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IL LIBRO DEI MORTI VIVENTI (Book Of Dead, 1989) a cura di JOHN SKIPP & CRAIG SPECTOR Indice: Prefazione di George Romero Introduzione di Skipp & Spector Chan McConnell, Fioritura Richard Laymon, La mensa Ramsey Campbell, Fa meno male se canti Stephen King, Parto in casa Philip Nutman, Lavori sporchi Edward Bryant, Un triste ultimo amore allo Snack dei dannati Steve Rasnic Tem, Corpi e teste GlenVasey, Scelte Les Daniels, I pezzi migliori Douglas E. Winter, Meno di zombi Steven R. Boyett, Come cani di Pavlov Nicholas Royle, Sassofono Joe R. Lansdale, Nel deserto Cadillac con i morti Brian Hodge, Rischiamorto David J. Schow, Vermone e i figli di Jerry Robert R. McCammon, Mangiami A Tom Allen (1938-1988) Dio ti benedica, amico. Ovunque tu sia... RINGRAZIAMENTI Uno intuisce che gli è venuta un’idea quando vede accendersi dei via libera che diffondono il loro chiarore fino all’infinito. Questo libro, che è stato concepito sotto un portico in Pennsylvania un bel pomeriggio d’estate grazie a un miracolo di serendipità, e che tutto sommato avrebbe dovuto
rivelarsi piuttosto arduo da piazzare, è invece filato via liscio fino allo stadio finale senza alcun intoppo. Gli ci è voluto parecchio a venir fuori, e ci sono molte persone che vorremmo ringraziare; per la loro pazienza e il loro sostegno, per il loro entusiasmo e il loro professionismo, e, soprattutto, per la loro amicizia. Una serie speciale di ringraziamenti va certamente a Lou Aronica, Pat LoBrutto, Janna Silverstein, Robert Simpson, Susan Sherman, Katherine Schupf e a tutta la splendida gente della Bantam; ad Adele Leone e Richard Monaco, Mark Zeising, George e Chris Romero, Tom Savini, Everett Butler e Greg Nicotero, Dave Schow, Marcus Nickerson, Jesse Horsting e Midnight Graffiti, Richard Rubinstein, Salah Hassanein, TK & BAM, la banda di Fangoria, alle nostre pazienti famiglie, e a Lise Rogers, probabilmente la redattrice più benevola di tutta la storia umana. Vorremmo inoltre offrire un ringraziamento davvero speciale agli scrittori che hanno collaborato a questo libro. Ci hanno creduto alla grande e ci hanno dato fiducia. Infine, ed è proprio il minimo, vorremmo ringraziare coloro che (troppo numerosi per elencarli tutti) hanno partecipato alla creazione della trilogia cinematografica dei Morti Viventi; e i milioni di persone che a quegli zombi hanno dato un po’ del proprio cuore pur senza diventare come loro. Grazie, gente. Vi siamo debitori. E adesso comprate questo libro. PREFAZIONE di George Romero Fu nel 1967 che vidi il mio primo cadavere ambulante. Ero un regista squattrinato e insieme ad altri squattrinati che lavoravano nel cinema vivevo a Pittsburgh, Pennsylvania. Ricordo che una volta qualcuno mi chiese: “Se vuoi fare dei film, com’è che te ne stai a Pittsburgh? Cioè... non è che sia proprio Hollywood.” “No,” risposi, “non lo è neanche per idea. È proprio per questo che mi piace qui. E poi, Hollywood non è l’unico posto dove i morti possano camminare. Nossignore. In quelle occasioni rare e soprannaturali in cui i morti decidono di alzarsi e camminare, vanno in ogni dannatissimo posto in cui gli vada di andare.” Avevo visto cadaveri ambulanti nei fumetti dell’orrore degli anni Cinquanta della E.C. e nei film, ma non ne avevo mai visto uno in, be’... carne
e ossa. Almeno non fino a quella estate del ‘67. Quell’estate ne vidi moltissimi vicino a Evans City (sempre in Pennsylvania), a pochi chilometri da Marte. Io e i miei amici, i tipi squattrinati di cui dicevo prima, li riprendemmo per il cinema. Nella primavera del ‘68 quelle riprese furono mostrate al pubblico. È probabile che le abbiate viste. Le hanno viste in parecchi. I miei amici e io fummo (e lo siamo ancora) molto soddisfatti di come vennero accolte quelle riprese. Vidi camminare ancora i morti nel 1978. Li vidi camminare ancora una volta nel 1984. Ognuna di quelle volte, io li ripresi. E anche quei film, come il primo, furono proiettati in pubblico. Il pubblico - o almeno una certa parte di esso - sembra nutrire un certo interesse per i morti viventi. Non molto tempo fa stavo parlando con due amici, John Skipp e Craig Spector, che mi suggerirono che se i morti camminavano a Pittsburgh, probabilmente camminavano anche da altre parti. Dopo tutto, chiunque - o qualunque cosa - faccia camminare i morti non si sarà certo preso il disturbo di terrorizzare solamente gli abitanti di Pittsburgh. Questi avvenimenti tendono a essere qualcosa di più che semplici fenomeni locali. “Forse possiamo trovare delle storie di prima mano in altre parti del mondo,” dissero. “Se riusciamo a riunirne abbastanza potremmo pubblicare un libro. Un... Libro dei Morti.” Mi ricordai di una conversazione del 1968. “Vanno in ogni dannatissimo luogo in cui gli piaccia andare.” Ero stato proprio io a pronunciare quelle parole con tanta spavalda sicurezza? Oddio. Ero così giovane, allora, così ingenuo. Pronto ad ammettere che sapevo tutto dei morti. Pronto a ignorare le recriminazioni, le accuse della società. Ero anche orgoglioso di quello che stavo facendo, di ciò che dicevo. Allora i tempi erano diversi. Ah, gli anni Sessanta... Ma questi sono gli anni Ottanta. Gli Ottanta egocentrici, diventa-ricco-esembra-in-salute-a-tutti-i-costi. Certo, pensai. Certo, ci sono delle storie là fuori. Ci devono essere. Ma cercare di trovarle... sembrava quasi impossibile. Così dissi ai miei amici: “Forza. Se riuscite a trovare qualcuno che sappia qualcosa dei morti viventi... qualcuno che sia pronto ad ammetterlo, voglio dire... mi mangio il cappello.” Non credevo che John e Craig sarebbero riusciti a scovare qualcosa. Pensavo che ci fosse poca gente là fuori che fosse a conoscenza dei movimenti dei morti, e che quei pochi, temendo il ridicolo, probabilmente si sarebbero chiusi a riccio se fossero stati avvicinati. Sono stupito dalla lista dei necrofili che hanno deciso di apparire in questo volume. Mi spiace per
la derisióne cui questi spiriti coraggiosi rischiano di andare incontro per aver ammesso la loro conoscenza di cose oltre la tomba. Infatti so, per esperienza, che là fuori ci sono anche persone pronte a giudicarli pazzi o in lega con il Diavolo. Porgo i miei ringraziamenti a tutti coloro che hanno collaborato a queste pagine. Hanno rinnovato la mia fede e mi hanno fatto sentire... molto meno solo. Ho scelto un berretto di lana, oro e nero. Va bene se aggiungo un po’ di salsa di pomodoro? INTRODUZIONE Sullo spingersi troppo oltre o La narrativa dei divoratori di carne umana: nuove speranze per il futuro “Che cosa verrà fuori da questa gente convinta che La notte dei morti viventi non sia abbastanza?” Robert Bloch C’è sempre, come si dice, una frontiera successiva. La funzione del pioniere è quella di penetrare l’ignoto: di frugare luoghi inesplorati e di riferire quello che ha scoperto. Ogni progresso è basato sulla volontà di pochi di avventurarsi in territori sconosciuti, di esaminarli, di venire a patti con essi, e di renderli un luogo dove tutti possano vivere. Non è la posizione più invidiabile del mondo. C’è un vecchio adagio, preso dal vanaglorioso passato della nostra nazione: il pioniere è la persona con le frecce nella schiena. Scrutare la frontiera è affare pericoloso; la maggior parte della gente è felicissima di seguire le orme del pioniere. Una volta che la strada è battuta, ed è sicura da percorrere, si è ormai a portata di mano dai negozi più disparati e dagli insediamenti colonici, tutti freneticamente impegnati a saccheggiare e rivendere ciò che fino a poco prima era sconosciuto, rendendo la frontiera non più frontiera. Rendendola accessibile. Rendendola sicura. E quando l’ultimo pioniere si ferma di botto lungo il suo cammino, pianta il campo e si sistema per il resto dei suoi giorni, potete scommettere il vostro berretto di pelo che ci sarà subito qualcun altro laggiù per spingere un po’ più avanti la frontiera. Nonostante il gran vociare dell’opinione
pubblica sul fatto che è il momento di fermarci, che ci siamo già spinti anche troppo oltre, tante grazie adesso può bastare - o forse, paradossalmente, proprio a causa di questo - un altro pugno di spiriti intrepidi sentirà il prurito di andare a esplorare un po’ più avanti. Per espandere l’orizzonte. Per spingersi troppo oltre. “L’orrore è ciò che non siamo ancora riusciti ad accettare.” Ramsey Campbell Questo è un libro di storie di zombi. Non solo, è il più dannato libro di storie di zombi che abbiate mai visto. Potremmo anche arrivare a dire che questa può essere l’antologia più esplicita di racconti originali dell’orrore mai riunita. Abbiamo tutta l’aria di esserne soddisfatti vero? Spiacenti. Non possiamo farne a meno, per parecchie buone ragioni. Prima di tutto, per la qualità uniformemente ispirata e intimamente visionaria dei lavori qui raccolti. In secondo luogo, per il fiotto a prima vista interminabile di spuntoni agghiaccianti che gli autori ci hanno concesso: momenti fiammeggianti raggelati di terrore e di meraviglia che non dimenticherete nemmeno fra un milione di anni. Terzo, perché ci ha permesso di rendere omaggio ai film di George A. Romero, un pioniere folle, nella più classica delle tradizioni. Facendo scorrere il succo della sua sfacciata cosmologia attraverso i loro filtri personali, gli autori hanno soffiato ancora altro fuoco nel suo già vibrante paesaggio archetipale. Non è un’impresa da poco, questa. E quarto, perché noi, i Curatori, abbiamo dato una mano alla nascita di questo glorioso volume, facendo quindi la nostra parte per allargare ancora un po’ i confini della moderna narrativa dell’orrore. Tanto perché non abbiate dubbi, fino a poco tempo fa sembrava che il corpus della narrativa horror tradizionale avesse raggiunto i suoi limiti e fosse andata in pensione. Era più che contenta di curare i territori, di coltivare il fertile terreno scoperto da Lovecraft, Machen, Poe e James, per non menzionare Bloch e Matheson, Serling e Blatty, e sì, anche Stephen King. Questa non è, di per se stessa, una brutta cosa. Al mondo potrebbe accadere di peggio che subire una sovrabbondanza di visioni simili. Purtuttavia, il richiamo che aveva raggiunto loro continua a chiamare. Estendendo l’invito.
Questo libro non è che una risposta: un perfido servizio di rovescio verso l’aldilà, un missile scatenato e che nessuno può più richiamare indietro, una flotta di navi cerebrali nell’onorata tradizione di tutti coloro che sfidarono la terra piatta e la scritta “qui vi sono draghi”. Questo è un libro che si spinge troppo oltre, e che vi invita a seguirlo nel viaggio. “Gli zombi sono un incubo liberale. Ecco finalmente le masse, che tanto vorremmo amare, che si presentano alla porta di casa nostra con i visi che cadono a pezzi. Noi cerchiamo di mostrarci più umani possibile, ma loro si mettono a divorarci il gatto. E la paura dell’attività di massa, dell’irrazionalità su scala nazionale, spiega la mia paura degli zombi. “ Clive Barker Nel 1968, La notte dei morti viventi apparve per la prima volta sugli schermi americani. Girato in uno stridente bianco e nero, fra lo schizoide e il cinema vérité, questa sorprendente storia del filone “Il Giorno in cui l’Inferno incontrò la Terra” era una vera e propria scatola di Pandora di primizie cinematografiche. Mentre Sam Peckinpah stava facendo la sua parte per introdurre nel cinema l’era del massacro esplicito, facendo crivellare di colpi Ernest Borgnine ne Il mucchio selvaggio, Romero osò presentarci una coppia di giovani fidanzati e mandarli eroicamente verso il pericolo, solo per ridurli a frammenti fiammeggianti, lasciando poi che la cinepresa indugiasse su un branco di uomini e donne qualunque in decomposizione che divoravano le loro viscere croccanti. La notte dei morti viventi era audace sotto altri aspetti: aveva come personaggio principale un maschio di colore con una spiccata personalità, e con una astuta manovra evasiva riusciva ad aggirare la convenzione dell’horror del bene contro il male, sostituendola con l’equazione moralmente ben più ambigua e provocatoria dei vivi contro i morti. Ma forse, fattore assai più importante, La notte dei morti viventi era il primo film dell’orrore a dare forma al nascente timore che il Sogno Americano, così come lo conoscevamo, fosse morto. Adesso, naturalmente, La notte dei morti viventi è a pieno merito una leggenda, con una collocazione permanente al Museo d’Arte Moderna di New York e un angolino caldo nel cuore di tutti coloro che amano il fantastico più oscuro. Non ancora soddisfatto, Romero nel 1979 creò Zombi, il film che riuscì a transcodificare per sempre la sua concezione del mondo
nel sistema nervoso della cultura moderna. Da quel momento, la sua visione di un mondo invaso dai morti viventi divenne ben più di un’ingegnosa invenzione tematica: divenne un vero e proprio mythos contemporaneo, equivalente sotto ogni riguardo a quelli di Lovecraft, se non a quelli degli antichi, ed eternamente litigiosi, greci. Zombi fu anche il primo film a sfidare la temuta MPAA, rifiutando i tagli che lo avrebbero diluito in una versione classificata R, e rifiutando allo stesso tempo una X, il teschio con tibie che l’avrebbe messo alla pari di Gola profonda e di Debbie si fa Dallas. Fu fatto uscire, invece, senza classificazione, con un netto rifiuto di stare al gioco della censura. Questa scarsa attitudine al compromesso avrebbe condannato un film minore. Ma non c’era mai stato niente di simile alla cavalcata sen2a sosta di effetti truculenti che Romero scatenò con Zombi. Quando il pubblico cinematografico di tutto il mondo impazzì vedendolo, l’epoca dello splatter si poté considerare iniziata... E con essa, la battaglia per stabilire quando il troppo fosse veramente troppo. George Romero, Dio lo benedica, si era spinto troppo oltre. “L’esposizione eccessiva a immagini violente ci desensibilizza di fronte alla violenza. Visto che adesso occorre sempre più violenza per farci provare shock e repulsione, la violenza dei media deve diventare sempre vivida e dettagliata per ottenere il suo scopo. Siamo tutti drogati... e siamo prossimi a un’overdose.” Tipper Gore “La mia posizione è semplice: detesto l’orrore che ha come sua ultima finalità il vomito, sia sullo schermo che sulla carta stampata... i libri e i racconti e i film che ospitano scene di sangue e frattaglie fini a se stesse, al solo scopo di attirare il pubblico. Secchiate di immondizia. Fango di fogna spacciato per ‘intrattenimento’.” William F. Nolan “Sai di avere avuto successo quando hai fatto incazzare i tuoi genitori.” David J. Schow Non c’è dubbio che Zombi fosse desensibilizzante. Dopo due ore e diversi minuti (a seconda della versione che vedete) di teste che esplodono e di viscere tremolanti, diventava terribilmente difficile preoccuparsi dei
non-più-umani e dei loro violenti au revoir. In un certo senso, è il definitivo colpo disumanizzante, perché non ci si può più permettere di considerare persone questa gente azzurro-verdognola. Non lo sono più: sono cose morte che si trascinano per mangiarti. Ritenerle qualcosa di più corre il rischio di essere fatale. Il senso di disumanizzazione non è lasciato minimamente al caso. Ma ci sono anche momenti di una riumanizzazione intensa e perversa che turba profondamente. Un esempio evidente è contenuto nella terza (e al momento ultima) intrusione di Romero nell’universo degli zombi: Il giorno degli zombi del 1985. Per la precisione, la sequenza dove la scienziata, Sarah, è costretta ad amputare il braccio del suo amante morso da uno zombi, nel disperato tentativo di fermare l’infezione prima che lo uccida. A questo punto, le gradazioni di orrore sono molte; potete determinare la vostra soglia di tolleranza tramite quella che vi colpisce maggiormente. E il momento in cui il machete penetra nel braccio di Miguel (e ci vogliono numerosi insopportabili secondi perché seghi l’osso)? Oppure quando finalmente il braccio si stacca, e poi piomba sul pavimento in un modo decisamente orribile? O forse la scena che appare qualche secondo dopo, quando lei solleva la torcia fino al moncherino gocciolante, dando il via a una cauterizzazione con tanto di sfrigolii? Tutto ciò accade al primo grado, al piano terra dell’essere. E paura come semplice fatto biologico: carne che si arrende alle leggi della fisica. Di per sé, si tratta di una sequenza sicuramente spaventosa, la quale gioca sul fatto che se si vuole si può distogliere lo sguardo... però la cinepresa non si distoglierà per voi. Ma, come fanno in fretta a mettere in luce i critici alla scoperta dell’acqua calda, la semplice carnografia è facile. Basta solo fissare lo sguardo sulla cosa disgustosa in movimento, e non serve andare oltre. Dio solo sa quanto il cinema sia pieno di melma vuota e di vomito indifferente, cose prive d’amore e di significati come le evoluzioni della diva porno del momento o il cunnilingus del giorno. Ma questo ci porta al secondo grado, dichiarato sulle facce sconvolte di coloro ai quali questo orrore sta capitando. C’è l’orribile urlo di comprensione che lancia Miguel, caratterizzato da un dolore e da una perdita ben oltre la semplice fisicità del momento; c’è il momento di tensione quasi letale nello scontro tra il messicano e gli uomini di Rhodes, che lo vogliono distruggere, e quelli di Sarah, che stanno combattendo per salvargli la vita.
E poi abbiamo l’indescrivibile sofferenza sul volto di Sarah nel finale, quando la sua calma mantenuta rigorosamente scompare. Ancora: di per sé, questo sarebbe già abbastanza forte e, come i critici dell’acqua calda fanno in fretta a mettere in luce, sarebbe proprio il limite a cui ci dovremmo fermare. Andare oltre sarebbe voler strafare, degradarsi al pozzo di rifiuti del facile sensazionalismo. Ma i difensori della scuola dell’orrore dove il meno significa di più sono specialisti nell’arte di distogliere gli occhi, e il loro modus operandi tende verso un tipo di paura più irrazionale. Preferiscono con insistenza che l’ignoto rimanga ignoto, il terrore obliquo e introspettivo di uno struzzo con la testa nella sabbia. Conducono l’assioma “ciò che non conosco non può farmi del male” alla sua logica conclusione: “non ho neanche visto cosa mi ha colpito”. Si tratta, con tutto il rispetto dovuto, della più banale delle evasioni. E questo ci porta al terzo livello: il livello della gestalt, della fusione e della reintegrazione. A questo punto, non è più possibile il distacco; lo sconosciuto è diventato tangibile e fin troppo reale, ben più di un semplice accenno o di una presenza invisibile. Si può vedere il buco umido e il moncherino carbonizzato, sì; ma oltre a quello - e in un collegamento vitale, viscerale - si può scoprire come ci si sente a farne parte. Questa è l’essenza della frontiera dell’orrore: la carne che incontra la mente, con l’anima che urla come una testimone onnisciente. E il punto dove la vera illuminazione diventa possibile: non da una parte o dall’altra, ma da entrambe, e anche oltre. Non occorre sacrificare l’una per salvare l’altra. Un simile sacrificio è molto peggio che inutile. Andare troppo oltre significa arrivare molto più vicini ad avere tutto; e in tempi pericolosi come questi, abbiamo davvero bisogno di tutto per sopravvivere. “Dovete scegliere: Non volete vedere (percepire) niente, o volete vedere le cose come realmente sono? Non è difficile vedere le cose quali sono realmente, basta solo abbattere i muri, liberarsi di difese e presunzioni, diventare vulnerabile, un idiota, un folle. Ma non è facile vedere le cose quali sono realmente, perché è doloroso, è reale, richiede una risposta, è un impegno incredibile. Percorrere nove decimi della strada vuol dire soffrire ogni istante fino al-
la pazzia. Percorrere tutta la strada vuol dire diventare sani di mente. Quasi tutti preferiscono la cecità. Ma quasi tutti sono una razza morente.” Paul Williams Siamo una cultura intrisa di violenza. Prendete il giornale. Accendete la tv. Guardate fuori dalla finestra. Morte e brutalità insensata hanno permeato ogni aspetto delle nostre vite a tal punto che non vi sono vie di fuga, non rimangono luoghi dove nascondersi. E mentre la violenza di per sé non è sicuramente qualcosa di nuovo, non sarebbe certo azzardato affermare che durante il ventesimo secolo una buia, distorta componente dello spirito umano è maturata. E così facendo, ha dato vita a una distorsione radicale nella natura dei Valori Assoluti che riguardano la vita così com’è. Quando il primo gas venefico soffiò nelle trincee del Belgio e della Francia, qualcosa di fondamentale cambiò. Quando furono accesi i primi forni ad Auschwitz e le prime nubi a fungo sbocciarono sopra Hiroshima e Nagasaki, la distorsione aumentò. Quando guardammo Jacqueline Kennedy sporgersi sul sedile posteriore della limousine presidenziale per agguantare i pezzi volteggiami del cervello di suo marito, qualcosa si distorse ancora di più. Quando fummo costretti a ingurgitare a forza napalm e cadaveri a colazione, pranzo e cena, grazie ai telegiornali e alla necessità di informare il pubblico, qualcosa cambiò. Quando popoli oppressi manifestarono nelle strade o furono condotti al massacro, quando divenne fin troppo chiaro che i nostri impavidi capi di governo erano molto spesso affaristi con facce di bronzo che ci vendevano in nome di sporchi profitti, quando dei fanatici assassini che ascoltavano i Beatles squartarono Sharon Tate e il suo figlio non ancora nato, inaugurando un’epoca di Khmer Rossi e di massacri in serie compiuti da semplici cittadini, di omicidi mordi-efuggi e di stupratori disoccupati, di sequestri e di gambizzazioni, di squadre delle morte e fosse comuni... Qualcosa si distorse. E continua a distorcersi, nei venti del cambiamento. Vista in questa luce, l’affermazione di Tipper Gore assume una piega piuttosto comica. Lei afferma che stiamo per subire un’overdose di violenza, come se la violenza fosse qualcosa di nuovo o come se il processo di overdose fosse di per sé una cosa negativa. Quasi a voler suggerire che, se smettessimo semplicemente di guardarla - dicendo magari no - questo
massacro collettivo finirebbe con lo sparire, o almeno si ridurrebbe a un livello più “ragionevole”. È un’ipotesi abbastanza ragionevole, con un solo piccolo punto negativo. Non funziona. Non ha mai funzionato. E non funzionerà mai. Forse perché culturalmente abbiamo già visto anche troppo e non sappiamo più cosa fare, siamo ormai disorientati. Le vecchie mappe si sono sbriciolate ai bordi; nuovi orizzonti si aprono dove prima c’erano solo foschia e tenebra. La corrente che ci trascina si sposta prima ancora di averci lasciato il tempo di adattarci all’ultimo maroso che ci ha colpiti, e non sappiamo più a che punto ci troviamo. È comprensibile, in epoche come questa, il desiderio di scavarsi una tana sicura: di sbirciare verso il vecchio orizzonte e di dare qualche occhiata oltre, per vedere che cosa ci aspetta. Se qualcosa può aiutarci a capire fin dove ci siamo spinti oltre il bordo, ciò consiste nel fare ciò che i pionieri hanno sempre fatto. Spingersi ancora più oltre. Finché non avremo percorso tutta la strada. “Non so come voi giudichiate la mia missione di scrittore, ma per me non ha nulla a che fare con la responsabilità di rinsaldare i vostri miti concretizzati e i vostri pregiudizi provinciali. Non tocca a me cullarvi nella falsa sensazione che l’universo sia giusto così com’è. Questa mia magnifica e terribile occupazione di ricreare il mondo in un modo diverso, ogni volta strano e inusitato, è un atto di guerriglia rivoluzionaria. Io agito le acque. Vi metto a disagio. Vi faccio colare il naso e vi inumidisco gli occhi.” Harlan Ellison Il che ci riconduce al libro che avete in mano. Ciò che avete in mano è un mondo di dolore: una bomba psichica al neutrone mascherata da raccolta di storie di zombi, capace di vaporizzare le convenzioni di un genere narrativo lasciandone intatti il terrore e la gloria. Avete in mano un universo di cupe possibilità, ricolmo di tutte le speranze e l’umanità che un luogo simile può sopportare. Non c’è male per un libro di storie di zombi. Gli autori qui ospitati hanno risposto al nostro invito con un entusiasmo che ci ha al tempo stesso sbalorditi e rallegrati. Abbiamo chiesto le loro visioni più intense. Ma non ci aspettavamo il livello di intensità che ci ha
raggiunti, una storia dopo l’altra. E successo così, in modo inaspettato... in modo così forte e personale da farci intuire che avevamo toccato una corda molto sensibile. Tutti sanno qualcosa del mondo dei morti che camminano. Questo è il nostro modo di sondare i confini, di penetrare l’ignoto, di trarre un senso dall’insensato e dal ripugnante. Vi è stato offerto da un pugno dei più arditi pionieri che questo mondo abbia mai prodotto, individui che sono andati oltre il bordo e che hanno ancora le frecce nella schiena a dimostrarlo. Non stenderemo schede personali o liste dei loro successi fino ad oggi; quando leggerete queste pagine, avranno già identificato nuove piste da seguire. Leggete questa gente. Leggete ogni maledetta riga che hanno scritto. Non scrivono per il puro gusto di farlo. Ognuno di loro, a modo suo, ha cercato di spingerci verso la comprensione: la causa più nobile a cui un essere umano possa dedicarsi. Se vogliamo riuscire a sollevarci al di sopra di questo incubo, prima dovremo metterci in pace con il mostro dentro noi stessi: quella maledetta cosa morta che ci farebbe a pezzi e ci divorerebbe vivi, senza stare a chiedersi il perché. Noi tutti, gli abitanti della seconda metà del ventesimo secolo, camminiamo sulla lama di un rasoio. Una nuova era oscura ci chiama da un lato. Un nuovo rinascimento ci fa cenno dall’altro. Se esiste una speranza per il futuro, deve senz’altro fondarsi sulla capacità di fissare senza batter ciglio il cuore delle tenebre. Per poi dirigere la prua verso un posto migliore. E prepararsi. A spingersi troppo oltre. Skipp & Spector York, Pennsylvania, 1989 IL LIBRO DEI MORTI VIVENTI FIORITURA Chan McConnell “Ognuno di noi ha il suo momento,” le disse Quinn. “L’attimo in cui brilliamo, quell’istante in cui siamo al meglio di noi stessi. Così come ognuno di noi possiede un’aberrazione, un segreto nascosto. C’è chi la
chiama perversione, anche se è una parola troppo cruda. Rozza. Vaga. È una perversione fare la cosa nella quale si riesce meglio, trarre piacere da quell’istante unico?” Amelia annuì vagamente, osservando l’uomo più anziano attraverso il vetro del suo bicchiere di Sauvignon Blanc. Si sarebbe risposto da solo a quella domanda ottusa, e ovviamente aveva già deciso che la risposta sarebbe stata no. Erano le chiacchiere che precedevano il morso... lei era disposta a farsi scopare quella sera oppure no? Anche Amelia era sicura di aver già risposto a quella domanda nella propria mente. La cena era costata novantacinque dollari, senza contare il vino e la mancia. Il dessert era stato costoso, ricco di cioccolato e di calorie, elegante. C’erano stati tassi e piccoli doni. Amelia lavorava da nove mesi nell’ufficio Approvazione Prestiti della Columbia Savings Bank, occupandosi della ricezione dei clienti. Uomini più vecchi di lei la invitavano spesso fuori. Quando era toccato a Quinn invitarla a cena, per la sera di un fine settimana, lei aveva consultato la scheda personale di lui, dato una scorsa alle cifre che lo riguardavano, poi aveva accettato. Tutte le ragazze dell’ufficio lo facevano. Quinn guidava una Jaguar XJS e lavorava nel settore immobiliare. La parte relativa alla cena era terminata due ore prima. Adesso lei era a casa sua. Quando il reddito di un uomo supera i nove zeri, non si può parlare di violenza sessuale al primo appuntamento. Amelia soffriva di herpes, ma quella sera era inattivo. Meglio tacere al riguardo; era una specie di compensazione. Per quanto ne sapeva, lei era sicura di non essere mai finita a letto con bisessuali o consumatori di droghe pesanti, e a voler essere sincera il suo timore di contrarre PAIDS era abbastanza simile alla paura vaga di finire sotto le ruote di un autobus a un incrocio. Poteva succedere, certo. Ma probabilmente non sarebbe successo. Non esisteva nessun modo che permettesse ad almeno uno di loro due di infilarsi un preservativo sulla bocca, quindi il quesito era accademico. Giusto? Gli occhi grigi e acquosi di Quinn luccicavano mentre continuava a blaterare di aberrazioni e di momenti speciali. Probabilmente era stata colpa del vino. Amelia l’aveva avvertita una mezz’ora prima, una specie di nube calda e torpida nella quale aveva cominciato a galleggiare, con la possibilità di escludere la voce di Quinn pur continuando a fissare un punto dietro la sua nuca, di annuire col capo e di produrre leggeri suoni che dimostravano il suo interesse e gli facevano credere che lei lo stesse ascoltando per davvero. Aveva staccato i contatti e si sentiva magnificamente. Fece un re-
spiro profondo, languido, tenendo sempre il viso di Quinn dietro il suo bicchiere, e soffocò una risatina che le stava crescendo dentro. Oh Dio santo, si sentiva benissimo, alla deriva su una nuvola di cellule cerebrali esilarate. Nello stesso modo sarebbe riuscita a guardarlo in faccia, o anche attraverso la testa, quando lui le fosse saltato addosso sudato e rantolante, convinto di averla sedotta... proprio come adesso era convinto che lei gli prestasse attenzione. Riavvolse mentalmente il nastro fino all’ultima frase che si era presa il disturbo di ricordare e partì da quella. “Anch’io ho un’aberrazione,” disse. Aggiunse un radioso sorriso e giocherellò con una ciocca di capelli ramati. Con aria adorabile. L’interesse di Quinn si risvegliò di colpo, fin troppo ansioso. “Sì? Davvero?” Posò subito il suo bicchiere sull’immacolato ripiano sintetico del tavolo e si sporse in avanti per invogliarla a proseguire. Amelia giocò con lui come con un pesce gatto attaccato all’amo. “No. È una cosa sciocca, veramente.” Guardami le gambe, ordinò. Attraverso il tavolo trasparente lui la guardò accavallare le gambe. Il fruscio delle calze gli imporporò il viso. Il cervello di Quinn era eccitato, cominciava già ad anticipare i tempi, pregustando l’attacco. “Per favore,” disse. La sua voce era talmente perbene, il suo tono talmente paterno. Iniziava a perdere il controllo, e lei poteva quasi fiutarlo. Amelia conservò il sorrisetto sbarazzino e leggermente intimidito con cui sapeva benissimo dove andava a parare. “Va bene. D’accordo.” Si alzò; era una trentaquattrenne dal corpo snello ed esile, una donna che aveva lottato duramente per conservare ciò che era suo e che ora non aveva nulla da esibire come risultato dei suoi sforzi all’infuori di uno stupido lavoro da deficiente alla Columbia Savings Bank. Tanta amarezza, sotto i modi squisiti e i cosmetici. Sopra un tavolino antico accanto al camino c’era un vaso allungato con un mazzo di iris. La luce del fuoco ammorbidiva tutto il cristallo e il cromo scandinavo della stanza, e danzava contro le finestre avvolgibili che si aprivano dal pavimento al soffitto del nido di Quinn al settimo piano. Lui tenne gli occhi puntati su di lei. Il fuoco danzava anche nelle sue pupille. Con gesti leziosi, Amelia addentò il delicato chiffon di una corolla di iris. Masticò. Inghiottì. E sorrise. Il viso di Quinn si gonfiò di piacere. I suoi occhi da vecchio si fecero più lucidi. “Lo faccio fin da quando ero bambina,” disse lei. “Forse perché avevo
visto il mio gatto, Sterling, mangiare l’erba. Mi piace il sapore. Non so. Un tempo pensavo che la vita del fiore si aggiungesse alla mia.” “E questa è la tua...” Quinn dovette schiarirsi la voce. “Aberrazione. Ah.” Lasciò la sedia per accorciare le distanze. Divenne evidente che l’erezione lo rendeva goffo. Gli occhi di Amelia si abbassarono per prenderne nota, perplessi, poi lei mangiò un altro fiore. Si era premurata di dire a Quinn che le piaceva avere molti fiori intorno, e la sua Gold Card non aveva mancato di entrare in azione. L’intero attico era pieno di rose dal gambo lungo, mazzi di garofani, crisantemi, rododendri e fiori di ogni genere. La vista di Amelia che masticava i fiori per Quinn era così erotica da chiudergli la gola. La voce gli si fece roca e ripeté il nome di lei. Ormai era pronto a lanciarsi. “Lascia che ti mostri la mia specialità. Cara Amelia. La mia aberrazione.” Era già stata legata altre volte. Fin qui, nulla di speciale. Quinn si servì di sciarpe di seta per assicurarle i polsi e le caviglie alle colonnine di mogano del letto matrimoniale. Con un lungo coltello ricurvo dal manico in ebano le aprì il davanti del vestito. Fra le alture color vaniglia dei suoi seni bofonchiò promesse di indumenti ben più raffinati. Le mani persero ogni sofisticata delicatezza e si fecero bramose, lacerando il collant fino alle ginocchia con gesti rapidi e brutali e annaspando per verificare se lei era bagnata almeno quanto le sue fantasie. Poi la penetrò. Amelia cominciò a sussultare e finse un orgasmo. Se la sarebbero cavata in fretta. Niente di speciale. Lui si ritirò, ancora turgido, dicendo: “Non avere paura.” Lei era stata sul punto di addormentarsi. Si aspettò che lui riprendesse il coltello, per sfiorarle i capezzoli con la lama tagliente come un rasoio o titillarle le terminazioni nervose con qualche finta minaccia. Invece, Quinn aprì uno scomparto nella testiera e ne estrasse una maschera di gomma adorna di fibbie, borchie e lucenti cerniere dorate. Poco ci mancò che lei scoppiasse a ridere. Invece finse di protestare. La maschera le avvolse la testa come un guanto robusto, troppo stretto. Era come restare con la testa bloccata in un pullover, solo che quel materiale non era affatto poroso. I suoi polmoni provarono una breve fitta di panico mentre la maschera le veniva calzata interamente, lasciandola a respirare soltanto dalle fessure per il naso e la bocca. Poi Quinn riprese a muoversi dentro di lei, questa volta con un ritmo più affrettato. Si interruppe solo per sigillare i buchi della maschera.
La paura le sbocciò a dismisura nel petto, diventando una palla di fuoco. Riuscì ad aspirare un’ultima boccata d’aria prima che lui chiudesse la fessura per il naso e sprecò fiato biascicando suoni incomprensibili contro il foro per la bocca già richiuso. Adesso non poteva più dirgli del suo difetto polmonare congenito, che a volte per lei respirare era una fatica vera e propria. Quando il tempo era cattivo, lei doveva fare ricorso a medicinali per respirare. Per tutta la cena non si era presentato un solo motivo per parlarne. Erano stati troppo occupati con le aberrazioni, i momenti importanti e i fiori da mangiare... Ora non avvertiva altro che una lenta esplosione nel torace e i colpi ritmati di Quinn, avanti e indietro. Incominciò a inarcarsi e a dibattersi, e Quinn adorò ogni istante di quella resistenza, continuando a martellare dentro di lei nonostante la sua lubrificazione si fosse interrotta bruscamente. La frizione scomparve quando lui venne dentro di lei. Ansimando, Quinn si diresse curvo verso il bagno. Quando ritornò, Amelia non aveva ancora cambiato posizione e lui si accorse finalmente che aveva smesso di respirare. A volte andava così, pensò. Il prezzo della vera passione, per quanto aberrante. Ma lei era ancora umida e in posizione, quindi lui optò per un’altra cavalcata. Sbuffò sorpreso quando lei cominciò a contorcersi di nuovo sotto di lui. Molto meglio così, pensò, e con un aahhh di piacere si rimise a stantuffare rapidamente. Allora era soltanto svenuta... A volte succedeva anche questo... un orgasmo poderoso le mandava in tilt per un po’ di tempo. Adesso si sarebbe risvegliata con una voglia matta in corpo e avrebbe goduto fino a farsi saltare quel suo cervellino da segretaria. La mascella di Amelia si contorse in una posizione impossibile e morse il muso della maschera dall’interno, producendo uno squarcio nella gomma. Una goccia del sudore di Quinn cadde sul sangue che le macchiava i denti e si mescolò al vomito che le riempiva la gola, e prima che Quinn potesse dare un senso a ciò che credeva di vedere, Amelia gli staccò il naso con un morso. Nella breve frazione di secondo che precedette il dolore, Quinn pensò a quella notizia idiota ascoltata per caso durante un notiziario. Aggressioni cannibalistiche lungo la costa atlantica. Uno scienziato rimbecillito aveva sostenuto che i morti tornavano in vita e mangiavano la gente. Erano tutte stronzate da Grande Mela. Tuttavia nella mente di Quinn passò come un lampo il pensiero che Amelia gli aveva staccato il naso con un morso, e
ora lo stava masticando e ne inghiottiva i frammenti. La gola gli si riempì della spuma rosea del sangue inalato. Emise un suono gorgogliante cercando di tirarsi indietro, di allontanarsi da quella fottuta maniaca, ma lei stava esercitando una stretta mortale sulle sue parti basse. Allora Quinn riuscì a urlare, e lo fece perché sentiva l’anello dei muscoli vaginali che aumentavano la loro pressione chiudendosi intorno alla circonferenza del pene eretto. Più lui cercava di venirne fuori, più la sua erezione cresceva. Aveva sentito di uomini rimasti intrappolati dentro bottiglie nello stesso modo. Non si può comprimere un liquido. Il sangue era un liquido. La sua erezione incrementata dal panico era imprigionata senza vie di uscita. Si dimenò ferocemente sul letto, mentre il sangue schizzava dalla caverna sul suo viso. Cominciò a colpire Amelia con entrambi i pugni, ma lei non poteva più sentire nulla. Quando lui sentì il muscolo mozzargli il pene come un filo di acciaio, si mise a urlare con voce roca. Nessuno dei suoi vicini ci avrebbe badato. Strani giochetti e aberrazioni erano un menu ordinario in casa Quinn. Improvvisamente libero, rotolò all’indietro. Il sangue sgorgò, rovinando la moquette e sprizzando dal suo inguine. Guardò il mozzicone della sua virilità ancora eretta svanire nel pertugio rosso fra le gambe di Amelia, sopraffatto dalla vista di quel frammento ingoiato dall’orifizio che glielo aveva staccato con un morso. Quinn cadde sul pavimento e continuò a urlare finché la catatonia non ebbe il sopravvento. Amelia impiegò mezz’ora per rosicchiare i suoi legami. Trascorse un’altra ora e mezza a divorare Quinn. Durante il suo pasto la vita lasciò il corpo dell’uomo, e le bizzarre radiazioni menzionate nel notiziario svolsero la loro opera aliena. Ma per allora non restava abbastanza del cadavere perché potesse alzarsi, o camminare, o divorare qualcun altro. I pezzi rimasti si contrassero sul pavimento, avvertendo le fitte di una nuova fame aliena e insaziabile. Ciò che restava del vestito di Amelia scivolò a terra. Con andatura incerta, vacillante, rientrò nella stanza dove avevano bevuto vino bianco quando erano stati ancora vivi. Brandelli di un comportamento precèdente sfilarono attraverso la materia morta del suo cervello, evaporando per l’ultima volta. Amelia cominciò a mangiare i fiori nei vasi, senza alcuna fretta di iniziare la sua peregrinazione notturna. I fiori erano vivi, ma morivano a ogni istante che passava. La loro vita poteva diventare sua. Quando smise,
tutti i mazzi erano stati spogliati. Alla fine Amelia riuscì a raggiungere la porta e uscì nel mondo alla ricerca di altri appartenenti alla sua specie neonata. Non sarebbe mai più stata così bella. Quello era il suo momento, proprio come aveva detto Quinn. Si fuse con le ombre, splendida figura nuda dalla pelle lattea con petali di fiori che le sfuggivano dalle labbra... ocra, malva, rosso vivo. LA MENSA Richard Laymon Jean non udì passi. Gli unici rumori intorno erano lo scorrere del ruscello, i propri gemiti e il respiro ansante di Paul mentre la penetrava. La prima cosa che udì di quell’uomo fu la voce. “A me sembrano atti osceni in un parco pubblico.” Il cuore le si fermò di colpo. Oh Dio, no. Con l’occhio sinistro scorse la forma indistinta dell’uomo accucciato al suo fianco sotto la luna, a meno di un metro. Alzò lo sguardo verso il viso di Paul. Aveva gli occhi spalancati per la sorpresa. Non può essere vero, si disse Jean. Si sentiva completamente indifesa e impotente. Non che quel tizio potesse vedere qualcosa. Solo le natiche nude di Paul. Non poteva vedere che la camicetta di Jean era slacciata, il suo reggiseno aggrovigliato intorno al collo, la gonna sollevata intorno alla vita. “Sapete che è contro la legge?” chiese l’uomo. Paul tolse la lingua dalla bocca di Jean e girò la testa verso l’uomo. Jean sentì il suo cuore accelerare i battiti, il suo pene raggrinzirsi dentro di lei. “Per non parlare del fatto che è di pessimo gusto,” aggiunse l’uomo. “Non facevamo nulla di male,” disse Paul. E fece per alzarsi. Jean gli piantò i piedi contro le natiche e gli strinse le braccia intorno alla schiena. “E fosse passato di qui qualche bambino?” chiese l’uomo. “Siamo spiacenti,” gli disse Jean continuando a fissare Paul, perché non osava guardare di nuovo l’uomo. “Ce ne andremo.” “Salutatevi con un bacio, allora.” Sembrò una richiesta bizzarra.
Ma Paul obbedì. Premette dolcemente la bocca contro le labbra di Jean, e lei si domandò come avrebbe fatto a ricoprirsi perché era ovvio che, non appena terminato il bacio, Paul si sarebbe alzato. E lei sarebbe rimasta praticamente nuda. In seguito, capì che era stato un fucile da caccia. Non aveva visto un fucile, ma in fondo aveva dato all’uomo solo una rapida occhiata. Paul la stava baciando e lei si interrogava sul modo migliore per impedire all’uomo di vederla, quando improvvisamente la cosa non ebbe più alcuna importanza, perché il mondo esplose. Gli occhi di Paul schizzarono fuori dalle orbite e le caddero in faccia. Lei girò di scatto il capo per evitare quel contatto, ma lo girò dalla parte sbagliata. Vide la massa molliccia colpire il tronco di un albero vicino illuminato dalla luna, vide un orécchio restare attaccato per un istante alla corteccia, e poi cadere. La testa di Paul le crollò pesantemente su un lato del viso. Un torrente di sangue la accecò. Jean cominciò a urlare. Il peso di Paul le scivolò di dosso. L’uomo le mollò un calcio al ventre, poi la sollevò, se la gettò su una spalla e si mise a correre. Jean ansimava, cercando di respirare. Il calcio le aveva mozzato il fiato e ora la spalla dell’uomo continuava a premerle contro l’addome. Le sembrava di stare annegando. Solo un remoto angolo della sua mente conservava una scintilla di lucidità, e lei sperò che si spegnesse. Meglio il buio totale, meglio non avere più coscienza di nulla. L’uomo smise di correre. Si chinò, e Jean scivolò all’indietro. Andò a urtare contro qualcosa di metallico. Accanto a lei c’era un parabrezza inargentato dalla luna. Era stata scaricata sopra il cofano di un’auto. Le sue gambe penzolavano sopra il muso della vettura. Tentò di sollevare la testa. Non ci riuscì. Così rimase distesa là, sforzandosi di inspirare un po’ d’aria. L’uomo tornò indietro. Si era allontanato? Jean sentì di aver perduto un’occasione per mettersi in salvo. Lui si sporse sopra di lei, agguantò i lembi della camicetta aperta e la sollevò in posizione seduta. Le chiuse un anello di un paio di manette intorno al polso destro, le fece passare l’altro anello sotto il ginocchio e lo fece scattare intorno al polso sinistro. Poi la sollevò di peso dal cofano, la scaricò sul sedile del passeggero e sbatté la portiera.
Dal parabrezza, Jean lo vide correre via. Sollevò il ginocchio. Si colpì il mento, ma riuscì a far scivolare la catena delle manette lungo la caviglia e sotto la suola della scarpa da ginnastica. Afferrò la maniglia della portiera. La piegò verso l’alto e premette la spalla contro la portiera per uscire, ma la sua testa venne tirata all’indietro con un dolore lancinante, come se i capelli le venissero strappati dallo scalpo. La testa compì un mezzo giro, e lo zigomo andò a colpire il volante. Una mano le strinse la nuca. Un’altra le afferrò il mento. Poi l’uomo le sbatté più volte il viso contro il volante. Quando riaprì gli occhi, aveva la testa posata in grembo all’uomo. Sentì che una mano le palpeggiava il seno. L’auto correva veloce. Dal suono del motore e dal sibilo delle gomme sull’asfalto, capì che erano sulla superstrada. Le luci stradali spandevano un debole luccichio argenteo sul viso dell’uomo. Lui abbassò gli occhi per guardarla e sorrise. L’identikit che la polizia aveva fatto circolare non gli rendeva giustizia. Aveva i capelli corti a spazzola, certo, e anche due strani occhi spiritati, ma il naso era un po’ più grosso, e le labbra molto più carnose. Jean fece per alzare la testa. “Rimani immobile,” l’ammonì lui. “Se muovi un solo muscolo, ti faccio saltare la testa.” Scoppiò a ridere. “Hai visto cos’è successo al cervello del tuo amichetto? Hai visto come è andato a sbattere contro quell’albero?” Jean non rispose. Lui la pizzicò. Lei digrignò i denti. “Ti ho fatto una domanda.” “Ho capito,” disse lei. “Splendido, eh?” “No.” “E i suoi occhi? Non avevo mai visto niente di simile. Questo dimostra cosa può fare un calibro dodici a un uomo. Sai, non avevo mai ucciso un uomo prima. Solo creaturine dolci come te.” Come me. Non giunse come una sorpresa, e non vi fu shock. Lo aveva visto assassinare Paul. E ora contava di uccidere anche lei... così come aveva ucciso le altre. Forse non le uccide tutte, pensò. Solo un corpo era stato ritrovato. Tutti parlavano come se il Mietitore avesse ucciso anche le altre sei, ma in realtà erano soltanto scomparse. Forse porta le donne da qualche parte e le tiene prigioniere là.
Ma ha appena detto che uccide creaturine dolci. Ha usato il plurale. Le ha uccise tutte. Ma forse no. Forse vuole solo spaventarmi e tenermi tranquilla e magari troverò una via di uscita. “Dove mi stai portando?” gli chiese. “In un posticino isolato sulle colline, dove nessuno potrà sentirti urlare.” Quelle parole la fecero rabbrividire in tutto il corpo. “Oh, la pelle d’oca. Mi piace.” La sua mano le sfiorò la pelle come una brezza gelida. Jean fu tentata di prendergli la mano e morderla. Se avesse ceduto a quell’impulso, lui le avrebbe fatto di nuovo del male. Ci sarà un mondo di dolore più tardi, pensò. Lui è deciso a farmi urlare. Ma questo sarebbe stato più tardi. Forse lei sarebbe riuscita ad allontanarsi da lui prima di allora. La cosa migliore, per il momento, era non farlo arrabbiare. Non lottare contro di lui. Comportarsi docilmente. Allora lui, forse, avrebbe abbassato la guardia. “Sai chi sono?” le chiese lui. “Sì.” “Dimmelo.” “Il Mietitore.” “Molto bene. Anch’io so chi sei tu. “ Lui mi conosce? Com’è possibile? Forse mi ha seguita per il campus, ha chiesto a qualcuno come mi chiamavo. “Sei la Numero Otto,” disse lui. “Prova a pensarci. Diventerai famosa. Parleranno di te su tutti i giornali, alla televisione, e magari un giorno finirai con l’avere un capitolo tutto tuo in un libro. Hai mai letto libri del genere? Ci sarà anche una tua bella biografia, con frasi dei tuoi genitori e degli amici. L’amara storia della tua breve ma appassionata relazione con quel ragazzo. Come si chiamava?” “Paul,” mormorò lei. “Paul. Anche lui avrà la sua bella fetta di libro, perché sarà il primo uomo che è stato ucciso dal Mietitore. Naturalmente si accorgeranno che la sua morte è stata incidentale. La vera vittima eri tu, mentre Paul era solo uno sfortunato imbecille che si è messo fra noi due. Ha avuto fortuna con te, ma sfortuna con me. Buona questa, no? Forse scriverò io stesso quel libro. Voleva fottere ed è stato fottuto. O magari ce l’ha fatta? E riuscito a venire? Se n’è andato con uno schizzo di gloria?” “Perché non la pianti?” “Perché non voglio,” disse lui, e le scavò un solco sul ventre con un’unghia.
Jean strinse i denti. Il respiro le uscì sibilante. “Dovresti essere carina con me,” disse lui. “In fondo, sono io che ti renderò famosa. È ovvio, parte di questa notorietà potrebbe essere un po’ imbarazzante per te. Quel libro di cui ti parlavo sarà pieno di particolari su quello che è successo oggi. Sulle tue ultime ore. Su chi è stata l’ultima persona a vederti ancora viva. E naturalmente non dimenticherà gli atti osceni nel parco. Quando la gente leggerà quel capitolo, molti penseranno che sei andata a cercartela. E immagino che dovrei dichiararmi d’accordo con loro. Ma non hai avuto nemmeno un briciolo di buonsenso?” E invece lo aveva avuto, lei. “E il Mietitore?” aveva chiesto quando il film era finito e Paul aveva proposto di andare al parco. “Dovrà trovarsi una ragazza per conto suo.” “Parlo seriamente. Non credo che sia una buona idea. Perché non andiamo da me?” “Certo. Così quella svitata della tua compagna di camera potrà ascoltare attraverso la parete e fare i suoi versi.” “Le ho detto di non farlo più.” “Forza, andiamo al parco. E una notte serena. Possiamo trovare un posticino accanto al ruscello.” “Non lo so.” Gli aveva stretto la mano. “Mi piacerebbe, Paul, ma...” “Merda. Hanno tutti una paura fottuta del Mietitore. Cristo santo, lui è a Portland.” “È solo a mezz’ora di macchina.” “Va bene. Lasciamo perdere tutto. Merda.” Avevano camminato per metà isolato, Paul silenzioso e imbronciato, prima che Jean gli infilasse una mano nella tasca posteriore dei pantaloni e dicesse: “Ehi, bello, che ne dici di una passeggiata nel parco?” “Non hai avuto nemmeno un briciolo di buonsenso?” La sua mano le schiaffeggiò la pelle nuda. “Sì!” “Non permetterti di ignorarmi. Se ti faccio una domanda, tu rispondi. Intesi?” “Sì.” L’auto rallentò. La mano sinistra del Mietitore curvò il volante e Jean sentì l’auto spostarsi di lato. Si inclinò leggermente verso l’alto, spingendole la guancia contro la fibbia della sua cintura. Una rampa laterale, pensò lei. L’auto si fermò, poi eseguì una brusca sterzata.
Un tremore gelido percorse il corpo di Jean. Stiamo per arrivare, pensò. Dovunque mi stia portando, stiamo per arrivare. Oh, Gesù. “Credevi che non potesse succedere a te,” disse lui. “Ho ragione?” “No.” “E allora perché? Eri troppo in fregola per mostrarti prudente?” “Paul mi avrebbe tenuto il broncio.” La sua voce era leggermente stridula, tremava. “Uno di quelli. Odio quei mocciosi sempre pronti a piagnucolare e a tenerti il muso. Prendi me, per esempio... Io non tengo mai il broncio. E una cosa da perdenti. Io non perdo mai, quindi non ho motivo di tenere il broncio. Io faccio perdere gli altri.” L’auto rallentò per affrontare un’altra curva. “Anch’io odio quelli che tengono il broncio,” disse Jean, tentando di mantenere salda la voce. “Sono dei bastardi. Non meritano di vivere.” Lui chinò gli occhi per guardarla. Il suo viso era una macchia confusa. Non c’erano più luci stradali, pensò Jean. Solo il chiarore della luna, adesso. “Scommetto che tu e io siamo molto simili,” disse lei. “Lo pensi davvero?” “Non l’ho mai detto a nessuno prima, ma... penso di non correre nessun rischio a dirtelo. Una volta ho ucciso una ragazza.” “Sul serio?” Non mi crede! “Sì. E stato due anni fa. Uscivo con un altro ragazzo, Jim Smith, e... lo amavo sul serio. Ci siamo anche fidanzati. E a un tratto lui comincia a uscire con quella puttana, Mary Jones.” “Smith e Jones, eh?” Lui ridacchiò. “Non posso farci niente se avevano dei nomi stupidi” sbottò lei, e rimpianse di non aver riflettuto un secondo in più per escogitare un paio di nomi che sembrassero reali. “Comunque, lui passava sempre meno tempo con me, e io sapevo che si incontrava con Mary. Così una notte mi sono infilata nella sua stanza al campus e l’ho soffocata con un cuscino. L’ho uccisa. E mi è piaciuto farlo. Ho riso quando è morta.” Lui batté dolcemente sul ventre di Jean. “Siamo proprio fatti l’uno per l’altra. Magari ti piacerebbe entrare in società con me. Potrebbero esserci dei vantaggi in un accordo del genere. Tu potresti attirare le creaturine sulla mia auto, darmi una mano a tenerle buone. Che ne pensi?”
Jean pensò che avrebbe voluto mettersi a piangere. La sua offerta era proprio ciò che lei aveva sperato di udire... e lui lo sapeva. Lo sapeva, non c’erano dubbi. Ma decise di stare al gioco, per ogni eventualità. “Credo che mi piacerebbe.” “E con te siamo al cinquanta per cento,” disse lui. Il muso dell’auto si inclinò verso l’alto. Di nuovo, la guancia di Jean andò a premere contro la fibbia della sua cintura. “Sei la quarta a tentare questa manovra. ‘Ehi, non uccidermi, sono proprio il tuo tipo, mettiamoci in società’... Quattro su otto. Però sei solo la seconda che confessa un precedente delitto. L’altra ha detto di aver spinto la sua sorellina giù da una casetta sopra un albero. Me le scelgo proprio bene. Due assassine. Quali sarebbero le probabilità?” “Coincidenza,” mormorò Jean. “Bel tentativo.” La sua mano destra continuava ad accarezzarla. La sinistra manovrava il volante mentre l’auto saliva sulla collina. Lei avrebbe potuto afferrare il volante e magari provocare un incidente. Ma non le sembrava che l’auto procedesse molto veloce. A quella velocità, l’incidente poteva non ferirlo nemmeno. “Sentiamo quella del tuo ricco paparino,” disse lui. “Vai all’inferno.” Lui rise. “Andiamo, non rovinare la media. Saremo al cento per cento se anche tu avrai un ricco genitore pronto a pagarmi una fortuna pur di riaverti indietro senza un graffio.” Jean decise di tentare l’incidente. Ma l’auto si fermò. Lui fece compiere un giro completo al volante e avanzò lentamente. L’auto sussultò e le gómme morsero un suolo sterrato. Rami frondosi sussurrarono e scricchiolarono contro le fiancate. “Siamo quasi arrivati,” disse lui. Lei lo sapeva già. “È quasi ora che incominci a implorarmi. Quasi tutte iniziano adesso. A volte resistono finché non scendiamo.” Non ti implorerò, pensò Jean. Correrò con tutte le mie forze. Lui fermò l’auto e spense il motore. Non tolse la chiave dal quadro. “Ci siamo, tesoro. Sollevati piano e apri la portiera. Ricorda che io sono qui dietro dì te.” Jean si sollevò e si voltò verso la portiera. Mentre impugnava la mani-
glia, lui l’afferrò per il collo della camicetta. La tenne stretta mentre scendeva. Poi scese dietro di lei, le nocche premute contro la nuca per guidarla, e sbatté la portiera. Passarono davanti all’auto e si diressero verso uno spiazzo nella foresta. Lo spiazzo aveva un aspetto lattiginoso alla luce della luna. Al centro, vicino a un albero morto, c’era un cerchio di pietre che qualcuno aveva raccolto per accendere un fuoco. Accanto si levava un mucchietto di legni e rami spezzati. Il Mietitore pilotò Jean verso l’albero morto. Lei vide della legna già ammucchiata dentro il cerchio, pronta per essere accesa. E provò un rapido guizzo di speranza. Qualcuno aveva preparato il fuoco. Esatto. Probabilmente era stato lui. Era salito là prima, a preparare ogni cosa. Poi vide una scatola rettangolare ai piedi dell’albero. Una cassetta per gli arnesi? Cominciò a gemere. Cercò di fermarsi, ma lui la spinse avanti. “Oh, ti prego, no! Risparmiami! Farò qualunque cosa!” “Vaffanculo,” disse Jean. Lui rise. “Mi piace il tuo fegato,” disse. “Fra poco, può darsi che potremo dargli una bella occhiata da vicino.” La fece voltare e la spinse contro il tronco. “Ora dovrò liberarti un polso dalle manette,” le spiegò. Estrasse una chiave da una tasca dei pantaloni e la tenne sospesa davanti a lei. “Non tenterai di approfittarne, vero?” Jean scrollò il capo. “Lo sapevo.” Le mollò una ginocchiata nel ventre. Con l’avambraccio la bloccò sotto il mento mentre lei si piegava in due. Le gambe di Jean cedettero. Scivolò lungo il tronco, con il legno scortecciato che le lacerava la camicetta e le graffiava la schiena. Cadde seduta su un nodo di radici. Fece per cadere in avanti, ma lui era là a bloccare la sua caduta con le ginocchia. Si afflosciò contro il tronco con il respiro affannoso, sentendo che il polso destro veniva liberato e che quello era il grande momento che aspettava, la sua sola e unica possibilità di tentare la fuga. Ma non riuscì a muoversi. Era dolorante, confusa e senza fiato. E anche se non fosse rimasta paralizzata dal colpo, la sua posizione le rendeva im-
possibile ogni resistenza. Era piegata, schiacciata contro l’albero, con le gambe di lui che le martoriavano i seni, le braccia aperte sopra le ginocchia, i piedi bloccati a terra dai suoi stivali. Capì di avere perduto. Strano, però. Non le sembrava che la cosa avesse molta importanza. Jean si sentiva come se avesse abbandonato il proprio corpo e adesso fosse solo una spettatrice. Era un’altra persona quella che veniva afferrata sotto le ascelle e sollevata di peso. Stava guardando un film dove l’eroina veniva preparata per la scena della tortura. Adesso le braccia della ragazza venivano sollevate sopra la testa. La catena delle manette veniva fatta passare sopra un ramo e poi l’anello libero si chiudeva di nuovo intorno al polso destro. Il Mietitore la sollevò e la portò a qualche passo di distanza dal tronco. Poi la lasciò. Il ramo era abbastanza basso da evitarle di dover restare sulle punte dei piedi. L’uomo si allontanò dalla sua prigioniera. Si accucciò sul lato opposto del cerchio di pietre e accese un fiammifero. Le fiamme crebbero lungo i legnetti impilati tutt’intorno. Poi aggredirono i legni più spessi, i rami spezzati. Cominciò a levarsi un fumo pallido. Lui si alzò e tornò dalla ragazza. “Un po’ di luce, per favore,” le disse. La sua voce risuonava fievole come lo scoppiettio del fuoco dietro di lui. Va tutto bene, pensò lei. Non sono io. È un’altra persona... un’estranea. Smise di essere un’estranea, molto rapidamente, quando vide il coltello nella mano del Mietitore. Jean si irrigidì e fissò la lama scura. Cercò di trattenere il respiro, ma non poté smettere di ansimare. Il cuore le sembrava un martello che cercasse di aprirsi una via di fuga dal petto. “No,” farfugliò lei. “Ti prego.” Lui sorrise. “Sapevo che ti saresti messa a implorare.” “Non ti ho mai fatto nulla.” “Ma ora stai per fare qualcosa per me.” Il coltello si avvicinò. Sentì la lama fredda sulla pelle, ma non provò dolore. Non tagliò. Non Jean. Tagliò invece i suoi indumenti... le spalline del reggiseno, le maniche della camicetta, la cintura della gonna. L’uomo portò gli indumenti verso il fuoco. “No! Non farlo!” Lui sorrise e li lasciò cadere sulle fiamme. “Non ti serviranno. Tu resterai qui. Qui alla mensa.”
Da qualche parte, in lontananza, un coyote ululò. “Quello è il mio amico. Abbiamo un accordo. Io lascio qui un pasto per lui e i suoi compagni della foresta, e loro fanno le pulizie al posto mio. Con le mie truppe non ho problemi di tombe o sepolture. Io ti lascio qui, e domani non ci sarai più. Arriveranno come tanti bravi soldatini affamati e lasceranno la mensa pulita e in ordine per la prossima volta. Nessun problema e nessuna preoccupazione. E tu, dolcezza, potrai risparmiarti l’imbarazzo di dover tornare al campus con il culetto di fuori.” Accovacciandosi accanto al fuoco, aprì la cassetta degli attrezzi. Ne tirò fuori un paio di pinze e un cacciavite. Posò le pinze su un sasso piatto e impugnò invece il cacciavite. La punta metallica era già annerita prima ancora che lui la tenesse sopra il fuoco. Jean vide le fiamme arricciarsi intorno al metallo acuminato. “No!” gridò. “Ti prego!” “No! Ti prego!” le fece il verso lui. Sorridendo, fece ruotare il cacciavite nel suo pugno. “Credi che sia già pronto?” Scrollò la testa. “Diamogli ancora qualche minuto. Non c’è bisogno di affrettare le cose. Ti stai gustando l’attesa?” “Bastardo!” “È questo il modo di parlare?” “AIUTO!” urlò lei. “AIUTO! VI PREGO, AIUTATEMI!” “Non ti sentirà nessuno all’infuori dei coyote.” “Non puoi fare una cosa simile!” “Certo che posso. L’ho già fatta parecchie altre volte.” “Ti scongiuro! Farò qualunque cosa!” “So già cosa farai. Urlerai, ti dimenerai, piangerai, tirerai calci, implorerai, sbaverai... sanguinerai. Non necessariamente in quest’ordine, è ovvio.” Si rialzò. Le pinze in una mano e il cacciavite nell’altra, avanzò lentamente verso Jean. Dalla punta del cacciavite si alzavano leggeri sbuffi di fumo bianco. Si fermò di fronte a lei. “Ora vediamo... da dove comincio? Ci sono tante zone di prima qualità fra cui scegliere.” Alzò il cacciavite verso il suo occhio sinistro. Jean girò di scatto il viso. La punta si fece più vicina. Lei chiuse l’occhio. Sentì il calore contro la palpebra. Ma il calore si affievolì. “No. Meglio tenere questo per dopo. In fondo, per te buona parte del divertimento starà nel guardare.” Lei lanciò un urlo e si irrigidì mentre qualcosa le bruciava il ventre. Il Mietitore scoppiò a ridere.
Jean guardò in basso. Lui l’aveva semplicemente toccata con la punta delle pinze. “Potenza della suggestione,” disse lui. “E adesso, vediamo come te la cavi con un po’ di dolore autentico.” Lentamente avvicinò il cacciavite al suo seno sinistro. Jean cercò di tirarsi indietro, ma le manette glielo impedirono. Provò allora a scalciare. Lui evitò il calcio con una torsione del busto. Mentre il bordo della sua scarpa gli sfiorava l’anca, lui le toccò la coscia con il cacciavite. Lei urlò. Lui sogghignò. “Non riprovarci, tesoro, o potrei arrabbiarmi.” Singhiozzando, lei lo guardò accostare di nuovo il cacciavite al suo seno. “No. Non farlo. Ti scongiuro!” Una pietra colpì alla tempia il Mietitore. Gli fece ruotare il capo, rimbalzò, graffiò l’ascella di Jean e cadde a terra. Lui rimase immobile per un istante, poi crollò sulle ginocchia e si afflosciò in avanti, con il viso premuto contro l’inguine di Jean. Lei si spostò, e lui piombò a terra al suo fianco. Lei rimase a fissarlo, incapace di credere che lui fosse veramente disteso là. Forse era svenuta e questa era solo una sua fantasia. Stava sognando, e ben presto si sarebbe svegliata con una sferzata di dolore e... No, pensò. Non può essere un sogno. Ti prego, Signore... Un angolino appartato della sua mente sussurrò: Lo sapevo che ne sarei uscita. Cercò intorno chi poteva aver lanciato la pietra. E individuò una forma confusa accanto a un albero sul lato opposto dello spiazzo. “Lo hai preso!” gridò. “Grazie a Dio, lo hai preso! Un lancio magnifico!” La forma non si mosse, non le rispose. Si voltò. “No!” urlò Jean. “Non andartene! Riprenderà i sensi e mi ucciderà! Ti prego! Sono ammanettata qui! Lui ha la chiave in tasca. Devi aprire le mie manette. Ti prego!” La figura, indistinta nel buio non meno dei cespugli e degli alberi intorno a lei, tornò a voltarsi e si mosse. Avanzò zoppicando verso il chiarore del fuoco, e dalle sue forme Jean capì che era stata una donna a salvarla. Altre donne cominciarono ad apparire ai bordi dello spiazzo. Una uscì da dietro un albero. Un’altra si alzò da alcuni cespugli. Jean colse un movimento sulla destra, si girò e vide una quarta donna. Udì un ringhio alle spalle, si contorse per voltarsi e restò a bocca spalancata alla
vista di qualcuno che strisciava verso di lei. O verso il Mietitore, sperò. Al chiarore vacillante del fuoco la parte superiore della sua testa sembrava nera e priva di capelli. Come se fosse stata scotennata? Su un lato della schiena la pelle era stata strappata, e Jean intravvide pallide costole ricurve prima che lei si spostasse. Ora ne aveva davanti cinque, che avanzavano ed erano ormai abbastanza vicine al fuoco perché lei potesse vederle chiaramente. Jean le fissò. E di nuovo staccò i contatti. Uscì dal proprio corpo, divenne una spettatrice. Quella che aveva lanciato la pietra aveva una cavità nera al posto dell’occhio sinistro. La ragazza ammanettata sotto l’albero si meravigliò che una persona con un occhio solo fosse riuscita a scagliare una pietra con tanta precisione. La cosa era ancora più sorprendente perché la persona in questione era indubbiamente morta. Dal ventre le penzolavano tratti di intestino che le oscillavano fra le gambe come il perizoma di un pellerossa. Della sua gamba destra al di sotto del ginocchio non restava altro che osso... opera delle truppe forestali del Mietitore? Come può camminare? Questa è buona, pensò la ragazza appesa all’albero. Come fanno a camminare? Una di loro, che doveva trovarsi lassù da molto tempo, riusciva ad arrancare senza eccessive difficoltà nonostante entrambe le gambe fossero ridotte a poco più che ossa spolpate. Le truppe avevano davvero banchettato a sue spese. Un braccio mancava del tutto. L’altro si interrompeva al gomito, ed era solamente osso. La poca carne rimasta sul corpo appariva nera e gonfia. Una parte del torace era intatta, ma incavata. Il lato destro della cassa toracica era squarciato. Le costole sul lato sinistro erano ancora al loro posto e lasciavano intravedere un polmone rinsecchito. Il suo viso non aveva più occhi, naso e labbra. Sembrava sogghignare. La ragazza sotto l’albero le restituì il macabro sorriso, ma lei non sembrò accorgersene. E logico, sciocchina. Come può vederti? E come può camminare? Una delle altre aveva ancora gli occhi. Erano vitrei e spalancati. Avevano un’espressione fissa molto strana. Non aveva più palpebre, ecco perché. Il Mietitore doveva avergliele ta-
gliate. Insieme ai seni. Al loro posto, sul petto, c’erano dischi rotondi e nerastri. Tranne per un enorme squarcio sul fianco destro, non sembrava essere stata mutilata dalle truppe. Possedeva ancora quasi tutta la sua pelle. Ma appariva viscida e untuosa, ricoperta da uno strato di umore biancastro. La ragazza al suo fianco, invece, non sembrava possedere un solo centimetro quadrato di pelle. Era stata scuoiata? Era nera dappertutto, tranne il bianco degli occhi e dei denti... e centinaia di puntini bianchi come se l’avessero cosparsa di riso. Ma il riso si muoveva. Il riso era vivo. Vermi. Anche l’ultima delle cinque ragazze che si avvicinavano di fronte a lei era nera. Però non sembrava scuoiata, bensì bruciata. Il suo corpo era una crosta carbonizzata che scricchiolava e trasudava umori che luccicavano al chiarore del fuoco. Assomigliava ben poco a un essere umano. Poteva essere stata plasmata col fango da un bambino ritardato che non l’aveva fornita di seni, di dita alle mani e ai piedi, di naso o orecchie, e che per fare gli occhi aveva conficcato due dita nella testa. La sua crosta produsse suoni di carta stropicciata e scricchiolante mentre si trascinava oltre il fuoco, e alcune scaglie si staccarono. Un gruppetto variopinto, pensò la ragazza ammanettata all’albero. Si domandò se una di loro avrebbe avuto tanto buon senso da recuperare la chiave e aprire le manette. Ma ne dubitava. A dire il vero, non sembravano neppure rendersi conto della sua presenza. Tutte avanzavano zoppicanti e striscianti verso il Mietitore. Le cui urla, ora, stavano frantumando quella fragile forza che aveva permesso a Jean di starsene alla larga dall’estranea ammanettata all’albero. Cercò di mantenere le distanze. Non ci riuscì. Fu risucchiata di nuovo dentro la ragazza nuda, con le braccia sospese. Provò un’improvvisa ondata di orrore e repulsione... e di speranza. Qualunque cosa fossero quelle creature, erano anche loro vittime del Mietitore. Il momento della resa dei conti. Lui stava ancora urlando, e Jean lo guardò. Era a quattro zampe. La ragazza scotennata, nella stessa posizione di fronte a lui, gli aveva imprigionato la testa fra le mani. Gli stava addentando il cranio. Jean udì il suono di uno strappo viscido quando la ragazza staccò una ciocca di capelli e di carne. Lui ebbe un sussulto e scivolò all’indietro, trascinato dalla ragazza che aveva lanciato la pietra e da quella con la pelle viscida. Ognuna lo aveva
afferrato per un piede. La ragazza scotennata lo seguì strisciando, poi emise un grugnito e si fermò, cercando di raccogliere le pinze. La sua mano destra non aveva più dita. Zampettò inutilmente un paio di volte, piagnucolando per la frustrazione, poi sospirò quando riuscì a raccogliere l’attrezzo usando il pollice e le due dita rimaste sull’altra mano. In fretta, riprese a strisciare inseguendo la sua preda. Passò accanto a Jean. Una delle sue natiche era scomparsa, rosicchiata fino all’osso. Raggiunse il Mietitore che urlava, allungò le pinze e le strinse intorno al lobo dell’orecchio strappandolo di netto. A metà strada fra Jean e il fuoco, le ragazze gli lasciarono liberi i piedi. Tutte e sei gli balzarono addosso. Lui si dimenò, si contorse e scalciò, ma quelle lo distesero supino. Mentre alcune lo tenevano fermo, altre gli lacerarono i vestiti. Altre gli lacerarono la carne. Quella scotennata gli strinse la palpebra destra con le pinze e gliela strappò. Quella bruciata gli prese una mano e, aprendo la bocca nera priva di labbra, cominciò a divorargli le dita. Nel frattempo, la ragazza senza un braccio saltellava come uno scheletro impazzito, con il polmone rimasto che rimbalzava dentro la gabbia toracica. Ben presto la camicia del Mietitore fu ridotta a brandelli. I pantaloni e i boxer gli furono arrotolati intorno agli stivaletti da cowboy. La ragazza scotennata gli aveva strappato l’altra palpebra, e mentre lui urlava si stava mettendo all’opera sul labbro superiore. Quella che aveva lanciato la pietra gli stava inginocchiata accanto e gli artigliava il ventre come se volesse arrivare alle sue budella. Pelle viscida gli staccò un capezzolo con un morso, lo masticò e lo inghiottì. La ragazza che doveva essere stata scuoiata viva gli si inginocchiò accanto alla testa, raccogliendo dal proprio ventre manciate di vermi e ficcandoglieli in bocca. Non più in grado di urlare, il Mietitore tossiva e ansimava. Lo scheletro saltellante cadde sulle rotule spolpate, si chinò su di lui e richiuse i denti intorno al suo pene. Poi tirò, digrignando i denti. Il Mietitore smise di ansimare e lanciò un urlo stridulo che echeggiò come una spruzzata di aghi contro i timpani di Jean. La ragazza scotennata gli strappò il labbro. Diede uno scrollone alle pinze e guardò il labbro volare via. Anche Jean lo guardò. Poi sentì il suo morbido plop contro una coscia. Gli restò attaccato alla pelle come una sanguisuga. Sentì un’ondata di nausea. Batté il piede a terra, cercando di scrollarselo di dosso. Ma quello rimase attaccato.
È solo un labbro, pensò. E allora i conati si fecero troppo forti. Si chinò in avanti più che poté, per non vomitarsi addosso. Un angolino appartato della sua mente era divertito. Aveva guardato cadaveri orribili, mutilati in modi spaventosi, orrori che non aveva mai visto prima neppure nei suoi incubi peggiori. Aveva guardato quei cadaveri compiere atrocità innominabili sul corpo del Mietitore. E nonostante tutto questo, il suo stomaco aveva retto. Adesso un labbro mi resta attaccato a una gamba, ed ecco che si aprono le cateratte. Almeno non si stava vomitando addosso. Solo un pochino, di rimbalzo, sulle caviglie. Finalmente i sussulti del suo stomaco cessarono. Aspirò profondamente aria fresca e si strizzò le lacrime dagli occhi. E vide la ragazza scotennata che la fissava. Le altre erano ancora occupate con il Mietitore. Lui non urlava più, gemeva e rantolava soltanto. La ragazza scotennata abbassò di colpo le pinze, che si aprirono a forza un varco fra i denti superiori del Mietitore. Lei le conficcò più a fondo nella bocca e parzialmente giù nella gola, le lasciò là e cominciò a strisciare verso Jean. “Fagliela pagare,” sussurrò lei. “È stato lui.” Poi Jean pensò: Forse vuole aiutarmi. “Vuoi prendere la chiave? Per le manette? È nella tasca dei suoi pantaloni.” La ragazza non parve neppure sentirla. Si fermò davanti alla chiazza di vomito e chinò il viso. Jean udì uno schioccare di lingua e per un attimo temette di vomitare di nuovo. La ragazza sollevò la testa, alzò gli occhi verso Jean, si leccò le labbra gocciolanti e strisciò in avanti. “No. Torna indietro.” La ragazza spalancò la bocca. Cristo! Jean mollò una ginocchiata in fronte alla ragazza. La testa cadde all’indietro e la ragazza crollò a terra. Jean avvertì un’ondata di gelo. Si sentì rattrappire la pelle in tutto il corpo. Il suo cuore cominciò a martellare. Non si accontenterà di lui. Io sarò la prossima! La ragazza scotennata, il cui torace era un guscio vuoto, rotolò su un
fianco e cominciò a rialzarsi. Jean spiccò un salto. Si afferrò al ramo dell’albero con entrambe le mani, spinse in avanti le gambe e cercò di raggiungere il ramo, ma non aveva abbastanza slancio. Il suo corpo cominciò a oscillare avanti e indietro. Alla nuova oscillazione in avanti alzò ancora le gambe, cercando di trasformarsi in un pendolo che a ogni passaggio aumentasse l’altezza delle sue oscillazioni. Al terzo passaggio le sue gambe si uncinarono intorno al ramo secco e scortecciato. Si sollevò fino ad abbracciarlo e rimase attaccata là. Poi ruotò il capo e vide la ragazza scotennata che strisciava nuovamente verso di lei. Jean non l’aveva mai vista in piedi. Se non riesce ad alzarsi, sono salva. Ma le altre potevano reggersi sulle gambe. Per il momento erano ancora occupate con il Mietitore. A scavare dentro di lui. A mordere. A strappare la sua carne con i denti. Lui rantolava intorno alle pinze e lanciava suoni simili a squittii. Mentre Jean guardava, la ragazza carbonizzata si accucciò ai bordi del fuoco e infilò quanto restava delle sue mani fra le fiamme. Quando si rialzò, fra i moncherini reggeva un tizzone ardente. Tornò barcollante verso il gruppo, si chinò e diede fuoco ai pantaloni del Mietitore. I pantaloni, arrotolati intorno agli stivaletti, si infiammarono in pochi secondi. Il Mietitore ricominciò a urlare. Si divincolò e scalciò. Jean rimase sorpresa nello scoprire che in lui restava ancora tanta vitalità. La chiave, pensò. Dovrò frugare fra le ceneri. Se vivrò tanto a lungo. Jean prese a scivolare a forza di braccia lungo il ramo. Si graffiò le braccia e le cosce, ma continuò ad avanzare pochi centimetri per volta. Il ramo cominciò a incurvarsi. Scricchiolò. Lei si spinse ancora oltre. Udì uno scricchiolio più forte. Poi fu arrestata da un ramo bianco come un osso che le bloccò il braccio sinistro. “No!” ansimò. Si spinse più avanti e colpì con il braccio il ramo. L’urto lo scosse appena. Alcuni rametti secchi alla sua estremità tremarono e caddero. La diramazione aveva un diametro di circa sette o otto centimetri nel
punto in cui si innestava nel ramo principale. Un po’ più in alto si assottigliava parecchio e sembrava più facile da spezzare... ma lei non poteva arrivare fin là, non con i polsi uniti dalla corta catena delle manette. Quel ramo le sbarrava il passo come il braccio di uno scheletro deciso a tenerla bloccata finché i suoi compagni non avessero finito con il Mietitore e potessero occuparsi di lei. Jean sollevò la testa e strinse il ramo fra i denti, morse con forza disperata il legno secco e lavorò di mascelle. I suoi denti sembrarono a malapena intaccarlo. Abbassò il capo. Sputò schegge e sporcizia, e girò gli occhi. Il Mietitore non si muoveva più e non emetteva alcun suono. Dalla zona annerita dove i suoi pantaloni avevano preso fuoco si levava un fumo pallido. La ragazza carbonizzata che li aveva incendiati stava reggendo un braccio mozzato dell’uomo sopra il fuoco. La ragazza viscida e senza seno cercava di infilarsi uno dei suoi stivaletti. La ragazza scuoiata, ginocchioni accanto alla testa del Mietitore, gli aveva tolto le pinze dalla bocca. A prima vista, Jean pensò che si stesse pizzicando. Poi vide che, uno alla volta, strizzava con le pinze i vermi che le infestavano il ventre. La testa di quella che aveva lanciato la pietra era sepolta nell’addome squarciato del Mietitore. Quando si sollevò, dai denti le penzolavano spire di intestino. La ragazza senza un braccio se ne stava distesa fra i resti anneriti delle gambe del Mietitore, dilaniando con i denti la cavità che un tempo aveva ospitato i suoi genitali. Benché lui fosse apparentemente morto, le sue vittime sembravano ancora decise a martoriarlo. Almeno per il momento. Torcendo il collo, Jean vide la ragazza scotennata proprio sotto di lei. Era in ginocchio, con le braccia sollevate, e artigliava l’aria con quel che le restava delle mani. Non può raggiungermi, si disse Jean. Ma le altre? Non appena avranno finito col Mietitore, vedranno questa puttana qui sotto e poi vedranno me. Se lei se ne andasse! VATTENE DI QUl! Jean avrebbe voluto gridarlo, ma non osò. Le sembrava quasi di vedere le altre che giravano il capo al suono della sua voce. Se solo potessi ucciderla!
Già, bella pensata. Devo fare qualcosa! Jean si strinse con forza al ramo e digrignò i denti. Non provarci, pensò. Non le faresti neppure male. E saresti alla portata delle sue mani. Ma forse un bel calcio alla testa potrebbe scoraggiarla. Non ci conterei molto. Jean staccò le gambe dal ramo. Sentì l’aria sfiorarle la pelle sudata, mentre scalciava come se fosse sul punto di annegare e tentasse di risalire verso la superficie. Il tacco di una sua scarpa colpì qualcosa. Lei sperò che fosse la faccia di quella puttana. Poi iniziò l’oscillazione ascendente e la vide. Si stava girando sulle ginocchia e annaspava ghignante verso l’alto. Jean scalciò più forte che poteva mentre le sue gambe tornavano ad abbassarsi. La punta della scarpa colpì la ragazza scotennata alla gola, la sollevò di peso e la scagliò lontana. L’ho presa! Jean penzolò appesa per le mani, cercando di riacquistare slancio per raggiungere di nuovo il ramo. Fallì il primo tentativo, e perse anche la presa. Lanciò un grido quando l’acciaio delle manette le penetrò nei polsi. I suoi piedi toccarono il terreno. La ragazza scotennata rotolò su un fianco e strisciò verso di lei. Jean spiccò un salto. Afferrò il ramo e cercò di sollevare le ginocchia, ma non fu abbastanza svelta. Le braccia della ragazza si avvinghiarono alle sue caviglie. Poi cominciarono a tirarla, a cercare di farla scendere più in basso, a salire lungo i polpacci, ad arrampicarsi su di lei. Jean si dimenò e si contorse, ma non riuscì a scrollarsi di dosso la ragazza. Le sue braccia cominciarono a cedere e la presa intorno al ramo ad allentarsi. Lanciò un grido quando i denti le morsero una coscia. Con uno schianto secco il ramo si spezzò a metà lunghezza fra Jean e il tronco. Cadendo, lei spinse di lato il ramo. Le colpì una spalla quando toccò terra, le ginocchia in avanti, sopra la ragazza. Il peso spinse Jean in avanti, schiacciando l’altra sotto di sé. Anche se adesso la ragazza non le stringeva più le gambe, Jean sentiva la sua testa agitarsi sotto la coscia. Il corpo mu-
tilato sussultava e si dimenava sotto il ramo, ma i denti non mollavano la loro feroce presa. Poi ottennero il loro boccone di carne e si staccarono. Afferrando il ramo, Jean se lo tolse di dosso, usando la spalla per fare leva. Sentì il legno sollevarsi dalla schiena e dalle natiche. L’estremità scheggiata premeva sul terreno un metro e mezzo davanti alla sua testa. Jean cercò di trascinarsi in avanti lungo il ramo, premendo con le ginocchia sulla ragazza sotto di lei. La ragazza ringhiò. Le sue mani si strinsero intorno alle caviglie di Jean, ma la presa era debole a causa delle dita mancanti. I denti schioccarono, graffiandole la pelle sopra il ginocchio destro. Jean tirò indietro la gamba e scalciò. I denti della ragazza si chiusero a vuoto. Poi Jean riuscì ad alzarsi, usando come gruccia il ramo spezzato. Tenendo sollevata l’estremità scheggiata, avanzò barcollante di qualche passo per allontanarsi dalle braccia della ragazza. E vide le altre che avanzavano. Tutte quante, all’infuori di quella scheletrica e senza braccia che stava ancora distesa fra le gambe del Mietitore. “No!” urlò Jean. “Lasciatemi in pace!” Avanzarono vacillanti verso di lei. Quella carbonizzata reggeva il braccio mozzato del Mietitore come una clava. Quella senza seni ora portava i suoi stivaletti. Aveva le braccia levate, già protese verso Jean anche se distava ancora qualche metro. Quella che aveva lanciato la pietra aveva trovato un’altra pietra. Quella scuoiata viva si avvicinava continuando a pizzicarsi i vermi con le pinze. “NO!” urlò ancora Jean. Si chinò, afferrò il ramo più in basso, lo sollevò aiutandosi col fianco e ruotò su se stessa, facendogli compiere un mezzo giro davanti a sé. Il troncone di ramo spazzò il terreno di sbieco, con le dita ossute di legno che si spezzarono scricchiolanti falciando i cadaveri. Tre di loro vennero gettati a terra. Un quarto, quello della ragazza carbonizzata, si spostò all’indietro per evitare il colpo, incespicò nel torace del Mietitore e annaspò nell’aria. Jean non vide se era caduta, perché il peso del ramo le stava facendo compiere un intero giro su se stessa. Un rametto colpì il viso della ragazza scotennata che strisciava verso di lei, si spezzò con uno schiocco e volò via. Poi la ragazza scotennata ricominciò a inseguire Jean, mentre le altre erano a terra. Tutte all’infuori della lanciatrice di pietre. La prima volta Jean l’aveva mancata. Troppo lontana. Adesso lei aveva sollevato il braccio, pronta a effettuare un nuovo lancio. Jean, ruotando, lasciò libero il ramo.
Il legno scortecciato le graffiò il fianco e il ventre. Il ramo si staccò da lei come una gigantesca lancia fronzuta. Ormai libera dal suo peso, Jean barcollò. La pietra le fischiò accanto all’orecchio. Cadde in ginocchio. Di fronte a quella che strisciava. Che arrancava verso di lei gemendo, quasi sapesse già di essere sconfitta. Conficcando entrambi i pugni nel terreno, Jean riuscì a risollevarsi. Fece due passi rapidi verso la ragazza che strisciava e le mollò un calcio al viso. Poi indietreggiò vacillando. Si girò. La lanciatrice era a terra, con le braccia che annaspavano nel viluppo di rami morti sopra di lei. Le altre incominciavano a rialzarsi. Jean corse in mezzo a loro, i polsi ammanettati alti sopra la testa, guizzando e schivando mentre loro annaspavano, abbrancavano, si sbracciavano verso di lei. Poi se le ritrovò alle spalle. Tranne il Mietitore e la cosa senza braccia che masticava ancora in mezzo alle sue gambe. Devo trovare la chiave, pensò. Partendo di corsa nella loro direzione, si rese conto che le manette non avevano importanza. Non le avrebbero impedito di guidare. La chiave era ancora nel quadro dell’auto. Superò con un salto il Mietitore. E si fermò accanto al suo corpo. Ansimante, si chinò e sollevò una delle pietre intorno al fuoco. Anche se il calore le bruciava le mani, la tenne alta sopra la testa. Poi si voltò. I cadaveri stavano arrivando, barcollanti e striscianti, sempre più vicini. Ma non così vicini. “QUESTA È PER LA NUMERO OTTO!” urlò, e calò la pietra su ciò che restava del viso del Mietitore. La pietra colpì con un suono morbido, e al tempo stesso scricchiolante. Non rotolò via. Rimase piantata sul suo viso come se avesse trovato un nido su misura. Jean la premette con un calcio, conficcandola più a fondo. Poi si girò. Scavalcò il fuoco con un salto e corse attraverso lo spiazzo verso l’auto in attesa. FA MENO MALE SE CANTI Ramsey Campbell Forse erano tutti partiti per le vacanze. Se erano più in grado di lui di
permettersene una, Bright si congratulava con loro. Adesso che era giorno poteva vedere dentro tutte le finestre ai piani inferiori del condominio di fronte, ma i primi due piani sembravano privi di ogni segno di vita. Forse tutti gli inquilini stavano cantando gli inni che sentiva provenire da qualche angolo del quartiere periferico. Se la prese comoda per rendersi presentabile, poi scese di sotto. Gli ascensori non funzionavano. Probabilmente era un tecnico della manutenzione quello che lo sbirciò attraverso la finestra sporca di una porta metallica ammaccata sul pianerottolo sotto il suo. L’apparizione di quel viso appannato lo colse talmente di sorpresa da fargli provare un guizzo di gioia alla vista di qualcuno al terzo piano. Forse quelle persone venivano dal palazzo di fronte, da uno degli appartamenti rimasti al buio per tutta la notte precedente? La donna alla quale erano venute a fare visita sembrava in procinto di perdere una gara di sorrisi contro di loro. Bright la vide arretrare con riluttanza, poi sentì scattare il catenaccio e la catenella di sicurezza mentre raggiungeva l’altra rampa di scale. La biblioteca pubblica era a pianterreno. Per prima cosa raggiunse il centro di collocamento camminando fra i negozi sbarrati e le serrande blindate. Le schede esposte non parlavano di tipografi, e quelle che offrivano un apprendistato in una nuova professione erano destinate a persone più giovani di almeno trent’anni. Quelli avevano bisogno di lavoro molto più di lui, anche se non avevano famiglie da mantenere. Fece ritorno con calma alla biblioteca, fischiettando un motivetto del tempo di guerra. I giovani cacciatori di impiego avevano già terminato di spulciare i giornali. Bright iniziò con i giornali popolari, conservando quelli più seri per il pomeriggio, anche se nel complesso tutti quanti presentavano il mondo all’orizzonte come una terra percorsa da malattie e delitti, promiscuità sessuale e guerre. Le buone notizie non facevano notizia, si disse, ma l’ultima ragazza che lui aveva corteggiato prima di fossilizzarsi nel suo modo di vivere doveva essere ancora in giro là fuori, e lei si meritava un mondo migliore. Tuttavia, non c’era da stupirsi se quasi tutti i lettori andavano in biblioteca cercando narrativa e non notizie. Immaginò che la coppia sorridente impegnata a riempire di libri alcune scatole di cartone li avrebbe portati ad anziani bloccati in casa, anche se alcuni dei titoli che scorse non gli parvero molto adatti a persone con quella mentalità. Rimase a fissare la coppia che si allontanava nella piazza con le scatole, finché il fumo di un falò lontano non la oscurò. La biblioteca chiudeva alle nove. Di solito a quell’ora Bright era tornato
da tempo nel suo appartamento e ascoltava nastri di musica registrata, Elgar o Vera Lynn, o magari alcune delle orchestre che suo padre era solito ascoltare sul grammofono a manovella, ma quel giorno non se la sentiva proprio di restare solo. Rimase a leggere un articolo sull’evoluzione finché il bibliotecario non prese a tossicchiare rumorosamente e a sbattere con violenza i libri sugli scaffali. Forse Bright avrebbe fatto meglio a rientrare prima. Quando fece il giro dell’edificio per dirigersi verso l’atrio, si ritrovò in un ambiente che prima d’allora non aveva mai visto così spoglio di vita. Le gradinate grigie dei palazzi d’appartamenti, tutte identiche, si moltiplicavano fino all’orizzonte sotto un cielo carbonizzato; un paio di libri calpestati giacevano immobili fra i rifiuti che ingombravano silenziosi gli anonimi marciapiedi di cemento. Credette di udire un grido, ma poteva anche essere stato l’inizio di un inno che subito si precipitò a riempirgli le orecchie, da qualunque punto si levasse. Gli ascensori erano ancora bloccati; le due porte metalliche che si affacciavano sull’atrio dalle pareti piene di graffiti erano spalancate, e ostentavano grossi cavi portanti incrostati di tenebra. Quando raggiunse il secondo piano stava già rallentando l’andatura, aggrappandosi ai rari corrimano non ancora divelti dal cemento. Le poche lampade ancora funzionanti erano state dipinte con bombolette spray fino a sembrare carboni ormai morenti. Masnade di ombre si appiattivano contro le pareti, in attesa di aggredirlo. Mentre saliva, un suono soffocato di inni lo fece sentire ancora più isolato. Probabilmente li trasmettevano alla televisione, perché li poteva sentire da parecchi appartamenti. Un paio di porte d’ascensore al quinto piano erano state aperte a viva forza e bloccate. A meno che la vista di Bright non fosse peggiorata durante la salita, il cavo portante stava vibrando. Raggiunse ansimante il suo pianerottolo, dove anche le porte corrispondenti erano aperte. Non appena la testa smise di girargli, si avventurò fino all’orlo del pozzo buio. Nessun movimento era visibile, e lungo il cavo non c’era nulla tranne il fondo della cabina ferma all’ultimo piano. Si girò verso il suo appartamento. Due uomini lo stavano aspettando. Sembrava che avessero appena suonato il campanello. Fissavano la sua porta e si strofinavano le mani con aria impacciata. Portavano magliette nere e ingombranti tute da lavoro, e sandali sui piedi nudi. “In cosa posso esservi utile?” chiese Bright. Si voltarono insieme, sollevando le mani quasi a volergli mostrare quan-
to fossero grigi i loro palmi sotto la lampada macchiata. I loro visi magri, bonari, stavano già sorridendo. “Meglio domandarsi cosa possiamo fare noi per te,” disse uno. Bright non capì chi dei due avesse parlato, poiché i loro sorrisi rimasero imperturbabili. Potevano essere due uomini o due donne, nonostante i capelli tagliati così corti. “Potreste lasciarmi arrivare alla porta di casa mia,” disse Bright. I due lo fissavano come se nulla di ciò che lui poteva dire fosse in grado di spezzare i loro sorrisi, gli occhi spalancati come vecchie monete da un penny infilate sotto le palpebre. Quando lui tirò fuori la chiave e avanzò, i due si spostarono di lato, ma solo per lo spazio necessario. Mentre infilava la chiave nella serratura, anche senza vederli sentì che si facevano più vicini alle sue spalle. Aprì la porta di quel tanto che gli bastava per entrare. Loro lo seguirono. “Ehi, ehi.” Si girò nel vestibolo angusto e cercò di bloccare la porta, ma troppo tardi. I suoi visitatori entrarono appaiati, sbattendo l’uscio contro il muro. L’espressione sui loro visi era più vacua che mai. “Cosa diavolo credete di fare?” gridò Bright. Questo ravvivò per un istante i loro sorrisi, quasi fosse una battuta che già conoscevano. “Non abbiamo niente a che fare con lui,” dissero le loro voci stridule, una più alta dell’altra. “E speriamo che lo stesso valga anche per te,” aggiunse uno dei due, mentre il compagno ripeteva silenziosamente le parole. Non sembravano molto sicuri su chi dovesse parlare e chi dovesse richiudere l’uscio. Quello più vicino ai cardini diede una gomitata alla porta, quasi intrappolando l’altro prima che fosse entrato completamente. L’altro penetrò a forza nel vestibolo strizzando il compagno dietro la porta. Potevano rivelarsi divertenti, pensò Bright, e a lui un po’ di divertimento non avrebbe fatto male. Sembravano abbastanza innocui, purché stessero lontani da ogni oggetto fragile. “Posso concedervi pochi minuti,” li avvertì. Tentarono di entrare contemporaneamente nel soggiorno. Uno batté l’altro in velocità e varcò per primo la soglia, mentre il compagno lo seguiva frettolosamente, e insieme osservarono l’interno della stanza. Probabilmente la vacuità dei loro sguardi voleva dire che non trovavano l’ambiente di loro gusto... gli indumenti di Bright ammucchiati sul divano in attesa di essere stirati, le fotografie che lui aveva scattato durante i suoi viaggi in Francia, Germania e Grecia, l’autoritratto che la sua ultima ragazza gli aveva regalato, la copia incorniciata dell’articolo che era riuscito
a stampare poco prima che lo inserissero nel personale in eccesso, su come sarebbe stata la vita cento anni nel futuro e sui progressi tecnologici che avrebbero consentito alla gente un migliore controllo sulla propria esistenza. Bright si risentì per quella muta disapprovazione, ma rimase più sconcertato dall’aspetto dei suoi visitatori alla luce dell’appartamento: erano grigi dalla testa ai piedi, come se avessero urgente bisogno di una spolverata. “Chi siete?” domandò. “Da dove venite?” “Noi non contiamo.” “ntiamo,” annuì l’altro, e quasi all’unisono aggiunsero: “Noi siamo solo portatori del Verbo.” “Allora sarà meglio che vi sbrighiate a dirmi qual è,” tagliò corto Bright, restando in piedi per non invogliarli a sedersi: chissà quanto tempo ci avrebbero messo anche in posizione eretta. “Ho molte cose da sistemare prima di potermi stendere.” Si girarono verso di lui, come se dovessero muovere tutto il corpo per guardare da una certa parte. Chiunque dei due fosse a parlare, la voce risuonò più tirata che mai attraverso quel sorriso fisso. “Come definiresti la tua vita?” Non avevano nessun motivo per sentirsi superiori a lui. Il grigiore che pareva permeare la loro pelle suggeriva più un’impressione di disuso che di intenso lavoro, come di disuso puzzavano le loro persone nella piccola stanza. “Ho avuto una vita discreta, ed è giusto che ora il mio posto venga preso da qualcuno capace di far funzionare le nuove macchine. Ho vissuto abbastanza per saper affrontare serenamente la mia sorte.” I suoi visitatori lo fissavano come se volessero ipnotizzarlo per indurlo ad accettare ciò che volevano offrirgli. La vista dei loro volti stiracchiati da quei sorrisi era così sgradevolmente affascinante che lui sussultò, avendo perso il senso del tempo, quando uno dei due parlò. “La tua vita sarà vuota finché non lo farai entrare.” “Non bastate voi due? Chi sarebbe quest’altro?” La figura alla sua sinistra frugò in una tasca, e la tuta si gonfiò all’inguine. La mano scattante esibì una videocassetta che portava la fotografia di un prete. “Non posso usarla,” disse Bright. I visitatori ruotarono lentamente per osservare ancora la stanza. I loro sorrisi si allontanarono da lui, poi tornarono immutati dalla sua parte. Dovevano aver visto che la sua radio poteva suonare audiocassette, perché ora il visitatore sulla destra ne reggeva una in mano. “Ascolta prima che sia troppo tardi,” lo ammonirono all’unisono.
“Non appena avrò tempo.” Bright avrebbe promesso ben altro pur di sbarazzarsi dei loro sorrisi congelati e del loro odore stantio e dolciastro. Andò ad aprire la porta del vestibolo e si tirò indietro mentre uno caracollava per il corridoio e l’altro trafficava con la porta esterna. Trattenne il fiato mentre il secondo visitatore attraversava il vestibolo ed emise uno sbuffo di sollievo quando la porta esterna si richiuse. Forse i deodoranti erano proibiti dalla loro fede. Aprì la finestra e si sporse verso la notte per respirare. Le finestre buie nel palazzo di fronte erano aumentate, come se un’inondazione di oscurità stesse salendo un piano dopo l’altro. Strano, però; a quell’ora si sarebbe aspettato di vedere più appartamenti illuminati. Adesso poteva udire diversi inni soffocati, o forse era sempre lo stesso a diversi stadi di sviluppo. Si domandò dove avesse già visto il viso del prete sulla videocassetta. Quando il fumo di un falò cominciò a irritargli la gola, chiuse la finestra. Preparò l’asse da stiro e accese il ferro elettrico. Impiegò mezz’ora a stirare gli abiti e la biancheria, e durante tutto questo tempo non riuscì a ricordare cosa avesse letto sul conto di quel prete. Forse aveva un modo per rinfrescarsi la memoria. Portò la radio accanto alla sua poltrona sotto la finestra. Mentre estraeva la cassetta dal contenitore di plastica, sobbalzò con una smorfia. Uno spigolo aguzzo della cassetta lo aveva punto. Si succhiò il pollice e lo strizzò fra i denti per far uscire la scheggia di plastica che gli aveva perforato la pelle. Infilò la cassetta e fece partire il registratore, cercando di ignorare il dolore al pollice. Udì un fruscio, lo scatto di un microfono, una voce. “Sono padre Lazarus. Sto per dirti l’intera verità,” disse. La voce aveva un tono leggero, quasi da disc jockey, ed era praticamente asessuata. Bright conosceva quella voce; forse sarebbe riuscito a identificarla ora che il dolore si affievoliva. “Se tu sapessi la verità,” disse la voce, “non vorresti aiutare i tuoi simili dicendola anche a loro?” “Dipende,” ringhiò Bright, incolpando la voce della ferita al suo dito. “E se hai appena risposto no, non capisci che ciò dimostra che non conosci la verità?” “Oh-oh, molto astuto,” borbottò Bright. La scomparsa del dolore giunse come un conforto inaspettato; gli donava una calma nella quale lui non doveva far altro che lasciarsi raggiungere dalla voce. “Continua,” mormorò. “Cristo era la verità. Lui era il Verbo che non poté mai smentirsi neppure quando lo costrinsero a subire tutti i tormenti dei dannati. Perché avrebbero dovuto trattarlo così se non avessero avuto paura della verità? Lui era
la verità incarnata, nato senza il preambolo della lussuria e privo di qualunque concessione a essa, e noi dobbiamo semplicemente diventare portatori della verità per poterlo accogliere di nuovo fra noi prima che sia troppo tardi.” Non era troppo tardi per ricordare dove avesse visto la faccia di quel prete, pensò Bright, purché non si fosse addormentato prima... si sentiva un po’ intontito. “Guardati intorno,” stava dicendo la voce, “e vedrai con i tuoi occhi quanto sia tardi. Guarda e vedrai il mondo procedere verso la propria fine nella corruzione, nella lussuria e fra l’indifferenza dell’uomo.” Come suggerimento non era poi del tutto sbagliato. Bastava guardarsi intorno lì dove viveva lui, in periferia, per vedere marciapiedi ingombri di rifiuti dove di notte non camminava nessuno all’infuori di drogati, rapinatori e ubriachi. Però altrove dovevano esserci posti migliori, si disse Bright, e riuscì a girare la testa sul collo rigido verso il ritratto sulla parete. “Desideri forse che il mondo finisca in questo modo?” domandò il prete. “Non è vero che tu vorresti poterlo cambiare ma ti senti impotente? Credimi, tu puoi farlo. Cristo dice che puoi. Lui ha dovuto soffrire tormenti atroci per la verità, ma noi ti offriamo la fine del dolore e l’inizio della vita eterna. La resurrezione della carne è iniziata.” Non la mia carne, pensò confusamente Bright. La mano ferita gli sembrava pesare quanto il suo intero corpo. Anche quando ricordò di aver lasciato acceso il ferro da stiro, gli sembrò una ragione insufficiente per muoversi. “Nel mondo a venire non saremo né uomini né donne,” stava intonando la voce. “La carne sarà liberata dalla lussuria che ci ha resi ciechi dinanzi alla verità.” Per lui era tutta colpa del sesso, pensò Bright, e all’istante rammentò. PREDICATORE RESO VEDOVO DAL VUDÙ, aveva annunciato mesi prima un titolo interno di un giornale popolare. Il prete era andato ad Haiti per convertire i connazionali di sua moglie, con il risultato che lei aveva riabbracciato la sua antica fede e si era rifiutata di tornare a casa con lui. L’articolo non diceva anche che lui aveva giurato di usare i metodi dei suoi nemici per sconfiggerli? Di sicuro lui aveva annunciato l’intenzione di cambiare il proprio nome in Lazarus. La sua voce sembrava essere diventata più forte, così alta da far vibrare l’altoparlante. “Il Verbo di Dio colmerà il vostro vuoto. Voi partirete per salvare i vostri simili e sarete ricompensati il giorno del giudizio. L’uomo è stato creato per cantare le lodi di Dio, e così ha fatto finché la donna non lo ha tentato nel giardino. Quando il suono delle nostre lodi sarà tanto forte da raggiungere i deli, il
nostro salvatore farà ritorno.” Bright si sentiva veramente svuotato, come se non fosse neppure là. Se arrendersi a quella voce gli avesse restituito le forze, questo non avrebbe dimostrato che stava dicendo la verità? Ma dentro di sé sentiva che quella voce voleva prendere il posto della sua intera vita. Guardò ancora faticosamente il ritratto, ricordando gli addii alla stazione degli autobus, l’ultimo bacio e il contatto delle mani di lei sulle sue, i fari del torpedone che trasformavano le gemme su un albero in piccole fiabesche luci verdi mentre il veicolo svaniva oltre la cresta di una collina... e allora si accorse che la voce del prete si era fermata. Pensò per un attimo di avere sconfitto il nastro, ma ecco esplodere un coro con l’inno che ormai sentiva fin dal mattino. Il vuoto dentro di sé lo incalzava a unirsi al canto, ma era deciso a non cedere finché avesse avuto un briciolo di forza. Riuscì a risucchiarsi il labbro inferiore fra i denti e a morderlo, anche se non era ben certo di sentire dolore. Il vedovo del vudù, canticchiò fra sé per spezzare l’opprimente ripetitività dell’inno, il vedovo del vudù. Stava rintuzzando l’attacco dell’inno, benché gli sembrasse incredibilmente stridulo nella testa, quando udì un altro suono. La porta esterna si stava aprendo. Non poteva muoversi, non poteva gridare. L’insensibilità che si era propagata dal pollice in tutto il corpo lo aveva scolpito sulla poltrona. Sentì sbattere la porta esterna mentre dei corpi si agitavano senza parole nel vestibolo. La porta del soggiorno si aprì di un paio di centimetri, poi si spalancò di colpo e le due figure in tuta entrarono impacciate nella stanza. Aveva capito di chi si trattava sentendo i primi rumori alla porta esterna. L’inno sul nastro doveva essere il segnale che per lui era finita... che era ormai simile a loro. Si rese conto nebbiosamente che dovevano aver manomesso lo scatto della serratura uscendo. Si sentiva incapace di provare sensazioni o di reagire, anche quando la più grande delle due figure si chinò verso di lui per fissarlo dritto negli occhi, probabilmente per verificare che fossero vacui, e Bright vide come le labbra grigie e tirate si stessero sfogliando agli angoli. Per un attimo Bright pensò che gli occhi dell’uomo stessero per schizzare fuori dalle orbite rinsecchite per cadergli addosso, eppure non provò l’impulso di muovere un solo muscolo. Forse riconosceva se stesso come sarebbe diventato... ma questo non significava che per lui non era ancora finita? L’uomo si sollevò dal suo esame e alzò il volume dell’inno. Bright pensò che le parole erano destinate a riempirgli la testa, ma che lui poteva an-
cora scegliere cosa pensare. Non era poi così vuoto, aveva fatto qualcosa di buono per il mondo, si era tirato da parte per dare a un altro una possibilità. Qualunque sostanza il prete avesse portato con sé da Haiti, poteva aver reso insensibile il corpo di Bright ma non aveva del tutto paralizzato la sua mente. Puntò lo sguardo sul ritratto e ripensò al giorno che insieme erano saliti su una montagna. Stava iniziando a riconquistare le sue sensazioni quando l’altro uomo uscì dalla cucina, portando con sé il coltello più affilato esistente in casa. Non avrebbero dovuto far soffrire Bright, il nastro lo aveva detto. Lui non vedeva tracce di ferite sui loro corpi. Ma se ci fossero state mutilazioni che non erano visibili? “Nel mondo a venire non saremo né uomini né donne.” Finalmente Bright capiva perché i suoi visitatori sembravano asessuati. Cercò istintivamente di tirarsi indietro mentre l’uomo che aveva alzato il volume dell’inno impugnava il ferro da stiro elettrico. L’uomo lo prese per la punta prima di trovare l’impugnatura. Bright vide la pelle grigia delle dita arricciarsi come carta carbonizzata, ma l’uomo non reagì in alcun modo. Chiuse la mano libera intorno all’impugnatura mentre il suo compagno avanzava maldestro verso Bright, il filo del coltello scintillante come una lama di rasoio. “Fa meno male se canti,” disse l’uomo con il coltello. Benché Bright non fosse mai stato particolarmente religioso, nessuno avrebbe potuto pregare con più fervore di quanto iniziò a fare lui. Pregava che quando il primo dei due lo avesse raggiunto, anche la sua sensibilità sarebbe diventata pari alla loro. PARTO IN CASA Stephen King Considerando che quella era probabilmente la fine del mondo, Maddie Pace pensò che stava facendo un buon lavoro. Un lavoro veramente buono. Maddie era convinta di potersi occupare della Fine di Tutto meglio di chiunque altro sulla terra. Ed era sicura che se la stava cavando molto meglio di ogni altra donna incinta sulla terra. Se la stava cavando... Proprio Maddie Pace, fra tutte le donne. Maddie Pace, che a volte non riusciva a dormire se, dopo una visita del reverendo Peebles, notava un ciuffo di polvere sotto il tavolo della sala da pranzo... il solo pensiero che il reverendo Peebles potesse aver visto quel batuffolo era sufficiente a tenerla sveglia fino alle due del mattino.
