ARNOLDO MONDADORI EDITORE
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ISBN 88-04-40092-7 © 1995 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I edizione settembre 1...
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ARNOLDO MONDADORI EDITORE
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ISBN 88-04-40092-7 © 1995 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I edizione settembre 1995
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«Siamo l’unico paese moderno in cui un sistema politico, il fascismo, dato per morto e sepolto il 25 aprile 1945, ha visto tornare al governo nel 1994 un partito neo o postfascista che ne ha ereditato direttamente idee, costume, forme. Qualcosa di molto diverso dai movimenti di estrema destra del resto d’Europa, degli Stati Uniti, dei paesi ex comunisti. Fascismo perenne comparso in Italia nel 1919 e continuato per settantasei lunghissimi anni, rimasto come brace sotto la cenere anche nei giorni della sconfitta e dell’esecrazione. Credo proprio che allora quello che più piaceva del fascismo a uno come me fosse il suo relativismo, il suo non essere scienza come il marxismo, il suo essere qualcosa che italicamente si adattava al giorno per giorno. Andava bene alla nostra anarchia intruppata. Alla nostra angoscia di contadini inurbati perché procedeva per semplicismi. Il debito pubblico si ingrossava a valanga? Lui, il duce, lo consolidava Poi per tutta la durata del regime nessuno straniero avrebbe più sottoscritto uno dei nostri buoni del tesoro, ma lui non lo diceva, i giornali non lo dicevano. Per quelli che l’hanno vissuto, un dentro-fuori ancor oggi irrisolvibile. Vent’anni rimossi o aggiustati nei successivi cinquanta, un continuo chiedersi: “Ma possibile? E io dov’ero?”. Per quelli che per mezzo secolo hanno cercato di cancellare o di riaggiustare le memorie, il dentro-fuori è diventato, oggi, autoanalisi: ma davvero ti sentivi tiranneggiato, soffocato, umiliato o lo hai detto quando ne sei uscito? Davvero quella tirannia ti schiacciava o “era un’abitudine, una realtà magari importuna della quale si poteva brontolare o ridere, volta per volta, ma che nessuno avrebbe pensato seriamente di mettere in discussione”? Oggi il neofascismo italiano è un morto presunto, un fu Mattia Pascal, anche lui guadagnato alla semantofobia, cioè all’arte di cancellare le parole che evocano fantasmi e pregiudizi, sostituendole con dei sinonimi paravento come Alleanza nazionale. Fino al dicembre ’94 il Movimento sociale italiano affermava la sua fedeltà al fascismo perenne, a un progetto: fare in qualche modo rivivere il fascismo mussoliniano, la terza via, il superamento della democrazia corrotta e inetta, le giuste gerarchie, lo stato autoritario. Al congresso di Fiuggi sui “valori indiscutibili” è calata la una cortina nebbiosa, si è parlato solo di democrazia, in termini ambigui ma comunque laceranti, eretici per i camerati vecchi e nuovi. L’Italia incivile, bestiale c’era prima del fascismo e ci sarà dopo, perché l’Italia civile o incivile che fosse è stata dentro il fascismo. Non bisognerebbe mai dimenticare che quando parliamo del fascismo parliamo di noi.»
Giorgio Bocca è nato a Cuneo nel 1920. Ha preso parte alla Resistenza nelle formazioni di Giustizia e Liberà e, nell’immediato dopoguerra, ha iniziato la carriera di giornalista. Redattore alla «Gazzetta del Popolo» e all’«Europeo», inviato del «Giorno», è stato tra i fondatori della «Repubblica» nel 1975. Tra i suoi libri ricordiamo: Storia dell’Italia partigiana (Laterza 1966; Mondadori 1995), Storia dell’Italia nella guerra fascista (Laterza 1969), Palmiro Togliatti (Laterza 1973, Oscar Mondadori 1991), La Repubblica di Mussolini (Laterza 1977, Mondadori 1994), Storia popolare della Resistenza (Laterza 1978), Il terrorismo italiano (Rizzoli 1978), Noi terroristi (Garzanti 1985), L’Italia che cambia ( Garzanti 1987), Gli italiani sono razzisti? (Garzanti 1988), La disunità d’Italia (Garzanti 1990), Il provinciale (Mondadori 1992), Metropoli (Mondadori 1993), e Il sottosopra (Mondadori 1994).
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INDICE I Cosa nostra Il grande teatro Prodotto in Italia Democrazia sconosciuta Il massacro Nati autoritari Paura della libertà La nazione disunita II La tirannia bonaria L'ambiguo seduttore L'omazz Il militarista disarmato Cattolici e romani Quale nazionalismo? L'incerto antifascismo III I fantasmi di Salò La repubblica lacustre Il fascino della sconfitta Il ritorno alle origini I miti di Salò Dove è finito Minotti? IV Ritorna la Fiamma Gli stranieri in patria La guerra fredda I due ghetti La difficile sopravvivenza V Mistici e violenti La suggestiva tradizione Il negromante del fascismo L'Ordine Nuovo Il terrorismo nero VI La nuova destra Il popolo sovrano Il ringhio del mastino La destra malavitosa Il villaggio globale Il garantismo peloso VII Il lavacro di Fiuggi Il pianto dei camerati Ma è davvero morto? Trascinati e impauriti Indice dei nomi 4
I COSA NOSTRA
II grande teatro A pensarci bene una cosa unica di quegli anni, mai accaduta prima, mai dopo, fu il travestimento continuo, quel mettere e togliere divise, distintivi, cappelli, fazzoletti, stivali di uno stato a tre piani, cattolico, monarchico, fascista. E passare per tutte le uniformi e i simboli dei tre stati: figlio della lupa, avanguardista, giovane fascista m tutte le fogge del panno grigioverde fino alla sahariana nera, agli stivali e ai cappelli goliardici dei gruppi universitari fascisti, i GUF. Intanto, da cattolico, gli abiti fatti per la prima comunione e la cresima e poi la casacca da moschettiere dei crociatini, con il cuore aperto di Gesù trapunto sulla seta, sopra la croce, i petali di fiori che piovevano dai balconi, in processione, petali, lenzuoli candidi, le case della città vecchia, l'azzurro tra i tetti e lui che ci vede da lassù, dall'alto dei cieli, una gran luce, un canto, un rombo: «Noi vogliam Dio che è nostro padre, noi vogliam Dio che è nostro re». Ma anche boyscout con il cappello da ranger, a tesa larga, la camicia azzurra, le brache corte cachi e il coltello svizzero con dieci lame, indispensabile alla sopravvivenza fra le lucertole, le coppiette e i cespugli, lungo il greto del fiume Stura. Più le monarchiche, le stellette, la penna nera degli alpini, la marcia reale, di cui nessuno sapeva le parole ma che dava la carica. Avendo per maestro in quel gran teatro un duce che cambiava continuamente di abito, da contadino, da pilota, da maresciallo dell'impero, da minatore, da marinaio, da sciatore, da bagnante a Riccione, da accademico con feluca, da signore in tight, con elmetti piumati, fez, caschi di cuoio, cerate da tempesta. Il suo via alla bonifica postina come la marcia trionfale dell'Aida, centinaia di mine che brillano al suo arrivo, i trattori che fischiano il loro saluto e poi si mettono in moto tutti assieme, più di trecento, come una divisione corazzata. Così attore da prevedere e recitare la sua fine: «Venti uomini decisi a giungere fino a me non troverebbero la resistenza di nessun difensore. Ho qui delle buone rivoltelle. Sono però ancora indeciso se al momento della irruzione dovrò sparare o dovrò subire. I miei nemici gongoleranno e non avranno alcuna pietà quando potranno ammirare lo spettacolo del mio cadavere informe, crivellato di colpi e sfracellatosi per cadere, a furia di popolo, dalla finestra sul selciato della piazza». La defenestrazione italiana, le torri, i soldati, l'invettiva di Rigoletto. Per quelli che ci sono stati un dentro-fuori ancor oggi irrisolvibile. Vent'anni di vita rimossi o aggiustati nei successivi cinquanta, un continuo chiedersi: «Ma davvero? ma possibile? e io dove ero?». Un continuo sovrapporre il fascismo che c'era, e onnipresente ma come un sogno, come un plagio della realtà terragna di un paese agricolo che stava diventando industriale e che sarebbe cambiato comunque, ci fossero o non ci fossero stati i fasci. Già, per i cinquant'anni del dopo-fascismo abbiamo evitato come il peccato di guardare nella nostra vita senza chiederci quale parte del mutamento era dovuta ai fasci e al 5
loro incantatore e quale alle automobili che cominciavano a girare per le nostre città, agli asfalti che cominciavano a coprire le nostre strade sterrate, alle radio, meraviglia delle meraviglie, che gracchiavano e cantavano nelle nostre case. E la curiosità, la sorpresa, l'adattamento a quel cambiare che aveva poco o nulla a che fare con il fascismo ci facevano però apparire il regime come un suo aspetto sopportabile, a volte gradito. La nostra famiglia uscì solo allora da un artigianato che risaliva alla preistoria. Certi pomeriggi, da ragazzo, andavo con mia nonna a vedere la nostra fabbrica, una corderia che stava nei campi dove poi hanno costruito la stazione ferroviaria. Una fabbrica così: due filari di gelsi, quattro ruote di carro, due da una parte, due dall'altra a cinquanta metri di distanza, fra le une e le altre le filiere della canapa che stava a macerare in una grande vasca da cui salivano odori forti di una distruzione-fabbricazione che mi sembrava magica. Era la corderia di mio cugino Pellegrino che aveva negozio in via Roma; la mandava avanti uno arrivato dalla campagna non so quanti anni prima, dormiva e mangiava in una baracca di legno e di latta, vicina alla vasca, non parlava, mugolava, era di quelli che non sanno né leggere né scrivere ma sanno tutto del loro mestiere. Dei bocia che arrivavano a piedi, all'alba, dai borghi al di là dello Stura, facevano girare le ruote, con dolci cigolii: mi guardavano come se fossi un principino, dalla cisterna saliva quell'odore fresco e marcio che per me era l'odore della ricchezza. E quando mia nonna mi disse che il cugino Pellegrino aveva venduto perché lì sarebbe sorta la nuova stazione mi veniva da piangere, ma non c'era il tempo per piangere in quella corsa, già costruivano il grande viadotto della ferrovia Torino-Nizza, automobili sopra, ferrovia sotto, suicidi da entrambi i piani, in arrivo da ogni parte del Piemonte e della Liguria alla fama di quel volo finale unico, più di cento metri, e non bastavano reti e griglie a fermarli. Tutto cambiava, i mostri rombanti della Cuneo - Colle della Maddalena si lanciavano per i tornanti, Mercedes d'argento, rosse Alfa Romeo; dalle parti di Madonna dell'Olmo tiravan su una cartiera che se il vento girava male appuzzava tutta la città, e alle basse del Gesso spariva lo sferisterio, palloni volanti lungo gli antichi bastioni, appariva una piscina, e tutto ciò con il fascismo aveva a che fare relativamente ma, quando il fascismo finì, per quasi mezzo secolo abbiamo evitato di parlarne, come se quella nostra continuità di vita fosse stata infamata, resa tabù una volta per sempre dai grandi fasci littori scalpellati via dopo il 25 aprile del '45 agli ingressi del viadotto o dalle scritte nere che resistevano sulle pareti delle case. Per quasi mezzo secolo abbiamo vissuto come dei centauri che si incontravano ma fingevano di non vedere che nella parte inferiore c'era qualcosa che non potevano nascondere, con quella guerra partigiana a far da saracinesca fra passato e presente, a parti rovesciate, antifascisti al governo e fascisti nel ghetto. Per quelli che per mezzo secolo hanno cercato di cancellare o di riaggiustare le memorie, il dentro-fuori è diventato, oggi, autoanalisi: ma davvero ti sentivi tiranneggiato, soffocato, umiliato o lo hai detto quando ne sei uscito? Davvero quella tirannia ti schiacciava o «era un'abitudine, una realtà magari importuna della quale si poteva brontolare o ridere, volta per volta, ma che nessuno avrebbe pensato seriamente a mettere in discussione»? E tu chi eri veramente? Quello che gridava il suo entusiasmo la sera radiosa del '36 in cui il duce annunciò «la riapparizione dell'Impero sui colli fatali di Roma» o l'altro di quattro anni dopo, non più fascista o italiano deluso, quel 14 giugno 1940 quando una squadra navale francese, a quattro giorni dalla dichiarazione di guerra, era arrivata indisturbata davanti a Genova e indisturbata l'aveva bombardata per un'ora, inseguita invano, a cose fatte, da un vecchio torpediniere, il Calatafimi, comandato dal tenente di vascello Giuseppe Brignole che ebbe una medaglia, tanto per riparare alla magra figura, come se la nostra aviazione con tutte le sue basi nella pianura padana non esistesse.
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Ora è difficile capire quei mutamenti d'animo, quei fatti lontani si sono come schiacciati l'uno sull'altro, è difficile spiegare a chi non c'era come fu possibile passare dall'adorazione del duce all'esposizione del suo cadavere in piazzale Loreto. Il fascismo di regime ebbe una durata brevissima, dal '26, anno delle leggi eccezionali, al '43, e dentro si stiparono cose così diverse, così contraddittorie che ora stentiamo a rimetterà un po' di ordine. Come abbiamo fatto, noi poveri, ad avere una delle flotte sottomarine più grandi del mondo? Come abbiamo potuto mantenere alle armi milioni di uomini e riuscire a mangiare, a campare? Come fu possibile che in un imperialismo straccione come il fascista potesse fiorire la grande pittura futurista, grande come l'espressionismo, una grande architettura, e che in via Panisperna a Roma ci fosse una scuola di fisica fra le più avanzate del mondo? E come è stato possibile che quelli della mia generazione, arrivati fino alla guerra senza capire la fragilità del regime, senza avere il coraggio di denunciarla, ce l'abbiano poi fatta a mettere assieme la seconda Resistenza d'Europa, seconda solo alla jugoslava? Eravamo arrivati a un regime autoritario senza essere mai stati veramente democratici, il fascismo era riuscito a irreggimentarci ma non a cambiarci dentro perché nelle nostre case, nelle nostre famiglie c'era quanto bastava per essere dei cattivi fascisti ma nulla o non abbastanza per farci antifascisti, eppure noi, il paese, avevamo in corpo un'enorme capacità di sopravvivenza. Il regime del partito unico, dicevo, durò diciassette armi, ma si potrebbero togliere anche gli ultimi cinque quando era ormai subalterno al nazismo. In quei pochissimi anni in cui fu veramente se stesso il fascismo si consumò nel tentativo di fare di questo «grandissimo, piccolissimo popolo» qualcosa di diverso da quello che si era formato nei secoli, e della diarchia o triarchia una dittatura monolitica, totalitaria, senza andare più in là del partito unico e dei compromessi. Stalin e Hitler non cambiavano mai la loro uniforme grigia, simbolo del potere assoluto senza decorazioni, in mezzo ai generali con il petto coperto di medaglie e di nastrini. Il nostro duce, nella giostra delle divise e dei cappelli, forse cercava di capire che cosa ci stesse a fare in un paese il cui governo «più che difficile era mutile». E noi con lui a trasformare la politica in un teatro che ci trascinava da un'avventura all'altra senza darci il tempo di vedere il vuoto retrostante. Fin che arrivò la guerra ad aprirci gli occhi.
Prodotto in Italia Siamo l'unico paese moderno in cui un sistema politico, il fascismo, dato per morto e sepolto il 25 aprile 1945, ha visto tornare al governo nel 1994 un partito neo o postfascista che ne ha ereditato direttamente idee, costume, forme. Qualcosa di molto diverso dai movimenti di estrema destra del resto d'Europa, degli Stati Uniti, dei paesi ex comunisti, patologie o sfoghi giovanili senza sbocco politico. Fascismo perenne comparso in Italia nel 1919 e continuato per settantasei lunghissimi anni, rimasto come brace sotto la cenere anche nei giorni della sconfitta e della esecrazione. Un'idea della politica conosciuta e praticata nel mondo, ma nata in un paese che dal tempo di Machiavelli non aveva più prodotto cultura politica, vissuto per secoli sotto dominazioni straniere, sicché, una volta unito, aveva copiato la sua costituzione dalla francese. Imitato dal nazismo tedesco, dalla Guardia di ferro rumena, dal rexismo belga, dalla Falange spagnola di José Antonio Primo de Rivera, persino dall'Inghilterra di Mosley e poi dal caudillismo e dal peronismo sudamericano. Del fascismo sono state date numerose definizioni, la più vicina al vero è forse quella di Fiero Gobetti, «autobiografia della nazione», che ricalca il «naturale adattamento all'indole razziale e storica di un popolo» del Cuoco. «Islandesi, svizzeri, inglesi, 7
americani» scriveva Giuseppe Prezzolini «sono nati democratici. Noi autoritari e faziosi. Che l'italiano sia un popolo democratico è una assurdità in cui possono credere solo dei professori di scienze politiche. Forse non sono stato fascista perché ero troppo poco italiano.» Chi lo ha vissuto questo fascismo è stato segnato dalle sue seduzioni e dalle sue delusioni, ma non ha mai capito bene che scienza politica fosse, non dava il tempo per capire nei suoi continui adattamenti e prove e fumo di propaganda. Ricordo una riunione del '38, quando venni inserito d'autorità in una commissione che doveva esaminare la cultura fascista degli aspiranti gerarchi. Fu un'esperienza surreale. Tutti parlavano di cose che non c'erano, che si fingeva ci fossero: le corporazioni che mediavano un bei niente fra capitale e lavoro, la Camera dei fasci e delle corporazioni, un Parlamento di parata mai interpellato, la scuola fascista dove insegnavano professori liberali, la riforma fascista della scuola che arrivò a fascismo morente, il Gran consiglio che il duce non riuniva mai e che si riunì solo per decretare la morte del regime, la mistica fascista che nessuno sapeva ci fosse. Ho appreso dai libri, molti anni dopo, che quella mistica c'era, aveva una scuola a Milano, nel Covo di via Paolo da Cannobio, e che nel suo sacrario si conservava la pistola di Mussolini e il primo gagliardetto. Diretta da Niccolo Giani, vi insegnavano anche dei futuri antifascisti, intrattenendo con Mussolini, su riviste specializzate mai viste nella mia città, discussioni inutilmente ardite sulla fede che era «più forte delle armi e del denaro». Ma, a ben pensarci, non credo che la clandestinità di quella arcana dottrina fosse casuale, probabilmente era lo stesso Mussolini, buon giornalista, a capire che gli italiani ne avrebbero ghignato come poi ghignarono del passo romano e del voi e di tutto ciò che palesemente si distaccava dalla loro indole e dal loro scetticismo. L'antifascismo ha creduto di esaurire la definizione del fascismo presentandolo come il diverso da se stesso. «Ma contrapporre antifascismo a fascismo» ha osservato lo storico Delio Cantimori «è un discorso senza senso. Né l'uno né l'altro sono una unità, si tratta di guardare dentro queste realtà complesse. Il fascismo è come la balena di Moby Dick, una ricerca senza fine, seguendo l'interesse psicologico e umano per un certo tipo di personaggio, il fascista delle origini, dalla coerenza fosca e luciferina ma disinteressato, come i giacobini, con quel loro quid psicologico inafferrabile.» E gli dà ragione il fascista estremo Julius Evola: «Il reato di apologia di fascismo contemplato dal codice repubblicano è assurdo perché non si dà contemporaneamente una definizione del fascismo. Assurdo perché di quello che conosciamo come fascismo fecero parte anche idee che ebbero rilievo in altri regimi, magari democratici. Sarebbe stata più giusta una legge contro l'apologia del totalitarismo». Già, ma come farla approvare da uno dei maggiori partiti antifascisti, il comunista, di stampo staliniano? Se questo fascismo non era comprensibile, definibile da quanti lo vivevano, perché fin quasi alla guerra ebbe per noi qualcosa di rassicurante, di giusto? C'erano anche gli altri, certo, mandati in carcere, al confino, in esilio, ma il consenso era grande. E credo che questo appoggio e questa simpatia derivassero proprio dall'«autobiografia della nazione» che lo viveva come qualcosa di laico che l'aveva emancipata dai due tradizionalismi dominanti e soffocanti della monarchia e della chiesa. Il fascismo non era contro di essi a cui la maggioranza degli italiani restava profondamente attaccata, ma da «terzo incomodo» permetteva di guardarli senza eccessive reverenze, senza pesanti dipendenze. Era un potere nuovo che apriva le porte della politica e dell'amministrazione statale alla piccola e media borghesia, che poteva dare posti, stipendi, piccoli e grandi privilegi. Avrebbe voluto essere una religione, ma agli italiani piaceva proprio perché non lo era, perché nessuno conosceva o capiva i suoi dogmi, mentre tutti venivano coinvolti nel suo teatro, nel suo vitalismo. Credo proprio che quello che più piaceva del fascismo a uno come me fosse il suo 8
relativismo, il suo non essere scienza come il marxismo, il suo essere qualcosa che italicamente si adattava al giorno per giorno, che dipanava il suo filo nero giorno per giorno. Andava bene alla nostra anarchia intruppata, alla nostra angoscia di contadini inurbati perché procedeva, come del resto tutti i regimi autoritari per semplicismi, Il debito pubblico si ingrossava a valanga? Lui, il duce, lo consolidava. Poi, per tutta la durata del regime nessuno straniero avrebbe più sottoscritto uno dei nostri buoni del tesoro, ma lui non lo diceva, i giornali non lo dicevano. I suoi progetti sociali, militari, di politica estera non avevano nulla di organico, erano cose che crescevano su se stesse? Ma non era andata così anche nell'Italia prefascista? A che cosa era servita la politica giolittiana di spendere soldi e uomini per degli «scatoloni di sabbia»? A dare non solo nuove tasse ma anche sogni. E un grande sogno era stata nel fascismo la conquista dell'impero, niente più di un sogno, neppure una nuova frontiera, un paese povero, ingovernabile, che lui per primo, il duce, dimenticava presto affidandolo a oscuri proconsoli. La sola cosa che noi provinciali conoscessimo di quell'impero era il carcadè, un tè color rosso, acidulo. Eppure il carrozzone arrivato con la guerra grossa e con quella civile all'ultima stazione è ancora qui, sta di nuovo nei palazzi del potere, pare che stia ritrovando un consenso popolare. Un mistero. Forse buffo, forse tragico. Su cui facciamo queste riflessioni che non sono una nuova storia del fascismo. Dio ne scampi.
Democrazia sconosciuta Una costante della scuola italiana è quella di rimuovere la storia del mezzo secolo precedente, quanto a dire degli italiani ancora in vita, ancora al potere. La mia generazione ha rimosso la tragedia della prima guerra mondiale, salvo le celebrazioni e le retoriche, e identica sorte è toccata alla seconda e alla Resistenza. C'è un particolare accanimento nel ripudiare con i più vari pretesti la storia nazionale: il Risorgimento degli eroi in quanto borghese e monarchico, quello senza eroi perché dissacratore del nostro riscatto, lo stato liberale in quanto elitario e repressore, la prima guerra mondiale come inutile carneficina e la seconda perché l'abbiamo persa, il fascismo come dittatura oppressiva e la Resistenza perché comunista. La paura della storia sembra congenita, la gente comune ha in qualche modo capito che parlar di storia, interrogarsi sulla storia non è prudente, che c'è nella storia qualcosa di sconveniente. Mio nonno Giovanni Re, che combatté a Custoza e poi nella repressione del brigantaggio, aveva una memoria precisa dei luoghi che aveva visto, dei fatti d'arme a cui aveva partecipato, ma non si era mai chiesto la ragione della sconfitta di Custoza o almeno preferiva non parlarne, né si era mai chiesto perché i contadini del Sud stavano dalla parte dei «briganti», mentre i notabili liberali e massoni da quella del re. Generazione dopo generazione, gli italiani sono entrati nella res publica avendo alle spalle un vuoto di storia, non casuale, una specie di limbo in cui i conflitti e le responsabilità potevano diluirsi, placarsi, consentire l'eterno trasformismo. Quando è che noi di istruzione elementare o anche classica abbiamo saputo cosa era stata realmente la democrazia nell'Italia prefascista? Non prima della caduta del fascismo. Forse perché quella democrazia non aveva né padre, né madre, era stata estorta all'assolutismo; gli stessi movimenti patriottici che si erano battuti per l'unità del paese, monarchici, repubblicani, carbonari, massoni non si erano preoccupati delle forme del governo nazionale, erano rimasti incerti fra repubblica più o meno federalista e monarchia più o meno centralista sicché era mancata la capacità di darsi istituzioni sentite come proprie dal popolo. La monarchia, vincente, si era affidata alla consacrazione sbrigativa dei plebisciti; «In testa sarà la bandiera italiana. 9
Ciascuno deporrà nell'urna la propria scheda, poi il gruppo si scioglierà con quella calma e quella dignità che provengono dalla coscienza di aver fatto il proprio dovere». Fedeli sudditi di una monarchia sconosciuta! Quanti fra noi sapevano che lo Statuto, la legge fondamentale del regno, era stato piegato ai voleri del sovrano, autorizzato a emanare decreti-legge, a revocare ministri, a nominare i senatori in una corte che era un accampamento militare o di caccia, da Montecristo alle Alpi, «padri della patria» e «re buoni» a cacciar stambecchi e a passare in rivista il Savoia cavalleria? Gli odiatori della storia nazionale negano anche l'evidenza: il Risorgimento non è stato solo un regalo del resto d'Europa e il primo regno della «grande destra» degli Spaventa, dei Sella ha compiuto il miracolo di mettere assieme un mosaico di ducati e di regni con le grandi strutture unitarie, ferrovie, porti, strade, poste. Ma i miracoli non bastano a creare in pochi decenni una nazione moderna, resta l'eredità del passato di cui parla Carlo Rosselli, pesantissima: «La miseria, la indifferenza, una rinuncia secolare fanno sì che nella maggior parte degli italiani si debba deplorare la mancanza del senso geloso e profondo della responsabilità e dell'autonomia. Un servaggio che è durato secoli fa sì che la media degli italiani esiti ancora fra la rassegnazione dello schiavo e la rivolta anarchica. L'educazione cattolica, pagana nel culto e dogmatica nella sostanza, e una lunga serie di governi paternalistici hanno impedito per secoli agli italiani di ragionare con la loro testa». Nei decenni dello stato liberale la democrazia è stata più recitata che vissuta, più un vestito comperato fatto che fatto su misura, senza riuscire mai a compiere il salto di qualità decisivo. A ogni concessione riformistica seguiva una tirata di redini, a ogni moto popolare il ministro degli Interni proibiva le riunioni politiche «perché di turbamento all'ordine pubblico», vietava agli impiegati statali la lettura dei giornali antigovernativi e mandava i recalcitranti al domicilio coatto. Si è dovuti arrivare al 1889 per ottenere un primo timido diritto di sciopero; ancora nel 1882 il diritto di voto era concesso a un quattordicesimo del corpo elettorale, e il voto alle donne negato fino al 1920. Per tutto il regno e poi per la repubblica mai una vera alternanza di governo. I poteri costituiti sempre vincenti, i sovversivi sempre pronti a inchinarsi, a cominciare dai grandi garibaldini, i Crispi, i Medici del Vascello, i Bixio, i Visconti Venosta, gratificati dai Savoia con le carriere militari o con regalie come la tenuta La Mandria venduta dal re galantuomo a Medici del Vascello per lire una. Con seguito di socialisti e giacobini monarchici come De Amicis e Carducci. ça ira, ma sempre nello stesso modo. La democrazia liberale era meglio del dispotismo borbonico, papalino o austriacante, ma la democrazia descritta da Crispi non era tale da entusiasmare un popolo scettico e rassegnato: «Il governo delle popolazioni è in balia del deputato e della sua ricerca del voto. Le nomine dei prefetti, dei pretori e dei delegati di polizia sono fatte dal governo nell'interesse del deputato. Quando si arriva a una votazione importante tutto si promette, sussidi, decorazioni, canali, ponti, strade. Questo sistema politico fa sì che chiunque si ritrovi alla opposizione è impotente». Giolitti e Depretis non erano né protofascisti né caudilli, ma erano distanti da uno stato di diritto. Giolitti, nella campagna elettorale del 1892, destituì o trasferì quarantanove prefetti su sessantanove. In visita a un villaggio siciliano si sentì confidare dal sindaco liberale: «Abbiamo scoperto i cinque che hanno votato contro, gli abbiamo reso la vita così dura che hanno dovuto emigrare in Francia». «Questo è davvero troppo» mormorò l'uomo di Dronero. A tutto il regno di Umberto I la separazione fra il giudiziario e l'esecutivo era inesistente, il re nominava e promuoveva i magistrati, ma ancora oggi nella repubblica resta da vedere che esito avrà «l'inquietante potere dei giudici». Non dovette fare un grande sforzo il fascismo a convincere gli italiani che la perdita di quella democrazia non era una gran perdita. Né mio padre, né mia madre, né i loro parenti e 10
amici, piccola borghesia d'ordine, erano dei fascisti veri, militanti, ma non li ho mai sentiti rimpiangere le elezioni, la libera stampa, i sindacati. Per loro, per noi giovani, la democrazia non era un bene perduto, ma disordine, un rischio che ci si era lasciati alle spalle. Mio padre, mia madre e i loro parenti e amici non facevano dei discorsi ligi al potere costituito perché fossero fascisti, ma perché la loro cultura prefascista era ossequente e prudente. La rivoluzione socialista era fallita, non perché gli italiani degli anni Venti fossero dei fascisti, ma perché erano dei conservatori, perché avevano orrore delle rivoluzioni. E questo, il Togliatti dell'«0rdine nuovo» lo aveva capito bene: la rivoluzione si poteva fare nelle grandi città operaie in cui avrebbe prevalso la massa d'urto del proletariato di fabbrica, ma erano come isole rosse circondate dalla provincia contadina grigia e conservatrice. Tra il fascismo rivoluzionario, modernista, attivista, dissacratore e la piccola e media borghesia ci si era capiti e intesi a prima vista: quel cane abbaiava molto ma non mordeva. «La maggioranza degli italiani» scriveva Gobetti «è fascista solo in questo senso: che ha una assoluta incompatibilità di carattere con i paesi moderni, con i regimi di autonomia democratica, con la lotta politica. Per questo approvano Mussolini, un risultato assai più grave del fascismo stesso perché ha confermato nel popolo italiano l'abito cortigiano, lo scarso senso delle proprie responsabilità, il vezzo di attendere dal domatore, dal deus ex machina, la propria salvezza.» C'è nelle strutture della società italiana, nella sua cultura, nelle sue tradizioni qualcosa che volge sempre alla paralisi della democrazia o della modernizzazione. Anche Mussolini ne avrebbe preso atto al termine della sua parabola: «Governo, partito, monarchia, Vaticano, esercito, milizia, prefetti, federali, ministri, ras delle confederazioni e grossissimi interessi monopolistici, un patologico tessuto connettivo fra le deficienze tradizionali e contingenti di un paese che una tenace terapia di venti anni è riuscita a modificare soltanto in superficie». Gli italiani hanno accettato prima la democrazia liberale e i suoi limiti e poi la repubblicana con la sua costituzione per certi versi utopica, con il suffragio universale, il Parlamento e le istituzioni autonome, subito sabotate, svuotate, capovolte. Una concezione del vivere associato accettata ma solo in parte, qualcosa che non convince del tutto, «un capriccio esotico, che non è né carne né pesce degli italiani» come affermava Ezra Pound, non del tutto vero, in parte vero. Si dice che la democrazia ha ormai messo salde radici nel paese, e può essere vero se si pensa ai suoi vantaggi, non ai suoi doveri. Le ragioni di diffidenza, comunque, rimangono e non appartengono agli arcana imperii, sono cose che ogni cittadino può toccare con mano: un italiano del regno prefascista non poteva ignorare che il movimento contadino era stato decapitato da una polizia cui la magistratura passava i mandati di arresto in bianco, come un italiano della repubblica non può non vedere le complicità fra politica e malavita organizzata, fra politica e affari. Abbiamo sempre visto e capito, ma abbiamo sempre mentito a noi stessi. Prima e dopo il fascismo la sinistra ha cantato le lodi democratiche del socialismo, nella mitica Molinella, «se hai un dubbio, un cedimento, aggrappati a Molinella», il regno della eguaglianza e della giustizia. Ma la Molinella vera era una dittatura dei braccianti sui mezzadri e sui proprietari, chi non stava con il socialismo dei braccianti veniva messo al bando, i forni gli negavano il pane, i negozi non gli facevano credito. La prevalenza degli autoritari sembra eterna e inevitabile: dopo una Resistenza che è stata lotta di popolo e unità democratica si è tornati alla contrapposizione frontale del fìdeismo comunista e dell'integralismo cattolico e ora, dopo mezzo secolo di travagli, dopo essere finalmente usciti dalla divisione del mondo in due, riecco un centro-destra alla ricerca di una democrazia forte, riecco la restaurazione. Non è un caso che le due maschere italiane contemporanee, il Cipputi di Altan e il Fantozzi di Villaggio, l'operaio comunista 11
passato per tutte le delusioni e il burocrate rassegnato e autolesionista, siano gli eredi delle maschere controriformiste cui era consentita solo la celia. Non c'è italiano che riesca a sfuggire completamente al vischio dell'opportunismo, del «così fan tutti». Benedetto Croce, il maestro del liberalismo, amministrava le sue terre come un agrario borbonico. Giustino Fortunato, uno degli apostoli della democrazia, ha trascorso la vita a scrivere lettere di raccomandazione per parenti, amici ed elettori. Mussolini era un uomo onesto, ma non al punto di liberarsi del clan familiare che lo seguì prima a Roma e poi a Salò. Anche lui «teneva famiglia» e se ne ricordò negli ultimi mesi della repubblica di Salò, quando fece vendere l'azienda del «Popolo d'Italia» a un affarista milanese interessato non certo al giornale destinato a morire ma allo stabile e alla tipografia. Vendita lecita in quanto «Il Popolo d'Italia» era stato fondato e aveva avuto successo prima della dittatura, ma di rischio politico estremo dato che chi vendeva perché «teneva famiglia» era lo stesso che incitava i fascisti di Salò a resistere fino alla morte. Il tema della democrazia in Italia è di quelli su cui nessuno metterebbe la mano sul fuoco. La libertà è bella e lo stato di diritto è civile, ma quando il vento del successo incomincia a gonfiare le vele di un nuovo potere è difficile che l'italiano medio gli resista. Forse il trasformismo nazionale non arriverà più alle vette dei primi anni Venti, quando il paese fu come travolto dalla marea nera, dalla notte alla mattina le leghe rosse del Ferrarese passarono dal socialismo al fascismo e il ras Italo Balbo fu sentito mormorare: «Ma chi ci capisce più nulla?». Ma anche oggi non scherziamo. Alla vittoria elettorale del centrodestra metà delle redazioni della RAI hanno abbandonato le dipendenze o affinità socialiste, comuniste e democristiane per schierarsi con il nuovo padrone. In certi uffici ministeriali, giornali come «la Repubblica» con fama di sinistrismo sono stati sostituiti senza ordini superiori, non si sa mai, da altri neutri o di destra; alla testa dei transfughi, i soliti pesci piloti, intellettuali della estrema sinistra improvvisamente delusi, anzi nauseati, dal marxismo. E basta seguire i più noti talk-show progressisti, le «fosse dei leoni» in cui in passato, non dico un fascista, ma un conservatore veniva sbranato o ridicolizzato; ora i leoni sembrano drogati, come se avessero succhiato gli zuccherini con il tranquillante, fanno domande educate e magari servizievoli. L'intervista regna sovrana nella stampa democratica: essa consente i sicuri cabotaggi, una virata a destra e una a sinistra con rotta a vista del potere, per ogni arroganza, per ogni fatto compiuto una bella mezza pagina in cui chi ha fatto a pezzi la democrazia sostiene, con sussiego democratico, le sue ragioni. Il leader di Forza Italia ha definito «eroico» il direttore di un suo telegiornale di nome Fede che la stampa internazionale ha soprannominato «Fido». Dicono che gli italiani siano profondamente democratici. Lo dicono...
