sempre interrogarne altri della tua fatta.» L'ometto iniziò a muovere le braccia, le mani e le dita in una serie complessa di segni e gesti; sembrava molto desideroso di fornire informazioni, fin troppo. Leda rispondeva con gesti più semplici e concisi, e lo scambio durò tre o quattro minuti. Poi l'Elfo nero parlò: «Ora, piccoletto, rispondi a questa domanda con la voce. Mi hai detto tutta la verità?» «Sì, Drow, non ti ho mentito» rispose il pigmeo con la sua voce squittente. «Porta qui il secondo» disse Leda a Gord in tono imperioso. Il giovane avventuriero ubbidì docilmente; per il momento era disposto anche a farsi comandare. Se quei piccoli bastardi temevano i Drow, non avrebbe detto o fatto nulla che potesse ridimensionare il loro terrore. Il secondo pigmeo aveva ripreso i sensi e lottava per liberarsi quando Gord entrò nella stanza in cui era stato rinchiuso. Per un attimo, l'omino raddoppiò spavaldamente gli sforzi, proprio sotto gli occhi del giovane, ma quando comprese che non sarebbe riuscito a raggiungere il suo scopo in tempi brevi, si fermò e fissò Gord con sguardo maligno. In silenzio e senza sforzo Gord sollevò il prigioniero e se lo mise sotto il braccio in segno di disprezzo, poi tornò nella stanza dove Leda si occupava dell'altro pigmeo, che nel frattempo aveva legato nuovamente e imbavagliato. Dopo aver lasciato cadere sdegnosamente il secondo ometto, il giovane fece un passo indietro e fissò Leda con sguardo interrogativo. La fanciulla non dedicò immediatamente la propria attenzione al secondo prigioniero; anzi, assicurandosi che questi la stesse a guardare, si avvicinò al primo, sdraiato prono sul pianerottolo. Fece alcuni gesti rituali, intonò una cantilena sottovoce per alcuni secondi e poi afferrò la testa del pigmeo tra le mani. Il corpicino si contorse per un istante come sferzato da
una forza terribile e poi rimase immobile. «Ha osato mentire ad una grande sacerdotessa Drow» disse Leda, fissando negli occhi il secondo prigioniero. L'albino aveva gli occhi fuori dalle orbite e tremava visibilmente di terrore. «Slegagli le mani e togli il bavaglio» disse Leda a Gord. Mentre il giovane obbediva, la fanciulla si rivolse nuovamente alla figurina in preda al panico: «Ora porrò anche a te alcune domande, e questa volta non voglio sentire bugie.» L'omino si era fatto ancor più pallido, o almeno così pareva a Gord, che aveva assistito alla scena in un misto di ammirazione e orrore. Non aveva mai visto un'esecuzione a sangue freddo come quella. Tuttavia, come ebbe modo di osservare nei minuti seguenti, la tattica sembrò produrre l'effetto desiderato sul secondo pigmeo, che infatti gesticolò freneticamente una volta che ebbe le mani libere, servendosi occasionalmente della propria voce se Leda glielo imponeva; quando l'interrogatorio terminò, Leda apparve soddisfatta. «Legalo e imbavaglialo di nuovo» ordinò a Gord. Fatto ciò, riprese a parlare. «Costui è assai più saggio del suo compagno defunto» disse, con un sorrisetto di trionfo, «ma è pur sempre un suo simile». Detto ciò, fece gli stessi gesti di prima, accompagnati dalle medesime formule, poi afferrò con una mano il cranio della creatura, che subì la stessa fine del compagno, rapida ma atroce. Leda si volse verso Gord, che non fece nulla per nascondere la propria repulsione. Egli pensò di scorgere un bagliore malvagio negli occhi di lei, ma forse era soltanto un riflesso delle luci rossastre. «Rinchiudi costui nella stanza di prima e poi torna qui» disse freddamente Leda. Gord sollevò il corpo e lo portò via, scioccato dalla scena cui aveva appena assistito. Quando tornò, Leda si era già sbarazzata dell'altro in qualche modo. «Come hai potuto ammazzare così quei prigionieri, fanciulla? È stato un atto estremamente crudele» l'accusò Gord. Leda non dava affatto l'impressione di provare rimorsi. «Davvero?» ribatté in tono caustico. «È così che la pensi? Suppongo che sarebbe stato meglio lasciarli vivi e permetter loro di fuggire; così avrebbero radunato i compagni e ci avrebbero inseguito per tutta la città, ci avrebbero catturato, avrebbero rinchiuso me in uno dei loro schifosi bordelli e avrebbero usato te come bestia da soma. Naturalmente, presto o tardi, saremmo stati liberati, per essere ammazzati e serviti come pranzo una volta che fossimo stati utili soltanto come cibo. Idiota dal cuore tenero!»
«E inoltre poteva essere che quei nani capissero o immaginassero perché ci troviamo qui e decidessero di nascondere altrove la loro preziosa reliquia. Sarebbe già grave se finisse nelle grinfie di Eclavdra, e peggio ancora se dovesse impadronirsene Obmi, quel mucchio di letame, ma potrebbe accadere un fatto ben più terribile.» Sebbene la filippica fosse stata pronunciata quasi in un sussurro, Gord si sentì tremendamente umiliato dall'asprezza delle parole di Leda e dalla loro logica inappuntabile. Si giudicò sciocco e impulsivo e si vergognò di ciò che aveva pensato di lei. Mentre rimuginava tutto ciò, si accorse che Leda si era interrotta e attendeva da lui una reazione o una risposta. «Che cosa potrebbe accadere di peggio, Leda?» le chiese sottovoce. «I pigmei potrebbero capire che cosa custodiscono realmente nel loro tempio» gli spiegò, più calma, come se parlasse ad uno scolaro negligente. «Quei piccoli degenerati appartengono alla razza di un popolo che abita in superficie; se capissero la natura della Chiave Finale e ciò che potrebbero ottenere con essa, la consegnerebbero subito ai loro soci.» «E chi sarebbero costoro?» «I signori della Confraternita Scarlatta, naturalmente. Quegli adoratori del Diavolo disdegnano questi degenerati, ma certo li ricompenserebbero profumatamente per quello che possiedono, poiché grazie ad esso sarebbero sicuramente in grado di unire tutte le parti dell'oggetto ed... egli... si ridesterebbe.» «Mi dispiace di quello che ti ho detto, Leda, e ancor più di ciò che ho pensato.» «Non importa, Gord. Ci sarà tempo per parlarne in seguito, se riusciremo nella nostra impresa. Il secondo piccoletto mi ha fornito numerose informazioni; al piano di sotto sono imprigionati molti schiavi; se ci intrufoleremo fra loro e li libereremo, si rivolteranno e procureranno grossi fastidi ai loro padroni; in quella confusione saremo liberi di cercare il tempio.» Mentre scendevano furtivamente le scale verso gli alloggi degli schiavi, Leda illustrò al compagno le altre informazioni ricevute e formulò un piano di azione. Nei dintorni sorgevano parecchi edifici adibiti al medesimo uso; avrebbero aiutato i prigionieri del piano sottostante e poi avrebbero suggerito loro come liberare i compagni. Gli schiavi erano quasi tutti umani e vedevano male nella fioca luce rossastra, ma potevano puntare sul numero, e i pochi fra loro che possedevano sangue Elfo, ed erano quindi in grado di vedere al buio, avrebbero potuto guidare gli altri. «All'altro lato dell'alveo c'è un museo» disse, «quasi un luogo sacro per
questi degenerati perduti. Se gli schiavi liberati riusciranno a conquistarlo, avranno a disposizione armi a misura d'uomo, vestigia del passato che incoraggeranno i rivoltosi e renderanno furiosi gli albini. Nel caos che seguirà, io e te attraverseremo il letto del fiume più su e troveremo il tempio; è fatto di marmo niveo e oro, ed è una struttura unica nel suo genere. Non potrà sfuggirci, ne sono certa.» «E l'arma per me? Penso che tra breve avrò bisogno di una buona spada. Questi stuzzicadenti sono meglio di niente» disse, indicando le armi dei pigmei di cui si era impadronito, «ma non mi saranno molto utili contro gente come Eclavdra o Obmi.» Leda annuì vigorosamente: «Il vecchiume di cui si impadroniranno gli schiavi - se la fortuna sarà con loro e con noi - non soddisferebbe mai le tue esigenze, Gord. Ma il secondo nanerottolo mi ha detto qualcosa di interessante. Questi albini intrattengono relazioni d'affari con loro simili nel Regno Senza Sole, e nel corso degli anni hanno accumulato un magazzino pieno di materiali inutili per loro, in quanto costruiti a misura di esseri umani, non di nanerottoli come essi sono. Vi troverai certamente una bella spada, e con essa potrai prenderne una addirittura migliore.» «E come?» «Nel loro tempio sono custoditi altri oggetti di venerazione. Vi sono infatti conservate le armi e le armature dei loro defunti sovrani, oltre a chissà quali vestigia dei giorni gloriosi dell'impero. Se solo i loro antenati potessero vedere questi meschini discendenti» sibilò l'Elfo nero, «li schiaccerebbero come tanti insetti per il disgusto.» Leda aveva fornito a Gord tutti i ragguagli necessari, quindi i due procedettero cautamente lungo le scale. Una coppia di guardie sonnolente poste a fianco di una porta aperta non rappresentò assolutamente un ostacolo e, una volta che furono entrati negli alloggi degli schiavi, Gord usò il suo pugnale incantato, in grado di tagliare i metalli, per segare rapidamente e senza far rumore i lucchetti che tenevano in catene le due dozzine di esseri umani, semi-Elfi ed Elfi. Nonostante le cattive condizioni fisiche, gli schiavi erano vigili e svegli. Ebbero abbastanza buon senso da non fare chiasso al momento della liberazione, consapevoli di non essere ancora al sicuro, e si sbarazzarono rapidamente delle catene. Dopo averli liberati, Gord offrì loro senza parlare le quattro armi immediatamente disponibili, vale a dire le due spade delle guardie morte e le due piccole lame che, aveva concluso, essi sarebbero stati capaci di usare meglio di lui.
Leda e Gord guidarono dunque gli schiavi al piano inferiore, dove trovarono una dozzina di pigmei addormentati in una stanza. Vi entrarono, accompagnati da quattro dei pochi schiavi in grado di vedere al buio e di muoversi silenziosamente, e dividendosi la preda in due pigmei a testa, il gruppo li ammazzò tutti senza svegliarne neppure uno. Mentre solo pochi istanti prima erano grati ai loro liberatori ma ancora cupi, ora gli schiavi si dimostravano esuberanti e decisi. Nell'assalto appena concluso avevano racimolato un'altra ventina di armi da pigmeo, un numero praticamente sufficiente ad armare tutti gli uomini del gruppo. Dopo aver concesso loro qualche minuto per festeggiare in silenzio la libertà, Leda parlò solennemente agli ex-schiavi, facendo loro notare che avevano ancora molto da faticare se speravano di sopravvivere e tornare all'aperto; spiegò inoltre che dovevano predisporsi in modo da farsi guidare da quelli che potevano vedere al buio e diede loro tutte le informazioni per trovare gli altri alloggi degli schiavi e un arsenale situato dall'altra parte del fiume in secca. Poi, assieme a Gord, augurò a tutti buona fortuna. «Grazie a te, uomo, e pure a te, anche se sei una Drow» mormorò un semi-Elfo magro e malandato mentre il gruppo si avviava. «Non conosciamo una via sicura per fuggire da qui, ma morire liberi e in battaglia è preferibile alla schiavitù o all'essere divorati da questi maledetti. Ci auguriamo di vincere, e che voi riusciate nella missione che vi ha indotto ad entrare in questo miserabile buco» disse, girando il capo verso di loro. Poi tutti gli ex-schiavi si allontanarono, salendo ai piani superiori. Gord e Leda attesero qualche minuto, guardando fuori per sincerarsi che qualche pigmeo vagabondo non scoprisse la carneficina avvenuta là dentro e non desse l'allarme. Quando ritennero che gli schiavi liberati avevano fatto un bel pezzo di strada, i due salirono anch'essi le scale di corsa. Dopo aver percorso le stanze di tre edifici e altrettante sopraelevate, Leda ritenne opportuno scendere e trovare un punto da cui raggiungere l'alveo del fiume, attraversarlo di corsa e risalire sul lato opposto, dove sorgeva il tempio. La struttura in cui si trovavano sporgeva sul margine del canale roccioso, e Gord individuò una scala stretta che terminava a circa sei metri dal fondo dell'alveo. «Ecco dove sbarcheremo, Leda. Riuscirai a scendere dal punto in cui termina la scala?» L'Elfo esaminò accuratamente l'antica pietra: «Penso di sì; vi sono degli appigli ai quali aggrapparsi o in cui infilare i piedi, ma se scivolo e cado?» «Ti afferrerò, non temere» rispose in fretta il giovane. Poi raggiunse il
margine del piccolo pianerottolo e scese. A Leda sembrava che scivolasse, più che scendere normalmente, ma la discesa era troppo lenta per essere una caduta. Poi lo vide sul fondo, che la guardava e le faceva segno di seguirlo. A circa metà strada, Leda non riuscì a trovare un altro appoggio per il piede e si lasciò prendere dal panico. «Il metodo più rapido è mollare, mia cara» le disse il giovane. «Sono proprio sotto di te». Leda seguì il suggerimento, e non ebbe difficoltà ad interrompere la caduta sulle sue forti braccia tese. «Proprio qui di fronte c'è una rampa che porta dall'altro lato. Corriamo!» la incitò subito dopo averla messa giù. Leda si irrigidì all'improvviso: «Ascolta! Sento di nuovo quella nota acuta, solo che adesso è più intensa e ci sono dei trilli. I cosini bianchi devono aver scoperto che ci sono schiavi armati in rivolta.» Ad un tratto l'aria fu pervasa da un rimbombo che sembrava permeare persino le antiche pietre. Molto lontano qualcuno batteva un mostruoso gong di ferro con grande forza, ad intervalli di pochi secondi, cosicché l'eco si trasmetteva a ondate non solo attraverso l'aria ma attraverso le stesse rocce su cui poggiava la città, facendo tremare la terra sotto i piedi di Gord e Leda. «Penso che una rivolta di schiavi non basti a suscitare un simile allarme fra i pigmei» disse Gord fra i sussulti. «Quel suono mi fa tremare persino le ossa.» Leda stava per rispondere quando un altro suono si unì a quello dei corni, quasi impercettibile, e del gong di ferro. Era uno stridio di ottoni, una serie di note lamentose prodotte con un corno più grande di quello che produceva la flebile nota acuta. «Ho già udito questo suono, o meglio, lo ha udito Eclavdra» disse Leda. «I suoi ricordi mi dicono che si tratta del corno di adunanza dei pigmei. Non conosco il significato di questo richiamo, ma mi sembra che provenga dal letto del fiume.» «Penso di sì, Leda. E il suono del gong proviene di là» aggiunse, indicando la direzione opposta. «I pigmei vengono attaccati da due direzioni, potrei scommetterci, e i loro schiavi si ribellano proprio nel momento dell'assalto nemico. Spero che quei miserabili piccoli cannibali stiano per ricevere ciò che meritano!» «Non preoccuparti della giustizia, ora, Gord. Troviamo il tempio mentre quegli esseri pallidi sono davvero occupati». Ridacchiando cupamente, Gord affiancò Leda, che si era messa a correre verso il lato opposto della
depressione. Capitolo 17 Si slanciarono su per la rampa e si fermarono ansanti nella penombra, al riparo da sguardi indiscreti, dietro un'ala dell'edificio. Mentre riprendevano fiato, una compagnia di soldati pigmei armati li sorpassò di corsa a breve distanza, scese la rampa da cui loro due erano saliti e scomparve. Leda consigliò di entrare nella vecchia costruzione accanto alla quale si trovavano, dicendo che corrispondeva alla descrizione del luogo in cui venivano conservati gli oggetti di grandi dimensioni per lo scambio con i gruppi non pigmei. Dopo qualche ricerca, trovarono una porta che si apriva su un vicolo. Era chiusa a chiave, ma Gord non ebbe problemi ad aprire il semplice meccanismo servendosi di un pezzo di fil di ferro tratto dalla borsa degli attrezzi che portava appesa alla cintura per evenienze simili. Una breve ricerca nel guazzabuglio di oggetti sparsi nel magazzino portò alla scoperta di ogni sorta di armi; nessuna di esse era di grande valore, ma alla fine Gord scelse una lunga spada leggera, appartenuta probabilmente a una donna o ad un uomo minuto. Era più lunga e pesante della sua vecchia daga, ma non tanto diversa da richiedere ore di pratica prima di poterla usare bene. L'arma era accatastata in un angolo assieme ad alcune asce, a una mazza, a diverse altre spade e a una «stella mattutina» dai lunghi chiodi. Non volendo perdere altro tempo per cercare un fodero, Gord afferrò un paio delle altre armi e corse fuori. Lungo il tragitto lasciò cadere un'ascia appena all'interno della porta e uno spadone poco fuori dall'entrata. «Che fai?» chiese Leda. «Lascio la porta spalancata, fanciulla. Spero che una banda di schiavi vagabondi, o meglio, di ex-schiavi, capiti qui dentro. Ora andiamo a cercare quello stramaledetto tempio e attendiamo gli eventi.» Mentre uscivano dal vicolo, imboccando una via che speravano portasse al tempio sacro dei pigmei, un lampo vivido illuminò il cielo, seguito da una luce accecante che disegnò ombre rossastre sulla strada sotterranea per parecchi minuti e poi svanì rapidamente com'era venuta. Il raggio proveniva dalla loro destra, da circa un miglio di distanza, pensò Leda. «Era una sfera di fuoco magico, Gord. Gli altri che cercano la Chiave Finale devono essere passati all'attacco. Ci conviene scappare!» «Oh, per tutti i diavoli! Guarda alla tua sinistra, Leda». Lingue di ener-
gia color verde pallido zigzagavano lungo un ampio viale che intersecava la strada da loro scelta, a una distanza di circa cinquanta metri, contrastate da una nube ribollente di vapori infernali che brillava di una luce interna grigiastra e si dirigeva verso un gruppo di soldati albini. Uno degli ometti in prima fila impugnava una lunga bacchetta da cui si sprigionavano gli zampilli verdi. Più avanti lungo il viale qualcuno gridò; uno dei nemici del gruppo di soldati era evidentemente stato colpito dall'energia emanata dalla bacchetta. Poi i vapori avvolsero i piccoli pigmei, e solo quello che impugnava la bacchetta riuscì a sfuggirne a fatica; si allontanò a passo sostenuto dalla scena, ma commise l'errore di dirigersi nel punto in cui erano nascosti Gord e Leda. «Fallo fuori, Gord. Possiamo utilizzare la sua bacchetta.» Senza esitare, il giovane balzò fuori disponendosi in modo da avvicinarsi di lato all'ometto; questi aveva l'aria disorientata, malata e atterrita, e quindi rappresentava un facile bersaglio per la spada nuova di Gord. La lama, infatti, gli trapassò le carni e le ossa prima ancora che notasse la presenza dell'avventuriero. «Eccoti il giocattolo, fanciulla» disse Gord, togliendo la bacchetta dalle dita del pigmeo morto e gettandola all'Elfo nero. «Ottimo. Questa spara proiettili magici, Gord. Penso che ne avremo bisogno, perché quelli che si avvicinano dietro la nube velenosa sono Drow, e quindi c'è di mezzo Eclavdra. Lo sentivo, che era vicina...» «Allora quegli altri fuochi d'artificio devono essere opera del Nano e dei suoi scagnozzi» disse Gord, esaminando il paesaggio urbano. «C'è un edificio bianco in lontananza, a metà strada fra le due forze, lo vedi? Corri come se avessi il Demonio alle calcagna, Leda!» «Abbiamo il Demonio alle calcagna, Gord» disse, prendendo subito il volo per dimostrare che parlava sul serio. Insieme i due sfrecciarono per le strade buie senza incontrare ostacoli; le forze degli albini erano tutte lontane, in altri punti della città, impegnate nel tentativo di respingere gli invasori e di sedare la rivolta degli schiavi. Qualche minuto dopo Gord e Leda correvano su per una scala che portava all'interno di un edificio bianco, ornato di colonne e di decorazioni d'oro rosso. Doveva essere il luogo che cercavano. Finalmente erano giunti al tempio che ospitava l'ultima parte dell'oggetto della grande tenebra, e senza esitare entrarono e si prepararono ad affrontare qualsiasi cosa li attendesse all'interno. *
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Non molto lontano Obmi, Bolt e un gruppo di guerrieri Yoli stava dando il colpo di grazia ai resti di una compagnia di soldati pigmei che avevano creduto di poter opporsi a loro. Il Nano intonò un gaio canto di battaglia con la sua voce baritonale mentre lanciava il martello per spaccare il cranio ad un sacerdote albino che cercava di formulare un incantesimo contro di lui. Anche il martello d'arme era un'arma comoda, ed era contento di averlo nella mano sinistra, ma possedeva l'altro tipo di martello da più tempo, ed esso occupava un posto speciale nel suo cuore nero. Poteva causare danni spaventosi anche quando veniva lanciato, e per il Nano la caratteristica migliore dell'arma era quella di tornare indietro una volta colpito il bersaglio, come stava accadendo proprio in quel momento. Con la sinistra Obmi acchiappò l'arma insanguinata che era tornata roteando da lui, e nello stesso istante affondò la penna dell'altro martello nel fianco di un pigmeo poco lontano. La forza dell'impatto fece cadere l'ometto di lato, fra i suoi compagni; con un movimento repentino allora il Nano liberò l'arma e l'abbatté nuovamente, questa volta verso sinistra, colpendo un altro soldato albino con la testa dentata e sfracellandogli la faccia. Obmi si sentiva benissimo. Ecco una bella prospettiva, finalmente! Infatti sovrastava di almeno trenta centimetri i suoi avversari. E gli stivali magici affidatigli proprio per questa missione lo rendevano più veloce di qualsiasi essere umano, indipendentemente dalla statura. Il Nano si avventò sui ranghi dei piccoli albini in un turbine di distruzione che si lasciava alle spalle una scia di sangue e di morte. I dardi avvelenati delle balestre a ripetizione cui si affidavano i soldati pigmei erano praticamente inutili contro Obmi e il suo luogotenente. Bolt il mago era protetto da un incantesimo contro i proiettili, mentre il Nano era praticamente immune ai veleni per sua stessa natura. Obmi sorrise ricordando come si era estratto un piccolo proiettile che gli si era conficcato nel braccio e come l'aveva poi usato contro lo sciocco che lo aveva colpito a bruciapelo; era stata davvero ridicola l'espressione del pallido nanerottolo, quando gli aveva cacciato il dardo avvelenato proprio nell'occhio che aveva preso la mira. Il mago si era rivelato piuttosto in gamba; aveva infatti eliminato una buona parte degli avversari con un fulmine biforcuto, più potente e mortale di quanto i difensori avessero ritenuto possibile. Un paio di maghi pigmei si erano infatti accartocciati prima ancora di sapere che cosa li avesse colpiti; poi aveva usato i suoi poteri per arrostire parecchi altri con una sfera di fuoco, cosicché il viale lungo il quale Obmi marciava era praticamente libero da ostacoli seri e il Nano poteva divertirsi a schiacciare parecchi
pigmei con le proprie armi. Dopo qualche minuto di scontri ravvicinati, metà dei dieci guerrieri barbari che lo accompagnavano erano morti, ma c'era da aspettarselo, e comunque non importava molto. Una guida era rimasta al sicuro fuori dalla città, ed era tutto ciò di cui Obmi necessitava per tornare alla civiltà una volta ottenuto il premio. Giunto a un'intersezione fra due viali e svoltato l'angolo, Obmi guardò in lontananza e notò dei tumulti poco distante. «Maledizione!» ruggì. «Che quella schifosa Drow sia ancora viva?» Bolt, perplesso quanto il suo padrone era arrabbiato, ignorò saggiamente la domanda. Il Nano rimase fermo, scrutando per alcuni secondi la scena, poi spinse lo sguardo più lontano lungo la medesima strada. All'improvviso i suoi occhi incontrarono un edificio imponente a qualche centinaio di metri di distanza. «Là!» tuonò, rivolto ai superstiti del suo gruppo d'assalto. «Guardate, cani! Il tempio sorge di fronte a noi, è lì che dobbiamo arrivare. Travolgete chiunque vi si pari davanti e dirigetevi verso il tempio!» *
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Gord e Leda erano entrati nel tempio dei pigmei da un ingresso secondario, riservato ai chierici alloggiati nelle vicinanze. Naturalmente loro non lo sapevano, poiché non potevano vedere l'entrata grandiosa sull'altra facciata del grande edificio. Entrando, la prima cosa che videro fu un ampio vestibolo da cui si diramavano tre corridoi. Nei corridoi laterali brillavano le luci rossastre in uso nella città sotterranea, e il tempio era pieno di quegli strani globi, ma il corridoio centrale era illuminato da un bagliore dorato inconsueto per quel luogo. «Tiriamo diritto, Leda» sibilò Gord all'Elfo. «Quella luce deve provenire dal loro più prezioso luogo di culto». La coppia si precipitò lungo il corridoio, largo tre metri e ricoperto di piastrelle a mosaico di alabastro lucido, intarsiate d'oro. «Penso che questa luce sia misteriosa anche per loro. Credo che illuminino questo posto tanto vivamente per incutere rispetto alla gente comune, in memoria del tempo in cui i loro antenati abitavano in superficie» ansimò Leda mentre avanzavano in fretta e furia. «Ci sarà di grande vantaggio, poiché i pigmei saranno quasi ciechi in queste condizioni.» «E i Drow?» «La maggior parte non vedrebbe nulla, ma per me è diverso» rispose
Leda. «Eclavdra aveva in dotazione delle calotte magiche che proteggono gli occhi dalla maggior parte delle radiazioni, e anch'io, come duplicato fisico, ne porto un paio.» Prima di poter continuare la conversazione, i due entrarono in una vasta sala ornata di colonne. La parete di fondo era curva e le navate laterali erano sostenute da colonne; la navata centrale era molto vasta. Nel mezzo delle quattro navate principali erano allineate file di bacheche, come in un museo, e forse l'edificio un tempo era stato adibito a tale uso. Le bacheche erano di materiale trasparente: vetro, cristallo o chissà che altro, Gord non riusciva a capire. Passandoci accanto, videro che gli oggetti esposti erano apparentemente di natura religiosa: libri antichi e pergamene ancor più antiche, sedie intagliate, indumenti, reliquiari decorati, ex-voto, suppellettili da altare e arredi sacri d'oro e d'argento. Il centro della vasta sala era dominato da una cupola d'oro, e il pavimento sotto la cupola era un disco di onice scuro e lucido, circondato da una ringhiera di legno intarsiata d'oro che si interrompeva in un unico punto. All'esterno della ringhiera si trovavano dei sedili curvi di dimensioni adatte ai pigmei; potevano essercene forse un centinaio. Naturalmente erano rivolti verso l'interno, in modo da consentire di venerare agevolmente il più grande tesoro degli albini. Dall'apice della cupola, ad almeno quindici metri dal pavimento di onice, pendeva una catena massiccia di metallo opaco e verdastro; a circa due terzi della sua lunghezza si trovava un grosso anello dal quale si dipartivano quattro catene leggermente più sottili che circondavano un globo di trasparenza cristallina. Le quattro catene verdastre si riunivano poi sotto la sfera in un altro grande anello, assicurato a sua volta ad un altro tratto di catena più grossa che si prolungava fino al pavimento d'onice dov'era fermata da una grappa dello stesso metallo. «Se mi allungassi, penso che riuscirei a toccare l'anello più basso» disse Leda al giovane avventuriero. «Non ho mai visto nulla di tanto nero» disse Gord pieno di meraviglia, fissando il globo trasparente. Si riferiva al piccolo oggetto visibile all'interno; aveva vagamente la forma di un cono con tre protuberanze che rassomigliavano a delle corna. Leda lo tirò per un braccio per scuoterlo dalla specie di trance in cui era caduto. «Non fissarlo, anzi, non guardarlo nemmeno! Quell'oggetto è come una finestra su una parte dell'universo opposta a quello che conosciamo; sembra così nero perché divora la luce. Non toccarlo, altrimenti prosciugherà la tua forza vitale e farà avvizzire le tue carni.»
«Come diavolo pensi che possa toccarlo, fanciulla? Nessuno può raggiungerlo!» «Dobbiamo raggiungerlo, Gord. E smettila di chiamarmi fanciulla! Sono molto più vecchia di te!» Gord le diede una pacca sul culetto rotondo, ridacchiando per spezzare la tensione. «Non è vero; hai detto tu stessa di avere solo pochi mesi, quindi dovrei chiamarti bambina, non fanciulla.» «Asino! I miei ricordi risalgono a secoli e secoli fa, quindi non sono una fanciulla. Smettila con questo sciocco comportamento e muoviamoci. Dobbiamo slegare quel globo, spaccarlo in qualche modo e prendere la Chiave Finale mentre i pigmei sono impegnati altrove.» Le parole di Leda erano molto sensate. Avrebbero dovuto esserci dozzine di guardie e sacerdoti, lì dentro, ma il tempio sembrava deserto, almeno per il momento, e non si poteva sapere quando gli scontri che si svolgevano all'esterno si sarebbero trasferiti all'interno della sala. Gord si guardò intorno alla ricerca di qualcosa che potesse aiutarlo nell'impresa, e lo sguardo gli cadde su una bacheca poco lontana. Conteneva una statua molto realistica, ritratto di un guerriero dell'antico impero in assetto di guerra, che impugnava uno scudo ovale e una spada dall'aspetto sorprendentemente moderno. L'arma rifletteva un'abilità artigiana sorprendente, pensò Gord; era lunga quasi quanto quella che teneva in pugno e aveva una forma molto simile, ma c'erano alcune differenze che indussero Gord a pensare che fosse stata creata da un grande artigiano. La lama, infatti, non era spessa e pesante come quella che impugnava, e il guardamano era molto più funzionale. Osservandola più da vicino, Gord vide che il taglio era a forma di piatto e che per tutta la lunghezza correva una costola dentellata. Era davvero un attrezzo eccellente. «Ecco la mia nuova arma!» disse, con calma determinazione. Il volto di Leda si distorse per l'ira. «Sei impazzito?» lo apostrofò. «Usa il tuo tanto decantato pugnale per tagliare quelle catene. Dobbiamo avere subito la Chiave Finale!» Ignorandola totalmente, Gord si avvicinò alla bacheca di vetro e legno e guardò la statua incredibilmente realistica del cavaliere Suel. «Scusami, simbolo di perduti sogni di conquista, ma io ho più bisogno di te di quella spada» disse, e mandò in pezzi la bacheca con l'arma che aveva in mano. Il legno si scheggiò e i grossi pannelli di vetro andarono in frantumi che tintinnarono al contatto con il pavimento di pietra. Nello stesso momento una nuvola di fumo esplose dalla bacheca distrutta; Gord fece un salto indietro
per sfuggire all'emissione mefitica, tossendo e asciugandosi le lacrime che gli sgorgavano dagli occhi. «Che cos'hai... Attento, Gord!» L'avvertimento di Leda non era necessario, perché anche Gord aveva notato ciò che accadeva. Si udì uno scricchiolio di vetri quando la statua del cavaliere Suel, con tanto di spada in mano, balzò sulle schegge di vetro della bacheca frantumata. «Volevi questa spada, subumano dai capelli di fuliggine? Eccotela!» gridò il guerriero, avventandosi su Gord. La statua era viva! L'antico cavaliere indossava un'armatura di fattura antica, il cui metallo però era buono quanto quello delle più sofisticate armature moderne, se non migliore. Inoltre aveva uno scudo molto resistente, e tutto questo equipaggiamento, unito alla spada, lo rendeva più forte del giovane ladro, che pure poteva contare su una cottamaglia fabbricata dagli Elfi e sul suo pugnale incantato, oltre che su una spada non troppo affidabile. Gord affrontò l'assalto del guerriero, scansò il cozzo del suo scudo e parò un fendente dall'alto in basso. Il duello era iniziato, ma al terzo contatto delle loro armi la lama di Gord si spezzò sotto il colpo del cavaliere biondo. Il giovane allora scagliò i resti della spada contro il Suel sghignazzante e, mentre questo sollevava lo scudo per respingere il proiettile, fece una capriola all'indietro, seguita da diverse altre, e per un attimo riuscì a sottrarsi al pericolo. «Le tue prodezze da saltimbanco non ti salveranno, microbo» disse il cavaliere, mentre avanzava per attaccare di nuovo. A quel punto Leda partecipò allo scontro. L'assalto improvviso sorprese lo spavaldo guerriero e il colpo della scimitarra dell'Elfo andò quasi a segno. Il guerriero ebbe a stento il tempo di parare il fendente micidiale, ritraendosi, e il tentativo non riuscì completamente poiché la punta della spada ricurva gli tracciò una linea rossa sulla guancia. «Allora affronta un vero cucciolo ringhioso!» ruggì Leda. Il tono della voce e la postura dimostravano che era prontissima a combattere all'ultimo sangue contro l'antico suddito dell'Impero di Suel. Furioso per la piccola ferita, per la sfida, e per il fatto che il suo avversario non solo era una donna, ma era anche di pelle scura e non apparteneva alla razza umana, il cavaliere lanciò qualche antica bestemmia e scatenò una tempesta d'acciaio sul Drow. L'attacco fu talmente rapido e brutale che Leda dovette fare del proprio meglio per sopravvivere bloccando, parando e arretrando senza colpirsi da sola. Teneva tuttavia occupato il nemico, ed
era proprio ciò che occorreva. In un istante la fanciulla vide Gord muoversi nel suo campo visivo con rapidità sovrumana e balzare da dietro il fianco sinistro del cavaliere sollevando il pugnale in un arco. La distrazione momentanea costò quasi la vita a Leda, poiché in quello stesso istante il guerriero Suel piantò bene i piedi in terra e indirizzò verso di lei un colpo dall'alto verso il basso. La fanciulla sollevò la scimitarra una frazione di secondo troppo tardi, perché ormai il fendente del cavaliere aveva acquistato potenza; il colpo fu deviato, ma non prima di aver fatto cadere la spada di mano a Leda e ad averla gettata in ginocchio con la sua violenza. Sghignazzando e pregustando già la vittoria, il cavaliere dalla pelle chiara risollevò la spada per conficcarla nel petto dell'Elfo nero, ma la sua risata si spezzò in un grido acuto d'angoscia. Gord estrasse il pugnale a lama lunga dal punto in cui era affondato attraverso l'armatura del cavaliere, dritto nel bicipite. Nel farlo, rigirò la lama nella ferita, imitando beffardamente la risata dell'avversario: «Ah, ha, ha, hah! Ti sembra ancora tanto divertente?» Il cavaliere si girò di scatto per menargli un fendente incrociato, ma Gord fu troppo rapido per lui. Si chinò per evitare il colpo, si tuffò sulle gambe del cavaliere e lo gettò a terra lungo disteso. Lo colpì nuovamente con il pugnale, e la lama magica penetrò ancora una volta attraverso il metallo e la carne, questa volta nella coscia sinistra del guerriero altezzoso. «Aspetta! Chiedo una tregua!» gridò il cavaliere, tentando disperatamente di rialzarsi. Leda gli sferrò un calcio nel braccio che usava per sollevarsi in modo da mantenere lo scudo fra sé e Gord, e il cavaliere cadde di nuovo disteso, ma questa volta fu peggio, poiché la spada gli era sfuggita di mano proprio nel momento dell'impatto con il piede di Leda. «Ti farò vedere io la tregua, porco!» ringhiò la fanciulla, facendo per prendere la scimitarra. «Aspetta, Leda» disse Gord in fretta. «Forse questo antico redivivo può aiutarci.» «Non dire sciocchezze» ribatté Leda, raccogliendo la spada e avanzando verso il nemico praticamente inerme. «Costui è uno scorpione, e dobbiamo ammazzarlo.» «Ascoltami, straniero» supplicò il cavaliere, rivolgendosi a colui che si era dimostrato più clemente. «Ora non ti chiedo più una tregua, ma di aver salva la vita. Come prova della mia resa ti offro la spada che desideravi. Prendila, e anche questa bella armatura, che ti spetta di diritto, ma risparmiami!»