Maddie Pace, che - quando ancora era Maddie Sullivan - faceva impazzire il suo fidanzato Jack entrando ogni volta in catalessi sopra un menu, discutendo i vari piatti a volte anche per mezz’ora. “Maddie, perché non lanci una moneta?” le aveva suggerito lui una volta, dopo che Maddie era riuscita a restringere la scelta fra il brasato di vitello e le costolette di agnello. “Mi sono già scolato cinque bottiglie di questa dannata birra tedesca, e se non ti sbrighi a scegliere fra poco avrai un pescatore di aragoste ubriaco sotto questo tavolo prima ancora che il cameriere ci abbia posato sopra del cibo!” Lei aveva sorriso nervosamente, ordinato il brasato di vitello... e poi era rimasta sveglia fino a mezzanotte passata, domandandosi se le costolette non sarebbero state migliori. Tuttavia non si era posta troppi problemi per accettare la proposta di matrimonio di Jack; l’aveva accettata, e aveva accettato anche lui senza indugio e con notevole sollievo. Dopo la morte del padre, Maddie e la madre avevano condotto un’esistenza nebulosa e priva di scopi a Deer Isle, lungo la costa del Maine. “Se non ci fossi in giro io a dire a quelle donne come stringere il timone e come seguire il vento,” era solito dire George Sullivan bevendo con gli amici alla taverna di Buster o nel retro del negozio di barbiere di Daggett, “non so proprio cosa diavolo combinerebbero.” Quando George morì per una improvvisa trombosi coronarica, Maddie aveva diciannove anni e si occupava della biblioteca comunale nelle sere feriali per un salario settimanale di quarantuno dollari e cinquanta centesimi. Sua madre si occupava della casa... o almeno così aveva sempre fatto, quando George le ricordava (a volte con un salutare ceffone) che aveva una casa di cui occuparsi. George aveva ragione. Le due donne non ne parlavano mai perché la cosa le imbarazzava, ma George aveva ragione e loro lo sapevano benissimo. Senza George in giro a dire loro come stringere il timone e come seguire il vento, non sapevano combinare nulla di buono. Il denaro non costituiva un problema; George aveva creduto appassionatamente alle assicurazioni sulla vita, e quando era crollato morto durante un’azione di spareggio nella finale del campionato di bowling al Big Ten di Big Duke a Yarmouth, sua moglie era entrata in possesso di centomila dollari. E poi vivere su un’isola non comportava grosse spese, se si possedeva una casa e si teneva l’orto libero da erbacce, sapendo inoltre come coltivare le proprie verdure un anno dopo l’altro. Il problema consisteva nel non avere nulla intorno a cui far ruotare la loro vi-
ta. Il problema era che il punto focale della loro esistenza era scomparso quando George era caduto à faccia in avanti nella sua maglia da bowling Island Amoco proprio sopra la linea di fine corsa nella corsia diciannove da Big Duke (e dannazione se non aveva anche segnato il punto che serviva alla sua squadra per vincere). Scomparso George, la loro vita era diventata una specie di confuso sogno a occhi aperti. Un po’ come trovarsi perduti in mezzo a una fitta nebbia, pensava a volte Maddie. Solo che invece di cercare la strada, una casa, il paese, o magari un punto di riferimento come il pino colpito dal fulmine dietro la casa degli Alton, io sto cercando il timone. Se mai ce la farò a trovarlo, forse riuscirò anche a capire come seguire il vento. Alla fine trovò il suo timone; si rivelò essere Jack Pace. Si dice che le donne sposino i loro padri e gli uomini le loro madri, e benché una simile affermazione generalizzata non possa certo rivelarsi esatta tutte le volte, nel caso di Maddie era perfetta. Suo padre era stato considerato dai suoi pari con paura e ammirazione... “Non pestare i callì a George Sullivan, amico,” si dicevano l’un l’altro. “È un figlio di puttana maledettamente in gamba, capace di staccarti il naso con un pugno con la stessa facilità con cui scoreggia sottovento.” Questo era vero anche in casa. Era stato prepotente e a volte brutale... ma aveva sempre saputo quello che voleva e per cosa valeva la pena faticare, come il camioncino Ford, la sega circolare, o quei due acri che confinavano con il loro terreno sulla sinistra. I due acri di Pop Cook. George Sullivan aveva sempre parlato di Pop Cook (sia dopo aver bevuto che da sobrio) come di un vecchio bastardo schifoso, ma su quei due acri restava ancora una discreta quantità di buon legname. Pop non ne seppe nulla poiché era andato a vivere sulla terraferma quando la sua artrite era peggiorata e lo aveva azzoppato in malo modo, e poi George aveva fatto circolare sull’isola due messaggi estremamente chiari: ciò che quel bastardo di Pop Cook ignorava non gli avrebbe fatto alcun male, e George Sullivan avrebbe ammazzato l’uomo o la donna che avesse sollevato il vecchio Pop dalla sua ignoranza. Nessuno si prese tale disturbo, e alla fine i Sullivan ottenero la terra. Insieme al bosco, naturalmente. Il legname fu usato per alimentare le due grandi stufe che riscaldavano la casa e finì nel giro di tre anni, ma la terra sarebbe rimasta. Era questo che George diceva, e loro gli credevano, credevano in lui, e tutti e tre lavoravano come una squadra affiatata. Magari ogni tanto stringere il timone e seguire il vento era faticoso, ma tutto filava davvero liscio.
A quei tempi la madre di Maddie teneva una bancarella lungo la strada, e c’erano sempre moltissimi turisti che compravano le verdure che lei coltivava... che George le aveva detto di coltivare, naturalmente, e anche se non erano mai diventati una famiglia ricca se la cavavano bene. Anche nelle annate in cui la pesca delle aragoste andava male, loro se la cavavano bene. Jack Pace sapeva dimostrarsi prepotente quando l’indecisione di Maddie lo obbligava a esserlo, e lei sospettava che, per quanto si mostrasse affettuoso e delicato durante il corteggiamento, avrebbe saputo fare ricorso a un po’ di brutalità fisica - torcerle un braccio perché la cena era fredda, qualche ceffone o magari qualche sonora sculacciata - col passare del tempo; quando il matrimonio cominciasse a sfiorire, per così dire. Lei vedeva le somiglianze... ma lo amava. E aveva bisogno di lui. “Non ho alcuna intenzione di pescare aragoste per tutta la vita, Maddie,” le disse la settimana prima che si sposassero, e lei gli credette. Un anno prima, quando lui l’aveva invitata a uscire per la prima volta (anche allora lei non si era posta molti problemi per accettare... aveva risposto di sì prima ancora che lui avesse finito di chiederglielo, poi era arrossita fino alla radice dei capelli per la propria ansiosa sfacciataggine), lui avrebbe detto: “Non ho mica voglia di pescare aragoste per tutta la vita.” Un piccolo miglioramento... ma che significava moltissimo. Jack aveva frequentato le scuole serali tre sere alla settimana, prendendo il traghetto avanti e indietro. Dopo un’intera giornata passata a caricare e scaricare nasse era stanco morto, ma partiva lo stesso per la costa dopo una breve pausa per togliersi di dosso con una doccia il forte odore di aragoste e salmastro e per inghiottire due pastiglie eccitanti con una tazza di caffè bollente. Dopo un mesetto, quando vide che lui era deciso ad andare fino in fondo, Maddie cominciò a preparargli un termos di minestra calda da bere sul traghetto. Altrimenti, avrebbe saltato completamente la cena. Ricordava ancora la tormentata indecisione dinanzi alle minestre in scatola nell’emporio... ce n’erano così tante! Gli sarebbe piaciuta al pomodoro? A certe persone non piacevano le minestre al pomodoro. Anzi, alcune le odiavano, anche a prepararle con il latte al posto dell’acqua. Un minestrone? Al tacchino? Una crema di pollo? I suoi occhi angosciati avevano esplorato lo scaffale per quasi dieci minuti prima che Charlene Nedeu le chiedesse se poteva aiutarla... solo che Charlene lo aveva detto con tono sarcastico, e Maddie aveva capito che il giorno dopo lei avrebbe raccontato tutto alle sue amiche e avrebbero ridacchiato, nei gabinetti delle ragazze a
scuola, perché Charlene sapeva qual era il suo guaio. Il solito guaio di Maddie Sullivan, incapace di prendere una decisione su una cosa così semplice come una minestra in scatola. Come avesse potuto decidersi ad accettare la proposta di matrimonio di Jack Pace era ancora oggi motivo di stupore e di meraviglia per tutte loro... ma naturalmente loro non sapevano che, una volta trovato il timone, bisognava anche trovare qualcuno che dicesse come fare per seguire il vento. Maddie aveva lasciato il negozio senza aver comprato nessuna minestra e con una terribile emicrania. Quando era riuscita a raccogliere tanto coraggio da chiedere a Jack quale fosse la sua minestra preferita, lui aveva detto: “Tagliolini al pollo. Quella che vendono in scatola.” Non ce n’erano altre che gli piacevano in modo speciale? La risposta era stata no, solo tagliolini al pollo... quella che vendevano in scatola. Era l’unica minestra di cui Jack Pace sentiva il bisogno nella sua vita, ed era l’unica risposta (almeno su quel particolare argomento) che a Maddie serviva nella sua. Con passo allegro e cuore festoso, il giorno dopo Maddie aveva salito i gradini di legno dell’emporio e acquistato le quattro scatole di tagliolini al pollo che c’erano sullo scaffale. Quando aveva chiesto a Bob Nedeau se ne aveva altre, lui aveva risposto che aveva un’intera maledetta cassa di quella roba, nel retro. Lei aveva comperato tutta la cassa, lasciandolo talmente di stucco che Bob si offrì di portarle la cassa fino al camioncino e si dimenticò perfino di chiederle perché volesse tutta quella minestra di pollo... una mancanza per la quale sua moglie Margaret e sua figlia Charlene lo rimproverarono aspramente quella sera. “Non devi avere dubbi,” le aveva detto Jack una sera, poco prima del matrimonio... lei non lo aveva mai dimenticato. “Altro che pescatore di aragoste. Mio padre dice che sono un sacco di merda. Dice che se andava bene per il suo vecchio, e per suo nonno, e per tutti gli altri Pace e così via all’indietro fino al fottuto giardino dell’Eden, a sentire lui, se andava bene per tutti loro, dovrebbe andare bene anche a me. Ma io non ho mica... voglio dire, ho intenzione di fare qualcosa di meglio.” La fissò, e i suoi erano occhi innamorati, ma anche severi. “Voglio diventare qualcosa di meglio di un pescatore di aragoste, e voglio che tu sia qualcosa di meglio della moglie di un pescatore di aragoste. Avrai una casa sulla terraferma.” “Sì, Jack.” “E non voglio comprare nessuna fottuta Chevrolet.” Tirò un profondo
respiro. “Voglio comprare una Oldsmobile.” La fissò di nuovo, quasi sfidandola a contraddirlo. Lei non fece nulla di simile, ovviamente; disse soltanto sì, Jack, per la terza o quarta volta in quella serata. Nell’anno del loro fidanzamento glielo aveva detto migliaia di volte, e in cuor suo sperava di poterlo dire milioni di volte prima che la morte ponesse fine al loro matrimonio prendendo uno di loro... o, come lei sperava, tutti e due insieme. “Altro che un fottuto pescatore di aragoste, e al diavolo quello che dice il mio vecchio. Ho intenzione di riuscirci, e sai chi mi aiuterà?” “Sì,” aveva detto Maddie. “Io.” “Su questo,” aveva risposto lui con un sogghigno, stringendola fra le braccia, “puoi contarci.” E così si erano sposati. Jack sapeva quello che voleva, le avrebbe detto come fare per aiutarlo a ottenerlo, ed era proprio in questo modo che lei voleva che andassero le cose. Poi Jack morì. Poi, non più di quattro mesi dopo, mentre lei portava ancora il lutto, i morti cominciarono a uscire dalle loro tombe e ad andarsene in giro. Se uno si avvicinava troppo, quelli lo mordevano e lui moriva per qualche tempo, ma poi si rialzava e ricominciava a camminare anche lui. Poi, la Russia e l’America arrivarono molto, molto vicine a ridurre l’intero mondo in briciole, accusandosi a vicenda di aver provocato il fenomeno dei morti che camminavano. “Quanto vicine?” Sentì chiedere Maddie da un corrispondente della CNN circa un mese dopo che i morti si erano risvegliati e avevano cominciato ad andarsene in giro, dapprima in Florida, poi a Murmansk, poi a Leningrado e Minsk, poi a Elmira, Illinois, a Rio de Janeiro, a Biterad, in Germania, a Nuova Delhi, e in un piccolo villaggio australiano ai margini dell’entroterra desertico. (Questo villaggio aveva il pittoresco nome di Boccale Bagnato, e prima che la notizia sbarcasse in America quasi tutta la popolazione di Boccale Bagnato consisteva in morti che camminavano barcollando e cani famelici. Maddie aveva assistito a questi sviluppi grazie al televisore dei Pulsifer. Jack odiava la loro antenna parabolica per satelliti - forse perché loro non potevano ancora permettersi di comprarne una - ma adesso che Jack era morto ciò non aveva più molta importanza.) Rispondendo alla propria domanda retorica su quanto vicine le due potenze fossero giunte alla distruzione della Terra, il commentatore aveva detto: “Non lo sapremo mai, ma forse è meglio così. Io credo che ci sia
mancato un soffio.” Poi, all’ultimissimo momento, un astronomo inglese aveva scoperto il satellite - a quanto pareva un satellite vivente - che era stato battezzato con lo strano nome di Stella Amara. Non era uno dei nostri, e neppure dei loro. Era di qualcun altro. Di qualcuno o qualcosa che arrivava dal grande buio Là Fuori. Be’, secondo Maddie avevano semplicemente sostituito un incubo con un altro, perché poi... l’ultimo poi prima che la televisione (compresi tutti i canali che l’antenna parabolica dei Pulsifer riusciva ad acchiappare) smettesse di trasmettere per mostrare solo una nevicata di disturbi... i morti che camminavano smisero di mordere le altre persone soltanto se queste si avvicinavano troppo. I morti cominciarono a tentare di avvicinarsi. I morti, a quanto pareva, avevano scoperto di gradire ciò che mordevano. Prima che tutte quelle cose strane iniziassero ad accadere, Maddie scoprì di essere incinta, una parola che, da come la pronunciava sua madre, aveva il suono di quando la gola ti si riempie di moccio e tu cerchi di schiarirtela per farne venire su un po’ (o almeno Maddie aveva sempre pensato che la parola avesse proprio quel suono). Lei e Jack si erano trasferiti a Gennesault Island, un’isola vicina chiamata semplicemente Jenny Island da coloro che ci vivevano. Quando il ciclo le era venuto a mancare per due mesi consecutivi, lei aveva attraversato una delle sue micidiali crisi di incertezza, e dopo quattro notti insonni aveva preso una decisione... nonché un appuntamento con il dottor McElwain sulla terraferma. Ripensandoci, ne era felice. Se avesse aspettato per vedere se anche il terzo ciclo sarebbe mancato all’appello, Jack non avrebbe avuto nemmeno quell’ultimo mese di gioia... e a lei sarebbero mancate le attenzioni e le piccole gentilezze che lui le aveva prodigato. Ripensandoci - ora che lei se la stava cavando da sola - la sua indecisione le pareva ridicola, ma nel profondo del cuore sapeva che per decidere di affrontare l’esame le era occorso un enorme coraggio. Avrebbe voluto sentirsi male la mattina per poterne essere sicura; aveva desiderato le nausee come una conferma. Aveva preso l’appuntamento mentre Jack era fuori a occuparsi delle nasse ed era uscita approfittando di una circostanza simile, ma era impossibile andare sulla terraferma senza dare nell’occhio quando
si doveva prendere un traghetto. Troppe persone l’avevano vista. Qualcuno avrebbe detto casualmente a Jack di aver visto sua moglie sul Gabbiano un giorno oppure un altro, e allora Jack si sarebbe fatto spiegare il perché e il come e il quando, e se lei avesse commesso un errore, Jack l’avrebbe guardata come si guarda un’autentica oca. Ma non c’erano stati errori, lei era davvero incinta, e Jack Pace aveva goduto esattamente di ventisette giorni di gioia e di attesa prima che una brutta ondata lo scaraventasse oltre la murata del My Lady-Love, il battello per aragoste che aveva ereditato dallo zio Mike. Jack sapeva nuotare ed era schizzato a galla come un tappo, le aveva raccontato con tono affranto Dave Eamons, ma mentre lo faceva era arrivata un’altra ondata formidabile che aveva spinto il battello addosso a Jack, e a questo punto Dave non aveva voluto aggiungere altro. Ma Maddie era nata e cresciuta su una di quelle isole, e sapeva com’erano andate le cose; anzi, poteva quasi sentire il tonfo sordo mentre il battello con il suo nome traditore fracassava la testa di suo marito, lasciando che l’ondata successiva lavasse il sangue, i capelli, le ossa e il cervello dalla logora fiancata. Vestito con un pesante parka col cappuccio, i calzoni imbottiti e gli stivali, Jack Pace era colato a picco come un sasso. Nel piccolo cimitero sulla punta nord di Jenny Island avevano sepolto una bara vuota, e il reverendo Peebles (a Jenny Island si poteva scegliere in fatto di religione; si poteva essere metodisti, oppure, se questo non garbava, si poteva essere metodisti) aveva tenuto la sua cerimonia davanti a una cassa vuota, come aveva già fatto tante altre volte, e all’età di ventidue anni Maddie si era ritrovata vedova con un dolcetto ormai quasi mezzo cotto nel forno e nessuno che le dicesse dove stava il timone, per non parlare poi di come seguire il vento. Aveva pensato di tornare a Deer Isle e di restare con sua madre fino alla nascita del bambino, ma sapeva che sua madre si sarebbe sentita sperduta forse ancora più di lei, e non ne fece nulla. “Maddie,” le aveva detto e ridetto Jack, “l’unica decisione che riuscirai mai a prendere in vita tua sarà quella di non prendere una decisione.” Sua madre non era certo migliore di lei. Si parlavano spesso al telefono, e Maddie aspettava con la cornetta in mano, sperando che sua madre le dicesse di tornare a casa, ma la signora Sullivan non era in grado di dare consigli a chiunque avesse già festeggiato dieci primavere. “Forse dovresti tornare qui,” le aveva detto una volta senza troppa convinzione, e Maddie non era riuscita a capire se questo significava Ti prego, toma a casa oppure Ti prego, non accettare quest’offerta dovuta a semplice cortesia. Aveva
passato notti insonni cercando di giungere a una decisione, ed era riuscita a fare solo ciò di cui Jack l’aveva spesso accusata: decidere di non decidere. Poi iniziarono i fatti strani, e questo fu un sollievo, perché a Jenny Island c’era solo un piccolo cimitero (con tante fosse occupate da bare vuote... una cosa che prima le era sembrata deplorevole e che adesso invece le sembrava una benedizione, un’autentica grazia del cielo) mentre a Deer Island i cimiteri erano due, molto più grandi, e così le parve molto più sicuro restare dov’era e aspettare. Avrebbe aspettato per vedere se il mondo sarebbe vissuto o morto. Se fosse vissuto, avrebbe aspettato la nascita del bambino. Questo le sembrava più che sufficiente, per ora. E adesso, dopo una vita di obbedienza passiva e di vaghe risoluzioni che svanivano come sogni un’ora o due dopo essersi alzata dal letto, finalmente lei sapeva cavarsela. Sapeva che questo era in parte dovuto all’accumulo di uno shock dopo l’altro, a partire dalla morte di suo marito fino all’ultima trasmissione ricevuta dal televisore dei Pulsifer... quando un ragazzino terrorizzato chiamato a vestire i panni di corrispondente dell’lNS aveva dato quasi per certo che il Presidente degli Stati Uniti, la First Lady, il Segretario di Stato, l’onorevole senatore dell’Oregon (il ragazzino non specificò di quale onorevole senatore si trattasse) e l’emiro del Kuwait erano stati divorati vivi nel salone da ballo della Casa Bianca da alcuni zombi. “Lo ripeto,” aveva detto il giovane, con i foruncoli dell’acne che spiccavano sulla fronte e sul collo come stimmate. La bocca e le guance cominciavano a contorcersi, e il microfono che stringeva in pugno tremava come per una crisi spastica. “Lo ripeto: un gruppo di morti si è appena mangiato per pranzo il Presidente, sua moglie e parecchi pezzi grossi della politica che si trovavano alla Casa Bianca per mangiare a loro volta salmone in bianco e flambé di ciliege. Forza, Yale! Segna-segna! Segna-fotti-segna!” Dopo di che il giovane corrispondente con i vistosi foruncoli aveva perso del tutto il controllo del suo viso e si era messo a urlare, solo che le sue urla erano camuffate da risate, e lui continuò a strillare Forza, Yale! Segnasegna! mentre Maddie e i Pulsifer restarono seduti in un silenzio imbarazzato finché il ragazzino fu ingoiato di colpo da uno spot pubblicitario dei dischi di Boxcar Willy, i quali non erano disponibili in nessun negozio specializzato ma potevano essere richiesti componendo il numero verde 800 eccetera che compariva sugli schermi, le centraliniste erano già in at-
tesa. Sul tavolino accanto a dove sedeva Maddie era rimasto un pastello della piccola Cheyne Pulsifer, e lei annotò il numero prima che il signor Pulsifer si alzasse e spegnesse il televisore senza dire una sola parola. Maddie augurò loro la buonanotte e li ringraziò per avere diviso con lei la televisione e il pop corn. “Sei sicura di sentirti bene, Maddie?” le chiese Candi Pulsifer per la quinta volta in quella serata, e Maddie rispose per la quinta volta che stava benissimo (ed era vero: per la prima volta in vita sua se la cavava da sola, e questo era davvero splendido, come una mano di vernice nuova). Candi le disse di nuovo che poteva avere la vecchia camera di Brian al primo piano in qualunque momento avesse voluto, e Maddie rifiutò per l’ennesima volta, ringraziandola ancora di tutto cuore, e finalmente ebbe il permesso di andarsene. Percorse il mezzo miglio ventoso che la separava da casa sua ed entrò in cucina prima di accorgersi che stringeva ancora in mano il foglietto dove aveva annotato il numero verde 800 eccetera. Lo compose, e non udì nulla. Nessuna voce registrata le disse che le linee erano momentaneamente occupate o che il numero era fuori servizio; nessun suono di sirena la informò di una interruzione lungo la linea (era stato Jack a dirle cosa significava quel suono? cercò di ricordarlo e non ci riuscì, ma la cosa non aveva poi grande importanza, vero?), non ci furono scatti misteriosi o disturbi. Solo un profondo silenzio. Fu allora che Maddie capì... capì con certezza assoluta. Riappese il ricevitore lentamente, pensierosa. La fine del mondo era arrivata. Non potevano più esserci dubbi. Quando non si poteva più chiamare un numero verde e ordinare i dischi di Boxcar Willy che non erano disponibili in nessun negozio specializzato, quando per la prima volta in tutta la sua vita non c’era nessuna centralinista che l’avvertiva di Attendere in Linea, la fine del mondo era l’unica conclusione possibile. In piedi accanto al telefono a muro della cucina, si tastò il ventre già rotondo e disse per la prima volta ad alta voce, senza neppure accorgersi di parlare: “Dovrà essere un parto in casa. Ma andrà tutto bene se te lo ricorderai, Maddie. Non c’è altro modo, non in questo momento. Dovrà essere un parto in casa.” Aspettò l’insorgere della paura, ma non la vide arrivare. “Saprò cavarmela benissimo,” disse, e stavolta udì la propria voce e si sentì confortata dal tono sicuro di quelle parole. Un bambino.
Quando fosse nato, la fine del mondo sarebbe finita a sua volta. “Eden,” disse, e sorrise. Fu un sorriso dolce, il sorriso di una Madonna. Non aveva alcuna importanza quanti cadaveri putrefatti (e magari Boxcar Willy era fra loro) stessero camminando con passi incerti sulla faccia della terra. Lei avrebbe avuto un bambino, e sarebbe stato un parto in casa. E la possibilità di un nuovo Eden sarebbe rimasta. La prima notizia era arrivata da un paesino della Florida lungo l’antica Pista Tamiami. Il nome del villaggio non era così colorito come Boccale Umido, ma era ugualmente azzeccato: Thumper, “grande panzana”. Thumper, in Florida. Era stato segnalato da uno di quei fogli scandalistici che riempiono le scansie accanto alle corsie delle casse nei supermercati e negli empori. I MORTI TORNANO IN VITA IN UN VILLAGGIO DELLA FLORIDA! aveva annunciato il titolo sulla prima pagina dell’Inside View. E la spalla aveva aggiunto: Film dell’orrore diventa realtà! Il titolo di spalla si riferiva a una pellicola intitolata La notte dei morti viventi, che Maddie non aveva mai visto. L’articolo menzionava anche un altro film che lei non aveva mai visto. Il titolo di questa seconda pellicola era Macumba, l’isola dei vampiri. L’articolo era accompagnato da tre foto. La prima era un’inquadratura della Notte dei morti viventi, e mostrava quello che sembrava un gruppo di evasi da un manicomio davanti a una fattoria isolata in piena notte. La seconda era un’inquadratura di Macumba, e mostrava una donna con una quantità incredibile di capelli biondi e il minuscolo top di un bikini che tratteneva a stento due seni delle dimensioni di zucche da primo premio. La donna aveva le mani sollevate e sembrava urlare dinanzi a un negro che portava una maschera. La terza veniva spacciata come una foto scattata a Thumper, Florida. Era l’istantanea sfocata e granulosa di un essere umano di cui era impossibile definire il sesso che camminava in mezzo alla strada principale di un paese. La figura veniva descritta come “avvolta nel sudario tombale”, ma poteva essere chiunque infagottato in un lenzuolo sporco. Non era granché. La settimana prima era stato Bigfoot stupra le piccole esploratrici, questa settimana erano i morti che tornavano in vita, e la prossima settimana sarebbe toccata al Nano assassino di massa. Non fu granché fino al giorno in cui cominciarono a spuntare un po’ dappertutto. Non fu granché fino al giorno in cui il primo notiziario televisivo (“Forse vorrete fare uscire dalla stanza i vostri figli più piccoli,” an-
nunciò cupamente Dan Rather) mostrò creature con le ossa che si intravedevano attraverso la pelle rinsecchita, vittime di incidenti stradali, il sapiente lavoro dei truccatori delle pompe funebri cancellato dall’oscura passività del terreno o dalla frenetica risalita alla superficie (mostrando così i visi maciullati e i crani sfondati), donne dai capelli trasformati in alveari sporchi di terriccio dove ancora si muovevano vermi e insetti, e sempre visi che oscillavano fra un’espressione vacua e una specie di orribile intelligenza calcolatrice. Non fu granché fino alle prime spaventose fotografie in un numero della rivista People che fu posto in vendita sigillato in una busta di plastica come le riviste porno, un numero sul quale spiccava un grosso adesivo arancione con la scritta Vietata la vendita ai minori. Allora sì la faccenda si fece grave. Quando si vedeva un uomo in via di putrefazione che, con ancora addosso i resti infangati dell’abito Brooks Brothers nel quale era stato sepolto, dilaniava il seno di una donna urlante con una T-shirt con la scritta Proprietà dei Petrolieri di Houston, ci si rendeva improvvisamente conto che poteva essere una faccenda davvero grave. Poi erano iniziate le accuse e le minacce reciproche, e per tre settimane il mondo intero era stato distratto dalle creature che fuggivano dalle loro tombe come grottesche falene da bozzoli malati grazie allo spettacolo delle due maggiori superpotenze nucleari apparentemente avviate lungo una rotta di collisione. Negli Stati Uniti non c’erano zombi, dichiarò la Tass: quei pochi che venivano mostrati erano finti e servivano a mascherare un imperdonabile atto di aggressione chimica contro l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Sarebbero seguite rappresaglie se i compagni morti che uscivano dalle tombe non fossero tornati alla loro precedente e doverosa immobilità nel giro di dieci giorni. Tutto il personale diplomatico americano venne espulso dalla Russia e da buona parte dei paesi satelliti. Il Presidente (che di lì a poco sarebbe diventato lui stesso un piatto del giorno per gli zombi) rispose all’accusa tirando sdegnosamente indietro la pancia (era ingrassato di almeno venticinque chili dopo la sua rielezione) e rigirando la frittata. Il governo degli Stati Uniti, disse al popolo americano, possedeva prove inoppugnabili del fatto che i soli morti viventi a zonzo nell’Unione Sovietica erano stati messi in circolazione deliberatamente, e mentre il premier sovietico poteva avere la faccia tosta di sostenere che in Russia circolavano più di ottomila cadaveri ambulanti alla ricerca del collettivismo finale, noi avevamo le prove che in realtà erano meno di quaran-
ta. Erano stati i russi a perpetrare un atto - un orribile atto - di guerra chimica, riportando in vita onesti cittadini americani il cui solo impulso consumistico era quello di consumare altri onesti cittadini americani, e se questi americani - alcuni dei quali erano stati fedeli sostenitori del Partito Democratico - non fossero ritornati disponibili al rientro nelle loro tombe entro cinque giorni, l’Unione Sovietica sarebbe diventata un cumulo di macerie fumanti. Il Presidente espulse tutti i diplomatici sovietici... con una sola eccezione. Un giovanotto che gli stava insegnando a giocare a scacchi (e che non era del tutto contrario a una palpata occasionale sotto il tavolo). Il Norad era a livello di allarme Defcon 2 quando fu individuato il satellite. O l’astronave. O la creatura. O quel che diavolo era. Il primo ad avvistarlo fu un astronomo dilettante di Hinchly-on-Strope nell’Inghilterra occidentale, e questo individuo con il setto nasale deviato, i piedi piatti e l’orchite (stava anche perdendo i capelli, e la calvizie galoppante evidenziava il suo caso veramente orribile di psoriasi) salvò probabilmente il mondo dall’olocausto nucleare. Le postazioni sepolte dei missili erano già spalancate in tutto il mondo mentre i telescopi in California e in Siberia venivano puntati sulla Stella Amara; furono richiuse solo dopo l’orribile fine della “Salyut-Aquila I”, la missione spaziale che partì con un equipaggio di sei russi, tre americani e un inglese appena tre giorni dopo la scoperta della Stella Amara da parte di Humphrey Dagbolt, l’astronomo dilettante con il setto deviato e tutto il resto. Il membro inglese dell’equipaggio, naturalmente, era lui. La sua scoperta gli costò cara. Costò cara a tutti. Gli ultimi sessantun secondi di trasmissione ricevuti dalla navicella Gorbaciov-Truman furono giudicati troppo orribili per essere resi pubblici dai tre governi coinvolti, e così non vi furono dichiarazioni ufficiali. Ma questo non ebbe alcuna importanza; quasi ventimila radioamatori si tenevano sintonizzati sulla frequenza della navicella, e almeno diciannovemila avevano in funzione un registratore quando la navicella era stata... be’, c’era qualche altra parola per dirlo?... invasa. Voce russa: Vermi! Sembra una gigantesca palla di... Voce americana: Cristo! Guardate! Si avvicina! Dagbolt: Si sta verificando una specie di estrusione. Il finestrino di babordo...
Voce russa: Una falla! Perdiamo aria! Le tute! (Borbottio indecifrabile.) Voce americana: ...sembra che si stia divorando una via di accesso... Voce russa femminile (Olga Katinya): Oh basta fermate gli occhi... (Suono di un’esplosione.) Dagbolt: Si è verificata una decompressione esplosiva. Vedo tre... no, quattro morti... e ci sono vermi... ci sono vermi dappertutto... Voce americana: Chiudete il casco. Il casco! Il casco! (Urla.) Voce russa: Dov’è la mia mamma? Dov’è... (Altre urla. Suoni come di un vecchio sdentato che risucchi una purea di mele.) Dagbolt: La cabina è piena di vermi... di creature che sembrano vermi, almeno... il che significa che sono davvero vermi, insomma... si sono staccati con una estrusione dal satellite principale... quello che sembra un satellite, almeno... il che significa che insomma... la cabina è piena di pezzi umani che galleggiano. A quanto pare questi vermi spaziali secernono una specie di aci... (A questo punto vengono accesi i razzi principali; durata dell’accensione sette secondi virgola due. Può essere stato un tentativo di fuga o forse di speronamento dell’oggetto centrale. Quale che fosse il motivo, la manovra non ha funzionato. Appare probabile che gli stessi ugelli dei razzi fossero ingolfati di vermi e che il capitano Vassily Task - o qualsiasi altro ufficiale fosse allora al comando - abbia ritenuto imminente un’esplosione dei serbatoi di carburante a causa dell’occlusione. Ecco il perché dello spegnimento.) Voce americana: Oh Cristo santo li ho dentro la testa, mi stanno divorando il fottuto cer... (Disturbi.) Dagbolt: Mi sto ritirando nel compartimento di poppa. Al momento, sembra la mossa più prudente fra quelle poche che ancora mi rimangono. Credo che gli altri siano tutti morti. Peccato. Una squadra in gamba. Anche quel ciccione russo che continuava a scaccolarsi. Ma da un altro punto di vista non credo. (Disturbi.) Dagbolt: ...morti affatto perché la donna russa... o almeno, la testa mozzata della donna russa, insomma... mi è appena passata accanto, e aveva gli occhi aperti. Mi stava fissando da dentro il suo...
(Disturbi.) Dagbolt:...restate. (Un’esplosione. Disturbi.) Dagbolt: Com’è possibile che un pene mozzato abbia un orgasmo? Io cre... (Disturbi.) Dagbolt: ...intorno a me. Ripeto, le ho tutte intorno a me. Cose striscianti. Sono... ehi, qualcuno sa se... (Dagbolt urla e impreca, poi urla soltanto. Di nuovo il suono di vecchio sdentato.) La trasmissione termina qui. Tre secondi dopo la Gorbaciov-Truman esplose. L’estrusione dalla sfera irregolare soprannominata Stella Amara era stata osservata sulla Terra da più di trecento telescopi durante il breve e alquanto sfortunato conflitto. Mentre iniziavano gli ultimi sessantun secondi di trasmissione, la navicella aveva cominciato a essere oscurata da una massa che sembrava veramente composta di vermi. Al termine della trasmissione la navicella era ormai indistinguibile, ricoperta da una massa strisciante di cose che si erano attaccate al suo scafo. Alcuni istanti dopo l’esplosione finale un satellite meteorologico scattò una singola fotografia dei relitti alla deriva, alcuni dei quali erano di certo frammenti delle creature vermiformi. Una gamba umana rivestita di frammenti di una tuta spaziale sovietica, galleggiante in mezzo ai relitti, fu molto più facile da identificare. E in un certo senso, nemmeno tutto questo aveva la benché minima importanza. Gli scienziati e i capi politici di entrambe le superpotenze sapevano esattamente dove si trovava la Stella Amara: sopra il buco in espansione nella fascia di ozono terrestre. Da lassù stava inviando qualcosa sul pianeta, e non erano messaggi di auguri. Dopo di che partirono i missili. La Stella Amara li schivò facilmente e poi fece ritorno sopra il buco. Altri morti si rialzarono e ripresero a camminare. Adesso cercavano tutti di mordere. L’ultimo sforzo per distruggere la Stella Amara fu compiuto dagli Stati Uniti. Al costo di poco meno di seicento milioni di dollari e nell’ambito del progetto “Guerre Stellari”, l’amministrazione precedente aveva lanciato in orbita quattro satelliti dotati di “armi difensive”. Il Presidente dell’attuale - nonché ultima - amministrazione informò il premier sovietico
della propria intenzione di usare quei missili, e ottenne la sua entusiastica approvazione (il premier russo si era ovviamente scordato che sette anni prima aveva definito quei missili “malefici ordigni di guerra e odio forgiati nelle fucine dell’inferno”). Forse avrebbe funzionato... se almeno un missile fosse riuscito a partire dalle piattaforme orbitali. Ogni satellite era dotato di sei testate da due megatoni. Ogni stramaledetto missile si rifiutò di funzionare. Niente male, come epitaffio per la tecnologia moderna. Maddie non riteneva che l’orribile morte di quegli uomini coraggiosi (e di una donna) nello spazio fosse stato l’ultimo shock; c’era stata anche la faccenda del loro piccolo cimitero, lì a Jenny Island. Ma questo non sembrava contare molto perché, dopo tutto, lei non aveva assistito. Con la fine del mondo ormai a portata di mano e l’isola tagliata fuori - fortunatamente tagliata fuori, secondo l’opinione degli abitanti dell’isola - da ogni contatto con il resto del paese, le vecchie abitudini di vita erano tornate a farsi vive con forza silenziosa ma indiscutibile. Ormai tutti sapevano che cosa sarebbe successo, prima o poi. Era solo questione di tempo, e di essere pronti al momento giusto. Le donne erano escluse. Fu Bob Daggett, naturalmente, a stabilire i turni di sorveglianza. Più che giusto, in quanto Bob era da parecchi anni il capo del consiglio municipale di Jenny Island. Il giorno dopo la morte del Presidente (il pensiero di lui e della First Lady che vagavano con occhi spenti per le strade di Washington addentando braccia e gambe umane come altra gente mangiava cosce di pollo a un picnic non venne menzionato; era un po’ troppo dura da digerire, anche se quel bastardo e la sua vecchia moglie bionda erano stati due Democratici). Per l’occasione Bob Daggett convocò la prima adunanza municipale Per Soli Uomini che si fosse tenuta a Jenny Island fin da prima della Guerra Civile. Quindi Maddie non partecipò, ma seppe tutto quello che c’era da sapere. Fu Dave Eamons a raccontarle ogni cosa. “Voi tutti conoscete la situazione,” disse Bob. Era sempre stato un tipo piuttosto segaligno, ma in quel momento era giallo come un uomo colpito dall’itterizia, e la gente sapeva che oltre alla figlia rimasta sull’isola Bob ne aveva altre tre... tutte sulla terraferma. Ma diavolo, quanto a questo, tutti loro avevano parenti sulla terraferma. “Sull’isola abbiamo un solo camposanto,” continuò Bob, “e finora non è
successo nulla, ma questo non significa che sarà sempre così. In molti altri posti non è successo ancora nulla... ma sembra che quando si cominci, le cose procedano maledettamente alla svelta.” Dagli uomini radunati nel seminterrato della chiesa metodista si levò un coro di assensi. Erano una settantina, con età che andavano dai diciotto anni appena compiuti di Johnny Crane fino agli ottanta di Frank Daggett, il prozio di Bob che aveva un occhio di vetro e masticava tabacco. Nel seminterrato della chiesa non c’erano sputacchiere e questo Frank lo sapeva benissimo, così si era portato da casa un vasetto vuoto di maionese per sputacchiarci in santa pace. “Arriva subito al sodo, Bobby,” disse Frank. “Non devi fare un comizio, e il tempo passa. “ Ci fu un altro coro di assensi, e Bob Daggett arrossì. In qualche modo suo zio riusciva sempre a farlo sembrare uno stupido e un incapace, e se c’era una cosa al mondo che lui odiava più di sembrare uno stupido e un incapace, era sentirsi chiamare Bobby. Cristo santo, lui era un proprietario terriero! Cristo santo, era lui a mantenere quel vecchio impiastro. Ma queste cose non poteva dirle ad alta voce. Gli occhi di Frank erano come schegge di granito. “Va bene,” disse secco. “Ecco qua. Ci servono dodici uomini per montare di guardia. Fra qualche minuto stabilirò i turni, che saranno di quattro ore.” “Io posso restare sveglio molto più di quattro ore!” esclamò Matt Arsenault, e Dave raccontò a Maddie che dopo la riunione Bob aveva detto che nessun mangiarane ridotto a campare con un sussidio di disoccupazione come Matt Arsenault avrebbe mai avuto il coraggio di parlargli con quel tono se suo zio non lo avesse chiamato Bobby di fronte a tutti gli uomini dell’isola, come se fosse un ragazzino invece di un uomo che di lì a tre mesi avrebbe compiuto cinquant’anni. “Può anche darsi,” disse Bob, “ma abbiamo uomini sufficienti per evitare turni troppo pesanti, così nessuno si addormenterà mentre è di guardia.” “Io non mi...” “Non parlavo di te,” disse Bob, ma l’espressione nei suoi occhi mentre fissava Matt Arsenault suggeriva che forse aveva pensato proprio a lui. “Questo non è un gioco da ragazzi. Siediti e chiudi il becco.” Matt aprì la bocca per aggiungere qualcosa, poi guardò gli altri uomini compreso il vecchio Frank Daggett - e saggiamente decise di sedersi. “Se avete un fucile, portatelo con voi quando sarà il vostro turno,” con-
tinuò Bob. Si sentiva un po’ meglio con Frère Jacques sistemato. “A meno che non sia un calibro ventidue. Se non avete un fucile più grosso, o se non avete nessun fucile, venite a prenderne uno qui.” “Non sapevo che il reverendo Peebles ne tenesse una scorta a portata di mano,” disse Cal Partridge, e vi furono parecchie risate. “Adesso non l’ha ancora, ma l’avrà,” disse Bob. “Perché ogni uomo con più di un fucile di calibro superiore al ventidue dovrà portarlo qui.” Lanciò un’occhiata a Peebles. “Ti sta bene se li teniamo in canonica, Tom?” Peebles annuì, torcendosi le mani con aria nervosa. “Col cavolo,” disse Orrin Campbell. “Ho una moglie e due bambini a casa. Dovrei lasciarli indifesi, se un branco di cadaveri si facesse vivo in anticipo per il pranzo del Ringraziamento mentre io sono di guardia?” “Se faremo bene il nostro lavoro al camposanto nessuno correrà rischi,” ribatté impassibile Bob. “Alcuni di voi hanno delle pistole. Non le vogliamo. Scoprite quali donne sanno sparare e quali no, e date a loro le pistole. Le faremo restare insieme a gruppi.” “Potranno giocare a tombola,” ridacchiò il vecchio Frank, e anche Bob sorrise. Così andava molto meglio, Cristo santo. “Di notte, metteremo dei camion tutt’intorno, così avremo tutta la luce che ci servirà.” Guardò Sonny Dotson, che gestiva la Island Amoco, l’unica stazione di servizio di Jenny Island. À rifornire auto e camion Sonny non faceva grandi affari... Cristo, sull’isola non c’erano molti posti dove guidare, e si potevano risparmiare tre centesimi al litro sulla terraferma... ma d’estate, con i battelli per la pesca delle aragoste e i motoscafi, restava spesso a secco di nafta. “La benzina la fornisci tu, Sonny?” “Sarò pagato?” “Sarai col culo al sicuro” disse Bob. “Quando le cose torneranno normali, sé mai questo accadrà, penso che verrai rimborsato.” Sonny si guardò intorno, vide solo facce severe e si strinse nelle spalle. Aveva un’espressione un po’ imbronciata, ma in realtà sembrava più confuso che altro, come riferì Dave a Maddie il giorno dopo. “Nei serbatoi mi rimangono circa centosessanta litri,” disse. “Quasi tutto gasolio.” “Ci sono cinque generatori sull’isola,” disse Burt Dorfman (quando Burt parlava tutti stavano ad ascoltare; essendo l’unico ebreo sull’isola, veniva considerato una creatura tanto mitica quanto spaventosa, un po’ come un oracolo che ci azzecchi due volte su tre). “Funzionano tutti a gasolio. Posso sistemare io le luci, se volete.”
Ci furono mormoni soffocati. Se Burt diceva di poterlo fare, poteva farlo senz’altro. Era un elettricista, e maledettamente in gamba... per essere un ebreo, insomma. “Illumineremo quel posto come un fottuto palcoscenico,” disse Bob. Andy Kinsolving si alzò. “Ho sentito alla televisione che a volte si può sparare a una di quelle... cose... nella testa e fermarla, e che altre volte questo sistema non funziona.” “Abbiamo le motoseghe,” disse impassibile Bob, “e tutto quello che non vorrà restare morto... be’, faremo in modo che non possa arrivare molto lontano da vivo.” E dopo aver stabilito i turni, la riunione terminò. Passarono sei giorni e sei notti, e le sentinelle appostate intorno al cimitero incominciavano a sentirsi un po’ degli idioti (“Non so se sto montando di guardia o se mi prendo per il culo da solo,” disse un pomeriggio Orrin Campbell, mentre una dozzina di uomini sorvegliava un piccolo cimitero dove il fatto più eccitante era un bruco che tesseva un bozzolo sotto lo sguardo dì un ragno in attesa di balzargli addosso) quando finalmente accadde... e quando accadde, fu una cosa maledettamente rapida. Dave raccontò a Maddie di aver udito un suono simile al gemito del vento nel camino in una notte tempestosa... e poi la pietra tombale che segnava il luogo dell’ultimo riposo del figlio dei signori Fournier, il povero Michael, morto di leucemia a diciassette anni - un brutto colpo, certo, visto che era figlio unico e loro erano due persone così gentili - si era rovesciata. Poi una mano rosicchiata con un anello muschioso della Yarmouth Academy era sbucata dal terreno, spuntando fra l’erba spessa. Il dito medio si era lacerato durante la risalita. Il terreno si era gonfiato come (come la pancia di una donna incinta che si preparasse a sfornare il suo piccolo, aveva quasi detto Dave, ma ci aveva ripensato appena in tempo) be’, come una grossa onda diretta verso una piccola insenatura, e poi il ragazzo si era messo a sedere sbucando dalla terra... solo che non c’era più molto da riconoscere, dopo quasi due anni passati là sotto. C’erano pezzetti di legno ancora attaccati al corpo, disse Dave, e frammenti di stoffa blu. Un esame successivo dimostrò che erano frammenti di raso strappati dall’imbottitura della bara nella quale il ragazzo era stato sepolto. (“Cristo benedetto, meno male che Richie Fournier non era qui a guardare...” aveva detto Bill Pulsifer più tardi, e tutti avevano annuito con le gambe ancora tremanti, molti ancora intenti ad asciugarsi la bocca perché
quasi tutti avevano vomitato prima o poi durante quell’infernale mezz’ora... queste non erano cose che Dave Eamons poteva raccontare a Maddie, ma Maddie immaginò più cose di quante Dave sospettasse che lei poteva immaginare.) Le fucilate avevano ridotto a brandelli Michael Fournier prima che fosse in grado di fare altro che mettersi a sedere; altri colpi, esplosi sotto la spinta del panico, scheggiarono la sua lapide di marmo, e fu un autentico miracolo se qualcuno su un lato non impiombò qualcuno sul lato opposto, ma tutto sommato ebbero fortuna. Il giorno dopo Bud Meechum si scoprì un buco nella manica della giacca, ma preferì pensare che poteva essere stata una spina... c’erano macchie di rovi sul suo lato del cimitero. Forse era stato proprio quello, anche se i segni nerastri intorno al foro gli fecero nascere il sospetto che doveva essere stata una spina di grosso calibro. Il ragazzo dei Fournier era ricaduto all’indietro, con quasi tutto il corpo immobile e solo alcune parti che ancora si contorcevano. Ma ormai l’intero cimitero sembrava un mare increspato, come se un terremoto lo scuotesse... ma solo in quella zona, e da nessun’altra parte. Questo era accaduto un’ora prima del calar del sole. Burt Dorfman aveva collegato una sirena a una batteria da trattore, e Bob Daggett pigiò sull’interruttore. Nel giro di una ventina di minuti, quasi tutti gli uomini del paese erano accorsi al cimitero. E questa fu una vera fortuna, perché alcuni morti riuscirono quasi a filarsela indisturbati. Il vecchio Frank Daggett, in anticipo di due ore sull’attacco cardiaco che lo avrebbe fulminato quando ormai era tutto finito e la luna si era levata, dispose gli uomini su due file disposte ad angolo per evitare che si sparassero addosso a vicenda, e per gli ultimi dieci minuti il camposanto di Jenny Island risuonò di spari come il campo di battaglia di Bull Run. Alla fine delle ostilità, il fumo della polvere era talmente fitto da far tossire gli uomini. Nessuno vomitò più, perché nessuno aveva più niente da vomitare. L’odore acido del vomito era quasi più forte dell’odore della polvere da sparo... era anche più penetrante e resistente. Eppure, alcuni di loro continuavano a dimenarsi e a contorcersi come serpenti con la schiena spezzata... quelli più freschi, in massima parte. “Burt,” disse Frank Daggett. “Hai qui le motoseghe?” “Le ho qui,” disse Burt, e poi un lungo suono sibilante gli uscì dalle labbra, come di una cicala che si scavasse una strada nella corteccia di un albero, mentre un conato di vomito gli torceva inutilmente lo stomaco. Non riusciva a staccare gli occhi dai cadaveri striscianti, dalle lapidi rovesciate,
dai pozzi spalancati che avevano eruttato i morti. “Sul camioncino.” “Le hai rifornite?” Sul cranio consunto e calvo di Frank spiccavano in rilievo vene bluastre. “Sì.” Burt si coprì la bocca con una mano. “Mi dispiace.” “Vomita quanto ti pare,” disse secco Frank. “Ma intanto porta qui le seghe. E tu... tu... tu... tu... “ L’ultimo “tu” era il suo bisnipote Bob. “Non posso, zio Frank,” disse nauseato Bob. Si guardò intorno e vide almeno una ventina di uomini stesi fra l’erba alta. Erano svenuti. Quasi tutti avevano visto dei parenti spuntare dal terreno. Buck Harkness, che adesso era riverso sotto un pioppo, aveva preso parte al fuoco incrociato che aveva fatto a pezzi la sua defunta moglie; poi aveva perso i sensi quando il cervello putrefatto della consorte era esploso dalla nuca in un’orribile nube grigiastra. “Non posso. Non...” La mano di Frank, contratta dall’artrite ma dura come una pietra, lo aveva colpito al viso. “Tu puoi farlo e lo farai, piccolo,” disse, secco. Bob si unì agli altri uomini. Frank Daggett li osservò torvo e si massaggiò il petto. “Ero lì vicino quando Frank ha parlato a Bob,” raccontò Dave a Maddie. Non era certo di fare bene a raccontarle quel genere di cose, con Maddie ormai a metà strada per partorire, ma era rimasto troppo impressionato dal coraggio cupo e pacato del vecchio per trattenersi. “È stato dopo... capisci... aver fatto pulizia.” Maddie si limitò ad annuire. “Se non vuoi sentire queste cose,” disse Dave, “la smetto subito, Maddie.” “Voglio sentirle,” disse lei, serena, e Dave le lanciò una rapida occhiata incuriosita, ma lei aveva già distolto gli occhi prima che lui potesse scorgervi il suo segreto. Dave non conosceva il segreto, perché nessuno a Jenny Island lo conosceva. Era così che Maddie aveva voluto, e così voleva che continuasse a essere. C’era stato un periodo in cui, nel buio cupo dello shock iniziale, lei aveva soltanto finto di cavarsela. Ma poi era accaduto qualcosa che l’aveva costretta a cavarsela sul serio. Quattro giorni prima che il cimitero dell’isola vomitasse i suoi morti, Maddie Pace si era trovata a dover fron-
teggiare una semplice scelta: cavarsela o morire. Se ne stava seduta nel soggiorno, a bere un bicchiere del vino di mirtilli che lei e Jack avevano distillato l’agosto dell’anno prima - un periodo che ormai appariva incredibilmente lontano - e a fare qualcosa di talmente banale da apparire ridicolo: sferruzzare a maglia preparando il corredino (era già alla seconda scarpina di lana quella sera). Ma cos’altro le restava da fare? Sembrava che nessuno avesse intenzione di raggiungere qualche centro commerciale sulla terraferma ancora per chissà quanto tempo. Qualcosa aveva picchiato contro la finestra. Un pipistrello, pensò lei, sollevando gli occhi. Tuttavia i ferri si fermarono fra le sue dita. Sembrava che qualcosa si muovesse là fuori nell’oscurità spazzata dal vento. La lampada a petrolio aveva lo stoppino troppo alto e provocava troppi riflessi sui vetri perché lei potesse esserne certa. Lei si alzò per abbassare lo stoppino e udì un altro colpo alla finestra. Questa volta i vetri tremarono, e qualche frammento di stucco secco cadde sul davanzale. Jack aveva progettato di stuccare di nuovo tutte le finestre quell’autunno, pensò lei stupidamente, e poi un altro pensiero le guizzò nel cervello: Forse è tornato per questo. Perché quello era Jack. Lei lo sapeva. Prima di Jack, a Jenny Island non era più annegato nessuno da quasi tre anni. Qualunque cosa li obbligasse a ritornare, sembrava incapace di rianimare ciò che restava dei corpi precedenti. Ma Jack... Jack era ancora fresco. Restò seduta, calma, la testa chinata da un lato, il lavoro a maglia ancora fra le mani. Una scarpina di lana rosa. Ne aveva già preparato un paio azzurro. All’improvviso le sembrò di udire troppe cose. Il vento. Il debole tuonare delle ondate sul Cricket’s Ledge. I fievoli scricchiolii della casa, come se fosse una donna anziana che si stesse sistemando più comoda sul letto. Il ticchettio dell’orologio nell’ingresso. Era Jack. Lei lo sapeva. “Jack?” disse, e la finestra esplose verso l’interno per lasciar entrare qualcosa che non era davvero Jack ma uno scheletro con pochi brandelli di carne penzolanti addosso. Aveva ancora la bussola intorno al collo, ma adesso era verdastra e con una barba di alghe. Il vento risucchiò fuori le tendine come una nube bianca mentre lui, sul pavimento, si sollevava sulle mani e sulle ginocchia fissandola con orbite nere dove erano cresciuti piccoli molluschi. Emetteva suoni confusi. La bocca scarnificata si aprì e i denti si richiuse-
ro di scatto. Era affamato... ma stavolta i tagliolini al pollo non sarebbero bastati. Nemmeno quelli che vendevano in scatola. Oltre le occhiaie vuote incrostate di cirripedi si intravedeva una sostanza grigia, e Maddie capì che stava guardando ciò che restava del cervello di Jack. Rimase seduta dov’era, impietrita, mentre lui si alzava e si avvicinava, lasciando nere impronte fangose sul tappeto, le dita annaspanti. Puzzava di salmastro e di abisso. Le sue mani si sollevarono. I denti continuavano a schioccare su e giù meccanicamente. Maddie vide che indossava i resti della camicia scozzese rossa e nera che lei gli aveva comperato da L.L. Bean il Natale prima. Era costata una fortuna, ma lui aveva continuato a ripetere che era molto calda, che anche dopo tanti bucati era ancora come nuova, e perfino dopo essere rimasta così a lungo in fondo al mare, in effetti... Le gelide ragnatele di ossa che erano tutto ciò che rimaneva delle sue dita le sfiorarono la gola appena prima che il bambino le scalciasse nel ventre - per la prima volta - e solo in quel momento l’orrore, che lei aveva scambiato per calma, l’abbandonò, lasciandola libera di conficcare un ferro da calza in un occhio della creatura. Lanciando orribili suoni gorgogliano simili al risucchio di una pompa con le guarnizioni rotte, la cosa barcollò all’indietro artigliando il ferro, con la scarpina rosa incompleta che ballonzolava davanti alla cavità che un tempo era stato il suo naso. Maddie vide una lumaca di mare uscire strisciando da quella cavità e scivolare sulla scarpina, lasciandosi dietro una scia bavosa. Jack si rovesciò sopra il tavolino che lei aveva comperato a una svendita poco dopo il matrimonio... Maddie non era riuscita a prendere una decisione, si era tormentata allo spasimo, finché Jack le aveva detto che o lo comprava per il loro soggiorno, oppure lui avrebbe offerto il doppio del prezzo chiesto per quel dannato mobile dalla vecchia gallina che conduceva la vendita e poi a casa lo avrebbe ridotto a legna per il camino con... ...con l’... La creatura cadde sul pavimento e ci fu un rumore secco, scricchiolante, quando la sua forma fragile e concitata si spezzò in due. La mano destra strappò dall’orbita il ferro da calza, sporco di tessuto cerebrale putrefatto, e lo scagliò da un lato. Poi la sua metà superiore cominciò a strisciare verso di lei. I denti erano serrati con espressione quasi caparbia. Maddie pensò che stesse cercando di sogghignare, poi il bambino le mollò un altro calcio e lei pensò: Compralo, Maddie, Cristo benedetto!
Sono stufo! Voglio andare a casa e cenare! Se lo vuoi, compralo! Altrimenti, darò a quella vecchia strega il doppio del prezzo che chiede e lo farò a pezzi per il camino con la mia... Una mano gelida, umida, le strinse la caviglia; i denti corrosi si prepararono a mordere. Per uccidere lei e uccidere il bambino. Si strappò dalla sua stretta, lasciandogli solo la pantofola, che lui cercò di masticare e poi risputò. Quando Maddie tornò dall’ingresso, lui era arrivato strisciando fino in cucina - o almeno c’era arrivata la sua parte superiore - con la bussola che strideva contro le mattonelle. Quando lei entrò lui sollevò la testa, e in quelle orbite nere sembrò prendere forma una domanda idiota prima che Maddie calasse l’ascia con un sibilo, spaccandogli il cranio così come lui aveva minacciato di spaccare il tavolino. La testa si aprì in due, riversando sulle mattonelle materia cerebrale che sembrava pappa di avena andata a male, una poltiglia resa tremolante da lumache marine e vermi gelatinosi, che puzzava come un pezzo di tronco spaccato dai gas di putrefazione in un prato in piena estate. Tuttavia le sue mani continuavano ad artigliare e a ticchettare sulle mattonelle, con un suono di grossi scarafaggi. Lei calò ancora l’ascia... e ancora... e ancora. Finalmente non ci furono più movimenti. Un dolore acuto le trapassò l’addome e per un istante lei fu assalita da un’ondata di panico spaventoso: È un aborto? Sto per avere un aborto? Ma il dolore scomparve... e il bambino scalciò di nuovo, più forte che mai. Maddie tornò nel soggiorno, reggendo un’ascia che ormai puzzava come trippa per gatti. Le gambe di quella cosa erano riuscite chissà come a raddrizzarsi. “Jack, ti ho amato tanto,” disse lei, e abbassò l’ascia con un arco sibilante che spaccò in due il troncone al bacino, tagliò il tappeto e fece conficcare profondamente la lama nel pavimento di quercia massiccia. Le gambe, separate, furono percorse da un lungo tremito convulso... e poi rimasero immobili. Lei lo trasportò in cantina un pezzo alla volta, dopo aver infilato i guanti per il forno e avvolto ogni pezzo nei teli isolanti che Jack aveva conservato nella baracca degli attrezzi e che lei non aveva mai buttato... lui e gli uomini del suo equipaggio li sistemavano sopra le nasse nelle giornate più fredde per impedire che le aragoste congelassero. A un certo punto una mano mozzata cercò di stringersi intorno al suo
polso... ma poi allentò la presa. Tutto qui. In cantina c’era una vecchia cisterna inquinata, che nessuno usava più da tanti anni e che Jack aveva progettato di riempire. Maddie Pace spostò il pesante coperchio di cemento da un lato, con l’ombra che cadeva sul pavimento di terra battuta come un’eclisse parziale, poi lasciò cadere i suoi pezzi uno per volta, ascoltanto i tonfi là sotto, e infine rimise a posto il coperchio. “Riposa in pace,” bisbigliò, e una vocina interiore le sussurrò di rimando che suo marito stava riposando a pezzi, e allora lei cominciò a piangere, e il pianto si tramutò in urla isteriche, e lei si strappò i capelli e si unghiò i seni fino a farli sanguinare, e pensò: Sono impazzita, è questo che succede a... Ma prima che il pensiero fosse completato, Maddie fu colta da uno svenimento che si trasformò in un sonno profondo, e il mattino dopo si sentiva benissimo. Non lo avrebbe mai raccontato a nessuno, però. Mai. Lei sapeva, naturalmente, che Dave era all’oscuro di tutto questo, e che anche sapendolo Dave non avrebbe mai detto una parola a nessun altro, se lei glielo avesse chiesto. Quindi le bastò tenere le orecchie aperte, e capì cosa lui intendesse dire, quello che avevano fatto. I morti e le... le parti di morti che non volevano saperne di starsene fermi... erano stati fatti a pezzi con le seghe così come suo padre aveva fatto a pezzi i tronchi sui due acri di Pop Cook dopo la registrazione del passaggio di proprietà, e poi quei pezzi... alcuni ancora striscianti, mani senza braccia che annaspavano ciecamente, piedi staccati da gambe che scalpicciavano sul terreno del camposanto crivellato dalle fucilate come se tentassero di fuggire... tutto era stato innaffiato di gasolio e bruciato. Lei aveva visto il falò fin da casa. Più tardi, l’unica autopompa di Jenny Island aveva diretto il suo idrante sulla pira morente, anche se con il forte vento di levante che soffiava le faville verso il mare non c’era il rischio che il fuoco si propagasse. Quando non rimase altro che un groviglio carbonizzato e maleodorante (e in quella massa c’erano ancora sussulti occasionali, come contrazioni in un muscolo stanco), Matt Arsenault mise in moto il suo vecchio D-9 Caterpillar - sopra la pala di acciaio ammaccata e sotto l’ala del suo berretto il viso di Matt era bianco come ricotta - e ricoprì quell’infernale spettacolo.
La luna si stava levando quando Frank chiamò da una parte Bob Daggett, Dave Eamons e Cal Partridge. “Sto per avere un fottuto attacco cardiaco,” disse. “Oh, andiamo, zio Frank...” “Lascia perdere queste stronzate,” disse il vecchio. “Non ho più molto tempo, e non mi sbaglio. Ho visto metà dei miei amici andarsene in questo modo. Molto meglio che farsi spegnere un po’ alla volta da qualche cancro. È più rapido. Ma quando finirò sottoterra, io ho intenzione di restarci. Cal, infilami il tuo fucile nell’orecchio sinistro. Il mirino si sporcherà di cerume, ma non ne resterà più dopo che avrai premuto il grilletto. Dave, quando alzerò il braccio sinistro infilami il tuo 30.30 sotto l’ascella, e cerca di farlo alla svelta. Quanto a te, Bobby, puntami il tuo contro il cuore. Adesso reciterò un Padre Nostro, e quando dirò amen, voi tre premerete il grilletto.” “Zio Frank...” riuscì a balbettare Bob. Sembrava vacillare sulle gambe. “Ti ho detto di lasciar perdere,” disse Frank. “E non osare svenirmi sui piedi, razza di fottuta mammoletta. Se devo finire sottoterra, voglio restarci per sempre. Ora vieni qui.” Bob obbedì. Frank fissò i tre uomini che aveva intorno, bianchi in viso come Matt Arsenault quando aveva guidato il suo bulldozer sopra uomini e donne che conosceva fin da quando portava i calzoncini corti. “Non ne ho ancora per molto,” disse Frank, “e mi resterà la forza di alzare il braccio una sola volta, quindi cercate di non combinarmi brutti scherzi. E ricordate, io avrei fatto lo stesso per ognuno di voi. Se questo non vi basta, provate a chiedervi se voi vorreste fare la fine di quelli che abbiamo appena finito di sistemare.” “Va bene,” disse roco Bob. “Ti voglio bene, zio Frank.” “Non sei l’uomo che era tuo padre, Bobby Daggett, ma anch’io ti voglio bene,” disse calmo Frank, e poi, con un grido di dolore, sollevò la mano sinistra sopra la testa come un tizio di New York che cerchi in tutta fretta un tassi, cominciando a recitare: “Padre nostro che sei nei cieli... Cristo, che male!... sia santificato il tuo nome... oh, figlio di... venga il tuo regno, sìa fatta la tua volontà come in cielo così in... così in...” Il braccio levato di Frank ondeggiava freneticamente. Dave Eamons, con il fucile piantato sotto l’ascella del vecchio, lo fissava con la stessa attenzione di un boscaiolo che tenga d’occhio un grosso tronco apparentemente deciso a cadere dalla parte sbagliata. Adesso tutti gli uomini dell’isola sta-
vano osservando la scena. Grosse gocce di sudore si erano formate sul viso pallido del vecchio. Le labbra erano tirate sui denti leggermente gialli ma perfetti della sua protesi, e Dave riuscì perfino a sentirgli l’odore del Polident nell’alito. “...così in terra!” urlò il vecchio. “Non ci indurre in tentazione maliberacidalmaleohmerdaoraepersempreAMEN!” Spararono tutti e tre contemporaneamente, poi Cal Partridge e Bob Daggett persero i sensi, ma Frank non cercò di rialzarsi e camminare ancora. Frank Daggett aveva deciso di restare morto, e fu quello che ottenne. Una volta iniziata, quella storia doveva continuare fino alla fine, e così Dave si diede dell’idiota per averla iniziata. Aveva avuto ragione fin dall’inizio; non era una storia adatta a una donna incinta. Ma Maddie lo baciò e gli disse che se l’era cavata in modo splendido, e Dave uscì con aria un po’ rincitnillita, come se fosse stato baciato sulla guancia da una donna che non aveva mai conosciuto prima. E, in un certo senso, era vero. Maddie lo guardò scendere lungo il sentiero verso la strada sterrata che era una delle due arterie principali di Jenny Island, e poi girare a sinistra. Alla luce della luna sembrava ondeggiare leggermente... forse tremava per la stanchezza, pensò lei, o per lo shock. Il suo cuore lo abbracciò... abbracciò tutti loro. Aveva provato l’impulso di dire a Dave che lo amava e di baciarlo sulla bocca invece di sfiorargli la guancia con le labbra, ma lui avrebbe potuto ricavarne un’impressione sbagliata, anche se lei era incinta di cinque mesi e lui era stanco morto. Ma lei lo amava, li amava tutti quanti, perché avevano affrontato un inferno che lei intuiva solo vagamente, e superando quell’inferno avevano reso l’isola un luogo sicuro per lei. Un luogo sicuro per il suo bambino. “Sarà un parto in casa,” disse sottovoce, mentre Dave spariva dietro il profilo scuro dell’antenna parabolica dei Pulsifer. I suoi occhi si levarono verso la luna. “Sarà un parto in casa... e tutto andrà benissimo.” LAVORI SPORCHI Philip Nutman Corvino mentre preme il grilletto... e il film ricomincia ancora. Da vent’anni la stessa immagine; leggeri cambiamenti, ma alla fine sempre le
stesse cose: sangue, morte. Il proiettile colpisce il negro proprio tra gli occhi ed esce dalla parte posteriore del cranio, spruzzando ossa, sangue e materia cerebrale sul muro. Un assassino professionista, la sua mira è sicura. Un colpo perfetto. Il corpo del custode è disteso sul pavimento, le gambe aperte a V. Ciò che rimane della testa penzola a sinistra. Sopra il cadavere, un segno scarlatto di scivolata. Corvino mentre inala. Così facile. Premere un grilletto, spegnere una candela. Un’altra vita estinta. Passa tra i banchi disseminati in disordine che ingombrano la classe, procedendo a esaminare l’armadietto dei rifornimenti. Vuoto. Giù dal corridoio un suono di vetri in frantumi; tre spari in rapida successione. Il cervello, Harris. Il cervello. Il silenzio pesa greve nell’atmosfera immobile. (...la stanza bianca nel condominio sopra il fiume Potomac. Semplice, spartana, come si addice a un assassino. I due quadri astratti nello stile di Pollack. Uno composto da righe blu e arancio, paradossalmente entrambi dinamici e tranquilli. L’altro un arco rosso su uno sfondo bianco, come un tappetino da Seppuku...) La mira di Harris sta peggiorando/a causa della tensione nell’ultima settimana. (...la sua stanza, il suo rifugio dalla pazzia nelle zone di guerra di tutto il mondo, dove solo la sua precisione nella mira lo aveva tenuto in vita... Vietnam... Medio Oriente... Nicaragua...) Lo chiamano Un Colpo Solo, oppure signor Grilletto. Dominic Corvino, il più fidato agente operativo di cui il Dipartimento dispone per i suoi lavori sporchi. Le armi da fuoco sono le sue amiche. Nell’arte di uccidere è un maestro. Ora la posta è cambiata. (...il suo santuario invaso... una figura scura che compariva improvvisamente alla porta... il sibilo di un silenziatore... e un tizzone ardente di dolore che gli trapassava il petto...) Ora si ricominciava da capo. Si siede su un banco, prende una Camel dal taschino della camicia, l’accende e inala. L’odore della morte è un vecchio compagno, il sapore di
una sigaretta un raro piacere. Il fumo lo prende giù in gola. Troppo secco, il tabacco è vecchio. Corvino schiaccia la sigaretta col tallone dello stivale destro mentre si alza, controllando il caricatore della sua automatica 45. Nella vita solo una cosa è sicura: il cambiamento. Tutta la baracca è crollata; non a sinistra o a destra, ma proprio al centro del suo percorso, sparpagliando i rottami in ogni direzione in modo da non lasciare vie di scampo. Strani tempi a Casablanca. Tutto è sempre lo stesso: le strade e i sobborghi delle città di tutto il mondo inondati di sangue. Amico contro amico, fratello contro sorella. (...seguito istantaneamente dal soffocante peso dell’oscurità...) L’istinto di sopravvivenza che ha la meglio sui sentimenti. Non c’è il tempo di preoccuparsi, solo il desiderio di sopravvivere. Corvino scorge la propria immagine riflessa nella finestra, il buio incalzante delinea il viso che a sua volta lo fissa, illuminato dall’alto da una fredda luce elettrica. Ombre incupiscono i suoi occhi da italiano, infossati e incorniciati dalle spesse sopracciglia nere, il pallore ceruleo della sua pelle chiazzata nella luce innaturale. La bocca è una debole, stretta fessura rossa. La natura del suo lavoro, il conto delle sue esperienze passate, non incoraggiano la frivolezza; è un uomo serio, che porta a termine compiti seri con risultati irrevocabili. Si gratta la mascella, le unghie strusciano contro la peluria che ricopre le sue guance. Strati di pelle morta si attaccano alle unghie. Li toglie schioccando silenzioso le dita. Carenza di nutrimento appropriato. Corvino entra nel corridoio. Alla sua sinistra, Skolomowsky e Lewis sono davanti alle porte delle rispettive aule, il giubbotto blu di Lewis insozzato da macchie scure. Skolomowsky sorride. L’odore della cordite e quello ramato del sangue aleggiano nell’aria stagnante della scuola. Corvino guarda a destra. Non c’è segno di Harris. Mentre sta per avvicinarsi alla stanza, arriva Harris. “A posto,” annuncia Harris con il suo duro accento di Brooklyn. Corvino annuisce e si gira verso Skolomowsky e Lewis. “Idem,” dice il polacco. Corvino prende la radio dalla guaina, rimettendo la Colt automatica nella fondina sotto il braccio sinistro. “Alpha a Pulizie. Terzo piano spazzato e lavato. Iniziate a imbustarli.” Dalla grande finestra vicino alla rampa delle scale segnala la conferma
visiva ai ragazzi che aspettano nel parcheggio. Dieci uomini in squadre di due, ciascuna con un sacco per cadaveri, trotterellano in formazione serrata su per le scale ed entrano nell’edificio. “Ci sono altre stanze in questo edificio che non sono state pulite?” Rivolge la domanda a Lewis, ma è Skolomowsky a rispondere. “No,” risponde il gigante. “Abbiamo setacciato ogni centimetro di questo posto che valesse la pena di controllare. Li abbiamo beccati tutti.” Corvino annuisce lentamente. “Niente resistenza?” “No,” dice laconico Lewis. Corvino nota un foro di proiettile nel giubbotto di Lewis, contornato da una macchia bruna. “Nada,” bofonchia Harris. “Non erano abbastanza,” aggiunge sorridendo Skolomowsky. “Fin troppo facile.” Corvino fissa il polacco con occhi penetranti. La passione per il sangue di Skolomowsky minaccia di offuscare di nuovo la sua professionalità. (...Teheran... Juzl morto... Lewis ferito... un colpo di testa di Skolomowsky?... la missione annullata...) Skolomowsky: assassino di professione; sadico di professione. Non si fida del polacco, che ha gusti perversi. (...Nashville... Skolomowsky... i resti di una prostituta... scuoiata viva... la stanza del motel inondata di sangue... del tutto inutile...) Skolomowsky continua a sorridere a Corvino. “Qualcosa non va?” Prima che Corvino possa rispondere, la prima coppia di ragazzi dei trasporti compare in cima alle scale. “Dove?” domanda uno. “In tutte le aule... No,” dice finalmente al polacco. “Controllate le armi, poi tornate al parcheggio.” Corvino si volta verso la finestra, conscio del fatto che Skolomowsky lo sta ancora fissando. All’orizzonte piccoli incendi localizzati pulsano alla periferia sud di Washington. China lo sguardo sulla sua arma, la toglie dalla fondina con chiusura a strappo, estrae il caricatore e lo sostituisce con uno nuovo. Per ogni evenienza. Una seconda coppia sale di corsa le scale. Lui indica l’aula più vicina. Lewis, Skolomowsky e Harris gli sfilano davanti, diretti al piano terra. Corvino ha cancellato dalla sua mente ogni domanda su ciò che sta suc-
cedendo. Come ogni bravo dipendente statale obbedisce agli ordini; i giochi di cervello spettano ai suoi superiori, un semplice soldato esegue ciò che gli dicono di fare. Sotto di lui, Lewis, Skolomowsky e Harris si radunano nel parcheggio accanto ai due veicoli grigi corazzati. I ragazzi dei trasporti e la squadra Beta emergono dall’ingresso della scuola per unirsi a loro. Corvino estrae sovrappensiero il pacchetto di sigarette dal taschino, infila una sigaretta fra le labbra secche, esita, la toglie e la rimette nel pacchetto. Poi getta il pacchetto in un angolo del corridoio. Nell’aria è calato un gelo penetrante. Lewis cammina accanto al camioncino, l’M16 penzolante dalla spalla; l’espressione è calma, e i suoi movimenti indicano ciò che prova in quel momento: molta tensione, troppe notti insonni e i postumi dello shock psicologico di ciò che la squadra di Attacco chiama DZ - dopo zombificazione - che ovviamente cominciano a fare effetto sullo stato dei suoi nervi. Corvino si rende conto di essere un candidato ideale per un crollo post-operazione. “Ehi, Lewis,” dice il polacco. “Lewis. Parlo con te.” Lewis non risponde. “Lewis. Stai perdendo giri. Mi senti?” Corvino sta attraversando il parcheggio mentre Skolomowsky parla. “...ho detto che ci stai ricascando. Come a Teheran.” “Pulizie completate?” chiede a Corvino il capo della squadra Beta, Hutson. Mentre lui sta per rispondere, un movimento all’estremo angolo destro del suo campo visivo: Lewis che solleva il calcio del suo M16 per colpire Skolomowsky alla mascella. Il polacco crolla di schianto sull’asfalto. Lewis lancia un urlo stridulo, tuffandosi sul compagno a terra con la bocca spalancata. Corvino estrae la 45 dalla fondina e preme il grilletto non appena la canna è allineata con la tempia di Lewis... Lewis che, intanto, morde la gola di Skolomowsky e dilania il morbido tratto esposto dell’esofago. Nell’aria notturna il sangue zampilla nero. Lo ha mancato! Il pensiero gli ostacola la concentrazione mentre spara un secondo colpo. Anche quello va a vuoto. Ma il terzo proiettile colpisce il bersaglio e il lato destro della testa di Lewis esplode. Lewis si affloscia sopra il corpo ancora sussultante del polacco.
La mente di Corvino è fuori sincronia. Lo ha mancato. Il polacco continua a muoversi. L’urlo che ha lanciato mentre Lewis gli squarciava la trachea cessa, sostituito da un sibilo rantolante mentre i suoi polmoni prelevano ossigeno direttamente dall’enorme ferita alla gola. Il polacco si scrolla il cadavere di dosso, si mette seduto. Il sibilo aumenta, gli occhi infossati si ritirano ancora di più nelle orbite rinsecchite. Simile a un toro stordito ma ancora inferocito, si leva in piedi barcollante, il viso contorto da un rictus di rabbia. Harris apre il fuoco con la sua 357 Magnum. La prima pallottola colpisce Skolomowsky all’inguine. Lui ha uno scarto di lato ma rimane in piedi. La seconda lo colpisce al petto, uscendo dalla schiena con un suono di rami spezzati. La terza gli stacca il braccio destro all’altezza del gomito. A che cazzo di gioco sta giocando Harris? La testa, sempre la testa; Corvino prende la mira e spara... e il viso del polacco scompare, mentre il corpo crolla a terra con un tonfo molliccio. Corvino si volta verso Harris. Il viso del compagno è una lavagna vuota, i lineamenti un testo non ancora scritto. “Non appena torneremo a Capitol Hill lascerai il servizio, Harris.” Harris non dice nulla. Ha lo sguardo fisso e gli occhi vuoti, e la Magnum fumante in pugno. Corvino si allontana da lui per fronteggiare la squadra Beta, i cui membri hanno tutti sollevato le armi. “Pulite quella schifezza,” dice con un cenno del capo verso Skolomowsky e Lewis. “Dobbiamo completare il carico e riportare questo furgone di specialità alla Casa Bianca. Al Presidente serve carne fresca.” Due uomini della squadra Beta appoggiano i loro M16 contro il veicolo più vicino ed estraggono altri due sacchi dal retro della vettura. Poi, nel giro di un minuto, un cambiamento totale. Tutto inizia con una mezzaluna di fiammate emesse da armi da fuoco e con un rombo di tuono. Quindici secondi: mentre Corvino si gira, una pallottola colpisce alla gola Hutson, che singulta e cade all’indietro sputando sangue; due pallottole colpiscono Corvino allo stomaco, facendolo ruotare su se stesso; cinque uomini della squadra Pulizie vengono abbattuti; alcuni cominciano a rispondere con i loro M16 al fuoco che proviene dal perimetro del parcheggio; la 45 di Corvino gli scalcia fra le mani mentre lui esplode cinque colpi
in rapida successione; il sangue gli sgorga dallo stomaco, dove una sezione di intestino tenue sporge dal grosso buco nel giubbotto da combattimento; dietro di lui, una figura cerca di reggersi in piedi mentre altri proiettili gli crivellano il torace; altri si gettano a terra. Trenta secondi: espulso il caricatore vuoto, Corvino ne infila rapidissimo un altro e continua a sparare, insensibile ai suoi organi interni danneggiati. Un proiettile gli graffia la fronte e gli inonda gli occhi di sangue; lui spara alla cieca, estraendo un altro caricatore dalla cintura mentre si accuccia in una posizione che gli spinge le viscere attraverso l’enorme ferita; diverse teste esplodono schizzando intorno materia cerebrale; gli uomini colpiti si contorcono sull’asfalto insanguinato mentre nuove ondate di proiettili investono i loro corpi. Quarantacinque secondi: Corvino scivola a terra e la pistola gli sfugge dalle dita; cerca di trascinarsi verso un veicolo vicino, con il corpo scosso da sussulti incontrollabili. Il parcheggio sembra un campo di prova per fuochi artificiali; quasi a voler migliorare lo spettacolo, uno dei camion (quello verso il quale Corvino sta strisciando) esplode quando una pallottola colpisce il serbatoio; nel buio si innalza una palla di fuoco, e una pioggia di benzina in fiamme innaffia il suo corpo straziato. Cinquantasette secondi: Corvino continua a strisciare, lasciandosi dietro una scia di intestini che sembra un serpente mentre il suo corpo brucia. Sta morendo per la seconda volta. Non c’è dolore. Sessanta secondi: Corvino sprofonda in una dissolvenza in nero. Nick Packard espulse il caricatore del suo Ingram. Aveva le orecchie che fischiavano. Qualcuno gridò, ma quali che fossero l’ordine o la cosa richiesta non riuscirono a penetrare attraverso lo scampanio sfrenato che sentiva dentro la testa. Il giovane poliziotto, che aveva iniziato il servizio a Washington solo sei mesi prima, non aveva quasi mai avuto occasione di usare un’arma. Adesso gli sembrava che l’Ingram fosse un prolungamento naturale del suo braccio destro. E questo gli piaceva parecchio, perdio! Il capitano Stipe fece segno al gruppo composto da agenti e da civili di avanzare. Il camion in fiamme illuminava la carneficina. Parecchi zombi dai corpi dilaniati si agitavano come vermi sull’asfalto. Uno cercava di sollevare un M16 con un braccio rotto, così Packard sparò una breve raffica alla testa della creatura. Prendi questo, fottuto cannibale figlio di puttana!
“Non sparate più!” gridò Stipe. Le orecchie di Packard ricominciavano a funzionare. “Va bene!” Erano in trenta: sette poliziotti e un gruppo assortito di uomini e donne la cui età variava fra i sedici e i cinquantacinque anni. Tutti erano armati fino ai denti con un’accozzaglia di pistole, fucili, asce, forconi, un paio di balestre e parecchi coltelli. Un ragazzo, una specie di fricchettone vestito di stracci, aveva perfino un lanciafiamme rudimentale che, nonostante la sua aria casereccia, era un vero castigo di Dio. “Packard,” disse Stipe, facendo un cenno al giovane agente. “Visto che eri così ansioso di spazzarli via, adesso finiscili.” “Subito!” Packard sparò tre brevi raffiche e anche l’ultimo dei morti viventi smise di muoversi. Tutti tranne uno. Ciò che restava di Dominic Corvino rotolò su un fianco, per qualche contrazione finale del suo sistema nervoso. Packard estrasse la sua 38 Special dalla fondina e sparò due colpi alla testa ancora in fiamme di quello che un tempo era stato Dominic Corvino. Diavolo, di questi tempi la prudenza non è mai troppa. Stipe si avvicinò a un corpo crivellato steso a faccia in giù sull’asfalto e lo rigirò con un piede. “Stronzi governativi.” “Come?” disse Packard avvicinandosi. “Sono agenti federali. Questo lo riconosco.” “E allora?” Packard sputò in faccia alla creatura. “Rimangono sempre dei fottuti zombi. Carne morta.” Diede un calcio al corpo, spezzando una costola con la punta dello stivale. “Sì, ma questi erano organizzati, esatto? Lavoravano insieme, senza andarsene in giro da soli come invasati. Insomma, se qualcuna di queste creature riesce a conservare la propria intelligenza, ci troviamo nella merda molto più di quanto credevamo.” Andò sul retro del veicolo che non si era incendiato e aprì la lampo di un sacco di plastica. Conteneva il cadavere di una bambina di circa sette anni, colpita al petto da una pallottola e con le guance schizzate di sangue secco. Era una bambina normale. “Merda!” Packard spalancò gli occhi. “Credo che non mi abituerò mai, specialmente per i bambini. Allora cosa dobbiamo fare, capitano?” Continuava a fissare la bambina morta e le sue guance con le efelidi gelide come marmo, sotto la torcia del capitano.
Stipe si voltò verso di lui, le labbra increspate. “Credo che sia ora di fare una visita alla Casa Bianca.” UN TRISTE ULTIMO AMORE ALLO SNACK DEI DANNATI Edward Bryant C’era una volta una bella fanciulla dai lunghi capelli dello stesso colore del grano maturo. Si chiamava Martha Malinowski, e la sua famiglia viveva a Fort Durham da tre generazioni. Martha aveva diciannove anni e aveva trascorso tutta la vita in quell’area di confine dove il Colorado meridionale stempera con discrezione le sue tinte rossicce e brune nel verde cupo delle montagne del New Mexico settentrionale. Gli occhi di Martha erano di un azzurro sorprendente, che poteva scurirsi o schiarirsi in base alla stagione e al suo umore. Il suo stato d’animo aveva iniziato a incupirsi con la caduta delle prime nevi invernali, e così i suoi occhi riflettevano quella condizione. Ora sembravano del colore del ghiaccio che si formava sopra i grossi fanali e i paraurti d’acciaio dei camioncini parcheggiati di fianco allo Snack. Lei serviva ai tavoli, per uno o a volte per due lunghi turni ogni giorno, allo Snack Cuchara, cucchiaio. I turisti occasionali commentavano spesso ad alta voce che il locale avrebbe dovuto essere ribattezzato Cucaracha, scarafaggio. Henry Roybal, il proprietario, indicava allora il cucchiaio al neon appeso davanti alla vetrata. Il che non faceva una grande differenza per i turisti, che raramente sapevano lo spagnolo. Gli abitanti della zona lo chiamavano semplicemente lo Snack. Era una costruzione piena di stucchi che nel corso dei decenni era stata modificata e ampliata più volte. La sua caratteristica più degna di nota era anche la gioia e l’orgoglio di Henry Roybal: un’insegna al neon alta due metri con la scritta QUI SI MANGIA che lampeggiava dal rosso al verde e viceversa, mentre una freccia azzurra indicava l’ingresso dello Snack. La bellezza di Martha Malinowski infestava i sogni osceni di molti membri della comunità. Lei era ampiamente insensibile alla cosa e ai sognatori. Ignorava tutti quelli che non aveva un valido motivo per notare. Le sue preferenze andavano in blocco a Bobby Mack, il vicesceriffo. Bobby Mack era sempre cordiale con lei, ma sembrava che tutto finisse lì. Martha si chiedeva se lui non fosse troppo timido per esprimere i suoi sentimenti.
Poi c’era Bertie Hernandez, che letteralmente sbavava per Martha. Rozzi ed esuberanti, Bertie e i suoi amici erano fra i migliori clienti di Henry. Martha non era mai lieta di vederli arrivare allo Snack. Ma un lavoro era un lavoro, e gli affari erano affari in quel mondo di mari d’erba, orizzonti infiniti e statale 159. Un giorno Martha avrebbe messo da parte abbastanza per andarsene. Oppure, se Bobby Mack l’avesse voluta, forse sarebbe rimasta. Sapeva essere pratica anche in fatto di romanticismo, tuttavia conservava i suoi sogni. Gli uomini osservavano le fragili vecchiette che battevano e graffiavano inutilmente contro la spessa vetrata dello Snack, le dita adunche sfarfallanti come le ali di uccelli feriti. “A me non sembrano tanto cattive,” disse Billy Gaspar, un giovanotto ben piantato con una camicia scozzese rossa da boscaiolo. “Tu non sai un cazzo degli zombi,” disse Shine Willis, che era di pochi anni più anziano di Billy e di mezza testa più alto. “La settimana scorsa ero a Springs quando un branco di loro è schizzato fuori da un pullman della Greyhound in centro. Sono più veloci di quanto sembrano, e anche più forti. Specialmente se hanno mangiato bene.” Ridacchiò. Billy diventò un pochino più pallido. “Mangiano la gente.” “Già,” disse Shine. “La gente.” Bertie Hernandez sollevò gli occhi dal piatto della sua colazione. “Portami un’altra fetta di bacon, Martha” disse. “E dì a Henry di farla spessa e ben cotta.” La radio sopra il registratore di cassa strombazzava la cover dei Beat Farmers di Sweet Jane. “E spegni quella merda. Voglio sentire qualcosa di decente.” “Per esempio?” chiese qualcuno lungo il banco ricoperto di formica. “Conway Twitty,” disse Bertie. “Quella è musica come si deve.” La radio rimase sintonizzata sulla stessa stazione. Alla canzone dei Beat Farmers seguì Crazy Lemon di Joe Ely. “Meglio,” disse Bertie. “Cosa ne facciamo delle nonnine?” chiese Shine. “Da dove vengono?” disse Billy Gaspar. Le sue dita tormentavano una tazza intatta di caffè che si stava raffreddando. “Da Eventide Manor, quasi tutte. La casa di riposo.” Shine fece una smorfia priva di allegria. “Direi che stanotte uno zombi è passato a far loro una visitina.” “Dobbiamo ucciderle?” disse Billy.
“Troppo vecchie da scopare,” disse Shine. “Troppo dure da mangiare.” Il colorito di Billy sembrò passare dal bianco al verdognolo. Qualcuno più vicino alla vetrata disse: “Vedete la seconda a sinistra? Quella è la vecchia signora Davenport, la nonna di Kevin. “ “Quella al centro,” disse Bertie Hernandez, “è mia madre. Merda. Togliamoci il pensiero.” Girò sullo sgabello e si alzò con un solo movimento fluido. Estrasse la grossa 357 Magnum dalla fondina e controllò il tamburo. “Bell’arma,” disse Miguel Espinosa. “Sei vecchiette,” disse Bertie. “Credo di poterle sistemare.” “Vuoi una mano?” Bertie scrollò il capo. “Solo se mi daranno un morso. Allora sparatemi alla svelta.” Sembrava una discussione estremamente naturale. “Perché non aspettate tutti Bobby Mack?” disse Martha. “Bobby Ma-cchi?” la scimmiottò Bertie. “Quella checca del tuo sbirro del cuore? Che si fotta. Dovrà cercarsi da solo i suoi zombi da impiombare.” Con il naso che arrivava all’altezza del pomo d’Adamo di Bertie, Martha alzò uno sguardo gelido sul suo viso. “Non dire mai più cose del genere. Mai più.” Bertie la guardò fissamente per qualche secondo. “Stai a vedere come sistemo quelle teste morte, tesoro. Se lo spettacolo ti scalda abbastanza la passerina, forse stasera ti porto al cinema a Walsenburg e poi al Motel Six.” “Bertie,” disse Henry Roybal. “Non c’è nessun bisogno di parlare in questo modo.” Il proprietario dello Snack aveva sporto la testa dalla cucina. “E non sporcarmi la vetrata. L’ho lavata appena ieri.” “Sono quelle là fuori a sporcarla,” disse Shine. “Sangue, pus, ogni genere di schifezza.” “Okay,” disse Bertie, spostando lo sguardo da Martha alle vecchiette dietro la vetrata. Martha si irrigidì. Poi si voltò verso Henry, il cui corpo massiccio era ancora incuneato nella porta della cucina. “Non puoi chiamare Bobby Mack?” Henry scosse il capo. “Ci ho provato. Alla radio non risponde nessuno, e il numero dello sceriffo è occupato. Credo che molti stiano chiamando per segnalare di aver visto uno zombi o due. Mi dispiace, muchacha.” “Coprimi le spalle,” disse Bertie a Shine. “Non si sa mai.” L’amico an-
nuì e sollevò il suo fucile Remington a pompa. Bertie sorrise a Martha. “Non mi auguri buona fortuna con un bacio? No?” Alzò le spalle e si rivolse agli uomini allineati lungo il banco. “Qualcuno cerchi di distrarle per il tempo necessario a sgomberare la porta.” In fondo al banco, un cowboy dal viso rinsecchito con un paio di jeans tagliati all’altezza degli stivali e una camicia con i bottoni a perline avanzò dinoccolato verso la vetrata. Fissò per un attimo i visi delle donne zombi là fuori, poi si girò, abbassò i jeans e mostrò loro le natiche. Gli zombi si affollarono verso quei due prosciutti premuti contro il vetro. “Bifolco,” disse Martha. Bertie tolse il chiavistello e schizzò sulla ghiaia. Shine richiuse subito la porta. “Che nessuno mi venga fra i piedi se Bertie ha bisogno di aiuto.” “Sono tutte tue, amico,” disse Miguel Espinosa. “Non ci tengo a conoscere più da vicino quelle signore.” Gli zombi dovevano essersi accorti che adesso c’era carne più fresca all’esterno e a portata di denti. Tuttavia, impiegarono alcuni secondi per voltarsi impacciati e mettere a fuoco Bertie Hernandez. Bertie impugnava la Magnum nella posizione canonica a due mani, mirando lungo la canna. “Bertieee...” Il grido fu abbastanza stridulo da sentirsi perfino dentro lo Snack. La madre di Bertie si tuffò verso il figlio. La bocca della 357 sputò una lingua di fuoco e la nuca della signora Hernandez esplose, spruzzando di sangue e tessuto cerebrale il viso dello zombi subito dietro di lei. Dentro lo Snack, Billy disse: “Non sapevo che potessero ricordare qualcosa di quando erano umani.” Miguel alzò le spalle. “Questione di riflessi, scommetto. Sai, come i polli che continuano a zampettare dopo che gli hai staccato la testa.” Billy non sembrò del tutto convinto. Bertie spappolò il viso ai due zombi successivi, schivò un quarto che aveva avuto l’astuzia di attaccarlo su un fianco, poi infilò praticamente la canna in bocca a una quinta creatura. Il proiettile in uscita scheggiò uno spigolo del tetto dello Snack. “Dios!” urlò Henry. “Fai attenzione!” Bertie aveva distolto l’attenzione dallo zombi più astuto. Mentre teneva d’occhio il sesto che avanzava, l’altro superstite si avvicinò tanto da agguantargli la mano che reggeva la pistola. Poi l’ultimo zombi gli strinse le braccia ossute intorno a un polpaccio e cominciò a masticargli uno stivaletto Fry in pelle di elefante. “Merda!” esclamò Shine Willis, togliendo il chiavistello e sparando una
fucilata non appena la porta si spalancò sotto il suo calcio. Aveva perfettamente a tiro lo zombi che Bertie stava tenendo alla larga con entrambe le mani. La testa della vecchia si disintegrò letteralmente e il corpo cadde all’indietro, con qualche sussulto mentre piombava sulla ghiaia del parcheggio. “Gesù!” urlò Bertie. “Mi hai fatto saltare un timpano!” Shine girò il fucile e colpì con il calcio il cranio dell’ultimo zombi ancora intento a masticare lo stivale di Bertie. Ci vollero tre colpi prima prima che le mascelle della creatura mollassero la presa. “Cristo,” disse Shine ansimante. “È peggio di un lucertolone Gila.” Bertie si staccò scalciando dal corpo doppiamente morto dello zombi. “Merda, amico, l’avevo sotto tiro... potevo farle fuori tutt’e due.” “Sì, certo.” Shine ripulì il calcio del fucile sul vestito a fiori della vecchietta. “Se avessi aspettato un altro secondo, adesso saresti uno zombi anche tu e io sarei costretto a farti saltare quella tua testa fottuta fino in Arkansas.” Bertie non disse nulla; prese semplicemente alcune cartucce da una tasca e cominciò a ricaricare la Magnum. Quando ebbe finito, disse: “Okay, amico, ti devo la pelle. Torniamo dentro e ti offro un caffè.” “Mi serve qualcosa di più forte,” disse Shine. Rimasero raggelati per un attimo quando udirono la sirena. L’auto della polizia di contea sterzò sull’asfalto e aggredì la ghiaia. Bertie e Shine fecero un salto di lato per evitare la spruzzata di sassi. Bobby Mack Quintana scese dall’auto con la pistola d’ordinanza spianata. “Cosa succede qui?” “Fottiti,” disse Bertie. “Henry ti spiegherà tutto.” Si girò e tornò dentro lo Snack, seguito da Shine con la canna del Remington appoggiata su una spalla. Bobbie Mack rimase a fissarli. “Zombi?” esclamò. “Tu che ne pensi, Sherlock?” Il vicesceriffo tirò fuori un taccuino e una penna a sfera. Cautamente rivoltò un corpo con la punta aguzza dello stivale. Riconobbe il pezzo di viso che rimaneva. Martha osservava da dentro. Il corpo che Bobby Mack stava identificando era quello della vecchia signora Hernandez. Martha la conosceva fin da quando era bambina. La signora Hernandez le aveva letto molte storie dai libri di P.G. Wodehouse che le avevano fornito lo spunto per il nome di Bertie, dal loro protagonista Bertie Wooster.
Martha sentì un improvviso sommovimento nel ventre. Riuscì a raggiungere appena in tempo il bagno delle signore. Mentre si chinava sulla tazza e vomitava la colazione, sentì Bertie Hernandez che si lamentava al banco. “Ehi, Henry, porta qui le chiappe. Questo bacon è troppo cotto!” “Bobby Mack, voglio parlarti,” disse Martha. Bertie Hernandez e i suoi amici erano sul retro dello Snack, in un campo; avevano ammucchiato i corpi delle sei vecchiette zombi, li avevano innaffiati di benzina senza piombo e adesso si scaldavano i palmi callosi e le dita intirizzite davanti al falò. Il vicesceriffo aveva rammentato loro la recente legge approvata nello stato. “’Chi li uccide, li brucia’,” aveva ripetuto un po’ sfottente Bertie. “Certo, vicesceriffo, siamo bravi cittadini. Ci faremo un bell’arrosto di zombi... così ci verrà più appetito per il pranzo.” “Non posso perdere altro tempo,” piagnucolò Miguel Espinosa. “Devo andare a lavorare alla Quik-Lube.” “Chiudi quel becco fottuto,” disse Bertie. “Ci penseremo noi,” disse a Bobby Mack. Il vicesceriffo restò a guardare per qualche minuto, poi entrò nello Snack. Quando Martha disse che voleva parlargli, esitò. “Una questione di lavoro?” disse. Martha sospirò. “Stai scherzando? Voglio solo riposarmi qualche minuto.” Bobby Mack si mostrò dubbioso, ma poi alzò le spalle. “D’accordo, possiamo parlare.” “Non qui.” Lanciò una voce a Henry in cucina. “Ehi, capo, mi prendo la mia pausa.” E senza aspettare risposta condusse fuori Bobby Mack. Un fredda folata di vento autunnale li seguì per un centinaio di metri oltre la statale e su per una collinetta alberata. Il fumo nero e unto si attocirgliava in spire sopra le loro teste. Martha arricciò il naso. Bobby Mack Quintana aveva un aspetto splendido nella sua uniforme marrone e con il suo Stetson in testa. Il cinturone di pelle nera intorno ai fianchi stretti aggiungeva un tocco piacevole. “Volevo solo fare quattro chiacchiere,” disse lei, girandosi per guardarlo in faccia. Dovette inclinare di parecchio il viso per incontrare i suoi occhi scuri. “Lo immaginavo,” disse Bobby Mack. E sorrise.
È timido, pensò lei. Martha tirò un profondo respiro. “Sarebbe troppo sfacciato,” disse, “chiederti perché non ti piaccio?” Bobby Mack sembrò colto di sorpresa. “Perché non mi piaci? Ma tu mi piaci, Martha. Sul serio.” “Non lo dimostri mai.” Lei stessa era stupita dalla propria franchezza. Sapeva che avrebbe fatto meglio a misurare le parole, e invece le sfuggivano dalle labbra per conto loro. “Voglio che tu sia più cordiale con me, Bobby Mack.” Il vicesceriffo fece per dire qualcosa, ma gli uscì solo un balbettio. Respirò a fondo e ricominciò. “Non voglio pestare i piedi a nessuno. Credevo che tu e Carl Crump...” “Carl Crump?” disse lei incredula. Cosa poteva aver spinto Bobby Mack a pensare che ci fosse qualcosa fra lei e il figlio del preside del liceo? “È solo un... un imbecille arrapato, proprio come...” Suo padre, avrebbe voluto aggiungere, ma si trattenne in tempo. Inutile peggiorare la situazione. Sapeva che i Crump ballavano la quadriglia con i genitori di Bobby Mack il venerdì sera. “Carl?” ripeté di nuovo. “Perché credi che lui e io... ?” Bobby Mack sembrò arrossire. “Be’, lui va in giro a dire...” “Chi... Carl Crump?” Il vicesceriffo annuì. “Ci mancherebbe altro,” disse Martha. “Forse allo Snack non guadagno molto, ma ho i miei principi.” “E orgoglio,” quasi sussurrò Bobby Mack. “Anche quello.” Martha si avvicinò e gli strinse dolcemente le mani. Le loro dita si toccarono, calde. “Nessun’altra chiacchiera di cui vorresti chiedermi spiegazioni?” Bobby Mack la fissò negli occhi. “No,” disse. Lei avrebbe potuto dargli del bugiardo, ma preferì non farlo. Non voleva pensarci, ma sapeva che in città c’erano uomini che parlavano di lei, che fantasticavano, che magari si vantavano di averla toccata al buio, sui sedili posteriori delle loro auto, nella galleria del cinema di Walsenburg, o sull’erba lungo le rive del... “D’accordo,” disse lei. Non era mai successo. Dio le era testimone che lei li aveva sempre respinti. Tutti avevano detto cose che a prima vista potevano sembrare innocue, ma che significavano qualcosa di ben diverso se esaminate da vicino. “Bella giornata,” disse lui, mentre il vento che aveva cambiato direzione soffiava il fumo dei cadaveri fra gli alberi e dritto in faccia a loro. Martha cominciò a ridere e a tossire insieme. Quando poté di nuovo parlare, disse: “No, non direi proprio.” Anche Bobby Mack scoppiò a ridere. “Già, hai ragione. È una brutta
giornata, una giornata davvero schifosa, tranne per questo.” Le sue dita si strinsero intorno a quelle di lei. Martha chiamò a raccolta tutto il proprio coraggio. “Bobby Mack, credi che questa sera ti andrebbe di uscire e fare qualcosa?” Il fumo del falò si arrotolava sopra le loro teste e saliva fra i rami dei pini. Le dita di lui le strinsero le mani con tanta forza da farle quasi male. Ma a lei non importava. “Sì,” disse Bobby Mack. “Smonto di servizio alle sei. Sì,” disse ancora. Dopo un lungo istante sorrisero tutti e due e cominciarono a scendere verso lo Snack. Con quel cielo parzialmente coperto, Henry aveva già acceso l’insegna al neon. QUI SI MANGIA, lampeggiavano i tubi luminosi. QUI SI MANGIA, QUI SI MANGIA, QUI SI MANGIA. Bobby Mack riconsegnò la Ford della contea alle sei e passò a prendere Martha allo Snack con la sua Suzuki Samurai. “Andiamo al Bowling Lanes?” disse, lanciandole una lunga occhiata e poi riportando lo sguardo sulla strada. “Certo. Benissimo.” “Però stasera non si potrà giocare,” disse lui. “L’ho sentito alla radio. L’assemblea è alle sette.” “Dovremmo fare in tempo a mangiare.” “Vuoi restare per l’assemblea?” disse lei. “Devo farlo. Ordine dello sceriffo.” “Oh,” disse lei. “Merda!” Tump-tump. La Samurai sobbalzò sopra qualcosa che giaceva rannicchiato in mezzo alla strada. “Scusa il mio linguaggio, Martha.” Lei non ci fece caso. “Cos’era?” “Sembrava un cane.” Con la testa mancante di un pezzo. Ma questo lui non lo disse. “Era già morto.” “Povera bestia.” Martha guardò fuori dal finestrino. “Era tutta rannicchiata come la signora Hernandez questa mattina.” Bobby Mack non disse nulla. “Questa mattina...” continuò Martha. “E così che andranno le cose da adesso in poi?” “Vorrei saperlo anch’io.” Bobby Mack parlava con parole secche, misurate. “In base alle nuove disposizioni Bertie può fare quel genere di cose. Chiunque può farle. Sono allarmati per quello che è successo all’est. Con uno zombi non si discute. Bisogna sparargli dritto nella testa.”
“Non possono essere tutti cattivi,” disse Martha. “Ce ne sarà pure qualcuno che ricorda di essere stato vivo.” “Forse lo ricordano,” ribatté Bobby Mack. “Forse è per questo che sono così inc... arrabbiati.” Martha, tuttavia, non sembrava soddisfatta. “Non credo che potrei ucciderne uno se fosse una persona che ho amato.” “Difficile dirlo.” Bobby Mack sterzò verso destra, lasciando l’asfalto. “Io penso che riusciremmo a fare ogni genere di cosa se ci fossimo costretti.” Il parcheggio accanto al bowling del lago Chama non era affollato. Fermò la Samurai vicino alla fila di olmi che costeggiava il lato più vicino del parcheggio. “Non se lo avessi amato,” mormorò Martha. “Come?” disse Bobby Mack. “Scusa, non stavo ascoltando.” “Nulla. Andiamo a mangiare.” Avrebbe potuto mangiare cheeseburger e patatine in qualunque momento allo Snack, ma questi erano stati preparati da un cuoco diverso. Avevano un sapore squisito. Una Coca a testa. E panna cotta con cioccolata fusa per dolce. Verso le sette la sala del bowling aveva cominciato a riempirsi di cittadini di Fort Durham e della campagna tutt’intorno. Era chiaro che non ci sarebbero state sedie per tutti nell’area davanti alle piste, così il vecchio MacFarland, il proprietario, consegnò scarpe da bowling agli ultimi arrivati. Avrebbero dovuto accontentarsi di sedere sul legno lucido delle piste. “Sembra che ci siano proprio tutti,” disse Bobby Mack. “Laggiù c’è lo sceriffo, insieme al sindaco e a quasi tutti i funzionari della contea.” Martha li aveva già visti, ma aveva notato anche Carl Crump junior e senior, per non parlare di padre Sierra e del reverendo Beecham, quest’ultimo accompagnato dalla moglie. Sia il prete che il pastore le avevano fatto delle proposte... o almeno era questo che lei era giunta a sospettare. Non avrebbe saputo in quale altro modo interpretare le loro parole e le loro azioni in svariate occasioni. La cosa era sembrata tragica, ben più triste e in un certo senso più sconvolgente delle proposte del preside Crump o di suo figlio. Ma la cosa più strana... Ancora adesso cercava di non ripensarci mai. La proposta più incredibile era stata quella ricevuta dalla signora Beecham, la moglie del pastore. Dopo quel fatto, per un intero semestre, il semestre finale prima del diploma, lei aveva tentato di vestirsi in modo ancora più convenzionale del
solito. Non sembrava aver funzionato. Aveva dovuto interpretare ancora sorrisetti e ammiccamenti. Il sindaco Hardesty alzò la sua mole paffuta dietro il leggio in fondo alla sala. “Cerchiamo di fare silenzio, gente. Prima iniziamo, prima potremo tornare a casa e fare ciò che dobbiamo fare.” La sala si acquietò. “Immagino che tutti sappiate più o meno cosa sta succedendo, dopo aver ascoltato la radio e la televisione e dopo aver sentito quella signora del Ministero della Sanità all’assemblea della settimana scorsa.” “Non le ha creduto nessuno,” disse Bobby Mack a bassa voce. Martha sapeva che era vero. Solo una settimana prima, le storie sugli zombi trasmesse ogni ora dal notiziario della KNBS erano apparse proprio quello... storie. Era qualcosa di simile a una guerra nell’America Centrale o a un vulcano che esplodeva in Asia. Uno non poteva credere a certe cose se non le vedeva con i propri occhi. Altrimenti non erano reali. Adesso gli zombi erano piuttosto reali. I fatti di quella mattina lo dimostravano. Il sindaco Hardesty parlò del massacro a Eventide Manor e raccontò brevemente le gesta di Bertie allo Snack. “Dobbiamo comportarci tutti da eroi come lui,” disse il sindaco. “Dobbiamo proteggerci a vicenda e fare qualcosa di più di quello che è puro e semplice dovere.” “E armare i civili con armi automatiche,” disse sarcastico Bobby Mack all’orecchio di Martha. Il sindaco proseguì, tentando di mostrarsi ricco di ispirazione. Poi venne il momento delle domande. Qualcuno parlò dal fondo della zona ristorante. “Insomma, quanto durerà questa faccenda degli zombi?” “Probabilmente,” disse il sindaco, “finché l’esercito non riuscirà a organizzarsi e ad intervenire in modo efficace.” “Dopo quello che è successo all’ospizio, non sarebbe una buona idea impiantare qualche blocco stradale? Come per una quarantena, mi spiego?” Il sindaco fece un sorrisetto diplomatico. “È probabile che abbiate già visto tutti il notiziario di questa sera. Sia Denver che Albuquerque sono conciate piuttosto male. Ma fortunatamente per quelli come noi che vivono in provincia, gli zombi non sanno guidare.” “Però qualcuno è arrivato fin qui e ha fatto piazza pulita a Eventide Manor.” Il sindaco aveva l’aria di tentare strenuamente di pensare restando in piedi. “Forse è stato un virus o qualcosa del genere.” Alzò le spalle. “Qualcosa nell’aria o nel cibo che ci è arrivato da...”
“Pessima mossa,” disse Bobby Mack, a bassa voce. “Sta dicendo un sacco di balle. Gli zombi non possono infettarci con uno starnuto o usando i nostri asciugamani. Devono per forza morderci.” Martha rabbrividì e posò le mani sulle sue. L’assemblea cominciò a dissolversi nel caos. La gente urlava domande e opinioni, infischiandosene del martelletto del sindaco. “Usciamo di qui,” disse Bobby Mack. Le strinse la mano e la guidò verso l’uscita. Martha vide parecchi occhi seguirli, con espressioni incuriosite. Nessuno dei due maschi di casa Crump sorrideva, però. Neppure il prete, e nemmeno il pastore e sua moglie. Mi odiano, pensò, un po’ sorpresa da quella rivelazione. Mi vogliono, ma riescono anche a odiarmi. Fuori, l’aria gelida della notte allontanò il sudore e il fumo rancido di sigaro. Non era necessario che si tenessero ancora per mano, ma continuarono a farlo lo stesso. Attraversato il parcheggio per metà, Bobby Mack le lasciò libere le dita e trotterellò avanti. “Ehi! Cosa diavolo state facendo?” Quando Martha lo raggiunse, vide che Bertie Hernandez e i suoi compari si stavano divertendo. “Diamo una festicciola di addio,” disse Bertie. “Tu che ne pensi? Non si direbbe che stiamo impiccando uno zombi?” Quella, infatti, era l’impressione che si ricavava dalla scena. Billy, Miguel, Shine e gli altri erano radunati intorno al vecchio Chevy rosso di Bertie. Il camioncino era fermo sotto gli olmi. La sponda posteriore era abbassata,, e lassù in piedi c’era un uomo completamente legato che Martha non riconobbe. Ma in ogni caso sarebbe risultato difficile identificarlo. Un orecchio penzolava libero, àncora attaccato per una sottile striscia di pelle grigia. Un liquido scuro sibilava e schiumava fra le labbra spaccate. Diversi giri di filo spinato, avvolti intorno alla testa per il lungo, dalla mascella al cocuzzolo, gli tenevano la bocca ben chiusa. Bertie vide che i due nuovi spettatori fissavano il filo spinato. “Dobbiamo impedirgli di mordere. Questo è uno zombi, comprende?” “Avete intenzione di linciarlo?” disse Bobby Mack. “Questo è omicidio.” “Per essere omicidio dev’essere vivo,” disse Shine Willis, sogghignando. “Allora è mutilazione di cadavere,” disse il vicesceriffo. “Oh, andiamo, Bobby Mack, falla finita,” disse Bertie. “Sai benissimo quanto me che non ci sono leggi che proteggono questi mostri. Non è co-
me se fossero una specie in via di estinzione o roba del genere. Devono soltanto morire, tutto qui.” “Chi... chi è?”disse Martha. “Il tizio che ha impestato l’ospizio,” disse Bertie. “Credo che dovesse consegnare la carta igienica e gli asciugamani. È arrivato da Springs, probabilmente. Dopo pranzo io e i ragazzi siamo andati all’ospizio a dare un’occhiata. Lo abbiamo pescato in cantina che si rosicchiava l’ultimo pezzo di un piede del dottor Jellico. C’erano anche pezzi di altre persone dell’ospizio.” “Era un frocio,” disse Shine. Martha e Bobby Mack fissarono Shine. Lui alzò le spalle. “Be’, non lo so di sicuro. Ma tutti i corpi che stava masticando erano di uomini. Ha lasciato andare le donne dopo averle uccise. Ecco perché sono scese tutte allo Snack.” “Basta con queste stronzate,” disse Bertie. “Bobby Mack, hai intenzione di interferire o possiamo andare avanti?” “Credo che il governatore dica che si può ucciderli se poi vengono bruciati. Ma impiccarlo non servirà a molto, vero?” “Servirà,” disse Bertie, “se si usa una corda da pianoforte come cappio.” Picchiò sul paraurti del Chevy. L’autista avviò il motore, poi tolse la frizione. Il camioncino partì con un sussulto, lasciando lo zombi a scalciare. Con il peso della creatura, bastarono pochi secondi perché il cappio di filo metallico si stringesse vibrando in un nodo fino a far compiere voli separati alla testa e al corpo dello zombi. La testa rimbalzò per alcuni metri, con gli occhi che ammiccavano. Miguel Espinosa le mollò un colpo feroce con un badile per irrigazione. “Ehi, Martha,” disse Bertie. “Vuoi sempre venire con me a Walsenburg stasera?” “Non ho mai detto di volerci venire.” Bertie andò a piazzarsi di fronte a loro due. “Hai intenzione di fare un giretto sulla mangiariso del vicesceriffo?” “L’accompagnerò soltanto a casa,” disse Bobby Mack. “Vedi di accompagnarla da qualche altra parte.” “Bertie...” iniziò a dire Martha. “Dico sul serio.” Bertie esibì un luminoso sorriso. “Per te è il meglio o niente, lo sai, no?” “Andate a bruciare il vostro cadavere,” disse Bobby Mack. I due uomini si fissarono. Bertie abbassò gli occhi per primo.