Il massacro «Vedo Hoffmann piegato in due sulla mitragliatrice, abbassa la leva di sparo e urla di gioia proteso in avanti, con uno sguardo folle. Tutto l'orlo del bosco è adesso un cordone teso di corpi ebbri. Scarichiamo le mitragliatrici e i fucili all'impazzata. Il campo davanti a noi è completamente raso, ci sprizza dalle dita, si direbbe, tutto il furore lungamente contenuto trasformandosi in metallo e in fiamma. Fuori, fuori il ferro, il fuoco, il fumo e il clamore. Un soffio di liberazione corre la foresta, il tuono di una voluttà incredibile frantuma la terra davanti a noi! Veniamo spinti verso avventure inebrianti, verso lontani pericoli.» L'orgasmo guerresco di Ernst von Salomon, uno dei tedeschi che continuarono a combattere anche dopo la resa della Germania guglielmina, apparirebbe oggi quasi 12
incomprensibile se la ferocia e i deliri etnici della guerra in Bosnia non ne riproponessero l'attualità. E non fu nemmeno un'eccezione, perché Ernst von Salomon avrà anche avuto i suoi problemi di sadismo, di estetismo, di sovrumanismo, ma era in numerosa e qualificata compagnia. Forse ha ragione Gustavo Le Bon a dire che nella vita degli uomini e delle nazioni arrivano «quei momenti critici in cui il pensiero umano si trasforma, in cui si scatenano le forze segrete che ancora non siamo in grado di conoscere, quelle che obbligano le ghiande a trasformarsi in quercia e la cometa a seguire la sua orbita». Per tutti i nostri padri la Grande guerra non era stata l'inebriante avventura di von Salomon e certo non dovette sembrare tale alle nostre centinaia di migliaia di disertori, ma era stata comunque un evento ineluttabile e fatale, la creazione di un nuovo mondo, un necessario lavacro di sangue; e solo poco più di Vent'anni dopo un'altra guerra mondiale era vista come una colossale follia, come una brutale, anacronistica lotta di potere con nemici sempre più incomprensibili: perché i francesi? perché gli inglesi o i greci? Dal grande massacro della prima guerra mondiale esce un fiume nero, una funebre esaltazione, un culto della morte che aprirà la strada ai regimi totalitari e autoritari. Portando milioni di uomini nel fiore della vita alla morte, il massacro fornisce al sovrumanismo e al romanticismo di quel tempo un perverso ma irresistibile alimento e fa di gran parte degli intellettuali degli interventisti appassionati che considerano la guerra una catarsi, «un sentimento di purificazione» scriveva Thomas Mann «che noi sentivamo assieme a una grande speranza. Ciò che ci entusiasmava era la guerra in sé, la sofferenza come necessità morale». La guerra «sola igiene del mondo» di Marinetti, la guerra di Sartre «che come la lancia di Achille cauterizza le ferite», la guerra di Céline fatta per l'uomo «pieno di attese mistiche ed eroiche». Ancora «la divina inspiegabilità della guerra» di De Maistre o l'estetismo di Jünger per «i combattimenti a colpi di fucile su verdi prati dove il sangue scende come rugiada a irrorarne i fiori. Non vi è al mondo morte più bella, cantavamo». Anche la sinistra viene presa dall'entusiasmo, gli operai tedeschi partono cantando verso il fronte, una parte del socialismo italiano passa all'interventismo, Togliatti e Gramsci, prossimi fondatori del Partito comunista, sono al fianco di Mussolini, dovunque la guerra deve apparire, come vuole la propaganda militare, una santa bufera che aprirà la strada verso il futuro. In un'Europa in cui finisce il secolo borghese e con esso la società di classe e che comunque non può essere spiegata solo con i cui prodest della conquista e dei profitti. Si va a un suicidio collettivo e si pensa che sia un atto di nascita e di estasi. L'estasi di Drieu La Rochelle mentre passa correndo «sui giovani corpi falciati dalla morte» o la retorica eroica del giornalismo di trincea che inventa il «me ne frego» degli arditi scritto sulle fasce delle ferite. Il proletariato non è pacifico come si è detto, anche lui s'inebria al suono delle fanfare e allo sventolio delle bandiere, l'anarco-sindacalista De Ambris costata che «il pacifismo borghese e l'internazionalismo socialista hanno fatto contemporaneamente bancarotta». De Ambris appartiene a quei rivoluzionari che puntano sulle minoranze consapevoli e coraggiose: «Le masse sono amorfe, il problema della guerra è troppo grande per dei cervelli proletari. Sì, la guerra è feroce, distruttiva, caotica, ma l'uomo corrotto dall'edonismo deve ogni tanto rigenerarsi nella sua bestialità. L'operaio va guidato. Egli non vede nella guerra che la strage, la miseria, la fame che deve sopportare lui! E quindi è contro la guerra. Che importa a lui se fra dieci, fra venti anni l'attuale guerra potrà spianare la via per la rivoluzione sociale?». La guerra di massa che coinvolge tutto il mondo civile ha il fascino dell'apocalisse: diversa, diversissima dalle guerre ottocentesche combattute nella indifferenza dei contadini, coinvolge tutti, violenta e distrugge tutto, è la grande parificatrice che uccide ricchi e poveri, coraggiosi e vili. Anche le grandi intelligenze si possono ingannare con le sue dimensioni, ci possono vedere, come Jünger, «la madre che ci ha generati come una nuova 13
stirpe nel seno incandescente delle trincee dove la nostra gioventù, combattendo nei paesaggi più terribili del mondo, ha compreso che le antiche strade sono giunte alla fine e che bisogna percorrerne di nuove». La vaga ma trascinante attesa del nuovo accomuna conservatori e rivoluzionari, democratici e autoritari. La guerra non è da sempre stata il forcipe della storia? Le grandi nazioni europee non sono forse nate dalle guerre come la Francia di Luigi XIV e di Napoleone? La Germania non si è riunita con la guerra del 1870? La Russia non è diventata nazione moderna a Poltava e Crispi, Salandra, Sonnino non hanno fatto l'Italia con le guerre più di quanti vi si provarono con le riforme? Credono nella necessità e provvidenzialità della guerra il Lussu socialista, Luigi Russo e il Jahier di Con me e con gli alpini che ci vede cadere gli steccati di classe. Ci crede la destra della trincerocrazia, del «partito delle medaglie d'oro», ci credono i piccoli e medi borghesi che la guerra ha tirato fuori dai loro retrobottega di provincia e trasformato in condottieri, tutti si attendono una palingenesi in qualche modo benefica, una trasformazione profonda... Ci crede anche il Mussolini socialista: «Le parole repubblica, democrazia, radicalismo, liberalismo, la stessa parola socialismo non hanno più senso: ne avranno uno domani, ma sarà quello che daranno loro milioni di ritornati». Alla prova della Grande guerra la sinistra marxista denuncia i limiti della sua pseudoscienza, buona forse per capire certi rapporti della produzione e della distribuzione, non per spiegare questo cataclisma, questa irruzione di forze al tempo stesso primordiali e razionali che fanno sparire vecchie specie, ne creano di nuove e trasformano le nazioni in «officine di Vulcano», mobilitando tutte le risorse, tutte le energie, sospendendo non solo le leggi comuni ma anche la comune morale. La guerra è stata causa contemporaneamente di distruzione e di creazione, ha dimostrato la fragilità e la forza delle potenze, in cui nulla è al riparo dalla violenza, è stata il trionfo e la sconfessione dei nazionalismi. La guerra ha creato gli spostati, i sessantamila ufficiali di complemento congedati in Italia nel 1918 non più disponibili ai lavori modesti, al tran tran nei commerci e negli uffici dopo gli anni di glorificazione e di esaltazione. Anche i moderati, anche gli uomini d'ordine capiscono la forza delle masse e ripetono con Bakunin: «Io non voglio essere io, io voglio essere noi», noi i combattenti, noi il fiore della nazione, noi che la guariremo dai suoi mali, dalle sue brutture. Agli autoritarismi nascenti la guerra lascia in eredità miti, valori, costume, linguaggio: il culto della morte, l'architettura dei cimiteri-ossari, le pire sempre accese, i teschi, i pugnali passano al fascismo e al nazismo, e per la guerra è passata «la voce della foresta», gli uomini che hanno sentito «il rombo del sangue» e delle memorie non possono più vivere in una società che non sia militarizzata. I dittatori sono lì pronti a incanalare la voglia della generazione della guerra di preparare nuove guerre e di dar loro il via, subito con le milizie di partito dove si ritrovano il cameratismo, la fedeltà di gruppo, la creazione di nuovi nemici. La seconda guerra mondiale sarà in questo senso molto differente, non creerà reducismo. Una guerra nata morta cui seguirà mezzo secolo di pace, quasi incredibile.
Nati autoritari Nella casa della mia adolescenza, la casa di un professore di matematica e di una maestra elementare, c'era, nella stanza di mia sorella, la biblioteca dei «cento libri», della piccola e media borghesia di allora. Una minuscola biblioteca fabbricata da mio padre con il seghetto e con il pirografo, prima scavando e poi colorando di giallo e di azzurro le roselline decorative. Erano i cento libri di una cultura che ignorava il resto del mondo e si fermava al 14
liceo e molti di quei cento libri erano stati comperati per la scuola, magari usati: D'Annunzio, Carducci, Pascoli, Giusti, Pellico, il Cuore del socialismo sabaudo, il Pinocchio dello scetticismo popolare e poi i classici La Divina Commedia e Orlando furioso in versione purgata da versi erotici, Odissea ed Eneide, Orazio e Petrarca. Nascosto in un cassetto della soffitta, Mimì Bluette, fiore del mio giardino di Guido da Verona, quasi peccaminosa la biografia di Cellini, rilegato Plutarco. Quanto bastava e avanzava alla conoscenza dell'uomo, delle sue vane speranze e dei suoi grandi sogni, ma fuori dalla rivoluzione industriale, dai mutamenti che ci assediavano, dal cosiddetto progresso. I manuali Hoepli di ingegneria e di fisica, mio padre li teneva in camera sua e io non li consideravo dei libri. Ma più che leggere i classici vivevamo fra i loro magnanimi spiriti e nei loro paesaggi solari, nelle aurore dalle rosee dita sul risonante mare. Un pittore che non conoscevamo, di nome De Chirico, aveva tradotto in dipinti quel nostro vivere il passato come un presente. Nella nostra profonda ignoranza ci sentivamo partecipi di una grande cultura: se per due volte eravamo stati i signori del mondo con Roma e il Rinascimento perché non avremmo potuto esserlo per la terza e chi sa che non toccasse al fascismo. Ci frenava però la povertà circostante, la modestia e il fatto che si potesse leggere su un libretto di geografìa: «L'Italia esporta automobili, fichi secchi e stracci». Ma forse la fortuna del fascismo fu di capitare fra noi nell'ultima stagione dell'eurocentrismo, eravamo più poveri degli altri europei ma sempre i padroni della terra. La nostra ordinata gerarchica città! Alla biglietteria del cinema Nazionale uno in divisa, qual-siasi divisa, poteva passarti davanti senza chiederti scusa e non osavi fiatare; quando il podestà Imberti arrivava in visita alle elementari e ci regalava una caramellina, ci sentivamo come coprire dal caldo mantello del potere, un ufficiale dei carabinieri era un dio, lontano e indiscutibile. Alla passeggiata della domenica i borghesi e gli ufficiali andavano su e giù per i portici di sinistra di via Roma, guardando le montagne, e sapevi quando avresti reincontrato i concittadini autorevoli e le loro figlie; i poveracci e i soldati in quelli di destra. Le caserme degli alpini, i soldati di casa, erano al centro della città nuova, vicino a piazza Vittorio, al tribunale, all'Automobile club, alla pasticceria Arione; le caserme della fanteria, dei «terroni» nella città vecchia, con gli intonaci sporchi e cadenti e le finestre con i vetri rotti, vicino all'ospizio dei poveri vecchi. Ne uscivano a sera dei soldatini insaccati nelle loro divise, molti con un asciugamano sottobraccio per andare al bagno comunale, dalle parti della Casa del soldato, che era di legno, con stanze sporche che sembravano le sale d'aspetto di una stazione abbandonata. Andavamo a ripetizione di latino, in bicicletta con i bottiglioni per portare a casa l'acqua medicinale dei Camorei, in montagna per le narcisate, convinti di vivere nel migliore dei mondi possibile. La Francia era lì a due passi e ci lavoravano i valligiani ruggiti dalla nostra montagna povera, li vedevamo tornare per le vacanze con il basco e le scarpe a punta, ma della Francia non sapevamo niente. Sapevamo poco anche dell'Italia, la fortuna di Carducci era stata quella dello scenografo nazionale: «Su le dentate scintillanti vette...»; c'era un grande scambio di cartoline e di oggetti ricordo, nella casa di mio zio Valentino, maresciallo del distretto, c'era una torre di Pisa alabastrina e il suo elmo di cavalleria e in quella della zia Clelia, la zia madrina, un arazzo con il ponte dei Sospiri. In casa si parlava spesso di religione nel senso di processioni, funerali, prime comunioni, ma discutere di religione era impensabile. Nessuno metteva in dubbio superstizioni e leggende e la fiducia in un pubblico ufficiale era totale, la città aveva superato in breve tempo lo choc del fallimento del Piccolo credito, una banca locale. Impensabile che un prefetto, un questore potessero in qualche modo tradire lo stato. Ma questa fiducia, questa reverenza autoritarie sono continuate anche nella repubblica almeno fino alla strage di piazza Fontana nel '69. La sera della strage c'era un cielo nero 15
sciabolato dai riflettori. Macerie, morti, autoambulanze e il sentimento del nemico fra noi. Tomai al giornale e il direttore Italo Pietra, partigiano ma uomo d'ordine, mi chiese: «Secondo te chi l'ha messa la bomba?». «I carabinieri» mi scappò detto. Pietra mi guardò allibito: «Volevo dire uno dello stato, uno dei servizi». «Ho appena telefonato al prefetto» disse «secondo lui sono stati gli anarchici.» Non volle leggere il mio articolo, «Passalo in tipografia» disse. Era turbato e lo ero anch'io, qualcosa si era rotto per sempre nella nostra fiducia autoritaria. La grande cultura nella cui ombra eravamo cresciuti, che era anche quella dei protettori delle arti, dei costruttori di città meravigliose, dei principi più illuminati a volte di molti illuministi, più amici del popolo a volte di molti riformatori, ci impediva di capire che essa non era una cultura democratica e che avendo dominato incontrastata fino al fascismo non ci aveva lasciato i valori, le difese, i metodi democratici. Né Dante, né Petrarca, né Guicciardini, né Machiavelli sono stati maestri di democrazia e ovviamente non potevano esserlo in un'Italia dominata e contesa da poteri autoritari; e, se far passare un pensatore politico come Machiavelli per protofascista sarebbe ridicolo, come dar torto a Julien Benda quando dice che l'Italia del Rinascimento non ha conosciuto nessuna moralità democratica e che «mentre Michelangelo compiva i suoi capolavori, Cesare Borgia, il principe di Machiavelli, crivellava di colpi un uomo legato a un albero per divertire le dame della sua corte»? Ma il punto non è solo e tanto l'indifferenza morale di Machiavelli, che almeno studiava lucidamente l'esercizio del potere e rivelava «di che lagrime grondi e di che sangue», ma che fu il solo o quasi a farlo perché gli uomini di lettere, i retori, i filosofi del Cinquecento, educati in università e accademie povere e servili, si erano adeguati alla Controriforma trionfante e «discutevano con insistita, ingegnosa e sterile tenacia» ha notato Luigi Firpo «la impossibilità di mettere assieme etica e politica». Neanche la Controriforma è stata protofascismo, ma certamente la madre della rassegnazione italiana, di una tradizione autoritaria dogmatica penetrata nelle memorie del sangue degli italiani a formarvi un filtro che spontaneamente rigetta, soffoca ogni richiesta di libertà e di autonomia, madre di una disperazione culturale e politica che ha trovato il suo più alto testimone in Leopardi: «L'onore è un'illusione esso stesso, perché consiste nella stima che gli individui fanno dell'opinione altrui verso loro, opinione che rigorosamente parlando è cosa di niun conto». Il filtro non perdona. Tutti i moti protestanti vengono soffocati nel sangue, le minoranze religiose chiuse nei loro ghetti. Dai catari di Monforte ad Arnaldo da Broscia, a Salimbene da Panna, a Paolo Sarpi, il dissenso viene cancellato con i roghi o con le spade. Sacri macelli in Valtellina, rastrellamenti nelle valli valdesi, le valli dei barbèt, un osso duro per i Savoia e per i preti; alla biblioteca di Cuneo c'era un libretto sulle incursioni dei barbèt nelle nostre cattoliche campagne, con racconti di preti appesi a testa in giù alle loro campane e, quando passavamo nella Cuneo vecchia davanti alla sinagoga e alla porta del ghetto abbandonato, ci sfiorava la paura dell'infedele. La rivoluzione inglese ci era ignota, della francese conoscevamo quel povero re ghigliottinato, il Terrore. No, non avevamo proprio un retroterra democratico, anche noi vivevamo nel rifiuto e nel sospetto per la democrazia diffusosi in Italia e in Europa al principio del secolo come una febbre. «Bisogna riconoscere» scrive Norberto Bobbio «che la cultura italiana all'alba del secolo si unì in una concorde e talora violenta reazione non solo contro la cattiva filosofia marxista, ma contro la modernizzazione. Per riviste come "II Leonardo" o "La Voce" i socialisti erano quelli che avevano messo il ventre al posto dello spirito e nelle pagine di "Lacerba" il rifiuto della democrazia precipitava nella esaltazione della guerra, della strage, della carneficina. Nel "Regno" di Papini si anticipano il Terzo Reich e la Terza via! Bisogna uccidere, recidere, estirpare tutto ciò che nell'uomo c'è di sottoumano per renderlo sovrumano. Il rifiuto della democrazia è totale.» 16
Caduta la fede nel progresso, opere come il Trattato di sociologia generale di Pareto o II tramonto dell'Occidente di Spengler hanno aperto la strada al pessimismo cinico, estetico, esistenzialista, guerriero, attivista, alle dottrine reazionarie come a quelle sovrumaniste. La democrazia è la magna meretrix, la «grande menzogna» che per D'Annunzio sta «infettando la vita italiana», «la scimmia della rivoluzione francese» secondo Borgese, per cui i socialisti sono «i vermi del cadavere di Babeuf». Domenico Giuliotti, un De Maistre di Greve in Chianti, arriva all'ossessione antidemocratica, alla demonizzazione: «Allora si videro l'ignorante, il mediocre, l'arruffone, il ciarlatano, lo scriba, nella assenza di un ferreo monarca che li schiacciasse tutti sotto il tallone, qui congregarsi in associazioni a delinquere, là mascherarsi da superuomini costaggiù a strombettarsi riformatori e apostoli e dapertutto rodere, grattare tagliuzzare l'ordine gerarchico. La democrazia! La grande tinozza da bagno dove tutte queste persone allegre vanno a rinfrescarsi le natiche. Noi ripetiamo le parole di Jacopone da Todi: vadomene a gran battaglia, a grande briga, a gran travaglio». E plaude al «pensatore di Casola», Alfredo Oriani, l'antesignano di «una rivoluzione religiosa in cui i tempi divini si inizieranno finché Pietro non comanderà a Cesare e Cesare non guarderà a Pietro con obbedienza filiale». Il fanatico, feroce Giuliotti della invettiva: «L'uomo bestemmia lo scettro e ha gettato la croce in un cesso. Quindi camminando» carponi ha grugnito: sono libero. Dunque sarà tritato. E la macina romba». Si avvicina al fascismo nascente anche il filosofo liberale Benedetto Croce, applaude al teatro San Carlo di Napoli gli oratori fascisti e, a Giustino Fortunato che gliene chiede ragione, dice: «Ma non sapete, don Giustino, che la violenza è la levatrice della storia?». Ci sono tanti fascismi e tante democrazie. Quella che conobbero gli italiani nel regno e anche nella repubblica era più formale che sostanziale. Abbiamo avuto delle aristocrazie liberali, illuminate, dovunque, nel Piemonte sabaudo, nella Milano sotto gli austriaci, nella Napoli dei Borbone; abbiamo avuto una borghesia liberal-massonica promotrice del Risorgimento, ma né le une né l'altra sono riuscite a dare al popolo italiano un'educazione democratica. Il fascismo è «cosa nostra» per tante ragioni, ma principalmente per il fatto che le nostre istituzioni democratiche nel regno e anche nella repubblica sono state appiccicate su una cultura autoritaria. Quasi sempre da noi i sostenitori e rivendicatori della libertà sono gli stessi che l'hanno negata ai più deboli: i galantuomini liberali di Cavour ai contadini, ai repubblicani e al garibaldinismo; la chiesa integralista, i socialisti e i comunisti pronti a schiacciare la borghesia e a inneggiare al totalitarismo sovietico. E questa è una delle ragioni per cui il filtro controriformista, il conservatorismo subalterno l'hanno sempre vinta. Lo riconosceva Giustino Fortunato: «Noi siamo autoritari fino alle ossa; e per eredità, per costumi, per educazione indotti a troppo comandare e a troppo ubbidire. A essere sinceramente con la libertà, a volerla intera e sempre per tutti come per se stessi, devota e ossequente alle leggi, generosa fìnanco; a volerla educatrice e moralizzatrice, premio e non castigo di Dio a noi insegna soltanto quel che insegna la scuola, il libro, magari la imitazione straniera; non mai assolutamente l'intimo profondo convincimento dell'animo». Ha destato grande scandalo, di recente, una dichiarazione del leader neofascista Fini: non sempre essere la libertà un valore fondamentale e insostituibile di uno stato, affermazione storicamente ovvia. E potremmo aggiungere che non sempre ciò che da noi passa per democrazia lo è. Sfugge all'italiano medio il principio democratico che il potere, la conquista del potere devono andare di pari passo con l'aumento delle garanzie individuali, dei diritti civili e che il potere forte deve essere compatibile con la democrazia forte. La libertà democratica non consiste nel violare o eludere le leggi che non ci piacciono, ma nel cambiarle con la discussione e con il voto. Invece, quasi sempre, siamo ricorsi alla doppia costituzione, alla doppia morale con gli italiani di potere, esportatori di capitali ma punitori dei sudditi che avevano conti all'estero. Non è vera democrazia quella in cui i doveri del 17
cittadino sono considerati inutile spreco di energie o stupidità, non lo è quella che crea notabili anziché programmi, in cui non esiste alternanza, in cui gli oppositori non hanno il diritto di controllare e di partecipare alla res publica, in cui vengono chiusi per decenni nei loro recinti. La conventio ad excludendum dei nostri ex comunisti è ancora il cavallo di battaglia dei moderati italiani, la politica della divisione delle spoglie, la corsa al potere totale è ancora il loro ideale politico, la loro concezione della «sovranità popolare» è ancora dispotismo elettorale. Speriamo di arrivare alla democrazia prima che essa scompaia da questo difficile, mutevole mondo.
Paura della libertà «Io non farò mai la storia del fascismo perché mi disgusta; però, certo, se la dovessi fare direi che la dovrei fare in questo e questo modo.» Se Benedetto Croce l'avesse scritta, questa storia, probabilmente vi avrebbe svolto la tesi della «malattia dello spirito», qualcosa di malvagio ma di incolpevole che, come la febbre spagnola, era imprevedibilmente arrivato e imprevedibilmente scomparso. Una malattia che si potrebbe chiamare «paura della libertà». Qualcuno ha visto nel fascismo un mutamento epocale, il passaggio dal secolo borghese al titanismo, salvo poi riconoscere che, invece che al crepuscolo degli dei, aveva assistito a un melodramma. Altri, come lo storico Delio Cantimori, hanno accusato gli antifascisti di «moralismo sublime» per aver dato del fascismo un'immagine tragica, mentre tragica fu solo la sua agonia legata a quella del nazismo. È vero, fino all'entrata in guerra il regime si presentò soprattutto come anarchia intruppata. Mussolini aveva capito due cose decisive nell'esercizio del potere. Primo che il tradizionale disprezzo degli italiani per se stessi equivale alla ricerca di un padrone con cui si sappia come obbedire e come defilarsi; e secondo che la loro storia servile li aveva abituati a questa regola politica: tu sei il più forte? Va bene, io ti accetto come duce, come narciso, come retore, come capocomico, ma tu lasciami campare nel mio familismo scettico. A differenza dei regimi totalitari il fascismo, più che imporre il suo ordine con il terrore e il fanatismo, praticava un sistematico trasformismo che non era più un espediente per tenere in piedi una coalizione governativa, ma il fondamento del regime, il patto del dittatore con il popolo. Lui sapeva come spennare la gallina, ma la gallina si lasciava spenna-re se riceveva il suo mangime. La perdita della libertà politica era sopportabile dall'italiano medio, la democrazia che aveva conosciuto nel regno liberale non era il governo dei cittadini e neppure dei partiti, chiusi nei loro recinti, ma quella dei parlamentari. Il fascismo alleviava gli italiani dalle cose fastidiose e incomprensibili del parlamentarismo, dalle sue discussioni inconcludenti, dai pro e contro perenni. Si trattava di passare da un sistema politico di libertà formali a uno di formale dittatura in cui gli italiani potevano credere di essere fascisti perché indossavano le divise del fascismo, ascoltavano e ripetevano la sua propaganda, partecipavano al culto della personalità del dittatore, ma con questo patto sottostante: io ci sto a mettere la camicia nera, a sfilare nei cortei, a inneggiare, ma tu non chiedermi di più, non cercare di mettere un tuo ordine nelle mie secolari contraddizioni, nel mio essere un po' guelfo e un po' ghibellino, un po' cattolico e un po' pagano, un po' cristiano e un po' razzista. E il regime aveva trovato un modo infallibile per fingere di cambiare le cose lasciandole intatte: le disposizioni d'ordine effimere e velleitarie. Ogni tanto si leggeva sulle gazzette che era arrivata da Roma una nuova disposizione d'ordine: per la battaglia del grano, l'abolizione della stretta di mano, il divieto di importare caffè, l'uso obbligatorio del voi, l'autarchia, la fede d'oro alla patria, e tutti 18
facevan fìnta di eseguire, di cambiare continuando come prima a darsi del lei, a stringersi la mano, a bere caffè importato, a lasciare ai contadini il compito di far crescere e mietere il grano. Non potevano mancare il mugugno generale, il «chiagni e fotti» o il «chi non piange non puppa». I modelli della sopravvivenza erano i soliti, millenari: professarsi fedeli restando scettici, ripararsi nella vita privata. Mussolini aveva applicato il trasformismo con rapidità e decisione, aveva sostituito alla violenza della piazza l'ordine della caserma e mandato in pensione il fascismo-movimento che lo aveva portato al potere. Fra i pensionati c'era anche Lemmonio Boreo, lo squadrista a fin di bene, protagonista di un racconto di Ardengo Soffia: un protestatore di breve durata il buon Lemmonio, un generoso minchione, un popolano fiorentino che, tornato in Italia dall'estero, vi aveva trovato una democrazia piena di ladri, di stupidi, di vili. E allora «nasceva in lui un amore profondo per l'Italia mescolato di rancore, simile a quello di un geloso per la donna infedele che lui avrebbe voluto uccidere e amare. Una sola immagine gli si presentava: quella di un uomo mezzo prete e mezzo soldato, dal viso corrucciato, il bastone alla mano, che passava di città in città e in tutti i luoghi dove si commettevano indegnità colpiva a destra e a manca». Sembra il ritratto del giudice Di Pietro, il forte onesto popolano che cercava di far giustizia nella Italia di tangentopoli e che, come Lemmonio Boreo, fu presto mandato in congedo. Nel mare magno degli scettici e dei tira a campare c'erano anche i credenti per cui la battaglia per Madrid fu come la Gerusalemme liberata o che, sulla sponda opposta, erano pronti a sopportare persecuzioni e carcere, emarginazione e povertà. Ma per la maggioranza il fascismo fu un contenitore protettivo che conculcava la libertà sapendo che gli italiani ne avevano paura. A sentire Benedetto Croce, esso non fu un regime di classe, «trovò i suoi sostenitori in tutte le classi sociali e in tutti gli ordini economici e intellettuali, fra gli industriali e fra gli agrari, fra i clericali e i vecchi aristocratici, fra i proletari e i piccoloborghesi». Sembra però più convincente il Salvatorelli che parla di un «terzo incomodo» che si era incuneato fra l'alta borghesia produttrice e mercadora e il proletariato contadino o di fabbrica, un regime sostanzialmente fondato sulla piccola e media borghesia emergente, ceto sociale malleabile ma tenace, fatto di persone di scarso patrimonio ma convinte, come lo erano in casa mia, di avere uno status sociale invidiabile, di essere il meglio del paese. A questo anch'io credevo, fortemente. C'era ancora in giro il disprezzo per i «pescicani», quelli che avevano fatto fortuna sulla guerra, e giungevano vaghe notizie di scandali capitalistici, il fallimento del finanziere Gualino che si era fatto un teatro nella sua villa torinese; e con operai e contadini, ignoranti, violenti, sembrava non si potesse comunicare. Noi eravamo il meglio, il ceto medio che comperava i buoni del tesoro, si accontentava di stipendi modesti, di case di ringhiera senza bagno, senza telefono e senza ascensore, che teneva sotto chiave l'argenteria e si faceva da sé i mandarinetti, che come mio padre suonava il mandolino e cantava «Volando scivola lo sciator», convinto di essere sfuggito alla violenza dei comunisti che non sapevano neanche che esistesse, con il suo regolo e i suoi manuali Hoepli. Per niente fascista come mia madre, ma grato a un regime che lo dispensava dall'esercizio angosciante della libertà e in cui l'irrilevanza della sua vita poteva trovare degli sfoghi onirici, l'impero, il nastro azzurro del Rex, la trasvolata atlantica di Italo Balbo. Anche lui con la sahariana nera, il fez e gli stivali che gli facevano sanguinare i piedi.
La nazione disunita Non c'è via di mezzo da noi fra autolesionismo e retorica. L'Italia di «dolore ostello», caduta «da tanta altezza in così basso loco», «d'ogni vizio fetida sentina», segnata «dalle 19
piaghe mortali che nel bel corpo tuo sì spesse veggio» diventa nella prosa aulica di Giustino Fortunato, celebrante l'unità, il paese perfetto: «Né mai unità di nazione fu fatta per aspirazione di più grandi e pure intelligenze, né con i sacrifìci di più sante e nobili anime, né con maggior libero consentimento di tutte le parti sane del popolo». A dir le cose come sono andate, le sorti della democrazia nell'Italia meridionale si giocano nel giro di pochi mesi: i piemontesi di Cavour si rendono conto di avere annesso province di povertà terribile con tradizioni e costumi feudali non compatibili con quelli del Nord. Il progetto di uno stato regionalista ha breve durata; morto Cavour, Bettino Ricasoli fa la sola cosa che possa salvare l'unità: impone a tutta l'Italia il modello piemontese. La rivoluzione contadina suscitata e capeggiata da Garibaldi è stata repressa dagli stessi garibaldini che hanno passato per le armi i rivoltosi di Bronte; ma questa rivoluzione, poi rimpianta da Gramsci e da altri meridionalisti come grande occasione perduta, non la voleva veramente nessuno: non i «galantuomini» liberali e massoni, proprietari terrieri, non l'aristocrazia decadente e assenteista e neppure i contadini che, nonostante le fiammate di protesta, erano rassegnati, in gran parte analfabeti, incapaci di gestire una riforma agraria. Così, in breve tempo il «patto storico» fra borghesia meridionale agraria e borghesia settentrionale imprenditrice e mercadora inchioda fino ai nostri giorni il Meridione al ruolo subalterno di raccoglitore di risparmi e di voti, qua e là interrotto, ma mai completamente superato, da una crescita civile e democratica a «macchie di leopardo», tante macchie di leopardo che non hanno mai fatto un leopardo, tante «cattedrali nel deserto» che non hanno mai formato un tessuto economico e industriale omogeneo, tante iniziative e speranze naufragate nelle acque infide della mafia, nelle lente ma implacabili digestioni della borghesia mafiosa. Spesso chi paria di democrazia italiana dimentica semplicemente questo: che in un buon terzo del paese la democrazia è impossibile, perché un sistema fondato sulle regole del gioco, sul rispetto delle leggi, affidato ai cittadini più che alle istituzioni, non può esistere dove l'antistato è più forte dello stato e dove la legge della giungla, della forza, della violenza si impone sovrana. Anche oggi, 1995, essere democratici a Palermo, Catania, Reggio Calabria, Bari, Napoli è una forma di eroismo civile più che una scelta politica. Non occorrono analisi sociologiche per accertarsene, è chiaro, a prima vista, che lo stato si presenta come forza di occupazione assediata da una società ostile, poliziotti e giudici vivono a Palermo in quartieri-bunker, le strade sono percorse in continuazione dalle pattuglie della polizia e, come ai tempi del brigantaggio, è intervenuto l'esercito per difendere l'ordine pubblico. Nel luglio del 1995 centinaia di persone sono state arrestate a Reggio Calabria, gran parte dell'establishment, giudici, deputati, imprenditori. In un buon terzo d'Italia i democratici e i progressisti sono riconoscibili per i loro comportamenti e atteggiamenti innaturali, sempre in guardia, sempre tesi, sempre pronti a scoprire fra i compagni di ufficio, fra gli amici di casa un mafioso o un camorrista. In queste province in cui vivono quasi venti milioni di italiani le iniziative democratiche assumono sovente un sapore donchisciottesco, come il beau geste del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che viaggia per la Palermo notturna senza scorta e si fa uccidere con la moglie. Arrivare nell'ufficio palermitano del procuratore Giancarlo Caselli è, nel 1995, come arrivare a Fort Alamo, nella vana attesa dell'arrivo dei soldati dell'Unione. Un don Chisciotte che fa il procuratore a Napoli, Agostino Cordova, si è provato a riportare la legalità nella grande, nobile e sventurata città, ma è come asciugare il mare con un secchiello: ha scoperto truffe colossali cui partecipava tranquillamente la buona borghesia delle professioni. Ma era già accaduto con le false fustelle della sanità pubblica, centinaia di farmacisti della buona borghesia ne avevano approfittato. Quale democrazia è possibile a Gela dove quindicimila persone su ottantamila sono disoccupate, e cinquantamila vani, cioè quasi tutte le case, sono abusivi? 20
Dove sorgono nuovi quartieri senza servizi, i cui abitanti si attaccano ai fili della corrente elettrica e lasciano le immondizie nella strada? Che democrazia è possibile a Reggio Calabria dove i boss mafiosi vivono nelle loro villette blindate attorno a cui vigilano le guardie armate, decine di migliaia di uomini provenienti dalle centinaia di cosche in villaggi in cui metà della popolazione è «pregiudicata», già segnalata per delitti? Le leggi sono quelle della democrazia formale che spesso per la cultura dominante restano lettera morta, e non esiste per la maggioranza un codice di norme giuste e non scritte da opporre a quelle scritte ma non giuste. «Presi uno per uno» scriveva di questa società David Herbert Lawrence «sono amichevoli, hanno qualcosa della noncuranza greca. È quando stanno assieme che sono diffidenti, ostili.» Non c'è armonia sodale in quelle province, e la democrazia altro non è che armonia sociale. La cultura, la letteratura meridionali possono essere di altissima qualità, ma non democratiche. Hanno prodotto il pirandellismo, la sua disperazione, il relativismo amaro di chi non si fida né di Dio né degli uomini. Anche Leonardo Sciascia diffida di tutto e continua il gattopardismo di Tomasi di Lampedusa, tutto cambia per restare sempre eguale. Mondo impietoso e infelice. Un personaggio della letteratura meridionale, una donna, ricorda quasi con simpatia il terremoto come una delle poche cose certe e importanti della sua vita; e, dopo tanti delitti, un boss lascia una lettera testamento ai familiari: «State attenti perché tutto il mondo è una infamia». Nulla è credibile, tutto delude. I «piemontesi» sono arrivati come in terra di conquista, i garibaldini sono passati come una fiamma rossa in un mare nero, i notabili risorgimentali si sono rivelati più esosi dei baroni, il fascismo li ha semplicemente camuffati, travestiti: dalla lobbia giolittiana al fez. Non è che i letterati meridionali siano amici dei mafiosi, loro complici, anzi il contrario, ma la cultura sodale in cui vivono è la stessa, basata non sulle regole del gioco ma sui rapporti di forza, non sulla legge eguale per tutti, ma sulla ricchezza e sul potere individuali o familiari, sulla furbizia autolesionista. E un paese come l'Italia che già si trascina sotto la greve eredità della Controriforma non può permettersi di avere come palla di piombo al piede il perdurante feudalesimo meridionale. Studiosi come Robert D. Putnam o Giorgio Ruffolo fanno risalire questa cultura a Federico II di Svevia, sovrano illuminato, Stupor mundi, ma fondatore di un sistema baronale diversissimo dalle signorie e dai comuni del Centro-Nord che, pur essendo oligarchici e corporativi, si davano gli strumenti del commercio, della finanza e dell'industria moderni. Complesse, misteriose vicende storiche, che ricompaiono come fiumi carsici a riproporre le loro condizioni. La storia dell'Italia moderna si gioca da centotrent'anni in questo rinnovato equivoco fra le élite liberali, democrati-che e un corpo sociale prevalentemente autoritario, con la ricorrente alternanza delle generose illusioni e delle cocenti delusioni. Non un paese incivile o minore perché i segni e i semi del progresso non vengono mai completamente ignorati, ma in un rinnovarsi di fatiche di Sisifo, di cicli di entusiasmo e di depressione, di riscatto e di rassegnazione. C'è stato anche nel fascismo un succedersi di speranze e di involuzioni, anni in cui pareva che, nonostante la cartapesta e la retorica, l'Italia stesse decollando e anni in cui si tornava ai duri confronti con la realtà. Forse, anzi certamente con sopravvalutazione del sistema politico e sottostima della società civile reale. Siamo stati anche fascisti rimanendo profondamente italiani. Ed essendo profondamente italiani restiamo in qualche modo fascisti.