In una falcata Gord si pose fra l'uomo semiprono e l'Elfo nero che gli si avvicinava. «Per favore, Leda, prendigli la spada e portamela» la pregò il giovane in tono gentile. La fanciulla esitò, poi, rivolgendo al compagno uno sguardo disgustato, si apprestò a fare ciò che le era stato chiesto, tenendo sempre d'occhio il nemico. «E tu, guerriero del passato» continuò Gord, «non sai che il tuo impero e tutti i tuoi simili non esistono più? La terra soprastante e le ossa dei tuoi compagni ora turbinano nel mare di sabbia di un deserto che ha inghiottito il vostro tanto decantato regno.» «Bah! Il fatto che voi due mi abbiate costretto alla resa non significa che io sia finito. Risparmiatemi, e quando i miei compagni arriveranno per ammazzarvi parlerò in vostra difesa. I tipi come voi sono utili alle nostre truppe ausiliarie, e il servizio potrebbe permettervi di acquistare il diritto di cittadinanza.» «Le tue parole non hanno senso» disse Gord in tono tranquillo. «Che cosa sai di quella sfera sospesa laggiù?» Il Suel si alzò e guardò nel punto indicato da Gord. «Dunque hanno racchiuso il Cono dei Magi nel resochisto... e Uattho?» «Non ti preoccupare» disse Gord, non sapendo in che altro modo rispondere ad una domanda tanto misteriosa. «Ora sei libero sulla parola, quindi stai tranquillo e non fare nulla finché non te lo dirò io» gli ordinò, lasciandolo stupefatto. Leda gli si avvicinò porgendogli la spada appena conquistata, e Gord sorrise soppesando l'arma. «Grazie, amore» disse alla fanciulla. Si diresse verso una delle panche che circondavano il globo e vi posò la spada perché fosse al sicuro. «Ora mi occuperò della Chiave Finale, e poi potremo andarcene.» «Era ora» fu la risposta dell'Elfo. Si appostò in modo da sorvegliare il guerriero Suel e da avere una buona visuale delle quattro ali del tempio, nel caso che qualche arrivo inatteso dovesse coglierli di sorpresa. *
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A poco più di un tiro d'arco dal tempio, Eclavdra, gran sacerdotessa e campione del Demone Graz'zt, succhiava l'ultima stilla di energia da un mago albino gemente; l'ometto non era riuscito ad evitare il contatto con la verga di fattura Demoniaca di Eclavdra, e i volti ghignanti intagliati per tutta la sua lunghezza sembravano gongolare mentre l'oggetto mostruoso assorbiva la forza vitale dal corpo tremante. Eclavdra e le sue guardie, quattro Drow maschi, avevano affrontato moltissimi di quegli omini, ma i
membri della scorta avevano a disposizione anche la magia, oltre alle armi, e tutti coloro che avevano osato opporsi alla loro avanzata erano morti. Eclavdra naturalmente non sapeva che le forze degli albini si erano divise; nutriva grande disprezzo per quei pigmei e riteneva se stessa e i suoi uomini tanto potenti da poter praticamente calpestare quei miserevoli avversari. «Il tempio che cerchiamo è proprio davanti a noi, Eletta di Graz'zt» le disse uno dei maschi. Proprio in quel momento un lampo azzurrino esplose nel grande edificio che il Drow indicava. «Cos'è stato?» chiese Eclavdra al Drow più piccolo. «Qualche scarica di energia, ma non so dire di quale genere.» «Non importa» rispose Eclavdra al suo scagnozzo dai capelli lanosi. «Raduna i tuoi compagni e precedetemi; uccidete chiunque si opponga a voi, e io vi coprirò l'avanzata.» «Per queste strade vagano bande di esseri umani selvaggi, o Grande. Forse dovrei rimanere indietro con te, nel caso in cui uno di questi gruppi dovesse attaccare.» Qualcosa scattò nella mente di Eclavdra. Mentre non voleva pensare che la loro avanzata fosse stata facilitata da un evento tanto banale, la situazione la divertiva: «Sciocchezze! Quegli stupidi albini sono assediati da una rivolta di schiavi proprio nel momento in cui siamo giunti al loro schifoso piccolo alveare per prendere ciò che ci spetta di diritto. È ovvio che si tratta dell'opera del Nero Signore dell'Abisso che ci sorride e ci fornisce il suo aiuto. Muoviti, idiota! Voglio immediatamente il Theorpart.» Chinando il capo candido, il Drow si affrettò a radunare i compagni e ad obbedire agli ordini di Eclavdra, maledicendola mentalmente. Se non fosse stato per il potente Demone che la favoriva, avrebbe potuto sbarazzarsi della Grande Sacerdotessa senza bisogno di aiuto. Come osava dargli degli ordini, una nullità simile? Non importava: avrebbe dato agli altri tre le sue istruzioni e avrebbe coperto il loro assalto; se qualcuno di loro fosse sopravvissuto, sarebbe stato lui... *
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Ci volle parecchio tempo, ma il pugnale compì la propria opera e la catena inferiore cadde sul pavimento di onice con un forte tonfo metallico. Gord afferrò il pezzo di catena che pendeva dal globo, ora libero di oscillare, e stava per arrampicarsi quando udì un grido strozzato alle sue spalle:
«Cosa...?» Si girò e vide Leda con la scimitarra arrossata in mano e il cavaliere dell'antico impero a terra ai suoi piedi, in una pozza di sangue che si allargava sempre più. «Per le fiamme dell'inferno, cos'hai fatto?» gridò Gord. «Questo serpente si preparava ad assalirti alle spalle, Gord, pronto ad ucciderti non appena gli avessi voltato la schiena» rispose Leda in tono gelido. Poi fece rotolare l'uomo supino con la punta del piede, rivelando il pugnale che teneva in mano: «Come ti ho detto, quelli della sua razza non sono altro che scorpioni.» Irato e confuso, Gord tornò al proprio lavoro. Con un piccolo salto fu sullo strano globo, ma distolse lo sguardo dall'oggetto che conteneva. La sfera di vetro oscillava come un pendolo, però egli non se ne preoccupava minimamente. In un attimo fu in cima e continuò a salire lungo la catena, anche se solo per un breve tratto. Poi, sostenendosi con la mano sinistra, iniziò a tagliare il metallo verdastro della maglia di catena immediatamente sotto quella a cui si era aggrappato. La lama incantata agiva sul bizzarro metallo aumentandone soltanto la brillantezza verdastra. Il fatto non lo sorprese, perché lo stesso era accaduto quando aveva attaccato la parte inferiore della catena. Diversi altri colpi e fendenti tuttavia fecero brillare ancor di più il metallo mentre il taglio si allargava e diventava più profondo. «Attenzione, là sotto» disse a Leda sottovoce. «Ti sto guardando, bimbo! Smettila di giocare e porta giù quella roba!» Digrignando i denti per la frustrazione, Gord afferrò il pugnale; si stava preparando a menare un colpo eccezionalmente violento alla catena quando udì grida e un frastuono metallico poco lontano. «Dannazione!» gridò Leda. «Arrivano i nemici, Gord! Non perdere altro tempo e porta giù il Theorpart.» Gord grugnì per lo sforzo e menò un gran colpo di taglio nel punto più luminoso della maglia; la violenza e l'affilatezza della lama furono sufficienti e lo strano metallo dalle sfumature verdastre si spaccò proprio nel punto dell'impatto. La maglia spezzata stridette mentre si allungava e si piegava sotto il peso della sfera cui era assicurata; poi cedette all'improvviso, e il globo trasparente precipitò al suolo facendo rimbombare il tempio per la violenza dell'impatto e mandando in pezzi le panche e la ringhiera nel punto in cui cadde. Era pesante! Il giovane si mise a urlare di gioia mentre il globo avvolto nelle catene rotolava e rimbalzava sul pavimento del tempio. Lo seguì con lo sguardo
mentre zigzagava per la sala, ma ad un tratto sgranò gli occhi e la sua allegria venne istantaneamente ridimensionata. La sfera, nella sua traiettoria irregolare, puntò verso l'ala a sinistra che, sebbene Gord non lo sapesse, costituiva l'ingresso nord del tempio, appena utilizzato da un altro gruppo di invasori. Il globo sterzò e roteò, rotolando irregolarmente sulle catene, e infine si fermò ai piedi di una figuretta non molto più alta del globo stesso, appena entrata nella sala. L'ometto, un Nano, aveva spalle larghe e una gran barba, indossava un'armatura e nella mano sinistra reggeva un grosso martello, nella destra una picca insanguinata. Gord lo riconobbe immediatamente, e pronunciò il suo nome con rabbia e sottovoce, come se fosse stata una bestemmia. «Obmi! Rospo schifoso, io ti...» Il Nano non sentì la frase ma, anche se così fosse stato, non avrebbe potuto avere un'espressione più truce mentre fissava Gord. Credendo che fosse uno dei servi di Eclavdra, non esitò a dare l'ordine di ucciderlo. «Bolt, elimina quella scimmia» comandò, indicando il giovane. Leda approfittò dell'occasione per fuggire il più velocemente possibile nel corridoio che lei e Gord avevano percorso per raggiungere la sala. Il suo compagno era in un brutto guaio, ma non vedeva alcun modo per aiutarlo o per sbarazzarsi contemporaneamente del Nano e del suo mago. Al momento non aveva incantesimi da mettere in opera, e nella fretta aveva dimenticato completamente la bacchetta nascosta nella tasca della tunica che portava sotto il mantello. Così si allontanò per un breve tratto, finché fu fuori vista sia per Gord sia per il Nano, e poi si ricordò dell'anello... «Sì, signore» rispose il mago, che aveva già in mano i componenti necessari a formulare l'incantesimo. Gord aveva pochissimi secondi per escogitare un piano e metterlo in opera. Non osava tentare di saltar giù in fretta e furia, perché una caduta da quell'altezza avrebbe potuto procurargli delle ferite, o almeno limitare la sua mobilità. La cosa migliore era rimanere appeso alla catena, almeno per il momento, e sfruttare il vantaggio della distanza. Tentò di mettersi a dondolare in cima alla catena per costituire un bersaglio più difficile, ma non ebbe il tempo di prendere lo slancio necessario che un lampo di energia sfrigolante si sprigionò dalle dita del mago. Obmi osservava con gioia la forza dell'incantesimo che attraversava a velocità supersonica lo spazio fra Bolt e la figura sospesa; il lampo di luce violacea colpì la spessa catena di metallo, illuminandola di una luce abbagliante e sinistra. L'uomo che vi stava aggrappato si era lasciato cadere all'arrivo del fulmine? Non importava, era troppo tardi. Un alone luminoso
circondava la sagoma del malcapitato, che ad un certo punto cadde come un masso, toccando il pavimento con i piedi e crollando poi con un tonfo. Alla fine giaceva a terra, immobile e carico di bruciature. «Quello non mi disturberà più, ormai» disse Obmi con un sorriso crudele. «Mi congratulo con te, Bolt; è stata una fortuna per te che l'incantesimo abbia funzionato». Il brutto Nano era improvvisamente di ottimo umore, poiché aveva eliminato l'ostacolo, e l'oggetto delle sue ricerche giaceva letteralmente ai suoi piedi. «Molte grazie, grande Nano. Sono qui per servirti bene, tuttavia, non per commettere errori» rispose il mago in tono accattivante. «Molto bene» disse Obmi, magnanimo. «In virtù di ciò che hai compiuto successivamente, sorvolerò sul fatto che hai fallito quando hai pensato di uccidere Eclavdra e il suo seguito, parecchie settimane fa. Non so chi tu abbia colpito quel giorno, ma sono certo che si tratti di quella sgualdrina Drow fuggita nel corridoio un minuto fa». Il Nano si rivolse quindi ad una coppia di guerrieri Yoli che si trovavano alle sue spalle. «Trovatela, ma non uccidetela. Portatemela qui, e vi ricompenserò bene.» I due nomadi si inchinarono in fretta e si allontanarono immediatamente. Capitolo 18 Le voci provenivano da molto, molto lontano, ma ascoltando attentamente riusciva a distinguere quel che dicevano. «Sei sicuro che sia il contenitore giusto?» «Sì... Attento!» «Penso che sia uno spreco del nostro prezioso...» «Fai il tuo lavoro e taci. La nostra vita potrebbe dipendere da questo...» Poi tutto l'universo fu percorso da un formicolio. Il cielo notturno mutò: prima era totalmente buio, non c'erano lune né stelle, ma ad un tratto si accese un bagliore e l'intera volta celeste si cosparse di puntolini luminosi che sfavillavano, diventavano più brillanti e poi iniziavano a danzare. Ben presto il cielo di velluto nero si trasformò in una massa di comete sfreccianti e di piccoli soli che sembravano scintillare e danzare in quello scenario sempre più strano. Ma mentre le comete si incrociavano in lungo e in largo, e le stelle si facevano sempre più grandi e luminose, il formicolio si tramutò in un dolore acuto e tutto l'universo rabbrividì. «Ecco fatto!» «Pronti con la pozione, allora.»
«Dobbiamo aggiungere l'elisir al balsamo? Sembra che consumiamo tutto il...» «Il tutto non esisterebbe senza questa parte.» Gord aprì gli occhi. Gli faceva male dappertutto, ma il dolore si stava affievolendo, anche se lo costringeva a riprendere coscienza. Numerosi volti nebulosi gli ballavano davanti agli occhi mentre cercava di metterli a fuoco, e quando gli si schiarì la vista, uno dei volti si avvicinò e gli disse: «Bevi questo, ma fai attenzione: non devi versarne nemmeno una goccia.» Aveva sete, o meglio moriva di sete, quindi non se lo lasciò dire due volte. Una mano lo sostenne per la nuca mentre un'altra gli portava la coppa alle labbra. Il liquido era leggermente effervescente, era di sapore dolce e gli dava una piacevole sensazione in bocca, in gola e nello stomaco. Gord non desiderava altro che succhiarlo fino all'ultima goccia, e non c'era bisogno di raccomandazioni al riguardo. Avrebbe voluto tracannare il liquido d'un fiato, ma represse la tentazione e se ne fece scorrere in bocca soltanto un rivoletto. Quando anche l'ultima goccia fu terminata, il giovane sospirò di delusione. Le membra gli dolevano ancora, ma nelle viscere non aveva mai provato una sensazione simile. La mano che la sosteneva, gli abbassò dolcemente la testa su un cuscino di stoffa arrotolata. «Puoi parlare?» chiese la voce della figura più vicina. Gord sbatté le palpebre e ci pensò su per un minuto. La luminosità che brillava dentro di lui svaniva, usciva all'esterno, e in questo processo il dolore che l'aveva pervaso mutava e si affievoliva, compresso fra il fresco formicolio proveniente dalla superficie del suo corpo e il meraviglioso calore che irradiava dall'interno. «Sì» rispose finalmente, «e posso anche sedermi». Prima che qualcuno potesse dire una parola o fare un gesto, il giovane si mise a sedere; il movimento brusco gli fece girare un po' la testa, ma non provava più dolore. «Ma cos'ho?» sbottò guardandosi. Era nudo come un verme e la sua pelle aveva assunto un vivo colore rosa. «Ti abbiamo trovato con un piede nella fossa» disse un uomo magro dai muscoli come corde e dalla barba ispida. «Io non l'avrei fatto» spiegò, «ma Smoker e gli altri hanno insistito.» «Post sta tentando di dirti, straniero, che abbiamo usato un balsamo risanatore e un elisir molto potente per riportarti indietro dalle porte dell'aldilà» aggiunse quello che si chiamava Smoker. Gord fu colpito dal racconto, e provò molta gratitudine per i suoi salvatori, ma il fatto di essere vivo non era il suo primo pensiero, per il momento. «Posso avere una camicia e una calzamaglia, oppure una tunica o un
mantello? Ho molte altre domande, ma preferisco porle in condizioni un po' più dignitose». Non era timido né pudibondo, ma trovava la propria nudità estremamente imbarazzante quando tutti gli altri intorno erano vestiti. Diede una rapida occhiata alla stanza: si trovava ancora nel tempio, ma c'era un gran disordine in quel posto. Le pareti e il pavimento erano pieni di graffi e crepe e intorno erano sparsi alcuni cadaveri: tre Drow maschi, due uomini con vesti da nomadi e uno con vesti da mago. Nel frattempo qualcuno aveva spogliato uno dei nomadi morti e gli aveva gettato un burnus di fattura Yoli; aveva soltanto qualche piccolo strappo, e Gord lo indossò senza esitare, nonostante il suo odore pungente. «Ti ringrazio» disse, con sincera gratitudine. «E ora ditemi, che diavolo mi è successo?» «Dohojar, quello lì» rispose l'uomo di nome Smoker, «pensa che tu sia stato colpito da un fulmine. Quel mago morto, laggiù, ne scagliava di tutti i tipi.» Gord osservò Dohojar, un piccolo uomo dalla pelle scura, con i capelli corvini e i denti bianchissimi, che mostrava sorridendo al giovane avventuriero. «Quando i Pigmei della Morte mi presero come schiavo, straniero, studiavo magia» disse. «Ero giovane, allora... se solo avessi studiato di più, forse avrei potuto dare una lezione a quei mostriciattoli.» L'uomo non pareva molto anziano, anzi, sembrava entrato da poco nell'età adulta, se non fosse stato per il suo corpo, molto provato, e il suo sguardo, che era duro e molto simile a quello di un vecchio. «Ecco il perché di questo color rosa! Mi hai curato le scottature?» «Esatto, Zehaab» rispose Dohojar. «Abbiamo trovato una piccola riserva di medicine nei quartieri dei capi pigmei e ce le siamo tenute per i casi d'emergenza. Infatti pensavo che tu avessi bisogno di aiuto per sopravvivere.» «Perché vi siete occupati di me? La vostra rivolta sembra riuscita, e voi, tutti, dovreste andarvene il prima possibile da questa versione in miniatura dell'inferno. Non voglio veder sprecate le mie fatiche, dopotutto» concluse con un sorrisetto. Smoker fissò Post: «Non te l'avevo detto? È lui!» Poi, rivolto a Gord, l'uomo alto dal volto solcato di cicatrici proseguì il suo racconto. «Appartengo al gruppo liberato da te e da quella femmina di Drow, straniero. È un miracolo che tu sia riuscito ad arrivare qui e a portare altra gente da fuori per unirsi all'attacco. Te ne sono grato, e anche gli altri lo sono. Io, anzi noi, vogliamo che tu sia il nostro capo negli scontri che dovremo sostenere
per uscire di qua.» Invece di accettare, Gord chiese maggiori informazioni: «Dove sono gli altri, quelli che hanno iniziato ad attaccare mentre voi vi liberavate e cercavate armi?» Smoker si rivolse ad un omino magro che portava in sé tutti i segni dell'incrocio tra Elfo ed essere umano: orecchie a punta, statura bassa, lineamenti delicati, occhi a mandorla, pelle liscia e chiara. «Shade, tu puoi rispondere meglio a questa domanda. Parla.» Il semi-Elfo si scostò dalla fronte i lunghi capelli neri. «Io non ho visto tutto, ma Mullen e Cockleburr sì; purtroppo tutti e due sono finiti male, altrimenti farei parlare loro... Comunque, straniero, ci saremmo trovati nei guai fino al collo, se non fosse stato per quelli che combattevano contro i pigmei. Noi abbiamo dovuto affrontare soltanto le scimmie e qualche squadrone di guerrieri. La maggior parte di quei vermetti pallidi era infatti impegnata nel tentativo di respingere il Nano e il suo seguito, che arrivavano da nord, e il gruppetto di Drow che premeva dalla direzione opposta. Perciò quasi tutti i loro maghi erano sulla scena degli scontri, come potrai immaginare...» Il giovane annuì, pur non avendo ancora compreso bene che cos'era accaduto. «Chiamami Gord, o Farzeel, come mi chiamano i nomadi, se vuoi. Per me è lo stesso. Quello che mi interessa sapere, tuttavia, è ciò che è accaduto agli altri quando sono entrati nel tempio, soprattutto alla femmina di Drow e al... al... all'oggetto racchiuso nella sfera cristallina.» «Sicuro, Gord - a proposito, è un bel nome» proseguì Shade. «C'erano gruppi di fuggiaschi sparsi per tutto il centro della città. La maggior parte di essi rimaneva nelle vicinanze delle luci rosse per poter vedere meglio. Mullen comunque riferì che il suo gruppo, costituito da tre o quattro dozzine di uomini, stava prendendo le armi da un arsenale dei pigmei quando il Nano e i suoi scagnozzi comparvero sulla scena. Fra loro c'era un mago che scagliava fulmini dappertutto, mentre il Nano sterminava quei nanerottoli pallidi come fosse una volpe intrufolatasi in un pollaio.» «Questo Mullen ti ha detto altro?» chiese Gord, per incitarlo a proseguire. «Ti ho riferito quasi tutto» rispose Shade, scostando nuovamente la lunga frangia dalla fronte. «Mentre il Nano avanzava, Mullen e i suoi lo seguivano, approfittando della confusione per eliminare i pigmei. Io ho incontrato Mullen qui vicino, ed è stato allora che mi ha raccontato ciò che ha visto.»
«E i Drow?» chiese Gord. «Non me ne ha parlato Mullen, ma Cockleburr. Veniva dall'altro versante dei Monti della Nebbia Cristallina. Sai, era una specie di Grugach purosangue. La sola vista dei Drow lo faceva infuriare, e non sapeva che proprio uno di loro ci aveva aiutati a liberarci. Lui e alcuni altri pensavano che fossero proprio i Drow la preda migliore, e decisero quindi di occuparsi di loro, invece che dei bastardi pigmei. Poi si accorsero che i Drow le stavano suonando agli albini, con il contributo di ogni sorta di magie e delle loro balestre micidiali, sai, quelle piccole che si possono tenere in mano e...» «Sì, Shade, ma cos'è successo, poi?» «Scusa, Gord... Cockleburr e i suoi amici radunarono una compagnia lungo la strada, proprio come facevamo tutti noi. Spogliavano i pigmei morti e razziavano armi dovunque, continuando però a seguire i Drow. Il nostro gruppo arrivò qui da un'altra direzione, seguendo il Nano assieme al gruppo di Mullen. Pensavamo di trovare in lui un alleato, quindi lo aspettammo per unirci a lui e al suo mago. In quel momento incontrai Cockleburr, che ci parlò degli Elfi neri; allora tutti noi immaginammo che avremmo avuto un enorme sostegno, sia dal Nano sia dai Drow. Il problema era che quei dannati albini avevano deciso di riunirsi proprio qui, fuori dal tempio, e ci trovammo nei guai, perché i bastardi tentavano di ucciderci per poi prendere quelli che si trovavano all'interno. Poco prima della fine i nanerottoli erano riusciti a farci fuori quasi tutti - fu allora che Cockleburr e Mullen morirono - ma noi riuscimmo a volgere la situazione a nostro vantaggio e a catturarne la maggior parte tutta in una volta, mentre i pochi rimasti si sparpagliavano. In quel momento udii un gran fracasso qui dentro, quindi presi alcuni dei miei ragazzi ed entrai per vedere cosa succedeva. Era uno spettacolo infernale, lasciamelo dire.» Finalmente quel chiacchierone arrivava al punto. «E allora, cosa hai visto di preciso?» chiese Gord, impaziente, con la tentazione di afferrare Shade e di scuoterlo per farlo parlare più in fretta. «Beh, il Nano stava per scagliare il martello su una palla di vetro, o quel che era, a terra ai suoi piedi. Eravamo appena entrati, e gli altri non ci notarono, ma noi assistemmo a tutta la scena. Penso che il Nano avesse già colpito il globo con il martello - era il rumore che avevo sentito fuori - perché questa volta urlò: 'Non reggerà a un altro colpo!' poco prima di lanciare il martello. Il colpo andò a segno provocando di nuovo un gran fracasso, ma la sfera non si spezzò; il martello, invece, gli volò in mano da solo! Il mago tentò di dire qualcosa, ma il Nano stava bestemmiando come un os-
sesso, e non ho mai sentito tanti nomi di Demoni quanti ne ha pronunciati lui! A quel punto ci rifugiammo nel nascondiglio migliore che riuscimmo a trovare.» «Nel frattempo il tracagnotto allontanò il mago, e decise di gettare sul serio il martello, questa volta. Il malefico oggetto picchiò veramente forte, e andò in mille pezzi; alcuni frammenti volarono per tutta la stanza, te lo dico io. Anche il globo, però, si spezzò nello stesso momento, con un'esplosione. Forse a spaccare il martello erano stati i pezzi di catena che ho visto volare in tutte le direzioni; invece il vetro sembrava proprio essersi disintegrato, e poi ho visto quella cosa sul pavimento, un oggetto nero a forma di cono, nel punto in cui prima c'era la sfera di vetro.» «Il Nano ballava su e giù per la stanza. Penso che fosse più rabbioso di un fuoco bagnato, e allo stesso tempo felice di aver spaccato la sfera. Ma prima che ci potessimo capire qualcosa, e prima che lui o i suoi amici facessero una mossa per prendere il cono nero, nella stanza apparvero tre Drow maschi come per magia, e con la magia iniziarono ad attaccare! Il mago che stava con il Nano tuttavia non era un incapace; scagliò qualcosa di micidiale contro gli avversari, colpendoli in serie. Il Nano si allontanò dalla linea di fuoco tra gli Elfi neri e il suo accolito, e puoi scommettere che desiderava ardentemente il suo martello! Ma i maghi Drow lanciarono chissà quale incantesimo e la sala sprofondò nel buio più nero. Nemmeno io riuscivo a vedere.» «Ma ora la luce è più che abbondante» commentò Gord. «Come ha fatto a tornare?» Shade si morse il labbro, pensandoci su. «Non lo so proprio. Noi strisciammo verso il centro della sala, dove non si sentiva più alcun rumore, ma c'erano solo tenebre impenetrabili. Poi apparvero quei globi di luce dorata; prima sembravano lucciole, ed erano fiochi e deboli, ma poi diventarono luminosissimi, e io dovetti sbattere le palpebre parecchie volte per riuscire a vedere qualcosa. Mi pare di aver visto un Drow laggiù» disse il semi-Elfo a Gord, indicando il corridoio da cui il giovane era entrato nel tempio assieme a Leda. «E ce n'erano altri due nella sala, un maschio e una femmina. Il maschio reggeva un sacco con qualcosa dentro, e il cono nero non era più sul pavimento. Questi due Elfi neri si muovevano già abbastanza in fretta, ma quando le luci si accesero, se ne andarono correndo come il vento.» «C'erano tre Drow morti nella sala, quelli che vedi laggiù, e anche il mago umano era andato. Il Nano era in piedi, ma per qualche minuto sem-
brava che non sapesse dove si trovava. Poi, quando scorse gli Elfi neri che scappavano, lanciò un urlo che mi ferì le orecchie. Dovevano esserci alcuni dei suoi guerrieri nomadi nei paraggi, perché infatti uscirono dal loro nascondiglio dopo aver sentito l'urlo e cercarono di raggiungere il padrone, che filava come se avesse avuto le ali ai piedi. Indossava certamente stivali magici, Gord, e inseguiva i Drow come un cavallo alla carica, tenendo quell'arma tremenda sollevata sopra la testa; i nomadi dalle vesti Yoli finirono per rimanere indietro e fu una fortuna per loro! Mi guardai intorno per vedere cosa succedeva e, quando il Nano arrivò a quella porta laggiù da cui erano passati i Drow, sentii uno schiocco e un sibilo. Da dove mi trovavo, però, non riuscivo a vedere tutto, perché il Nano stava fra me e l'altro, chiunque fosse.» «Anch'io ho visto qualcosa» intervenne quello che si chiamava Edge. «Shade sta per dirti che ad un tratto nell'aria si è verificato un fenomeno bizzarro.» «Infatti» concordò il semi-Elfo. «Non avevo mai visto un fuoco nero, e spero di non vederlo mai più. Lo schiocco preludeva all'apparizione di questa sorta di fuoco nero, che bruciava sibilando e sembrava un segno sinistro e spaventoso. Nel momento in cui lo vide, il Nano lasciò cadere l'arma e cominciò a ululare e a battersi dappertutto, come se egli stesso andasse a fuoco. Pensavo che l'apparizione l'avesse terrorizzato a morte, ma poi vidi che la sua barba si era incendiata, anche se con fiamme vere, non roba nera. Il tracagnotto era nei guai, perché apparentemente non riusciva a spegnere le fiamme; poteva solo urlare e cercare inutilmente di spegnere il fuoco a manate. Poi i due nomadi gli salvarono la pelle: uno lo gettò a terra, e l'altro gli buttò addosso qualcosa. Entrambi volgevano le spalle al fuoco nero e, quando il Nano cadde, anch'io distolsi subito lo sguardo. Quando alzai gli occhi, uno dei nomadi aveva in mano l'arma micidiale e l'altro trascinava via il padrone, sempre senza guardarsi indietro. Lasciammo che si allontanassero, poi uscimmo dal nascondiglio e trovammo te» concluse Shade. «Grazie» fece Gord, con un gran sospiro. Poi ricordò qualcosa che desiderava ardentemente sapere. «Hai più visto il Drow solitario, poi, quello che non era con gli altri?» «No» fu la risposta. «Ora ho un quadro di quanto è successo» disse Gord, rivolto all'uomo di nome Smoker. «Che cosa volete che faccia?» «Tu riesci a vedere al buio meglio di tutti noi, lo sappiamo perché qual-
cuno dei nostri ti ha visto all'opera. Ora abbiamo mandato alcuni uomini in avanscoperta, per radunare tutti gli altri fuggiaschi che riescono a trovare.» «Quindi ti nominiamo nostro capitano» aggiunse Post con un tono di sfida nella voce. «Tu ci guiderai e noi ti seguiremo, finché non torneremo su!» Gord non era sicuro di volersi sobbarcare quella responsabilità; dopotutto doveva affrontare soltanto un Nano e qualche Drow; tuttavia le sue possibilità di uscire erano migliori con il sostegno di un gruppo... «E se rifiutassi?» chiese con tono noncurante. «È proprio ciò che pensavo avresti fatto» disse Post, tetro, «ed è per questo che ero contrario a sprecare le nostre medicine per te. Per conto mio, dovremmo ucciderti, se rifiutassi, ma sta a Smoker, Edge e Shade decidere.» Gord non aveva alcuna intenzione di sentire il parere di quei bei tomi, quindi decise di prendere l'iniziativa: «Beh, mi dispiace deludervi, ma non rifiuterò affatto! Diciamo che volevo soltanto sapere chi era totalmente dalla mia parte e chi poteva avere qualcosa in contrario.» Gli altri si misero a ridere, mentre Post lo guardava in cagnesco. Gord aveva apparentemente sistemato la faccenda con soddisfazione di tutti, ma si era fatto un nemico. «Quali sono gli ordini, capitano?» chiese un omone robusto, con un sorriso sul volto brutto ma onesto. «Mi chiamo Barrel, e ti assicuro che faremo tutto ciò che ci dirai, basta che ci porti fuori di qui!» «Prima di tutto mi servono le armi e la corazza. Dove sono la spada, il pugnale e la cottamaglia?» Post brontolò, poi estrasse il pugnale completo di fodero; la custodia era un po' bruciacchiata ma intatta. Quel piccolo episodio spiegava molte cose, pensò Gord. Un altro, di nome Grubstepper, gli porse la spada, dicendo in tutta sincerità che non sapeva gli appartenesse; il giovane lo perdonò, poiché in effetti non portava la spada quando si era arrampicato sulla catena. Qualcun altro prese la cottamaglia, che gli era stata tolta per coprirgli tutto il corpo con il balsamo risanatore e che giaceva a terra pochi passi più in là. Il giovane poté finalmente assumere l'incarico, e l'assegnare ordini sembrò venirgli naturale. «Uno o due di voi, avvicinatevi a quel corpo laggiù, quello dell'uomo con l'armatura antica» disse Gord. «Vedrete che porta la cintura e il fodero di questa spada: portatemeli tutti e due. Smoker, o chiunque altro: manda fuori qualcuno a passare parola che partiremo fra mezz'ora, non un secondo di più! Gli albini sembrano in preda allo shock, per il momento, ma de-
vono essere rimasti in molti. Forse avranno perso la loro reliquia, ma vorranno certamente riprendersi gli schiavi o almeno vendicarsi di loro, una volta che ritroveranno la ragione e il coraggio. Faremo una brutta fine se non ce ne andremo in fretta.» «Dirò loro che ce ne andremo fra un quarto d'ora» disse Smoker; diede quindi istruzioni ad un trio di fuggiaschi dall'aria rude, e tutti e quattro uscirono di corsa. «Preparatevi, uomini» disse Gord a quelli rimasti nella sala. «Razziate quel che potete, ma non caricatevi di tesori, e soprattutto state lontani dai corpi che rimangono in piedi!» Mentre gli altri erano occupati, Gord si recò a perlustrare l'ala in cui Shade diceva di aver visto il Drow solitario. Se il semi-Elfo non si era sbagliato, poteva trattarsi soltanto di Leda. Entrò quindi nel vestibolo e la chiamò sottovoce per nome, poi riprovò aumentando un po' il volume, ma non ebbe risposta. Non c'era traccia di lei in nessuno dei due corridoi laterali, né nelle stanze in cui conducevano, che a quanto pareva dovevano essere i dormitori e le sagrestie dei chierici anziani e dei novizi. Ad un tratto, quando già pensava al peggio, notò un fagotto nell'angolo accanto alla porta che si apriva sulla strada; era la corta tunica nera che Leda indossava sotto il mantello Yoli, e nella tasca cucita nel bordo inferiore c'era la bacchetta che aveva sottratto al mago pigmeo! Leda lo aveva abbandonato, ma non senza motivo; non poteva biasimarla per aver tentato di fuggire quando erano stati colti di sorpresa. Dopo tutto, come gli aveva detto una volta, la loro missione era più importante della vita di entrambi. Gord immaginò che fosse fuggita per poter successivamente inseguire Obmi ed Eclavdra, e vide la bacchetta come un segno di affetto, qualcosa che Leda gli aveva lasciato nel caso in cui anch'egli fosse riuscito a fuggire. Dopo aver rimesso la bacchetta nella tasca e aver indossato la tunica, Gord tornò nella sala centrale. Trascorse i minuti seguenti alla ricerca di abiti più adatti e di un involucro per proteggere la bacchetta. Trovò entrambe le cose in una stanzetta laterale, in cui erano ammassati oggetti che probabilmente risalivano ai tempi degli antichi abitatori della città, a giudicare dalle misure. Quando tornò nuovamente nella sala centrale, il piccolo Dohojar gli si avvicinò sorridendo: «Gord Zehaab, Smoker dice che tutto è pronto. Gli individui abili sono radunati qui fuori. Vieni ora, per favore, e assumi la tua carica.» Ecco fatto; nessuna regola, nessun piano; doveva uscire dall'antico edificio, 'assumere la carica' e trovare la via più breve per lasciare il labirinto della città sotterranea. La situazione era pazzesca, ma mentre ci pensava,
Gord non poté fare a meno di sorridere. Non sperava forse ancora di raggiungere chi era in possesso della Chiave Finale prima che fosse troppo tardi? Naturalmente sì! Ciò che gli ex-schiavi si aspettavano da lui non era più folle di quanto egli si aspettasse da se stesso... «Di' a Smoker e agli altri che sarò da loro fra un attimo, Dohojar», fece Gord, sempre con il sorriso in volto. «Sono ben armati?» «Oh, ma certo, Zehaab!» L'ometto dalla pelle scura sollevò il braccio destro impugnando una delle piccole balestre dei pigmei. Quell'arma sparava mezza dozzina di dardi prima di dover essere ricaricata. «Vedi? E abbiamo anche spade, lance e alabarde. Ognuno di noi ha una o due armi.» Gord annuì e congedò Dohojar, poi si rivolse all'unico del gruppo di cui non era troppo sicuro. «Ora raduna tutti quelli che si trovano qui dentro, Post. Tu e loro sarete con me, intesi?» L'uomo aveva uno sguardo torvo, ma non discusse. In pochi istanti aveva riunito un bel numero di persone. «Andiamo, allora» disse con aria di sfida quando si presentò a rapporto da Gord. Il giovane ignorò l'affronto e il suo autore, e si rivolse invece ai convenuti: «Ragazzi, sono felice di constatare che nessuno di voi ha spaccato le altre bacheche, quelle contenenti le statue.» «Nemmeno per sogno, capitano» gridò Barrel. «Ci è bastato uno sguardo al tizio al quale hai preso la spada. Quelle cose rivivono, vero?» «Puoi scommetterci quello che vuoi, Barrel!» rispose Gord con una risata. «E, a proposito, ottimo ragionamento! fu e tutti i tuoi compagni che a quanto sai hanno pensato la stessa cosa, siete promossi. Tu, Barrel, sarai il mio sergente, e sta a voi decidere quali saranno i caporali: una mezza dozzina basta.» L'uomo robusto iniziò le proprie selezioni, e Gord si rivolse nuovamente al truce Post. «Tu» gli disse, «dovrai essere al mio fianco in ogni momento. Se ci sarà qualcosa da fare, spetterà a te, se io deciderò così, chiaro?» L'uomo annuì, un po' meno impudente, ora. «Benissimo. Ora prenditi qualche aiutante e vedi se riesci a staccare una mezza dozzina di quei globi» ordinò Gord, indicando le sfere dorate che erano grandi solo quanto un piccolo melone, ma emanavano luce sufficiente a rischiarare a giorno una sala così grande. Post si allontanò per parlare con due compagni, accennando addirittura un saluto prima di allontanarsi; Gord notò il gesto, ma non ricambiò, poiché era già intento a studiare la successiva fase del suo piano. «Barrel!» gridò al sergente, che si avvicinava. «Trova delle borse di cuo-
io o di stoffa pesante per le luci che Post sta prendendo. Se non trovi le borse, prendi della stoffa scura per avvolgerle.» «Sicuro, capitano Gord» rispose Barrel. Alle sue spalle alcuni uomini stavano già raccogliendo il materiale necessario. Dopo qualche minuto Barrel disse: «Copriremo i globi non appena Post te li porterà. Eccolo che arriva!» L'uomo magro recava due sfere luminose; anche liberate dalla rete metallica che le avvolgeva, evidentemente non perdevano il loro potere. Gord vide che potevano essere maneggiate senza problemi. Anche i due assistenti di Post ne portarono un paio e Gord spedì i tre dal sergente in attesa. «Andiamo, ora» disse al gruppo, dopo che i globi erano stati messi al sicuro e coperti. Gord li guidò all'esterno, dove si era riunita una folla. Ad un rapido esame individuò circa sessanta uomini e un gruppetto di donne; fra essi c'erano alcuni Gnomi e un Nano. «Sergente» disse, abbastanza forte perché tutti potessero sentire, «consegna tre globi a quel Nano e a quei due Gnomi laggiù. Ho bisogno di volontari per portare gli altri tre» disse rivolto alla folla, scrutando i volti nella fioca luce rossastra. «Questi fagotti contengono le luci dorate del tempio» spiegò. «Coloro che li trasporteranno si disporranno davanti, dietro e ai lati. Se verremo attaccati, dovranno spostarsi e tirar fuori i globi, così gli esseri umani potranno vedere e combattere agevolmente, mentre gli odiosi pigmei verranno impediti poiché non sopportano la luce vivida.» «Perfetto» affermò Smoker. «Questo è il nostro capo, e vi dico che è il migliore che potessimo trovare, nel caso in cui qualcuno avesse dei dubbi. Si chiama Gord, ma voi lo chiamerete capitano. Ci porterà in superficie, e poi ognuno se ne andrà per conto suo.» «L'ha detto Smoker» disse Gord alla folla. «Io sono il capo e Smoker e i suoi compagni, Edge e Shade, saranno i miei luogotenenti. Dohojar, ti nomino sergente, come Barrel. Sei d'accordo?» «D'accordo, capitano Gord Zehaab.» «Smoker, voi tre luogotenenti dovete scegliere altri caporali. Barrel vi riferirà le sue scelte, circa sei, penso. Voglio dividere la compagnia in vari gruppi prima di partire. Ogni gruppo avrà un caporale e non dovrà comprendere più di dieci uomini né meno di cinque. Lasciamo decidere agli uomini chi inserire nelle varie squadre, ma quelli con i globi non vi verranno inclusi. Dovranno operare da soli, in modo da potersi spostare dov'è necessario.»