A qualche metro, sotto l’albero, gli altri stavano giocando a pallone con la testa. Bobby Mack accompagnò a casa Martha facendo il giro più lungo. “Probabilmente farei meglio a risparmiare la benzina,” disse. “Non so fino a quando le cisterne continueranno ad arrivare. Ma non voglio considerare ancora chiusa la serata.” “Neanch’io,” disse Martha. La Samurai aveva sedili separati, ma lei fece del suo meglio per appoggiargli la testa sulla spalla. Si diressero a sud, quasi fino al confine con il New Mexico, fermandosi di colpo e tornando indietro quando videro i lampeggiatori della polizia e le fiamme di qualcosa che bruciava in mezzo alla strada. “È la nostra polizia di stato o la loro,” disse Bobby Mack. “Io sono fuori servizio. Immagino che abbiano la situazione sotto controllo, qualunque cosa sia successa. Quei ragazzi hanno un bel volume di fuoco.” Tornarono verso nord, girando a sud di Fort Durham per la strada che saliva fra le colline a ovest della città. Due fari, uno dei quali fuori allineamento e troppo forte, li tallonavano. Bobby Mack strizzò gli occhi fissando il bagliore nello specchietto, poi a un tornante accostò a lato della strada per lasciare passare l’altro veicolo. Un camion Ford nero li superò con un ruggito. “Sembrava Billy Gaspar,” disse Bobby Mack. “Cosa diavolo starà facendo quassù?” Il rumore del camion si allontanò. Rimasero sulla Samurai e ammirarono le luci sparse di Fort Durham sotto di loro. “Di notte sembra più grande,” disse Martha. “Molte cose danno la stessa impressione. Forse è per questo che molti trovano pauroso il buio. Quando ero bambino, d’estate mi svegliavo sempre verso le tre, le quattro di mattina. Avevo regolato una specie di sveglia mentale. Poi uscivo di nascosto ed esploravo i dintorni del ranch. Le cose più grandi erano le mucche da latte. Se ne stavano immobili sotto la luna, grandi e calde e silenziose.” Martha lo sbirciò di sottecchi. “Allora non c’erano gli zombi.” “Non qui, almeno. Credo però che i primi ci fossero già, in Giamaica o da quelle parti.” “La radio dice che non sono la stessa cosa. L’altro giorno ascoltavo un dibattito alla NPR... “ “Ascolti queste cose alla radio?” Lui sembrò sorpreso, e al tempo stesso compiaciuto. “Anch’io.”
“Non sono stupida, Bobby Mack. Sì, ascoltavo la NPR. Avevano in studio un prete vudù che se la prendeva come un matto perché la sua gente veniva incolpata per gli zombi.” “Be’, e lui chi voleva incolpare?” Martha si rannicchiò sul suo sedile. “Non voglio parlare di zombi.” “Per un po’ sarà l’unica cosa di cui tutti vorranno parlare. E l’evento più straordinario che sia successo in questa città da non so nemmeno quando.” Trascorse un lungo minuto. “Bobby Mack, pensi mai ad andartene da qui? Ad andare da qualche altra parte?” “L’ho già fatto,” disse lui. “Sono andato all’università di Durango.” Lei rise, ma gentilmente. “Trecento chilometri non sono una grande distanza.” “Tu non hai parlato di distanza.” “Hai capito perfettamente quello che volevo dire.” Dopo qualche istante, lui disse: “Non so se mi piacerebbe un altro posto.” “Capisco cosa vuoi dire.” Martha si rilassò sul sedile. “Ma a volte mi chiedo che effetto farebbe scoprirlo di persona.” “Andare da soli in California o da qualche altra parte,” disse lui, “servirebbe solo ad aumentare la solitudine.” “Già,” disse lei a bassa voce. “Io mi sento sola anche qui.” Lui sembrò sorpreso. “Sei sempre stata la ragazza più graziosa di tutta la città. Ti senti sola?” “Non ne sai molto sul mio conto, vero?” “Forse avevo paura di quello che avrei scoperto,” disse lui. “Non c’è nessun motivo di averne paura.” Martha gli sfiorò dolcemente la guancia. “Nessun motivo.” Lui fece il gesto di alzare le spalle. “Come ti ho detto, ho sentito voci.” “Erano tutte false.” Lui le sfiorò i capelli, il viso, le labbra. “Devo rifletterci sopra.” “Sul serio?” disse lei, guardandolo fisso al chiarore del cruscotto. “Sì.” Lei gli sfiorò la guancia con le labbra. “Può darsi che non rimanga molto tempo.” “Questo cosa vorrebbe dire?” “Non lo so,” disse lei. “Solo una sensazione.” “In un modo o nell’altro,” disse lui, “ci sarà tempo.” Si sporse in avanti
e accese i fari. “Sarà meglio che ti porti a casa. Non vorrei che i tuoi stessero in pensiero.” “Bobby Mack,” disse lei, di nuovo sbalordita dalla propria audacia. “Almeno un abbraccio? Un bacio?” Lui annuì, poi l’abbracciò e la baciò. E la ricondusse a casa. “Che strano,” disse Martha quando entrarono nel cortile dei Malinowski sei chilometri a nord della città. “Cosa?” Bobby Mack fermò la Samurai accanto alla casa e spense i fari. “La luce del cortile è spenta. Papà ha cambiato la lampadina solo la settimana scorsa.” “Forse l’ha spenta lui.” “Non lo fa mai quando pensa che potrei tornare tardi.” Si strinse nelle spalle. “Forse credeva che sarei tornata subito dopo l’assemblea.” “Non avere paura,” disse Bobby Mack, sogghignando. “Sei con il vicesceriffo, ricordi?” “Ricordo.” Martha scese dalla Samurai. Bobby Mack girò intorno al muso della macchina per accoglierla. Mancava solo una notte alla luna nuova, e il buio era fitto. “Dammi la mano,” disse il vicesceriffo. “Non ci tengo a rompermi una gamba. Immagino che tu conosca il terreno.” Sui gradini dell’ingresso, Martha cercò la chiave nella borsetta. “Con questa storia degli zombi, papà ha deciso di chiudere a chiave tutte le porte, di notte.” Trovata la chiave, Martha sollevò gli occhi verso di lui. “Buonanotte, Bobby Mack.” Qualunque cosa lui fosse sul punto di dire andò perduta mentre entrambi udivano un suono di passi rapidi e pesanti che facevano scricchiolare la ghiaia dietro di loro. Una sagoma indistinta si stagliò nell’oscurità. “GRRROARRR!” Mani adunche si allungarono verso di lui. “Cristo santo!” disse Bobby Mack, cercando di portarsi davanti a Martha e allungando intanto la mano verso la pistola nella fondina. Delle braccia lo afferrarono da entrambi i lati e lo tennero immobile nella notte. La creatura di fronte a lui si avvicinò barcollante e Bobby Mack sentì il puzzo dell’alcol. “Buonasera, vicesceriffo.” Era Bertie Hernandez. “Ehi, amico! È tutto a posto, non temere.” La voce di Billy Gaspar all’orecchio di Bobby Mack. “Volevamo solo evitare che sparassi a qual-
cuno.” Lasciò libero il braccio destro di Bobby Mack. Qualcun altro gli lasciò libero il sinistro. “Razza di bastardi!” disse Martha. “Cosa ci fate qui?” “Solo un controllo,” disse Bertie. “Siamo i sorveglianti della morale pubblica, proprio come a scuola. Vogliamo essere certi che i pomicioni non si spingano troppo oltre, capisci?” Bobby Mack disse adirato: “Dovrei...” “Dovresti cosa, saputello? Solo uno scherzo innocuo.” Bertie si allontanò con passo pesante. “Solo uno scherzo innocuo. Okay, ragazzi, andiamo.” Bobby Mack fece per seguirlo, ma Martha lo prese per un braccio. “No, Bobby Mack. Non è questo il momento.” Bertie e gli altri ridevano a crepapelle quando si ammucchiarono sul camion nero di Billy Gaspar. Lo avevano parcheggiato dietro l’angolo della casa. Billy pigiò sull’acceleratore e il camion si lanciò verso l’asfalto. La notte inghiottì le risate. Bobby Mack e Martha rimasero a fissare in quella direzione. Il vicesceriffo si accorse di avere ancora le dita intorno al fermo della fondina. Staccò la mano. La luce del cortile si accese, inondando l’intera area con il chiarore di una lampada a vapori di mercurio. Il signor Malinowski comparve sulla soglia di casa, sbadigliando e stropicciandosi gli occhi. “Ehi, ragazzi! Che diavolo sta succedendo? Qui dentro c’è gente che cerca di dormire.” Martha e Bobby Mack si scambiarono un’occhiata. Lei gli sfiorò le labbra con le dita. “Ci vediamo allo Snack.” La mattina dopo, le chiacchiere allo Snack erano imperniate su due argomenti, il football e gli zombi. La partita di pre-campionato fra i Broncos di Denver e i Seahawks di Seattle era stata annullata appena prima del calcio di inizio. Circolavano voci di atrocità commesse negli spogliatoi e di giocatori semidivorati. “Devono essere stati zombi di Seattle,” disse cupo Shine Willis. “Era l’unico modo per poter battere i Broncos.” Nessuno lo contraddisse. “Okay, signor so-tutto,” disse Bertie. “Ascolta. Ho una domandina per te.” Tutti ascoltarono, specialmente Shine. “Gli animali possono morderti e trasformarti in uno zombi?”
“Vuoi dire i cani?” disse Shine. “Farsi mordere da un Cujo? Che mi venga un colpo se lo so. “ Nessuno lo sapeva, ma tutti avevano un’opinione in proposito. “Me lo chiedevo,” disse Bertie, “perché questa mattina, quando sono uscito dalla roulotte, il bastardo dei Jergenson ha cercato di aggredirmi e ho dovuto stenderlo. Sembrava fosse già morto da un paio di giorni.” Billy Gaspar assunse un’espressione tetra. “Cristo, ci mancava solamente che anche le bestie se la prendessero con noi.” “Io non mi preoccuperei,” disse Shine. “Il cane dei Jergenson era sempre incazzato con il mondo intero. Probabilmente non gli è andata a genio la tua faccia. Ti eri fatto la doccia questa mattina?” Gli uomini lungo il banco risero. Un po’ nervosamente, pensò Martha. Lei intanto smistava i piatti di frittelle, uova, patate, bacon, pane tostato. Versava il caffè. Quello vero. Nessuno da quelle parti beveva decaffeinato. Una mano ruvida le afferrò il polso. Il bricco del caffè oscillò. “Per me basta,” disse Bertie. “Sto cercando di berne meno.” “Lasciami andare,” disse lei. Lui non si mosse, lei rimase ad aspettare. Un quadretto silenzioso. Gli altri li fissarono, poi ripresero a chiacchierare. Ma le occhiate continuavano a spostarsi furtive verso Martha e Bertie. “Ieri sera mi sono fermato a bere con Carl Crump fino a tardi,” disse Bertie con noncuranza. “Racconta cose molto interessanti.” “Ne dubito,” disse Martha. “Ora lasciami andare.” “No.” Le grosse dita non si allentarono. “Dice che hai un piccolo segno sotto la tettina sinistra. Sembra un uccello. È vero?” “No.” Martha passò il bricco fumante del caffè nella mano destra. “Adesso lasciami andare o ti rompo questo in testa.” Nel silenzio improvviso, la radio che suonava I Don’t Even Try di John Hiatt sembrò echeggiare troppo alta. Gli uomini al banco non finsero più di guardare da un’altra parte. “Dal momento che sembri così ben disposta verso Bobby Mack,” disse Bertie, “come mai non vuoi fare niente con me?” “Carl è un bugiardo,” disse Martha con voce pacata. Bertie la guardò fisso negli occhi. “Certo,” disse, e le lasciò libero il polso. “Magari stasera potremmo andare a Walsenburg.” Lei parlò senza rendersi conto di quello che diceva. “Preferirei scopare con uno zombi.” Lo disse a voce talmente bassa che nessuno la sentì all’infuori di Bertie. Lui continuò a fissarla.
Martha si girò e tornò verso la cucina, cercando di muoversi con naturalezza e senza scatti nervosi. Non appena al riparo dagli sguardi dei clienti, si asciugò due lacrime appena spuntate. Sentì un dolore bruciante. Il polso. Lo voltò e vide i segni bluastri sulla pelle. Sembravano le ali di un uccello. Bobby Mack non si fece vivo allo Snack per il suo caffè di metà mattino. Verso le undici Martha diede una voce a Henry Roybal. “Ehi, cosa dice il tuo baracchino? Cosa succede là fuori? Nessuno parla di Bobby Mack?” “Nemmeno una parola sul tuo giovanotto, Martha. Però c’è parecchia altra roba.” Lei trasportò in cucina, in equilibrio su una mano sola, un vassoio carico di piatti sporchi e di posate. José, il lavapiatti, lo prese e lo scaricò con un grugnito in un lavandino d’acciaio pieno di acqua saponata. “Cosa vuoi dire, parecchia altra roba?” “Non so cosa sia, davvero. Un sacco di messaggi in codice, come quando sanno che c’è gente in ascolto e lo sceriffo non vuole far sapere nulla in giro.” Quasi interpellata, la radio sintonizzata sulla frequenza della polizia trasmise qualche scarica e subito dopo una chiamata: “Centrale sceriffo, qui è pattuglia tre.” “Parlate, pattuglia tre.” “Ehi, affermativo. Kenny e io confermiamo branco di vegetali appena oltre uno-cinque di contea al Centennial Ditch. Devono essere rimasti nascosti nella Prima Chiesa Battista. Stiamo per entrare in azione come da ordini ricevuti.” “Vegetali?” disse Martha. Henry Roybal annuì. “E tutta la mattina che ne parlano.” La radio lanciò un’altra scarica. “Pattuglia tre, non fate idiozie.” “Centrale, potete mandarci rinforzi?” “Negativo, pattuglia tre. Le acque sono agitate in tutta la contea.” “Va bene, centrale. Faremo il possibile. Ho il mio vecchio kalashnikov AK47 nel bagagliaio. Sui Charlie funzionava. Penso che mieterò una fila o due di vegetali.” “Mio Dio,” disse Martha. “Ripeto, pattuglia tre. Procedete con cautela. Abbiamo già perduto un paio di mietitori questa mattina.” La radio rimase silenziosa. Poi la voce della pattuglia tre disse: “Lo sappiamo, centrale. Questo dovrebbe pareggiare il conto per Dale e J.B.”
Henry Roybal esalò un lungo respiro. Martha lo guardò. Sapevano tutti e due perfettamente di chi stava parlando la voce. Due poliziotti del posto. Anche loro non si erano fatti vivi per il caffè. Bobby Mack, pensò lei fissando la radio. Di’ qualcosa. Fai rapporto. Ti prego. “Ehi, centrale, ci sono dei civili dietro di noi. Il reverendo Beecham con degli altri.” Ci fu una pausa, poi la voce si fece più debole come se chi era all’apparecchio avesse sporto la testa dal finestrino. “Ehi, pastore! Vi serve aiuto? È arrivata la cavalleria...” Un grido strozzato filtrò attraverso la radio. Una seconda voce urlò: “Centrale, sono vegetali anche...” Una serie di spari. Un altro grido. Rumori indistinguibili. Poi un suono raschiante, come se qualcuno stesse masticando il microfono. Silenzio. “Pattuglia tre, cosa succede? Fate rapporto, pattuglia tre...” Martha uscì di corsa dalla cucina, cercando di ricacciare indietro i suoni provenienti dalla radio. Bobby Mack. Almeno lui non era nella pattuglia tre. La radio sopra la cassa suonava Long Black Veil di Nick Cave. “Perché non trasmetti qualche notizia?” le gridò Martha. “Il sindaco Hardesty cerca di evitare il panico,” disse Bertie Hernandez. Lui e i suoi compari dovevano essere rientrati nello Snack da un paio di minuti. Si erano portati dietro un po’ della neve sottile che ricopriva il parcheggio. Sulle piastrelle del pavimento c’erano chiazze di acqua scura. “Io credo di essere ormai pronta per il panico,” disse candidamente Martha. “Voglio sapere cosa sta succedendo.” “Non preoccuparti, dolcezza,” disse Bertie. “Se dovesse succedere qualcosa, ti proteggeremo noi.” “Questa mattina non avete visto in giro Bobby Mack, vero?” Bertie e Shine Willis si scambiarono un’occhiata. “Non di recente,” disse Bertie. “È un ragazzo in gamba. Starà senz’altro bene, ma avrà molto da fare. Non lo vedrai prima di stasera.” “Ma cosa succede là fuori?” disse Martha. “Per tutti i santi, volete dirmelo?” “Sono gli zombi,” disse Billy Gaspar. “Si diffondono più in fretta dell’AIDS,” disse Shine. “Già,” disse Bertie. “Sembra che basti un morso, non c’è bisogno di finire ammazzati. Quei bastardi sono già in tutta la città, hanno preso un mucchio di gente che conosciamo tutti e due.” “Ne abbiamo uccisi parecchi,” disse Billy Gaspar. “Ma sono troppi...”
“Adesso,” disse Bertie, “dobbiamo starcene al riparo e riposare. Lo Snack è un posto buono come un altro. E poi, credo che ci farà bene mangiare qualcosa. Qual è il piatto del giorno?” “Polpettone,” disse Martha. Billy Gaspar gemette. “Non credo che la mia pancia possa reggerlo.” “Mangiare o essere mangiati,” disse Bertie sogghignando. “Qui è la KHIP,” disse la radio, “la voce country dell’impero del Colorado meridionale. Da Pueblo a Durango, noi vi portiamo le notizie più recenti...” “Dacci un taglio,” disse tesa Martha. “Dimmi soltanto cosa sta succedendo.” L’introduzione registrata si affievolì, e vi fu un attimo di silenzio. Quando l’annunciatore parlò, lo fece con voce stanca e quasi terrorizzata. “Vi parla Boots Bell dagli studi della KHIP a nord di Fort Durham. Devo leggervi tutta una serie di comunicati della massima importanza, quindi farete meglio ad ascoltare attentamente.” “Ti stiamo ascoltando, coglione,” disse Bertie Hernandez con tono non meno teso di Martha. “Avanti, parla.” I ragazzi non erano usciti spesso quel pomeriggio. Erano rimasti nei dintorni dello Snack, portando dentro armi dai loro camioncini e bevendo litri di birra. Era arrivato anche qualche altro cliente abituale. C’era pochissimo traffico sulla 159. Boots Bell fece frusciare dei fogli, poi disse: “Il consiglio più importante è: restate al coperto. Sbarrate tutte le porte e finestre di casa. Se qualcuno si presentasse alla porta, controllatelo bene. Tutt’a un tratto, ci sono morti che camminano dovunque. Non è uno scherzo, non è un’esercitazione depisterai di trasmissione d’emergenza, nulla del genere. E una cosa reale.” “Maledettamente vero,” disse Shine Willis. “Se avete armi,” disse Bell, “tenetele cariche e a portata di mano. Sparate alla testa. È l’unico modo per uccidere uno zombi.” “Ehi, e il fuoco?” disse Shine. “...oppure bruciateli,” proseguì Bell. “Ricordate che sono molto più svelti di quanto possano sembrare, e molto forti. Di solito girano in branchi. Se ne vedete uno, probabilmente ce ne sono altri dieci che cercano di attaccarvi alle spalle.” José lasciò cadere un tegame in cucina e metà dei tipi al banco sobbalzò. Bell continuò: “Qui alla radio, abbiamo ricevuto l’assicurazione che la Guardia Nazionale interverrà non appena avrà terminato di ripulire Wal-
senburg.” Esitò. “Comunque, prima dovranno ripulire Springs. Quanto a Denver... be’, non abbiamo molte notizie in proposito.” Altri fogli frusciarono per qualche secondo. “Qui alla KHIP stiamo tenendo aggiornata una mappa” di tutti gli avvistamenti, quindi se vedete uno zombi fateci uno squillo e noi inoltreremo la segnalazione.” In sottofondo si udì un’altra voce, indistinguibile. Poi Bell disse: “Dal numero di avvistamenti già ricevuti, possiamo avvertirvi che non è igienico restare allo scoperto a Fort Durham. L’ufficio dello sceriffo e la polizia fanno quello che possono, insieme a gruppi di volontari. Ma se non dovete uscire per forza, restate in casa. Non uscite per nessuna ragione.” La voce di Bell si incrinò leggermente. “Il direttore mi ha appena detto una cosa, e io sono d’accordo con lui. Se resteremo uniti, ne usciremo senza troppi danni. Tenetelo a mente.” Nello Snack, gli uomini in possesso di armi le strinsero più saldamente e si scambiarono occhiate silenziose. “Ritorneremo con altre notizie non appena le avremo,” disse Bell. “Ora ascoltiamo un po’ di musica.” L’altoparlante vibrò per i primi accordi di Stand by Your Man di Tammy Wynette. “Almeno,” disse Billy Gaspar, “non trasmettono quei fottuti dei Grateful Dead.” Cercò di sghignazzare alla propria battuta, ma l’effetto fu disastroso. Martha posò il vassoio sul banco e andò al telefono dietro la cassa. Fece il numero dei genitori, sapendo che naturalmente stavano tutti bene, ma desiderosa di una conferma. L’unica cosa che ottenne nel ricevitore fu il morbido ronzio di una linea interrotta. Verso le tre il primo zombi comparve nel parcheggio dello Snack. Era la signora Dorothy Miller, capo cassiera alla Banca degli Allevatori. “Cristo santo, ammazzatela,” disse Bertie, indicando la porta a Shine e Billy. “Probabilmente sono come le formiche, mandano qualcuno in avanscoperta. E noi non vogliamo far sapere a tutti gli altri che qui c’è un sacco di cibo, giusto?” I due compari annuirono e andarono fuori, Shine per primo. Billy appoggiò contro la spalla il calcio del suo 30.06 per la caccia al daino e premette lentamente il grilletto. La pallottola si piantò netta nell’occhio sinistro della signora Miller. Lo zombi allargò le braccia e fece un mezzo giro su se stesso. Avvicinandosi, Shine sollevò il suo Remington a pompa e fece esplodere la testa della signora Miller. Shine e Billy trascinarono il corpo dietro l’angolo dello Snack, poi tor-
narono dentro e bevvero un sorso di acquavite casereccia dalla fiasca di Miguel Espinosa. Martha se ne accorse a malapena. Continuava ad ascoltare la radio e a tormentare Henry Roybal perché controllasse tanto la stazione centrale dei CB quanto la frequenza della polizia. “Niente?” chiedeva durante i suoi spostamenti fra la cucina e la sala. “Niente,” rispondeva Henry. “Senti, probabilmente Bobby Mack ha troppo da fare per usare la radio. Cerca di non preoccuparti.” In sala, la KHIP stava mandando in onda Wreck of the Edmund Fitzgerald di Gordon Lightfoot. “Merda,” disse Shine, “ma chi sceglie questa musica? Se almeno Henry avesse un jukebox.” “Ma non ce l’ha,” disse Bertie. “Dovremo divertirci in qualche altro modo.” Accarezzò il fucile steso sulle gambe. Poi sollevò gli occhi verso Martha e le allungò la sua tazza. Lei lo fissò per un attimo, poi fece per allontanarsi. “Per favore?” Martha ci ripensò e tornò indietro con il bricco del caffè. L’espressione di Bertie sembrava ansiosa. “Ascolta, Martha... se riusciremo a cavarcela tutti, non pensi che forse potremmo ricominciare da capo?” “No.” Lei dovette resistere all’impulso di scoppiare a ridere istericamente. “Non possiamo ricominciare quello che non abbiamo mai iniziato.” Qualcosa sembrava covare sotto la cenere negli occhi di Bertie. “Adesso sono pronto a comportarmi come si deve.” “Lo so,” disse lei calma. “Ma io sono onesta con te.” “Anch’io lo sono,” disse lui. “Voglio che tu sia la mia ragazza.” Lei scosse il capo. “E l’ultima parola?” disse lui. ... minaccioso, pensò Martha. Sembra deciso a fare qualcosa. Annuì, sempre con calma. Sì. “Be’, al diavolo,” disse Bertie. “L’unica cosa che mi rimane da fare è scoparti finché non riuscirai più a vedere diritto. O a camminare diritto.” “Provaci,” disse Martha, “e ti ammazzo.” “Cosi io tornerò indietro,” disse Bertie. “E continuerò a scoparti. Scommetto che non serve a niente mollare un calcio nelle palle a uno zombi. Tu che ne pensi?” “Penso che sei disgustoso.” Martha strinse con decisione il manico del
bricco. La tentazione di bruciargli il viso fino a farlo sembrare quello lacerato e putrefatto di uno zombi era irresistibile. Si allontanò. “Aspetterò,” le gridò dietro Bertie. “Quando avrai smesso di aspettare Bobby Mack, io sarò sempre qui saldo e duro.” Senza voltarsi, lei disse: “So aspettare anch’io.” “Non per il tempo che ci metterà il tuo vicesceriffo.” Lei si girò di scatto. “Tu che ne sai?” Bertie si leccò ostentatamele le labbra. Verso le sei cominciò a fare buio. Henry Roybal uscì dalla cucina e accese l’insegna QUI SI MANGIA. “Credi che sia una buona idea?” disse Shine. “Pensi che gli zombi sappiano leggere?” “Quando erano vivi sapevano farlo,” disse Billy. “Sono animali,” disse con voce piatta Henry. “Bestie. E scommetto che non vedono nemmeno i colori.” La discussione morì lì. Il neon sul tetto sfrigolava e scoppiettava. Il chiarore sulla neve davanti alla vetrata variava dal rosso al verde. “Forse dovremmo tentare una sortita,” disse Miguel Espinosa. “Scappare verso il New Mexico.” “Dubito che laggiù le cose siano diverse,” disse Bertie. “Tanto vale restare dove abbiamo da mangiare e da bere in abbondanza.” Strizzò l’occhio a Martha. “E dove c’è una bella signora.” “Ho il serbatoio del camion pieno,” disse Billy a Miguel. “E tu, perché non te ne vai?” disse Bertie a Henry. Il proprietario dello Snack rispose senza esitazioni. “Mio padre si è fermato qui a Fort Durham mentre era diretto in California nel ‘30. Gli piaceva questo posto.” Si strinse nelle spalle. “Anche a me piace. Sono rimasto qui durante inondazioni e siccità, tormente di neve e tornado. Non ho intenzione di farmi scacciare da un branco di figli di puttana cannibali.” A intervalli, la radio ripeteva i comunicati del primo pomeriggio. Sembravano esserci pochi sviluppi. Gli avvertimenti continuavano. Restate in casa. Sbarrate le porte. Caricate le armi. Mirate alla testa. Finalmente Boots Bell ne aggiunse uno nuovo. Conservate una pallottola per voi. Gli uomini nello Snack parlavano e bevevano. Bertie Hernandez pensò soltanto a bere. Verso le otto, dopo ogni bicchiere di tequila si sciacquava la bocca con il mescal invece che con una birra. Shine Willis gli andava a
ruota. Quando l’orologio Hamm accanto alla radio segnò le nove e sette, Bertie lanciò il suo bicchiere contro la parete di fronte. Si frantumò sotto la testa impagliata del magnifico cervo che il padre di Henry aveva abbattuto ai tempi di Pearl Harbor. “Credo,” disse a Martha con un orribile ghigno, “che sia arrivato il momento di divertirci sul serio.” Miguel e Shine si erano spostati ai lati di Martha. Lei li guardò, poi tornò a fissare Bertie. Lui si alzò e giocherellò per un attimo con la fibbia della sua cintura Peterbilt. “Quello che mi propongo,” disse Bertie, “è di scopare questa figliola finché il mio uccello ce la farà a restare dritto. Qualcuno dei presenti vuole sollevare obiezioni?” “Non posso lasciartelo fare, Bertie,” disse Henry Roybal. “Lo immaginavo. Sei un brav’uomo, Henry.” Bertie estrasse la 357 Magnum dalla fondina e spedì una pallottola nel cuore di Henry Roybal. L’impatto scagliò il vecchio contro la porta girevole della cucina. La porta si spalancò quando il corpo cadde all’indietro, poi si richiuse, ma adesso era sporca di sangue. “Nessun altro?” disse Bertie, osservando gli uomini silenziosi. Nessuno aprì bocca. Non tutti sembravano entusiasti dell’idea, ma non vennero sollevate obiezioni. “Intesi, allora.” Bertie posò la pistola sul tavolo, poi si chinò e grugnì togliendosi gli stivali. Infine si slacciò la cintura. Martha tentò la fuga. Non fu abbastanza svelta per sfuggire alla presa di Shine. Si divincolò, cercando di mollargli calci, morderlo, fargli lo sgambetto... Miguel la colpì alla nuca e lei si afflosciò. Sentì Bertie dire: “Vediamo un po’ di passera.” Sentì mani che le strappavano sul davanti il vestito marrone da cameriera, senza badare ai bottoni. Dita ruvide le artigliarono il collant e glielo arrotolarono lungo i fianchi, giù per le gambe, fino ai piedi. Martha aprì gli occhi e fissò Bertie con odio. Si era tolto pantaloni e slip, e ora la sovrastava con addosso la camicia blu da lavoro e i calzini. Notò di colpo che i calzini erano leggermente spaiati... uno nero e l’altro blu scuro. “Bertie...” disse. “Non farlo.” Lui sorrise quasi allegro, strofinandosi i testicoli. Il suo pene spiccava lungo ed eretto come una gru. In apparenza tutto l’alcol bevuto non aveva
intaccato la sua erezione. “Martha,” disse lui, con tono quasi gentile. “Devo farlo.” Si sputò su una mano e si inumidì il glande. “Lo sai cosa sta succedendo là fuori. Può essere la tua ultima possibilità.” Lei non trovò le parole per rispondergli in modo adeguato. Bertie sorrise. “Oh,” disse, “non perdere tempo a sognare un salvataggio all’ultimo istante del buon vecchio Bobby Mack Quintana.” Finalmente lei si decise ad affrontare ciò che già sospettava. Ciò che non aveva nemmeno voluto pensare. Cercando di apparire calma, disse: “Cosa gli hai fatto?” “Non è quello che gli ho fatto io,” disse Bertie, avanzando fino a fermarsi fra le sue gambe divaricate. “Caso mai è quello che gli ha fatto il dobermann dei Jergenson. Io l’ho soltanto liberato dalle sue sofferenze. E stato un favore.” Bertie rise a singhiozzo. “Avrei fatto lo stesso per un cane.” Martha sentì le lacrime farsi avanti, e le respinse. Non c’era tempo. Improvvisamente la radio sembrò farsi più forte, come se il suono le venisse trasmesso direttamente nelle orecchie. La KHIP stava suonando Poor Poor Pitiful Me. Stronzate! Martha inarcò la schiena, alzando di scatto la gamba destra verso l’inguine di Bertie. Lui si girò con inattesa rapidità, assorbendo il colpo con la coscia. Le posò un piede sulla caviglia sinistra. Shine le afferrò la destra. Miguel ridacchiò accanto alla sua testa. “Esprimi un desiderio.” “Non c’è gratitudine in questa passera,” disse Bertie con tono discorsivo. “Ma vedremo fra poco.” Fece per inginocchiarsi fra le sue gambe. ...quando Bobby Mack Quintana entrò dalla porta principale. Non la aprì. Entrò sfondandola con uno scroscio di vetri infranti e fra le urla degli uomini lungo il banco. “Cosa cazzo... ?” disse Bertie, balzando in piedi e tuffandosi verso la Magnum sul tavolo. Fra urla e bestemmie, tutti cercavano di togliersi dalla strada di Bobby Mack. Lui si fermò là per un istante, e Martha vide che non era vivo. Indossava la sua uniforme, ma era senza cappello. La camicia cachi era incrostata di sangue secco che doveva essere sgorgato molte ore prima dalla spaventosa lacerazione alla gola. Sul petto c’erano tre buchi neri dove erano penetrate pallottole di gròsso calibro. Una quarta pallottola lo aveva colpito al viso, aprendogli una guancia e spostandogli il naso di sbieco. La
decomposizione era già iniziata. La carne intorno alla bocca sembrava granulosa. I fluidi che uscivano dalle ferite al viso luccicavano al chiarore delle lampade a fluorescenza. “Cristo, Bobby Mack,” disse Bertie, impugnando la sua pistola con mani tremanti. “Quante volte devo ucciderti?” La fiammata e la detonazione si proiettarono verso Bobby Mack, facendolo vacillare all’indietro ma senza abbatterlo. Lo zombi si girò leggermente per guardare Martha ancora sul pavimento. La sua bocca si aprì, e in qualche modo un suono riuscì a levarsi gorgogliante dalla gola lacerata. “Mar-thhha...” Bobby Mack tornò a voltarsi verso Bertie, avanzando rapido prima che l’altro potesse premere di nuovo il grilletto. Il vicesceriffo morto afferrò il pene di Bertie, stringendo saldamente la base turgida e lo scroto. Con un solo poderoso colpo diede uno strattone verso l’alto, e la pelle cedette come stoffa marcia. Il braccio dello zombi si sollevò mentre l’addome e lo stomaco di Bertie si aprivano come se qualcuno avesse strappato la chiusura ermetica di un sacchetto pieno di lasagne. Le viscere si sparsero per la sala dello Snack. Se Bertie urlò, la sua voce andò perduta fra il parapiglia di tutti gli altri uomini che cercavano a tentoni le loro armi o si tuffavano verso una porta. Bertie mulinò le braccia, spasmodicamente. Il sangue schizzò alto fino alle lampade e la luce diventò rossastra di colpo. Nessuno ormai tratteneva più Martha, e lei cercò di rialzarsi. Bobby Mack si era rivolto a Shine e a Miguel, conficcando le dita nel viso del primo e premendo il secondo contro le lunghe schegge di vetro che sporgevano dall’intelaiatura della porta. Lo zombi gettò da un lato la faccia di Shine come se fosse stata una maschera di Halloween da scartare e si diresse verso Billy Gaspar. “Non sono stato io!” urlò Billy. “Sono stati loro. Sono stati loro...” Bobby Mack strappò il braccio sinistro a Billy, poi gli fracasso la testa con l’arto dai muscoli irrigiditi. Improvvisamente lo Snack divenne molto silenzioso. Ospitava solo morti e morenti. E Martha. Lei si appoggiò alla cassa mentre Bobby Mack si girava e veniva nella sua direzione. Restarono l’uno di fronte all’altra, e lei fissò nauseata il suo viso mutilato. Lui allungò una mano a scatti, ma le sue dita furono gentili sfiorandole i capelli. Tentò di dire qualcosa, ma la gola distrutta non glielo consentì. “Anch’io,” disse Martha, lasciando finalmente libere le lacrime. “Ti amo
anch’io.” Poi udì le urla da fuori. Degli uomini stavano morendo nel parcheggio. Al chiarore del QUI SI MANGIA-QUI SI MANGIA-QUI SI MANGIA, Martha vide i superstiti dello Snack fatti a pezzi da gruppetti di zombi. Si girò verso Bobby Mack e gli prese la mano. La pelle sembrava allentata, come un guanto di cotone troppo largo. “Dobbiamo andarcene di qui,” disse. “Vieni.” Lui non si mosse. Bobby Mack stava fissando qualcosa dietro di lei. Lentamente, controvoglia, anche lei guardò. Martha riconobbe quasi tutti i volti. Alcuni si erano nutriti di recente... brani di carne penzolavano sanguinolenti dagli angoli delle labbra arricciate. Erano tutti là. I suoi incubi: Carl Crump padre, gli occhi morti infiammati dietro le lenti infrante di un paio di occhiali di tartaruga in equilibrio precario. Il pastore Beecham, con il colletto bianco e la giacca nera macchiati di sangue che sembrava a sua volta nero, anche se luccicava umido sotto le lampade. Lo chignon rosso della signora Beecham era in disordine, con riccioli bagnati che le stavano appiccicati intorno alle orecchie. Il suo vestito grigio taglia forte era ridotto a brandelli su una spalla. La testa di padre Sierra era piegata sul collo di almeno quarantacinque gradi. Sembrava un gufo che fissasse la propria preda. Carl Crump figlio allungò una mano verso Martha, e Bobby Mack allontanò da lei le unghie sporche di sangue. Il giovane Crump indossava una maglietta Maui e un ridicolo paio di calzoncini da spiaggia con disegni floreali. Starà congelando, pensò assurdamente Martha. Si rese conto di non poter contare tutti gli zombi che si stavano affollando nello Snack. Insegnanti, alcuni pompieri volontari, il bibliotecario della contea, il suo medico. Sembrava che ci fosse metà della popolazione di Fort Durham. Carl Crump figlio gemette qualcosa che Martha non riuscì a capire. Suo padre si agitò accanto a lui. Entrambi gli zombi portarono le mani all’inguine come un’oscena imitazione delle scimmiette non vedo, non sento, non parlo. Martha si accorse che entrambi avevano mostruose erezioni. “No!” disse, facendosi più vicina a Bobby Mack. Il vicesceriffo zombi gorgogliò qualcosa e le posò un braccio sulle spalle. Poi gli altri zombi si lanciarono su di loro.
Non restava molto spazio per gli spostamenti, quindi l’avanzata in massa sortì scarsi risultati finché l’impeto da marea dei cadaveri non deviò verso la vetrata dello Snack e il cristallo esplose all’esterno nel parcheggio. Martha si ritrovò distesa sulla schiena, con entrambe le mani serrate intorno al collo della signora Beecham per impedire a quei denti da bulldog di affondarle nella gola. Poi un calcio dello stivale di Bobby Mack colpì la signora Beecham sotto lo sterno e lo zombi fu scaraventato lontano. Il pugno di Carl Crump padre colpì la bocca di Bobby Mack, spaccando i denti e affondando fino al polso. “Bobby...!” urlò Martha. La mano del vecchio Crump riapparve, con le dita grondanti sangue e le unghie sporche di cartilagini e materia cerebrale. Il corpo di Bobby Mack fu colto da sussulti spasmodici, le braccia si contorsero ad angoli bizzarri. Crump si leccò le unghie. La pressione dei cadaveri annaspanti spinse Martha sulla ghiaia gelata. Una mano adunca le strappò il reggiseno e un pezzo del seno destro. Sulle prime non sentì dolore... solo l’aria fredda sui capezzoli. Vide un groviglio di capelli tinti con l’henné scendere verso il suo ventre, sentì le labbra gelide e la lingua di ghiaccio violare la sua vagina, tentò di allontanarsi sulla ghiaia pungente mentre denti marci le scavavano nella carne. Il volto della signora Beecham, reso viscido dal sangue di Martha, continuò ad affondare ripetutamente contro di lei finché il marito non spinse da parte la donna. Il pastore Beecham la montò mentre Martha gli artigliava gli occhi vacui. Altre braccia la afferrarono e lei sentì la spalla sinistra torcersi e staccarsi. Con il braccio destro flagellò i suoi aggressori, cercando una presa qualsiasi. Il pene del pastore la penetrò come una verga di ghiaccio allo zero assoluto. Poi Carl Crump figlio le fu addosso, facendola rotolare su un fianco e infilandole la sua erezione nell’ano. Martha sentì i tessuti lacerarsi. Questa volta non ci fu uno shock misericordioso. Faceva male, e lei urlò. Mentre il giovane Carl la spingeva da dietro, il movimento sembrò eccitare il pastore Beecham. Il vecchio si sollevò all’indietro, spruzzando bolle di saliva e aria fetida dalle labbra violacee. Martha vide così il padre di Carl e gli altri che aspettavano come clienti pazienti in una coda all’ufficio postale. Il dolore era un’agonia continua che le sfibrava le cellule del cervello, risucchiandole nell’infinito. “Siate dannati!” gridò Martha. “Siate tutti dan-
nati!” Le intrusioni degli altri dentro di lei premevano inesorabilmente verso qualche impercettibile apice dei morti. Dapprima Martha rimase a guardare, sempre più distaccata. Una calma gelida cominciò a narcotizzarla. Poi si accorse che il cadavere inerte di Bobby Mack era vicino, quasi avviluppato nel contorto nodo d’amore che il suo corpo componeva con quelli del pastore Beecham e di Cari Crump figlio. Con la destra poteva raggiungere la fondina di Bobby Mack. I suoi polpastrelli sfiorarono il cuoio freddo, ancora lucido. Di sicuro doveva esserci ancora una cartuccia carica nel tamburo della sua 38 Polke Positive. Ti prego... Carl Crump padre le si sedette quasi sul viso, facendo scorrere le dita avanti e indietro lungo la sua erezione paonazza. Le dita intorpidite di Martha tirarono la falda della fondina, annasparono sulla chiusura. Il pulsante scattò. Sentì il calcio in noce zigrinato della pistola. Grazie, Bobby Mack. Gli zombi dentro di lei grugnivano e spingevano. Martha ne avvertiva altri, molti altri, che si affollavano intorno a lei. Occhi morti la fissavano, ma nessuno di loro vedeva. Non avevano mai visto. La sua vista cominciò a oscurarsi. Gli zombi continuavano a venire... ...e a venire... Mi basta una pallottola, pensò Martha. C’era. CORPI E TESTE Steve Rasnic Tem Alla finestra dell’ospedale la testa del ragazzino faceva no no no. Elaine si fermò mentre saliva i gradini, affascinata. Il torace del ragazzo era rigido, la parte superiore delle braccia contratta. Sembrava che stesse usando qualcosa sotto la finestra per tenersi ancorato con tutte le sue forze, costringendo la parte superiore del suo corpo a tremare per lo sforzo. Elaine pensò agli schermi televisivi e alle loro teste disincarnate, sempre impercettibilmente sfocate, con i singoli punti delle loro teste trasmesse che si muovevano con crescente casualità miscelandosi in lineamenti e volti, finché alla fine tutte le teste sembravano uguali: nuvole rosate di
carne mediale. La testa continuava a muoversi facendo no no no. Come se negasse ciò che gli stava succedendo. Era stato il primo e adesso era il caso più avanzato di qualcosa per cui non avevano ancora un nome. Considerando quello che succedeva nel resto del paese, il Dipartimento della Sanità di Denver si era naturalmente preoccupato parecchio. Uno stato di Allarme era già diventato uno stato di Crisi, e medici provenienti da ogni parte - compresi alcuni con vaghe e non meglio precisate connessioni governative erano piombati sull’ospedale. Benché la cosa fosse ufficialmente disapprovata, di quando in quando lei aveva sentito sussurrare nei corridoi dell’ospedale la parola zombi. “Gesù, guardalo!” Elaine si girò. Mark le piantò un rapido bacio sulle labbra. “Mark... qualcuno può vederci...” Ma non fece nessun tentativo di allontanarsi da lui. “Credo che lo sappiano già.” Lui le mordicchiò la curva della mascella. Elaine pensò di staccarsi da lui, ma non poté farlo. Il contatto del suo corpo, le sue attenzioni, l’avevano sempre fatta sentire bella. Anzi, quelle erano le uniche occasioni in cui lei si sentiva bella. “Non volevi che per ora nessuno lo sapesse, ricordi?” Sussultò senza volerlo quando lui le baciò la gola. “Cristo, Mark.” Tirò un profondo respiro e si staccò da lui. “Ricordi cos’hai detto sui giovani dottori e sulle infermiere? Soprattutto sui giovani dottori con aspirazioni amministrative?” Lui la guardò. “Ti sono sembrato così freddo e calcolatore? Mi dispiace.” Lei tornò a fissare il ragazzino, Tom, alla finestra. Disperatamente incontrollabile. No no no. “No... non eri così spietato. Ma incomincio a sentirmi un po’ come l’amante segreta di un uomo sposato.” Altre infermiere stavano entrando in quel momento nell’ospedale. Elaine pensò che evitassero volutamente di guardare il ragazzo che scrollava il capo alla finestra. “Mi farò perdonare,” sussurrò Mark. “Te lo giuro. Non ci vorrà ancora molto.” Ma Elaine non rispose; fissava semplicemente il ragazzo alla finestra. Adesso c’era un flusso regolare di persone che salivano i gradini ed entravano nell’ospedale, ma pochissime si consentivano un’occhiata al ragazzo. Tom, pensò lei. Si chiama Tom. Osservò i loro visi tranquilli, chiedendosi cosa passasse loro per la testa, se avessero pensieri riguardanti Tom ma subito li soffocassero, o se invece il ragazzo non sfiorasse neppu-
re lontanamente i loro cervelli. Non saperlo le procurava un senso di fastidio. Ogni persona conduceva vite segrete, nascoste perfino a quelli che erano loro più vicini. La infastidiva non sapere se di lei avevano un’opinione buona oppure cattiva, o se per loro lei non esisteva neppure. Sua madre le aveva sempre detto che lei si preoccupava troppo di ciò che pensava la gente. “Sembra che tutti i medici federali siano partiti ieri pomeriggio,” disse Mark dietro di lei. “Cosa? Credevo che avessero chiuso tutti gli aeroporti.” “Infatti. Questa mattina ho sentito anche che il governatore ha ordinato di installare postazioni armate su tutte le piste. Avranno lasciato la città con un autobus o qualcosa di simile.” Elaine si strofinò le braccia, cercando di scrollarsi di dosso una ventata di gelo. La sola idea di lasciare la città in un veicolo che non fosse un carro armato la terrorizzava. Erano passati solo pochi mesi dagli ultimi voli regolari. Poi era arrivato quell’aereo dalla Florida: tutti quei morti abbronzati che scendevano all’aeroporto come se fossero in vacanza... Poco tempo dopo due piccole cittadine nella pianure orientali del Colorado - Kit Carson e Cheyenne Wells - erano state spazzate via, o almeno così sembrava, perché si erano ritrovati solo pochi corpi. Poi era arrivato un altro aereo, stavolta dal Texas. E poi un altro, da New York. “È difficile credere che sappiano fare atterrare un aereo,” era stato il commentò di Mark all’epoca. Ma c’erano stati altri aerei: i morti potevano vantare un invidiabile record di atterraggi sicuri. “Comunque sono contento che se ne siano andati,” disse adesso Mark. “Sempre a tormentare quel ragazzino spastico come se fosse un vitello a due teste. E senza l’ombra del loro misterioso ‘virus zombi’.” “Nessuno sa come abbia inizio,” disse lei. “Potrebbe svilupparsi dovunque. Potrebbe avere decine di forme diverse. Anche il gesto più vago potrebbe essere il primo sintomo.” “Non mi hanno ancora dimostrato che è un virus. Nessuno lo sa con certezza.” Ma la quarantena imposta a Denver sembrava funzionare. Nessuno poteva entrare o uscire. Tutte le strade erano state chiuse, chilometri di perimetro da controllare armi in pugno. E nessun avvistamento di zombi dopo quei rari casi all’aeroporto. La testa del ragazzo si spostava da destra a sinistra come al rallentatore, quasi fosse priva di peso. “Questa mattina ho perso il notiziario,” disse lei.
“Mi sembravi così stanca che ho preferito lasciarti dormire.” “Io ho bisogno di vedere il notiziario, Mark.” L’ira le irrigidì la mascella al punto che riuscì a malapena a muoverla. “All’incirca quanto ogni altro abitante di Denver.” Lei lo fissò ma non disse nulla. “Va bene, l’ho guardato io per te. Sempre le stesse cose. Qualche ripresa di zombi con il teleobiettivo, in altri stati, in cui questi avevano l’aria di vagabondi in giro per le città e la campagna alla ricerca di cibo. Niente che ci aiuti a capire come sono in realtà. Dio solo sa com’è ridotto il mondo oltre i confini di questa città. Ho perso qualche pezzo del notiziario... la ricezione continua a peggiorare.” Elaine sapeva che era tutto vero. Ma continuava a osservare lo schermo ogni giorno, con i visi che diventavano un po’ più sfocati con il peggiorare delle trasmissioni, le stazioni via cavo più lontane che svanivano una dopo l’altra fino a lasciare solo le stazioni locali, e infine anche quelle che trasmettevano sempre peggio mentre l’attrezzatura si deteriorava e i disturbi proliferavano. Tuttavia lei continuava a guardare. Tutti quelli che lei conosceva continuavano a guardare, disperatamente assetati di ogni notizia che giungesse da oltre i confini di Denver. E inarcata davanti alla finestra come la sagoma di un annunciatore televisivo impazzito, la testa del giovane Tom continuava a ripetere il suo no no no. Da un momento all’altro lei si aspettava di sentirlo urlare la sua negazione: “No!” Ma nessuna parola varcava quelle labbra sfocate. Come in tutti gli altri casi. No no no. Teste tranquille che di colpo esplodevano in ritmiche ed esasperate negazioni. I loro corpi lottavano, si abbarbicavano a ciò che ancora restava per impedire ai muscoli di contorcersi o alle ossa di svincolarsi dai loro alveoli. La testa si muoveva da un lato all’altro: no no no. I suoi lunghi capelli biondi seguivano svolazzando i movimenti. Gli occhi di pietra scura erano sperduti in un nembo di capelli, ora biondi e un momento dopo quasi bianchi quando la testa ruotava più veloce. Il viso inespressivo era costantemente sfocato, al punto che lei si rese conto di non ricordare che aspetto avesse, anche se lo aveva visto parecchie volte ogni giorno da quando era stato ammesso all’ospedale. A cosa si sta aggrappando? si chiese, ora che la testa del ragazzo era simile a un nugolo di insetti impazziti per l’impossibile protrarsi del movimento. Il corpo di Tom vibrava all’interno della intelaiatura della finestra. Elaine si aspettava da un momento all’altro di vedere la sua testa levitare, spiccare il volo fuori dalla finestra e sopra la strada ancora deserta a
quell’ora di mattina. I suoi lineamenti si sfocavano avanti e indietro; adesso aveva quattro occhi, e adesso ne aveva sei. Tre bocche che ingurgitavano aria tentando di urlare. Tom era diventato una visione. Era diventato un angelo. “Ci vorrà ben più di qualche innesto di pelle per sistemarlo,” disse Betty, strofinandosi nervosa il dorso del collo. “Dio mio, ma non la smette mai?” Erano affacciate alla vetrata sopra la sala operatoria. Tom era rimasto avvinghiato a un radiatore bollente, e c’erano voluti tre infermieri per staccarlo. Anche sotto anestesia, la testa del ragazzo oscillava così vigorosamente che i chirurghi avevano dovuto stringergli intorno al collo una specie di grosso collare per cani. Gli interventi sarebbero stati in massima parte esplorativi, finché non avessero incontrato qualcosa di specifico. Era questo a preoccupare Elaine. Tom era un essere umano. Aveva dei segreti. “Guarda i suoi occhi,” disse Elaine. Quegli occhi la stavano fissando. Mentre il viso sfumava nel movimento no no no, gli occhi restavano puntati su di lei. Ma questo non era possibile. “Non riesco a vederli,” disse Betty con improvvisa veemenza. “Dio santo, ma ti rendi conto? Visto che lo stanno operando, dovrebbero fare qualcosa al suo cervello. Dovrebbero entrarci ed estirpare quello che ne è la causa.” Elaine fissò la compagna. Estirparlo. Dove? Un tempo erano state amiche, o quasi. Betty avrebbe voluto esserlo, ma Elaine non era riuscita a reagire nel modo giusto. A lei era sempre occorso molto tempo per fare amicizia. Il tono irritato nella voce di Betty la rendeva ansiosa. “Non sanno qual è la causa,” disse a bassa voce Elaine. “Mia madre non ci crede.” Betty si girò e guardò Elaine con occhi che mostravano occhiaie scure contro la pelle anemica. “Zombi. La mamma pensa che li abbiano inventati le reti televisive. Dice che delle persone reali non farebbero mai le cose disgustose che la televisione attribuisce agli zombi.” Elaine rimase ipnotizzata dalle rughe sul viso di Betty. Cercò di seguirle tutte, una per volta, là dove diventavano più profonde, dove intrappolavano grumi di trucco applicato frettolosamente, dove tamponi e pennelli si erano rincorsi veloci per ricoprire la pelle. Gli occhi di Betty ammiccarono più volte in rapida successione, le pupille fisse e lucenti come quelle di una bambola. “Ma lei è anche convinta che non siamo mai sbarcati sulla Luna. Dice che hanno filmato tutto negli studi della Universal.” Negli angoli interni delle labbra di Betty - che quel giorno sembrava-
no insolitamente cariche di rossetto - si erano formate bolle di saliva lattiginosa. “Magari ha ragione lei. Non ho mai letto di zombi nella Bibbia, e se qualcosa di simile esistesse la Bibbia dovrebbe parlarne, no?” Betty si passò un avambraccio sulla fronte. “Dio santo, ho la pelle così secca! Ho l’impressione di sfaldarmi come una pasta frolla!” Una leggera ventata di odore corporeo si spostò verso il viso di Elaine. Lei fiutò il deodorante di Betty e, sotto quello, un odore leggermente acre e al tempo stesso dolciastro. È l’odore dei segreti della gente, pensò Elaine, e di nuovo si stupì di se stessa per aver pensato una cosa simile. La gente ha più segreti di quanti tu ne possa immaginare. Si domandò di quali segreti fosse capace Betty, che cosa avrebbe fatto Betty a uno zombi se ne avesse avuto l’opportunità, che cosa avrebbe fatto Betty a Tom. “Tom non è uno zombi,” disse lentamente, cercando di conficcare in profondità quell’idea nella mente di Betty. “Non abbiamo prove che i casi siano collegati. Non abbiamo prove che lui sia colpito da un virus, se un virus esiste. Non abbiamo prove che lui sia stato colpito da un virus qualsiasi.” “Mia madre non ha mai creduto alle coincidenze,” disse Betty. Elaine trascorse quasi tutta la sera in corsia con Tom e gli altri casi che si erano presentati: una vecchia, un ritardato mentale di circa trent’anni, due gemelle tredicenni che a volte scrollavano il capo all’unisono, un portantino ventiquattrenne dell’ospedale i cui sintomi erano iniziati solo un paio di giorni prima. Come in ogni altro posto dove aveva lavorato, un televisore sistemato vicino al soffitto borbottò per tutta la sera. Ma Elaine non riuscì a fissare il sincronismo della banda verticale. La testa dell’annunciatore continuava a sparire rapidamente verso l’alto, riapparendo subito dopo dal basso. Guardando lo schermo, cominciò a pensare che fossero teste diverse, che l’annunciatore le cambiasse alla velocità di una al secondo. Si chiese come riuscisse a compiere quel trucco. Poi si domandò se non lo facessero tutti gli annunciatori, scambiandosi una moltitudine di teste così in fretta da non essere notati da uno spettatore medio. Avrebbe voluto spegnere il televisore, ma i dottori dissero che era meglio lasciarlo acceso per la stimolazione, anche se i loro pazienti non parevano nemmeno accorgersene. Decine di teste che facevano no no no. Teste alle finestre. Teste che esplodevano a furia di dinieghi. Teste come bombe. Altre due infermiere se n’erano andate quel giorno. Almeno avevano telefonato per avvertire; altre avevano semplicemente smesso di presentarsi all’ospedale. Tutte le infermiere disponibili facevano ormai doppi turni,
con un’assegnazione di pazienti impossibile da reggere. Betty rientrò in servizio alle sei per aiutare Elaine a nutrire alcuni degli scrollanti. “Adesso stringi la cinghia,” disse Elaine. Aveva già infilato il collare imbottito alla vecchia signora e ora teneva ferma la testa della donna con le braccia. Betty cercò di allacciare la fibbia. “Dannazione!” disse Betty. “Non riesco ad agganciarla!” “Sbrigati! Non posso tenerla ferma ancora per molto.” Costringere la testa all’immobilità voleva dire scatenare pressioni anomale in altre parti del corpo. Elaine sentì lo stomaco della donna che protestava, e subito dopo la vescica e l’intestino che si svuotavano. “Fatto!” Elaine lasciò la presa e la testa della vecchia cominciò a oscillare dentro il collare. Betty cercò di nutrirla con il cucchiaio. Il corpo della donna si agitava spasmodicamente come quello di una lucertola inchiodata sopra una tavola. A volte si spezzavano qualche osso in quel modo. Elaine trattenne il respiro. Anche con il collare, il viso della donna riusciva a muoversi in modo sorprendente. Simile a una maschera di lattice attaccata in modo superficiale al cranio, il viso scivolava a destra e a sinistra guidato da una bocca distorta che cercava disperatamente di evitare il cucchiaio. Elaine trovava disgustoso quel sistema, ma era il migliore fra tutti quelli che avevano tentato. Gli agitati soffocavano con i tubi gastrici, si strappavano le flebo dalle braccia, e cercare di infilare un cucchiaio fra quelle labbra che si muovevano così in fretta si era rivelato quasi impossibile. “So che è il tuo turno, ma a nutrire Tom ci penso io,” disse Elaine. Betty sollevò gli occhi dalla testa vibrante, con un rivolo di morbido cibo marrone che le scendeva lungo la guancia destra. “Grazie, Elaine. Ti devo un favore.” Poi tornò a concentrarsi sul tentativo di infilare un cucchiaio pieno in mezzo a quella testa oscillante. “Non lo so. Se dovessi diventare come loro... Non lo so. Credo che preferirei essere morta.” Tom era sempre stato il peggiore da nutrire. Elaine gli allacciò un grande tovagliolo di plastica intorno al collo, poi se ne mise uno anche lei. Lui la fissava. Anche con gli spasmi che lo costringevano a ruotare velocemente gli occhi, lei vide un’impotenza da ragazzino in quegli occhi da adolescente, una vulnerabilità implorante che strideva con le violente contorsioni del suo corpo. Avvicinò il cucchiaio di lato, all’esterno della sua vista periferica. Ma ogni volta che il metallo sfiorava la morbida, rosea carne del viso, la testa si allontanava di scatto. Sempre così. E quando un po’ di cibo riusciva a penetrargli nella cavità orale, lui sembrava soffocare, i suoi occhi diventa-
vano enormi, con il bianco dilatato dal panico, e la sua bocca glielo risputava addosso. Era come se la sua bocca disprezzasse quell’alimento, lo trovasse spregevole e non ne sopportasse la vicinanza. Come se lei gli stesse chiedendo di mangiare le proprie feci. Elaine chinò gli occhi sulla ciotola di cibo schiacciato. Tom vi infilò dentro una mano, ne raccolse una manciata umida e cercò di ficcarsela in bocca. La bocca si allontanò di scatto. La sua mano ripeté quella manovra, e la sua bocca respinse sempre il cibo nello stesso modo. Alla fine le sue mani, dopo essersi viste negare l’accesso alla bocca, cominciarono a spalmare il cibo sul viso, sul collo, sul petto, su tutto il corpo, premendolo contro la pelle e infine dentro ogni orifizio adatto a riceverlo. Sembrava che stesse sguazzando nell’immondizia. Il viso di Tom, gli occhi di Tom, la imploravano mentre le sue mani convogliavano grandi manciate di cibo marrone, verde e giallo sotto la giacca blu del pigiama e la biancheria. Finché, quasi per esasperazione, il corpo di Tom si svuotò, inzuppando se stesso ed Elaine di vomito, orina e feci. Elaine arretrò, strappandosi i guanti di plastica e il tovagliolo. “Basta! Basta! Basta!” gridò, mentre la testa di Tom faceva no no no e il suo corpo continuava a toccarsi, a sondarsi, a palparsi amorevolmente con dita sporche di cibo. La vista di Elaine si annebbiò mentre ricacciava indietro le lacrime. Il corpo di Tom le sembrò di colpo un grande sacco di carne incontrollata dotato di fori umidi e gocciolanti, un’orribile macchina organica incapace di controllare ciò che da essa entrava e usciva. Continuò a fissarlo mentre si nutriva ed evacuava, si sondava ed emetteva suoni, il tutto in modo del tutto autonomo dalla testa e dal suo continuo no no no. Nel corridoio quasi si scontrò con Betty. “Devo andare via,” disse. “Betty, mi dispiace!” Betty guardò nella stanza dove Tom stava ancora giocando con il cibo. “È tutto a posto, bambina. Vai a dormire per qualche ora. Ci penso io a mettere a letto il vecchio signorino Tom.” Elaine la fissò, mentre allarme e sfiducia le squillavano come suonerie nella testa. “Puoi cavartela? Voglio dire... non lo ha fatto apposta, Betty.” Betty assunse un’espressione offesa. “Ehi! Che razza di infermiera credi che sia? Voglio solo lavarlo e rimboccargli le coperte, tutto qui. O magari pretendi che gli legga una fiaba? Magari un bel bacio sulla guancia? Se solo potessi beccarlo sulla guancia... “ “Mi dispiace. Non volevo...”
“Lo so cosa volevi dire. Vai a riposarti, Elaine. Sei a terra.” Ma Elaine non se la sentiva di tornare a casa in auto, di frugare gli angoli bui a ogni incrocio, in attesa che gli eventuali estranei barcollanti domiciliati in quella strada si avvicinassero per lasciarsi esaminare attentamente in viso. Perché lei vedesse se avevano i volti lacerati, gli occhi vacui... o se le loro teste avevano cominciato a fare no no no. Mark viveva nell’appartamento del custode giù nel seminterrato, accanto all’obitorio. Il custode era stato rimpiazzato con un servizio di pulizia esterno qualche tempo prima, per ridurre le spese. Quelle stanze dovevano essere trasformate in un laboratorio, ma questo non era mai successo. Mark diceva sempre che non gli dispiaceva abitare vicino alla morgue. In questo modo il numero dei visitatori occasionali diminuiva drasticamente. Elaine andò là. “Allora non alzarti,” disse Mark, mordicchiandole un orecchio. Stava mordendo troppo forte e aveva l’alito leggermente cattivo. Elaine sgusciò dalla sua stretta e scese dal letto. “Devo andare in bagno,” disse. Dopo aver chiuso la porta, fece scorrere l’acqua nel lavandino in modo da non sentirsi mentre faceva pipì. La gente reagiva ai momenti di crisi in modi diversi, di questo lei era sicura. Il modo di Mark consisteva nel trattare tutti i problemi come se fossero di uguale valore, sia che si trattasse di decidere di quanti watt doveva essere una lampadina da comperare o quale fosse il modo migliore per nutrire uno zombi. Elaine si guardò le gambe. Con il passare degli anni si erano gonfiate un pochino di più. Ogni volta che si sedeva le sue cosce sembravano essersi allargate leggermente. Qua e là c’erano minuscoli gonfiori e depressioni che sembravano spostarsi ogni volta. Ormai il suo ventre sporgeva al punto che lei vedeva solo un’aureola di pelo pubico scuro quando si sedeva in quel modo. E il pelo pubico non era più così scuro. C’erano ciuffetti grigi e, cosa che l’aveva sorpresa e confusa, rossastri. Vicino al ginocchio sinistro una ragnatela di capillari spezzati si stava trasformando in un’ecchimosi violacea. Cercò di annusarsi. A volte immaginava di avere un odore terribile. Le pareva di essersi sempre guardata invecchiare mentre sedeva in un gabinetto. In quella posizione non poteva evitare di guardarsi le gambe, il ventre, il pelo pubico. Non poteva evitare di annusarsi. Si alzò e andò a guardarsi nello specchio. Cercò cicatrici, escoriazioni,
tracce di invecchiamento che prima potevano esserle sfuggite. Fece finta che quello fosse il viso di un paziente, e lo lavò, gli pettinò i capelli. Da bambina aveva finto che il suo viso fosse il viso di una bambola, i suoi capelli i capelli di una bambola. Non si era mai fidata degli specchi. Non mostravano i segreti nascosti dentro. “Devo tornare di sopra,” disse Elaine uscendo dal bagno. “Siamo a corto di personale. Contano su di me. E non posso lasciare Betty a occuparsi di quella corsia da sola.” Ma Mark era occupato a trafficare con il videoregistratore. “Eh? Oh, sì... fai come preferisci, tesoro. Ehi... ho avuto una cassetta da uno di quei tipi della sicurezza interna. La polizia l’ha confiscato due settimane fa e da allora sta facendo il giro di mezza città.” Elaine fece lentamente il giro del letto e si fermò accanto a Mark mentre lui regolava il contrasto. “È roba amatoriale, ma si riesce a vedere quasi tutto.” Lo schermo del televisore era nero, con qualche sporadica ombra più chiara che fluttuava in quell’oscurità. Poi un paio di luci pallide si spostarono rapidamente a destra e a sinistra, in su e in giù. Elaine pensò a due fari impazziti, magari alle ali di una falena. Poi la videocamera arretrò di colpo, quasi sbalordita, e lei vide che era il viso immobile di un negro con occhi che schizzavano qua e là come se fossero sottoposti a qualche specie di elettroshock. Occhi spaventati. Occhi che facevano no no no. Ma mentre la videocamera indugiava su quel volto, Elaine notò qualcosa di più della semplice paura. La pelle scura del viso sembrava lacerata lungo l’attaccatura dei capelli, e incrostata di una sostanza rosso cupo. Un taglio percorreva per il lungo la guancia sinistra, e a lei sembrò di scorgere diversi strati di tessuto sezionati in quella profonda incisione. Quando poi la testa si mosse, appena sotto il mento vide un enorme buco dove le cartilagini della gola svolazzavano squarciate. “E uno di loro,” disse lei a bassa voce, con tono colmo di un timore quasi reverenziale. “Uno zombi.” “Pare che la cassetta sia arrivata di contrabbando, da qualche cittadina del sud,” disse distrattamente Mark, spostandosi più vicino allo schermo. “Ancora non capisco come riescano a fare entrare questi video in città.” “Ma la quarantena...” “La legge della domanda e dell’offerta, mia cara.” Mentre la videocamera arretrava ancora, Elaine vide con sorpresa mani vive, mani umane, che premevano sulle spalle dello zombi. “Guarda un po’ questo,” disse Mark, con tono leggermente ansioso.
La ripresa staccò bruscamente all’indietro per mostrare lo zombi premuto contro alcune assi di legno grigio... la parete di un granaio o di qualche altro edificio di una fattoria. Lo zombi era nudo: ampie ferite coprivano gran parte del suo corpo. Simile a una decorazione, una lunga cicatrice ancora rossa gli percorreva il pene penzolante, leggermente più pallido, per tutta la sua lunghezza. Sei o sette uomini robusti in jeans e camicie logore - abiti da lavoro - tenevano premuto lo zombi contro le assi di legno, spostando di continuo le mani callose per evitare i suoi denti guizzanti. Più quelli scansavano i suoi denti, più lo zombi sembrava farsi frenetico, con la testa che guizzava come un serpente deciso a mordere. Un ottavo uomo - grasso e rubizzo, con due mammelle pendule strizzate ai lati della pettorina della sua tuta da lavoro - portò sulla scena un secchio pieno di martelli e ne consegnò uno a tutti gli uomini che tenevano fermo lo zombi. Poi il ciccione pescò più a fondo nel secchio e ne estrasse una manciata di lunghi chiodi da dieci centesimi, che distribuì a loro volta agli uomini. Mark trattenne il fiato mentre gli uomini procedevano a conficcare i chiodi nel corpo dello zombi - nelle spalle, le braccia, le mani, le caviglie inchiodandolo come una lucertola guizzante contro le tavole. Lo zombi non mostrò dolore, ma lottò contro i chiodi procurandosi lacerazioni ancora più ampie. Ben poco sangue scaturì da queste ferite, ma Elaine credette di vedere un fluido limpido e luccicante intorno a ogni chiodo. Gli uomini fissarono lo zombi per qualche istante. Un paio di loro ridacchiarono come ragazze adolescenti, ma in massima parte avevano un’aria insoddisfatta. Uno degli uomini inchiodò le orecchie dello zombi alle tavole. Un altro usò parecchi chiodi per inchiodare il pene e lo scroto; diversi altri chiodi lo troncarono quasi di netto. Il bacino dello zombi eseguì una lieve rotazione sopra il punto dove i genitali erano diventati un trofeo sulla parete del granaio. Lo zombi non parve notare la differenza. Gli uomini risero e indicarono il trofeo. Non c’erano urla sulla colonna sonora della cassetta. Solo risate e i grugniti animaleschi dello zombi. “Gesù, Mark.” Elaine distolse gli occhi dal televisore, vergognandosi per aver guardato così a lungo. “Gesù...” Con un gesto automatico si aggiustò i capelli e fece scivolare la mano lungo il viso, chiedendosi come poteva al-
lontanarlo dal televisore, o almeno indurlo a spegnerlo. “Dannazione. Guarda, stanno prendendo l’ascia e la falce,” disse Mark. “Non voglio guardare,” disse lei, sul punto di scoppiare a piangere. “Non voglio nemmeno che tu guardi. E una cosa folle, è... pornografia.” “Oh, lo so che è roba morbosa, ma penso che ci dica qualcosa su come sono realmente le cose là fuori. Cristo, nei notiziari non ci fanno vedere niente. Non ci mostrano com’è veramente la situazione. Abbiamo bisogno di sapere che cose simili esistono.” “Lo so maledettamente bene che esistono! Non ho bisogno che qualcuno me le sbatta in faccia!” Elaine salì sul letto e gli voltò le spalle. Cercò di ignorare i gemiti e le risatine infarcite di disturbi che giungevano dallo schermo. Fece finta di essere ammalata in un letto di ospedale, di ignorare cosa succedeva nel resto del mondo. Un paio di minuti dopo, Mark spense il televisore. Lei immaginò di vedere una dissolvenza della testa dello zombi, dove alla fine si vedevano soltanto i suoi occhi sbalorditi e poi più nulla. Sentì le mani di Mark che le massaggiavano la schiena. Poi anche lui si stese sul letto, per metà sopra di lei, continuando a massaggiarle i muscoli tesi. “Non sono a Denver,” le disse sottovoce. “Non ci sono ancora stati avvistamenti. Qui non ci sono zombi, signora.” Il massaggio si trasferì alle sue cosce. Lei cercò di ignorarlo. “Se ci fossero, la gente di qui si comporterebbe come quei bifolchi nel tuo maledetto video? Gesù, Mark. A nessuno dovrebbe essere consentito di comportarsi in quel modo.” Lui smise di massaggiarla. Elaine sentì il suo respiro. “A volte le persone fanno strane cose,” disse lui alla fine. “Specialmente in periodi strani. Specialmente persone in gruppi. Si spaventano e perdono il controllo.” Ricominciò a massaggiarle le spalle, spostandosi poi al collo. “Non ci sono zombi a Denver, tesoro. Niente avvistamenti. Tutti i notiziari continuano a dircelo. Tu lo sai; sei sempre lì a guardarli.” “Forse non hanno lo stesso aspetto.” “Cosa vuoi dire?” “Forse qui non avranno lo stesso aspetto che altrove. Forse avranno una forma diversa, e noi non sapremo cosa cercare. Credono che sia un virus... be’, i virus sono soggetti a mutazioni, possono avere forme diverse. Forse i dottori e il Dipartimento della Sanità e tutti quei giornalisti non sono poi così furbi come credono di essere. Cristo, potrebbe addirittura essere una
qualche forma di malattia venerea.” “Ehi, non sei affatto divertente.” “Credi che ne avessi l’intenzione?” Poteva sentire l’ira che le annodava i muscoli delle spalle sotto le mani di lui. Poteva sentire che tutto questo iniziava a cambiarla. In seguito, quando fosse finita, non avrebbe più potuto tornare a essere la stessa. Se mai fosse finita. “Lo so, lo so,” disse lui. “E molto dura per noi tutti.” Poi cominciò a baciarla. Crudelmente, lei si chiese se lo faceva perché aveva esaurito gli argomenti. Ma scoprì che il suo corpo rispondeva, anche se la sua testa era nauseata di lui e di tutte le sue facili risposte e spiegazioni. I suoi baci le scesero lungo il collo e sui seni come un liquido caldo. E il suo corpo accolse volentieri quel calore, dopo il gelo che aveva provato. “Spegni la luce, ti prego, Mark,” disse, arrendendosi al proprio corpo e odiandolo per questo. Lui si alzò in silenzio per spegnere la luce, poi fu di ritorno con i suoi baci e le sue carezze, scaldandola un brano di carne per volta. Al buio lei non poteva vedere il proprio corpo. Poteva cancellare le imperfezioni, i gonfiori e la cellulite, le zone di pelle troppo secca, le piccole decomposizioni che annunciavano la morte. E poteva immaginare che il fiato di Mark fosse sempre profumato. Poteva immaginare i suoi capelli ancora scuri e folti. Poteva cancellare dalla propria testa l’immagine del pene distrutto dello zombi quando Mark faceva l’amore con lei. E in quel buio lei poteva quasi immaginare che Mark non sarebbe mai morto. Il corpo di Mark continuò a consolarla anche dopo che - lei se ne accorse - la sua testa si era addormentata. Mark la svegliò con un bacio la mattina dopo. “La notte scorsa è stato magnifico,” le sussurrò lui. “Sono contento che finalmente tu abba superato quello che ti preoccupava.” Quell’ultimo commento la irritò, e lei cercò di dirglielo, ma aveva troppo sonno e lui se n’era già andato. Allora si sentì triste per la sua mancanza e desiderò che tornasse indietro, per toccarla di nuovo e farla sentire di nuovo bella. Fissò l’occhio grigio e spento del televisore, poi sbirciò il videoregistratore. Mark aveva portato con sé la sua cassetta. Si sentì sollevata, e provò un po’ di vergogna. Accese il televisore. L’occhio si riempì di disturbi, ma si sentiva la voce piatta e quasi apatica di un’annunciatrice. “...il governo federale ha annunciato rilevanti progressi nei confronti della cosiddetta epidemia ‘zombi’...” Poi sullo schermo le solite vecchie e
granulose immagini di archivio: uomini con tute mimetiche e tenute da cacciatori che sparavano a zombi nella testa da distanza di sicurezza. Sparavano e poi procedevano con calma lungo una strada in terra battuta. L’annunciatrice riapparve sullo schermo: silenziosa, priva di emozioni, il trucco perfetto, la testa che continuava a scorrere verso l’alto del mobile. Erano le quattro del mattino passate. Betty si era occupata da sola della corsia per tutta la notte e doveva essere sostituita. Elaine si vestì in fretta e sali di sopra. Betty non era dietro il banco delle infermiere. Elaine cominciò a scendere il corridoio scarsamente illuminato, sbirciando in ogni camera. Sui letti ombre scure si agitavano e scrollavano il capo facendo no no no, perfino sognando. Ma non c’era traccia di Betty. L’ultima camera era quella di Tom, e lui non c’era. Si udiva uno scalpiccio regolare nel tunnel buio che conduceva alla nuova ala. Elaine provò l’interruttore sulla parete, ma apparentemente non era ancora collegato. Tolse di tasca la torcia stilo che usava per fare annotazioni sulle cartelle dei pazienti nelle camere oscurate. Produceva un piccolo e distorto cerchio di luce. Scese lungo il tunnel buio, spostando il fascio luminoso qua e là sul soffitto incompleto, sui fori nelle pareti dove avevano inserito le condotte elettriche, sul pavimento a piastrelle sporco di polvere d’intonaco e ingombro di cavi elettrici, tubi metallici e pezzi di legno. Entrò in una gigantesca area aperta che non era stata ancora suddivisa in camere. Da larghi fori nel soffitto penzolavano cavi che le sfioravano il viso. La luce della strada che filtrava dalle alte finestre strette tracciava righe bianche sul pavimento, sui barattoli di vernice e sui sostegni metallici. Avrebbero dovuto completare l’ala nuova entro il mese seguente. Si domandò se l’avrebbero mai fatto, visto come andavano le cose in città. Il nuovo reparto aveva più l’aspetto di una struttura che stessero spogliando, demolendo, invece di una nuova costruzione. Come un edificio sottoposto ad autopsia, pensò. Non sentiva più i passi davanti a lei. Sentiva solo i suoi, che facevano scricchiolare la sabbia sotto le suole, e il suo respiro un po’ ansimante. Diresse la torcia sopra di sé, e qualcosa mandò un riflesso. Due telecamere sporgevano da un supporto metallico. Erano spente, e i loro cavi si attorcigliavano inutili intorno al supporto. Elaine continuò ad avanzare, seguendo i collegamenti con la torcia. C’era una fila di monitor spenti, con gli enormi occhi grigi che la fissavano. Qualcuno lanciò un debole grido nell’oscurità davanti a lei. Elaine spo-
stò il fascio della torcia, ma vide solo casse, pannelli di plastica appoggiati alle pareti e ammucchiati sul pavimento, sostegni di metallo e traverse. Un labirinto di angoli aguzzi. Ma poi vi fu di nuovo quel grido. “Betty? Tom?” Un viso pallido comparve nel fascio di luce sfocato, ingiallito. Un viso confuso che tremolava. Gli occhi erano troppo bianchi, e avevano uno sguardo lontano. “Betty?” Il viso continuava a tremolare. Betty uscì incespicando da una giungla di scatole di cartone, fra lo scricchiolio di scorte di medicinali e di materiali da costruzione che si frantumavano sotto i suoi piedi incerti. “No...” La bocca di Betty si muoveva come al rallentatore. Il suo rossetto sembrava troppo vivace, il mascara troppo scuro. “No,” disse ancora, e qualcosa di scuro le scivolò dagli occhi mentre cominciava a scrollare la testa. La torcia di Elaine raccolse un luccichio nella mano destra di Betty. “Betty?” Betty inciampò e cadde, tenendo la mano destra di fronte a sé. Elaine si fece più vicina, pensando di aiutarla a rialzarsi, ma poi vide che il braccio destro di Betty si muoveva lentamente ad arco, da un lato all’altro, un bisturi stretto saldamente in pugno. “Betty! Lascia che ti aiuti!” “No!” urlò Betty. La sua testa prese a muoversi con violenti sussulti sul pavimento coperto di detriti. Le sue guance passarono più volte su vetri rotti. Il sangue sgorgò, sporcandole il viso mentre la testa continuava a fare no no no. Sembrò lottare per riprendere il controllo della mano che stringeva il bisturi. Poi se lo conficcò di colpo nella gola. La sua mano sinistra si sollevò a scatti e aiutò la destra a spingere il bisturi attraverso il muscolo e la pelle. Elaine cadde in ginocchio afferrando carta e stracci, qualunque cosa a portata di mano per tamponare il fiotto scuro dalla gola di Betty. Dopo un minuto o due si arrese e si allontanò. C’erano altri rumori lontani nell’oscurità. In fondo alla sala Elaine trovò un passaggio senza porta che conduceva in un’altra stanza. Ormai la luce della sua torcia aveva una sfumatura rossastra. Si domandò se ci fosse del sangue sul vetro, o se lei avesse sangue sugli occhi. Ma la luce bastava a mostrarle la via. La seguì, sentendo un rumore sordo, viscido. Per un attimo pensò che Betty fosse ancora viva. Fece per tornare indietro quando lo sentì di nuovo; veniva dalla stanza davanti a lei. Cercò di non pensare a Betty mentre avanzava nel buio. Quella non era Betty. Quello era solamente il suo corpo. La madre di Elaine aveva conti-
nuato per anni a biascicare fra sé cose del genere. Cose spirituali. Elaine non sapeva con esattezza in cosa credere. Quando una persona muore, non la si conosce più. Non si può immaginare cosa stia pensando. La stanza era permeata dell’odore gelido di vernice fresca. Un mucchio di stracci era stato radunato al centro del pavimento. Le finestre erano sbarrate con grosse striscie a X di nastro adesivo, e le luci dall’esterno creavano bizzarri disegni di ragnatele spigolose su tutti gli oggetti nella stanza. Un robusto cavo elettrico scendeva dal soffitto per infilarsi in un piccolo commutatore sul pavimento, che a sua volta era collegato con una grossa lampada a vapori di mercurio usata probabilmente dalla squadra di muratori. Elaine si chinò e premette l’interruttore. La luce fu come un’esplosione. Creò strane ombre scheletriche nel mucchio di stracci, come se all’improvviso lei potesse vedere attraverso di essi. Avanzò con passo fermo verso il cumulo, tenendo d’occhio le ombre. Elaine allungò una mano e diversi stracci volarono via. Dio mio, Betty lo ha ucciso! Betty lo ha ucciso e gli ha tagliato quella spaventosa testa sempre in movimento! La testa era una cosa piccola e triste accanto al corpo nudo e sporco del ragazzo. Un soffice mormorio sembrò penetrare nell’orecchio di Elaine, riportando la sua attenzione sulla testa. Si fermò per valutare da dove venisse quella corrente, ma non c’erano correnti d’aria, anche se avvertiva un soffio che le gonfiava i capelli e li faceva crescere più lunghi, li tingeva di bianco, la faceva invecchiare. A causa di un effetto di luce, gli occhi della testa di Tom sembravano aperti nella testa mozzata. A causa di un effetto di luce quegli occhi ammiccarono più volte, come se cercassero di adattarsi a quella luce. Lo sguardo era indeciso, confuso, come quello di un pupazzo. La bocca si muoveva come quella di un bambino. Poi il suo corpo nudo, senza testa, si mise seduto sul pavimento. Poi il ragazzo senza testa si alzò in piedi, barcollando incerto. Non ha più l’orecchio interno per calibrare l’equilibrio, pensò Elaine, e quasi scoppiò a ridere. Si sentiva sull’orlo della pazzia, capace di tutto. Il corpo rimase immobile, fissando Elaine. Fissandola. I capezzoli apparivano più scuri del solito e sembravano seguirla mentre lei si spostava di lato nella stanza. Il torace privo di peli dava ai nuovi occhi del corpo una leggera prominenza. L’ombelico era piatto e neutro, ma Elaine si chiese se con quello lui non potesse fiutare l’odore del suo corpo. Il pene - la lingua
- si agitava inquieto nella bocca barbuta del nuovo volto di quel corpo. Poi il corpo si mosse rigidamente, come una marionetta, verso la sua vecchia testa. Il corpo raccolse la testa con una mano e la scagliò in un angolo buio della stanza. Questa toccò terra con il suono di uno strofinaccio bagnato su un pavimento di linoleum. Elaine udì un gemito fievole che cessò quasi subito, quindi orribili rumori viscidi che provenivano dalla nuova bocca barbuta del corpo. Udì la pelle che si spaccava, vide il sangue sprizzare sul pavimento polveroso mentre la nuova bocca del corpo si allargava ed estraeva nuove labbra dalla carnosa oscurità dell’interno. Poi il suono di una sedia a rotelle che si avvicinava alle sue spalle. Si girò e guardò l’anziana signora che si stringeva con entrambe le mani la testa avvizzita e spasmodicamente impegnata a fare no no no. La testa continuò a muoversi anche quando le mani e le braccia aumentarono la loro pressione, con il corpo della vecchia signora che sussultava per lo sforzo. Poi improvvisamente gli spasmi cessarono, le braccia sollevarono la testa ormai immobile e la staccarono dal corpo, spezzando la colonna vertebrale, stirando la pelle e i muscoli del collo finché questi non si lacerarono come elastici ormai marci. I fluidi della vecchia cominciarono a sgorgare dalle ferite, poi si arrestarono di colpo quando sia la testa che il corpo sigillarono le lacerazioni con pallidi tessuti tesi al punto da sembrare trasparenti. Il nuovo viso sul corpo della vecchia era avvizzito, pallido, quasi del tutto privo di peli, e assomigliava in modo notevole al vecchio viso. I nuovi occhi penzolavano pigramente, ed Elaine si domandò se quel corpo non fosse cieco. La testa della vecchia sussultò e rimase immobile. Il corpo di Tom raccolse la testa morta della vecchia e se l’infilò nella bocca pelosa. Le sue nuove labbra pallide si allargarono e si contorsero. Elaine vide gli acidi dello stomaco colare su quelle labbra, mentre la testa sempre più piccola della vecchia riappariva a tratti durante la digestione. Il teschio spolpato dell’anziana signora fu infine risputato sul linoleum e rimbalzò lontano. Elaine chiuse gli occhi, cercando di ricordare tutto ciò che le aveva detto sua madre. Quando una persona muore, smettiamo di conoscerla. È solo un corpo morto... non è più un amico. L’amico vive per sempre dentro la tua testa. La morte è un mistero. Resta lontana dalla folla. La folla vuole divorarti. Avrebbe voluto che Mark fosse lì con lei. Avrebbe voluto che Mark toccasse il suo corpo e la facesse sentire bella. No. Non ci può fidare della
gente. No. Avrebbe voluto amare il proprio corpo. No. Avrebbe voluto che il suo corpo l’amasse. No. Cercò di immaginare Mark che la toccava, che faceva l’amore con lei. No. Con gli occhi vacui, la bocca che si spaccava agli angoli. No. Staccargli la testa e conficcarla profondamente dentro di sé, in modo che gli occhi e la lingua di Mark scoprissero e divorassero tutti i suoi segreti. No no no, fece la sua testa. La testa di Elaine continuava a fare no no no. E ogni volta che la sua vista spazzava la stanza seguendo l’ondulazione ritmica della testa che persisteva nel suo diniego, i corpi si facevano sempre più vicini. SCELTE Glen Vasey [1] Centro Provvisorio Controllo Epidemico Puerto Nuevo, Florida Promemoria Interno n. 57-608 Da: Kenneth J. Howell, Vicedirettore A: Malcolm Foley, Direttore Ricerche Malcolm, questo documento mi è appena arrivato fra le mani. Invece di risistemarlo e di correre il rischio di omettere qualcosa che potrebbe tornarti utile, ho detto a Marcie di batterlo a macchina così come l’ho ricevuto. Ho aggiunto solo una nota, verso la fine, dove la scrittura cambia di mano. Conservo ancora l’originale. È su un taccuino a spirale piuttosto malconcio, di quelli che si potevano comprare per pochi spiccioli. Se credi che possa servirti, fammelo sapere e vedrò di fartelo recapitare. Tutto lascia suppore che sia autentico. Le questioni più interessanti si trovano nell’ultima decina di pagine. Ti allego una mappa dell’area dove è stato raccolto. Può darsi che tu voglia fare svolgere qualche indagine ai tuoi ragazzi, sempre che sia ancora possibile. Forse potresti addirittura portare qui alcune di quelle persone per esami o roba del genere. Se posso esserti d’aiuto, fammi un fischio. Non so davvero se questo potrà esserti utile, o se sarà solo un’altra distrazione. So quanto sia limitato il tuo personale e che mole di lavoro ti trovi a dover affrontare, ma ho pensato che in tempi come questi uno sparo
alla cieca potesse contare più di un’attesa continua. Il mio sparo nel buio consiste nel mandarti questo documento, relativamente privo di rischi. Il tuo consisterà nel decidere cosa farne, sempre che tu voglia farne qualcosa. Non sarà una scelta facile, in entrambi i casi. Non penso di aiutarti molto dicendo che non invidio la tua posizione, ma lo dirò ugualmente. Questa è probabilmente la seconda volta nel corso della storia umana in cui risulta meno straziante essere un burocrate che uno scienziato. La prima è stata durante l’Inquisizione spagnola. Oh, i bei vecchi tempi andati! In alto i cuori, Ken Per un attimo Ken Howell sorride alla breve battuta con la quale ha concluso il suo promemoria. Poi scoppia quasi a piangere. Poche ore prima ha scoperto la sua segretaria che piangeva. Ha cercato di rincuorarla, di offrirle qualche zoppicante parola di conforto. Così facendo ha scoperto una delle dolenti verità della vita: non esistono parole di conforto che non accentuino e non rendano più amara la causa stessa del nostro bisogno di conforto. La segretaria ha continuato a piangere, così lui è tornato nel suo ufficio. Non voleva che le sue lacrime lo indebolissero. Non poteva permetterselo. NON STO PIANGENDO Lui occupa una posizione carica di responsabilità. Una posizione che gli richiede di mostrare forza e una capacità di giudizio serena. Non può permettere che gli altri dubitino di lui. Non può permettersi il lusso del dubbio. NON STO PIANGENDO No. Non piangerà. Non ora. Neppure qui, da solo. NON STO PIANGENDO DA SOLO Una voce incorporea echeggia nei corridoi del suo cervello. Nostalgica. Commemorativa. Elegiaca. Straniera e per sempre inconoscibile. NON SONO SOLO!! Sente Marcie che si muove irrequieta nell’ufficio accanto. Sa che si prepara ad andarsene. Presto lui andrà da lei. Presto lasceranno insieme l’edificio e attraverseranno il piazzale diretti alle loro stanze, come fanno sempre. Non appena lui troverà la forza di smettere di piangere.
[2] Il silenzio del tramonto di giugno era accompagnato, più che interrotto, dal fruscio svolazzante del taccuino a spirale che attraversava l’aria verso la statale. I rami stormirono lievi separandosi per lasciarlo passare. Le pagine si aprirono a ventaglio e frusciarono nella brezza di quel breve volo. Ci fu un tonfo soffocato quando atterrò alla base di un cespuglio spinoso, a cinque o sei metri dalla strada deserta. Tutto qui. Breve. Temporaneo. Rapidamente superato. Poi il silenzio tornò a regnare, ancor più tirannico di prima dopo essere stato così enfatizzato. Dawson raggomitolò le gambe fino a posare il mento sulle ginocchia. Si passò le braccia intorno alle caviglie e strinse. Strinse con decisione. NON STO PIANGENDO Strinse fino a premersi le cosce contro il petto con tanta forza da far dolorare ogni muscolo del suo corpo. NON STO PIANGENDO Strinse ancora più forte. La schiena, le costole, le mascelle, le braccia, le gambe, le natiche. Ogni muscolo si tese nello sforzo. NON STO PIANGENDO DA SOLO La sua volontà: diventare un pozzo di dolore. Dolore fisico. Dolore effimero. Dolore che distorcesse la coscienza. Dolore che poteva controllare. Doveva solo rilassarsi e sarebbe diminuito. NON SONO SOLO!! Ben diverso dal dolore della propria inettitudine. Dal dolore della perdita, della disperazione, della solitudine e della paura. Diverso dal dolore delle parole. Prima la sua testa era stata piena di parole. Chissà perché aveva creduto che non vedessero l’ora di uscire. Aveva pensato di poterle usare per sfuggire agli altri suoi dolori, per dare una specie di senso alla sua situazione completamente assurda. Ma quando aveva cercato di usarle, erano volate via. Solo l’urlo primevo era rimasto, e quello si era rivelato di scarso aiuto. Dopo aver dato corpo a quell’urlo con degli scarabocchi che avevano riempito una sola pagina, aveva gettato il libro nel crepuscolo. Aveva rischiato la vita per quel libro. Aveva rischiato la vita e adesso temeva ancora di perderla, se le parole non lo avessero aiutato a restare vivo.
Per sfuggire a quei pensieri strinse più forte le gambe, poi si rilassò completamente e assaporò il breve piacere che gli inondò il corpo. Poi sospirò e scostò dolcemente la camicia dalla spalla sinistra per esaminare il profondo graffio rossastro. Pensò alle infezioni. Ai virus, ai germi, ai batteri, ai funghi - a quello che diavolo erano - che avevano cambiato il mondo così drasticamente. Scosso da brividi e al tempo stesso coperto di sudore, si scoprì a sperare che fossero entrambi sintomi della paura piuttosto che della febbre. Anche una psicosi sarebbe stata preferibile. C’era stato un suono, o l’impressione di un suono? Si immobilizzò con tutti i sensi in allarme, scordando le parole, il sudore e i brividi. In ascolto. SOPRAVVIVERÒ! Non voleva che loro lo trovassero. Non voleva morire. VOGLIO SOPRAVVIVERE! Non voleva morire così. Non era esattamente un desiderio di vivere, ma era pur sempre qualcosa. Anche se non so perché. Era tutto ciò che gli restava. Il buio della notte era calato completo prima che Dawson riuscisse a convincersi che doveva muoversi ancora. Che il suono fosse stato reale o solo mentale, a quel punto lui sapeva che non costituiva una minaccia immediata. Non si era ripetuto. Non avanzava verso di lui. Sapeva anche che, pur essendo troppo stanco per continuare il suo viaggio, non poteva permettersi il lusso del sonno. Dormire avrebbe voluto dire invitarli ad avvicinarsi senza troppe precauzioni e quanto volevano. Si alzò e scese in fretta il pendio alberato verso la statale. Ginocchioni, infilò le mani fra gli sterpi spinosi e annaspò alla ricerca del suo bottino. Quando recuperò il taccuino, le sue mani sanguinavano da una dozzina di tagli superficiali. Non se ne accorse neppure. Aveva gli occhi pieni di lacrime. Udì di nuovo un suono. Questa volta non c’erano dubbi. Peggio ancora, riuscì a individuare da quale direzione era giunto. Dall’alto del pendio. Dalle vicinanze del punto dove aveva lasciato lo zaino appoggiato contro un albero. Si diede dell’imbecille e sbirciò nell’oscurità, cercando movimenti. Non vide nulla. Attese, sempre in ascolto. Di nuovo non udì altri rumori. Si domandò se
quel nuovo silenzio fosse un trucco, un tentativo di coglierlo impreparato. Un tentativo di attirarlo ancora verso l’albero. Verso lo zaino senza il quale non poteva andarsene. Si disse che i morti non erano così astuti, poi immediatamente ricordò a se stesso che c’erano anche gli altri. Aspettò per un tempo che gli parve lunghissimo, tenendo stretto il taccuino al petto, poi finalmente si decise a risalire con passi cauti e lenti il pendio. Raggiunto il suo zaino, aveva appena ripreso a respirare quando il verso di un gufo su un albero vicino gli arrestò il cuore. Poi vi fu solo silenzio. L’oscurità gli rendeva invisibili le sue ultime parole, ma di questo era contento. Le conosceva a memoria, e non provava né la necessità né il desiderio di rileggerle. NON STO PIANGENDO Non gli serviva la luce. Sapeva di poter scrivere anche al buio. Se solo gli fossero venute le parole. Qualcosa di diverso dall’urlo primevo. Qualcosa che mantenesse desto il suo interesse e la sua attenzione. Qualcosa che servisse a tenerlo sveglio. Posò a terra il taccuino e la penna, e tolse l’astuccio del pronto soccorso dallo zaino. Inumidì di alcol un batuffolo di cotone e sollevò ancora la camicia per disinfettare il graffio sulla spalla. Strofinò con forza, provando un bruciore caldo e pungente. Il graffio non sembrava infetto. “Non sembra infetto,” mormorò. “Non ancora.” Strofinò più forte, muovendo le labbra in una preghiera silenziosa, indeciso su chi scegliere come destinatario della preghiera. Allora la sua mente tornò lentamente indietro. Rivide la scena. L’origine di quella particolare preoccupazione. L’inizio del pomeriggio si era rivelato caldissimo e umido. Un sole smagliante. Un calore satanico. Gli pulsava la testa, batteva, scricchiolava e urlava per un’emicrania alla quale solo il giorno prima gli sarebbe sembrato impossibile sopravvivere. Camminava barcollante lungo la spalletta di una statale, indebolito dalla fame, dalla sete, dalla stanchezza e dal dolore. Avrebbe voluto che lo zaino fosse davvero pesante come lui lo sentiva, che contenesse più acqua e cibo. Sopra lo zaino aveva fissato un cartello di cartone con una scritta le cui lettere erano alte una trentina di centimetri. La scritta non dichiarava una destinazione, ma piuttosto una condizione.
VIVO, diceva semplicemente. Lui sperava che avrebbe fatto esitare gli automobilisti di passaggio. Specialmente quelli armati. Quando due settimane prima l’aveva concepita gli era parsa una buona idea, ma quel pomeriggio non era più certo che il cartello dicesse il vero. La sua emicrania distorceva ogni cosa: la vista, i suoni, i pensieri e le sensazioni. “Lo sanno di essere morti?” si era domandato. “Come fanno a saperlo?” Incespicava e trascinava i piedi accanto alla strada, pensando: “Ne ho già visti abbastanza per sapere che si muovono proprio così. Provano quello che provo io? Come percepiscono le cose?” Aveva gli occhi fissi, il viso contorto in una maschera dolorante con le palpebre strizzate. Era accecato dal sole e dal dolore. Si sentiva debole e intorpidito, con tutti i sensi affogati nel dolore martellante che gli aggrediva le tempie, lo scalpo, le retine e la base del cranio. Un cartello gli apparve davanti. Smise di camminare e cercò di metterlo a fuoco. Cercò di indovinare il suo significato. Portava un nome. Il nome di una città, ne era certo, anche se non riusciva a riconoscerlo. Intuì che avrebbe dovuto dirgli qualcosa, e sedette bruscamente sulla ghiaia della spalletta deciso ad attendere un’illuminazione. Si rese subito conto che avrebbe dovuto allontanarsi dalla strada. Avrebbe dovuto accettare il modesto riparo offerto dalle erbacce alte e dai fiori di campo. Ma non riusciva a prendere la decisione di rialzarsi. “Una città,” pensò. “Senz’altro piccola, ma pur sempre una città. Ce ne sarà un grosso branco. Ecco! Questo è il significato. Un branco. Devo girare intorno alla città. Non avvicinarmi troppo. Non devono sentire la mia presenza.” Ma gli era sembrato che il significato di quel cartello non fosse tutto lì, che qualcosa gli stesse sfuggendo, di doverci riflettere ancora. Così rimase seduto, continuando a sguazzare da fermo nel suo dolore. Improvvisamente un’auto gli sfrecciò vicina, diretta verso la città. Dapprima il rumore lo fece solo sobbalzare, ma un attimo più tardi l’incidente lo disturbò molto più profondamente. L’auto era arrivata da dietro le sue spalle. Nonostante il gran rumore che faceva, lui l’aveva notata solo quando gli era passata accanto. L’emicrania gli aveva completamente annullato i sensi. “Il messaggio è questo.” Si rialzò a fatica. “Mi serve qualcosa per farla passare, per ritornare normale. Non posso evitare la città, devo entrarci.”
Sapeva che in città loro avrebbero percepito la sua presenza. Sarebbero accorsi verso di lui alla massima velocità possibile. Lo avrebbero divorato e trasformato in uno di loro, se ne avessero avuta l’opportunità. Ma camminare lungo la statale mezzo cieco, mezzo sordo e per tre quanti privo di sensi non era un’alternativa accettabile. Non appena arrivò in città, un senso di esultanza cominciò a filtrare fra tutti i suoi dolori. Adesso che si era impegnato in un’attività precisa con uno scopo a breve scadenza, l’adrenalina si era fatta viva nel suo sangue dandogli una certa carica. Dopo aver individuato il primo dei suoi inseguitori lenti e impacciati, al posto della paura provò un guizzo di fiducia in se stesso. “Io so di non essere uno di loro,” aveva gridato. “Loro non si sentono così!” Benché il dolore non fosse affatto diminuito, la mente e i sensi gli si erano fatti più acuti, le gambe incredibilmente agili. Riuscì facilmente a evitare e a distanziare gli inseguitori. Quando individuò la vetrina infranta di un emporio, vi entrò di corsa senza rallentare l’andatura. Dentro, si spostò rapidamente da una corsia all’altra con occhi guardinghi. La sua mano si allungò verso una scatola di analgesici un istante dopo averla identificata con lo sguardo. Nel giro di un altro secondo si era girato per tornare sui suoi passi e uscire. Allora udì il suono di qualcosa che trascinava i piedi fra i vetri rotti davanti al negozio. “Non cedere al panico,” si disse in fretta. “Prima di tutto fai allontanare quella cosa dalla porta.” Si spostò verso la corsia centrale per vedere senza ostacoli l’ingresso. La cosa che vide avanzare nella sua direzione era stata un tempo un uomo anziano, magro. Ora il suo viso era una maschera verdognola, morbida e gonfia come la faccia di un affogato. Anche a distanza il suo fetore era insopportabile per l’olfatto di Dawson acuito dall’adrenalina. Indossava un giubbotto da pescatore, pantaloni verde scuro e scarponi, il tutto incrostato di sangue secco. Anche la bocca, le guance, il mento e il collo erano imbrattati allo stesso modo. Dawson pensò che avrebbe potuto battere in velocità il divoratore di cadaveri spostandosi semplicemente in una delle corsie vuote e correndo verso la porta. Ma voleva averne la certezza, e sapeva che le sue probabilità sarebbero aumentate se avesse atteso ancora qualche istante, lasciando che
la creatura si avvicinasse maggiormente a lui. Si guardò intorno frettolosamente, alla ricerca di qualcosa da usare come arma. Invece l’occhio gli cadde su una pila di taccuini a spirale dalle copertine a colori vivaci. Cedendo a un impulso del tutto incontrollato dal pensiero, si chinò e ne raccolse uno. Quando si rialzò, vide che sulla porta infranta spiccava un altro divoratore di cadaveri, stavolta una donna grassa che indossava una tenuta da cameriera un tempo bianca. Adesso il panico fece capolino nella sua mente. Quanti ce n’erano? Abbastanza per intrappolarlo nel negozio? Abbastanza per inseguirlo fra le corsie? Consentì al primo di avvicinarsi più di quanto avesse progettato all’inizio, per assicurarsi che anche il secondo lo inseguisse lungo la corsia centrale. Quando calcolò che anche la donna era abbastanza lontana dalla porta, fece la sua mossa. Si girò a destra, fece due rapide falcate, girò subito a sinistra e si lanciò di corsa lungo l’ultima corsia. Nonostante la fretta i suoi occhi riuscirono a registrare, e il suo cervello a comprendere, l’esistenza di un espositore di penne a sfera e stilografiche appeso alla parete alla sua destra. Non avrebbe dovuto fare alcuna differenza per lui, ma prima che il suo cervello potesse impedirlo la mano destra guizzò verso una confezione di penne a sfera. Il pacchetto rimase attaccato al suo sostegno metallico e non si staccò. Così lui commise il gesto più idiota di tutta la sua vita. Si fermò di colpo e cercò di raggiungere nuovamente le penne. Ma quelle erano fuori portata. “Idiota!” urlò. Ma fece ugualmente un passo indietro e liberò le penne dall’espositore. La sua mente era un caos di imprecazioni e di visioni di morte, ma quando raggiunse la fine della corsia vide la porta sgombra e la superò con un balzo. La mano che gli calò sulla spalla e arrestò il suo movimento era la stretta della morte in persona. Il viso della creatura alla quale la mano apparteneva era stato, fino a non molto tempo prima, quello di un adolescente. Adesso era corroso da un’acne passata in decomposizione. Era il viso della lebbra a uno stadio molto avanzato. Il collo della creatura era divorato per metà, e quella ferita oscena pullulava di vermi. Dawson urlò e piantò saldamente i piedi a terra dando uno strappo. La
camicia si lacerò, e lui sentì una sferzata rovente solcargli la spalla. Era riuscito a liberarsi, nonostante la sua idiozia. [3] Sono ben nascosto. La notte è tranquilla. Per il momento sono al sicuro. Al sicuro? Per il momento. Loro non sono capaci di muoversi furtivi. Credo. Gli altri, le bande violente di quelli che sono ancora vivi, sembrano rifiutare le azioni furtive o nascoste. Fanno sempre baccano. Forse è una loro ossessione. Un tentativo di allontanare la morte spaventandola. O di allontanare la loro coscienza di ciò che è capitato al mondo. Un modo per trasformare tutto in una gigantesca e perpetua rissa da bar del sabato sera. Io sono diverso? Sto cercando di scrivere come se il mondo sapesse, o gliene importasse qualcosa, che io sono ancora vivo? Come se ciò che scrivo potesse mai essere letto da qualcuno? Sto davvero cercando di mettere un po’ di ordine in questa situazione, di trarne qualche significato? Oppure cerco solo di scansare l’argomento a modo mio? Facendo un baccano tutto mio? Sto pestando anch’io su tegami e padelle per lottare contro l’eclisse? Ha forse qualche importanza? A quel punto sospirò e appoggiò la testa contro la corteccia dell’albero. Chiuse gli occhi e tirò un respiro profondo, tremante. Aveva costretto la sua mano a scrivere, la sua mente a concentrarsi, per evitare il ricordo di quel pomeriggio e, in parte, per giustificare i rischi spaventosi che aveva corso. Ma la scrittura era un fallimento. Invece di acquietargli la coscienza, aveva risvegliato le domande che più lo tormentavano. Le stesse domande che nelle ultime due settimane non davano riposo alla sua mente. Dove sono adesso? Fin dove dovrò spingermi? Quanto mi resta da vivere? Che probabilità ho? Che scelte mi rimangono? I vivi potranno mai riprendersi il mondo? Tutto questo ha davvero importanza? Domande ormai familiari, al punto che la loro presenza non riusciva più
nemmeno a farlo arrabbiare. Da tempo aveva perso ogni fiducia nell’esistenza delle risposte, e questo aveva reso impotenti le domande. Non bastavano neppure, ormai, a tenerlo sveglio. Si svegliò bruscamente, sentendo mani sulle braccia e sulle gambe. Mani sulle spalle e sul petto. Mani che lo tiravano in tutte le direzioni. Urlò e delle mani salirono a coprirgli la bocca, soffocando il grido. Morse quelle mani e rimase sbalordito quando il dolore gli guizzò su per il braccio correndo a elettrificargli il cervello. Le mani sulla bocca erano le sue. Erano reali. Le altre erano solo fantasmi. Creature inventate dalla sua tensione e dall’imprudenza. Rabbrividì mettendosi a sedere. I suoi occhi vagarono rapidi tutt’intorno, cercando di perforare l’oscurità circostante. Non c’erano altri suoni. Era solo. NON SONO SOLO!! Misericordiosamente solo. Ho uno scopo. In passato tenere un diario aveva aiutato Dawson a comprendere meglio le cose. Lo aveva aiutato a superare periodi difficili con quasi tutta la sua sanità mentale intatta. Gli aveva fornito una via di fuga costruttiva dall’eccessiva vicinanza dei suoi svariati dilemmi. Gli era servito a cavarsela. Ora quei tempi sembravano lontanissimi. Cavarsela era divenuta una faccenda del tutto diversa. Non si trattava più di mantenere in equilibrio un’impacciata relazione sentimentale, una decisione che riguardava la sua carriera, una condizione finanziaria incerta o di affrontare la morte inaspettata di un amico intimo. Adesso scrivere era un mezzo per evitare il sonno. Evitare il sonno era un mezzo per evitare la morte. Un modo per evitare le mani che certamente, la prossima volta, lo avrebbero trovato vulnerabile. La riga che aveva appena scritto in cima alla nuova pagina gli era sembrato un buon inizio, ma non aveva alcuna idea di quale sarebbe stato il seguito. Finalmente decise di risalire all’indietro nel tempo. Di cercare di tornare al momento nel quale aveva preso la sua decisione, scelto il suo scopo. Al momento in cui l’idea dello scopo gli era sembrata un’idea di speranza, e non di disperazione.