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II LA TIRANNIA BONARIA
L'ambiguo seduttore Mussolini venne due volte nella mia piccola città, ma il problema di Barbaroux, il guardasigilli di re Carlo Alberto, non venne mai risolto. Questo guardasigilli sconosciuto ai cuneesi aveva, nessuno sapeva perché, una grande statua nella piazza principale, piazza Vittorio, al posto che sarebbe toccato al «padre della patria». Ma più che un usurpatore veniva considerato un enigma cittadino, un'inspiegabile trovata dei vecchi amministratori, su cui non era il caso di indagare. Quali raccomandazioni sovrane, quali suggerimenti della corte sabauda, quali parentele o clientele lo avevano sollevato a quel posto nel cuore della città, nella piazza che saldava la parte vecchia alla nuova, dove l'orologio del palazzo di Giustizia stava illuminato nella notte come un occhio vigile sulle antistanti abitazioni dei notabili antifascisti Galimberti e Soleri, la piazza cerniera dove la sinuosa, decrepita via Roma si interrompeva per aprirsi al gran slargo e poi al rettilineo di corso Nizza puntato verso le Alpi? Fatto sta che la prima volta che venne Mussolini parlò da un balcone dell'Automobile club, ignorando Barbaroux che gli voltava le spalle, e questo a me, ma credo anche agli altri cuneesi, diede una piccola pena per il povero guardasigilli che era uno sconosciuto come ministro del regno sabaudo, ma un vecchio amico quando d'inverno stava lì con il suo zuccotto di neve. E la seconda parlò da un rostro ligneo che aveva completamente coperto la statua, come una miseria cittadina da nascondere al duce che voltava le spalle a metà della piazza, diciamo ad almeno trentamila persone arrivate per vederlo da tutta la provincia. Mancavano solo i tre socialisti e i due anarchici che a ogni celebrazione fascista venivano mandati per una breve vacanza carceraria a Fossano o a Saluzzo dove, in due immani castelli, venivano tenuti assieme ai ladri di polli. Un mese prima dell'arrivo del duce incominciavano le ripuliture delle facciate e il mascheramento delle pubbliche latrine, e per la seconda visita vedemmo erigere un'enorme facciata in eternit, quello che dà il cancro, ma allora non lo si sapeva, per nascondere la piccola, stupenda giungla di un orto botanico abbandonato da anni, all'angolo di corso Dante che per l'occasione cercava di prendere l'aspetto di un corso imperiale con i tripodi fiammeggianti e fumiganti alimentati dalle bombole di Liquigas. Senza tripodi e senza fiamme una festa fascista dopo l'impero non era più concepibile. A mezzo secolo di distanza non ricordo bene quello che disse, ma ricordo che la piazza e i sessantamila accorsi si scatenarono in un applauso incontenibile quando lui pronunciò: «Camerati della provincia granda, voi che non mi avete mai chiesto niente», che al nostro piemontesismo coglione sembrò il massimo elogio. Ma forse stavamo tutti come dentro un rombo luminoso, lui e noi, al centro dell'invidia del mondo, lui che arrivava ritto sulla sua auto, con il volto romano abbronzato e noi che correvamo come pazzi per seguirlo, grassi e magri, giovani e vecchi, travestiti in uniformi che avevano pochissimo di italiano e niente di cuneese, drogati dai boati che accompagnavano le sue parole banali ma stupende, tenuti svegli fino a tarda notte da una festosa eccitazione, nel corso dei tripodi fiammeggianti come su una via trionfale. 22
La seduzione delle dittature sta anche nel loro isolamento dal mondo, inesistente o nemico. «Attento, il nemico ti ascolta» e i non nemici come non esistessero: Sun Yat-sen e Gandhi degli sconosciuti, le corrispondenze di Barzini senior sulla Cina della rivolta dei Boxer o piccole notizie antinglesi dall'India come dal remoto Catai, ma come dai paesi raggiunti e abbandonati da Alessandro il Macedone. E finché non si arrivò alla resa dei conti, alla conoscenza diretta del nemico pareva di vivere in assoluta sicurezza, nel bel paese che le Alpi serrano e il mare circonda. «E il duce, dove sarà il duce?» ci chiedevamo quella notte. Qualcuno diceva che era andato a dormire nella villa dei conti Parea alla Madonna degli Angeli, dove c'è la teca del beato Angelico, protettore incartapecorito della città, e anche questo sembrava un sacro accostamento. Quel romagnolo aveva capito che gli italiani, anche i piemontesi, sono più italiani di quanto pensino: amanti del melodramma e degli incantamenti. Più che fascisti eravamo dei provinciali nazionalisti sicché dopo la guerra per l'impero, una guerra contro nessuno in cui erano morti milletrecento soldati, mai un impero conquistato a così buon mercato, lui poteva dirci che «quegli otto mesi [della conquista] cantano in molte anime ancora come un'epopea vissuta. Tutto è stato fermo, deciso, virile, popolare e tutto, visto a distanza, sembra romantico tanta fu la bellezza, la poesia, lo splendore». E diceva la verità perché, quella guerra, lui e noi che non c'eravamo stati, l'avevamo sognata, l'uomo che prometteva regni e imperi aveva conquistato anche noi che raccoglievamo funghi e mirtilli. «Bastava la sua presenza e la parola.» «Le sue parole mettevano in orgasmo gli astanti.» Entusiasmo, contagio, suggestione. La sera della sua visita incontravi il professor Ferreri, sempre il primo a far la comunione, quasi un prete, votato alla verginità, uno di quelli che non guardano le donne per non peccare, e lo vedevi trasformato, in divisa, eretto, a viso aperto, stregato anche lui dall'uomo di Predappio. E persino mio zio Mario che era stato in Argentina, conosceva il mondo ed era antifascista! Lo incontravo e mi diceva: «Almeno lui è bello, mica come quel piedi piatti di Ciano». Anche per Ines Corsaletti, la maestra del piano di sotto, collega di mia madre, fu un grande giorno. Come altre maestre di Cuneo aveva sperato di sposare un ufficiale di qualsiasi arma, ma, in mancanza, si era accontentata di un seniore della Milizia, calabrese. Un bell'uomo con un naso adunco cui lasciavo il passo per le scale. Un giorno mia madre mi disse: «Corsaletti se ne è andato». «Andato come?» «L'ha piantata, è scappato con un'altra.» Da allora Ines Corsaletti sembrò più piccola, il nasone le era cresciuto, gli occhi tristissimi, la gonna lunga a nascondere quelle gambe corte che si storcevano poco sopra la caviglia, e sembrava che trotterellasse. Quando mi incontrava faceva solo un segno con il capo come a dire: «Sì, è così, mi ha piantato». Solo quel giorno mi chiamò per nome: «Giorgio, Giorgio, il duce, lo hai visto?». Il duce, almeno lui, c'era ancora. E quel giorno incontrai anche Marco Pisone, il giocatore di poker che aveva perso i soldi della Unione agricoltori di cui era impiegato e se li era fatti prestare da mio zio Valentino: bello, amato dalle donne, con la camicia nera aperta sul petto, la sahariana fuori ordinanza, il distintivo della marcia su Roma, rauco per le invocazioni, felice.
L'omazz Ora che ci penso a tanti anni di distanza quello che mi piaceva in Mussolini era la sua italianità, la sua romagnolità, l'essere uno degli omazz che puoi ancora incontrare tra Forlì e Ravenna, tanto più naturale quanto più lui lo copriva di pose e di vesti cesaree. La sua era una recita senza misteri e senza terrore, si pensava che tornato a villa Torlonia dal suo 23
mestiere di duce si sarebbe messo a tavola con moglie e figli come tutti gli italiani. Hitler e Stalin avevano delle amanti, delle mogli, dei figli, ma non avevano una famiglia, passavano le sere con le loro corti che continuavano a tiranneggiare, ad ammaestrare, a terrorizzare. Mussolini lasciava le luci accese a palazzo Venezia per il mito del capo insonne, ma alle otto di sera «staccava» come un impiegato, tornava da Rachele che aveva raccolto nel prato della villa «il radicchio che gli piace tanto». Sia per indole che per debolezza, sia per voglia di essere amato che per opportunismo, il duce rinunciò presto a creare uno stato totalitario, si accontentò del partito unico e della dittatura personale. Hitler e Stalin avevano a loro disposizione fedeltà ottuse, fanatismi cupi da far tremare il mondo, gli italiani invece potevano anche ridere di lui, delle sue mascherate, non avevano paura. Definire uno stato totalitario, perché tale era nelle prime intenzioni del suo fondatore, non sembra un modo corretto di fare la storia. Insomma, né io né i miei parenti, amici e conoscenti vivevamo nella paura che qualcuno bussasse nella notte alla porta di casa per portarci via senza una spiegazione. Non c'era una Gestapo nel fascismo, c'era una polizia politica forse più scaltra, borbonica, incline al doppio gioco, che vedeva negli antifascisti i possibili padroni di domani: li ricercava, li arrestava, li mandava al confino, ma lasciava che vi organizzassero una loro scuola di partito, che vi mantenessero le loro organizzazioni di partito, che facessero le loro domande di grazia. Nel nazismo e nello stalinismo la domanda di grazia era impensabile, sull'oppositore calava la morte o il lager. II rifiuto di considerare queste differenze enormi da parte dell'antifascismo più conformista ha segnato i limiti della sua cultura. I primi a rendersi conto che il fascismo era una creatura legata alle ambiguità profonde del suo fondatore furono i gerarchi più intelligenti o più servili. Roberto Farinacci era forse l'unico che potesse dire al duce certe cose, in certi modi: «Presidente, cosa è lo stato oggi? La fiducia in Mussolini. Noi non siamo ancora arrivati allo stato che dà forza agli uomini. C'è un uomo che dà forza allo stato. Che avverrà quando verrà meno questo uomo?». Pensando a lui, un gerarca intelligente come Giuseppe Bottai disperava nel fascismo: «Un capo nella vita di un uomo è tutto: origine e fine, causa e scopo, punto di partenza e traguardo. Se cade dentro di noi si fa una solitudine atroce». Senza Mussolini Bottai rinuncerà anche al suo nome, si arruolerà nella Legione straniera come un senza patria. Ma anche il maggiordomo Starace non sa pensare a un fascismo senza di lui: «Il titolo di duce è conferito alla persona. Quindi quello che fra cento anni dovrà succedergli sa già che non avrà diritto di avere questo titolo». L'italiano medio è solito descrivere la parabola politica di Mussolini come testa calda da giovane e conservatore da anziano, e anche in questo Mussolini era un italiano vero. Dapprima intransigente nel neutralismo come nell'interventismo, intellettuale fazioso per tutte le stagioni, marxista, marinettiano, dannunziano, nietzschiano e soprattutto mussolinista. Odiava Giovanni Giolitti, non solo come politico dell'«Italietta» liberale, ma anche come uomo prosastico in un paese di pindarici. Non era un'eccezione, quello era il suo tempo, che ascoltava estasiato i discorsi un po' deliranti del D'Annunzio fiumano. Nelle interviste a scrittori e a giornalisti stranieri il duce recitava la parte dell'esteta che fa della politica un'opera d'arte, la inventa di getto, la crea seguendo sublimi intuizioni, ma nella pratica era un «sedere di pietra», un burocrate preciso e pedante, «il mulo che ogni giorno tira la carretta». Galeazzo Ciano che aveva sposato sua figlia Edda e che era un uomo intelligente. anche se. come diceva mio zio Mario. aveva i piedi piatti, era il primo ad accorgersi quando sotto la sua camicia nera rispuntava il socialista. Mussolini aveva chiuso il proletariato in un grande ghetto. ma non lo opprimeva. Era il creatore e il duce del fascismo, ma diceva a un suo biografo «il mio cuore è ancora là» nella prigione con il compagno Nenni o nei giorni ardenti della settimana rossa. Si compiaceva di passare per il maschio romagnolo. latino, Gadda ne ha fatto il protagonista fallico di un mediocre saggio, 24
ma aveva comportamenti femminei. Volendo recitare tutte le parti non rifiutava quella dell'antifascista e si lasciava dire dai cortigiani: «Duce, sciogliete il partito fascista che è l'unico e più pericoloso nemico del vostro governo». O diceva in privato: «I fascisti dicono che possono fare a meno di me? Ma anch'io posso fare a meno di loro. Il fascismo è una gramigna». Poteva anche essere il duce-antiduce: «Io sono un duce per modo di dire, ho lasciato correre questa parola perché senza piacere a me, che detesto le parole e le arie solenni, piaceva agli altri. Ho tentato di smussolinizzare il fascismo, non è stato possibile». Un tentativo, per la verità, di cui nessuno si accorse. Diciamocelo francamente: poteva andare peggio con un movimento politico partito dalla «rivoluzione come santa follia sul buon senso» di Marinetti e dal Mussolini arrogante: «Potevo fare di questa aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti» o «Di costoro faremo strame per gli accampamenti delle camicie nere». Erano partiti minacciosi anche gli squadristi per cui gli avversari erano «corpi flosci», «immondezze schifose», «arteriosclerotici». I terribili squadristi visti dal corrispondente inglese del «Times» D.F. Philips: «Le camicie nere raccolgono l'aspetto medioevale del fascismo, il fosco, inflessibile, selvaggio carattere del Medioevo, il suo severo spirito di sacrifìcio che risplende di nuovo in questi intrepidi che camminano fianco a fianco con la morte». Intrepidi, forse, ma spalleggiati dalla polizia e dall'esercito, contro milizie rosse tardivamente organizzate, senza armi, senza mezzi. Ma fa presto a cambiare il Mussolini che porta al re Vittorio Emanuele «l'Italia di Vittorio Veneto», quanto a dire anche l'Italia monarchica. Il fascismo di regime è «una deroga straordinaria» che si colloca nella vecchia costituzione. Non è il Leviatano, il Moloch e neppure «la cosa» staliniana. Norberto Bobbio indica cinque modi per definirlo: in filosofia è antirazionale, contrario alla pretesa di trasformare radicalmente le società di diseguali in società di eguali; è antimaterialistico, antindividualistico, antiparlamentare e antipacifista. Ma da tutti questi anti non nasce uno stato totalitario, nasce un regime autoritario a partito unico. Nel regime c'è un'idea fondamentale molto chiara: impedire ogni opposizione politica attiva. Quanto ai cittadini, ai loro corpi e alle loro anime, non se ne impadroniva, li circondava di divise e di parole. Fra Hitler e Mussolini, fra il nazismo e il fascismo ci sono differenze così abissali che ci si chiede come mai fu possibile, non diciamo un'alleanza, ma il camminare per alcuni anni di conserva. Il fatto è che negli ultimi cinque si era ormai fuori dalla politica, c'erano solo i rapporti economici e militari di forza. Comunque fra gli italiani e i nazisti non ci furono equivoci, non fu necessario arrivare alle orrende rivelazioni del dopoguerra, allo sterminio degli ebrei, ai lager, erano bastati i cinegiornali, quelle pareti umane, quelle selve di croci uncinate, quell'idea dell'uomo di Olympia, il film della Leni Riefenstahl, giganti biondi e virago teutoniche. Mussolini rimette in piedi buona parte del vecchio stato, Hitler lo frantuma. Il Terzo Reich, dominato dal Führerprinzip, non è uno stato, ma una sovversione permanente tenuta assieme dal terrore, come la sovietica, e dalla utopia razziale, dalla selezione razziale senza tregua che prima elimina gli ebrei a sangue intero, poi i mezzo sangue e i popoli inferiori, polacchi, zingari, slavi, meticci, negri, e quindi gli ariani con malattie congenite senza fermarsi neppure di fronte al fiore della razza: nel 1943 milleduecento SS vengono espulse dal corpo perché hanno parenti o amici stranieri. Renzo De Felice sostiene che fu il nazionalismo a cementare i tedeschi attorno a Hitler, a farli arrivare compatti fino alla sconfitta; ma era un nazionalismo portato all'ennesima potenza dalla religione razziale, dalla convinzione del primato razziale. Dicevo sovversione permanente. Si uscirebbe pazzi a cercar di capire l'intreccio delle relazioni fra la Wehrmacht, il partito nazista, la Gestapo, le SS, la Todt, il ministero degli Esteri. Erano tanti meccanismi perfetti che giravano l'uno alla insaputa dell'altro. Il servizio RSHA di Adolf Eichmann per la soluzione finale continuava a requisire 25
treni per mandare gli ebrei ad Auschwitz mentre mancavano le tradotte per rifornire il fronte; il RUK, il comando armamenti e produzione di guerra, seguiva i suoi interessi capitalistici, proteggeva gli industriali stranieri che la Gestapo avrebbe fucilato. Il potere reale dello stato finiva dove cominciava la segretezza dei feudi che avevano per unico vero collante il Führer, il quale ne era conscio: «In tutta modestia devo indicare come fattore ultimo la mia persona. Insostituibile». Mussolini fa parte della famiglia autoritaria europea, come il primo e il terzo Napoleone, Bismarck, Thiers, Gambetta, Disraeli. Tutti legati a un'idea di potenza tradizionale: la conquista di territori stranieri, la loro amministrazione o assimilazione dentro un quadro sostanzialmente borghese. Hitler e Stalin anche per Mussolini appartengono a un'altra specie, per lui sono «un paranoico e un feroce asiatico che non potrà mai capire l'ironia purgativa», per dire la punizione fascista dell'avversario con l'olio di ricino. Durante gli anni del regime le pene capitali eseguite furono una decina, gli incarcerati 5155, i confinati 25.000. Moltissimi per uno stato di diritto, una quantità insignificante rispetto alle repressioni naziste o staliniste di cui non si è riusciti a tenere il conto sommandosi le stragi politiche a quelle razziste o militari, pare più di venti milioni di morti. Lo stalinismo fu il peggior nemico dei comunisti, decimò il partito, mandò a morire nei lager siberiani milioni di «compagni», fece fucilare migliaia di ufficiali dell'armata rossa. Mussolini per togliersi dai piedi il quadrumviro Cesare Maria De Vecchi di val Cismon, un monarchico torinese di nessun seguito, gli inventò un posto di governatore del Dodecaneso. Le purghe fasciste di solito si risolvevano nel «largo ai giovani» che portava alla ribalta trentenni innocui come Vidussoni o capitani di ventura come Ettore Muti, ma lasciava ai notabili anziani posti di privilegio. Mussolini è pronto a salvarsi varcando il confine svizzero o trattando con i partigiani, la sua fuga verso la ridotta valtellinese è un modo per guadagnare tempo in attesa che arrivino gli alleati a farlo prigioniero. Hitler e i capi nazisti non sono neppure sfiorati dal pensiero di arrendersi. «Noi» dice Goebbels «sapremo come chiudere la porta dietro noi, ma per essere ricordati nel millennio.» La storia fatta sui documenti può anche provarsi a descrivere il regime fascista come totalitario, non mancarono negli ultimi anni progetti, velleità per distruggere totalmente il vecchio stato, ma gli italiani non ebbero mai l'impressione di essere posseduti in modo totale, si mossero sempre fra zone di difesa e di rifugio che il fascismo non solo non aggrediva, ma faceva proprie, quasi volesse difendersi da se stesso: le organizzazioni cattoliche, la rete delle parrocchie, le strutture capitalistiche, lo stato maggiore militare, Armi come i carabinieri e la marina. E in primis la famiglia. Negli stati totalitari anche la famiglia era stata colpita duramente, ci si denunciava tra consanguinei, si diffidava dei fratelli. Nel fascismo la famiglia è intoccabile, la divisione fra pubblico e privato per il duce è sacra. In occasione del cinquantenario della seconda guerra mondiale le televisioni hanno scovato gli ultimi testimoni del crepuscolo nazista, i soldati, i telefonisti, i camerieri che vissero accanto a Hitler nelle sue ultime ore. Fino all'ultimo servitori di un potere indiscutibile, fino all'ultimo privi di ogni curiosità umana su quel potere. Tutti parlano di Hitler come di una persona normale che dava ordini normali. Gentile, anche. Quelli che stavano attorno a Mussolini partecipavano invece alla sua lenta agonia, ai suoi intrecci sentimentali, alle sue passioni. E sì che non era un tipo confidenziale, era uno che restava in qualche modo «un altro». Ma un altro sempre uomo. Ci sono stati anche in Italia fascisti faziosi, fanatici, sentimentali, sognatori, delatori, ma la maggioranza digerì lentamente il fascismo, i suoi tentativi di cambiarli, quegli interventi successivi che non costituivano un tutto organico, quando ne arrivava uno il precedente era già stato assorbito nell'indifferenza o nell'ironia. Ho ritrovato questo fascismo nell'Unione Sovietica di Breznev. Ero a Samarcanda in un hotel vicino alle moschee, con gli zampilli d'acqua e le rose nel giardino, 26
a due passi da un quartiere senza fogne, rivoli di acqua putrida per le viuzze, nel fetore. Mi sveglia un brusio, un trepestio. Vado alla finestra e vedo sulla grande strada sterrata che porta alle moschee centinaia di giovani forniti di scope rudimentali, fascine legate a un bastone. È la giornata della pulizia socialista, il Komsomol ha riunito i suoi, li ha mandati a ripulire la strada frequentata dai turisti, larga quindici metri, con una terra color rosa, da cui un vento gagliardo solleva mulinelli di polvere. I ragazzi del Komsomol non fanno in tempo a fare un mucchietto che li investe una nube di quella cipria e la cosa li diverte molto, ridono, si chiamano per nome, fanno passare il tempo, cantano e dopo mezz'ora se ne vanno lasciando la strada come prima, ma ai dirigenti del Komsomol va bene, hanno eseguito la disposizione d'ordine. Era molto diverso, almeno da noi in Piemonte, il legame con la monarchia, anche se quel nostro piccolo re ci sembrava rassegnato, impaurito, vicino all'omazz. Per i piemontesi i Savoia erano i re di casa, quelli con cui erano andati a battaglia, prima sulle Alpi contro i franco-ispani per fissare una volta per tutte i confini dell'Italia e poi verso Solferino e San Martino, verso le acque azzurre del Mincio. Erano i re di casa con le loro dimore di campagna modeste, riconoscibili per le strisce bianche e rosse delle pareti, a Fontanafredda, Pollenza, Sant'Anna di Valdieri. Con quella greca di re altissimi e di re nani, Carlo Alberto sopra l'uno e novanta e Vittorio Emanuele III, un nanerottolo, che forse per questo odiava gli Aosta, tutti marcantoni. Il fatto che il re nano Vittorio Emanuele III si fosse sposato con una gigantessa montenegrina per rinforzare la razza era cosa naturale per degli allevatori di bestiame piemontesi con fiera del bue grasso a Carrù e vitelli della coscia sulle Langhe, allevati a farina bianca e a uova. Ogni estate, puntuale, la real casa arrivava per le vacanze a Sant'Anna di Valdieri. Il nostro terrorismo, in quegli anni, erano gli anarchici, fortissimi a Carrara, assenti in Piemonte. A confronto con i servizi di sicurezza attuali, giganteschi e supertecnici, quelli di allora erano alla buona, qualche carabiniere in più nei villaggi, qualche altro, ma invisibile, fra gli abeti che seguivano la curva davanti alle casette reali, alberi radi, per cui si potevano vedere re, regina, principe e principesse riuniti sul prato per la merenda. Sulla strada non c'erano guardie, l'impressione che dava quella famiglia era di una totale fiducia piemontese. Una volta, salendo al monte Matto, vidi il re e la regina sulla sponda del primo lago Sella, la regina Elena, vestita di nero, forse annoiata, forse beata in quella solitudine, guardava nel vuoto, il re, un vecchio signore, pescava assistito da un guardacaccia. Ma non feci in tempo a vedere se abboccava una di quelle trote enormi a sommergibile che nuotavano vicino alla sponda. Un saluto con la mano, un cenno del re e lo lasciavamo in pace. La monarchia era come assente, ma ogni tanto, attorno a lei, almeno in Piemonte, c'erano vampate di lealismo. Una volta il re capitò per caso a Savigliano e andò a mangiare con la regina alla Corona grossa, dove facevano il gelato caldo, una delle sette meraviglie della provincia, gelato alla crema e sopra cioccolato fuso. Si sparse la voce, presto si riunì una folla sotto il balcone, c'ero anch'io, con mio padre che lì faceva il professore, e incominciò un'attesa silente ma affettuosa, finché il re apparve e allora i miei compassati compaesani si abbandonarono a un applauso caloroso e accorato: salvaci tu piccolo re, non lasciare che ci trascinino in un nuovo massacro insieme a questi tedeschi che tu e i tuoi padri e nonni avete combattuto da Novara a San Martino. Dinastia consumata, debole. Sarebbe bastato durante la guerra partigiana che il principe Umberto arrivasse in una delle zone liberate. Noi di Giustizia e Libertà eravamo ormai per la repubblica, ma avrebbe ancora raccolto l'antica fedeltà del vecchio Piemonte. Però non venne, il vecchio re pauroso non glielo permise, i monarchici di Mauri e di Eddy Sogno lo aspettarono inutilmente.
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Il militarista disarmato Capita che mi chiedano: ma quando è che sei diventato antifascista? Che fascista fossi a diciotto o Vent'anni non l'ho ancora capito, so che vidi quando il regime si ritrovò in brache di tela, lui e i suoi soldati. Fu nel settembre del '39, quando richiamarono i riservisti alpini per far capire ai francesi che eravamo pronti alla guerra, anche se stavamo ancora a guardarla. Un ordine tipicamente suo, di Mussolini, dato senza sapere se fosse eseguibile. Ma andava così dai più alti ai più bassi gradi. Arrivava l'ordine di stendere dei reticolati al colle della Maddalena, il colonnello comandante del battaglione telefonava al generale: «Ho il filo spinato, ma mi mancano i paletti, ci saranno fra cinque giorni». E il generale: «Intanto, posso dire che li state mettendo?». Nessuno di noi a Cuneo sapeva del richiamo, i giornali e la radio non ne avevano fatta parola. L'alluvione arrivò durante la notte, al mattino Cuneo si trovò invasa da una fiumana di richiamati che scendevano dai treni alla stazione nuova, venivano intruppati alla meglio e poi attraversavano la città fino a piazza Vittorio: ma lì giunti non svoltavano verso le retrostanti caserme, proseguivano per via Roma, nella città vecchia, per sistemarsi sotto i portici dove nella notte era stato steso uno strato di paglia che lasciava solo uno stretto passaggio davanti ai negozi. Allora usava che chi partiva per il militare indossasse l'abito peggiore, con scarso ricambio in una valigia di cartone, tanto l'indomani sarebbe stato in divisa. Ma le divise non c'erano e non c'erano le brande e i posti per le brande, e gli unici soddisfatti erano i panettieri della provincia cui era stato commissionato il pane, dato che i forni del centro logistico di Alessandria erano in trasferimento e non si poteva cavarsela come per i reticolati: «Posso dire che il pane lo state facendo?». Il comandante del corpo d'armata si era provato a chiedere ad Alessandria che, mentre i forni erano in trasferimento, mandassero almeno gallette e scatolette di carne, ma non c'erano gli automezzi. Non so se fu allora che finì il mio fascismo, so che dovevo passare per quello stretto varco per raggiungere il liceo Silvio Pellico, in piazza Cacciatori delle Alpi, e sembrava un accampamento di zingari, dovevi scavalcare i sandali vecchi o le scarpette bianche da ginnastica dei dormienti. Qualcuno aveva acceso in via Roma dei fuochi per far riscaldare il rancio che arrivava freddo dalle caserme, la nostra modesta ma decente povertà si disfaceva nel generale sconforto. Era andata così anche in quel 24 maggio in cui il Piave assisteva «calmo e placido al passaggio dei primi fanti»? Non credo e non solo per via del fascismo: era cambiato l'animo, l'idea della guerra... Sì, forse quel giorno non finì il nostro fascismo ma certo la sopportazione della retorica fascista e mussoliniana: «Noi abbiamo creato il nostro mito. Il mito è una fede e una passione. Non è necessario che sia una realtà. È una realtà come pungolo, come speranza, come fede, come coraggio. Il nostro mito è la grandezza della nazione». Parole, il mito non fa le brande, non porta il rancio caldo, non ha pronte le divise di panno. Il mito senza armi è l'anticamera del «tutti a casa», della resa in massa di Pantelleria e di Augusta, dell'8 settembre '43. Il «nuovo stile di vita, l'educazione al combattentismo» sono parole, ma la verità è via Roma con i fuochi accesi per riscaldare il rancio, i richiamati che dormono sulla paglia, noi che ci risvegliamo in quella miseria. Finalmente, dopo una settimana, in parte li rimandarono a casa, in parte li misero in divisa, e fu allora che feci per la prima volta caso al fatto che mentre la divisa dona ai tedeschi e agli americani, li fa diventare quel che il mondo immagina che siano, a noi dà un'aria da poveretti, peggio di quanto il mondo immagini che siamo. L'inganno della divisa fece credere a esteti come Gide o Cocteau che i soldati della Wehrmacht in marcia sugli Champs Élysées, con l'elmetto d'acciaio brunito e gli occhi azzurri, fossero la forza e la bellezza nibelungica, mentre, sotto, erano dei mangiatori di patate destinati a precoce pinguedine. Dicono: ma non potevi accorgertene prima? l'esercito 28
italiano non era qualcosa di visibile? Forse, ma la gioventù è distratta, corre dietro alle cose piacevoli, le spiacevoli fa finta di non vederle, non le vede. Dovettero passare la guerra e poi parecchi anni del dopoguerra perché incominciassi a capire come erano andate le cose con quel romagnolo che aveva fatto scrivere su tutte le case di Italia: «È l'aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende» senza occuparsi mai seriamente della spada. Dovendo scrivere negli anni Sessanta una storia dell'Italia in guerra mi rivolsi al più grande manager italiano, Vittorio Valletta, presidente della FIAT, per sapere come fossimo arrivati alla guerra senza saper produrre un motore per bombardieri al passo con i tempi e avessimo dovuto ricorrere a uno su licenza tedesca, perché non fossimo in grado di produrre dei caccia all'altezza degli Spitfire inglesi e dei Messerschmitt tedeschi, noi che con Agello avevamo stabilito il primato mondiale di velocità, perché i nostri carri armati fossero di latta e il nostro cannone anticarro 47/32 uno schizzetto. Mi rispose con una breve lettera il cui succo era: con i baci non si fanno figli, con le parole non si fanno armi. Tutte cose che il militarista disarmato Mussolini sapeva perfettamente, ma che fingeva di non sapere. Per quanto fiducioso nel mito e nella fede non poteva ignorare che i cantieri dell'impero inglese avevano una capacità produttiva quindici volte superiore alla nostra e quelli degli Stati Uniti trenta. Non poteva ignorare che la nostra industria rappresentava il 2, 7 per cento di quella mondiale mentre i nostri nemici arrivavano al 70. Nel '39 ci fu una riunione con i massimi dirigenti industriali, Giordani per I'IRI, Rocca per l'Ansaldo, Valletta per la FIAT, e lui chiese di impostare un programma per il rinnovamento delle artiglierie. «Bisognava pensarci dieci anni fa, duce» osservò Giordani. «Già, avete ragione, Giordani» disse Mussolini «bisognava pensarci.» Il riarmo era difficile per la mancanza di soldi, di ricerca, di tecniche, di materie prime, ma non c'era neppure la volontà, non c'era l'organizzazione, il Sottosegretariato alle fabbricazioni di guerra era escluso dai rifornimenti di carbone, carburanti, canapa, gomma, legna, affidati a enti diversi. L'industria di guerra o era troppo accentrata, come la metà dei fucili nel Bresciano, o troppo divisa come le ottantanove zone di produzione delle artiglierie. Sapeva il duce, ma fingeva di non sapere, toglieva la parola al generale Favagrossa, sottosegretario alle fabbricazioni di guerra, se denunciava la mancanza di automezzi, e al presidente della corte dei conti che voleva riferirgli sulle spese diceva: «Spero che le vostre geremiadi siano terminate». A quel punto sapevano anche gli italiani; per tutto l'anno della non belligeranza, quando stemmo a guardare le guerre lampo dei tedeschi in Polonia e in Norvegia, la gente sperò che Mussolini la tenesse fuori dal massacro. Solo nel maggio del 1940 quando le armate tedesche penetrarono nelle difese francesi come un coltello nel burro la gente capì con sgomento che lui non avrebbe resistito alla tentazione di partecipare al bottino, di fare della guerra un azzardo politico. Me la ricordo, quella dichiarazione di guerra. Ero a Roma due giorni prima, il duce doveva consegnarci le medaglie d'oro vinte ai Littoriali sportivi, e alla guerra non volevamo pensarci, per noi quel viaggio era ancora festa di gioventù, rapidi incontri e rapidi amori nelle pensioncine dove ci avevano sistemati a modica spesa. C'era anche l'Edgardo Beltrametti, un cuneese approdato alla direzione del partito, ci stava sempre fra i piedi perché corteggiava come me una campionessa di nuoto genovese. Qualche ora prima della premiazione incontrai in un ristorante Guido Pallotta e i redattori del «Lambello», il giornale del GUF di Torino. Erano stati ricevuti dal duce e stavano chiedendosi che cosa mai avesse voluto dire con quel misterioso: «È finito il tempo di cirioleggiare». Avevano cercato la parola sui vocabolari senza trovarla, ma era chiaro: è l'ora di decidere. Ci portarono in una sala di palazzo Venezia attigua a quella sua del Mappamondo. Gridavamo «duce, duce» quando fece il suo ingresso da una porticina, ma camminava rapido, a muso duro, voleva che capissimo ciò che non poteva dirci, che lui Cesare aveva tratto il dado. Ci riuscì, la festa era finita, anche il rapido amore con la 29
campionessa di nuoto genovese; un viaggio notturno mi riportò a Cuneo e non mi stupì l'annuncio di una grande adunata alle dieci del mattino. Quel 10 giugno, appoggiato al muro della casa in cui ero nato, in via XX settembre, proprio davanti la piazzetta della casa Littoria, mi calò addosso il gelo mentre la sua voce annunciava che era arrivato l'inizio della fine: «Un'ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria, l'ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia». Dietro il fascismo c'era una società agricola di villaggi e di campanili su cui battevano le ore. Quel giorno da noi, in provincia, ci fu il silenzio e a Roma in piazza Venezia come un gemito di folla, come un rumore soffocato che non osava essere di terrore, ma che non riusciva a essere di gaudio. Per la prima volta sentivamo che un'adunata fascista non era una massa, ma una somma di uomini trafìtti dal pensiero del massacro incombente, consci che ritornava il tempo in cui si può morire senza ragione. Quel mattino si spensero le luci dei teatrini littori, la casa Littoria di Cuneo con la torretta alta tre metri ci apparve nella sua reale modestia, con gli intonaci già scrostati, le sedie del cinema-teatro già malandate. Tornando a casa incontrai il federale. «Domani» mi disse «i nostri paracadutisti occupano Malta.» La notizia non arrivò mai. Strana, vergognosa guerra: la Francia era già vinta, le divisioni corazzate tedesche dirigevano su Lione e su Le Havre, e il nostro comando supremo studiava ancora i modi per vincerla senza farla. Il comando supremo si era sistemato, secondo una tradizione militarferroviaria del principio del secolo, in un treno speciale, fermo su un binario morto fra Bra e Alba. La sera i generali ne scendevano per raggiungere a Bra la trattoria Buoi Rossi e i suoi bolliti con salsa verde. Il comando in un treno poteva ricordare Foch a Compiègne, ma non aveva senso: non c'erano tavoli per distendervi le carte, non c'era spazio per le riunioni, del resto inutili. Il maresciallo Graziani telefonava a Badoglio rimasto a Roma con il duce: «Chiedo autorizzazione a considerare ipotesi offensive». Non scherzava, parlava sul serio, la guerra per noi era una lontana ipotesi, una sceneggiata in attesa di una soluzione politica. Badoglio, meno ipocrita, rispondeva: «No, neanche in termini vaghi». E Graziani: «Ma noi allora nulla potremmo fare anche in caso di collasso della Francia». Badoglio ammansiva il gran burino ciociaro: «Quando il nemico è in rotta i chilometri non si contano più». Ma quello non capiva: «Vi sono fortificazioni da superare. Non dobbiamo illuderci sulle nostre possibilità in fatto di artiglierie. A fine anno se avremo un migliaio di carri armati sarà molto, e non avremo alcun miglioramento nelle artiglierie». Lo sapevano a Roma, lo sapevano. Sapevano che i forni Weiss per il pane dei soldati erano in trasferimento da Alessandria come nel '39, che le comunicazioni radio non funzionavano per mancanza di batterie, così come i telefoni da campo, che ci sarebbero voluti undici giorni prima che le nostre due armate fossero in grado, non di fare un'offensiva, ma di simularla nell'assoluta certezza che non avrebbe minimamente intaccato le difese francesi. In quell'offensiva simulata i feriti da arma da fuoco furono pochissimi, gran parte dei duemilaseicento ricoverati in ospedale erano congelati, molti reparti non avevano divise di panno e scarponi. Per noi civili quella guerra non Il fu, fu una sorta di pantomima recitata di fronte a un nemico invisibile, che comunque non consideravamo un nemico, e quando si fece vivo al terzo giorno non si capiva se fosse davvero lui o uno capitato lì per caso, l'intruso di una dróle de guerre. Suonarono le sirene di allarme e scendemmo di corsa nelle cantine di una casa che sarebbe venuta giù al vento di una bomba. Non si udiva niente, al lume delle candele guardavo le bottiglie di dolcetto temendo che mia madre si accorgesse dei miei furti. Il vino rosso mandava riflessi cangianti. Mezz'ora dopo suonò il cessato allarme e già circolava la notizia che c'era una bomba inesplosa in corso Nizza. Noi giovani correvamo sul posto, tenuti a distanza da una guardia civica che conoscevo perché era stato portiere nella mia stessa squadra di caldo e io non riuscivo a vederlo in divisa da civic, lo vedevo 30
sempre m mutandine e ginocchiere. Si era piantata nell'asfalto la bomba, come una coppa rovesciata, color grigio, non più grande di una coppa; quell'intruso più che nemico doveva averla gettata con le mani dal suo aeroplanino, partito da Nizza o da Cannes, terre d'oltralpe dove c'erano più italiani che francesi, i nostri contadini andati a coltivare orti e giardini. La bomba rimase lì alcuni giorni perché non si trovavano gli artificieri. Intanto gli ospedali andavano riempiendosi di congelati che non avevano neppure visto il nemico, chiuso nelle sue fortezze alpine di cemento e di roccia. L'unica vera strage fu quella delle trote uccise nei laghi con le bombe a mano, non potevano scappare come i camosci e gli stambecchi in valloni irraggiungibili. Tornarono anche i nostri amici ufficiali o soldati, i racconti che facevano erano gli stessi delle gite alpine: «Eravamo sul ghiacciaio Pagari, sai al rifugio dove siamo stati l'anno scorso, faceva un gran freddo, poi i francesi hanno sparato due colpi». «E allora?» «Allora siamo tornati indietro.» Strana guerra che nessuno aveva voglia di fare. Al Colle di Ferro, dalle parti del Moncenisio, una schiarita della nebbia lasciò allo scoperto una compagnia di alpini sotto le mitragliatrici francesi. Scese un ufficiale dei Chasseurs des Alpes con una bandiera bianca e disse: «Lasciate a terra le anni e ritiratevi, non vogliamo uccidervi». C'era una certa discordanza di idee su chi doveva farla quella guerra e sul come farla. Il duce era rimasto fermo al '14-18. «Solo la guerra» diceva «porta al massimo di tensione tutte le energie umane.» Qualcosa del genere lo si trova anche in Pavese o in Gide che scambiavano la guerra per un'emozione. E invece era una cosa incomprensibile in cui non c'erano rivendicazioni territoriali serie, credibili, e la vis pugnandi residua aveva pochissimo spazio di fronte all'industria e alla tecnica, una guerra in cui alla lunga avrebbe vinto chi aveva le miniere e i radar, le navi Liberty e le fortezze volanti; non l'avrebbero decisa le manovre avvolgenti di Rommel che si muoveva in Libia come gli austriaci e i tedeschi a Caporetto, ma la paziente preparazione logistica di Eisenhower. C'è chi pensa che il nostro distacco dal fascismo alla prova della guerra sia stato opportunistico, che lo abbiamo mollato perché perdeva, ma non fu esattamente così, fu qualcosa che superava la dimensione militare, il rendersi conto che il regime nato come riscatto e rivincita sull'«Italietta» ne era una ripetizione in peggio, entrava in una guerra mondiale come se fosse un gioco diplomatico, continuava a usare le suggestioni e la retorica del guerriero in un colossale impegno di mezzi, di tecniche, di organizzazioni. Credo che si dovette a questa mutazione della guerra la mancanza del reducismo, chi le sopravviveva non si sentiva né un benemerito né un eroe, ma uno protetto dalla buona sorte. Per la nostra generazione non era più bello e onorevole morire per la patria, non lo era più alla fine neppure per i soldati tedeschi che cantavano la triste invocazione: «Richiamaci in patria Führer, richiamaci da questo paese dove ci odiano e ci uccidono». Quando è cominciato il mio distacco dal fascismo? Forse al premilitare sui prati dell'altopiano della mia città, quando ci insegnavano a sparare non con pallottole vere, ma con proiettili di legno rosso. Sparavi con un gran fragore e quel legnetto zompava cinque metri più in là. Sembrava una presa in giro. Di certo durante la guerra al corso allievi ufficiali, prima a Merano e poi a Bassano. A Merano ci fecero le iniezioni contro il tetano e il colera e quando braccio e petto furono gonfi e lividi ci portarono a correre a torso nudo, a venti gradi sotto zero, sulla riva dell'Adige. Secondo la tradizione dell'esercito italiano di scambiare la disciplina e l'addestramento con le piccole torture in cui ci scappava regolarmente il morto. A Bassano l'innovazione principale era il cappello alpino che il comandante, colonnello Balocco, esigeva a cupola, senza una piega, contro l'iniziazione, in uso dalla formazione del corpo, di deformarlo bagnandolo e modellandolo con il palmo della mano. Il colonnello Balocco era alto quasi due metri, che superava con la cupola tonda del cappello. Aveva occhi azzurri come appesi sul niente e quando gli presentavamo 31
le armi ci sembrava di presentarle al niente. Dopo due giorni si era già capito che il corso non era una preparazione alla guerra, ma un ripasso della vecchia cultura di caserma, ore e ore di letture del regolamento, lezioni in cui si ripeteva che «la fanteria è la regina delle battaglie» o «la baionetta è l'arma decisiva», mentre era un'arma disgustosa, da macelli di altri tempi, che orrore quando la inastammo per l'assalto finale sulle colline di Torbole del Garda, lancio della bomba a mano, «Savoia» e poi di corsa verso una sicura pallottola di mitraglia nemica con quel ferrovecchio in cima al fucile. Un corso di preparazione alla guerra mondiale dei radar e degli Stukas con le pezze di tela al posto dei calzettoni e le fasce mollettiere, delle strisce di panno grigioverde che dalla pianta del piede si attorcevano fino al ginocchio stringendo i muscoli e pungendo la pelle. Ogni sera, prima della libera uscita l'ispezione al fucile. Il tenente Mervic dava una rapida occhiata alla canna pulita e ripulita e, a caso, la giudicava sporca e ti consegnava perché la naja senza soprusi non era vera naja. Al campo invernale, ad Asiago, ci fecero fare gli igloo, come se dovessimo combattere gli eschimesi. Le armi o erano ferrivecchi o strani gingilli come il mortaio Brixia che sparava bombette a cento metri. Solo quando sul viale della caserma la banda attaccava la marcia del principe Eugenio ti risuonavano dentro memorie marziali. La cosa migliore era la rivista teatrale di fine corso, ti distaccavano per le prove due volte la settimana e, arrivati al teatro, o andavi a dormire in un palco o cercavi una delle donne delle pulizie che ne passava anche dieci di noi per mattina. Per finire, nei quarantacinque giorni di Badoglio ci mandarono a tenere l'ordine pubblico a Venezia, vestiti di panno nella calura estiva, perché, come di norma, le divise di tela erano pronte solo in inverno. Stavamo in un vecchio palazzo che dava su un canale abbandonato, pieno di meloni marci fra cui nuotavamo nella notte stellata. Il sadismo alpino aveva trovato a Venezia un nuovo gioco: fare ordine chiuso in piazza San Marco, avanti, per fila sinist, dietro front, sotto gli occhi dei fìnti turisti tedeschi che si preparavano all'occupazione. Finte erano anche le coppie di sposini in viaggio di nozze, fermavamo le loro gondole, guardavamo i loro documenti, una serie di gesti mutili, di controlli senza senso in quello strano intermezzo. Tutti i grandi dittatori erano dei militaristi che disprezzavano i militari, anche Hitler e Stalin erano convinti di essere molto meglio dei loro generali, ma almeno avevano preparato la guerra e la guidavano con fanatismo e ferocia. Per Mussolini la guerra era una recita dietro cui giocare d'astuzia con la politica. La guerra reale andava nascosta perché un bluff o un'avventura disperata: non abbiamo mai saputo nulla di preciso sul conflitto impari d'Etiopia, i giornali parlavano di grandi battaglie, pubblicavano delle carte piene di frecce senza dire che combattevamo contro gente armata di «zagaglie barbare». Nessuno ci aveva detto della disfatta di Guadalajara in Spagna. I piani strategici venivano dopo i calcoli sulla vittoria altrui e anche questi sbagliati. Nell'armistizio con la Francia avremmo potuto chiedere i porti di Biserta e di Tunisi che ci avrebbero consentito rifornimenti sicuri alla Libia, ma nessuno ci pensò. L'impero fu condannato in partenza con la chiusura da parte degli inglesi del canale di Suez, andammo a una guerra marinara in un mare dominato dalla più esperta e potente flotta del mondo, l'inglese, senza mettere in conto la fine prevista da Churchill dei «fiori recisi nel loro vaso». Del resto il militarismo fascista era partito con il piede falso, la marcia su Roma sarebbe ignominiosamente fallita se solo il re avesse ordinato a un reggimento di fermarla. E tale rimase fino a Salò, la cultura di caserma e la casta militare impedirono ogni riforma, centinaia di generali inetti riuniti attorno ai vecchi marescialli Badoglio e Graziani peggiorarono anziché rinnovare di sana pianta l'esercito della prima guerra mondiale. A Mussolini mancò non solo il coraggio, ma la voglia di intervenire. Non li trovò neppure quando Graziani abbandonò l'esercito in rotta a Tobruk e fuggì, senza un ripensamento, fino a Tripoli, comunicandolo a fuga avvenuta con un
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messaggio penoso: «Alzerò su questo forte la nostra bandiera per l'ultima difesa». E se lo riprese a Salò.