«E quelli che vedono bene nella penombra?» chiese Smoker. «Suddivideteli fra le varie squadre» rispose Gord, «in modo che ce ne sia almeno uno in testa assieme a me, uno nella retroguardia e il resto sparso ai lati, direi. Ce ne sono a sufficienza?» Il neo-luogotenente si grattò la barba: «Abbiamo Shade, e poi altri sette o otto, ma non mi sorprenderei se altri Elfi si unissero a noi lungo la strada. Ne abbiamo già avvicinati alcuni che non ci ritenevano all'altezza, ma se vedranno che sei tu il nostro capo, forse cambieranno idea.» «Balle!» mormorò Gord sarcastico, ma intimamente compiaciuto per le parole dell'uomo. «Organizza la marcia, Smoker. Prima non facevo altro che insistere fino alla noia sulla puntualità e sono stato proprio io a perdere tempo. Sulla nostra linea di marcia ci sono luci rossastre a sufficienza per arrangiarci, almeno temporaneamente. Andiamo!» Dopo essersi accertato che Post era proprio dietro di lui, Gord accelerò il passo per mettersi davanti agli altri. Aveva imboccato il viale preso dai Drow per entrare nel tempio, poiché riteneva di poter abbandonare quel piccolo nido di albini cannibali e di orrori senza sole percorrendo la stessa strada sulla quale erano passati gli Elfi neri. Pensava che fosse abbastanza facile rintracciare la via seguita dagli invasori, perché avrebbero dovuto esserci le tracce della battaglia lungo la maggior parte della strada. Il giovane camminava lentamente, con la bacchetta lanciamissili in mano. Dopo cinque minuti di cammino, disse a Post di trovare un luogotenente e di verificare che tutti fossero suddivisi in squadroni di combattimento. L'uomo tornò in un attimo: tutto procedeva secondo i desideri di Gord. Finora non avevano incontrato ostacoli né visto alcun albino, tranne i cadaveri di quelli uccisi dall'avanzata dei Drow. La compagnia stava attraversando una vasta piazza cosparsa di pallidi cadaveri quando subì il primo attacco. Evidentemente non tutti i cadaveri erano tali, e per questo Gord dovette riconoscere una certa intelligenza ai nanerottoli. Quasi una dozzina di ex-schiavi cadde sotto la prima scarica delle balestre dei pigmei, i cui dardi avvelenati non concedevano alcuna possibilità di sopravvivenza ad un uomo normale. Ma i rivoluzionari erano duri e decisi, e non appena compresero di trovarsi di fronte ad un'imboscata, si gettarono tutti a terra, proni. Quelli che riuscirono a trovare un bersaglio, risposero ai colpi, usando le stesse armi e il veleno degli albini. Poi una luce dorata si sprigionò ai lati e in prima linea, suscitando strilli acuti perché, come aveva detto Gord, gli ometti non sopportavano un'illuminazione tanto forte.
Due lingue violette colsero Gord in pieno petto; facevano un male tremendo, e il suo cuore mancò un battito ad ogni trafittura. Giurando di arrostire il dannato nanerottolo che lo aveva colpito, il giovane si rifugiò in un nascondiglio e restò a guardare. L'albino uscì allo scoperto un istante dopo, intravedendo la possibilità di uccidere uno degli uomini lì vicino con un altro paio di missili della bacchetta che aveva in mano. «Sei spacciato, verme» mormorò Gord soddisfatto, puntando la sua bacchetta e premendo con il pollice una concavità su di essa. Ovviamente, come aveva sospettato, era quello il modo di farla funzionare. Ma sbagliò la mira; non era capace di usare l'aggeggio, soprattutto perché lo teneva con la sinistra, mentre nella destra aveva la spada. Il fiotto di energia sibilò accanto all'ometto senza procurargli danno e il pigmeo si chinò, cercando di localizzare la fonte del colpo a vuoto. Gord però riusciva a vederlo, anche se si era accucciato. Il colpo seguente lo colse, proprio come Gord aveva sperato. Con un urlo il pigmeo lasciò cadere la propria bacchetta e si mise a saltellare, poi scomparve alla vista, probabilmente per cercare l'arma. Mentre l'altro era impegnato a trovare l'arma, Gord si portò rapidamente in una posizione più vicina e rimase nuovamente in attesa. La testa del pigmeo ricomparve, a qualche metro dal nascondiglio del giovane, e poi la mano che reggeva la bacchetta spuntò fuori dal riparo. Il nanetto vide una figura strisciare verso di lui in lontananza, pensò che fosse l'uomo che aveva usato la bacchetta contro di lui e raddrizzò il braccio per mirare. «Preso!» gridò Gord trionfante, più forte che poteva, allo scopo di paralizzare il nemico per la frazione di secondo necessaria a colpire. L'albino raggelò per la paura e l'orrore di vedersi il nemico tanto vicino, e la spada di Gord si abbassò tagliandogli di netto la mano, che finì sull'acciottolato assieme alla bacchetta; il pallido cannibale fuggì urlando e comprimendosi il moncherino insanguinato. Dopo aver strappato la bacchetta alla mano che ancora la impugnava, Gord tornò di corsa al punto in cui i suoi compagni cercavano di respingere l'attacco dei pigmei. «Chi sa usare una bacchetta lanciamissili?» chiese. Apparve improvvisamente Shade, che come al solito si gettò indietro i capelli mentre diceva: «Io. Che c'è?» Gord affidò alla mano del semi-Elfo l'aggeggio che aveva appena conquistato. «Usala su quei piccoli bastardi, e non sprecare mai un'occasione». Shade si allontanò senza una parola, e dopo pochi istanti Gord vide piccoli dardi violetti colpire gli assalitori da sinistra. Allora il giovane iniziò
anch'egli a sparare missili dall'altro lato, per dare una nuova preoccupazione ai pigmei. Ad ogni colpo la sua abilità nell'uso dell'arma aumentava, e sovente uno dei bastardi albini cadeva urlando. Dopo aver sparato per cinque o sei volte, Gord ebbe il tempo di progettare il passo successivo. «Post!» gridò. «Dove diavolo sei?» «Qui» rispose una voce alle sue spalle. Gord si girò di scatto e in effetti Post era lì... con una balestra puntata contro il suo petto. Il giovane non reagì, concedendogli il beneficio del dubbio. «Vai a cercare Smoker» gli ordinò, «e digli che dovrebbe concentrare i colpi dei suoi uomini in avanti. Voglio eliminare tutti i pigmei che ci sbarrano la strada. Avanzeremo poco a poco finché saremo sicuri che solo alcuni dei piccoli bastardi sono rimasti vivi. Poi, al mio segnale, attaccheremo i superstiti, ci sbarazzeremo di loro e fileremo via di qui. Ti ricorderai tutto?» «Certo, non sono mica stupido» mormorò Post per tutta risposta. «E se non trovo Smoker?» «Parla con Edge. E non chiedermi cosa fare se non trovi nemmeno lui. Ti taglierò quella maledetta testa, se mi combinerai qualche guaio, Post!» L'uomo si allontanò risolutamente, credendo evidentemente a ciò che Gord aveva detto. In pochi istanti il giovane scorse un certo movimento fra i ranghi, con uomini che avanzavano correndo accucciati o strisciando sul ventre per avvicinarsi al blocco creato dai pigmei. L'avanzata fu dapprima lenta, poi acquistò velocità. Anche Gord si unì ad essa, usando la bacchetta più selettivamente e sparando missili infuocati a qualsiasi albino avesse l'aria di un mago. Si udì un grido - sembrava la voce di Edge - e una ventina di uomini balzarono in piedi e si precipitarono verso una posizione centrale ancora occupata dai pigmei; i piccoli albini fuggirono, si nascosero negli edifici o morirono sul posto. «Correte su per questa strada come il vento, ragazzi!» gridò Gord più forte che poteva, tirandosi poi da parte per permettere ai suoi uomini di eseguire l'ordine. Verso la fine della colonna c'erano gli Gnomi e il Nano, che ansimavano e sbuffavano per tenere il passo con gli umani, dotati ovviamente di gambe più lunghe. Quando notò Gord a lato della strada, il Nano sorrise e sollevò in alto il fagotto che gli era stato dato, per mostrare che stava eseguendo il proprio compito di tedoforo nella retroguardia. Una volta sorpassato dalle truppe, Gord si girò e attese per qualche secondo, fungendo egli stesso da retroguardia. Arrivò un pigmeo solitario, e
Gord gli scagliò contro un proiettile di energia incandescente, poi corse via per unirsi nuovamente alla compagnia. Quando raggiunse la coda della colonna, prese al Nano il fagotto con la luce e lo portò personalmente. Ad un tiro d'arco dal luogo dell'imboscata, tolse il globo luminoso dal suo involucro e trotterellò via, lasciandolo alle spalle della truppa. «Vediamo che cosa faranno quei vermi!» mormorò; nelle sue intenzioni la luce doveva fare da barriera all'inseguimento da parte dei pochi pigmei ancora rimasti nella zona, e il passaggio del gruppo nell'ultimo tratto della strada percorsa dagli Elfi neri fu veloce e privo di incidenti importanti. Gord tornò velocemente alla testa del gruppo, concedendosi tuttavia il tempo di congratularsi con i suoi incaricati e incoraggiarli. Dopo meno di un'ora di marcia costante, il gruppo arrivò nel luogo da cui, secondo Gord, i Drow si erano introdotti a forza nella città sotterranea. C'erano molti cadaveri, incluso quello di un Elfo nero, davanti all'entrata di una struttura simile ad una fortezza, e la porta di ferro dell'edificio era stata scardinata dall'interno. «Dico a tutti, riparatevi qui» ordinò il giovane capitano, scavalcando la porta scardinata ed entrando al pianterreno dell'edificio. «Luogotenenti, sistemate alcuni uomini alle porte e alle finestre, quelli che riescono a vedere al buio, e assicuratevi che abbiano dardi in abbondanza. Shade, tu li appoggerai con la tua bacchetta.» Dopo essersi assicurato che i suoi ordini venissero eseguiti correttamente, Gord portò con sé Post e altri tre uomini al piano superiore per accertare l'eventuale presenza di nemici. L'edificio ospitava evidentemente una caserma o una roccaforte dei pigmei e, a quanto si poteva vedere, doveva essere stato usato di frequente. C'erano albini morti dappertutto, sia al secondo sia al terzo piano dell'edificio, e molti di essi erano stati ammazzati nelle loro cuccette, sgozzati. C'erano anche alcune dispense parzialmente rifornite di sacchi di funghi mangerecci, piante che in qualche modo dovevano essere state raccolte in superficie e otri d'acqua. Se non altro, pensò il giovane, il luogo sarebbe servito a tutti i fuggiaschi, un centinaio circa, per mettere le mani e i denti su un abbondante rifornimento di provviste. Una volta perlustrato il terzo piano e non avervi trovato segno di vita, Gord si convinse che anche il resto dell'edificio doveva essere vuoto, fatta eccezione per i cadaveri. «Vai a dire a Smoker di far chiudere il portone ai ragazzi e di barricarlo, poi conduci qui tutti e mostra loro dove sono il cibo e l'acqua. Io vado a vedere cosa c'è qui sopra» disse a Post e ai suoi aiutanti. «Se non mi vedete tornare entro mezz'ora, mandate una squadra di uo-
mini a cercarmi!» gridò ai compagni che si stavano già allontanando. Il quarto piano era completamente vuoto; le finestre erano state bloccate con pietre e malta, e il pavimento era coperto da uno strato di cenere e sabbia. Il piano superiore era altrettanto polveroso, ma la stanza era cosparsa di casse e scatoloni contenenti strane selle molto grandi, briglie e altri oggetti di cuoio, e l'aria era pervasa da un odore insolito. Il giovane avventuriero salì ancora, e l'odore si faceva più forte ad ogni gradino della scala. Quando arrivò a metà strada verso il sesto piano poté udire chiaramente sibili e schiocchi; proseguì lentamente, ma tanta cautela non era necessaria. Scoprì che tutto il sesto piano era stato destinato a stalla, e che ospitava, chiuse in una specie di gabbie, certe lucertole giganti per cui evidentemente venivano usate le selle e gli altri accessori. All'altra estremità della sala c'era una grande porta doppia e, sbirciando nella fessura tra le due ante, Gord vide qualcosa che lo sollevò e lo eccitò allo stesso tempo. Non avrebbe mai pensato di essere tanto felice di vederlo, ma ecco là davanti a lui il Deserto di Cenere, con la cenere che turbinava in nuvolette sul terreno e il sole, che inondava di luce, di vera luce, le dolci ondulazioni del suolo. Gord aveva trovato ciò che gli interessava, e tornò giù di corsa per dare agli altri la buona notizia. «Seguitemi tutti quanti» gridò in cima alle scale del terzo piano. «Stiamo per lasciare gli albini e la loro città!» Capitolo 19 Il vento soffiava e gemeva fra le vecchie pietre, i tetti e le torri, le cupole e le torrette che spuntavano dalla cenere e dalla sabbia come ossa o denti spezzati. Non era né forte né tagliente; sollevava solo qualche nuvoletta di polvere sottile con le sue folate, e i mulinelli che provocava fra le strutture abbandonate erano piccoli e allegri. Anzi, quel movimento dell'aria si rivelava molto utile, perché rinfrescava un po' la sostanza nera di cui era costituito il deserto, che altrimenti si surriscaldava sotto i raggi impietosi per diventare incandescente come una griglia. Erano passate tre ore dal tramonto, e circa lo stesso intervallo di tempo da quando l'ultimo schiavo fuggiasco era uscito cautamente dalla porta che si apriva sul Deserto di Cenere. La temperatura dell'aria e del suolo era, seppure di poco, inferiore a quella del corpo umano. Ben presto, però, si sarebbe velocemente abbassata, e allora qualcuno avrebbe potuto quasi
rimpiangere il calore diurno. «Quanta luce c'è qui!» esclamò una donna in piedi accanto a Gord, mentre si proteggeva gli occhi dai raggi delle lune piene di mezza estate. Era un essere umano, e i suoi occhi non avrebbero dovuto essere tanto sensibili alla luce, ma la lunga prigionia nel sottosuolo li aveva alterati. «Ti ricordi il sole, Falina?» le chiese l'uomo che le stava accanto. «Tra poche ore sorgerà nel cielo, e allora rivedremo veramente la luce. Spero solo che riusciremo ad abituarci in breve alla luce del giorno, perché abbiamo ancora molta strada da fare.» Gord guardò gli uomini che conducevano via la donna e si dirigevano verso un altro gruppetto di umani che intendevano fare rotta verso nordovest per lasciare quel luogo. Quando tutti furono tornati in superficie, ci fu qualche breve festeggiamento; erano riusciti a fuggire dalla loro prigione sotterranea, ma dovevano ancora affrontare il deserto, e nessuno di loro poteva veramente dichiararsi libero finché non raggiungeva nuovamente la patria o almeno un luogo in cui riprendere la vita normale. Quanti ex-schiavi erano morti? Gord poteva fare soltanto un calcolo approssimativo, ma si trattava certamente di centinaia. Quella cifra lo rattristò, ma poi ricordò le parole di uno degli schiavi che aveva aiutato personalmente a fuggire: meglio morire uccidendo i pigmei che rimanere loro schiavi e alla fine essere uccisi per diventare cibo di quei piccoli cannibali. Gli abitanti della caverna sotterranea sotto la Città Dimenticata avrebbero ricordato a lungo l'incidente, si disse Gord con un amaro sorriso di soddisfazione. Stimò che gli schiavi, i Drow e il resto dovevano aver eliminato circa un migliaio di pigmei, e almeno altrettanti dei loro segugi degenerati, le scimmie mute che un tempo dovevano essere state i soldati e gli schiavi dei rinsecchiti discendenti di Suel. Il giovane vide Dohojar avvicinarglisi di lato sorridendo, e si voltò verso di lui proprio nel momento in cui iniziava a parlare: «I gwahasti sono pronti a partire, Gord Zehaab». L'uomo chiamava le lucertole con il nome usato dalla sua gente, appartenente alla tribù di Changar. «Penso di essere pronto anch'io, Dohojar. A che punto sono gli altri?» «Alcuni se ne sono già andati, diretti a nord e a ovest. Penso che il resto seguirà tra breve il loro esempio.» «E tu, non vai a ovest? Hai detto che la tua casa si trova laggiù.» «Come posso vedere le meraviglie dell'oriente sconosciuto, Zehaab, se corro al mio villaggio come un contadino?» rispose Dohojar, con un sorriso ancor più ampio. «Se non ti dà fastidio, farò il lungo viaggio verso est
assieme a te.» Gord alzò le spalle: «Come vuoi, Dohojar, ma ti avverto: accompagnarmi potrebbe significare la morte. Anzi, è quasi certo che sarà così.» Ora toccò a Dohojar alzare le spalle: «Chi può contrastare il fato, Gord Zehaab? Accadrà quel che è scritto. Il povero Dohojar segue semplicemente la strada tracciata per lui.» «Bugiardo! Sei tu che scegli di cambiare strada, questo è il fatto!» gli disse Gord, afferrandolo per una spalla per sottolineare la forza della sua affermazione. «Non mi devi nulla! Non rischiare la libertà appena riacquistata venendo con me solo perché ti senti in obbligo di farlo, Dohojar. Sono arrivato qui sano e salvo, e allo stesso modo arriverò dove devo arrivare.» «Non lo metto in dubbio, Zehaab, e ho fiducia in te quanta ne hai tu, ma voglio accompagnarti per mio piacere, non per il tuo» concluse Dohojar con un altro ampio sorriso. Gord non riusciva a capire se dicesse tutta la verità o meno, ma dopo tutto, pensò, non importava poi molto. «Bah! Sei proprio senza speranza» gli disse. «Ma se sei deciso a seguirmi, potresti anche renderti utile. Prendi le lucertole, voglio dire i gwahasti. Dobbiamo metterci in cammino il più presto possibile». Una delle ultime decisioni di Gord come capo del gruppo riguardava gli animali trovati in gabbia nella torre. Aveva decretato che gli ufficiali superstiti potevano scegliere per primi nella distribuzione delle lucertole, e la maggior parte dei luogotenenti e dei sergenti aveva avanzato prontamente le proprie richieste. Molti altri membri del gruppo avevano invece preferito partire a piedi, principalmente perché temevano gli animali o non avevano dimestichezza con essi, o non volevano dover usare parte del proprio cibo e dell'acqua per tenere in vita la lucertola. Di conseguenza avevano a disposizione un numero più che sufficiente di quelle creature. «In cammino, certo, Gord Zehaab. Corro subito a prendere le nostre cavalcature» disse con un piccolo inchino l'uomo dalla pelle color mogano. Nuovamente solo con i suoi pensieri, Gord ebbe un'ultima occasione di perlustrare la zona e riflettere sul luogo che aveva appena abbandonato. Che posto! pensò. Da quel che aveva visto, la Città Dimenticata era soltanto parzialmente sepolta dalla polvere e dalla cenere, e i suoi ruderi spuntavano dal deserto nudi e corrosi dalle intemperie, monito della fugacità della gloria. A giudicare dall'estensione delle rovine e dalle dimensioni delle strutture, la metropoli doveva essere stata una delle più grandi mai conosciute. Il giovane avventuriero immaginò che un tempo essa avesse ospita-
to almeno un milione di persone; ora invece un numero di abitanti considerevolmente più piccolo, costituito dai discendenti pigmei degenerati, risiedeva in una sua appendice sotterranea. «E vivono in quel buio e in quelle condizioni disgustose per scelta...» rifletté ad alta voce. «Chi, capitano?» «Ehi, Barrel, mi hai fatto paura. Come mai da queste parti, e perché quest'aria furtiva?» L'omone sorrise cordialmente. «Penso di sapermi muovere in silenzio, signore» rispose, nascondendo a malapena l'orgoglio per non essersi fatto sentire nemmeno dal temibile Gord, pur sapendo che questi era perso nei suoi pensieri. «Gli altri saranno qui in un baleno.» «In un baleno? Che vuoi dire? Quali altri?» «Oh, Dohojar, Shade, Delver il Nano e un paio di altri.» «Un momento, maledizione» disse Gord, accalorandosi. «Non vi ho invitato a venire con me, e non ho intenzione di fare da bambinaia ad una massa di... di... sapete che cosa intendo!» Durante quella breve conversazione, Dohojar si era riavvicinato a Gord, e aveva sentito la sua ultima affermazione. Il piccolo Changa si inchinò, e si affrettò a rassicurare il giovane avventuriero: «Oh no, Zehaab, faremo soltanto la tua strada, ma non dovrai temere: ben presto cambieremo rotta. E nel frattempo non dovrai preoccuparti di individui insignificanti come noi.» Gord non poté fare a meno di restare colpito dal desiderio di viaggiare insieme a lui manifestato da quegli uomini, indipendentemente dalla loro vera motivazione. «Smettila di chiacchierare» disse, per nascondere imbarazzo e compiacimento, «e portami la mia luc... gwahasti. A questo ritmo mi farai restare qui a parlare per tutta la notte!» Barrel fece un cenno d'assenso a Dohojar: «Hai sentito il capitano! Pensavo che avresti portato qui quelle lucertole ore fa!» L'omone strizzò l'occhio a Gord sottolineando la parola lucertole, per fargli capire che non doveva necessariamente usare il termine corrispondente se non gli piaceva o se non riusciva a ricordarlo perché era troppo difficile. In pochi minuti si radunò attorno a Gord un gruppetto di uomini, tutti volti familiari. Erano in sei, ma conducevano con sé dieci di quelle strane lucertole dai piedi palmati. Gord aggrottò le sopracciglia e stava per chiedere il motivo della sovrabbondanza di cavalcature quando Post e Smoker fecero un passo avanti e tossirono per attirare la sua attenzione. Fu Post a parlare.
«Non ha senso tirarla tanto per le lunghe, capitano. Io non ti piaccio, e nemmeno tu mi andavi troppo a genio, ma ora le cose sono cambiate, almeno da parte mia. Ci hai portati fuori da quell'inferno là sotto in un modo che non avrei mai ritenuto possibile e hai rischiato molto nell'impresa. Avevi ragione tu; io avevo torto. Ciò detto, ho deciso che mi piacerebbe fare ancora un pezzo di strada con te, e ho convinto anche Smoker ad unirsi. Ci arrangeremo da soli e ce ne andremo quando ce lo dirai tu». Gli altri annuirono e diedero voce al loro consenso sull'ultima affermazione. Gord li guardò negli occhi uno dopo l'altro, a cominciare da Post, e non vide altro che sincerità. «Non c'è nulla di male se partiamo insieme» disse solennemente, «ma spero che restando con me comprendiate in quale ginepraio potreste trovarvi. E ora, qualcuno potrebbe spiegarmi a cosa ci servono queste lucertole in più?» Fu Smoker a rispondere: «Dobbiamo fare molta strada, e sebbene non conosciamo molti particolari di ciò che devi fare, sappiamo che la tua missione è importante e pericolosa. Le lucertole di riserva portano tutto il cibo e l'acqua di cui siamo riusciti a caricarle, e serviranno da cavalcatura nel caso in cui dovessimo perderne una o due nel deserto.» Ovviamente quegli uomini avevano predisposto tutto nei minimi particolari, e avevano preparato una spedizione su larga scala anche prima di sapere per certo se Gord era disposto a viaggiare in compagnia. Il giovane non voleva entrare troppo in confidenza con loro, ma non riusciva ad ignorare l'affinità che sentiva di avere con quella banda di straccioni. «Mi arrendo» disse calorosamente. «Mi sembra che voi tutti siate decisi a guidare la vostra guida, e che non ve ne importi un fico di quello che vuol fare. Dohojar, mostrami come diavolo si controllano queste bestie, che poi parto. Gli altri possono venire con me, se riescono a tenere il passo!» «Sì, Gord Zehaab. Prima devi metterti i gambali e il mantello, sono di pelle di gwahasti, sai, e sono molto utili, come il cappuccio e la maschera che dovrai pure indossare. Là fuori infuriano tempeste terribili, puoi starne sicuro». Nonostante le proteste, Gord fu aiutato dal Changa ad indossare la tenuta di cuoio, completa della strana maschera. Dohojar sorrideva come al solito, ma Gord credette di intravedere una traccia di malizia nel suo sorriso, come se l'uomo dalla pelle scura sapesse qualcosa di cui non voleva parlare. «E ora sembri proprio un vero gwahastoor!» disse Dohojar, dopo aver
equipaggiato Gord alla perfezione. Il giovane balzò in sella alla sua cavalcatura, imitato subito dagli altri. «Non c'è altro, Gord» continuò il Changa. «Vedi come i ganci delle redini si inseriscono nei buchi che si aprono nelle mascelle dell'animale? A seconda di quale tiri, esso si gira da una parte o dall'altra, oppure si ferma se tiri entrambe le redini contemporaneamente.» «Questo è il tuo angwas» disse poi Dohojar, indicando un bastone di legno con una lunga spina assicurata all'estremità, infilato in un fodero a lato della sella. «Per far correre il gwahasti devi pungerlo con questo nella zona scura che ha dietro la testa. Non provare nemmeno in altri punti perché, grazie alle loro spesse squame, queste bestiacce se la riderebbero, delle tue punture di spillo.» «Ora so tutto ciò che devo sapere» disse Gord. «Partiamo, adesso, così percorreremo un tratto di strada prima che il sole sorga e ci cuocia in queste gabbie di cuoio!» Dohojar voleva dire ancora qualcosa, ma fu lieto di obbedire ai desideri del capo, e il gruppo si diresse verso est. Di notte le lucertole camminavano a rilento, non più veloci di un uomo al trotto. Comunque, pensava Gord, era sempre meglio che camminare. I rettili non avevano proprio i piedi palmati, come altri della loro specie che Gord aveva visto. Sembravano più che altro estremità normali, ispessite e bruciate dal calore del deserto fino a diventare dure, spugnose e piatte, e a permettere alle bestie di attraversare la sabbia e la cenere senza sprofondare. L'alba, vista dall'altopiano sul quale viaggiavano, specialmente per i sei che non la vedevano da un'infinità di tempo, fu uno spettacolo meraviglioso. Per Gord fu più affascinante assistere alla metamorfosi subita dalla pelle scura e fuligginosa della bestia che cavalcava quando i raggi del sole la colpivano. Le squame del rettile, infatti, passavano gradualmente dal nero al grigio scuro; poi sembravano sollevarsi leggermente e assumere una sfumatura metallica opaca. Il fenomeno era già abbastanza insolito, ma quando Gord si guardò il braccio, ebbe la sorpresa di notare che anche i suoi abiti avevano assunto lo stesso splendore metallico, mentre la notte precedente erano scuri come la pelle delle lucertole. Comprese che il colore più chiaro rifletteva meglio il calore, quindi questa caratteristica della pelle di gwahasti offriva a lui e alla sua cavalcatura una certa protezione dai raggi cocenti del sole del deserto. «Ora capisco perché i pigmei allevano questi animali» disse a Dohojar, che gli cavalcava accanto.