C’è stato un tempo nel quale io - e in questo non ero solo - davo per scontato che il cataclisma finale sarebbe stato una catastrofe nucleare. Che sarebbe giunto inatteso e talmente improvviso da eliminare ogni possibile pensiero di fuga. Che non ci sarebbe stato, in pratica, neppure il tempo di fare una scelta. O che solo due possibilità sarebbero rimaste ai pochi fortunati sopravvissuti alle esplosioni iniziali: 1) Mettersi le gambe in spalla e scappare finché si aveva il fiato per farlo. 2) Incrociare le stesse gambe e starsene accovacciati ostentando coraggio, fingere con l’ultima parvenza di sfida che ormai non avessero più il potere di farti scappare. Naturalmente nessuna delle due scelte avrebbe cambiato il risultato finale. Nella migliore delle ipotesi era la scelta del cristiano di fronte al leone: scappare, solo per essere inseguito, catturato e divorato; o rifiutarsi di scappare, privando gli spettatori solo dell’inseguimento. Più una questione di personalità che di principio o di saggezza. Il finale sanguinoso sarebbe stato lo stesso. Non era una bella situazione, certo, ma se non altro tutto sarebbe stato chiaro fin dall’inizio. Non ci sarebbe stato spazio per illudersi. C’è qualcosa di rassicurante in una situazione nella quale tutte le scelte sono uguali, anche se tutte sono ugualmente cattive. Uno si sente assolto da ogni responsabilità individuale. Poi Dio, nella sua infinita saggezza e misericordia, ci combina il grande scherzo. Ci lancia una palla a effetto - no, un pallonetto - quando siamo tutti eccitati per l’attesa, e senza dubbio si fa scoppiare una vena dal gran ridere mentre noi ci annodiamo le braccia nel tentativo di prenderla. Oh, sì! A noi fortunati superstiti ha lasciato un’autentica pletora di scelte. E badate! Non tutte conducono alla morte! No, per niente. Anzi, in massima parte conducono a qualcosa di molto peggiore... anche se dopo una marcia lunga e dolorosa, certo. Immagino che sia una situazione estremamente purificatrice. Così la sua sacra prerogativa del libero arbitrio rimane intatta, come sempre, alimentata dalla paura e tenuta a galla da una falsa speranza. Dawson fece una pausa per asciugarsi il sudore dalla fronte, ma la sua mente non lasciò mai il filo della composizione. Era del tutto inconsapevole di aver raggiunto quel livello di fuga e di coinvolgimento in cui tanto
aveva sperato. Scriveva con l’intensa concentrazione che aveva conosciuto a quindici o sedici anni, quando aveva desiderato diventare un nuovo Thoreau. Con la stessa mancanza di autocoscienza che aveva raggiunto solo più tardi, quando aveva deciso di trasformarsi nel secondo avvento di Jack Kerouac. Con la mancanza di imbarazzo che aveva conosciuto fra i venti e i trent’anni, quando aveva abbandonato ogni sogno di fama letteraria e tenuto un diario solo a scopo terapeutico e per la gioia che gli procurava. Fuga, immersione, coinvolgimento... raggiunto tutto questo, si sentiva più sveglio che mai. Perché la speranza che ci ha offerto non è “la cosa con le piume” che Emily Dickinson ha conosciuto un tempo. No! La sua speranza è la cosa con i denti. È la speranza della sopravvivenza. La speranza di poter prolungare le proprie esperienze personali di orrore e privazione. La speranza assurda ma caparbia che in qualche modo, dopo tanti giorni di terrore e di dolore, lui possa sorridere ai pochi rimasti e sollevare la sua orribile maledizione. Stiamo tutti affogando. Un uomo che affoga non sa distinguere facilmente la differenza fra un tronco e una pagliuzza. Un uomo disperato non sa distinguere fra una speranza che probabilmente non vedrà mai realizzata e una che non potrà mai realizzarsi in ogni caso. Eppure queste sono le scelte che dobbiamo fare. Queste sono le speranze che ci ha lasciato. Ho uno scopo. Pagliuzza o tronco? Un uomo disperato si aggrappa a quello che può raggiungere. Dawson fece un’altra pausa, respirando profondamente. Sollevò gli occhi per guardare attraverso l’intrico di rami e notò che il cielo cominciava a scacciare l’oscurità. Rimase in ascolto. Non c’erano suoni allarmanti. Solo uccelli, che in pratica facevano gli stessi suoni prodotti dagli uccelli durante tutte le ere dell’umanità. [4] Un dono del cielo.
Lo spero. Dono del cielo o trappola, non ha molta importanza. Non posso sopravvivere in eterno senza dormire. Dormire sul serio. Mi fermerò per la notte. Ho scelto la morte probabile di fermarmi in un posto e di cedere all’incoscienza, invece della morte certa se tentassi di proseguire nelle mie condizioni. Spero di non sottovalutare troppo le loro capacità di percezione e di ricerca. Non mi ero mai sentito così claustrofobico prima d’ora. Non avevo mai avuto una ragione altrettanto valida per esserlo. La casetta, simile a una scatola, non era né larga né lunga, pur avendo due piani. A Dawson aveva dato l’impressione di un rifugio, di un capanno per la pesca o la caccia dove uno di città poteva fuggire al suo destino per un paio di settimane e una mezza dozzina di weekend all’anno. Dalla strada era quasi invisibile, e Dawson si rese conto che se non avesse proceduto lentamente, e a piedi, gli sarebbe di certo sfuggita. Quel pensiero gli sembrò rassicurante. Non era stata solo l’idea di un rifugio a dargli il coraggio necessario per indagare, ma la speranza di trovare cibo. Qualsiasi genere di cibo che potesse arricchire le sue magre scorte di frutta secca. Dopo essersi assicurato che il posto era veramente abbandonato, non perse tempo per giungere a una decisione. Rapidamente improvvisò barricate per la porta e per le finestre del pianterreno. Sapeva che se lo avessero scoperto quegli ostacoli non li avrebbero bloccati a lungo, ma sperava che riuscissero a rallentarli. Se li avessero trattenuti per qualche minuto e aumentato il rumore necessario per entrare, sarebbero serviti al loro scopo. Solo in seguito cercò il cibo. La dispensa si rivelò una sorpresa più gradevole di quanto avesse mai osato sperare: prosciutto, tonno e stufato in scatola, oltre a una grande varietà di verdure sempre in scatola. C’erano anche due taniche di plastica da cinque galloni piene d’acqua e, sorpresa delle sorprese, due bottiglie intatte di whisky e di rum. I due ultimi articoli lo posero di fronte a un dilemma che in seguito avrebbe dovuto risolvere, ma non poté cancellare il piacere che la loro presenza gli aveva procurato. Si riempì le braccia e salì di sopra, nella più grande delle due camere da letto. So che bere alcolici in questa situazione è pazzesco. Devo restare lucido.
Ma per approfittare degli aspetti positivi delle attuali circostanze, è imperativo che io dorma. Per dormire devo attenuare le mie ansietà, la sensazione di essere in trappola. Non dispongo di altri metodi per riuscirci, quindi berrò. Con moderazione, ovviamente. Solo il necessario per prendere sonno. Più tardi, con grafia più abborracciata, scrisse: Non posso fare a meno di chiedermi quanto mi resta ancora. Quanto sono acuti i loro sensi, e fino a che distanza possono giungere? Quanto sono vicini adesso? Mi sveglierò nel cuore della notte e li troverò che martellano alla porta? Peggio ancora? Mi sveglierò con le loro orribili mani e i denti BASTA! So che forse sto brindando alla mia morte in questa trappola dimenticata da Dio BASTA! Che importanza ha? C’è ancora qualcosa che ha importanza? Perché fingere? Alla fine non rimane nessuna via di scampo, solo questi continui rinvii dell’esecuzione. Morirò stanotte, domani, qualche altro giorno o notte. Morirò. Tutto si riduce a questo. Perché fingere che le cose possano andare diversamente? Ormai il mondo è loro. Siamo tutti condannati. Non rimane nessuna via di fuga, solo scelte. Ho scelto di morire ubriaco in questo letto, intrappolato dentro questa casa. Se domani mi sveglierò, potrò scegliere un altro modo per morire. Sono le uniche scelte che mi restano. È il solo modo in cui mi è permesso fare uso della sacra prerogativa di Dio. [5] I lunghi raggi del sole di tarda mattina si spargevano ovunque nella camera creando un riverbero dorato. Dawson strizzò le palpebre contro quel dolce chiarore e si stiracchiò. “Che razza di sbronza,” borbottò. Lanciò un’occhiata verso il comodino per vedere l’ora. Niente comodino. Niente ora.
Rammentò di colpo ogni cosa. Non mi hanno trovato. Non ancora. Ma adesso non mi sento in grado di viaggiare. Bere è stato un errore idiota. Mi sono lasciato prendere la mano. Come un fottuto sabato sera. Forse era proprio quello che mi serviva, però. Allentare la tensione. Oblio. Se il ritardo provocato da questo incidente non mi costerà la vita, credo che considererò l’episodio con minore durezza. Cercherò di passare qui un’altra notte. Preferisco viaggiare di giorno, e ormai ho già sprecato parecchie ore di luce. Stasera non berrò. Spero che la loro assenza indichi che sono troppo lontani per accorgersi di me. Pagliuzza o tronco? Passerò il resto del tempo qui dentro scrivendo. È l’unica fonte di pace sicura che mi rimane. Tre settimane prima Dawson se ne stava nella cucina del suo appartamento da scapolo in periferia, a bere birra e a dare gli ultimi ritocchi a una pizza gigantesca prima di farla scivolare nel forno. Mike, che da più di quindici anni era il suo migliore amico, era in cucina con lui a tenergli compagnia e ad offrirgli consigli esperti sulla dislocazione dei peperoni. Scott, un nuovo conoscente più amico di Mike che di Dawson, era nel soggiorno e guardava i Dodgers e i Mets scontrarsi nella Partita della Settimana trasmessa il sabato pomeriggio. Quella sera contavano tutti e tre di assistere di persona alle gesta degli eroi locali. “Una vera partita,” avevano rimproverato a Scott tanto Mike quanto Dawson, “una partita da American League.” Era stata una bella giornata, ed erano tutti di umore eccellente. “Mike, Daws... venite qui! Presto!” La voce di Scott li aveva raggiunti con un tono di urgenza così ridicolo che Dawson roteò gli occhi mentre Mike rispondeva in falsetto: “Arriviamo, caro.” “Venite qui, dannazione!” Dawson sollevò la pizza. “Vai pure avanti, Mike. È inutile che ci perdiamo tutti e due quell’azione da infarto in replay. Fra un attimo arrivo, così potrai raccontarmi ogni par-
ticolare.” Mentre Mike lasciava la cucina, Dawson portò la pizza verso il forno e si chiese perché Scott dovesse infervorarsi tanto per nulla. Oltre a essere due squadre che giocavano nella divisione sbagliata, erano anche le due squadre peggiori per le quali accalorarsi. “Be’, cosa ci si può aspettare da uno di Los Angeles?” borbottò, e lasciò la cucina per unirsi agli amici. La strana espressione sui loro visi gli disse che c’era qualcosa di drasticamente sbagliato. La voce che veniva dal televisore non era lo scoppiettante sfolgorio verbale di un telecronista sportivo che riempiva l’aria vuota. Era invece il mormorio mortalmente serio, ma quasi comicamente ansioso, di un normale annunciatore. Una specie di notiziario. “O i missili sono già in aria, o il presidente ha un’altra emicrania,” pensò. Poi cominciò ad ascoltare con interesse. “Scott, hai cambiato canale, non è vero? Questo è un pezzo di un film.” “No.” “Allora è una burla, come la Guerra dei Mondi di Orson Welles... ‘Interrompiamo questa banale trasmissione per informarvi...”’ “No, amico. Questa è una cosa seria.” “E tu che ne sai? Pensavi che anche i Mets e i Dodgers fossero una cosa seria.” “Chiudi quel cazzo di bocca!” Ascoltarono. Guardarono. La testa parlante nella scatola li informò di alcune cose incredibili. Poi scomparve, e si videro di nuovo uomini adulti che giocavano con una palla su un campo verde. Poi la testa tornò a farsi viva, parlando con tono ancora più ansioso. Questa volta aveva anche spezzoni di pellicola da mostrare loro. Alla fine la rete televisiva rinunciò ai suoi tentativi di tornare alla partita. Fu allora che Dawson capì che la situazione si era fatta veramente grave. Rimasero seduti tutti e tre nel soggiorno di Dawson per un tempo che nessuno si prese il disturbo di calcolare, ipnotizzati dai puntini al fosforo, dall’incomprensione e dalla paura. Dovettero assistere a una vera e propria parata di teste parlanti: giornalisti, cosiddetti esperti, e l’inevitabile uomo
della strada. I consigli degli esperti erano, come minimo, difficili da decifrare: - Restate dove siete. Sbarrate ogni via di accesso. È pericoloso avventurarsi all’esterno. - Cercate un rifugio approvato dalle autorità federali. Personale d’emergenza sarà a disposizione per aiutarvi. Restate sintonizzati per avere un elenco completo dei rifugi federali nella vostra zona. - Non avvicinatevi ai rifugi federali o statali. Le comunicazioni con molti di essi si sono interrotte. Molti rifugi sono stati invasi. - Chiamate questo numero d’emergenza per avere consigli dai nostri esperti e informazioni aggiornate sulla situazione nella vostra zona. Così guardarono l’orrore che si manifestava, diventava sempre più complesso, sviluppava nuove sfaccettature e impensati risvolti spaventosi, nella proverbiale comodità della casa di Dawson. Era tutto vigorosamente mostrato in televisione, eliminando di conseguenza ogni loro necessità di essere qualcosa di più di semplici spettatori. La televisione dava a quell’esperienza una netta impressione di irrealtà. Dawson provò la strana sensazione di aver già visto tutto prima, a pezzi e frammenti sparsi. Il linguaggio della televisione era lo stesso di sempre. Perfino gli esperti con le loro facce smorte, le voci eccitabili e le discussioni sui “fatti”, sembravano solo altrettanti piazzisti che snocciolassero le loro eterne battute: “Agite subito...” “Non perdete tempo...” “Il nostro centralino è in attesa...” “Più di cinquanta postazioni per assistervi... “ Così tutti e tre avevano continuato a fissare, come ognuno di loro aveva fatto per innumerevoli ore nel corso delle rispettive esistenze, il chiarore fosforescente del tubo catodico. Non passò loro per la testa di fare qualcosa d’altro. Non passò loro per la testa che ci fosse qualcosa d’altro da fare. Alla fine, Mike si scosse a sufficienza per andare al telefono e comporre il numero d’emergenza. Ascoltò il ronzio di chiamata. Venti volte. Poi cinquanta. Settantacinque.
Allora tornò sul divano, per ascoltare ancora un po’ gli esperti. L’azione successiva che uno di loro intraprese fu quando lo schermo diventò vuoto. Fu Scott ad alzarsi e ad armeggiare con la sintonia finché non trovò un’altra stazione che trasmetteva ancora. Ipnotizzato. Puntini al fosforo e paura. Forse fu semplicemente il fatto che qualcuno bussava alla porta. Di sicuro fu uno sviluppo sorprendente, sia pure nel suo piccolo. Non che il bussare ci avesse spaventati, perché eravamo troppo inebetiti per provare qualcosa di simile. La nostra paura era diventata astratta, incapace di raggiungerci in quel modo. All’epoca, il nostro vero problema era appunto questo. E poi, nel mondo al quale eravamo abituati - e che a quel punto non aveva ancora divorziato da noi - qualcuno che bussava alla porta era tutt’al più un fastidio, non una minaccia. Così, anche se eravamo stati informati che il mondo all’esterno del mio appartamento era cambiato in modo drastico, credo che tutti fossimo ancora convinti razionalmente che la morte non sarebbe mai stata così educata da bussare. Forse fu la semplice vista di persone reali, fatte di vera carne e vero sangue, dopo tante ore di volti elettronici senz’anima. Ma io credo che fu anche qualcosa d’altro, qualcosa in più. Non appena aprì la porta, Dawson riconobbe le persone sulla soglia, non come individui ma come classe. Riconobbe il loro armamentario - i libri, le riviste e i volantini - ma soprattutto la loro identità era smascherata dai vacui e benigni sorrisi sulle loro facce, una specie di marchio di fabbrica. Per un istante Dawson fu colto da un’ondata di vertigine. Tutto sembrò tornato di colpo normale. Ma certo. Un secondo prima guardava con alcuni amici Dio solo sapeva cosa alla televisione, e adesso apriva la porta d’ingresso al capitolo locale della milizia di Dio. Erano due componenti fondamentalmente fidate della sua esistenza quotidiana di americano suburbano. Spalancò la porta e fece un largo sorriso a tutti e quattro. La loro portavoce, una donna di colore sulla trentina piuttosto graziosa, attaccò il solito pistolotto con una sicurezza dettata dalla lunga pratica. La sua voce grondava sincerità rapita e ansiosa buona volontà. Dawson cominciò a ridere. Era una risata sottile, troppo stridula.
La donna smise di parlare. Due dei suoi compagni arretrarono di un passo. La risata di Dawson si smorzò, e la donna ricominciò il suo pistolotto. “Siete venuti a chiedermi,” la interruppe lui, “se sono in pace con Dio, non è vero?” E li fissò con occhi da folle. Uno di loro abbozzò incerto un cenno di assenso. “Allora lasciate che vi assicuri,” proseguì lui con voce che per metà era un sussurro e per metà un grido, “che io e Lui non abbiamo mai litigato.” Sorrise davanti ai loro visi sbalorditi. “Anzi,” aggiunse, “non l’ho mai nemmeno incontrato!” Sbatté loro la porta in faccia e si voltò verso gli amici. Ricominciò a ridere, sempre con quel suono stridulo e isterico. “Ci credereste?” gridò. “Testigonzi di Geova, in giro in un giorno simile!” Continuò a ridere fino a crollare, con le lacrime agli occhi, sul pavimento. Una massa tremante di confusione e niente altro. Passarono diversi minuti prima che Mike si muovesse per aiutarlo a rialzarsi. Poi lo accompagnò alla sua sedia davanti al televisore. Credo che sia stato il rendersi conto che c’era ancora gente al mondo. Gente che faceva scelte. Gente che sceglieva di continuare a vivere, non solo sopravvivere come facevamo noi tre quasi in assenza di altro. Adesso sono convinto che la differenza fra vivere e sopravvivere sia proprio questa: la capacità di fare scelte. Dopo che la notizia aveva interrotto la nostra routine quotidiana, Scott, Mike ed io non avevamo preso una decisione consapevole. Anche se, per pura fortuna, eravamo sopravvissuti, avevamo smesso di essere vivi. Eravamo semplicemente zombi in attesa che i divoratori di cadaveri ci scovassero. Quanti altri là fuori erano come noi? Quanto erano durati? L’unica cosa che ci aveva salvati fino a quel momento era il fatto che l’impulso a divorare i cadaveri non era ancora così diffuso come adesso. L’unica cosa che ci salvò da quel momento in poi, ne sono convinto, fu il fatto che i Testimoni di Geova ci trovarono per primi e ci svegliarono. Ci mostrarono che si potevano ancora compiere scelte, magari accettando semplicemente di continuare lungo una scelta già effettuata in precedenza... la qual cosa, loro dovevano saperlo, sarebbe stata tremendamente pericolosa.
Quindi, forse, loro se ne andavano in giro a compiere il giusto volere di Dio, anche se ora trovo difficile pensare che il nostro destino personale possa interessare a un Dio che ha permesso simili orrori. Scott era un veterano del Vietnam, una persona ancora convinta che quella guerra era stata giusta e sacrosanta, e che gli Stati Uniti ne erano usciti alla fine con la coda fra le gambe. La sua scelta fu quella di rubare un’auto - visto che la sua era irraggiungibile al momento - e di dirigersi verso la base militare più vicina per potersi arruolare di nuovo. Né Mike né Dawson cercarono di fargli cambiare idea, benché Scott avesse quarantaquattro anni e non si fosse certo conservato in ottima forma fisica. Mike, che era cresciuto nel raggio di un chilometro dalla residenza di Dawson, scelse di cercare rifugio nella sua vecchia scuola elementare. Benché Mike si fosse spesso lamentato di portare ancora i traumi e le cicatrici delle voci gemelle di Dio e della disciplina che avevano operato nei suoi anni di scuola parrocchiale, e pur avendo spesso sostenuto che la presenza più terrificante incontrata in quegli anni era stata la massa enorme della sua maestra, fu là, e a lei in particolare, che si sentì obbligato a rivolgersi nel momento di più acuto bisogno di guida e protezione. Dawson non cercò di spiegare a Mike che, stando alla sua descrizione della maestra, già molti anni prima quella donna doveva essere stata vecchia e obesa, candidata a un attacco di cuore, e che adesso, certamente, era morta da parecchio tempo. A volte le scelte che facciamo, specialmente sotto una pressione insopportabile, non possiedono alcun senso logico. E non permettiamo a nessuno di farcelo notare. È il caso dell’uomo che affoga e che cerca di aggrapparsi alla pagliuzza. Certo è un’idea idiota, ma in simili situazioni la ragione conta poco. Anche riuscendo a superare l’ira iniziale dell’uomo che affoga e facendogli capire la realtà, si riesce solo a spogliarlo della speranza e a farlo sentire ancora più miserabile. A meno che non si possa offrirgli un tronco. Come avrei potuto far cambiare idea a quei due? Cosa potevo offrire in cambio delle loro pagliuzze? Li lasciai andare entrambi. Anche Mike, la cui scelta era di sicuro la più insensata. Anche Mike, che amavo come un fratello da più di quindici anni.
Solo quando si ritrovò solo in casa, Dawson riuscì a fare la sua scelta. Una volta presa quella decisione, fece in fretta i preparativi e uscì. Non si preoccupò di spegnere il televisore. Le uniche scelte che realmente ci rimangono sono tre: essere un capo, essere un seguace, o essere un individuo. Molti trovano sicurezza solo là dove si rinuncia al proprio io, dove si viene sottomessi. Dove è l’Autorità a prendere le decisioni. Dove le regole sono chiare e ferree. Dove gli ordini creano Ordine e non devono essere discussi. Altri la trovano solo là dove loro stessi sono l’Autorità e l’Ordine che plasma le regole e prende le decisioni. Forse adesso Scott è in salvo, seguendo con un branco di compagni che la pensano come lui qualche sergente o qualche tenente esperto di battaglie e bene armato. Ma ne dubito. Mike può essere al sicuro nell’oscurità della sua vecchia scuola, con il suo fantomatico Ordine che lo protegge dal vero caos. Ma di questo è ancora più facile dubitare. Forse i Testimoni di Geova stanno ancora bussando alle porte e svegliando persone, protetti da qualche ombrello celeste. E questa, a mio parere, è la più dura da digerire. Probabilmente hanno ormai bussato a una porta di troppo. Hanno subito un profondo cambiamento. Sono ancora in giro a compiere conversioni, ma di un genere diverso. I loro denti non si schiuderanno più in angelici sorrisi, ma nell’orribile ghigno di una fame infernale. Sì. Mi riesce più facile credere a questo... ma non altrettanto facile pensarci. E io...? Ho uno scopo. Pagliuzza o tronco? Quanto durerò ancora? Posso farcela? Cosa troverò? Ha ancora qualche importanza? [6] “Vedi, un uomo può tirare avanti finché lo vuole, se sa come affrontare il tempo. “Un uomo può restarsene attaccato alla scaletta di un vagone cisterna per più di settecento chilometri se non ha altra scelta... se non ha modo di stri-
sciare in una posizione più comoda, e se il treno non fa fermate che gli permettano di spostarsi altrove. “Ma per riuscirci deve ficcarsi bene in testa che il tempo non passerà fino a quando lui resterà appeso a quella scaletta.” Un Dawson diciottenne aveva spalancato gli occhi, ascoltando attento. Incredulo, ma desideroso di credere. “Ora, non dico certo che sarà facile, ci mancherebbe altro, ma è proprio quando le cose non sono facili che un uomo deve imparare a esercitare il suo controllo. È quando il mondo non dà tregua che un uomo deve fabbricarsene una tutta sua. “Oh, lo so, quando se ne sta appeso là, le mani e le braccia e le gambe e la schiena non sono mica tanto disposte a credergli. Quelle continueranno a credere al loro genere di tempo. Ma non è qui che si deve combattere la battaglia. “Secondo me, se un uomo non riesce a impedire alla sua testa di farsi fregare dai suoi muscoli, be’... tanto valeva restarsene sugli alberi. “Ma l’uomo può riuscirci, e il bello sta in questo. Se è deciso a farlo, può imparare a tenere la sua testa immobile nel tempo. E se impedisce al tempo di passare da questo punto in su,” dita scure e callose picchiarono su una fronte bruciata dal sole, “può anche impedire che le braccia e le gambe ricevano il messaggio che loro hanno ragione... che lui è rimasto appeso troppo a lungo, che non può resistere ancora per molto, che potrebbe anche mettersi il cuore in pace e lasciarsi scivolare sotto quelle ruote senza misericordia. “Vedi, quello che bisogna tenere a mente sui muscoli è che loro devono ricevere qualche messaggio dal cervello prima di poter fare qualsiasi cosa. Così, se un uomo riesce a non ascoltare le lamentele dei suoi muscoli, può anche evitare di doversi arrendere a loro. Se può impedire al suo cervello di credere che il tempo passa, priva il tempo del suo significato e quello si ferma del tutto. “Il tempo non è altro che una cosa prodotta dal pensiero dell’uomo, quindi se un uomo rifiuta di pensarlo è come se per lui non esistesse nemmeno.” Il viso incartapecorito si schiuse in un sorriso malizioso. “Naturalmente, quando il treno finalmente si fermerà e quell’uomo potrà staccarsi dalla scaletta, non dovrà fare i conti solo con i suoi muscoli. Ogni orologio umano nel posto dov’è arrivato gli dirà che è un bugiardo. Ma quell’uomo avrà ancora un asso nella manica. Perché lui saprà che non
c’era nessun sistema possibile per restare attaccato alla scaletta per sei o sette ore di fila, anche se adesso è arrivato dove si trova. E questo da solo dimostrerà che lui ha ragione. Devono essere gli orologi e i muscoli a sbagliarsi, perché lui si trova lì ed è ancora vivo. L’uomo aveva scovato un buco nel tempo e c’era sgusciato dentro, invece di scivolare un bel po’ prima sotto quelle dannate ruote. “E sapendo che il sistema funziona in questo modo, lui farà meno fatica a usarlo la prossima volta quando si troverà in un impiccio simile.” E Dawson aveva scoperto che poteva credergli, che doveva credergli. Si era spostato indietro i capelli lunghi e aveva annuito con decisione. Capo, seguace o individuo? Mi piace credere di aver fatto la mia scelta quando avevo diciotto anni, e di aver semplicemente posticipato la sua realizzazione per tutto questo tempo. Una sola volta in tutta la mia vita ho avuto esperienza diretta di un ambiente nel quale una persona poteva restare un individuo pur conservando i vantaggi della vita in un gruppo sociale. Era un connubio di indipendenza e interazione, di libertà e mutuo sostegno. È stata una breve esperienza. In seguito sono tornato ai modi di vita per i quali ero stato cresciuto e istruito. Ho permesso a me stesso di accettare una posizione sul gradino inferiore di quella scala sociale che avevo sostenuto di disprezzare. Mi sono lasciato distrarre dalle verità che credevo di avere imparato nel corso di quell’estate ormai prossima all’autunno. Ora mi dico che quelle verità e la mia fede in esse non sono mai veramente morte, ma sono soltanto rimaste dormienti. Ora cerco di dirmi che sono il figliol prodigo, con la speranza che rimanga ancora una famiglia alla quale tornare. Una settimana dopo il conseguimento del diploma di scuola media superiore, Dawson si trovava più lontano da casa di quanto fosse mai stato. Sulla schiena aveva uno zaino e il sacco a pelo piegato, il suo pollice destro indicava l’orizzonte alle sue spalle, e nella mano sinistra reggeva un cartello che diceva semplicemente: PIÙ IN LÀ. Agli inizi di agosto si ritrovava domiciliato in un accampamento di vagabondi, “fra i membri della tribù perduta d’America”, come avrebbe ricordato appassionatamente in uno dei suoi numerosi diari di quel periodo. Come la maggior parte dei suoi compatrioti, aveva pensato che il fenome-
no del vagabondaggio fosse ormai finito e sepolto da anni, ma quella non fu la sua sola illusione che la breve permanenza nel campo mandò in frantumi. Scoprì che non tutti i vagabondi erano individui perduti in modo irrecuperabile, falliti incapaci di vivere nella società che il loro stile di vita sfidava apertamente. Alcuni erano emarginati, certo, ma molti erano fuggiaschi; persone troppo fiere e determinate per consegnarsi ai legami e alle pastoie di un’esistenza americana più “accettabile”. Avevano dei difetti? Certamente. Ognuno aveva i propri. Ma non più di tanti altri che Dawson aveva incontrato lungo i sentieri della vita. Falliti? Non nelle esistenze che alla fine avevano scelto, qualunque fossero stati i fallimenti e le incompatibilità che li avevano portati a questa scelta. Quindi, per forza, la loro scelta era stata saggia. Tutto sommato erano flessibili, tolleranti e compatibili più di ogni altro gruppo di classe nella sua esperienza. Combinavano le abitudini della sicurezza in se stessi e della cooperazione disinteressata in un modo che Dawson aveva sempre ritenuto troppo idealistico per essere praticato in ogni contesto del mondo reale. E sentiva che non c’era nessun ambiente radicato maggiormente nel mondo reale del loro. Fu allora che incontrò Hoagie. Hoagie era l’individuo più particolare che Dawson avesse mai incontrato. Alla sua presenza Dawson si chiedeva se lui avesse mai incontrato un vero individuo. Hoagie era, da ogni punto di vista, solo di qualche anno più vecchio di Dawson, anche se il suo aspetto incartapecorito rendeva difficile attribuirgli un’età qualunque. Era un uomo colto, anche se aveva adottato un modo di parlare che richiedeva all’ascoltatore di prestare molta attenzione ai pensieri che lui trasmetteva. Era un uomo che aveva trovato la società americana contemporanea carente - “troppo lacunosa”, era solito dire - e così l’aveva scansata come meglio poteva. Era un uomo, così riteneva Dawson, di una saggezza, una integrità e una compassione senza uguali. Tutto ciò al momento aveva avuto un notevole impatto su Dawson. Lui era, in fondo, un giovane allevato in modo piuttosto protettivo che doveva ancora sottoporre le sue personali saggezze all’acida prova del viverle. Così Hoagie divenne una specie di eroe per lui. Divenne anche un amico per la vita. Hoagie aveva insegnato a Dawson come scegliere un treno merci, come leggere il linguaggio in codice sulle fiancate dei singoli vagoni, per scopri-
re da dove venivano e dove erano dirette. Lo istruì su come e quando salire su un treno; come viaggiarci; come scenderne; cosa fare e dove andare dopo che era sceso. Gli insegnò come riconoscere ed evitare i particolari pericoli di certi treni, dei cantieri ferroviari e delle città. E gli spiegò anche, senza mai dirlo a parole, come leggere i segni delle intenzioni altrui durante un incontro iniziale. A fianco di Hoagie, Dawson imparò come vivere senza soldi, come fare a meno del cibo quando doveva, e come ottenere entrambi senza mettere a repentaglio la sua onestà. Imparò anche che l’onestà era una cosa estremamente personale, separata da ogni regola o costrizione che fosse mai stata imposta dall’esterno, e che ogni uomo doveva scoprirne la composizione da solo. Dawson imparò qualcosa della Rete. Qualcosa alla quale Hoagie si riferiva definendola “l’unica anarchia funzionale esistente negli Stati Uniti.” “Si tratta semplicemente,” gli aveva detto Hoagie, “di gente che bada ad altra gente, sapendo che il favore sarà restituito giù lungo la linea. Alcuni lo chiamano karma, altri dicono che è come gettare del pane in acqua, qualcuno dice semplicemente ‘ciò che entra nel giro, torna nel tuo giro.’ È solo banale collaborazione, ma sono così in pochi a vivere davvero in questo modo che quando vedono funzionare il sistema ritengono che sia una grande impresa. “Pensaci bene: non ti serve nessuna Carta dei Diritti se non c’è nessuno che tenta di interferire con te.” Hoagie insegnò a Dawson la vita dura e la libertà. E sempre Hoagie insegnò a Dawson come affrontare il tempo. Arrivo quasi a credere che sia tutto finito. Che l’orrore sia finalmente cessato. Di aver viaggiato in avanti o all’indietro nel tempo, fino a raggiungere un periodo nel quale la minaccia non esiste. Pensare così è pericoloso. Non posso permettermi di credere simili cose. Ma è difficile. Da ventiquatr’ore non subisco minacce. Guardando da questa finestra vedo solo erba e alberi sotto il sole compiacente del pomeriggio. C’è anche un ruscello. Non è certo grande abbastanza per le trote, ma certo alimenta una fitta popolazione di pesciolini, gamberetti, rane, salamandre, libellule e ragni d’acqua. Tutto quello che ho sotto gli occhi sembra completamente normale.
E poi ci sono io. A chiedermi se sono impazzito. Di già. A chiedermi se l’orrore è veramente finito. Non posso avere simili pensieri. Potrebbe venirmi voglia di restare qui un altro giorno. E poi, se anche quel giorno passasse tranquillo, un altro ancora. Alla fine loro mi troverebbero. Il mio tempo qui è limitato. Se non rispetto questo limite, saranno loro a farmelo rispettare. Due uomini soli sul fianco di una collina, distesi immobili fra l’erba alta che nascondeva loro la visione del mondo almeno quanto oscurava al mondo la loro vista. Il tiepido sole di settembre sfiorava con dita gentili i loro muscoli stanchi, spingendoli all’indolenza e all’introspezione. Di tanto in tanto, dai piedi della collina si levava il suono di qualche treno che passava. Per loro il suono era familiare, quasi benvenuto. Era un’affermazione della loro libertà, e dell’infinita molteplicità delle scelte. Per tutto il resto il pomeriggio era silenzioso. Lentamente, con voce pacata, uno degli uomini parlò. “Vedi, tutta questa zona un tempo era sott’acqua. Pesci preistorici e squali che nuotavano lassù sopra le nostre teste. Magari anche quel primo pesce così avventuroso. Quello che decise di strisciare sulla riva per dare un’occhiata a come andavano le cose là fuori o per allontanarsi dagli squali. Il pesce che ha dato inizio alla nostra lunga marcia faticosa. La marcia che ha iniziato a trasformare i pesci in rettili, e i rettili in uccelli e mammiferi, e alcuni di quei mammiferi in qualcosa di simile agli uomini. Quella marcia che stiamo ancora continuando, che lo vogliamo o no. “E forse il motivo che lo ha spinto a essere così dannatamente avventuroso è stato che lui ha guardato fin quaggiù sotto di sé e ha visto noi stesi nell’erba alta sotto il sole, e gli è sembrato bello. “O comunque sempre meglio che dover schivare gli squali. “Magari ci ha visti e ha capito che per fare accadere qualcosa come noi due qualcuno lungo la linea doveva mostrarsi un po’ avventuroso. Forse allora ha deciso che poteva anche essere lui a mettere in moto le cose. “O magari ha visto lo stadio seguente. La creatura nella quale noi ci stiamo trasformando senza nemmeno saperlo. “Li vedi lassù, che nuotano?”
Ci fu una lunga pausa prima che il secondo uomo rispondesse. Quando lo fece, la sua voce era debolmente venata di rimpianto. “No... no, non ci riesco.” “Be’, io li vedo. E sai perché?” Silenzio. “Perché sono là, in questo stesso momento, e nuotano come facevano un milione di anni fa. Come hanno sempre fatto, e come sempre faranno. “’All’improvviso, è ciò che l’eternità è.’ “Così ci ha detto il Poeta. E aveva ragione. Aveva ragione su un mucchio di cose. Ma la maggior parte della gente non se ne accorge nemmeno.” “Quale poeta?” “Il Poeta. L’unico Poeta. E non parlo di Shakespeare, di Milton, o del triste Eliot. No, non è uno di quelli che insegnano a scuola. Le scuole non vogliono averci niente a che fare, perché lui aveva visto giusto su un sacco di cose. A loro questo non interessa. Ecco perché ho tagliato la corda quando mi mancava ancora una mezza dozzina di esami per la mia laurea.” Un altro breve silenzio. “Ne vuoi un esempio?” “Certo.” “Senti quel treno che arriva?” Il secondo uomo si mise in ascolto, ma non udì nulla. Aspettò qualche istante prima di ribattere. Mentre apriva la bocca per parlare, le sue orecchie colsero il suono, talmente debole e lontano da sembrare impercettibile. “Sì! Lo sento.” “Bene, questo è un punto di partenza. Adesso pensa con me. Insieme torneremo indietro. Non fino ai tempi di quei pesci, un viaggetto più breve. Un centinaio di anni dovrebbe bastare. “Ora pensa: il diciannovesimo secolo, l’età dell’acciaio, la nascita e lo sviluppo dell’Era Industriale, l’apice del Cavallo di Ferro. Sì, il treno che hai sentito è una delle cose verso le quali quei pesciolini hanno allungato le loro pinne trasformandole in dita, o almeno così vorrebbe farti credere la vanità dell’uomo. “L’Ovest è ancora selvaggio, gli schiavi sono stati liberati da poco, e un pugno di Indiani non si è ancora arreso e continua a eseguire la Danza dei Fantasmi. “Hai tutto questo nella tua testa, ora?”
“Sì.” “Bene. Adesso continua a pensarci sopra ancora per un po’, e quando quel treno spunterà ai piedi della collina, alza la testa e da’ un’occhiata. Vedrai se quello che ha detto il Poeta non è vero.” Il primo uomo chiuse gli occhi e rimase immobile. Il secondo uomo attese ansioso, quasi senza respirare. Pensò a quello che aveva detto il suo compagno. Ascoltò attentamente, finché non gli sembrò di essere diventato tutt’uno con il suono del treno che cresceva lento. Ben presto si convinse che c’era qualcosa di diverso, che qualcosa era cambiato, ma non sapeva se il cambiamento era avvenuto dentro di lui o al di fuori. Il treno impiegò parecchio tempo per arrivare. Quando fu certo che aveva raggiunto i piedi della collina, si sollevò sulle ginocchia e sbirciò in basso sopra l’erba alta. Poi tirò un profondo respiro e lo trattenne nei polmoni, mentre un’ondata di vertigine lo avvolgeva. Stava guardando un’enorme locomotiva nera del diciannovesimo secolo che si trascinava dietro, lungo la lucente doppia fila di binari, un tender fuligginoso e una fila di carrozze passeggeri non meno antiquate. I suoi occhi si fermarono un istante sulla miscela di fumo e vapore che usciva dal fumaiolo, scivolando poi lungo tutti i vagoni del convoglio per disperdersi dolcemente nell’aria estiva immobile. Quando il treno scomparve alla vista, tornò a sedersi e fissò il compagno che sembrava essersi addormentato. Sbalordito, tornò a stendersi anche lui nell’erba, gli occhi che frugavano il cielo sopra la sua testa. Una voce galleggiò lieve fino alle sue orecchie, come se l’amico stesse canticchiando sotto voce nel sonno. “Nuota, pesciolino, nuota. “Striscia, pesciolino, striscia. “Costruisci, pesciolino, costruisci. “Vola, pesciolino, vola. “Poi manda tutto all’inferno, e muori.” In seguito Dawson aveva elaborato numerose spiegazioni logiche - e del tutto insoddisfacenti - per ciò che era accaduto quel pomeriggio. Ma la magia di quegli istanti non era mai diminuita, o scomparsa, dalla sua memoria.
Così me ne andrò all’alba, grato di questo breve riposo. Ho raccolto in questa stanza tutto quello che conto di portare con me. Ho lasciato la finestra aperta per due motivi: lasciare entrare la brezza, che è fresca e dolce, e consentire l’ingresso a ogni suono da sotto, eventualità che potrebbe anche non verificarsi. Ho spinto un piccolo scrittoio contro la porta della camera. So che potrebbe rallentare la mia fuga, se le cose dovessero prendere una certa piega; ma potrebbe anche regalarmi qualche minuto prezioso, se le cose dovessero prendere una piega leggermente diversa. Ho riempito il mio zaino con tutto ciò che poteva contenere, il cibo e l’acqua che ho trovato qui. Prenderò anche la bottiglia di rum. Forse è un’idiozia, ma mi sono detto che non possiedo nessun altro tipo di anestetico. Idiozia o no, è la scelta che ho fatto. All’alba mi rimetterò in cammino, di nuovo, verso il Nodo. Una volta Hoagie mi ha detto che avrei saputo ritrovarlo, se davvero avessi avuto bisogno di lui. Ora ho bisogno di lui. Se esiste qualcuno capace di sopravvivere a questo orrore e di restare vivo al tempo stesso, questa persona è lui. “Se un giorno avessi bisogno di trovarmi, questo è il punto da cui partire. È come se la Rete fosse un sistema nervoso, e il Nodo il suo cervello. Una parola lasciata cadere qui al tramonto, a mezzogiorno del giorno dopo viaggerà in sei direzioni diverse. Ventiquattr’ore più tardi, non sapresti tenere il conto dei posti che, ha raggiunto. E la parola raggiungerà il suo uomo, filata come un fuso, sempre che lui sia ancora nella Rete e in qualche punto del continente. Puoi contarci. “Quindi, se avrai bisogno di me, parti da qui. Se io non fossi nei paraggi, passa parola e aspetta. Vedrai arrivare me, o un mio messaggio, in pochissimo tempo.” Quel novembre era iniziato in modo gelido. Dawson si infagottò più strettamente nel soprabito rattoppato, batté i piedi sul terreno e annuì. “Tornerò,” disse a bassa voce, fingendo di sistemarsi le cinghie dello zaino. Poi fissò il compagno negli occhi, annuì con espressione più decisa e parlò con tono più risoluto. “ Sì. Probabilmente in primavera.” Rimase stupito dalla risata dell’amico. “Oh, sì. Ti ho inquadrato, fratello. Sei un tipo da bel tempo, eh?”
Benché la battuta avesse un tono scherzoso, Dawson sentì che il suo viso cambiava colore. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma non ne uscì nulla. Hoagie scrollò soltanto il capo, lasciando che il sorriso cedesse lentamente il posto a un’espressione più seria. “Sì, sei un tipo da bel tempo, almeno per ora, ma non c’è nulla di male. Sei ancora giovane. La vita non ti ha scottato. La culla non ti ha ancora fatto venire i crampi. Ma crescerai.” Sollevò una mano e strinse con forza la spalla di Dawson. “Forse ci rivedremo la primavera prossima, e forse no. Prenderai la tua decisione quando sarà il momento giusto. Ad ogni modo, ricorda questo: un giorno, quando ti sveglierai e ti accorgerai del merdaio in cui vivi, del dannato letamaio in cui tutto il mondo civilizzato è sprofondato tirandosi dietro anche te, e magari deciderai di non volerci più restare dentro fino al collo... be’, ricorda che non sei obbligato a farlo. Hai il diritto di scegliere, e nessuno può prendere queste scelte per te o dirti che cosa è giusto e che cosa è sbagliato. “Ci sono un sacco di modi di vivere peggiori di questo, anche se ce ne sono alcuni che sono più facili e più comodi. Non c’è nessun motivo per cui tu debba vivere e morire in uno dei modi peggiori. “La scelta è solo tua.” [7] Un tonfo soffocato, seguito da un lieve suono raschiante. Lo stesso rumore ripetuto. Goffo. Intermittente. Insistente. Una serie di rumori simili che giungeva da un punto leggermente diverso. I rumori raddoppiarono d’intensità. Triplicarono. Il cuore di Dawson batteva già impazzito prima ancora che i suoi occhi si aprissero. Questa volta non ci fu nessun pietoso vuoto di memoria, nessuna ricerca oziosa del comodino e della sveglia. Prese immediatamente coscienza della sua situazione disperata. Ascoltò, con gli occhi sbarrati. Ci fu uno schianto secco di legno che si scheggiava. Poi un suono stridente, come se un oggetto pesante venisse spinto sul pavimento di legno a pianterreno. Per qualche motivo, Dawson non riusciva a muoversi.
Le prime emozioni di cui ebbe coscienza furono l’ira e l’indignazione. Stavano invadendo il suo sancta sanctorum. Stavano dimostrando che il suo senso di sicurezza era falso. Stavano dimostrando che lui era un idiota. Poi venne la paura, e tutte le altre emozioni persero significato. Era in trappola. A giudicare dai rumori, erano già in troppi all’ingresso di sotto. Troppi dentro l’ingresso. Nei ristretti confini della casa non restavano vie di scampo. Nonostante i movimenti maldestri, il loro semplice numero lo. avrebbe sopraffatto. Da dove erano arrivati così di colpo? Finalmente riuscì a schiodarsi dal letto e andò alla finestra per guardare fuori. Tenebre. Dentro le tenebre, cinque figure più scure... no, sette... che si muovevano barcollanti verso l’ingresso sfondato della casa. Otto... no, nove. Un suono sotto i suoi piedi gli indicò che il primo era inciampato contro la base della scala. Seguivano il suo odore. Fuori erano già in undici. Infilò a fatica le cinghie dello zaino, imprecando contro la propria goffaggine, poi tornò verso la finestra. Altri stavano arrivando fra gli alberi. Diversi erano scomparsi dietro l’angolo della casa. Sporse le gambe oltre il davanzale e si chinò su se stesso per fare passare la testa. Quando cercò di sedersi sul davanzale lo zaino urtò contro il battente superiore della finestra, facendolo quasi cadere. Si chinò di nuovo per liberare lo zaino e rimase appollaiato lassù, frugando con lo sguardo il buio sottostante. Uno dei divoratori di cadaveri nel cortile sollevò gli occhi e lanciò un suono gutturale. Un altro si voltò verso di lui e seguì il suo sguardo fino alla finestra. Dietro di sé Dawson sentiva lo scrittoio che veniva spinto lentamente da parte. Fece il salto. Un istante di libertà. La caduta. Il movimento nell’aria umida della notte. Una sensazione di velocità. DOLORE!
Caviglie gambe spina dorsale stomaco costole DOLORE. Bianco nero DOLORE. ROSSO bianco DOLORE. Tutto DOLORE. Nient’altro che DOLORE. Poi un pensiero giunse strisciante: “Non posso camminare non posso correre non posso scappare.” Poi, in risposta: “Se non posso camminare, non possono farmi diventare come loro. Non sarò un predatore.” Una piccola vittoria. Un minuscolo successo. Doveva cercare di accontentarsi di quello. Poi riaprì gli occhi. Forme scure oscillavano intorno a lui, facendosi sempre più vicine. Visi contorti, vuoti, in ombra, bocche squarciate dai denti famelici pronti a esigere il loro orribile tributo. “NO!!!” Fece leva contro lo stesso dolore e si rialzò, allontanandosi dalle figure avanzanti e andando a sbattere contro qualcosa di pesante, di molle e putrescente. Un grugnito d’aria, non dai suoi polmoni. Un fiato caldo, fetido, contro la sua guancia. Lanciò un urlo e roteò il gomito verso l’alto facendogli compiere un arco, lo sentì affondare nella morbida sostanza della creatura che cadde all’indietro. Dawson scalciò una volta, inutilmente, verso quel viso distrutto, e per poco non gli cadde addosso. Poi urlò di nuovo e cominciò a correre. Mentre l’alba filtrava timida nel bosco privo di sentieri dove lui si muoveva, Dawson pensò di stare ancora correndo. E invece no. La sua andatura sussultante non era più veloce della passeggiata mattutina di un anziano signore. Era il massimo che poteva fare. Il solo fatto di continuare a camminare richiedeva ogni suo sforzo fisico e di volontà, ma lui non voleva fermarsi a riposare. Finalmente notò la luce che si faceva più forte tutt’intorno. Decise allora di lasciare la copertura degli alberi per il cammino più facile lungo la strada. Più tardi udì un suono. Una parte della sua mente era certa di poter riconoscere quel suono, di poterlo identificare facilmente. Ma Dawson non ci riuscì.
Quasi tutta la sua mente era ancora intrappolata nelle tenebre di quella notte, a rivivere gli istanti in cui le sue mani avevano allontanato carne putrida dal viso mentre, dietro di lui, altre mani si allungavano per attirarlo più vicino. Le sentiva ancora là, dietro le sue spalle, che si facevano sempre più vicine e brancolavano per afferrarlo. “NO!” Rabbrividì. “No,” ripeté poi con un gemito. Fissò per un istante il sole, ormai alto sopra l’orizzonte, chiedendosi se avesse ancora qualche significato per lui. Se ci fosse qualcosa che poteva dedurre o scoprire dalla sua esistenza o dalla sua posizione. Poi il suono si rifece vivo, e lui ricordò cosa significava. Era il ronzio lontano di un’auto. Si stava avvicinando da dietro le sue spalle. Si girò verso la strada proprio mentre il veicolo diventava visibile, sbucando da una curva lontana. Era un camioncino Ford blu, e si muoveva veloce. Per un attimo rimase a fissarlo. Poi, con un grande sforzo e con un senso di trepidazione che non comprendeva del tutto, allungò il braccio destro e aprì la mano. Implorandolo di fermarsi. Implorandolo di salvarlo. Dopo pochi secondi fu abbastanza vicino da permettergli di vedere chiaramente la canna di un fucile da caccia che sporgeva dal finestrino del passeggero. Era puntata dritta contro di lui. Si gettò a terra nello stesso istante in cui il tuono della detonazione lo avvolse. Il dolore lo tramortì. Si domandò se sarebbe riuscito a rialzarsi ancora, o se avrebbe dovuto restarsene disteso lì a dissanguarsi lentamente. Poi si accorse che il dolore non era così localizzato come doveva essere. Lo avvertiva in tutto il corpo. Non era stato colpito, ma aveva risvegliato ogni ferita ricevuta quando era saltato dalla finestra. Imprecò contro i suoi assalitori, pianse per se stesso e restò steso a terra come un sacco di stracci. Quando finalmente si rialzò per riprendere il cammino, scoprì con sua grande sorpresa - a neppure tre metri da dove si era gettato a terra - un corpo riverso sulla spalletta della strada. Dal cranio spaccato colavano fluidi che ricordavano solo in modo molto vago il sangue umano. La pelle verdognola lo identificava più chiaramente per quello che era. Quando lui si era voltato per fare segno al camioncino il corpo non c’era, di questo Dawson era certo. Allora capì che il bersaglio non era stato lui. Almeno, non quello delle
persone sul camioncino. Loro gli avevano anzi salvato la vita. Si allontanò di corsa. [8] “Cerca di rilassarti, ora. Viviamo poco lontano da qui. Giù lungo Pitney Road. “Oh, che stupida sono. Voglio dire, tu non sei di queste parti, vero? Non puoi sapere... Pitney Road non significa nulla per te, vero?” Dawson non rispose. Sentiva le parole della donna al suo fianco, ma non andava oltre. Era incapace di ascoltare quelle parole, o di comprenderle. Non gli interessavano neppure. Aveva la mente a pezzi, sparpagliata in un milione di frammenti. La donna era sulla trentina. Dava l’impressione di essere stata molto bella, anche se in un modo un po’ antiquato. Forse lo era stata fino a non molto tempo prima. Ma il suo non era quel tipo di viso che sapeva reggere con grazia l’ansia e i brutti colpi, e le recenti esperienze avevano lasciato il segno su di lei. Dawson aveva notato ben poco di tutto questo. Era troppo assorbito dal caleidoscopio dei frammenti che un tempo erano stati la sua anima. Per ognuno di quei frammenti vedeva una mano scura che si allungava per prenderlo, minacciando di frantumarlo in pezzi ancora più piccoli. Era scosso da brividi. Guardava fuori dal finestrino aperto dell’auto. Un’auto alla quale non aveva nemmeno fatto cenno, si era semplicemente allontanato dal ciglio della strada per guardarla passare con occhi guardinghi. E comunque si era fermata. Ma i frammenti in movimento, e le mani che si allungavano, quelli non si fermarono. Erano l’unica cosa che riuscisse a vedere. Assorbivano tutta la sua attenzione. “E una bella zona... o meglio, lo era. E piuttosto appartata, e l’abbiamo protetta molto bene. Me ne sono occupata io stessa, e benché non sia mai stata un mago con gli arnesi e i lavori manuali, posso garantire che è un posto sicuro. George sarebbe molto fiero di me... voglio dire, sarà molto fiero quando la vedrà.” Ci fu un breve silenzio. “Abbiamo anche delle armi. George andava matto per la caccia, così ci sono diversi fucili in casa. Sono diventata piuttosto brava, ho fatto molto allenamento e... be’, in un paio di occasioni ho dovuto usarli, così so di potermela cavare in caso di bisogno.”
Un’altra pausa, mentre lanciava un’occhiata all’espressione vacua di Dawson. “Quello che sto cercando di dire è che da noi si è al sicuro. Voglio dire, saresti al sicuro anche tu, se decidessi di fermarti per un po’ con noi. Voglio dire, finché non ti sarai ripreso e... Voglio dire, molto più al sicuro che a startene lungo la strada come quanto ti ho trovato, anche perché mi pare che tu abbia bisogno di un po’ di riposo. A noi non darebbe nessun fastidio. Vero, Kirsten?” La bambina di sei anni, bionda come la madre, sedeva silenziosa sul sedile posteriore succhiandosi il pollice e fissando la nuca dello sconosciuto. Sua madre non si era aspettata una risposta e non attese di riceverla. “Si finisce col sentirsi un po’ sole, a starsene isolate lassù aspettando che papà torni a casa. Sarebbe bello avere un visitatore per un po’. Sarebbe bello avere un altro adulto con cui scambiare quattro parole tanto per cambiare. Capisci cosa voglio dire?” La donna guardò di nuovo Dawson, poi tornò a concentrarsi sulla guida mordendosi un labbro. “È solo che... sai com’è... voglio dire, di solito non raccolgo mai autostoppisti, o almeno non l’avevo mai fatto fino a oggi, perché... be’, adesso le cose sono diverse. Ho visto subito che eri vivo e allora ho pensato: se George stesse camminando lungo una strada per tornare a casa, vorrei che qualcuno gli passasse vicino senza fermarsi solo perché non lo conosce? No. Vorrei che qualcuno si fermasse e lo aiutasse. “Voglio dire, con tutta la gente che è morta e da come tutti gli altri superstiti sembrano essere rimasti sparpagliati in giro per il paese, se si dovesse aspettare il passaggio di qualcuno che si conosce per avere un briciolo di aiuto ci sarebbe da aspettare un bel pezzo. Il solo fatto di essere ancora vivi significa già molto. Significa che siamo tutti nella stessa situazione, quindi dovremmo cercare di aiutarci a vicenda. Dovremmo almeno provarci, non credi?” I suoi occhi erano gonfi di lacrime quando si voltò nuovamente a guardarlo, il viso tirato in una smorfia. “Dannazione!” ringhiò lei. “Perché non dici qualcosa?” Dawson si girò a guardarla e sbatté le palpebre. Lei riportò lo sguardo sulla strada, asciugandosi le guance con le dita della mano destra. “Mi dispiace,” disse lui, e benché la sua voce fosse spenta riuscì in qualche modo a trasmettere un rimpianto sincero e profondo.
“No, no, è colpa mia,” ribatté lei. “È solo che... oh... non lo so.” “Siamo arrivati.” Lei tirò il freno a mano, poi si sporse nell’abitacolo verso Dawson. Lui si rattrappì nervosamente sul sedile, reso perplesso dal suo movimento. Quando la donna aprì lo scomparto del cruscotto e ne tirò fuori una pistola, lui capì e si rilassò. Lei sbirciò intorno all’auto. “Adesso non vedo loro tracce qui in giro, ma non si può mai sapere. Dovremo essere prudenti quando entreremo. Quando esco a cercare provviste non chiudo mai a chiave la porta d’ingresso.” Si girò verso Dawson. “Ti sembra un comportamento idiota da parte mia?” Dawson scrollò il capo una volta sola, incerto se quella fosse la risposta giusta ma desideroso di darle qualcosa. “Penso sempre che se Kirsten e io non siamo qui, allora non c’è nulla che possa attirarli. Non credi che sia vero? Che in qualche modo riescano a sentire la nostra presenza e ad inseguirci, e che se qui non c’è nulla da sentire dovrebbero lasciare in pace la casa?” “E poi c’è un altro pensiero che non riesco a togliermi dalla testa: se George tornasse qui e non avesse più la sua chiave - voglio dire, in tempi simili non si può pretendere che un uomo resti attaccato alla chiave di casa e trovasse la casa tutta sbarrata? Non penserebbe che siamo partite o morte? Magari si arrenderebbe e se ne andrebbe per sempre. “Oppure, se lo stessero inseguendo e lui dovesse entrare subito in casa, ma la porta fosse chiusa...” La sua voce si spense mentre dava un’altra occhiata al mondo che circondava l’auto. “E non voglio lasciare un biglietto sulla porta. Mi sembra troppo pericoloso. Non credo che loro sappiano leggere, ma... ci sono altri che sanno ancora farlo. Quelli che sono rimasti vivi, e so che alcuni di loro...” Guardò Dawson. “Be’, quello che voglio dire è che non mi fido di chiunque. Non posso.” Tornò a guardare la casa. “Allora lascio un biglietto sul frigorifero, così se dovesse tornare mentre siamo fuori saprà di doverci aspettare.” Chinò lo sguardo sulla pistola che reggeva in grembo e cominciò di nuovo ad asciugarsi le lacrime.
Da diversi minuti gli occhi di Dawson non si staccavano dal suo viso. Ma fu solo in quell’istante, di colpo, come se qualcuno avesse fatto scattare un interruttore in qualche stanza a lungo abbandonata nella sua mente, che la vide per la prima volta. Nonostante la stanchezza e i recenti insulti del tempo, improvvisamente lei gli apparve bellissima. Avrebbe voluto toccarla, o parlarle, ma scoprì di non poter fare nessuna delle due cose. “Scusami,” disse lei. “Devo sembrare una vera idiota a blaterare in questo modo. È solo che...” Si interruppe. “Sarà meglio entrare.” Lei scese dall’auto, cercando tutt’intorno qualche segno di movimento. Dawson e Kirsten fecero lo stesso. Si spostarono verso il retro dell’auto e raccolsero diversi sacchetti depositati nel portabagagli. “Dovremo frugare ogni stanza, una volta entrati e posati questi,” gli disse lei. “Quella è sempre la parte peggiore. Anche se fino a oggi non ho mai trovato sorprese.” Dawson seguì silenzioso la donna in cucina e posò i suoi sacchetti sul tavolo. Kirsten restò indietro, sedendosi sul divano del soggiorno dove i due adulti potevano ancora vederla. I gesti e l’atteggiamento della bambina diedero a Dawson l’impressione che tutto facesse parte di una procedura familiare e immutabile. Una volta seduta la bambina rimase immobile come una statua, succhiandosi il pollice e fissando la madre e lo sconosciuto. “Sembra che qui dentro non sia entrato nessuno.” Gli occhi della donna esplorarono metodicamente la cucina, fermandosi su un biglietto fissato al frigorifero con una banana magnetica. “Né amici, né nemici.” Lo disse con un sospiro, ma cercò di sorridere a Dawson. Lui notò che le sue spalle non si incurvavano, come si era aspettato. Se non altro, ora la donna pareva più fiduciosa, più sicura e decisa di prima. Adesso era a casa. Era al sicuro. Pronta a ricaricarsi e a fare qualunque cosa fosse necessaria. Dawson rimase sbalordito, tanto dal suo cambiamento quanto dalla causa apparente. Si chiese quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che gli era capitato di pensare che il concetto di casa potesse ancora avere un significato reale per qualcuno. La osservò con attenzione mentre la tensione che irrigidiva il suo corpo si allentava, mentre il suo viso assumeva un aspetto meno tirato e sofferente, e lei ritornò bellissima ai suoi occhi. Più di prima. Mentre lei esalava un sospiro più profondo, Dawson si sentì respirare al
suo stesso ritmo. Dinanzi al suo esempio, anche lui sentì affievolirsi le tensioni che lo attanagliavano. Sentì le mani scure allontanarsi, e lo strano rimescolio interno di una misteriosa ricostruzione che iniziava nei suoi angoli più intimi e profondi. Lei lo fissò con occhi al tempo stesso solenni e luminosi. “Devo ancora controllare le altre stanze. Vuoi venire con me?” Fissandola negli occhi, lui annuì. Lei sorrise. “Grazie.” Dawson chinò lo sguardo e vide la pistola che lei impugnava. Rabbrividì, pensando allo stato spaventoso cui il mondo si era ridotto. Passarono diversi secondi prima che riuscisse a sollevare gli occhi per incontrare di nuovo i suoi. Un tonfo pesante dall’alto delle scale, come se qualcuno avesse lasciato cadere un sacchetto di zucchero da tre chili, fu seguito all’istante dall’urlo acuto di Kirsten, pieno di una gioia incomprensibile. “Papàààà...!” “Kirsten! Aspetta!” Dawson si voltò giusto in tempo per vedere la bambina alzarsi di scatto dal divano e sparire in direzione delle scale. Poi la donna lo superò con un balzo inseguendo la figlia. Dawson la seguì, ma dopo tre rapide falcate fu costretto a fermarsi appena dentro il soggiorno, per evitare una collisione con lei. Il corpo della donna si era irrigidito. Lui seguì il suo sguardo verso le scale. Gli istanti seguenti trascorsero come ore, concedendo a Dawson l’indesiderata opportunità di assorbire ogni particolare. Sulle scale c’era una cosa che una volta era stata un uomo. Le sue mani erano chiuse intorno alle spalle della bambina. Kirsten, sopraffatta dalla paura della repentina scoperta, scalciava e urlava, lottando invano per liberarsi mentre il divoratore di cadaveri la sollevava verso la sua bocca contorta in modo grottesco. La donna sollevò la pistola con entrambe le mani, tremando violentemente. “Fermo!” La sua voce era isterica. “Per amor di Dio, fermo!” I denti lacerarono il morbido candore del collo della bambina. Uno schizzo scarlatto imbrattò il viso dell’essere e colpì la parete accanto. L’urlo della bambina si spense in un gorgoglio mentre risuonava il primo sparo. Una rosa color borgogna cupo si aprì sulla fronte del divoratore di cada-
veri, strappando il suo viso dalla preda e costringendolo a restare eretto. Un’espressione di stupore idiota gli balenò negli occhi un istante prima che roteassero all’insù mostrando solo il bianco. La pistola sparò ancora. Brandelli di guancia e schegge di osso colpirono la parete. Ancora. L’essere crollò all’indietro sui gradini, e la bambina gli cadde pesantemente sul petto. Il corpo di Kirsten cavalcò quello del divoratore di cadaveri in un’atroce parodia di un gioco fra padre e figlia, poi scivolò lentamente giù per i gradini con le braccia e le gambe piegate in fuori. Ancora la pistola tuonò. Ancora e poi ancora. Il corpo sussultò sotto l’impatto dei proiettili. Poi ci fu solo lo scatto ripetuto del percussore che colpiva cartucce scariche. Due volte. Cinque volte. Sette. La pistola cadde sul pavimento, seguita rapidamente dalla donna. Dawson sentì un urlo nascergli nelle viscere, un grido che annaspava, lottava, rimbalzava verso l’alto spinto dal panico, alla ricerca di una via di fuga ma incapace di trovarla. Emise un gemito da cane bastonato e strappò gli occhi dal quadro di carne grottesca e insanguinata sulle scale. Guardò la donna distesa ai suoi piedi. Aveva una guancia posata pesantemente sul tappeto e gli occhi chiusi. Braccia e gambe erano allargate come quelle di un burattino dai fili spezzati. Dawson fissò la schiena che si alzava e abbassava in modo irregolare seguendo il ritmo discordante del suo respiro. Poi lanciò un ululato pietoso, bizzarro, e a grandi passi barcollanti si lanciò verso l’uscita. Fuori si inginocchiò in giardino a vomitare, per quello che gli sembrò un tempo eterno. Quando fu svuotato, lanciò un’ultima occhiata alla casa e corse via. [9] Dawson fu colto dal panico sentendo un’auto avvicinarsi, ma non aveva nessun posto in cui nascondersi. Alla sua destra c’era un pendio roccioso, troppo ripido per poterlo scalare in fretta. Alla sua sinistra un guard-rail metallico e uno strapiombo. Uggiolando, si addossò al pendio roccioso, coprendosi gli occhi per non essere visto. Il suono aumentò fino a coprire ogni cosa e ad inondarlo di paura. La paura fiorì, illuminandosi di fuochi d’artificio, al suono dei freni. Poi vi-
brò, saltellò, danzò, mentre udiva la portiera dell’auto aprirsi e chiudersi. “Nononononono...” credette di urlare, e invece la voce gli uscì debole e fiacca, terrorizzata. Poi un’altra voce parlò. Morbida e forte. Imperiosa, profonda e gentile. “No.” L’urlo di Dawson fu, di nuovo, a malapena percettibile. Non fece nulla per fermare quell’altra voce. Provò un impeto di rabbia contro quella voce così salda e serena, morbida con un’anima di ferro. Si fece più vicina. Vicinissima, anzi. Le mani di Dawson brancolarono frenetiche contro la parete dinanzi a lui, trovarono una pietra grande come un pugno. Ruotò rapidamente su se stesso, aprendo gli occhi solo quando la pietra lasciò la sua mano per lanciarsi verso l’origine della voce. Fu un lancio pessimo. Il viso di quella voce sorrise dolcemente. “Morirai. Ti ucciderò.” Erano le prime parole che Dawson pronunciava, benché fosse a bordo dell’auto da più di un’ora. Aveva trascorso quel tempo senza mai guardare l’uomo, fissando invece fuori dal finestrino alla sua destra e tentando di scacciare una nauseante sensazione di déjà vu. Sapeva solo che non voleva ricordare. Non tutto. L’uomo al suo fianco riconobbe le parole di Dawson come una potenziale incrinatura nella sua fastidiosa corazza, ma procedette con cautela. Sapeva benissimo che cosa doveva affrontare. Che cosa dovevano affrontare entrambi. Con calma e senza fretta, pose la sua domanda. “E perché vorresti farlo?” Poi attese paziente che Dawson interrompesse di nuovo il suo silenzio. “Non sarò io a farlo. Succederà. Non per mano mia, ma a causa della mia presenza. Sarò io il responsabile.” “Prova a dirmi perché la pensi così.” Per la prima volta da quando era salito sull’auto, Dawson si girò a guardare il compagno. Era un uomo dal viso robusto, con capelli scuri e una barba di parecchi giorni. Un paio di occhiali sarebbero sembrati a casa loro su quella faccia, ma lui non ne portava. Lo avrebbero fatto sembrare proprio un predicatore. Non aveva detto lui stesso di esserlo stato, una volta, forse anni prima? Be’, anche senza occhiali ne aveva proprio l’aria, nonostante i pantaloni da lavoro e la camicia a maniche corte di un azzurro vivace. Dawson guardò ancora dal finestrino prima di rispondere.
“Tutti quelli che conoscevo sono morti. Anche quelli che ho incontrato per caso, prima o dopo. Non ha più importanza. Io li incontro, loro muoiono. Vorrei morire io, invece, ma sono soltanto un portatore. Immune. Posso solo guardare gli altri morire.” L’uomo aspettò qualche istante, per essere certo che Dawson avesse finito, poi parlò di nuovo. “Probabilmente non vorrai sentirmi dire che ho già sentito persone dirmi le stesse cose prima, o che di questi tempi è un’illusione comune e che a dire il vero non è mai stata molto rara. Molta gente la pensava così anche prima del... del cambiamento, o come preferisci chiamarlo. Ma che tu voglia sentirtelo dire o no, è vero, ed è esattamente ciò che ti serve sentirti dire. È ciò che ti serve pensare in questo momento. Tu non sei solo.” Dawson si girò bruscamente per guardare l’uomo, che a sua volta si era voltato per incontrare i suoi occhi. L’incrinatura nella corazza era visibilmente più ampia. “Raccontami,” disse il predicatore. “Dimmi tutto ciò che riesci a ricordare. Anche le cose che tenti così dolorosamente di scordare.” E dopo qualche altro minuto, dopo qualche altra gentile stimolazione e relativa apertura, Dawson fece appunto questo. “Questi sono tempi estremamente difficili, amico.” L’auto era parcheggiata dietro un vecchio mulino, accanto a un ampio torrente luccicante. I due uomini si dividevano una tazza di caffè tiepido versata da un thermos che il predicatore, il cui nome era Richard, aveva estratto da sotto il suo sedile. Richard restituì la tazza a Dawson e proseguì. “Oh, lo so che sembra una stronzata da pio seminarista, quel genere di banalità che sfornavo così spesso a gente che pensava soltanto che il loro mondo stesse cadendo a pezzi, ma non puoi negare che nessun essere vivente fosse preparato a quello che è successo al mondo. Eravamo impreparati fisicamente, tatticamente e spiritualmente... e per quest’ultimo punto sono pronto ad accettare la mia parte di biasimo, perché allora ero del mestiere.” Richard sorrise e Dawson gli passò la tazza, riscaldato da quel sorriso ma incapace di restituirlo. “Ma quel che è peggio,” il sorriso si spense, “non eravamo preparati psicologicamente. Tutte le tattiche e le procedure che avevamo laboriosamente imparato per affrontare la vita su questo mondo si sono rivelate inutili. E stato questo il colpo più devastante. Abbiamo perduto le nostre regole, i
nostri codici, i nostri meccanismi di riferimento. Visto che non c’era più nulla di prevedibile, nulla in cui potevamo credere, abbiamo perso la nostra fede. E perdendo la fede abbiamo perso anche la volontà e l’amor proprio.” Dawson si fissò le mani in grembo, aperte e con i palmi verso l’alto. “Non posso condividere la tua fede, Richard. Non posso credere nel tuo Dio. Amore e misericordia, mi dicevano. Lui non avrebbe mai lasciato che succedesse tutto questo, per quanto fottutamente misteriose fossero le sue vie.” “Non ti biasimo.” Dawson sollevò gli occhi verso il suo nuovo amico, ascoltandolo con attenzione. “Anch’io non accetto più a occhi chiusi le vecchie idee. Ma non è questo il genere di fede di cui parlo. Quanto a condividerla, tu non hai bisogno del genere di fede che si potrebbe dividere con qualcun altro. A te serve quel genere che è solamente tuo. Qualcosa che venga da dentro di te, un insieme di ciò che sei stato e hai visto in tutta la tua vita.” Richard bevve un altro sorso dalla tazza, la passò a Dawson e mise in moto. Viaggiarono. Quando la notte prese interamente possesso del panorama circostante stavano ancora viaggiando, con i fari dell’auto che spingeva il buio davanti a loro. Avevano trascorso quasi tutta la serata parlando dei diversi tipi di fede che esistevano al mondo. Perfino in un mondo come quello che era diventato il loro. Avevano discusso a fondo il collegamento fra fede e volontà, e fra volontà e capacità di sopravvivere. Richard sosteneva che mentre gli eventi avevano distrutto la sua fede in una divinità onnipotente e misericordiosa, avevano tuttavia risvegliato e rinnovato la fede che un tempo aveva nutrito nello scopo della sua missione originaria. “Ero giunto alla mia vocazione, o almeno così mi dicevo un tempo, per servire la gente. Per salvarla. Una missione degna di questo nome. L’unica missione alla quale ogni servitore di un Dio benigno e compassionevole dovrebbe aspirare. Ma a volte penso che Dio... no, non Dio, ma l’immagine di Dio e tutti i dogmi connessi sbarrino la strada a persone simili. Nel mio caso è successo così, almeno. “Be’, dopo il cambiamento, il diluvio, o come vuoi chiamarlo, sento che il mio scopo originario è stato riacceso. Forse perché per la prima volta so-
no riuscito a mettere veramente a fuoco il suo significato. E adesso questo scopo è la mia fede. La mia volontà. In questo modo ho imparato a sopravvivere.” Poi parlò a Dawson del suo nuovo lavoro. Di come avesse passato quelle ultime settimane viaggiando in lungo e in largo, cercando di trovare superstiti. Cercando di aiutarli in ogni modo possibile. In massima parte parlando loro di uno scopo e della volontà. Cercando di ispirarli.” “Così, come vedi, in realtà non ho cambiato professione,” aveva sorriso, “ma solo il datore di lavoro. Non parlo più così spesso di religione, a meno che qualcun altro non ne senta il bisogno. Sento di essere più utile alla gente di quanto lo sia mai stato prima. E questo è proprio il momento in cui loro ne hanno maggiormente bisogno. E una sensazione piacevole. Riesce quasi a rendere questo inferno degno di essere vissuto.” Così, mentre l’oscurità ammantava le basse colline che avevano appena attraversato, Richard cercò di guidare la mente di Dawson verso un’accettazione della vita, piuttosto che della morte. Cercò di scoprire la carota che Dawson poteva essere persuaso a inseguire. Dawson scoprì che quell’uomo gli piaceva. Credeva nella saggezza di Richard e avrebbe voluto compiacerlo. Voleva sperare. Voleva sperare con tutte le sue forze. Ma era esitante. Ogni volta che si avvicinava a quell’emozione a doppio taglio inevitabilmente si tirava indietro, ricordando i dolori passati. Non era certo di essere ancora pronto, o che avrebbe potuto mai esserlo. Era ormai notte avanzata quando trovò abbastanza coraggio per fare il salto. Avrebbe sperato, per quanto potesse dimostrarsi una scelta sicura o meno. Avrebbe vissuto, anche se in modo disperato. “Io ho uno scopo,” dichiarò con voce ferma. Richard distolse gli occhi dalla strada per sorridere incoraggiante al suo compagno nell’istante in cui la pallottola colpì il parabrezza. Dawson fu scagliato con violenza contro la portiera mentre l’auto sbandava bruscamente. Poi fu spinto all’indietro sul sedile quando Richard riprese il controllo e pigiò sull’acceleratore. Girandosi rapido per guardare dietro di loro, Dawson vide due figure sbucare dagli alberi scuri che costeggiavano la strada. Vi furono due lampi arancioni ed egli udì altri due spari, ma i colpi mancarono il bersaglio. Poi l’auto abbordò una curva, oscurando la vista degli assalitori e impedendo altre minacce alla fuga sua e di Richard. “Volevano l’auto, non è vero?” esclamò Dawson, inspiegabilmente più
eccitato che spaventato dall’esilità dello scampato pericolo. Si girò per congratularsi con l’amico per il sangue freddo dimostrato nella guida, ma si raggelò prima di poter riaprire bocca. Una macchia scura, già abbastanza ampia, si stava rapidamente allargando sul petto di Richard. “Oh Dio!” fu tutto quello che Richard riuscì a sussurrare. Le nocche bianche sul volante, il viso pallido e irrigidito dal dolore, Richard manovrò l’auto per la strada serpeggiante a velocità pericolosa per altri cinque minuti. Dawson trascurò completamente la strada, non avvertì nessun timore per la velocità o gli ostacoli, continuando a fissare impietrito il viso del predicatore. Richard arrestò del tutto l’auto prima di afflosciarsi all’indietro sul sedile. Anche allora tenne il collo e la testa rigidamente eretti. Le sue labbra si mossero lentamente, con precisa determinazione. “Sto per morire, Dawson. Ma non è colpa tua. Anzi, in un certo senso puoi salvarmi. Fammi un ultimo favore.” In seguito Dawson non riuscì mai a decidere se in quel momento, prima di proseguire con voce più sibilante, Richard sorridesse o facesse una smorfia di dolore. “No. Due. “Primo: vivi. Scegli adesso di vivere. Fa’ che la mia morte serva almeno a questo. Prendi l’auto. Raggiungi il tuo scopo. Non lasciare che ti prendano.” Dawson annuì, anche se il predicatore aveva chiuso gli occhi. Poi Richard li spalancò di nuovo mentre cercava la maniglia della portiera, la premeva e si lasciava scivolare sulla strada. Dawson si sporse sul sedile nel vano tentativo di afferrare l’amico e trascinarlo ancora sull’auto. Dalle labbra di Richard uscì un rivolo di sangue mentre fissava Dawson negli occhi e scuoteva il capo. Il suo respiro giungeva a singulti. Quando parlò di nuovo, lo fece con voce che per metà sembrava fatta di ghiaia e per metà di sangue gorgogliante. “Secondo favore... nel cruscotto... pistola.” Dawson rimase a fissarlo con occhi sbarrati. “Prendila!” Richard cominciò a tossire, spruzzando sangue sulla portiera aperta, sulle sue mani e sugli abiti. Riuscì a parlare ancora, con voce sempre più affaticata.
“Sparami... alla testa... non voglio camminare... come loro.” Dawson continuò a fissarlo. “Aiutami a uscirne.” I loro sguardi si allacciarono, e per un istante Dawson credette di poter fare ciò che l’amico gli aveva chiesto. Poi gli occhi di Richard si chiusero, con il suo ultimo respiro gorgogliante. [10] Sono lieto che gli ultimi stadi del mio viaggio risultino perduti alla mia memoria, oscurati da una foschia composta di rimorso e paura. Rimorso e paura provocati da cosa, esattamente, non so dirlo. Non ho intenzione di sottoponili a un esame cosi approfondito. Non ancora, almeno. In termini più generici, so che il rimorso è causato da ciò che io ho dimostrato di essere. La paura, invece, da ciò che potrei scoprire se la foschia si disperdesse e dovessi affrontare nuovamente le azioni e le scene che ho volutamente dimenticato. Sono lieto anche di essermi dimostrato incapace di registrare qui gli eventi di quel periodo. Se li avessi trascritti, mi rifiuterei di leggerli. Hoagie mi dice che comunque tutto questo non ha alcuna importanza. La scorsa notte abbiamo bevuto il rum, e lui ha detto che nulla del passato, sia individuale che collettivo, ha ormai più importanza. Le cose sono diverse. Io sono vivo. Ora sono qui. “Sei un essere nuovo,” mi ha detto Hoagie, “iniziato appena oggi. In questo stesso istante. Come puoi giudicarti severamente, quando non hai ancora fatto nulla in questa nuova vita? Non c’è nulla da giudicare. Come puoi conoscere i tuoi limiti, se devi ancora metterli alla prova? Sei una lavagna pulita. Il processo di apprendimento deve iniziare di nuovo. Tu sei l’essere che sei in questo momento. Non sei, e non puoi essere, nessun altro. Quindi decidi tu chi vuoi essere.” Voglio credergli. Questo posto è molto diverso da com’era un tempo. Più permanente. Meno nomadico. Hanno costruito baracche, rozze e primitive, ma molto più solide e resistenti di qualsiasi altra cosa mai sorta su questo spazio. Non sono più una tribù di passaggio. Il loro principale mezzo di trasporto è andato perduto. Questo non significa che i treni siano scomparsi, perché
funzionano ancora, ma sono ormai così rari e così ben sorvegliati che avvicinarsi vuol dire farsi ammazzare. Solo treni governativi. E gli ordini dei soldati sono chiarissimi. Quasi tutti qui (credo che saremo più di una ventina) portano pistole o fucili. Per un attimo mi sono chiesto come avessero fatto a entrarne in possesso, ma quel pensiero minacciava di farmi ricordare come avevo ottenuto la mia. Sono riuscito a interrompere quella serie di pensieri prima che la foschia si sollevasse. Forse, un giorno, mi permetterò di ricordare. Quando mi sentirò più forte di adesso. Quando mi sentirò abbastanza forte da non avere più paura. Questa mattina, Hoagie e parecchi altri sono partiti per una battuta di caccia. Gli ho chiesto che cosa cacciavano da queste parti, ma per ragioni che non riesco neppure a immaginare, lui si è fatto stranamente brusco. “Carne. Cibo. Tutto quello che ci darà la forza di sopravvivere un altro giorno. Tutto ciò la cui morte ci aiuterà a restare vivi... così un giorno, forse, alcuni di noi che saranno sopravvissuti abbastanza a lungo potranno vedere la fine di tutto questo.” I suoi modi mi hanno turbato. Non lo avevo mai visto così agitato. Ma è anche vero che, vedendo com’ero rimasto colpito dalla sua reazione, lui mi ha sorriso e ha ammorbidito il tono. È stato un sorriso triste, stanco e rassegnato, ma non ricordavo nemmeno l’ultima volta che avevo visto un altro sorriso, e così ho fatto del mio meglio per sorridere anch’io. “Pensiero del giorno,” mi ha detto. “Tutte le regole sono cambiate. Tutto ciò che sapevi prima è sbagliato. Tutte le abitudini sono state abolite. Mai confondere le abitudini con la morale.” Mi ha sorriso di nuovo, ma questa volta con una smorfia talmente lugubre da rendermi impossibile ogni tentativo di rispondere. Sono di nuovo confuso. Ma immagino che, dopo tutto ciò che Hoagie deve aver passato in queste ultime settimane, non dovrei aspettarmi di poter capire ogni suo gesto e ogni sua parola. Quando quella sera i cacciatori tornarono al campo, quasi tutti gli altri interruppero le loro occupazioni per accoglierli. Dawson stava legando insieme alcuni rami per migliorare il riparo che si era costruito. Terminò il nodo al quale stava lavorando, poi si alzò per unirsi agli altri. Provò una stretta allo stomaco vedendo i due uomini morti che i cacciatori stavano riportando al campo. Chissà perché non gli era venuto in mente che la battuta di caccia potesse rivelarsi così rischiosa.
“Ma certo, idiota,” si rimproverò silenziosamente. “Come dice Hoagie, là fuori c’è un mondo diverso. Più pericoloso. Ecco perché si è comportato in modo così strano. Aveva paura di non tornare indietro.” Quando tutte le implicazioni di quel pensiero lo colpirono, Dawson provò una fitta di panico. Si unì bruscamente alla folla per dare un’occhiata più da vicino ai due uomini morti. Trovò strano che non vi fossero esclamazioni di dolore o di rammarico intorno a lui. Solo conversazioni a bassa voce e di poche parole, con il tono cupo di uomini che discutessero di un lavoro sgradevole ma necessario. Gli abitanti del Nodo erano talmente incalliti, si domandò, da non saper più dimostrare un briciolo di compassione per i loro compagni? Poi le parole cominciarono a fissarsi nella sua mente: “...non sembrano morti da molto, a guardarli...” “...due, quattro giorni al massimo, dovrebbero essere ancora commestibili...” “...il meglio che possiamo sperare, considerando...” “...cosa non darei per un fottuto quarto di manzo...” “...selvaggina...” “...un Big Mac alto così...” Quando arrivò in prima fila, perse la capacità di lasciarsi confondere da quelle frasi udite a metà. C’era qualcosa di familiare in uno dei due cadaveri. Non la familiarità che aveva temuto all’inizio, ma qualcosa di incredibilmente peggiore. La foschia che aveva oscurato il suo recente passato svanì in un attimo. Riuscì a distogliere lo sguardo dalla camicia azzurra con le maniche corte, al cui centro spiccava una grossa macchia scura di sangue secco, solo per fissare metà del viso familiare dell’uomo. La metà che non era stata distrutta da una o più pallottole dei cacciatori. In lui non restarono più dubbi. Anche se avrebbe voluto con tutta l’anima che ne fossero rimasti. La voce di Hoagie si levò secca su tutte le altre. “Rory, Mojo, Harrison... puliteli e preparateli. Greg, attizza quel fuoco e sistema lo spiedo.” Dawson si piegò in due e vomitò là dove si trovava. Lascio questo posto all’alba, anche se in questo mondo non c’è nessun altro luogo dove possa andare. “Ascoltami, dannazione! Non puoi impedire a questo cazzo di mondo di
essere fatto com’è. Il mondo possiede un impeto che né tu, né io, né tutte le stramaledette anime che ci vivono sopra potranno mai contrastare. Per prima cosa devi accettare questo fatto. “Dopo di che, ti rimangono due scelte: puoi lasciare il mondo morendo, visto che questa è la sola via di uscita che funzioni. Oppure puoi assecondare l’impeto e vivere finché ti riesce, sperando contro ogni evidenza che il mondo possa migliorare. Cercare di contrastare il suo impeto equivale ad abbandonare la partita, che tu lo voglia o no, perché il mondo ti passerebbe tranquillamente sopra le ossa. Ti schiaccerebbe come una mosca, bimbo.” Il viso di Hoagie era arrossato e contratto. La sua voce una furia controllata. Dawson si rifiutava di guardarlo. “Se domani lasci questo campo, tu abbandoni per sempre la partita. Abbandoni ogni speranza di poter anche pensare di sopravvivere fino a vedere la fine di tutto questo. “E questo perché? “Dici che è una questione di principi, ma non è vero. I principi si fondano sulla morale, e quello che ti ha sconvolto non è qualcosa che riguarda la morale, ma una infrazione alle tue vecchie abitudini culturali. Tutto qui. Abitudini che hai assimilato per inquadrarti in una cultura che ora è morta. È morta settimane fa, amico. E potrebbero essere anni. Potrebbero essere secoli, considerando l’utilità che possono avere per te adesso. I morti sono morti. Lascia perdere, amico.” Hoagie tirò un respiro profondo, cercando di calmarsi un poco. “Prova a pensare in questo modo: “Il mondo in cui sei cresciuto aveva meccanismi capaci di insegnarti in quale modo affrontare tutti i compromessi che richiedeva. Tu hai imparato così bene che per quasi tutta la tua vita precedente non ti sei mai neppure accorto di essere sceso a compromessi per mantenere al caldo il tuo stupido culo. Quando quel mondo è morto, tutto è diventato nuovo, diverso, più difficile. I compromessi sono diventati evidenti perché non erano più gli stessi con i quali avevi vissuto ogni fottuto giorno della tua vita. E inoltre non c’erano più meccanismi per insegnarti come fare per accettarli. “D’accordo, il mondo è una merda. Tutto ciò che sapevi è sbagliato. Ma puoi ancora cavartela se ti adegui. Adeguarsi o morire. Si riduce tutto a questo.” Ci fu una lunga pausa. “Capisci qualcosa di quello che ti sto dicendo?” Un silenzio ancora più lungo.
“Bene. Fai la tua scelta, amico. Io ho fatto la mia.” Hoagie si girò per allontanarsi, ma la voce fioca di Dawson bloccò il suo movimento. “Mi terrorizza, Hoag.” Hoagie tornò a guardare l’amico. Gli occhi di Dawson erano due laghi di dolore. “Così voi accogliete nei vostri corpi la causa che li ha ridotti in quello stato, che li ha fatti camminare di nuovo. Potrebbe essere un virus, un nuovo genere di batteri, una specie di infezione. Potrebbe rendervi simili a loro.” Hoagie scrollò il capo. “Se non mangiamo, moriremo. Allora diventeremo tutti come loro abbastanza in fretta. Alcuni di noi mangiano già questa carne da più di due settimane, e non abbiamo ancora perso nessuno. Almeno non nel modo che intendi tu.” Dawson lasciò ricadere a terra lo sguardo. “Non lo so. È che non riesco...” Lasciò incompiuta la frase. Sono un debole. Un vigliacco. L’ho dimostrato in ogni cosa che ho fatto. Non so dove andare. Non ho neppure la forza di mantenere una decisione. Perché penso che resterò. Che sceglierò, addirittura, di mangiare con loro. Forse sto scegliendo, grazie a qualche riserva di energia, di adeguarmi; o magari, più semplicemente, per pura debolezza sto scegliendo di non morire? Queste distinzioni sono ancora reali oppure, come insiste a ripetermi Hoagie, mi sto solo torturando inutilmente? Morale? Abitudini? Simili distinzioni sono mai veramente reali? Ci troviamo mai veramente di fronte a scelte che siamo liberi di effettuare? Da giorni, ormai, non ho più la forza di scrivere. Ora capisco che non serve a nulla. Probabilmente non è mai servito. Proprio come la mia vita. Adesso vedo queste righe come il diario di un uomo morente, dettato al suo assassino. Causa della morte: i tradimenti. Prima i suoi tradimenti verso gli altri, e infine il suo tradimento di se stesso. La foschia si è sollevata completamente. Ora riesco a vedere tutto. È stato solo in virtù di quella foschia che sono durato così tanto.
Scusatemi: che lui è durato così tanto. Questo è un necrologio, devo ricordarmi di mantenerlo impersonale. Il suo tradimento della donna - abbandonarla in quel modo, quando avrebbe potuto restare e salvare almeno lei - lo ha ferito gravemente. Il suo tradimento del predicatore - un altro abbandono quando c’era ancora una cosa da fare, un ultimo favore implorato e non concesso - lo ha ferito ancora più a fondo. Ma il colpo di grazia lo ha ricevuto con il tradimento di se stesso, ironicamente, quando avrebbe dovuto andarsene e invece ha deciso di restare. Come ultimo tocco di ironia, la causa della sua morte verrà attribuita dagli altri alla denutrizione. E tutto a causa di quel tradimento che si rifiuta di commettere. Che il suo epitaffio sia: LA DEBOLEZZA lo condusse alla soglia della morte LA FORZA gli consentì di entrare. Credevo che non avrei più scritto su queste pagine, ma stanotte non mi resta nessun’altra consolazione. Hoagie è morto. Durante un battuta di caccia. Uno di loro è riuscito ad arrivargli alle spalle. Gli ha strappato quasi tutta la parte posteriore del collo prima che gli altri potessero abbatterlo. È morto prima che lo riportassero al campo. Ho chiesto agli altri - piuttosto rabbioso, devo ammetterlo - perché lo avessero riportato indietro. Ho insinuato, senza andare per il sottile, che volessero mangiarsi anche lui, oltre alla bestia che lo aveva ucciso. Harrison mi ha mollato un ceffone per questo. Parecchi altri mi hanno colpito con i loro occhi anche più duramente. Non posso biasimarli. Non ero il solo ad amare quell’uomo, non ero il solo a contare sul suo affetto. “Non siamo cannibali,” mi ha detto qualcuno. E anche se allora non ho voluto ammetterlo, comprendevo la differenza. Non gli hanno ancora dato il colpo finale. Non lo hanno immobilizzato. Hanno un rituale, sembra, secondo il quale devono aspettare che lui si rialzi prima di sparargli alla testa. Immagino che abbia a che fare con la speranza che lui non si rialzi, evitando così la necessità di sparargli.
Riesco a capirlo a livello emotivo, anche se da un punto di vista pratico sembra solo un inutile prolungamento dell’ansia. Sono stati così gentili da accettare la mia richiesta di effettuare la veglia. Tutti a favore. Anche se mi pare di capire che questo genere di incombenza sia sbrigata solitamente a rotazione. Non so spiegare perché voglio essere proprio io quello che finalmente lo darà in pasto alla morte. Però sento di dovergli almeno questo. Lo devo al predicatore, alla donna e a me stesso. Forse perché devo ancora cercare di dimostrare qualcosa. Di non essere soltanto debolezza e tradimento. Di potere, almeno una volta, fare qualcosa di buono per quelli che sono stati buoni con me. Il campo dorme. Solo io e le guardie intorno al perimetro restiamo svegli. Aspetto. Ormai non dovrebbe mancare molto. Sono trascorse ventiquattr’ore dalla sua morte, e la veglia continua. E sorprendente. Ho lasciato che Harrison mi desse il cambio all’alba, ma mi sono fatto promettere di nuovo il turno di notte se si rivelasse necessario. Prego che sia così. Se qualcuno fra quelli che ho mai conosciuto merita di riposare in pace, è proprio Hoagie. Domani all’alba lo seppelliremo comunque, vada come vada. Harrison mi dice che Hoagie potrebbe anche non rialzarsi. Che una cosa simile era già successa una volta, pochi giorni prima del mio arrivo. L’uomo era morto più o meno nello stesso modo, ma non si era più rialzato. Lo avevano sepolto poco lontano, e la sua tomba era rimasta intatta. Mojo, che sostiene di essere la reincarnazione di un famoso sciamano azteco, dice che ingerendo gli spiriti dei propri nemici ci si può liberare del loro potere dopo la morte. Che l’abitudine di mangiare i divoratori di cadaveri ha protetto Hoagie dai “demoni dell’altro mondo”, che in caso contrario si sarebbero impossessati di lui e lo avrebbero fatto camminare con loro. Dice anche che una simile protezione si può ottenere mangiando semplicemente i loro cuori. Questo non lo credo, così come non credo a tutte le altre storie di Mojo, ma la cosa mi fa pensare. Sto pensando a quello che una volta ho detto a Hoagie sui virus, le infe-
zioni e il contagio. Sto pensando alle immunità acquisite e alle tolleranze di accumulo. Ai vaccini e agli anticorpi. Ai veleni che possono salvare la vita. Non sono un biologo, ma mi sembra un’idea più sensata di una teoria vudù. Penso anche alle coincidenze. Alle rare immunità naturali. Mi chiedo che probabilità ci siano di scoprirne due casi in una comunità così ristretta. Non avevo mai sentito parlare in precedenza di fatti del genere, ma la mia esperienza - statisticamente parlando - era troppo ridotta per trarre qualche conclusione affidabile. Sto anche imparando a pregare. Questa mattina abbiamo sepolto Hoagie. Durante la sua veglia ho interrotto il mio digiuno. Adesso comprendo ciò che lui cercava di dirmi sulle scelte, ma per me l’importante non è continuare a vivere. È la possibilità di rifiutare il ritorno fra i vivi, dopo la mia morte inevitabile. Questa è la mia decisione. La mia scelta. Sono pronto ad accettare il compromesso necessario. Lo stufato mi ha rivoltato lo stomaco, anche se la carne era cucinata nel modo più insapore possibile. Harrison dice che come prima reazione è comune a tutti. Dice anche che lo stufato è meno forte appena fatto. Sto facendo progressi nella preghiera. Mi viene in mente che devo fare circolare la notizia di questa possibile cura. Forse, partendo da questa informazione, si potrebbe distillare o produrre qualche vaccino. Ma come farla circolare? A chi affidarla? Chi rimane che possa utilizzare o trasmettere questa informazione? I treni governativi corrono ancora, quindi qualche struttura dev’essere rimasta parzialmente in funzione. È chiaro che i militari esistono ancora, ma cos’altro all’infuori di loro? Il Centro di Controllo Epidemico di Atlanta avrebbe dovuto essere un organismo da proteggere a ogni costo, ma avranno fatto in tempo a salvarlo? In caso contrario, restano altri istituti? Se sì, dove? Non lascerò il campo per una ricerca alla cieca, senza sapere dove dirigermi o quali siano le mie probabilità di arrivarci. Se qualche probabilità esiste ancora, deve passare per i treni. Gli uomini
sui treni, o senz’altro i loro superiori, devono sapere quali opzioni sono disponibili. E nessuno meglio di loro potrà trasmettere questa informazione a qualcuno in grado di utilizzarla a dovere. Consegnerò loro l’intero diario. Tutta la storia che ho scritto, per convincerli che faccio sul serio. Per mostrare loro una parte di quello che ho attraversato. Ormai non mi serve più. Sto ritornando a essere un uomo completo. La mia mente è limpida. [Nota del trascrittore: La parte finale risulta scritta con una calligrafia completamente diversa dalla precedente, tale da non lasciare dubbi sul fatto che si tratti di una seconda persona. K.H.] Lo hanno ammazzato con una fucilata. Ha commesso l’errore di gridare ai tizi sul treno che aveva qualcosa di molto importante da consegnare loro e si è messo a correre lungo il convoglio per avvicinarsi e passare a quelli il libro. Lo hanno steso morto a venti metri. Stavo guardando. Peccato, perché quel tipo mi era simpatico. Non ho neanche fatto in tempo a dirgli che mi dispiaceva averlo colpito quella volta. Così ho cominciato la veglia perché avevo una mezza idea che avrebbe cercato di tornare indietro. Avevo ragione. Quindi, o lui si sbagliava sulla faccenda dell’immunizzazione di cui continuava a parlare, o magari non aveva mangiato con noi abbastanza a lungo. Sono contento che sia tornato indietro mentre ero di turno io. In un certo senso è più facile quando si prova simpatia per il tizio. Non si vuole che sia un altro a rimetterlo a dormire. Meglio farlo di persona. Con lui avevo cominciato a parlare un po’. Gli raccontavo i miei problemi. Così gli ho detto che avrei scritto qui qualche parola se gli fosse andata male, e che in qualche modo sarei riuscito a ficcare il suo maledetto libro sul prossimo treno. Adesso provo una sensazione strana a scrivere qui. Come se qualcosa di
quel tizio potesse ancora sentirmi. Come se magari questa roba servisse a qualcosa. Dovrò essere più furbo di lui, però. Lo butterò sul treno stando al riparo dietro qualcosa. Non voglio che ammazzino anche me con una fucilata. Non finché mi rimane una scelta. I PEZZI MIGLIORI Les Daniels In vita, era stato enorme ma scarsamente minaccioso; i suoi duecentosedici chili erano stati tutto grasso e niente muscolo. Gli era sempre stato difficile muoversi. Ma adesso era difficile quasi per chiunque muoversi. I loro muscoli, i tendini, le ossa, erano tutti molli come budino, molli come putrefazione, come la sua. Ma lui era più grosso. Invece di cacciare con il branco, lui cacciava rimanendo indietro, aspettando che intrappolassero una vittima e facendosi avanti solo allora per partecipare all’uccisione. Gli altri del branco non sembravano mai notare ciò che lui faceva, non lottavano mai contro di lui mentre li buttava da parte con la sua mole gonfia. Avevano occhi solo per la carne, e cadevano nel luogo dove venivano spinti mentre lui si chinava sul trogolo scarlatto alla ricerca dei pezzi migliori. Se nel suo cervello gelatinoso fosse rimasto almeno un pensiero, avrebbe potuto essere espresso con quelle tre parole: i pezzi migliori. Aveva sempre avuto un debole per i pezzi migliori, anche quando era vivo. Li aveva amati nei suoi libri e li aveva letti e riletti infinite volte, segnando in rosso i margini per ritrovarli più facilmente la volta seguente. E li aveva amati nei suoi film. In pratica non andava mai al cinema (i sedili erano troppo piccoli), ma questo non importava perché lui possedeva il suo videoregistratore. Poteva starsene seduto al buio e guardarsi infinite volte i pezzi migliori. Avanti e indietro, avanti e indietro. Dentro e fuori. Su e giù. E mentre guardava, mangiava. Possedeva libri come Orgia di liceali in palestra e Le perverse del sacco a pelo, film come Il pisello del Nilo e Debbie si fa Dallas, e riviste come Porcelle in calore e Passere al trotto. In un certo senso le riviste erano le più ricche: se gli capitava di trovarne una con le fotografie giuste, non
c’erano altro che pezzi migliori. Ma tutto questo succedeva nei giorni che avevano preceduto il crollo della civiltà, prima che i morti si rialzassero per divorare i vivi. Adesso lui si trovava ancora meglio. Un tempo aveva soltanto ammirato i pezzi migliori e si era ingozzato di cibo, ma adesso aveva raggiunto lo scopo della sua esistenza. I pezzi migliori se li mangiava. Non si rendeva neppure conto di quanto fosse fortunato; non comprendeva che, essendo grosso e lento, evitava sempre gli scontri a fuoco e arrivava sul posto quando tutto era finito e i vivi erano stati abbattuti. I pezzi migliori erano difficili da raggiungere, ma anche in questo era fortunato: i cacciatori più rapidi stavano ancora staccando le estremità, braccia, gambe e teste, quando lui arrivava mastodontico e si apriva la strada come un bulldozer verso i pezzi migliori. A volte doveva accontentarsi di un seno o di una natica, ma quasi sempre otteneva ciò che realmente voleva. Il suo cibo preferito sapeva di pasticcio di pesce e formaggio condito con piscio: nessuno aveva più il tempo di fare un bagno. I suoi denti giallastri erano incrostati di pelo pubico e di membrane mucose; non se li spazzolava mai. In vita aveva forse potuto essere portato alla discriminazione sessuale, ma quel periodo era ormai dietro le sue spalle. Adesso la sua carne erano i pezzi migliori di chiunque. Era vergine. Non c’era molto da fare tranne mangiare e cercare altra roba da mangiare. Un giorno entrò barcollando nella libreria Notti di Fuoco, e quasi riuscì a ricordarla. C’erano alcuni dei suoi compari, intenti a sbattere contro i muri e a gemere delusi perché non c’era cibo nel locale. Quelli se ne andarono, ma lui rimase. Raccolse una rivista intitolata Superorge. Non riusciva a leggere il titolo ma poteva vedere le immagini, e le stava ancora guardando quando uscì dal negozio e si trovò in un piccolo appartamento sul retro. Il divano sembrava comodo. Sedette per qualche minuto guardando la sua rivista, poi uscì alla ricerca di cibo, ma più tardi tornò indietro. Doveva pure andare da qualche parte. Aveva una casa. Ogni tanto alcuni dei suoi amici lo seguivano a casa (anche loro dovevano pure andare da qualche parte), ma dopo aver gironzolato per qualche minuto nell’appartamento di solito decidevano che là dentro non succedeva niente di interessante e se ne andavano. Nessuno riusciva a capirlo. A un certo punto la carne cominciò a scarseggiare. C’erano giorni in cui
sembrava non valesse neppure la pena di alzarsi dal divano. Nel giro di alcuni mesi accumulò una bella collezione di riviste e cominciò a perdere i denti. Alcune delle sue dita si staccarono. Tuttavia, un uomo deve pure mangiare, così ogni tanto lui si staccava dal divano e andava in cerca del pranzo. Tutti quelli che incontrava per le strade avevano un’espressione triste. I loro ululati echeggiavano in tutta la città. Alcuni cercarono di masticarsi a vicenda, ma la carne era putrefatta e la moda non prese mai piede. Un giorno una femmina lo seguì fino a casa. Forse credendo che lui la sapesse più lunga degli altri, visto che sembrava bene in carne. In effetti lui era una montagna di vermi, e lasciò che lei ne mangiasse qualcuno. Sempre meglio di niente. Gli abiti della femmina erano marci e laceri, e lui notò che poteva vedere i suoi pezzi migliori. Assomigliava a una foto su una rivista. Be’, in linea di massima. Certi istinti non muoiono mai. Lui ebbe un’ispirazione, e si ritrovò con una moglie. Lei non sembrò dare grande peso alla cosa. Quando lui si staccò da lei, leggermente confuso, le lasciò dentro il pene. Non ne sentì mai la mancanza. E in ogni caso era troppo frollato per mangiarselo. Dopo di che cominciarono ad andare a caccia insieme. Il raccolto era sempre più magro. Una volta lui riuscì a staccare un paio di bocconi da una gamba, il che non costituiva certo la sua idea di un pranzo, ma era pur sempre meglio di niente. Non si accorse minimamente che lei continuava a ingrassare anche se in pratica non mangiavano quasi mai. Un giorno lei lo portò in un supermercato, un luogo che conosceva bene almeno quanto lui conosceva la libreria Notti di Fuoco. Gli mostrò come funzionava un apriscatole. Lui non provò molto interesse e se ne infischiò del cibo, ma lei cominciò a ingozzarsi come se fosse ancora caldo e fragrante. Naturalmente lui ignorava che presto sarebbe diventato padre. In fondo, chi sapeva di cosa era capace uno zombi? Gli scienziati umani che li studiavano avevano ben altro a cui pensare che la possibilità del sesso fra zombi. Gli zombi sembravano troppo impegnati a incrementare la loro gratificazione orale perché qualcuno si preoccupasse dei loro organi genitali. Nessuno aveva più per la testa cose del genere; forse perché adesso le loro teste spolpate erano in mezzo alle strade. Ma la femmina era incinta. Aspettava un figlio. Era un corpo che un
tempo si sarebbe definito pieno di vita. La femmina cominciò a fare viaggi regolari al supermercato, tornando a casa carica di tutte le scatolette che poteva trasportare. Lui non ne capiva il motivo, ma cominciò ad andare con lei per aiutarla. Era qualcosa da fare. I loro amici pensavano che fossero impazziti. A dire il vero, non è che vedessero spesso molti dei loro amici. Parecchi di loro stavano cadendo a pezzi, specialmente i più magri. Il decadimento era nell’aria. Parti di corpi giacevano per le strade. Alcune si muovevano e altre no. Essere grassi divenne di colpo una cosa alla moda: rendeva più facile restare in un pezzo solo. Massiccio era bello. Quando finalmente giunse il gran giorno, la nascita fu poco ortodossa. Il bambino strisciò semplicemente fuori dal ventre gonfio della madre, dopo di che la femmina incontrò qualche problema negli spostamenti. Anzi, per la precisione si spezzò in due all’altezza della vita, e se fosse stata viva sarebbe morta. Lui sistemò il troncone superiore dentro un armadio e di quando in quando gli portò del cibo, ma quello sembrò perdere ogni interesse e si disintegrò. Il bambino era una bambina, ed era umana. Quando lui se ne accorse per la prima volta, per poco non cominciò a mangiarsela, ma di colpo notò che c’era qualcosa di sbagliato. I suoi pezzi migliori non erano ancora al punto giusto per essere mangiati. La bambina non era matura. Era una tentazione, senza alcun dubbio, ma per quanto ne sapesse lui quello era l’ultimo cibo fresco che avrebbe mai visto. Voleva aspettare. Voleva prendersi cura di lei. Voleva uno splendido banchetto per il suo ultimo pasto. Perché allora lei sarebbe stata non solo matura, ma anche più grossa. Magari avrebbe potuto invitare qualche amico per una festicciola. Gli amici non attesero gli inviti. Solo pochi giorni dopo, mentre lui stava infilando del brodo di pollo concentrato nella piccola bocca rosea di sua figlia con i moncherini delle mani, sentì la vecchia banda strascicare i piedi nella libreria, levando le voci roche in un coro famelico. Era tipico da parte loro rovinare la sorpresa che lui teneva in serbo. Si sentiva protettivo nei confronti della sua unica figlia, ed era sempre l’uomo più grosso in città. Chiuse la porta che conduceva alla loro casetta e vi appoggiò contro la sua mole massiccia. Naturalmente gli zombi cercarono di farla a pezzi, ma riuscirono solo a fare a pezzi loro stessi. Le braccia e le gambe si spezzarono come fasci di spaghetti. Alcuni si lontanarono strisciando come meglio potevano, altri non si presero neppure quel di-
sturbo, ma nessuno riuscì a entrare. Rimasero là fuori a decomporsi e liquefarsi sull’impiantito di legno della libreria Notti di Fuoco, impregnando le tavole dei loro umori. La bambina stava benissimo. Cresceva sana e robusta mentre i giorni e le settimane e i mesi scorrevano veloci, e questo era un bene perché suo padre diventava invece sempre più debole. I foglietti si staccavano dal calendario, e i pezzi si staccavano dal suo corpo. Lui stava ancora aspettando, ma la verità era che aveva aspettato troppo. Adesso era lei che apriva le scatolette e dava da mangiare a lui. I suoi denti erano scomparsi e a dire il vero non restava granché nemmeno della bocca, ma lei ficcava allegramente tutto quello che poteva dentro quel gozzo sbavante, schiumante e spalancato. Lui non poteva più muoversi. Era intrappolato sul divano, simile a una montagna di pus ulceroso, e dopo cena lei gli montava in grembo e sfogliava le pagine delle sue riviste preferite così potevano godersele insieme. A lei piacevano quelle immagini buffe, anche perché erano rosa come lei. Papà era grigio e verde. Non possiamo andare avanti così, avrebbe voluto dirle lui, ma non poteva più parlare e nemmeno pensare molto. Naturalmente questa non era una novità, ma lui avvertì vagamente che la situazione gli stava sfuggendo di mano quando una sera lei si sedette sul suo ginocchio e ci affondò dentro fino alle ascelle. Lei rise e batté le mani divertita dallo scherzo di papà, e per tutta risposta lui emise una specie di sospiro, ma questa fu la fine. La mattina dopo, quando lei si svegliò, papà si era sciolto sul divano riversandosi poi sul tappeto. Da principio lei pensò che lui stesse ancora scherzando, ma dopo qualche giorno decise che avrebbe dovuto affrontare la realtà. Era un po’ di tempo che si poneva delle domande sul conto di papà, ma adesso non poteva più avere dubbi. Papà era ormai storia passata. Rimase nei paraggi ancora un po’ per averne la certezza, notò che le scorte di cibo si stavano assottigliando, pianse per qualche minuto, poi avanzò a passi incerti verso la porta. Armata solo del suo apriscatole, uscì nuda nel mondo. C’erano ossa e alcune pozze intorno alla porta, ma nulla si muoveva. Sarebbe sopravvissuta, e forse avrebbe trovato altri come lei, nuovi esseri umani nati da desideri morti. Magari avrebbero alloggiato vicino a qualche negozio porno, dove solo la volontà mancava. Con il tempo, forse sarebbe rinata una nuova vita.
Lei aveva visto i libri di suo padre, e sapeva cosa fare dei pezzi migliori. MENO DI ZOMBI Douglas E. Winter La gente ha paura di vivere per le strade di Los Angeles. È l’ultima cosa che dico prima di risalire sull’auto. Non so perché continuo a ripeterla. È una cosa che ho iniziato e che ora non riesco a fermare. Nient’altro sembra avere importanza. Non il fatto che ormai non ho più diciotto anni e l’estate è finita e sta piovendo e le spazzole del tergicristallo corrono avanti e indietro, avanti e indietro, e che fra poco Skip e DJ e Deb torneranno a sedersi insieme a me. Non m’importa del sangue che mi ha macchiato caldo e rosso le gambe dei jeans mentre stavo fermo nel vicolo a guardare. Non m’importa neppure della macchia sul braccio del maglione pieno di grinze e umido di sudore che indosso, un maglione che soltanto ieri sera sembrava immacolato e fresco di bucato. Tutto questo appare insignificante accanto a quell’unica frase. Sembra più facile sentire dire che la gente ha paura di vivere piuttosto che ascoltare Skip dire “Qui si fa sul serio” o quella canzone che continuano a trasmettere per radio. Sembra che nessun’altra cosa abbia importanza all’infuori di quelle dieci, no, dodici parole. Nemmeno la pioggia e il vento gelido che prima sembravano spingere l’auto giù per la strada e dentro il vicolo, e ancora meno l’odore sbiadito di marijuana e di sesso che ancora aleggia nell’auto. Una volta assodato che i vivi stanno morendo e i morti stanno tornando a vivere, tutto si riduce al fatto che la gente - sia morta che viva - ha ancora una paura fottuta. È il fine settimana, la sera di sabato, e la festa a casa di quel tizio di nome Schuyler o Wyler è stata uno schifo e nessuno sembra sapere dove Lana stia dando la sua festa e non rimane molto altro da fare tranne andare in un club, andare al cinema o andare al Beverly Center, ma non ci sono complessi decenti che suonano nei club, sembra che tutti abbiano già visto ogni film in circolazione e al Beverly Center siamo già andati ieri sera, così continuo a guidare avanti e indietro per le colline sopra il Sunset e Skip mi dice che dobbiamo arraffare un po’ di metedrina in cristalli. DJ si fa un’altra riga e poi si passa un dito sui denti e sulle gengive e chiede a Skip cosa Cristo è successo al suo amico Michael e Skip dice “Sul serio non lo sai?” e DJ scoppia a ridere e Skip infila il mio nastro della Festa di Compleanno e alza il volume e Nick Cave si mette a strillare.