Cattolici e romani L'alleanza con la chiesa cattolica è il chiodo fìsso dei nostri autoritari. Ci vedono il modello perfetto di anarchia intruppata, di ordini mendicanti e miliardari conviventi sotto il papa sovrano come i rivoluzionari e i conservatori nella dittatura, una garanzia di tenuta dei diversi, di continuità. Era il chiodo fìsso dei fascisti, poi del comunismo togliattiano, ora della nuova destra. In visita in Inghilterra il segretario neofascista Gianfranco Fini ha detto: «L'Europa a cui penso è quella delle cattedrali». Gli autoritarismi di sinistra partono dall'ateismo per arrivare alla Conciliazione. Il Mussolini fuoriuscito in Svizzera del 1904 è un ateo da manuale: «Dio non esiste, la religione per la scienza è una assurdità, nella pratica una immoralità». E ancora, il 18 settembre del '19, parlando a Milano ai garibaldini delle Argonne: «Vorrei un popolo pagano che voglia la lotta per la vita e per il progresso senza credere ciecamente alle verità rivelate e che disprezzi le panacee miracolose». Il Mussolini capo del governo è l'opposto, l'uomo del Concordato, dell'insegnamento religioso nelle scuole, della religione cattolica - religione di stato, del crocifìsso nelle aule al vertice della trinità fascista, in alto, e, sotto, appaiati, il duce e il re. Il signore delle parole cerca di aggiustare anche questo pateracchio, riconduce l'alleanza con la chiesa all'antico primato di Roma «onde Cristo è romano» perché «questa religione è nata in Palestina ma è diventata cattolica a Roma. Se fosse rimasta nella Palestina molto probabilmente sarebbe rimasta una delle tante sette che fiorivano in quel paese arroventato». Ai preti queste elucubrazioni da maestro di scuola non danno fastidio, lo lasciano dire, il 13 febbraio del 1929 Pio XI, gli rilascia un pubblico attestato: «Siamo stati anche dall'altra parte nobilmente assecondati. E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare». In fatto di provvidenza i preti non risparmiano, al papa e al cardinal Faulhaber andrà bene nel '33 un altro uomo della provvidenza: «Per il prestigio della Germania il Concordato rappresenta un fatto incommensurabilmente benefico. Diciamo sinceramente con tutta l'anima: Dio conservi al nostro popolo il nostro cancelliere Adolf Hitler». E il cardinale non poteva ignorare che c'erano già i lager degli avversari politici e la persecuzione degli ebrei. Nelle storie personali dei nostri autoritari c'è in gioventù un profumo d'incenso, una memoria di collegio cattolico. «Andavo a messa di Natale in quegli anni» racconta Mussolini «e il ricordo è ancor vivo nella mia memoria. Erano in pochi a non andare in chiesa: mio padre e uno o due altri. In chiesa c'erano molte luci e presso l'altare in una culla il Bambin Gesù. L'incenso mi dava momenti di stordimento. Finalmente un suono d'organo chiudeva la cerimonia. La folla si disperdeva, voci soddisfatte nella notte e a mezzogiorno del Natale fumavano nei piatti i cappelletti di Romagna.» Togliatti invece andava nella chiesa del convitto di Sondrio, al krapp, di cui suo padre era amministratore. Le affinità tra il fascismo e la chiesa erano molte e profonde anche se il primo rappresentava una continuazione del laicismo risorgimentale: la comune diffidenza verso le minoranze di altre religioni, la stessa avversione per la massoneria, l'infallibilità del capo, il monolitismo esterno e la pluralità interna. Come c'era un fascismo di sinistra, uno clericale, uno monarchico, uno agrario, uno di manganellatori nemici giurati dei cattolici di don Sturzo, ma tutti all'ombra di Mussolini, così nella chiesa c'erano i preti lavoratori, i missionari, i principi della curia, i carmelitani scalzi, i mistici fuori dal mondo e i parroci nel mondo immersi. Poco cristiani i fascisti, ma molto cattolici, amanti di riti e miti pagani però con 33
mogli praticanti, sposate in chiesa, figli battezzati, abiti per la prima comunione, funerali con le confraternite, processioni, benedizioni e Te Deum alternati ai Natali di Roma, ai cortei con un minuto di raccoglimento nei sacrari dei martiri della rivoluzione fascista. E questo sì era molto romano, come le basiliche ricavate dalle tenne o dai palazzi imperiali, come le arae coeli diventate altari di Cristo e della Madonna, uno sull'altro il Palatino, San Pietro e palazzo Venezia, nella gloria eterna di Roma. E la vinceva ancora la chiesa. Perché le due visite di Mussolini a Cuneo furono memorabili e per certi aspetti dionisiache con quelle moltitudini un po' ebbre, ma non sacre come la processione dei nove vescovi con l'intera città e il contado a celebrare in un sol giorno secoli di religione guerriera, il popolo schierato lungo i baluardi, poi scesi allo Stura fino al santuario di Madonna della Riva, il santuario dei «per grazia ricevuta» da cavalli imbizzarriti o da colpi di cannone delle casematte minate per tutti i sette assedi. Nove mitrie trapuntate di gioielli, nove bastoni d'argento pastorali, nove anelli da baciare con reverenza. Per le donne della città come essere in paradiso, fra san Paolo, san Pietro, la Madonna e il beato Angelico in una festante folla di contadini e di martiri, di profeti e di impiegati, di apostoli e di negozianti, in celeste comunione. Come si faccia a sostenere che il fascismo fu un regime totalitario, non si capisce. La prima cosa a cui pensa un regime totalitario è l'educazione, cancellare nella gioventù le vecchie credenze e metterci le nuove. Ma il fascismo negli anni decisivi della sua costruzione, fra il '26 e il '30, non ci pensò, lasciò che lo facessero i preti, con i loro oratori, i loro esercizi spirituali, che imprimevano nei giovani un segno indelebile, e la sola volta in cui si venne a uno scontro, nella primavera del '31, fu il regime a perdere, ad accettare il compromesso. I progetti fascisti a proposito dell'Azione cattolica non erano piaciuti al Vaticano, e diversi articoli dell'«0sservatore Romano» avevano richiamato il regime ai suoi impegni concordatari. Al che il segretario del partito aveva diramato una disposizione d'ordini alle federazioni perché organizzassero manifestazioni ostili alle associazioni cattoliche. La nostra conviveva con il collegio San Tommaso dei gesuiti e aveva i suoi campi da gioco vicini a corso Dante. Che fare? Il federale Bonino era davvero nei guai, i figli suoi e degli altri gerarchi erano tutti frequentatori dell'associazione, e trovare dei fascisti normali cuneesi pronti a manifestare in modo ostile era impossibile. Così mandò a chiamare il comandante della Milizia per la sicurezza nazionale, che nelle prime intenzioni avrebbe dovuto essere il corpo armato del partito, qualcosa come le SS o le SA naziste, e che, con il congedo dello squadrismo, si era trasformato in un rifugio di sfaccendati e di disoccupati i quali, invece che stare in coda davanti agli uffici di collocamento con disdoro del regime, sbarcavano il lunario nella Milizia che arrivò a mantenerne seicentomila. Sempre gli ultimi nei cortei e nelle sfilate, quando arrivava la Milizia la gente capiva che la festa era finita, che quel passaggio disordinato e scalcagnato rimandava tutti a casa. Un pomeriggio del '31 ne fecero mettere una trentina in abiti borghesi, arrivarono alla rete metallica, che separava il nostro campo da calcio dal corso, e lì fermatisi cominciarono a gridare parole incomprensibili, ad agitare i pugni mentre noi cercavamo di capire che cosa volessero avendo riconosciuto fra essi vecchi compagni di osteria e di narcisate, finché don Rolando andò alla rete, scambiò qualche parola con quei poveracci che non avevano nessuna ostilità verso di noi e subito se ne andarono. Ma quando in città si seppe che c'era stata una dimostrazione ostile lo scandalo nelle nostre cattolicissime famiglie fu enorme e dovette esserlo anche nella casa del federale perché il giornale locale «La Sentinella delle Alpi» non ne diede notizia. La presenza a Roma del capo del cattolicesimo giustificava e nobilitava il fascismo e la sua romanità d'accatto, e Mussolini non poteva rinunciarvi: «Io affermo che la tradizione latina e imperiale di Roma è quella che si irradia dal Vaticano. Penso che l'Italia profana e 34
laica debba favorire la Chiesa perché lo sviluppo del cattolicesimo nel mondo costituisce un oggetto di interesse e di orgoglio anche per noi che siamo italiani». E il filosofo Gentile in assonanza: «L'italiano è sempre rimasto cattolico nelle sue speculazioni filosofiche alla base delle quali anche Bruno, Campanella, senza parlare di Vico, Rosmini, Gioberti si è sempre ispirato al cattolicesimo opponendo in tutte le sue aspirazioni artistiche una resistenza invincibile a ogni tentativo di penetrazione protestante». Queste cose noi non le sapevamo, ma sapevamo che era la chiesa ad avere l'ultima parola nel nostro costume, nel nostro moralismo, nei nostri tabù. Ogni tanto storie minori ma decisive si incaricavano di confermarcelo, come quella di Rosa Bonetti in Menendez. Lei, Rosa Bonetti in Menendez, si materializzò a Cuneo una domenica del maggio 1937, alla messa grande delle undici, nella chiesa nuova. Avanzò fino a metà navata seguita da una piccola cameriera india, rimase ferma qualche istante, mentre i fedeli cuneesi, voltatisi come al fiato caldo del demonio, la fissavano trattenendo il respiro: aveva capelli biondo platino in onde che sembravano scolpite, un soprabito rosso con un colletto di pelliccia da cardinale, bianco, forse di ermellino, le mani burrose con brillanti grossi come nocciole. Ma era il viso che gli sbalorditi cuneesi della chiesa nuova, la miglior borghesia, non poterono dimenticare fin che vissero, una maschera non brutta ma con qualcosa di laido, da travestito, come se sotto la cipria, dietro il nasone imperioso, dietro gli occhi da tigre appagata aleggiasse un sorriso beffardo: e allora cristianucci che vi prende? Sì, sono stata una di quelle, ma ho messo da parte più denaro io con i miei bordelli sul Rio de la Plata che voi con i vostri impiegucci statali, le vostre bottegucce. Per tutta la messa non osarono più guardarla. Se ne andò all'ite missa est seguita dalla piccola cameriera india. Fuori l'aspettavano una Balilla color nero, lucida e un autista in divisa che diresse verso la villetta con giardino che aveva affittato sul viale degli Angeli, vicino al tennis. Allora ero un ragazzo che circolava per Cuneo e dintorni sulla bicicletta a ruota fissa di mia madre che, se te ne dimenticavi, ti alzava di colpo come un misirizzi. Incominciammo a girare attorno alla villetta di Rosa Bonetti in Menendez per occhieggiare, ma bastò che una volta apparisse sul balcone in vestaglia azzurra e ci guardasse con occhi di ghiaccio dietro il nasone imperioso, perché ci tenessimo alla larga. Avevamo capito che potevamo permetterci di snidare le coppiette sul greto dello Stura o inseguire al grido cüpiu cüpiu l'unico omosessuale noto della città, un poveretto che aveva un negozio di sarto in corso Nizza, ma non Rosa Bonetti in Menendez, una vecchia tigre puttana uscita dai canneti del Rio de la Plata, venuta dalle Ande alle Alpi marittime. Un mese dopo suonarono alla porta di casa: era una suorina del Sacro Cuore. «C'è la maestra Bocca?» chiese. Arrivò mia madre, ma la suorina taceva. Mia madre mi fece un gesto e io mi ritirai dietro la porta della cucina, socchiusa, per ascoltare. La suorina parlava a bassa voce, non riuscivo a capire cosa dicesse, ma vedevo che mia madre faceva dei gesti sdegnati, come a cacciare sporchi fantasmi. La suorina aveva tirato fuori da una busta un foglio di carta e aveva pronta anche una penna e vidi che mia madre firmava. Quando la suorina se ne andò le chiesi cosa voleva, ma mi fece la faccia di una che non vuol parlarne. Fu così che una petizione promossa dal parroco della chiesa nuova con la fattiva collaborazione delle suorine del Sacro Cuore e lo sdegnato appoggio di tutte le madri sventò il progetto di Rosa Bonetti in Menendez di aprire una casa chiusa nella sua villetta che aveva già avuta la tacita approvazione del presidente della camera di commercio e del questore e di cui si parlava ogni sera al caffè Gerbaudo, alla saletta dei giocatori, e in altri luoghi di peccato. I notabili cuneesi erano stanchi di dover andare fino a Torino per il peccato della carne e non osavano farsi vedere nel bordello cittadino di via Chiusa Pesio, un antro a cui si arrivava per uno stretto corridoio coperto di piastrelle celesti, che noi «gioventù» stavamo a guardare, certe notti, nella speranza che la porticina in fondo si aprisse per farci intravvedere una signorina coperta solo di veli. Ma una cosa risultava chiara dalla storia di 35
Rosa Bonetti in Menendez: neppure il partito virilista i cui squadristi avevano tenuto le prime riunioni nei postriboli di Ferrara o di Cremona poteva avere la meglio sull'esercito dei parroci e delle suore fiancheggiato dalle nostre pie madri. Rosa Bonetti in Menendez scomparve, forse tornò al Rio de la Plata. Dietro ogni gerarca o notabile fascista c'era un italiano con parentele praticanti o ecclesiastiche, ma le cose non sembrano cambiate: dietro Silvio Berlusconi, creatore dell'edonismo televisivo, c'è una famiglia con sette fra suore e preti. Buon cattolico anche Giorgio Almirante, il leader neofascista che nascondeva il divorzio dalla prima moglie, come Mussolini il rapporto con Claretta Petacci. L'Italia non è solo un paese lungo, è un paese antico dove il meraviglioso pagano si è trasfuso nel miracoloso cattolico e in cui il papa è il vero re con cui bisogna comunque andare d'accordo, o con il Concordato o con la sua riconferma nella costituzione repubblicana, articolo 7, approvato da tutti i comunisti materialisti e atei salvo la Teresa Noce e il professor Concetto Marchesi.
Quale nazionalismo? Che razza di nazionalisti eravamo durante il fascismo? Gridavamo la nostra gioia alla conquista dell'impero senza sapere che controllavamo meno della metà dell'Etiopia, o per la trasvolata atlantica di Italo Balbo ignorando lo stato mediocre della nostra aviazione, ma sotto quel calore c'era un fondo freddo, distaccato. Veniva fuori il nostro antico scetticismo storico, le nostre città sono una stratificazione di grandezze e di illusioni, di dominio e di polvere. Non sono chiacchiere, la stanchezza, la diffidenza del mondo da noi hanno odori casalinghi, non credo che ci fosse un solo italiano in quel tempo davvero convinto che Roma potesse tornare caput mundi. Che razza di nazionalista ero durante il fascismo? Credevo di esserlo e lo ero come tutti gli altri che si entusiasmavano per la conquista dell'Albania o per il campionato mondiale di calcio, ma non ho mai sentito dire da noi qualcosa che assomigliasse al Right or wrong my country degli inglesi o al Deutschland uber alles dei tedeschi, noi avevamo troppi emigrati all'estero a far lavori umili per poter essere superbi. E poi non è facile essere nazionalisti in una nazione di nascita incerta, o troppo antica o troppo recente. Nata ai tempi di Annibale o della lega latina, o alla battaglia di Agnadello del 1509 quando i nostri gridarono per la prima volta «Italia, Italia!». La più chiara e la più discutibile delle nazioni: quella dove il sì suona, fioriscono i limoni, lampeggiano i pugnali della gelosia e dell'onore, dei grandi monumenti, delle grandi civiltà, o l'altra i cui principi si muovevano guerra in continuazione al punto da aver perso anche l'idea di nazione, e, se formavano una lega, era solo per impedire che finisse per comandarli uno straniero o un papa o il più forte di loro? L'Italia risorgimentale dei libri di scuola dove tutti gli italiani dalla Sicilia al Brennero parlano l'idioma gentile e fiero dei martiri di Belfiore o quella di San Martino dove il re sabaudo esortava i suoi soldati in piemontese perché non capivano altra lingua? Durante il regime il nazionalismo era indiscutibile era il suo fondamento, la chiave per far combaciare il partito con la nazione, per riscattare, superare le contraddizioni del primo e la mediocrità della seconda. Ma come accadeva per la romanità, la sua ricerca nel tempo era confusa e di continuo rimandata: risorgimentale, rinascimentale e giù giù nei secoli fino a Roma e magari alle civiltà italiche preromane. Eravamo nazionalisti perché lo sono tutti, perché tutti nascono con quel legame alla terra e alla lingua, alla storia e ai costumi, ma anche per un vago giustizialismo, perché l'appartenenza alla nazione assicurava diritti comuni, destini comuni.
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C'erano molte ambiguità in quel nazionalismo. Una di ordine generale dipendeva dal fatto che si trattava di un nazionalismo a uso interno, perché i regimi che lo predicavano dentro i confini erano ferocemente nemici dei nazionalismi altrui, per cui l'indiscutibile bene interno della nazione diventava l'indiscutibile male del nemico appena varcata una frontiera. E potevamo riscoprirlo contro ogni razionalità durante la guerra, per esempio con quel De Gaulle, quel grandioso retore, che nei primi mesi del '45, contando poco o niente fra i vincitori, ordinava l'occupazione delle valli piemontesi. Era un nazionalismo che stava fra un grande passato e un mediocre presente, e aveva un complesso d'inferiorità verso i paesi più ricchi, più moderni, a metà fra lo sciovinismo e l'esterofilia. Nel regime, come ai tempi dei guelfi e dei ghibellini, c'erano le due fazioni dei tedescofili e degli anglofili, due concezioni del mondo: la tedesca tecnica, wagneriana, autoritaria, e l'inglese imperial, marinara, oxfordiana. Avevo un presunto zio, così lo chiamavamo per incerta parentela, zio Tommaso, gestore a Torino di un monte di pietà, fanatico di Wagner. Quando veniva a Cuneo per San Giovanni bisognava preparargli la radio perché era serata nibelungica, mentre io e zio Mario, anglofili, andavamo in cucina a giocare a tressette. Di nascita, di testa, per quanto alpino, io appartenevo alla civiltà marinara commerciale e perciò anglofila degli omerici. Non potevo permettermi le giacche blu e le cravatte regimental dei college inglesi, da noi del resto ignoti, ma quel mattino che la radio, durante la non belligeranza, diede notizia che la Home Fleet aveva raggiunto e bloccato nel Rio de la Plata una corazzata da corsa tedesca ci ritrovammo per festeggiare al bar Prato. Strano, un po' isterico nazionalismo, ci offendeva il francese che ci chiamava «macaroni», l'inglese superbo, il tedesco sprezzante, per poi cadere in ammirazioni totali, miste a invidia. Mai al mondo ci saremmo rasi con una lametta Bolzano invece che con una Solingen, mai avremmo preferito un trapano nostrano a uno della Krupp o una sigaretta Macedonia a una Muratti. E questa esterofilia covava sotto le ceneri di tutti i regimi autoritari e totalitari, i russi hanno realizzato un film bellissimo, Il proiezionista, sulla direzione staliniana al gran completo che in una sala del Cremlino si gode i film di Hollywood, i più americani, e così facevano Hitler e la sua corte a Berlino o nel nido d'aquila in Baviera. Ma l'esterofilia fascista era più forte o meno ipocrita, se no non avrebbe permesso la libera e imperante circolazione di film americani che contraddicevano la sua propaganda, mostrando un paese ricco, da favola, con alloggi principeschi su Central Park, elettrodomestici splendenti a noi sconosciuti, automobili gigantesche che approdavano ai marciapiedi della Quinta strada come dei caimani. Quel nostro nazionalismo era un po' a doccia scozzese, ora divampava e ora ti si bloccava dentro. Come la sera che incontrammo l'eroe cittadino Cavallo detto Broc. Eravamo in piazza Regina Elena e c'erano i baracconi, due tirassegni, un'autopista e una giostra. Al primo tirassegno la bionda eterea Elvezia cambiava le pipe rotte e caricava il fucile, dea nordica di cui eravamo tutti innamorati, e c'era come sempre Gino Bonelli, figlio del notaio Bonelli, che era già sui diciotto, portava giacca da cacciatore e knickerbockers e sparava per ore, senza badare a spese: sapevamo che si era fatto copiare la chiave del cassetto in cui suo padre teneva i soldi dell'ufficio. Noi che i soldi per sparare alle pipe non li avevamo rimanevamo lì a pochi passi, prendendo a calci un pallone. Le montagne bianche di neve stavano, con la loro raggiera di valli, a tacita guardia dell'eternità cuneese, di boschi di faggi e di campi di patate, di fiati fumanti nel gelo. Un luogo, un'ora, un silenzio in cui la nazione non poteva proprio stare. Il pallido sole d'inverno se ne era già andato, qualche finestra delle case e delle caserme era già illuminata, luci bianche che mettevano i brividi. Quelle nostre case di ringhiera con il sofà del salotto trasformabile in letto, le tinozze per il bagno, le biblioteche «dei cento libri», dei soldi contati, in quella desolazione che ti dà la provincia quando annotta su una giornata identica a tutte le altre, in 37
un piccolo mondo povero e sempre eguale da cui pensi che uscirai solo per fare il soldato o da morto. E in quella desolazione in cui la patria non sai cosa sia ti arriva Cavallo detto Broc, volontario in Africa e in Spagna, due medaglie d'argento e una ferita alla gamba che lo fa ancora zoppicare, in divisa da tenente dei granatieri. Lui sarebbe passato senza notarci se l'uomo della giostra per un gesto casuale o per disperazione non avesse attaccato, rombo improvviso degli altoparlanti, nella sera gelida: «Faccetta nera, bella abissina, aspetta e spera che già l'ora si avvicina...». Vedemmo Cavallo detto Broc bloccarsi come un lipizzano al suono di una marcia asburgica, vedemmo il suo volto maschio e abbronzato da soli africani illuminarsi in un sorriso patriottico. Ci fece un segno, di saluto e di gioia, come a dire: l'impero vi attende. Accennò un passo di danza, ma la ferita ancora gli doleva. Si ricompose e si allontanò tirando un po' la gamba. Bonelli aveva speso quasi tutta la provvista della giornata, gli restavano cinquanta centesimi e poiché era un signore, figlio di un notaio, offrì castagnaccio a tutti, prima scelta alla Elvezia. Anche il venditore di castagnaccio doveva essere innamorato della Elvezia, arrivava sempre silenzioso, con il suo triciclo, per quanto lì ci fosse poco da vendere. Il castagnaccio era freddo di un color viola livido. A casa dissi a mia madre che avevo visto il Broc, ma lei non mi aiutò a capirlo. «Conoscevo suo padre» disse «quando facevo la maestra alla Bombonina e lui era l'amministratore delle cascine dell'ospedale. Parlava solo con le bestie.» Da chi aveva preso Cavallo detto Broc? Un giorno sulla montagna partigiana visitavo un distaccamento e passava un ragazzo sui diciotto anni alto e biondo. «Quello chi è?» chiesi. «È un Cavallo di Cuneo.» «Fratello del Broc?» Ma erano tutti giovanissimi e ignoravano che il Broc, eroe d'Africa e di Spagna, esistesse. Strano nazionalismo il nostro, cancellava le cose amare, sgradevoli, e quelle dopo un po' riapparivano come emergendo dalle fantasie. Per anni nel fascismo la questione meridionale è rimasta sott'acqua, la mafia era stata distrutta una volta per sempre da Mori, il prefetto di ferro, e il filosofo Gentile ci aveva messo su il suo filosofico suggello: «In questa Italia che ha raggiunto una piena e certa unità nazionale non può esistere una questione meridionale». Gli dava man forte lo storico Gioacchino Volpe: «Ogni traccia di contrasto e di antagonismo, ogni senso di interessi diversi sono scomparsi dagli animi per la funzione operata dalla guerra mondiale e dal fascismo per una quasi perfetta omogeneità etnica e rispondenza della nazione e dello stato con i confini fisici della penisola». Si taceva anche sulle minoranze di lingua straniera, scoprivamo, andandoci a sciare, che nell'Alto Adige parlavano tedesco, erano tedeschi, che il campione di sci, l'olimpionico, tenente Perenni era un Prenn di Dobbiaco; o che in Valle d'Aosta parlavano un patois più vicino al francese che all'italiano e che il clero e la borghesia avevano come lingua madre il francese, ma lo scambiavamo per folclore. Il nostro nazionalismo, come il fascismo, era fatto di tante cose, oscillava fra le images d'Épinal del Risorgimento, Cavour il tessitore, Vittorio Emanuele II il padre della patria, Garibaldi l'eroe dei due mondi e sogni imperialistici infantili da regressus ad puerum, seduti davanti alla prefettura, ma allora non si diceva sitin, a gridare: «Traù Traù, Dalmazia italiana, Corsica italiana, Nizza italiana». Non so se ci accorgevamo che il nostro nazionalismo si collocava nella crisi del nazionalismo europeo, che all'Europa delle nazioni stava subentrando l'Europa delle ideologie e delle guerre di religione affidate, diceva Carlo Rosselli, «al giudizio di Dio», guerre fra nazioni diventate guerre civili. Ma la storia dei nazionalismi è come un vaso in cui arrivano e si mescolano linfe diverse: il nazionalismo elementare della lingua e della storia per cui un italiano ha come dentro di sé Roma, Cesare, Augusto, le invasioni, la religione conventuale, i secoli bui, le repubbliche marinare, i comuni, le signorie, il Rinascimento, le arene e le torri, San Martino e Solferino, il Carso, i seicentomila morti, il Sabotino, la saveur diachronicque di Lévy-Strauss, la presenza fìsica del passato, il passato come presente. E tutto il passato che 38
era presente e vissuto doveva poi fare i conti con le ideologie e viceversa, come capirò studiando la Terza internazionale comunista dove l'antico amor di patria poteva mescolarsi al più fanatico internazionalismo, vedi i duri, dogmatici comunisti tedeschi riparati a Mosca, gli stessi che non avevano esitato a denunciare ai nazisti i compagni socialisti come socialfascisti, i quali stanno in riunione quando arriva trafelato, eccitato il loro segretario il compagno Thälmann che grida: «I nostri sono entrati a Parigi!», i nostri, cioè i nazisti, ma sempre tedeschi. Sul finire del fascismo il nostro declinante nazionalismo poteva sgorgare come un fontanile per scatti emotivi, contraddittori. Eravamo già in guerra e lo Sci accademico italiano, un club universitario, ci portò ai campionati universitari europei di Zermatt. Da noi c'era già l'oscuramento e Zermatt sfavillava di luci, i suoi negozi erano pieni di ogni ben di Dio. Sembrava di essere arrivati a Shangrila, nel paese dei sogni. Ma la sera che venne a farci visita in albergo il generale Guisan, capo dell'esercito svizzero, Giuliano Babini che era un antifascista snob ci schierò come un plotone d'onore per il saluto fascista, e noi fieri con il braccio alzato. In quel nostro nazionalismo si era già infiltrato il desiderio di perdere la guerra, ma potevano anche scattare reazioni che ci lasciavano con l'amaro in bocca. Eravamo per una gara di sci a Campo Imperatore, in Abruzzo, con il tenente Grandi degli alpini e Gianni Darbesio, uno di quegli ingegneri di Torino che arrotano un po' la erre e sorridono a labbra strette. Un mezzogiorno siamo a pranzo in albergo e alla radio leggono il bollettino di guerra. Grandi si alza in piedi, mi alzo anch'io, ma l'ingegner Darbesio non si muove, continua a mangiare, e improvvisamente Grandi, fuori di sé, urla: «Alzati, se no ti spacco la faccia». Darbesio si alza e se ne va, io vorrei dire a Grandi: «Non sei tu che ogni volta che si nomina il duce ti metti a bestemmiare?». Ma poteva capitare. Di recente un giornale della nuova destra ha tirato fuori una storia del mio fascismo giovanile o inventata o, più probabilmente, da me completamente rimossa. Un giorno del '42 sul treno CuneoTorino io e altri alpini saremmo venuti alle mani con un certo Berardi, un antifascista, che si era messo a dire che la guerra era persa e che lui era contento che lo fosse. Forse era andata proprio così, forse noi che eravamo stufi marci della guerra non avevamo sopportato che un borghese incontrato in treno lo dicesse mentre in Russia c'erano negli alpini tutti i nostri amici e parenti. Durante la guerra partigiana la confusione dei nazionalismi divenne irrisolvibile: ci ammazzavamo fra italiani, ci odiavamo fra italiani. Una mattina in valle Maira ci fu uno scambio di prigionieri organizzato dal parroco di Dronero su un rettilineo della provinciale in cui potevamo vederci, sorvegliarci a una certa distanza. Il parroco, alto e imponente nella tonaca nera, venne avanti seguito da uomini stortignaccoli, o così mi parvero, con camicie e facce nere. Avanzava tranquillo tenendosi al fianco il nostro partigiano, ma i briganti neri camminavano sui prati, in ordine sparso, a balzi, esitanti, impauriti. Il loro comandante, un tipo basso e tarchiato, si mise a correre gridando: «Non sparate, non sparate, siamo tutti italiani». Tutti italiani? Ma che voleva dire se la posta in gioco era noi o loro? Ambigui, mutevoli nazionalismi. Nella primavera del '44 andai agli incontri con i maquisards francesi a Barcellonette al seguito di Duccio Galimberti e di Detto Dalmastro. Una marcia interminabile per evitare la strada di fondovalle per cui passavano i tedeschi, su e giù per valloni sconosciuti e colli, una fatica da morire, e finalmente l'incontro commovente: i fratelli francesi, gli immortali principi dell'89, liberto, fraternité, egalité, il comandante Sapin, un avvocato di Marsiglia, paterno e nobile, lo avrei abbracciato. Ma nell'aprile del '45, quando i gaullisti scesero per la valle Gesso e Vermenagna fin quasi alle porte di Cuneo, eravamo pronti a sparargli addosso, gli avremmo sparato se non si fossero interposti gli inglesi. Un nazionalismo antico a cui, a scuola, avevamo appeso il nazionalismo burocratico militaresco del geografo e cartografo Carducci, dell'arredatore D'Annunzio, 39
dello scenografo Mussolini. L'unità d'Italia era fuori discussione, ma quale Italia? La nostra di Giustizia e Libertà o quella dei comunisti o dei fascisti? Fatto sta che avevamo nascosto le armi alla fine della Resistenza, pensando vagamente, ma pensando, a una nuova guerra civile. Per capire di essere italiani bisogna andare fra i tedeschi, sono i tedeschi nella loro diversità totale ad averci fatto nazione, dai tempi in cui Cesare varcò il Reno, penetrò nelle terre dei germani e poi se ne ritornò, spaventato dalla diversità. Bisogna arrivare a Salorno per capire di essere in terra straniera, non solo perché i contadini sono vestiti da tedeschi e parlano tedesco, ma perché è diversa la geometria dei campi, diversi i campanili, le case. Tutta qui la nazione? Una lingua diversa? Una geometria diversa? Una cosa sublime o una abitudine? «La parola che Dio ha sussurrato all'orecchio del nostro popolo quando era infante ancora in cuna» come dice Mazzini o la stramberia di Massimo d'Azeglio: «Non posso vivere fuori dall'Italia, cosa curiosa, perché mi arrabbio continuamente contro la dappocaggine, le invidie, l'ignoranza, la pigrizia italiane. Sono nel caso di quelli che si innamorano di una puttana»? Quale patria? Quella dei comunisti che mandavano a Stalin il loro ultimo pensiero prima di essere fucilati o quella dei Giustizia e Libertà pronti a morire per la democrazia o quella dei fascisti di Salò per cui eravamo dei traditori? E si continua: nessuno capisce il piacere degli italiani di parlar male degli italiani per poi offendersi se qualcuno parla male di loro, commossi se la nazionale di calcio vince una partita mentre ritornano la passione per le piccole patrie, per le leghe e gli odi della disunità, l'incomunicabilità fra padani e siciliani, fratelli d'Italia.