«No, no, Gord Zehaab» disse l'ometto, gentilmente. «I piccoli cannibali bianchi hanno preso l'idea dai Changar, anche se gli Jahind affermano di essere stati i primi ad utilizzare i gwahasti. Anzi, le bestie che vedi qui sono quelle allevate dai pigmei per i Changar e gli Jahind. Vedi, Zehaab...» Gord lo interruppe con un sorriso e un cenno della mano: «Basta, basta piccoletto». Dohojar tacque sorridendo come al solito e Gord si concentrò sulla cavalcata. La sella era troppo piccola per lui e non molto comoda; non lo faceva sentire sicuro, specialmente adesso che l'animale cominciava ad acquistare velocità. Il sole scottava, nonostante l'abito di pelle che ne rifletteva i raggi ma, più scaldava, più il gwahasti correva. Circa a metà mattina la bestia filava come il vento, senza mostrare segni di stanchezza, e sembrava voler correre in eterno. Naturalmente non era possibile nemmeno per quegli animali mantenere a lungo quel ritmo, come Gord scoprì qualche tempo dopo. Stava cominciando a rilassarsi, nonostante la velocità, quando all'improvviso la lucertola si arrestò e Gord volò lungo disteso nella sabbia. Mentre il giovane avventuriero si dimenava per rialzarsi, sollevando nuvole di polvere, e tentava faticosamente di tornare dalla sua lucertola, immobile come una statua, gli altri ridevano come matti, ancora in sella alle loro cavalcature altrettanto immobili. «Che diavolo avete da ridere tanto?» sbottò Gord. Ma quella che voleva essere un'esclamazione irosa si trasformò in un ridicolo borbottio a causa della maschera. Il giovane se la strappò di dosso, sollevando un'altra nuvoletta di polvere, e si mise a sputacchiare e a scrollarsi di dosso la sabbia, osservando i suoi compagni. Ora erano tutti smontati dalle cavalcature, e Post era impegnato a scaricare una delle bestie che trasportavano le attrezzature e le provviste di riserva. C'era anche Smoker con lui, con la schiena rivolta a Gord, ed entrambi sussultavano come se ridessero. Delver Oldcavern, nel frattempo, faceva del suo meglio per aiutare Barrel a scaricare un'altra delle bestie da soma. «Per i gwahasti è l'ora della caccia, Zehaab» disse Dohojar con il volto privo di espressione. «Forse lo Zehaab non lo sapeva?» «Alla malora, no! È per questo che quella dannata lucertola si è fermata e mi ha disarcionato?» Chissà come, per una volta, il Changa riuscì a restare assolutamente impassibile. «Prima di partire, l'altra sera» spiegò, «ho detto a tutti gli altri di prepararsi ad una brusca frenata, quando il sole raggiunge lo zenith e le squame dei gwahasti diventano argentee. Tu, invece, Gord Zehaab, mi hai
detto che ormai sapevi tutto quel che dovevi sapere, perciò non ti ho disturbato per dirti qualcosa che conoscevi già.» Gord guardò storto il suo interlocutore, sul cui volto non c'era traccia di derisione, tuttavia era difficile capire se lo stesse prendendo in giro, perché di solito parlava di cose molto serie sorridendo fino alle orecchie. Gord era confuso e molto imbarazzato; se era stato oggetto di uno scherzo, pazienza. Che si divertissero pure, per il momento; di certo le cose sarebbero peggiorate molto prima di migliorare. «Sembra che le notizie che ho avuto riguardo a queste lucertole non fossero complete né accurate» mentì Gord. «Perciò dimmi, Dohojar, che cosa faremo in questo periodo di riposo?» Il volto del Changa si distese nuovamente in un ampio sorriso, ora che lo scherzo era riuscito. «Non si tratta propriamente di riposo, Zehaab, anzi!» spiegò. «I gwahasti devono essere lasciati liberi di correre e di cacciare. Quando si saranno nutriti, torneranno indietro e dormiranno un pochino, dopo di che potremo ripartire.» Gli altri erano già occupati a erigere una specie di tenda, un affare ad una falda disposto in modo tale da proteggerli dal vento. Era fatta della stessa pelle di lucertola dei loro abiti, e ora brillava di un bagliore argenteo riflettendo i raggi del sole cocente. Se ci fossero state delle spie nel giro di qualche miglio, gli abiti e la tenda sarebbero stati come fari, ma la presenza di osservatori era estremamente improbabile, almeno per quanto riguardava gli esseri pensanti. Gord riteneva quasi impossibile che esistessero creature inclini a cacciare le lucertole gigantesche, non con la velocità e la dentatura che contraddistinguevano quelle creature. Neppure il più grosso dei pesci della sabbia si sarebbe sognato di disturbare un branco di gwahasti, mentre a volte erano proprio i rettili a cibarsi di pesci della sabbia. «Che cosa mangiano i gwahasti, Dohojar?» chiese Gord. «Tutto quel che riescono ad acchiappare» rispose il Changa con il suo sorriso dai denti candidi. «Comunque amano soprattutto i grossi insetti come le formiche e i coleotteri che vivono in queste zone. Indipendentemente da ciò che sono riuscite a catturare, tuttavia, tornano sempre per bere l'acqua salata che abbiamo in serbo per loro. È per questo motivo che rientrano tanto in fretta.» «E non potrebbero mangiare noi?» «No, Zehaab, almeno finché indossiamo questi abiti di pelle di lucertola. Certo, senza di essi queste stupide creature penserebbero che siamo un gustoso bocconcino e saremmo nei guai.»
Gord era stato sul punto di togliersi gli indumenti di cui parlava Dohojar e di rilassarsi nella tenda, ma udendo le parole del Changa decise che era meglio sopportare un po' di disagio. Faceva caldo anche all'ombra della tenda, ma era sempre meglio che sotto il sole. Dopo circa un'ora, i rettili giganti tornarono indietro di gran carriera, tutti e dieci in branco. Dohojar accolse le lucertole con un otre di acqua salata e diede ad ognuna di esse, a turno, un sorso di liquido. Subito dopo i gwahasti si intrufolarono nella sabbia sollevando un gran polverone, finché ne furono visibili solo il naso e il dorso. Anche i viaggiatori riuscirono a sonnecchiare nel frattempo, per circa tre ore. A metà pomeriggio le lucertole si svegliarono e il rumore dei loro sibili e dei finti combattimenti riscosse il gruppo. «Che io sia impiccato!» mormorò Gord, aiutando a caricare una delle bestie da soma. «Che c'è, Gord Zehaab?» chiese Dohojar in tono preoccupato. «Mi sono appena reso conto che da quando siamo partiti il vento soffia da ovest!» A quella rivelazione tutti rimasero sorpresi, specialmente Barrel. «Che mi pigli un colpo se non è così!» esclamò l'omone. «Per un po' ho fatto il marinaio, e avrei dovuto notarlo! In questa landa dimenticata il vento soffia quasi sempre da est, non è vero?» Gord annuì perplesso. «Proprio così. Oltre alla direzione, è strana anche la sua scarsa forza; si tratta infatti di una brezza leggera, con qualche folata. Mi chiedo come mai abbia cambiato direzione.» Allora fu il Nano a parlare: «Qualunque sia il motivo, è un dono del cielo. Avere quella maledetta sabbia alle spalle è molto meglio che il contrario.» Il gruppo montò in sella e ripartì. Shade guidava la retroguardia, con Post che badava alle tre lucertole da carico che portavano le due tende, le cibarie e le riserve d'acqua. Tutti tranne Gord erano equipaggiati con le balestre dei pigmei e una miscellanea di altre armi. Ognuno, inoltre, impugnava il pungolo affilato usato per tenere sotto controllo i gwahasti. Dohojar accennò a Gord di essere un tiratore assai scarso con la piccola balestra, e ipotizzò che forse poteva darla a lui, visto che, se l'arma fosse rimasta nelle sue mani, non avrebbe mai colpito nulla con essa. Al giovane avventuriero venne un'idea. «Hai detto che un tempo studiavi magia, no, Dohojar?» «Verissimo, Zehaab, verissimo. Per molti anni sono stato l'apprendista di un mago illusionista saggio e potente. Ma è passato tanto tempo, Gord Ze-
haab; ho dimenticato molte cose e non ho né i libri né gli ingredienti per tentare anche una semplice fattura... se era questo che Zehaab voleva chiedermi...» Gord scosse il capo: «No, non era a questo che stavo pensando, Dohojar, ma ho un'idea. Prenderò io la balestra, anche se nemmeno io sono un campione da quel punto di vista; tuttavia ho usato qualche volta questo tipo d'arma quando navigavo con i Rhennee sul Nyr Dyv.» «Mi sono servito di questa con successo» continuò, estraendo dal mantello la bacchetta, «ma tenerla in mano non mi dà la stessa sicurezza di un'arma normale. Prendila tu al posto della balestra; forse sarai più bravo di me ad usarla.» «Sei davvero generosissimo, Zehaab. Questa la so usare! Ora inizio a sentirmi molto, molto meglio.» Sorridendo al piccoletto da dietro la maschera, Gord riuscì a mantenere un tono neutro: «Allora pretendo che tu sia pronto a maneggiarla in qualsiasi momento, d'ora in poi, Dohojar. Perciò potrai rimanere in prima fila fino al cader delle tenebre, quando Shade o io dovremo prendere il tuo posto.» «Grazie, capitano. È un grande onore e non fallirò nel mio compito» rispose l'uomo con orgoglio evidente. Qualche ora dopo il tramonto le lucertole avevano nuovamente diminuito l'andatura, e in seguito rallentarono ulteriormente. Era venuto il momento di un altro periodo di sosta. Il gruppetto questa volta poté riposare per sei ore, e si rimise in marcia due ore prima dell'alba. I rettili avrebbero preferito dormire fino al sorgere del sole, ma Dohojar li svegliò e li fece camminare, nonostante gli orrendi sibili e gli schiocchi che emettevano sapendo di dover tornare al lavoro. L'uomo spiegò che spingendo al massimo i gwahasti avrebbero potuto percorrere venti leghe o più al giorno; se avessero invece permesso alle lucertole di seguire il proprio ritmo, ne avrebbero percorse al massimo quindici. Qualunque fosse stato il motivo che lo aveva portato a spirare da ovest, il giorno seguente il vento non aveva mantenuto la stessa direzione. Verso l'alba aveva preso a soffiare da nord e a sollevare la polvere del Deserto di Cenere in turbini e nuvolette alla loro destra. Barrel disse che secondo lui il vento stava cambiando lentamente direzione: ora spirava da ovest-nordovest, al tramonto sarebbe arrivato da nord-nord-ovest. Questo poteva significare tempesta in arrivo. Dohojar non la pensava così, visto che le lucertole non si comportavano stranamente, ma poco prima dell'ora consueta
di caccia, le bestie cominciarono a fare i capricci. Il gruppo era vicino al punto in cui gli altopiani della zona centrale del Deserto di Cenere si abbassavano precipitosamente; il Changa riuscì a tenere in linea i rettili per il tempo necessario alla discesa, ma poi nessuno riuscì più a farli muovere. Invece di andare a caccia, infatti, i gwahasti trovarono un rifugio e si seppellirono nella sabbia come per dormire. L'avvertimento era più che sufficiente; i sette viaggiatori avevano il tempo di scavarsi anch'essi una buca nella sabbia e attendere gli eventi. La tempesta arrivò meno di un'ora dopo, quasi esattamente da nord. Era assolutamente impossibile immaginare che cosa sarebbe stato trovarsi esposti alla sua furia; la forza del vento era tremenda e la visibilità non raggiungeva nemmeno il mezzo metro. Il gruppo si trovava però alla base della parete rocciosa che segnava l'inizio dell'altopiano, e grazie a quel riparo che li proteggeva proprio da nord, uomini e lucertole non patirono grandi disagi, se non dal punto di vista psichico, perché gli uomini, il semi-Elfo e il Nano riflettevano su quanto sarebbe accaduto loro se allo scoppio della tempesta non si fossero trovati in quella posizione relativamente favorevole. «Penso che si tratti di magia meteorologica, Zehaab» gridò Dohojar a Gord tra gli ululati del vento. «Se così fosse, Dohojar, non vorrei trovarmi di fronte al suo autore» ribatté Gord, sempre urlando. Ad un certo punto un mucchio di detriti franò lungo la parete rocciosa, travolgendo il Nano e il giovane avventuriero. Fu Post a liberare Gord da quella massa soffocante, perché il giovane era stato tramortito da un masso caduto assieme alla sabbia e non era in grado di salvarsi da sé. Delver, invece, grazie ai suoi talenti naturali di Nano, riuscì a tirarsi fuori dalla sabbia in un batter d'occhio. Gli altri erano stati più fortunati, poiché si trovavano in punti in cui la massa di sabbia e cenere non era riuscita a coprir loro il capo o la faccia. Pochi minuti dopo quell'incidente, il vento iniziò a calare e i sette estrassero l'equipaggiamento dalla sabbia per farne l'inventario. Una delle lucertole era morta con la testa schiacciata da un grosso masso franatole addosso, ma le nove rimaste erano illese e in buona salute. Con grande disgusto di Gord, le creature divorarono la compagna morta senza esitare, usando i denti seghettati per strapparne la pelle dura e mangiarne la carne bianca. «Si tratta di cannibalismo, Gord Zehaab, lo so» disse Dohojar al giovane, che osservava la lotta fra le lucertole per l'ultimo boccone del loro si-
mile. «Ma anche questa è una grande fortuna. Ora le bestie si sono riposate e si sono già cibate, quindi non hanno bisogno di cacciare e in un'ora potremo essere di nuovo in cammino.» Poiché arrivavano ancora occasionali folate di vento da nord, i viaggiatori si diressero verso sudovest, per tenere l'altopiano fra sé e la tempesta in via di esaurimento. Verso il tramonto scoprirono un'oasi semisepolta; la fonte gettava ancora acqua, e il liquido limpido stava scavando un nuovo canale verso la pozza. Tutti colsero l'occasione per fare un bagno, anche le lucertole. Liberate dal carico, infatti, si voltolarono nel fango mentre gli uomini, il semi-Elfo e il Nano si sciacquarono sotto il getto d'acqua limpida per liberarsi dalla polvere che aveva coperto ogni centimetro del loro corpo. Gli otri vennero svuotati, risciacquati e riempiti con grandi spruzzi e schizzi. Tutti bevvero fino a non poterne più, e mentre i gwahasti brucavano cactus-coltello e piante 'letto di chiodi', gustandosi ogni tanto qualche boccone di cespugli spinosi rotolanti, ancora troppo immaturi per spostarsi liberamente, Dohojar raccolse un po' di erba-serpente per i compagni. Il Changa teneva orgogliosamente in mano una di quelle sottili piante, che continuava a contorcersi. Era l'imitazione vegetale di un verme, più che di un serpente, anche se le chiazze sulla superficie e la forma appuntita potevano appunto far pensare ad rettile. Le piante si muovevano in fretta, penetrando sotto il primo strato di sabbia per nutrirsi di altri vegetali, vermi della cenere e qualsiasi altra cosa abbastanza piccola da poterla inghiottire. Dohojar spiegò a Gord che quel tipo di pianta cresceva solo nei luoghi umidi, e sempre intorno alle oasi. Era velenosa, e le radichette accanto all'apertura buccale sulla parte anteriore trasudavano grandi quantità della sostanza pericolosa. Il Changa, però, aveva preso la pianta, aveva raschiato via le radichette con il pugnale e poi aveva mostrato agli altri come il resto si poteva pulire e mangiare senza rischi. La carne, che alla fine Gord acconsentì ad assaggiare, era soda e morbida, e sapeva vagamente di granchio; in qualche modo riuscì a mangiarne un bel po'. Sazi e ristorati, i viaggiatori montarono in sella e si diressero nuovamente verso est, in un deserto di cenere che almeno per il momento giaceva nella calma più totale. *
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Un centinaio di miglia a sud-est, Eclavdra malediceva e minacciava i servitori che le erano rimasti. La tempesta aveva infatti trascinato con sé il
suo veicolo a forma di pesce, nonostante gli sforzi fatti per impedirlo, e alla fine, per evitare che si rovesciasse, l'equipaggio aveva dovuto lasciare che il veicolo venisse spinto dalla forza del vento. Ora era finito tra le rocce e si era incagliato; ci sarebbe voluto molto tempo per liberarlo, sempre che ci fossero riusciti. La gran sacerdotessa Drow era infuriata, ma non per questo la situazione cambiava. Circa alla stessa distanza dal gruppo di Gord, a nord-est, Obmi si trovava in condizioni simili. La sua nave del deserto era immobile, con gli alberi spezzati e le vele a brandelli. Non sarebbe stato facile eliminare il mucchio di sabbia e di cenere che la bloccava, anche se avevano a disposizione vele e alberi di riserva. Ora, inoltre, il vento non era più favorevole, quindi l'avanzata sarebbe stata lenta... forse troppo. «Dov'è quella cagna schifosa?» ringhiò il Nano alla sua compagna, che fissava attentamente il deserto. «Sento che si trova a circa trecento miglia a sud, Obmi, e che non si avvicina né si allontana da noi.» Il nano sorrise soddisfatto: «Allora neanche lei si muove. È morta?» «Se fosse morta, non riuscirei a percepire la sua presenza, e avrei altri modi per scoprire che è priva di vita, credimi. È ferma, ma viva, di questo sono sicurissima.» «Meglio per te, Leda, altrimenti ti...» L'Elfo nero si girò di scatto verso Obmi, con uno sguardo gelido: «Non sognarti di minacciarmi, Nano. Mi sono unita a te per mia volontà, e allo stesso modo ti aiuterò. Il nostro patto è che tu ti prendi la Chiave Finale e io uccido Eclavdra. Se cerchi guai, non devi rivolgerti molto lontano; io ho un solo desiderio e lo realizzerò, con te o senza di te.» A ciò, Obmi rise e le diede una pacca sul sedere: «Sei una dura, Drow, e non perdi facilmente la calma; ti ammiro per questo!» *
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«Allentate le briglie ai gwahasti» suggerì Dohojar. «Questi vecchi corridori delle sabbie sanno dove trovare l'acqua; la annusano a miglia di distanza». Gli uomini erano più assetati delle lucertole perché, quando si trattava di scegliere, l'acqua veniva salata e data alle bestie, mentre gli uomini restavano a secco, o più precisamente dovevano accontentarsi di razioni assai scarse. Erano passati più di sette giorni da quando avevano fatto il bagno e avevano bevuto all'oasi nei pressi dell'altopiano; da allora si e-
rano diretti a est e non avevano più visto nemmeno la minima traccia di umidità. Il suggerimento di Dohojar non portò a risultati migliori, almeno per il momento, perché i grossi rettili proseguivano nella medesima direzione, verso il sole nascente. «Stasera dimezzeremo di nuovo le razioni d'acqua, se non troveremo una fonte o un'oasi» disse Gord agli altri. Neppure Delver si curò di rispondere; aveva troppa sete, e brontolare sarebbe stato inutile. Le lucertole continuavano a correre e gli uomini sognavano profondi laghi azzurri. Per tutto il tempo il vento era stato molto debole, come se il cielo avesse esaurito le proprie risorse nella furiosa tempesta della settimana precedente e ora stesse recuperando le forze. Da nord soffiava uno zefiro, che spesso cambiava direzione toccando tutti i punti della bussola. Quando arrivò l'ora di accamparsi per la notte, ognuno dei sette poté avere soltanto un sorso d'acqua, e anche ai gwahasti spettò una razione dimezzata; gli uomini e i rettili si indebolivano e dimagrivano sempre più. Anche la caccia non era stata buona per le lucertole; lo dimostravano i loro fianchi sempre più scarni. Dall'incursione del giorno seguente ne tornarono solo otto, e Gord non era sicuro di cosa potesse essere accaduto. O le altre si erano mangiate la compagna, oppure qualche predatore nascosto nelle sabbie aveva approfittato della sua lentezza per divorarsela. Non era una gran perdita, perché con l'acqua agli sgoccioli e cibo sufficiente solo per un paio di giorni, non erano necessarie due bestie da soma. Sull'animale di riserva rimasto furono caricate le tende, e il cibo e l'acqua furono distribuiti fra i sette membri della compagnia. Sebbene in quei giorni procedessero più lentamente, i gwahasti mantenevano ugualmente una buona velocità, e la distanza percorsa diventava sempre più lunga. Il giorno seguente non portò grandi variazioni; videro soltanto dei puntini roteare nel cielo sopra di loro. Quando si avvicinarono a terra, tutti capirono che si trattava di avvoltoi con un'apertura alare di tre o quattro metri. Gli uccelli non si avvicinarono mai moltissimo, ma per i viaggiatori era impossibile ignorare la loro presenza o ciò che implicava. Gord non si preoccupava per sé, per il momento, ma si chiedeva come gli altri avessero interpretato quella sinistra novità. Poi sentì uno scambio di idee che lo tranquillizzò. «Mi pare che siamo nei guai» osservò laconico Smoker, rivolto a Post. «Sì» rispose quest'ultimo. «Se quelle maledette bestiacce non si avvicineranno, non avremo più carne fresca.» Poco dopo apparvero i cavalieri della sabbia, strani aracnidi dalle lunghe
zampe e dalle mandibole a becco; erano grossi come lepri e le loro zampe misuravano circa mezzo metro; si cibavano di carogne, ma secondo Dohojar non erano commestibili. I cavalieri delle sabbie sorpassarono il gruppetto a parecchia distanza, come gli avvoltoi che volteggiavano sopra di loro; al crepuscolo gli uccelli sparirono, e al cadere delle tenebre anche gli aracnidi fecero lo stesso. La carovana sostò per il riposo notturno, ma non appena tolte le selle e il carico, i gwahasti si precipitarono di gran carriera verso nordest, invece di mettersi a dormire, e anche Dohojar rimase sconcertato. «Non ho mai sentito parlare di un simile comportamento» disse il Changa. «È inaudito, Zehaab, impensabile!» Durante la conversazione sui fatti appena successi, tuttavia, l'uomo dalla pelle bruna ammise di non essere veramente un esperto in materia di lucertole. Le aveva cavalcate un paio di volte, aveva visto come bisognava accudirle e aveva parlato con gente che aveva dimestichezza con esse, ma le sue esperienze si fermavano lì, fino alla loro fuga. Dohojar era imbronciato e pieno di vergogna. «Non importa, sergente» gli disse Gord con una pacca cordiale sulle gracili spalle. «Ci hai aiutati ad arrivare fin qua ed è stato già un buon lavoro; tutti noi ti siamo debitori. Su col morale, ora, e vediamo cosa si può fare per rimettere in marcia la compagnia domani!» Nonostante l'incoraggiamento, Dohojar era di umore cupo e sembrava pronto a sparire nel deserto per l'onta del fallimento. Proprio in quel momento Shade intervenne gridando da circa trenta metri di distanza, dove montava di guardia. «Ehi, voi del campo, guardate laggiù!» urlò. «Si vedono delle creste dorsali solcare la sabbia da nord, dirette verso di voi!» Come una pinna in mare segnala la presenza di uno squalo, così le creste dorsali che spuntano dalla cenere annunciano la venuta dei temuti pesci delle sabbie. Gord ne aveva sentito parlare dai compagni di viaggio, e ne sapeva abbastanza da non desiderare di incontrarne uno, ma ora non si poteva fare nulla per evitarlo. «Prendete le armi e cercate tutti i sassi che riuscite a trovare!» gridò Gord al resto della compagnia, mentre impugnava la balestra. Nel cielo brillava una mezzaluna calante, Luna appunto, mentre Celene si intravedeva appena sopra l'orizzonte. I due satelliti emanavano una discreta quantità di luce, sperabilmente sufficiente a permettere a Smoker, Post, Barrel e Dohojar di vedere abbastanza bene da mirare e colpire il bersaglio. Gord si arrampicò in cima alle tende di cuoio, in modo da avere il vantaggio dell'altezza, per quel che poteva valere. In quell'istante un fascio di luce si sprigionò dal punto in cui si trovava Dohojar, ai bordi del campo, nella po-
sizione più vicina ai mostri in arrivo; per una frazione di secondo la luce violetta illuminò una cresta mostruosa e poi colpì il dorso del pesce della sabbia che spuntava in superficie. «Sta arrivando un intero branco di quei maledetti bastardi» mormorò Delver, saltando su accanto a Gord e scagliando un dardo con la balestra. Mi sa che siamo nei guai, capitano. Dopo l'attacco coraggioso ma inutile con la bacchetta, Dohojar tentava faticosamente di tornare indietro per raggiungere gli altri, inseguito da vicino da una lunga cresta. Doveva essere il pesce delle sabbie che aveva colpito con un missile della bacchetta, servito solo ad attrarre la sua attenzione ma non a ferirlo seriamente. Gord e Delver assistevano alla scena entrambi convinti che il Changa non ce l'avrebbe fatta. Il Nano mormorò una sequela di imprecazioni nella sua lingua e scagliò un dardo, nonostante l'uomo in fuga gli sbarrasse parzialmente la linea di tiro; Gord fece lo stesso, pregando in silenzio di colpire il mostro e non Dohojar. Proprio in quel momento l'ometto fece un gran salto, e la polvere alle sue spalle eruppe in un geyser che nascose alla vista dei due spettatori la tragica conclusione. Capitolo 20 Non aveva potuto far altro che stare a guardare, invisibile ma impotente, mentre Eclavdra aveva preso una borsa pesante e vi aveva fatto scivolare il Theorpart. Il maschio che l'accompagnava era senz'altro un mago, oltre che uno spadaccino. Se avesse attaccato, Leda sarebbe diventata visibile, e non aveva potuto correre un rischio simile; aveva potuto quindi soltanto digrignare i denti per la rabbia e la disperazione mentre la sua genitrice e controparte se la svignava con la Chiave Finale. Poi però, quando aveva visto Obmi crollare al suolo davanti alla porta per essere quindi portato via dalla stanza assieme alla sua arma, aveva pensato bene di agire, perché aveva capito che dopotutto qualcosa si poteva fare. Ancora invisibile grazie all'anello, Leda aveva attraversato furtivamente la sala principale ed era uscita dalla porta per cui erano passati Obmi e i nomadi. Aveva visto un gruppo di schiavi stretti uno all'altro nel punto in cui Gord era caduto a terra; in fondo al suo cuore gli aveva augurato buona fortuna, ma non si era fermata, perché doveva pensare a qualcosa di molto più importante. Era stato facile per lei raggiungere i nomadi che lasciavano il tempio; a quel punto si era tolta l'anello e aveva messo in opera il suo piano.
«Mettetelo giù!» aveva ordinato, apparendo all'improvviso davanti ai guerrieri Yoli. I nomadi non se l'erano fatto ripetere due volte e avevano lasciato cadere immediatamente il Nano e la sua arma, fuggendo come il vento. Avevano conosciuto abbastanza Drow da sapere che cosa avrebbero potuto aspettarsi da una di loro. Obmi era stordito, e Leda avrebbe potuto usare la sua picca per ucciderlo sul posto; invece gli aveva confiscato l'arma e gli stivali magici e poi aveva formulato un incantesimo per guarire il Nano e fargli riprendere coscienza. Si era allontanata quindi di qualche passo mentre Obmi apriva lentamente gli occhi e scuoteva il capo. «Eclavdra!» aveva mormorato, mentre riprendeva i sensi. Aveva cercato di alzarsi in piedi e di afferrare il martello per avventarsi su di lei, vomitando le bestemmie più oscene. Leda lo aveva lasciato sbraitare ed imprecare per qualche secondo, visto che era troppo debole per rappresentare una reale minaccia. «Smettila di blaterare, Obmi» gli aveva detto poi in tono condiscendente. «Non hai più né la picca né gli stivali magici, quindi non puoi combattere o tentare la fuga. Rilassati un attimo e guardami bene.» «Vai a farti fottere, puttana Drow!» aveva esclamato Obmi, guardandola con espressione maligna, per dimostrare che non era disposto a morire senza opporre resistenza. Poi aveva socchiuso gli occhi e il suo sguardo d'odio era mutato in un'espressione perplessa. «Che cosa c'è di diverso in te, cagna di quei cani neri? Il Theorpart ti ha già fatto effetto?» «Non essere sciocco, Obmi. Non ce l'ho io. Ma guardami bene, mi hai già visto nella sala, solo pochi minuti fa.» «Non ci sono dubbi sulla tua identità, Eclavdra. Che motivo c'è...» «Eclavdra e i suoi servi stanno uscendo proprio adesso di qui con la Chiave Finale. Ti ha gabbato fin dall'inizio, Nano! Io sono soltanto il suo clone, creato per finire nelle tue grinfie mentre lei ti rubava la preda sotto il naso. Mi vedi cambiata perché qualcosa è andato storto nella magia che mi ha generato dalla sua carne; io non sono la sua copia esatta.» Il Nano si era preso la testa fra le mani e aveva cominciato a gemere: «Ingannato! Imbrogliato da quel sacco di spazzatura annerita! Come potrò sfuggire alle ire della Demoniessa? Oh, povero Obmi! Eravamo così vicini...» «Smettila di piagnucolare, piccola nullità» gli aveva intimato. «Eclavdra non ha ancora vinto, no? Deve fare molta strada prima che il gioco sia concluso. Sono qui per darti la vittoria, se non sarai troppo debole e smidollato per afferrarla.»