Accendo una sigaretta e ricordo qualcosa, forse un sogno, di una corsa per le strade di Los Angeles, e passo la sigaretta a Skip e lui tira una boccata e la passa a Jane e Jane tira una boccata la ripassa a Skip. DJ accende una sigaretta delle sue e davanti a noi un cartellone avverte Mettete Qui il Vostro Messaggio e più sotto c’è uno spazio vuoto. Al semaforo seguente c’è un’auto ferma, una Ferrari argentata, e quando mi fermo al suo fianco giro la testa e vedo due tipi con gli occhiali da sole e uno di loro mi dà un’occhiata e io gliela restituisco e lui comincia ad abbassare il finestrino e io scendo a tutto gas dalle colline e torno in città. La pioggia cade più fitta di prima e i marciapiedi sono deserti e le strade luccicano come specchi neri e comincio a ripensare all’estate scorsa e faccio un paio di curve sbagliate e finisco col tornare sul Sunset. Estate. Non c’è molto da ricordare sull’estate scorsa. Le notti passate in club che si chiamavano Terre Buie, Insonne, Nube Zero, La Fine. Svegliarsi a mezzogiorno e guardare concerti su MTV. Una Lamborghini bianca parcheggiata davanti alla Tower Records. Il concerto degli Swans, DJ che pisciava contro il muro nella platea del Roxy nel bel mezzo di Children of God. Una prostituta con un braccio ingessato, che mi abbordava a Santa Monica e mi chiedeva se volevo spassarmela. Colazione al Gaylords o al Mimosas con Perrier-Jouet. Pranzo con mia madre al Beverly Wilshire, poi lo strappo fino a Los Angeles per accompagnarla al treno che doveva riportarla a Boston. Cena con Deb e i suoi genitori all’R.T., delfino hawaiano affumicato, insalata Cobb, acqua Evian e le palpate a Deb sotto il tavolo mentre suo padre parlava dei Dodgers. Il nuovo album degli S.P.K. La scappata a Palm Springs con Skip per il fine settimana del Labor Day, ai primi di settembre, e la noia mortale, un intero pomeriggio passato a guardare una lucertola che si arrampicava sul tronco di una palma. L’aborto di Jane. I manifesti ciclopici di Mick Jagger che sogghignava lungo l’Hollywood Boulevard come il teschio di un cadavere putrefatto. Clive costretto a fare fallimento e a perdere fino all’ultimo soldo, e suo padre che lo toglieva dai guai e gli comprava una nuova 380SL. Ascoltare in AM i Legendary Pink Dots. E poi, ah sì, la faccenda degli zombi. Sono le dieci di sera e sono seduto al bar della Citrus con Skip e DJ e Jane e la televisione in fondo al banco è sintonizzata su MTV ma il volume è al minimo. Ordino una vodka liscia e DJ ordina un Rolling Rock e Jane
ordina un Kir e Skip ordina un cocktail champagne e allora Jane cambia idea e ordina anche lei un cocktail champagne. Guardiamo a lungo i menu ma non abbiamo molta fame perché alla festa di quello Schuyler o Wyler ci siamo fatti un mezzo grammo e così restiamo seduti al bar e parliamo dei nuovi videoclip e questa ragazza che non conosco viene da me e mi ringrazia per il passaggio fino a Bel Air. Jane fruga nella sua borsa e mi pare che mandi giù due o tre Quaalude e guardo in giro nel bar e fuori dalla vetrata e non vedo nemmeno un’anima. “Cosa facciamo?” domando senza rivolgermi a nessuno in particolare. “Cosa facciamo?” chiede di rimando Skip e mi allunga una bustina di fiammiferi con un indirizzo scritto a mano sul retro, un posto nella Valle, e poi chiede al barista di portarci il conto. Parcheggio davanti alla casa di Jane. Dentro non c’è nessuno. Jane dimentica il codice di sicurezza e Skip le dice di provare a inserire l’anno, di solito è l’anno, e lei preme uno nove otto nove sulla scatoletta e la luce rossa diventa verde e la porta d’ingresso si apre e noi entriamo. Attraversiamo l’atrio buio fino in cucina e là sul tavolo c’è un biglietto con il numero telefonico di un albergo dove sua madre e suo padre, o sua madre e il suo amante, stanno passando le vacanze. C’è un mucchio di giornali mai aperti e una lattina di Diet Coke e una scatola vuota di biscotti ipocalorici e poi le tre videocassette. “Me ne occupo io,” dice Skip e raccoglie i nastri e si sposta nel soggiorno e si attacca alla vodka e cerca di accendere il televisore. Intanto mi siedo sul pavimento con DJ e Jane, perché i suoi genitori hanno uno di quei televisori con lo schermo gigante, magari un quarantacinque pollici, con un paio di videoregistratori collegati sopra, e finalmente Skip trova i pulsanti giusti e il primo nastro comincia a girare. Credo che i nastri arrivino da DJ o probabilmente da Jane, lei è stata a Claremont per un po’, e là aveva un amico che conosceva un tipo il cui fratello aveva lavorato in un negozio di video, un appassionato di film, e questo tipo doveva averli fatti sparire quando erano uscite le liste, e magari Jane se l’era scopato e aveva ottenuto i nastri, così adesso ce li stiamo guardando tutti e tre, uno dopo l’altro, stesi sul pavimento di questo soggiorno dal soffitto alto con i mobili antichi e questa stampa di Lucian Freud e Jane che continua a dirci che lei questi film li ha già visti anche se si capisce benissimo che non è vero. Skip se ne sta seduto con il telecomando in mano e non dice una parola, continua a pigiare il tasto dell’avanzamento veloce per beccare le scene
migliori, e il primo si intitola Il giorno degli zombi e proprio adesso la testa di questo zombi è stata spappolata da una fucilata e un altro zombi è stato decapitato e quello dopo si intitola soltanto Zombi e l’ultimo non me lo ricordo molto bene tranne la scena dove il dottore fa saltare la testa alla bambina, lei era una zombi, e lui le appoggia quasi la pistola alla testa e i pezzi di testa e di cervello schizzano sull’interno di un ascensore e per un attimo si riesce a vedere attraverso lo spazio dove prima c’era il suo cervello e subito dopo questa scena guardo Jane ma lei non sta guardando me, guarda Skip e DJ, e cosi penso che lei sappia ciò che vuole: non è lo stesso per tutti? Un’ora dopo, non c’è più vodka e non c’è più birra e la televisione è sintonizzata su MTV e Jane se ne sta distesa sul pavimento del soggiorno dei suoi genitori fissando il soffitto, mentre DJ se la scopa forse per la terza volta. Skip è al telefono in camera di Jane e cerca di recuperare un po’ di metedrina da un fornitore in città, e dopo un po’ vado da lui e guardo il poster dei Doors e il poster degli Smiths e lo ascolto ripetere “Vai in culo” tre o quattro volte prima che riattacchi sbattendo giù il ricevitore. Poi solleva gli occhi su di me e guarda i poster e dice “Strani giorni e strani modi” e poi comincia a sorridere e penso di capire il suo messaggio. Il telefono suona e Skip risponde e si tratta di Deb. Skip sospira e mi fa segno di prendere il telefono e io dico ciao e lei dice ciao e mi chiede che cosa voglio per Natale e se può parlare con Jane. Le dico che non lo so e che Jane in questo momento non può parlare e lei dice va bene, arrivo subito, non andare via, e io le dico va bene e ciao e lei dice ciao. Guardo Skip che fruga nei cassetti di Jane. Ficca in tasca un pacchetto di sigarette e un accendino e mi allunga una foto Polaroid con Jane molto piccola e sorridente davanti a un’enorme torta di compleanno con otto candeline azzurre e bianche e io non gli dico che il ragazzino biondo e riccioluto al suo fianco, quello con le lenti spesse e nere, sono io. Comunque lui non sta guardando la foto ma sta guardando me e dice soltanto “Razza di finocchio,” e poi comincia a slacciarmi i jeans e mi trascina sul letto sopra di sé. Dopo, fumiamo un paio di sigarette e io seguo Skip di sotto, nel soggiorno. DJ ha scovato chissà dove un’altra bottiglia di birra e siede sul divano guardando MTV. Jane è ancora stesa sul tappeto e fissa il soffitto e le dita della sua mano destra si muovono, si contraggono a pugno e si allar-
gano, e poi si stringono ancora a pugno. Skip si avvicina a lei e si abbassa la lampo dei jeans e dice che Deb sta arrivando e chiede se qualcuno sa come procurarsi un po’ di metedrina. La destra di Jane si allarga, poi si stringe a pugno, poi si allarga di nuovo, e lei sposta gli occhi verso Skip e dice “Allora?” e DJ stacca gli occhi dalla televisione e dice “Allora cosa?” Un altro video lampeggia sullo schermo. Un altro. Poi un altro ancora. I Love and Rockets non hanno più nulla di nuovo da dirmi quando Deb si fa viva. Indossa una camicetta di seta e una minigonna di pelle che ha comprato da Magnin’s a Century City. “Vi amo,” dice senza rivolgersi a nessuno in particolare. Bacia DJ sulla guancia e mostra la lingua a Skip e Skip fa finta di niente e continua a scoparsi Jane. Mi dice ciao e io le dico ciao e si prova i miei occhiali scuri. Attraversa il soggiorno e comincia a frugare in mezzo a una pila di CD. Solleva un vecchio album di Bryan Ferry, lo rimette giù e ne solleva uno dei This Mortal Coil. “Posso ascoltare questo?” chiede, e quando nessuno le risponde lo infila nel lettore e preme qualche tasto e mette al massimo il volume. DJ sta guardando MTV e anche Skip sta guardando MTV mentre scopa Jane e Jane continua a guardare il soffitto e io sto cercando di non guardare Deb. Lei canta insieme a Elizabeth Fraser, ondeggiando avanti e indietro in una specie di danza. Ho sognato, sta cantando, che tu mi hai sognata. Poi si siede davanti al camino e tira fuori una canna dalla tasca della minigonna e si toglie i miei occhiali scuri e strizza gli occhi e fissa a lungo la canna prima di accenderla. Song For the Siren finisce e c’è un momento di silenzio e Skip si stacca da Jane con un suono umido e caldo. “Sotto a chi tocca,” dice, e guarda prima Deb, poi me. Sogno, ma sogno me stesso. Mi vedo camminare per le strade del centro di Los Angeles e la giornata è nuvolosa e il sole si spegne e comincia a piovere e mi metto a correre e vedo me stesso che si mette a correre. Nel mio sogno mi sto inseguendo, supero di corsa lo Sheraton Grande, il Bonaventure, l’Arco Tower, e per un istante credo di potermi raggiungere ma le strade sono viscide per la pioggia e cado una volta, due volte, e quando mi rialzo non vedo più nessuno tranne questo adolescente all’angolo opposto dell’incrocio e quando lo guardo meglio vedo che sono io, un io più giovane, un io di quindici anni che si volta e comincia a correre e io comincio a inseguirlo e adesso lui ha tredici anni e corre e io corro e adesso lui ha undici anni e a ogni passo diventa più giovane e piccolo, adesso ha
nove anni e adesso otto e adesso sette e l’ho quasi raggiunto e adesso ha sei anni e svolta in questo vicolo e io sono proprio alle sue spalle e adesso ha quattro anni ed è un vicolo cieco e riesce appena a correre e io lo afferro e ha due anni e lo sollevo fra le braccia e sono arrivato in fondo al vicolo e lui ha un anno e mi trovo sulla veranda della nostra casa, la casa di Riverside dove sono cresciuto, e lui ha sei mesi e io busso alla porta e sento dei passi all’interno e lui ha tre mesi e mia madre sta venendo alla porta e lui adesso è un neonato e diventa sempre più piccolo e sta scomparendo e la porta si apre e mia madre guarda fuori e lui è scomparso e io sono scomparso e poi non c’è più nulla. Più nulla. È mezzanotte. Piove ancora. I genitori di Jane vivono a Flatlands e alla porta accanto vive l’attore francese che interpreta quella nuova serie televisiva della CBS e il suo cane abbaia mentre noi saliamo in auto e Skip mi mostra di nuovo la bustina di fiammiferi e l’indirizzo scritto sul retro e mi fornisce qualche indicazione. Guido verso Westwood e volto a destra lungo la Beverly Glen e a un certo punto sulle colline mi fermo a un negozio di liquori per comprare sigarette e una bottiglia di Freixenet e poi torno al volante e imbocco la Mulholland e scendo nella Valle e prendo la Ventura Freeway e guardo Skip e lui sembra sorridere e intanto batte il tempo sulla gamba, un due tre quattro, un due tre quattro, ma non so che canzone stia trasmettendo la radio, non l’ho mai sentita prima. Guardo nello specchietto e vedo che Deb è addosso a Jane e DJ le sta guardando e Deb ha infilato la lingua in bocca a Jane e guardo Skip e vedo che mi guarda mentre io guardo DJ che guarda Deb e Jane e ancora non so il titolo di quella canzone. Skip mi batte su una spalla perché ci stiamo avvicinando a un’uscita e lui si è appena messo qualcosa in bocca e la sta mandando giù con l’ultimo sorso di Freixenet. Lascia cadere la bottiglia sul tappetino e apre il palmo quasi per dirmi “Ne vuoi?” e io guardo la pillola gialla e mi chiedo se un po’ di Valium non mi farebbe bene. Nella musica si sentono forte le chitarre, sembrano i Cult, e Skip sta battendo il tempo sul finestrino con colpi sempre più forti e il vetro è solcato da incrinature e poi lui colpisce il finestrino ancora una volta e il vetro si spacca e lui mi mostra la mano. Sulle nocche ci sono piccoli tagli che non hanno ancora cominciato a sanguinare e la canzone finisce e comincia la pubblicità e lui abbassa il volume. Andiamo al Lone Star Chili Parlor di Hidden Hills e restiamo seduti là a bere caffè e ad aspettare perché siamo in anticipo e poi ritorniamo in auto.
La Valle alle due di notte. Il Van Nuys Boulevard era più lungo di quanto avessi mai pensato. Adesso la luna è curva e luccicante e quando infilo la macchina nel parcheggio Skip sembra nervoso e così passiamo davanti al cinema deserto due volte e io continuo a chiedergli perché e lui continua a chiedermi se voglio farlo sul serio e io continuo a dirgli di sì. Jane sta cercando qualcosa nella borsa e Deb sta dicendo “Voglio vedere” e DJ sta cercando di ridere e non appena esco dall’auto e vedo la fila nell’ombra, glielo ripeto per l’ultima volta. Il centro commerciale non è certo la Galleria di Los Angeles, non è neppure un centro commerciale, solo un ferro di cavallo, una curva di negozietti, il cinema, un emporio, una pizzeria, una palestra di karate e molte vetrine vuote oscurate con vernice bianca e vecchi giornali e cartelli stampati che dicono Spazio Commerciale. Su una sedia sdraio davanti al cinema c’è un ragazzino paffuto con un paio di occhiali Vuarnet, che sta leggendo The Face e prende dieci dollari da ogni persona che vuole entrare. Non alza nemmeno gli occhi quando gli passiamo accanto. DJ lo paga e Deb mi prende per mano e siamo dentro e l’ingresso è un corridoio costellato di locandine di film strappate e vetri rotti e scritte con vernice spray e Skip mi indica con un cenno del capo il cartello scritto a mano che dice Club dei Morti. L’atrio della sala sembra una specie di soffitta tanto è buio e ingombro di mobili. Verso il fondo un tizio, forse il direttore, sta passando delle banconote a un paio di poliziotti. Fa un cenno a Skip e fa un cenno a me e ci fa entrare e una ragazza in un angolo mi strizza l’occhio e cerca di sorridere, rossetto bianco e lingua che spunta fra le labbra, e sembra conoscere Skip e gli dice qualcosa che non sento e Skip la manda a farsi fottere con un gesto. Dentro le luci sono forti e i miei occhi ci mettono un po’ ad adattarsi. La sala è affollata ma troviamo un tavolo e cinque sedie e DJ fa la prima ordinazione, quattro birre Corona e un Jack Daniels, liscio, per Deb. L’impianto stereo sta suonando Black Light Trap e lungo il bar c’è una fila di ragazzi che si sforzano di sembrare interessati a tutto fuorché a quello che sta per accadere. Nessuno guarda Jane, la banale Jane. Qualcuno sbircia Deb e altri occhieggiano le ragazze che fumano sigarette al garofano, sedute o in piedi, a gruppetti. Skip mi indica il suo amico Philip, in piedi sul fondo con occhiali scuri e una maglietta nera dei Bauhaus.
Mi alzo dal tavolo e vado al bar e poi esco con Philip e sta piovendo e sento Shriekback che dentro sta cantando che tutti facciamo i nostri errori e arraffo da Philip e poi vado in bagno e chiudo a chiave la porta e mi fisso nello specchio. Qualcuno bussa alla porta e io mollo un calcio al battente e dico “Vai in culo” e stendo tre righe e me le faccio e bevo un po’ d’acqua dal rubinetto e decido che devo andare a tagliarmi i capelli. In sala il caldo sembra quello di un forno e premo la mia Corona contro il viso, contro la fronte. Al tavolo vicino al nostro siede un uomo con gli occhi chiusi cosi stretti che gli escono le lacrime. La ragazza che siede con lui si sta dando una sistemata al cavallo dei jeans Guess e beve un California Cooler e scommetto che avrà sì e no quattordici anni. Quando l’uomo riapre gli occhi, guarda il suo Rolex, poi il palcoscenico e poi la ragazza, e per qualche strana ragione mi sento sollevato. E allora che la musica si abbassa e le luci si smorzano e c’è qualche applauso, sporadico, e la musica riattacca, un brano di Skinny Puppy, e finalmente è l’ora dello spettacolo. Sopra il palco c’è una lunga fila di schermi televisivi e alzando gli occhi vedo che su tutti viene trasmesso un breve clip, più o meno sessanta secondi, da uno dei film che abbiamo visto, una sgranata copia pirata di una copia di una copia di una copia con sottotitoli in qualche lingua straniera, mi pare spagnolo, e gli zombi sono penetrati in un centro commerciale e Skinny Puppy ci sta pestando dentro e la voce del cantante abbaia lugubre come un mastino traumatizzato e inizia un nuovo clip e stavolta si tratta di un posto lungo la costa orientale, lo si capisce dagli alberi, e questo è preso dalla televisione, dai notiziari dell’estate scorsa, prima che smettessero di trasmetterli, prima che venissero emanate le liste, e così adesso questi soldati stanno avanzando in una piccola città e gli edifici bruciano e l’aria è piena di fumo e loro si spostano di casa in casa e buttano giù le porte e sparano all’interno e adesso c’è un mucchio di cadaveri e gli hanno dato fuoco e adesso c’è quella pubblicità, quella specie di annuncio di pubblica utilità o quel che diavolo era, e il Ministro della Sanità sta dicendo che i morti sono vivi, che stanno tornando in vita, ma che noi li stiamo uccidendo di nuovo e che tutto va bene, non ci sono pericoli, e qualcuno mi ha detto che il ministro è morto, che sono morti tutti, e adesso il clip si blocca e ci sono macchie colorate e poi un monoscopio. Skip dice “Ci siamo” e una nuova immagine prende forma e poi arriva questa musica metallica, sul genere filodiffusione, ed è un video, un video casalingo, magari qualcosa girato con una videocamera a mano, e l’immagine è quella di uno scantinato o di un garage, solo pareti
nude di cemento grigio, e dopo circa un minuto delle ombre cominciano a camminare lungo le pareti e finalmente il primo compare in scena. La musica è scomparsa e non c’è altro che silenzio e una specie di ronzio, il nastro sibila, l’immagine si sfoca e si spezza e poi ritorna a fuoco e lei guarda verso l’obiettivo. È fresca, bionda e alta e piuttosto carina, e porta un maglione Benetton e un paio di Levi’s 501 slavati ed è difficile credere che sia morta. “Qui si fa sul serio,” mi dice Skip e poi si gira verso DJ e Jane e Deb e dice “Sul serio.” C’è silenzio nel club, tutto tace all’infuori del nastro sibilante, e sul nastro la ragazza continua a fissare l’obiettivo per un bel pezzo senza che succeda nulla. Il pavimento dietro di lei è coperto di giornali e di sacchi di plastica per spazzatura e c’è un lettino di legno e un tavolo da lavoro nell’angolo e mi domando perché c’è una sega elettrica sul tavolo e sembra calda e allungo una mano verso la mia Corona e la bottiglia è vuota e cerco intorno la cameriera e tutti stanno guardando gli schermi e così lo faccio anch’io. Adesso nell’inquadratura arriva questo tizio con un rotolo di corda e un cappuccio nero in testa e la ragazza lo vede o lo sente e fa per girarsi nella sua direzione e incespica e si vede che ha le gambe bloccate, ha le catene alle caviglie, e adesso c’è un altro tizio con un passamontagna che le arriva da dietro portando una catena e qualcosa che sembra una bardatura, dei finimenti di pelle, e io guardo Deb e Deb guarda me e ora colpiscono la ragazza con la catena e lei cade a terra e quelli la colpiscono ancora e adesso è stretta nella corda e ha quella bardatura sul viso e guardo Deb e Deb si sta toccando e torno a guardare il video e quelli le stanno tagliando i vestiti e adesso tagliano anche lei e guardo Deb e Deb mi guarda e allunga una mano per toccarmi e adesso le annodano la corda intorno al collo e la mano di Deb sale lungo la mia gamba e adesso il primo tizio è sparito e la mano di Deb si muove e adesso è tornato e Deb mi strizza e quello ha un martello e adesso lo vibra una volta e lo vibra due volte e Deb mi strizza più forte e adesso la corda viene fissata al soffitto e qualcuno fra il pubblico dice “Sìììì” e il braccio di Skip circonda Jane e l’attira più vicina e lui dice “Sul serio” e adesso quelli stanno tirando la corda e il nodo si stringe e i piedi della ragazza si sollevano dal pavimento e la mano di Deb si muove e mi strizza e io le dico di rallentare e lei si ferma e mi dice di tenere duro ancora un minuto e io ci provo e guardo ancora lo schermo e adesso hanno tirato fuori una serie di ganci e la mano di Deb riprende a muoversi e i ganci vengono attaccati alle catene e la sua mano si muove più svelta e le catene si tendono e c’è un suono simile a un urlo e più svelta
e la sua testa è piegata all’indietro e più svelta e adesso stanno tirando fuori un vibratore e più svelta e ci stanno piantando dei chiodi e più svelta e più svelta e più svelta adesso hanno un ragazzino, più svelta un ragazzino nudo, e più svelta ora hanno acceso una fiamma ossidrica e più svelta adesso hanno un trapano e più svelta adesso hanno e adesso hanno e adesso e adesso e adesso e adesso l’immagine è sparita e ho il davanti dei pantaloni bagnato e Deb si sporge per allungarmi un tovagliolo. Sono le quattro del mattino e fa freddo e siamo ancora seduti al club e Skip mi sta spulciando fili dal maglione e mi dice che vuole andarsene. La musica del Clan of Xymox sfuma verso la voce di Black e la vita è meravigliosa, canta il solista, è una vita veramente meravigliosa. Jane sta vomitando in un angolo e le luci sono scure e rosse e per un attimo penso che sembra sangue. DJ è voltato da una parte, sta osservando due ragazzini che si baciano nell’ombra oltre il palco e tira lunghe sorsate da un’altra Corona. Deb è fuori sul retro a scopare con un tizio dell’U.S.C, biondo ossigenato e abbronzato e con un maglione bianco di Armani. Skip continua a dirmi che adesso dovremmo andarcene alla svelta. La musica si spegne con un clic ed è fumo e risate e vetri infranti e il suono di Jane che vomita e poi il complesso dal vivo salta sul palco e il gruppo si chiama I 3 ma sono in quattro. Il bassista ha la mano destra rotta e Skip dice “Il bassista ha la mano destra rotta” ed estrae una sigaretta al garofano dal taschino della camicia. Il quartetto chiamato I 3 attacca una versione speed metal di I Am the Walrus, dei Beatles, e Deb mi si para davanti e mi bacia e dice a Skip che lei è pronta e Skip insiste che dobbiamo andare e DJ sta sollevando Jane per un braccio e Jane è ancora piegata in due e io sono incerto se chiederle se si sente bene e i miei occhi incontrano quelli di Skip e lui si muove verso l’uscita e così, in men che non si dica, ce la filiamo. Skip dice che Jimmy ha una videocamera e io guido fino a casa di Jimmy, ma qualcuno si ricorda che Jimmy è morto o è alle Bermude, così guido fino a casa di Toby e ci viene ad aprire questo ragazzino negro con un paio di mutande bianche e un’erezione. Una di quelle lampade con la cera fusa in sospensione ribolle rossastra nel soggiorno alle sue spalle. “Toby è occupato,” dice il ragazzino negro e ci chiude la porta in faccia. Prendo la Hollywood Freeway fino alla Western Avenue ma così non va bene e così scendo fino ad Alvarado ma così non va bene e allora guido fino in centro e prendo un’uscita, un’uscita qualsiasi, e vedo lo Sheraton
Grande e vedo il Bonaventure e vedo l’Arco Tower e penso che sia tempo di correre. Skip dice di fermare ma così non va ancora bene e giro l’angolo e qui finalmente va bene e così fermo e Skip scaraventa Jane fuori dalla portiera e lei cade con la faccia sulla ghiaia e sembra sul punto di rimettersi a vomitare. “Non dovevi farlo,” dice qualcuno, ma non so chi. DJ si raddrizza sul sedile posteriore e toglie il braccio dalle spalle di Deb e si stringe nelle spalle e guarda in giù verso Jane. Skip comincia a ridere e sembra che stia soffocando e accende la radio e c’è il singolo dei New Order e intanto Jane si allontana dall’auto strisciando. Skip sta estraendo qualcosa da sotto la giacca e la sua portiera sbatte e io controllo lo specchietto. Guardo per un istante il riflesso degli occhi di Deb e non dico più una parola. L’auto è ferma in mezzo alla strada, all’imbocco di un vicolo, e ora vedo che è il vicolo del mio sogno, un luogo nascosto, un luogo perfetto, e Jane sta strisciando via dall’auto e Skip cammina verso di lei e se la prende comoda e ha qualcosa in mano, qualcosa di lungo e affilato che scintilla al chiarore dei fari, e l’ombra di Skip si muove sui muri di mattoni del vicolo e io penso che ho già visto questa scena. Adesso Skip le è sopra e io vedo Jane che comincia a dire qualcosa e Skip che scuote il capo come se stesse dicendo no e poi si china su di lei e Jane rimane a guardare mentre lui la taglia una volta, poi di nuovo, e lei rotola sulla schiena e lui le sventola il coltello vicino al viso e lei non batte ciglio, non si muove, e adesso la portiera posteriore sbatte e DJ e Deb sono scesi e avanzano nel vicolo e adesso anch’io sto camminando verso il vicolo e quando arriviamo là Skip ci mostra il coltello, una grossa lama militare, e Jane sanguina dalle braccia e dalle mani e un po’ dal collo e DJ dice “Facciamo come nel film” e Skip dice “Questo è il film.” Poi guarda DJ e guarda Deb e guarda me e guarda Jane e le infila il coltello nello stomaco e il suono è soffice e lei si muove appena e non c’è molto sangue, così lui le infila di nuovo il coltello nello stomaco, poi nella spalla, e stavolta lei sussulta e la sua schiena si inarca e il sangue sale gorgogliante ma non è molto rosso, non è affatto così rosso. Deb dice “Oh” e Skip getta a terra il coltello e Jane rotola sullo stomaco e io penso che stia cominciando a piangere, solo un pochino, e intanto Skip si guarda intorno nel vicolo ma là non c’è nulla, bidoni della spazzatura, cartacce e il guscio carbonizzato di una RX-7, e alla fine trova un mattone e glielo lancia contro e lei si raggomitola come una bambina e DJ raccoglie il mattone e glielo lancia e Deb raccoglie il mattone e glielo lancia e poi è
il mio turno e raccolgo il mattone e glielo lancio e la colpisco alla testa. Per un po’ la prendiamo a calci e poi lei comincia a strisciare e ancora non c’è molto sangue ed è del colore sbagliato, quasi nero mi sembra, e non è molto luccicante e sembra che preferisca gocciolare, non schizzare o roba del genere, e lei è quasi alla fine del vicolo e la strada finisce e c’è un marciapiede e c’è un muro e c’è una luce che scende da qualche parte e lei striscia ancora un po’. Ormai ha la testa nel canale di scolo e Skip guarda DJ e gli dice “Qui si fa sul serio” e poi tira i capelli di Jane e la sua testa si piega all’indietro e ha la bocca aperta e lui la trascina in avanti e poi le preme il viso contro il cordolo del marciapiede e i denti superiori di Jane sono appoggiati al cemento, le labbra tirate indietro in un sorriso e sembra lo stesso sorriso nella foto Polaroid, Jane ha otto anni, e la sua testa rimane sospesa là per i denti superiori e io guardo Skip e guardo DJ e guardo Deb e Deb sta guardando in basso e sorride anche lei e Skip sta dicendo “Sul serio” e appoggia il suo stivaletto alla base della testa di Jane e preme una volta, due volte, e quel sorriso si allarga in un bacio, un bacio a bocca spalancata sull’angolo di cemento, e poi Skip preme con tutto il peso del corpo verso il basso e il suono è diverso da ogni altro suono che io abbia mai udito. Il suono è alla radio. Sto ascoltando la radio e le canzoni si susseguono alle canzoni echeggiando nel vicolo. Sono seduto sul cordolo del marciapiede con Skip e DJ e Deb, e DJ sta fumando un’altra sigaretta e i mozziconi si stanno ammucchiando fra i suoi piedi e ce ne sono già sette o otto e siamo qui da un’ora e sta per fare giorno e abbiamo aspettato ma adesso è ora di andare. “Okay, Jane,” dice Deb e si alza in piedi e pungola Jane con un piede e dice “Dobbiamo andare.” Anche Skip è in piedi e anche DJ e Deb sta guardando il suo Swatch e dice “Alzati,” e poi dice “Adesso puoi alzarti.” Continua a punzecchiare Jane con il piede e Jane non si muove e Skip sta asciugando il coltello e guarda Jane e DJ sta fumando una sigaretta e guarda Jane e io sto solo guardando Jane e poi penso di saperlo. No, adesso lo so. Sono sicuro di saperlo. “Tornerà indietro, non è vero?” dice Deb e intanto guarda Skip e poi guarda DJ e poi guarda me. “Bret?” mi chiede e incrocia le braccia e adesso non sta sorridendo. “Tornerà indietro, no?” dice Deb. “Voglio dire, torneremo indietro tutti, non è vero?” Skip sta mettendo via il coltello e DJ sta finendo la sua sigaretta e io sono in piedi e lei sta dicendo “Non è ve-
ro?” La gente ha paura di vivere per le strade di Los Angeles. È l’ultima cosa che dico mentre mi allontano da Skip e DJ e Deb e torno sull’auto. Non so perché continuo a ripeterla. È una cosa che ho iniziato e che ora non riesco a fermare. Nient’altro sembra avere importanza. Siedo dietro il volante e guardo le spazzole del tergicristallo correre avanti e indietro, avanti e indietro, e la città si appanna, si sfoca, sotto le sottili linee nere. Voglio dire che la gente ha paura. Voglio dire che la gente ha paura di qualcosa e non riesco a ricordare di che cosa e forse non è nulla, forse è un sogno e io sto correndo, inseguo qualcosa e non ricordo che cosa, non ricordo il sogno, e le spazzole corrono avanti e indietro, avanti e indietro. La gente ha paura di qualcosa e nel mio sogno io sto correndo e la radio suona e io cerco di ascoltare ma stanno trasmettendo la canzone che non conosco. Le spazzole corrono avanti e indietro. Le portiere si aprono e si richiudono e poi l’auto si allontana. COME CANI DI PAVLOV Steven R. Boyett [1] “Buongiorno, gaudenti campeggiatori!” strombazza l’altoparlante sulla parete sopra il lettino di Marly Tsung. “È un’altra magnifica giornata in paradiso!” Un campanello comincia a squillare. “Alzatevi e scintillate!” Marly la campeggiatrice insonnolita scivola fuori dalla sua nicchia calda. “Vai a farti scintillare il culo,” borbotta mentre si alza dal pagliericcio e barcolla verso il monitor del computer che troneggia con lo schermo grigio sulla sua scrivania. La parola AGGIORNAMENTO pulsa in mezzo allo schermo; lei la sfiora con la punta di un dito e si dirige verso gli indumenti che si è tolta la sera prima e ha lasciato cadere in un angolo. “Oggi è mercoledì ventinove,” dice la sua voce registrata. “Oggi è il trecentosettantaduesimo giorno operativo di questa stazione.” Marly tira su col naso e fa una smorfia acida al tono giulivo della propria voce di allora. Dio, com’era entusiasta. “Evviva,” dice. “L’integrità strutturale dell’Ecosfera è pari al novantanove virgola cinque per cento,” prosegue spensierata la registrazione, “con segnalazioni di perdite di vapore acqueo dai pannelli sopra il quadrante settentrionale del-
l’ambiente Foresta Pluviale.” “Cristo,” dice Marly, odiando la quotidiana allegria di quella voce. Scivola in un paio di jeans sbiaditi e spiegazzati, infilando poi due sandali da contadino. “Il clima insolitamente mite in questa regione dell’Arizona ha aumentato i venti di convezione provenienti dall’ambiente Deserto, provocando così un aumento dell’umidità nell’ambiente Foresta Pluviale. Si possono ipotizzare piogge nel tardo pomeriggio. I sistemi di azotazione del terreno sono...” Marly infila una maglietta, vede l’etichetta passarle davanti al naso, sfila le braccia e le fa compiere una mezza rotazione. Prima di uscire, si ferma sulla porta e guarda indietro. Il computer sulla scrivania di quercia, biancheria sporca, cassette di musica pop impilate in equilibrio precario, il letto sfatto. Se qualcuno fosse entrato là, qualcuno che conosceva Marly ma non faceva parte della Squadra, sarebbe riuscito a indovinare chi ci viveva? Marly distoglie lo sguardo. La domanda è assurda. Le uniche persone al mondo che conoscono Marly appartengono al personale dell’Ecosfera. Fa richiudere la porta con un comando a voce e percorre lo stretto corridoio verso uno dei due bagni della stazione. TIRATE L’ACQUA DUE VOLTE - LA STRADA È LUNGA PER LA CUCINA ha scribacchiato qualcuno con un pennarello nero sulla parete di fronte a lei. La scritta è là da più di un anno, ormai. In tempi più recenti, diciamo una decina di mesi prima, qualcun altro ha aggiunto più sotto MANGIAMO MERDA. E più in basso, con una specie di ironia profetica, qualcun altro ha aggiunto CI SIAMO GIÀ TUTTI FINO AL COLLO. Marly non ha mai trovato divertenti queste scritte. Fa scorrere l’acqua - una volta sola - e si dirige verso la sala ricreazione e l’inevitabile. I suoi rifiuti si apprestano al riciclaggio e al (pressoché) immangiabile. Quattro degli altri sette membri del personale della stazione sono già in sala ricreazione. Billlostronzo è in piedi sul materassino blu per la lotta. Indossa ancora la sua tuta da ginnastica grigia dell’UCLA. Se gli abiti potessero prendere la lebbra, avrebbero l’aspetto di quella tuta. Intorno al collo porta un fischietto d’argento attaccato a un laccio di pelle. Marly si concede il suo solito pensiero del mattino, chiedendosi che effetto farebbe
strangolare Billlostronzo con quella cinghia. Immagina il suo viso severo farsi di porpora, i suoi occhi da rettile che si appannano. Osservando i suoi occhi color stagnola che fissano la porta, Marly inventa la legge di Tsung: La più grossa testa di cazzo e la persona in comando di solito si possono abbattere con la stessa pallottola. Grace la pallida siede tristemente a un tavolo da gioco con la spina staccata, tamburellando con le unghie sul ripiano di vetro scuro. Marly scrolla il capo. Dopo un anno, Grace sembra ancora una persona alla disperata ricerca di una sigaretta. Lei si accorge che Marly la osserva e china il capo con un sorriso storto. Marly pensa di restare a fissarla fino a farla diventare ancora più matta, ma a cosa servirebbe? Afflosciato contro il saccone nell’angolo come un maratoneta spompato c’è Dieter. Le sorride insonnolito e si gratta la folta barba castana. “Fammi crescere del caffè,” le dice col suo gradevole ringhio da rottweiler, “e ti sturerò le tubature per tutto l’anno prossimo.” Lei sorride e scuote la testa. “Niente chicchi,” ribatte. È diventato il loro rito del mattino. Dieter sa cosa significa in realtà quella scrollata di testa: lui le ha già sturato abbastanza le tubature, tante grazie. Seduta a piedi nudi nella posizione del loto sul tavolino pieghevole per giocare a carte c’è la piccola Bonnie testarossa. Fa un sorriso caloroso a Marly, cercando di farle intuire il legame spirituale che secondo lei dovrebbe esistere fra loro, poiché Bonnie si interessa di metafisica e Marly è cinese. Marly si sforza di apparire imperscrutabile. Entrano Deke e Haiffa, una coppia male assortita: lui massiccio e lei sottile; lui villoso e lei liscia; lui un texano divoratore di manzo del tipo vecchio-mio-non-sparare-finché-non-vedi-il-nero-della-loro-pelle e lei una vegetariana nata in Israele ed educata a Oxford. Naturalmente sono innamorati. Marly li degna di un’occhiata di sfuggita mentre le passano accanto tenendosi per mano come bambini e vanno a sedersi sul divano ad aria compressa; Deke e Haiffa le restituiscono la cortesia. Sono diventati Yin e Yang, una unità per conto loro, all’esterno della quale esiste l’intero resto del mondo. Un’ulteriore prova, se necessario, che esiste davvero l’amore circostanziale, l’amore in un determinato contesto, l’amore in scatola. L’ultimo a entrare è Leonard Willard. Leonard è il membro più giovane della Squadra, sempre incline a compensare la propria inesperienza con un’ansia infantile di compiacere tutti. Ma trascurando il fatto che Leonard avrebbe potuto essere uno dei Moschettieri originali, Marly considera il
suo permanente buon umore un indizio della profondità del pozzo senza fine della sua volontà di illudersi. La stazione Ecosfera è il suo mondo; tutto quello che si trova oltre le sue pareti stagne è... un film che lui ha visto una volta sola. In bianco e nero. A tarda ora. Quando era ancora bambino. E che quindi lui non ricorda molto bene. Com’era prevedibile, Billlostronzo suona il suo fischietto non appena è entrata l’ultima persona. “Okay, truppa,” dice. “Serrate le file.” Gli piace chiamare “truppa” i membri della Squadra. Adesso porterebbe ancora i suoi occhiali a specchio da aviatore, se Marly non li avesse gettati nell’Oceano. Lei si mette in fila con gli altri sulla stuoia per iniziare gli esercizi di ginnastica ritmica. O, come li chiama Billlostronzo, i loro “esercizi di aerobica cardiovascolare”. [2] Pisellina sputa la gomma sulla moquette grigia a pelo raso. “Non sa di niente,” spiega. Marmittone scoppia a ridere. Senza camicia, la sua pancia pelosa sussulta. “Dove speri di trovarne un’altra, bimba?” (“Nostromo?” qualcuno chiama dai reparti del piano superiore. “Quel maledetto stronzo... Nostromo!”) Pisellina alza le spalle e volta il culo a Marmittone. Va a raggiungere un gruppetto radunato dietro uno degli scaffali più alti. 0900: Storia Americana. Uno del gruppo sfila un libro da uno scaffale e lo lancia dietro l’angolo, poi fa un gesto sconcio a qualcuno che Marmittone non è in grado di vedere. La mano viene ritirata in fretta mentre da Ingegneria parte una bordata di risposta. Il libro rimbalza sul pavimento e si ferma aperto come un pipistrello stanco vicino al piede sinistro di Marmittone. Tabelle comparate di resistenza delle leghe alla trazione. Marmittone non tenta neppure di interpretare il titolo, ma si piega, raccoglie il libro e stacca la gomma di Pisellina dalla pagina con un grafico a cui è rimasta attaccata. Accosta le dita alle labbra screpolate e soffia, poi le infila in bocca, le tira fuori e le asciuga sui jeans scuciti dovunque tranne che intorno ai passanti della cintura. “Stupida puttana,” dice, e mastica. Un sonoro ceffone dal piano superiore. Marmittone alza gli occhi e vede quello spilungone di Tex scaraventato contro un alto scaffale. Lo scaffale si inclina ma non cade. I libri, invece sì.
“Perché cazzo urli, amico?” Nostromo incombe sopra il corpo magro di Tex, che ha portato una mano alla guancia arrossata. Nostromo rimane là fermo un istante, fissando Tex ai suoi piedi con le mani piantate sui fianchi, poi si china e aiuta Tex a rialzarsi. Lo spolvera e gli batte su una spalla. “Senti, mi dispiace averti colpito,” dice, “però devi piantarla di continuare a urlare, capito?” “Certo,” dice Tex. La sua mano si stacca dalla guancia infiammata e lui si guarda il palmo (controlla se c’è sangue? si domanda Marmittone). “Certo. Però, insomma, cioè mi chiedevo... Voglio dire...” Guarda gli scaffali della biblioteca che lo circondano. “Cos’è che ci possiamo trovare qui dentro?” Nostromo aggrotta la fronte. Si guarda intorno. Una mano stiracchia il viso di Topolino che gli penzola dall’orecchio destro. Torna a fissare Tex con un sorriso storto. “Libri,” dice. Marmittone trova spassosa la battuta e quasi ingoia la sua gomma. “Che cos’hai da ridere?” dice la voce dall’alto. Marmittone scuote semplicemente il capo. Anche Nostromo scuote il capo, ma per motivi completamente diversi. “Cazzo,” dice. “Un tempo io frequentavo questo istituto.” Scende le scale con due libri rilegati sotto un braccio. “L’università dell’Arizona,” borbotta. Marmittone inclina la testa per vedere i titoli; Nostromo glieli da tutti e due. Marmittone li solleva, uno per ogni mano, all’altezza del viso. Le sue labbra si muovono in silenzio. Sulla fronte gli spuntano alcune rughe. Nostromo picchia con un dito sul libro nella mano sinistra di Marmittone. “Principi di modifica del comportamento” dice. Poi picchia su quello più grosso nella destra di Marmittone. “Radiazioni e danni ai tessuti cerebrali”. Allaccia le mani dietro la schiena e oscilla avanti e indietro, raggiante. “Dai un esame?” Nostromo scrolla la testa. “No. Lo danno le testemorte. Credo di poterle addestrare a cercare cibo per noi. Cibo vero.” Marmittone fa un rumore simile a una scoreggia. “Merda. Non ci riusciamo noi a trovare del cibo vero. Come ti aspetti che possano farcela loro?” “Il nome Pavlov non ti dice nulla?” “No.”
Nostromo sospira. “A volte mi chiedo perché continuo a restare con delle mezzeseghe come voi,” dice. Marmittone impila i libri. “Ma come speri di...” “Dio ti spacchi, negro!” Si voltano entrambi all’urlo proveniente da Ingegneria. “Mi hai fatto male, pezzo di merda!” “E allora perché non ti sei spostato?” ribatte Storia Americana. “Quello che hai tirato a me l’ultima...” Urla, qualcosa di pesante scagliato contro una parete, uno scaffale rovesciato addosso a un altro scaffale, suoni di mischia e strilli di incoraggiamento mentre Storia Americana e Ingegneria cominciano a darsele come forsennati. Nostromo si avvicina per calmare le acque. Se la prende comoda, in primo luogo chiedendosi chi diavolo glielo faccia fare. Sarebbe meglio permettere che l’evoluzione segua il suo corso. Be’, ormai lui è sul posto; tanto vale che faccia qualcosa per dividerli. Sono Focaccia e Jimmy. C’era da immaginarlo. Focaccia sta avendo la meglio, naturalmente, e con due o tre pugni ha già conciato a dovere la faccia di Jimmy. I ragazzi bianchi non hanno mai saputo lottare. Si sporge in avanti per agguantare il braccio color mogano di Focaccia mentre il suo pugno si solleva, ma qualcosa lo blocca. Intorno a loro (“Vuoi lasciarti pestare come un sacco di patate da quel negro, amico?”) sono sparsi parecchi giornali. Ce n’è uno con i fogli aperti come un mazzo di carte steso a ventaglio (“Spaccagli il culo! Dai! Dai!”) e la pagina superiore mostra le notizie locali. Il tonfo sordo di un pugno solido contro carne più molle. Nostromo si china per raccogliere il giornale. (“Ehi, Focaccia, vacci piano. Andiamo, amico...”) ‘Stazione Si inaugura (“Questo stronzo mi ha beccato in testa con un libro. U« libro grosso, pezzo di merda!”) Nostromo gira pagina. Spaziale’ una nuova era
Spiega per bene la pagina doppia. (“Ah! Negro fottuto! Ti ammazzo, figlio di...”) ‘Stazione Spaziale’ Si inaugura una nuova era Nostromo aggrotta la fronte. L’articolo è accompagnato da un disegno a colori. “Adesso finitela,” dice con calma Nostromo, e la rissa termina. (Tucson) - Lunedì mattina, sotto una tenda novanta chilometri a nordovest di Tucson, si è svolta la cerimonia ufficiale che ha accompagnato l’inizio dei lavori per la costruzione di Ecosfera, un ambiente autonomo in tutto simile a una minuscola Terra che può dimostrarsi un passo d’importanza vitale nell’eventuale colonizzazione di altri pianeti da parte del genere umano. Con un costo preventivato di “soli” 30 milioni di dollari, stando alle dichiarazioni del direttore del progetto, il professor William Newhall della facoltà di Scienze dell’Ecologia dell’Università dell’Arizona, Ecosfera risulterà una stazione ecologica di oltre 140.000 metri cubi completamente autosufficiente. La stazione ospiterà cinque ambienti separati, consistenti in una foresta pluviale tropicale, una savana, una zona paludosa, un deserto e un “oceano” completo di pesci con 190.000 litri di acqua salata. Vi saranno inoltre alloggi per il personale di Ecosfera, laboratori scientifici, bestiame e un reparto agricolo, il tutto sistemato su un’area di due acri coperti da “pannelli-finestre” controllati da computer che regoleranno la quantità di luce solare ricevuta. Anche l’energia elettrica di Ecosfera giungerà dal sole, grazie a batterie di cellule solari. “Ecosfera sarà una specie di modello in scala ridotta del nostro pianeta,” ha spiegato la responsabile del settore botanico Marly Tsung. “Avremo un po’ di tutto,” il che significa diverse migliaia di tipi di alberi, piante, animali, pesci, uccelli, insetti e perfino diversi tipi di terreno. Se tutto andrà come previsto, dopo che Ecosfera sarà stata costruita e rifornita, otto “Ecosferiani” saluteranno il mondo esterno e varcheranno l’ingresso a tenuta stagna della stazione, e resteranno a lavorare in questo modello ridotto della Terra per due anni. Progettato per riprodurre e mantenere il delicato equilibrio dell’ecosistema terrestre in mezzo a un ambiente ostile - al momento attuale il deserto dell’Arizona, ma probabilmente Marte verso la fine del secolo - Ecosfera servirà anche come esperimento per verificare in quali condi-
zioni i futuri coloni interplanetari potranno lavorare insieme in uno spazio ristretto per lunghi periodi di tempo. Tuttavia, Grace Havland, la psicoioga della squadra, non prevede alcun problema. “Siamo tutte persone motivate, dotate di spirito d’iniziativa e abituate a risolvere ogni genere di problema,” ci ha detto. “Ma siamo anche notevolmente diverse l’una dall’altra, con interessi estremamente vari. Credo che questo servirà. Oltre al fatto, naturalmente, che la stazione stessa fornirà una quantità enorme di stimoli.” Quali imprevisti potrebbero insorgere? In primo luogo, il delicato ambiente di Ecosfera potrebbe subire un (continua a pagina 16D) “Questo me lo ricordo,” dice Nostromo, mentre gli altri si radunano tutt’intorno per vedere cos’è a interessarlo tanto. Jimmy si tampona il viso con la maglietta bianca a brandelli. “Hanno cominciato a costruirlo quando andavo ancora a scuola.” Rintraccia la pagina 16D. “Hanno intervistato un gruppo di quegli stronzi prima che andassero a viverci dentro. E c’era quella ragazza cinese con gli occhi azzurri.” Il ricordo gli strappa un fischio di apprezzamento e poi abbassa il giornale. Di colpo aggrotta la fronte e allunga il giornale a Florida, che dà una breve occhiata all’articolo e studia il disegno in sezione dell’Ecosfera (che non è affatto una sfera). Le sopracciglia scure di Florida si incurvano verso l’attaccatura dei capelli. Con una mano dalle dita grosse come wurstel e piene di anelli con teschi si gratta sotto il logoro giubbotto da cacciatore in pelle. Poi passa il giornale agli altri e si gratta la nuca sotto la fascia elastica rossa che gli trattiene la lunga coda di cavallo. Ed, detto Cervello, sbircia l’articolo come se non fosse a fuoco. Mentre legge muove le labbra, poi guarda Nostromo con occhi cisposi. “Così hanno costruito una specie di stazione spaziale in mezzo a quel fottuto deserto. E a noi che cazzo ce ne frega?” “Almeno adesso sai perché nessuno ti manda mai all’alimentari a fare la spesa da solo,” dice Nostromo. “Non riconosceresti un’opportunità neanche se ti facesse un clistere di panna montata.” Ed si stropiccia la barba arruffata. “Dacci un taglio, furbastro. Cosa c’entriamo noi?” Nostromo scrolla il capo. “Per te è ancora un mistero grosso come una casa, eh?” Guarda gli altri del gruppo. “Gesù,” dice, e si riprende il giornale prima di lasciarli.
“Ma che diavolo gli è preso?” Focaccia si strofina le nocche sbucciate con due dita dalle unghie spezzate. Florida incrocia i suoi bicipiti alla Braccio di Ferro, sembrando così due volte più grosso di quello che è già. “Quella stazione spaziale può tirare avanti per anni senza ricevere nessun aiuto dall’esterno,” dice con la sua voce da baritono sorprendentemente melodiosa. Si toglie l’orecchino d’argento e si massaggia il lobo. “Controllano il loro ambiente. Coltivano il loro cibo. Allevano il loro bestiame. Adesso capite?” Le sue braccia si distesero. “Mele. Arance. Polli. Uova. Bacon.” “Oh, fratello...” geme qualcuno dietro Jimmy. “Ah, ormai quei furbastri saranno stecchiti,” dice Ed detto Cervello. “Erba,” aggiunge Florida. Ed detto Cervello raddrizza la schiena. “Canne? Ehi, Florida, amico, non mi prenderesti mai per il culo, vero... ?” “Come sappiamo che sono ancora là?” domanda Focaccia. “A quest’ora può darsi che se ne vadano in giro morti come tutti gli altri.” Florida sorride e si rimette l’orecchino. “Non lo sappiamo,” dice. Lancia un’occhiata a Nostromo e inarca un sopracciglio. “Non ancora.” “Marmittone. Ehi, Marmittone!” Marmittone si volta con un dito ancora nel naso. “Ciao, Nostromo,” dice con voce mite. Rigira il dito, lo tira fuori... “Abbiamo ancora quel bambolino?” ...e se lo infila in bocca. Lo estrae schioccando le labbra e si stringe nelle spalle. “Non lo so. Può darsi. Vuoi andare allo zoo a vedere?” Dietro la grata antiuragano all’angolo fra Scienze Ottiche e Fisica: Nostromo e Marmittone scrutano intorno. “Non lo vedo,” dice Nostromo. “Se lo saranno mangiato?” “Noo. Non lo fanno, di solito. In qualche modo riconoscono la differenza.” Picchia sulla grata con entrambe le mani. Figure vacillanti si girano. “Ehi,” urla Marmittone. “Ehi, teste di cazzo stecchite!” Picchia più forte. “Però,” aggiunge con tono più cordiale, tenendo d’occhio la loro rigida avanzata, “magari lo hanno fatto a pezzi. Sono piuttosto stupidi a volte.” Mentre quelli si avvicinano strascicando i piedi, improvvisamente Nostromo comincia a ridacchiare. Si china in avanti e spalanca la bocca, come se gli avessero mollato un calcio nello stomaco. La risatina si allarga e
diventa una risata fragorosa. Non riesce a controllarla. Alla fine si asciuga un occhio con un avambraccio nudo dove è tatuata un’ancora, dicendo “Oh, merda...” in tono quasi doloroso, e poi si asciuga l’altro occhio con l’altro avambraccio. “Oh, Gesù. Chi ha avuto questa idea?” Marmittone sogghigna e si passa il palmo di una mano sulla barbetta bionda e rada. “Ti piace?” La mano si abbassa e si uncina con il pollice alla tasca anteriore dei suoi Levi’s. “Florida ha trovato un negozio di magliette nel centro commerciale di Westside. Ne ha portate qui un vagone. E un gruppo di noi ha tirato fuori le testemorte dallo zoo, una per volta, e gliele abbiamo infilate.” Nostromo scuote il capo sbalordito. Una piccola vecchietta raggiunge la grata per prima. Le manca un pezzo di naso, e quel che rimane sventola contro una guancia avvizzita e grigioazzurra al ritmo con la sua andatura da sonnambula. Va a sbattere con la faccia contro la grata, poi fa un passo indietro con un’espressione vagamente sorpresa che svanisce quasi subito. Intorno alla parte superiore del corpo le penzola una maglietta azzurra sformata e larga in modo ridicolo, con la scritta STO CON UNO STUPIDO e una freccia che indica verso la sua sinistra. Nostromo ricomincia a ridere. Anche Marmittone ride, adesso. La vecchietta viene raggiunta da un portoricano enorme con la muscolatura di un culturista. La sua pelle è colore del muschio. Sopra un orecchio, dove un brandello di scalpo è stato strappato, si vede una striscia di osso. Le braccia e il torace del portoricano sembrano gonfiati a dismisura. Indossa una stretta camiciola rossa per donne incinte. Centrata sui suoi pettorali ipertrofici c’è una scritta e una freccia: BIMBO ↓ Le testemorte fanno deboli rumori piagnucolosi mentre si sporgono come cuccioli tristi verso Nostromo e Marmittone, fissando poi la grata che blocca le loro mani come se fosse una specie di oggetto miracoloso che è apparso in modo inspiegabile davanti a loro. Adesso sono una ventina raccolti intorno alla grata, con le dita scarlatte che frugano attraverso le maglie larghe. “Niente Bambolino,” dice Marmittone. “E in ogni caso non ce la farebbe ad arrivare fin qui. Non sa ancora camminare.” “Camminare?” Nostromo aggrotta la fronte. “Probabilmente non impa-
rerà mai.” Mentre parla fissa quei volti famelici da annegati. “Chissà se invecchiano?” Marmittone strizza gli occhi. “Bambolino non può essere stato così fin dall’inizio. Magari è nato dopo che tutto è finito in merda, poi è morto ed è diventato uno di loro.” “D’accordo, ma... come facciamo a saperlo? Invecchiano con il passare del tempo?” Fa un cenno con il capo verso la grata. “Una testamorta può morire di vecchiaia?” Marmittone alza le spalle. “Un giorno o l’altro lo scopriremo,” dice. Nostromo stacca lo sguardo dalla grata. “Sei un ottimista o che altro?” Marmittone si accontenta di sbuffare. “Chi è quello tutto solo là dietro?” Nostromo lo indica. “Non si muove come una testamorta.” “Chi? Oh, Jo-Jo? Già, è piuttosto strano, vero? Un autentico Albert Einstein del cazzo... per un testamorta, voglio dire. Svelto, eh?” La figura appartata si volta verso di loro. Indossa una maglietta marrone con lettere bianche che dicono È MORTO, JIM. Le pieghe sulla fronte di Nostromo si fanno più profonde. “Ci sta guardando.” “Lo fanno tutti, amico. Per loro noi siamo come quelle grosse bistecche ambulanti dei vecchi cartoni animati.” “No, voglio dire che...” Aguzza lo sguardo. “Su quel viso c’è ancora qualcosa. La sua tabula non è del tutto rasa.” “Boh, sarà come dici. Sta a guardare...” Marmittone lascia la grata e va a una rastrelliera di plastica bianca. Prende fuori un dischetto che scintilla con i colori dell’arcobaleno. “CD,” dice sogghignando, e lo solleva in aria. “Michael Jackson. Thriller.” Nell’altra mano stringe una pietra. Si sposta sulla sinistra del nugolo di testemorte che ancora annaspano vagamente verso di loro. Lancia un’occhiata a Nostromo e sposta il compact disk in modo che rifletta la luce del sole. “Jo-Jo,” chiama. “Ehi... Jo-Jo!” Fa un salto (è leggero sui piedi, nonostante la pancia, pensa Nostromo) e scaglia la pietra. “Jo-Jo!” fame me jojo chiamano jojo e lanciano senza male solo mangiare e io con muovere loro a jojo dalla loro carne bocche io allungo fame con luce di caldo sopra con luccichio fuori la grata gli altri-fame afferrare e tirare
ma luccichio fuori sollevano la cosa luccicante e avanti io nella grata afferro contro preme in mia faccia e alzo mani fame non a cosa luccicante ma a mano che tiene in fame jojo dicono e io mangerò “Quello,” dichiara Nostromo, osservando la testamorta lanciare da una mano all’altra la pietra che ha afferrato al volo, “è più furbo di una normale testamorta.” Marmittone annuisce. “Un fottuto primo della classe, Jo-Jo.” [3] Bill rimane in sala ricreazione quando gli altri escono, inzuppati di sudore per i loro esercizi di aerobica cardiovascolare. Si disperderanno per andare a occuparsi dei diversi lavori che li attendono ogni giorno; mantenere in efficienza l’Ecosfera è un’occupazione a tempo pieno per otto persone. E mantenere quelle otto persone in forma e ricettive alle necessità della stazione ecologica, irrobustire il loro esprit de corps, aiutarle a comprendere fino in fondo le loro responsabilità verso coloro che hanno investito nella stazione, verso la scienza - anzi, verso l’intera razza umana - è un fardello gravoso. Ecco perché Bill è lieto di essere lui a doversene occupare... perché solo lui, fra quelle otto persone, possiede la disciplina e le capacità organizzative, le qualità del comando, indispensabili a mantenerle tutte e otto funzionanti come una singola unità. E, come unità, sapranno tenere duro. Bill vede se stesso come il capitano di una scialuppa di salvataggio, capace di costringere gli altri a dividere le loro fatiche e le razioni, a volte estremo nella sua severità e disciplina. Ma quando arriveranno i soccorsi, ringrazieranno tutti Bill per aver guidato con polso fermo la loro piccola nave. Sì, tutti quanti. Va a un armadietto e ne toglie un fioretto da scherma. Saggia l’impugnatura, si mette in posizione e solleva mollemente la mano sinistra sopra e dietro il capo. En garde. Lama en quarte. Blocco, parata, replica. Affondo, hah! Lui è D’Artagnan. Il vino della vita del suo avversario zampilla sulla stuoia. Touché. I maiali nel loro piccolo porcile vicino all’angolo formato dall’habitat umano e dal reparto agricolo sono affidati a Grace. Fra tutti i lavori ingrati nella stazione che deve sobbarcarsi (anche se non rientrano nei suoi compiti), la psicoioga del gruppo trova il lavoro con i maiali quasi gradevole, e
certo assai meno fastidioso del lavoro con la Squadra. Grace è una comportamentista, e una comportamentista si troverà sempre meglio a lavorare con maiali piuttosto che con esseri umani. I maiali nel loro porcile simile a una semplice scatola di Skinner sono più facili da controllare e dirigere di quegli altri maiali eretti nella loro porcilaia tanto più grande e labirintica. Il terreno intorno a lei si oscura e Grace solleva gli occhi verso una nuvola che sta passando davanti al sole, distorta dai pannelli di vetro triangolari sopra la sua testa. Si chiede svogliatamente quanto tempo è passato dall’ultima volta che è uscita dalla stazione. Poi si stringe nelle spalle. Che differenza fa? Si china per dare un buffetto sulla testa rotonda di Bacon. Ha battezzato i maiali in modo che i nomi le rammentino la loro funzione primaria, per evitare di legarsi troppo emotivamente a loro: Bacon, Cotenna, Braciola, Hot Dog, Salsiccia e Prosciutto. I maiali sono splendidi: non solo tengono sgombro il quarto di acro di terreno riservato alla coltivazione delle verdure e nel frattempo lo fertilizzano, ma sono anche animali straordinariamente socievoli, affettuosi e intelligenti. Tutte cose che una qualsiasi ragazza di campagna sa benissimo... ma Grace ha consacrato la sua vita alla faticosa scienza di manipolare gli esseri umani, e solo di recente è diventata un’estimatrice dell’ammirevole maiale. Se solo la Squadra fosse altrettanto facile da controllare. Umilmente Grace cerca di dire a se stessa che sta solo facendo il suo lavoro, ma la verità sacrosanta è che se non avessero avuto qualcuno come lei a mantenerli psicologicamente stabili per tutto questo tempo, Dio solo sa se sarebbero riusciti a durare così tanto. Pensa agli altri membri della Squadra uno alla volta, mentre Braciola e Salsiccia si strusciano contro le sue caviglie. Grace conserva una scheda personale per ognuno di loro e l’aggiorna quotidianamente con le sue osservazioni e impressioni ricavate dalle sedute insieme. Fortunatamente le sedute sono diminuite per numero e per importanza, una misura del tutto naturale dal momento che tutti sono così equilibrati mentalmente. Così dannatamente equilibrati. Così enormemente adattati. Braciola squittisce, e Grace si accorge che stava strizzandogli a tutta forza un suo povero orecchio. Lo lascia andare e gli accarezza la testa massiccia. “Su, su,” dice. “Su, su.” Ripensa al libro che scriverà quando tutto sarà finito. Venderà bene. Finirà nella lista dei titoli più venduti. Impugnando una penna immaginaria, si esercita a scrivere il proprio nome.
Bonnie non è lontana da Grace. Sta lavorando, senza camicia sotto il sole del primo mattino, inginocchiata fra le tre alte file di piante di granturco. Il reparto agricolo è simile al tabellone colorato di un gioco per bambini, con riquadri destinati a granturco, patate, fagioli, piselli, zucchine, carote e pomodori. Bonnie vorrebbe coltivare delle angurie, ma richiederebbero troppa acqua per essere giustificabili ecologicamente. Se non altro c’è il piccolo frutteto vicino alla parete, laggiù... proprio accanto alle verdure, con mele, arance e limoni. Il terreno è il più ricco possibile, essendo stato prelevato in origine da ogni angolo degli Stati Uniti. Ma quel posto è ancora negli Stati Uniti? si domanda Bonnie. Di sicuro deve essere da qualche parte. Ritorna al suo lavoro, esaminando i fusti e scostando i lembi dei cartocci per controllare se vi sono insetti. Negli stretti corridoi di comunicazione fra il reparto agricolo e gli Ambienti esistono diverse porte isolanti, ma gli insetti riescono sempre a intrufolarsi. Nonostante le sue potenzialità produttive l’Ecosfera non è mai molto lontana dalla morte per inedia, e anche la perdita di un solo raccolto a causa degli insetti potrebbe essere... be’, meglio non pensarci. A Bonnie piace lavorare con le piante. Non nello stesso modo in cui se ne occupa Marly - quel suo modo sterile, calibrato, scientifico - ma in una specie di modo... olistico. In modo quasi organico. Sì, è giusto: organico. Quella parola la fa sorridere. Bonnie sente un legame con le piante, con l’interconnessione che esiste fra tutte le creature viventi. Le piace sentire il calore del sole sulla pelle nuda, lentigginosa, perché questo le ricorda l’ironica combinazione di ciò che al tempo stesso la rende speciale e insignificante. Il sole è una palla indifferente di gas in fiamme lontana quasi centoquaranta milioni di chilometri, eppure senza il sole non potrebbe esistere la vita. “Siamo tutti fatti della medesima materia delle stelle,” era solito dire Carl Sagan. Ebbene, Bonnie sente quella materia nelle cellule del suo stesso corpo. Canta lungo le catene intrecciate del suo DNA. Non sente certo la mancanza del sesso. Il sesso non le serve. Lei non pensa nemmeno più al sesso. Si mette seduta e chiude gli occhi. Respira profondamente. Om mani padme om. Chi ha bisogno del sesso quando esiste tanta passione in un atto così semplice della vita come il respiro? Scopre un insetto in un cartoccio e lo schiaccia fra il pollice e l’indice.
Leonard Willard raccoglie la merda di tutti ogni giorno. La mette in fiale e l’etichetta e la cataloga; l’analizza e registra i risultati. Si occupa del funzionamento e della manutenzione dell’impianto di riciclaggio dei rifiuti e dei sistemi di filtraggio biologici e meccanici. È un lavoro sporco, ma qualcuno deve farlo. Se nessuno lo facesse, l’Ecosfera non funzionerebbe. A Leonard piace considerarsi l’anello vitale nella catena alimentare della stazione. Il filtraggio è la sua vita. L’Ecosfera gli fornisce numerose opportunità di sentirsi realizzato: esistono sistemi di filtri nella loro rete fognaria, nelle unità per l’eliminazione dei rifiuti, negli impianti per il riciclaggio dell’acqua; ci sono impianti di desalinizzazione fra l’Oceano e le paludi di acqua dolce; ci sono impianti di filtraggio dell’aria, e l’aria viene inoltre ripulita pompandola sotto l’Ecosfera e lasciandola filtrare attraverso il terreno in parecchie zone. Leonard ama purificare le cose. Prendere una cosa inutilizzabile nel suo stato attuale e, facendola passare attraverso tamponi e barriere e filtri, distillare qualcosa di utile e necessario... questo lo fa sentire utile. Necessario. La Squadra non potrebbe respirare senza di lui. Non potrebbe bere senza di lui. Senza Leonard, la Squadra non potrebbe neppure permettersi una salutare cacata. Senza Leonard, tutta la loro merda non servirebbe a nulla. Leonard soffre del morbo di Hodgkin, una forma di cancro al sistema linfatico. Anni fa la radioterapia gli ha provocato la caduta di tutti i capelli e ha stabilizzato abbastanza le sue condizioni per consentirgli di ricorrere alla chemioterapia, che è servita solo a instupidirlo e a farlo sentire spaventosamente male per due giorni ogni mese. Ha cominciato a riacquistare peso e i capelli gli sono ricresciuti, ancora più folti di prima, e i medici sono stati incoraggiati a pensare che la sua condizione si fosse stabilizzata. In qualche modo il suo corpo aveva imparato a vivere con la malattia. Oppure, da una prospettiva diversa, lui pensa (infilando una mano guantata in una condotta dell’acqua per estrarne quello che sembra un filtro sporco del condizionamento d’aria) che la malattia ha permesso al suo corpo di vivere. In modo da poter continuare ad alimentarsi. Ecco perché Leonard si preoccupa raramente per le creature che infestano l’Esterno, quelle cose che Bill ha etichettato carnitrofi. Non se ne preoccupa perché il suo corpo è già divorato dall’interno. O, per dirla in puro stile alla Leonard, c’è della merda nel suo sangue, e lui non riesce a filtrarla fuori. Scuote il filtro bagnato su un foglio di plastica. Ne cadono spessi filamenti neri. Leonard pulisce il filtro con un getto di aria compressa, lo ri-
mette nella condotta, poi chiude con un nodo i lembi del foglio di plastica. Camminando con il suo sacchetto gocciolante verso il laboratorio, Leonard pensa che ormai non esiste più un altro posto sulla Terra dove lui potrebbe svolgere il suo lavoro. Leonard sente di essere il membro più realistico dell’intera Squadra... e di sapere come vanno veramente le cose oltre le pareti del loro piccolo ambiente artificiale. Pur collaborando a conservare la stazione, e pertanto l’illusione che la stazione rappresenta, capisce intuitivamente che i suoi motivi per trovarsi lì sono del tutto differenti dai loro. Gli altri conservano l’Ecosfera come un rifiuto di ciò che è cambiato all’Esterno. Lui la conserva come una trionfale affermazione della stessa cosa. Come sopra, così sotto. Nessuno degli altri, essendo fisicamente sani, può apprezzare questo. Di conseguenza nessuno degli altri può apprezzare Leonard in modo adeguato. Ma lui continua a ostentare una parvenza di allegria. Per lui è importante farlo. In laboratorio apre il foglio di plastica e tira un profondo respiro. Questa è la materia della vita, e non lasciate che qualcuno venga a dirvi il contrario. Deke e Haiffa stanno scopando sulla spiaggia lunga nove metri. Deke e Haiffa stanno sempre scopando da qualche parte. “Oh, guarda,” dice Haiffa. Indica con una mano, e il loro ritmo si interrompe. Sotto di lei, Deke gira la testa per guardare verso l’acqua, insensibile alla sabbia che si infila fra i suoi capelli tagliati a spazzola. “Non vedo niente,” dice. “Un pesce,” dice lei. Poi gli mette le mani sul petto e ricomincia. “Venerdì: pesce,” dice lui. “Magari riesco a prenderlo. Oggi che giorno è?” “Non lo so.” L’accento di Haiffa, che un tempo lo affascinava, adesso gli riesce invisibile. “Mercoledì.” “Il giorno in cui può succedere di tutto,” dice lui, e inarca la schiena mentre comincia a venire. Sul tetto sopra di loro, Dieter il biologo marino osserva attraverso il vetro. A volte per lui l’Ecosfera è un gigantesco acquario. Osserva Deke e Haiffa privo dell’ottica del guardone, spinto solo dal desiderio di alleviare la noia. Durante i primi mesi chiunque andava con chiunque in svariate combinazioni, poi si erano formate alcune coppie che in breve si erano dissolte, vuoi per attrito o per entropia, e adesso tutti costituivano più o meno
altrettanti singoli ambienti isolati. In questo erano simili alla meraviglia scientifica nella quale vivevano, ma che nessuno chiamava casa. Dieter dovrebbe essere lassù a pulire i pannelli solari. La polvere del deserto dell’Arizona si accumula sul tetto di vetro e alluminio dell’Ecosfera, e quando è troppo spessa sulle cellule solari l’alimentazione elettrica della stazione diminuisce. Ma i pannelli solari sono tanti, ed è una calda giornata di luglio nel deserto dell’Arizona. Dieter fa pause frequenti per bere qualche sorso d’acqua. Là sotto Deke e Haiffa sembrano aver finito, e lui distoglie lo sguardo. Si alza con le mani sui fianchi, voltandosi per contemplare la curva e luccicante geometria di vetro e alluminio che è la stazione. L’Ecosfera è stata costruita nel fianco di una piccola collina; la foresta pluviale nella parte superiore è sollevata di dodici metri rispetto al deserto sottostante, che dista inoltre un paio di centinaia di metri. L’aria rovente si solleva dal deserto e sale verso la parte alta della collina; nella foresta pluviale i condensatori raffreddano l’aria e separano l’umidità. Ci sono vere e proprie piogge nella loro piccola foresta. Dieter guarda la piramide azteca di vetro e alluminio che ricopre la foresta pluviale. Cosa si proverebbe, si domanda, a saltare dalla cima? Un senso di libertà, l’euforia dell’assenza di peso, e poi il terreno, a cancellare ogni pensiero. Ogni preoccupazione. Ogni dolore. Ogni paura. Ma una caduta di ventiquattro metri potrebbe non ucciderlo. E anche se questo accadesse, lui si rialzerebbe e ricomincerebbe a camminare. No, una pallottola nel cervello è l’unico modo sicuro di andarsene, pensa laconico mentre si china a raccogliere i suoi stracci e la bottiglia formato famiglia di Windex. Peccato che Bill avesse avuto la lungimiranza di chiudere a chiave le armi che avevano racimolato durante quella spedizione a Tucson, un anno prima. Guarda a sinistra, oltre il bordo e giù nel parcheggio dietro l’habitat umano. La jeep Cherokee e la Land Rover sono sempre là. Sarebbe così maledettamente facile. Basterebbe salire, mettere in moto una di quelle bimbe - magari si dovrebbe ricaricare la batteria, ma non sarebbe un problema infilare la marcia e andarsene. Lui lo farebbe anche subito, se ci fosse un solo fottuto posto dove andare. E Marly. Scende da un albero, molla le cesoie per potare, scioglie l’imbracatura e la lascia cadere ai suoi piedi. Si asciuga la fronte. E incre-
dibilmente umido là dentro. “Tropicale” è una parola così ingannevole, pensa, evocatrice di immagini di cibi esotici e di spiagge vergini. Fra i rami più alti dell’albero che stava potando non si stava così male; il perpetuo aliseo dal deserto ai piedi della collina era rinfrescante. A terra, però, la brezza è bloccata dal fogliame fitto e il clima rimane sempre umido. Guarda uno scoiattolo correre sui rami. Incominciano ad avere problemi con gli scoiattoli. Stanno morendo, e nessuno sa con certezza perché. Marly era contraria alla loro presenza fin dall’inizio. Sono roditori piccoli e sporchi, capaci solo di trasmettere malattie e di vivere rubando tutto ciò su cui riescono a posare le loro zampette avide. Sono simpatici a tutti perché possiedono caratteristiche neoteniche: teste grosse in rapporto al corpo, occhi grossi in rapporto alla testa. In altre parole, sembrano bambini, e tutti amano i bambini. Be’, adesso l’evoluzione su scala ridotta si sta occupando di quegli stronzetti, quindi Marly pensa di aver dimostrato agli altri che aveva ragione. Nessuno vuole mai darle retta perché lei è una botanica, che tutti sanno essere solo una parola più elegante per giardiniere. Ha conosciuto la signorina Tsung, la nostra giardiniera cinese... oh, le chiedo scusa: madame Tsung, la nostra botanica asiatica. Si asciuga le mani sui jeans e scende dalla foresta pluviale verso la vegetazione più rada nei pressi della spiaggia. Apre una porta isolante e percorre un corridoio di accesso, poi esce dall’altra porta all’estremità opposta. Bonnie, a seno nudo, la saluta mentre lei attraversa un angolo del reparto agricolo. Marly la ignora ed entra nella sezione Scorte di habitat umano. “Scorte, scorte!” dice. Da un armadio metallico sul cui portello è scritto SCORTE ESTERNE prende la tenda a due posti e un sacco a pelo. Dirigendosi verso la porta principale incontra Billlostronzo che sta entrando. Lui le si ferma davanti, le sopracciglia inarcate, e non sembra propenso a togliersi dai piedi. “Di nuovo?” dice, guardando la borsa di nylon blu della tenda e il sacco a pelo arrotolato. “Non credo davvero di approvare questo tuo atteggiamento antisociale, Marly. Tutti hanno bisogno della loro intimità, ma tu fai di tutto per emarginarti da noi.” Marly tiene la tenda e il sacco davanti a sé come uno scudo. La sua bocca forma una O mentre il viso mima un ricordo improvviso. “Oh, mi dispiace tanto,” dice. “Questa sera eravamo invitati al party del sottosegretario, non è vero? Oppure Derek e Haiffa dovevano darci una dimostrazione di Kamasutra? L’ho scordato.” “Grace mi dice che non ti sei presentata alle ultime due sedute.” Si stro-
fina la mascella (che tende a inflaccidirsi) con il pollice e l’indice. Dei quattro uomini della Squadra, Bill è il solo che continua a radersi... il suo marchio della civiltà che si sforza di mantenere. Un altro punto a favore dell’homo gillette. Lei ride. “E chi altri c’è andato? Non ho tempo per le sue stronzate. Lei è la più sballata di tutti noi. Dille che è colpa della mia cattiva educazione con la tavoletta del cesso, d’accordo?” “Sto solo cercando di esprimere la mia preoccupazione per la tua mancanza di collaborazione,” dice lui, con il tono pacato della convinzione psicotica. “Tutti devono collaborare se vogliamo uscire da...” “Uscire? Uscire, Bill? Cosa credi che sia, questa, una specie di fase che il mondo sta attraversando? E magari dovremmo uscirne migliori?” “Penso di poter comprendere il tuo risentimento verso l’autorità, Marly, ma devi convenire che un qualche tipo di gerarchia è necessario alla luce di...” “Autorità?” Lei si guarda intorno, come se si aspettasse un regista a gridare Stop! “Perché non mi fai un favore, Bill, e vai a farti fottere?” Lo supera con uno spintone. “Questo dovrà essere segnalato nel mio rapporto.” Lei apre la porta. “Altri punti di demerito!” piagnucola rivolgendosi alle file di verdure. “Perbacco. Mi... mi fai vergognare di me stessa.” Si gira per fargli un sorriso sfottente, poi cerca di sbattersi la porta alle spalle. Il cardine idraulico sopra il battente sibila che sarebbe meglio se non ci provasse. Un’ultima strofinata con uno straccio sporco, e Dieter sogghigna alla propria immagine riflessa. “Riesco a vedermi!” dice. Raccoglie gli stracci sparsi intorno a lui sul vetro. Ciò che non si spreca, non va sostituito: la Regola Aurea dell’Ecosfera. Si alza e osserva il deserto circostante. Come esperimento di conservazione di un ambiente artificiale nel bel mezzo di un ambiente completamente alieno, l’Ecosfera è un incredibile successo: loro sono un’isola di vetro sulla superficie rugginosa di Marte. Si stiracchia i muscoli anchilosati e respira la secca aria marziana. Dieter Schmoelling, nudo sulla pianura aliena, l’unico essere umano in grado di resistere a... Aggrotta le ciglia. Si toglie il sudore dalla fronte. Si ripara gli occhi con una mano, strizza le palpebre, si piega in avanti. Un tunnel di polvere, un’increspatura nel deserto. Una gigantesca talpa
marziana che scava verso l’isola di vetro degli invasori. Un anticorpo marziano che avanza per attaccare la cellula aliena che ha invaso il suo organismo. Un’auto. [4] Marly sta montando la tenda nel deserto quando l’altoparlante della stazione lancia uno squillo elettronico: Bong! “Tutto il personale al frutteto,” ordina Billlostronzo. Bong! “Tutto il personale si presenti immediatamente al frutteto. “ E la trasmissione termina con un clic. Che sicurezza, che presunzione! Quel figlio di puttana è certo che tutti correranno subito là, bong! Marly pensa di non presentarsi, tanto per rammentargli che la sua autorità dipende interamente dal loro tacito consenso, ma la curiosità ha la meglio su di lei. Nonostante ciò che pensa di lui, sa che Bill non li convocherebbe mai durante l’orario di lavoro senza un valido motivo. Ma quello che Bill considera un valido motivo non lo è necessariamente per lei. Marly sospira, estrae i paletti e fa il giro del promontorio, superando i cespugli, la savana, l’oceano, entra nel corridoio di accesso meridionale, attraversa l’area delle coltivazioni e arriva al frutteto. Gli altri sono già arrivati, tranne Bill. Le voltano le spalle mentre guardano dalle finestre. “Immagino che ci staremo tutti chiedendo perché ci ha chiamati,” dice Marly. Dieter si volta e le fa segno di avvicinarsi. Lei coglie una mela da un albero e si avvicina. Addenta la mela e Dieter aggrotta la fronte. Lei sogghigna e gli offre la mela, Eva cinese. Il cipiglio di Dieter si accentua, e lei ride davanti a un’aria così seria. Lui le fa spazio e le indica la strada nel deserto dritta come un fuso, ma il gesto non è necessario. Marly vede l’auto diretta verso di loro. È solo a cinque o sei chilometri. “Avrei dovuto preparare una torta,” dice, ma dentro avverte una contrazione, qualcosa che si tende. Bill li raggiunge, portando una doppietta. Marly sente un tuffo al cuore, e per un attimo ha la certezza che Bill voglia ucciderli tutti quanti. È così; lei lo sapeva che un giorno o l’altro sarebbe successo... Deke fa un passo avanti e prende la doppietta dalle mani di Bill. Quest’ultimo è talmente sorpreso da questa... questa usurpazione, che lo
lascia fare. Deke apre la doppietta ed estrae le due cartucce di plastica rossa corrugata. Le osserva, restituisce cartucce e doppietta a Bill, scuote la testa sprezzante e torna al suo posto. “Probabilmente entreranno nel parcheggio,” dice Bill. “Io esco sul tetto, nel caso che tentino qualcosa.” Da una tasca posteriore tira fuori una sottile radio ricetrasmittente. La consegna a Dieter. “Se avrò bisogno di voi vi chiamerò,” dice. Si rivolge a Leonard. “Parla con loro usando l’impianto nella sala di controllo,” ordina. “Scopri cosa vogliono e falli allontanare. Quanto alle signore...” “Prepareremo il caffè,” suggerisce Marly. “Voglio che restiate fuori vista.” “Io voglio un’arma.” Bill scrolla il capo. Si volta e si dirige verso l’habitat umano, dove si trova il portello stagno. Tutti lo seguono, poiché la sala di controllo è all’estremità nord dell’habitat umano. Marly raggiunge Bill. “Allora dammi la chiave dell’armeria,” insiste. “Non puoi portarla con te se vuoi farti sparare nel culo sul tetto.” Lui aggrotta le ciglia, ma non riesce a trovare difetti nella sua logica. Prende un portachiavi attaccato con una catenella avvolgibile alla sua cintura e sceglie una chiave. Non la porge a Marly ma a Deke, poi si volta e si allontana al trotto. Marly lancia un’occhiata verso i meli. L’auto è a circa tre chilometri. Dentro l’habitat Bill gira verso destra a un incrocio a T; gli altri girano verso sinistra e salgono una rampa di scale. Entrano nella sala di controllo... tutti tranne Deke, che fa un sogghigno a Haiffa, lancia in aria la chiave dell’armeria, l’afferra al volo e corre giù per il corridoio. La Telecamera Uno è già puntata sul riquadro asfaltato del parcheggio. Leonard attiva la Telecamera Due e le fa compiere una panoramica. Gli altri si raggruppano intorno alla sua poltroncina. “Pronto, pronto,” dice la radiolina nella mano di Dieter. “Mi sentite? Passo.” “Forte e chiaro, amico,” risponde Dieter. Poi rotea gli occhi. “Sono sul tetto e mi dirigo verso il reparto agricolo, che offre una copertura migliore. Passo.” “Bene. Voglio dire, insomma... passo?” Leonard si volta verso Dieter. “Sto per p-p-provare l’impianto. Chiedigli se p-p-può sentirlo.”
Dieter trasmette il messaggio, e Leonard dice: “P-p-prova uno d-d-due tre” nel microfono. “Forte e chiaro,” dice Bill. “Sentite, se c’è qualche... eccoli che arrivano. Passo e chiudo.” L’auto è una El Camino nera e polverosa. La Telecamera Uno la inquadra mentre entra nel parcheggio, lentamente, e si ferma accanto alla Land Rover. L’uomo al posto di guida aspetta che la polvere si depositi. Dagli altoparlanti giunge il suono del motore al minimo, poi il suo rantolo sussultante dopo che viene spento. Il guidatore apre la portiera e scende reggendo un fucile a pompa. Si gira, dice qualcosa al passeggero (su una El Camino non c’è posto per più di due persone) e raddrizza le spalle. Chiude la portiera e si avvicina all’Ecosfera. E il primo essere umano che vedono da più di un anno. “Ehi!” chiama. Uno squittio di ritorno acustico, e Marly sobbalza. Leonard regola l’amplificazione. “Ehi, c’è qualcuno là dentro?” Leonard pigia un pulsante e la Telecamera Due parte in zoom. È giovane... sulla ventina. Ha i capelli lisci e scuri, lucidi, legati a coda di cavallo, che gli arrivano fino alla vita. Un paio di jeans grigi e sbiaditi, con buchi sulle ginocchia rattoppati con filo bianco, sotto una camicia a scacchi bianchi e neri sbottonata e con le maniche rimboccate. Dal lobo destro gli penzola un orecchino. “Ehi!” chiama di nuovo. Leonard inserisce il microfono. Si schiarisce la gola impacciato e l’uomo fa un passo indietro. Il suo fucile si solleva. “V-v-vi sentiamo,” dice Leonard. L’uomo si guardo intorno cercando la sorgente della voce. Leonard dà un’occhiata agli altri. “C-c-che cosa volete?” dice nel microfono. Il fucile si abbassa. “Cibo. Solo... cibo. Mia moglie e io siamo... non mangiamo da parecchio...” Deke arriva portando una bracciata di fucili e di munizioni. In silenzio consegna un’arma a ognuno degli altri sei, continuando a sbirciare il monitor. “...e nostro figlio è molto malato. Vogliamo solo del cibo; ce ne andremo, dopo.” Bonnie rifiuta il suo fucile. Deke alza le spalle. “La pelle è tua,” dice. “Se adesso diamo loro del cibo, in seguito verranno a chiederne ancora,”
dice Grace. “Probabilmente con qualche amico,” aggiunge Deke, consegnando un fucile a Marly. Leonard manipola i comandi. La Telecamera Due ruota a sinistra, inquadra la El Camino e riparte in zoom. Leonard regola la messa a fuoco. C’è una giovane donna sull’auto, con in braccio un fagotto che potrebbe essere un bambino piccolo. Leonard guarda Dieter, che alza le spalle. Sulla Telecamera Uno l’uomo aspetta. Leonard aggrotta la fronte e riaccende il microfono. “Come s-s-sapevate che eravamo qui?” Un alito di vento solleva il dietro della camicia del giovanotto. “C’era un articolo sul giornale,” dice. “Nella biblioteca di Tucson. Ho pensato che forse eravate ancora qui.” Si guarda intorno e si asciuga la fronte. “Fa caldo qui fuori,” dice. “Peggio per te, amico,” dice Deke. Marly gli lancia un’occhiataccia. Dieter si porta accanto a Leonard. “Forse dovremmo, ecco, dirgli di fare uscire la moglie dall’auto,” dice. Leonard solleva gli occhi. “E s-s-se lui non vuole?” “E se lei non vuole?” aggiunge Bonnie. “Ehi, chi sta affogando non fa tanto il pignolo,” ribatte Dieter. “Lo faranno.” Leonard torna a voltarsi verso il microfono. “D-d-dica a sua moglie di uscire dall’auto,” dice. “Non hai detto per favore,” mormora Marly. “Lei... il nostro bambino sta molto male,” dice l’uomo. “Non...” Sembra indeciso, poi si volta verso l’auto e cammina dal Monitor Uno al Monitor Due. Apre la portiera del passeggero e si china all’interno. Parlando, si guarda un paio di volte alle spalle. Leonard regola l’amplificazione. “...farlo e basta. Nessuno ti farà del male... Non mi importa come si sente quel piccolo stronzo, fallo e basta. E tieni chiuso quel culo di bocca.” La portiera si spalanca e la ragazza esce. Indossa pantaloni cachi, sandali e una maglietta bianca sporca. Avrà forse diciassette anni. Ha il viso molto truccato e un rossetto scarlatto. La brezza le agita i capelli arruffati. Tiene sollevato un fagotto davanti a sé. Ne sbuca una manina che annaspa nell’aria, le trova il seno e dà una strizzata.
“Va bene,” dice l’uomo. “Ora, vi prego... potete darci un po’ di cibo?” Leonard regola la Telecamera Uno per inquadrarlo di nuovo. Lo guardano agitare esuberante la mano libera. “Voi ne avete tanto; noi ne vogliamo solo per qualche giorno. Quello che basta per attraversare in auto il deserto. Stiamo cercando di arrivare in California.” Leonard guarda di nuovo gli altri. “C-C-California? Là cosa c’è?” “Mio fratello.” “Questa è buona,” borbotta Grace. “Aspettate un m-m-momento,” dice Leonard, e spegne il microfono. Poi si gira sulla poltroncina con espressione interrogativa. “Non mi piace,” dice Dieter. “A me ancora meno,” dice Deke. “Magari qualche mela, o qualcosa...” dice Bonnie. Marly apre l’otturatore della sua carabina e comincia a infilare piccoli oggetti a forma di missile nell’apertura. “Certo,” dice Deke. “Vuoi portargliele tu?” “Uniti nel pericolo per il bene comune,” mormora Grace. “Dieter? Dieter, mi senti?” La voce di Bill, un sussurro deciso. Dieter solleva la radiolina. “Ti sento... Bill.” Ai comandi, Leonard soffoca una risatina. Dietro di lui, sui monitor, l’uomo, la ragazza e il bambino aspettano la loro risposta. “Devo parlare piano; non voglio che mi sentano. Digli che non possiamo dare loro del cibo. Passo.” “Stavamo appunto mettendo ai voti la questione,” dice Dieter. “Non c’è nulla da votare. Non avranno cibo.” Marly termina di caricare il fucile e richiude l’otturatore. “Nemmeno un paio di mele?” chiede Bonnie. Marly la guarda con occhi di fuoco, odiando ogni sua più minuscola cellula. “Dobbiamo ricordarci sempre l’Ecosfera,” prosegue la voce sottile di Bill. “Non possiamo sconvolgere il suo equilibrio. Non possiamo introdurre nulla di nuovo o togliere qualcosa di esistente. Non possiamo infrangere l’integrità della stazione.” Marly si mette il fucile in spalla e lascia la stanza. “Ehi, senti, Bill...” comincia Dieter, ma Bill sta ancora trasmettendo. “...sate a ciò che rappresenta questa stazione: noi siamo un’unità autosufficiente. Coltiviamo noi stessi quel cibo. Viviamo giorno per giorno con quello che produciamo.”
“Non ci stanno chiedendo molto,” mormora Bonnie. Siede su una sedia e fissa imbronciata i monitor. Dieter pigia sul pulsante di trasmissione. “Noi pensiamo che sia una cattiva idea per altre ragioni,” dice. “Grace pensa che se li nutriremo, poi torneranno a chiederne ancora. Probabilmente lo diranno ad altri, capisci? Ehm... passo.” “Esattamente! Perché loro lo diranno ad altri, e noi saremo assediati. Diventeremo un... una specie di McDonald gratuito nel deserto.” “Un tempio dorato,” dice Haiffa solennemente, e congiunge le mani. Deke le pizzica una natica. “Siamo tutti d’accordo, allora?” chiede Dieter. “Ditegli di no,” dice la radiolina. “A me non sembrano tanto affamati,” dice Deke. “Facciamoli girare al largo.” “Però,” mormora Bonnie, “a me sembra una vergogna...” Rimane a fissare i monitor e non aggiunge altro. “Ehi? Ehi, ci siete?” Leonard inserisce il microfono. “S-s-siamo sempre qui,” dice. Sembra più sicuro di sé ora che gli altri hanno preso anche la sua decisione. “Sentite, noi... noi abbiamo valutato la nostra, uhm, situazione qui, ne abbiamo discusso, e abbiamo esaminato i, uhm, parametri dei nostri quozienti di assorbimento alimentare. Dovete capirci: siamo razionati anche noi. Un pasto per voi significa un pasto in meno per qualcuno qui dentro.” Il suo tono si è fatto caldo, comprensivo. “Sono certo che capite.” “State dicendo di no?” Il giovanotto sembra incredulo. “Sto dicendo che mi dispiace, ma che rapportando la vostra situazione alla nostra, non possiamo davvero... accontentarvi in questo momento.” “Non ci credo... non volete darci tre giorni di cibo?” Continua a guardarsi intorno, come se qualche argomento persuasivo fosse sparso sull’asfalto del parcheggio. “E mia moglie?” chiede. “E il nostro bambino?” “Sono davvero desolato,” dice Leonard. In realtà non sembra affatto desolato. Anzi, sembra lieto di trovarsi in una posizione che gli consente di rifiutare qualcosa a qualcuno, tanto per cambiare. Come un direttore d’albergo estremamente cortese e comprensivo perché non ha più nemmeno una camera libera. “Ma voi siete venuti qui a chiedere un favore,” continua senza più balbettare, “e non avete alcun diritto di biasimarci se rifiutiamo di concedervelo.” “Un favore?” L’uomo solleva il fucile. “Te lo faccio io un favore, figlio
di...” “Resta immobile dove sei, figliolo.” La voce di Bill, dagli altoparlanti. Il giovanotto esita. “Non farlo. Non voglio spararti, ma sono pronto a farlo.” A giudicare dalla voce, Bill non sembra così riluttante all’idea di fare fuoco. Sembra invece piuttosto eccitato. “Ora, tu hai chiesto un favore e noi non possiamo fartelo. Se potessimo lo faremmo. Il mio consiglio è che tu e tua moglie ritorniate sull’auto e vi allontaniate. Non andate verso la California, ma a Phoenix. Là dovrebbe esserci del cibo, ed è solo a poche ore di macchina.” “Ma noi veniamo proprio da...” “Allora dirigetevi a sud. Comunque non potete restare qui. Avete capito? Non abbiamo nulla per voi.” “Ma noi lavoreremo per guadagnarci il cibo!” “Qui non c’è lavoro per voi. Questa è una stazione molto sofisticata, che richiede personale altamente specializzato. Siamo in molti, e bene armati. Ci serve tutto quello che abbiamo, e non è sufficiente per fare beneficenza. Mi dispiace, figliolo, ma la vita nelle grandi città è fatta così. Ti...” Bill si interrompe. Il giovanotto e sua moglie guardano qualcosa fuori campo. “Torna dentro!” urla Bill. “Torna indietro, subito! È un ordine!” Leonard sposta la Telecamera Uno per inquadrare il portello a tenuta stagna, che si trova più in basso e sulla destra. Poi scrolla il capo e lancia un fischio soffocato. “Be’,” dice Dieter. “Che mi venga un accidente.” [5] Regge il fucile con una mano sola grazie alla cinghia che le gira intorno alla spalla. Ha il dito sul grilletto. Nell’altra mano regge un cestino di vimini. Non è nervosa mentre si avvicina alla coppia... anzi, è sorpresa dalla calma che prova. Sopra la sua testa, Billlostronzo le urla di tornare dentro. Lei lo ignora, ma sente un curioso pizzicore fra le scapole... probabilmente perché fra Bill e quei due, è il suo amato capo quello sicuramente più incline a spararle addosso. Di persona hanno un aspetto peggiore che sui monitor. Lui ha una cicatrice che gli attraversa un sopracciglio; un’altra gli percorre tutta la parte superiore di un braccio, incrociandosi con un’ancora grigioazzurra tatuata sul bicipite muscoloso. Non è magro, ma ha un’aria denutrita. Carenza vi-
taminica. E la ragazza sembra... be’, logora è l’unica parola che venga in mente a Marly. Consumata. Gli occhi sono vacui e indifferenti. Dal fagotto della ragazza si solleva di nuovo la manina. Lei la preme a sé con atteggiamento protettivo, e Marly scorge una carne chiazzata quando il bambino cerca di succhiare il capezzolo della ragazza attraverso il cotone della maglietta. Marly si ferma a tre metri dall’uomo e posa il cestino. La ragazza abbassa gli occhi sul fagotto e allontana il bambino dal proprio corpo. L’uomo e Marly si fissano in silenzio per qualche istante. “Com’è?” chiede Marly. Inclina la testa, indicando il deserto dell’Arizona. “Là fuori.” “Parecchio dura,” dice lui. Lei annuisce ripetutamente. “Be’...” Indica il cestino e fa qualche passo indietro. “Mi dispiace di non potere fare di più. C’è frutta, verdura, un po’ di carne. Un barattolo di latte per il bambino... che malattia ha?” “Non lo so.” “Be’, nessuno di noi è dottore in medicina,” dice lei. “Ma potreste provare in una farmacia di qualunque città dove andrete. O dentro l’ambulatorio di un medico. Se è un’infezione, provate con l’Ampicillin. Se è una qualche malattia... be’, degli antibiotici non dovrebbero fargli del male in nessun caso. Ma continuate a somministrargli... o è una femmina?” Loro non rispondono; Marly alza un sopracciglio e continua, “...liquidi, e portatelo lontano da questo caldo.” Dopo aver posato il cestino lei ha continuato a indietreggiare verso il portello. L’uomo avanza. Invece di raccogliere il cestino, alza gli occhi verso il tetto dell’habitat. “Non ti sparerà nessuno,” dice Marly. “Prendi il cestino e andatevene. E non tornate più qui.” Lui solleva il cestino e indietreggia verso la El Camino. La ragazza è già dietro la portiera aperta del passeggero, e adesso sale sulla vettura. Lui posa il cestino al suo fianco, sale e chiude la portiera. L’uomo osserva Marly. Annuisce, lentamente. Poi mette in moto e inserisce la retromarcia. Arretra fino a uscire dal parcheggio, poi compie un mezzo giro e si allontana. Per parecchi minuti Marly fissa la coda di polvere lasciata dall’auto che si deposita lentamente, poi torna dentro.
“Chi diavolo credi di essere, insomma?” “Sono un ottavo di questa stazione, propro come te, e ho fatto crescere quel cibo almeno quanto chiunque altro.” “Hai disobbedito a un ordine diretto...” “Da parte di qualcuno che non possiede nessuna autorità su di me. Sai tanto quanto lo so io che la gerarchia dipende dalla natura della crisi.” “Abbiamo messo la cosa ai voti, dannazione...” “Nessuno ha chiesto il mio. A te l’hanno chiesto, Grace? Haiffa? Leonard? Bonnie?” “Non hai neanche pensato alle ripercussioni che questo potrebbe avere su di noi? Hai appena gettato un sasso in uno stagno maledettamente piccolo.” “Cristo santo, Bill, ho dato loro cibo sufficiente per tre giorni... se ci andranno piano.” “Anche a noi rimane un margine alimentare di poco più di tre giorni. Ogni cambiamento colpisce tutti noi. E questo, Marly, proprio tu dovresti saperlo bene. L’esperimento non può continuare se all’esterno...” “L’esperimento è finito un anno fa, Bill! Insieme al resto della nostra civiltà! Vuoi deciderti a ficcartelo in quella tua testa di cazzo?” “Ragione di più per tenere duro. Conservare in piena efficienza questa stazione significa conservare la civiltà.” “Ma non l’umanità.” “Ehi, Marly... Bill sta solo cercando di dire che, ecco... a volte si devono prendere decisioni dure. Sono sicuro che a lui non ha fatto piacere mandarli via in quel modo. Non è vero, Bill?” “Certo che no.” “Oh, Cristo! Sentite, salterò un pasto ogni giorno per tre giorni, per pareggiare i conti e fare contenti tutti, d’accordo? Questo vi rende felici?” “Io pensavo che dovevamo darglielo, il cibo.” “Sì, Bonnie. Ma tu non hai fatto un cazzo.” [6] “Stronzi.” Nostromo ha l’acceleratore pigiato al massimo. “Quei pezzi di merda. Pensavo che avremmo arraffato un po’ di cibo... che avremmo avuto una scusa per dare un’occhiata al posto, vedere in quanti erano rimasti, com’era il loro servizio di sicurezza e roba simile. Ma, perdio, non immaginavo che ci avrebbero rifiutato il cibo. Cazzo, al posto loro noi lo a-
vremmo dato, lo so. Lo abbiamo già fatto! Fottuti figli di puttana.” Molla un pugno al volante. “Rifiutare del cibo a un maledetto bambino, Cristo!” Lancia un’occhiata a Pisellina. “L’avresti mai pensato?” Pisellina regge il bambino con le braccia tese, fissandolo con disgusto. “Stava masticando,” dice con voce spenta. “Certo che masticava; è una stramaledetta... “ Lei lascia cadere il bambino e comincia ad agitare le mani intorno a sé come volesse allontanare delle vespe. “Stava masticando, stava masticando, cercava di mangiarmi attraverso la maglietta, avevo la sua bocca addosso, oh, Dio, e si muoveva, e ho pensato, povero bambino, e poi mi sono ricordata...” Nostromo l’afferra per un braccio e le assesta uno scrollone. L’auto fa una sbandata. “Calmati. Calmati, perdio.” Lei lo fissa con occhi sbarrati. Sul tappetino il bimbo artiglia l’aria come uno scarafaggio steso sul dorso. Per metà fuori dalla coperta che lo avvolgeva, la pelle intorno al collo bluastra là dove il trucco è venuto via, il braccio sinistro mancante, strappato chissà quando dalla spalla. Il braccio destro annaspa, la bocca senza denti si apre e si chiude. I suoi occhi sono di plastica opaca. Pisellina raccoglie le gambe sul sedile. “Dobbiamo andarcene di filato da qui,” dice Nostromo. “Non possiamo dar loro un motivo di pensare che qualcosa non va per il verso giusto. Cerca di restare calma finché non saremo oltre quell’altura, laggiù, la vedi? Intesi?” “Lo voglio fuori di qui.” “Fra un minuto.” Lui sembra divertito dalla sua repulsione. Sbuffa. “Chiudi gli occhi e pensa all’Inghilterra.” Rannicchiata sul suo sedile, lei si gira per fissarlo. Un chilometro dopo dice: “Vuoi sapere perché scopo con tutti gli altri e con te no?” Nostromo le lancia un’occhiata incredula e divertita. “Forse perché a me non va di scopare con tutti gli altri?” chiede con aria innocente. Lei ignora la sua battuta. “A volte gli altri sono gentili con me, sai? Mi regalano cose, mi mostrano cose. Mi portano dove ci sono cose buone. Tu invece mi fai venire la pelle d’oca. Sei come una fottuta testamorta; vivi sempre dentro il tuo cervello e non esci quasi mai, e quando vieni fuori sei una cosa che mette paura. Hai i vermi nel cervello, o qualcosa del genere. Non scoperei con te neanche se tu fossi l’ultimo uomo sulla terra.” “Be’, poco male,” dice maligno Nostromo. “Non ne devono restare più
tanti.” Sospira. “Forse un giorno...” Lei socchiude gli occhi e lui ride. Superano l’altura. Sull’altro versante Nostromo accosta l’auto e tira fuori la sua 45 semiautomatica da sotto il sedile. Toglie la sicura e spegne il motore. Prende le chiavi, perché non si sognerebbe mai di lasciarle con lei. Fa il giro dell’auto e apre la sua portiera. Raccoglie il bambino e si volta verso il deserto. La testa del bambino ciondola. La sua bocca si apre e si chiude. La sua unica manina gli stringe dolcemente i peli sull’avambraccio. La bocca continua ad aprirsi e chiudersi, aprirsi e chiudersi. Lui solleva il bambino con il braccio teso, appoggia la canna della pistola contro un occhio di plastica opaca e fa fuoco. [7] mani: ricordo altre mani di altro cibo che toccano e fanno andare via la fame senza il bisogno di cibo da lei una lei io ricordo ma la fame e senza lei adesso la fame ancora ma le sue mani [8] Marly preleva campioni di suolo dalla savana. Deve stabilire se l’aria riciclata sta filtrando in modo corretto attraverso tutti gli ambienti; sospetta che in certi punti ci siano ostruzioni. Dieter se ne sta appoggiato contro un albero di mangrovia, le braccia conserte, la gamba sinistra accavallata sulla destra. “Ehi, non dico che hai fatto la cosa sbagliata,” sta dicendo. “Sto solo facendo l’avvocato del diavolo. Voglio dire, dal punto di vista di Bill tu hai violato l’integrità dell’Ecosfera. Hai rischiato un possibile contagio; hai esaurito scorte accuratamente...” Lei si alza con una paletta metallica in una mano e un sacchetto di plastica pieno di fanghiglia nell’altra. Gli volta le spalle e si sposta con passi che fanno squish e squash verso un altro settore di mangrovie. Si china di nuovo e fruga nell’acqua stagnante. Oltre alla loro breve relazione sessuale nei primi mesi di permanenza nella stazione, Dieter e Marly hanno una cosa in comune: hanno collaborato entrambi alla progettazione di ambienti per il Centro EPCOT al Walt Disney World in Florida. Con un contratto della Kraft, Marly ha lavorato a
un padiglione battezzato La terra, dove venivano coltivati diversi raccolti in svariati modi sperimentali, inclusi l’idroponica e gli ambienti centrifughi a gravità alternata. Dieter ha invece contribuito a rifornire di vita marina (inclusi squali e delfini) un oceano con quasi mezzo milione di litri d’acqua, battezzato I mari viventi e percorribile dai visitatori. Marly si domanda come se la stia cavando il vecchio Disney World in quei giorni. Il personale e gli ospiti hanno probabilmente lo stesso aspetto e gli stessi comportamenti di allora. Toccata e Fuga nella Terra del Futuro, un po’ come per lei. Adesso, una settimana dopo che la realtà è tornata rudemente a farsi viva nel loro piccolo mondo, Marly sta cercando di troncare nel miglior modo possibile, date le circostanze di contiguità forzate, tutti i contatti con gli altri membri della Squadra. Ha dormito tutte le notti sotto una tenda nel deserto. Ha mangiato solo cibo che lei stessa ha raccolto nel reparto agricolo e cucinato. Non si presenta più agli esercizi mattutini con Bill, ai consulti psichiatrici con Grace, alle riunioni settimanali antistress della Squadra o ai rapporti operativi bisettimanali. Riceve tutti gli aggiornamenti ambientali dal computer. Quando è il suo turno, di notte monta di guardia davanti ai monitor... un incarico divenuto molto più importante dopo quello che lei ormai definisce l’Incidente del Cibo. Così adesso Dieter continua a ronzarle intorno, rivangando l’Incidente con ridicoli discorsi accademici e lasciando che il frutto di quella sua masturbazione mentale ricada addosso a lei. Marly vorrebbe rompergli la testa con la sua paletta da giardiniere, ma invece continua a lavorare e lo ignora. Non è molto difficile. Ripensandoci, Marly si rende conto di aver già trascorso più di un anno vivendo in solitudine insieme a quelle sette persone. Per gli altri è la solita vita normale... normale quanto riescono a farla diventare, ed è veramente normale per loro, a patto di considerare uno standard non anacronistico. L’Incidente del Cibo è stato semplicemente una contingenza imprevista; hanno inserito i particolari relativi nelle loro banche dati, nei programmi e nelle previsioni; hanno compensato e regolato le quote, e per il resto continuano a comportarsi come se non fosse stato diverso da uno dei tanti piccoli inconvenienti che si devono affrontare per mantenere efficiente l’Ecosfera. Marly possiede più buonsenso. Sa che loro affondano le teste nella sabbia. Sa che, un giorno o l’altro, il mondo reale si presenterà alla porta e li prenderà a calci nel culo. Ma sa anche che è più facile sopravvivere lì che all’Esterno. È dilaniata:
sa con certezza che non vuole lasciare la Stazione, ma non è sicura per quanto ancora riuscirà a sopportare quegli idioti votati all’obbedienza cieca. L’ostracismo volontario è il suo compromesso temporaneo. Marly è in bilico. È una banderuola meteorologica, pronta a plasmarsi nella direzione del vento. [9] “Ancora.” Florida accende la torcia elettrica. Nostromo osserva mentre le mani di Jo-Jo, ingarbugliate nella maglietta (È MORTO, JIM), si tendono verso la luce. Jo-Jo avanza verso la torcia come il mostro di Frankenstein. Florida spegne la torcia e Jo-Jo si arresta. Sembra confuso. Attraverso la grata Nostromo allunga un manico di scopa dal quale penzola un pezzo fresco di gatto. Jo-Jo lo agguanta e comincia a masticarlo, spago incluso. “Gli altri come se la cavano?” Florida alza le spalle. “Non così bene. Jo-Jo è ancora il più furbo. Però possiamo farli muovere verso una luce, se poi diamo loro qualcosa da mangiare. Sono tutti pronti a seguire dovunque un pezzo di carne, specialmente se è vivo. Adesso, ogni volta che vedono una luce si aspettano del cibo. Ma Jo-Jo è l’unico al quale possiamo far compiere qualcosa. E riuscito ad aprire una porta, un paio di volte.” Una testamorta (L’ATOMO UCCIDE) inciampa in una collega a quattro zampe la cui maglietta proclama che è STANCA MORTA. Nostromo scrolla il capo. “Che imbecille.” Florida annuisce. “Non capisco a cosa ci servirà tutto questo.” “Hanno insegnato a dei piccioni a far funzionare macchine premendo pulsanti con il becco. Le testemorte saranno pure intelligenti come piccioni.” “Ci credo poco.” “No, è vero,” concorda Nostromo. “Sono come piante che si girano per seguire il sole. Solo che seguono la carne viva. Ma noi possiamo modificare questo impulso per indurii a seguire qualcosa d’altro se poi li ricompensiamo con la carne. Stimoli raggruppati e gratificazione posticipata. Facevano la stessa cosa per convincere la gente a smettere di fumare.” Florida scoppia a ridere e si gratta un braccio muscoloso. “Psicologia per i morti? Ma Nostromo, a cosa diavolo ci servono? Da soli ce la caviamo lo stesso.”