L'incerto antifascismo Non era facile essere antifascisti negli anni del duce. C'era fastidio per i suoi aspetti ridicoli o tronfi, si udivano risate nel buio dei cinematografi o brusii annoiati per i cinegiornali Luce con le opere del regime. Ma stavamo dentro il fascismo come se nulla ci fosse stato prima e nulla dovesse esserci dopo. Era un regime nato dalla Grande guerra e di quella guerra si parlava solo per simboli e per retorica, non una parola su Caporetto, sulle decimazioni di Cadorna, sulle sanguinose, inutili offensive sull'Isonzo invocate per ragioni politiche dal direttore del «Corriere della Sera» Luigi Albertini. Ci portavano a onorare i martiri della rivoluzione fascista senza spiegarci bene da chi erano stati uccisi, chi erano i rossi che li avevano uccisi, perché il discorso sull'antifascismo era un tabù, gli uomini in carne e ossa dell'antifascismo erano scomparsi in quel vago nulla che era stata l'Italia prima del regime. Mia madre aveva assistito a Torino ai moti popolari del primo dopoguerra, all'arrivo, per reprimerli, della brigata Sassari, era una dorma intelligente, aveva imparato a conoscere gli uomini dai bambini, ma nel suo istinto piccolo-borghese capiva che su quel conflitto sociale era meglio sorvolare. Non era facile avere opinioni, dare giudizi sulla direzione del fascismo: le sue lotte interne, le sue falde, i suoi compromessi restavano segreti e comunque risolti dall'onnipotenza del duce. Come contrastare una politica inesistente o ignota? «Di politica non mi occupo più» diceva agli amici Italo Balbo «non c'è più politica. Mi occupo di aeronautica.» Il giovane Giulio Einaudi, fondatore della casa editrice, diceva: «La prima cosa da fare con il fascismo è di non nominarlo mai», ma teneva buoni rapporti con il ministro Bottai, pubblicava le opere degli economisti liberali, filofascisti. Apriva la cultura italiana al mondo, usciva dagli steccati provinciali, ma senza correre grossi rischi. Nel fascismo tutto si discuteva e definiva a porte chiuse, un comunicato del governo annunciava che c'era stato «un cambio della guardia», che alcuni ministri se ne erano andati e altri erano arrivati. In casa mia nessuno aveva nulla da ridire se 40
Muti il bello prendeva il posto di Starace o se veniva giubilato il presidente del Senato Federzoni. Suppergiù come il cambio di una locandina teatrale. Passavano nella nostra gioventù, senza turbarci, degli antifascisti «dormienti». Alle scuole elementari c'era un maestro da me amatissimo che mi aveva concesso il privilegio supremo di andare, a metà mattina, a comperargli una bottiglietta di birra. Si chiamava Musso, veniva dalla Margarita, un villaggio noto per il suo alto campanile, el ciuchè d'la Margarita, aveva una grande barba bianca che gli scendeva fino a metà petto, portava un cappello a lobbia nero, sembrava il profeta del monte Amiata, mia madre mi aveva detto che era un mazziniano, nessuno di noi gli chiese perché non si vestisse mai da fascista. Al liceo c'era il professor Turin, un valdese, che aveva amici a Parigi e a Londra, stava scrivendo una sceneggiatura per il regista Korda, ci insegnava a giocare a pallacanestro, non portava il distintivo del fascio, non andava alle adunate. Un tipo strambo, pensavamo. Un primo brivido ci venne dai Perelli: una mattina seppimo che il fratello maggiore del Perelli, nostro compagno di scuola, era stato arrestato, ma non ne facemmo parola. L'unico antifascista di cui si poteva parlare era Germanetto, il barbiere comunista di Fossano, forse perché se ne era andato a Mosca. Nessuno nella nostra città, ma credo in tutta Italia, si accorse che c'era stato un rientro dei comunisti al principio degli anni Trenta, quando Togliatti da Mosca mandò la direttiva: «Tutti in Italia». La polizia li aveva silenziosamente fatti sparire dalla circolazione in pochi giorni. Non si rischiava la pelle e neppure il campo di concentramento, a chiudere la bocca in pubblico bastava la certezza che gli altri, a cominciare dai tuoi familiari, non avrebbero capito, si sarebbero chiesti: «Ma chi glielo ha fatto fare?», avrebbero pensato a te come a uno che aveva qualcosa di strano, da evitare. Lo aveva già capito nel suo sonnolento borgo Leopardi: «L'uomo, anche il più risoluto, e il più libero nel pensare, ... prova un certo piacere, un senso di riposo, un'opinione o una confusa immaginazione di sicurezza, ricorrendo all'autorità, assidendosi sotto l'ombra sua». Una mattina dell'aprile '42 ci fu una riunione del partito nel cinematografo della casa Littoria. Tutti in divisa per un discorso del federale Glarey. Si era al colmo dell'umiliazione, i nostri eserciti erano stati vergognosamente sconfitti in Africa e in Grecia, al confine di Mentone i doganieri francesi avevano appeso un cartello irridente: «Grecs arrêtez-vous, ici France». Ma il povero Glarey doveva illustrare la nuova parola d'ordine «adesso viene il bello». Era stato negli alpini Glarey, sapeva, come tutti noi che avevamo parenti e amici sul fronte greco, in che modo stavano realmente le cose, ma doveva fare il suo pistolotto, e a me a un certo punto venne la tentazione di alzarmi e di gridare: «Ma no Glarey, perché ci raccontiamo queste bugie?». Non mi mossi, pensavo a mio padre, a mia madre, ai loro amici, professori e maestri, alla buona borghesia di Cuneo, e vedevo la smorfia che avrebbero fatto, il loro impacciato silenzio di fronte a un gesto a dir poco maleducato, un'offesa alla tranquillità familiare. Non eravamo dei cuor di leone noi piccolo-borghesi di provincia, l'antifascismo militante non si fidava di noi, non ci parlava, non ci avvicinava e il fascismo ci offriva un solidarismo palpabile, non era solo carabiniere, giudice, gerarca, esattore, era anche qualcosa che ti migliorava la qualità della vita, che ti trovava un impiego, magari oltremare. Dai giornali era scomparsa la cronaca nera, vivevamo in un paese dove non c'erano più rapine e assassini. Si seppe solo del brigante Sante Pollastri perché era amico di Girardengo e si era fatto arrestare in Francia. Quella censura funzionava benissimo, sono arrivato alla guerra partigiana quasi convinto che l'unica violenza esistente fosse quella pubblica, dei carabinieri e dei soldati. C'erano, è vero, quelli di Vignolo che per una parola di troppo tiravan fuori il coltello, ma solo il sabato sera delle ciucche, bastava evitare le loro osterie. Il delitto era scomparso. Ruggero Zangrandi ha scritto un libro di settecento pagine sugli intellettuali nel fascismo. C'erano quasi tutti. Mussolini li lasciava fare i loro giochini accademici, i loro 41
Littoriali, le loro fronde ma non gli forniva il cibo culturale, neppure quello di destra, la grande letteratura europea di destra era all'indice, protonazista, protofascista, ma pericolosa, capace di far discutere. L'uso defatigante della ragione, il bombardamento attuale delle notizie sulle umane debolezze e carognerie ci veniva risparmiato. Come dice Tocqueville, il partito unico ci preferiva stupidi a critici.
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III I FANTASMI DI SALÒ
La repubblica lacustre II 25 luglio del 1943 il regime finisce, il governo monarchico di Badoglio dura quarantacinque giorni, l'8 settembre c'è l'armistizio con gli anglo-americani, i tedeschi occupano l'Italia e liberano Mussolini dalla prigione sul Gran Sasso: incominciano i venti mesi di Salò. Il regime è stato romano e africano, la repubblica sarà padana e lacustre: Mussolini a villa Feltrinelli a Gargnano sul Garda, i ministeri nelle vicinanze, a Salò e dintorni, e su un altro lago, quello di Como, il tragico epilogo, la fucilazione di Mussolini e della Petacci, i gerarchi giustiziati sul lungolago di Dongo. Una melanconia lacustre passa per la breve storia della repubblica, con Mussolini martire che il poeta Ezra Pound vede affondare nelle acque azzurre. Di quei venti mesi non esiste una storia scritta dai fascisti, per loro non sono stati storia ma un crepuscolo irreale, indimenticabile nella sua amarezza, in cui tutto sembrava permesso, le vane speranze, la convivenza dei diversi, l'apparizione dei risuscitati, le illusioni e i furori senza le pastoie del regime. E forse la percezione che il collaborazionismo con i tedeschi era illegittimo e che perciò in esso la violenza non era di stato ma di gruppo e individuale, con sentimenti di disperazione e di onnipotenza. Non si spiega altrimenti come quella vicenda povera e a volte abietta abbia lasciato in chi la visse ricordi esaltanti. Forse fu proprio la pentecoste dei diversi a fame una stagione unica anche se dannata. Camicie nere della prima ora e mussolinisti dell'ultima, burocrazia opportunista e combattentismo funebre, i gerarchi del regime e i fantasmi dello squadrismo, «quelli picchiati, maltrattati, cacciati dall'impiego dai comunisti ma anche dai superiori camerati», i triumviri, i quadrumviri che in quel settembre escono dalle memorie che il regime ha ripudiato, riaprono le sedi, girano spavaldi sui camion come nei giorni lontani delle spedizioni punitive, «i puri della vecchia guardia, pronti a tutto dare, per questa Italia che non muore e che non può morire». Un fascismo da sottosuolo che rinnega il regime, le sue divise, le sue mostrine, le sue gerarchie e dà via libera alle uniformi da compagnia di ventura, giubbotti, sahariane, giustacuori, gladi, baschi neri, azzurri, infiocchettati, ornati, messi alla ribalta. Non c'è più l'esercito, non c'è più il partito, ci sono i gruppi, i «noi» di formazioni che si organizzano come bande autonome a imitazione di quelle partigiane. Lo dice il segretario del Partito fascista repubblicano Alessandro Pavolini: le Brigate nere devono imitare i ribelli. E il culto funebre: teste da morto con un fiore in bocca, teschi argentei come distintivi, «II mondo sa che la camicia nera si indossa per combatter e morir», «Ecco la morte che va per le porte, che va cercando il figlio del re, alzati presto che tocca a te». La morte esibita come vendetta e come vittoria, i cadaveri dei partigiani impiccati lasciati penzolare per una settimana, che tutti li vedano, i «senza patria». Insieme per venti mesi la compagnia riunita da una storia matta, i diplomatici con la erre moscia saliti a Salò per far carriera, i tecnici dei ministeri cui viene raddoppiato lo stipendio, i socialfascisti che pensano sia giunta l'ora del fascismo riformatore, i nazisti, le canaglie, i romantici, i giovani chiamati alle armi, quelli che non si arrendono, i fascisti per 43
amore di Mussolini o per avventura, nella repubblica che non si sa bene dove sia, cosa sia, di cui il direttore della «Stampa» Concetto Pettinato scrive Se ci sei batti un colpo, la repubblica dei ministeri sparsi in dieci città, dei venti comandi militari in concorrenza, che ogni mattina non sa se alla sera ci sarà ancora, se i tedeschi, stanchi della sua anarchia, non la scioglieranno, la repubblica che dovunque si volga sa che ci sono gli altri, i partigiani, gli italiani che la odiano. Molto si scriverà su questa guerra civile senza capire che le distanze abissali fra i due campi non erano solo e tanto quelle delle idee, ma degli stati d'animo, delle aspettative. I partigiani sono poveri e male armati, ma sono gli uomini della fortuna, hanno alle spalle il mondo dei vincitori e della libertà, possono guardare al futuro, sperimentare la democrazia, progettare costituzioni e quasi toccare con mano le due vittorie, l'interna sui fascisti e l'esterna del mondo libero sulla lunga notte nazista; l'altro campo è segnato dalla sconfitta, sa che la vittoria esterna ormai è impossibile, è il primo a non credere alle armi segrete e sa che il fronte interno crollerà appena i tedeschi se ne andranno. I partigiani sono braccati, impiccati, ma sono gli uomini del futuro, possono pensare in grande per gli anni a venire, possono guardare la loro terra dall'alto delle montagne, chi li comanda può come Annibale, come Napoleone, mostrargli «le più fertili terre del mondo», mentre gli uomini della sventura si stringono fra fiumi e laghi per l'ultima testimonianza. Guerra civile dicono gli storici. Sì, ma in modo anomalo: non fra due fazioni italiane libere, autonome, perché senza i tedeschi la repubblica di Salò non sarebbe mai nata, i fascisti vecchi e nuovi non avrebbero mai avuto il coraggio di ricomparire. Una guerra civile a tempo tra fazioni che sapevano che sarebbe durata quanto i signori della guerra grossa lo avrebbero permesso. Guerra civile singolare in un paese che conserva le sue strutture unitarie, dove la scuola, la moneta, i sali e tabacchi, le diocesi, le province, le ferrovie, i tram, i francobolli, i codici continuano a essere comuni. E comune in certo modo era anche Mussolini, mai da entrambe le parti si era capito con altrettanta chiarezza che il fascismo era stato lui, genio politico o istrione che fosse, che in lui si riconosceva quel patrimonio italiano di sentimenti e di istintualità che si era chiamato fascismo. Ho pensato molte volte a lui dalla montagna, specie se in vista della pianura. Mi sembrava di scorgerlo, nella sua villa sul lago. Un duce stanco, prigioniero dei tedeschi, che aveva deposto la iattanza e guardava i compagni della sua sventura con occhi tristi. Il duce invecchiato che si era fatto preparare una macchina per scrivere con caratteri grossissimi e teneva le luci sempre accese per via della vista indebolita, sorpreso dal filosofo Gentile mentre un passero saltava sul suo tavolo per prendergli il becchime dalla mano. Venti mesi di lento, umiliante crepuscolo e le ultime fotografie che lo mostrano insaccato in un pastrano militare, pallido, scarnito, uno che non sa più che cosa ci sta a fare al mondo. Ma non era il solo. C'erano dei momenti in quei venti mesi che la tensione e l'azione convulsa si fermavano, cadevano, e ci sentivamo presi come da un incantesimo oscuro... Come la sera nel cimitero di Pradleves, in Valgrana, quando fucilarono una spia, un giovane biondo. Lo avevano fermato a un posto di blocco e stavano per lasciarlo andare quando a qualcuno venne in mente di guardare nella sua bicicletta. Tolta la sella si era trovato arrotolato nel tubo un lasciapassare delle ss. Che cosa dovesse spiare nella valle non si capiva, tutti sapevano dove erano le nostre bande, quanti uomini avevano, chi le comandava. Non volle dirlo, stava con il bel viso reclinato su una spalla, i capelli biondi illuminati dalle torce. Si alzò docile, andò al muro di cinta senza dire una parola, affondò nella morte, e mi chiedevo che senso avessero lui, il cielo stellato e i partigiani che lo calavano in una fossa.
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Il fascino della sconfìtta Canzoni luttuose rivelano al partigianato pragmatico e ottimista un fascismo sconosciuto, dolente, romantico. Una delle Brigate nere dice: «Le donne non ci vogliono più bene, perché portiamo la camicia nera, hanno detto che siamo da catene, hanno detto che siamo da galera». Un'altra del battaglione Barbarigo della Decima Mas che sfila per una Roma deserta diretto al fronte di Anzio domanda: «Chi sono quei pazzi che vanno a morire?». La prima la ascoltai alla radio in valle Maira. C'era stata una grande nevicata, le montagne erano morbide e candide nel cielo pallido della sera e quella canzone, quelle parole caddero nel silenzio come foglie morte. «Ma che nemici sono?» mi chiedevo. «Perché confessano di sentirsi soli, odiati dalla gente?» Non capivo, il romanticismo della sconfìtta era fuori dalla nostra testa, perdere non era per noi «il blasone dell'anima ben nata», non pensavamo proprio che «nella vittoria ci fosse qualcosa di impuro», non ci sentivamo come loro «stranieri in patria». Eravamo semmai dei moralisti duri e ingenui che facevano la guerra per la democrazia o per il socialismo, non solo per la patria. Quelle canzoni del «nobile fallimento» ci sembravano assurde ma spezzavano l'incomunicabilità, la demonizzazione delle milizie fasciste, noi duri e puri contro quell'Italia nera e feroce. Anche loro avevano il loro travaglio, la loro pena. Ci era molto difficile capire l'adesione alla repubblica degli adolescenti, dei giovani sui sedici, diciotto anni, alcuni li ho conosciuti solo ora, come i ragazzi romani di cui scrive Carlo Mazzantini. Sono una decina, abitano nello stesso quartiere della buona borghesia che ha vissuto il fascismo come la sua giusta forma politica, onesta, onorata e una mattina si è risvegliata in un'Italia che getta i busti di Mussolini dalle finestre, schiaffeggia chi porta ancora il distintivo. E allora, in quel marasma, mentre gli anziani si chiudono nel loro non capire, i ragazzi cercano un comando tedesco, si presentano a un ufficiale. «Noi non vogliamo arrenderci» gli dicono. Lui li guarda. Ma che vogliono questi? «Tornate a casa, fate come gli altri» risponde. «A noi non ci importa degli altri» dicono. «Tornate domani.» L'indomani li fanno salire su un camion ed è lì nella loro città che incominciano a sentirsi stranieri in patria: la fila grigia dei passanti silenziosi fa una deviazione all'altezza del camion, per paura e sospetto. «Che cosa ci aveva unito? Come mai a quella svolta ci eravamo trovati da quella parte? Eravamo partiti su un camion e poi? Cosa c'era stato in comune oltre a quel cantare e marciare, quei gesti e quei motti, quei sentimenti di rabbia e di rivolta e ora quello di esclusione e di rifiuto da parte degli altri che rafforzavano rancori e volontà di rivincita mescolati al malessere che ti dava il ricordo del sangue sparso?» Una convulsa ricerca di identità. In quel marasma alcuni di loro si erano aggrappati non al fascismo che li aveva delusi ma al duce: «Viva Mussolini, e il resto merda». Sentirsi capri espiatori di un paese egoista e infido: lì nasceva una ferocia che noi della montagna non potevamo capire. «Si entrava in un bar, in una osteria, sentivi quel bisbiglio che si spegneva, i discorsi che si interrompevano. Vedevi i loro sguardi traversati da un lampo di fastidio e subito dopo fissarsi sul pavimento. Allora scattava il bisogno di offendere, di fare violenza, di rendere più crudo quello stacco che ci divideva, di inasprire, per il rancore di quel rifiuto, l'immagine che Il eravamo dati. Era una sorta di rappresentazione per convincerci che eravamo veramente soldati, che avevamo ancora una parte in questa guerra da cui l'armistizio ci aveva esclusi. Ci piacevano i pugnali di ogni foggia, a lama larga, bruniti e nichelati, a lama triangolare che produce ferite immarginabili, arrivavamo alla cieca violenza plebea.» È la Salò dei proscritti che fanno dei funerali dei camerati il rito supremo: «Uscivamo dalla sala funebre con le bare in spalla, pronti a schiaffeggiare chi non si fosse scoperto». Villaggi della Valsesia o del Cuneese, serrande abbassate, poca gente in strada, impietrita dalla paura, il corteo funebre, l'affollarsi 45
in quei giovani, inimici al mondo, di sentimenti adolescenziali, da fratelli gelosi dei fratelli della montagna che la gente ama, a cui tutti sorridono e parlano, che possono camminare per i sentieri di una terra amica. Per molti di loro la patria fascista era scomparsa dalla sera alla mattina senza dargli il tempo di diventare antifascisti. «Quattro uomini per bara, li portavamo a spalla attraverso la città, la guancia appoggiata alla cassa di legno fresco. Quando il picchetto usava dalla camera ardente il trombettiere suonava gli squilli. Vedendoci apparire in cima al corso uscivano rassegnati dalle botteghe obbligati a salutare i morti: era per quella ultima violenza che li portavamo in giro, innalzati sugli scudi come trofei e per gridare a noi stessi che quella morte era un'altra cosa, aveva un senso sotto il cielo.» Anche il Mussolini stanco e rassegnato viene colto da desideri romantici, vorrebbe «la sua Valmy», la sua piccola ultima vittoria come il Napoleone nella Francia invasa dalle armate dell'alleanza. Nell'inverno del '45 una decina di automobili sale al passo della Cisa, a fatica per la neve. Qualche ufficiale italiano, la scorta tedesca e lui che vuol far visita ad Aulla a un reggimento della Monterosa, una delle divisioni addestrate in Germania. Lo fanno dormire in una scuola gelida, si alza all'alba per assistere all'offensiva che i suoi alpini tenteranno contro una divisione brasiliana. È una storia insensata, i brasiliani non oppongono resistenza, si ritirano sui loro autocarri in Versilia, ci penserà il giorno dopo l'aviazione americana a spianare il terreno. A Salò c'è anche il combattentismo fine a se stesso, di mestiere, con i suoi capitani di ventura come il principe Junio Valerio Borghese, ma appartiene al «partito delle medaglie d'oro». Un condottiero casuale e forse per questo circondato da un suo fascino. Monarchico, poteva raggiungere il suo re fuggiasco con una delle navi da guerra in rada a La Spezia, ma non ce la fa a lasciare la piccola macchina di precisione della Decima Mas, il reparto dei mezzi di assalto. I marò continuano a montare di guardia, a presentare le armi, a uscire per le esercitazioni fin che arrivano i tedeschi a proporre un patto: la Decima continui la guerra a fianco degli alleati. «Nella Decima si viveva come in un ordine religioso dominato dalla missione di offendere il nemico e di amare la patria.» Quale nemico? Quale amore di patria? Il principe non sa bene che cosa sia, sta a Salò ma organizza un golpe contro Mussolini, amante della patria fa uccidere altri italiani, ne brucia le case, trascorrerà i venti mesi passando da un progetto velleitario all'altro, tornare al fronte, difendere Trieste dai titini, fare di Milano l'ultima trincea. Mussolini se ne occupa il meno possibile, i tedeschi non lo ascoltano, la Decima è una torcia che passa per la repubblica, fiamma e fumo nero. Un'altra scheggia di combattentismo puro è la compagnia di paracadutisti della divisione Nembo che, colta dall'armistizio a Catanzaro, ha continuato la guerra al fianco dei tedeschi per «la bandiera dell'onore» come dice il suo comandante Mario Rizzati «[non] per i carrieristi di Salò e per quella Maddalena pentita di Mussolini». Lo conducono a Salò per fare ammenda delle sue parole, ma il duce che anche nella sventura conserva un certo stile non vuole neppure vederlo, «Lasciatelo andare» dice, e Rizzati va a morire con i suoi alle porte di Roma fatto a pezzi dai cannoni del generale Clark, «perché nessuno abbia il diritto di dire che gli italiani sono tutti vigliacchi». L'unico reparto fascista che partecipa alla battaglia per Roma comandato da un fascista deluso. Ma dietro questo combattentismo irragionevole ma coraggioso si nasconde anche a Salò il militarismo burocratico e parassita dei cento generali che stanno in villa sotto la protezione del loro collega, il maresciallo Rodolfo Graziani. E anche la giustizia conservatrice per cui la patria si identifica con la casta dei privilegi, i giudici che nel dopoguerra assolveranno il principe Borghese e il maresciallo Graziani, i valorosi «che hanno operato per il bene superiore della Patria come Garibaldi sull'Aspromonte». Nella repubblica ci sono anche quelli che si vendicano della loro irrilevanza spendendo la sola cosa che possiedono: la vita. Quelli che a un certo punto gettano sul tavolo la posta 46
immensa o irrilevante che ogni uomo possiede: la vita. Se ne incontravano in quei venti mesi. Uno a Caraglio, nella caserma del Littorio, reggimento anticarro, in cui avevamo fatto irruzione di notte. Stava con gli altri ufficiali in branda, seduto, a busto eretto con la sua maglietta bianca con scritta e fronde nere della GIL, Gioventù italiana del Littorio, una identica l'avevo indossata da avanguardista. Tutti gli altri a un nostro ordine erano scesi dalle brande e stavano vestendosi, ma lui no, sentiva arrivata l'ora della sua gloria, della sua grande sfida. «Non obbedisco ai banditi» disse. Non si poteva sparare, c'era in paese un presidio tedesco, vidi calare sul suo capo l'ombra nera di un Thompson afferrato per la canna come una clava dal partigiano Ercole. Non so se sia sopravvissuto, lo lasciammo lì mentre si alzavano fiamme e fumi. Ma al tenente Fioravanti dei RAP, reparti antipartigiani, quella soddisfazione della grande sfida non volli darla anche perché si era ormai alla fine. Me lo portarono su al comando di Sampèyre in valle Varaita, arrivò mentre stavo prendendo il caffè nel salotto del medico Fantino, di cui avevamo occupato la casa. Era basso di statura, aveva una divisa che non avevo mai visto, grigio-blu, da aviatore, con delle grandi fiamme bianche. Rifiutò di sedersi, mi guardava con aria di sfida, sapevo che prima o poi avrebbe giocato la sua grande carta: la vita. Rispondeva in modo sprezzante, sì, aveva moglie e due figli, sì, era andato nella repubblica volontario, sì, per lui eravamo dei traditori. Il partigiano Sicilia gli stava alle spalle con il mitra puntato, non capiva perché stessi ad ascoltarlo e a farmi insultare. Come si chiamava? Fioravanti Giulio, professor Fioravanti. Sicilia mi guardava aspettando ordini. «Portalo giù a Venasca e lascialo andare», Sicilia non capiva, ma si allontanò con il professore che voleva la bella morte. Dovevo spiegargli che poco prima alla radio avevano detto che il generale Patton aveva attraversato il Reno, che era l'ora di smetterla di ammazzarci? Sicilia era uno degli italiani che la guerra civile aveva portato all'inimicizia assoluta delle guerre senza prigionieri. C'era arrivato anche lo stanco, rassegnato Mussolini di Salò, non gli piacevano le stragi di Vinca e di Marzabotto, ma nella seconda metà del '44 aveva dato la disposizione: «Trattamento partigiani. I partigiani catturati durante e dopo i combattimenti verranno passati per le armi». Dicono che ai partigiani non sia mai piaciuta la definizione di guerra civile, per non essere equiparati ai fascisti di Salò. Certo questi non erano per i partigiani un justus hostis, un nemico accettabile. Molti, molti anni sono dovuti passare per superare quella voglia reciproca di annientamento.
Il ritorno alle origini II socialismo di Salò mai realizzato ha lasciato dietro di sé fra i neofascisti più sogni e nostalgie di tutte le opere e le conquiste del regime, perché la ricerca del socialismo, «ma di quello vero», è stata, nella sua vaghezza, fra i sentimenti più diffusi in Italia, il valico mai trovato verso il sol dell'avvenire. Giorgio Almirante, che era a Salò nei giorni della socializzazione, mi ha detto: «Credo che con la socializzazione volle cogliere una carta politica e, diciamo pure, propagandistica. Non gli dispiaceva sentirsi chiamare di nuovo socialista!», Il Mussolini di Salò era già un memorialista di se stesso, correggeva, con scritti e decreti, la sua biografia, tornava alle origini per far capire che la colpa della sconfìtta era degli altri, della borghesia egoista, che l'involuzione del partito era addebitabile ad altri, ai gerarchi. Gli sconfitti nell'ora della resa dei conti si ricordavano che le masse sono composte da uomini: persino Goebbels sentiva il bisogno «di vincolarsi ancor più socialisticamente con il popolo». Ma direi che un'idea come quella di varare una socializzazione, quanto a dire una rivoluzione economica e politica, con metà Italia già occupata 47
dagli alleati e la sconfitta entro pochi mesi è in qualche modo figlia della presunzione ideologica di quel tempo, sta nella sublime ignoranza che il ceto politico dei regimi autoritari e totalitari ha per l'economia, e non solo di essi, un'ignoranza che accomuna Stalin a Hitler, a Mussolini, a Gramsci, a Togliatti, all'intera direzione della Terza internazionale, avente per comune denominatore la certezza nella politica egemone, la ferrea persuasione che sono le idee politiche a risolvere i problemi economici. Non i conflitti di classe, i nodi della finanza e dell'economia, i modi di produzione e di distribuzione, i rapporti fra mercati nazionali e mondiali decidono la sorte dei popoli e distinguono la destra dalla sinistra, ma le ideologie, le concezioni globali del mondo e dell'uomo che essendo così grandi finiscono per essere indefinibili, sicché si può esitare fra l'una e l'altra, passare dall'una all'altra. Vanno con il fascista Pétain in Francia il segretario del sindacato comunista René Belin, l'anarcosindacalista Lagardelle, il socialista Mossi, Doriot, Déat, Brasillach, Maulnier e anche il nostro Tasca, uno dei fondatori del Partito comunista; da noi seguono Mussolini a Salò una parte del sindacato, il socialista Silvestri, il comunista Bombacci, e Bonfantini, il comandante delle formazioni partigiane Matteotti, progetta con alcuni fascisti la riconversione socialista delle formazioni di Salò. La carta della socializzazione delude anche il fascismo di sinistra che l'ha richiesta: non socializza il capitale, ma la gestione, lasciando al primo i modi per controllarla. Ma allora come adesso ha poco senso discutere sulla serietà scientifica di un progetto che viene varato in un mare in tempesta. Manlio Sargenti, uno degli autori del documento, mi diceva: «La legge era certamente lacunosa, erronea, data la fretta con cui l'avevamo fatta nascere, ma alcune parti vennero lasciate incomplete o imprecise di proposito: bisognava vedere come si sarebbero messe le cose nella pratica, le reazioni tedesche, quelle degli industriali». La risposta dei tedeschi è negativa, l'ambasciatore Rahn impone immediatamente al ministro Tarchi di rinviare la legge di attuazione; intanto senza aspettare superiori istruzioni il generale Leyers, che sovrintende ai rapporti con l'industria, manda una circolare agli imprenditori esortandoli a non farne niente «in quanto la socializzazione rientra nel campo degli interessi germanici». Ci fu da parte di alcuni manager non proprietari come Valletta e Marinotti un certo favore, forse non gli dispiaceva una legge che lasciava il capitale ai padroni, ma dava maggiori poteri ai dirigenti. Ma era un favore diplomatico, un'ultima attenzione per un condannato a morte. Le sole novità serie riguardarono gli istituti statali per la ricostruzione industriale e per la finanza, l'IRI e I'IMI, che diventeranno i pilastri dell'economia mista della repubblica democratica, e di certo il vecchio capitalismo pilotò le operazioni attraverso i grands commis che aveva sistemato a Salò, come Tarchi, come Rocca. Lo storico Marcello Veneziani dà una sua spiegazione del ritorno alle origini tentato nell'ora impossibile, dice che una delle motivazioni di Salò e poi del neofascismo fu una voglia di dissacrazione generale: della storia, delle scienze sociali, dello stesso fascismo fra gente che stava su un vascello fantasma, non aveva più niente da perdere e dissacrava per giustificarsi, per ritrovarsi. Lo stesso cauto, razionale Manlio Sargenti sembra confermarlo quando dice: «Quali erano nella repubblica le residue possibilità di riuscita? Scarsissime, ma tuttavia le operazioni militari potevano ancora concedere il tempo a un esperimento rivoluzionario». Il tempo per la dissacrazione della concezione economica del regime. Forse come dissacrazione era mal congegnata, il ministro liberale Soleri la giudicava «piena di inesattezze. Applicata alla lettera renderebbe impossibile l'esistenza delle società per accomandita e la costituzione di nuove società. Prevede infatti come condizione sine qua non un consiglio di gestione di cui facciano parte i lavoratori. Ma come possono fame parte se devono essere ancora assunti?». Il Mussolini di Salò annuncia il ritorno alle origini sin dai primi giorni della repubblica: «Lo stato che vogliamo costruire sarà nazionale e sodale nel senso più lato della parola, 48
cioè fascista nel senso della nostra origine». Scrivono i giornali di Salò: «Il duce degli umili, il duce della povera gente torna e il suo ritorno è un'aura di resurrezione». Tornano le accese speranze socialiste del '19, la giornata lavorativa di otto ore, il minimo salariale garantito, la gestione sindacale dei servizi pubblici, la confisca dei profitti di guerra, la requisizione dei beni religiosi, i consigli nazionali dei tecnici, il programma di piazza San Sepolcro che avrebbe dovuto far tremare la borghesia e che invece la rassicurava perché tutte le richieste proletarie venivano ricondotte nell'alveo nazionale dove da sempre i ricchi e potenti hanno la meglio sui poveri e umili. Le destre si dice sono tre e trentatré: nazionaliste, liberiste, per il trono e per l'altare, autoritarie, totalitarie, terzaforziste, socialfasciste. La destra fascista insegue la tercera posición, deve tener buona la borghesia degli affari e dei commerci ma anche il proletariato, tenta una sintesi del nazionalismo organico e del socialismo antimarxista, «sta dalla parte dei padroni» come dice Trotskij «ma gli sta sulle spalle con la pistola puntata alla nuca». Quanto a dire attivismo sociale preventivo, posa e al tempo stesso disinnesco delle mine sociali. A differenza del comunismo che ha per unica fonte il marxismo, il fascismo è la composizione di varie ideologie, nazionalista, socialista, corporativa, cattolica che vanno e vengono in un continuo mutamento delle parti: ogni tanto, rivolgendosi alla borghesia che era il vero sostegno del regime, il duce si sfogava in intemerate antiborghesi, dava dei pantofolai, dei vili, dei «panciafichisti» a coloro che lo avevano innalzato al potere e ve lo conservavano. Il gioco delle parole risolveva le contraddizioni, tutti invece di prendersela con il capitalismo in quanto tale se la prendevano con i «pescicani» o con «le grandi dinastie», mentre le contadine venivano tolte dalla loro fatica e dalla loro subalternità con la promozione a «massaie rurali». Del corporativismo Salvemini diceva: «Tutte le categorie del sistema economico tradizionale rimangono intatte: profitto, interessi, salario. Ma il profitto diventa lo stipendio corporativo del datore di lavoro, l'interesse diventa lo stipendio corporativo del capitalista e il salario quello del lavoratore». Il povero Oriani, precursore del fascismo, poteva dormir tranquillo nella sua tomba. Il suo drammatico quesito: «L'umana grandezza trionferà sulle miserie del presente con una insurrezione dei deboli o con una rivolta dei forti?» si scioglieva nel falso organicismo e nella ricerca della tercera posición. A parole il corporativismo metteva sullo stesso piano il capitalista e il lavoratore, in pratica consisteva in una burocrazia costosa da cui gli industriali disposti a spendere potevano ottenere tutto ciò che volevano.