«Che dici? La vittoria? Non pensare di farmi qualche giochetto da Demonio, Drow, perché anche disarmato posso sempre romperti il collo a mani nude» aveva detto il Nano, flettendo le dita tozze. «Non è uno scherzo, Obmi, è solo un fatto. Accetta l'evidenza che io sono il clone di Eclavdra; tra l'altro vedi bene che desidero la sua morte, forse ancora più di te. Stando così le cose, perché dovrebbe interessarmi l'ultima parte di quel malnato oggetto? Puoi tenertelo, per quel che me ne importa. Dal canto mio vorrei soltanto vedere la mia progenitrice morire lentamente sotto i miei occhi; è tutto ciò che desidero. Concedimelo, Nano, e io sarò felice di consegnarti la Chiave Finale.» Obmi l'aveva fissata con sguardo indagatore: «Perché cerchi il mio aiuto in questa faccenda?» «Semplice: Eclavdra possiede guardie, un mezzo di trasporto attraverso il Deserto di Cenere e il Theorpart. Io sono sola e priva di mezzi di trasporto, mentre tu hai degli scagnozzi e, suppongo, anche un veicolo per inseguire quella cagna maledetta.» «E allora? Perché dovrei portarti con me, se possiedo tutto ciò?» «Perché io godo di poteri magici, come lei, e sono anche un'esperta d'armi. Tuttavia, a prescindere da ciò, c'è un altro motivo importante che non puoi ignorare per nessuna ragione.» A quell'affermazione il Nano l'aveva guardata dubbioso: «E quale sarebbe, Drow?» «Il legame che mi unisce a colei dalla cui carne sono nata si fa ogni giorno più forte, Obmi. So quale direzione ha preso, e posso calcolare con notevole precisione la distanza che intercorre fra noi. Quel che più conta, però, è che l'aberrazione intervenuta nel corso della mia formazione ha avuto un'altra conseguenza deliziosa.» «E sarebbe?» «Eclavdra non ha la più pallida idea della mia esistenza!» Avevano concluso un patto sui due piedi. Il Nano aveva capito che Leda aveva utilizzato i suoi incantesimi per aiutarlo, e dopo che gli aveva restituito l'arma e gli stivali incantati, nel suo cuore nero c'era stato un barlume di fiducia in lei. Insieme si erano diretti al luogo in cui si trovava il veicolo di Obmi. I pochi scimmioni dalla criniera gialla e i loro padroni che avevano tentato di spingerli all'attacco erano stati eliminati sommariamente. Non avevano ancora fatto molta strada che si erano imbattuti in quattro Yoli: i due che non erano riusciti a localizzare Leda quand'erano andati a cercarla e i due che aveva sorpreso mentre avevano portato via il capo dal
tempio. Leda era rimasta meravigliata dalla generosità del Nano, che li aveva riaccolti soltanto con qualche colpo leggero e pesanti insulti. «Ho bisogno di quei ratti per far funzionare la mia nave» le aveva confidato. «Quando non mi saranno più utili, mostrerò loro che abbandonare il proprio capo è un crimine di cui pentirsi, e amaramente!» La tanto decantata nave di Obmi era un veicolo piuttosto goffo, ma il cambiamento nella direzione del vento aveva permesso loro di acquistare una velocità accettabile nella direzione desiderata. Leda aveva avvertito il Nano del precipizio in cui terminava l'altopiano sul quale sorgeva la Città Dimenticata. Obmi sapeva della presenza di pareti scoscese a nord perché era venuto da quella direzione, ma apprendere che ve ne erano anche ad est era stata una sorpresa. Grazie all'avvertimento di Leda, aveva individuato l'orlo del baratro e lo aveva rasentato per una ventina di miglia; quella rotta aveva portato un po' di ritardo al gruppo, ma l'alternativa sarebbe stata di gran lunga peggiore. Alla fine erano arrivati ad un pendio ripido che la nave aveva percorso a velocità precipitosa, sopravvivendo tuttavia alla discesa. Avevano incontrato poi una serie di colline che li aveva costretti a deviare verso nord. Avevano proceduto a zigzag, ma la direzione e la distanza di colei che cercavano erano costantemente note a Leda. Il vento era rimasto favorevole, e ciò aveva soddisfatto e turbato l'Elfo nero allo stesso tempo. Forse, aveva pensato tra sé, si trattava dell'intervento di qualche essere che interferiva dove Demoni e Diavoli, e forse neppure le divinità avrebbero osato... Poi si era scatenata la tempesta da nord, come una conferma ai sospetti di Leda. Erano riusciti a malapena a sopravvivere, ed erano stati necessari parecchi giorni di lavoro per rendere nuovamente utilizzabile il veicolo e liberarlo dalla sabbia e dalla cenere che li aveva quasi sepolti in una tomba polverosa. Ora viaggiavano verso sud-est, e il vento gonfiava la vela rimaneggiata del vascello. Gli Yoli erano smunti ed esausti per le lunghe ore di lavoro e lo scarso sonno, ma Obmi era implacabile. Se avessero fallito, sarebbero morti, disse senza tanti giri di parole. Se l'impresa invece fosse riuscita, sarebbe stato un sogno con innumerevoli ricompense. I quattro uomini lavorarono senza protestare. Mentre la nave procedeva nuovamente senza intoppi, c'era molto tempo per parlare, e ora che si erano abituati alla reciproca presenza, Leda e Obmi ebbero modo di apprendere parecchie cose sulle rispettive persone. Dopo che il Nano le ebbe rivelato il suo piano originario, che implicava la
morte di Eclavdra, Leda gli spiegò che i banditi avevano inseguito la sua carovana, non quella della sua antagonista. «Lo stregone ne ha fatti fuori molti del suo gruppo con la sua opera» raccontò, «ma io riuscii a trovare un riparo prima che iniziasse a scagliare i suoi strali; quando il mago vide che non era rimasto nessuno in grado di combattere, abbandonò la scena in fretta e furia, ma i banditi nomadi erano dei veri briganti, e per di più avidi. Mi scoprirono nel mio nascondiglio e riuscirono a catturarmi perché non ero ancora matura al punto da usare incantesimi o armi contro di loro. Invece di uccidermi, però, mi presero prigioniera, si diressero verso sud e si unirono ad una carovana, intenzionati a vendermi a Karnoosh per aumentare ulteriormente i loro introiti» disse Leda con una risata. «È stato allora che hai imparato ad usare i tuoi incantesimi, Drow? Come hai fatto a sfuggire a quegli sciocchi?» «Gli Arroden attaccarono la carovana, ma gli Yoli erano numerosi e decisi. Per una volta, se ciò che ho sentito è vero, i guerrieri velati hanno dovuto lottare parecchio per vincere. Tuttavia arrivarono rinforzi per gli Arroden e io pensai che per gli Yoli fosse finita, ma fu un uomo solo che pose termine allo scontro e fece fuggire i guerrieri di entrambe le fazioni con la coda fra le gambe.» Obmi era perplesso: «Un uomo solo? Cosa vuoi dire?» Leda rise di nuovo: «Quel tizio mi salvò, e mi tolse da sotto il cavallo che mi era caduto addosso. Senza il suo aiuto non mi sarei mai salvata. È, anzi, molto probabilmente era, un avventuriero della città di Falcovia intenzionato a rubare il Theorpart a te e ad Eclavdra; lo convinsi che l'avrei aiutato nella sua missione, ottenendo a mia volta il suo aiuto, e così arrivai tranquillamente fino alla Città Dimenticata.» «Descrivimi quell'uomo, e non risparmiare i particolari» disse Obmi. Quando Leda ebbe terminato la descrizione, il Nano era livido di rabbia. «Pensavo di essermelo tolto dai piedi da tempo» ringhiò. «Incontrai quel Gord sulla mia strada un'altra volta, e il risultato non fu piacevole per lui; ma per me fu anche peggiore. Quell'ometto dagli occhi grigi dev'essere stregato. Che cosa ti fa pensare che sia morto, adesso?» «Quando lasciai il tempio per cercarti, Obmi, giaceva a terra carbonizzato. Era lui l'uomo appeso alla catena quando il tuo mago la colpì con quel tremendo fulmine.» Ora Obmi sorrideva: «Sì, sì...» disse, accarezzandosi la barba, e sembrava che facesse le fusa. «All'inizio l'avevo preso per un servo di Eclavdra, ma è stato quando pensavo che tu fossi lei; e quando Bolt gli ha scagliato
contro quel fulmine, mi è sembrato di intravedere in lui qualcosa di familiare, qualcosa che detestavo. Nella confusione non ci ho più pensato, ma ora trovo estremamente allettante l'idea che quel porco dagli occhi grigi sia stato arrostito nell'ultimo vero servigio che quel mago arrogante mi abbia prestato... Ma basta con le chiacchiere, Leda; ora sono in gioco cose ben più importanti!» «Mi chiedo di cosa possa mai trattarsi!» disse la fanciulla in tono innocente. «Umpf! Prima di tutto, dov'è quella cagna di Eclavdra?» L'Elfo nero si concentrò per qualche secondo e poi fornì la sua risposta. «È di nuovo in viaggio, e si avvicina sempre più. Non c'è dubbio che si stia dirigendo verso lo stesso passo attraverso i Picchi Inferno al quale siamo diretti noi.» Obmi si strofinò le mani callose con soddisfazione. «Domani vedremo le montagne» disse, «e verso sera attraverseremo il passo. Se tendiamo un'imboscata...» «Non essere stupido!» lo interruppe Leda, senza entusiasmo, ridimensionando l'eccitazione del Nano. «Con i maghi all'erta, non avremo la possibilità di spuntarla con Eclavdra, sorpresa o no. Dobbiamo precederla al di là delle montagne e trovare rinforzi; sull'altro versante dimorano uomini delle paludi ben disposti ad aiutarci.» Dopo qualche ringhio e qualche brontolio, Obmi accettò il consiglio dell'Elfo nero. Dopo tutto, perché non lasciare che fosse un'orda di umani selvaggi a sostenere il peso dell'attacco? Eclavdra probabilmente avrebbe avuto a disposizione considerevoli risorse per difendersi. Una volta che gli uomini delle paludi le avessero vanificate, egli avrebbe mandato un membro della sua stessa specie a completare l'opera. Se ci fosse rimasta qualche traccia di resistenza, comunque, ci avrebbe pensato personalmente. «Accetto il tuo piano, Leda. Ora, tuttavia, anch'io ho alcuni suggerimenti...» «C'è ancora un po' di quel vino?» lo interruppe la fanciulla in tono civettuolo. «Questo caldo soffocante mi distruggerà, se non troverò un po' di sollievo. Andiamo a poppa del vascello, troviamo un posto in ombra e rinfreschiamoci. Poi potrai raccontarmi cos'hai in mente.» Capitolo 21 Il rumore dell'impatto si sarebbe potuto udire a un quarto di miglio di distanza, o forse più, nonostante fosse stato attutito dalla sabbia. La testa ca-
renata della creatura colpì la roccia con tanta forza da far volare schegge di pietra tutt'intorno. I compagni avevano creduto che Dohojar fosse morto, preda sicura dei pesci della sabbia affamati, ma l'uomo li aveva presi in giro tutti quanti. Il Changa, infatti, sapeva benissimo dove si trovava l'affioramento argilloso e, mentre il grosso animale si avventava su di lui, era corso via tra la sabbia più in fretta che poteva e poi, all'ultimo momento, con un salto aveva raggiunto la cima della roccia, frapponendola fra sé e il suo inseguitore. Per l'altezza considerevole che doveva raggiungere in un solo balzo, riuscì ad arrivare in cima soltanto lungo disteso invece di restare in piedi e continuare a correre, e fu proprio questo a salvargli la vita, perché così non fu colpito da schegge di pietra. Il pesce delle sabbie aveva urtato a tutta forza contro la parete rocciosa e ora si contorceva agonizzante, sollevando nubi di polvere e cenere tutt'intorno. Il Changa si alzò in piedi, si girò verso la creatura ferita e prese la mira; dalla bacchetta che teneva ancora in mano partirono getti di energia che fecero raddoppiare le convulsioni della creatura quando la colpirono nella parte anteriore, non protetta da alcuna corazza. L'animale che gli occidentali, a seconda della nazionalità, chiamavano pesce delle sabbie o demone delle sabbie, era in realtà una mutazione del millepiedi, cresciuto e trasformatosi per adattarsi al nuovo habitat e al tipo di prede disponibili. La testa e i primi segmenti del corpo erano ricoperti da uno strato di chitina più spesso, mentre gli occhi si trovavano in alto, sopra l'esoscheletro, su una sorta di cresta o pinna che poteva solcare la superficie polverosa del Deserto di Cenere. Quella bizzarria anatomica permetteva al mostro una buona visibilità anche quando la maggior parte del suo corpo rimaneva sepolta sotto la sabbia. Il corpo era diviso in numerosi segmenti e si appiattiva ulteriormente nella zona del ventre, per poi formare una specie di gobba nella parte posteriore, sormontata da un'altra pinna che permetteva alla creatura di solcare meglio la sabbia. Le numerose zampe si erano allargate e con l'evoluzione avevano assunto la forma di una spatola, permettendo all'animale di 'nuotare' fra la sabbia e la cenere invece di scorrazzare in superficie. Questi millepiedi mutanti cacciavano raramente da soli; di solito si spostavano in branchi, detti banchi da coloro che li chiamavano con il nome di 'pesci delle sabbie'. Quand'erano fermi, i mostri si mimetizzavano perfettamente fra le sporgenze rocciose che spuntavano dalla superficie desertica, mentre in movimento somigliavano vagamente a degli squali che sol-
cassero il mare. Praticamente qualsiasi cosa che si aggirasse in superficie o dimorasse immediatamente al di sotto di essa costituiva una preda valida per quei miriapodi affamati. Certe prede erano troppo combattive per loro, o non venivano considerate gustose, ma gli esseri umani non rientravano in nessuna delle due categorie. Quello che aveva cercato di mangiarsi Dohojar in un boccone era un esemplare particolarmente grosso, tra i giganti della sua specie, e mentre il corpo segmentato si inarcava per il dolore, il Changa ebbe modo di accertarne la lunghezza: almeno quindici o venti metri. «Povero straccione!» aveva mormorato Gord al vedere l'argilla che si frantumava, seguita da un'esplosione di sabbia e cenere. Nel polverone che si era già alzato mentre Dohojar si metteva in salvo, il giovane non era riuscito a vedere che cos'era accaduto realmente e aveva pensato al peggio. Sapeva che la creatura aveva urtato contro la roccia, ma aveva dato per scontato che Dohojar si trovasse in mezzo e fosse stato schiacciato, mentre non aveva notato che l'animale era gravemente ferito. Socchiuse gli occhi per riuscire a vedere il corpo del compagno fra le zanne del mostro; scorse invece alcuni fasci luminosi nella nube di polvere ma non li riconobbe, e la sua commozione aumentò al pensiero che lo sventurato compagno dovesse subire una morte orribile. Non c'era niente da fare comunque, quindi fece oscillare la balestra cercando un altro bersaglio da colpire. «Ne ho preso uno!» tuonò Delver, che aveva scagliato un dardo proprio nell'occhio sfaccettato di un pesce della sabbia; la creatura strillò sbattendo rumorosamente le mandibole, e la parte anteriore del suo corpo si sollevò frustando freneticamente l'aria con le zampe mentre il veleno del dardo si propagava al cervello e a tutto il corpo. Il mostro agonizzante si raggomitolò su se stesso, e in quel momento altra polvere si sollevò oscurando l'aria dell'intero accampamento. Sebbene due delle strane creature fossero morte, il resto del branco era libero di attaccare senza ostacoli, perché le prede accecate dalla sabbia non potevano difendersi. Gord comprese immediatamente la situazione e tentò di gridare un ordine: «Ognuno per sé! Cercate di...» Le parole gli morirono in gola assieme al respiro; un pesce aveva colpito la duna su cui si trovava: con un volo Gord precipitò a terra, dove rimase tramortito dopo aver perduto anche la balestra. Riusciva a malapena a vedere la bestia che l'aveva attaccato e ora scuoteva la testa per liberarsi dal groviglio delle tende crollate. L'impresa impegnò il mostro abbastanza a lungo da permettere al giovane di alzarsi in piedi e di sguainare la spada e il pugnale, armi lillipuziane per un mo-
stro di dieci metri o più. «Se quel brutto bastardo mi mangia, gli farò venire prima il mal di testa e poi l'indigestione!» Delver pronunciò la sua minaccia tra sputi e colpi di tosse mentre si alzava faticosamente dalla cenere per avvicinarsi a Gord. Estrasse dalla cintura il martello che aveva il manico lungo e la parte posteriore a becco e l'afferrò con entrambe le mani. Il suo volto era cupo e deciso, nella consapevolezza che la morte era imminente. Le acrobazie e l'agilità erano inutili nella sabbia e Gord non poteva far altro che prepararsi ad affrontare il destino, come Delver accanto a lui. «Oh, merda, eccolo!» gridò al Nano, senza staccare gli occhi dal mostro, che si era sbarazzato dei resti delle tende e veniva nella loro direzione. Il grosso millepiedi sollevò leggermente la testa per vedere meglio la preda, che gli sembrava stranamente immobile; di solito le sue vittime correvano, strisciavano, si dibattevano o si contorcevano. Se non si muovevano erano immangiabili oppure nemici... di solito. Il mostro, istintivamente cauto o forse confuso, si fermò a meno di dieci metri da Gord e Delver. Da un punto nei dintorni si alzarono improvvisamente strilli e sibili; il pesce delle sabbie doveva averli riconosciuti, perché si voltò in quella direzione, esponendo una giuntura fra i segmenti corazzati. Gord vide quel varco e in due salti si avvicinò a qualche metro dal grosso corpo del mostro, tanto da poter conficcare la spada nel centro del largo dorso. Menò un fendente e, grazie allo slancio del salto, la lama si conficcò proprio nella carne fra due piastre di spessa chitina e tranciò i nervi che correvano dal piccolo cervello del millepiedi all'altra estremità del corpo. Il capo della creatura crollò immediatamente, mentre la parte anteriore del corpo, attaccata al resto solo per un filo, si dibatteva forsennatamente e la coda sferzava freneticamente l'aria. «Yarrgh!» ringhiò Delver, e si avvicinò anch'egli al mostro roteando la sua arma; il becco del martello penetrò nell'esoscheletro della testa e la punta si conficcò nel cervello, già in tumulto perché le vie nervose erano state interrotte. Mentre il mostro faceva di tutto per ridurlo a brandelli con le mascelle affilatissime, il Nano resistette: il manico del martello a cui si aggrappava era abbastanza lungo da salvargli la vita. La parte posteriore del corpo del mostro continuò a contorcersi e ad agitarsi ancora per un po' dopo che quella anteriore era rimasta immobile, ma quell'attività non presentava pericoli per gli avventurieri. Mentre la testa della creatura morta affondava nella sabbia, Gord si guardava ansiosamente intorno per individuare eventuali altri mostri prima
che colpissero di sorpresa. La nube di polvere e cenere in realtà era troppo fitta per permettergli di prepararsi veramente ad un nuovo assalto, ma fortunatamente non ne arrivarono altri. «Delver, puoi dirmi che cosa sta succedendo?» gridò, mentre il Nano estraeva il martello dalla testa del mostro. «Sarebbe come chiedermi cosa accade dietro un muro di gneiss» fu la risposta. «Vediamo se riesco a fare qualcosa per migliorare la visuale» aggiunse poi il Nano, arrampicandosi sulla schiena del pesce delle sabbie. «Beh?» fece Gord dopo qualche secondo, e visto che il Nano lo ignorava, assunse un tono più deciso: «Beh, cosa vedi, dannazione!» «Che mi possano bollire nel guano di pipistrello!» «Lo farei volentieri!» gridò Gord. Delver si voltò e sorrise al giovane, sentendosi soddisfatto perché per il momento lo sovrastava di qualche metro. «Quegli schifosi lucertoloni! Sono tornati, che siano benedetti! Ne vedo due o tre intenti a sbranare la carogna di un millepiedi, mentre il resto di quei bastardi sembra essersela data a gambe!» Gord si allontanò nella direzione indicata da Delver, impedito nei movimenti dalla sabbia che gli arrivava agli stinchi. Nel giro di un minuto poté in effetti vedere parecchi gwahasti intenti a nutrirsi di un pesce della sabbia, e immaginò che le altre forme scure in movimento che intravedeva vagamente fossero altri rettili all'opera su qualche altro grosso millepiedi. Ma quale non fu la sua sorpresa quando la sagoma di un uomo gli apparve davanti alla sua sinistra. «Gord Zehaab! Sei vivo!» squittì Dohojar precipitandosi verso di lui. «Puoi scommetterci il tuo sedere marrone, scimmietta Changa! Ma tu, piuttosto, come diavolo sei riuscito a farcela?» gridò, abbracciando il compagno. «È stato facile, Zehaab. Quella stupida creatura ha sbattuto la testa contro la roccia, e mentre tentava di schiarirsi le idee l'ho bersagliata con i missili magici di questa bacchetta... che ora, mi dispiace dirlo, sembra proprio esaurita.» «Chi se ne frega, di quel pezzo d'osso!» esclamò Gord, afferrando la bacchetta e gettandola nella sabbia. «Di questi oggetti possiamo trovarne a centinaia; gli uomini come te, invece, sono insostituibili.» Dohojar era allo stesso tempo imbarazzato e deliziato: «Oh, no, io non conto nulla, ma sono felice che il capitano Zehaab abbia una buona opinione di me.» Sopraggiunsero Barrel, Post e Smoker, che si guardavano meravigliati a
destra e a sinistra. Ora che la polvere si era depositata quasi del tutto, scorgevano i cadaveri di due pesci della sabbia poco lontani e di altri due più in là, divorati dalle lucertole affamate. Praticamente parlarono tutti e tre insieme, chiedendo che cos'era successo, e Dohojar, Delver e Gord risposero simultaneamente, cercando ognuno di dare la propria versione degli eventi. Pochi secondi dopo arrivò anche Shade, che immediatamente chiese di sapere tutti i particolari. Gli altri sembravano non far caso alla cacofonia di voci, ma per Gord era troppo. «Come capitano della compagnia» gridò, «chiedo silenzio!» Il clamore si placò immediatamente. «Così va meglio. Dohojar, racconta cosa ti è successo; quando avrà finito, ragazzi, io e Delver vi informeremo sulle nostre imprese e poi toccherà a voi fare il resoconto delle vostre, in quest'ordine: Smoker, Barrel, Post e Shade, che è arrivato per ultimo.» Il racconto degli scontri con i pesci della sabbia si stava trasformando in una gara di esagerazioni quando un gwahasti sopraggiunse sibilando; era venuto per la consueta razione di acqua salata, seguito da altri sei. Una delle lucertole era stata uccisa dai pesci della sabbia, ma eventi simili facevano parte della vita - e della morte - nel Deserto di Cenere. Dohojar, sorridendo, si apprestò ad accudire ai rettili e gli altri sei viaggiatori osservarono felicemente sbalorditi i gwahasti che in ordine decrescente, dal più grande al più piccolo, aprivano le fauci zannute per ricevere un sorso dell'agognata soluzione salina. «È per questo che sono tornati indietro?» chiese Shade. «Certo, ragazzo» rispose il Changa, «ma non sei curioso di sapere perché ci avevano abbandonato?» «Quelle maledette lucertole sono andate a cercare l'acqua, naturalmente!» ringhiò Delver. Era solo un'ipotesi, ma si rivelò esatta, come confermò Dohojar, un po' immusonito perché il Nano gli aveva rovinato la suspense. «In marcia, allora» disse Gord. «Potremmo farci anche noi una bevuta, eh, ragazzi?» «Non ancora, Zehaab» ammonì Dohojar. «I gwahasti vorranno dormire, ora». E in effetti dormirono, e rifiutarono di alzarsi se non quando il sole era sorto già da un'ora. Il gruppo ebbe così il tempo di rimettere a posto l'equipaggiamento da campo e Gord fu felice di scoprire che le resistenti tende di pelle di gwahasti erano relativamente in buone condizioni, nonostante l'incontro con i pesci delle sabbie. Le lucertole, ingurgitati acqua e cibo per giorni, erano lente e si spostavano in un crescendo di sibili e brontolii mentre accompagnavano i loro
cavalieri nel luogo in cui avevano trovato l'acqua. Nessuno degli uomini, comunque, si preoccupava del ritardo; i gwahasti, infatti, non solo li avevano portati all'acqua; avevano senza dubbio salvato gli uomini, il semiElfo e il Nano dalla morte fra le fauci dei mostruosi millepiedi. «Non penso che riuscirò mai ad amare queste bestiacce puzzolenti» disse Smoker con sentimento, «ma posso giurare che d'ora in poi troveranno sempre un posto nel mio cuore». A quelle parole tutti risero e si associarono con i propri apprezzamenti, e il viaggio verso la pozza d'acqua fu molto allegro. La pozza era profonda. Si era formata in un anfratto roccioso; era alimentata da una sorgente che sgorgava dagli strati sottostanti, che la mantenevano limpida e fresca nonostante le costanti infiltrazioni di sabbia e cenere. Quest'ultima proveniva da un grande vulcano visibile a malapena all'orizzonte, a parecchie miglia di distanza, e tuttavia sufficientemente vicino da inviare fin là le sue ceneri. I viaggiatori sapevano di essere finalmente giunti in vista dei Picchi Inferno e di aver superato la parte peggiore del viaggio. Puntando costantemente verso il cono fumante per tutto il giorno successivo, i sette raggiunsero prima di sera le pendici della catena di picchi vulcanici e di creste seghettate. Il giorno seguente fecero rotta verso nord, rasentando i terreni più accidentati mentre cercavano una via adatta per attraversare le aspre montagne. «Ecco!» tuonò Delver dopo alcune ore di ricerche. «Vedete quella gola? È da lì che dobbiamo passare». Gli altri erano più che disposti a fidarsi dell'istinto del Nano, e inoltre erano estremamente ansiosi di lasciarsi alle spalle il Deserto di Cenere. Gord era pieno di speranza ed eccitato quanto loro, ma concluse che potevano anche perdere un paio d'ore in nome della prudenza e della sicurezza. Invitò Delver e Smoker a perlustrare il passo per un'ora e poi a tornare indietro. Nel frattempo tutti gli altri scaricarono i gwahasti e, siccome era quasi mezzogiorno, li lasciarono sprofondare nella sabbia per il consueto pisolino. Le lucertole stavano ancora riposando quando tornarono Smoker e il Nano. «La strada sembra buona, capitano» riferì Smoker, «almeno per quel che abbiamo visto.»Credimi, ti piacerà camminare di nuovo sul terreno solido. Sembra che il Nano sappia il fatto suo! «A me, lo dici» disse Gord con uno sguardo di sottecchi e un sorriso diretti a Delver; ricordava infatti come il piccolo guerriero robusto lo aveva aiutato a sbarazzarsi del pesce delle sabbie. «Bene, carichiamo i bagagli e andiamocene da questo luogo infernale.»
I sette presero tutto ciò che potevano portare e lasciarono indietro le cose non indispensabili, come ad esempio l'attrezzatura per cavalcare; poi salutarono affettuosamente le lucertole ancora addormentate e si misero in cammino su per le buone, solide pietre del passo. Sembrava che solo Dohojar avesse gli occhi umidi al momento di congedarsi dai rettili, ma fu questione di un momento. Ben presto divenne molto meno piacevole camminare sulle rocce. Il vento soffiava gelido dai picchi che li sovrastavano. La natura delle difficoltà era diversa, ma le fatiche non erano affatto finite. Al tramonto, quando raggiunsero una grossa sporgenza rocciosa e si accamparono per la notte erano tutti esausti. Intorno al fuoco il principale argomento di conversazione fu la fatica di dover arrancare su per le salite con tutto il necessario sulle spalle. «Ammetto che non è stato facile» disse Gord, «ma parlate come se aveste gli zaini pieni di piombo. Siete sicuri di aver lasciato indietro tutto ciò che non vi serviva?» Era l'osservazione che tutti aspettavano. Barrel guardò Gord con un sorriso furbo e disse: «Con tutto il rispetto, capitano, sarebbe anche ora che tu portassi la tua parte di carico!» Gord non credeva alle proprie orecchie. «Di che stai parlando?» chiese, troppo stupito per essere arrabbiato. Post, che si trovava poco lontano, sorrideva, e gli altri, sentita la conversazione, si radunarono intorno al gruppetto. Barrel rovistò nel suo zaino d'emergenza e ne estrasse un fagotto piccolo ma evidentemente pesante. «Tirate fuori anche voi la vostra roba, ragazzi» gridò, «d'ora in poi anche Capitan Gord porterà la sua parte!» Mentre frugavano nei loro sacchi e negli zaini, nessuno di loro rivolse la parola al giovane; ad un segnale di Barrel tutti aprirono i fagotti per mostrare il contenuto... e allora Gord capì. «Ah, branco di ladruncoli! Avete svuotato il tempio!» esclamò, in un misto di sorpresa e di sollievo. «Non è nulla in confronto a tutto ciò che avevamo portato via, Gord» gli confidò Smoker. «Abbiamo dovuto abbandonare gli oggetti più ingombranti man mano che abbiamo perso le bestie da soma. Tuttavia penso che non sia una ricompensa da poco per il nostro lavoro di schiavi, e per la libertà che ci hai donato. Se dividerai il tutto in dieci parti uguali, ne saremo onorati, signore.» Dopo qualche moderata protesta, Gord si mise al lavoro. Il bottino comprendeva un centinaio delle ruote d'oro che costituivano la moneta del regno perduto di Suel, alcune gemme, alcuni gioielli decorati e una varietà di
oggettini come statuette, sigilli di avorio intagliato, scatoline e così via. Era difficile fare le parti esatte, ma il giovane si sentiva soddisfatto quando completò l'opera, qualche minuto dopo. «Ecco fatto. E io che pensavo che mi accusaste di mancanza...» «Oh no, Gord Zehaab» disse Dohojar ridacchiando. «Abbiamo detto soltanto che era giusto che portassi ciò che ti appartiene di diritto.» «E ora» lo invitò Smoker, «siediti mentre noi vediamo a quanto ammontano le parti.» Grazie all'accordo precedentemente stipulato, Dohojar fu il primo a scegliere fra le diverse pile di oggetti e Post il secondo, seguito nell'ordine da Shade, Delver e Barrel. Poi Smoker prese due dei mucchi rimasti e ne fece uno solo per sé, quindi fece l'occhiolino a Gord e gli disse: «Mi spiace che tu sia l'ultimo, capitano, ma per rimediare alla lacuna abbiamo votato che ti tocchino tre parti.» Gord riuscì ad incamerare tutto il bottino infilandosi qua e là negli abiti le monete più grosse e riempiendo lo zaino fino a farlo scoppiare. Quando ripartirono, il mattino seguente, Gord si abituò presto al peso supplementare, senza dubbio anche per la natura del carico, che non poteva certamente essere considerato fastidioso. Gli altri sei sembravano altrettanto di ottimo umore, come se la distribuzione del bottino avesse ripulito le vecchie ardesie e a tutti loro si prospettassero nuovi panorami. Parecchi giorni dopo i sette lasciarono le alture per giungere in una calda regione subtropicale in cui la brezza portava l'odore del mare. Avevano dovuto affrontare prove difficili e numerosi pericoli durante la scalata, ma li avevano superati, ottenendo fra l'altro una valida ricompensa. «Non posso non riconoscere questa striscia di terra, capitano» disse Barrel. «Ci sono già stato parecchie volte. Ci troviamo sulla costa occidentale della Baia di Giada, parte del Mare dei Lapislazzuli. Io e i miei compagni di solito facevamo scalo qui per rifornirci di cibo e acqua quando salpavamo da Dolle Port per commerciare con i selvaggi della Giungla Occidentale.» «Se le cose stanno così, Barrel, che cosa ci consigli di fare?» «Possiamo star sicuri che, se ci spingiamo fino alla costa, potremo incontrare una nave o qualche altro mezzo che ci porti alle Terre dei Pirati» rispose il tipo robusto dopo qualche minuto di riflessione. «Se non avremo fortuna, e può capitare, siamo sempre sulla buona strada, anche se c'è ancora un bel tratto da qui alla città dei Principi.» In effetti dovettero marciare a lungo verso nord per raggiungere la costa,
ma il cammino si fece più facile, perché la savana che attraversarono era ben irrigata e ricca di piante e selvaggina. Percorsero quasi sessanta leghe, seguendo generalmente la costa, rasentando paludi di acqua salata e salendo ogni tanto sulle alture per avere una visuale migliore delle acque della Baia di Giada. Individuarono alcune vele in lontananza, ma nessuna nave si avvicinò a sufficienza da permetter loro di ricorrere ai segnali di fumo e tanto meno a quelli manuali. Alla fine i sette, ridotti a vagabondi stanchi e stracciati, si trovarono di fronte ad un'inevitabile scelta. La spiaggia prendeva decisamente verso est, e davanti a loro sorgevano le pendici basse e alberate di un ramo dei Picchi Inferno che torreggiavano alla loro sinistra. Ne nacque una disputa. Delver, spalleggiato da Shade, riteneva che il gruppo dovesse tornare sulle alture; asseriva infatti che scalare le basse vette di quella diramazione dei Picchi Inferno era un gioco da ragazzi, ma il suo parere non era affatto imparziale perché il Nano era nato e cresciuto proprio in quella regione. Era sorprendente che Shade condividesse la sua opinione, ma il semi-Elfo spiegò che aveva sentito parlare di una zona paludosa situata ad est, che rendeva impossibile il passaggio a piedi. «Dovremmo tornare sui nostri passi» disse Shade ai compagni, «com'è vero che sto qui a parlare con voi, e finiremmo per ritrovarci di nuovo qui. Perché sprecare tempo se possiamo fare già adesso la cosa giusta?» Barrel e i suoi amici erano di parere contrario. L'uomo ammise di aver addirittura visto le paludi di cui aveva soltanto sentito parlare il semi-Elfo, ma riteneva che avrebbero potuto evitare quella zona inospitale e dirigersi verso Ocherfort senza dover nuovamente scalare montagne. «Io sono con Barrel» disse Smoker a Gord. «Basta con l'alpinismo, se si può evitarlo.» A quel punto Gord propose una votazione. «Montagne!» disse Delver, e sia Shade che Dohojar si schierarono con lui. «Costa!» gridò Barrel, guadagnandosi il sostegno di Post e Smoker. Il voto decisivo quindi sarebbe stato quello di Gord, anche se non per la sua carica di capitano. Mordendosi il labbro, il giovane considerò le alternative, senza dimenticare il vero scopo della sua missione. Entrambe le parti lo fissavano ansiose, e ciò lo innervosiva, quindi prese altro tempo per riflettere. «Non posso decidere io per il gruppo» disse alla fine, scandendo le parole. «Tornare su quelle aspre montagne non risponde esattamente al mio concetto di passeggiata, mentre la via della costa potrebbe essere agibile, e risponderebbe maggiormente alle mie esigenze. A ciò Barrel sorrise.»Ma ed è importante«obiettò, con evidente piacere del Nano,»la via più rapida e
diretta per me è quella che passa per le montagne laggiù. «E allora, capitano, che si fa?» «Penso che ad ognuno tocchi decidere per sé» ammise il giovane avventuriero. «Io sento che devo continuare verso nord, montagne o no. Voi tre potete seguire la costa, se lo preferite. Non mi pare che dobbiate per forza seguire la mia stessa strada.» La faccenda fu sistemata così: Delver, Shade e Dohojar fecero qualche passo verso nord, separandosi dai tre che preferivano la via della costa, ma prima che uno di essi potesse salutare i tre che avrebbero seguito l'altra strada, Barrel sbottò in una sequela di oscenità che praticamente sprizzavano scintille per la loro veemenza. Si mise lo zaino in spalla, afferrò la balestra e consigliò a Smoker e Post di fare lo stesso. Poi il terzetto si mise a confabulare sottovoce. Gord non si preoccupò di ascoltare e si limitò a girarsi verso le montagne accovacciandosi a terra, troppo rattristato per parlare. Non poteva tornare sulla sua decisione, ma non poteva nemmeno fare a meno di sentirsi avvilito per la perdita di tre validi compagni. Ad un tratto la voce di Barrel tuonò nuovamente alle sue spalle. «Alla malora, capitano! Ci muoviamo verso quelle stramaledette montagne o hai intenzione di rimanertene lì tutto striminzito in eterno?» Senza attendere risposta, Barrel, Smoker e Post si raddrizzarono sulla schiena e a passi pesanti si portarono accanto a Delver e agli altri. Gord si alzò in piedi, li raggiunse e senza parlare espresse i propri sentimenti abbracciandoli. Il cammino fu agevole, per quanto potevano consentirlo le montagne, e i sette furono di nuovo sul terreno ondulato in un paio di giorni, senza aver patito troppi disagi. «Proprio come vi avevo detto!» disse Delver, compiaciuto. «Merda di pipistrello!» fu il commento del tarchiato marinaio. «Basta con i convenevoli, voi due» disse Gord, sebbene non si preoccupasse molto dei loro scambi di insulti, perché significava che erano di buon umore. «Penso che dovremmo deviare un po', in modo da proseguire sul terreno piano, se possibile. Di fronte a noi c'è una serie ininterrotta di colline, ma leggermente verso ovest sembra che il terreno sia in pianura. E quel luccichio laggiù sembra indicare la presenza di un grande lago.» «Dev'essere il Lago di Smeraldo» buttò lì Barrel. «Le sorgenti del Fiume Ocra, mi è stato detto, anche se non le ho mai viste.» «Che cosa te lo fa pensare?» chiese seccamente il Nano. «Le Terre dei Pirati sono la mia patria, piccoletto» ribatté Barrel. «Potrai anche sapere il fatto tuo quando si tratta di pezzi di granito, ma non pensa-
re che io non conosca la mia terra!» Proseguirono faticosamente attraverso le ripide colline, puntando a ovest e poi leggermente a sud lungo la strada che appariva meno disagevole. Quando i sette raggiunsero le pianure al di là delle colline, stava cadendo la notte. Gli ultimi raggi del sole mostrarono a settentrione un orizzonte frastagliato: altre montagne, senza dubbio. Tuttavia essi non procedevano esattamente verso nord, ma leggermente verso ovest. L'idea di Gord di raggiungere la pianura si era rivelata buona. Dopo una notte tranquilla, la compagnia si rimise in cammino, mantenendo sempre la rotta verso nordovest. Trovarono l'acqua: il Fiume Ocra, ribadì Barrel. La sua valle permise ai sette di evitare la piccola catena montuosa e di penetrare nel cuore della zona interna del territorio governato dai Pirati. Quella sera cenarono con il pesce pescato nel fiume, le cui acque inoltre permisero loro di lavarsi e di ripulire gli abiti. Gord si sentiva rilassato come non gli accadeva da tempo. Il suo turno di guardia non era previsto fino alle ore immediatamente precedenti l'alba, e mentre consumava la cena non vedeva l'ora di dormire per sei ore filate su un soffice materasso erboso. Infatti si addormentò quasi subito di un sonno profondo e senza sogni. Gli sembrò che fossero passati solo pochi minuti, ma era già notte fonda, quando udì un sussurro: «Zehaab!», e sentì la mano di Dohojar sulla spalla. Spalancò gli occhi alle parole concitate dell'ometto: «Shade dice di venire subito. Al di là del fiume si sta scatenando l'inferno e tutti noi dovremmo andare immediatamente a vedere che cosa succede!» Gord fu in piedi in un momento, e mentre Dohojar stava ancora svegliando gli altri, accorse alla chiamata del semi-Elfo. Capitolo 22 Un globo di luce accecante illuminò una valletta chiaramente visibile dal loro punto di osservazione sulla sponda opposta del fiume, a non più di mezzo miglio di distanza. Mentre la luce si espandeva, delineando perfettamente diverse figure che si trovavano nel centro, si verificarono contemporaneamente due eventi. Un'ombra scura divorò la luce, precipitando nuovamente la depressione nelle tenebre, e quasi nello stesso istante, fra il fiume e la valletta, apparve un gruppo di figurine saltellanti, contornate da un bagliore verdastro probabilmente di origine sovrannaturale. «Che succede?» chiese Gord, una volta giunto al fianco del semi-Elfo.