Nostromo alza le spalle. “Voglio usarli,” dice semplicemente. “Sei ancora incazzato con quegli stronzi della cupola nel deserto? Mandali a farsi fottere, amico. Lasciali marcire. Loro non hanno niente che noi non possiamo trovare da soli.” “C’è dell’altro,” mormora Nostromo. “Ne stai facendo una faccenda personale,” dice Florida. Nostromo si volta a fissarlo. “Non hanno voluto dare da mangiare a un bambino.” “Nostromo, era una testamorta.” “Loro non lo sapevano.” “E allora? Che differenza fa?” “Oh, amico, fottiti, va bene?” Dietro la grata, terminato il suo pezzo di gatto, Jo-Jo guarda con il viso cianotico premuto contro le maglie d’acciaio. Adesso accanto a lui ci sono gli altri, attirati dalla presenza di carne viva. Si urtano e si accalcano con indifferenza, come tanti adolescenti davanti ai cancelli di un concerto rock. Il gomito sollevato di una testamorta (ANIMALE NOTTURNO) colpisce la tempia di una donna ossuta che porta una maglietta con appiccicato un adesivo da paraurti: MANGIA LA MIA POLVERE. Nostromo e Florida si girano al suono di una musica che si avvicina. Focaccia ha uno stereo portatile grande come una valigia sulla spalla muscolosa e strombazza un nastro dei D.M.C. a tutto volume. In che modo Focaccia riesca a camminare e ballare al tempo stesso è un mistero per Nostromo, i cui gusti musicali risalgono comunque ai Tangerine Dream e ai King Crimson. Musica ordinata e tecnologica. Roba da ragazzo bianco. Gli occhi di Focaccia luccicano al chiarore del palazzo che gli altri stanno bruciando nell’isolato di fronte. Le sue iridi sono anelli scintillanti, a specchio. “Cazzo,” sussurra Florida, e allunga una mano verso la fondina. Nostromo lo blocca con una mano sul gomito. Florida lo guarda, e Nostromo scrolla la testa. Focaccia si ferma davanti a loro e posa lo stereo, danzando snodato. “Ho pensato che fossi diventato una testamorta,” dice Florida con voce piatta. Focaccia continua a ballare. “Cosa?” La musica è maledettamente rumorosa. “Stavo per farti saltare quel tuo cervello da negraccio!” urla Florida. “E perché?”
Florida e Nostromo si scambiano un’occhiata e scoppiano a ridere. “Oh, scemo...” dice Florida, scrollando il capo. “Ehi, vi piacciono?” Focaccia si indica gli occhi. “Mica male, eh?” “Dove li hai trovati?” urla Nostromo. “Non lo so. In un edificio.” Indica oltre la piazza, dove il palazzo sta bruciando. “Scienze Ottiche,” dice Nostromo. “Già.” La canzone cambia; il ritmo no. “Con quelle lenti ti farai impiombare,” urla Florida. “Cos’hai detto?” Florida scuote la testa e si rivolge a Nostromo. “Non credo che gli altri saranno entusiasti di piombare addosso a quel posto, Nostromo,” dice. “C’è troppo poco da racimolare.” Nostromo annuisce. “Lo immaginavo già.” “Devo dirti un’altra cosa.” Guarda Focaccia che continua imperterrito a danzare. “Pisellina pensa... be’, vuole che il gruppo si divida, capisci, e che alcuni dei ragazzi vadano con lei. Non sei proprio il Numero Uno nella sua hit parade.” “Se vuole andarsene, faccia pure.” “Sì, ma... molti dei ragazzi andrebbero con lei. Sai come stanno le cose.” “Ci sono ragazze in quella stazione nel deserto.” “Davvero?” Sentendo queste ultime parole, Focaccia si illumina. “Ehi, dici sul serio?” Nostromo annuisce e comincia a riflettere, ma smette quando vede Florida che fissa il recinto dello zoo. Si gira a guardare. “Ehi, Jo-Jo!” Focaccia indica e sogghigna. “Vai col ritmo, fratello!” fanno suoni io ricordo dalle scatole mi facevano muovere non verso come cibo ma insieme e a volte con suoni e mi muovevo con lei “Cristo santo,” mormora Nostromo, osservando Jo-Jo che balla rigidamente. “Lui ricorda.” Quella stessa notte, più tardi, Jimmy vede Focaccia scendere i gradini del Circolo Studentesco e gli fa saltare le cervella sul cemento del muro. Ingegneria batte Storia Americana. “Camminava tutto storto e aveva gli occhi strani,” spiega a Nostromo. “Cosa cazzo dovevo pensare?”
“Non chiederlo a me,” ribatte Nostromo, ormai certo che è tempo di muoversi. [10] Nella sala di controllo, Leonard sta disegnando cerchi su un blocco di fogli gialli a righe. Li disegna alti due righe e uno dietro l’altro, un cerchio accanto a un altro cerchio. Cerca di imparare a disegnare un cerchio perfetto ogni volta. Non smetterà finché non avrà imparato a disegnare due file consecutive di cerchi perfetti. Giunto alla fine di ogni fila controlla gli schermi dei monitor. Le telecamere sono disposte tutt’intorno alla stazione, insieme al sistema d’allarme installato sulla fila più bassa di pannelli di vetro che circonda il perimetro. Leonard non vede il camioncino Ryder accostarsi con i fari spenti alla base del pendio e fermarsi a diverse centinaia di metri dall’estremità meridionale dell’Ecosfera. Non vede la portiera del guidatore aprirsi e chiudersi (senza che la luce all’interno si accenda), né il guidatore vestito di nero che corre ad aprire il portellone posteriore. Non vede il Pifferaio mascherato che con il fascio di una torcia elettrica guida un gruppo di figure barcollanti verso l’Ecosfera. Leonard disegna una fila di cerchi quasi perfetti e controlla i monitor. Guarda direttamente il camioncino Ryder nell’angolo inferiore sinistro del Monitor Cinque, ma questo, immobile nel buio, sembra fare parte del panorama spigoloso e lui torna a disegnare cerchi. Completa una fila perfetta, ed è a metà della seconda quando scatta l’allarme. [11] Marly si sveglia al suono di un campanello lontano. È buio nella tenda a due posti. Esce dal sacco a pelo e supera i lembi dell’ingresso. Le stelle scintillano nel cielo dell’Arizona sopra la cupola di vetro che ricopre il deserto costruito nel deserto. Marly chiude la lampo del giaccone e cerca di riordinare i pensieri. È l’allarme generale; qualcuno che era di guardia ai monitor deve averlo inserito. Di guardia ai monitor?
Una morsa gelida le stringe lo stomaco. Prende la carabina dalla tenda e scende il pendio, aggirando l’oasi in miniatura e andando verso la palude. L’acqua si sta già infiltrando nelle sue Reebok quando sente le urla. Si ferma, e l’acqua fredda le inzuppa i piedi. Dai recinti degli ammali. Comincia a sguazzare verso la savana e il più vicino corridoio di accesso. Il suono dei maiali che strillano terrorizzati sveglia Grace. La sua camera è accanto ai recinti degli animali, così lei indossa alla svelta una vestaglia e guarda dalla finestra. C’è del movimento, ma è troppo buio per distinguere qualcosa. Lascia la camera e scende di corsa il corridoio, imbocca la porta e supera i paletti dei fagioli diretta verso i recinti. Solo allora si accorge che suona l’allarme. Si sta sporcando i piedi e c’è una corrente gelida che soffia dal frutteto. Avrebbe dovuto pensare a infilare almeno le pantofole, ma no, se è successo qualcosa a Bacon o a Braciola... Si ferma. La brezza proviene dal fondo del frutteto, dagli alberi di melo. Nella penombra vede che dalla parete dietro i meli mancano due pannelli di vetro triangolari. Cosa può essere stato? Forse sono stati soltanto... spinti dentro, una differenza nella pressione d’aria esterna, magari, o perfino un colpo di vento troppo forte. Forse è stato questo a spaventare quei poveri porcellini: il suono dei vetri spezzati. Lo strillare riprende, facendola sobbalzare. Si affretta verso il porcile, scordando la corrente d’aria o i piedi sporchi. “Su, su,” chiama mentre apre il cancelletto alto poco più di un metro. “È arrivata la mamma. Va tutto bene.” Trova l’interruttore della lampadina appesa sopra il porcile e lo fa scattare. “La mamma è...” Bacon è addosso a un uomo. L’uomo ha le braccia e le gambe avvinghiate intorno a Bacon. Il maiale gli sta masticando una spalla. La sua testa rotonda si scuote, lacerando carne e strappando tendini. Accanto a loro c’è il corpo sventrato di Prosciutto. Grace rimane inorridita nell’accorgersi che Prosciutto è ancora vivo. La testa dell’uomo si solleva. I feroci morsi di Bacon non sembrano infastidirlo. Apre a sua volta la bocca e morde il maiale al collo. La carne si lacera e il sangue zampilla. Bacon strilla. “Che cosa sta facendo?” Grace si dirige verso l’uomo senza neppure rendersi conto di ciò che sta facendo lei. “Si allontani subito da quel maiale!”
Bacon riesce a liberarsi. Il sangue sgorga ritmicamente dal suo collo. L’uomo si alza fra i maiali che grufolano agitati e si volta verso di lei. La sua maglietta dei Grateful Dead è macchiata di sangue di maiale, e dal cotone lacerato sulla spalla sporgono brandelli di carne esangui. Grace sta appena iniziando a capire di cosa si tratta quando lui comincia ad avanzare nella sua direzione con gli occhi vacui e le braccia protese. Lei fa un passo indietro. “No,” dice. “No, aspetti.” I maiali grufolanti si strusciano contro i suoi polpacci. “Non può... non è uno dei...” Cade all’indietro sopra Cotenna. Il maiale frenetico le calpesta lo stomaco. Grace resta col fiato mozzato. Qualcosa la tira per un piede. Alza la testa. La bocca di Hot Dog è intorno alla sua caviglia. Lei tira indietro la gamba con uno strappo. Il maiale emette un suono gutturale simile al ringhio di un cane. Ha gli occhi spalancati e spenti alla luce dell’unica lampadina. Grace si mette a sedere. L’intruso si piega su di lei. Le appoggia le mani sulle spalle. Apre la bocca. Brandelli di carne di porco penzolano dai denti verdastri. Lei non trova il fiato per urlare. Lo spinge via e cerca di rialzarsi. Hot Dog le morde il polpaccio. L’intruso si piega di nuovo. La gamba le brucia. Scalcia per liberarsi. Hot Dog strilla e la morde ancora. L’intruso abbassa il viso sul suo seno. Campanelli che squillano e maiali che strillano. Lui stringe la dentatura. Brucia. Poi lui gira la testa. Uno strappo. Lei lo spinge via. Qualcosa di umido le scalda le mani. Brandelli di lei nella sua bocca. Le sue dita lasciano tracce scure e viscide sul viso dell’intruso. Nella sua bocca. Lui morde. Scricchiolio di ossa. Lei tira indietro la mano. Due dita scomparse. La gamba intorpidita. Perché ha così freddo? Pressioni vaghe. Un suono lontano di masticazione. Roventi lampi bianchi mentre lui si nutre i maiali si nutrono la carne lacerata strappata dall’osso i tendini tirati morsi spezzati come filamenti caldi di formaggio fuso che pulsa e pulsa e batte e rallenta e sfuma. [12] Marly scende di corsa il corridoio di accesso, con il suono molliccio delle scarpe inzuppate. L’Ecosfera è ancora tutta al buio; di notte non tengono accese le luci “esterne” perché sarebbero visibili per chilometri. Davanti alla porta isolante che conduce al reparto agricolo esita. Bang. Bang-bang... e un rumore di vetri infranti. Imbraccia la carabina e apre la porta.
Dieter si sveglia di soprassalto al suono dell’allarme. Siede sul letto e guarda lo schermo lampeggiante del computer sulla sua scrivania. VIOLAZIONE ISOLAMENTO. Si strofina gli occhi, lascia il letto e si veste in fretta. Si allaccia la cintura e apre l’armadio per prendere l’automatica calibro 45 nella fondina a spalla e il fucile a pompa 30.06 che Deke gli ha consegnato il giorno dell’Incidente del Cibo. È a mezza strada su per le scale verso la sala di controllo quando sente le urla da fuori. Con un gesto secco del polso fa scivolare la prima cartuccia nella camera di scoppio del fucile e si precipita nel corridoio, dove incontra Bonnie avvolta nel suo kimono bianco. Corrono insieme alla porta. Quando escono, le urla sono terminate. Nessuno dei due ha una torcia, così restano un attimo immobili nel buio per lasciare che gli occhi si abituino. Bonnie indica nervosamente i recinti degli animali e si dirigono da quella parte, Dieter in testa e Bonnie attaccata alle sue calcagna, cercando entrambi di muoversi in silenzio ma facendo invece un sacco di rumore. Giunti al basso recinto del porcile si fermano. I maiali sono raggnippati e grufolano, dimenando i quarti posteriori. Dieter scavalca il recinto e batte una mano contro il calcio del fucile. I maiali si sparpagliano, e Dieter si arresta di colpo. Distesa davanti a lui c’è Grace, quasi del tutto spolpata, e accucciato al suo fianco c’è un autentico carnitrofo in carne e ossa. Il carnitrofo solleva il capo e apre la bocca. Un brandello di carne gli penzola dal labbro superiore, poi si stacca e cade. Dietro Dieter, Bonnie vomita. Dieter punta il fucile e preme il grilletto. Il grilletto non cede. Il carnitrofo si sta alzando. Per chissà quale ragione Dieter non pensa neppure a verificare la sicura, ma lascia cadere il fucile ed estrae la 45 dalla fondina. Il carnitrofo avanza oscillando verso di lui, calpestando con una scarpa logora i resti di Grace. Dieter toglie la sicura e preme il grilletto. La pallottola provoca un piccolo foro entrando e un foro molto più grosso uscendo dal torace del carnitrofo. Il cadavere barcolla all’indietro sotto l’impatto, scivolando con i talloni su qualcosa di viscido a terra, poi riprende ad avanzare. Dieter mira più alto e spara due volte. La nuca del carnitrofo si dissolve in spruzzi, e più indietro un pannello di vetro va in frantumi. Il cadavere crolla all’indietro sopra ciò che rimane di Grace. Bill si sveglia di colpo non appena sente squillare l’allarme. Ha previsto qualcosa di simile, ed è pronto. Non riusciranno mai a cogliere il vecchio Bill con i pantaloni abbassati. Tira fuori una Smith & Wesson 44 Magnum
da sotto il letto, agguanta la sua tuta marrone dalla spalliera della sedia davanti alla scrivania, dove l’ha lasciata per poterla trovare anche al buio, e l’indossa senza mai abbandonare la sua enorme pistola. Va alla porta e solleva la pistola a fianco della testa. Una luminosità rossastra bagna la sua scrivania quando lo schermo del computer prende vita. VIOLAZIONE ISOLAMENTO, dice la scritta, poi si mette a lampeggiare. Bill strizza le palpebre e si volta ancora verso la porta. La spalanca di scatto e sbircia nel corridoio. Nulla. L’allarme continua a suonare. Spicca un salto nel corridoio e atterra nella posizione del poliziotto pronto a fare fuoco, le gambe divaricate, la pistola impugnata con entrambe le mani, la schiena dritta, le braccia leggermente piegate. Non per nulla ha letto per anni Mercenario. Si gira rapidamente. Il corridoio è sgombro. Si raddrizza e procede verso le scale e la sala di controllo. Leonard sta m-m-muovendo le telecamere come un matto, cercando dappertutto segni di movimento, quando Bill fa irruzione nella stanza. Sobbalza, poi lascia di scatto la poltroncina quando vede che Bill impugna la p-p-pistola più grossa che abbia mai visto e gliela sta puntando dritta contro il petto. Lancia un’occhiata ai monitor e Bill abbassa la pistola. “Hai suonato tu l’allarme?” Leonard scrolla il capo. “Un p-p-pannello rotto. Nel frutteto.” Bill aggrotta la fronte, sempre fissando i monitor. “Un falso allarme?” Sembra deluso. Leonard si stringe nelle spalle. Bill si avvicina per vedere meglio. “Ferma la Telecamera Cinque,” dice. Leonard preme un pulsante sul quadro. Bill si china fino ad avere il viso a una spanna dallo schermo. “Aumenta.” “Vuoi dire l’ingrandimento, o la p-p-panoramica?” Bill lo fulmina con gli occhi. “L’ingrandimento,” dice. Leonard manipola i comandi finché Bill non si trova a fissare il camioncino Ryder fermo a nemmeno trecento metri dall’ambiente Deserto. Poi Bill si gira a fissare Leonard. Solleva la pistola. Leonard solleva le mani come se volesse deviare le pallottole. Da fuori giungono detonazioni. Bang. Bang-bang.
[13] Haiffa nuota nuda nella fresca acqua tropicale. Non sopporta di aprire gli occhi nell’acqua salata e così nuota alla cieca, risalendo solo per respirare e poi scendendo di nuovo. I suoi lunghi capelli fluttuano dietro di lei; è una sirena, pronta a torturare le orecchie indifese di Ulisse. Le piace nuotare dopo aver fatto l’amore. Le piace pensare a Deke disteso svuotato sulla riva, in attesa che la sua Venere emerga. Nuota oltre il cordone litorale e torna in superficie. Fa un cenno di saluto verso la minuscola spiaggia, ma Deke non la vede perché è rivolto verso l’habitat della Squadra a ovest e si sta grattando la testa. Haiffa tira un profondo respiro e torna sotto. In quel punto il fondale è a meno di sei metri; lei lo tocca con le mani, sbriciolando sabbia e limo con le mani. A volte ha catturato casualmente qualche granchio laggiù, o si è graffiata contro una roccia, o è stata colta di sorpresa quando... ...qualcosa le striscia lungo una gamba. Haiffa ha un brusco sussulto, ma naturalmente era solo un pesce, anche se per un istante le è sembrato... Si sente afferrare una caviglia. La stretta è salda e fredda. Lei ruota su se stessa e apre gli occhi. L’acqua salata brucia. Acqua scura. Allunga le mani. Le dita scostano la nube dei suoi capelli. Prova a scalciare, ma non colpisce nulla. L’altra gamba è imprigionata. Prova una giravolta carpiata per liberarsi da ciò che la trattiene. Qualcosa con appendici separate. Sembra una mano, ma è ridic... Un dolore lancinante quando qualcosa le taglia l’esterno del piede. Il suo urlo fugge con le bolle d’aria, sale in superficie e scoppia senza il minimo rumore. Haiffa si raggomitola e cerca di afferrarsi il piede. Le sue mani incontrano qualcosa di rotondo, con capelli. Una testa. Ma non può essere una testa, non là sotto. Le sue mani ne tastano i contorni mentre il piede le pulsa nell’acqua fredda. Le dita toccano carne fredda e due occhi aperti. Dopo il suo urlo seguente c’è un breve ansito, e quello contiene acqua. Lei tenta di controllarsi. Acqua salata in gola. Tossisce. Quel poco d’aria che le restava risale a bolle. I polmoni cominciano a dolerle. Il piede pulsa. Si sente tirare ancora per la gamba. Due mezzelune dure premono sulla sua coscia, e premono sempre più forte. Nel dolore improvviso della carne che viene lacerata si ritrova con un ciuffo di capelli in una mano. Adesso si dibatte. Cerca di urlare, ma non riesce a farlo. La sua bocca si muove per invocare aiuto, ma il mondo si trova oltre un velo d’acqua che lei non può
superare. L’unico suono è il battito del suo cuore. Il braccio mulinante che ancora stringe la ciocca di capelli viene afferrato, tirato. La bocca di Haiffa si contorce in modo orribile mentre il muscolo della sua spalla viene maciullato e strappato. L’oscurità nei suoi occhi si tinge di un rosso maculato. Un suono si accumula dentro le sue orecchie, lo squillo continuo di uno lontano campanello subacqueo. Dentro il suo cervello una soglia viene superata, la linea di resistenza oltre la quale l’istinto di respirare sconfigge la coscienza che non c’è aria da respirare. Lei inala. I suoi polmoni si riempiono di acqua. Un’ondata di sollievo si fa strada in mezzo al suo dolore. Il gelo acquieta il fuoco che le divora il petto. Qualcosa si lacera dentro di lei. Gli squilli crescono, il battito del suo cuore si attenua. Davanti ai suoi occhi solo un manto di merletto rosso. Il dolore risale lungo la sua spalla mentre viene attirata in un gelido abbraccio, viene stretta come un’amante, baciata con grande passione, consumata, mentre intorno a lei l’acqua diventa più calda. Deke si alza sulla spiaggia al suono degli spari. Bang. Bang-bang! Sembrano colpi di pistola. Si toglie la sabbia dalle natiche e si volta verso il reparto agricolo. Apre la bocca per migliorare le sue capacità uditive, ma non c’è più nulla da sentire. Non vede la mano che si solleva dall’acqua alle sue spalle, oscilla in un saluto frenetico e riaffonda. Raccoglie i suoi jeans, li scrolla e comincia a infilarli. “Haiffa,” chiama. “Haiffa!” Scruta la distesa d’acqua, cercando di vedere nel buio. L’oceano grande come una piscina olimpionica è tranquillo. È sotto da parecchio tempo, ormai. Probabilmente ha superato il cordone litorale, ma dovrebbe riuscire a sentirlo. Deke vorrebbe scoprire cos’è stata quella sparatoria, ma prima vuole assicurarsi che Haiffa stia bene. Cammina fino al termine della spiaggia e costeggia l’oceano verso ovest, dove inizia la savana. “Haiffa?” Probabilmente qualcuno ne ha avuto finalmente abbastanza del vecchio Billy e gli ha fatto saltare le cervella. O magari quell’idiota si è impiombato da solo, visto come maneggia le armi. Quel dannato imbecille sarebbe riuscito a combinare un ingorgo in una strada a senso unico con un funerale di due macchine. C’erano stati tre colpi, però. “Haiffa!”
Be’, magari con la testa che si ritrovava ci sarebbero voluti tre colpi per riuscire a beccargli il cervello, a quel dannato figlio di... Qualcosa nell’acqua laggiù? Però non era grande abbastanza per essere Haiffa. Ma cosa diavolo poteva essere? Un alligatore? Merda... Adesso al suo fianco c’era un’altra forma, qualcosa di più piccolo. Oh, avevo dimenticato di dirtelo, amico. La voce di Dieter nella sua testa. Ho messo un piccolo squalo tigre nell’oceano. Rifornimento completo, capisci? Lo spazzino degli abissi, no? Uno sciacquio mentre qualcosa emerge dall’acqua. “Haiffa...” Il qualcosa raggiunge l’oggetto più piccolo nell’acqua, lo afferra, lo solleva. Lo avvicina a sé. Adesso si dirige verso di lui. Prende forma nell’oscurità. Una figura grondante. Una donna. Non è Haiffa. Allontana l’oggetto dalla testa, lo lascia penzolare al suo fianco. Dal contorno lui vede che l’oggetto è una gamba, dal piede all’estremità sfilacciata del ginocchio. Strappata di netto. Deke scatta di corsa verso la spiaggia. Quel cazzo di pistola è sull’asciugamano... Sguazza nel terreno fangoso, stantuffa sulla sabbia umida e morbida, diretto verso il riquadro nero sulla spiaggia. Sì, la pistola è là. Una Smith & Wesson batte un poker d’assi, gli diceva suo padre. Su questo puoi contarci. Bill gli aveva chiesto di restituire le armi. “Certo che puoi riavere questa pistola,” aveva ribattuto lui, e adesso lo ripete. “Prendimela, ed è tua.” Si asciuga le mani sui jeans e impugna saldamente la pistola. Aspetta sulla sabbia mentre la figura incespica sulla spiaggia, recupera l’equilibrio e annaspa verso di lui. Un carnitrofo. Cosa cazzo significava quella parola? Una pianta è fototrofa, aveva spiegato Bill. Cioè si volta verso la luce del sole che costituisce la sua fonte di energia. Una reazione biochimica. Stimolo e risposta. Ding!, e il cane comincia a sbavare in attesa del pasto. E carni stava per comunissima carne. Merda. Solleva la pistola e arma il percussore... Carnitrofo un cazzo. Possono anche chiamarlo in quel modo se così si sentono più sicuri, ma sua madre non ha allevato un imbecille. ...mira lungo la canna da sei pollici... “L’unica parte del loro cervello ancora funzionante è il rombencefalo... la regione più antica, il cosiddetto nucleo rettilico,” aveva spiegato loro Marly, quasi tenesse una conferenza. “Sono come serpenti che possono a-
spettare tutto il giorno in un posto finché qualcosa non si fa avanti. Il nucleo R consente ai carnitrofi di muoversi, e l’unica ragione che li spinge a muoversi è quella di procurarsi carne viva.” Quella puttana con gli occhi a mandorla. Lui poteva anche essere un fottuto custode passato di grado, ma lei chi si credeva di essere per... ...e spara. La figura barcolla all’indietro e lascia cadere la gamba sulla sabbia. Poi torna a farsi avanti. “Isolate il nucleo R... con la decapitazione, o una massiccia distruzione neurale,” aveva continuato Marly, “e il tropismo verrà rimosso.” In quei ricordi Bill sorride. “In altre parole,” spiega alle masse, “fate loro saltare le cervella e incontreranno un grave problema di motivazione.” “Ti faccio saltare quel tuo fottuto cervello,” ansima Deke. Arma il percussore e spara di nuovo. Un’improvvisa increspatura luccica sopra l’occhio sinistro della creatura. Riesce a fare altri due passi. Si ferma. Solleva una mano come incuriosita. Le dita si chiudono nel palmo. La mano si abbassa. Un altro passo. Il ginocchio anteriore cede, e la creatura crolla sulla sabbia. Deke la tiene sotto mira per qualche altro secondo, poi si avvicina cautamente. Sì. E crepata sul serio. C’è una scritta sulla sua maglietta fradicia. LA VITA È UNA PUTTANA, E POI MUORI. E sotto, scritto in maniera differente. POI TORNI INDIETRO. Capezzoli sotto il cotone inzuppato. Cucù. Deke solleva lo sguardo sul piccolo oceano. Un piccolo tronco, spinto dall’eterno vento del nord, va alla deriva verso il cordone litorale. Crack! Altri spari. Un fucile, questa volta. Sarà meglio che lui... ...biancoreroventeaccecante. Gesù che cazzo... Cade sulle ginocchia. Sente caldo alla pancia. Qualcuno gli ha conficcato un saldatore arroventato nel petto. Si guarda le ginocchia. Macchie umide e scure sui jeans. Che schifo. Queste macchie fottute quando camminerò... Quella che ti becca non la senti mai. Balla fottuta. L’ho sentita benissimo. Oh, merda. Cerca di rialzarsi, ma dentro qualcosa si arresta con un brivido. [14] Nostromo abbassa il suo Ingram nove millimetri. L’uomo che ha appena
colpito inarca la schiena ed è scosso da spasimi. Dio, come odia questa scena. Come se tutti i nervi urlassero insieme. Gli fa venire la pelle d’oca. Si allontana dalla spiaggia. Invisibile nei jeans e nel maglione nero, si sposta rapido da un albero all’altro muovendosi dalle palme verso il fogliame fitto della foresta pluviale. All’estremità nord della vegetazione incontra pannelli di vetro inclinati. Estrae una scatoletta dal suo zaino di nylon, la incastra fra due battenti di alluminio e inserisce su “ricezione” un piccolo interfono senza fili della Radio Shack. Poi si affretta verso la parete ovest, dove piazza un’altra scatoletta e collega un altro interfono. Fa una pausa alla porta isolante del corridoio di accesso che conduce di nuovo al reparto agricolo, dove lui ha fatto irruzione dieci minuti prima. All’esterno del settore alloggi sono accese lampade ad arco che illuminano ogni riquadro di coltivazioni. Entrare là dentro non sarà così facile. Lo sguardo di Bill passa dal carnitrofo steso fra i resti di Grace ai pannelli mancanti in fondo al frutteto. “Va bene, adesso cerchiamo di non arrivare a conclusioni affrettate,” dice. “Può darsi che qualcuno si sia introdotto qui per rubare i maiali, e che Grace lo abbia scoperto.” “Certo,” dice Leonard. “Ha n-n-noleggiato un camioncino Ryder e ha gg-guidato fin qui per vedere se poteva c-c-comprare un tramezzino con bacon, lattuga e pomodoro.” Si passa una mano tremante sulla bocca. Bill strizza gli occhi. “Quello la stava mangiando,” dice Bonnie con voce piatta. Sembra stranamente calma, come se la morte di Grace sotto i denti di un cadavere rianimato fosse solo un altro fattore da inserire fra i molti eventi banali che si accumulavano durante il normale funzionamento dell’Ecosfera. D’accordo, Grace è morta; adesso si dovranno modificare i turni di lavoro, si dovrà tenere conto dell’improvviso surplus di un ottavo di cibo e di acqua, e naturalmente si dovrà nominare un altro moderatore per i loro incontri settimanali antistress, per non parlare di chi adesso dovrà badare ai maiali rimasti. Bill, Dieter e Leonard la guardano con occhi gelidi. Come se la sua indifferenza verso la morte di Grace risultasse più repellente del fatto e del modo in cui Grace è morta. C’è qualcosa di alieno nel suo atteggiamento. Se solo cadesse in preda a una crisi isterica, loro capirebbero. È in questo modo che le donne dovrebbero comportarsi davanti a un evento simile; sono state condizionate dalla società. Non possono farne a meno. Quindi
perché Bonnie non si mette a piangere e non la fa finita? “Immagino che non si possa escludere l’eventualità che ce ne siano altri in giro,” dice Dieter. Bill annuisce. “Qualcuno li ha fatti entrare deliberatamente. Un’infiltrazione.” “C-c-chi?” chiede Leonard. Dieter incrocia le braccia e fa il gesto di cullare avanti e indietro, canticchiando a bocca chiusa Dormi bel bambino. Bill aggrotta la fronte. Inclina il capo, lentamente. “Dovremo restare insieme,” dice. “Non voglio...” Bang. Le loro teste sussultano. Bang. “La spiaggia,” dice Leonard. “Deke e Haiffa,” dice Dieter. Bill brandisce la sua pistola. “Leonard, tu vieni con me. Dieter, rimani con Bonnie.” Bill trotterella via senza aspettare Leonard, con la pistola ad aprirgli la strada. Crack! Una detonazione diversa dalla spiaggia. Bill si ferma. Si guarda indietro. “Leonard?” Leonard deglutisce e c-c-corre dietro a Bill, reggendo il suo fucile davanti a sé come uno scudo nel quale non nutre molta fiducia. [15] Marly è nel corridoio di accesso meridionale e cerca di decidere cosa fare. Prima tre spari dal reparto agricolo a nordovest, e adesso altri tre dalla spiaggia. Che direzione prendere? Be’... presumendo che siano le stesse persone a sparare, dovrebbe dirigersi verso gli spari più recenti. Stringe saldamente la carabina e torna indietro. “Non voglio aspettare qui.” Dieter guarda Bonnie come se solo adesso rammentasse la sua presenza. “Dobbiamo aspettare finché non scopriranno cosa sta succedendo.” “Io non voglio aspettare qui.” Bonnie lancia un’occhiata verso il porcile, ai corpi dei due maiali, del carnitrofo e di Grace. Gli altri maiali grufolano
e strillano nervosi, si urtano e calpestano i cadaveri, a volte si fermano ad annusare quelli più freschi e sollevano i grugnì con i nasi tinti di rosso. Dieter va al porcile e picchia sul recinto basso per calmare i maiali, ma logicamente quelli strillano più forte. “Adesso li lascio liberi,” decide lui. Bonnie non dice nulla, e Dieter apre il cancelletto di legno. I maiali non si affrettano ad uscire, così Dieter entra nel porcile e li spinge fuori. “Io vado dentro,” dice Bonnie. “Nella mia stanza. Finché questa storia non sarà finita.” “Ehi, non puoi farlo. Hai sentito cos’ha detto Bill.” “Lui non ha nessuna autorità su di me. Qui non ci sono gradi. Non mi sarei offerta volontaria se ce ne fossero stati. Quello stronzo maschilista può andare a farsi fottere.” “Ma io mi riferisco agli zom... ai carnitrofi.” Dieter esce dal porcile, e insieme si dirigono verso l’ingresso degli alloggi. “Probabilmente ce ne sono altri nella stazione,” continua lui. “E qualcuno li ha fatti entrare. Tu non hai nemmeno una pistola.” “Odio quelle cose. Sono armi maschili. Estensioni della sessualità maschile. Se non puoi violentare qualcosa, puoi sempre sterminarla.” Dieter dedica un istante di riflessione all’idea di sterminare Bonnie, ma nemmeno mezzo a quella di stuprarla. “Vado in camera mia,” continua Bonnie, “e mi chiuderò a chiave. Là nessuno mi darà fastidio. Non ho intenzione di prendere parte al vostro sfoggio di istinti predatori primitivi. Sono una persona civile, e rifiuto di collaborare.” “Sei una fottuta testa di merda,” dice Dieter. “E sai una cosa? Uso il termine merda perché non è sciovinistico. La vostra è uguale alla nostra, sai?” Bonnie apre la porta del settore alloggi ed entra. Dieter scrolla il capo. Spiana l’estensione calibro 30. 06 della sua sessualità maschile e sorveglia l’area illuminata dalle lampade ad arco. Vorrebbe avere una sigaretta, il primo desiderio di quel genere che prova da un sacco di tempo. O uno spinello. Entrando nell’Ecosfera hanno dovuto rinunciare al tabacco, e l’idea di contrabbandare semi di marijuana era fuori questione, anche se Marly sosteneva che sarebbe cresciuta a meraviglia nell’ambiente tropicale. Rimane rigidamente al suo posto, facendo ruotare solo gli occhi e cercando di assumere un’espressione dura. Dieter il colono marziano che monta di guardia dentro la solitària isola di vétro, l’unica barriera fra la
salvezza e gli invasori morti-viventi che minacciano la loro stessa... Qualcosa gli preme contro la schiena. “Non muoverti.” La voce è soffocata, come se la gola dalla quale proviene fosse stretta da qualcosa. Comunque abbozza l’ombra di un movimento, poi si ferma. “Molla il fucile. Subito.” Abbassa il fucile. Lo mostra di lato con il braccio teso. Lo lascia cadere. Il tonfo sordo di una pistola di grosso calibro da un punto nelle vicinanze dell’oceano. Qualcuno lo prende per una spalla. “Da questa parte. Dentro.” Dieter tenta di camminare normalmente. Se solo ci fosse una porta aperta, un angolo dietro cui gettarsi... “Tieni le mani in alto. Ho un fucile semiautomatico, e non riusciresti a fare tre passi senza sembrare Warren Beatty alla fine di Gangster Story.” Dieter non può fare a meno di tentare di girarsi. “Gangster Story?” Un colpo nelle reni. “Muoviti, stronzo.” “Dove andiamo?” “Nella stanza dei generatori. Delle batterie. O come cazzo voi altri la chiamate.” “Non so come...” “Non mi interessa quello che non sai. Portami là. Tenta qualche scherzo e ti ammazzo. E ti sparerò al cuore, così dopo tornerai indietro come i miei amici là fuori.” Dieter prova a immaginarsi ridotto a un automa: barcollante, la bocca aperta, le mani protese, gli occhi appannati, attratto dalla carne dei vivi. Voltando a sinistra verso la stanza dei generatori, si domanda se per lui il mondo sarebbe veramente così diverso. [16] “È Deke.” “Lo ha ucciso? Il... il carnitrofo lo ha ucciso?” Bill tocca con la punta di un piede il corpo prono di Deke, che cede mollemente. C’è un piccolo foro, quasi privo di sangue intorno, fra le scapole. Bill si china e gira il corpo. Il busto fa un mezzo giro ma le gambe rimangono con le ginocchia nella sabbia, e il corpo sembra snodato alla vita. E così che si capisce che uno è morto, pensa Leonard. Non gli importa più la posizione che assume. Bill fa rotolare anche la parte inferiore del corpo di Deke. Senso del de-
coro? Poi si acquatta vicino all’ampio torace di Deke. C’è un foro di uscita più largo, più slabbrato, esattamente nel plesso solare. “Qualcuno gli ha sparato alle spalle,” dice Bill. Leonard si guarda intorno. Sono piuttosto esposti, lì sulla spiaggia. Qualcosa galleggia contro il cordone litorale nell’acqua. Un cecchino appostato laggiù, prono nell’acqua? Troppo lontano, troppo buio per stabilirlo. “Non sarebbe m-m-meglio metterci al riparo?” chiede. “Chiunque gli abbia sparato non è rimasto certo dov’era.” Bill si alza e si avvicina al cadavere del carnitrofo. “Muoversi in continuazione su tutto il terreno. Manovra tattica. Vantaggio offensivo. Cerca e distruggi. Dividi e conquista.” Leonard si ferma al suo fianco. “Ne ha portato uno con sé,” commenta Bill. Non possono vedere il corpo di Deke che si agita dietro di loro. “Gli è s-s-servito a molto,” ribatte Leonard. Non lo sentono rialzarsi e cominciare la sua lenta avanzata. Leonard si mantiene a rispettosa distanza dalla morbosa X formata dal corpo del carnitrofo. “Allora... c-cosa facciamo adesso?” Bill non risponderà mai, perché Leonard si sente afferrare per una spalla. Si gira e si trova faccia a faccia con Deke. Da principio è sollevato: hanno commesso un errore e dopotutto Deke non è m-m-morto. Ma la realtà di ciò che vede gli fa cambiare subito idea: Deke ha gli occhi fissi e il viso molle, inespressivo. Ha il mento sporco di sangue raggrumato. Sul lato destro del viso c’è della sabbia che gli arriva fino all’occhio... Leonard nota alcuni granelli contro la pupilla. Ma Deke non sbatte le palpebre. Non respira. Non ha una sola scintilla di vita negli occhi. Le sue dita di ghiaccio si stringono intorno alla spalla di Leonard, tirando. Cosa vuoi dire, Deke? Cosa stai cercando di raccontarmi? N-n-niente? La sua bocca si apre. Bill sta urlando qualcosa, ma Leonard è così affascinato dalla vista di Deke tornato dal regno dei morti come un Gesù razzista e bigotto del profondo Sud che proprio non sente le parole di Bill. Deke il Risorto lo attira più vicino, e Leonard sa che dovrebbe fare qualcosa ma può soltanto starsene a guardare. Il fucile è un pezzo di legno fra le sue mani. Carne della mia carne, vecchio mio. E questo che Deke direbbe se i lobi anteriori del suo cervello funzionassero ancora. Devi essere battezzato subito! Devi ricevere la fede! Lo Spirito Santo deve entrare in te! Chistramaledettunque crede in me non perirà, ma vivrà in eterno nella Casa degli Annoiati. Ma Deke il Salvatore si ferma. Fissa Leonard con una specie di mestizia
a bocca aperta, con un’espressione di desiderio frustrato come quella di un bambino cui sono stati negati i fiocchi d’avena zuccherati durante una visita dal droghiere con la mamma. La mano è ancora sulla sua spalla, ma non la stringe più con bisogno famelico, non l’attira verso di sé con urgenza implorante. Negli occhi spenti si insinua un’espressione quasi canina, interrogativa. Leonard prova una specie di delusione. Sente l’impulso improvviso di ragionare con Deke, morto o no, di chiedergli: cosa diavolo sta succedendo qui, vecchio mio, hai intenzione di mangiarmi oppure no? Ma la canna nera, incredibilmente lunga, di una pistola fa il suo ingresso sulla scena e sfiora dolcemente la tempia di Deke. Leonard vede la mano stretta intorno al calcio, l’indice con l’unghia rosicchiata curvo intorno al grilletto, il percussore armato. Bill giunto in suo soccorso. Bill che ogni notte sogna cani idrofobi, cavalli con gambe spezzate, soldati feriti mortalmente in un plotone inseguito da forze nemiche. Se abbatti di persona il tuo cane dai prova di fegato; dare il colpo di grazia a qualcuno è anche una dimostrazione della tua umanità. Da quanto tempo Bill desidera dare il colpo di grazia a qualcuno? Una resurrezione innaturale e sacrilega separa Deke dalla sua ricompensa celeste; Bill, in qualità di agente di Dio, libererà il suo spirito. Il dito preme a fondo il grilletto, il percussore scende, la pallottola vola, il ripostiglio dell’essenza di Deke finisce spruzzato sulla sabbia. Padre perdona loro. Marly torna a nascondersi dietro l’albero. Cristo santo, lo hanno ucciso; hanno sparato a Deke... No. No. Rifletti. Raduna i pensieri. Deke era già morto. D’accordo. Allora forse Bill e Leonard sapevano cosa stava succedendo nella stazione, cosa significava tutta quella follia. Sudando nella fasulla notte subtropicale, lascia il riparo del tronco. Abbassa il suo fucile e agita un braccio. “Ehi,” chiama. Bill compie un mezzo giro e spara. La 44 Magnum ha il rombo di un cannone. Marly sente la pallottola piantarsi in un ramo dietro di lei. Una scheggia le colpisce il braccio. Si getta a terra, rotola di lato e si ritrova distesa con il calcio della carabina contro la spalla destra e l’occhio sinistro che prende la mira. “Sono Marly,” grida. “Butta la pistola.” “Marly...” Bill si dirige verso di lei. “Butta la pistola, o Deke ti terrà aperta la porta dopo essere entrato.”
Lui esita, forse riflettendo sulla seconda parte del messaggio di Marly, ma lascia cadere la pistola. Con la mano sinistra si massaggia il polso. “Anche tu, Leonard.” “Ascolta, Marly, c-c-ci sono altre di queste creature qui intorno. Non penso che sia una b-b-buona idea...” Lei preme il grilletto. Il fucile non ha tanto rinculo come lei temeva. Uno sbuffo di sabbia si innalza dietro la gamba destra di Leonard, e lui getta il fucile. Marly si rialza e scende verso di loro. “Allora, cosa diavolo sta succedendo?” domanda mentre si avvicina. “Q-Q-Qualcuno è penetrato nella stazione,” dice Leonard dalla spiaggia. “Infiltrazione,” aggiunge Bill. “Carnitrofi come diversivo. Dietro le linee nemiche. Liberati lupi marinari nel limbo. Incursione tattica, colpisci e fuggi, forza di fuoco scelta per guerriglia multiambientale. Postazioni strategiche, Squadra all’erta.” Ha il fiato corto. Il suo polso destro si sta gonfiando. Marly guarda Leonard, che si stringe nelle spalle e sembra momentaneamente preoccupato. Bill, sembra indicare con il suo gesto, sta giocando a poker con un mazzo da pinnacolo. “Grace è morta,” dice Leonard, e Marly sente qualcosa che possiede molte lame schiudersi nel suo petto. Non perché tenga in modo particolare a Grace, siamo onesti, ma perché il loro gruppo ermetico risulta in questo modo irrimediabilmente ridotto. Nel sistema è stato introdotto un cambiamento: da questo sasso nello stagno si propagheranno cerchi portentosi. Era proprio ora. Indica i cadaveri sulla sabbia dietro Leonard. “Uno di loro?” Lui annuisce. “Anche H-H-Haiffa, pensiamo.” “Ho visto cosa è successo con Deke. Perché si è fermato? Ti aveva a portata di denti, ma si è fermato.” “Perché io l’ho liberato,” ribatte Bill. “L’ho tolto dal suo limbo. Perché gli ho fatto saltare quel suo maledetto cervello.” “Perché ha smesso di aggredirti prima che Bill gli sparasse?” Marly rivolge seccamente la sua domanda a Leonard, che si stringe nelle spalle. “Non lo so. Un attimo prima lo avevo addosso, e l’attimo d-d-dopo era come se avesse fiutato carne m-m-marcia o qualco...” Si interrompe. Marly aggrotta la fronte. “C-c-carne marcia,” dice Leonard. “Oh, mio Dio. È stato questo. Gli scarti del branco. Informazione cellulare.” Fissa Marly. “Cristo santo, è stato questo.” Il suo balbettio è notevolmente diminuito.
“È una pistola davvero eccellente, devo ammetterlo,” dice Bill. Marly lo ignora. È incerta sul da farsi. Adesso sembra che anche Leonard stia dando i numeri. “Morbo di Hodgkin,” dice Leonard, e si batte sul petto. Per un attimo Marly pensa che sia un altro non sequitur, poi comprende. “Figlio di puttana,” dice. “Non ci hai mai detto...” E le luci si spengono in tutta l’Ecosfera. [17] Bonnie siede sul letto nella posizione del loto. Om mani padme om. Om mani padme om. Usa la litania come una specie di amuleto per allontanare tutta la feccia karmica che stanotte dev’essersi accumulata intorno a lei. Sta appena iniziando a rilassarsi quando le luci si spengono. Lei rimane seduta al buio per qualche istante, in attesa che i suoi occhi si abituino. In lontananza sente un debole crepitio di pop corn scoppiettante. Discute con se stessa se restare nella sua camera. A farla decidere è la consapevolezza che probabilmente il ricambio d’aria non funziona, se l’energia è venuta a mancare. Meglio andare fuori. Ma... fuori? Gli uomini si staranno dando la caccia a vicenda, e probabilmente Marly starà partecipando ai loro giochi di guerra da adolescenti. Fuori? No, meglio aspettare che passi. Di sicuro ci sono dei carnitrofi là fuori, i cadaveri rianimati, ma Bonnie non prova nessun timore superstizioso nei loro riguardi. Non hanno chiesto loro di essere quel che sono, e quel che sono non è poi così diverso dalle piante. Piante affamate, piante dotate di mobilità, ma pur sempre piante. E Bonnie prova un’affinità con le piante. Di sicuro non si sente minacciata da esse, così come non si sente minacciata dai carnitrofi. Si poteva batterli in velocità, in astuzia, in qualsiasi campo. Bonnie fruga nel suo armadietto modulare fino a trovare una minuscola torcia elettrica Tekna. Ruota la guarnizione zigrinata intorno alla lente, e la luce si accende. Sposta il cerchio luminoso nella stanza e la scena le ricorda un germe sotto un microscopio. La luce è l’unica arma di cui ha bisogno. Punta il cerchio di luce sulla porta e si avvia in quella direzione. “È qui.” Dieter apre la porta della stanza dei generatori e fa per entrare. “Resta dove sei. Accendi la luce.” “Non posso restare dove sono e accendere la luce.”
“Accendi la luce, stronzo.” Dieter allunga un braccio nella stanza e accende la luce. Avanza con piccoli passi, spinto da dietro. La porta viene chiusa alle sue spalle. Si volta a guardare per la prima volta l’uomo che lo ha catturato e non è stupito di riconoscere il giovanotto dai capelli lunghi che è venuto a elemosinare cibo la settimana prima. E stato solo la settimana prima? Non è sicuro di quanto tempo sia passato. Il tempo vola. “Sì, sono io,” dice il giovanotto. “Resta dove sei. Intreccia le dita e metti le mani sopra la testa. Stiamo giocando alle sciarade e tu sei una sequoia, capito?” Dieter non capisce, ma annuisce lo stesso e fa come gli è stato detto. L’uomo gli tiene puntato addosso un fucile mitragliatore mentre si toglie lo zaino di nylon. Si china e lo apre, sempre tenendolo sotto mira, poi tira fuori un oggetto delle dimensioni di una scatola di matite colorate. E verde oliva e ricurvo come una fiaschetta da tasca. Su un fianco, a lettere in rilievo, è scritto LATO VERSO IL NEMICO. L’uomo porta lo zaino e la scatola verso il quadro comandi dei convertitori elettrici, gli interruttori automatici, i controlli dei generatori, i voltmetri, i regolatori e le file sovrapposte di batterie di accumulatori. Posa la scatola faccia in giù sul quadro comandi, tira fuori una scatoletta bianca con pulsanti quadrati che assomiglia a una radio portatile, la collega alla scatola ricurva e regola un interruttore a tempo. Posa un’altra scatola ricurva contro la fila di batterie. “Bella baracca avete qui,” dice con tono quasi cordiale mentre lavora. “Tutte le comodità di casa. Aria condizionata. Temperatura controllata. MTV.” “Che cosa vuoi da noi?” chiede Dieter. “Niente.” Lui lo guarda. “Sul serio.” Alza le spalle. “Un tempo volevo un paio di hamburger, ma dopotutto, oggi la vita nelle grandi città è fatta così, no?” “Senti, amico, io volevo darti del cibo. Agli altri l’ho detto che dovevamo farlo, che era la cosa giusta da fare. Ma non hanno voluto... “ L’uomo gli fa cenno di tacere. “Acqua passata,” dice. “Che il passato seppellisca i suoi morti, dico sempre io.” Indica la fila di interruttori automatici. “L’interruttore generale?” chiede. Dieter alza le spalle. “Sono un biologo marino,” dice. “Uhm. Solo un soldatino che obbedisce agli ordini, eh?” Dieter non dice nulla. L’uomo si alza e va agli interruttori. Abbassa il primo. Non succede nulla. Ne abbassa un altro. Nulla. Un altro. “Ci siamo,” dice. “Stanno facendo scattare qualcosa da qualche parte.” E
continua ad abbassare interruttori. Le luci si spengono, e Dieter fa la sua mossa. Nostromo aspetta finché non sente scattare la serratura e la porta che viene aperta. Allora spara una raffica in automatico, facendo compiere alla canna un breve arco. Il caricatore è vuoto in pochi secondi. Sgancia quello vuoto, lo lascia cadere, ne prende uno carico dalla tasca posteriore e lo infila. Poi si china e brancola fino a trovare lo zaino. Trova la torcia stilo e l’accende, poi l’attacca sotto la canna dell’Ingrani con del nastro isolante ed esamina l’interno della stanza. Il corpo tiene aperta la porta. Su entrambi i lati della soglia ci sono fori di proiettili in una leggera diagonale. Nostromo si rimette lo zaino in spalla e scavalca il corpo. “Che razza di imbecille,” dice. Abbassa il fascio di luce. Tutti colpi alla schiena, un bel grappolo. Fra poco non conteranno molto, ma che importa? E la festa di Nostromo. Più invitati, più allegria. Schermando con una mano la torcia, esce nel corridoio e comincia a percorrerlo. Bill non spreca un secondo: sa dov’è la sua pistola, e quando le luci si spengono lui si china, la raccoglie e corre via. Non gli serve la luce per trovare la strada. Cinestesia acuta. Senso notturno. Programmato per registrare il movimento. Sotto assedio. Cavallo di Troia. Marly e Leonard lo chiamano, ma lui continua a correre. Il nemico è là fuori. Nella macchia. Nel deserto. Nella palude. Nei campi. Nel loro stesso cortile di casa. Occorre schierarsi. Occorre andare in ricognizione. Colpisci e rotola. Colpisci e fuggi. Raggiunge facilmente la porta isolante e percorre il corridoio di accesso in direzione ovest. Sbuca in aria più fresca e fra le coltivazioni. Là fuori. In attesa. Passi. Che corrono verso di lui. Un respiro, dal basso, da terra. Strisciano, quei perfidi figli di puttana. Una figura pallida avanza a quattro zampe. Lui alza la Magnum e spara. Il dolore gli azzanna il polso slogato. Merda, che male. Bisogna essere duri, figliolo. Senza dolore non c’è onore. Uno strillo, un respiro ansimante. Una forma massiccia che scalcia nell’aria davanti a lui. Un maledetto maiale, Cristo santo! Con il polso che urla, procede furtivo nel campo di granturco. Là, laggiù, due di quegli stronzi fottuti. Zip, zip, come se fossero già morti. Ma sono già morti... hah! Meglio sbrigarsi. Procede furtivo. Gli restano tre colpi? Vediamo: uno che ha liberato De-
ke, uno che ha mancato Marly, e uno per preparare il bacon. Sì: ne restano tre. Adesso stanno avanzando verso di lui. Stupidi bastardi, non hanno nemmeno tanto cervello da nascondersi. Non si può cogliere di sorpresa una strafottuta pallottola. Cammina sicuro fino al più vicino. Quello afferra la canna. “Di’ buonanotte, tesoro,” dice lui, e preme il grilletto... ma quel figlio di puttana ha agguantato anche il retro della pistola, e il percussore non può sollevarsi. Bill da uno strattone alla pistola e la creatura si accontenta di assecondare lo strappo. L’altro è piuttosto vicino, adesso. Bill gli punta un piede contro lo stomaco e spinge. La pistola è libera. Bill fa un passo indietro. Troppo vicino per perdere tempo a mirare. La testa è un bersaglio difficile. Posizione regolamentare, la canna allineata, premi... Bum! e lo stronzo viene scagliato indietro come se Dio in persona gli avesse mollato un calcio. Al lampo dello sparo la maglietta dice SALVIAMO LE BALENE. Bill ignora il dolore al polso mentre mira e spara alla seconda figura barcollante. Bum! MANGIAMI, dice la maglietta. Bill scoppia a ridere. “Mangiati questo, testa di merda!” Sventola la Magnum. Ha il polso in fiamme. È vivo. Corre verso il quartier generale della Squadra. Quando è a soli tre metri, la porta si spalanca. Lui spara automaticamente: l’ultima pallottola, puntamento rapido, e dritta in fronte, perdio! Cosa dice la sua maglietta? Si china, strappa la piccola torcia dalle dita che si contraggono e la punta verso il basso. Niente maglietta. Un chimono, aperto a mostrare un seno. Non dice niente. Il cerchio di luce sale fino agli occhi vuoti, alla fronte perforata, ai capelli rossi. Bonnie. [18] Leonard cammina nella foresta dei morti. È uno di loro e loro lo lasciano in pace. È avvelenato. È tabù. È carne marcia. Leonard comincia a ridere. In lontananza, degli spari. Sudando, vaga con un sorriso fra la rigogliosa flora tropicale. Ce la farà. Loro lo lasceranno in pace. Solo Leonard può raccogliere il guanto di sfida dei morti. L’individuo rifiutato dal branco finalmente trionfante. Darwin al
contrario. Coloro che non sono sopravvissuti permetteranno all’indesiderato genetico di continuare a vivere. Un altro sparo. Leonard si ferma. Perché si rende conto che adesso per lui sono più temibili i vivi. Allora salirò su un albero. Resterò seduto su un ramo e aspetterò l’alba. E poi? Sarò libero. Libero di fare tutto ciò che voglio. Per tutto il tempo che... che mi rimane. Trova un albero adatto e comincia ad allontanarsi dal terreno coperto di foglie. Marly pensa che sia venuto il momento di abbandonare la nave. Udendo i primi spari si è mossa, spinta dalla preoccupazione per l’Ecosfera e per la salvezza degli altri, ma ora si accorge che da parecchio tempo l’Ecosfera non è altro che una nave fantasma, l’Olandese Volante del deserto dell’Arizona, e che il motto del suo equipaggio è sempre stato ognuno per sé. La situazione attuale non fa che ribadire quel punto. No... è troppo tardi per riparare le falle, per tornare a essere una Squadra; non esiste una via di ritorno verso l’Età Aurea del passato. E tempo di saltare su una scialuppa e di remare verso la riva. Marly esce dal corridoio di accesso e si accuccia vicino al vetro. In tasca ha la chiave dell’armeria, presa dal corpo di Deke sulla spiaggia. Nell’armeria ci sono le chiavi della Land Rover, insieme ad altre armi e munizioni. Corre avanti, sempre chinata, la carabina pronta. Quasi inciampa nel corpo di un maiale. Ha metà della testa spappolata. Billlostronzo. Si affretta verso l’habitat. Al buio ogni forma è una minaccia. Perché non ha pensato a prendere una torcia? Be’, quello non era certo il genere di emergenza che avevano previsto. Ma non era esattamente il tipo di emergenza che avrebbero dovuto prendere in considerazione? La ruggine delle piante non impallidiva forse al confronto? Si dirige verso le tre alte file di granturco. Da quel punto potrà esaminare i dintorni prima di procedere. Un corpo fra i gambi. A faccia in su, ma ormai senza faccia. Più sotto, SALVIAMO LE BALENE. Gli gira intorno e si allontana un po’ prima di inginocchiarsi sul terreno ricco. Odore acuto di fertilizzanti azotati.
Guarda verso gli alloggi. La porta è rimasta socchiusa, bloccata da un corpo. Può vederlo solo dalla vita in giù; la parte superiore è dentro l’edificio. Troppo buio per capire chi sia. Un fruscio nel granturco. Marly si immobilizza. Si sforza di ascoltare, ma è difficile con il suono del suo respiro e del battito del suo cuore che le riempie le orecchie. Gira lentamente il capo. Il fruscio si avvicina alla sua destra. Si volta da quella parte e assume la posa del tiratore, la gamba destra indietro con il peso sul ginocchio, la gamba sinistra in avanti, il gomito sinistro sul ginocchio sinistro, il fucile puntato. Là. Barcolla verso di lei quasi ubriaco. Si muove molto lentamente; Marly ha tutto il tempo che vuole. Rinsalda la stretta sul calcio, mira e spara. Il fucile sobbalza leggermente. La figura ubriaca oscilla all’indietro, inciampa nel corpo alle sue spalle e cade a terra. Ma si rialza. Mira alla testa, ricorda Marly. Il torace è il bersaglio più facile, ma la testa è l’unica parte che alimenta quelle creature. Il midollo allungato. Preme l’otturatore con lo spigolo della mano e lo tira indietro. La cartuccia viene espulsa. Spinge l’otturatore in avanti, e quello si blocca. Lo tira ancora indietro e lo spinge di nuovo in avanti. Inutile, si è inceppato. Lo spaventapasseri si avvicina fra il granturco. Se solo avessi un cervello. Si alza e si volta... ...per finire fra le braccia di un altro. La stringe. Puzzo di carne putrefatta. Apre la bocca. Le otturazioni d’oro, chissà come, scintillano. Una lacerazione a mezzaluna in un lobo dove un orecchino è stato strappato. La sua testa si china verso di lei. Marly solleva un braccio e lo afferra per la gola, costringendolo a sollevare la testa. La carne contro il suo palmo è pendula e fredda come cuoio, come toccare il collo di una tartaruga. Lo colpisce a un fianco con il fucile, ma non c’è spazio sufficiente per un colpo molto forte. La creatura emette un fievole belato. Odore di aria stantia da polmoni morti. Tutto in silenzio, in troppo silenzio; assurdamente, lei pensa che dovrebbe esserci più rumore. Si sente afferrare per i capelli da dietro. Si volta e la cosa affamata si volta con lei, incuneata adesso fra lei e la prima creatura. Marly continua a premere contro la gola che non respira più da chissà quanto tempo, mentre l’altra creatura cerca di brancicarla da sopra le spalle della collega che la trattiene. Marly non riesce a liberarsi.
Pop! come un tappo da champagne. Il carnitrofo che non la trattiene scivola di lato, resta in equilibrio su una gamba sola come un mimo da strada impegnato in un’oscura imitazione, e cade. Quello che la trattiene sposta la testa da un lato all’altro e schiocca i denti cercando di mordere la mano con la quale vuole nutrirsi. Clack-clack! Clack! “Giralo!” grida qualcuno. “Giralo verso di me! Stramaledetta...” Marly fa un ultimo sforzo. Per un istante pieno di panico si sente sbilanciata, prossima a cadere addosso alla creatura, ma riesce a sollevare una gamba, a piantarla nell’inguine della creatura e a ruotare su se stessa. Un suono forte, martellante, alla sua destra. La testa della creatura si sbuccia e si squaglia come un’albicocca troppo matura. Marly viene trattenuta ancora per un istante, poi sente le dita morte contratte da spasmi contro la sua carne. Infine la creatura crolla, e lei la spinge lontana e fa un salto indietro, voltandosi verso chi ha sparato. Un fascio di luce, ma chi c’è dietro la torcia? Bill? Dieter? Leonard? La luce si avvicina, facendo scintillare una canna corta di fucile mitragliatore poco sopra. “Tu...?” Lui annuisce. La luce non vacilla. Lui la scherma con la mano sinistra a coppa. “Vattene di qui,” dice. “Ma... io non...” “Fila via. La festa sta per finire.” Marly riflette un attimo, poi annuisce. “Stavo appunto per andarmene,” dice. “Ottima idea.” Lei è sul punto di ringraziarlo, ma si ferma. A quel punto non servono i ringraziamenti. Lui non l’aveva ringraziata per il cestino, vero? Marly annuisce di nuovo. “Devo prendere cibo e munizioni.” “Ti rimangono ancora dieci minuti.” “Gli altri,” comincia lei. “Devo...” “Gli altri si fottano. Prendi la tua merda e taglia la corda.” Tuttavia lei esita ancora. “Sono una... una botanica. So come fare funzionare questo posto. Posso dare da mangiare a te e a tua moglie... e al vostro bambino...” “Non era un bambino vero.” La luce si abbassa, poi torna a sollevarsi. “Una testamorta.” “Testa...? Ohmiodio.” “Ce ne sono un sacco là fuori, di testemorte così. Ma tu non potevi sa-
perlo. Sei sempre rimasta qui dentro.” Marly sente qualcosa che le si rivolta dentro. Un mondo di bambini morti che strisciano senza un attimo di requie, masticando con le bocche sdentate. “Vuoi la stazione,” dice. “Questo lo capisco. Ma ascolta, io so come farla funzionare. Non può tirare avanti senza...” “Non voglio che tiri avanti. Voglio farla a pezzi.” “Farla...” Marly cerca il suo viso sopra la luce. Poi annuisce ancora. “Sì,” dice. “Sì, lo immagino.” “Otto minuti.” La luce si spegne, e lui scompare. [19] Bill con la sua torcia Tekna nel frutteto. La pistola in pugno, il polso gonfio da far paura. Incursione. Evasione. Avanzata furtiva. Eliminazione delle sentinelle. Ce n’è un altro davanti a lui. È MORTO, JIM. Puoi scommetterci le palle, Sherlock. cose sugli alberi una volta cibo ma non più odore ricordo acquolina in bocca ma adesso niente c’è luce verso luce per cibo con luce lei con luce le sue mani strìngevano l’albero del cibo nutrivano infilavano in mia bocca e io mangiavo il cibo dell’albero ma non il cibo era sua mano che stringe luce e dietro luce c’è cibo e se raggiungo la luce mangerò e sarò io e saprò Bill regge la piccola torcia con il polso destro slogato e solleva la pistola con la sinistra. Marly apre al buio l’armadio trasformato in armeria, prende una torcia da un ripiano, esamina l’interno della stanza e comincia a raccogliere scatole di munizioni in una cassetta di plastica arancione. Dieter stacca il suo corpo crivellato di proiettili dal pavimento e scende barcollando il corridoio buio. Dietro di lui la porta della stanza dei generatori si richiude con un tonfo. Bonnie si raffredda metà dentro e metà fuori dalla porta d’ingresso degli alloggi. Leonard aspetta l’alba sul ramo di un albero sudamericano. Haiffa galleggia dolcemente sull’oceano, sfiorando il sottile cordone litorale. Nostromo piazza un’ultima carica. I maiali corrono alla cieca fra l’oscura geometria delle coltivazioni. Bill prende la mira e spara alla cosa che brancola verso la sua luce, preparandosi ad assorbire il rinculo. Marly accumula pacchetti di cibo disidratato in un sacco di plastica per
la spazzatura. Click: Bill fissa meravigliato la sua pistola. la luce che voglio raggiungere perché dietro la luce c’è sempre cibo Dirigendosi verso la porta di uscita con le provviste e un fucile a tracolla, Marly vede Dieter che si allontana da lei scendendo con andatura barcollante il corridoio buio. Nostromo si ferma sulla soglia del portello stagno quando sente le urla di Bill. Sorride, batte silenziosamente le mani e fa un inchino. Poi esce; aspettatevi il bis, gente. “Dieter?” azzarda Marly. Leonard è appollaiato sul suo albero e guarda l’oriente che si sta illuminando. Dieter si gira verso Marly. Nostromo scende lungo il fianco della collina e apre la portiera del camioncino Ryder. “Merda,” dice Marly, lasciando cadere la cassetta arancione e il sacco della spazzatura. Leonard si gode la debole sfumatura corallina che tinge il bordo dell’orizzonte. Jo-Jo si gode la carne calda di Bill sotto le foglie dei meli. Marly alza il fucile. Il viso di Dieter è una smorfia contorta che lei ricorda dai loro orgasmi. Nostromo gira la chiave, preme la frizione, inserisce la prima e si allontana tranquillo lungo la strada. Bill fissa con occhi immobili l’infinito della notte che sfuma sopra il tetto di vetro della sua piccola isola civilizzata. Marly abbassa il fucile. Dieter si protende bisognoso verso di lei. Leonard siede sempre sul suo trono frondoso, i piedi dondolanti, ad ammirare il sorgere del sole. Marly raccoglie la cassetta arancione e il sacco della spazzatura, si gira e scavalca il corpo di Bonnie che le tiene aperta la porta. luce poi cibo io muovo per suoni non da casse ma suoni che sento comunque e lei allunga la sua mano Nostromo si allontana di poco più di un chilometro e accosta di fianco a una bassa collina, girando il camioncino per avere l’Ecosfera di fronte. Un debole luccichio di vetro e alluminio sotto i primi raggi di sole. Marly esce di corsa dal portello stagno, getta sacco e cassetta sul retro della Land Rover, butta il fucile sul sedile del passeggero, infila la chiave nel quadro. Nostromo sbircia il lungo specchietto retrovisore sulla portiera. Aspetterà finché il sole non si sarà levato sopra l’orizzonte. Un debole ronzio sotto il cofano: la batteria è scarica. Merda. e i suoni più forti e altri si muovono e lei mi guarda con la mano tesa e la bocca si apre e suoni dalla bocca
Dal suo trespolo Leonard guarda Marly che apre il cofano della Land Rover. Ma sì, lei può andarsene, possono andarsene tutti. Adesso Leonard sa chi è lui in realtà: la morte dentro il suo corpo ha trovato un proprio fondamento puro, non ancora raffinato, nella morte all’esterno. Nostromo apre la portiera e scende. Il sole è una cupola all’orizzonte, un’esplosione nucleare congelata, l’Occhio di Dio. Marly toglie la batteria e la getta sull’asfalto. Ce ne sono diverse altre sul retro della Rover. Bill è - era? sempre meticoloso in queste cose. Un movimento le fa girare il capo: una figura dentro l’Ecosfera preme contro il vetro, i lineamenti cadaverici appiattiti sovrastano una maglietta che dice I GIOCATORI DI RUGBY MANGIANO I LORO MORTI. Nostromo inspira l’aria fresca del mattino che soffia sul deserto. Si toglie la fascia elastica dai capelli per sentirli inondati da quella brezza. Si sente molto vivo. In lontananza l’Ecosfera scintilla come un giocattolo abbandonato. Marly richiude con un tonfo il cofano, sale sulla Land Rover e gira la chiave. Un volta, due volte, poi il motore finalmente si avvia. Esce dal parcheggio facendo stridere le gomme, e Leonard la saluta dal suo albero. [20] Il sole si stacca dalle montagne che frastagliano l’orizzonte. Nostromo va verso il retro del camioncino e apre il portellone. Prende una cassa dal fondo ricoperto di legno, e da quella estrae una scatola. Allunga l’antenna telescopica e preme un pulsante. Una luce rossa si accende: CARICA COLLEGATA. Porta con sé la scatola e va a sedersi sul cofano del camioncino. Se la posa in grembo e preme un altro pulsante. Un’altra luce rossa ammicca sopra la scritta bianca INNESCATA. Nostromo fa crocchiare le nocche e guarda in lontananza la struttura di alluminio che sorregge i pannelli di vetro triangolari. “Adesso la parte migliore spetta a me,” dice, e solleva un dito. “Oh, no, non lo fare.” Il dito esita. Nostromo guarda sulla destra. Il vento gli sbatte i capelli sugli occhi. Scuote la testa per liberarsi la visuale. La ragazza cinese è in cima alla collina e gli punta addosso una carabina. Si fissano attraverso il pendio arancione. La canna del fucile compie un breve gesto verso destra. Nostromo posa la trasmittente. La ragazza stringe la mascella; Nostromo scende dal cofano caldo del camioncino. Lei scende dalla collina verso di
lui. Nostromo allarga le dita e allontana le mani dal corpo. “Siediti,” dice lei. Nostromo obbedisce. “Mani sopra la testa.” Nostromo obbedisce. “Non mi lasci mai divertire,” dice. “Cosa contavi di fare...” chiede lei, “dopo?” Nostromo alza le spalle. “Non lo so. Ho un mucchio di provviste sul camioncino. Andare nell’Oregon, magari. Trovare qualche fottuto rifugio atomico da quelle parti, e installarmi là. Cerco di non farmi troppe illusioni sul futuro. E tu?” Tocca a lei alzare le spalle. “Il parco di Yosemite, forse.” Lui sogghigna. “Orsi e opossum. Stufato di procione.” “È quello che suppongo che sia?” Marly indica con il capo la trasmittente sul cofano. “Non intendevo suonare del rock and roll, se intendi questo.” “Come pensavo.” Lei gli tiene puntata addosso la carabina e si impossessa della trasmittente. Due pulsanti brillano rossi: CARICA COLLEGATA e INNESCATA. Poi c’è un pulsante senza luce: DETONARE. Lei alza lo sguardo su di lui, che si agita irrequieto sotto l’occhio vacuo del fucile. “Nervoso?” “Dobbiamo smetterla di incontrarci in questo modo.” “Non posso permetterti di farlo,” dice lei. “Mi dispiace.” “Perché no?” Nostromo abbassa le mani. “Sei come quegli altri stronzi? Stai ancora tentando di perseverare?” “No.” Marly abbassa il fucile verso la strada e solleva la trasmittente. Tira un profondo respiro. “Perché voglio farlo io.” Alza una mano... [21] ...Dieter esplora l’acquario dei morti, intrepido esploratore marziano e finalmente accettato dal mondo cui appartiene, cartografo dei dannati... ...Bill risorto, rinato all’alba, finalmente in pace con il mondo e soddisfatto della sua unica missione: nutrirsi... ...Leonard l’arboreo, monumento alla sconfitta di Darwin; Leonard Rex Mortuorum, Re dei Morti; Leonard finalmente al potere, pronto a tornare
sulla terra illuminata per prenderne possesso con il suo nuovo popolo, per regnare sulla nuova necropoli... altri ma niente per loro io cammino c’è luce dopo gli alberi del cibo vado vicino premo il viso contro il chiarore verso la luce chiudo gli occhi e lei è là con le mani morbide e c’è musica e roger lei dice Roger vieni a ballare con me, e io la prendo per mano, e apro gli occhi, e c’è musica, e luce, e io ricordo... [22] ...e abbassa un dito. SASSOFONO Nicholas Royle Le risposte furono quelle che lui aveva temuto. Era praticamente impossibile ottenere i visti necessari per conto di un’altra persona, a meno di non lasciare il paese e impegnarsi in attività pericolose e armate. Non che questo entrasse in conflitto con i suoi principi, visto che non ne aveva alcuno. Ma era rischioso. Le squadre pirata che infestavano il purgatorio della Jugoslavia erano soggette ad attacchi incendiari tanto da parte delle forze occidentali quanto di quelle orientali. Le truppe ungheresi pattugliavano in piccole unità armate fino ai denti di granate alla termite, mentre gli aerei americani sganciavano bombe al napalm fiduciosi del fatto che le vittime sarebbero state prevalentemente orientali, diciamo al settanta per cento. Hasek tornò indietro strisciando lungo la stretta trincea di cemento che era stato costretto a usare per arrivare all’ufficio informazioni per i visti. A un incrocio di tre passaggi si fermò, riposando contro il muro la schiena ferita, e sgranchì le dita facendole correre velocemente e senza sforzo su una tastiera immaginaria. Riemerse in prossimità della piazza principale di Tirana, di fronte a una delle molte statue decapitate di Stalin. Quattro figure lacere se ne stavano rannicchiate davanti a uno schermo tremolante sotto un riparo di lamiera ondulata alla sua sinistra. Due stavano fumando, un atto impossibile in quanto inalare ed esalare erano ormai operazioni superiori alle loro capacità, ma le vecchie abitudini erano dure a morire. Un terzo uomo aveva sollevato una bottiglia alla bocca sfigurata e si versava alcol nella gola; un al-
tro atto inutile, data l’assenza di sete e di ogni sensazione fisica. Quegli uomini non erano necessariamente nuovi del posto; alcune creature si trovavano là da mesi e si dedicavano ancora ai loro vecchi desideri più per abitudine che per bisogno. Hasek doveva fare in modo di unirsi a una delle squadre che effettuavano sortite oltre il confine e a volte fino a Belgrado, ma per fare questo doveva raggiungere il quartiere Shkodra della città, e per arrivare là gli serviva un mezzo di trasporto. Trasporti pubblici non ne esistevano più, quindi doveva mettere le mani sul primo veicolo che trovava. “Trecento lek,” gli disse il vecchio albanese. “Trecento! Stai scherzando!” Guardò allibito il vecchio e scassato veicolo a tre ruote. “Con questo non posso arrivare nemmeno a Durres, figuriamoci a Shkodra.” “È un buon veicolo. Trecento lek. Ottimo prezzo. Cerca altrove se vuoi.” Hasek sapeva che Kadare lo aveva in pugno: non c’era nessun altro a cui rivolgersi. Il vecchio possedeva una specie di monopolio sulla città e pertanto sul paese, poiché la città si era espansa a tal punto che ormai le due cose erano diventate una sola. “Duecento,” tentò Hasek. “Trecento,” fu la risposta, senza esitazioni. “Il serbatoio è pieno. La batteria è carica.” Per quasi tutta la strada guidò con una mano sola. Con la mano sinistra miniava le note basse di These Foolish Things, mentre le dita della destra battevano quelle alte sul volante. Il cielo appariva brevemente fra i muri di cemento e i tetti di ferro rugginosi. Per le strade giravano letteralmente migliaia di persone; vittime di guerra, i loro ospiti albanesi, e alcuni rifugiati europei o americani che erano riusciti a sfuggire al conflitto e ad entrare prima che venisse introdotto il controllo sui visti. Più si spingeva a nord, più il ferro e l’acciaio sembravano dominare l’architettura decrepita a spese del cemento e della pietra grezza. I morti erano dappertutto, camminavano da un edificio all’altro, erano visibili anche attraverso le brecce nei muri, seduti a guardare la televisione o a giocare. Shkodra era vicino, e appena oltre stava la Jugoslavia e la sua unica possibilità di ottenere un visto per Hella. Lei aspettava a Berlino Ovest, controllando ogni giorno all’unità di duplicazione dove sarebbero arrivati i documenti se Hasek avesse avuto fortuna. “Perché vuoi unirti a una squadra?” gli chiesero, un po’ sospettosi.
Aveva deciso di non dire la verità. Gli avrebbe soltanto creato ulteriori difficoltà. “Voglio fare qualcosa. Sono stufo dei giochi.” “Così per te sarebbe solo un gioco?” “No. Anzi. È così che rendiamo ricco il nostro paese. È una faccenda seria.” Loro lo fissarono. “Voglio essere utile.” Sapevano che mentiva. I morti non facevano mai nulla per il bene di qualcun altro... se non per caso. Agivano soltanto nel loro interesse. Schiavi dell’istinto. Ma stando alle apparenze aveva usato le parole giuste. “C’è una squadra che parte stanotte, senza un uomo. I gas di zolfo lo hanno ucciso qualche settimana fa, ma lo hanno lasciato in grado di muoversi. Fino a oggi.” L’uomo tirò fuori una piccola mappa della zona e cominciò a disegnarci sopra. “Guarda. Qui è dove dovresti incontrarli.” Era come una gola fra due enormi isolati scheletrici di appartamenti in cemento, costruiti all’inizio della guerra, quando le prime vittime arrivavano via mare e si spingevano verso l’entroterra. Le luci erano rossastre e ammiccanti. Una vecchia jeep dell’esercito jugoslavo arrivò sussultando sulla strada piena di buche, sballottando i due occupanti. “Perché hai voluto unirti a noi?” chiese l’autista, un russo di nome Varnov che aveva subito ustioni così gravi da risultare a prima vista completamente privo di pelle su tutto il corpo. Indossava una larga divisa rattoppata che risaliva ai tempi del vecchio esercito albanese. Lui e la Jensen, una danese alta e robusta con strani occhi color malva e i capelli tagliati corti, tinti di nero, avevano raccolto Hasek e un altro membro del gruppo, Vollmer, un tedesco dalla pelle scura, e adesso si trovavano a pochi minuti di distanza dal confine. “Per avere qualcosa da fare,” rispose Hasek, senza distogliere lo sguardo dalle montagne. Anche qui la città scalava i pendii con ferro e acciaio e case prefabbricate, sulle quali brillavano gli eterni riflettori. Il cielo era una ragnatela di antenne di ricezione e di sistemi radar di avvistamento. Finora le difese erano risultate impenetrabili alle forze militari, anche se in realtà del paese si sapeva ben poco oltre i suoi confini e quelli jugoslavi. Alla frontiera non avevano problemi, grazie a un accordo fra i due stati. La Jugoslavia conduceva sporchi traffici di armi in cambio di denaro e viveva tanto con l’Est quanto con l’Ovest, mentre l’Albania manteneva il proprio isolamento. Ma dopo che molti albanesi di nascita avevano appoggiato la decisione dei loro capi di accettare l’offerta della Chiesa Greca Or-
todossa di acquistare Corfu e di trasferirsi là, gli attuali abitanti dell’Albania - i reietti, gli esiliati, e i morti, che costituivano la colonia più numerosa - attraversavano spesso il confine per godersi una parte delle possibilità di sfruttamento offerte da quel paese. Il che era proprio quanto Hasek stava facendo ora. La squadra di Varnov avrebbe gironzolato fino a individuare persone vive che fossero particolarmente vulnerabili alla loro specifica forma di aggressione. Stavano entrando nella periferia di Titograd, dove non c’era carenza di trafficanti del mercato nero - le persone con le quali la squadra avrebbe finito con il fare affari - ma il loro numero continuava ad aumentare poiché molti altri fioccavano nel paese, al punto che anche dopo gli interventi delle squadre della morte i loro ranghi non risultavano assottigliati. Da una stradina laterale si levò del fumo, e un veicolo lasciò il suo nascondiglio così bruscamente che la jeep della squadra dovette sterzare con violenza verso destra per evitare una collisione. Vollmer, il tedesco che sedeva dietro alla sinistra di Hasek, lanciò un grido gutturale. Due rebbi di un rampino lo tenevano inchiodato contro l’incastellatura della jeep, uno piantato nella spalla, l’altro nella fronte. Una catena tesa filava dal gambo del rampino e spariva nel fumo agganciata all’altro veicolo, ancora nascosto ma già all’inseguimento della jeep. Un secondo rampino cadde con un tonfo sul tettuccio e fece sbandare la jeep. Varnov cercò di riprendere il controllo, ma l’aggressore comparve alla loro sinistra e urtò pesantemente contro la fiancata. Lo scossone rimise la jeep sulla rotta originaria, e mentre Hasek tagliava la catena del rampino posteriore e la Jensen, sul sedile del passeggero, lavorava sul rampino anteriore, Varnov riprese completamente il controllo del mezzo. Poi, usando il vantaggio della sorpresa, sterzò di colpo a sinistra e piantò il muso della jeep contro il lato anteriore destro dell’altro veicolo, una camionetta corazzata ungherese. Hasek e Vollmer - che si era liberato dal rampino - aprirono il fuoco sull’unità ungherese. Una granata rimbalzò sul loro cofano ed esplose lontana sulla destra, poi anche la Jensen sollevò la sua arma e sparò diverse raffiche di mitragliatrice attraverso lo spazio che separava i due veicoli. Anche se la fiancata del mezzo corazzato era visibile, i suoi occupanti se ne stavano al coperto. Però restavano attivi, sparando colpi sporadici senza eccessiva precisione, anche se una pallottola attraversò la spalla di Hasek, mancando il muscolo per pochi millimetri. Varnov passò qualcosa a Vollmer, dicendo: “Usa questa. Non posso mirare mentre guido.” Vollmer diede un’occhiata; era una granata alla termi-
te. Ma prima che avesse la possibilità di lanciarla, tutto il suo corpo sussultò all’indietro facendo perno sul collo. Hasek ruotò il capo. Un uomo era balzato dall’altro veicolo e adesso stava in piedi sul loro paraurti posteriore, serrando una garrota intorno al collo di Vollmer. Il viso dell’uomo mancava per metà: il naso, la bocca e il mento erano scomparsi, spazzati via in qualche scontro precedente. Erano rimasti solo brandelli di carne davanti alle vertebre superiori, che Hasek riuscì a scorgere attraverso lo spazio vuoto dove un tempo era stata la gola. Chiaramente quell’uomo era uno dei loro, non un soldato ungherese; ma una volta aperte le ostilità era difficile lasciar perdere. L’uomo liberò una mano, estrasse una pistola dalla cintura e sparò a Hasek. Il ceco fu gettato sul pavimento della jeep dall’impatto della pallottola, che si era piantata sotto la sua scapola destra. Emise un grugnito, non per il dolore ma per il dispiacere di vedersi atterrato in modo così poco cortese da un uomo che stava dalla sua stessa parte. Puntò la sua pistola, ma i proiettili flagellarono l’aria. Il filo metallico aveva tagliato il collo e la spina dorsale di Vollmer, e l’aggressore senza faccia era caduto in mezzo alla strada stringendo la testa del tedesco. Nel frattempo, la Jensen aveva recuperato la granata e da esperta l’aveva lanciata alta, facendola ricadere dentro la camionetta ed esplodere all’impatto. La termite lampeggiò sfolgorante, mostrando i contorni dei tre morti restanti mentre si carbonizzavano e venivano rapidamente distrutti. Certamente gli uomini sulla camionetta corazzata erano stati pirati, come lo erano Varnov, Vollmer, Hasek e la Jensen, alla ricerca della stessa cosa ma caduti nell’errore di scambiare l’equipaggio della jeep per alcuni dei loro bersagli viventi. Ora i tre dovevano continuare la loro missione senza Vollmer: i resti del suo corpo sedevano ancora inutili accanto a Hasek. Varnov e la Jensen non pensavano che Hasek potesse trovarsi lì per motivi diversi dai loro: depredare i vivi del loro particolare bottino, che in Jugoslavia veniva facilmente barattato contro semplici contanti o in cambio delle risorse tecnologiche e dei prodotti di lusso su cui i nuovi albanesi facevano affidamento. Non erano impegnati in quella missione per il bene collettivo, ma perché spinti da un istinto personale. Se un uomo possedeva dodici televisori, di certo non sarebbe mai riuscito a guardarli tutti contemporaneamente, quindi il suo vicino poteva prendergliene uno senza che lui quasi se ne accorgesse. In una terra dove la popolazione aveva così pochi desideri, il modo per accontentarli consisteva nel ricorrere a un sistema tutto sommato anarchico. Tutte le aspirazioni potevano cercare un accomodamento.
Tranne che in alcune eccezioni. Hasek era una di queste. In vita era stato uno spirito creativo, un uomo di musica. Quei ricordi lo tormentavano ancora. Anche adesso le sue dita suonavano Anthropology sul calcio e sulla canna del fucile mitragliatore mentre la jeep procedeva. Attraversarono un’altra zona di fuochi, stando attenti in modo particolare alle nubi spesse di fumo basso. Hella Elizabeth Barton scrutò la strada alle sue spalle prima di voltare nella Gothaerstrasse. I suoi sospetti non erano infondati: era sorvegliata da alcune settimane, da quando aveva conosciuto e cominciato a frequentare Trefzger. Rumoroso avversario delle armi chimiche e batteriologiche ancora prima che la guerra iniziasse, da anni era un uomo segnato, almeno per le autorità, etichettato di volta in volta come comunista, pacifista, anarchico, e comunque sempre considerato una testa calda per di più pericolosa, lui viveva sotto la costante sorveglianza delle autorità civili e militari di Berlino Ovest. Negli ultimi giorni, tuttavia, si era dato alla macchia, ed Hella faceva del suo meglio per evitare di essere seguita nei suoi spostamenti. Fare l’amore a lume di candela era preferibile al sesso con le torce elettriche, esperienza che avevano dovuto subire nel vecchio appartamento di Trefzger, quando gli agenti di sorveglianza in strada e nel palazzo di fronte avevano continuato a giocare con le loro torce sulle finestre dalle tende chiuse. Hella si piegò in due per varcare la finestra dello scantinato e avanzò tastando i muri che si sbriciolavano fino alla porta sul lato opposto. Aprì la serratura e richiuse la porta dietro di sé. Scese i gradini coperti di muffa e di muschio, e superò un’altra porta chiusa a chiave. Si trovava nella galleria abbandonata della U-bahn (progettata, costruita e mai usata), e dovette procedere di nuovo a tentoni. Si aspettava sempre che un treno scendesse sferragliando lungo i binari arrugginiti, ma non era mai successo e neppure in futuro sarebbe potuto accadere. Sei colpi portarono Trefzger alla porta. Lui la fece scivolare dentro prima di salutarla. “In questi ultimi tempi stai diventando piuttosto nervoso, Detlef,” lo rimproverò lei. “Dovrei andare a vivere in Albania,” ribatté lui, “dove sta il tuo Hasek.” “Non è il mio Hasek. E comunque, Berlino è il luogo ideale. Dall’Albania il tuo lavoro non raggiungerebbe mai nessuno.” “Al contrario,” disse lui. “Hanno eccellenti sistemi di comunicazione.
Probabilmente i migliori al mondo.” La guardò. “Entriamo.” Più tardi, mentre stavano sdraiati sopra un tappeto e lei gli accarezzava i lunghi capelli biondi, lui chiese: “Com’è andata la giornata all’unità di duplicazione?” “Parli come se io lavorassi là,” disse lei. “Ho solo aspettato un’ora. Non è arrivato niente. Né documenti, né messaggi. Però credo che ogni giorno possa essere quello buono, ormai.” “Deve proprio desiderarti molto, Hella.” “No, non lo credo. Penso che voglia qualcosa da me. Che voglia usarmi. La solita vecchia storia.” “Sai,” disse Trefzger mettendosi a sedere, “non dovresti fingere di essere così cinica. Mi accorgo benissimo che sotto sotto provi ancora qualcosa per lui.” “Sei geloso,” disse lei, grattandogli dolcemente la schiena. Lui le posò una mano sulla coscia. “No, non sono geloso. Un giorno ti stancherai di me così come ti sei stancata di lui.” “Lui è morto in un attacco chimico un anno fa.” “Lo avevi già lasciato, Hella. Sette o otto giorni prima. Non ti eccitava più, proprio come un giorno non ti ecciterò più nemmeno io.” “Questo non è vero.” Hella si mise seduta e gli fece passare una mano sul petto, lasciandola poi scivolare verso il suo inguine. “Tu mi ecciti. Lui non mi ha mai eccitata.” Trefzger sapeva che non era vero, e sapeva anche che quella non era una bugia ma una specie di codice. Si girò per inginocchiarsi fra le sue gambe. Lei avvicinò il viso e lo baciò. Lui le baciò il mento, il collo, le spalle e i seni, mordicchiando dolcemente. Lei aprì gli occhi per vedere se questo l’avrebbe aiutata. C’era la scrivania di Detlef, il suo computer, il monitor con lo schermo coperto di simboli greci. Giornali, libri, penne, matite... Non serviva a nulla, quel catalogo di banalità non riusciva a distrarre il suo corpo. Tremò mentre lui le succhiava il seno e sentì chiaramente la carne che pulsava fra le sue cosce. Con il respiro sibilante, ignorò il dolore e sollevò leggermente le gambe. “Tutto bene?” le chiese lui. “Sì,” disse lei fra un respiro ansante e l’altro. “La tua asma?” “Sì. Continua.” Lui non si mosse, così fu lei ad avvicinarsi, ad aprirsi di più, a scivolare sul suo pene. Lui rispose cominciando a muoversi, e lei lanciò un grido
che si ridusse a un ansito. Il respiro le usciva ormai come un rantolo aspro, ma lei lo incalzò a continuare, ad aumentare il ritmo e la violenza. Lui venne di colpo e anche lei raggiunse l’orgasmo, poi ricadde all’indietro e si staccò dal suo corpo, respirando in fretta e rumorosamente. “Ecco.” Trefzger le aveva preso il suo inalatore. Hella premette lo stantuffo e inalò due volte. “È ridicolo,” disse, ansimando fra un respiro e l’altro. “Si dovrebbe... finire col farci l’abitudine... e io invece... peggioro ogni giorno. Un dottore... l’altro giorno... mi ha detto che se non avessi questa roba...” indicò l’inalatore, “e dovessi avere una crisi seria... potrebbe diventare una faccenda grave.” “Mi stavo chiedendo,” disse Trefzger, lentamente, “perché dovesse peggiorare in questo modo. Poi oggi l’ho capito. Sono i germi. Tutte quelle armi batteriologiche. Per la maggior parte sono composte di minuscole spore. Tularemia, antrace, peste bubbonica e roba simile. Agiscono come irritanti. La percentuale presente nell’aria non basta a uccidere, ma è più che sufficiente per aggravare la reazione asmatica. O almeno così succede lontano dalle zone di guerra più attive. Per questo non penso che dovresti andare a Belgrado o a Tirana.” “Devo farlo,” disse lei, respirando un po’ meglio. “Ha bisogno di me. Vuole tornare a vivere, e io sono l’unica persona che può aiutarlo.” “Tieni più a lui che a me.” La voce di Trefzger sembrò ferita. “Non è vero,” gridò lei. “Non capisci? Lui ha bisogno di me per cinque minuti. Non è chiedere molto.” “Non vuoi avere un figlio da me,” disse lui amaro. “Da lui ne hai avuto uno.” “Bastardo!” Lei lo colpì al viso. “Grazie per avermelo ricordato.” Si rialzò furiosa e andò sul lato opposto della stanza, dove rimase immobile per un istante e poi crollò in un angolo. Suo figlio, che Hasek non aveva più visto dopo la nascita perché lei, lasciandolo, aveva portato il bimbo con sé, era morto all’età di otto anni sotto un massiccio bombardamento aereo ad Hannover. La mazza d’acciaio di Varnov calò sulla testa del tenente, e l’uomo cadde con uno schianto fragoroso, tirandosi dietro parecchie sedie di legno. Erano a Belgrado, adesso. Dopo aver guidato attraverso enormi gruppi di bambini che vagavano senza meta, avevano trovato quello che cercavano: un’unità vulnerabile di uomini sani. Una pattuglia di soldati americani,
con le uniformi coperte da pesanti soprabiti scuri, stavano completando una transazione con un gruppetto di ribelli cecoslovacchi. I due gruppi erano immobili lungo le pareti opposte della stanza, con le loro armi impilate nel mezzo, quando la Jensen buttò giù la porta e Varnov e Hasek entrarono di corsa dietro di lei. Il tenente americano estrasse una pistola automatica da sotto il soprabito e sparò diversi colpi, beccando Varnov e Hasek, prima che Varnov lo spedisse sul pavimento. Con il suo mitragliatore, Hasek liquidò il ceco che avanzava verso di lui, provando l’ombra di un ricordo davanti alle mostrine sulla tuta mimetica del ribelle. Anche quell’uomo era cecoslovacco, come un tempo lo era stato Hasek, ma ora non significava nulla; c’era un lavoro da sbrigare. Era importante sparare il meno possibile, in modo da non danneggiare gli organi vitali che erano il loro vero obiettivo. L’unica cosa che Hasek, Varnov e la Jensen dovevano temere era un attacco incendiario o esplosivo, qualcosa che rovinasse a tal punto i loro corpi da renderli inutilizzabili. Inoltre, se qualche foro di pallottola qua e là non costituiva una grossa seccatura, anche il fuoco concentrato di armi automatiche poteva in teoria distruggerli. Così, quando i cechi si lanciarono verso le loro armi e agguantarono i lanciafiamme in cima al mucchio, Hasek e la Jensen si lanciarono a disarmarli. Ma non furono abbastanza rapidi. Un ceco biondo e dai capelli irti, che non poteva avere più di diciassette anni, riuscì a mettere in posizione la sua arma e la Jensen, che stava proprio di fronte al giovane, attese la propria distruzione a mezzo del fuoco. Ma non successe nulla. Gli altri cechi dovettero affrontare lo stesso problema. Gli americani avevano venduto loro armi difettose. Il giovane agguantò un fucile automatico e lo puntò contro gli americani. Di nuovo non successe nulla. Gli americani, nel frattempo, vedendo scemare di colpo la loro popolarità, si erano affollati in un angolo cercando di aprire una porta che, per precauzione, il comandante ceco aveva chiuso a chiave in precedenza. Hasek e il giovane ceco, armato adesso di un fucile mitragliatore funzionante, calarono addosso agli americani, uno dei quali aprì il fuoco, scegliendo con scarso acume Hasek quale bersaglio. Le pallottole trapassarono inefficaci il corpo dell’uomo morto, e il ceco biondo innaffiò a sua volta di proiettili l’angolo degli americani. Fu bloccato da Varnov, che prima lo colpì con la mazza dietro le ginocchia, poi, quando cadde, sulle rotule. Il ragazzo lanciò un urlo, mollò il mitragliatore e svenne. Mentre Hasek controllava che gli americani fossero morti, Varnov tene-
va fermi i cechi e la Jensen tagliava loro sistematicamente la gola, preservando così tutti i loro organi. “Hasek,” disse Varnov. Hasek alzò lo sguardo. “Le scatole sulla jeep.” Hasek comprese e lasciò la stanza. Tornando con le scatole che contenevano i cilindri per la conservazione degli organi, trovò Varnov e la Jensen già al lavoro sui cadaveri. Due batterie di strumenti chirurgici giacevano aperte sul pavimento. La Jensen posò un bisturi e raccolse una piccola sega. Hasek la guardò mentre tagliava la fronte del giovane ceco e si metteva al lavoro sul cranio, badando a non segare troppo in fretta e a non danneggiare il cervello. Varnov stava estirpando un cuore con il massimo di velocità e di macelleria: doveva continuamente asciugarsi le mani ossute sulla giubba per evitare che il bisturi gli scivolasse dalle dita. Hasek disse loro che non aveva pratica e non possedeva neppure gli strumenti, e pertanto avrebbe saltato le operazioni. Nessuno dei due replicò, così lui lasciò la stanza. Scese di sotto e si mise a sedere sulla jeep. In giro non c’era nessuno e nel cielo non si scorgeva traccia di luci naturali. Fino a quel momento i solidi palazzi grigi di Belgrado avevano resistito bene alla guerra. In pratica erano ancora tutti in piedi. Varnov aveva parcheggiato la jeep in mezzo a due esemplari imponenti ma alquanto incolori di quella architettura, e al loro confronto perfino Hasek sembrava qualcosa di vivo. Le sue mani si modellarono intorno al ricordo del suo sassofono e le dita si scaldarono su alcune scale prima di attaccare St. Thomas di Sonny Rollins. La suonò tutta, poi rallentò il tempo e proseguì direttamente con You Don’t Know What Love Is. Aveva suonato altre sei canzoni, alcune con lunghe improvvisazioni, quando Varnov e la Jensen apparvero carichi di scatole all’ingresso dell’edificio. Scesero i gradini e si avvicinarono alla jeep. Proseguirono a nordovest fino a Zemun, dove Varnov aveva fissato il suo appuntamento con Larry, un trafficante americano. Larry - il cui cognome, se mai esisteva, non era noto a nessuno - non faceva discriminazioni in materia di nazionalità: era disposto ad accettare gli organi di chiunque, anche di un americano, a patto di avere dei compratori che facevano la fila. Anzi, specialmente quelli di un americano, poiché spesso infiorettava le sue tirate da imbonitore con l’orgogliosa vanteria che quello che stava per vendere non era un semplice rene, ma un rene americano. Di conseguenza, molti dei suoi compratori erano americani. Il cancello controllato elettronicamente si spalancò e Varnov si fece a-
vanti, seguito da vicino da Hasek e dalla Jensen. Larry li aspettava sulla porta, con la sua camicia di lana a scacchi e la pancia gigantesca. Entrarono e percorsero in fila indiana numerosi corridoi. La stanza in cui arrivarono sembrava il centro nevralgico delle operazioni di Larry. Era anche il suo soggiorno. Un televisore in un angolo era sintonizzato su una partita di football americano. Sul pavimento, accanto alla logora poltrona posta di fronte al televisore, c’erano tre lattine di birra americana e un contenitore per cibo di polistirolo sporco. Sull’altro lato della stanza c’era una fila di monitor e di terminali di computer. Uno schermo mostrava le variazioni minuto per minuto delle principali valute in tutto il mondo. Un altro forniva l’ora esatta di tutte le capitali più importanti. Diverse scatole per la conservazione stavano ammucchiate in attesa su una panca di legno. “Bene, avanti, amici,” disse Larry pulendosi i denti. “Vediamo cos’avete.” Larry esaminò il contenuto dei cilindri e annunciò che avrebbe preso tre reni, due fegati, due paia di polmoni, un paio di testicoli e un cervello. “Spero che sia un cervello americano,” disse. “Sì, lo è,” mentì la Jensen, sollevando il cilindro che conteneva il cervello del ragazzo biondo ceco. Tutti gli americani si erano beccati qualche pallottola nella testa. “Anche i testicoli?” domandò Larry. “Sì, anche questi,” disse Varnov, ed era sincero. Larry spiegò che non poteva correre il rischio di comprare anche gli altri organi, poiché non era in grado di prevedere quando avrebbe trovato altri compratori. Li pagò, in dollari, e tornò sulla sua poltrona a guardare il football e ad aprire un’altra lattina di birra prima ancora che loro fossero usciti dalla stanza. Tornati sulla jeep, Varnov divise il denaro. Hasek notò che la sua parte era minore, sia pure di poco, e pensò che ciò fosse dovuto alla sua mancata partecipazione al lavoro di svisceramento. Accettò il denaro - una grossa somma, più che sufficiente alle sue necessità - senza far rilevare la differenza. Tornarono a Belgrado... Varnov e la Jensen per tentare di scaricare gli organi invenduti a un altro trafficante e per discutere con Petrovic, uno jugoslavo, l’abbonamento a un nuovo sistema televisivo e di comunicazioni via satellite, e Hasek - anche se gli altri due non lo sapevano - per cercare di incontrarsi con Midgley, un corrotto attaché britannico presso il governo
jugoslavo. Non c’era carenza di funzionari corrotti, ma Midgley era quello per il quale Hasek aveva una presentazione. Durante il breve tragitto Hasek ebbe appena il tempo di far volare le dita intorno a I Found a New Baby. Varnov guidava a rotta di collo. Si era aspettato che Larry acquistasse l’intera partita, e adesso aveva fretta di trovare un altro compratore prima che la notte finisse. Voleva rientrare oltre la frontiera prima dell’alba per ridurre al minimo il rischio di ulteriori attacchi. Fu tutto così facile, così banale. La jeep si fermò fra uno stridio di freni dinanzi a un grosso edificio fortificato, e Varnov saltò giù dicendo che forse quel trafficante avrebbe preso la roba, però loro non avevano mai trattato con lui e quindi la cosa non era certa. Hasek disse che avrebbe provato presso un trafficante di cui aveva sentito parlare in una strada poco lontana e poi sarebbe tornato a riferire. Varnov e la Jensen, che presumibilmente avevano sentito ma erano poco interessati a dirlo, scomparvero nell’edificio. Hasek si diresse a est lungo Bulevar Revolucije per duecento metri, poi voltò nella Milana Rakica. Tre isolati dopo girò a sinistra e parlò in un citofono. “Allora, perché vi servono questi visti?” chiese autoritario Midgley, facendo entrare Hasek in uno studio dalle pareti rivestite di pelle sul retro dell’appartamento. “Molto elegante,” disse Hasek, guardandosi intorno. “Cerco di mantenere un certo stile,” ribatté Midgley visibilmente compiaciuto. “Bevete...?” Lanciò un’occhiata a Hasek. “Oh no, certo. Scusate.” “Uno scotch con acqua, grazie. Ho preso l’abitudine a Berlino.” “Oh, davvero?” Midgley versò nervosamente lo scotch da una bottiglia di cristallo e l’acqua ghiacciata da una caraffa. “E quando siete stato a Berlino?” “Otto anni fa. Ho conosciuto un’americana che viveva là. Insieme bevevamo molto scotch. Poi si è trasferita... Allora, per quei visti?” “Certo.” Midgley passò ad Hasek il bicchiere. Hasek lo prese e aspettò inutilmente che l’altro si voltasse, quindi si versò il contenuto del bicchiere in gola con un colpo solo. Apparentemente innervosito, Midgley si girò e andò dietro una scrivania. Aprì un cassetto, frugò al suo interno, tirò fuori un paio di occhiali da presbite, li infilò, poi proseguì la sua ricerca. Hasek sperò che lo scotch con acqua avesse imboccato un percorso non
danneggiato verso il suo stomaco. Se fosse filtrato fuori da una ferita in qualche punto, lui non sarebbe riuscito a sentire l’umidità e magari avrebbe macchiato senza accorgersene il pavimento dell’inglese. Non che gli interessasse evitare i danni alle cose di un altro, solo che non voleva informare quell’uomo delle sue debolezze. “Un visto di transito con ritorno autorizzato, non è vero?” chiese Midgley. Un ciuffo di capelli neri e lucidi, impomatati, gli era scivolato sulla fronte. Cercò di lisciarseli indietro. “Mi basta poterla vedere per due minuti.” “Il guaio,” cominciò Midgley, “è che sono i più richiesti e i meno disponibili. Di solito sono madri, capisce, che per qualche morbosa ragione vogliono venire a vedere i loro figlioli morti. Qui a Belgrado, specialmente. Non so se si è accorto di quanti pochi bambini ci siano a Tirana. Quasi tutti vengono trattenuti a Belgrado.” “Non ne capisco il motivo, visto che Belgrado è molto più pericolosa di Tirana.” “Ah, ecco, signor Hasek, forse questo tipo di ragionamenti non è più, per così dire, alla sua portata, non trova? Quindi io non me ne occuperei più di tanto, se fossi in lei.” Era chiaro che Midgley stava nascondendo qualcosa, ma come aveva così giustamente sottolineato, non era una cosa che riguardasse Hasek. I visti sì, invece. “Senta, Midgley, voglio i visti e li voglio ora. Ho il denaro che chiede.” Tolse di tasca un fascio di banconote. “Non posso più aspettare.” Gettò il denaro sulla scrivania. Midgley lo raccolse, sfogliò le banconote e annuì. “Sì, certo, mi consenta almeno di far sembrare ufficiale la cosa.” Prese un timbro di gomma, lo inchiostrò e lo premette sui piccoli riquadri di carta sul suo sottomano. Ormai desideroso di concludere in fretta l’affare, tese i documenti a Hasek. Il ceco li prese e si voltò per andarsene. Con la mano sulla maniglia della porta esitò, come se gli fosse venuta in mente una cosa. “Per caso,” cominciò, voltandosi ancora verso Midgley, “lei non ha da qualche parte un sassofono, vero?” “Eccoli,” disse lei. “Sono per me. Sono quelli che stavo aspettando.” L’impiegato sbircio attraverso due lenti spesse e rotonde come occhialoni da tornitore il foglio di carta che usciva dalla macchina. “Hella Elizabeth Barton,” lesse ad alta voce. “Ha un documento?”