I miti di Salò I miti di Salò nascono dalla sua precarietà, dal fatto che la repubblica che non dovrebbe esistere esiste. L'Italia del Sud liberata dagli alleati, restituita al vecchio re è un paese sotto tutela dove la società dei notabili e delle plebi contadine continua il suo corso sonnolento; l'Italia padana occupata dai tedeschi, lacerata dalla guerra civile, è però animata da forti passioni civili, da progetti per il futuro. La condizione di Salò è povera e umiliante: un duce prigioniero delle SS, attorno a lui un nido di vipere, di gelosie, di assurdi appetiti, un esercito diviso fra milizie di partito, compagnie di ventura, sopravvissuti della casta militare. E poi l'odio popolare, la stanchezza. Ma allora perché i giorni di Salò sono rimasti per i reduci «la stagione della verità»? Forse nel suo essere come sospesa nel vuoto c'era qualcosa di miracoloso, come una risurrezione dal cadavere decomposto del fascismo di regime di un fascismo, sofferente ma vivo, che senza Salò sarebbe scomparso. Ecco, la repubblica fu vissuta e poi ricordata non come un periodo concluso, ma come un ponte, come 49
la prova che le porte della storia non si sarebbero chiuse alle spalle di Mussolini. Il mito della risurrezione si accompagna al mito del riscatto: l'Italia amata e odiata, materna e traditrice che ha dato per anni al fascismo un consenso totale, trionfale, per poi svuotarlo e ripudiarlo fino al tradimento, si riscatta nel sangue. Da qui il sentimento dei fascisti di Salò di essere diversi, fedeli in mezzo a un popolo di voltagabbana, fedeli fino alla sconfitta in mezzo a milioni di opportunisti. Un mito, questo della diversità, che è una costante degli italiani-antitaliani che sognano o tentano rinnovamenti, gli antitaliani che fanno il Risorgimento contro la pigrizia e l'ostilità delle plebi e poi i comunisti che sognano la rivoluzione nel paese conservatore. Il sentimento della diversità che era dei fascisti di Salò, come dei partigiani, creava modi di pensare, di agire contraddittori ma complementari: l'odio totale per il nemico «diverso» e, dentro, l'inconfessabile legame del «partito dei combattenti» che si confrontavano in armi, mentre l'Italia pusilla stava alla finestra. L'odio totale per il nemico ideologico era il medesimo delle grandi rivoluzioni, dei giacobini per l'ancien régime, dei bolscevichi per aristocratici e borghesi. In questa partita il tedesco restava il padrone militare ma come presenza politica era già un estraneo, destinato a scomparire. Dentro l'odio si muoveva, dicevo, il legame combattentistico, il rispetto, almeno, per i morti, le domande che i morti ponevano agli uni come agli altri, le domande di Cesare Pavese: «Ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblicani. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico diventa, morendo, una cosa simile a te, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, allora vuol dire che anche il nemico è qualcuno e che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi lo ha sparso. Perché sono morti? Io non saprei cosa rispondere. Non adesso almeno. Né mi pare che altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti e soltanto per loro la guerra è finita per davvero». Noi partigiani credevamo di saperlo, perché i fascisti morivano: perché si erano messi dalla parte sbagliata, perché avevano allungato la sofferenza della guerra. Ma neanche allora era una risposta convincente, un errore per cui si va a morire non è un errore qualsiasi. Un altro mito dei fascisti di Salò era di aver salvato la patria ingrata. Che sarebbe accaduto senza Mussolini, senza la repubblica di Salò? I tedeschi, dicevano, avrebbero fatto tabula rasa dell'Italia e degli italiani. E anche questo mito in certo modo ci accomunava, anche noi partigiani pensavamo di essere i salvatori della patria, delle sue industrie, del suo patrimonio agricolo, dei cittadini sfuggiti grazie a noi alla deportazione. La verità è che l'Italia, come la Francia, veniva soprattutto salvata dalla douceur de vivre, dal fatto che gli operai e i contadini tedeschi arrivati in armi nei due paesi vi avevano trovato antica civiltà dai molti beni e dai molti doni, campagne fertili e città meravigliose, cibi e vini, due paesi da far sopravvivere nel Reich del futuro, non da fare terra bruciata come nell'Est. L'ultimo mito fu la ridotta in Valtellina, tipica di un fascismo onirico, pago delle parole. Nessuno a Salò si era preoccupato di prepararla, di fortificarla, di dotarla di magazzini. Nessuno aveva pensato a predisporre la via di fuga, il modo per raggiungerla, questa Valtellina della salvezza. Sarebbe bastato presidiare la strada fra Como e Colico e tener pronti per il governo battelli e motoscafi con cui evitare le imboscate sulla strada Regina. Niente, all'ultima ora Mussolini e i ministri partono dalla prefettura di Milano senza sapere bene dove andare, su quali reparti contare. Verso un cul de sac senza scampo.
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Dove è finito Minotti? Ma il mito di Salò destinato a più lunga durata è stato quello del grande massacro espiatorio, del «sacro macello». Cinquant'anni dopo la televisione ha ripreso un raduno di ex combattenti. La prima cosa che i reduci gridavano all'intervistatore era la rivendicazione del massacro espiatorio: «Ci hanno trucidato, ci hanno sterminato, più di centomila, soldati e civili, uomini e donne, ho visto morire tutti quelli del mio battaglione, ho visto fucilare le mie ausiliarie». Una, cento o mille persone uccise sono sempre una tragica esperienza, ma i centomila fascisti morti nei giorni della liberazione sono una proiezione fantastica del martirio. Per anni, finita la guerra, la memorialistica neofascista ha ingigantito e descritto a tinte fosche la strage finale. Non è servito rifarsi alle cifre degli alleati, non è servito consultare gli uffici dell'anagrafe dove i morti venivano registrati anche in quei giorni: il «sacro macello» faceva parte della continuità del fascismo eterno e, come il martirologio cristiano aveva annunciato l'eternità della chiesa, così il bagno di sangue della liberazione era la premessa alla rinascita. Nella mia piccola città, a Cuneo, non ci furono stragi e neppure vendette prolungate. Forse perché tutti o quasi erano stati con i partigiani, mentre la maggior parte dei fascisti venivano da altre città, come Cumar, il pugile friulano promosso da fattorino a torturatore. A Torino la resa dei conti fu dura, c'erano molti cecchini, si continuò a sparare per una decina di giorni. A me, di quella resa dei conti, è rimasta una domanda senza risposta: dove è finito Attilio Minotti, il comandante delle Brigate nere? Minotti era un impiegato delle poste, sportello delle raccomandate. Era piccolo di statura, con una faccia da mummia azteca, pelle gialla, tirata. Era arrivato da Forlì e ci sembrava una persona gentile, buona, anche se aveva una passione per il premilitare, quando si metteva in divisa al sabato e dirigeva per ore l'ordine chiuso dei giovani fascisti. Uno di quegli amici anziani che non si frequentano ma che ti seguono, che sanno delle tue imprese sportive, di quelli che forse vedono in te ciò che avrebbero voluto essere. Quando mi dissero in montagna che era diventato il comandante delle Brigate nere non volevo crederci, mi sembrava impossibile che lui Minotti, quell'uomo piccolo e silenzioso, quel travet che non mancava mai di sorridere salutandomi fosse diventato un fucilatore, un uomo dei tedeschi. Alla liberazione comunque era scomparso. Passa un mese e prendo il treno della notte per Torino. Fa caldo, esco nel corridoio poi vado a cercare la latrina e in uno scompartimento a luci spente mi sembra di riconoscerlo, sta con il capo appoggiato a un cuscinetto fingendo di dormire. Guardo meglio, è proprio lui con la sua pelle gialla tirata. Apro la porta: si volta e mi guarda, atterrito. «Ciau, Minotti» gli dico. «Ciau, Giorgio» dice con un filo di voce. «Vai a Torino?» gli chiedo. Fa un gesto di assenso. La bocca gli si è storta in una smorfia, va a sapere perché questo ometto ha dovuto caricarsi sulle spalle gli orrori della guerra civile e ora aspetta che un ragazzo, un giovane amico lo faccia arrestare e condannare a morte. «Buon viaggio, Minotti» dico richiudendo la porta. Non ho più saputo niente di lui. Poco prima di Torino sono passato davanti al suo scompartimento, era vuoto, doveva essere sceso a Savigliano o a Carmagnola. È uno dei pochi nemici che ricordo, ho pensato molte volte al buio in cui è scomparso: arrivato chi sa dove con i suoi documenti falsi. Ospite di un camerata? Nascosto in qualche periferia dell'Italia del Sud? Rifugiato come altri fascisti nella legione straniera?
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IV RITORNA LA FIAMMA
Gli stranieri in patria Ci trovavamo come clandestini in piccole salette, in riunioni segrete cercando di rimettere insieme il nostro patrimonio di idee. Sono i mesi del «cupo tramonto», del fascismo, disprezzato, sconfitto, intoccabile come un appestato. Chi perde nelle guerre civili deve pagare con lacrime e sangue, il trasformismo italiano è feroce e, con la fine del fascismo e poi con l'avvento della democrazia, è cambiato tutto, i valori, la politica, il linguaggio. Spesso non è che apparenza, c'è ancora lingua fascista, retorica fascista, testa fascista nei giornali e in Parlamento, spesso è cambiato solo il colore delle bandiere, ma l'aria che tira è quella, non si trova più uno che abbia il coraggio di dichiararsi di destra, anche il partito degli industriali, anche i monarchici si presentano come liberali. Una parte dei fascisti è scomparsa come il generale Montagna, comandante della polizia di Salò, che resterà nascosto a Napoli per cinque anni, altri sono emigrati in Sudamerica o sono nel campo di concentramento di Coltano, ma pian piano l'arcipelago fascista riaffiora e si riconosce, l'immancabile protezione familiare consente ai reduci di vivere e di tornare cautamente alla politica, di ritrovarsi. Si tratta, diranno, di costruire «un campo trincerato del ricordo», una «ridotta della memoria», di fare dei venti mesi di Salò un ponte per la continuità perché, come dirà il fascista di borgata Teodoro Buontempo, «noi senza il fascismo e Mussolini siamo un cazzo». Ci sono anche i giovani, i figli cresciuti nella repubblica del duce, che odiano i nemici dei loro familiari, i «rossi», legati al fascismo dalle sofferenze e dai lutti. Le prime riapparizioni fasciste sono ingenue, a volte ridicole, ma dicono che il fascismo c'è. Una squadra guidata da Domenico Leccisi trafuga la salma del duce dal cimitero milanese di Musocco e lascia sul fondo della fossa un messaggio: «Finalmente, Duce, ti abbiamo con noi. Ti circonderemo di rose, ma il profumo delle tue virtù supererà quello delle rose». Un'altra squadra fa una irruzione nella stazione radio di Monte Mario e canta l'inno Giovinezza. Una fiamma che esce dalla bara di Mussolini sarà il distintivo del nuovo partito che nasce nel dicembre del '46 e si chiama MSI per assonanza con la RSI, Repubblica sociale italiana. Così, mentre i reduci rimettono assieme le memorie e le idee, il fascismo di regime, dei notabili meridionali e delle cordate ministeriali pone le fondamenta per il partito dell'antidemocrazia. Il profondo Sud e Roma sono le sue basi naturali, già alle elezioni politiche del '48 si capirà che ha uno zoccolo duro con punte a Roma del 5, 6 per cento e del 7, 4 a Napoli. Il fascismo dei notabili e della borghesia ministeriale, protetto dai gesuiti, con forte presenza al ministero degli Interni, nella polizia e nell'esercito, tiene assieme la compagnia sovversiva variopinta di socializzatori, antiborghesi, atlantisti, neutralisti, neopagani, tradizionalisti, esoterici, combattentisti che gravitano attorno al MSI. La struttura è quella ministeriale: ancora nel 1960 sessantadue prefetti arrivano dal regime e solo cinque fra essi hanno partecipato alla Resistenza, non stupirà dunque se nel casellario del ministero degli Interni su 13.716 sorvegliati per ragioni politiche 12.491 sono di 52
sinistra. L'unica vera epurazione della polizia è consistita nell'allontanamento dei partigiani, gli unici veti alle nomine nello stato maggiore dell'esercito sono di ufficiali partigiani. Con l'uscita dal governo della sinistra nel '47 la restaurazione neofascista si fa scoperta e impudente: ci sono procuratori generali che in un processo a terroristi neofascisti «salutano nei giovani accusati l'amor di patria, la speranza nell'avvenire dell'Italia incitandoli ad agire in futuro con la stessa purezza di animi e di intenti». C'è il rettore dell'università di Roma Ugo Papi che inneggia al segretario del MSI Giorgio Almirante «per la lezione di stile, di virile coraggio che ha impartito a tutto il nostro cosiddetto Parlamento». Danno il loro aperto, caldo appoggio al neofascismo i nobili romani, le grandi famiglie dei Borghese, Colonna, Torlonia, Pignatelli e generali come De Lorenzo e Fanali, ammiragli come Birindelli. È la borghesia governativa che crea un'organizzazione nazionale: sezioni di partito in ogni città, federazioni in ogni provincia, l'organizzazione sportiva Fiamma, il sindacato CISNAL, l'ente assistenziale ENAS, le associazioni combattentistiche di Salò e anche quella delle ausiliarie, diretta dalla contessa romana Amalia Baccelli. E poi il FUAN per gli universitari, il Comitato tricolore, i Volontari nazionali. Servono come prime mobilitazioni sentimentali le campagne irredentiste per Trieste italiana e contro il separatismo altoatesino dove lo scontro nazionalistico appare in tutta la sua assurdità: nazionalisti italiani che chiedono la pena di morte o l'ergastolo per i nazionalisti sudtirolesi. I progetti istituzionali del neofascismo oscillano fra una riedizione pura e semplice del regime, una democrazia tecnica simile al qualunquismo, un sistema misto bicamerale con una camera eletta e una di tecnici scelti per chiara fama, un sistema presidenzialista alla De Gaulle, un regime militare greco. Ma tutte confluiscono nella «democrazia diretta», vale a dire in un sistema autoritario più o meno camuffato. Appare su «La Rivolta Ideale», la più autorevole rivista neofascista, un manifesto in cui si dice: «Noi vogliamo riconciliare gli italiani al di sopra dei partiti, promuovere la collaborazione delle classi nell'amore della Patria, volgere l'ordinamento dello stato verso le più alte forme di democrazia diretta per cui intendiamo difendere a ogni costo i valori civili, morali, religiosi, culturali e militari della nostra stirpe». Sono i concetti che tornano nei discorsi di Almirante: «Vogliamo una democrazia come rappresentanza organica delle categorie morali ed economiche al vertice della nazione e dello stato. Una democrazia qualitativa e non quantitativa, morale e sociale e non partitocratica, al servizio dello stato e non sovversiva, nazionale e non internazionalista». La coesione della nebulosa fascista sta ancora nell'odio per la democrazia, la sua forza non sta nella coerenza ideologica ma, al contrario, nella sua avversione istintiva al razionalismo. Più che una dottrina politica è un modo di concepire la società, la politica, la cultura come rivoluzione conservatrice.
La guerra fredda Nella marca di confine chiamata Italia, a un regime nazionale a più piani succede un sistema internazionale a poteri contrapposti: il partito dell'America, il partito della Russia, il Vaticano e, in mezzo, lo stato repubblicano, in qualche modo uniti nel concerto antifascista nel '45, già disuniti nel '47. Il democristiano De Gasperi che nei giorni della comune vittoria faceva l'elogio dell'Unione Sovietica è già due anni dopo qualcosa che non è mai veramente esistito, il mondo si è spaccato in due, le due grandi potenze si confrontano nella «guerra fredda», la «cortina di ferro», migliaia di chilometri di fìlo spinato e di torrette di guardia, divide l'Europa. L'Italia democratica risponde alla sua maniera vitalistica e opportunistica creando un sistema politico anomalo, pressoché incomprensibile agli stranieri, che durerà 53
per quasi mezzo secolo: lo stato democristiano, atlantico, con sottostante mercato del lavoro gestito dai comunisti, un grande partito il loro ma estromesso per l'eternità del governo, con il neofascismo a fare da giustificazione e da spauracchio. Le diplomazie straniere trovandosi di fronte a questa costruzione ambigua spesso la mettono in difficoltà tentando di semplificarla, bianchi da una parte, rossi dall'altra, ma non è così semplice con i due partitichiesa, il democristiano e il comunista, su cui è stata fondata la repubblica, da cui è nata la costituzione. Ideologicamente, come linguaggi, come cultura i due partiti sembrano agli antipodi, ma li unisce una cultura clericale, il sentirsi poteri forti, «poteri millenari» come dice Togliatti. In teoria i democristiani dovrebbero mettere i comunisti fuori legge, imporre alla società civile i valori cattolici, obbedire fedelmente al Vaticano; e i comunisti lavorare per la rivoluzione, diffondere il marxismo, preparare la quinta colonna filosovietica. È ciò che i due partiti in qualche misura fanno, ma senza dimenticare mai l'interesse comune alla sopravvivenza. Togliatti ha bisogno di De Gasperi e di un partito cattolico forte per conservare una certa autonomia verso l'imperialismo sovietico e gli usi tirannici di Stalin. Deve potergli dire: fino a lì posso muovermi, scoprirmi, ma non più in là: ne va della sopravvivenza del partito, il più forte partito comunista del mondo occidentale, un partito che all'URSS fa molto comodo. E De Gasperi ha bisogno di Togliatti e dei comunisti per resistere all'integralismo cattolico che guarda con sospetto al suo laicismo liberale. Entrambi sanno che la guerra fredda è qualcosa che li condiziona fortemente, ma che il problema numero uno resta la ricostruzione di un paese a pezzi, la ricostruzione delle fabbriche, delle case, delle strade, dei porti, delle ferrovie. Ne nasce un sistema «incatenato» più che consociato, i due partiti sono come due pugili che si tengono avvinti per non cadere, perché il comunista sa che l'alleanza a cui appartiene l'Italia sta dalla parte di De Gasperi, il quale sa che solo il Partito comunista può guidare il proletariato industriale e tenere buone le ali rivoluzionarie. Per gli stranieri, ma anche per gli italiani qualsiasi il gioco delle parti risulta astruso: le faziosità, le retoriche, le contrapposte utopie si presentano come una guerra di fede, sembra che fra il rosso e il nero non sia possibile che una tregua armata. E invece le due parti si concertano, si danno nascostamente una mano: trattano l'amnistia dei fascisti per far passare il voto repubblicano, negoziano la costituzione, comperano i voti del MSI ricompensandoli con favori di governo e di sottogoverno, lo usano nel gioco degli opposti estremismi. Sottoposto a questi condizionamenti il MSI naviga a vista ora su posizioni fortemente antiamericane, antiatlantiche, ora come cane da guardia dell'alleanza anticomunista, ora dando spazio alla sua sinistra, ora ricorrendo a perbenisti come il commercialista Michelini che nel MSI è l'equivalente dei Grandi e dei Federzoni, i notabili conservatori del regime. La spartizione dei posti avviene naturalmente: i comunisti che hanno mirato all'egemonia culturale, che hanno con sé la maggioranza degli intellettuali dominano le case editrici e le facoltà umanistiche; i cattolici restano padroni in quelle scientifiche e nell'amministrazione. I due partiti si affrontano sulle piazze, nei comizi, ma al dunque non si uccidono. Quando scoppia l'insurrezione spontanea dell'apparato militare partigiano dopo l'attentato a Togliatti, è il ferito a raccomandare la calma, sono Secchia e Longo a rimandare a casa i rivoltosi, sono De Gasperi e Scelba a evitare che il PCI sia messo fuori legge. Nel sistema «incatenato» le uniche variazioni possibili sono quelle «sulle mezze ali», sui piccoli partiti laici che spostano a sinistra o a destra la rotta della «balena bianca». Che di meglio per entrambi che avere un'opposizione impotente e delegittimata? un'opposizione «fuori dall'arco costituzionale»? La borghesia d'ordine ha compiuto il suo miracolo, non è più autoritaria e reazionaria, ma di centro, garante della democrazia. Volenti o nolenti i missini devono adattarsi alla parte che Marco Tarchi chiama dello Schreckbild, dello spauracchio, dell'«uomo nero», dei pharmakoi, i malcapitati, che nelle città greche dovevano recitare la 54
parte dei capri espiatori, assumersi le colpe di tutti i misfatti e degli errori, portati in corteo per gli insulti e gli sputi e poi espulsi con quel fardello assunto per il bene della comunità.
I due ghetti La continuità del fascismo italiano è in parte assicurata dagli antifascisti che lo chiudono in un lungo, lunghissimo ghetto, ne fanno una setta di étrangers de l'intérieur come gli aristocratici negli anni della Convenzione. La guerra civile è stata feroce e l'infamia del nazismo non è dimenticabile, un abbraccio fra antifascisti e fascisti pochi mesi dopo la guerra sarebbe insincero. Ma c'è qualcosa di falso, di eccessivo nell'ostracismo totale di ogni persona e cosa che si richiami al fascismo. L'italiano sarà vitale, ma è privo di pudore e di stile, dimentica il fascismo, ed è comprensibile, ma per correre sotto la protezione dei grandi partiti di massa clericali che sono una sostituzione del fascismo. Noi del Partito d'azione e delle formazioni di Giustizia e Libertà avevamo rappresentato un terzo della Resistenza, il meglio della società civile, avevamo messo in piedi in quei venti mesi una forza armata di trentamila uomini, una rete di consenso, di appoggi, di scambi culturali a livello europeo. Arrivano le prime elezioni, le affrontiamo fiduciosi e gli italiani ci azzerano, votano in massa per comunisti, socialisti e democristiani. Non è questa la democrazia moderna? Non è giusto votare per i partiti che contano? Ma è dura da mandar giù. Come si può credere che metà degli italiani ripongano davvero la loro fiducia nel partito democristiano che non è quasi esistito nell'antifascismo e ha avuto parte secondaria nella Resistenza? Come è credibile che milioni di persone che anche sotto le bombe sono state gelosissime custodi della loro «roba», della loro anarchia, dei loro egoismi individuali e di gruppo si improvvisino comunisti? Come non pensare che a essi del solidarismo cattolico e dell'eguaglianza comunista interessi poco o punto e che ciò che veramente vogliono è di avere le spalle coperte, ancora e sempre esentati dalle responsabilità? O la chiesa rossa o la chiesa nera. Su una cosa i grandi partiti clericali di massa hanno trovato un accordo immediato: lasciar sopravvivere i fascisti, ma nel ghetto, senza capire che il marchio d'infamia è uno di quei traumi psicologici che obbligano il nemico a essere compatto, a resistere. Emarginazione eguale identità, identità eguale a più forte emarginazione, cioè a una difesa a oltranza. Vissuta come una grande ingiustizia. C'è stata la guerra civile, è vero, e l'alleanza con il nazismo, ma come ultimi atti di un regime che è stato anche altro. A differenza del nazismo che nella sua follia teorica si è messo contro gli ebrei, contro le chiese protestanti, contro settori della scienza e della cultura, che è arrivato a considerare come nemici i suoi più fedeli e fanatici militanti, il fascismo di regime, con tutti i suoi vizi autoritari, non ha mai immaginato o praticato una diversità dalla nazione, un conflitto con la nazione. Ed è duro, molto duro per un movimento che ha fatto dell'italianità il suo cavallo di battaglia, e del nazionalismo il suo vero ubi consistam, prendere atto che la maggioranza degli italiani gli è ostile, lo rimprovera di tutti gli errori. La prima volta che mi capitarono fra le mani fogli neofascisti ero fuori di me dalla rabbia, dall'incredulità: ma perché li vendono? perché non li bruciano? Non ero capace allora di leggere in quella rabbia, forse era in parte incerta coscienza, anche noi sapevamo che il passaggio dalla dittatura alla democrazia era stato troppo rapido, che in noi c'era ancora molto fascismo da digerire. E i comunisti non aiutavano a farlo, l'uso propagandistico che facevano della Resistenza era insopportabile, c'era dentro come una stolidità staliniana, pesante, monotona, non capivano di prestarsi al gioco avversario. Il neofascismo era ancora una volta il terzo incomodo, testimone delle nostre colpe nazionali, 55
faceva riemergere i nodi irrisolti della nostra storia: il rapporto di amore e odio con Mussolini, l'identificazione tante volte accettata tra fascismo e società civile, la comune gioventù. Dal canto suo, paralizzato dall'emarginazione, il neofascismo non faceva nulla per rendersi accettabile: nessuna seria analisi della sua storia più recente, nessun ripensamento sul suo rapporto con il nazismo delle camere a gas, neppure il tentativo di spiegare che forse quel rapporto non era stato così stretto, che forse era stato come un compagno di viaggio inevitabile, un prezzo inevitabile della fedeltà a Mussolini. Ma a un certo punto della guerra fredda l'antifascismo, la sinistra si accorsero che venivano chiusi a loro volta in un altro ghetto, che attorno a loro cresceva la sistematica diffamazione da parte di un apparato informativo tornato compatto al servizio del potere. Nei giornali vigeva un sistema ferreo, che partiva dai corrispondenti di provincia pagati a righe i quali si erano presto accorti che per essere pubblicati bisognava diffamare i partigiani e ricordare per prima cosa di un ladro, di un assassino, di uno stupratore che era stato partigiano e che le due cose stavano in qualche modo insieme. Ero alla «Gazzetta del Popolo», redattore alle province. Passavo le notizie, cancellavo la qualifica partigiana sapendo benissimo che il redattore capo, il cavalier Guglielmo Pennino, l'avrebbe rimessa e su essa titolato. Era una brava persona il cavalier Pennino, non si era mai sporcato le mani nella guerra civile anche se aveva continuato a lavorare nel giornale, lui stava in collina e aveva centinaia di libri su D'Annunzio. I titoli erano sempre gli stessi: Partigiano rapinatore, Partigiano fugge con la cassa, Partigiano uccide la moglie. Come se dalla montagna fosse discesa la feccia della nazione. La «Gazzetta del Popolo», come tutti gli apparati della restaurazione, stava riassumendo i fascisti, erano fidati, anticomunisti garantiti. Non avevo il coraggio di andarmene, di tornare a Cuneo a farmi mantenere da mia madre. Un giorno venne assunto un giornalista sportivo che era stato con il cavalier Pennino nella «Gazzetta» durante Salò. Ero nell'atrio e lui chiacchierava con dei colleghi. Mi vide, ebbe un momento di incertezza, poi mi venne incontro a mano tesa. Mi girai di scatto, scesi correndo lo scalone e mentre scendevo mi chiedevo perché lo avessi fatto, dopotutto era uno che aveva scritto di calcio e di ciclismo. Vivevo la riapparizione del fascismo come un'assurda congiura. Da quali fogne erano usciti quelli che una notte avevano spaccato a martellate la lapide di Duccio Galimberti, sulla strada fra Cuneo e Centallo, nel luogo dove lo avevano fucilato «mentre tentava di fuggire»? I rottami della guerra civile tornavano in circolazione: certe notti nella galleria San Federico di Torino arrivava Piero Piero, in abito blu gessato e ghette nocciola, lui e i suoi guardaspalle, scendevano in un nightclub. Spendeva e spandeva, si faceva dare pneumatici dalla Pirelli e carta dalla Burgo e li rivendeva all'«Unità» dove c'era un amministratore che lo aveva conosciuto comandante delle brigate Matteotti. Quando la Pirelli e la Burgo decisero che non faceva più paura Piero Piero scomparve, con il suo abito blu e le sue ghette. Una volta ero ad Aosta per le elezioni e i manifesti annunciano un comizio di Edgardo Sogno, l'eroe della Resistenza, che aveva fondato per anticomunismo Pace e libertà, un movimento della destra estrema cui si era aggregato anche Luigi Cavallo, uno dei balordi misteriosi di quegli anni, trotskista, poi corrispondente dell'«Unità» a Parigi e improvvisamente da noi alla «Gazzetta del Popolo» con tanto di passaporto per gli Stati Uniti. Mah! Edgardo Sogno stava sul palco, magrissimo, uno schizzo, parlava con la sua vocetta stridula che nessuno sentiva, ma i venti della claque sotto il palco urlavano e applaudivano, a cagnara. Riconobbi fra loro Tabusso, un giornalista licenziato dal «Popolo nuovo» per troppi «bianchini», buono per una sera con il suo humour nero torinese. «Vieni a cena con noi» mi disse «paga lui. Siamo su a Mecosse, sopra Villeneuve.» Arrivai a Mecosse che è il luogo più lugubre della valle quando la cena era già alla sbronza, si era scatenata una rissa fra un ex brigatista nero riportato dal vino a furori politici e un ex partigiano, e finì in modo laido fra abbracci, canti, pianti. Andai a dormire in una stanzetta 56
gelata. All'una mi risvegliarono urla laceranti, stavano violentando la cameriera che avrà avuto quindici anni. Quando tornò il silenzio tagliai la corda. L'albergo su una roccia, nella notte navigava come una nave pirata diretta all'inferno con la sua ciurma. Di me la direzione si ricordava solo quando c'erano degli scioperi caldi o gruppi di partigiani che risalivano in montagna non sai se per rabbia o per noia. Mi sentivo fra gli scioperanti come un prete spretato, stavo zitto in mezzo a quei poveracci che difendevano la pagnotta, la sera al giornale il direttore si faceva dare la bozza della mia cronaca dal cavalier Pennino per vedere se per caso avessi parlato bene dei rossi. La restaurazione della borghesia d'ordine procedeva per gesti e parole grossolani, stupidi, ma su binari sicuri, sperimentati: diffamava i partigiani, e al tempo stesso metteva alla berlina i neofascisti nelle loro manifestazioni più ridicole, di cattivo gusto, quei paria servivano, ma che non credessero di essere tornati al comando, anche se i loro voti potevano tornar buoni. Si era cominciato con l'elezione a sindaco di Roma del democristiano Rebecchini e si arrivò fino al governo Tambroni, ma quella volta la pazienza partigiana saltò, Genova venne occupata manu armata, i camalli del porto ribaltarono con i loro uncini le camionette della polizia, i fascisti venuti a congresso dovettero chiudersi negli alberghi. I fascisti stavano nel loro ghetto e per noi erano un tabù, non cercavamo di conoscerli, di capirli, uscì su di loro un unico saggio di Giorgio Galli e solo il vecchio Garzanti pubblicò una collana di memorialistica, ma lui poteva, aveva fatto un sacco di soldi con le rappresentanze farmaceutiche. Noi ignoriamo i fascisti e i fascisti ignorano noi, sempre fra camerati, negli stessi luoghi, sotto gli stessi simboli. La cosa durerà fino agli anni Novanta. «Noi siamo come gli ebrei» dirà Roberto Mieville «ci sposiamo sempre fra di noi.» Degli intellettuali il MSI non si fida e poi gli intellettuali italiani non salgono mai sulle carrozze malfamate, anche gli intellettuali reazionari del dopoguerra o si intruppano con la destra cattolica o si mimetizzano. Il ghetto difende l'identità fascista, rafforza il cameratismo ma conserva anche le cose mediocri come il virilismo. «Non saremo il primo partito d'Italia» dice Mieville «ma come "scopatori" battiamo tutti.» È un virilismo che viene da lontano, dall'arditismo della prima guerra mondiale, dallo squadrismo e durerà fino ai nostri giorni. Per il camerata Gasparri, sottosegretario missino agli Interni nel 1994, le redazioni dei grandi giornali sono piene «di tardone, di efebici personaggi e calunniatori in servizio permanente», e l'onorevole Benito Paolone continua a dividere il mondo «fra piglianculo e mettinculo. Noi siamo sempre stati dei piglianculo. Adesso dobbiamo diventare mettinculo». Il deputato missino Stefano Morselli seguita a dire del progressista Paissan che è «un porco pederasta e busone» e l'ex missino senatore Previti si lamenta della Tiziana Parenti, presidente della commissione parlamentare antimafia, «perché non ha le palle». Nella restaurazione la sinistra subisce discriminazioni analoghe: i partigiani entrati nella polizia ne sono stati allontanati e un bando di arruolamento della polizia portuale riserva i posti «a coloro che alla data dell'8 settembre '43 appartenevano ai ruoli della disciolta milizia portuale», una discriminazione alla rovescia, esclusi gli ex partigiani ammessi gli ex fascisti. Gli ex partigiani sono allontanati con vari pretesti anche dai corsi allievi ufficiali dell'esercito e dalle aziende di stato, salvo i democristiani che Enrico Mattei assume all'ENI come una milizia personale per la sua grande avventura. Il ministro democristiano Silvio Gava rifiuta di pagare risarcimenti dell'emigrazione agli antifascisti perché «la coscienza nazionale non può decretare nessun riconoscimento a coloro che agirono contro la sicurezza della patria in guerra». È una motivazione assurda solo in apparenza, la borghesia restauratrice assume l'eredità del regime per ereditare i voti della maggioranza degli italiani. La diffamazione della Resistenza giunge a un punto tale che gli antifascisti preferiscono rinunciare alle celebrazioni in un paese che sospende alcuni sindaci «perché non hanno impedito la presenza di bandiere rosse». In una sua circolare il ministro democristiano della 57
Pubblica istruzione Ermini invita i provveditori «a celebrare nel giorno 25 di aprile l'anniversario della nascita di Guglielmo Marconi». La repressione distingue fra ex partigiani comunisti e di altro colore a cui risparmia la prigione, ma li accomuna nell'emarginazione obbligandoli a compattarsi con il Partito comunista, che nessuno ha il coraggio di chiudere perché nella balance of power rappresenta l'URSS, una delle grandi potenze della Terra. È un rispetto che funziona relativamente con gli umili ma che protegge gli intellettuali nelle università e nelle case editrici, la borghesia restauratrice avendo già tutti i centri del potere economico e amministrativo lo tollera. I grandi poteri proteggono ma impongono i loro pedaggi. Prendiamo la più importante delle case editrici di sinistra, l'Einaudi. Fanno parte della direzione Giulio Einaudi, figlio di Luigi, il presidente della repubblica, e intellettuali di varia formazione culturale, illuministi come Bobbio, Venturi, Serini, cattolici di sinistra come Felice Balbo, scrittori di area comunista come Vittorini, Pavese, Spriano, Calvino, la Ginzburg. Una direzione eccellente, un grande editore che dà alla cultura italiana un respiro mondiale aprendola alla letteratura anglosassone, alla storiografia francese, alla scienza. Ma il prezzo da pagare per essere protetti dal Partito comunista è la subaltemità in tema di Unione Sovietica. Il segretario del Partito comunista Palmiro Togliatti conosce bene la langue russe, i desideri e i voleri di Stalin e della sua corte, e il prezzo va pagato non solo perché il Partito comunista è forte, ma perché i comunisti comperano e leggono libri, Einaudi non può certo sperare di venderli ai cattolici che hanno il loro circuito bresciano o ignorano la cultura presi come sono dalla gestione del potere. Così fra i buoni libri passano opere di servile propaganda, un'ampia scelta degli scritti di Zdanov, il sovietico più oscurantista, curati da Togliatti, resoconti sull'URSS di viaggiatori laburisti o fabiani come Beveridge o i coniugi Webb, condotti per mano, come bambini, per scuole modello e dacie ospitali che riconoscenti per la vittoria sul nazismo descrivono la feroce, affamata Russia di Stalin come il paese delle meraviglie, ma non furono i soli: ci sono ritratti di Stalin di scrittori francesi come di un paterno signore preoccupato di difendere i deboli e di lenire le offese, lui, uno dei massimi nemici del genere umano. Passa da Einaudi anche II sistema finanziario dell'URSS, testo propagandistico di Michail Bogolepov. E poi una serie di romanzi orribili laureati al premio Viareggio, presieduto dal filocomunista Leonida Repaci, e tutta una serie di premi e premietti usati dal partito per ingraziarsi gli intellettuali, «l'oppio sottile» di cui si lamenta in una lettera all'editore Felice Balbo che ci vede un ritorno sia pure mascherato alla cultura autoritaria. È dello stesso parere anche Norberto Bobbio che scrive a Balbo: «Oggi l'Italia è tutta piena di Gentile e di Croce. La mentalità papiniana, giuliottesca, prezzoliniana è rimasta come un substrato generalizzato e diffuso nel nostro retroterra culturale. Credi, se in Italia c'è un lavoro da fare è fermare lo zelo antilluministico e non già aiutare gli zelatori della Controriforma a chiuderci la bocca. In Italia c'è una vecchia e persistente e sempre contagiosa passione, la passione per le posizioni più reazionarie, dove le posizioni più avanzate fanno la triste fine che sappiamo». Balbo insiste con Giulio Einaudi: «Come fai a presentarti come colui che lotta contro le culture insipide se accetti di fare direttamente o meno la direzione culturale comunista?». E conclude in modo eccessivo ma comprensibile: «Mi spiace ma l'Einaudi del '45 mi sembra più fascista di quella del '40». Sono gli effetti inevitabili del fronte contro fronte. A sinistra c'è solo il Partito comunista con la sua poderosa organizzazione, la sua capacità di dettare ai militanti cosa devono o non devono leggere, la sua cassa di risonanza nei giornali, nei festival, nelle università. Il Partito socialista è un corpaccione vuoto che per di più si è accodato al comunista accettando con Pietro Nenni il premio Stalin da coloro che hanno combattuto per decenni il partito come socialfascista. Una città come Torino è esemplare della spaccatura: da una parte la città legata alla Fiat duramente anticomunista, che proibisce l'ingresso 58
dell'«Unità» nella fabbrica, assume gli operai raccomandati dai parroci, li fa schedare dalla polizia, finanzia i provocatori di Pace e libertà, i monarchici e al massimo con Vittorio Valletta e «La Stampa» con cede qualche apertura socialdemocratica. Dall'altra chi comunista non è ma deve appoggiarsi ai comunisti.