«Niente, a confronto di quanto è successo prima che tu arrivassi qui» sibilò Shade. Parlava come se temesse di farsi sentire dagli individui che si trovavano sull'altra riva dell'Ocra, nonostante la distanza. «Certo, certo. Ma allora, che cos'è successo prima?» Post arrivò in fretta e furia e si lasciò cadere con un tonfo accanto a loro; poi sopraggiunsero Smoker e Dohojar, quest'ultimo affannato e senza fiato per il viaggio di andata e ritorno appena intrapreso. Proprio mentre Gord stava per porre nuovamente la stessa domanda al semi-Elfo, Barrel arrivò di corsa, con la sua andatura ondeggiante inconfondibile anche al buio, e poco lontano, in coda, lo seguiva Delver con le sue gambe storte. «Non una parola, voi, eccetto Shade, voglio dire» ordinò il giovane avventuriero. «E allora, Shade, che cos'è successo laggiù?» Sembrava che un uditorio più numeroso incoraggiasse il semi-Elfo ad essere più esplicito: «Guardavo per caso da quella parte e mi è capitato probabilmente di vedere l'inizio di un attacco a sorpresa. Non c'è stato molto chiasso, e non ce n'è nemmeno adesso, per dire, ma ad un tratto nella valletta sono comparse una mezza dozzina di sfere luminose azzurro chiaro. All'inizio pensavo fossero fuochi fatui, ma poi si sono spenti, mentre una luce vivida fluttuava nell'aria nella nostra direzione, rivelando la presenza di un gruppo di persone.» «Mi pareva che avessi detto di aver assistito ad un attacco, non ad uno spettacolo di luci.» «Non appena le figure sono diventate visibili, Gord, che mi prenda un colpo se dal suolo non è spuntato un fascio di enormi tentacoli neri per afferrarle! Si sentivano le grida fino qui!» «Ah, capisco. Scusami, Shade.» A quelle parole il semi-Elfo si ammorbidì. «Non c'è bisogno che ti scusi. Probabilmente volevo buttarla un po' troppo sul drammatico. Comunque, i difensori hanno subito qualche perdita, perché ho sentito urla provenire anche dal loro campo, quando le luci fluttuavano in quella zona. Gli assalitori potrebbero essersi serviti di fuochi fatui come alleati?» «No» disse Gord sottovoce. «Le sfere di luce azzurra erano frutto di un incantesimo, Shade.» «E piuttosto semplice, per giunta» aggiunse Dohojar. Dopo che il semi-Elfo ebbe completato il suo racconto, Gord si rese conto che non sapevano ancora chi era stato attaccato e da chi. I sette tennero un frettoloso conciliabolo; gli altri suggerirono che il gruppo si allontanasse furtivamente nella notte per evitare incontri con una o l'altra delle parti
coinvolte negli scontri, ma Gord non era dello stesso parere. Innanzitutto, poteva trattarsi delle avanguardie di due eserciti in lotta, e spostarsi alla cieca poteva significare finire proprio in mezzo ai due contendenti. Nel suo cuore Gord però nutriva un presentimento che non aveva confidato agli altri. Nel rivelargli quel che sapeva della gara, Leda aveva dedotto che i due contendenti, pur avendo la possibilità di recarsi indifferentemente in un luogo o nell'altro, avevano preferito rispettivamente Yolakand per quanto riguardava Obmi e Ocherfort per quanto riguardava Eclavdra. Se la metà di ciò che la fanciulla Elfo gli aveva riferito e ciò che egli stesso sapeva era vera, ora la gran sacerdotessa Drow aveva in mano la Chiave Finale e il Nano le era alle calcagna. Se per chissà quale miracolo Gord e i suoi compagni avevano preceduto entrambi i contendenti, l'alterco al quale assistevano poteva essere nato fra Obmi ed Eclavdra per il possesso dell'agognato oggetto. Era una possibilità remota, ma non la si poteva ignorare. «Rimanere qui significa cercare guai» disse Smoker in tono definitivo. «Se al sorgere del sole ci troveremo tra due eserciti, ognuno degli avversari ci prenderà per esploratori o spie dell'altro». Su quel punto nessuno aveva qualcosa da ridire. Solo Gord dissentiva. «Devo vedere di che cosa si tratta, ma mi arrangerò da solo» aggiunse rapidamente, mentre Delver e Shade stavano già per offrirsi volontari. «Possiedo la capacità di vedere al buio, e meglio di voi due, se ben ricordate» disse seccamente alla coppia. «Aiutate gli altri a raccogliere le loro cose e a nascondere le tracce dell'accampamento. Al primo steccato ad est, raggiungete le alture alle nostre spalle; e non preoccupatevi: sono esperto di inseguimenti e troverò le vostre tracce per quanto accuratamente possiate nasconderle... comunque usate la massima cura!» «Che faremo, poi, Gord Zehaab?» chiese Dohojar, sconcertato e un po' preoccupato da quella strana svolta degli eventi. «Se non sarò di ritorno poco dopo l'alba, significa che non tornerò affatto. In tal caso, amici miei, voi sei dovrete soltanto prendervi la mia parte di bottino, spartirvela e badare a voi stessi.» «Ma non possiamo abbandonare nei guai un compagno, il nostro capitano per giunta!» Gord afferrò Barrel per il braccio robusto e fissò il suo volto brutto ma onesto: «Credimi, amico, sarà meglio per voi. Se non tornerò, non potrete fare assolutamente nulla per aiutarmi. Senza voler sembrare un fanfarone, in circostanze simili so difendermi da me molto meglio di tutti voi messi insieme. I problemi che eventualmente mi impedirebbero di raggiungervi
significherebbero per voi la morte, se tentaste di salvarmi... Inoltre molto probabilmente la mia salvezza sarebbe impossibile. E ora, obbedite agli ordini del vostro capitano e muovetevi» concluse il giovane, con un'involontaria dolcezza nella voce. Sussurrando i loro auguri di buona fortuna, i sei avventurieri tornarono al campo, lasciando Gord solo con i suoi pensieri. *
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La notte era ravvivata da rumori e odori; ogni filo d'erba si stagliava nettamente contro il cielo infuocato e le ombre creavano zone solo leggermente più oscure. Gli insetti saltellavano e fuggivano sotto i suoi piedi, e anche i mammiferi, grandi e piccoli, si acquattavano immobili, ognuno sperando di non essere la preda designata. Senza far rumore, presenza avvertibile a malapena anche dalle creature selvagge che lo circondavano, Gord camminava sull'orlo delle rive paludose del fiume, evitando per quanto possibile le zone bagnate. Un leopardo maschio impegnato nella consueta caccia notturna pensò di ostacolare il passaggio dello sconosciuto, ma solo per un attimo. Il suo cervello non era un fenomeno di intelligenza, ma anche un intelletto poco sviluppato come il suo non poteva sottovalutare le dimensioni e la potenza dell'intruso. Il leopardo si allontanò furtivo nella direzione opposta, confidando nel fatto che l'indomani lo sconosciuto avrebbe lasciato il suo territorio. Inoltre, dalla direzione presa dall'intruso proveniva un forte odore di uomo, e il felino sapeva per esperienza che molti uomini volevano dire pericolo, anche se la creatura che si trovava sulla sua strada non sembrava esserne consapevole. Gord si acquattò fra l'erba alta di una piccola cresta e scrutò la notte. La luce emanata dalla luna calante e dalle stelle era più che sufficiente a rendere il cielo chiaro come di giorno per i suoi occhi da gatto. Naturalmente aveva assunto le forme di una pantera, nera come la pece: nessuno di quelli che avrebbe potuto incontrare nella notte era a conoscenza di tale capacità. Ringhiò fra sé muovendo la lunga coda mentre contemplava la scena che aveva di fronte. Circa un'ottantina di uomini, selvaggi delle pianure, a giudicare dal fetore che emanavano, erano disposti a semicerchio tra la valletta e la riva del fiume. Gord si era avvicinato a loro strisciando sul ventre; probabilmente erano arrivati in barca dal basso per attaccare. I loro nemici erano un gruppo misto di uomini e di Elfi neri: glielo diceva il fiuto felino, che ricordava
odori già noti al naso umano, molto meno efficiente, di cui solitamente si serviva. I difensori erano accampati in un'angusta valle nascosta, e probabilmente vi erano arrivati già da parecchi giorni. L'odore dei cavalli e degli uomini era infatti molto più forte di quanto non sarebbe stato nel caso di una breve permanenza. In origine doveva esserci una dozzina di uomini e di cavalli, ma gli uomini delle paludi dovevano averne uccisi alcuni, poiché si avvertiva chiaramente l'odore del sangue e della morte. Gli Elfi neri e i loro alleati umani non erano stati i soli a soffrire, tuttavia. Gord aveva visto con i propri occhi due o tre dozzine di selvaggi morti, quindi il numero delle vittime doveva essere per forza più alto. Ora c'era calma da entrambe le parti. I difensori stavano in guardia. Qualsiasi movimento dei selvaggi avrebbe sicuramente suscitato una reazione poco piacevole da parte degli Elfi e degli uomini assediati. Entrambe le forze erano ricorse agli incantesimi, anche se i Drow probabilmente godevano di maggiori possibilità da quel punto di vista, in quanto erano riusciti a tenere a bada un numero di avversari superiore al loro. All'improvviso le narici nere di Gord furono colpite da un aspro odore terroso. Le vibrisse gli tremolarono e istintivamente abbassò le orecchie, arricciò le labbra da pantera e scoprì le lunghe zanne in un ringhio. Era odore di Nano, perfettamente riconoscibile sia dal cervello felino che da quello umano, e apparteneva inconfondibilmente ad Obmi. Reprimendo un ruggito di sfida quasi incontenibile, Gord avanzò strisciando ventre a terra; voleva vedere con i propri occhi il Nano dalle larghe spalle. Mantenendosi costantemente negli avvallamenti e nascondendosi il più possibile fra la vegetazione, la pantera Gord si avvicinò al fiume prima di spostarsi nel punto in cui, secondo il suo fiuto, si trovava Obmi. Qualcosa però lo tormentava: il naso gli diceva qualcos'altro. Scosse la testa accantonando quella sensazione. Prima, il Nano. Poi avrebbe potuto concentrarsi sul resto. L'avanzata fu piuttosto facile. I guerrieri guardavano tutti davanti a sé, verso l'accampamento Drow, mentre la grossa pantera si insinuava indisturbata alle loro spalle. Alcuni erano di guardia alle canoe fatte di tronchi scavati, ma stavano solo parzialmente all'erta, e più che altro ascoltavano e osservavano il fiume in attesa di eventuali attacchi da quella parte. Di fronte a lui, in linea con il centro del semicerchio formato dai selvaggi, a un tiro d'arco dalla prima linea, si estendeva una lunga depressione paludosa, coperta di cespugli; Gord vi entrò quasi senza far rumore grazie al passo
felpato. Si immobilizzò a circa quindici metri dallo schieramento; il Nano era proprio là, in compagnia di tre selvaggi che evidentemente discutevano con lui delle strategie da adottare in seguito. Ma ciò che fece girare la testa a Gord fu l'altra figura seduta assieme a Obmi e agli uomini delle paludi; era una femmina Drow, e sia gli occhi che il naso gli rivelarono che si trattava di Leda. Gord si fidava dei propri sensi, anche se la logica gli gridava che non poteva essere lei. Si trattava proprio di Leda, e non era nemmeno prigioniera; anzi, stava aiutando Obmi e gli altri tre nell'elaborazione dei piani. Il giovane si appiattì ulteriormente al suolo e si avvicinò cautamente per origliare la conversazione. «Quei maiali hanno esaurito i poteri» disse Obmi ad uno dei selvaggi. «Perché voi guerrieri non li attaccate?» Un altro selvaggio si chinò in avanti e sussurrò qualcosa all'orecchio di quello che era stato apostrofato dal Nano; poi il primo parlò: «Ostarth, il nostro stregone, dice che gli Elfi neri sono più potenti di quanto ci avevi fatto credere, signore. Sottolinea inoltre che molti dei nostri uomini sono già stati uccisi, e che entrambi i suoi assistenti sono morti a causa degli incantesimi Drow. È quindi d'accordo con il nostro sacerdote nel consigliarci la ritirata prima dell'alba, cosicché altri Wenhulii non debbano cadere.» «E tu, che dici, capo dei Wenhulii?» chiese Leda, con evidente irritazione. «Perché mai il mio popolo dovrebbe morire inutilmente?» rispose il capo. Obmi alzò il pugno contro il selvaggio: «Sei una vecchietta spaventata, e nella tua codardia dimentichi il nostro patto! Ti ho dato molto oro per sopraffare i nostri nemici, dunque come la mettiamo?» Il capo dei selvaggi delle paludi inclinò la testa all'indietro e guardò il Nano di sottecchi: «Hai parlato di un pugno di uomini praticamente inermi, facili da uccidere, e di molto bottino. Forse era semplicemente un errore... ma forse no. Ciò che conta è che le poche monete che ci hai dato sono insufficienti a compensare le famiglie dei caduti, e tantomeno ad incoraggiare i superstiti a combattere ancora. I Drow hanno a disposizione magie potenti, e i loro soldati sono ben armati e corazzati. Penso che ora i Wenhulii se ne torneranno a casa.» Obmi imprecò e minacciò, ma i selvaggi rimasero immobili e silenziosi. «E va bene, brigante schifoso» ruggì il Nano. «Ti pagherò di più, molto di
più! Ordina ai tuoi guerrieri di attaccare!» «Mostrami, anzi, mostraci, quanto ci pagherai esattamente. Non ci fidiamo più della tua parola.» Il volto di Leda era impassibile, ma il Nano aveva un'espressione torva mentre, poco più in là, estraeva una borsa di pelle da sotto una pila di stracci. «Ecco» disse con voce irosa, «qui ci sono ricchezze tali da incoraggiare il più pavido dei cuori e il più pallido dei fegati». A ciò, il Nano rovesciò il contenuto della borsa ai piedi dei dignitari della tribù; gemme e monete luccicarono sotto la luna e a quello spettacolo il capo mandò un fischio. «Posso... possiamo... prenderli adesso?» «Se i tuoi guerrieri attaccheranno il nemico, sì» grugnì Obmi per tutta risposta. «Altrimenti ti scorticherò vivo con le mie mani.» «E tieni conto anche di questo» aggiunse Leda in tono malvagio: «anch'io sono un Drow e anch'io sono dotata dei poteri magici che tanto temi. I miei poteri ti sosterranno nell'attacco, ma ti distruggeranno se tenterai di abbandonare il campo. Prendi il tuo compenso e vai. Io verrò con te... per magia. Ascolterò le tue parole e osserverò le tue azioni, anche se non potrai vedermi. Eventuali trucchi ti porteranno soltanto la morte.» Il capo, il chierico e il mago si alzarono nell'ordine, con volto impassibile. «Bah!» disse il capo. «Smettetela con queste sciocche minacce e preparatevi ad unirvi ai Wenhulii nella danza della vittoria sopra i morti dell'accampamento nemico. Ordinerò l'attacco all'alba, ma prima dobbiamo portare al sicuro il nostro giusto compenso». A quelle parole i dignitari dimenticarono ogni dignità e si chinarono a raccogliere oro e gemme il più presto possibile mentre Obmi e Leda li osservavano con espressione sinistra. Nel frattempo la forma felina di Gord arretrava cautamente e silenziosamente com'era venuta, e in un minuto costeggiò il fiume in direzione della fonte per poi attraversare la prateria e avvicinarsi alla valletta da dietro. Aveva intenzione di vedere cosa succedeva nell'accampamento Drow, ma non gli rimaneva molto tempo per farlo. In poco più di un'ora, calcolò, nel cielo orientale sarebbe comparsa una striscia lattea che sarebbe svanita in pochi minuti lasciando dietro di sé l'oscurità più fitta. Proprio in quell'intervallo buio che precedeva immediatamente l'alba sarebbero giunti gli uomini delle paludi, e Gord desiderava trovarsi il più lontano possibile al momento dell'attacco perché riteneva che gli Elfi neri e il resto delle loro truppe si sarebbero difesi fino all'ultimo sangue. Contrariamente alle pa-
role di Obmi e nonostante la sicurezza della vittoria manifestata dal loro capo, Gord sapeva che i selvaggi molto probabilmente sarebbero stati sterminati. Non farsi individuare dai cavalli del campo Drow era un problema, ma la direzione del vento permise alla pantera Gord di avvicinarsi senza che gli animali fossero presi dal panico sentendo l'odore di un carnivoro. Se il vento fosse cambiato, si sarebbe trovato nei guai, perché il terrore dei cavalli avrebbe messo in allarme i difensori Drow. Per il resto, il giovane si sentiva abbastanza fiducioso. C'era anche la possibilità che rimanesse nei pressi della valletta, pronto a colpire mentre i difensori erano impegnati a fronteggiare l'attacco dei selvaggi. Se fosse riuscito ad entrare nel campo in quel momento e a portar via il Theorpart, nient'altro avrebbe più contato. Che Eclavdra combattesse pure contro il malefico Nano e l'inqualificabile Leda, e si scannassero pure tutti e tre, per quel che gliene importava, mentre l'ultima parte dell'oggetto, il premio per cui lottavano, si volatilizzava proprio sotto il loro naso! Nell'accampamento c'erano alcuni uomini protetti da armature, tuttavia Gord non li degnò di uno sguardo; contò anche tre Drow, ma ne guardò soltanto uno con i suoi occhi grigi da pantera. Solo l'asprezza della voce e le maniere affettate distinguevano Eclavdra da Leda, e persino quei piccoli particolari gli sarebbero sfuggiti, se non avesse appena visto il clone intento a trattare con i dignitari dei selvaggi delle paludi. Così questo era l'originale, la terribile gran sacerdotessa, la temuta Eclavdra! Il male emanava da ogni sua fibra, ma era ugualmente stupenda, proprio come Leda. La bellezza però non contava: se avesse potuto affondarle le zanne nella gola e sventrarla con le zampe, Gord avrebbe provato una gioia crudele... Ma no! Quelli erano pensieri animaleschi, e lui si trovava lì per qualcosa di ben più importante. Tese l'orecchio e udì Eclavdra dare ordini alla coppia di maschi più piccoli, evidentemente appena giunti da lei. «Nighthand, torna al perimetro esterno e accertati che questi umani ciechi si servano al massimo del poco udito e della poca vista che possiedono. Non voglio attacchi frontali, laterali o alle spalle finché non sarò pronta!» «Come desideri, mia signora» disse il maschio dai capelli lanosi. «Porterò con me i due uomini rimasti nelle vicinanze.» «Allora fallo subito... adesso!» Il Drow si volatilizzò e Eclavdra si rivolse al secondo. «Tu, mio caro Wickert, sei molto più prezioso di lui» gli disse, con un piccolo gesto per indicare che si riferiva a Nighthand. «Mentre egli avrà il compito di dare
l'allarme, tu dovrai affrettarti a raccogliere tutte le tue arti magiche. Se il nemico dovesse avere la meglio, Wickert, tu e Io dovremo essere pronti a fuggire con... l'oggetto. Gli altri non contano, naturalmente, fintanto che saremo riusciti a metterlo in salvo.» «Naturalmente, gran sacerdotessa. Ma non c'è il serio rischio che veniamo accerchiati e quindi che non riusciamo a fuggire?» «Non essere sciocco! Pensi che sprecherei fiato con parole che non possa tradurre in azioni?» Lo guardò con espressione feroce mentre parlava, e il Drow abbassò gli occhi, senza avere il coraggio di rispondere. Soddisfatta, Eclavdra proseguì il discorso, in gran fretta. «Allora fai come ti ho ordinato, ma vieni da Me al primo segno di difficoltà. Io mi ritirerò per assicurarmi che nessun uomo o nessuno sporco Nano ci sbarri la strada. In due giorni avremo a disposizione intere compagnie di soldati... Che le gonadi avvizzite di Obmi vadano a farsi friggere!» Mentre Eclavdra parlava, Wickert continuava ad indietreggiare; non desiderava trovarsi alla sua portata se si fosse lasciata prendere dall'ira. Questa almeno era l'impressione che ne trasse Gord mentre osservava, non visto, la radura, acquattato nelle ombre del sottobosco. Quando il piccolo Elfo nero tornò alla sua tenda, a venti metri di distanza, Eclavdra ridacchiò piano tra sé mentre si avvicinava senza saperlo al nascondiglio di Gord. La bella Drow si avviò verso un gruppetto di alberelli e cespugli che l'avrebbero protetta da sguardi indiscreti, tranne da quello di Gord. Mentre la sacerdotessa si avvicinava al proprio rifugio, il giovane la osservava e la seguiva cautamente, assicurandosi che i sensi da Elfo non le permettessero di notare la sua presenza. Non appena ebbe trovato una posizione da cui osservare agevolmente le sue mosse, Gord si acquattò per spiare Eclavdra all'opera. La gran sacerdotessa viaggiava leggera, o almeno così sembrava a prima vista, ma poi dal suo piccolo zaino uscì una quantità sorprendente di cose non appena cominciò a frugarvi dentro. Gord comprese subito che doveva trattarsi di uno zaino fatato; infatti la Drow continuava ad estrarne abiti, armi e molti altri oggetti. Ad un tratto emise un sospiro ben distinto, dopo aver infilato per l'ennesima volta la mano nel sacco e averne estratto qualcosa. «Eccoti qui, caro Theorpart, oggetto del Mio successo!» mormorò a voce non troppo bassa mentre tirava fuori dallo zaino una scatola metallica oblunga. Appoggiò la scatola a terra davanti a sé e si sedette a gambe incrociate; poi prese una serie di altri oggetti tolti dallo zaino stregato e li dispose in
circolo attorno a sé e all'astuccio rettangolare, posandoli a terra con grande cautela. Evidentemente seguiva un certo ordine, perché sembrava che ad ogni oggetto spettasse una posizione ben precisa. Gord tuttavia non riusciva a determinare di che oggetti si trattasse né lo scopo di tutto quel cerimoniale. Dal petto del Drow si levò una cantilena tremula. Eclavdra aveva terminato di disporre gli oggettini e ora sedeva immobile, intenta ad emettere quel mormorio distinguibile a malapena. Gord si sentì prendere da uno strano torpore, e dovette sbattere le palpebre per mantenere a fuoco la vista. Tese i muscoli da felino, sfoderò gli artigli e costrinse la propria mente a rimanere vigile, mentre la sacerdotessa iniziò ad ondeggiare leggermente. A quel punto Gord abbassò rapidamente lo sguardo, concentrandosi sull'astuccio metallico; alla luce della luna esso aveva assunto un colore grigiastro, ma lo stesso valeva per tutte le altre cose che non brillassero di luce propria. Poteva essere di rame? No, era troppo chiaro. D'argento? No, troppo scuro. Di stagno? Eclavdra lo maneggiava con troppa cura perché fosse di stagno. Di ottone? Forse, ma anche d'oro... Il suo udito felino notò un mutamento nel mormorio di Eclavdra, anche se cercava di distogliere lo sguardo e i pensieri da lei. Ora la sacerdotessa Drow aveva smesso quella cantilena che aveva quasi ipnotizzato Gord, e aveva intonato a bassa voce un sinistro peana che gli fece venire la pelle d'oca. Pensò che l'Elfo nero fosse intento a formulare qualche incantesimo malefico e non osò muoversi, perché avrebbe senz'altro rivelato ad Eclavdra la propria presenza. Gord non capiva bene perché, ma tutti i suoi istinti, umani e felini, gli intimavano di non farsi sorprendere. Nell'aria apparvero puntolini luminosi che danzavano come minuscole lucciole sullo strano cerchio di oggetti creato con tanta cura dalla grande sacerdotessa. Ad un tratto l'astuccio metallico prese a brillare di una fioca luminosità violacea. Il canto diventò più rapido, pur rimanendo sommesso, e anche i movimenti di Eclavdra si intensificarono, per farsi contemporaneamente più contorti e sfidare apparentemente la fisiologia umana, o meglio quella degli Elfi. All'improvviso il rituale cessò. Eclavdra si bloccò e dalla sua gola perfetta uscì soltanto una nota dolce e sottile. Quando pensava che non avrebbe potuto tenere più a lungo l'acuto, Gord vide la sacerdotessa muoversi con lentezza estrema per afferrare l'astuccio luminescente, prolungando quella nota incredibile; via via che le sue mani si avvicinarono all'astuccio, l'alone violaceo mutò, si intensificò e divenne nerissimo.
Ora tutti i peli dell'agile corpo da pantera di Gord si erano rizzati; sapeva che da un momento all'altro la componente felina avrebbe preso il sopravvento spingendolo a lanciare un ruggito di rabbia e paura. Lo pervadeva un orrore senza nome nato dalla certezza dell'imminente scatenarsi di una mostruosità spaventosa, di un male invincibile; Eclavdra stava infatti aprendo l'astuccio per liberare l'entità da lei evocata. Gord arretrò centimetro per centimetro, con i nervi da pantera che lo supplicavano di non esitare oltre e di fuggire con tutta la velocità consentitagli dalle quattro robuste zampe. Lottando per riprendere il controllo, tuttavia, la componente umana della sua mente costrinse i muscoli ad obbedire. Mentre le mani della Drow toccavano l'astuccio metallico, Gord si muoveva con la massima cautela, dopo aver ripreso totalmente il controllo di sé, sia come uomo sia come felino. Poi le mani tese di Eclavdra si mossero e il coperchio della scatola si aprì spontaneamente, spinto forse da qualche forza interna. All'udire lo scricchiolio metallico del coperchio che si spalancava, Gord non riuscì più a controllare il corpo da pantera; gli istinti felini presero il sopravvento e i muscoli obbedirono: con un salto e una giravolta a mezz'aria la pantera Gord prese la direzione opposta alla tremenda scena e fuggì a tutta velocità. La parte umana della sua mente comprese che in quel momento non c'era alcuna possibilità di rubare la Chiave Finale all'Elfo malvagio, mentre la parte felina non si preoccupava affatto di quella considerazione e desiderava unicamente frapporre la massima distanza possibile fra sé ed Eclavdra. Gord sfrecciò via a grandi balzi, allontanandosi dalla valletta molto più in fretta di quanto avrebbe potuto fare una pantera normale. Poi, a metà strada, quando si trovava già piuttosto lontano da Eclavdra, qualcosa lo bloccò. Una corrente di pura malvagità lo travolse viaggiando alla velocità del pensiero, assai più velocemente di quanto la pantera potesse correre. L'animale cadde e rotolò a terra, mentre i muscoli ne sollevavano in alto il corpo, contraendosi per il dolore spaventoso procurato dall'impatto con l'entità. Ad un tratto smise di rotolare, rabbrividì e si scosse; perse conoscenza ed ebbe l'impressione di subire un'altra metamorfosi, questa volta dolorosa. Stava riprendendo la propria forma umana, ma non riusciva a controllare la trasformazione; ad un tratto fu sopraffatto da tenebre profonde e non riuscì più a pensare. Capitolo 23
«Obmi! hai sentito?» «Di che cosa stai cianciando, cagna Drow?» «Piantala di fare l'idiota, per una volta, testone di un Nano, e cerca di pensare razionalmente» lo rabbuffò Leda, acida. «Potrebbe anche darsi che io abbia un cervello nel cranio, se non ti dispiace.» Il Nano stava per ribattere, poi fece una smorfia e disse: «Va bene, ti ascolto. Che cosa avrei dovuto sentire? Una magia?» «Non credo che si tratti affatto di magia, testa di cavolo! Nell'accampamento di Eclavdra sta accadendo qualcosa. Non hai la sensazione che stia tramando qualche trucco?» «No.» «Beh, io sì! Fidati di me e tienti pronto; avverti anche i selvaggi delle paludi, se ti pare opportuno. Eclavdra sta stuzzicando qualcosa di estremamente malefico e potente, e se non facciamo in fretta qualcosa per rimediare, potrai dire addio alla pelle!» Obmi si sentiva a disagio. Nutriva scarso rispetto per le femmine, e ancor meno per le cagne Drow, ma quella Leda sembrava diversa, in qualche modo riusciva a prevedere le macchinazioni di Eclavdra. Con quel pensiero in mente, Obmi decise di venir meno ai severi ordini ricevuti e di chiedere consiglio a colei che rappresentava nella gara. Se la sua avversaria tentava di infrangere il patto, perché non avrebbe dovuto fare lo stesso? «Invoco la potenza di Zuggtmoy» intonò Obmi sottovoce. Non accadde nulla, e dopo qualche secondo ripeté il richiamo, questa volta a voce più alta e più a lungo, aggiungendo il proprio nome: «Io, Obmi, campione della regina Zuggtmoy, la supplico nel nome di Szhublox di venirmi in aiuto!» Il Nano ebbe l'impressione che a quelle parole gli si dilaniassero le viscere, ma non ebbe alcuna manifestazione tangibile della Demoniessa. «Fammi provare» suggerì Leda. Obmi gemette e mormorò: «Va bene, ma una volta sola. Appena mi saranno passate queste fitte, porterò la Potente Regina dei...» «Perfetto. Ma ora stai zitto un attimo e fammi fare un tentativo». Il Nano serrò di scatto le mascelle e l'Elfo nero diede inizio al rituale: «Invoco la Potenza dell 'Abisso, nelle sue Seicentosessantasei Dimensioni e nei suoi Seicentossessantasei Nomi Proibiti. O Zuggtmoy, Regina dei Funghi, Signora del Caos, Zuggtmoy, il cui solo nome incute terrore nel cuore di tutti, i Tuoi umili servi ti esortano...» Uno stridio lacerante pervase l'aria. Leda si interruppe, ma anche se non
lo avesse fatto, quel suono avrebbe soffocato le sue parole, per tutto l'uditorio di quella dimensione... o forse anche delle altre. Poi l'atmosfera circostante si addensò e Obmi e Leda avvertirono un fetore insopportabile che emanava chissà da dove. «Bah» ringhiò Obmi quando lo stridio cessò. «Il mio richiamo non ha avuto esito, ma anche il tuo... Che cos'hai combinato, cagna nera?» «Chiudi quella boccaccia e fai funzionare il cervello, se ti riesce» ribatté Leda. «Il frastuono viene dal campo di Eclavdra, sciocco; sta macchinando qualcosa di grosso, e faresti meglio a radunare le tue misere forze e ad attaccare prima che sia troppo tardi.» *
*
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Lo stridio proveniente dal nulla, a pochi passi dal punto in cui sedeva Eclavdra, avrebbe assordato qualsiasi essere normale, e il fetore spaventoso che lo accompagnava avrebbe tramortito chiunque si fosse trovato ad annusarlo... ma Eclavdra non era un essere comune, e rimase seduta tranquilla, ad osservare gli eventi cui aveva dato il via. Lo stridio si affievolì sostituito da uno strappo, e mostruose mani artigliate apparvero a mezz'aria, a qualche metro da terra, afferrando con le dita i margini di un'apertura invisibile, come se volessero stracciare l'aria. Il rumore continuò e nello spazio si produsse un vero e proprio squarcio che rivelò il resto della creatura cui appartenevano le mani unghiute. Un'orrenda testa dal volto maligno si infilò nell'apertura innaturale, seguita da un braccio massiccio che si allungò verso la Drow. La bocca ghignò e disse: «Vuoi perdere tempo in sciocchezze?» Le intenzioni di quel Demonio non erano chiare, forse nemmeno a se stesso, ma Eclavdra si limitò ad appoggiare la mano sinistra sull'astuccio di ottone e a puntare l'indice destro. Una scintilla nero violacea scaturì dal dito teso e colpì la fronte della creatura, che smise di ghignare e ululò. «Piccolo Demonio-lucertola! Ascolta attentamente o lascerò che la forza ti divori» disse Eclavdra con voce minacciosa. «Lascia la porta che Io ho aperto e raduna la tua schiatta. Sai con quale potere vi convoco, quindi non tardare un istante di più.» Il Demonio scomparve, lasciando vuoto lo strano varco nell'aria; la sacerdotessa intonò allora un altro breve canto agghiacciante, e una nuova creatura apparve nello strappo, un Demonio con cinque braccia e il capo da insetto. Alla vista di Eclavdra il mostro schioccò famelicamente le mandi-
bole, ma la Drow gli diede un assaggio della micidiale potenza tratta dal Theorpart, come aveva fatto con il suo predecessore; il Demonio-insetto ascoltò allora le istruzioni e scomparve. Dopo pochi minuti, dall'insolita porta cominciarono ad uscire Demoni senza soluzione di continuità. Senza bisogno di parole, i rappresentanti di entrambe le specie sapevano da che cosa erano stati convocati e che cosa dovevano fare. I giganteschi Demoni-lucertola si portarono lentamente verso il centro delle linee nemiche, mentre i Demoni-insetto con tre zampe si schierarono ai lati. Eclavdra intendeva infatti circondare gli assalitori e annientarli affidandosi alla superiorità schiacciante dei Demoni, mostri dell'Ade evocati grazie al Theorpart. Nonostante sapesse perfettamente che il suo modo di agire avrebbe attratto tutte le potenze che stavano in guardia anche per eventi minori di quel genere, la gran sacerdotessa Drow sfruttò la spaventevole natura della Chiave Finale per tentare di distruggere coloro che osavano sfidarla. Nel frattempo Obmi era passato all'attacco, ma troppo tardi. Gli sventurati selvaggi delle paludi si aspettavano di affrontare forze molto inferiori a loro per numero, e invece si precipitarono dritti dritti nelle braccia dei Demoni in attesa. Urla e grida di terrore e di dolore misero in allarme il Nano, che si celava lontano, nelle retrovie del campo di battaglia, e che in pochi istanti si rese conto delle circostanze. Non sapeva ancora chi si fossero trovati di fronte i suoi mercenari, ma di certo non si trattava solo di un gruppetto di uomini e di un paio di maghi Drow. Leda era fuggita approfittando della confusione e non la si vedeva da nessuna parte. Il Nano pensò di implorare nuovamente il suo aiuto, ma non sapeva se il suo appello avrebbe avuto risposta, e inoltre non aveva tempo per un altro tentativo. Bestemmiando sottovoce, fece l'unica cosa possibile. Estrasse una figurina di bronzo che gli aveva dato Zuggtmoy in segreto, raccomandandogli di usarla solo se si fosse trovato solo e sotto la minaccia del fallimento. Con la sua stretta potente, Obmi spezzò la testa della figurina che, anche se egli non lo sapeva, era stata creata a somiglianza del Demone Uliel, uno dei più potenti al servizio di Zuggtmoy. Dal corpo del piccolo idolo si sprigionarono fiamme, e il metallo divenne incandescente; il Nano gettò un grido acuto di dolore e scagliò l'oggetto a qualche metro di distanza. Mentre la statuetta si consumava, Uliel si materializzò nell'aria, forma solida costituita dalle ombre più nere e da lingue di fiamma. Il grosso Demone lanciò solo un'occhiata a Obmi, e poi si girò per percepire, per mezzo della magia, che cosa stesse accadendo nel campo di
battaglia. «Non hai errato, Nano» esclamò il Demone, con una voce che fece vibrare l'aria. Le ombre si infittirono intorno alla creatura e le fiamme si fecero più alte e lucenti; un rombo di tuono echeggiò sopra la sua testa e nel giro di un istante un altro mostro dell'Abisso aveva affiancato Uliel. «Demone-cinghiale» grugnì, rivolto al nuovo venuto, «Nel nome di Colei che servi, convoca gli schiavi della nostra Regina!» Il Demone-cinghiale appariva come un miscuglio delle peggiori caratteristiche di un cinghiale vorace, di un gorilla carnivoro e di un essere umano. Grugnì un verso che voleva essere di assenso e subito nell'aria si diffusero squittii e borbottii; poi si udì uno schiocco e a terra, davanti al Demone-cinghiale, comparve una sorta di batrace con la bocca spalancata ornata da un centinaio di denti aguzzi. «Demone-rospo, chiama quelli della tua fatta al tuo servizio» ordinò il Demone-cinghiale. Con un gracidio di risposta l'orrenda bestia si accoccolò sulle zampe e iniziò a fare un verso simile a quello di una rana-toro nel periodo del corteggiamento. Il più grosso dei tre Demoni presenti, Uliel, abbassò il capo cornuto, che sovrastava quello del Demone-cinghiale, pur alto tre metri, che era in piedi accanto a lui. «Obbedisci, se vuoi vivere! Fa sì che i Demoni-rospo si propaghino finché io non dirò di smettere, e ogni qual volta uno di essi ha prodotto un suo simile, mandalo in campo; dovranno combattere contro la stirpe dell'Ade che sta sciamando verso di noi!» A quelle parole il Demone di fiamme e ombra si diresse verso i Demoni-rospo, e il primo di questi saltellò gracidando alle sue calcagna, perché aveva già evocato un suo simile, che a sua volta ne stava richiamando un terzo. Ben presto i Demoni si opposero ai Demoni, mentre i pochi uomini rimasti cercarono un nascondiglio, tremanti di paura di fronte alla lotta che si stava svolgendo nella remota prateria sulle rive del Fiume Ocra. Nel frattempo Leda non era rimasta con le mani in mano. Mentre il Nano, su suo consiglio, spingeva in fretta e furia i selvaggi all'attacco, la fanciulla si era tenuta in disparte e aveva utilizzato l'anello per rendersi invisibile e sfuggirgli. La prima invocazione era rimasta interrotta e quindi non aveva avuto effetto, ma Leda sperava ancora di poter invocare con successo aiuto dall'aldilà, se fosse riuscita a ritirarsi in un luogo appartato e a ricominciare il procedimento, portandolo a termine, questa volta. Quando raggiunse una piccola radura dalla quale si potevano solo udire i rumori della battaglia, la fanciulla si inginocchiò e iniziò a formulare la supplica più elaborata che riuscì ad escogitare. Mentre continuava a chiedere aiuto, cadde in una sorta di trance. Alla fine, dopo un tempo indefini-