“Gliel’ho già mostrato,” disse lei impaziente. “Un suo documento,” disse impassibile l’impiegato. Lei frugò in tutte le tasche e finalmente trovò la tessera giusta. “Grazie,” disse l’impiegato. “Questi sono suoi.” Le allungò i duplicati dei visti e una nota dettagliata di Hasek. Hella lasciò l’unità di duplicazione e scese rapidamente la Franklin Strasse fino alla Ernst-Reuter-Platz, dove salì su un treno della U-bahn diretto verso Hallesches Tor. Esaminò i visti. L’autorizzavano a passare a Berlino Est attraversando il Muro, e a viaggiare attraverso la Germania Est, la Cecoslovacchia e l’Ungheria fino in Jugoslavia. Il viaggio di ritorno non doveva iniziare più di ventiquattr’ore dopo il viaggio di andata. Consultando la sua cartina, vide che probabilmente in Cecoslovacchia avrebbe attraversato Cheb, molto vicina ai confini con la Germania Est e quella Ovest, dove Hasek - allora membro della Sezione Ceca di Jazz - aveva innescato l’inizio della guerra fuggendo all’ovest. Le guardie ceche gli avevano sparato dietro, lo avevano mancato e avevano colpito invece due guardie della Germania Ovest, i cui colleghi avevano risposto al fuoco. Il resto era storia, con il presidente Eastwood che aveva autorizzato lo spiegamento e l’uso delle armi chimiche, e Gran Bretagna, Francia, Austria e Germania Ovest che si erano schierate al suo fianco. Il treno di Hella passo sotto il Muro e avanzò lentamente attraverso le stazioni fantasma verso la Friedrichstrasse, dove lei avrebbe effettuato l’attraversamento ufficiale. Mentre il suo treno attraversava sferragliando il ponte sul Danubio nell’avvicinamento finale alla stazione di Beograd-Dunav, la strana sensazione che aveva provato fin dalla partenza si fece più forte, diventando quasi palpabile. A Belgrado, non avrebbe certo trovato ciò che lei si aspettava. A parte questo, aveva sofferto di asma fin da quando il treno era sceso dai monti della Moravia, e procedendo verso sud la situazione era peggiorata. Si diede della stupida per non aver tenuto sempre con sé l’inalatore, per non aver pensato di fare prima una scappata a casa, per essere andata subito dall’unità di duplicazione al Muro e iniziare così il suo viaggio. Oltre che dall’ipotetico effetto delle spore e della polvere, di cui Trefzger le aveva parlato, la sua asma era aggravata dall’ansia che provava. Si alzò e andò alla toilette per vedere se un sorso d’acqua le avrebbe fatto bene. Non gliene fece. Si guardò nello specchio scheggiato e cercò la bellezza che spesso gli altri vi avevano trovato. Sì, c’era, ma solo per qual-
cuno che vedendo il suo viso avesse ricordato com’era stato un tempo. Potevano illudersi che le unghie della guerra e della tensione lasciassero solo cicatrici temporanee. Anche lei poteva farlo, nei suoi momenti di minor pessimismo. Si pettinò all’indietro i lunghi capelli, infilando le dita fra i nodi. Non c’era sapone. L’acqua le scivolava a rivoletti sulla pelle unta. Se non altro riuscì a togliersi la sporcizia dagli angoli degli occhi. Lasciò la toilette più ansimante di prima. Hasek aspettava nella stanza dove lui, Varnov e la Jensen avevano colto di sorpresa gli americani e i cechi. Sedeva su una sedia di legno in mezzo alla stanza e mimava Just You, Just Me sul sassofono tenore che aveva comperato dopo essere uscito dall’unità di duplicazione. Gli erano rimasti soldi a sufficienza per l’acquisto dello strumento, forse il solo ancora in vendita in tutta Belgrado. Adesso gli mancava una sola cosa: quella che Hella gli avrebbe fornito... il respiro per suonare le note. Riusciva quasi a sentire gli accordi di Now’s the Time mentre le sue dita si muovevano sui tasti. Quello che non sentì fu il rumore della porta che si apriva. Improvvisamente lei fu là, sulla soglia, ansimante e con un’espressione di autentico dolore. Dietro di lei si scorgeva una forma più piccola. Hasek si alzò, posando il sassofono sulla sedia. “Hella...” disse con tono piatto. “È asma?” Era incapace di esprimere una preoccupazione che non provava. “Sì,” ansimò lei. “Ma come fai a parlare?” “Usando solo l’aria che entra nel corpo. È sufficiente per parlare ma non basta per quello che voglio fare... È una brutta asma.” “Sì. Sono tutte... le porcherie nell’aria e... avere trovato lui... qui a Belgrado...” E a questo punto fece avanzare da dietro di sé un bambino con gli occhi fissi. Il viso appariva tirato e azzurrognolo, lasciando intuire una morte per asfissia. Hasek e il bambino si fissarono in silenzio, senza che nessuno dei due volti tradisse qualsiasi emozione. Hasek parlò. “Hella, vieni qui. Tu sai cosa voglio.” “No, non posso,” disse lei. “Hella. Non devi preoccuparti. Voglio solo respirare di nuovo. Dopo te ne andrai libera e non ti cercherò mai più. Te lo giuro.” “Ti credo, Hasek... ma questo non cambia nulla... Non posso... Il bambi-
no... “ “Ma ti ho chiesto di venire. Sei venuta. Ti prego. Un minuto. Poi potrai andartene.” “Tu non capisci.” “Voglio respirare,” gridò lui. “Voglio suonare musica. Respira in me. Baciami!” “No.” Lei scrollò il capo, mentre il suo petto continuava ad ansimare cercando di ingoiare aria. “Il bambino, Hasek... Guardalo... È nostro figlio. “ Hasek guardò, non vide nulla. Lui aveva bisogno del respiro di quella donna. La musica contava. Niente aveva importanza, finché lui non fosse riuscito a suonare una singola nota. “Ho passato un’intera giornata... ad agonizzare... Ma se la mia asma mi consentirà... di far risorgere qualcuno... deve essere Alex, nostro figlio. “ Una vettura si fermò davanti all’edificio e le portiere vennero sbattute. “Mi dispiace, Hasek,” disse lei, inginocchiandosi fino ad avere gli occhi del bambino all’altezza dei suoi e prendendogli la testa fra le mani. Posò la bocca su quelle labbra inerti, strinse le narici fredde fra due dita, tirò un profondo respiro e soffiò. Dei passi risuonarono sordi sulle scale. Hella ripeté l’operazione e perse quasi conoscenza, tanto le riusciva difficile respirare. Provò ancora una volta e nello stesso istante la porta cedette di fronte a due intrusi, Varnov e la Jensen. Se fossero tornati per lui o per corpi nuovi da saccheggiare, Hasek non lo seppe mai. Hella sollevò gli occhi, sorpresa e poi inorridita. Il bambino si allontanò dalle sue mani. Prima che lei potesse stringerlo di nuovo, la mazza di Varnov la colpì alla mascella, frantumandola e piantando i denti inferiori nelle gengive superiori, distruggendo per sempre ogni speranza di ulteriori resurrezioni. Accanto al muro, il bambino era scosso da sussulti. La Jensen mulinò un’arma simile a una mazza, ma munita di chiodi, e avanzò verso Hasek. Il ceco si cercò addosso un’arma qualsiasi. Trovò un piccolo coltello, che allungò davanti a sé come una pagliuzza davanti a un tornado. La mazza colpì crocchiando il pugno che reggeva il coltello e la sua oscillazione spezzò il polso indebolito, portandosi via la mano piantata sui chiodi come un trofeo. Un istinto sconfisse l’altro, e Hasek impugnò il sassofono con la mano rimasta. Brandì lo strumento mantenendosi in equilibrio incerto. La Jensen
menò un altro colpo che andò a vuoto, perché Hasek si chinò e con un fendente fortunato spezzò la tibia della donna, perdendo tuttavia la sua arma improvvisata nell’operazione. Il sassofono rotolò sul pavimento e la Jensen l’allontanò con un calcio mentre cadenva. Hasek si allungò verso lo strumento, ma la Jensen, avversaria non meno temibile a terra, aveva fatto roteare la mazza e l’aveva colpito al gomito, spaccandogli l’articolazione e spingendo l’osso attraverso la pelle. Ormai praticamente indifeso, Hasek si guardò intorno, vide Hella che tentava disperatamente di attenuare con le mani il fendente mortale di Varnov. Vide anche, un istante prima che la mazza chiodata della Jensen lo privasse di quella percezione, il bambino che era suo figlio sgusciare inosservato dalla porta aperta. NEL DESERTO CADILLAC CON I MORTI Joe R. Lansdale [1] Dopo un inseguimento durato un mese, Wayne raggiunse Calhoun in un localino chiamato da Rosalita. Questo non significava nel modo più assoluto che Calhoun stesse infine diventando imprudente, ma più semplicemente che non era preoccupato. Aveva già ucciso quattro cacciatori di taglie, e Wayne sapeva che un quinto non lo avrebbe impensierito un granché. Di quei quattro, aveva fatto fuori per ultima la celebre Pink Lady McGuire, una madama poco raccomandabile: centoquaranta chili di carne orribile e tremolante, che se ne andava in giro con un Remington calibro dodici a pompa e un vero caratteraccio. In giro si diceva che Calhoun l’aveva colta di sorpresa alle spalle, le aveva tagliato la gola e, tanto per divertirsi, se l’era scopata mentre lei si dissanguava. Il che non dimostrava soltanto che Calhoun era un pericoloso figlio di puttana, ma altresì che aveva gusti pessimi. Wayne scese dalla sua finta Chevrolet del ‘57, si spinse indietro il cappello sulla testa, aprì il bagagliaio e tirò fuori la doppietta a canne mozze e una manciata di cartucce di riserva. Aveva già una rivoltella calibro 38 nella fondina al fianco e un coltello da caccia in ogni stivale, ma quando si entrava in un locale come il Rosalita era meglio coprirsi bene le spalle. Wayne infilò le cartucce in una tasca della camicia, abbottonò il risvolto,
sollevò gli occhi verso l’insegna al neon rosso e blu che lampeggiava DA ROSALITA: BIRRA GHIACCIATA E DANZE CON I MORTI, trovò il suo centro - come dicono nello Zen - ed entrò. Tenne la doppietta contro una gamba, e poiché là dentro la luce non abbondava e gli avventori erano indaffarati a parlare o bere o ballare, nessuno notò subito la sua presenza o la sua artiglieria. Individuò subito il cappello nero e la figura massiccia di Calhoun. Era dentro la gabbia da ballo con una ragazzina messicana morta, di circa dodici anni e tutta nuda. Con una mano se la teneva stretta intorno alla vita e con l’altra le massaggiava il culetto gommoso come se fosse un cuscino a cui cercava di dare forma. Le braccia prive di mani della ragazzina ciondolavano intorno ai fianchi di Calhoun e i seni minuscoli premevano contro il suo torace muscoloso. Il viso ricoperto da una museruola di fil di ferro batteva ripetutamente contro la spalla dell’omaccione, e la bava le scendeva dalla bocca in densi filamenti spermacciosi che si attaccavano alla camicia di Calhoun, sbiadivano e lasciavano una macchia umida. Per quello che Wayne ne sapeva, la ragazzina poteva essere la sorella o la figlia di Calhoun. Era quel genere di locale. Uno dei posti che erano sorti immediatamente dopo che quella sostanza era sfuggita da un laboratorio su a nord e aveva riempito l’aria di batteri che riportavano in vita i morti e li rendevano affamati di carne umana. Al punto che quando un uomo si vedeva crepare la moglie, la figlia, la sorella o la mamma, e magari voleva guadagnare qualche dollaro alla svelta, poteva anche pensare: “Dannazione, mi dispiace da matti per la vecchia Betty Sue, ma adesso è stecchita come una merda di gufo e non le serve più niente, e con quei germi che stanno già lavorando dentro di lei magari fra un giorno o due me la vedo spuntare dal terreno con la voglia di farmi la festa. E poi il terreno dietro la casa è più duro da scavare di quanto un problema dì geometria sia duro da risolvere, quindi mi conviene legarla con il filo spinato finché se ne sta ferma, buttarla sul camioncino, passare il confine e venderla ai Macellai perché la mollino a qualche locale. “È brutto vendere uno di famiglia, però cosa posso fare, dio Cristo? Resterò lontano dai locali finché tutta la carne si sarà staccata dalle sue ossa e dovranno buttarla via. In questo modo non andrò a bere e non la vedrò in qualche gabbia a scrollare le tette morte e non finirò col fare il sentimentale davanti a qualche amico o a una pollastra da due dollari a botta.” Questo genere di ragionamento contribuiva a popolare quei posti di ballerini. In altre parti del paese, a ballare potevano essere uomini o bambini,
ma lì erano soprattutto donne. Gli uomini venivano usati per la caccia o per gli allenamenti di tiro. I Macellai prendevano i corpi, tagliavano loro le mani per impedire che potessero afferrare i clienti, inserivano viti nelle mascelle per attaccarci museruole di fil di ferro ed evitare che potessero mordere, e infine li rivendevano ai locali quando i germi cominciavano a fare effetto. I padroni dei locali li infilavano dentro gabbie metalliche, facevano partire la musica, e gli uomini pagavano cinque dollari per entrare là dentro e fingere di ballare, mentre tutto quello che le donne volevano era agguantare e mordere, cosa che, con la museruola e senza mani, non potevano fare. Se a un uomo una ballerina piaceva abbastanza, poteva pagare un extra e farla legare su una brandina nel retro e saltarle addosso e combinarci qualcosa. Non era costretto a sentire discussioni o a comprare regali o a fare promesse o a farla venire. Solo una scopata e via. Finché il padrone del locale disinfettava i suoi morti per scoraggiare i vermi e li profumava e non li teneva così a lungo da farli rimanere attaccati al cazzo di qualcuno, i clienti erano contenti come tanti mosconi su una merda. Wayne si guardò intorno per stabilire chi avrebbe potuto creargli fastidi, e concluse che quasi tutti erano candidati potenziali. Il problema più immediato, però, sarebbe stato il buttafuori, un metro e novanta per centoventi chili di peso. Comunque, non gli restava altro da fare che mettersi al lavoro e affrontare i problemi quando si sarebbero presentati. Entrò nella gabbia dove Calhoun stava ballando, si fece largo a spallate fra gli altri clienti e si diresse verso di lui. Calhoun voltava le spalle a Wayne, e poiché la musica era a tutto volume Wayne non si preoccupò di avanzare in silenzio. Ma Calhoun avvertì la sua presenza e si girò con una piccola 38 stretta nel pugno. Wayne colpì il braccio di Calhoun con la canna della doppietta. La pistola fu strappata dalla mano di Calhoun e scivolò sul pavimento, andando a sbattere contro la gabbia metallica. Ma Calhoun non si diede per vinto. Fece ruotare la ragazzina morta davanti a sé e sguainò una grossa lama da uno stivale, sollevandola in modo minaccioso sotto l’ascella della ragazza, il che, con un coltello di quel calibro, non era una cosa da poco. Wayne spappolò con una fucilata la rotula sinistra della ragazza e lei cadde a terra. La sua ascella intrappolò il coltello di Calhoun. Gli altri
clienti lasciarono le loro dame e si arrampicarono sulla grata metallica agili come scoiattoli. Prima che Calhoun potesse scrollarsi di dosso la ragazza, Wayne si fece avanti e lo colpì alla testa con il calcio del fucile. Calhoun si afflosciò, e la ragazzina cominciò a strisciare sulla pista come se stesse cercando degli amici perduti. Il buttafuori entrò alle spalle di Wayne, lo afferrò sotto le braccia e cercò di praticargli una presa Nelson alla nuca. Wayne mollò un calcio di tacco allo stinco del buttafuori, calando poi lo stivale sul collo del piede e premendo con forza. Il buttafuori allentò la presa. Wayne si voltò, gli diede un calcio nelle palle e lo colpì al viso con il fucile. Il buttafuori crollò a terra con scarsa intenzione di risollevarsi. Wayne non poté fare a meno di notare che la musica suonava ancora. E quando si girò ebbe qualcuno con cui ballare. Calhoun. Calhoun caricò come un toro, colpì Wayne al ventre con la testa e lo rovesciò sopra il buttafuori. Rotolarono a terra e la doppietta sgusciò dalle mani di Wayne, scivolando sulla pista e andando a colpire al capo la ragazzina che avanzava carponi. Lei non se ne accorse neppure e continuò a strisciare in tondo, tirandosi dietro la gamba rovinata come una pelle di cui si volesse liberare. Le altre donne, rimaste senza compagni, gironzolavano per la gabbia. La musica cambiò. Wayne non gradì il nuovo motivo. Troppo lento. Staccò con un morso un lobo a Calhoun. Calhoun urlò, e insieme rotolarono avvinghiati sulla pista. Calhoun passò un braccio intorno alla gola di Wayne e cercò di strangolarlo. Wayne sputò il lobo, sollevò una gamba ed estrasse il coltello dallo stivale. Lo rigirò fra le dita e colpì Calhoun alla tempia con il manico. Calhoun lasciò andare il collo di Wayne e vacillò sulle ginocchia, crollandogli poi sopra. Wayne se lo tolse di dosso, si rialzò e gli affibbiò qualche calcio alla testa. Quando ebbe finito, infilò il coltello nello stivale e recuperò la doppietta e la 38 di Calhoun. Al diavolo il suo coltellaccio. Una morta cercò di afferrarlo con le braccia, e lui la scostò bruscamente. Sollevò Calhoun per il colletto e cominciò a trascinarlo verso il cancello. Contro la gabbia erano premuti molti visi. Uno spettacolo niente male. Un cowboy dall’aria cordiale aprì il cancello a Wayne, e la folla fece ala
mentre lui trascinava Calhoun verso l’uscita. Un ometto si sentì in dovere di mostrarsi utile e li rincorse dicendo: “Ecco il suo cappello, signore”. Lo mollò sul viso di Calhoun e il cappello vi rimase piantato. Fuori, un ubriaco stava pisciando fra due auto ferme. Quando Wayne gli passò accanto trascinando Calhoun, l’ubriaco disse: “Il tuo amico non ha l’aria di passarsela molto bene.” “Se la passerà molto peggio quando l’avrò riportato a Law Town.” disse Wayne. Si fermò accanto alla imitazione Chevy del ‘57, scaricò la pistola di Calhoun e la scagliò più lontano che poteva, poi passò qualche minuto a prendere a calci Calhoun nelle costole e nel culo. Calhoun grugnì e scoreggiò, ma non riprese i sensi. Quando Wayne si sentì la gamba stanca, caricò Calhoun sul sedile del passeggero e lo ammanettò alla portiera. Poi andò all’auto di Calhoun, una riproduzione di un’Impala del ‘62 con tanto di corna di toro in plastica montate sul cofano - quell’automobile più di ogni altra cosa gli aveva dato la possibilità di individuarlo - e frantumò i vetri dalla parte del guidatore. Con la doppietta mandò in pezzi le corna di toro e con la pistola bucò tutte le gomme, pisciò sulla portiera del guidatore e l’ammaccò con un calcio. A quel punto era troppo stanco per cagare sul sedile posteriore, così respirò a fondo diverse volte, tornò alla sua Chevy ‘57 e si mise al volante. Sporgendosi davanti a Calhoun, aprì il cassetto del cruscotto, prese uno dei suoi sigari neri e sottili, e lo infilò fra le labbra. Pigiò il pulsante dell’accendino, e aspettando che si scaldasse ricaricò la doppietta. Due uomini sporsero la testa dalla porta della bettola; Wayne mise la doppietta fuori dal finestrino e sparò sopra le loro teste. Scomparvero all’interno così in fretta da sembrare un’illusione ottica. Wayne accostò l’accendino al sigaro, raccolse l’avviso di taglia che aveva sul sedile e gli diede fuoco. Per un attimo pensò di posarlo per scherzo in grembo a Calhoun, ma non lo fece. Gettò il foglio in fiamme dal finestrino. Guidò lentamente fino a portarsi davanti all’ingresso del locale e usò le cartucce rimaste per sparare all’insegna al neon del Rosalita. I vetri caddero tintinnanti sul tetto della bettola e sulla stradina inghiaiata. Se solo ci fosse stato un cane da pigliare a calci... Si allontanò da quel luogo, dirigendosi verso il Deserto Cadillac e, oltre quello, finalmente verso Law Town.
[2] Le Cadillac si stendevano per chilometri e chilometri, e fornivano le uniche zone d’ombra nel deserto. Erano sepolte di sbieco con il muso in avanti, fin quasi ai parabrezza, e Wayne vide gli scheletri di qualche conducente nelle auto, incastrati dietro il volante o stesi sul cruscotto contro il vetro. Le bocche da fuoco sui tetti e sui cofani erano state rimosse da tempo, e tutti i finestrini erano chiusi, tranne quelli infranti dai viaggiatori in vena di vandalismi o dai morti in cerca di ricordini. Il pensiero di trovarsi dentro una di quelle macchine con tutti i finestrini chiusi e con il caldo che faceva procurò addirittura un brivido a Wayne. Con quella temperatura, era sicuro che anche gli scheletri stavano sudando. Quando ebbe finito di pisciare contro la gomma della Chevy, vide che la macchia era quasi asciugata. Diede una scrollata, e vide le goccioline cadere sulla sabbia bruciante ed evaporare al semplice contatto. Richiudendo la lampo, ripensò a Calhoun e a quando, poco prima, lui si era fermato per consentire a quel figlio di puttana di fare un goccio d’acqua. Aveva così visto un piccolo anello inserito nel suo glande e lo stemma del Texas che penzolava dall’anello. Lo stemma del Texas poteva magari capirlo, visto che anche lui era originario di quello stato, ma nemmeno se lo avessero ammazzato sarebbe riuscito a comprendere perché un tizio dovesse fare una cosa simile. Un idiota pronto a infilarsi un anello nella punta dell’uccello meritava di morire, innocente o colpevole che fosse. Wayne si tolse il cappello da cowboy, si massaggiò la nuca, e fece scorrere la mano avanti e indietro sulla testa. Il sudore sulle dita era grasso come olio lubrificante, e la zona che si diradava all’attaccatura dei capelli era molliccia; il calore gli stava cuocendo lo scalpo, anche attraverso il feltro marrone del cappello. Prima ancora che si rimettesse il cappello, il sudore delle mani si era asciugato. Aprì la doppietta, mise le cartucce in tasca, aprì la portiera posteriore della Chevy e gettò il fucile sul tappetino. Tornò dietro il volante, e il sedile gli bruciò la schiena e il culo come una griglia per barbecue. Il sole brillava attraverso i finestrini leggermente affumicati come un cerchione cromato sfavillante, costringendolo a strizzare le palpebre. Diede una sbirciata a Calhoun, e se lo studiò. Lo stronzo si era addormentato con la testa all’indietro, e il cappello nero un po’ afflosciato gli
pendeva in equilibrio precario sulla testa... con aria quasi spavalda. Il sudore colava sul viso arrossato di Calhoun, correva sopra le palpebre e intorno al collo, scendendo sopra la copertura bianca dei sedili dove asciugava in fretta. Aveva la mano sinistra fra le gambe, stretta sulle palle, e la destra era sul bracciolo, l’unico posto dove poteva tenerla, poiché era ammanettato alla portiera. Wayne pensò che avrebbe dovuto far saltare le cervella a quel bastardo e dire a Dio che era morto per strada. Quella testa di cazzo meritava senz’altro una pallottola, ma Wayne non voleva perdere i mille dollari della sua taglia. Gli sarebbero serviti fino all’ultimo centesimo, se voleva mettere le mani su quel parco demolizione macchine a cui teneva tanto. La demolizione macchine era il sogno che Wayne trascinava dinanzi a sé, la carota messa davanti a un asino, e non era più deciso ad ammettere ritardi. Se fosse riuscito a evitare altri viaggi in quel dannato deserto, non avrebbe certo pianto. Pop gli avrebbe venduto quel posto con il denaro che aveva già e il resto avrebbe potuto darglielo in seguito, ma non era in quella maniera che Wayne voleva concludere l’affare. La faccenda delle taglie non lo attirava più come una volta, e adesso voleva fare qualcosa di diverso. Non era più divertente. Quando mettevi con le spalle al muro i figli di puttana e gli infilavi un paio di manette, dovevi stare attento al culo fino a quando non li sbattevi dentro. Dovevi dormire con un occhio aperto e con una mano sulla pistola. Non era un bel modo di vivere. Inoltre voleva una possibilità per ricambiare Pop. Pop era stato come un padre per lui. Quando era un bambino e sua madre si faceva scopare dai messicani al di là del confine per i soldi dell’affitto, Pop gli aveva permesso di stare nel parco demolizioni e di salire sulle vetture arrugginite e di guardarlo mentre riparava le macchine migliori, mentre metteva a punto quelle bimbe così bene che facevano le fusa come fighette in attesa di un uccello. Quando era cresciuto, Pop lo aveva portato a puttane a Galveston e sulla spiaggia per sparare a tutte quelle schifose, fottute creature mentre nuotavano nel Golfo. A volte se lo era tirato dietro in Oklahoma per le Retate dei Morti. Quel vecchio coglione si divertiva come un matto a colpire in testa quei morti fottuti con un cerchione di ferro, a spappolargli i cervelli bacati per toglierli di mezzo una volta per tutte. Ed era un bel rischio. Perché se uno di quei morti ti mordeva, potevi metterti l’anima in pace e spa-
rarti subito un colpo in testa. Wayne si scosse dai suoi pensieri su Pop e sul cantiere, e accese l’impianto stereo. Una delle sue canzoni country-western preferite cominciò a sussurrare al suo orecchio. Cantava Billy Conteegas, e Wayne canticchiò seguendo la musica mentre procedeva attraverso l’ombra della Cadillac, benvenuta anche se inutile. “La mia ragazza mi ha lasciato, Mi ha lasciato per una vacca, Ma non me ne frega un cazzo, Adesso è radioattiva, Sì, la mia ragazza mi ha lasciato, Mi ha lasciato per una vacca con sei tette.” Proprio quando Conteegas stava per arrivare al pezzo migliore, emettendo quel suono trillante di gola per il quale era famoso, Calhoun aprì gli occhi e parlò. “Non è già abbastanza brutto dover sopportare questo caldo fottuto e il tuo canticchiare senza dover ascoltare queste stronzate? Non hai qualcosa di Hank Williams, o magari musica nera come quella che si faceva una volta? Lo sai, quella dove un branco di negri fa il coro e uno di loro canta come se gli avessero tagliato i coglioni.” “Calhoun, non sai riconoscere della buona musica nemmeno quando la senti.” Calhoun mosse la mano libera verso il nastro del cappello, trovò una delle poche sigarette rimaste e un fiammifero. Strofinò il fiammifero sul ginocchio, la accese e tirò qualche boccata. Wayne non riusciva a capire come Calhoun potesse fumare con tutto quel calore. “Non riconoscerò la buona musica quando la sento, mezzasega, ma sono sicurissimo di distinguere la cattiva musica quando l’ascolto. E questa è merda.” “Non hai nemmeno un briciolo di cultura, Calhoun. Sei stato troppo occupato a stuprare bambine.” “Un uomo deve pure avere qualche passatempo,” disse Calhoun, soffiando il fumo verso Wayne. “Mi piace la figa giovane. Oltretutto, quella non aveva mica il pannolino. Difficile trovarne una così piccola. Aveva tredici anni. Lo sai come si dice. Se sono abbastanza grandi da sanguinare, lo sono anche per figliare.”
“Che età devono avere per farsi ammazzare da te?” “Faceva troppo chiasso.” “Cambia canale, Calhoun.” “Sto solo passando un po’ il tempo, mezzasega. Faresti meglio a stare attento, cacciatore di taglie, perché quando meno te l’aspetti ti spacco la testa.” “Stai per dar fiato ai tuoi polmoni una volta di troppo, Calhoun, e quando succederà finirai questo viaggio nel bagagliaio con le formiche che ti passeggiano addosso. Il tuo prezzo non è così alto da impedirmi di spararti un colpo.” “Hai avuto culo nel locale, ragazzo. Ma c’è sempre un domani, e ogni giorno non può essere sempre come al Rosalita.” Wayne sorrise. “Il guaio, Calhoun, è che tu stai finendo i tuoi domani.” [3] Procedendo fra le Cadillac sotto il cielo che sbiadiva come una lampadina con ancora poche ore di vita, Wayne guardò le auto e cercò di immaginare come fossero state le Guerre Chevrolet-Cadillac, e perché fossero state combattute in quello squallido deserto. Aveva sentito dire che era stato uno scontro infernale, quasi alla pari, ma la vittoria finale era andata alle Chevy e adesso quelle erano le uniche auto prodotte a Detroit. E per quanto lo riguardava, quello era l’unico prodotto di Detroit che valesse qualcosa. Le auto. La pensava nello stesso modo riguardo alle città. Avrebbe preferito sdraiarsi a terra e farsi pisciare in faccia da un cane ammalato piuttosto che attraversarne in macchina una, per non parlare poi di viverci. Law Town era un’eccezione. Lui stava andando là. Non per viverci, ma per consegnare Calhoun alle autorità e incassare la sua ricompensa. La gente di Law Town era sempre contenta di veder arrivare un criminale in catene. Le esecuzioni pubbliche erano popolari e variopinte, e attiravano un flusso costante di valuta esterna. L’ultima volta che c’era stato aveva comprato un biglietto di prima fila per una delle esecuzioni e aveva guardato un taccheggiatore abituale, un topo di fogna dai capelli rossi, squartato da due trattori. L’esecuzione in sé era stata piuttosto breve, ma c’erano stati parecchi numeri introduttivi con pagliacci e cantanti, e perfino una spogliarellista con due tette gigantesche che sapeva far roteare in direzioni opposte al ritmo della musica.
Wayne era rimasto deluso dallo spettacolo. L’organizzazione si era rivelata carente, il cibo e le bevande troppo cari, e i posti in prima fila troppo vicini ai trattori. Era riuscito a vedere che le budella del pel di carota erano più rosse dei suoi capelli, ma un po’ di frattaglie gli erano schizzate sulla camicia nuova, e anche con l’acqua fredda le macchie non erano più venute via. Aveva suggerito a uno degli organizzatori di sistemare un grosso schermo di plastica davanti alla prima fila per proteggerla dagli schizzi, ma dubitava che ne avessero tenuto conto. Guidò finché non fu buio pesto. Allora Wayne fermò la Chevy, allungò un pezzo di carne essiccata a Calhoun e gli fece bere qualche sorso d’acqua dalla sua borraccia. Poi lo ammanettò al paraurti anteriore dell’auto. “Se vedi serpenti, qualche lucertolone Gila, scorpioni o roba del genere,” disse Wayne, “lancia un urlo. Magari riesco ad arrivare in tempo.” “Preferirei lasciarmeli entrare nel culo piuttosto che chiamarti,” disse Calhoun. Lasciato Calhoun con la testa appoggiata al paraurti, Wayne salì sul sedile posteriore della Chevy e dormì con un orecchio teso e un occhio aperto. Prima dell’alba Wayne caricò Calhoun sulla macchina e rimise in moto. Dopo pochi minuti passati ad affettare la grigia foschia del primo mattino, si sollevò il vento. Uno di quei bizzarri venti del deserto che uscivano di colpo dal nulla. Trasportava sabbia nell’aria alla velocità di pallottole, colpendo la Chevy come un branco di gatti furibondi con le unghie sguainate. Le gomme da sabbia macinarono la strada scricchiolando; Wayne accese l’aspiratore del parabrezza, i tergicristalli da sabbia e i fari anteriori, e continuò a procedere. All’ora in cui il sole avrebbe dovuto sorgere, non riuscirono a vederlo. Troppa sabbia. Soffiava più forte che mai, e l’aspiratore e le spazzole non riuscivano a eliminarla. Cominciava ad ammucchiarsi. Wayne non vedeva nemmeno più le Cadillac di fianco a loro. Stava per fermarsi quando una sagoma indistinta, un po’ simile a una balena, gli attraversò la strada. Wayne pestò sul freno di colpo, dando una brutta sorpresa alle gomme da sabbia. Ma non fu sufficiente. La Chevy sbandò di lato e urtò la sagoma sul lato di Calhoun. Wayne sentì il compagno urlare, poi fu sbattuto contro la portiera e la sua testa colpì il metallo e il buio esterno fu poca cosa in confronto all’oscurità nella
quale sprofondò. [4] Wayne ne uscì con la stessa rapidità con la quale vi era piombato. Da una leggera ferita alla fronte il sangue gli colava sugli occhi. Si ripulì usando una manica. La prima cosa che vide con chiarezza fu un viso al finestrino; un viso pallido, butterato come la superficie lunare, con due occhi sporgenti e l’espressione di un idiota che contemplasse un libro scritto in sanscrito. In testa l’uomo aveva uno strano cappello nero con ai lati due grosse falde rotonde simili a orecchie, e al centro del cappello, come un’escrescenza d’argento, spuntava la testa di una grossa vite. La sabbia graffiava il viso, si piantava in ogni increspatura, colpiva gli occhi sempre spalancati e faceva sventolare le falde del cappello. L’uomo non sembrava nemmeno accorgersene. Benché fosse ancora intontito, Wayne ne comprese subito il motivo. Quell’uomo era morto. Wayne guardò in direzione di Calhoun. La portiera dal suo lato era accartocciata verso l’interno, e il metallo, piegandosi, aveva spezzato in due la manetta attaccata al bracciolo. L’urto aveva sbattuto Calhoun al centro del sedile. Adesso se ne stava là e reggeva la mano davanti al viso, fissando la manetta penzolante e la catenella quasi fossero un braccialetto d’argento e una collana di perle. Chino sopra il cofano, intento a togliere con le mani la sabbia dal parabrezza, c’era un altro morto. Anche questo portava un cappello con le falde rotonde. Premette un viso smangiucchiato contro l’area ripulita e sbirciò Calhoun all’interno. Un filo di saliva verdognola gli colò dalle labbra sul vetro. Altra sabbia venne spazzata via dai suoi colleghi. Ben presto tutti i i finestrini dell’auto mostrarono visi pallidi e putrefatti di morti. Fissavano tutti Wayne e Calhoun come se fossero due pesci rari in un acquario. Wayne armò il cane della 38. “E io?” disse Calhoun. “Cosa dovrei usare?” “Prova col tuo fascino,” disse Wayne, e in quell’istante, come per un segnale, i morti arretrarono dai finestrini lasciando solo uno di loro in piedi sul cofano con una mazza da baseball. Quello colpì il parabrezza, che si trasformò in una distesa di minuscole stelle. La mazza calò di nuovo e il firmamento cadde e le stelle precipitarono e la tempesta di sabbia aggredì
urlando Wayne e Calhoun. I morti riapparvero compatti. Quello sul cofano tentò di entrare dal buco nel parabrezza, insensibile alle schegge di vetro che gli strappavano gli abiti già laceri e gli dilaniavano la carne simile a cartone umido. Wayne sparò nella testa al battitore e l’uomo, morto definitivamente, cadde attraverso il buco bloccando con il suo corpo il braccio di Wayne. Prima che Wayne potesse liberare la pistola, una mano di donna penetrò dal buco e lo agguantò per il collo della camicia. Altri morti si accanirono contro il vetro e lo sbriciolarono a calci e a pugni. Wayne si trovò subissato di mani; erano fredde e secche come coprisedili di vero cuoio. Lo trascinarono sopra il volante e il cruscotto, fino a portarlo fuori. La sabbia cominciò a lavorarsi la sua pelle come una grattugia per il formaggio. Wayne udì Calhoun urlare: “Mangiatemi, stronzi fottuti, mangiatemi e che vi possa andare di traverso!” Rovesciarono Wayne sul cofano della Chevy. Parecchi visi si chinarono sopra di lui. Denti gialli e gengive sdentate si avvicinarono. “Adesso inizia l’abbuffata,” pensò. La sua unica consolazione stava nel fatto che i morti erano tanti e che quindi di lui non sarebbe rimasto abbastanza per poter tornare in vita dalla morte. Probabilmente si sarebbero pappati il suo cervello come dessert. E invece no. Lo sollevarono e lo portarono via. La cosa che vide subito dopo fu un’immagine più chiara della sagoma a forma di balena che la Chevy aveva investito. Era uno scuolabus giallo. La porta dell’autobus si aprì con un sibilo. I morti scaricarono dentro Wayne e gli lanciarono dietro il suo cappello. Poi si tirarono indietro e la porta si richiuse, mancando per un pelo il piede di Wayne. Wayne sollevò gli occhi e vide un uomo che gli sorrideva, seduto al posto di guida. Non era morto. Solo grasso e brutto. Alto sì e no un metro e mezzo, e calvo, se si eccettuava una frangetta intorno alla pelata luccicante del colore di ciò che restava in una tazza di cesso otturato. Aveva un naso così lungo e paonazzo e maligno che dava l’impressione di potergli cadere dal viso in ogni momento, come una banana troppo matura. Indossava quello che dapprima a Wayne sembrò un accappatoio, ma poi risultò una tonaca simile a quella di un monaco. Era vecchia e sbrindellata e mangiata dalle tarme, e Wayne vide una carne pallida attraverso gli strappi. Dal grassone emanava un odore fra il puzzo di sudore stantio, di palle che sanno di rancido e di culo pulito male. “Lieto di vederti,” disse il grassone.
“Incantato,” disse Wayne. Dal fondo dell’autobus giunse un suono strano, irriconoscibile. Wayne alzò la testa sopra i sedili per dare un’occhiata. A circa metà del corridoio c’era una suora. O una specie di suora. Gli voltava le spalle e portava il solito abito bianco e nero delle suore. La parte che le copriva la testa e il busto era quella tradizionale, ma scendendo si notava qualcosa di diverso. L’abito le arrivava solo alle cosce; sotto si vedevano calze a rete nere e tacchi a spillo altissimi. Era snella, con due belle gambe e un culetto alto e sodo che Wayne, anche in quelle circostanze, non poté fare a meno di ammirare. Muoveva una mano sopra la testa come se stesse segando l’aria. Seduti in entrambe le file di posti c’erano dei morti. Portavano tutti quei cappelli con le falde rotonde, ed erano loro a produrre quel suono. Stavano cercando di cantare. Wayne non aveva mai saputo che i morti potessero emettere suoni diversi dai gemiti o dai grugniti, ma lì stavano cantando. Un canto del tutto stonato, certo, con molte parole ingarbugliate e alcuni dei morti che si accontentavano solo di aprire la bocca in silenzio, ma, perdio, lui riconosceva il pezzo. Era Gesù mi ama. Wayne tornò a guardare il grassone e fece scivolare una mano verso il coltello da caccia nello stivale destro. Il grassone tirò fuori una piccola 32 automatica da sotto la tonaca e gliela puntò addosso. “È un calibro piccolo,” disse il grassone, “ma sono un ottimo tiratore e con questa riesco a fare buchi piccoli ma precisi.” Wayne interruppe il suo tentativo di raggiungere lo stivale. “Oh, così va bene,” disse il grassone. “Prendi lentamente il coltello, posalo a terra davanti a te e fallo scivolare verso di me. E già che ci siamo, mi pare di vederne un secondo nell’altro stivale.” Wayne si voltò. Quando lo avevano scaricato dentro l’autobus l’orlo dei suoi jeans si era sollevato sopra il bordo degli stivali, e adesso entrambe le impugnature dei suoi coltelli erano visibili. Come due semafori. Aveva tutta l’aria di rivelarsi una giornata merdosa. Fece scivolare i due coltelli verso il grassone, che li raccolse con dita impacciate e li scaricò sull’altro lato del sedile. La porta dell’autobus si aprì e Calhoun fu scaricato addosso a Wayne. Il suo cappello lo seguì a ruota. Wayne si scrollò di dosso Calhoun, recuperò il proprio cappello e se lo ficcò in testa. Calhoun fece lo stesso. Erano ancora inginocchiati.
“I signori vorrebbero spostarsi verso il centro dell’autobus?” Wayne fece strada. Solo allora Calhoun notò la suora, e disse: “Ehi, guarda che culo.” Il grassone tornò a farsi vivo. “Così può bastare.” Wayne scivolò sul sedile che il grassone gli indicò con un cenno della 32, e Calhoun si infilò al suo fianco. Gli altri morti salirono a loro volta sul torpedone, occupando i sedili anteriori e lasciando pochi posti al centro. Calhoun disse: “Perché quegli stronzi là dietro fanno tutto questo baccano?” “Cantano,” disse Wayne. “Non sei mai stato in chiesa?” “Se lo dici tu...” Calhoun si voltò verso la suora e i morti sul fondo e urlò: “Non ne sapete qualcuna di Hank Williams?” La suora non si voltò e i morti non interruppero il loro canto stonato. “Direi di no,” disse Calhoun. “Sembra che tutta la buona musica sia stata dimenticata.” Il baccano in fondo all’autobus cessò, e la suora venne a dare un’occhiata a Wayne e a Calhoun. Era carina anche sul davanti. L’abito era aperto dalla gola all’inguine, con i bordi merlettati, e mostrava una quantità di tette e un minuscolo paio di mutandine nere che non riuscivano a trattenere del tutto il pelo pubico folto e selvaggio come erba riccia. Quando Wayne riuscì a staccare gli occhi da laggiù e a guardarla in viso, vide che aveva la carnagione scura, due occhi color caffè e un paio di labbra fatte per essere prese a morsi. Calhoun non riuscì nemmeno ad arrivare alla faccia. A lui i visi non interessavano molto. Annusò, poi disse, fissando le mutandine: “Bella passera.” La mano sinistra della suora scattò in avanti e colpì Calhoun su un lato del viso. Lui le afferrò il polso, dicendo: “Anche il braccio non è male.” La suora eseguì un piccolo numero di magia con la mano destra; la passò dietro la schiena e la riportò indietro con una Derringer a due colpi. La premette contro la tempia di Calhoun. Wayne si chinò in avanti, sperando che non sparasse. A quella distanza la pallottola poteva trapassare la testa di Calhoun e beccare anche lui. “Non posso sbagliare,” disse la suora. Calhoun sorrise. “È vero,” disse, e le lasciò libero il polso. Lei sedette di fianco a loro, sorrise e accavallò le gambe. Wayne senti il cavallo dei Levi’s gonfiarsi e pilotare il suo contenuto lungo l’interno della coscia.
“Dolcezza,” disse Calhoun, “vali quasi la pena di beccarsi una palla in testa.” La suora non smise di sorridere. L’autobus si mise in moto. Gli aspiratori e i tergicristalli si misero al lavoro, il parabrezza diventò blu e un puntino bianco cominciò a muoversi fra altri puntini bianchi più piccoli. Radar. Wayne aveva già visto quel tipo di congegno su altri veicoli da deserto. Se l’avesse scampata e fosse riuscito a recuperare la sua macchina, magari avrebbe installato qualcosa del genere. O forse no, perché era stufo del deserto. Comunque, in quel momento, i progetti sul futuro sembravano leggermente fuori posto. Poi pensò un’altra cosa. Radar? Questo voleva dire che quei bastardi sapevano che stavano arrivando e avevano tagliato loro la strada di proposito. Si sporse sul sedile e controllò il punto dove la sua Chevy aveva urtato l’autobus. Nemmeno un’ammaccatura. Corazzato, probabilmente. Di quei tempi quasi tutti gli autobus scolastici lo erano. Di certo aveva anche vetri a prova di proiettile e gomme da sabbia antiforatura. Gli scuolabus erano stati attrezzati in quel modo in seguito alle sommosse razziali e alla decisione di mandare a scuola i vitelli mutanti come se fossero esseri umani. E anche a causa dei Bacucchi... i vecchi sporcaccioni convinti che i ragazzini dovessero servire agli adulti per scopi sessuali o per allentare la tensione. “Non ti sembra ora di togliermi questo braccialetto?” disse Calhoun. “Ormai non serve più a un cazzo.” Wayne guardò la suora. “Sto per prendere la chiave delle manette nei pantaloni. Non sparare.” Wayne trovò la chiave, aprì la sola manetta rimasta e Calhoun la lasciò scivolare sul pavimento. Wayne vide che la suora sembrava incuriosita e disse: “Sono un cacciatore di taglie. Aiutami a portare quest’uomo a Law Town e potrei farti guadagnare qualcosa per il disturbo.” La donna scrollò il capo. “Così si fa,” disse Calhoun. “Mi piace una suora che bada agli affari suoi... Sei una suora sul serio?” Lei annuì. “Parli sempre tanto?” Un altro cenno di assenso. “Non ho mai visto una suora come te,” disse Wayne. “Almeno, non vestita in questo modo e con una pistola.”
“Siamo un ordine piccolo e speciale,” disse lei, “Sei una specie di maestra di catechismo per questi morti?” “Una specie.” “Ma visto che sono morti, non è inutile? Adesso non hanno più anima, vero?” “No, ma la loro opera contribuisce alla gloria di Dio. “ “La loro opera?” Wayne guardò i morti seduti rigidamente ai loro posti. Notò che uno di loro stava per perdere un orecchio putrefatto. Tirò su con il naso. “Forse contribuiscono alla gloria di Dio, ma non sono l’ideale per l’aria che si respira.” La suora infilò una mano in una tasca del suo abito e ne tirò fuori due oggetti rotondi. Ne lanciò uno a Calhoun e uno a Wayne. “Caramelle al mentolo. Aiutano a sopportare l’odore.” Wayne scartocciò la caramella e cominciò a succhiarla. Serviva ad attenuare la puzza, certo, ma il mentolo non era eccezionale. Gli ricordò le malattie della sua infanzia. “A che ordine appartieni?” chiese Wayne. “Gesù amò Maria,” disse la suora. “La sua mamma?” disse Wayne. “Maria Maddalena. Noi crediamo che l’abbia scopata. Che fossero amanti. Ne abbiamo trovato prove nelle Sacre Scritture. Lei era una puttana e noi l’abbiamo presa come esempio. Smise di fare quella vita e divenne una puttana per Gesù.” “Mi spiace dovertelo dire, sorella,” disse Calhoun, “ma quel Gesù che tanto ti tira è morto stecchito. Se aspetti che sia lui a farti il servizio, la tua cosina diventerà tutta secca e finirà in polvere.” “Grazie per l’informazione,” disse la suora. “Ma noi non scopiamo con lui in persona. Scopiamo con il suo spirito. Lasciamo che lo spirito entri negli uomini e che loro ci prendano nello stesso modo in cui Gesù prese Maria.” “Non mi stai prendendo per il culo?” “Niente affatto.” “Be’, sai che adesso sento il vecchio nazareno che si agita dentro di me? Perché non tiri quelle tendine, dolcezza, e poi butti indietro quel sedile per lasciare che il vecchio Calhoun ti faccia sentire il suo Gesù?” Calhoun si spostò in direzione della suora. Lei gli puntò addosso la Derringer, dicendo: “Resta dove sei. Se fosse davvero così, se tu fossi pieno di Gesù, mi lascerei possedere in questo
stesso momento. Ma tu sei pieno del Diavolo, non di Gesù.” “Merda, sorella, lascia un po’ di respiro anche al vecchio Diavolo. È un tipo divertente, tutto sommato. Facciamo un numerino a due e... Be’, d’accordo. Ma se cambi idea, posso diventare religioso in mezzo secondo. Mi piace da matti scopare. Ho scopato tutto quello che mi è capitato fra le mani tranne un pappagallino, e mi sarei scopato anche quello se solo avessi trovato il suo buco.” “Non sapevo che si potessero ammaestrare i morti,” disse Wayne, tentando di indirizzare la suora verso una conversazione che potesse essergli d’aiuto, se non altro per capire cosa stava succedendo e in quale genere di guaio era venuto a trovarsi. “Come ho detto, siamo un ordine molto particolare. Fratello Lazzaro,” indicò con la mano libera il conducente, e senza voltarsi il grassone sollevò a sua volta una mano in risposta, “è il fondatore. Non credo che avrà nulla in contrario se vi racconto la sua storia e vi parlo di noi, di ciò che facciamo e perché. È importante diffondere il verbo fra i pagani.” “Non darmi del fottuto pagano,” disse Calhoun. “Quello che fate voi è pagano, andarsene in giro con un cazzo di autobus pieno di morti fottuti con quei buffi cappelli. Perdio, non sanno nemmeno intonare una canzone in modo decente.” La suora lo ignorò. “Fratello Lazzaro era noto un tempo con un altro nome, ma questo nome non ha più alcuna importanza. Era uno scienziato, un ricercatore, e lavorava in quel laboratorio da dove sono fuggiti i germi che hanno riportato in vita i morti ancora in possesso di un cervello non danneggiato. “Fratello Lazzaro teneva in mano una bacinella con dentro l’esperimento, i germi, e per scherzo uno degli assistenti di laboratorio finse di fargli lo sgambetto, e lui, non sapendo che era uno scherzo, schivò la gamba dell’assistente e lasciò cadere la bacinella. In un attimo, il sistema di condizionamento soffiò i germi in tutto il laboratorio. Qualcuno aprì una porta, e i germi si sparsero nel mondo. “Fratello Lazzaro fu consumato dalla colpa. Non solo perché aveva lasciato cadere il piatto, ma perché in primo luogo aveva collaborato a creare quei germi. Abbandonò il suo lavoro e cominciò a vagare per il paese. Arrivò qui con nient’altro che un po’ di cibo, dell’acqua e qualche libro. Fra questi libri c’erano la Bibbia e i libri perduti delle Sacre Scritture: i Vangeli apocrifi e i numerosi capitoli esclusi dal Nuovo Testamento. Studiandoli, si rese conto che questi libri ignorati contenevano verità misconosciute.
Riuscì a interpretare i loro significati reconditi, e un angelo scese da lui in sogno a parlargli di un altro libro, e Fratello Lazzaro prese la penna e trascrisse le parole dell’angelo, inviate direttamente da Dio, e in questo libro tutti i misteri venivano spiegati.” “Come quello di scopare con Gesù,” disse Calhoun. “Come quello di scopare con Gesù, e come non avere paura delle parole che riguardavano il sesso. Come non avere paura di vedere Gesù in veste di Dio e di uomo. Come capire che il sesso, se indirizzato a Cristo e all’apertura della mente, può essere un’esperienza religiosa emozionante, e non solo il connubio di due animali selvatici in calore. “Fratello Lazzaro percorse il deserto e le montagne, pensando alle cose che Dio gli aveva rivelato, ed ecco che, meraviglia delle meraviglie, il Signore gli inviò un’altra rivelazione. Fratello Lazzaro scoprì un grande parco di divertimenti.” “Non sapevo che Gesù andasse matto per le montagne russe,” disse Calhoun. “Era stato abbandonato da molto tempo. Una volta faceva parte di una località chiamata Disneyland. Fratello Lazzaro lo conosceva. In tutto il paese erano state costruite parecchie Disneyland, ma quella si era trovata in mezzo alle Guerre Chevy-Cadillac, era stata distrutta e la sabbia l’aveva ricoperta quasi interamente.” La suora sollevò le braccia. “E fra quelle rovine, egli vide un nuovo inizio.” “Datti una calmata, bimba,” disse Calhoun, “prima che ti venga un colpo.” “Radunò attorno a sé uomini e donne che la pensavano come lui e insegnò loro il vangelo. Il Vecchio Testamento. Il Nuovo Testamento. I Libri Perduti. E il suo stesso Libro di Lazzaro, poiché aveva già iniziato a farsi chiamare con quel nome. Un nome simbolico che significava un nuovo inizio, un’ascesa alla vita dalla morte, e un modo di vedere le cose come realmente esse erano.” Parlando, la suora muoveva rapidamente le mani, sottolineando ciò che diceva. Il sudore cominciò a imperlarle la fronte e il labbro superiore. “Così tornò a fare uso delle sue conoscenze di scienziato, ma le rivolse a un fine più alto... al volere di Dio. E come Fratello Lazzaro, comprese l’utilità dei morti. Si poteva insegnare loro a lavorare per costruire un grande monumento alla gloria di Dio. E questo monumento, questa istituzione di monaci e di suore, sarebbe stato chiamato Terra di Gesù.”
Alla parola “Gesù” la suora diede alla propria voce un gorgheggio particolare, e i morti, colta l’imbeccata, dissero tutti insieme: “Scia loddato il sciuo nomine.” “Come diavolo avete fatto ad ammaestrare i morti?” disse Calhoun. “Con i bocconcini per cani?” “Con la scienza posta al servizio di nostro Signore Gesù Cristo, ecco come. Fratello Lazzaro ha fabbricato un congegno speciale che si può inserire direttamente nei cervelli dei morti, attraverso il cranio, e questo congegno controlla certi impulsi. Li rende passivi e disponibili a obbedire... almeno a semplici comandi. Grazie al regolatore, come lo chiama Fratello Lazzaro, siamo riusciti a costruire molte cose con i morti.” “E dove li prendete i morti?” chiese Wayne. “Li compriamo dai Macellai. Li salviamo dai loro propositi amorali.” “Dovrebbero beccarsi una pallottola in testa e finire sotto terra,” disse Wayne. “Se il nostro uso del regolatore e dei morti consistesse soltanto nel migliorare le nostre condizioni di vita, sarei d’accordo. Ma non è così. Noi svolgiamo l’opera del Signore.” “I monaci si fottono le sorelle?” chiese Calhoun. “Solo quando vengono posseduti dallo Spirito di Cristo. Sì.” “E scommetto che vengono posseduti spesso. Mica male come sistema. I morti che sbrigano i lavori pesanti nel parco di divertimenti...” “Adesso non è più un parco di divertimenti.” “...e tanta passera gratis per i confratelli. Mi piace. Quel vecchio testa di cazzo laggiù è più furbo di quel che sembra.” “Non c’è nulla di egoistico nei nostri scopi o in quelli di Fratello Lazzaro. Anzi, come penitenza per aver sparso i germi nel mondo, Fratello Lazzaro si è iniettato un virus nel naso. Adesso marcisce lentamente.” “Mi era sembrata un po’ strana come proboscide,” disse Wayne. “Mi rimangio quello che ho detto,” borbottò Calhoun. “E davvero stronzo come sembra.” “Perché i morti portano quei buffi cappelli?” chiese Wayne. “Fratello Lazzaro ne scoprì un magazzino pieno accanto al vecchio parco di divertimenti. Sono orecchie da topo. Rappresentano un animale dei cartoni animati che un tempo era molto popolare e parte integrante di Disneyland. Topolino, si chiamava. In questo modo sappiamo quali sono i nostri morti, e quali invece non sono controllati dai regolatori. Ogni tanto, morti vagabondi si infiltrano nella nostra area. Vittime di delitti. Bambini
abbandonati nel deserto. Gente che attraversava il deserto ed è morta per il caldo o per qualche malore. Alcuni fratelli e sorelle sono stati aggrediti. I cappelli sono una precauzione.” “E noi come entriamo in tutto questo?” chiese Wayne. La suora sorrise dolcemente. “Voi, figlioli, accrescerete la gloria di Dio.” “Figlioli?” disse Calhoun. “Sei il tipo che chiama lucertola un alligatore, puttana?” La suora si appoggiò contro il sedile e posò la Derringer in grembo. Sollevò le ginocchia contro lo schienale del sedile di fronte, facendo increspare le mutandine nella valle della sua vagina; sembrava un posto interessante da visitare, quella valle. Wayne si distolse da quella vista gradevole, appoggiò la testa allo schienale e si tirò il cappello sugli occhi. Per il momento non poteva fare nulla, e visto che la suora stava sorvegliando Calhoun al posto suo, lui avrebbe dormito, recuperato le forze e pensato a cosa fare dopo. Sempre che fosse possibile fare qualcosa. Scivolò verso il sonno, domandandosi cosa avesse voluto dire la suora con il suo “accrescerete la gloria di Dio.” Aveva l’impressione che, una volta scopertolo, il significato di quelle parole non gli sarebbe piaciuto. [5] Si svegliò di soprassalto e vide che la luce del sole filtrata dalla tempesta dava a ogni cosa un colorito verdastro. Vedendo che era sveglio, Calhoun disse: “Non è una bella tinta? Una volta avevo una camicia di questo colore che mi piaceva molto, ma ho avuto una lite con una puttana messicana con una gamba di legno per dei soldi e lei me l’ha strappata. Le ho fatto un bel buco in fronte, a quella troia.” “Grazie per il racconto,” disse Wayne, e tornò a dormire. A ogni risveglio la luce era più forte, e finalmente riaprì gli occhi fra la luce del sole che sfolgorava a tempesta ormai finita. Ma non rimase sveglio. Si costrinse a richiudere gli occhi e ad accumulare altre forze. Per appisolarsi ascoltò il ronzio del motore e pensò al parco di demolizione e a Pop e a come avrebbero potuto spassarsela insieme bevendo birra, giocando con le macchine e scopandosi le donne sul confine, e magari qualcuna delle vacche mutanti che vendevano da quelle parti.
Ma no. Niente vacche, e nemmeno quelle altre creature modificate geneticamente. Un uomo doveva pure stabilire un limite alle sue porcate, e per lui si trattava di fermarsi davanti a questi mutanti, anche se erano stati modificati al punto da sembrare quasi esseri umani. Un minimo di orgoglio ci voleva. Naturalmente, quei limiti potevano sempre allentarsi. Ricordava ancora quando aveva stabilito di fottere solo donne carine. La sua ultima puttana non era certo stata un fiore di bellezza. Se non fosse stato attento avrebbe fatto la fine di Calhoun, costretto a cercare il buco giusto in un pappagallino. Si svegliò per una gomitata di Calhoun nelle costole, e vide la suora in piedi accanto al sedile con la Derringer spianata. Wayne sapeva che lei non aveva dormito, ma aveva un’aria vispa e gli occhi scintillanti. Fece un cenno col capo verso il finestrino, dicendo: “La Terra di Gesù.” Aveva di nuovo nella voce quel gorgheggio particolare, e i morti nell’autobus risposero con: “Scia loddato il sciuo nomme.” Il cielo era sereno ma buio, ormai, una notte frizzante con una grossa luna color ottone. L’autobus solcava la sabbia bianca come una goletta mistica con le vele piene di vento. Si inerpicò su per una collina impossibile verso ciò che sembrava un’aurora boreale, poi si tuffò in un arcobaleno atomico di colori che riempì l’autobus di luci fiabesche. Quando i suoi occhi si furono abituati alle luci e l’autobus effettuò una precaria sterzata verso destra, Wayne ebbe modo di guardare in fondo alla valle. Una veduta aerea non avrebbe potuto essere migliore della vista dal suo finestrino. Laggiù c’era un universo di metallo lucente e di neon contorti. Al centro della vallata c’era una grande statua di Gesù crocefisso che doveva essere alta almeno venticinque piani. Gran parte del corpo era composta di tubi metallici e di neon multicolori, e quasi tutta la luce proveniva da là. C’era una corona di filo spinato ritorta parecchie volte intorno alla piastra cromata che formava la fronte, e più sotto alcuni ciuffi di capelli al neon color ruggine. Gli occhi del salvatore erano ciclopici, enormi luci stroboscopiche verdi che oscillavano da destra a sinistra con la precisione di un ventilatore rotante. Sul viso c’era un sorriso che andava da un orecchio all’altro, e i denti erano lastre di metallo scintillante separate da ampie cavità nere. La statua era fornita di un gigantesco pene formato da cavi metallici intrecciati e spire di tubi al neon; il membro era più grosso e aveva un aspetto più robusto delle gambe artritiche composte da tubi di acciaio che lo fiancheg-
giavano; il glande era costituito da un enorme riflettore che pulsava rossastro. L’autobus continuò a fare il giro della valle, scendendo verso il basso come uno scarafaggio morto in un lavandino per metà intasato, e finalmente la strada si raddrizzò e lì portò nella Terra di Gesù. Passarono fra le gambe della statua, sotto il glande pulsante, dirigendosi verso quello che sembrava un piccolo castello di mattoni dorati con un ponte levatoio cosparso di gioielli. Il castello era solo una delle numerose strutture alte che sembravano fatte di metalli rari e pietre preziose: oro, argento, smeraldi, rubini e zaffiri. Ma più si avvicinavano agli edifici, più quelli si rivelavano per ciò che erano veramente: gesso, cartapesta, vernice fosforescente, riflettori colorati e fasce di tubi al neon. Sulla sinistra Wayne vide un lungo capannone aperto pieno di veicoli, in massima parte scuolabus. C’erano anche baracche buie costruite con lamiere e carta incatramata; gli alloggi dei morti, forse. Dietro le baracche e il capannone degli autobus si alzavano alte strutture scheletriche che spiccavano scure contro il cielo e le luci multicolori; forme che ricordavano i resti ossei di grandi balene arenate. Sulla destra, Wayne scorse un edificio la cui facciata aperta serviva da palcoscenico. Dinanzi al proscenio c’erano file di sedie occupate da monaci e suore. Sulla scena, sei monaci - uno dietro una batteria, uno con un sassofono, gli altri con chitarre - si esibivano in un fragoroso ritmo rockeggiante che faceva tremare i vetri dell’autobus. Una suora con il davanti dell’abito spalancato e la testa nuda cantava nel microfono con la voce di un angelo sofferente. I suoi strilli amplificati entravano dai finestrini soffocando il suono del motore. La suora rantolò il nome “Gesù” così a lungo e con tanta durezza da farla sembrare un’invocazione giunta dal profondo dell’inferno. Poi spiccò un salto e cominciò a esibirsi in spaccate sul palco, rimbalzando in piedi prontamente come se avesse una molla nel culo. “Scommetto che quella puttana sa raccogliere un quarto di dollaro con quella mossa,” disse Calhoun. Fratello Lazzaro premette un pulsante, il ponte levatoio con i suoi falsi gioielli si abbassò sopra uno stretto fossato, e l’autobus entrò nel castello. Dentro, l’illuminazione lasciava a desiderare. I muri erano grigi e cupi. Fratello Lazzaro spense il motore e scese a terra, e un altro monaco salì a bordo. Era alto e magro, con i denti sporgenti. Aveva anche un fucile calibro dodici a pompa.
“Questo è Fratello Fred,” disse la suora. “Sarà la vostra guida.” Fratello Fred fece scendere Wayne e Calhoun dall’autobus, allontanandoli dai morti con i loro cappelli a orecchie di topo e dalla suora con le mutandine nere, li spinse lungo un corridoio buio, su per una rampa di scale e giù per un corridoio più lungo con porte spalancate su entrambi i lati... porte che davano su stanze piene di oscurità e di luce, di carne marcia e di frattaglie appese a ganci, di teschi e ossa sparsi in giro come gusci di noce e rami spezzati; stanze piene di morti (ma morti sul serio) accatastati ordinatamente come legna per il fuoco, e stanze piene di scaffali di pietra ingombri di boccali colmi di liquidi rossi come il fuoco, verdi come foglie di primavera, azzurri come il cielo e gialli come piscio, come pure di storte di vetro dove altri liquidi colorati correvano come inseguiti, fumavano come innervositi e poi si riversavano in grosse bocce di vetro, finalmente in salvo; stanze con piattaforme e tavoli e scatole e sedie e sgabelli coperti di strumenti o di morti o di pezzi di morti, oppure occupati da monaci e suore che se ne stavano seduti a esaminare carte o provette o parti anatomiche e le fissavano con espressione seria e concentrata, le labbra increspate quasi fossero sul punto di esplodere in qualche pronunciamento tale da scuotere il cielo e la terra. E finalmente giunsero a una stanzetta con un’alta finestra senza vetri che si affacciava sullo sfolgorante caos che era la Terra di Gesù. La stanza era disadorna. Un tavolo, due sedie, due lettini lungo i lati. I muri erano di pietra nuda. Sulla destra un piccolo bagno senza porta. Wayne andò alla finestra e contemplò la Terra di Gesù che pulsava come un cuore disperato. Ascoltò per un attimo la musica, poi si allungò e sporse la testa. Erano parecchio in alto e sotto non c’erano appigli. Tentare un salto avrebbe voluto dire ritrovarsi i tacchi degli stivali sotto le tonsille. Wayne emise un fischio di apprezzamento per la distanza che lo separava dal terreno sottostante. Fratello Fred lo giudicò un complimento per la Terra di Gesù. “È un miracolo, non è vero?” disse. “Un miracolo?” disse Calhoun. “Questa buffonata di luci colorate? Non è un miracolo. E una cazzata. Porta qui la suora che c’era sull’autobus e dille di spararmi uno stronzo perfettamente rotondo attraverso un cerchio a venti passi di distanza, e anch’io griderò al miracolo, Fratello Dentini Fottuti. Ma questa storia della Terra di Gesù è la più grossa stronzata che abbia mai sentito dai tempi dei maglioncini per i cani. “E poi guarda questo buco. Potevate anche sistemarlo un po’ meglio.
Magari con la foto di una bimba nuda che si fa un somarello, o di un paio di maiali che scopano. Qualsiasi cosa. E una porta al cesso non guasterebbe. Non mi garba l’idea di spremermi sulla tazza e di sapere che qualcuno può darmi una sbirciata. Non è decente. Un uomo avrà pure il diritto di fare i suoi versi in pace. Questo posto mi ricorda un motel di Waco dove mi sono fermato una notte... ho costretto il padrone a restituirmi i soldi, perché gli scarafaggi nel cesso erano talmente grossi da poter usare la doccia.” Fratello Fred ascoltò questa tirata senza battere ciglio, come se vedere Calhoun parlare fosse non meno sorprendente che vedere un rospo cantare. Poi disse: “Fate la nanna, belli di mamma. Domani comincia il lavoro.” “Io non voglio nessun fottuto lavoro,” disse Calhoun. “Buonanotte, figlioli,” disse Fratello Fred, e uscì chiudendo la porta. Il suono della serratura fu secco e finale. [6] All’alba, Wayne si alzò e andò a pisciare, poi si affacciò alla finestra. Il palcoscenico dove i monaci avevano suonato e la suora spiccato i suoi salti era deserto. Le forme scheletriche che aveva notato la sera prima erano tralicci e binari di montagne russe abbandonate da parecchio tempo. Ebbe un’improvvisa visione di Gesù e dei discepoli che facevano un giro sull’otto volante, i lunghi capelli e i camicioni svolazzanti nel vento. Il gigantesco Gesù crocefisso non sembrava più tanto impressionante senza le sue luci e il mistero della notte, un po’ come una puttana senza trucco e con la parrucca storta alla luce diretta del sole. “Hai qualche idea su come filarcela da qui?” Wayne guardò Calhoun. Era seduto sul letto e si infilava gli stivali. Wayne scrollò il capo. “Cosa non darei per una sigaretta... Sai, credo che dovremmo lavorare insieme. Dopo potremo cercare di ammazzarci a vicenda.” Inconsciamente, Calhoun si toccò l’orecchio che Wayne aveva privato del lobo con un morso. “Non mi fiderei di te neanche se fossi morto.” “Lo so. Ma ti do la mia parola. E la mia parola è qualcosa sulla quale puoi contare. Non la rimangerò.” Wayne fissò Calhoun, pensando che in fondo non aveva nulla da perdere. Avrebbe continuato lo stesso a restare sul chi vive. “D’accordo,” disse Wayne. “Dammi la tua parola che lavoreremo insie-
me per uscire da questo casino, e quando saremo liberi e dirai che la tua parola è durata abbastanza, sistemeremo i nostri conti.” “Intesi,” disse Calhoun, e gli tese la mano. Wayne la fissò. “Affare fatto,” disse Calhoun. Wayne prese la mano di Calhoun e la strinse. [7] Qualche istante più tardi la porta fu riaperta, e un monaco sorridente con i capelli del colore e della consistenza della lanugine ammuffita entrò insieme a Fratello Fred, che aveva ancora il suo fucile a pompa. C’erano due morti con loro. Un uomo e una donna. Indossavano abiti laceri e i cappelli con le orecchie da topo. Nessuno dei due sembrava morto da molto o puzzava in modo particolare. A dire il vero, i monaci puzzavano parecchio di più. Usando la canna del fucile, Fratello Fred li spinse giù per il corridoio fino a una stanza con tavoli metallici e strumenti medici. Fratello Lazzaro era all’altro capo di uno dei tavoli. Sorrideva. Il suo naso aveva un aspetto particolarmente canceroso quella mattina. Una pustola bianca grande come l’unghia di un pollice aveva preso alloggio sulla sua narice sinistra, e sembrava una cipollina incastonata in uno stronzo. Al suo fianco c’era una suora. Era bassa, con un paio di belle gambe (anche se un po’ troppo magre), e indossava la stessa tenuta della sua consorella sull’autobus. Addosso a lei la faceva sembrare più giovane, forse perché era snella e con il seno piccolo. Aveva un viso carino e due occhioni tutte pupille. Dagli orli della cuffietta le sbucavano ciuffetti di capelli biondi. Aveva un’aria pallida e debole, come se fosse stanca fino al midollo. Sulla sua guancia destra c’era una voglia che somigliava all’immagine lontana di un uccellino in volo. “Buongiorno,” disse Fratello Lazzaro. “Spero che lorsignori abbiano dormito bene.” “Cos’è questa storia del lavoro?” disse Wayne. “Lavoro?” disse Fratello Lazzaro. “Sono stato io a parlarne in questi termini,” disse Fratello Fred. “Forse è stata una descrizione troppo affrettata.” “Come minimo,” disse Fratello Lazzaro. “Niente lavoro per voi, signori. Avete la mia parola. Tutto il lavoro spetta a noi. Sdraiatevi su questi tavoli
e vi prenderemo un campione di sangue.” “Perché?” disse Wayne. “La scienza,” disse Fratello Lazzaro. “Intendo scoprire una cura contro i germi che fanno tornare in vita i morti, e per farlo devo studiare esseri umani vivi. Sembra un po’ una cosa da scienziato pazzo, non è vero? Ma vi assicuro che perderete solo qualche goccia del vostro sangue. Be’, forse più di qualche goccia, ma non vi farà alcun male.” “Usate il vostro strafottuto sangue,” disse Calhoun. “Lo facciamo. Ma siamo sempre alla ricerca di nuovi campioni. Un po’ qui, un po’ là. E se non accettate, vi uccideremo.” Calhoun ruotò sui tacchi e colpì Fratello Fred sul naso. Fu un pugno vigoroso e Fratello Fred cadde seduto sul pavimento, ma non abbandonò il suo fucile e lo puntò anzi su Calhoun. “Avanti,” disse, con il naso che sanguinava. “Riprovaci.” Wayne tese i muscoli per intervenire, ma esitò. Da dove si trovava era in grado di colpire il monaco alla testa con un calcio, ma questo non gli avrebbe impedito di sparare a Calhoun e lui ci avrebbe guadagnato ben poco. Inoltre, aveva dato a quel bastardo la sua parola che avrebbero tentato di sopravvivere insieme a quel brutto pasticcio. L’altro monaco allacciò le mani e vibrò un colpo alla nuca di Calhoun, gettandolo a terra. Fratello Fred si alzò, e mentre Calhoun tentava di imitarlo lo colpì con il calcio del fucile alla nuca. Calhoun sbatté la fronte sul pavimento, rotolò su un fianco e rimase là disteso, gli occhi sfarfallanti come ali di falena. “Fratello Fred, devi imparare a offrire l’altra guancia,” disse Fratello Lazzaro. “Adesso metti questo sacco di merda sul tavolo.” Fratello Fred osservò Wayne per controllare se anche lui era in vena di provocare guai. Wayne si infilò le mani in tasca e sorrise. Fratello Fred chiamò i due morti e fece sollevare Calhoun sul tavolo. Fratello Lazzaro lo legò con cinghie di pelle. La suora prese un vassoio con aghi, siringhe, cotone idrofilo e bottigliette, e lo posò sul tavolo accanto alla testa di Calhoun. Fratello Lazzaro arrotolò la manica di Calhoun, inserì un ago su una siringa, la piantò nel braccio di Calhoun e la ritirò piena di sangue. Infilò l’ago nel tappo di gomma di una bottiglietta e vi travasò il sangue. Poi guardò Wayne e disse: “Spero che tu ci darai meno problemi.” “Dopo avrò un succo d’arancia e qualche biscotto?” disse Wayne. “Potrai andartene senza un bozzo in testa,” disse Fratello Lazzaro.
“Credo che dovrò accontentarmi.” Wayne si stese sul tavolo accanto e Fratello Lazzaro lo legò. La suora portò il vassoio e Fratello Lazzaro ripeté l’operazione compiuta su Calhoun. La suora restò accanto a Wayne e lo fissò in viso. Wayne cercò di leggere qualcosa nei suoi lineamenti, ma non scoprì neppure l’ombra di un indizio. Quando Fratello Lazzaro ebbe terminato, strinse il mento di Wayne e gli diede una scrollata. “Perbacco, voi due ragazzi sembrate in ottima forma. Ma non si può mai essere sicuri. Dovremo sottoporre il sangue a qualche esame. Nel frattempo, Suor Benemerita effettuerà qualche altro esame su di te, mentre io,” accennò col capo a Calhoun privo di sensi, “mi occuperò del tuo amico.” “Non è mio amico,” disse Wayne. Sciolsero Wayne dal tavolo, poi Suor Benemerita, Fratello Fred e il suo fucile lo condussero lungo il corridoio fino a un’altra stanza. La stanza aveva le pareti ricoperte di scaffali e gli scaffali erano ricoperti di strumenti e flaconi. L’illuminazione era scarsa, e quasi tutta proveniva da una finestra parzialmente coperta da stecche di legno benché vi fosse un’anemica lampadina gialla penzolante dal soffitto. Granelli di polvere nuotavano nell’aria. Al centro della stanza, in verticale, c’era una grande ruota a raggi. In alto aveva due cinghie ben distanziate, e altre due verso il basso. Sotto le cinghie inferiori c’erano due ceppi di legno. La ruota era attaccata sul retro a una sbarra metallica eretta piena di interruttori e di pulsanti. Fratello Fred fece spogliare Wayne e lo fece salire sulla ruota con le spalle verso il mozzo e i piedi sui ceppi. Suor Benemerita gli legò strettamente le caviglie, poi Wayne dovette alzare le braccia e lei gli legò i polsi alla parte superiore della ruota. “Spero che tu soffra molto,” disse Fratello Fred.. “Asciugati il sangue dalla faccia,” disse Wayne. “Ti dà un’aria da imbecille.” Fratello Fred fece un gesto assai poco religioso con il dito medio e lasciò la stanza. [8] Suor Benemerita toccò un interruttore e la ruota cominciò a girare, dapprima lentamente, e la scarsa luce proveniente dalla finestra cominciò a gi-
rare attraverso i raggi e la polvere prese a danzare davanti agli occhi di Wayne e i raggi della ruota a gettare ombre sbilenche sulla parete. Mentre girava, Wayne chiuse gli occhi. Gli impediva di sentirsi troppo stordito, specialmente nei passaggi a testa rovesciata. Durante un passaggio a testa in su, aprì gli occhi e scorse Suor Benemerita che, piantata davanti alla ruota, lo fissava. “Perché?” disse, e chiuse gli occhi mentre la sua testa si abbassava. “Perché lo ha detto Fratello Lazzaro,” giunse la risposta dopo parecchio tempo, quando ormai Wayne aveva quasi dimenticato la domanda. A essere sinceri, non si era aspettato una risposta. L’aver domandato una cosa simile lo sorprese, e provò anche un briciolo di vergogna. Aprì gli occhi durante un altro passaggio in alto, ma lei si stava spostando dietro la ruota, oltre il suo campo visivo. Udì lo scatto di un interruttore e un lampo gli attraversò il corpo facendolo urlare per la sorpresa. Un bagliore forcuto di elettricità gli guizzò dalla bocca come una lingua di rettile che saggiasse l’aria. La ruota cominciò a girare più svelta e le scariche giunsero più frequenti e lui gridò con forza sempre minore, finché non smise del tutto. Era troppo intorpidito. Galleggiava nello spazio con addosso solo gli stivali e il suo cappello da cowboy, e si allontanava molto velocemente dalla Terra. Intorno a lui galleggiavano auto demolite. Guardò meglio e vide che una di esse era la sua Chevy ‘57, e che dietro il volante era seduto Pop. Accanto al vecchio c’era una puttana messicana. Altre due sedevano dietro. Sembravano tutti un po’ ubriachi. Una delle puttane sedute dietro si sollevò il vestito e premette il culo nudo contro il finestrino, piegato in modo che lui potesse vederle la passera. Sembrava un taco bisognoso di una buona rasatura. Lui sorrise e cercò di avvicinarsi, ma la ‘57 si stava allontanando con un’ampia virata e voltandogli la coda. Vide una faccia contro il finestrino posteriore. La faccia di Pop. Era strisciato fin là dietro e lo stava salutando tristemente. Una puttana lo tirò indietro. Anche le altre auto si allontanavano, quasi trascinate dal vuoto causato dalla ritirata della ‘57. Wayne nuotò con le braccia e scalciò con i piedi, cercando di inseguire la ‘57 e gli altri rottami. Ma rimase a penzolare dov’era, come una falena inchiodata a una tavola. Le auto svanirono in lontananza e lo lasciarono là solo, le braccia e le gambe allargate, a roteare fra un’infinità di stelle gelide e indifferenti. “...come sono condotti gli esami... annota ogni cosa che ti riguarda... fa
un diagramma... elettrocardiogramma, onde cerebrali, fegato... tutto quanto... è doloroso perché Fratello Lazzaro vuole così... pensa che io non sappia queste cose... che io sia lenta di cervello... sarò lenta, ma non stupida... anzi, molto intelligente... ero una scienziata... prima dell’incidente... Fratello Lazzaro non è un santo... è pazzo... ha costruito la ruota a causa della Santa Inquisizione... sa molte cose sull’Inquisizione... pensa che ne abbiamo ancora bisogno... per uomini come te... gli empi, dice lui... Ma gli piace semplicemente fare del male... io lo so.” Wayne aprì gli occhi. La ruota si era fermata. Suor Benemerita parlava con voce piatta, spiegandogli la ruota. Ricordò di averle chiesto “Perché” circa tremila anni prima. Adesso Suor Benemerita lo fissava di nuovo. Scomparve da un lato e lui si aspettò che la ruota riprendesse a girare, ma quando lei tornò aveva sotto il braccio uno specchio lungo e stretto. Andò ad appoggiarlo contro il muro di fronte a lui. Poi salì a sua volta sulla ruota, posando i piccoli piedi sui ceppi accanto ai suoi. Si sollevò l’orlo dell’abito e si abbassò le mutandine nere. Avvicinò il viso al suo, come se cercasse qualcosa. “Ha intenzione di prendersi il tuo corpo... un pezzo dopo l’altro... sangue, cellule, cervello, il tuo uccello... tutto quanto... Vuole vivere in eterno.” Aveva le mutandine in una mano, e le gettò via. Wayne le guardò volare in alto e poi afflosciarsi sul pavimento come un pipistrello morente. Gli prese in mano l’uccello e cominciò a manipolarlo. Aveva le mani fredde e lui non era in forma smagliante, ma l’erezione non si fece attendere. Lei se lo prese fra le gambe e cominciò a strofinarlo fra le cosce. Erano gelide come le sue mani, e secche. “Ora lo conosco... so cosa sta facendo... il virus dei morti... stava cercando di creare qualcosa che lo facesse vivere in eterno... ha fatto tornare in vita i morti... non ha conservato in vita i vivi, liberandoli dalla vecchiaia...” Adesso l’uccello di Wayne pulsava, nonostante il gelo del suo corpo. “Fa a pezzi i morti per imparare... fa esperimenti su di loro... ma il segreto della vita eterna è nei vivi... ecco perché vuole te... perché sei un estraneo... su quelli che vivono qui può solo eseguire esami... ma deve tenerli in vita perché obbediscano ai suoi ordini... non devono scoprire come lui è realmente... gli servono le tue viscere e quelle dell’altro uomo... vuole essere un dio... vola in alto sopra di noi con un piccolo aereo e guarda in basso... Scommetto che gli piace pensare di essere il creatore...”
“Un aereo?” “Ultraleggero.” Lei si infilò dentro il suo uccello, e là dentro era freddo e secco, come in un pezzo di fegato lasciato tutta la notte a scolare sull’acquaio. Tuttavia Wayne si sentì pronto. A quel punto, era disposto a scoparsi anche una rapa. Lei lo baciò sull’orecchio e lungo il collo; piccoli baci freddi, secchi come pane tostato. “...pensa che io non lo sappia... Ma io so che lui non ama Gesù... Ama se stesso, e il potere... Gli dispiace per il suo naso...” . “Lo credo bene.” “Lo ha fatto in un momento di fervore religioso... prima di perdere la fede... Ora vuole tornare a essere ciò che era... Uno scienziato. Vuole farsi crescere un nuovo naso... sa come riuscirci... una volta l’ho visto far crescere un dito... lo ha coltivato dalla pelle tolta dalla nocca di uno dei fratelli... Sa fare ogni genere di cosa.” Ora lei muoveva i fianchi. Sopra la sua spalla lui poteva vedere lo specchio contro la parete. Vedeva il suo culo bianco che si dimenava, e l’abito nero sollevato fino alla vita che minacciava di cadere come un sipario. Cominciò a muoversi a sua volta, lentamente e con decisione. Lei si voltò a guardare nello specchio, osservandosi mentre lo scopava. L’espressione sul suo viso era più di studio che di rapimento. “Voglio sentirmi viva,” disse. “Sentire un uccello caldo, duro... È passato troppo tempo.” “Faccio del mio meglio,” disse Wayne. “Questo non è l’angolo più romantico che conosco.” “Spingi così posso sentirlo.” “Va bene,” disse Wayne. Le diede tutto quello che aveva. Incominciava a perdere l’erezione. Si sentiva come un candidato impegnato in una prova per l’assunzione e incapace di fornire una buona impressione. Lei si staccò da lui e scese dalla ruota. “Non posso biasimarti,” disse lui. Lei andò dietro la ruota e toccò alcuni comandi sulla sbarra. Poi tornò a montargli addosso, uncinandogli le caviglie con le sue. La ruota prese a girare. Brevi scosse elettriche percorsero il corpo di Wayne. Non erano poderose come prima. Ed erano vivificanti. Quando lui la baciò fu come accostare la lingua ai morsetti di una batteria. Era come se l’elettricità gli guizzasse nelle vene per trovare sfogo nella punta del suo uccello; come se
lui potesse riempirla di lampi invece di venire. La ruota si fermò scricchiolando; doveva avere un temporizzatore collegato. Erano rovesciati, e Wayne vide la loro immagine riflessa nello specchio; sembravano due lucertole intente a scopare sul vetro di una finestra. Non sapeva a che punto fosse lei, così continuò fino a farla finita. Senza l’elettricità stava perdendo il desiderio. Magari lei non era una sventola di prima classe, ma diavolo, come diceva sempre Pop: “La passera peggiore che mi sono fatto era pur sempre buona.” “Torneranno qui,” disse lei. “Presto... Non voglio che ci trovino così... Devo ancora sbrigare un esame.” “Perché lo hai fatto?” “Voglio andarmene dall’ordine... andarmene da questo deserto... Voglio vivere... E voglio che tu mi aiuti.” “D’accordo, ma il sangue mi sta andando alla testa e sono tutto intorpidito. Forse dovresti scendermi di dosso.” Dopo un un’eternità lei disse: “Ho un piano.” Si sciolse da lui, andò dietro la ruota e premette un pulsante che riportò Wayne in posizione eretta. Toccò un altro pulsante e lui riprese a ruotare lentamente, e mentre lui ruotava e i lampi giocavano nel suo corpo, lei gli spiegò il suo piano. [9] “Credo che il vecchio Fratello Fred mi si voglia fare,” disse Calhoun. “Continua a tentare di infilarmi un dito nel culo.” Erano tornati nella loro stanza. Ce li aveva riportati Fratello Fred, ancora nudi, e adesso erano di nuovo soli e si stavano rivestendo. “Usciremo di qui,” disse Wayne. “La piccolina, Suor Benemerita, ci aiuterà.” “E perché?” “Odia questo posto e vuole il mio uccello. Soprattutto, odia questo posto.” “Quale il piano?” Prima Wayne gli spiegò quali erano i progetti di Fratello Lazzaro. La mattina dopo sarebbero tornati nella stanza con i tavoli d’acciaio e li avrebbero stési di nuovo là sopra, e se i risultati degli esami fossero stati soddisfacenti, Fratello Lazzaro li avrebbe scuoiati vivi, lentamente, perché secondo Suor Benemerita a lui piaceva così, avrebbe filtrato il loro sangue
come caffè con certe formule sue, avrebbe estratto i loro cervelli per metterli in vasche di conservazione e stipato le vene e gli altri organi in frigorifero.. Tutto questo sarebbe stato fatto nel nome di Dio e di Gesù Cristo (Scia loddato il sciuo nomme), con la scusa di trovare una cura contro il germe dei morti. Ma invece tutto sarebbe stato fatto a esclusivo vantaggio di Fratello Lazzaro, che voleva avere un naso nuovo, volare con il suo aereo ultraleggero sopra la Terra di Gesù e vivere in eterno. Il piano di Suor Benemerita era il seguente: Lei sarebbe stata nella sala di dissezione. Avrebbe avuto pistole nascoste. Avrebbe fatto la prima mossa, qualcosa per distrarre gli altri, poi sarebbe toccato a loro. “Questa volta,” disse Wayne, “uno di noi due deve mettere le mani su quel fucile a pompa.” “Se oggi non te ne fossi rimasto a grattarti le palle, ce l’avremmo fatta ad avere le armi.” “Stavolta avremo il vantaggio della sorpresa. Una vera sorpresa. Loro non si aspetteranno l’intervento di Suor Benemerita. Possiamo salire sul tetto e prendere il volo con quelTultraleggero. Quando finiremo la benzina potremo camminare, magari tornare alla mia Chevy e sperare che funzioni ancora.” “Allora sistemeremo i nostri conti. Chiunque vinca si prende la macchina e la sorella. Quanto a domani, anch’io ho un piccolo asso nella manica.” Calhoun si infilò gli stivali. Poi fece ruotare uno dei tacchi, che girò su se stesso e gli scodellò in mano un minuscolo coltello. “E affilato come un rasoio,” disse Calhoun. “Ci ho scucito un cinese dalla pancia al mento. È stato facile come affettare una merda fresca.” “Peccato che tu non l’abbia tirato fuori oggi.” “Prima volevo tastare il terreno. E poi, a dire la verità, pensavo che una castagna sui denti a Fratello Fred lo avrebbe messo a nanna.” “Lo hai beccato sul naso.” “Lo so, dannazione, ma avevo tirato alla bocca.” [10] L’alba e la stanza con i tavoli metallici sembravano gli stessi. Nessuno aveva portato dentro un vaso di fiori per ravvivare l’ambiente. Tuttavia il naso di Fratello Lazzaro era cambiato; adesso c’erano due ci-
polline incastonate. Suor Benemerita, con un’aria appena più accesa del giorno prima, reggeva il vassoio con gli strumenti. Questa volta il vassoio era pieno di bisturi. La luce faceva scintillare le loro lame. Fratello Fred si trovava dietro Calhoun, e Fratello Testa di Muffa era dietro Wayne. Oggi dovevano sentirsi molto sicuri di sé. Avevano perfino fatto a meno dei due morti. Wayne guardò Suor Benemerita e pensò che forse le cose non andavano del tutto per il verso giusto. Forse lei gli aveva mentito, con quella sua parlantina lenta e smozzicata. Magari voleva soltanto un po’ di uccello e aveva cercato di ottenerlo in modo tranquillo, promettendo mari e monti. Forse non le importava un cazzo di quello che Fratello Lazzaro avrebbe fatto loro. Se lei lo aveva ingannato, Wayne era pronto ad andare lo stesso fino in fondo. Anche se avesse dovuto saltare in bocca al fucile di Fratello Fred. Meglio andarsene così che scuoiato un pezzo alla volta. L’idea di Fratello Lazzaro e del suo naso schifoso chini sopra di lui non lo attirava nemmeno un po’. “Lieto di rivedervi,” disse Fratello Lazzaro. “Spero che oggi non si ripeteranno gli sgradevoli problemi di ieri. Avanti, stendetevi.” Wayne guardò Suor Benemerita. Il suo viso era inespressivo. L’unica cosa che sembrava viva in lei erano le ali piegate dell’uccellino sulla sua guancia. Va bene, pensò Wayne, arriverò fino al tavolo, poi farò qualcosa. Anche se sarà qualcosa di sbagliato. Avanzò di un passo, e Suor Benemerita scagliò il contenuto del vassoio in faccia a Fratello Lazzaro. Un bisturi si piantò nel suo naso e restò appeso là. Il vassoio e il resto degli strumenti caddero sul pavimento. Prima che Fratello Lazzaro potesse lanciare un grido, Calhoun si abbassò di colpo e ruotò sui tacchi. Venne a trovarsi sotto il fucile di Fratello Fred e usò l’avambraccio per spingerne in alto la canna. Partì un colpo che innaffiò di pallini il soffitto, staccando una pioggia di intonaco. Calhoun aveva tenuto nascosto il piccolo coltello nel palmo della mano, e adesso lo sollevò verso l’inguine di Fratello Fred. La lama trapassò la tonaca e penetrò fino al manico. Non appena Calhoun iniziò la sua mossa, Wayne portò indietro l’avambraccio e agganciò alla gola Fratello Testa di Muffa, poi si girò e, chinando la testa dell’altro, la prese a ginocchiate un paio di volte. Infine
lo stese a terra colpendolo con un gomito alla nuca. Ormai Calhoun si era impadronito del fucile, e Fratello Fred era sul pavimento e tentava di estrarsi il coltello dai coglioni. Calhoun fece saltare di netto la testa a Fratello Fred, poi fece lo stesso con Fratello Testa di Muffa. Fratello Lazzaro, con il bisturi ancora penzolante dal naso, cercò di fuggire, ma scivolò sul vassoio e cadde ventre a terra. Calhoun fece due lunghi passi e gli mollò un calcio alla gola. Fratello Lazzaro emise un suono strozzato e tentò di rialzarsi. Wayne lo aiutò. Agguantò Fratello Lazzaro per la collottola e lo sollevò, sbattendolo contro un tavolo. Il bisturi dondolava ancora dal naso del monaco. Wayne lo strinse e diede uno strattone, strappando anche un pezzo di naso. Fratello Lazzaro urlò. Calhoun infilò la canna del fucile in bocca a Fratello Lazzaro, interrompendo il suo strillo. Calhoun caricò il fucile. “Mangiati questo,” disse, e tirò il grilletto. Il cervello di Fratello Lazzaro schizzò dalla nuca attaccato a un frammento di calotta cranica. Il cervello e il cranio colpirono il tavolo e scivolarono sul pavimento come un piatto di uova strapazzate spinto lungo il bancone di una tavola calda. Suor Benemerita non si era mossa. Wayne pensò che doveva aver fatto uso di tutta la sua concentrazione per colpire Fratello Lazzaro con il vassoio. “Hai detto che avresti portato delle pistole,” le disse Wayne. Lei gli voltò le spalle e si sollevò l’abito. In una cintura sopra le mutandine c’erano due rivoltelle 38. Wayne le impugnò entrambe. “Wayne DuePistole,” disse. “Perché non filiamo all’ultraleggero?” disse Calhoun. “Abbiamo fatto più casino di una sommossa carceraria. Dobbiamo muoverci.” Suor Benemerita si voltò verso la porta in fondo alla stanza, e prima che potesse dire una sola parola o aprire la strada, Wayne e Calhoun l’agguantarono e la spinsero in quella direzione. Oltre la porta c’erano delle scale, e salirono i gradini due alla volta. Superarono una botola e furono sul tetto, e là, fissato con cinghie di ancoraggio a ganci metallici, c’era l’ultraleggero. Un insieme di tela biancoazzurra e tubolari metallici, e fissati sui lati c’erano un calibro dodici a pompa, una sacca di cibo e una borraccia d’acqua. Staccarono le cinghie e salirono sul biposto, usando le cinghie per fissare Suor Benemerita fra loro due. Non era comodo, ma poteva funzionare. Rimasero là seduti. Dopo un istante, Calhoun disse: “Allora?”
“Merda,” disse Wayne. “Io non so pilotare quest’aggeggio.” Guardarono Suor Benemerita. Lei fissava i comandi. “Di’ qualcosa, dannazione,” disse Wayne. “Questa è l’accensione,” disse lei. “Quella leva in mezzo... in avanti fa salire, indietro fa inclinare il muso in basso... di lato...” “Ho capito.” “Be’, allora fai muovere questo bastardo,” disse Calhoun. Wayne mise in moto e diede gas. La macchina rotolò in avanti, sussultando. “Troppo peso,” disse Wayne. “Buttiamo fuori la puttana,” disse Calhoun. “Tutti o niente,” disse Wayne. L’ultraleggero continuava ad agitare la coda a destra e a sinistra, ma si raddrizzò quando superarono il bordo del tetto. Planarono per un centinaio di metri, fecero una brusca virata che Wayne non riuscì a contrastare e andarono a sbattere in pieno contro la statua di Gesù, colpendo la testa nel bel mezzo della corona di filo spinato. I riflettori si frantumarono, il metallo gemette, il filo spinato si attorcigliò alle ali di nylon del velivolo e lo imprigionò. La testa di Gesù si inclinò in avanti, si staccò con uno schianto e precipitò in mezzo ai cavi elettrici all’interno della statua come la testa di un pupazzo a molla. I cavi si tesero a una trentina di metri da terra e fecero saltellare la testa e il velivolo come uno yoyo. Poi la corona di filo spinato si srotolò e fece scendere il velivolo per il resto del tragitto. L’ultraleggero colpì il terreno con uno scricchiolio a più voci, un coro di strappi e una nube di polvere. La testa di Gesù continuò a sussultare sopra il velivolo schiantato come un uccello che si preparasse a beccare un verme. [11] Wayne strisciò fuori dal relitto e provò ad alzarsi in piedi. Le gambe lo reggevano. Calhoun si rialzò con una sfilza di bestemmie, strappando dai rottami le provviste e le armi. Suor Benemerita giaceva in mezzo ai resti dell’ultraleggero, il nylon e i tubolari di alluminio piegati intorno a lei come ali di farfalla. Wayne incominciò a liberarla. Vide che aveva una gamba spezzata. Un osso le sbucava dalla coscia come un ramo appuntito. Non c’era sangue. “Ecco che arrivano i fedeli,” disse Calhoun.
La notizia della fine di Fratello Lazzaro e degli altri doveva aver già fatto il giro. Un’orda di monaci, suore e morti stava attraversando il ponte levatoio. Alcuni dei monaci e delle suore erano armati. Tutti i morti impugnavano mazze. Il clero stava urlando. Wayne indicò con un cenno della testa il capannone degli autobus. “Prendiamo un autobus.” Wayne sollevò fra le braccia Suor Benemerita e cominciò a correre in quella direzione. Calhoun, che portava solo le provviste e le armi, li sorpassò. Superò con un balzo la porta aperta di un autobus e scomparve alla vista. Wayne sapeva che stava strappando i fili dell’avviamento per annodarli e tentare l’accensione. Wayne sperò che fosse in gamba in quel lavoro, e che facesse in fretta. Quando raggiunse l’autobus, depose là accanto Suor Benemerita, tirò fuori le due 38 e si piazzò davanti alla ragazza. Se doveva crepare voleva farlo alla Wild Bill Hickok. Una pistola fumante in ogni pugno e una donna da proteggere. A essere sincero, avrebbe preferito che l’autobus si mettesse in moto. Il motore partì. Calhoun infilò la retromarcia, indietreggiò per una decina di metri, poi tornò indietro fermandosi davanti a Wayne e a Suor Benemerita. I monaci e le suore avevano iniziato a sparare, e i loro proiettili rimbalzavano sul fianco dell’autobus corazzato. Dall’interno Calhoun urlò: “Salite, perdio!” Wayne infilò le pistole nella cintura, agguantò Suor Benemerita e saltò dentro. Calhoun lanciò l’autobus a razzo, facendo volare Wayne e Suor Benemerita sopra una fila di sedili. “Ho creduto che te ne stessi andando,” disse Wayne. “Volevo farlo. Ma ti avevo dato la mia parola.” Wayne fece allungare Suor Benemerita su un sedile e le guardò la gamba. Dopo gli scossoni che Calhoun aveva assestato loro, l’osso sporgeva più di prima. Calhoun chiuse la porta e controllò nel retrovisore. I monaci, le suore e i morti si erano affollati su un paio di autobus, e adesso li stavano inseguendo. Uno degli autobus procedeva molto spedito, come se avesse il motore truccato. “Probabilmente ho scelto il più scassato del branco,” disse Calhoun. Superarono un costone sabbioso, poi cominciarono a inerpicarsi per la stradina che serpeggiava verso l’uscita dalla valle. Dietro di loro uno degli
autobus si era fermato, forse per qualche guasto meccanico. L’altro invece guadagnava terreno. La strada si allargò e Calhoun urlò: “Credo che quel fottuto aspettasse proprio questo!” L’inseguitore, infatti, accelerò di colpo piegando a sinistra e si affiancò al loro autobus, cercando di spingerli fuori strada giù lungo il pendio che si faceva sempre più alto e ripido. Ma Calhoun lottò a ogni curva e non cedette di un solo palmo. L’altro autobus spalancò la sua porta e una suora, la stessa che li aveva accompagnati alla Terra di Gesù, comparve là con le gambe spalancate, esibendo il pube rigonfio sotto le mutandine nere. Aveva un braccio uncinato intorno al sostegno di un sedile e reggeva con entrambe le mani l’arnese più popolare del suo ordine, un calibro dodici a pompa. Mentre abbordavano una curva, la suora sparò una fucilata contro il finestrino a lato di Calhoun. Il vetro emise un suono scricchiolante e una raggera di linee frastagliate si sparse in ogni direzione, ma il finestrino resse. La suora ricaricò e sparò di nuovo. A prova di pallottole o meno, questa volta la lastra esterna di vetro si sbriciolò. Un altro colpo ben piazzato e anche il resto del finestrino se ne sarebbe andato, e Calhoun avrebbe salutato per sempre la sua testa. Wayne appoggiò un ginocchio su un sedile e abbassò il finestrino. La suora lo vide, si girò e sparò. La fucilata partì bassa e colpì la parte inferiore del finestrino, incrinandolo e scrostando l’intelaiatura. Wayne sporse una 38 dal finestrino e sparò mentre la suora ricaricava. La beccò alla testa. L’occhio destro le divenne grande e umido, e lei scivolò in avanti lasciando il fucile. Il calibro dodici: finì fuori dalla porta. Rimase bloccata per un attimo con un gomito piegato, poi il braccio si raddrizzò e anche lei cadde fuori. L’autobus le passò sopra e lei schizzò rosso da entrambe le estremità come un bombolone all’amarena calpestato. “Che spreco di buona passera,” disse Calhoun. Andò a urtare contro la fiancata dell’altro autobus, e quello cercò di restituire la cortesia. Ma Calhoun premette più forte e lo fece strisciare contro la parete rocciosa con un verso da pantera. L’altro autobus tornò alla carica e spinse Calhoun sul ciglio dello strapiombo, strombaz2ando un paio di volte in onore di Gesù. Calhoun scalò le marce, diminuì la velocità e permise all’altro autobus di superarlo per metà lunghezza. Poi sterzò bruscamente, in modo da anda-
re a sbattere contro il culo dell’avversario e piazzarlo di traverso sulla strada. Lo speronò sul fianco con il muso del suo autobus e l’altro cominciò a rotolare. Ribaltandosi, ammaccò il muso dell’autobus di Calhoun e gli piegò il paraurti. Calhoun frenò e l’altro autobus continuò a rotolare. Finché non superò il ciglio dello strapiombo e precipitò nella valle fra un coro di grida. Mezz’ora più tardi raggiunsero la cima del canyon e si lanciarono nel deserto. L’autobus cominciò a sbuffare fumo dal davanti e a fare un rumore come di un cane che si stesse strangolando con un osso di pollo. Calhoun si fermò. [12] “Quel maledetto paraurti si è piegato là sotto e sta rosicchiando il pneumatico,” disse Calhoun. “Credo che se riusciamo a staccare il paraurti, la ruota potrà resistere.” Wayne e Calhoun si attaccarono al paraurti e tirarono, ma quello non volle staccarsi. Non del tutto, almeno. Il pezzo incurvato, alla fine, cedette e si staccò dal resto. “Dovrebbe bastare a impedirgli di mangiarsi il pneumatico,” disse Calhoun. Suor Benemerita chiamò da dentro l’autobus. Wayne andò da lei. “Fatemi scendere,” disse lei con la sua voce lenta. “...Voglio sentire l’aria fresca e il sole.” “Di aria fresca, là fuori, neanche l’ombra” disse Wayne. “E il sole è lo stesso di sempre. Brucia. “ “Per favore.” Lui la sollevò e la portò fuori; trovò un monticello di sabbia e la distese là con la testa sollevata. “Devo... devo cambiare le batterie,” disse lei. “Come?” disse Wayne. Lei rimase distesa fissando il sole. “La più grande opera di Fratello Lazzaro... un morto capace di pensare... che ricorda il passato... Che era stato una scienziata...” La sua mano si sollevò lentamente, a scatti, afferrò il copricapo e se lo strappò. Luccicante, al centro dei suoi capelli biondi, c’era una protuberanza argentea. “Non era... un uomo buono... io sono una donna buona... voglio sentirmi
viva... come prima... le batterie si esauriscono... ne ho portate altre...” Con una mano tastò una tasca chiusa all’interno dell’abito. Wayne la aprì per lei e tirò fuori ciò che conteneva. Quattro batterie. “Ne uso due... semplice.” Adesso Calhoun era al loro fianco. “Questo spiega certe cose,” disse. “Non guardarmi così...” disse Suor Benemerita, e Wayne si rese conto di non averle mai detto come si chiamava e che lei non glielo aveva mai chiesto. “Svita qui sopra... infila le batterie... Senza batterie diventerò una divoratrice... Non posso aspettare troppo.” “Va bene,” disse Wayne. Andò dietro di lei, la sollevò sul monticello di sabbia e le svitò il perno di metallo dal cranio. Ripensò a quando lei lo aveva scopato sulla ruota e con quanta disperazione lei avesse cercato di sentire qualcosa, continuando a rimanere gelida come una selce e priva di passione. Ricordò come avesse guardato nello specchio sperando di vedere qualcosa che non c’era. Lasciò cadere le batterie nella sabbia, impugnò una rivoltella e l’avvicinò alla nuca di lei. Tirò il grilletto. Il suo corpo ebbe un leggero sussulto e cadde in avanti, voltando il viso verso di lui. La pallottola era uscita in corrispondenza dell’uccellino sulla guancia e lo aveva cancellato completamente, lasciando un foro privo di sangue. “La cosa migliore,” disse Calhoun. “Al mondo ci sono ancora abbastanza passere vive senza che ti scarrozzi in giro una morta con una gamba rotta.” “Chiudi il becco,” disse Wayne. “Quando un uomo diventa sentimentale a causa di donne e bambini, può anche spararsi un colpo in testa.” Wayne si rialzò. “Bene, ragazzo,” disse Calhoun. “Credo che sia giunta l’ora.” “Lo credo anch’io,” disse Wayne. “Che ne dici di farlo con un tocco di classe? Dammi una delle tue pistole, poi ci mettiamo schiena contro schiena, io conto dieci passi e poi ci voltiamo e spariamo.” Wayne diede a Calhoun una pistola. Calhoun controllò il tamburo. “Ho quattro colpi” disse. Wayne tolse due cartucce dalla sua pistola e le gettò a terra. Si misero schiena contro schiena, con le pistole abbassate. “Immagino che se mi ammazzerai mi porterai lo stesso in città,” disse Calhoun. “Questo significa che dovrai piazzarmi una pallottola in testa se
ne avrò bisogno. Non voglio tornare indietro come uno di quei morti. Ho la tua parola?” “Sì.” “Io farò lo stesso per te. Hai la mia parola. Sai che vale qualcosa.” “Vogliamo sparare o chiacchierare?” “Sai, ragazzo, in circostanze diverse mi saresti piaciuto. Avremmo potuto diventare amici.” “Ne dubito.” Calhoun cominciò a contare, e tutti e due cominciarono a camminare. Quando arrivò a dieci, si voltarono. La pistola di Calhoun abbaiò per prima, e Wayne sentì la pallottola colpirlo sul lato destro del petto, in basso, facendolo ruotare leggermente. Sollevò la pistola e prese la mira con calma e sparò mentre Calhoun faceva fuoco di nuovo. La seconda pallottola di Calhoun fischiò accanto alla testa di Wayne. La pallottola di Wayne colpì Calhoun in pieno stomaco. Calhoun cadde in ginocchio e sembrò fare una fatica d’inferno a tirare un respiro. Tentò di sollevare la pistola ma non ci riuscì; pareva essersi trasformata in un’incudine. Wayne gli sparò ancora. Stavolta lo colpì al centro del petto, e Calhoun cadde all’indietro con le gambe piegate sotto di sé. Wayne si avvicinò a Calhoun, posò un ginocchio a terra e gli tolse la pistola dalle dita. “Merda,” disse Calhoun. “Non me l’aspettavo proprio. Ti ho beccato?” “Un graffio.” “Merda.” Wayne appoggiò la canna della pistola alla fronte di Calhoun, che chiuse gli occhi. Wayne tirò il grilletto. [13] La ferita non era un graffio. Wayne sapeva che avrebbe dovuto lasciare Suor Benemerita dove stava e caricare Calhoun sull’autobus per portarlo in città e incassare la taglia. Ma non provava più interesse per la taglia. Usò il pezzo di paraurti per scavare loro una fossa fianco a fianco. Quando ebbe finito, piantò in mezzo a loro il pezzo di paraurti e usò il mirino di una pistola per incidere queste parole: QUI GIACCIONO SUOR BENEMERITA E CALHOUN CHE MANTENNE LA PAROLA DATA.
Non si leggevano molto bene e lui sapeva che la prima ventata robusta l’avrebbe rovesciato, ma questo lo faceva sentire meglio, anche se non capiva esattamente perché. La ferita si era riaperta e adesso il sole bruciava sul serio, e avendo perduto il cappello sentiva il cervello che gli bolliva nel cranio come la carne di uno stufato. Salì sull’autobus, mise in moto e guidò per tutto il giorno e la notte seguente, ed era quasi mattina quando arrivò alle Cadillac e cominciò a guidare in mezzo a loro finché non ritrovò la sua Chevy ‘57. Quando fermò l’autobus e cercò di scendere, scoprì di potersi muovere a malapena. Le pistole infilate nella cintura si erano attaccate alla camicia e allo stomaco a causa del sangue uscito dalla ferita. Si sollevò appoggiandosi al volante, prese uno dei fucili e l’usò come stampella. Prese il cibo e l’acqua, e scese a ispezionare la Chevy. Peggio di una merda secca. Oltre ad aver perso il parabrezza, il muso era sfondato, e a giudicare dall’angolo di una delle grosse gomme da sabbia era chiaro che il semiasse era partito. Si appoggiò alla Chevy e cercò di pensare. L’autobus era a posto e nel serbatoio c’era ancora benzina. Poteva prendere il tubo di gomma dal bagagliaio della Chevy e trasferire il suo carburante nel serbatoio dell’autobus. Questo gli avrebbe consentito diversi altri chilometri. Chilometri. Non se la sentiva di camminare per sei metri, figuriamoci concentrarsi sulla guida. Lasciò cadere il fucile, il cibo e l’acqua. Si sdraiò sul cofano della Chevy e riuscì a issarsi sul tettuccio. Rimase disteso là sulla schiena, a fissare il cielo. Era una notte serena e le stelle spiccavano nitide, senza foschia. Aveva freddo. Di lì a un paio d’ore le stelle sarebbero sbiadite per cedere il posto al sole, e il fresco avrebbe lasciato il passo al caldo. Girò la testa e guardò una delle Cadillac e il viso di uno scheletro premuto contro il parabrezza, condannato a fissare in eterno la sabbia in basso. Non era quello il modo di farla finita, guardare verso il basso. Incrociò le gambe e allargò le braccia, osservando il cielo. Adesso non provava più tanto freddo, e il dolore era quasi cessato. Era più intorpidito che altro. Prese una delle pistole, armò il cane e se la puntò alla tempia, conti-
nuando a fissare le stelle. Poi chiuse gli occhi e scoprì che poteva vederle ancora. Galleggiava di nuovo nel vuoto fra le stelle con addosso solo il cappello e gli stivali, e intorno a lui galleggiavano le auto demolite e la sua ‘57, intatta. Stavolta le macchine, invece di allontanarsi, si muovevano verso di lui. La ‘57 era in testa, e quando si fece più vicina vide che c’era Pop al volante, con a fianco una puta messicana e altre due sul sedile posteriore. Stavano tutti sorridendo e Pop suonava il clacson e lo salutava. La Chevy si fermò al suo fianco e la portiera dietro si aprì. Seduta fra le due puttane c’era Suor Benemerita. Un istante prima non c’era, ma adesso era lì. E lui non si era mai accorto di quanto fosse ampio il sedile posteriore della ‘57. Suor Benemerita gli sorrise e l’uccellino sulla sua guancia si librò più in alto. Aveva i capelli pettinati, lunghi e lisci, e un aspetto roseo e felice. Sul tappetino ai suoi piedi c’era una cassetta di birra ghiacciata. Lone Star, perdio. Pop si sporgeva sopra il sedile anteriore, allungando una mano verso di lui, e Suor Benemerita e le puttane gli facevano cenno di salire. Wayne agitò le mani e i piedi, e scoprì che stavolta poteva muoversi. Entrò nuotando nella portiera spalancata, toccò la mano di Pop, e Pop disse: “E bello rivederti, figliolo,” e nell’attimo in cui Wayne premette il grilletto, Pop lo tirò dentro. RISCHIAMORTO Brian Hodge Ogni sera, immancabilmente, attaccava così: MUSICA: l’inizio di Mars, Bringer of War di Gustav Holst... Un brano musicale cupo e tenebroso se mai ne era stato scritto uno. Poi la voce dell’annunciatore, allegra e scanzonata come un pallone da spiaggia. Monty non sapeva dove avessero pescato quel tizio, ma era il miglior imitatore del celebre Don Pardo che avesse mai sentito su una rete. ANN.RE, VOCE: Mollate tutto ciò che state facendo... dopo sarà ancora lì! Avanti! Unitevi a noi per trascorrere l’ora più imprevedibile mai offerta dalla televisione... il Rischiaaamortooo! Ogni sera, immancabilmente. Sette sere la settimana, dal vivo, e niente repliche. Quando Monty controllò l’orologio per la prima volta, mancava ancora
mezz’ora all’inizio dello spettacolo. Si afflosciò più mollemente sulla poltroncina nel suo camerino. Aveva ancora tempo. Tempo da ammazzare. Questo gli avrebbe sporcato di sangue le mani? Troppo tardi, Monty! Sono già sporche! Così si sporse oltre il banco che aveva davanti e raccolse la sua bottiglia di Chivas Regal da un ripiano polveroso. E bevve fino a farsi bruciare la gola. Una piccola penitenza. Poco dopo si sentì deliziosamente intorpidito. E poté vivere di nuovo con se stesso. Era tempo che Monty Olson si mettesse a vivere anche con tutti gli altri. In spirito, se non con il corpo. Viaggiava sulle onde dell’etere, entrando a passo di valzer in luminosi soggiorni pieni di sole e in camere da letto, portato dalle ali della televisione. Sempre ospite gradito, mai intruso, sempre benvenuto. Spettacoli come L’affare del secolo e Scommetto un milione lo avevano reso un divo. E lo amavano? Oh, certo... perché lui era l’uomo con i soldi, l’uomo dei premi favolosi, l’uomo dalla miniera d’oro inesauribile. L’uomo con il sorriso da un milione di dollari. In quei giorni gli era più difficile imbastire quel sorriso, quello grande che gli arricciava gli angoli delle labbra fin quasi ai denti del giudizio. Ma ci riusciva. Un professionista rimane sempre un professionista. Chi se lo sarebbe mai immaginato? si domandò forse per la milionesima volta da quando lui e tutti gli altri dotati di scarsa familiarità con il rigor mortis avevano scoperto di essere una minoranza sempre più in declino. Chi si sarebbe mai immaginato che avrebbero voluto essere ancora divertiti da persone come me? Monty si fortificò con un altro sorso di scotch e tirò più vicina la sua valigetta del trucco. In quei giorni si truccava da solo, chiedendosi perché si prendesse quel disturbo. Il suo viso era leggermente più flaccido, lai pelle un pochino più molle, con alcuni capillari rotti sul naso. Ma era sempre un autentico Clark Gable in confronto all’altra gente che partecipava allo spettacolo. Monty sbirciò le minuscole pieghe che si irradiavano agli angoli della bocca e degli occhi, e fece del suo meglio per cancellarle con un po’ di cerone. Vogliono ancora essere divertiti. Non era poi un concetto così pazzesco, una volta che si aveva avuto il tempo di lasciarlo affondare nella propria mente già sotto shock. Perché agli inizi, quando improvvisamente si era scoperto che i morti non volevano più restarsene nelle loro tombe o nei cassetti dell’obitorio, Monty si era
trovato a girovagare per le strade. Non voleva granché, solo evitare di trasformarsi nel pranzo di qualche cadavere appena risvegliato e magari mettersi in contatto con qualcuno il cui sangue scorreva ancora caldo. E aveva visto gli zombi nelle loro case. Erano ancora là - da soli, a coppie, o in intere famiglie - parcheggiati davanti ai loro televisori come prima, come se nulla fosse cambiato. Anche quando tutte le reti nazionali e le stazioni indipendenti avevano interrotto le trasmissioni, staccandosi dalle onde dell’etere come frutti da un albero morente, quelli erano rimasti a fissare gli schermi vuoti. Ipnotizzati dal pulviscolo luminoso. Gli spettatori morti, in attesa di essere intrattenuti e divertiti. La maggior parte degli zombi non era così intelligente. In massima parte erano poco più di dinosauri a due gambe alla ricerca del pozzo di bitume più vicino per sprofondarci dentro. Ma alcuni di loro, forse quelli che in partenza erano stati più dotati di cervello, erano riusciti a conservare una certa dose di intelligenza che di per sé costituiva già un’esperienza spaventosa. Si guardava in quegli occhi di vetro e si scopriva che non erano così vuoti come si era pensato. O sperato. Sì, là dentro le luci erano ancora accese e l’inquilino era ancora in casa... anche se adesso le sue priorità erano cambiate. Brad Bernerd era una creatura di questo genere. Lì a New York, quando era stato un produttore televisivo di grande talento, aveva al suo attivo una sfilza lunga un braccio di programmi di enorme successo. Parecchie persone, prima del crollo di quello che Monty cominciava ormai a considerare con nostalgia il Vecchio Mondo, avevano detto che Brad Bernerd era ormai pronto a lanciare una sua rete indipendente. Le cose erano andate in modo alquanto diverso, ma Brad aveva ottenuto ugualmente la sua possibilità. Un giorno Monty era tornato negli studi di L’affare del secolo, un anfiteatro enorme e silenzioso dove anche l’eco degli applausi passati si era spenta. Si era fermato al centro della scena, dove aveva trascorso quasi la metà dei suoi quarantatré anni sotto la gloriosa luce dei riflettori... e si era preparato a farsi saltare le cervella e a morire là dove aveva vissuto le sue ore più belle. Però Brad Bernerd aveva scelto quel momento per fare la sua entrata in scena. Non era molto diverso da come Monty lo ricordava, se si eccettuava un’ammaccatura grossa come un pugno alla tempia destra. Si muoveva più lentamente, con più attenzione, ma riusciva a conservare un minimo di or-
goglio. Un briciolo di arroganza, anche dopo la morte. Monty si era quasi pisciato nei pantaloni come un bimbetto di tre anni quando, guardando quegli occhi fissi, si era accorto che lo riconoscevano. Erano rimasti a fissarsi per un’eternità. “Ho un lavoro per te,” aveva infine detto Bernerd. La voce non possedeva più il vecchio entusiasmo... ma ciò non significava che avesse perduto il suo potere di convincere. Ehi, amico, non è necessario che tu la faccia finita proprio in questo momento, era stato il succo del suo discorso. Non adesso che lo spettacolo deve continuare. Non adesso che posso rilanciarti in onda. Non adesso che puoi reclamare il tuo posto sotto i riflettori. E così era nato il primo programma televisivo concepito interamente per gli zombi. Voglio la mia ZTV. Monty controllò un’ultima volta l’orologio e vide che l’ora zero stava per scoccare di nuovo. Succhiò un altro sorso dalla bottiglia di Chivas e la posò sul ripiano quando qualcuno bussò alla porta del camerino, preciso come un cronometro svizzero di una volta. “Lo spettacolo comincia,” disse Brad Bernerd quando Monty aprì la porta. “Sei di scena, amico.” Già, come se avessi bisogno di sentirmelo ricordare OGNI SERA! Monty si avviò fra le quinte, passando in mezzo ai macchinisti che controllavano i movimenti delle telecamere e le angolazioni dei riflettori. I ragazzi che facevano marciare lo spettacolo. Avrebbero dovuto fare qualcosa per la ventilazione, ma ormai erano mesi che Monty si era abituato al puzzo di carogna. Un professionista rimane sempre un professionista. Come ci riesci? gli chiedevano gli ammiratori, quelli che non si perdevano una trasmissione. Come fai a sembrare così sulla vetta del mondo a ogni puntata? È facile, rispondeva sempre lui. Bastava conoscere gli interruttori giusti e sapere come usarli. Innesca l’adrenalina. Accendi il sorriso. Il fascino. Il tono brioso. Ma, altrettanto importante, spegni la mente. E la coscienza. Altrimenti, quanto camperai insieme a te stesso se dovrai ammettere che la tua missione nella vita è quella di incoraggiare la gente a umiliarsi per un pugno di soldi? Gli interruttori erano quasi tutti inseriti correttamente quando arrivò sul lato sinistro del palcoscenico, dietro i tre grandi portali. I tecnici stavano dando gli ultimi ritocchi alle gabbie. Di quando in quando, un sorvegliante doveva impedire alla mano troppo zelante di qualche macchinista di impa-
dronirsi di qualche pezzo di un premio. “Ric... ti ric... ehi ti conosco.” Una voce flebile dalla gabbia dietro la Porta Numero Tre. Le luci si stavano abbassando, ed era difficile stabilire a chi appartenesse la voce. A una donna ancora calda e in grado di respirare, ovviamente, se si trovava in una gabbia. Monty era l’unico essere umano ancora vivo che poteva camminare liberamente fra quelle sacre mura. “Io ti conosco.” La voce era impacciata, ma chiara. Venne attirato dalla voce come una falena dalla fiamma, chiedendosi per un attimo come lei potesse parlare in modo così coerente. Tutti gli altri nella gabbia si erano arresi alle dosi massicce di Torazina somministrate in precedenza. La buona vecchia Torazina. Rendeva così docili i vivi. Impediva loro di agitare il pubblico. E il maestro di cerimonie. “Ti prego, fammi uscire... ti prego...” La ragazza si inginocchiò sul pavimento della gabbia, il viso incorniciato da lunghi capelli scuri. Portava una gonna rossa e bianca e un maglione bianco con il collo a V, sporco e con una grossa M rossa sul davanti. Le sue mani strinsero così forte le sbarre da sembrare quelle di un albino. “Ti prego...” Tutti gli interruttori inseriti, tutto pronto per la partenza. “Non posso farlo, bimba,” disse lui, e per scrollarle la paura di dosso la gratificò di uno splendido sorriso alla Monty Olson. Gli venne anche bene, proprio come ai tempi del Vecchio Mondo. Quando si riceveva un sorriso simile, si poteva raccontarlo agli amici. “Come puoi... venderci in questo modo? Sei ancora uno di noi.” Lei fece un gesto verso le ragazze vestite in modo identico che dividevano la gabbia con lei. “Non sei uno di loro.” Stava cominciando a piangere, gli occhi vitrei ma non vuoti, mentre combatteva la sua battaglia in salita contro la Torazina. “Come puoi venderci?” “Ti prenderebbero in qualche altro modo, perché oggi sono loro i più forti. Sono anche quelli che mi pagano, in un certo senso. Mi lasciano vivere.” Monty si chinò accanto a lei, assumendo un tono quasi paterno. “Ricordi Andy Warhol? SI? Parecchio tempo fa disse che chiunque poteva essere famoso per quindici minuti. Lo ricordi? Bene, questa è la tua serata, bimba. Stasera ti vedranno tutti da una costa all’altra.” Lei lo fissò, cercando ancora un briciolo di comprensione, e le sue dita si aprirono e si abbassarono lungo le sbarre. Osservò il punto che avevano stretto fino a un istante prima. “Cerca di cavartela bene,” disse lui, e la lasciò. Doveva ancora fissarsi il microfono all’occhiello della giacca.