La diffìcile sopravvivenza Per alcuni decenni la sopravvivenza del MSI è affidata alle doti camaleontiche di dirigenti come Giorgio Almirante, figlio di teatranti, dotato di qualità istrioniche e di eleganza da capocomico, con occhi azzurri. Tocca a lui e a quelli come lui guidare il doppio gioco fra il neofascismo parlamentare che naviga nel sottogoverno e quello mistico o violento che va bene alla borghesia d'ordine per tenere a bada i rossi. Nella politica italiana hanno diritto di parola gli autori di paradossi privi di senso: «le convergenze parallele» di Aldo Moro, «il partito di lotta e di governo» di Berlinguer, «il partito cattolico laico» di De Gasperi. Ci si prova anche Almirante, i missini, dice, «devono essere fedeli e ribelli al tempo stesso. I non fedeli e non ribelli sono i Giuda e i mercanti, gli apostoli veri hanno sempre un pizzico di follia, di fantasia e quindi di santità». Un partito che ha fra i suoi fedeli i bottegai e i principi romani, fra i più beceri al mondo, predica il suo disprezzo per i mercanti, quelli del tempio, fra cui Almirante dovrebbe passare come il Nazareno. Giorgio Almirante è il neofascismo presentabile, democratico che però protegge i violenti e li ammaestra alla doppiezza: «Avrete accanto a voi tutta la destra nazionale. Si è pensato che per scontro frontale io intendessi soltanto scontro fisico. Questa volta vorrei essere bene interpretato e dichiaro che per scontro frontale intendo anche lo scontro fisico». Un giovane come il picchiatore Giulio Salierno ne deduce: «Per noi attivisti le parole di Almirante significavano una cosa sola: fare attentati, picchiare. Al contrario, i consigli, le disposizioni erano di star calmi, temporeggiare, riflettere. Poi, però, venivano certi discorsi, certe mezze frasi, certe affermazioni come: "La violenza è un mezzo razionale e purificatore"». E la sinistra si indignava di questa ambiguità praticandola a sua volta con «il partito dei dieci», il partito paramilitare clandestino dei comunisti, e magari con la simpatia fra i partiti della sinistra e i gruppi extraparlamentari, con i bravi genitori democratici che dai portici di via Roma a Torino o di piazza Duomo a Milano assistevano alle gesta picchiatorie dei Lotta continua o dei Prima linea che, come diceva un loro capo, il Galmozzi, «ogni tanto sistemavano qualche fascio in carrozzella». La pia, pacifica Democrazia cristiana non era meglio, non si sporcava le mani, ma proteggeva i suoi golpisti, i suoi gladiatori, i suoi generali o ammiragli da pronunciamento, i De Lorenzo o Birindelli e sempre lui il principe Borghese. Un doppio gioco che suggeriva al direttore del settimanale «II Borghese» Mario Tedeschi questa battuta: «Il MSI si è organizzato per fare la rivoluzione, per non farla, per non farla fare ai comunisti o più semplicemente per avere un po' di voti». Tradotta così da Almirante: «Camerati, il vero equivoco è di essere fascisti in democrazia». Le contraddizioni e le navigazioni incerte del MSI dimostrano due cose apparentemente antitetiche: che continua il marasma ideologico, il confuso tentativo di creare una dottrina organica attorno agli istinti e ai sentimenti del nazionalismo antidemocratico; ma anche la persistenza di un vitalismo profondo che consente al neofascismo di superare le infinite difficoltà del sistema «incatenato». La prima scelta non rinvia-bile è stata di vincere i rancori contro gli americani, il nemico, del regime e di Salò, e di diventare i loro più fedeli alleati. Scelta fatta subito dai fascisti sciolti reclutati dai servizi segreti americani per il loro sicuro anticomunismo, assieme ai mafiosi siciliani. Con la presa di posizione atlantica il 59
si allinea con la maggioranza conservatrice spaventata dalla avanzata delle armate rosse, russa e jugoslava, fino ai nostri confini, dalla organizzazione del PCI, onnipresente e sempre in parte clandestina, dal ribollire poi dei movimenti giovanili estremisti. Ma anche in quest'alleanza anticomunista sopravvivono le vecchie diffidenze per i «poteri forti» della borghesia che ha tradito il fascismo, per il «complotto giudaico massonico». Come ai tempi in cui il duce guardava con sospetto durante il consiglio dei ministri «il grigio infido Pirelli», simbolo di un capitalismo cosmopolita mai completamente passato al fascismo. Ancora negli anni Novanta più di due terzi degli iscritti al Fronte della Gioventù sono ostili «al capitalismo materialistico» e pensano che fra i «valori eterni immodificabili e non storicizzabili», come dirà Gianfranco Fini nel '93, ci sia il corporativismo. Passano gli anni, cambia il mondo, ma il MSI continua a essere identico nel suo camaleontismo, reazionario e populista, presente nei salotti dell'aristocrazia nera di Roma come nelle borgate, protettore dei violenti e ovazionato dai pellicciai, lo stesso partito di quelli che negoziano con ministri democristiani e degli altri che hanno scritto sulla porta delle loro sedi: «Vietato ai cani e a Michelini», legittimo e illegittimo. La democrazia gli consente di partecipare alle elezioni, di avere una rappresentanza in Parlamento, ma nell'«arco costituzionale» di cui fanno parte gli aborriti comunisti restano cittadini di serie inferiore; i deputati missini possono essere affittati come dei taxi, ma restano impresentabili. L'anticomunismo al di sopra di ogni sospetto li fa crescere nel Nord e li premia in modo travolgente nel Sud, ma se esce dal suo ghetto e cerca apertamente l'alleanza con la Democrazia cristiana come con Tambroni viene subito punito. Insomma deve stare al suo posto, fìngere di essere la sola destra italiana, fare da cane da guardia, ma stando in cortile, alla catena, non pretendere di entrare in casa. Scoppiano i movimenti studenteschi di estrema sinistra? Il MSI fa scendere in campo le sue squadre e il successo elettorale è immediato, specie a Roma, a Palermo, a Catania. Una parte amara hanno in questo partito dalle molte pelli i reduci da Salò che hanno tentato nei primi anni di far passare la loro apertura a sinistra. Nella repubblica di Mussolini come nel MSI sono gli uomini del «troppo tardi». Nell'utopia di sinistra dei reduci di Salò continua però la convinzione che la politica può tutto, anche dare un contenuto sociale a un partito di destra. Convinti o meno della vittoria dell'«asse», disposti o meno ad accettare la religione razzista del nazismo, si sono però abituati all'idea che un partito autoritario o totalitario può tutto, anche imporre la sua volontà ai poteri economici. La socializzazione di Salò è stata bloccata ma un partito politico praticamente morto come il repubblicano è riuscito ancora a progettarla, a farla discutere dall'alleato, dai «poteri forti». In questo senso Salò è stato veramente un ritorno alle origini, ha riportato nel fascismo e nello stato l'idea di un partito motore ed egemone anche nell'economia. L'ultimo segretario del MSI Gianfranco Fini risolverà alla maniera gentiliana del sofisma elegante l'eterna disputa fra sinistra e destra. «Il partito» dirà «è depositario di una grande tradizione in cui c'è già tutto. Inutile occhieggiare a sinistra.» Ma chi sa che la semplificazione di Fini non colga una verità: proprio così, nel fascismo c'è tutto, non perché sia una dottrina politica completa, ma perché, come sostiene Hannah Arendt, i fascismi sono una «concezione istintuale del mondo». Come dice Giulio Salierno, l'ex attivista missino: «Ero nato fascista, naturalmente fortemente fascista», con quella voglia autoritaria sia nel comandare sia nel servire. Il ghetto e le sue emozioni comuni fanno diventare fascista anche uno come Fini che non credo sia nato fascista. «Ero entrato nel MSI» mi ha detto «ma senza una grande passione, mi occupavo di organizzazione, facevo in certo senso l'impiegato. Ma negli anni Settanta quando la sinistra è passata dall'ostracismo alla violenza i legami di cameratismo si sono stretti. Vivevamo assediati, fra di noi, con le stesse angosce, le stesse paure, non dimenticherò mai il corpo carbonizzato di uno dei fratelli Mattei bruciato vivo nella sua casa, era rimasto con le braccia alzate protese verso la porta.» Nulla come un nemico MSI
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fanatico unisce i diversi, gli incerti, ha ragione Almirante a gridare ai congressisti: «II fascismo è qui». Conta avere quella comune concezione della vita, poi le prospettive si trovano: lavorare per una restaurazione più o meno riformata del fascismo giocando sui contrasti della guerra fredda, sul conflitto fra democristiani e comunisti; infiltrarsi nei partiti democratici, nelle strutture parlamentari e ministeriali per essere pronti a prendere il potere nel caso di un collasso della democrazia; tenere accesa la violenza che usura e divide la democrazia; conservare in vita anche solo per simboli e nostalgie la cultura fascista. Non si può dire che un tale progetto sia completamente fallito.
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V MISTICI E VIOLENTI
La suggestiva tradizione Dai mistici del neofascismo come Pino Crauti, fondatore di Ordine Nuovo, al pragmatico Gianfranco Fini, che ha fatto la svolta democratica di Fiuggi, passa uno dei valori «irrinunciabili» del fascismo perenne: la tradizione. Avendo chiesto a Fini quali sono i caratteri distintivi di Alleanza nazionale, ultima forma neofascista, mi ha indicato per prima, senza esitare, la tradizione. Ma quale? la storica? la religiosa? la razzista? La definizione più comprensibile del tradizionalismo sembra quella in chiave psicologica del filosofo Kart Jaspers: «II fascino della tradizione è forte e antico. La preistoria, l'età mitica hanno un aspetto di calma e di lontananza, di significato inafferrabile ma suggestivo e profondo, una mescolanza di paradiso perduto e di catastrofi, di diluvio e di torre di Babele, incerto, confuso, ma unico modo per metterci in contatto con la nostra matrice. Come i miti abbiano dato una impronta alla nostra vita e abbiano esercitato una influenza determinante sulla società è qualcosa che sfugge alla nostra comprensione», Il mito del «grande ritorno», l'umanità cambia ma restando segnata dalla sua arcana, decisiva origine. Una sorta di «futuro anteriore» che suggerisce a Carlo Levi l'immagine: «Quello che è stato può tornare, come le spiagge al ritirarsi delle maree». Di questo tradizionalismo che regna sovrano nella cultura europea fino all'illuminismo e oltre qui interessa il filone nordico-razzista cui si rifà il neofascismo mistico. La scuola che fa capo a Rosenberg vede il «grande ritorno» come un sogno della razza che si avvera: «Odino è morto, ma in altro modo, come essenza dell'anima tedesca resuscitata davanti ai nostri occhi egli rivive. Il mito è un sogno ma i tedeschi ricominciano a sognare i loro sogni originali, i sogni dei vichinghi, l'onore, lo stato, il regno, le capacità creative». Fuori da queste fumisterie si arriva diritti al razzismo puro di Cari Schmitt, il grande giurista passato al nazismo: «L'uomo sta nella realtà della sua appartenenza a un popolo, a una razza fino ai più profondi e inconsci moti dell'animo, fino alla più piccola fibra cerebrale». Errori di una cultura chiusa per sempre? Pare di no, a Belgrado sono tornati i teorici della «pulizia etnica», in tutti i continenti le etnie, le razze si sterminano a vicenda. I tradizionalisti fascisti e neofascisti sono riconoscibili più da ciò che odiano che da ciò che amano. Il loro grande nemico, il demonio, è la rivoluzione francese, madre di quella comunista, che ha travolto lo stato del trono e dell'altare, delle cattedrali e dei guerrieri, e aperto la strada all'homo oeconomicus che pensa solo al denaro e non ha «dentro di sé lo spasimo dell'infinito nel cuore e la luce divina nel pensiero, l'uomo ridisceso all'animalità». I valori borghesi sono per i tradizionalisti cadute da evitare. Per esempio, il lavoro, massimo valore borghese e comunista, appare a un tradizionalista fascista come Drieu La Rochelle «né un diritto né un valore, ma una tragica necessità. L'unico lavoro accettabile è quello che sta dentro l'organicismo fascista o nazista, l'unico che possa realizzare ordine, armonia e disciplina». C'è da rabbrividire pensando alla scritta sulla porta d'ingresso di Auschwitz «Arbeit macht frei», il lavoro rende liberi. I tradizionalisti odiano la borghesia 62
produttrice e mercadora. «Mondo borghese» scrive dal carcere un tradizionalista neofascista «mi hai insegnato a misconoscere la patria, l'ideale, il coraggio, la dignità, il valore, l'abnegazione. Va bene, andiamo avanti fino alla tabula rasa, io aspetto che sia tutta cenere, è solo dalla cenere che può risorgere, splendida e meravigliosa, la nuova vita, non questa in cui dilaga la frigidità nei rapporti sessuali e la omosessualità.» I tradizionalisti vivono nelle contraddizioni. Sanno che la scienza può fornirgli le armi per la conquista del mondo, ma la sacrificano al loro fanatismo razzista, Hitler perseguita gli ebrei che sono la parte più colta e creativa della nazione, li caccia, lascia che vadano a fabbricare la bomba atomica negli Stati Uniti. Il fascismo non è nemico della scienza, ma non se ne cura, anche lui affascinato dal suo «grande ritorno» imperiale e romano. Tradizione e gerarchia. Per i tradizionalisti duri e puri i vinti, i deboli non hanno neppure il diritto al lamento, devono ritenersi onorati di servire gli uomini veri, i guerrieri «che temperano la loro volontà di potenza dentro un ordinamento politico religioso militare e continuano a battersi anche quando si prospetta la distruzione e la vanità degli sforzi». Che il mitico passato tradizionalista sia una storia senza fine delle umane sofferenze e umiliazioni non gli interessa, la società, come dice Julius Evola, il teorico del tradizionalismo neofascista, deve muoversi «dall'alto verso l'alto». Ci sembra meglio Ernst Jünger, che sarà un tradizionalista, ma non privo di ironia: «Gli dei hanno banchettato con noi, ma a che giova agli affamati lo splendore dei festini trascorsi? Che giova al povero il tintinnio dell'oro che gli arriva attraverso il muro del tempo?».
Il negromante del fascismo Giorgio Almirante era solito dire di Julius Evola: «È il nostro Marcuse». Forse intendeva che nel neofascismo se ne era fatto l'uso e l'abuso che di Marcuse ha fatto la sinistra. Anche oggi un intellettuale neofascista che non citi Evola è come uno dell'area comunista che ignori Gramsci. Il barone Giulio Cesare Andrea Evola era nato a Roma nel 1898, aveva fatto studi classici e poi frequentato ingegneria rifiutandosi di prendere la laurea per dispregio dei titoli accademia. Ufficiale di artiglieria nella prima guerra mondiale si era poi dato alle mode del suo tempo, aveva partecipato al sovrumanismo dell'inevitabile Nietzsche e, travolto dall'ondata antidemocratica, aveva collaborato alle riviste fiorentine «II Leonardo», «La Voce», «Lacerba». Colto da una profonda crisi esistenziale, come Emile Cioran aveva provato «lo sbalordimento del vivere giorno per giorno», come Jünger si era sentito «l'omino disegnato col gesso che combatte la sua battaglia sull'orlo del nulla» e aveva tentato il suicidio come alcuni tradizionalisti stroncati nella ricerca della perduta origine, da Mishima a Montherlant, da Weininger a Michelstaedter. Per uscirne era partito per un'avventura culturale tortuosa e multiforme, alla ricerca del magico e del misterioso, un po' come quell'esistenzialista francese che diceva «la cultura yoga è stata il mio maquis», la macchia in cui mi sono rifugiato. Uomo di molti talenti e di impazienze dilettantesche era però fornito di un salvacondotto decisivo in quell'Italia: era un idealista, uno che rifiutava il rozzo materialismo storico. Sbaglia ma ci crede, dirà in tema di razzismo sciocchezze sesquipedali, ma ci crede, e Renzo De Felice gli ha riconosciuto di essere uno «che imboccata una propria strada la seppe percorrere con dignità e persino con serietà». Prima pittore dadaista di discreta qualità poi affascinato dai Discorsi medi del Buddha, quindi partecipe dell'occultismo romano e fondatore della rivista «UR» per cui scrive il saggio Introduzione alla magia quale scienza dell'Io. È una moda, questa, che Mussolini riduce a superstizioni paesane ma che 63
imperversa nel nazismo: fra i consiglieri di Hitler c'è il professor Karl Haushofer, gran maestro della società segreta di Thule, il creatore dei cento e più thulecomitati sparsi per il Reich, cultore del realismo magico e delle civiltà nordiche di cui erano membri anche Himmler, Rosenberg, Göring e altri, i quali avrebbero avuto diversa fortuna se nella repubblica di Weimar non ci fossero stati più di sei milioni di disoccupati. A questo punto l'approdo al tradizionalismo nordico e razzista è obbligato. Evola scopre la Konservative Revolution tedesca e i nipotini di De Maistre alla ricerca del puro e del sacro, dell'origine uranica nordica degli uomini solari, ariani che ritornano ai riti originali nelle «cattedrali di luce» delle adunate naziste a Norimberga, nei grandi fuochi attorno a cui si riunisce la gioventù europea, negli Ordenburgen delle SS, seminari e ostelli del razzismo. «Amavamo» ricorda Brasillach «vivere insieme in quelle immense riunioni di uomini in cui i movimenti ritmati delle folle e degli eserciti sembravano le pulsazioni di un grande cuore.» A questa gioventù il tradizionalismo evoliano offre meravigliosi modelli, l'uomo che «concepisce il diritto e la legge, i riti, la guerra, la vittoria, la proprietà, lo spazio e il tempo, le arti e i ludi, i rapporti fra casta guerriera e sacerdotale, le relazioni fra i sessi, la razza, l'ascesi, i post mortem, la immortalità». Un uomo dio. La ragione faustiana razionale in questa predicazione deve cedere il campo alle fede razzista e alla magia. Chi crede nel dominio della ragione si sbaglia, l'idea di progresso sconosciuta agli uomini prima del XVII secolo, diventata un dogma nell'Ottocento, sta già cadendo a brandelli perché gli uomini vogliono ben altro che la ragione, vogliono il sogno, l'epica, il sacro. In questo periodo Evola evita di muoversi nelle organizzazioni di partito a cui è sospetto per la sua arroganza intellettuale, preferisce farsi dei protettori e scrivere per riviste culturali. Suo difensore diventa così Roberto Farinacci, uomo intelligente ma rozzo, strano paladino che tenterà di salvare fino all'ultimo, anche a Salò, la sua segretaria ebrea essendo al tempo stesso amico di Giovanni Preziosi, un antisemita fanatico. Libertà da ras del fascismo, che sta fra lo strapaese di Cremona, il suo feudo, e il legame stretto con i nazisti. E così Evola ottiene un lavoro di prestigio anche da Mussolini che gli affida la voce razza per l'enciclopedia Treccani. Poi si avvicina ai circoli reazionari tedeschi, tiene delle conferenze all'Herrenklub di Berlino, il club della aristocrazia prussiana fra cui dice di «essersi trovato perfettamente a mio agio». Frequenta l'Ahnenerbe, l'istituto culturale delle SS, e vi coglie la «nostalgia dell'anima nordica per le chiarezze mediterranee». È un uomo altero, che non viene a patti, ma sa che cosa desiderano i potenti. Per esempio nella voce razza ha interpretato alla perfezione il dissenso di Mussolini dal razzismo biologico «degli stalloni biondi con gli occhi celesti» e gli ha confezionato «la razza dello spirito che sta ritrovando l'antica armonia fra corpo e spirito». Si dà però il caso che questi uomini solari capaci di tale miracoloso connubio siano sempre gli ariani e mai quelli di altre stirpi e si dà il caso che quale maestro dei neofascisti egli indichi sempre la razza ariana come l'unica capace di contrastare la decadenza del mondo borghese. La razza uranico-virile, la ariana, deve dominare quella tellurico-lunare. I razzisti nazisti riuniti attorno a Rosenberg hanno scarsa stima di lui, gli danno in belle maniere del matto: «La fede di Evola in un mondo supersensibile è cosa da schizofrenici, solo lo schizofrenico vede doppio». Si tenga presente comunque che in quel tempo fra le due guerre mondiali l'antisemitismo è largamente diffuso e l'opinione che le razze siano dominanti nella storia degli uomini è quasi generale. Nell'antisemitismo di E vola come di alcuni nazisti c'è un misto di odio-invidia per il popolo eletto e per la sua storia. In alcuni testi della Konservative Revo-lution, soprattutto in quelli del gruppo dei Völkische, si enunciano assurde ma indicative fantasie su questo stato d'animo: il paradiso perduto la cui ubicazione è lasciata nel vago dalla Bibbia sarebbe stato a Meklenburg e Cristo, secondo il razzista Chamberlain, era un ariano. L'odio-invidia per gli ebrei porta il razzismo nazista all'esagerazione del loro potere, all'immaginazione 64
della loro congiura mondiale. Adolf Eichmann, il burocrate delle SS che avvia ai campi di sterminio milioni di ebrei, è stato da giovane in Palestina per studiare il nemico ed è tornato con resoconti ammirati per la fedeltà razziale e la capacità guerriera. Del pari Evola fantastica su un'origine nordica dei palestinesi e sul razzismo ebraico un tempo ammirevole, ora purtroppo decaduto al «mammonismo», il culto dell'oro. Non si può certo rimproverare a Evola di aver vissuto in un'età in cui gli studi sull'uomo e sulla sua evoluzione erano spesso privi di fondamenti scientifici. Resta però lo smarrimento di fronte alle stragi razziali compiute in nome di credenze totalmente smentite da studi come i recenti del professor Cavalli Sforza che scientificamente ha dimostrato che gli europei hanno per un terzo origini africane e per due terzi asiatiche, e non nordiche, e che le differenze genetiche sono minime mentre forti sono le ambientali e culturali. E tuttavia non serviranno neppure, temiamo, studi di questo alto livello a togliere dalla testa della gente la credenza nella funzione magica del sangue, l'orgoglio del proprio sangue. Il razzismo è eterno, i serbi della pulizia etnica in Bosnia cantano le lodi del «sangue serbo». È difficile orientarsi nel pensiero evoliano, nella sua società «dall'alto verso l'alto» anche perché ci si imbatte in continue contraddizioni. È un nemico acerrimo della democrazia e porta ad esempio ì'imperium romano dimenticando che esso è fondato su un contratto democratico fra l'aristocrazia e la plebe, fra il senato e il tribunato del popolo. Gli piacciono il medioevo cristiano, il Santo Graal, la nobile cavalleria, la mitica Thule, ma ignora gli aspetti mercantili delle crociate e i lucrosi affari che vi fecero i veneziani con i trasporti e con il commercio delle spezie, le turpitudini, gli inganni, le infamie dei cavalieri di Cristo. È approssimativo anche il suo culto di vaghe etimologie come quella fra Thule, Tullan, Aitlan, Atlantide. Come accade per il fascismo, in lui il contro è molto più chiaro del pro. Anzi in lui il contro è tutto. È contro il socialismo, anche quello di Salò che «con l'aggiunta dell'epiteto nazionale ha fatto un trucco, un cavallo di Troia per farlo passare». La chiesa un tempo era rispettabile «perché gerarchica, monarchica, protettrice delle arti con una corte sfarzosa e raffinata che aveva innestato nella sua cultura dogmatica la filosofia antica e la tradizione. Capace di produrre santi tradizionalisti come san Francesco, san Bernardo, san Bona ventura». Ma ora a che si è ridotta? «Alla Chiesa del dio persona, un dio adatto alla morale piccoloborghese, un dio che premia con il paradiso e castiga con l'inferno.» Inutile dire che Evola è contro la borghesia che rappresenta un passo indietro «rispetto la società aristocratica di casta. La borghesia ha ripudiato la nobiltà esaltando l'egualitarismo del censo per trovare una ragione d'essere in una vita del tutto priva di senso». Non gli piace completamente neppure il fascismo. Certo è sempre meglio dell'ignobile democrazia ma «se l'antifascismo è un nulla, il fascismo è troppo poco. Noi avremmo voluto un fascismo più radicale, più intrepido, un fascismo veramente assoluto, fatto di forza pura». E ancora: «Per nostra fortuna la rivoluzione fascista fu uno scherzo. Dovemmo assistere allo spettacolo desolante di una Accademia i cui membri erano agnostici o antifascisti. Così non ci ha stupito ritrovarli con casacca cambiata nell'Italia democratica e antifascista». Se il tradizionalismo di stampo razzista non avesse obnubilato i popoli e non li avesse precipitati nel terrore e nell'orrore si potrebbe dire a lume di buon senso con il filosofo Cacciari: «Non si tratta di inventare teorie ricompositive, organicismi sacri, valori decaduti, mitici medioevi, grandi ragioni evaporate. Si tratta di studiare il conflitto sociale nel suo tempo: le catastrofi non sono apocalissi e vanno studiate caso per caso, con un linguaggio ragionevole e responsabile». La solidarietà fra intellettuali ha convinto alcuni studiosi a sostenere che in fondo Evola non era stato un vero nazista e che la sua complicità con il neofascismo violento è stata in parte casuale; che si è trovato implicato in un terrorismo da cui dopo la strage di piazza Fontana ha preso le distanze. Non è esattamente così. Evola nonostante le sue acrobazie 65
intellettuali fu un vero razzista e nelle riviste del neofascismo indicò chiaramente la violenza come un passo obbligato. Dalla parte del fascismo sempre, anche durante l'occupazione nazista di Roma, quando assieme a Balbino Giuliano e all'onorevole Costamagna fondò un Movimento per la rinascita d'Italia, un'anticipazione del MSI. La sua fortuna culturale e politica, se così si può chiamare l'influenza che ebbe nell'area neofascista, è derivata dall'aspetto utopistico della sua predicazione, dal fatto che professava un fascismo assoluto, puro, perenne che faceva comodo sia agli estremisti e ai fanatici sia al neofascismo che navigava fra gli affari del sottogoverno. Rappresentava per entrambi quello che gli esercizi spirituali rappresentano per i cattolici, una parentesi di edificazione e di purificazione fideistiche, che autorizzava gli uni a bastonare e a uccidere e gli altri a venire a utili compromessi. Ecco perché fino ai giorni della sua morte il neofascismo paragovernativo ha letto con rispetto e ammirazione i suoi libri, e i giovani di Ordine Nuovo e di altri gruppi estremi sono saliti nella sua vecchia casa al centro di Roma ad ascoltarlo mentre seguiva le improvvisazioni e le oscurità del suo pensiero vagante fra l'oggi e il remotissimo passato. Vanno da Evola, leggono i suoi libri in gran parte incomprensibili perché li aiuta a pensare che non sono dei gruppetti invisi alla maggioranza degli italiani, disprezzati dai loro protettori governativi che ora li usano e ora li mandano in galera, ma una minoranza eroica per cui l'eversione diventa uno «stato di grazia», un segno di elezione. Clemente Graziani, uno dei fondatori di Ordine Nuovo, definisce Gli uomini e le rovine, una delle sue ultime opere, «il vangelo politico della gioventù nazionalrivoluzionaria. Il programma di Ordine Nuovo non è che il tentativo di realizzare la dottrina evolaiana». E vola fu anche un buon alpinista e lasciò come volontà testamentaria che le sue ceneri fossero sparse su un ghiacciaio del Monte Rosa. Anche la sua concezione dell'alpinismo fu tradizionalista, lo pensava come ascesi e trascendenza. Ma cose del genere le ho sentite dire anche da Walter Bonatti e da Massimo Mila.
L'Ordine Nuovo L'Ordine Nuovo che ha per simbolo l'ascia bipenne fa parte della costellazione estremista del neofascismo. La sua culla è la rivista «Imperium» su cui Evola pubblica i suoi saggi tradizionalisti. La data di nascita è il 1956, il nome assegnato all'anagrafe politica è Centro studi Ordine Nuovo. Nello statuto si legge: «ON è l'organizzazione politica italiana a carattere tradizionalista a base della quale sono la fedeltà, la lealtà, la disciplina. Il suo simbolo è la primordiale ascia bipenne le cui lame stanno appunto a simboleggiare l'azione realizzatrice interiore e quella esteriore e la loro inscindibile connessione». Il fondatore Pino Rauti ha preso da Evola un linguaggio ieratico e arcaico: «II motto di ON è il medesimo di quello delle SS: "II nostro onore si chiama fedeltà"». Fanno corona a ON Avanguardia nazionale, i FAR, le SAM o Squadre armate Mussolini, il Fronte nazionale del principe Borghese, il MAR di Carlo Fumagalli, AR di Franco Freda, la Rosa dei Venti di Amos Spiazzi. Tutti legati al nazismo più che al fascismo. «Per noi» dice Rauti «il nazionalsocialismo è una religione e la rivoluzione nazionalsocialista è l'unico scopo della vita.» Per l'estremismo nero vale la sentenza di Evola: «II fascismo è troppo poco». E superata è anche la concezione imperialistica dannunziana e mussoliniana della «grande proletaria» che spezza le catene della prigione mediterranea, conquista l'accesso agli oceani, alle materie prime e ai nuovi territori dello «spazio vitale». L'estremismo nero pensa più in grande all'ordine mondiale razzista fondato sul dominio della razza ariana. La nazione è troppo stretta per i mistici di ON, essi hanno imparato dal nazismo una 66
sovversione ben più radicale che quella fascista, hanno visto nel nazismo la politica razzista sottrarsi all'intero ordinamento giuridico per arrivare al dominio assoluto sancito nel 1933 dal decreto «per la protezione del popolo e dello stato». C'è un solo potere superiore al partito razzista, la Provvidenza di cui parla Hitler, il dio della razza ariana del Gott mit uns, il Dio è con noi della Wehrmacht. Una religione razzista che come tale veniva vista dai suoi avversari, dai ribelli della Rosa Bianca, la resistenza cristiana: «Chi non è ancora convinto della esistenza reale delle forze demoniache non ha ancora capito lo sfondo metafisico di questa guerra. Dietro al concreto, dietro a ciò che si può percepire sensoriamente, dietro a ogni riflessione oggettiva, logica vi è la lotta all'irrazionale, contro il demonio, contro il messaggero dell'Anticristo Adolf Hitler le grand exécutant du malin dans l'histoire». La nazione è troppo stretta per l'estremismo nero. «La nostra patria» dice ON «è dove si svolge la battaglia per la nuova Europa.» Al concetto liberale dell'individuo, a quello marxista della classe i nazisti hanno sostituito il Volk, il popolo, che nella catena ininterrotta del sangue trova il suo diritto al dominio mondiale, alla rigenerazione razzista del mondo. La guerra dei nazisti è prima di tutto una selezione razziale in Norvegia, in Danimarca, in Francia, in Italia, l'occupazione è anche recupero degli ariani. Per i nazisti che stanno attorno a Hitler il compito di creare una razza superiore annientando le inferiori è molto più importante che vincere una guerra con i vecchi obiettivi territoriali delle guerre europee. Al pari dei nazisti, quelli di ON sono ossessionati dal complotto mondiale diretto dalla finanza ebraica, complotto che riassumono nella parola «sistema» con conseguenti farneticazioni sull'onnipotenza sinistra di questo nemico imprendibile che serve a dare un nome, un volto alla paura e all'odio. Pino Rauti è uno dei rari fascisti estremi che si renda conto dell'importanza della cultura, una delle sue accuse al MSI è di «non aver costruito una cittadella della cultura capace di resistere ai mutamenti e alle sconfitte». Quella che cerca di mettere assieme con la guida del grande maestro Evola è una ricucitura di temi tradizionalisti ad altri nazisti con gli aggiornamenti del caso. ON vuole una nuova Europa «capace di porsi come terza forza fra l'URSS marxista e gli Stati Uniti capitalisti»; dichiara una guerra senza quartiere alla democrazia perché «lo stato totale e qualitativo non può tollerare movimenti politici ostili». ON è per una rivoluzione di destra duramente antimarxista, per una lotta forte all'immigrazione di colore, per una rivoluzione culturale contro l'edonismo e il consumismo. La cultura reazionaria europea è a disposizione dei teorici di ON, copiano, per dire, da Montherlant la «religione delle forme». L'uomo «come signore delle forme deve onorare quella forma essenziale che è il principio di fedeltà a cui è legato l'onore. L'uomo deve rispettare anche una promessa fatta a un cane». Non può mancare il culto della «bella sconfitta» che crea i presupposti per la vittoria futura. Ma alla resa dei conti la vera ragion d'essere di ON è la medesima dei gruppi estremi della sinistra: una pulsione esistenzialista, la voglia di mimare la guerra ideologica, la rivoluzione, di sfuggire in qualche modo al posto, al ruolo che altri hanno già scelto per te. «Dietro la fiera ascia bipenne» dice ON «si sono canalizzati gli uomini che non hanno paura, la cui forza violenta calerà sui corrotti, sul belante gregge schifoso.» Con ironia, a posteriori Giulio Salierno dirà nella sua Autobiografia di un picchiatore fascista: «Si trattava di realizzare una vera e propria ascesi politico-morale usando come mezzo di elevazione qualche chilo di tritolo e la rivoltella». Il problema della violenza, si sa, rimane tuttora molto oscuro, la violenza non l'hanno inventata né il fascismo né il nazismo, essa ha avuto ben altri cantori che Rauti, da Frantz Fanon a Sartre per arrivare al cattivo ma dotto maestro Toni Negri. Spesso dipende dal caso, dalla presenza di un Lenin se questa eterna violenza diventa rivoluzione oppure se resta recita della medesima. Nel caso di ON siamo a un terrorismo che lo stato ripudia ma a cui concede protezioni neanche tanto nascoste. In ciò ON e gli altri estremismi neri si 67
differenziano dal terrorismo delle Brigate rosse a cui lo stato muove guerra totale. La conferma che tali estremismi mimano la rivoluzione ci è data dal fatto che, nonostante l'odio che li separa, raramente vengono allo scontro diretto, mai si arriva a prodromi di guerra civile, si tratta piuttosto di pantomime parallele. È il sistema, il perfido sistema che i brigatisti chiamano delle multinazionali a ipnotizzarli. Va a finire che come sempre nella storia d'Italia il rosso e il nero si sovrappongono. La direzione del MSI guidata da Almirante e Caradonna sta attaccando le facoltà universitario occupate dagli studenti rossi mentre formazioni neofasciste combattono contro la polizia a Valle Giulia. E qua e là spuntano tentazioni nazimaoiste o socialfasciste come nell'appello dei fascisti di «Costruiamo l'azione» agli autonomi: «Sveglia ragazzi, non fatevi inculare un'altra volta, basta di fare le scimmie ammaestrate dell'antifascismo per elemosinare il plauso e le simpatie dei merdaioli. I nemici sono comuni e stanno tutti ammucchiati assieme. Diamo addosso senza quartiere all'immondo merdaio». Nell'estremismo esistenzialista si muovono anche i ribelli all'universo mondo, quelli che «passano al bosco» senza obbedire a nessuna ideologia, a nessuna legge, quelli che dichiarano guerra alla società da soli o con il loro gruppo, quelli che dicono: «Io non guardo e non parlo, io pesto». Certe cronache della violenza nera ma anche della Prima linea rossa sembrano anticipare l'assurda avventura della banda del Pilastro, i poliziotti bolognesi che uccidono per il gusto di uccidere. È lo stesso gusto del camerata Concutelli, l'assassino del giudice Occorsio, il quale si prepara a uccidere il capo dell'ispettorato antiterrorismo, il questore Santillo, e pensa anche alla macchina da presa con cui filmerà l'atto eroico. La violenza per la violenza, il coraggio per il coraggio. La stampa fascista elogia il figlio di un caduto di Salò che a chi gli chiede cosa farà da grande ha risposto: «Farò come papà, sarò coraggioso».