to, ottenne ciò che chiedeva. O forse fu il maelstrom di Demoni e Demoni, risucchiato nella Dimensione Materiale da altre forze, a favorire il buon esito del suo appello; per un motivo o per l'altro, tuttavia, la Regina dei Demoni rivolse finalmente la propria attenzione al luogo dal quale Leda la invocava; non appena la sua sagoma apparve, Zuggtmoy era livida. «Come osi, sgualdrina di Graz'zt...» esclamò con la sua voce gorgogliante, ma poi si interruppe, perché osservando Leda si era resa conto che non si trattava di Eclavdra in persona ma di un clone-non clone del Drow al servizio del signore dalle sei dita. Nello stesso istante, mentre Leda riprendeva conoscenza, Zuggtmoy si trasformò in un'enorme massa fungoide con occhi vegetali che potevano vedere in tutte le direzioni. «È una follia! Siamo rovinati!» gridò la Regina dei Funghi con la sua voce cupa e cavernosa che sembrava uscire da un tronco marcio e mandava un odore pungente di muffa e putrefazione. Leda non sapeva esattamente perché la Demoniessa avesse detto quelle parole, ma il problema principale le era chiaro: Zuggtmoy e tutti gli altri Demoni coinvolti nella gara avevano voluto restare nella segretezza più totale. Ora, invece, tutti gli esseri del multiverso che cercavano l'ultima parte della Quintessenza del Male avevano saputo dove questa si trovava e certamente avrebbero agito rapidamente e con tutta la loro potenza. La supposizione di Leda fu prontamente confermata: apparve un'ondata di Demoni, accompagnati da Diavoli alati; un branco di Demoni-rospo e uno stormo di Demoni-avvoltoio ingaggiarono una lotta all'ultimo sangue con i servi dei Nove Inferi. Vi partecipavano i soldati della Legge e i guerrieri altrettanto bizzarri del Caos, mentre intorno e sopra a loro turbinavano presenze luminose e potenti che emanavano un alone di Bene, prova che anche i rappresentanti delle Dimensioni Superiori erano a conoscenza degli eventi. Leda, una volta accertatasi che Zuggtmoy non le prestava attenzione, si alzò in piedi e fuggì in preda al panico. Desiderava ancora distruggere Eclavdra, ma ora la cosa più importante era trovare un rifugio, se in quel cataclisma ne esisteva uno. Poco dopo Zuggtmoy svanì, ma al suo posto dilagò una marea di funghi velenosi che si muovevano e crescevano in un tappeto mortale che si stendeva verso la valletta in cui era custodito il Theorpart. Nel frattempo continuavano a comparire esseri di tutte le dimensioni del multiverso. Essi partecipavano immediatamente alla battaglia. Non c'era dubbio che se non fosse accaduto presto qualcosa, il tessuto stesso del
mondo materiale non avrebbe più potuto sostenere quel raduno, e neppure le divinità che comandavano quelle forze e le creavano potevano avere la certezza di riuscire a controllare gli avvenimenti, da quel momento in poi. Forse l'intera sostanza di cui era costituito il multiverso sarebbe stata inghiottita dal maelstrom ben presto provocato da quella concentrazione di creature e di poteri, e le parti del terribile oggetto si sarebbero unite inevitabilmente. Se divinità e Diavoli lottavano strenuamente, non venivano tuttavia distolti dai loro scopi. Per un motivo o per l'altro, tutti quelli che combattevano o manovravano lo scontro desideravano sopra ogni altra cosa il possesso della Chiave Finale. Così l'aria pullulava di creature in lotta, e anche il suolo brulicava di combattenti, mentre il tessuto di tutto l'esistente si tendeva e vibrava sotto il peso di quegli avvenimenti. Capitolo 24 Il piccolo dardo di legno colpì il mostro con quattro braccia proprio nel luccicante occhio rosso; fortunatamente il bersaglio era un Demone, non uno degli altri orrori. Fosse stato un Demonio, ad esempio, il veleno non avrebbe avuto effetto, e anzi le ferite avrebbero fatto infuriare la creatura e l'avrebbero indotta a ridurre a brandelli l'assalitore in pochi secondi. Quando invece il dardo gli si conficcò nella testa, il Demone urlò per il terribile dolore, agitando freneticamente le braccia sormontate da chele, e poi cadde morto ai piedi di Barrel. «Per il cacchio di perla di Skunar!» esclamò l'omone, che se l'era vista brutta, nominando colui che si diceva proteggesse le acque salate. L'imprecazione, antica e quotata fra i marinai, non avrebbe irritato la divinità anche se si fosse trovata nei dintorni di persona. «Giù la testa!» gridò Post, e Barrel si abbassò mentre un essere alato di grandi dimensioni volava rasente al suolo, inseguendo qualche mostruosità delle Dimensioni Inferiori. L'esile Post ormai aveva esaurito tutti i dardi da usare per la piccola balestra, e ora impugnava un'arma che aveva raccattato sul campo di battaglia, un fauchard dal manico corto con un gancio affilato sul retro che lo rendeva simile ad un fauchard biforcuto; era un'arma inconsueta, ma sembrava che l'agile Post sapesse usarla con vigore e notevole efficacia su chi osava avvicinarsi. Egli e quattro suoi compagni si erano disposti in un anello piuttosto serrato, con le spalle verso il centro per poter sorvegliare tutto il perimetro. Grazie alla loro posizione, o forse per qualche altro motivo, i cinque che
formavano l'anello apparentemente riuscivano a proteggere i due che si trovavano al centro, tenendo a bada le creature delle altre dimensioni, che ormai erano un vero e proprio esercito tumultuante. Dohojar urlava, per la disperazione e per farsi sentire al di sopra di tutto quel clamore: «Gord! Gord! Svegliati, ti prego!» Nell'ansia, il Changa dalla pelle bruna aveva dimenticato il consueto titolo onorifico, Zehaab. «Chi?... Che cosa?... Dove sono...?» A quella reazione Dohojar sorrise felice ed esclamò: «Gord! Oh, Gord Zehaab! Sei vivo! È stato veramente terribile, credimi! Eri coperto di lividi, fino a pochi minuti fa, ma ora va tutto bene.» «Dohojar? Devo aver sognato. Siamo ancora al campo?» «No, no Zehaab! Siamo proprio in mezzo ad una grande battaglia fra Deva e Demoni!» gli spiegò il Changa. Con l'aiuto di Dohojar il giovane avventuriero riuscì a mettersi a sedere. «Sono debole come un micino appena nato» si scusò Gord. «Ma aspetta. Se non siamo al campo, che ci fai tu qui? Tutti voi» aggiunse, «dovreste essere lontani mille miglia da qui!» Si guardò intorno e notò che i compagni lo circondavano. «Gli amici devono sempre aiutarsi a vicenda, capitano Zehaab, e noi siamo qui per adempiere al nostro dovere; i soldati non devono forse pensare alla salvezza del loro comandante?» «È una gran fesseria, Dohojar, e lo sai. Le truppe obbediscono al capo!» L'ometto bruno dedicò a Gord uno dei suoi sorrisi bianchi a tutti denti: «E poi lo abbandonano lì a morire? Niente affatto, Zehaab. Non siamo un branco di sciacalli, lo sai.» «Penso proprio di no» ribatté Gord. «Più che altro mi sembrate dei pazzi». Il Changa sorrise ancora e Gord interruppe la sua tirata. Eccoli lì, che gli salvavano la pelle; era proprio ora che facesse qualcosa per meritarsi la loro lealtà. «Aiutatemi ad alzarmi. Se riesco a scrollarmi di dosso quest'indolenzimento, forse posso aiutarvi a respingere la bizzarra collezione di creature che dilagano in questa zona.» Dohojar lo aiutò ad alzarsi in piedi e disse: «Non pensiamo di vincere, Zehaab. I mortali non possono sopravvivere ad una simile lotta. Combatteremo solo per salvarti. Ma forse moriremo tutti... oppure noi moriremo e tu riuscirai a fuggire!» «Merda di pipistrello! Quei mostri sono talmente impegnati a badare l'uno all'altro, che di certo non noteranno un gruppetto di persone che se ne va per evitare il confronto.»
A quel punto i due avevano preso posto sul cerchio, e il Changa aiutava Gord, ancora stordito, a camminare lentamente. La confusione era un po' calata, così i compagni ebbero modo di salutare calorosamente il loro capitano e di prendere fiato per qualche minuto. «Come avete fatto a salvarmi, di nuovo?» chiese Gord, tentando di essere severo. Fu Smoker a rispondere: «Stavamo per andarcene, ti assicuro, quando Post ha visto una strana nuvola formarsi nel punto in cui pensavamo ti trovassi; era bassa e sembrava brillare dall'interno di un fuoco nero-violaceo. Siamo rimasti ad osservarla, e quella cosa maledetta si dilatava, proprio come un anello di fumo.» «Il Changa è andato per primo ad indagare» intervenne Delver, «ma io non intendevo farmi precedere da un umano, e penso che non lo volesse nemmeno Shade, vero Shade?» disse il Nano con un cenno diretto al semiElfo. «E siccome sono come te, cioè umani, questi ragazzi non avevano altro da fare e si sono uniti a noi.» Gord era ancora confuso: «Adesso ho capito perché avete deciso di non andarvene. Ma per me resta ancora un mistero come abbiate fatto a scoprirmi.» «Oh, non è stato affatto difficile» rispose Smoker, riprendendo la parola. «Ti conosciamo abbastanza bene da immaginare che ti saresti spinto verso la retroguardia, quindi non abbiamo avuto problemi a fare lo stesso: il trambusto era concentrato fra i due accampamenti.» «Ma è a Dohojar che spetta tutto il merito, Gord» intervenne il semiElfo, che poi si corresse aggiungendo: «capitano Gord Zehaab, volevo dire». Gli altri riuscirono a farsi una risata, seppure forzata. «Ti ha tenuto d'occhio il più possibile, e siamo riusciti a rintracciarti. Ma ad un certo punto un grosso gatto - probabilmente un leopardo - si è messo sulla tua strada. Era molto grande, e doveva anche essere affamato. Abbiamo seguito le sue orme per un po', poi abbiamo deviato per di qua e ti abbiamo trovato.» Il giovane ormai si era ripreso quasi del tutto; guardò i compagni e scosse il capo con aria mesta: «Siete riusciti a farmi rinvenire, certo, ma tutto ciò che otterrete in cambio è una tragica fine. Avreste dovuto seguire le istruzioni». I sei uomini tennero la testa alta per dimostrare tutto il loro rifiuto alla sola ipotesi di abbandonare il capo. Gord si sentiva felice e triste allo stesso tempo. «Ormai siamo in ballo, come dicono, e dobbiamo ballare. Non ci resta altro che cercare una via di fuga. Vedete forse un luogo in cui la battaglia sia meno intensa?»
«Starai scherzando, spero» tuonò Delver, tirandosi la barba per sottolineare le proprie parole. «Guardati intorno: gli scontri si fanno sempre più fitti e violenti. Forse quegli esseri volanti luminosi sono i campioni del Bene, ma penso che ora come ora attacchino tutto ciò che si muove. Vorrei solo trovare una bella caverna profonda, nella quale infilarmi finché questa mischia non sarà terminata.» Un groviglio di esseri intenti ad azzuffarsi si avvicinò improvvisamente al gruppo, e i sette si prepararono al peggio quando un mostro alto dalla testa minuscola si staccò dall'ammasso confuso e si diresse verso di loro. Che l'essere li avesse o meno considerati avversari di poco conto, una pioggia di dardi lo scoraggiò; mentre esitava sul da farsi, un cilindro con sei gambe e sei braccia gli rotolò accanto e le due bizzarre creature ingaggiarono una lotta furiosa. «L'abbiamo scampata bella» commentò Smoker mentre il gruppetto si spostava cautamente. «Qualcuno ha dardi di riserva per le balestre?» Un rapido inventario rivelò che ne erano rimasti solo un paio. «Bene, ora non ci rimane altro che il corpo a corpo» osservò Gord, tetro, «e ci sono buone probabilità che non sopravviviamo.» Lingue di fuoco, sprazzi di energia e lampi di elettricità zigzagavano in tutte le direzioni, e sebbene nessuno di essi venisse apparentemente scagliato nella loro direzione, i sette dovevano continuamente stare all'erta. E quelle non erano le sole esibizioni di magia visibili nel marasma crescente: rocce e tronchi si alzavano da terra quasi di loro spontanea volontà, acquistavano velocità e volavano nell'aria; i Demoni, i Diavoli e chissà chi altro si servivano della telecinesi per attaccare gli avversari. Entravano inoltre in gioco incantesimi e poteri invisibili: raggi chiari, scuri e abbaglianti, mani senza corpo, mascelle schioccanti e altre cose indescrivibili a parole apparivano e sparivano nel campo di battaglia. Si udiva un frastuono composto da ruggiti, voci stentoree che intonavano inni di battaglia, urla, strilli, grida, clangori metallici, squilli di tromba e rombi di tuono. Occasionalmente i rumori si affievolivano o mutavano con il susseguirsi delle varie ondate, ma la cacofonia stava raggiungendo un livello tale che entro breve sarebbe risultata insopportabile ad orecchie umane e semiumane. I sette compagni di sventura si strinsero le mani. «Il Bene sia con te, capitano» gridò Barrel, tentando di dimostrarsi allegro. Ma proprio mentre gli altri si apprestavano a prendere congedo dagli amici, accadde una cosa strana: un'incredibile quiete scese sul campo di battaglia in tumulto mentre iniziava a soffiare un vento gelido, e la quiete si trasformò in silenzio mor-
tale. Sorprendentemente, le potenti creature delle altre dimensioni di esistenza cominciarono a svanire ad una ad una, spegnendosi come fiammelle di candela. Il vento inquietante, nel frattempo, continuava a soffiare, accompagnato da un fioco e macabro suono di campane. I sette del gruppo erano ancora in grado di muoversi e di parlare, ma gli esseri soprannaturali intorno a loro per qualche motivo si erano irrigiditi. Sia in aria sia al suolo le creature continuavano a svanire, e per un istante Gord si chiese quando sarebbe arrivato il suo momento; poi ritrovò la propria prontezza di spirito e decise di prendere in mano la situazione. Indicò ai compagni una valletta poco lontana e disse: «Lo scampanio viene da laggiù, e preferirei individuarne l'origine, piuttosto che aspettare qui che vengano a prenderci. Seguitemi!» gridò, e si mise a correre. Giunto ad un crinale da cui si poteva vedere ciò che accadeva nella valletta, Gord si bloccò sui propri passi. Post, che lo seguiva da presso e che si stava guardando indietro per vedere a che punto erano gli altri, andò a sbattere contro la sua schiena e diede un guaito di dolore, ma quando vide cosa aveva di fronte in lontananza, dimenticò il proprio problema e raggelò per la sorpresa e lo shock. Davanti a loro si svolgeva una scena agghiacciante. Una Drow femmina giaceva prona sull'erba; somigliava a Leda, ma Gord sentì subito che si trattava della sacerdotessa Eclavdra in persona. In piedi accanto a lei, con le braccia alzate, c'era una figura molto alta ed esile, che avrebbe potuto essere stata scolpita in una colonna di alabastro. Era senza sesso, come si poteva perfettamente capire, visto che non portava traccia di indumenti. La Drow sembrava prostrata di fonte all'essere in atteggiamento di adorazione o di supplica. La figura, di un biancore abbagliante, non era una statua: lo dimostrava il suono che proveniva dalla sua gola. Si trattava dello scampanio argentino udito dai sette pochi minuti prima. Era come se l'essere avesse dentro di sé un centinaio di campanelle. Il suono tintinnante gli usciva dalla gola intensificandosi via via. La creatura teneva le braccia sollevate sopra la testa e fra le mani reggeva un oggetto, probabilmente la fonte del vento freddo che imperversava sulla zona. Oltre ai cadaveri si potevano vedere altre due figure: alla destra di Gord, a cinquanta o sessanta passi dalla figura candida e dall'Elfo nero, si trovava un Drow maschio, un mago, a giudicare dall'apparenza, perché era pietrificato nell'atto di formulare un incantesimo. Il vento gli arruffava gli abiti, dando una sensazione di movimento; forse era ancora vivo, o forse no.
Dall'altro lato della valletta, equidistante dalle due figure centrali, si trovava un uomo dalla corazza tutta ammaccata e sporca di sangue, che si guardava intorno con stordita meraviglia. Accanto a lui giacevano alcuni compagni morti, e non si vedevano nemici. Tenendo lo sguardo fisso sull'oggetto che l'esile e candida creatura teneva sopra il capo androgino, Gord scese lungo il dolce pendio verso la coppia al centro della scena. Dopo pochi passi, riconobbe nell'oggetto il Theorpart; mentre una parte del suo cervello gli gridava 'di fuggire al più presto, quella più razionale prese il sopravvento: certo quella... cosa bianca poteva ucciderlo senza sforzo in qualunque momento, se l'avesse voluto, eppure ogni passo che faceva era guadagnato, quindi decise di avanzare... Ma era veramente una sua scelta? Il giovane era arrivato a pochi passi dalla figura candida quando decise di fermarsi, o forse vi fu costretto. Nello stesso istante lo scampanio cessò, e le lunghe braccia sottili abbassarono il Theorpart all'altezza della vita. Poi l'essere si girò da un lato e ripose l'oggetto in un astuccio d'ottone mentre il giovane avventuriero osservava pietrificato la scena. Senza guardarlo, la creatura di alabastro parlò. «Sei venuto com'era scritto nel destino, Gord di Falcovia» disse una voce fredda e limpida. «Prenditi un po' di riposo, ora, fin che puoi, perché presto la tua vita sarà in pericolo.» «Chi sei tu, che pretendi di saperlo?» chiese Gord. «Pretendo?» La candida creatura si girò ridendo, e per la prima volta guardò Gord in faccia, con occhi rossi senza gioia. «Io, Vuron, non pretendo niente; ti dico semplicemente ciò che so.» Solo a quel punto Gord si accorse che i suoi sei compagni lo avevano seguito nella valletta, perché avvertì un improvviso sospiro collettivo alle sue spalle. Anch'essi, come Gord, avevano incontrato per la prima volta lo sguardo della creatura, che era sufficiente ad incutere un rispettoso timore, se non il terrore, anche nel cuore più coraggioso. Con un enorme sforzo di volontà, Gord riuscì a non dimostrare palesemente la propria paura, ma non riuscì a reprimere un senso di gelo. Se la creatura che gli si trovava di fronte non era una contraffazione del bene, un'entità maligna, nessun trucco sarebbe potuto riuscire meglio. La figura nivea, nella sua inquietante bellezza asessuata, trasudava una potenza che raggelava fino al midollo; irradiava infatti una gelida forza malefica, e anche il volto, nonostante i lineamenti perfetti, incarnava il demoniaco in forme quasi umane. Come se gli avesse letto nel pensiero, il Demone di alabastro Vuron ab-
bassò lo sguardo su Gord e gli disse: «C'è il male, come lo chiamano i tuoi simili, e il Male. Io non ti minaccio, Gord di Falcovia, né fisicamente né moralmente, a meno che tu non ritenga perniciosa la ragione...» «Sono solo discorsi da Demone, Vuron. Ma ti confesso» continuò Gord, «che le tue parole e le tue azioni... mi sconcertano.» «Ti turbano. Infatti ti chiedi perché non mi prendo semplicemente la Chiave Finale, non ammazzo te e i tuoi soci solo per il piacere di vedervi morire e non mi trasferisco assieme al Theorpart nel rifugio dell'Abisso.» A ciò il giovane avventuriero comprese che il Demone effettivamente gli leggeva nel pensiero. «Dunque?» fu tutto ciò che ebbe da dire. «Dobbiamo parlare senza riserve, e ci resta poco tempo. Io leggo nei tuoi pensieri, ma l'amuleto che porti al collo mi permette di esaminare la tua mente solo superficialmente. Te lo dico per guadagnarmi la tua fiducia, almeno quel che basta per farti prendere in considerazione ciò che devo esporti. Poi, naturalmente, sarai libero di prendere qualsiasi decisione. Ciò che ho appena fatto è...» «Chiudi quella bocca perversa!» gridò Eclavdra con voce stridula. La Gran Sacerdotessa di Graz'zt era balzata in piedi alle ultime parole di Vuron, con il bel volto distorto dalla rabbia. Con un dito puntato, fissò negli occhi rossi il Demone magro e alto senza la minima traccia di deferenza, tanto meno di terrore. «Hai già fatto anche troppo, serpente pallido, e dovrai rispondere di fronte al Mio re di ciò che cerchi di dire a questo mortale!» Vuron non batté ciglio, ma fece un sorriso gelido: «Il Mio signore, che è anche il tuo, naturalmente, e Io sono al suo servizio dalla notte dei tempi... Ma ora non è il momento di parlare di cose così poco importanti. Anche tu dovrai affrontare la conclusione della tua prova così com'è scritta nel destino.» «La Mia prova sei tu, Vuron» ribatté Eclavdra, acida, con il volto ancora sconvolto dall'odio. «Anch'Io possiedo dei poteri, e ti chiamerò traditore ora e per sempre. L'umano col quale desideri trattare non appartiene all'Abisso, e vorresti consegnargli ciò che Mi spetta di diritto!» «Ti spetta di diritto?» chiese senza espressione il Demone d'alabastro. «Se tu affermassi che appartiene al nostro re, dovrei accettare il fatto almeno in spirito, se non proprio ammetterlo. Non importa. Hai sprecato il tempo che ti era stato concesso, a quanto sembra; il momento è trascorso ed essi arrivano... Preparati, ora, Drow, e anche tu, Gord di Falcovia, ad affrontare gli avversari in combattimento. Li vedete, eccoli, accompagnati
dai loro sostenitori.» Eclavdra e Gord guardarono nel punto indicato dall'esile Demone bianco. Ai bordi della valletta c'era Obmi, con il martello in mano, accompagnato da Leda e da una dozzina di selvaggi delle paludi dall'aria fiera. «Eclavdra, cagna nera!» tuonò il Nano. «Ti sei messa nelle Mie mani violando le regole della gara, e Io ti schiaccerò, per questo!» Dettò ciò si lanciò in avanti, accelerando incredibilmente il passo grazie agli stivali magici. «Gord» disse Vuron mentre Obmi passava all'attacco, «tu dovrai affrontare il Nano. Non toccherà a lui prendere la vita di Eclavdra o morire nel tentativo; questa possibilità appartiene al suo clone, cui tu hai dato il nome di Leda.» Senza perdere tempo a riflettere sulla veridicità dell'affermazione, Gord sguainò la spada e fece un balzo per intercettare Obmi. Alle sue spalle i sei amici si prepararono a difenderlo da chiunque avesse tentato di interferire nel duello: i briganti selvaggi delle paludi di Hool furono ben contenti di affrontarli. Per quanto riguardava Eclavdra, non appena mise gli occhi sul clone, non prestò più attenzione a nessun altro, neppure al Nano. In realtà, se Gord non fosse intervenuto, Obmi avrebbe potuto atterrare l'Elfo nero in un sol colpo. Guardandosi negli occhi, Leda e Eclavdra si avvicinarono e si misero in guardia. «Avrei dovuto immaginarlo!» esclamò la sacerdotessa. Leda sorrise a quell'affermazione e gridò: «Proprio così, madre, sorella e alter ego» ridendo mentre Eclavdra la guardava torva. «Ma come poteva essere? Tu avevi una corrente telepatica - ora lo so - e io no... oppure sì?» «No, per quanto ne sappia» disse Leda. Erano molto vicine ormai, e sembravano due specchi che si riflettessero a vicenda; erano gemelle identiche, cloni. «Tu hai fallito a causa mia, di questo sono certa.» Il trionfo palesemente visibile nell'espressione di Leda era troppo per Eclavdra. Con la bocca contorta in una smorfia d'ira e con gli occhi che mandavano lampi violetti, si avventò sulla gemella con le mani ad artiglio e i denti scoperti. Chiunque conoscesse le circostanze non poteva sorprendersi al vedere che Leda reagiva allo stesso modo. Le due Drow si scontrarono, si afferrarono e caddero a terra rotolando in una parodia di zuffa fra donne, in cui cercavano di graffiarsi e artigliarsi finché l'una o l'altra non si fosse arresa; quello scontro tuttavia sarebbe proseguito fino alla morte di una o dell'altra contendente.
Quando Gord si frappose tra Obmi e l'oggetto delle sue ire, il servo tarchiato della Demoniessa si preparò a contenere l'assalto e affrontò l'avversario con il martello fra le mani. Il suo volto era contorto in un ghigno di disprezzo, ma nei suoi occhi brillava un barlume di furbizia. «Una volta pensavo che fossi un mucchio di sassi, ma poi ho sentito che eri tornato, come le verruche!» tuonò il Nano, ridacchiando alla sua stessa battuta. «Miracoli del genere non accadono spesso, omuncolo. Fatti da parte e lasciaMi ammazzare la Drow, o meglio, aiutaMi a far fuori quella puttana e ti ricompenserò...» Gord menò fulmineamente un fendente e il Nano dovette troncare la frase e fare un balzo indietro. «No, mucchio di letame, bugiardo!» gridò Gord. «Nessun Nano al servizio di un Demone farà un patto con me. Quando ti sarai sbarazzato di me, avrai campo libero, ma ricordati che sono un osso duro!» La risposta era stata troppo lunga, proprio come Obmi aveva sperato; mentre il giovane pronunciava le ultime due parole, il Nano si avventò improvvisamente alla sua destra e gli tirò un rovescio con il martello. Aveva mirato alla rotula sinistra, ma colpì la coscia con un tonfo. Il giovane non poté reprimere un rantolo quando la violenza del colpo gli fece piegare la gamba, ma fu proprio perché cadde che riuscì ad evitare il colpo successivo. Mentre Gord cadeva, Obmi si girò di trecentossessanta gradi facendo perno sul tallone sinistro, a velocità incredibile, e roteando contemporaneamente il martello. Il lungo becco era puntato al lato sinistro del petto del giovane avventuriero; se Gord fosse crollato dove si trovava al momento della prima ferita, sarebbe stato colpito dal micidiale attrezzo proprio sotto le costole e quindi al cuore. Ma il giovane, invece di cercare di restare in piedi, aveva sfruttato la violenza del colpo per spostarsi verso destra e rotolare a terra, per poi rialzarsi in una posizione leggermente più arretrata rispetto a quella precedente. L'arma mancò il bersaglio di pochi centimetri, sufficienti tuttavia a salvarlo; il colpo gli strappò il camiciotto, già danneggiato, mettendo a nudo la sottile maglia d'acciaio che indossava sotto. «Svelto come un topo!» ringhiò Obmi, «ma il mio artiglio di gatto ti inchioderà a terra!» Gord dovette digrignare i denti per appoggiarsi alla gamba ferita e sembrare illeso. Il colpo del Nano, infatti, era stato estremamente violento; la testa del martello, per giunta, era cosparsa di chiodi che avevano reso ancor più dolorosa la ferita. Il sangue gli colava lungo la gamba, rendendolo
rabbioso ma prudente. «Non sei un gatto, Nano, ma un ratto! Quel tuo stuzzicadenti non è un artiglio di gatto, sono i tuoi denti da topolino!». Poi, con la spada sguainata, avanzò lentamente: «Quest'arma è molto più adatta ad un gatto, mucchio di letame, e fra un attimo te lo dimostrerò.» Obmi si allontanò altrettanto cautamente. Il Nano era sicuro della vittoria, specialmente vedendo gli effetti del suo colpo su quell'umano magro dai capelli neri: poteva anche essere piccolo e agile, e un superbo spadaccino, ma la forza e l'abilità di Gord non avrebbero potuto competere con le sue, se soltanto prendeva tempo e approfittava al massimo della sua grande esperienza. L'umano si sarebbe gettato al più presto su di lui, pensando di utilizzare la lunghezza del braccio e della spada per un colpo che il martello, più corto, non sarebbe riuscito a parare, ma avrebbe avuto una spiacevole sorpresa, perché Obmi si teneva pronto e progettava anch'egli un rapido affondo; si sarebbe infilato sotto la spada e avrebbe colpito con il martello da sotto in su, mirando al braccio. Alla fine Gord attaccò, puntando al petto del Nano, ma Obmi si chinò e passò alla contromossa. Un avversario più basso, con un'arma più corta e non appuntita aveva minori possibilità di riuscita in un duello, e Gord lo sapeva bene. Il suo affondo in un certo senso fu una finta; il fendente partì alto, ma mentre allungava il braccio, il giovane portò contemporaneamente in fuori la gamba destra, e si abbassò; la punta della spada quindi deviò verso il basso e il Nano non riuscì ad evitarla. Il colpo andò facilmente a segno, e la spada si conficcò per quindici centimetri nella spalla destra di Obmi. Gord la estrasse immediatamente, arretrando con sorprendente rapidità nonostante la coscia ferita. Naturalmente il Nano non ebbe la possibilità di portare a termine la sua mossa. «Che tu sia dannato, uomo» ruggì Obmi, con la barba che sembrava arricciarsi per la rabbia. Comprimendosi con la mano sinistra la ferita, il Nano si allontanò dall'avversario, roteando il martello davanti a sé con la destra per coprirsi la ritirata. Gord si concentrò per non cedere al dolore e iniziò a ritrarre lentamente la gamba, fino al punto in cui avrebbe potuto utilizzarla pienamente in manovre di attacco acrobatico. La ferita profonda che aveva inflitto ad Obmi si sarebbe ben presto fatta sentire, si disse, quindi non c'era bisogno di affrettarsi. Menò qualche cauto fendente che non andò a segno, parò i colpi del martello e si preparò per la successione finale, in cui avrebbe cercato uno scontro ravvicinato. In vista di ciò, estrasse il pugnale. Nell'avvicinarsi avrebbe usato la lama più corta per intercettare il martello, deviarlo e apri-
re la via ad un fendente micidiale della spada. Al vedere la seconda arma, Obmi sbuffò, afferrò nuovamente il martello con entrambe le mani e rimase immobile come una roccia tenendolo sollevato dietro la testa. Gord sgranò gli occhi e fece un passo indietro, dopo aver notato un particolare scioccante: dalla ferita che aveva procurato al Nano non usciva sangue! «Vedo che te ne sei accorto!» rise il Nano. «Il tempo è dalla Mia parte, topino, non dalla tua. E proprio mentre ti dico queste parole, la ferita che Mi hai provocato si sta risanando per opera di magia. Deponi le armi, ora, voglio donarti una morte rapida e pulita!» Obmi avrebbe dovuto sapere che una morte rapida e pulita non rientrava nei piani di Gord; in effetti il giovane preferiva non morire affatto, se poteva dire la sua. Quindi, invece di indietreggiare o di abbassare le armi, si gettò in avanti in una rapida sequenza di movimenti, roteando la spada a velocità impressionante. Obmi arretrò lentamente e deviò tutti i fendenti tenendo il martello davanti a sé mentre aspettava un varco per menare un colpo mortale. Ma l'impazienza ebbe il sopravvento, e il Nano decise di por fine agli indugi e di sferrare un colpo dall'alto, trascurando però due fatti importanti: avrebbe impiegato un secondo per sollevare il martello ed era di almeno sessanta centimetri più basso del suo nemico. Mentre il Nano sollevava l'arma sopra la testa, Gord tirò un colpo di pugnale e, quando tornò giù il martello, si scontrò con la lunga lama con un cozzo metallico; si incastrò quindi nella guardia del pugnale, che lo trattenne in alto come se fosse raggelato. Obmi era forte, ben più forte di Gord, ma la maggior statura permetteva al giovane di far leva contro il martello del Nano e di approfittarne, almeno per il momento; e un momento era tutto ciò di cui aveva bisogno. Prima che Obmi potesse utilizzare la propria forza di natura demoniaca per contrastare la sua mossa, Gord menò un fendente con la spada dall'alto in basso. La traiettoria semicircolare assunta prima dell'impatto donò al colpo una forza tremenda, e la lama trapassò le carni e le ossa del Nano nonostante la protezione della corazza di cuoio e metallo. Obmi riuscì in qualche modo a spingere via Gord, perché la sua forza era quella di un gigante, nonostante la bassa statura ma, mentre il giovane finiva a terra lungo disteso, anche il Nano crollò al suolo: la gamba sinistra gli era stata amputata proprio sotto il ginocchio! «Occhio per occhio, ratto! La tua magia ti farà ricrescere la gamba?» lo beffò Gord. Ma mentre parlava, vide che il moncherino aveva cessato qua-
si immediatamente di sanguinare; quando si rialzò, il volto del Nano, sconvolto dal dolore, si era un po' rasserenato. Con grande stupore del giovane, Obmi si rimise in piedi usando il martello per sostenersi mentre la gamba tagliata sembrava allungarsi di minuto in minuto. Gord non aveva paura, ma era piuttosto confuso. Ma quell'Obmi era forse una sorta di Troll? E se la gamba tagliata avesse dato origine ad un altro Nano, pronto a combattere al fianco del primo? Mentre rifletteva su questi interrogativi, perse il vantaggio che aveva conseguito; in quegli attimi, infatti, il Nano si tolse dal collo un cristallo color dell'ebano e lo scagliò contro di lui. Il giovane cercò istintivamente di deviare il proiettile con la spada, ma nell'impatto con la lama l'oggetto nero finì in frantumi e Gord sprofondò nelle tenebre. Si gettò ugualmente in avanti e colpì nel punto in cui il suo nemico si trovava solo un attimo prima, ma era troppo tardi; con il favore dell'oscurità Obmi si era spostato: la lama di Gord si conficcò nel suolo. Il giovane non sentiva alcun rumore da parte del Nano, ma non per colpa delle tenebre che lo circondavano; l'aria infatti risuonava ancora delle urla degli uomini che combattevano e morivano nelle vicinanze, e proprio questi rumori, sfortunatamente, mascheravano quelli eventualmente prodotti da Obmi, qualunque cosa stesse facendo in quel momento. Non volendo farsi prendere alla sprovvista da qualche altro trucco, Gord indietreggiò più in fretta che poteva, tastando tuttavia il terreno per evitare passi falsi. Dopo dieci passi le tenebre cominciarono ad essere meno fitte, e un altro passo da gambero lo riportò alla luce del sole. Senza prestare attenzione al marasma che lo circondava, Gord iniziò ad aggirare la zona oscura che nascondeva il Nano. Si trattava di un emisfero del diametro di almeno dieci metri, alto circa la metà. Mentre ne perlustrava il perimetro, nel caso Obmi tentasse di fuggire, lo sguardo di Gord cadde sulla lama della spada. Il metallo non luccicava più; era diventato nerissimo e la macchia scura si stava propagando verso la guardia e l'elsa, in direzione della sua mano. Con una bestemmia il giovane scagliò lontano la spada, temendo che quella sostanza nerastra potesse nuocergli. Mentre la guardava espandersi sulla spada, gli venne un'idea: forse aveva trovato un mezzo per scovare Obmi anche nell'oscura cortina che quello si era allestito... Si sentiva un odore molto forte, di Nano, anzi di sangue, di sudore e di fiato di Nano. La grossa pantera nera non esitò un attimo ad attaccare; ora sotto la cupola di nebbia danzavano puntolini luminosi, ma che le tenebre
si dissolvessero o si trasformassero grazie a qualche altro incantesimo, questo non contava: l'essenziale era che Obmi morisse. Il Nano fu preso totalmente alla sprovvista quando la pantera Gord gli balzò addosso di lato. Chissà come, Obmi riuscì a maneggiare il martello e ad infliggere alcune ferite al corpo agile del felino, ma le lunghe zanne della pantera affondarono nel suo corpo e gli artigli lo straziarono. Poi, dopo aver subito un colpo particolarmente violento, la pantera-Gord riuscì ad afferrare il nemico per la spalla con i denti, ad abbracciarne il busto con le zampe anteriori e ad imprigionarlo in una morsa, in una stretta mortale. Poi iniziò a scalciare con le zampe posteriori una volta, due, tre mentre affondava sempre più gli artigli di quelle anteriori e serrava le mandibole. Obmi urlava di dolore e tentava di usare la sua forza magica per scacciare l'aggressore; aveva le mani libere, quindi prese la bestia per la gola e cercò di strozzarla, ma Gord tenne saldamente fra i denti la spalla del Nano, irrigidì i muscoli del collo e continuò ad artigliare con le zampe posteriori, riducendo a brandelli il corpo dell'avversario. Le piccole dita tozze, che gli erano sembrate sbarre d'acciaio sulla trachea e sulla giugulare, si afflosciarono e Gord allentò la presa delle zampe anteriori e delle mandibole, pur continuando a scalciare istintivamente con le zampe posteriori. Obmi emise un rantolo, e il suo corpo sventrato volò in aria per qualche metro, spinto da un calcio delle zampe posteriori del felino. In un balzo Gord fu sopra al cadavere: quello che un tempo era stato un grande campione del Male era ridotto ad un ammasso floscio di stracci insanguinati e membra mutilate. Per Gord tuttavia non faceva molta differenza, perché anche nella sua furia assassina una cosa era chiara nella sua mente: la salma del Nano aveva due gambe. La pantera afferrò il cadavere fra i denti e lo scosse come avrebbe potuto fare un terrier con un topo. Usò anche gli artigli, straziando ulteriormente la salma finché non l'ebbe sparpagliata qua e là in pezzi. Solo allora Gord interruppe il furioso assalto e si allontanò di qualche metro. L'oscurità era quasi svanita. Ne rimaneva soltanto una traccia, anch'essa in via di dissolvimento. Mentre gli ultimi brandelli di tenebra scomparivano e il sole spandeva nuovamente la sua luce sul terreno su cui Obmi aveva combattuto la sua ultima battaglia, Gord riprese le fattezze umane. «Gord! Mi era parso di vedere una grossa pantera nera in quel... Per il Grande Corno!» Ogni traccia di sorriso era sparita dal volto di Barrel, ulteriormente sfigurato da un lungo taglio obliquo sulla guancia. L'uomo teneva gli occhi fissi sull'ammasso di carne che gli stava di fronte.