“Ci siamo,” chiamò Bernerd dall’ombra. “Cercate di sembrare vivi, ragazzi.” Bernerd fece un cenno al tizio nella cabina di suono, un giovanotto dall’aria eternamente giovanile soprannominato Testamorta, visto che era morto e poi rinato con addosso una maglietta dei Grateful Dead. Il lavoro di Testamorta consisteva nel suonare le musiche adatte nei momenti adatti. Doveva manovrare parecchie cassette e riusciva a tenerle sempre in ordine. MUSICA: Mars, Bringer of War, pulsante di toni minacciosi. LUCI: in crescendo dalla penombra. TELECAMERE: spie rosse che ammiccano, obiettivi che si mettono a fuoco, volti grigi e molli che fissano dai mirini per l’inquadratura. ANNUNCIATORE: “Mollate tutto ciò che state facendo... che non scappa via! Avanti! Unitevi a noi per trascorrere l’ora più imprevedibile mai offerta dalla televisione... il Rischiaaamortooo!” Monty si incollò in faccia l’enorme sorriso e avanzò sotto le luci, fascinoso ed elegante nei calzoni abbondanti e nella giacca sportiva. Il rigonfio sotto l’ascella sinistra si notava appena. Le Porte Uno, Due e Tre si trovavano alla sua sinistra, mentre la gigantesca ruota delle opportunità era alla sua destra. Percorse tutto il palco fino all’orlo delle assi di legno mentre il sipario si levava, l’ultima barriera veniva rimossa. Ed eccoli là. Il suo pubblico. Sedevano composti, un migliaio o a volte due migliaia di occhi fissi e immobili che lo osservavano. Alcuni applaudivano, o almeno facevano del loro meglio, sbattendo goffamente le mani quasi fossero un paio di pesci molli e sventrati. Altri gridavano, con un suono di bestiame soddisfatto che muggisse dolcemente nella notte. Un mare di volti grigi, di occhi d’agata. Lasciate che vi intrattenga, lasciate che vi faccia sorridere. “Eccoci qua, questo è il Rischiamorto e io sono Monty Olson. Che pubblico magnifico stasera, perdiana... Ehi, là fuori! So che non vedete l’ora che il divertimento cominci almeno quanto io odio questi lunghi monologhi, quindi perché non attacchiamo subito? Che ne dite?” Il pubblico nello studio mugugnò il suo assenso, e diverse teste grigie a chiazze annuirono qua e là. Monty tornò a lunghi passi verso la grande ruota, sentendosi più vivo che mai. Le luci, le telecamere, l’odore del trucco... non conosceva alimento migliore. “Una sola cosa prima di cominciare, ripassiamo insieme le regole, d’accordo? Sono abbastanza semplici, adatte a quasi tutti i vostri cervelli sparsi là fuori. Ogni concorrente ha diritto a far girare la ruota una volta
sola, e noi vedremo subito se ha vinto o perso. Se la ruota si ferma su un numero, vincerà uno dei nostri splendidi premi dietro le tre porte. E date retta al vostro vecchio zio Monty, stasera abbiamo davvero qualcosa di speciale là dietro. Una sola parola di avvertimento... non fermatevi sul Grande No-No. Sappiamo tutti che cos’è e che cosa significa, non è vero, ah ah ahhhh!” Mentre Monty dava un colpetto al rigonfio sotto la manica, dal pubblico si levò un cupo borbottio che probabilmente era una risata. “Allora! Chi è il primo concorrente di questa sera?” Testamorta cominciò a suonare Oh Pretty Woman di Roy Orbison mentre l’annunciatore presentava la figura che cominciava a muovere i suoi primi passi sul palcoscenico. “È una ragazza di Manhattan che ha fatto carriera, ha diretto l’ufficio vendite e i corsi di tirocinio presso una banca del centro. Per la prima volta a Rischiamorto... un bell’applauso a Cynthia!” Di nuovo, quello sporadico applauso da pesci morti. Si levarono parecchi gemiti che nel Vecchio Mondo sarebbero stati fischi allupati. Cynthia avanzò verso la ruota trascinando i piedi, alta e spigolosa nei resti ammuffiti di un completo gessato da ufficio. La sua bocca era una crudele macchia vivida di rossetto su un viso bianco che aveva la grana del cemento secco. “Benvenuta, Cynthia, benvenuta,” disse Monty. “Perdiana, hai tutta l’aria di una signora che ha ogni pezzo al posto giusto. Allora dimmi, qual è il segreto del tuo successo?” “Il cervello,” disse lei con un sorriso da paraplegico. Monty pescò nel profondo e sbottò in una sonora risata gutturale. La fece avvicinare alla ruota, e lei strinse uno dei numerosi pioli piantati lungo il bordo e diede una forte spinta. Una telecamera in verticale trasmise l’immagine rotante sui monitor dello studio. I numeri e i rispettivi premi superarono la linguetta metallica d’arresto dapprima come una immagine indistinta, poi sempre più nitidi mentre la ruota rallentava. Alla fine la linguetta si fermò sopra un enorme numero 2. “Ehi, che ne dite? Stasera abbiamo una grossa vincita al primo colpo!” strillò Monty. E accese il sorriso da denti del giudizio. “Ditele che cos’ha vinto!” La Porta Numero Due si sollevò verso l’alto, rivelando un espositore che sembrava la stanza sul retro di una macelleria ben fornita. Tavolini in acciaio inossidabile e scaffali laccati di bianco erano carichi fino a crollare.
Un gemito di invidia serpeggiò fra il pubblico. I monitor nello studio e i televisori a casa trasmisero allora spezzoni di repertorio che mostravano un quartiere periferico della città ridotto come una zona di guerra. Soccorritori in lacrime strisciavano fra macerie ancora in fiamme, estraendo vittime intere o solo parti delle stesse da rottami ormai irriconoscibili. “Chi potrà mai dimenticare il ventitré maggio scorso?” disse l’annunciatore, allegro e scanzonato come sempre. “Chi può aver scordato il volo novecentouno in partenza dall’aeroporto O’Hare? Si è schiantato a terra un solo minuto dopo il decollo, ma quello che rimane ancora oggi il terzo più grave disastro aereo nella storia del nostro paese è il tuo premio, Cynthia. Direttamente dai frigoriferi dell’obitorio della Contea di Cook, ecco i resti del volo novecentouno! Con gli omaggi di Rischiamorto.” Ciò che ancora restava della compostezza professionale di Cynthia fu abbandonato in un batter d’occhi (non i suoi, perché erano sempre fissi). Avanzò verso la Porta Numero Due con andatura rigida e sbilenca, lasciandosi cadere sul tavolo più vicino e rovesciandolo fra una valanga di frammenti umani assortiti. Due telecamere scattarono in inquadrature ravvicinate e ripresero la sua delizia... il dolce sapore della vittoria. Il concorrente successivo fu una signora dall’aria perbene, con un vestito a fiori stretto in vita da una cintura e una collana di perle. Attraverso i capelli arruffati e un’acconciatura che un tempo doveva essere stata piuttosto accurata si intravedevano due orecchini d’oro. Si chiamava June, era una casalinga di Mayfield, nell’Ohio, e si aggiudicò a sua volta un premio pronta cassa vincendo con aria orgogliosa la coscia e il polpaccio di quello che l’annunciatore descrisse come un maratoneta. Poi fu la volta di un muratore di Brooklyn di nome Carl, che entrò fra le note di Born in the USA cantata da Bruce Springsteen. La sua camicia blu da lavoro era macchiata in diversi punti là dove aderiva a piaghe sulla pancia e sul torace, e le sue spalle sembravano larghe come lo sportello di un frigorifero gigante. “Ehi, Carl, cerchiamo di andarci piano, intesi?” disse Monty con una risata. “Questa ruota deve durare per il resto della serata, lo sai.” Carl fece un grugnito, e la folla si lasciò sfuggire un gemito soffocato quando lui agguantò un piolo, per zittirsi non appena ebbe assestato una poderosa spinta alla ruota. Poi, con il suono di una grossa carota per metà marcia che si spezzasse in due, il braccio dello zombi si staccò dalla spalla. Il braccio scivolò fuori dalla manica come un grosso verme grigio, la mano
ancora stretta intorno al piolo. Carl rimase a fissare sbalordito mentre il suo braccio girava insieme alla ruota, simile a un bambino disperatamente deciso a restare a bordo della giostra. Poi Carl guardò Monty, la bocca spalancata, gli occhi bovini nella loro stupidità. Silenzio, tranne gli schiocchi della linguetta metallica. Poi un faro intermittente rosso, e lo squillo di una suoneria che segò l’aria nello studio. “Oh-oh, ci siamo! Il Grande No-No!” gridò Monty. “L’autosmembramento è motivo sufficiente per la squalifica automatica!” Infilò una mano sotto la giacca ed estrasse una calibro 38 a canna lunga, puntandola alla testa dello zombi. “Dolente, Carl. Era stata una bella spinta.” Il pubblico emise un gemito addolorato allo sparo, al fungo grigio e marrone che scaturì dalla nuca di Carl, al tonfo del corpo sulle assi del palcoscenico. Un paio di inservienti si fecero avanti per trascinare via i resti; a lavoro finito, uno dei due si leccò le dita. Monty rimise la 38 nella fondina e fece un ampio sogghigno stringendosi nelle spalle. C’era sempre qualche sorpresa inaspettata al Rischiamorto. E così lo spettacolo proseguì, con una ininterrotta e vacillante parata di nonmorti che venivano a reclamare i loro premi. Shawn, il barbone da spiaggia californiano dal cui petto sporgevano ancora schegge di una tavola da surf, se ne andò con una confezione di quattro teste di direttori televisivi poco simpatici a Bernerd. Millicent, che era rimasta uccisa poco dopo il suo ballo della debuttante, vinse il braccio mastodontico di un sollevatore di pesi e se lo mise intorno al collo come una raffinata pelliccia. E così via... Finché, finalmente, toccò all’ultimo concorrente. “A quanto pare la vecchia pendola sul muro ci informa che il tempo stringe,” disse Monty. “Ma cerchiamo di farcene stare un altro, d’accordo? A chi tocca adesso?” “Ebbene, Monty, adesso abbiamo un autentico abitante dell’East Side i cui interessi principali sono il ballo a muso duro e i graffiti. Un metro e ottantacinque, capelli azzurri, puoi chiamarlo semplicemente Zanna!” Una figura alta e imponente sbucò sul palco, resa ancora più torreggiante dagli spicchi di capelli azzurri che gli esplodevano dalla testa in ogni direzione. Sotto la camicia a rete nera, il petto incavato era attraversato da catene. Il labbro superiore era stato divorato fino al naso, dando al suo viso una perpetua espressione ringhiante. Zanna prese posto alla ruota.
“L’ultimo giro della serata, Zanna,” disse Monty. “Cerchiamo di dare una spinta gagliarda.” E la spinta fu davvero poderosa. La ruota sembrò girare in eterno, rallentando finalmente con gli schiocchi della linguetta. Alla fine si fermò su un grande 3, e il pubblico esplose in flaccidi applausi. “Ehi ehi ehi, che fortuna!” ruggì Monty; da quanto poteva capire, anche Zanna stava sogghignando. “Un altro grosso vincitore! Che cosa abbiamo in serbo per lui? “Sono giovani! Sono nubili! Sono arrivate fresche fresche da Hollywood! E sono tutte tue, Zanna! L’intero cast femminile del più grande successo cinematografico della primavera scorsa, Massacro alla festa delle ragazze pon-pon!” La Porta Numero Tre si era ormai sollevata, rivelando una gabbia piena di aspiranti stelline tutte vestite con l’identico costume bianco e rosso. Che peccato, dopo tutti quegli anni passati a sperare e a sognare la grande occasione, quell’apparizione in TV nell’ora di maggiore ascolto... e adesso doverla perdere a causa della Torazina. Le aveva smorzate di brutto, lasciandole eccitate quanto un cesto di verdure. Tranne... Il pubblico fu pervaso da un’ondata di eccitazione frenetica. C’era gente in piedi, con le braccia che ondeggiavano come spighe di grano nella brezza estiva. Altri pestavano i piedi per terra senza seguire nessun ritmo apparente. Testamorta inserì una musica nuova, chitarre arrabbiate e voci stridenti. Non era certo il vecchio Frankie. I Dead Kennedys, magari? Tranne... Zanna sembrava preso da una frenesia tutta sua, e si contorceva al ritmo della musica come uno spastico durante una crisi. La sua testa dondolava come una mazza chiodata. Diversi concorrenti tornarono sul palco attirati dall’atmosfera festosa dei titoli di coda. Cynthia, con parecchio succo del Volo 901 impiastricciato sul viso. Shawn e la sua confezione refrigerata di teste. Millicent, che si modellava intorno al collo il suo braccio nuovo. Zanna ebbe una convulsione e andò a sbattere contro Cynthia: un orecchio schizzò veleggiando sul palco come un minuscolo frisbee ammaccato. Eppure Monty non riusciva a distogliere lo sguardo dalla ragazza con la quale aveva parlato appena prima dello spettacolo. Se ne stava abbarbicata alle sbarre anteriori della gabbia, lottando contro il torpore della Torazina mentre le compagne erano afflosciate in mucchietti catatonici. Le sue nocche spiccavano bianche contro le sbarre. Non può farlo! Non dovrebbe essere in grado di farlo!
Aveva un’aria smagrita, dolorosamente sottile, e doveva essere passato parecchio tempo dall’ultima volta che si era lavata i capelli. Le sue labbra tremavano, e gli occhi spiccavano enormi contro il pallore del viso. Occhi che fissavano, che accusavano. Occhi che cominciarono a risistemare quegli interruttori interni. Il sorriso si spense, il tono brioso si dissolse. “Aiutami, ti prego,” disse lei, anche se con il frastuono che regnava nello studio lui non poteva sentirla, ma leggere solo le sue labbra. “Ogni cosa ha il suo prezzo, qual è il tuo? È questo?” Dopo di che, in un patetico tentativo di seduzione, la ragazza armeggiò con l’orlo del maglione e lo abbassò. Le unghie spezzate lasciarono striature rosse sulla sua pelle. Poi rimase là, stringendo una sbarra in una mano e l’orlo del maglione con l’altra. Lasciando valutare a Monty il suo prezzo. Improvvisamente Monty provò l’impulso di vomitare. Non dinanzi alla prospettiva del destino che attendeva lei... ma di fronte a una breve occhiata a ciò che lui era diventato. Ogni cosa ha il suo prezzo, qual è il tuo... Nell’assurda semplicità della sua offerta, lei era riuscita in qualche modo a dimostrargli una verità che fino a quel giorno gli era sfuggita: l’avidità è l’unica cosa che la morte non può sconfiggere. L’amore può soccombere dinanzi alla morte, come pure la lealtà. Anche l’amicizia e l’onore. Perfino la morale, la dignità e l’umanità. Ma non l’avidità, oh no. L’avidità possiede una sua vita indefinita, e può attecchire in un suolo pietroso capace di uccidere qualsiasi altra cosa. Offrì alla ragazza il suo primo sorriso sincero dopo anni di falsità. Monty impugnò il calcio della 38 sotto la giacca. Almeno sarebbe un modo pietoso per uscirne. E poi una pallottola per me, magari? Estrasse la pistola, lasciandola penzolare lungo il fianco. La ragazza vide, e capì. E rialzando l’orlo del maglione, accettò. I suoi occhi appannati si chiusero e il viso si sollevò leggermenté verso un cielo invisibile. Fai alla svelta, sembrava chiedere. E poi una pallottola per me? No, non posso farlo, non è possibile. Perché, il cielo mi perdoni, ho troppo bisogno di questo palcoscenico. Fare alla svelta? D’accordo, questo poteva farlo. Ma non appena ebbe sollevato a metà la pistola, se la sentì strappare di peso dalla mano. Monty non si era accorto che Brad Bernerd gli era sgusciato accanto. Comunque adesso si trovavano faccia a faccia, anche se quella di Bernerd
era un po’ putrefatta. Quel figlio di puttana era più astuto di quanto sembrasse, questo Monty lo sapeva. E stando alle apparenze era anche più rapido e più forte. Prima che Monty potesse fare un gesto, Bernerd gli puntò la pistola contro la parte bassa della coscia e sparò. Eccettuata la detonazione, l’effetto fu quello di essere colpito da un blocco di cemento. Monty si sentì togliere la gamba di sotto e crollò di fianco sul pavimento, assaggiando la polvere. Lo sparo fu come un segnale che bloccò tutti... la voce conclusiva dell’annunciatore, la danza di Zanna, il pavoneggiarsi di Millicent. Perfino Testamorta interruppe la musica. Tutto si fermò, all’infuori del silenzioso scorrere dei titoli di coda sui monitor. Di nuovo, Monty fu al centro dell’attenzione di ognuno. In fondo a un mare di occhi che lo fissavano. Si sollevò con un grugnito su un gomito, con un rivolo di sudore gelato che gli scendeva dallo scalpo. Le luci non sembravano più così calde. Alzò lo sguardo verso gli occhi acquosi di Bernerd. “Sarebbe accaduto lo stesso,” disse Bernerd. Indicò lentamente con la testa ammaccata la Porta Numero Tre. “Lei non c’entra.” Monty rimase a bocca aperta. Forse in quel momento i suoi occhi erano fissi e il suo cervello vuoto come quelli di quasi tutti coloro che lo attorniavano. “Allora perché?” fu tutto quello che riuscì a dire. “Gli indici di ascolto,” disse Bernerd. “E ora di cambiare. Il tuo indice di gradimento sta calando.” E mentre Monty rifletteva su questo grande imponderabile della sua professione, Bernerd gli voltò semplicemente le spalle e si allontanò. I titoli continuarono a scorrere, e tutti gli altri cominciarono a muoversi di nuovo, facendosi più vicini come le telecamere. Il pubblico salì sul palco dall’anfiteatro... da soli, a coppie, o in intere famiglie. Tutti si dirigevano verso di lui con occhi fissi, famelici. Il mio ìndice di gradimento? Calando? STA CALANDO? Quel pensiero era troppo gravoso, e spezzò in due la sua mente già fragile come una banale matita. Sentì il primo strattone insistente alla ferita nella coscia, vide le telecamere farsi più avanti. Ma adesso gli occhi del mondo sono puntati su di me! pensò. Per non parlare delle sue mani... e di parecchi denti... Un’audience entusiasta.
VERMONE E I FIGLI DI JERRY David J. Schow Mangiarli era più divertente che far loro scoppiare quelle teste verdi e grinzose. Ma perché mercanteggiare quando in realtà si potevano fare entrambe le cose? I più freschi erano azzurrognoli. Un fattore importante se si volevano evitare i crampi allo stomaco e la salmonella. A mangiarne uno verde si correva il rischio di ritrovarsi in un battibaleno affacciati su un grosso megafono di porcellana a gorgheggiare yodel. Vermone usò le pinze per tranciare la punta all’ultima pallottola fra le ganasce di plastica della morsa. Poi infilò la cartuccia smozzicata nel tamburo della sua Magnum 44 a canna corta. Una volta sparate, le pallottole con la punta appiattita si allargavano nell’impatto e riducevano in poltiglia il cervello di ogni schifido. I tipi verdi non erano veramente zombi, in quanto il vudù non aveva niente a che fare con loro. Erano soltanto schifidi, lenti come melassa e scemi come vacche, e per Vermone la cosa era il massimo. Significava che lui non sarebbe morto di fame in quel nuovo mondo di vigliacchi. Lui mangiava, milioni di altre persone no. Il fardello di Vermone era gravoso. Gli penzolava addosso sotto la maglietta di cotone dedicata ai Surfisti del Mar degli Stronzi. Aveva razziato decine di magliette simili in un negozio di frattaglie rock incendiato, tutte taglia Extra Extra Large, tutte consacrate a complessi di cui non aveva mai sentito parlare... gli Aborti in Tazza, i Peni Rudimentali, gli Schizzi di Smegma, i Grassi & Fottuti. Quella che Vermone preferiva reclamizzava un album ormai scomparso da tempo, intitolato Spacchiamo i denti ai morti viventi. Il grasso flaccido delle sue tette deformava il logo del complesso, e la carne in eccesso tremolava è sussultava sotto i vestiti come se fosse in corso qualche rivoluzione sottocutanea. Gonfia e debordante, la sua pancia pendeva verso la madre terra come un enorme sacco di sabbia tenuto a bada da un’alta cintura da sollevatore di pesi. Il minimo movimento faceva increspare come mercurio i suoi ettari di pelle. Vermone era molto più che semplicemente grasso. Era una folla di persone grasse. Un solo specchio era insufficiente a contenere tutta la sua immagine. L’esplosione fece ronzare il pavimento sotto le sue scarpe con il gambale rinforzato. Le vibrazioni si trasmisero da uno strato di grasso all’altro,
comunicandogli la notizia. Su di lui, lo scoppio di una Betty a Rimbalzo funzionava sempre come un gong per il pranzo di pavloviana memoria. Riusciva a stampargli un largo sorriso sulla faccia e fargli borbottare lo stomaco. Afferrò il binocolo e uscì nel cimitero rumoreggiando come una mandria di bisonti. Il Valley View Memorial Park era un cimitero classico, appartenente a una venerabile stirpe che precedeva di parecchio le ordinanze che richiedevano ai monumenti funerei di dichiarare le generalità dei cari estinti su una banale lastra di pietra. Le sculture granitiche e marmoree che si ergevano nei suoi confini erano vistose e piene di inventiva artistica, e potevano rivaleggiare degnamente con quelle solitamente mostrate nei film dell’orrore della Universal Studios. Angeli di pietra gelida si allungavano verso il cielo. Epitaffi con rime zoppicanti, scalpellati per sfidare l’eternità, lodavano gli scomparsi... placche di vanità in un angolo di periferia per i senza vita. Era nauseante. Quasi tutte le tombe erano vuote. Erano rimaste prive del fertilizzante della corruzione umana e adesso soffocavano fra la terra grassa e i folti ciuffi di erba verde. Gli inquilini erano usciti con le unghie e i denti, allontanandosi parecchie stagioni prima. Una modesta stradina saliva a spirale su per la collina e terminava in un vicolo cieco di fronte all’attuale casa di Vermone. A mezza costa, era interrotta da una trincea larga tre metri. Vermone aveva creato questo “fossato” usando il piccolo escavatore del cimitero, e sul fondo aveva piantato pezzi di tubo metallico segati di sbieco per formare una barriera di ostacoli appuntiti. Le colonnine del cancello erano collegate a trappole esplosive con fili sottili, e circa trecento mine antiuomo erano state sepolte nel terreno. Ogni angolo del cimitero di Valley View era stato amorevolmente trasformato in un nodo gordiano di micidiale potenza omicida che Vermone aveva battezzato la propria ragnatela. Le Betty a Rimbalzo erano state una manna del cielo. Chiunque avesse cercato di entrare come ospite indesiderato si sarebbe spappolato le gambe o sarebbe finito piantato per sempre nel fossato. Non molto tempo dopo che gli schifidi si erano risvegliati, erano saliti in superficie e avevano cominciato ad andarsene in giro con le ganasce spalancate, Vermone aveva rivendicato a sé il cimitero di Valley View. Sapeva che i morti tendevano a cercare “casa” in posti che erano stati importanti per loro quando non erano ancora verdi. Di conseguenza, non sarebbero mai tornati trotterellando verso un cimitero.
Il precedente nascondiglio di Vermone era stato un deposito d’armi della Guardia Nazionale. Ma là c’era troppo traffico di morti ambulanti che un tempo erano stati soldati della domenica. Ridurli a lasagne immobili costava troppo tempo e troppa polvere. Dopo sette viaggi avanti e indietro con la Land Rover a pieno carico, l’ammodernamento di Valley View fu completato. Il cimitero era diventato una colossale imboscata automatizzata. L’edificio all’ingresso e la cappella valida per tutte le professioni religiose erano l’ideale per le necessità di Vermone... e per la sua mole. La stanza di preparazione dei cadaveri conteneva più acciaio inossidabile di una cucina francese a Beverly Hills. Sui tavoli dove una volta i morti venivano vestiti per la sepoltura, adesso Vermone li metteva in ghingheri per la cena. C’era perfino un grande scomparto refrigerato da obitorio. I generatori autonomi sfornavano allegramente i watt necessari. L’unica vera lamentela di Vermone era che non sembravano mai esserci abbastanza videocassette per tenerlo allegro. A parte i film, gli piaceva parecchio Julia Child. Il binocolo era un costoso aggeggio militare con un reticolo illuminato. Vermone accostò agli occhi le spesse lenti grandangolari, mise a fuoco ed esplorò la base della collina. Dal punto dello sconfinamento si levava ancora del fumo. In quei giorni gli schifidi che urtavano una mina erano sempre meno, ma ogni tanto lui riusciva a beccarne qualcuno. Questo era strano. Per quanto ne sapeva Vermone, gli schifidi funzionavano a un semplice livello di risposta motoria con una singola direttiva cercare cibo - e le gambe servivano a rendere mobile il loro appetito. L’anno prima gli schifidi della zona avevano cominciato a evitare Valley View come la peste, quasi avesse preso a circolare la voce che era meglio stare alla larga dal cimitero. Forse il primato di uccisioni a Valley View ne aveva fatto il crogiolo della prima autentica superstizione zombi. Dio solo sapeva che cosa ruminavano adesso nelle città. Con l’aumentare delle legioni di defunti ambulanti, il loro cibo preferito - i cittadini vivi - aveva imparato a nascondersi. I superstiti di quello che Vermone chiama l’Apocalisse Zombi si erano fatti furbi o fatti mangiare. La stessa società degli schifidi era una fossa di alligatori. Lui ne aveva visto alcuni incazzarsi di brutto e strapparsi a vicenda bocconi di carne marcia. Anche se i loro cervelli colpiti dalle radiazioni mantenevano le membra elastiche e irrorate di sangue ossigenato, erano pur sempre dei morti... e i morti continuavano a marcire. La loro integrità strutturale (per non parlare della loro freschezza) non avrebbe retto a lungo dopo il secondo o il terzo Halloween. Gran parte degli schifidi che Vermone avvistava ormai erano
privi di un arto principale. Digerivano, ma non sembravano evacuare. A volte i più vecchi esplodevano semplicemente. Si intasavano di gas e di cibo in putrefazione fino a raggiungere la massa critica, e poi bum... pezzi di merda bruna e fumante tutt’intorno. Era sufficiente a farti saltare la cena. La vita era così bizzarra. Vermone si sentiva l’ultima persona normale rimasta. Quella festa mobile, quella specie di buffet ambulante, sarebbe durato un altro anno o due al massimo, e Vermone lo sapeva. Le sue fortificazioni gli garantivano che sarebbe stato pronto ad affrontare il seguito, quando il mondo sarebbe cambiato di nuovo. Per ora, era una gigantesca abbuffata, e un grande spasso. L’ATV gemette e lanciò le sue solite proteste quando lui salì in sella. Una rastrelliera saldata allo chassis ospitava gli arnesi per gli schifidi... una sbarra, un’ascia da pompiere, due foderi con fucili a pallettoni e una mazza da baseball con una quantità di ammaccature e di sangue secco. Le grosse gomme da fuoristrada della moto a tre ruote non esplosero. Vermone pigiò sul pedale di avviamento e scese scoppiettando incontro alla sua preda del giorno. Gli schifidi fiutavano la carne umana a una discreta distanza. Alcuni erano arrivati addirittura a usare alcuni arnesi rudimentali. Ma il loro senso di orientamento in un labirinto era sotto zero. Cercavano sempre di procedere in linea retta. Anche a uno che non fosse uno schifido sarebbe occorsa parecchia logica deduttiva per scegliere un percorso che lo conducesse fino alla cappella di Valley View senza dover rinunciare a parecchi organi vitali, e in ogni caso avrebbe impiegato molto più tempo di quello che di solito trascorreva fra un pasto e l’altro di Vermone. Lassù in cima a quella collina, la sua sicurezza era garantita. Pilotò I’ATV lungo il suo percorso di fuga speciale, fra curve e sterzate, fermandosi in diversi punti per ricollegare le trappole esplosive alle sue spalle. Abbassò sul fossato il suo ponticello pieghevole militare e passò oltre. Pezzi di carne carbonizzata colpita dal lampo di calore dell’esplosione sfrigolavano ancora sul terreno. Sul pendio, ancora intento a trascinarsi caparbiamente verso la cappella e la trippa di Vermone, c’era un mezzo schifido. L’altra metà, dall’ombelico in giù, era stata fatta a pezzi dall’esplosione. Vermone staccò la sbarra dalla rastrelliera. Un’estremità era stata modificata con la saldatura di una punta di arpione in acciaio, del peso di cinque
chili. Una scia di terreno inumidito da poco si trasformò in una pista di organi alla rinfusa somiglianti a frutti spremuti. Il nuovissimo modo di procedere dello schifido gli aveva permesso di sfuggire ai fili di alcune trappole. Vermone aggrottò la fronte. Il suo annuncio fu abbastanza appuntito - e irritato - per arrestare l’avanzata strisciante dello schifido su per la collina. “Benvenuto all’inferno, fiato di fogna.” Quello girò sulle mani con tutta la grazia di un merluzzo tirato a riva. Costole spezzate gli sporgevano dal petto, e nella cavità toracica quasi vuota penzolavano frattaglie maciullate simili a collane. Un orecchio era stato tranciato di netto; un lato della testa era incrostato di sangue, terra e tessuti polverizzati, in un miscuglio che ricordò a Vermone del cibo per cani. Lo schifido cercò Vermone con occhi cisposi da ubriaco, fortemente itterici e pieni di un fluido colloso come quelli di un animale ammalato. Indossava un bracciale sporco della Croce Rossa. Una lunga striscia di intestino grigioverde si era srotolata dietro allo schifido. Lui la fissò con vacuità famelica, poi abbassò di scatto il capo per morderla. I denti si strinsero intorno al tratto di intestino e una pasta nera e gelida venne espulsa con un fragoroso suono spernacchiante. Insoddisfatto da quell’autocannibalismo, lo schifìdo si rivolse di nuovo verso Vermone. Un rene si staccò dall’ultimo lembo muscolare e rotolò fra l’erbaccia scoppiando. Il fetore fu unico. Impaziente, Vermone scrollò il capo. Quegli idioti di schifidi... “Forza, faccia di stronzo, vieni a prendermi.” Fece oscillare la pancia poderosa, poi sollevò un avambraccio che sarebbe bastato per un intero arrosto. “Vuoi deciderti a dare un morso o no? Avanti. È l’ora della pappa.” Lo schifido sembrò capire l’antifona. Con la bocca che macinava a vuoto e gli occhi che fissavano strabici in due direzioni, cominciò a scendere lasciandosi dietro brandelli e frattaglie. Era troppo maledettamente lento... e troppi bocconi scelti andavano sprecati. Bilanciando la sbarra, Vermone risalì il pendio. Calò pesantemente una scarpa numero quarantasei a portata di morso e lasciò che lo schifido fantasticasse per un istante sul sapore che avrebbe avuto un boccone del suo polpaccio. Lo fece sbavare. Poi lanciò tutto il suo fantastico tonnellaggio in un affondo verso il basso con la sbarra, trapassando la sua preda fra le scapole e inchiodandola al terreno con uno scricchiolio umido. Lo schifido cominciò a dibattersi e a masticare aria. Vermone gli fece
ciao-ciao davanti al viso. “Non andartene, adesso.” Lasciò che lo guardasse scendere verso l’ATV. Voleva che lo vedesse ritornare con l’ascia. Ormai il sudore gli colava copioso sul corpo mastodontico; lo sforzo fisico aveva reso Vermone madido e aromatico, ma a lui quella parte piaceva almeno quanto l’ingoiare i buoni bocconi della vecchia cucina casalinga. L’ascia si abbatté con un sibilo. Un arcobaleno bilioso di fluidi in decomposizione schizzò dal moncone del collo, mentre la testa azzurrognola rimbalzava da una lapide all’altra, andando a fermarsi con un tonfo contro la ruota posteriore sinistra dell’ATV. Vermone esaminò con aria delusa il mezzo busto rimasto. La carne era scarsa: quello schifido era rimasto in circolazione troppo a lungo. Un’altra serata da hamburger. Si guardò alle spalle e vide che, come si aspettava, la testa solitaria lottava freneticamente per recuperare una certa mobilità. I capelli gli scendevano sugli occhi, il viso era ammaccato intorno al naso ormai appiattito, il tutto era impiastricciato di un fluido scuro, di polvere e di efflorescenze spinose... ma perdio la testa riuscì a spostarsi, affondò i denti spezzati nel terreno compatto e tentò ancora di spingersi verso Vermone. Era affamata fino a quel punto. Vermone le scese incontro, canterellando. Fissò l’ascia al suo supporto e staccò la mazza da baseball. Spaccare una noce di cocco era più faticoso. Gli occhi dello schifido rimasero aperti. Non facevano nemmeno una piega quando venivano colpiti. Al terzo colpo, schizzi di cervello misto a sangue coagulato si levarono nell’aria. Solo allora la testa smise di muoversi, se non per aprirsi mollemente con uno scricchiolio del cranio. La materia cerebrale era cremosa, color pancia di pesce. Vermone ne estrasse una manciata e la sventolò davanti agli occhi sbarrati e ormai ciechi. Strizzò con forza le mucillagini. Le spirali luccicanti si distesero fra le sue dita con un rumore di maccheroni unti. “Ho vinto ancora io.” Leccò i residuati gelatinosi sul dito indice e schioccò le labbra. Quando tornò a prendersi il busto con un sacco da spazzatura, il bracciale della Croce Rossa stava fumando. Lui lo allontanò con un colpo della mazza. Il bracciale si incendiò a mezz’aria con una fiammata che inghiottì il brandello di stoffa e il simbolo cucito là sopra, lasciando Vermone a grattarsi la testa per capire cosa diavolo potesse significare.
Piccolo Luca schizzò due scie gemelle di veleno torbido nel flacone per i prelievi di urina da buon cristiano, offrendo quel che aveva. A lui non spiaceva farsi mungere in quel modo (anche se nessuno glielo aveva mai chiesto); era un preambolo necessario al rito. Lui recitava la sua parte e in cambio veniva accudito... un limpido esemplare del grande progetto di Dio. Le sue zanne erano trasparenti e avevano un’aria fragile. Il veleno nebbioso si raccolse in fondo al flacone. Senza abbandonare la sua presa dietro le mascelle di Piccolo Luca, il molto Reverendo Jerry ringraziò il Signore per quel raccolto che avrebbe consentito ai fedeli di prendere la comunione e di conoscere la Sua pace. Baciò sulla testa Piccolo Luca e lasciò cadere il suo metro e venti di lunghezza nella sacca dei cuccioli. Quel giorno il Dono d’Amore di Piccolo Luca era stato generoso. Forse anche i serpenti conoscevano la carità. Jerry si mise a riflettere sulla carità, e così ignorò caritatevolmente il fatto che il suo diacono più anziano si stava pisciando addosso. Il Diacono Moe era fermo nel vestibolo, con i pantaloni bagnati e gocciolanti, e oscillava avanti e indietro. Non respirava, e i suoi occhi vedevano solo il flacone per i prelievi. L’odore che aveva accompagnato il suo ingresso nella stanzetta era quello di una salsiccia andata a male. Era un figlio della disgrazia, senza dubbio alcuno... ma agli occhi del molto Reverendo Jerry erano anche la prova inconfutabile che finalmente il mito aveva prodotto i suoi frutti, e al diavolo gli scettici. I morti erano sorti dalle loro tombe per essere giudicati. Se quella non era una prova miracolosa... Gli spettatori abituali delle funzioni televisive di Jerry - trasmesse in tre contee - si accontentavano da tempo di miracoli che impallidivano al confronto... lussazioni guarite, casi di stitichezza risolti, quel genere di cose. Adesso che quel dono inaspettato era caduto dal cielo, sarebbe stato da idioti lasciarsi sfuggire le opportunità che offriva. Jerry riassaporò il momento in cui i morti si erano messi a camminare. Aveva rinsaldato la sua fede declinante, scacciando in un attimo i dubbi che da una vita rodevano la sua anima. Esisteva un Solo Vero Dio, esisteva un Giorno del Giudizio e c’era un Armageddon, ci sarebbe stato anche un Secondo Avvento, e purché gli avvenimenti giusti si fossero verificati prima o poi, a chi importava se il loro ordine risultava leggermente pasticciato? Già in precedenza il Signore aveva dato prova di agire in modi misteriosi. Un tempo l’abito di Jerry era stato candido e immacolato, puro. Con la fede, avrebbe scintillato di nuovo senza macchie. In quel momento a lui
non interessava molto il fetido miasma che esalava dalle ascelle di quella che una volta era stata una giacca da millecinquecento dollari. Aiutava a coprire il puzzo più intenso e pungente causato dalla presenza del Diacono Moe. La congregazione era in movimento, e c’era poco tempo per badare ai problemi di lavanderia a metà della loro migrazione. Jerry fece segno al Diacono Moe di avvicinarsi per ricevere la comunione. Da come il povero Moe barcollava, quella poteva essere la sua ultima occasione di bere il Sangue... considerato che di recente nessuno dei fedeli aveva avuto occasione di serrare i denti intorno al Corpo, o a un suo qualsiasi surrogato. Jerry si era recato in una biblioteca abbandonata, e i libri gli avevano detto cosa poteva fare il veleno di serpente. Negli esseri umani, questo veleno agiva come una neurotossina e bloccava gli impulsi nervosi, ostacolava i segnali del cervello impedendo all’acetilcolina di trasferirsi fra le terminazioni nervose. Le istruzioni del cervello non giungevano mai a destinazione. Dapprima sopraggiungeva la paralisi facciale, poi la perdita del controllo motorio. Il cuore e i polmoni chiudevano bottega, e la vittima affogava nei propri liquidi interni. Fattori emolitici, ovvero distruttori del sangue, potevano provocare intensi dolori locali. Jerry aveva assaggiato il veleno che somministrava regolarmente al suo quartetto di diaconi. Non c’era nulla di cui preoccuparsi, finché le pareti dello stomaco non avessero avuto qualche piccolo foro. Quel liquido giallo era inodore, con un sapore dapprima astringente e poi dolciastro. Rendeva insensibili le labbra. C’erano tante cose che i libri non sapevano. Nei corpi dei morti viventi, Jerry scoprì che il veleno somministrato per via orale penetrava facilmente attraverso il gniviera delle loro condutture interne, dirigendosi subito verso i centri motori del cervello e sbloccandoli. Così Jerry poteva intrufolarsi là dentro grazie a uno stato di leggera ipnosi e pasticciare a suo piacere. Poteva programmare i suoi diaconi affinché non lo divorassero. Particolare ben più importante, questa direttiva poteva essere poi trasmessa agli altri fedeli nel modo mistico e silenzioso che pareva essere una prerogativa speciale di quegli insoliti figli di Dio. Il talento ipnotico non era raro in un uomo che aveva dedicato anni a incantare l’occhio fisso e onniveggente di una telecamera, ma Jerry preferiva considerare la sua abilità come qualcosa di innato, un dono divino, la conferma che Dio approvava l’uso che lui ne faceva. Non mangiate il reverendo. La lingua sporca del Diacono Moe inumidì le labbra screpolate e verdo-
gnole, non in attesa, ma per un riflesso del tutto precondizionato. Le linee di demarcazione sul flacone per i prelievi di urina mostravano un livello di circa 50 millilitri. Piccolo Luca poteva essere munto completamente più o meno una volta al mese. Il flacone fu inclinato verso le labbra del Diacono Moe e il veleno venne ingoiato in nomine Patris, et Filii... “E Dio mosse la Sua mano,” esclamò Jerry. “E quando Dio mosse la Sua mano, i cuori dei malvagi furono purgati del male. Egli scacciò le anime dei lupi, e inviò i Suoi rinati a reclamare la terra in Suo nome. Le Sacre Scritture avevano visto giusto fin dall’inizio... i miti hanno ereditato la terra. Ora il mondo sta tornando verde e fecondo. Ora i fedeli devono cercare forza nel loro santo Creatore. Le maledette Sodoma e Gomorra di New York e Los Angeles sono cadute in rovina, i loro falsi templi sono crollati a formare la polvere dalla quale il Signore plasma il Cristiano timorato di Dio. Il nostro Dio è un Dio d’amore, ma sa anche essere un Dio irato, e così ha distrutto coloro che non potevano essere redenti. Ha chiuso per sempre il libro dell’umanesimo laico. Il suo potente Tallone ha cancellato il femminismo radicale. Il suo possente Pugno destro ha fatto giustizia degli omosessuali; il suo possente Pugno sinistro ha ridotto parimenti al silenzio i pagani del diabolico rock and roll. Egli ha allargato le Sue braccia poderose per raccogliere tutti i peccati di questo mondo malvagio, dall’uso di droghe alle perversioni sessuali fino all’adorazione di Satana. E si potrebbe quasi dire che dalla scrivania del Signore è sceso fino a noi un Suo messaggio, quando tutti i più grandi infedeli di questa terra sono stati presi a sonori calci nel culo!” Adesso strillava con veemenza, la pelata lustra di sacrosanto sudore. Le sue mani agguantarono le spalle del Diacono Moe. Il suo fiato appannò gli occhi fissi dello zombi. La sua convinzione era assoluta. Moe salivò. “E adesso, fratello, i fedeli camminano sulla terra come una possente armata. Le legioni di Dio crescono ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, mentre noi restiamo qui a riaffermare la nostra fede nel Suo nome. Siamo tutti figli di Dio, e Dio è un Padre amorevole che provvede ai Suoi figli, sì. Sì, dobbiamo fare sacrifici. Ma anche se oggi le nostre pance sono vuote, i nostro cuori sono colmi della bontà del Signore!” La sua voce cominciò a incrinarsi; conveniva sempre simulare qualche cedimento casuale all’emotività. “Da questa bontà tu e io dobbiamo trarre la forza di perseverare fino a domani, quando il Millennio si compirà e nessun figlio del Signore avrà più fame. La Pace si avvicina! Il cibo si avvicina! Scendi alla congregazione, Diacono Moe, e diffondi la buona novella! Amen! Amen!
Amen!” Il Diacono Moe ansimò, strappando dalla gola arida un suono di assenso simile al rantolo di un asmatico attraverso un grosso grumo di catarro. Jerry gli fece fare dietrofront e lo spinse oltre la tenda a disseminare il Verbo. Udì uno sciacquio dallo stomaco di Moe dove era sceso il veleno concentrato. Là dentro la corrosione stava facendo passi da gigante, e da un momento all’altro la forza di gravità poteva riempire i pantaloni del Diacono Moe con la sua stessa trippa zombificata. Quella sera bivaccavano in una vera chiesa. La maggior parte dei fedeli andava a zonzo per le navate. I diaconi cercavano di far loro ripetere i gesti di Jerry. Il quoziente di risposta del gruppo completo, una cinquantina di zombi, era affidabile almeno quanto quello di un topo da laboratorio addestrato ma ritardato. Con un minore controllo da parte dei diaconi, Jerry avrebbe interpretato il ruolo principale della propria Ultima Cena diversi mesi prima. In questo momento lui vedeva la sua congregazione solo come un insieme di recipienti in attesa di essere riempiti delle parole del Signore. Nel frattempo, cercava di riempire le loro pance come meglio poteva. Il ricordo di cui andava più fiero risaliva al giorno in cui aveva iniziato la sua crociata attraverso il paese. Era entrato a testa alta fra i miasmi di una bettola di Baton Rouge e aveva lasciato che Dio facesse i conti con un branco di musicisti che si facevano chiamare Rico il Fico e i suoi Uccelli Fichi. A marciare compatti dietro di lui c’erano venti rinati famelici. Quella santa epurazione, quel primo ricco pasto con il quale aveva benedetto la sua nuova congregazione avrebbe sempre brillato lucente in un angolo speciale del suo cuore. Rico il Fico e i suoi degni compari avevano visto la luce. Alcuni di loro si erano addirittura uniti alla crociata, quelli che non erano stati troppo masticati per potersi muovere. Come Gesù nel tempio, il molto Reverendo Jerry non veniva a distruggere ma bensì a colmare un vuoto. E alcune pance. Infilò un bastoncino nell’apertura della sacca dei cuccioli. Nessuno di loro agitò il suo sonaglio. Nessuno poteva farlo. Quel rumore così caratteristico rendeva inquieti i fedeli, quindi lui aveva tenuto a bagno i sonagli dei suoi quattro piccoli distillatori di vin santo finché non erano marciti e caduti nel silenzio. Piccolo Matteo venne liberato dal groviglio dei suoi fratelli. I crotali diamantini dell’Est erano giustamente temuti per le dimensioni e per la loro alta scarica velenifera; i morsi dati per bene erano quasi sempre fatali. Piccolo Matteo era lungo un metro e mezzo, possedeva grosse ghiandole in grado di fornire senza sforzo un Dono d’Amore capace
di convertire alla giusta causa ben seicentosessantasei adulti, e quella non era una singolare coincidenza matematica? Jerry aveva dovuto eseguire parecchi calcoli per passare dalle once ai grani e infine ai millilitri, e fare poi qualche arrotondamento. Il modo in cui veniva somministrata una dose letale costituiva una grossa variabile, ma il numero finale mostrato dal suo calcolatore tascabile era 666, ripetuto all’infinito. Quello era il numero di peccatori che potevano finire in ginocchio con sole tre once (ovvero ottantaquattro millilitri) della migliore vendemmia di Piccolo Matteo. Per Jerry, quel numero era un segno ideale... e non era questo che realmente contava nel Grande Libro? I conti di Dio tornavano sempre in modo perfetto. Il Diacono Curly non si era presentato a ricevere la comunione. Che se ne stesse andando in giro con il cervello fra le nuvole? Nei giorni in cui i suoi gusti non erano stati così selettivi, il molto Reverendo Jerry era stato un appassionato di film comici. In omaggio a quei tempi, i suoi diaconi anonimi erano stati battezzati con i nomi di famosi attori comici del passato. Con il logorio o il pensionamento forzato dei suoi collaboratori, la lista di nomi di Jerry si era assottigliata. Al momento i diaconi in servizio erano Moe, Curly, W.C. e Fatty. Curly stava diventando un po’ lento e svagato. E ciò era peccato. Jerry era sicuro che il suo gregge lo avrebbe seguito anche senza l’abile assistenza dei suoi diaconi. Lui rappresentava il Pezzo Grosso, e la sua opera attuale non aveva nulla da invidiare a quella di evangelisti del passato come Billy Graham e Hummell. D’accordo, le sue radici affondavano nelle riunioni di paese tenute sotto un tendone rizzato in qualche modo, ma lui aveva sempre lottato per salire più in alto, e adesso la nuova congregazione fioriva sotto le sue amorevoli cure. Quando teneva i suoi sermoni, i rinati sembravano scordare i loro appetiti terreni. Jerry non riusciva ancora a capirne esattamente il motivo, anche se possedeva la granitica certezza che il Verbo, oltre al potere di calmare gli inquieti, avesse anche quello di placare le pance borbottanti. Esistevano altri tipi di nutrimento; quelle anime perdute erano affamate anche sotto il profilo spirituale. Jerry teneva in grande conto la consapevolezza e la fede genuina, e pensava di scorgerle entrambe negli occhi della sua congregazione quando lui vociferava da qualche pulpito improvvisato. Aveva assistito di persona a questo miracolo nel modo più tradizionale e più sacrosanto, nel bel mezzo di un sermone, quando aveva fissato la folla in ascolto e aveva capito. I rinati dipendevano da lui per ricevere il Verbo, nello stesso modo in cui i diaconi contavano sulla sua persona per ricevere il
sacro Sangue. Il veleno controllava i diaconi, ma doveva essere un nuovo genere di fede a governare i membri della sua numerosa congregazione. Doveva essere fede. Avevano bisogno di essere salvati. Jerry aveva bisogno di salvare qualcuno. Una simbiosi semplice e perfetta, e inoltre approvata da Dio stesso. Secondo un’ottica più duratura, si alimentavano a vicenda. Forse non era poi un mistero così grande, tutto sommato. Ancora nessun segno del Diacono Curly sotto le navate. Jerry fece segno al Diacono Fatty di avvicinarsi. L’occhio destro di Fatty era uscito di nuovo dall’orbita, restando appeso al peduncolo. Jerry lo ricacciò dentro e spazzò via gli insetti dalle spalle del diacono, poi riannodò la fascia che si era allentata fino a scendere intorno al gomito dello zombi. Ogni membro della nuova congregazione portava una Croce Rossa... a Jerry era sembrato un simbolo adatto per la Nuova Alba, e poi era un metodo comodo per contarli alla svelta mentre marciavano. L’improvviso, sordo bum di un’esplosione non molto lontana costrinse il cuore di Jerry a pigiare sul freno. Il Diacono Fatty rimase impassibile, in attesa della comunione, con gli insetti che sguazzavano nella saliva che gli colava sul petto. Le ortodossie avevano fottuto anche troppo a lungo il mondo, quindi Vermone le aveva cancellate con uno schiocco delle dita simili a giganteschi wurstel. Quando era troppo era troppo. Gli idioti potevano starsene a rigirarsi i pollici, a vivere le loro esistenze alla giornata, chiedendo in ginocchio favori che non avrebbero ottenuto a divinità che non esistevano, confidando in esseri soprannaturali e in nebulose entità del bene e del male che avevano già deciso quale marca di cereali avrebbero mangiato a colazione. Se adesso esisteva una qualsiasi entità malefica, il suo nome era Morte per Fame o Stupidità... due pezzi grossi che potevano farvi passare alla storia in brevissimo tempo. I fedeli dell’una o dell’altra passavano le loro vite preparandosi a morire. Vermone preferiva lottare per vivere. La sua etica della sopravvivenza poteva diventare il primo documento di una nuova dottrina. Col tempo sarebbe sorto un altro sistema. Nessuno imparava mai un accidente. Lui preferiva la pace mentale indotta da un proiettile di grosso calibro. Aveva battezzato Zombo il suo fucile mitragliatore M60, ed era una meraviglia. Con un colpo ottenevi una poltiglia di more. Polverizzavi la testa e gli avanzi non potevano mangiarti o infettarti con il virus degli schifidi.
E spruzzandoci sopra un po’ di Pam evitavi che potessero attaccarsi alle pentole. Vermone infilò i piatti sporchi nella vasca d’acciaio dell’acquaio e si rilassò sul divano. Un rutto gorgogliante simile al rigurgito di un gabinetto gli conciliò il sonno, e sognò la prima persona che avesse mai mangiato. Duke Mallett lo aveva soprannominato Vermone a causa della sua obesità e della carnagione brufolosa. Due cose provocate dal fatto - diceva Duke - che il paria, il buffone, l’idiota in pianta stabile della scuola superiore della Quindicesima Strada si spazzolava ogni giorno almeno tre vassoi pieni di scarafaggi e altre schifezze, con qualche spuntino di vermi fra un pasto e l’altro. “Ehi, Vermone... cosa tieni nel tuo armadietto? Altri BACHEROZZI, eh?” Il che riusciva sempre a strappare un coro di risate a Duke e agli altri futuri avanzi di galera della scuola della Quindicesima Strada. Duke fumava Camel. La sua squinzia, Stacy, aveva due tette fenomenali e un sacco di foruncoli intorno alla bocca. Usava rossetto al sapore di gomma da masticare. Due settimane prima del diploma, Duke aveva accartocciato una Gran Torino truccata intorno a un palo della luce a centoventi all’ora. Lui, Stacy e un paio di compari erano finiti arrosto fra cavi spezzati dell’alta tensione e un rogo di super. Gli infermieri delle ambulanze accorse avevano ammucchiato i pezzi che riuscirono a recuperare sopra una sola barella, tenendosi tappato il naso. Il servizio locale di ambulanze dipendeva dalle Pompe Funebri Tompkins, è non appena Vermone seppe la notizia corse subito là. Il vecchio Tompkins ammirò il coraggio del ragazzino ciccione nel chiedere di poter vedere i resti dei suoi compagni di classe. “Devo essere certo che sono loro!” esclamò melodrammatico Vermone, che aveva provato diverse volte la battuta. Tompkins era convinto che i giovani dovessero prendere contatto con la morte quanto prima possibile, e così permise a Vermone di dare un’occhiata ai frammenti carbonizzati che riempivano il cassetto Otto. Vermone pensò che Tompkins puzzasse come il laboratorio di biologia nell’ora di dissezione di uno squalo. Mentre il vecchio distoglieva lo sguardo per tirare una boccata di aria relativamente fresca, Vermone aspirò con gusto, affascinato. Quell’immondizia fritta che macchiava la lastra di acciaio e intasava il foro di scolo era Duke. Ormai innocuo. La gioia di quell’istante non poteva essere trattenuta, così Vermone si impossessò rapidamente di un piccolo souvenir. Quando Tompkins si girò a
guardare, lui disse con voce intimorita di aver visto abbastanza. Ma mentiva. Più tardi, da solo, poté gongolare. Il pezzo che aveva asportato si rivelò uno degli occhi in fricassea di Duke. Il calore lo aveva asciugato, avvizzito come un acino d’uva, sgonfiato su un lato e pietrificato sull’altro... ma si trattava senza dubbio di uno degli occhioni blu di Duke. L’occhio che aveva indirizzato tanto odio su Vermone era adesso sul palmo della sua mano, privato del suo luccichio e di ogni tracotanza, non più minaccioso di un chicco d’uva spiaccicato. Cedeva sotto le dita, come formaggio vecchio. Lo annusò. Era acre, un po’ simile all’odore di un guscio d’uovo nella spazzatura. Vermone lo infilò fra le labbra e lo morse prima che il suo cervello potesse dirgli di non farlo. Ottenne uno scricchiolio di bacon croccante. I suoi giri mentali virarono al rosso mentre il sapore si gonfiava intorno alla lingua e gli riempiva le guance paffute da scoiattolo. La mamma non avrebbe approvato. Questa era... be’, era il genere di cosa che... non si doveva fare. Fu... un soffio di liberazione. Fu l’espressione finale della sua vendetta, del suo potere su quel merdoso di Duke. Fu la cosa più vicina al sesso che Vermone avrebbe mai provato. Fu qualcosa di maledettamente simile a un’esperienza religiosa. Non appena Vermone ebbe l’età adatta, cominciò a lavorare qualche ora al giorno per il vecchio Tompkins. Ormai il suo futuro era deciso, e i nuovi chili che accumulò non attirarono l’interesse di nessuno. Nel deposito d’armi della Guardia Nazionale aveva scoperto parecchie razioni da combattimento Tipo-A, ma la carne misteriosa avvolta in gelatina che aveva estratto dalle lattine verde oliva si era rivelata più disgustosa di qualunque altra cosa avesse mai assaggiato all’obitorio. Buon appetito! Il sogno erotico di Vermone si stava avvicinando alla parte più interessante quando un’altra esplosione lo riportò alla realtà, facendogli impugnare la sua fidata 44 con la stessa rapidità con la quale un samurai avrebbe sguainato la sua katana. Stava diventando un lunedì pesante. Le sue viscere ciclopiche si agitarono. Prrrutt. Il pranzo era ancora là dentro e lottava per scendere. Ma ciò che il binocolo gli rivelò spinse lontana l’idea di un’alka seltzer. Due dozzine e forse di più di schifidi avanzavano barcollanti verso i
cancelli di Valley View. Vermone rimase a bocca spalancata. Ma questo non gli impedì di sentire l’acquolina in bocca. Il molto Reverendo Jerry tolse la mano che schermava gli occhi e fissò il peccatore in cima alla collina mentre i frammenti fumanti del Diacono Fatty piovevano in testa ai fedeli. Era stato lui ad aprire l’avanzata. Un pezzo appiccicoso e grande come un pugno colpì la spalla di Jerry lasciando una macchia gialla. Lui si scrollò il pezzo dalla scarpa e pensò a Ezechiele XVIII,4. Perdiana, si stava proprio infuriando. Colui che pecca è colui che morrà! Il Diacono Moe e il Diacono Fatty avevano finito i loro giorni sulla terra ed erano saliti a incontrare Gesù. Più là congregazione avanzava verso il cimitero, meglio potevano fiutare il peccatore... e i suoi grassi polpacci. L’ora della liberazione - e del pranzo - così a lungo promessa da Jerry sembrava a portata di mano. Jerry sentì qualcosa fischiargli all’orecchio. Dietro di lui, un altro rinato sembrò scollarsi, mentre il cranio, gli occhi e il cervello schizzavano verso direzioni completamente diverse. Jerry avanzò alla cieca e scivolò su qualcosa di viscido; i suoi piedi persero il contatto con la terraferma e il suo deretano fece conoscenza con l’asfalto e con altri resti, più abbondanti, del Diacono Fatty. Altri colori inzupparono la sua tunica già variopinta. Il molto Reverendo Jerry pronunciò involontariamente il nome di Dio invano. Allo scoppio sordo della fucilata successiva un altro fedele esplose in una piroetta di parti volanti. Frammenti e brandelli schizzarono gli altri, che ebbero la grazia cristiana di non prendersela a male. Jerry si rialzò nel suo brago di frattaglie, i pantaloni zuppi e aderenti, le mutande gelide e raggrinzite. Nello stesso istante un altro rinato addentò una pallottola e cambiò il suo tempo da presente a passato. Jerry fu quello più inondato dagli spruzzi. Era ormai giunta l’ora che lui prendesse l’iniziativa e cominciasse a sbrigare l’opera di Dio. Vermone lanciò un altro grido di battaglia... niente melodramma, solo semplice gioia dinanzi a ciò che avanzava verso di lui. Il tizio alla retroguardia non barcollava rigido come di solito facevano gli schifidi, così Vermone lo inquadrò nel mirino telescopico del suo Remington. Vide una specie di elegantone con un vestito tutto macchiato, che si toglieva sugna macerata dagli occhi e saltellava come un vecchio Paperino inviperito.
Portava un bracciale della Croce Rossa, come tutti gli altri. Fine della storia. Avanti il prossimo. Vermone mise a fuoco un altro schifido nel mirino, sparò e guardò la testa esplodere con i colori di una pizza fantasia. Con una economia di movimenti quasi da balletto, invidiabile in una persona della sua stazza, espulse l’ultima cartuccia esplosa e lasciò aperto l’otturatore del Remington mentre staccava dalla rastrelliera il suo M60. Zombo era pronto a scatenare un putiferio. Zombo non vedeva l’ora di innaffiare di piombo quegli intrusi. Vermone si drappeggiò un nastro di proiettili perforanti AV sopra una spalla collinosa, e la lunga fila di cartucce lucide oscurò il logo degli Sporchi Infami Imbecilli sulla sua maglietta. La prima spolverata era finita. Adesso era l’ora della casseruola. Zombo viveva. Zombo sarebbe sceso a regnare in mezzo a loro. La fila seguente di Betty a Rimbalzo stesa a protezione dell’entrata eruttò. Le aveva piazzate a metà del fossato. La roba che cominciò a piovere dal cielo aveva proprio l’aspetto di manna. Nel suo furore impotente e inviperito, Jerry li incalzò ad avanzare di petto: “Avanti, avanti! Rivolgetevi a me e sarete salvi, o voi tutti paesi della terra!” Isaia XLV,22 era sempre una mano santa per incitare gli animi. Ormai tutti i rinati della congregazione avevano percepito l’effluvio del demone panciuto che si agitava in cima alla collina. Era tutto carne e ciccia e massa e calorie e salvezza. I portali di ferro di Valley View vennero abbattuti, e nel giro di pochi secondi una salva di braccia, gambe e frattaglie di morti viventi salì al cielo oscurando la luce del sole. “Avanti!” Jerry portò al calor bianco la sua furia e assestò al discepolo più vicino una paterna spinta in direzione del nemico. Il peccatore. Il mostro. “Avanti!” Il palmo della mano di Jerry incontrò la stessa resistenza che poteva offrire una pappa di cereali andata a male. Una bovina fresca possedeva una forza di coesione maggiore e sporcava di meno. Strappò la mano con un guaito, tirandosi dietro una ragnatela di filamenti gelatinosi. Il rinato fissò con occhi vacui il tunnel appena aperto dove un tempo c’era la sua mammella sinistra, poi avanzò fiutando di nuovo la carne di Vermone. Le esplosioni si fecero assordanti, fondendosi le une con le altre, colpi di tuono che sbeffeggiavano Dio. Nei rari intervalli, Jerry udiva un crepitio sordo e maligno... non era un suono celeste, ma uno sberleffo infernale al Signore che consentiva ai suoi fedeli di finire a pezzi più in fretta di ranoc-
chi infarciti di bombette infantili. Cercò di scrollarsi dalla mano quella gelatina bruna abitata da vermi e colpì accidentalmente il Diacono Moe al viso. Il naso dello zombi si staccò per metà e restò là a dondolare. Moe non provò dolore. Obbediente al volere di Jerry, aveva portato con sé la sacca dei cuccioli, i cui occupanti si agitavano e accumulavano vin santo. Zombo martellò un’altra benedizione esplosiva, e Jerry si buttò a baciare la buona terra di Dio. I traccianti arroventati morsero l’asfalto e disegnarono un’imbastitura obliqua sul corpo del Diacono Moe. La sacca dei cuccioli si prese due colpi e si spezzò. Moe fece lo stesso. La sua carcassa bruscamente iperventilata riversò i suoi fluidi all’esterno, e il molto Reverendo Jerry si trovò a sguazzare fra litri di purea di zombi insieme a quattro crotali particolarmente inveleniti. Non scoprì mai chi fu il primo a tradirlo. Il primo morso lo colse dritto nei coglioni, e lui ululò. Il Diacono Moe, completata la sua opera in questo mondo, si rovesciò a terra con un suono a metà fra il tonfo e lo sciacquio. Fu come guardare una torta di ciliege ancora calda di forno colpire un marciapiede di cemento. Sul sentiero, Vermone si asciugò gli occhi. Zombo aveva mancato il bersaglio. Non era stato solo il sudore a guastargli la mira. Aveva la vista leggermente confusa. Le goccioline che gli imperlavano la pelata erano gelide. Probabilmente era qualcuno che aveva mangiato. Zombo gli sembrò troppo pesante, troppo caldo per reggerlo a dovere. Il muso di Zombo continuava ad abbassarsi, a pisciare inutilmente buon piombo caldo contro gli spuntoni metallici nel fossato. Vermone strinse i denti, pigiò con forza il ditone formicolante sul grilletto e sollevò la canna di Zombo con un grugnito che gli strinse le budella. Gli sembrava di avere un’ernia sotto la cintura da sollevatore di pesi. Zombo parlò. Gli schifidi continuarono a imbottirsi di traccianti, presero fuoco ed esplosero. Quelli in prima fila vennero spinti nel fossato da quelli che premevano dietro di loro. Rimasero piantati in permanenza sugli spuntoni con morbidi sbuffi di penetrazione, a dibattersi e a versare pus e ad agitare impotenti le mani artigliate verso Vermone. Zombo domandò un nastro nuovo di munizioni. L’appetito di Vermone si era trasformato nel diluvio acido di una indigestione di prima classe. Quella sera il maalox l’avrebbe fatta da padrone. Ormai l’aria cominciava a riempirsi dell’odore della carne bruciata degli
schifidi. Bastò una ventata per far vomitare a lungo e dolorosamente Vermone nel fossato. Uno schifido inchiodato da uno spuntone nella schiena, a bocca aperta verso il cielo, ebbe uno spasimo e si contorse fra il filo spinato cercando di leccare il vomito fresco. Zombo smise di parlare. Vermone estrasse la 44 dalla fondina e sparò una pallottola a testa piatta nel cervello di Mangiavomito. Le membra di quest’ultimo si irrigidirono mentre la pressione idrostatica gli faceva scoppiare la testa come un’anguria. Poi tutto il corpo sembrò disfarsi, sciogliendosi in una chiazza di putrefazione diarroica che gorgogliò fra gli spuntoni. Adesso tutto intorno sembrava vomito. Lo stomaco contratto di Vermone lo obbligò a espellere ciò che non era più vomitabile. Stavolta gli uscì solo del sangue, che schizzò su per l’esofago come una bibita gassata per uscirgli sfrigolante da entrambe le narici. Vermone sputò e ansimò, crollando in ginocchio. La sua mano libera sparì nel morbido cuscino che ricopriva lo stomaco, del tutto insufficiente a stringerlo. Il molto Reverendo Jerry vide il peccatore genuflettersi. Dio era ancóra dalla parte di Jerry, lo stava salutando, un mondo senza fine, alleluia, amen. L’occhio sinistro di Jerry era spiaccicato lungo la guancia come un preservativo usato. Erano stati i denti di Piccolo Paolo a ridurlo così. Forse lo aveva offeso. Jerry agguantò Piccolo Paolo e gli fece saltare quel suo piccolo cervello da serpente contro la lapide più vicina. Poi iniziò la sua salita su per la collina, attraverso la valle della morte, trascinandosi dietro il serpente morto come uno staffile. La sua unione con i serpenti gli era costata parecchi morsi, e lui conosceva il valore dell’immunizzazione. Provava un dolore diffuso al basso ventre e avanzava barcollando... ma poteva ancora farcela. Quello doveva essere l’inferno, pensò intontito quando vide quasi tutta la sua congregazione esplosa, fatta a pezzi, sparsa su tutto il cimitero di Valley View. Fili di fumo si levavano ancora dai crateri aperti nel terreno. Membra contorte da sussulti erano sparse tutto intorno. Solo pochi rinati avevano raggiunto il fossato calpestando i caduti. Jerry sentiva il suo cuore che pulsava, spingendo Dio solo sapeva quanto nettare velenoso nelle sue vene. Sentiva il potere accumularsi dentro di lui. Il sangue cominciò a colargli copioso dalle gengive, bagnandogli le labbra. La mano sinistra si richiuse in una morsa spastica e rimase così. L’occhio ancora buono cercava di abbassare la palpebra e non ci riusciva: era rima-
sto congelato aperto. L’orizzonte si inclinava furiosamente. Verso il basso, i suoi muscoli si arresero e la vescica e lo sfintere diedero il segnale di via libera. Mentre si avvicinava ai suoi figli, avrebbe voluto levare la voce in nome del Signore e dire loro che la carestia era terminata, che finalmente potevano celebrare con canti di gioia il festino. Invece perse ogni sensibilità nelle gambe. Si abbatté contro il terreno dilaniato del cimitero e cominciò a trascinarsi con la mano ancora funzionante, quella che ancora stringeva come una morsa i resti di Piccolo Paolo. Voleva gridare, ma il suo corpo sembrava essersi rimbecillito tutt’a un tratto. Ciò che gli uscì, fra un gorgoglio di spuma sanguinosa, fu Aafantii pedddio! Il semplice suono di quella voce bastò a indurre Vermone a un nuovo tentativo di scaricarsi lo stomaco. Jerry avanzò artigliando il terreno fino a raggiungere l’orlo del fossato. I rinati superstiti si raccolsero intorno a lui. L’occhio sinistro gli rotolò lungo la guancia, il suo corpo fu scosso da un tremito mentre la megadose di veleno riaffermava il suo dominio, e tuttavia lui sollevò il suo serpente e si preparò a declamare. Vermone puntò la sua Magnum e fece esplodere la testa del predicatore prima che la sua bocca potesse inquinare di nuovo l’aria. “Così va meglio,” singultò, con la gola ancora scossa da conati. Poi vomitò un’altra volta e perse conoscenza. Sono successe cose ben più strane, continuò a ripetergli il cervello prima che riprendesse i sensi. Non era stato affatto un sogno. Aveva un occhio chiuso contro il terreno e il naso schiacciato. Sopra la topografia del suo pranzo rigurgitato dinanzi al viso, l’altro occhio guardò. Per un attimo immaginò i poliziotti delle comiche intenti a divorarsi un cadavere senza testa. Brandelli di carne venivano strappati e deglutiti senza il beneficio della masticazione, ogni lembo infilato in gola come un serpente che strisciasse dentro un buco umido e rosso. Uno schifido era impegnato a rosicchiarsi un polpaccio di Jerry con il piede ancora attaccato. Altri sembravano giocare al tiro alla fune con tratti scivolosi di intestino simili a spaghetti o ingurgitavano a quattro palmenti manciate di tendini e legamenti che sembravano linguine... il tutto marinato in quella densa salsa segreta marrone. La pancia di Vermone borbottò invidiosa. L’ora di cena era passata da
un pezzo. Gli schifidi superstiti non se ne sarebbero andati lasciando Vermone tutto d’un pezzo. Avrebbe dovuto stenderli adesso, oppure aspettare il buio per fare pulizia e magari aspettare il sorgere del sole per mangiare. Vide uno degli schifidi nel fossato liberarsi da uno spuntone. La sua carne non era più abbastanza compatta per consentire al filo spinato di fare presa. Lo schifido impiegò un paio di secondi per mettersi di nuovo in piedi, poi piombò a capofitto contro altri tre spuntoni. Spessi grumi di tessuto marcio salirono a galla e si udì il borbottio acido della bile liberata. Vermone rotolò verso Zombo, alzandosi come un lottatore di sumo intontito. Il suo cervello sembrava correre sulle montagne russe; la sua vista faticava a mettersi a fuoco; cosa cazzo aveva mangiato a pranzo che poteva avergli fatto male? A quel punto possedeva lui stesso la grazia di uno schifido nei movimenti. Per conservare l’equilibrio appoggiò una mano grande come un guantone da ricevitore di baseball contro una lapide massiccia che commemorava un certo Eugene Roach, Padre Adorato. Il signor Roach aveva sgomberato il suo ultimo recapito parecchio tempo prima per andare a mangiarsi i figli di qualcun altro. Quello che successe, successe in fretta. Vermone dovette appoggiarsi con tutto il suo peso alla lapide per non perdere l’equilibrio. Quando si appoggiò, ci fu un rumore come di capelli strappati alla radice. Lui strabuzzò gli occhi e, prima che potesse trattenere la propria spinta, la lapide si piegò all’indietro sollevandosi dal terreno grasso di Valley View. Le braccia mulinanti, Vermone piombò sopra la lapide. La sua mente registrò un’immagine lampo di un filo metallico che si tendeva per fare scattare una trappola. La mina esplose con un rumore di tuono soffocato da far tremare i timpani. Novanta chili di marmo e granito presero il volo portando con loro i centottanta chili di Vermone, che venne catapultato sopra il fossato e scaricato in mezzo alla frenesia nutritiva sul lato opposto. Era la prima volta in vita sua che faceva una capriola completa. Con le immagini surreali di una ripresa al rallentatore, guardò la sua fidata Magnum staccarsi da lui come una bomba da uno Zeppelin e atterrare infilandosi con il ponticello del grilletto su uno degli spuntoni più aguzzi nel fossato. Il Diacono W.C. saldamente impalato laggiù stava sbirciando nella canna quando la pistola fece bang! Tutto ciò che si trovava sopra il pomo d’Adamo del diacono ricadde verso ovest sotto forma di gulash e patatine alla francese. Vermone udì lo sparo ma non ne fu testimone. In quel momento la sua
preoccupazione principale era l’impatto. Uno schifido si girò e lo vide, con le braccia sollevate in qualche supplica o nel patetico tentativo di afferrare TUFO che si faceva sempre più grande al centro di un’ombra già grande come una casa. La costosa lapide funeraria di Eugene Roach virò verso il fossato. Uno zombi sottostante rimase a fissarla finché questa non toccò terra. I frammenti di ricaduta furono così densi che si sarebbero potuti mangiare con una forchetta per fonduta. Vermone chiuse gli occhi, urlò e atterrò a capofitto. Ci fu uno scricchiolio d’ossa alla caduta. Solo il giallo degli occhi dello schifido era rimasto visibile fino alla fine. Poi si liquefece con uno squosh e divenne una macchia umida in fondo alla buca scavata dall’atterraggio di Vermone. Tutte le teste si girarono. Il suo cervello era come un ufficio affollato di agenti di borsa urlanti. Il primo rapporto lo informò che le acrobazie aeree non erano adatte al suo fisico. Il secondo elencò le fratture, i blocchi vascolari, le commozioni, il timpano scoppiato con la decompressione esplosiva di un peperoncino espulso da un’oliva farcita, l’equa distribuzione di dolori lancinanti sparsi in ogni affluente principale e secondario del suo vasto corpo... e il sapore inerte del terriccio umido. Il terzo fu una notizia lampo all’ultimo minuto: non era stato divorato e ridotto a un cumulo d’ossa e a una dozzina di globuli rossi. Non ancora. Inoltrò una protesta formale per poter sollevare le palpebre e impiegò circa un’ora per farla accogliere. Vide le stelle, ma erano nel cielo notturno sopra di lui. Giaceva sulla schiena, le gambe distese e le braccia allargate come un aeroplano. Che buffo. Otto paia di occhi rianimati lo stavano fissando. Mi hanno beccato, pensò. Da più di un anno mi danno la caccia e io li faccio a pezzetti... e adesso sono stato servito loro per posta aerea, senza pistola, disteso come un manzo. Magari hanno aspettato per farmi assaporare la cornucopia sensuale dell’essere divorato vivo. È l’ora del dottor Moreau, figlioli. Ora che zio Vermone si metta il cuore in pace. Cercò di muovere verso di loro le dita intorpidite. “Salve, belli.” Fu l’unica cosa che pensò di fare. Gli zombi che lo circondavano - tre a destra, tre a sinistra, uno ai piedi e uno dietro la testa - sembravano frusciare come rami spazzati da una brez-
za leggera. Stavano comunicando. Gli avevano posato sul petto il cranio del molto Reverendo Jerry. Riusciva a vederlo a malapena. I frammenti sporchi di sangue e graffiati dai denti erano stati riuniti in una specie di fragile castello di ossa. Vide che la sua pallottola era entrata dal sopracciglio sinistro di Jerry. Proprio un bel tiro. Sentì una contrazione nelle viscere ed emise un colpetto di tosse. Il cranio crollò come un vasetto di terracotta incollato malamente. Fra gli zombi ci furono altri movimenti e brusii. Il molto Reverendo Jerry era stato spolpato con cura; le ossa erano state spezzate e il midollo succhiato avidamente. Durante l’intero festino, Vermone era rimasto là, a pochi passi di distanza, con la sua mole che rappresentava porzioni più abbondanti per ognuno. Per ore nessuno lo aveva molestato. Invece di continuare la festa, si erano raccolti intorno a lui e avevano aspettato il suo risveglio. Lo avevano girato sulla schiena, toccandolo senza mordere. Avevano ricostruito il cranio di Jerry e lo avevano visto spazzato via con un colpo di tosse. Erano stati testimoni, questo era indubbio. Vermone sbirciò i frammenti ossei simili a biscottini cracker e provò la stessa ventata rivelatrice che aveva provato con l’occhio di Duke Mallett. La cosa migliore da fare, adesso, era gustare una di quelle croccanti delizie. Gli occhi puntati su di lui non giudicavano. Non vedevano un uomo obeso in modo grottesco che si ingozzava di vermi e di occhi umani e non si lavava mai. Quelle creature non lo deridevano beffarde come Duke Mallett, non lo respingevano, non lo trovavano ripugnante. Avevano aspettato che lui tornasse in vita. Pazientemente, con uno scopo, avevano atteso. Il suo ritorno. Non avevano tentato di mangiare il suo lardo o di bere il suo colesterolo. Il molto Reverendo Jerry aveva insegnato loro che c’erano altri appetiti oltre quello del corpo. Vermone sentì che una delle sue gambe era conciata male, ma con uno sforzo riuscì a sollevarsi sui gomiti. Gli zombi arretrarono educatamente per fargli spazio, e quando videro che non ce la faceva a rialzarsi lo aiutarono, lottando per rimetterlo in posizione eretta come i marines che avevano innalzato la bandiera su Iwo Jima. Lui capì che se avesse ordinato loro di infilarsi per ordine di altezza in uno dei forni crematori di Valley View gli avrebbero obbedito con piacere.
Era riuscito finalmente a conquistarsi l’approvazione devota di un gruppo di suoi simili. E da quel momento in poi, lo sapeva, qualche stronzo avrebbe tentato di imbellettare quella resurrezione in qualche grosso, brutto libro nero... sbagliando logicamente tutto. Decise che chiunque ci avesse provato avrebbe avuto un incontro ravvicinato e convincente con Zombo. Ho vinto ancora io. Lo aveva pensato tante altre volte, sempre riferendosi a coloro che aveva sempre definito schifidi. Un’ondata di calore lo avvolse. Lui non era uno schifido... quindi anche loro non lo erano. Quando finalmente parlò loro, disse qualcosa come: “Uff... merda, ragazzi, credo che sia ora di fare uno spuntino, no?” E iniziò passando in giro i pezzi del cranio del molto Reverendo Jerry. Uno alla volta, tutti presero di quel cibo e mangiarono senza fiatare. E videro che era buono. MANGIAMI Robert R. McCammon C’era una domanda che, giorno e notte, rodeva Jim Crisp. Continuava a porsela mentre camminava per le strade, sotto una pioggia nera e con i topi che squittivano ai suoi piedi; la rimuginava seduto nel suo appartamento, fissando un’ora dopo l’altra lo schermo nevoso del televisore. La domanda lo assillava quando se ne stava seduto nel cimitero della Quattordicesima Strada, circondato dalle tombe vuote. E questa domanda bruciante era: quando è morto l’amore? Pensare richiedeva uno sforzo. Gli faceva provare dolore al cervello, ma Jim era convinto che pensare fosse il suo ultimo contatto con la vita. Molto tempo prima, era stato un contabile. Aveva lavorato per più di vent’anni per una società finanziaria del centro, non si era mai sposato, e non aveva mai avuto nemmeno molti appuntamenti. I numeri, la logica, i riti della matematica erano stati il fulcro della sua vita. Adesso la logica stessa era impazzita, e nessuno teneva più registri contabili. Provava la terribile sensazione di non appartenere più a quel mondo, di essere sospeso in un incubo destinato a durare in eterno. Dormire non gli serviva più, qualcosa si era spezzato dentro di lui qualche tempo prima, e aveva perduto quei quattro o cinque chili superflui che aveva accumulato intorno alla cintola con gli anni. Adesso il suo corpo era sottile, così magro che a volte una folata di vento più forte gli faceva perdere l’equilibrio. L’odore andava e veniva,
ma Jim aveva una cassa di acqua di colonia inglese nell’appartamento e faceva il bagno in quella roba. Le fauci spalancate del tempo lo spaventavano. Giorni innumerevoli si stendevano dinanzi a lui. Che cosa restava da fare, quando non c’era più nulla da fare? Nessuno controllava le presenze, nessuno timbrava il cartellino, nessuno stabiliva le scadenze. Ad altre persone questa libertà corrotta dava un senso di potenza, per Jim significava la più angusta delle prigioni, perché tutti i simboli dell’ordine - i semafori, i calendari, gli orologi - erano rimasti ai loro posti, ancora funzionanti, però non possedevano più uno scopo o un senso e gli rammentavano troppo com’era stata la vita prima. Mentre camminava senza meta per le strade della città, vide altri che gli passavano accanto, alcuni tranquilli come sonnambuli, certi furenti per qualche tortura privata. Jim arrivò a un angolo e si fermò, rispettando istintivamente il segnale rosso del semaforo. Un acuto rumore stridulo attirò la sua attenzione, e guardò verso sinistra. I topi stavano attaccando selvaggiamente una delle forme più basse di umanità, un cadavere semiputrefatto che si era risvegliato di recente e aveva lasciato la tomba. La creatura strisciava sul marciapiede bagnato, trascinandosi su un solo braccio sottile e su due gambe simili a stuzzicadenti. I topi la stavano facendo a pezzi, e quando la cosa raggiunse Jim il suo viso scheletrico si sollevò e la pupilla appannata di un occhio lo inquadrò. Dalla sua bocca uscì un rantolo soffocato quando diversi topi si incunearono attraverso le labbra grigiastre alla ricerca di carne più morbida. Jim attraversò la strada senza aspettare il cambio del semaforo. Pensò che la creatura avesse detto Perchéééé?, e a quella domanda lui non sapeva rispondere. Provò un senso di vergogna alla bocca dello stomaco. Quando era morto l’amore? Si era spento quando era iniziata quella morte vivente della carne umana, o era già morto e marcito molto tempo prima? Proseguì lungo le strade buie dove i palazzi incombevano come lapidi tombali, e si sentì schiacciato sotto il peso della solitudine. Jim ricordava la bellezza: un fiore giallo, il profumo di una donna, il caldo luccichio di capelli femminili. Ricordare era un’altra sbarra nella prigione delle ossa; il potere della memòria lo tormentava senza pietà. Ricordava di aver passeggiato durante la pausa per il pranzo, di aver notato una ragazza particolarmente graziosa e di averla seguita per un paio di isolati, immerso nelle sue fantasie. Aveva sempre cercato l’amore, qualcuno a cui unirsi, e non ne aveva mai preso coscienza con tanta sensibilità come ora, ora che la città grigia era piena di topi e di morti irrequieti.
Qualcuno con una cavità al posto del viso gli passò accanto incespicando, le braccia frementi alla cieca. Ciò che una volta era stato un bambino lo superò correndo, e si lasciò alle spalle un odore di putrefazione. Jim abbassò la testa, e quando una folata di vento caldo lo investì perse quasi l’equilibrio e sarebbe andato a urtare contro un muro di cemento se non si fosse aggrappato a una cassetta postale imbullonata a terra. Continuò a camminare, inoltrandosi sempre più nella città, su marciapiedi che non aveva mai calpestato quando era ancora vivo. All’incrocio fra due strade sconosciute gli sembrò di udire della musica: lo strimpellio di una chitarra, il grugnito sordo di una batteria. Si girò per mettersi controvento, sfidando le folate che minacciavano di sollevarlo in aria, e seguì il suono. Due isolati più avanti una lampada stroboscopica pulsava in un atrio cavernoso. Un’insegna che diceva IL CORTILE era stata infranta, e sul davanti dell’edificio qualcuno aveva scritto con vernice a spray nera L’OSSARIO. Oltre l’ingresso c’erano figure che si muovevano: ballerini che ruotavano ai lampi delle luci stroboscopiche. Il frastuono della musica lo respinse - la sua ninnananna rimaneva la morbida grazia di Brahms, non la violenza roca del Rock Tombale - ma l’attività, il movimento, il calore dell’energia lo attirarono più vicino. Si grattò un prurito fastidioso alla base della nuca e restò sulla soglia mentre la musica e le luci lo avvolgevano. Il Cortile, pensò, occhieggiando la vecchia insegna. Era il nome di un locale dove forse un tempo avevano servito vino bianco accompagnato da una tranquilla musica jazz... un bar per persone sole, magari, dove i solitari andavano a conoscere i solitari. Adesso invece era L’Ossario: un regno di scheletri danzanti. Non era certo il suo genere di locale, ma... il suono, le luci e quei movimenti parlavano di un altro tipo di solitudine. Era un bar per morti viventi soli, e lui ne avvertiva il richiamo. Jim varcò la soglia e con una mano rinsecchita si lisciò le ciocche rimaste di capelli neri. Così adesso sapeva come doveva essere l’inferno: un pandemonio fumoso e puzzolente. Alcune delle creature che si contorcevano sulla pista da ballo erano prive di braccia e gambe, e una figura sottile perse una mano durante un volteggio. La carne avvizzita scivolò sul linoleum, fu calpestata mentre il suo proprietario cercava di raggiungerla, poi lui stesso fu spinto a terra e ridotto a una massa sussultante. Sulla pedana dell’orchestra c’erano due chitarristi, un batterista e una creatura senza gambe che pestava su un organo elettrico. Jim evitò la pista, attraversando la folla verso il bar incor-
niciato da un neon blu. I colpi picchiati sulla batteria lo offendevano in modo quasi osceno: gli ricordavano troppo da vicino i battiti del suo cuore prima che si fermasse per sempre. Era il tipico locale che sua madre - Dio l’avesse in gloria - gli avrebbe detto di evitare. Non aveva mai amato la vita notturna, e guardare i visi decomposti di certe persone là dentro era come vedere in anteprima i tormenti che lo attendevano... ma lui non voleva andarsene. Il suono della batteria era talmente forte da cancellare ogni pensiero, e per un po’ Jim poteva far finta che fosse davvero il suo cuore tornato a funzionare. E questo, capì a un tratto, spiegava perché L’Ossario fosse pieno di clienti. Era una presa in giro della vita, certo, ma era il meglio che si poteva avere. Il neon intorno al bar illuminava i visi decomposti come maschere di Halloween tinte di azzurro. Uno di loro, ormai ridotto a pochi brandelli di carne attaccati all’osso giallastro, urlò qualcosa di incomprensibile e bevve da una bottiglia di birra. Il liquido colò dallo squarcio nella sua gola e scese sulla camicia viola e sulle catene d’oro. Le mosche volavano a frotte intorno al bar attirate dal fetore, e Jim rimase a guardare mentre i clienti premevano in avanti. Frugavano nelle tasche e nelle borsette e offrivano al barista topi ammazzati di fresco, scarafaggi, ragni e millepiedi, e quello li infilava in un ampio vaso di vetro che aveva sostituito il registratore di cassa. Era quella la valuta usata nel Mondo dei Morti, e con un topo particolarmente grasso si potevano comprare due bottiglie di Miller Lite. Altre persone ridevano e strillavano... suoni fragili, ansimanti, che avevano ben poco di umano. Vicino alla pista scoppiò una rissa, e un braccio contorto cadde con un tonfo sul linoleum fra il ruggito divertito degli spettatori. “Io ti conosco!” Un viso di donna si parò davanti a Jim. Aveva ciocche di capelli grigi, un trucco molto pesante sulle guance livide, la fronte gonfia e screpolata da qualche tremenda pressione interna. Il suo abito metallizzato scintillava sotto le luci, ma puzzava di camposanto. “Offrimi da bere!” disse, agguantandogli un braccio. Un lembo di carne sul collo svolazzò, e Jim si accorse che aveva la gola tagliata. “Offrimi da bere!” insistette. “No,” disse Jim, cercando di liberarsi. “No, mi dispiace.” “Tu sei quello che mi ha uccisa!” urlò lei. La sua stretta si fece più forte, minacciando di spezzare l’avambraccio di Jim. “Sì, sei tu! Mi hai ammazzata, vero?” E raccolse una bottiglia vuota dal banco del bar, il viso contorto da una smorfia rabbiosa, e fece per colpirlo alla testa. Ma prima che potesse abbassarla, un uomo la sollevò di peso e l’allontanò da Jim; le sue unghie graffiarono fino all’osso il braccio di Jim.
Lei urlava ancora, lottando per liberarsi, e l’uomo, che portava una maglietta con la scritta L’Ossario dipinta a mano, disse: “È dei nostri da poco. Spiacente, amico.” Poi la trasportò verso l’ingresso. L’urlo della donna si fece più acuto, e Jim vide la sua fronte spaccarsi e colare come una lumaca schiacciata. Rabbrividì, arretrando verso un angolo buio... e qui urtò contro un altro corpo. “Chiedo scusa,” disse. Fece per allontanarsi con una breve occhiata alle spalle. E la vide. Stava tremando, le braccia ossute strette intorno al petto. Aveva ancora quasi tutti i suoi capelli bruni, anche se in certi punti si erano ridotti allo spessore di ragnatele e lasciavano intravedere lo scalpo. Comunque, erano capelli splendidi. Sembravano quasi vivi. I suoi occhi azzurri erano liquidi e terrorizzati, e forse un tempo il suo viso era stato bello. Aveva perso quasi tutto il naso, e la guancia destra era costellata di crateri dai bordi grigi. Indossava abiti dettati dal buon senso: una gonna e una camicetta con un cardigan abbottonato fino al collo. Gli abiti erano sporchi, ma intonati. Aveva l’aria di una bibliotecaria, decise Jim. Non apparteneva certo all’ambiente dell’Ossario... ma in fondo, a quale ambiente potevano appartenere loro, adesso? Stava per allontanarsi quando notò un’altra cosa che scintillò solo per un momento. Intorno al collo, che faceva capolino dal cardigan, c’era una catenella d’argento, e da quella penzolava un cuoricino sbalzato. Era una cosa fragile e minuscola, come un pezzetto di porcellana, ma ebbe il potere di raggelare Jim prima che facesse un altro passo. “È... molto grazioso,” disse. Indicò con un cenno il cuoricino. Subito la mano di lei lo coprì. In alcuni punti la carne delle sue dita si era staccata, come era successo anche a quelle di Jim. Lui la fissò negli occhi, lei fissò - o almeno finse di farlo - dietro le sue spalle. Tremava come un cerbiatto spaventato. Jim esitò, aspettando una pausa nei tuoni musicali, e spostò nervosamente lo sguardo sul pavimento. Colse una ventata di putrefazione, e non capì se venisse da lei o da se stesso. Che importanza aveva? Anche lui rabbrividì, non sapendo che altro dire ma con il desiderio di dire qualcosa, qualsiasi cosa, per stabilire un contatto. Sentiva che da un momento all’altra la ragazza - la cui età poteva variare fra i venti e i quarant’anni, poiché la Morte sapeva snellire e fare avvizzire al tempo stesso - poteva superarlo con un balzo e perdersi fra la fol-
la. Infilò le mani in tasca, per evitare che lei vedesse le ossa esposte delle dita. “È la prima volta che vengo qui,” disse. “Non esco molto spesso.” Lei non rispose. Forse ha perso la lingua, pensò lui. O la gola. Forse era pazza, il che poteva essere una possibilità reale. Lei si premette contro la parete, e Jim vide quanto fosse veramente magra, con la pelle tesa sulle ossa fragili. Prosciugata dal di dentro, pensò Jim. Proprio come me. “Mi chiamo Jim,” le disse. “E lei?” Di nuovo, nessuna risposta. Non ci so veramente fare! si torturò lui. I bar per persone sole non erano mai stati il suo “pascolo”, come si diceva un tempo. No, il suo mondo erano stati i suoi libri, il suo lavoro, i suoi dischi di musica classica, il suo piccolo appartamento stracolmo che adesso sembrava una cripta. Era inutile restare là e cercare di fare conversazione con una ragazza morta. Aveva osato mangiare la pesca, come si era lagnato il Prufrock di Eliot, e l’aveva trovata bacata. “Brenda,” disse lei, in modo così repentino da farlo sussultare. Aveva ancora la mano sopra il cuoricino, e teneva l’altro braccio di traverso sui seni cascanti. La testa era china da un lato, e i capelli coprivano la guancia bucherellata. “Brenda,” ripeté Jim, e sentì che la sua voce tremava. “È un bel nome.” Lei alzò le spalle, sempre premuta nell’angolo come se cercasse di infilarsi in una fessura fra i mattoni. Si poneva il momento di un’altra decisione. Jim poteva girarsi e fare tre passi, infilandosi nella massa urlante al bar e lasciando libera Brenda nel suo angolo. Oppure lei poteva dirgli di andarsene, o cominciare a insultarlo, o strillare come una demente e allora questa sarebbe stata veramente la fine. Il momento passò, senza che nessuna di quelle cose si verificasse. C’erano solo i colpi della batteria, che risuonavano in tutto il club con il battito di un cuore contraffatto mentre gli scarafaggi proseguivano le loro corse sul banco e i ballerini continuavano a perdere brandelli della loro carne come foglie in autunno. Sentì che doveva dire qualcosa. “Stavo passeggiando. Non avevo intenzione di venire qui.” Forse lei aveva annuito. Forse; non poteva esserne certo, perché quelle luci combinavano degli scherzi. “Non avevo nessun altro posto dove andare,” aggiunse. Lei parlò, con un sussurro che Jim udì a malapena: “Nemmeno io.” Jim spostò il peso del suo corpo di lato... che peso gli rimaneva, ormai? “Vuole... ballare?” chiese, in mancanza di meglio. “Oh, no!” Lei sollevò di scatto gli occhi. “No, non so ballare! Voglio di-
re... un tempo ballavo, a volte, ma... non posso più ballare.” Jim capì cosa intendeva dire. Le ossa di Brenda erano troppo leggere e fragili, come le sue. Se fossero scesi sulla pista, sarebbero finiti a pezzi tutti e due. “Bene,” disse. “Nemmeno io so ballare.” Lei annuì, con espressione sollevata. Ci fu un istante nel quale Jim vide quanto doveva essere stata bella, non in modo appariscente, ma in modo tranquillo, come un merletto fatto a mano, e questo gli fece provare dolore al cervello. “È un locale rumoroso,” disse Jim. “Troppo rumoroso.” “Non... sono mai stata qui prima.” Brenda tolse la mano dalla collana, e tornò a proteggersi il petto con entrambe le braccia. “Sapevo che questo locale esisteva, ma...” Si strinse nelle spalle magre. “Non lo so.” “Lei è...” solitaria, fu sul punto di dire. Solitaria come me. “...sola?” chiese. “Ho degli amici,” rispose lei, troppo in fretta. “Io no,” disse lui, e lo sguardo della ragazza indugiò per qualche istante sul suo viso prima di spostarsi. “Voglio dire, non in questo locale,” si corresse subito. “Qui dentro non conosco nessuno, tranne lei.” Fece una pausa, poi dovette porle la domanda: “Perché questa sera è venuta qui?” Lei fece per parlare, ma poi richiuse la bocca. Io so perché, pensò Jim. Perché stai cercando, proprio come me. Sei uscita a passeggiare, e forse sei entrata qui perché non avresti sopportato di restare sola per un altro secondo. Quando ti guardo, è come se ti sentissi urlare. “Le andrebbe di uscire?” chiese. “A fare quattro passi, intendo. Adesso, così potremmo parlare?” “Io non la conosco,” disse lei, a disagio. “Anch’io non conosco lei. Ma mi piacerebbe.” “Sono...” La sua mano salì alla cavità del naso. “Brutta,” terminò. “Lei non è brutta. E poi, io non sono certo il principe azzurro.” Sorrise, facendo tendere la pelle sul viso. Forse Brenda sorrise; ma era difficile capirlo. “Non sono un pazzo,” la rassicurò Jim. “Non ho preso droghe, e non sto cercando nessuno a cui fare del male. Ho solo pensato che... le avrebbe fatto piacere un po’ di compagnia.” Per qualche istante Brenda non rispose. Le sue dita giocherellarono con il cuoricino. “Va bene,” disse finalmente. “Ma non troppo lontano. Solo intorno all’isolato.” “Solo intorno all’isolato,” accettò lui, cercando di non lasciar trapelare troppo la sua eccitazione. La prese con dolcezza per un braccio - lei non parve badare alle dita scarnificate - e la guidò cautamente fra la folla. La
sentì leggera, come un fascio di legnetti secchi, e pensò che perfino lui, con tutti i suoi muscoli rinsecchiti, sarebbe riuscito a sollevarla sopra la testa. Fuori, si allontanarono dal frastuono dell’Ossario. Il vento si faceva sempre più forte, e ben presto dovettero sorreggersi a vicenda per non essere spazzati via. “Si avvicina una tempesta,” disse Brenda, e Jim annuì. Le tempeste erano rapide e feroci, e i loro venti facevano vibrare i palazzi. Ma Jim e Brenda continuarono a camminare, dapprima intorno all’isolato e poi, dietro indicazione di Brenda, verso sud. I loro corpi erano piegati come punti interrogativi. In cielo, le nubi coprirono la luna e lampi azzurrognoli presero a guizzare. Brenda non parlava molto, ma era una buona ascoltatrice. Jim le parlò di sé, del lavoro che aveva avuto, di come avesse sempre sognato di poter avere un giorno una società tutta sua. Le raccontò un viaggio che una volta aveva fatto, in gioventù, al lago Michigan, e di come l’acqua gli fosse sembrata fredda. Le disse di un parco che una volta aveva visitato, e di come ricordasse ancora il suono delle risate allegre e il profumo dei fiori. “Mi manca il mondo com’era,” disse, prima di potersi fermare, perché nel Mondo dei Morti dare fiato a simili rimpianti era un crimine perseguibile. “Mi manca la bellezza,” proseguì. “Mi manca... l’amore.” Lei gli prese la mano, ossa contro ossa, e disse: “Io abitò qui.” Era un comunissimo palazzo di arenaria rossastra, con molte finestre frantumate dalle tempeste di vento. Jim non chiese di salire nell’appartamento di Brenda, si aspettava un saluto sui gradini d’ingresso. Ma lei lo teneva sempre per mano e adesso lo guidava su per quei gradini e oltre la porta priva di vetri. Il suo appartamento, al terzo piano, era ancora più piccolo di quello di Jim. Le pareti erano grigie, ma le luci rivelarono un tesoro... vasi di fiori in tutta la stanza e sulla scala antincendio. “Sono di seta,” spiegò Brenda, prima che lui potesse chiedere qualcosa. “Ma sembrano reali, non è vero?” “Sono... magnifici.” Su un tavolo Jim vide uno stereo, e accanto alle casse una collezione di dischi. Si chinò facendo scricchiolare le ginocchia, e cominciò a esaminare i suoi gusti musicali. Un’altra sorpresa lo attendeva: Beethoven... Chopin... Mozart... Vivaldi... Strauss. E sì, perfino Brahms. “Oh!” fece, e fu tutto quello che seppe dire. “In massima parte li ho trovati,” disse lei. “Vorrebbe ascoltare qualcosa?” “Sì. La prego.”
Lei iniziò con Chopin, e a mano a mano che il suono del pianoforte cresceva, così faceva il vento, fischiando nel corridoio e facendo tremare le finestre. Allora lei cominciò a parlare di sé: era stata una segretaria, in un impianto di refrigerazione dall’altra parte del fiume. Non si era mai sposata, anche se una volta era stata fidanzata. Il suo passatempo consisteva nel creare fiori di seta, quando riusciva a trovare il materiale. Sentiva soprattutto la mancanza dei gelati, gli disse. E l’estate... cos’era successo all’estate, come l’avevano conosciuta un tempo? Tutti i giorni e le notti sembravano fondersi in una cosa sola, e non c’era più nulla che ne rendesse diversi alcuni. Tranne le tempeste, naturalmente, e quelle potevano essere pericolose. Alla fine del terzo disco, erano seduti fianco a fianco sul divano. Fuori il vento era diventato fortissimo; la pioggia andava e veniva, ma il vento e i lampi restavano. “Mi piace parlare con te,” gli disse lei. “Mi sembra... di conoscerti da tanto, tanto tempo.” “È così anche per me. Sono felice di essere entrato in quel locale stasera.” Lui guardò la tempesta e ascoltò l’ululato del vento. “Non so come farò ad arrivare a casa.” “Non... è necessario,” disse Brenda, con voce pacata. “Mi piacerebbe che tu restassi.” Lui la fissò, incredulo. La base della nuca gli prudeva in modo spaventoso e il prurito si stava diffondendo alle spalle e alle braccia, ma lui non poteva muoversi. “Non voglio restare sola,” continuò lei. “Sono sempre sola. E che... mi manca il tatto. È sbagliato, sentire la mancanza del tatto?” “No. Non lo credo.” Lei si sporse in avanti, le labbra che quasi sfioravano le sue, gli occhi quasi imploranti. “Mangiami,” gli sussurrò. Jim rimase seduto immobile. Mangiami: l’unico modo rimasto per provare piacere nel Mondo dei Morti. Anche lui lo desiderava, ne aveva bisogno, in modo angoscioso. “Mangiami,” le sussurrò di rimando, poi cominciò a sbottonarle il cardigan. Il corpo nudo di Brenda era costellato di crateri, i seni avvizziti. Il corpo di Jim era pallido ed emaciato, e fra le cosce il pene era un pezzo di carne grigia e inutile. Lei si allungò verso di lui, Jim si inginocchiò accanto al suo corpo, e mentre lei lo incalzava “Mangiami, mangiami,” lui cominciò
a leccarle la pelle gelida. Poi i suoi denti si misero all’opera e staccarono il primo boccone. Lei emise un gemito e rabbrividì, sollevò la testa e cominciò a leccargli un braccio. Poi anche i suoi denti staccarono un morso di carne, e l’estasi percorse la spina dorsale di Jim come una scossa elettrica. Si avvinghiarono l’uno all’altra, tremanti, i denti all’opera sulle braccia e sulle gambe, sulla gola, sul petto e sul viso. Sempre più veloci, mentre il vento scrollava il palazzo e Beethoven tuonava: brandelli di carne caddero sul tappeto, e furono subito recuperati e consumati. Jim si sentiva rimpicciolire, trasformato da uno in due. L’attimo incandescente lo aveva avviluppato, e se avesse avuto lacrime da versare avrebbe pianto di gioia. Questo era amore, e quella era un’amante che al tempo stesso lo desiderava interamente e si donava a lui nello stesso modo. I denti di Brenda si strinsero alla base della nuca di Jim, affondando nella carne secca. Gli occhi di lei si chiusero rapiti mentre Jim le divorava le dita restanti della mano sinistra... e improvvisamente lei provò una sensazione nuova, uno zampettio intorno alle labbra. Il morso d’amore sul collo di Jim stava eruttando piccoli insetti dorati, come minuscole monete d’oro versate da una borsa, e il prurito di Jim si acquietò. Lui lanciò un grido, affondando il viso nella cavità addominale di Brenda. I loro corpi si intrecciavano, la carne veniva staccata a morsi, gli stomaci rinsecchiti si gonfiavano. Brenda gli staccò un orecchio, lo masticò e inghiottì. Un nuovo impeto di passione percorse Jim, che le morse le labbra poco per volta - sapevano davvero di pesche un pochino troppo mature - e le fece scorrere la lingua sui denti. Si baciarono a fondo, mangiandosi a vicenda pezzi di lingua. Jim si tirò indietro e abbassò il viso fra le sue cosce. Cominciò a divorarla, mentre lei si aggrappava alle sue spalle e urlava. Brenda inarcò il corpo. Gli organi sessuali di Jim erano là, i testicoli simili a frutti scuri e secchi. Lei spalancò la bocca, tese la lingua sbocconcellata e mostrò i denti; il suo viso senza guance, senza mento, si allungò verso l’alto... e Jim ebbe un sussulto convulso e lanciò un grido che superò perfino l’ululato del vento. Continuarono a cibarsi l’uno dell’altra, come amanti esperti. Il corpo di Jim si assottigliò ancora, con il viso e il petto quasi del tutto scarnificati. I polmoni e il cuore di Brenda erano stati consumati, e le ossa delle braccia e delle gambe erano a nudo. I loro stomaci si gonfiavano sempre di più. E quando furono prossimi all’esplosione, Jim e Brenda rimasero distesi sul tappeto cullandosi a vicenda con le braccia scheletriche, allungati su
frammenti di carne simili ai petali di strani fiori. Adesso erano una sola persona, l’uno dentro l’altro... e cos’altro poteva essere l’amore se non quello? “Ti amo,” disse Jim con ciò che rimaneva della sua lingua. Brenda emise un suono di assenso, incapace di parlare, e staccò un ultimo morso d’amore dalla sua ascella prima di rannicchiarsi contro di lui. Il disco di Beethoven terminò; quello successivo cadde sul piatto, e si levarono le note di un valzer di Strauss. Jim sentì tremare l’edificio. Sollevò la testa, dove rimaneva un solo occhio e anche quello era sazio di piacere, e vide che la scala antincendio vibrava come impazzita. Uno dei vasi di fiori fu improvvisamente strappato dal vento. “Brenda,” disse... e subito dopo il vaso frantumò il vetro e il vento fece il suo ingresso frustando le pareti. Un’altra finestra esplose, e la seguente folata di vento caldo si insinuò nelle cavità dei due corpi prosciugati e li sollevò dal pavimento come aquiloni frastagliati. Brenda ansimò, le braccia strette intorno alla colonna vertebrale di Jim e lui con le braccia senza mani infilate nella cassa toracica di lei. Il vento li scagliò contro la parete, frantumando ossa come stuzzicadenti mentre il valzer proseguiva per un paio di secondi prima che il tavolo e lo stereo si rovesciassero. Nei due amanti non c’era tuttavia nessun dolore, e nessuna ragione di aver paura. Erano insieme, in quel Mondo dei Morti dove amore era una parola sporca, e insieme avrebbero affrontato la tempesta. Il vento li scrollò, li gettò da una parte e poi dall’altra... e quando si ritirò dall’appartamento di Brenda portò con sé i due corpi, lassù nell’aria carica di elettricità sopra i tetti cittadini. Volarono, sollevati sempre più in alto, ossa allacciate a ossa. La città scomparve sotto di loro, e salirono fino alle nuvole dove danzava il lampo azzurro. Conobbero una grande gioia, e ai limiti superiori delle nubi, dove il lampo era più rovente, pensarono di riuscire a vedere le stelle. Quando la tempesta cessò, un ragazzo nel lato nord della città trovò uno strano oggetto sul tetto del suo palazzo, accanto alla piccionaia. Sembrava una costruzione di ossa calcinate e carbonizzate, talmente fuse insieme da non lasciar capire dove finisse un osso e dove iniziasse l’altro. E in quella massa di ossa c’era una catena d’argento, con un piccolo pendaglio. Il ragazzo vide che era un cuoricino. Un minuscolo cuore bianco, appeso in mezzo al groviglio delle ossa di qualcuno. Era abbastanza grande per capire che qualcuno - due persone, magari -
era riuscito a fuggire dal Mondo dei Morti la notte prima. Morti fortunati, pensò. Allungò le dita verso il cuoricino penzolante, che al suo tocco si ridusse in cenere. FINE