Seguendo il suo sguardo, anche Gord dovette mormorare una bestemmia: i brandelli del Nano pulsavano e si muovevano, e strisciavano uno verso l'altro. «Quel bastardo schifoso è ancora vivo!» urlò Gord. Il grido fece accorrere Delver e Shade, e fu il Nano a parlare per primo. «Quello lì è come un Troll, Gord. Fai in modo che quei pezzi di carne non riescano a toccarsi, mentre io accendo un fuoco. Quando sarà pronto, getteremo tutti i pezzi fra le fiamme; è l'unico modo per eliminare definitivamente simili creature». Delver si affrettò ad eseguire il compito mentre gli altri tre erano indaffarati a spingere via i vari pezzi e a pungolarli per impedire che si riunissero. «Gli altri tre sono messi male, capitano» disse Barrel a Gord mentre si davano da fare. «Li abbiamo messi a riposare sull'altro versante di quella collinetta.» «Ci occuperemo presto di loro» disse Gord in tono sinceramente preoccupato, «ma, anche se mi dispiace dirlo, ora siamo impegnati in un compito ben più importante della vita di tutti e tre messi assieme, e anche della nostra, se è per questo.» «Certo, capitano» disse Barrel, che non aveva certo bisogno di essere informato sulla gravità della situazione, indaffarato com'era ad intercettare quei brandelli di carne e ossa che scorrazzavano qua e là. Pochi minuti dopo il fuoco era pronto, e tutti raccolsero i vari frammenti per gettarli nelle fiamme ad uno ad uno. Nel cielo si levò un pennacchio di fumo scuro e acre. Poi tutto finì: Obmi il Nano, il servo del Male, il campione dei Demoni, non era più. Gord immaginò di sentire il lamento quasi impercettibile di una vita malvagia che si avviava alla fine nella più bassa delle dimensioni. Barrel era andato dai compagni feriti per accertarsi delle loro condizioni mentre Gord assisteva alla distruzione del Nano. Il marinaio robusto tornò dal suo capitano con le lacrime agli occhi. «Sembra che Dohojar e Smoker possano riprendersi...» disse, posando una mano sulla spalla del giovane, «ma il povero Post è spacciato!.» «Quando finirà tutto questo?» si chiese Gord, rivolto più che altro a se stesso. Scosse la testa per allontanare la tristezza e notò che il campo di battaglia era vuoto. «Dove sono gli altri?» chiese. «Che ne è stato del Demone bianco? E Leda? E Eclavdra?» «Quei tre erano laggiù» rispose Shade, indicando il punto in cui Gord aveva individuato Vuron ed Eclavdra per la prima volta. «Mi è capitato di guardare là perché due dei selvaggi di Obmi stavano per assalire le due donne... gli Elfi neri.»
«Leda ed Eclavdra» precisò Gord. «Io mi sono avviato verso i due uomini, deciso a prenderli entrambi, ma il Demone pallido ha fatto una mossa ed è scomparso assieme alle due Drow!» Poi il semi-Elfo aggiunse, come se avesse ricordato qualcosa: «Quei selvaggi pidocchiosi sono rimasti talmente sconcertati dalla scena che li ho fatti fuori senza tanti problemi. Penso che fossero gli ultimi rimasti vivi.» «Dedichiamoci ai feriti, ora» rispose Gord dopo qualche secondo, «poi ci preoccuperemo di che cosa è accaduto agli altri.» Mentre i quattro si avviavano nel luogo in cui Dohojar e Smoker giacevano privi di conoscenza, la terra si mise a tremare con un boato. Ai loro piedi si aprì una voragine da cui scaturì del vapore, e i quattro indietreggiarono in tutta fretta. Dal suolo eruppe un getto di fumo e fiamme il cui bagliore, unito alla densità del fumo, li accecò tutti. Capitolo 25 Il signore dei demoni era in piedi su una zona circolare che sembrava ricavata in un prato nelle prime ore del mattino. L'erba era verde e luccicante di rugiada, e teneri fiori volgevano al sole il loro capolino. Non si vedeva segno di lotta, di sangue o di morte; tutto era intatto. Accanto all'essere dell'Abisso c'era Leda, o almeno a Gord pareva che fosse lei, perché gli abiti erano gli stessi che indossava poche ore prima e la spada era quella sottratta al guerriero Yoli in un giorno che al giovane sembrava lontanissimo. Il Demone si limitò a guardare i quattro guerrieri con i suoi occhi rosati, mentre l'Elfo nero parlava. «Gord! Sei vivo! Hai davvero ammazzato Obmi?» gridò, sorridendogli e avvicinandosi a lui a braccia aperte, per poi stringerlo a sé non appena gli fu accanto. Gord era tentato di ricambiare l'abbraccio, ma rimase rigido e impassibile. «Sì» disse con voce priva di inflessioni, «ho ucciso il Nano». Dinanzi alla sua freddezza e al tono piatto, Leda allentò l'abbraccio e fece un passo indietro, con espressione addolorata. Gord la ignorò e con la stessa voce neutra chiese: «Che ne è di Eclavdra?» «Eclavdra non c'è più, è morta! Solo Leda vive!» «C'è qualche differenza?» Ora il bel volto della Drow manifestava un misto di rabbia e di pena. «Come puoi chiedermi questo proprio tu, tra tutti coloro che mi conosco-
no?» «Sono accadute molte cose da quando credevo di conoscerti... Leda. Come posso io, povero e semplice uomo, conoscere la verità di tutto?» A ciò, Vuron scoppiò in una gelida risata argentina: «Ben detto, Gord di Falcovia. Tuttavia anche i Demoni spesso devono sopportare il peso di cui parli. PermettiMi di assicurarti che questa è davvero Leda, non colei che le ha dato la vita, e che una differenza c'è.» «La verità dalla bocca di un Demone?» Vuron rise ancora: «Sì. Accadono anche cose più strane, no? E c'è dell'altro...» Al momento della strana apparizione del Demone e della Drow, Delver, Shade e Barrel erano accanto al loro amico. Tutti e tre impugnavano le armi, pronti a combattere una lotta all'ultimo sangue, già persa in partenza, contro quel nemico soprannaturale. Ora erano confusi e incerti, come Gord. Delver brontolò un avvertimento, rafforzato dal consiglio di Barrel: «Non fidarti delle parole di un Demone, capitano!» Shade si limitò a scuotere i lunghi capelli e ad avvicinarsi ulteriormente al giovane, con l'arma puntata contro il candido Vuron. Senza mostrarsi offeso alla reazione dei quattro, il signore demoniaco abbassò lentamente il capo per contemplare la distesa erbosa ai suoi piedi. Con un piccolo gesto e una serie di sussurri, Vuron fece apparire davanti a sé un astuccio di ottone lavorato. «La Chiave Finale è custodita qui dentro, Gord» disse il Demone, indicando il contenitore. «Forse Mi permetterai di spiegarti che cos'è accaduto, prima di decidere di fare ciò che devi fare.» «Spiegarmi? Non intenderai piuttosto dirmi che cosa devo fare?» ribatté Gord, sprezzante. «Oh, no, non posso assolutamente farlo, Gord di Falcovia. Il tuo destino appartiene esclusivamente a te, e neppure un signore potente come Me può mutarlo. Tuttavia posso alterare qualche altra cosa». Nel dire ciò, l'essere alabastrino distolse gli occhi dai quattro che lo fissavano per abbassare lo sguardo nel punto in cui giaceva il corpo di Post. «Io ti guarisco, uomo!» esclamò il Demone. Il petto di Post si sollevò con un lamento, poi il compagno di Gord si mise a sedere strofinandosi gli occhi, come se si fosse appena svegliato da una notte di sonno. Vuron allora rivolse lo sguardo ai due feriti, Smoker e Dohojar: «Anche voi due avete combattuto da coraggiosi, quindi risanatevi». A ciò Smoker si girò su un fianco e si mise a russare tranquillamente, mentre il Changa dalla pelle scura si mise a sedere e guardò gli amici con un gran sorriso, senza sapere
che cosa dire. Gord aveva però qualche obiezione da fare: «Usi i tuoi poteri demoniaci per corrompermi, stupirmi e confondermi, Vuron, ma io non mi lascio commuovere!» «Esattamente come pensavo» rispose la pallida creatura. «Il mio gesto tuttavia aveva il solo scopo di eliminare le preoccupazioni dalla tua mente, che dovrà esserne libera per poter assorbire correttamente ciò che ora chiedo di poterti riferire.» Dopo qualche secondo di riflessione, Gord fece un cenno di assenso: «Ascolterò le tue parole, Vuron, con tutto il disinteresse possibile per uno come me.» «È già molto te lo assicuro, ma tutto ciò che chiedo è la tua attenzione. Ora ti racconterò che cos'è accaduto» disse il signore demoniaco, mettendosi a sedere nell'erba alta. I quattro non erano proprio felici di farlo, ma sedettero anch'essi, vedendo che Leda aveva seguito l'esempio di Vuron e si era accucciata fra il Demone e il gruppo di uomini e semiumani. «Ora fai molta attenzione» disse il Demone in tono soddisfatto. «Il mio racconto sarà piuttosto lungo.» «Quando iniziò la gara per il possesso del Theorpart io creai Leda, che non è e non è mai stata un vero clone di Eclavdra, perché non avrei mai replicato esattamente un essere come quella Drow. Se mai creatura mortale avesse potuto causare la rovina del mio signore, quella sarebbe stata lei. Io quindi alterai Leda, come tu l'hai chiamata, Gord, e feci il possibile per aiutarla. Essendo un Demone, non ho potuto infondere in lei il bene, e neppure l'equilibrio o la neutralità, ma ora Leda possiede un minimo di entrambi, grazie a te, Gord di Falcovia.» «È un rimprovero o una lode nei miei confronti, Vuron? Le tue parole non hanno senso.» «Al contrario! Per quanto riguarda i rimproveri, avrei molte ragioni per fartene. Ma comunque li compenserei con numerose lodi per ciò che hai fatto, Gord. Sei stato tu a modellare l'argilla dello pseudo-clone, anche se soltanto per poco. Questa versione di Eclavdra, questa Leda, non potrebbe mai agire come l'originale, quindi non rappresenta alcuna minaccia per il Mio signore.» «Forse io deploro queste parole, Demone! Perché dovrebbe interessarmi ciò che avvantaggia i signori dell'Abisso?» «Stai pure certo che l'influsso della Drow defunta sarebbe stato pernicioso sotto molti aspetti, Gord di Falcovia; essa avrebbe seminato distruzione
nel tuo mondo e rovina nel Mio regno e in tutti gli altri regni demoniaci.» «Sì, Gord» intervenne Leda accalorandosi. «Fu Vuron a donarmi il potere telepatico che mi ha permesso di influenzare Eclavdra a sua insaputa. Senza tale vantaggio, ella avrebbe preso la Chiave Finale ma in breve l'avrebbe perduta, a vantaggio di Obmi e della sua signora.» «Un Demone o l'altro, che differenza fa? L'umanità ne va di mezzo in entrambi i casi.» «Non trarre conclusioni affrettate, Gord di Falcovia» disse Vuron con la sua voce limpida e asessuata. «Ciò che ti dico si incentra proprio su questo, sulla Chiave Finale, e certamente sul destino di tutto quello che conosciamo come multiverso.» «E dovrei essere io a deciderne?» fece Gord con una risata beffarda e incredula. «Quando intervenni nelle azioni di Eclavdra» continuò Vuron, senza commentare la frase del giovane, «la sacerdotessa aveva violato il patto concernente il Theorpart, quindi glielo sottrassi; fatto ciò, potei utilizzarne i poteri solo per un istante, allo scopo di rimediare a ciò che l'incosciente Drow aveva scatenato. Nonostante questo, tuttavia, non ho alcun diritto di reclamare la Chiave Finale; sarete tu o Leda a decidere che cosa farne.» «Vuoi dire...» «Sì. Potresti prenderla subito e donarla al Demiurgo in un batter d'occhio; Basiliv potrebbe anche apprezzarla...» Leda lo interruppe, con voce carica di emozione: «Una cosa è certa, Gord: io non sarò arbitro di questa faccenda; cedo a te il mio diritto.» «Ti sta dicendo, Gord di Falcovia» spiegò il pallido Demone, «che potrebbe sfidarti per il possesso della Chiave Finale. In quel caso il vincitore conseguirebbe il diritto di farne ciò che desidera. Ma Leda ti cede questo suo diritto; non combatterà contro di te, e ciò è prova dell'effetto che hai avuto sulla sua persona.» A questo punto Gord si trovava davanti ad un tremendo dilemma: Basiliv e Rexfelis, il Signore dei Gatti, gli avevano affidato la medesima responsabilità. Un'infinità di tempo prima, quand'era partito per la ricerca dell'ultima parte dell'oggetto, entrambi i suoi mentori gli avevano detto che la decisione finale sarebbe spettata a lui, se fosse riuscito ad impadronirsi della Chiave Finale. Ora Leda, che aveva amato ma di cui non si fidava più, e Vuron, un odiato nemico, un signore demoniaco di potenza sconosciuta e di sicura malvagità, gli lasciavano la stessa decisione. «Potrei consegnare l'oggetto a Basiliv?» chiese Gord. Vuron annuì. «A
Mordenkainen? Alla Cabala? A Iuz? Alla Confraternita? A chiunque?» Ad ogni domanda il Demone rispondeva positivamente. Alla fine il giovane chiese: «E io? Potrei tenerla io e sfruttarne i poteri?» «Potresti tenere il Theorpart finché il fato te lo consentirebbe, Gord di Falcovia. Non so se potresti utilizzarlo, ma penso che in qualche modo ci riusciresti...» «Ma che cosa devo fare, allora, di quel dannato oggetto?» «Non sono né più né meno che un signore dei Demoni» disse Vuron in tono pacato, «quindi non saprei dirtelo.» Gord guardò Leda; ora sembrava nuovamente il bell'Elfo nero di cui si era innamorato mentre insieme si erano avventurati attraverso le Pianure Desolate e nel Deserto di Cenere, e non più una sconosciuta, una Drow e una sacerdotessa demoniaca. La fanciulla lo ricambiò con uno sguardo pieno di calore; i suoi occhi erano laghi violetti pieni di un'emozione che Gord poteva interpretare solo come amore per lui. «E tu, Leda? Hai qualcosa da dirmi sull'argomento?» «Se davvero vorrai ascoltarmi, Gord, con il cuore oltre che con la mente.» Il giovane alzò leggermente le spalle, in un gesto di rassegnazione. «Sono quel che sono, e posso ascoltare come posso, ma tenterò di ascoltare con tutto me stesso, Leda.» «Allora ti parlerò, amore, anche se ciò che devo dirti è talmente penoso che preferirei morire piuttosto che rivelarti ciò che penso... Il Bene non potrà mai possedere quell'oggetto, nemmeno una sua parte, e nemmeno la sua essenza. Se coloro che stanno fra il Bene e il Male, fra la Legge e il Caos, ottenessero il Theorpart, esso finirebbe come minimo per corromperli e alterarli in modo da adattarli alla sua natura. Il suo possessore deve inevitabilmente diventare come colui a cui è legato, altrimenti il Theorpart seminerà soltanto rovina.» Gord inclinò il capo: «Rovina? E come?» «Il potere dell'oggetto scorre attraverso ognuna delle sue parti. Ognuna chiama l'altra, ognuna cerca di mettersi nelle mani di coloro che rispecchiano la sua nullità. Vogliono riunirsi, altrimenti porteranno distruzione a qualsiasi essere impedisca loro di farlo.» «Quindi, chiunque riceva dalle mie mani la Chiave Finale, sarà perduto, o io stesso seminerò la perdizione nel mondo intero!» Fu Vuron a rispondere. «Non esattamente. Ma le parole di Leda e la tua comprensione su questo argomento sono quasi perfette. L'oggetto dovrà e-
sistere sempre, e se le sue componenti rimarranno separate, ci saranno sempre tensioni e conflitti per l'influsso da esse esercitato. A una sola forza si può ricorrere, ora, per impedire la riunificazione delle varie parti, Gord di Falcovia, ma la scelta spetta a te. Non posso dirti altro.» «È una grossa tentazione: servirsi del male per sopraffare il male» mormorò Gord. Vuron non fece commenti, ma Leda gli si avvicinò e gli mise le braccia attorno alle spalle. «Anche il più grande e più saggio servo del Bene cederebbe a questa tentazione, Gord.» «Dunque se una qualsiasi fazione del Bene o del Male possedesse due parti, la terza sarebbe soggetta alle altre due, e l'oggetto si ricomporrebbe... Ma non esiste anche la forza dell'Armonia?» «Esiste davvero?» chiese Leda sottovoce. «No... Non riesco a ragionare correttamente» ammise Gord. «Coloro che tengono fede alla necessità del tutto e ricercano un equilibrio sono troppo deboli per opporsi agli altri, e verrebbero assaliti da tutte le parti, sia dal Bene sia dal Male. La Chiave cadrebbe ben presto in altre mani e sarebbe la catastrofe.» «Penso che dovresti distruggere quel maledetto coso, capitano» azzardò debolmente Barrel. «Magari esistesse quest'opportunità» esclamò Vuron con un'emozione che meravigliò tutti. «Neppure la più grande divinità potrebbe farlo impunemente. Tentare significherebbe il disastro, perché l'oggetto si ricomporrebbe mentre tutte le altre forze si disgregherebbero per reazione, e Colui Che Deve Dormire in Eterno si ridesterebbe!» «Soltanto il Male può possedere questi Theorpart» disse Gord, pieno di meraviglia, dopo aver finalmente compreso la verità. «Ognuna delle chiavi era in mano ai malvagi, sebbene nessuno lo sapesse... in quel momento.» «È giusto, Gord di Falcovia» confermò Vuron, con voce nuovamente inespressiva. «Ma soltanto il caos dell'Abisso cerca di mantenere separate le varie componenti, perché i signori della stirpe dei Demoni, orgogliosi e indipendenti, non intendono piegarsi a nessuno.» «Anche questa volta hai detto le cose come stanno» osservò Vuron. «Allora tu, Vuron, devi accettare la Chiave Finale!» Era un imperativo, non una domanda o un'affermazione. «Forse» rispose lentamente il Demone alabastrino e annuì, fissando Gord con gli occhi rossi. «Sì, forse. Ma anche chi è in possesso di un The-
orpart non può imporlo ad un altro se quest'ultimo non lo vuole.» «Mi stai dicendo che tu - e il tuo signore - non volete prendere possesso dell'oggetto?» «Sarei disposto ad averlo solo a certe condizioni, Gord di Falcovia. Per quanto riguarda il Mio signore, devo servirlo nel miglior modo possibile...» «Ma una parte è in mano alla Confraternita dei servitori del Diavolo, e l'altra la possiede Iuz! Se l'uno o l'altro dovesse impadronirsi della parte restante tutto sarebbe perduto!» «Esattamente, ma che differenza farebbe se anche la mia accettazione comportasse alla fin fine la catastrofe?» Per un attimo Gord fissò sconcertato l'essere pallido, poi chiese: «E le condizioni? Quali sono?» «Leda dovrà accompagnare la Chiave Finale. Dovrà seguirla come Eclavdra, Gran Sacerdotessa di Graz'zt. È questo che devi accettare, innanzitutto. Poi dovrai consegnarle spontaneamente il Theorpart, e lei ed Io ci allontaneremo con esso» disse Vuron, scandendo bene le parole. «Mai! Non consegnerò mai la mia amata all'Abisso!» Leda lo abbracciò e lo baciò teneramente, stringendolo mentre gli mormorava parole d'amore. L'attimo di dolcezza fu purtroppo breve; ad un tratto Leda parlò: «Ma devi, amore mio. Io lo voglio, perché altrimenti tutto Tarre verrebbe distrutto! È a questo che devi pensare, non a me o a te stesso. Il prezzo che dovremo pagare non è nulla, in confronto al risultato.» Gord la spinse via con furia incredula: «Che cos'è, un trucco da Demone, Vuron?» «Non c'è nessun inganno, Gord di Falcovia. Leda dice il vero. Nei panni di Eclavdra, un'Eclavdra che dentro di sé ha qualcosa di più dell'egoismo e della sete di potere, essa sola potrà mitigare la forza esercitata dalla Chiave Finale. Penso che il Mio signore accetterà un simile influsso, se è possibile un aiuto in questo frangente. Il possesso della Chiave Finale ci porterà molte pene, ma la mia speranza è che non porti alla completa distruzione del Mio signore o dell'abisso, se questa Drow Mi assisterà. Dovrà seguirMi, altrimenti Mi troverò costretto a rifiutare il Theorpart.» Per qualche minuto Gord rimase in un silenzio stupefatto, mentre la sua mente ribolliva nella ricerca frenetica di una soluzione diversa. Sembrò che Leda avesse intuito l'istante in cui si arrese. «Sai cosa devi fare, mio caro.»
«Sì, Leda, lo so» rispose il giovane. «La conclusione è inevitabile, e comprendo di doverla affrontare.» «Ti amerò in eterno, Gord, anche quando diventerò sempre più Eclavdra e sempre meno me stessa.» «Lo so...» «Allora devi fare come dice Vuron.» «Ma non sono ancora pronto a rinunciare a te! Abbiamo almeno il tempo di congedarci come si deve?» «No, amore, non c'è tempo. Neppure i poteri della Chiave Finale possono mantenere a lungo questa condizione statica. Se la Chiave non entrerà presto in mio possesso e io non mi consegnerò alle profondità dell'Abisso, la situazione tornerà quella di prima, con tutte le fazioni impegnate in una lotta spaventosa.» Allora Gord si chinò e le diede un lunghissimo bacio d'addio; sarebbe dovuto bastargli per sempre, e lo sapeva bene. Quindi indietreggiò, tenendo Leda per una spalla, e disse: «Sei libera di agire come preferisci, mia amata. Fai ciò che devi. Non mi opporrò alla tua decisione, qualunque essa sia, e ti consegnerò spontaneamente la chiave Finale». Non c'era emozione nella sua voce mentre pronunciava queste parole, né luce nei suoi occhi. Leda gli afferrò per un istante le mani, poi gliele lasciò lentamente, in un ultimo addio senza parole. «Sono pronta, Vuron» disse raccogliendo l'astuccio d'ottone. «Eclavdra, Gran Sacerdotessa e Campione di Graz'zt si dichiara vincitrice in suo nome e ti comanda di portarla da lui assieme all'oggetto del contendere!» Vuron non proferì parola, ma guardò Gord con quella che avrebbe potuto essere simpatia. Il suo sguardo si spostò su un punto non lontano da dove era seduto il giovane avventuriero mentre Leda-Eclavdra si poneva accanto a lui; i due scomparvero in assoluto silenzio. I compagni guardavano Gord sbalorditi, e nessuno osò parlare. Il giovane non se ne accorse; si sedette, chinò il capo e rimase a fissare silenziosamente il vuoto senza vedere nulla. Restò così per un tempo così lungo che gli altri avrebbero potuto crederlo morto se non fosse stato per il leggero respiro, a malapena avvertibile da quelli che gli stavano accanto. Alla fine Shade si sedette al suo fianco e gli parlò. «Hai agito da eroe, Gord. Parlo a nome di tutti, se ti dico che nessuno di noi avrebbe avuto lo spirito o la volontà di compiere un atto tanto coraggioso.» Il giovane sollevò il capo e volse gli occhi grigi verso il semi-Elfo, ma
Shade non riuscì a scorgervi nulla. Lo sguardo era inespressivo e non tradiva assolutamente ciò che si nascondeva nelle profondità della mente di Gord. Poi gli si avvicinò Barrel, in atteggiamento deferente: «La spada, capitano... l'ho trovata fra l'erba, e ho immaginato che presto ti sarebbe servita.» Gord accettò l'arma senza commenti, poi riabbassò gli occhi, ancora vacui nella maschera che era il suo volto. Gli altri rimasero in attesa mentre il cielo assumeva un colore plumbeo e iniziava a cadere una pioggerellina gelida. Gord non sembrava essersene accorto; il pomeriggio sarebbe stato lungo... e la notte ancora di più. Capitolo 26 «Che razza di posto!» disse Barrel in tono sdegnoso, facendo un gesto per indicare che l'osservazione si riferiva a tutta Dolle Port. «Mi pareva che venissi da qui, pancione» disse Dohojar con finta meraviglia di fronte all'espressione di disgusto del compagno. «Certo, certo» ammise Barrel, «le Terre dei Pirati sono il luogo in cui sono nato, come devono nascere tutti i bambini, ma sono cresciuto a bordo di una nave, ed è l'odore di salmastro e il sibilo del vento fra le sartie che desidero sentire, zoticone bruciato dal sole!» Fece una finta mossa irosa che neppure il Changa poté non interpretare come uno scherzo. «Barrel ha ragione» concordò Smoker. «Non ho mai visto una città sporca e squallida come questa. E tu che ne dici, Gord. Io sono pronto ad abbandonarla immediatamente, se tu sei d'accordo.» Anche Delver volle esprimere il suo consenso sulla questione: «Noi Nani non siamo noti per la nostra abilità di marinai, capitano, ma per quel che mi riguarda, sono d'accordo con Barrel: meglio un viaggio per mare che un'altra notte a Dolle Port.» A quelle parole Shade si mise a sghignazzare, e anche Post ridacchiò. «E allora abbiamo l'unanimità, Gord, perché noi due non possiamo non essere d'accordo» disse Post, a nome suo e del semi-Elfo. «Comunque la decisione spetta a te, perché ti abbiamo eletto nostro capo e nessuno ti ha ancora revocato l'incarico.» «Non ancora? Che cosa vuoi dire, Post?» «Per il suolo fiammeggiante dell'inferno, capitano!» esclamò l'uomo magro. «Non penserai mica che ti abbiamo dato la carica in permanenza?» Anche Gord non poté fare a meno di ridere a quelle parole. «Beh, ora
non so proprio che cosa fare» disse poi, in tono serio. «Ci sono diverse alternative...» «Niente affatto!» Barrel aveva parlato con grande decisione. «C'è un battello che parte domani per una crociera lungo le coste della Giungla Occidentale, ci manca soltanto il biglietto, e ci sono ancora posti liberi. Con un po' di fortuna torneremo tutti ricchi come i sovrani dei posti di cui Dohojar non fa altro che parlare. E anche se non faremo grossi affari, il padrone di quella nave, il Leone Marino Marrano mi sembra si chiami, mi ha rivelato di essere diretto allo stato del Principe Ulek, dopo aver finito con i selvaggi della giungla. Con le ricchezze che troveremo lì potremo...» «Basta così» disse Gord con un sospiro rassegnato. «Penso che un po' di navigazione sui mari di Tarre mi farà bene. Visto che voialtri avete già deciso, non posso far altro che adeguarmi. Per prima cosa domattina ci aggregheremo ai passeggeri del Leone Marino Sovrano» disse, rivolgendo un'occhiata furba a Barrel mentre lo correggeva. «Nel bene o nel male, domani pomeriggio solcheremo i mari come liberi mercanti.» Per un istante Barrel pensò di far notare che i veri marinai non consideravano la Baia di Giada un mare, anche se era uno specchio d'acqua piuttosto vasto. Ma poi disse gioiosamente agli altri: «Allora sarebbe meglio prepararsi, ragazzi. Se vogliamo partire domattina, stasera dobbiamo divertirci. Non vorrete mica salire a bordo della nave senza il mal di testa e il borsellino vuoto?» Tutti e sei riuscirono ad afferrare Gord da qualche parte e, a suon di spinte e strattoni, lo trascinarono verso le taverne che si trovavano accanto al molo. Barrel era il marinaio più esperto fra loro, e non era il caso di dissentire da un'opinione tanto colta. «Presto vedrò le vere meraviglie dell'oriente» disse Dohojar a Gord, che però non riuscì a capire se il Changa parlava seriamente o lo menava per il naso. Non era poi così importante; in pochi minuti il vino e i canti osceni gli avrebbero svuotato la mente. Il domani era domani, e non aveva senso sapere che cosa sarebbe accaduto, o conoscere la verità, per ora. Le prime luci dell'alba illuminarono come uno specchio la baia profonda di Dolle Port, e per qualche istante il vento si calmò, lasciando immobile la grossa nave sulla superficie marina. Poi il calore del sole nascente portò una brezza di terra e le vele dapprima sventolarono pigramente, quindi si gonfiarono. Il vento spinse al largo, verso sud, il Leone Marino Sovrano e in coperta l'equipaggio e gli ufficiali lanciarono grida di giubilo. Anche la nave sembrò fare un balzo per la felicità di dirigersi verso regioni e porti
lontani. Sulla banchina una figura solitaria, imbacuccata in un mantello, stava a guardare le vele color crema della nave, che si fece sempre più piccola fino a diventare una macchiolina scura, e poi sparì all'orizzonte. Allora voltò le spalle, si mescolò alla folla di passaggio e svanì. FINE