Il terrorismo nero Il programma terroristico di ON consiste in un'aggressione continua, a pioggia, che deve intimidire i comunisti, portarne alla luce l'organizzazione militare e scardinare il sistema. Secondo la definizione del sociologo Touraine: «Sono terroristi coloro che si considerano l'avanguardia di una rivoluzione ma che non sono in grado di mobilitare coloro nel cui nome parlano, dato che costoro a grande maggioranza non condividono la loro ideologia». Attentati a sedi comuniste, delle cooperative; attentati a militanti della sinistra e alzando l'obiettivo stragi nelle piazze e sui treni in cui gli engagés si trasformano in engagés. «Andavo spesso in piazza del Popolo» racconta Giulio Salierno «avrei voluto far saltare l'obelisco al centro della piazza. Questi bastardi seduti al caffè piangerebbero anni sullo stupro compiuto. Li odiavo. Sfaccendati privi di spina dorsale. Noi siamo per lo scontro uomo contro uomo. Prima di partire i nostri vengono preparati moralmente perché imparino a spaccare le ossa anche se uno si inginocchia e piange.» Nella generalità dei casi questo odio tende a «spostare il fardello», a caricare su altri le proprie insicurezze aggredendo gli isolati, i disarmati in modi simili ai brigatisti rossi. Accanto ai libri di Evola, il terrorista neofascista tiene i testi della Konservative Revolution, soprattutto quello di von Salomon sui Freikorps, i volontari che rifiutarono la pace di Versailles e continuarono dopo l'armistizio della prima guerra mondiale a difendere i confini orientali del Reich. «C'era in quel libro» scrive Carlo Mazzantini «tutto ciò che avevamo vissuto e che non eravamo stati capaci di esprimere. Leggendolo lo assorbivo con voluttà, mi ci perdevo dentro, mi inebriavo di quella torbida atmosfera di sangue e di violenza». I Proscritti di von Salomon e La rivolta contro il mondo moderno di Evola sono i due libri che il filosofo Paolo 68
Signorelli, maestro di terroristi neri, «porta nel suo tascapane». Le giustificazioni della violenza si ripetono: è «la penalità biologica della debolezza», è «la dura necessaria disciplina», è «l'orgoglio del martirio»; «avevamo imboccato tutti una strada senza uscita in fondo alla quale c'era solo il carcere o la ruga in qualche paese straniero». Per i terroristi le armi diventano oggetto di culto, la vita militare è l'unica degna di essere vissuta. Dopo anni di galera e di esilio Franco Freda, uno degli inquisiti per la strage di piazza Fontana, organizza dei campi militari «con la pratica delle armi ed esercizi ginnici; la sera dopo il pasto tutti attorno ai fuochi tra canti e bevute». Al termine di un campo sulle colline del Garda i guerrieri si ritrovano all'Holiday Inn di Bardolino «davanti al quale si accende la grande pira mentre le squadre armate innalzano i labari e le croci uncinate». Sono accorsi nelle formazioni militari i reduci di Salò, i duri delle formazioni antipartigiane, i RAP, delle SS italiane, delle Brigate nere assieme ai giovani in cerca di sensazioni forti che hanno in sommo disprezzo il neofascismo ministeriale. L'iniziazione avviene negli anni dell'adolescenza, molti adepti tagliano ogni legame con la società. «Mi sono trovato» dice Giusva Fioravanti «a fare la lotta armata per le mie caratteristiche personali, sicché posso dire che era l'unica cosa che io potevo fare e che la mia mente potesse arrivare a concepire. Della sconfitta non mi sono mai preoccupato perché siamo una generazione di sconfitti.» Alle origini delle stragi che al cittadino comune risultano incomprensibili prima che orribili, ci sono due sentimenti: la coesione con il gruppo terroristico e la totale estraneità al resto del mondo. La strage è pensata come un atto liberatorio verso una realtà ostile, come se lo stragismo fosse il solo modo che i terroristi conoscono di fare politica. Per essi equivale a un bombardamento aereo che colpisce alla cieca e terrorizza un nemico di cui non si conoscono i volti, le idee. Mi ero chiesto spesso il perché del silenzio che seguiva le stragi, perché non ci fosse una rivendicazione da parte dei loro autori. Ho trovato la risposta in un testo di Mario Tuti, l'attentatore dei treni: «Tacendo ottenevamo lo scopo di dimostrare che lo stato non era capace di individuarci, non era in grado di prevenire lo stragismo». Terroristi rossi e terroristi neri vivono anche di mitomania, negli anni Ottanta il neofascismo violento immagina «che già oggi in Italia esista un potenziale di un milione di uomini e di donne, animati dalla volontà della lotta rivoluzionaria». Come i brigatisti rossi scambia l'area del dissenso per un'area rivoluzionaria. Ma le mancate rivendicazioni del terrorismo nero hanno un'altra ragione: nascondono la complicità con lo stato, con i suoi servizi segreti più o meno deviati. Su tutte le stragi scendono il silenzio e il depistaggio, da piazza Fontana a Peteano cala una cappa protettiva. Per i mandanti delle stragi che mirano al terrore, l'intercambiabilità delle vittime funziona comunque, ora si può colpire la piazza democratica di Brescia e ora i carabinieri di Peteano, nemici politici e innocenti purché il terrore si diffonda. Le organizzazioni terroristiche non vanno per il sottile nell'accettare aiuti in armi e in denaro, convinte che ciò che conta è continuare nella lotta al sistema: ci sono scambi di armi e di informazioni fra terroristi marxisti come quelli della RAF tedesca e cattolici come gli irlandesi dell'IRA, gli integralisti musulmani possono aiutare il neofascismo come le BR e i baschi comunisteggianti trovare appoggi nell'estrema destra francese. «Un botto» dice uno stragista «serve sempre ad aggregare le forze rivoluzionarie.» L'estrema destra neofascista è estrema anche nella professione di razzismo, si direbbe che cerchi l'iperbole del razzismo, pubblica epitaffi di Adolf Eichmann, il capostazione del genocidio: «L'ebraismo internazionale, con il tacito consenso delle democrazie occidentali e del marxismo dei barbari delle steppe asiatiche, ha fatto ancora una vittima: Adolf Eichmann, superstite nobilissimo di una generazione di eroi che a Norimberga consacrò la vita nella fedeltà ai principi superiori che avrebbero portato alla costruzione del nuovo ordine europeo. Onore al camerata Eichmann». Le distinzioni fra razzismo biologico e ideologico 69
sono ignote all'estrema nera: non si nascondono, non si ingentiliscono, rivogliono il genocidio perché «la razza forte schiaccerà le deboli e abbatterà le assurde barriere della cosiddetta umanità degli individui per far trionfare l'umanità della natura». Il neonazismo italiano arriva a manifestazioni dementì con l'apparizione dei naziskin, invisi anche al neofascismo di partito che li considera dei cretini pericolosi. Ecco il razzismo nella versione di un loro leader, Maurizio Boccacci: «Sono razzista se per razzista si intende che ogni popolo dovrebbe stare nel suo territorio, i negri con i negri, gli ebrei con gli ebrei e così tutti gli immigrati. Non farei mai giocare i miei figli con dei bambini negri ed ebrei. Io difendo la integrità della razza, della civiltà e dei popoli». C'è nei razzisti un'incapacità di guardarsi allo specchio e vedersi: Himmler, Göring, lo stesso Hitler erano dei miseri campioni della razza eletta e nelle file del razzismo italiano militano esemplari come Delle Chiaie detto «il Caccola» per la sua statura da nanetto. Non siamo i soli in Europa a produrre la nuova violenza del cranio pelato, gli inglesi hanno collezionato in un anno settemila episodi di violenza razziale mentre noi ci siamo fermati a duemila. Croci celti-che, bandiere naziste, saluti romani, scritte e cori antisemiti evocanti le camere a gas, organizzazioni che a imitazione di quelle musicali o sportive mescolano i buoni affari alle passioni politiche. Si va allo stadio con i viaggi pagati e i biglietti gratuiti delle società di calcio, per pestare quelli della banda avversaria, a volte per uccidere, «per far sapere che esistiamo» come dice Boccacci. Ogni squadra calcistica o di pallacanestro che si rispetti ha il suo gruppo di ultrà. Gli ottimisti possono dire come Konrad Lorenz che il tifo sportivo può «ridirezionare l'aggressività creandone una sostitutiva con il compito incomparabilmente importante di educare l'uomo al controllo cosciente e responsabile della sua aggressività». La pratica dei nostri stadi non sembra corrispondere a questo progetto educativo. Gli ultrà della destra estrema vanno allo stadio armati di bastoni, di biglie d'acciaio, di pistole, una volta all'Olimpico di Roma persino di una pistola lanciarazzi. Dicono i sociologi che questa società consumistica, salutistica «ha operato una rottura con la storia, donde la perdita di fiducia nella continuità della cultura e nella conoscenza». Fatto sta che si vive nel presente, alla giornata, dando sfogo agli istinti si occupa una curva allo stadio come un territorio da difendere. La partita di calcio si sdoppia, una parte del pubblico guarda i calciatori, una parte si azzuffa voltando le spalle al terreno di gioco, la televisione spazia fra l'una e l'altra, ora mostra un'azione calcistica ora il divampare di una rissa con masse umane che franano dalle gradinate travolgendo poliziotti e spettatori innocui. Nel luglio dell'89 gli ultrà dell'Udinese salutarono l'acquisto del calciatore israeliano Ronny Rosenthal con scritte come: «Rosenthal vai al forno»; e nel 1995 un giocatore marchigiano ebreo di pallacanestro ha dovuto mettersi dei tappi negli orecchi per non sentire gli insulti antisemiti. Il terrorismo nero, il militarismo neofascista non amano gli skinhead. Per Freda sono «rozzi, folkloristici, plebei. Devono studiare. Dirozzarsi. Loro non riflettono, non meditano. E invece servono soldati disciplinati: inizia l'epoca delle guerre razziali. Al colore della ideologia si sostituirà quello della pelle».
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VI LA NUOVA DESTRA
II popolo sovrano La nuova destra ha una grande passione: il popolo sovrano. Da quando ha scoperto il 27 marzo 1994 che con il sistema elettorale maggioritario basta il 45 per cento dei voti per aggiudicarsi il potere, tutto il potere (povero Enrico Berlinguer che non si fidava neanche del 51) non conosce altro Dio che il suffragio universale, il ricorso al «popolo sovrano» il quale, sin dalle più remote età, com'è risaputo, può essere il fondamento insostituibile della democrazia quanto la sua mistificazione, la fonte di tutte le libertà quanto «la presa in giro di una scheda dentro la scatola-urna ogni cinque anni e poi per i cinque seguenti la voce dei padroni dalla scatola-televisione». O per dirla con uno dei padri della democrazia europea, Jean-Jacques Rousseau, il popolo «pensa di essere libero, ma si inganna gravemente; non lo è che durante le elezioni dei membri del parlamento: appena questi sono eletti, esso è schiavo». Esaltare la democrazia del voto mantenendo la tirannia amministrativa equivale a trattare i cittadini come asini con il bastone e la carota. Liberi per un giorno e poi sotto tutela dei loro eletti, essi tendono a disinteressarsi della cosa pubblica, a non pensare, a non scegliere. E infatti alla destra piace dare il falso potere di decidere sui massimi sistemi con scelte referendarie o plebiscitarie, ma impedire di intervenire nell'amministrazione. Esempio: far approvare riforme generali del sistema fiscale lasciandolo però affidato ai burocrati e alle polizie legate ai potenti. Il popolo sovrano va felice al gran giorno delle elezioni e dà mandato agli eletti di realizzare i suoi desideri: meno tasse, meno servizio militare, maggiori diritti, maggiori libertà, maggiori stipendi. Poi gli eletti che non possono essere competenti in tutte le materie si servono di esperti, cioè di persone non elette dal popolo sovrano ma di solito vicine agli interessi e ai privilegi costituiti che di rado coincidono con i desideri del popolo. Chiamasi questo tipo di democrazia «dispotismo elettorale». In esso il voto popolare legittima per cinque anni le oligarchie che governano a loro criterio e comodo. Solzenicyn sarà un reazionario che vorrebbe tornare alla Russia degli zar ma non ha del tutto torto quando così riassume la sua esperienza politica: «Sono uscito da una società, la sovietica, in cui non si poteva dire nulla per andare in quella americana in cui si può dire tutto ma senza essere ascoltati». I nicodemiti o seguaci di Nicodemo dissentivano profondamente dai dogmi della chiesa, ma ne osservavano fedelmente le regole, la pseudodemocrazia è l'esatto contrario, reverente verso i dogmi ma irrispettosa delle regole. Un consenso del 45 per cento dà a Silvio Berlusconi un'investitura sacra, da «unto del signore», lo autorizza a violare quasi tutte le regole, a trasformare la democrazia in autoritarismo morbido, essendo ormai intollerabile nel consesso europeo un autoritarismo duro anche perché poco affine al mondo dei commerci e dei consumi. Silvio Berlusconi non ha un preciso disegno autoritario, lavorandoci assieme per anni mi pare di aver capito che è uno che vive intensamente nel presente, senza il tempo per pensare al passato e neppure agli effetti che le sue scelte avranno nel futuro, convinto comunque che le sue decisioni siano le migliori possibili nel presente come negli anni a venire. Con uomini così risulta 71
perfettamente mutile l'uso della critica, del dubbio e di un salutare scetticismo: lui è nato ottimista non perché creda alla bontà del mondo, ma perché confida nelle sue capacità demiurgiche, perché è convinto che a un suo comando le onde procellose si calmeranno. Il rischio del suo ingresso nella politica sta in queste sue doti personali, caratteriali, nel suo eclettismo provvidenziale che il saggista Magister così descrive: «In Berlusconi c'è tutto. C'è la ostentazione della ricchezza e c'è il nascosto slancio caritativo in soccorso dei poveri lazzari. C'è la spericolata frequentazione di pubblicani e di peccatori e c'è il confidarsi con l'anziano salesiano che gli fa da padre spirituale, c'è la tradizione della famiglia cattolicissima con sette suore e preti fra i parenti stretti e c'è l'azzardo del venditore di immagini che con la tradizione rompono a tutto spiano. C'è la pasta ambrosiana dell'imprenditore tutto casa, fabbrica e un pochino chiesa, antistatale quanto basta e c'è la farina salesiana della operosità benefattrice, con la sua morale molto alla buona. Cattolici sono anche i suoi due più stretti collaboratori Fedele Confalonieri e Marcello Dell'Utri. E cattolici i suoi autori preferiti, i rinascimentali san Tommaso Moro ed Erasmo da Rotterdam. Insomma non ha tutti i torti Rossetti a equiparare Berlusconi a un principe mediceo. Specchio provocatorio del cattolicesimo selvatico cresciuto fuori della vigna dei cattolici timorati, scudocrociati, domestici». Il popolo di Forza Italia che ha fatto di Berlusconi il capo della crociata anticomunista e antistatalista è la borghesia italiana d'ordine, il suo di ordine ovviamente, ma accoglie anche rottami del radicalismo come Marco Pannella, protagonista un tempo di grandi lotte libertarie, poi navigatore inafferrabile in acque indefinibili come le siciliane in cui fece il predicatore di garantismo, quanto a dire ciò che la mafia da sempre ha usato per paralizzare la giustizia e ottenerne amnesie e omissioni. Pannella semina referendum come fossero chicchi di grano a raffiche di dodici, diciotto. Con il criterio dell'one man one vote si affidano alla gente decisioni complesse come quelle sul nucleare, sulle televisioni, sul finanziamento dei sindacati, problemi di cui il cittadino comune ha scarsissime e spesso errate idee. Ci ha colto un brivido referendario il giorno in cui abbiamo letto la storia dei mille cittadini romani arrivati fino ad Aosta prima di accorgersi che l'offerta di una finta agenzia di viaggi per sette giorni a Parigi, albergo e trasporti compresi, per duecentotrentamila lire non era una cosa seria. Anche quei mille interpellati sulle massime questioni? La democrazia, si sa, non conosce le speditezze e le semplificazioni delle dittature. Il suo procedere è lento, macchinoso, frenato dalle interpellanze, dai sabotaggi e dai trucchi parlamentari. Berlusconi era appena arrivato al governo e già si lamentava che non lo lasciavano lavorare, che gli remavano contro. Diceva e dice che il rapporto tra governo e Parlamento è una perdita di tempo, che la politica è un «teatrino», per imbroglioni ed esibizionisti non per persone serie. Gli elettori di destra la pensano come lui e, come tutti coloro che scambiano un mix di paure, di pregiudizi, di attese miracolistiche per un disegno politico, sono convinti di essere i migliori democratici possibili, non sospettano neppure di essere per una democrazia autoritaria che non è fascismo ma che potrebbe aprirgli la strada. «Se un potere dispotico si insediasse nei paesi democratici avrebbe certo caratteristiche diverse che nel passato» scriveva profetico Alexis de Tocqueville «sarebbe più esteso ma più sopportabile e degraderebbe gli uomini senza tormentarli. Quando provo a immaginare in quale sembiante il dispotismo apparirà nel mondo vedo una folla immensa di uomini tutti simili ed eguali che girano senza posa su se stessi per procurarsi piaceri minuti e volgari di cui nutrono la loro anima. Ognuno di essi considerato a sé è come estraneo al destino di tutti gli altri. I figli e gli amici più vicini esauriscono per lui l'intera razza umana e quanto al resto dei suoi concittadini egli è loro accanto, ma non li vede, li tocca ma non li sente. Il potere dispotico potrà sembrare paterno ma al contrario cercherà di fissarli irrevocabilmente 72
all'infanzia, preferendo che godano purché non pensino. Non tiranneggerà ma comprimerà, snerverà, inebetirà.» Sulla moltiplicazione dei referendum Giuseppe Dossetti, il maestro della sinistra cattolica, ha osservato: «Da una parte la pratica referendaria, plebiscitaria esalta la sovranità popolare, dall'altra ne delegittima le rappresentanze elettive, insulta il Parlamento, la Corte costituzionale, la stampa, la presidenza della repubblica, la Corte dei conti, il Consiglio superiore della magistratura e va verso una democrazia populista inevitabilmente influenzata dalle grandi campagne mediatiche e appellantesi soprattutto a mozioni istintive, a impulsi emotivi che trasformeranno i referendum in plebisciti e praticamente ridurranno il consenso del popolo sovrano a un mero applauso al sovrano del popolo». I referendum dell'11 giugno '95 erano per di più una trappola, poiché chiedevano ai cittadini di proibire a un uomo politico di avere tre reti televisive ma al tempo stesso gli impedivano di vendere a un prezzo equo; di porre fine a un oligopolio ma al tempo stesso mettevano in crisi una grande azienda con conseguente disoccupazione; di fare una scelta politica ma al tempo stesso di sacrificare il consumo televisivo. Una democrazia che antepone rigorosamente la libertà agli interessi costituiti non è mai esistita e probabilmente non esisterà mai. Le costituzioni demo-cratiche contengono utopie manifeste come quella degli Stati Uniti per cui «gli uomini hanno il diritto inalienabile alla vita e alla libertà» il che è comprensibile, ma anche «alla ricerca della felicità» che francamente sembra un po' troppo. Però si dice che queste utopie, questi sogni servono a dar animo e spinta. Molte delle utopie e dei sogni dell'autoritarismo morbido, invece, altro non sono che inganni, false promesse demagogiche. Dicono che si stia formando un popolo di destra simile a quello che diede al nazismo e al fascismo grandi consensi. Di certo non vi è più un rapporto diretto fra classe e voto, si è votato a destra anche nei quartieri operai di Torino e di Milano e, quel che è peggio, a volte il voto è stato ondeggiante come di gente che non sa più cosa scegliere. Il crollo del comunismo ha tolto ai ceti più umili la speranza messianica in una società di eguali dove a ciascuno viene dato secondo il suo bisogno. Speranza più autorità, l'utopia più le divisioni corazzate dell'Unione Sovietica, equivalente all'accoppiata cattolica fra la vita ultraterrena e l'Inquisizione. Ma quando questa combinazione di promessa e autorità viene a mancare le chiese cadono e i fedeli se ne vanno, mostrando la loro debolezza, a volte la loro miseria. Da noi a mostrarla per primi sono stati i cosiddetti «intellettuali organici», cioè gli intellettuali che per obbedienza a un partito rinunciano a essere tali, a ragionare con la loro testa, passati in breve da conformismi ferrei a scetticismo e a defezioni. La gente è anche uscita dall'età di ferro delle grandi e sanguinose rivoluzioni e delle grandi e sanguinose guerre: c'è in giro stanchezza per gli impegni titanici sproporzionati alle nostre forze, noia per le ideologie ingannevoli, delusione per le passioni politiche mal ripagate e una crescente convinzione che in fondo i tentativi di cambiare questo mondo sono inutili e spesso volgono al peggio, che bisogna badare al sodo e al «particulare». È il «tutti a casa» della sinistra, la resa. Il nuovo grido è: A destra! A destra! Siamo tornati al «calpestami ma lasciami vivere», vincimi ma dammi un posto. L'intera redazione di un settimanale comunista di Torino passa a Forza Italia, Giuliano Ferrara che era segretario cittadino del Partito comunista a Torino è diventato il consigliori di Berlusconi, come il filosofo Colletti, intere redazioni progressiste della RAI si sono scoperte moderate. I secessionisti della Lega, comperati da Forza Italia, hanno innalzato al loro congresso con umorismo involontario uno striscione su cui hanno scritto: «I federalisti leali del Polo», quanto a dire i federalisti leali con i nemici del federalismo. Al momento giusto socialisti e federalisti italiani si trovano sempre sulla sponda opposta, uno degli ultimi congressi socialisti fu definito dal ministro Formica «dei nani e delle ballerine», e quelli della nuova destra potrebbero esser chiamati «degli opportunisti e delle 73
maschere». C'è un ritorno alla tradizione controriformista che contrapponeva le immagini e i sacri spettacoli alle nuove e pericolose idee. Inevitabile il ritorno delle maschere cui la Controriforma affidò il compito di consolare con qualche lazzo il popolo rassegnato e impaurito. Maschere comiche-tragiche che paiono trascinate dall'improvvisazione scherzosa ma con il terrore del padrone, maestre nel dissentire sulle piccole cose ma osservanti su quelle grandi, neanche ipocrite essendo la recita scoperta e risaputa, abituate a mentire come cosa normale, parte ormai integrante della nostra cultura, presenti da Goldoni ai Cento anni di Rovani, alle pièce del Demetrio Pianelli di De Marchi. La prudenza e la scaltrezza delle maschere torna regolarmente nella posta dei lettori che mettono sempre le mani avanti, predispongono sempre delle vie di fuga, «la leggo anche se non sempre sono d'accordo con lei». È piena di maschere la televisione, maschere che spudoratamente mentono mentre si appellano all'obiettività. Prima del successo del Polo nel marzo '94 sembrava incauto e quasi provocatorio dichiararsi borghese o insistere a interrogarsi in modo critico sulla borghesia, che era la classe innominabile, oggi ci si dichiara di destra con il gusto di chi è uscito dalla persecuzione, dall'illegalità e finalmente può presentarsi per quello che è. Dalla Democrazia cristiana «solidarista», «popolare» è uscito baldanzoso l'eterno integralismo, la presidente della Camera Irene Pivetti assumendo la sua carica laica dichiara di affidarsi «a Dio che governa i destini dei popoli». Buttiglione il segretario del Partito popolare uscito dal corpaccione della DC indica «l'etica religiosa come il supremo riferimento della democrazia», si scaglia contro i laici che «rifiutano di riconoscere il peccato originale, la consapevolezza che gli uomini sono tutti peccatori e che quindi il sistema politico funziona bilanciando i vizi degli uni con i vizi degli altri». È l'integralismo per tanti anni dissimulato per cui i dorotei potevano impadronirsi dello stato e Andreotti accettare e pagare i voti della mafia. Ma viene fuori con la marea della destra anche il cattolicesimo tradizionalista, il professor Gianfranco Morrà ci ricorda che «la tradizione non è una possibilità di vita, essa è la stessa esistenza in un presente gravido di pericoli perché trae dalle conquiste e dagli orrori del passato uno stimolo per guardare avanti e consegnare ai posteri una qualche eredità. Il cattolico è di destra in quanto tradizionalista». Qualcuno, per trarsi d'impaccio, ha detto «che la miglior democrazia è quella che assomiglia di più alla monarchia e che la miglior monarchia è quella che si avvicina maggiormente alla democrazia». Per l'italiano medio la migliore delle democrazie è quella che più si avvicina alla mescolanza dei «vizi privati» e delle «pubbliche virtù», alla richiesta che tutti fanno agli amministratori di avere le virtù che i privati sistematicamente disattendono. La democrazia piace agli italiani per i suoi comodi, per i suoi benefici, molto meno per i suoi doveri e la sua morale. L'idea che un popolo libero è tanto più civile quanto più sa limitare le sue libertà gli sfugge, preferiscono la democrazia che gli lascia fare quel che vogliono. Suppergiù l'idea che ne aveva il boss mafioso Bellavista quando scriveva dal carcere ai parenti: «Libertà, democrazia, voi avete sempre quelle parole in bocca, ma democrazia non è parlare, è fare quel cazzo che ti pare, andare dove vuoi, oggi a Roma domani a Parigi e avere i soldi per farlo». Il fatto che la democrazia ti consenta di avere libertà di opinione e di associazione, di non essere imprigionato e torturato per abuso dei potenti, di professare la religione che vuoi, di leggere i libri e alzare le bandiere che vuoi è moltissimo rispetto alle servitù dei sistemi autoritari, rispetto al fatto che la maggior parte degli uomini non gode di questi diritti, ma non è ancora la democrazia dei reciproci controlli, non è il regno della legge.
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Il ringhio del mastino La democrazia italiana si porta in corpo un'opposizione sorda e cattiva, c'è una parte del popolo italiano che non la ama, che ne diffida. Spontaneamente ostile alle avanguardie, alla magistratura coraggiosa, alla Resistenza, alle riforme. Non illudiamoci che si tratti di una piccola minoranza, c'è una massa di italiani che ha nel sangue voglie autoritarie e paure riformatrici. Se no non si spiegherebbe come per tutti i cinquant'anni della repubblica ci sia stato un continuo, strisciante attacco, da destra ma anche da sinistra, di restauratori, terroristi, golpisti, servizi segreti, maggioranze silenziose, gladiatori, massonerie più o meno coperte, cassazione reazionaria, stati maggiori militari filofascisti. Si direbbe che una destra pronta a tutto fa parte della fisiologia politica e mentale, anche se la sua area non coincide necessariamente con quella dei partiti di destra e se non è soltanto borghese. Così come è stato un errore divinizzare il proletariato operaio così lo sarebbe demonizzare la borghesia, ma come non vedere la verità del ritratto che di tale classe sodale fa il reazionario Maurras: «Classe conservatrice che lascia tutto dilapidare il pubblico patrimonio, classe non civica, impolitica che alcune volte sembra estranea alla città, classe che permette che la patria soccomba scomparendo con questa piuttosto che patire qualche pena e qualche sacrifìcio»? Come non riconoscere in queste parole la borghesia attuale delle metropoli italiane, di Milano in particolare, che ha abbandonato le città a se stesse, che ci vive come in un ufficio o m una fabbrica e ne fugge il venerdì sera? I problemi delle metropoli sono immensi e spesso irrisolvibili ma i borghesi, cioè coloro che hanno creato la civiltà cittadina, stanno a guardare. Nella vita normale, negli uffici e nelle fabbriche sono spesso persone laboriose, civili, persino tolleranti ma quando fanno politica gli vien fuori dalla strozza il ringhio del mastino e guai ai transfughi, chiunque dei loro rifiuti le mobilitazioni isteriche e si permetta di distinguere, sia il presidente della repubblica Scalfaro sia il procuratore capo di Milano Borrelli, diventa un comunista, un traditore, un rinnegato. Ricordare che la sinistra non è da meno e che per decenni il comunismo è stato una scuola di faziosità e di conformismo è un'equità di giudizio che però non giova alla salute democratica. Quando questa borghesia lascia cadere la maschera del bon ton e si abbandona alla sua belluinità non sai se sia più spaventosa o ridicola. La Giulia Maria Crespi ai tempi in cui era proprietaria del «Corriere della Sera» venne accusata, per qualche timida apertura democratica, di essere l'amante di Mario Capanna, il capo della rivolta studentesca, e la Camilla Cederna di frequentare la sinistra «per soddisfare le sue foie sessuali». Ci furono a dire il vero alcune signore della buona borghesia milanese che per provare qualche emozione nella loro dorata noia cercarono amori con gli autonomi di Lotta continua e persino con i Prima linea, salvo tornare, vista la mala parata, dai vecchi amici architetti o designer. Ma non sono questi peccati snobistici che ti dannano presso la borghesia reazionaria e neppure l'ultrasimstrismo dei massimalisti alla Fausto Bertinotti che anzi vengono coccolati e magari aiutati pur che danneggino la sinistra. I veri, aborriti nemici di tale borghesia sono gli eredi degli azionisti, i borghesi colti che si arrogano il diritto insopportabile di passare per la lotta di classe, per la politica senza perdere la ragione, questi sì che li fanno uscire pazzi, che li uniscono nella denigrazione di un maestro come Norberto Bobbio o dei giudici onesti. Non bisogna demonizzare e neppure generalizzare, è chiaro che nei partiti di destra ci sono fior di persone civili, ma c'è una borghesia ringhiosa, che si sente maggioranza silenziosa, perseguitata, minacciata mentre ha a sua disposizione la violenza pubblica e la maggior parte dei mezzi di informazione, riconoscibile anche dalla volgarità. Forse perché 75
essendo stata fuori per molto tempo dalla militanza politica ignora anche il modesto galateo che i partiti si sono dati. Ne ho colto i primi segni assistendo al teatro di Brecht, ai deliri borghesi che accoglievano il suo estremismo populista stupido, gli uomini d'affari paragonati a gangster, la fondazione di una banca a una rapina. Come se quel pubblico di gente «bene» vi si riconoscesse. Il galateo della partitocrazia si era consumato nella copertura della corruzione e la sinistra avrebbe dovuto aprire le sue finestre e dare un po' d'aria al suo vecchiume, ma in qualche modo le culture marxista, laburista, cattolica conservavano alcuni rispetti, alcune decenze: anziché correggerne i difetti e conservarne i meriti, la nuova destra sembra invece convinta di potere imporre insolenze, beceraggini, volgarità da mascalzoni e da teppisti come se l'esibizione dell'ignoranza e delle cattive maniere fosse un'affermazione di forza e d'identità. È il prezzo di tutte le rivoluzioni, solo che questa rivoluzione non è, ma fìnta restaurazione di una destra liberista che da noi non è mai esistita. Il liberismo, dicono, sarebbe il figlio economico di Isaac Newton, della sua armonia perfetta delle sfere celesti alla cui somiglianza il libero mercato senza lacci e lacciuoli comporrebbe, con la legge della domanda e dell'offerta, tutte le contraddizioni e trarrebbe dai conflitti benefici per tutti. Il guaio è che questo libero mercato in Italia non c'è mai stato, ad alto come a basso livello i nostri operatori economici hanno fatto i loro buoni affari o con i sussidi a fondo perduto dello stato o con l'evasione fiscale. E, a parte il fatto che in ogni economia moderna deve esserci un supporto e un progetto pubblico e che persino il corporativismo fascista ne era un riconoscimento, restano le biografie universalmente note dei campioni di tale liberismo che spesso hanno iniziato la loro attività con capitali di ignota provenienza e poi si sono fatti strada non solo per le loro capacità nel produrre ma anche per quelle nel corrompere. Quando questa nuova destra parla di liberismo è come uno che volesse risolvere il problema del traffico nelle città moderne con le regole delle carrozze a cavallo. Antistatalisti a parole mentre non perdono occasione di rifilare allo stato qualche loro azienda dissestata, federalismo verbale, minaccioso in un paese che deve ancora risolvere la sua tragica disunità, promesse di meno tasse in uno stato oppresso dalla montagna del debito pubblico. Negli ultimi cinquant'anni mi sono chiesto perché mai la borghesia italiana che pure aveva dato il suo appoggio o la sua benevola neutralità alla Resistenza ne sia diventata una fiera nemica. Ora ho capito che c'è un'Italia che può accettare le discipline autoritarie ma non le incertezze dello stato nascente, non le energie spontanee, volontaristiche, non la democrazia viva. A somiglianza dei grandi autoritarismi della sinistra che hanno sempre fucilato o emarginato lo spontaneismo delle guerre partigiane, compresa quella di Spagna. Un altro carattere della destra autoritaria è l'idiosincrasia per la solidarietà pubblica, e la simpatia per le isole della carità. Per capire dove stia questa destra basta osservare «dove la porta il cuore», le reti spontanee di carità in cui si riconosce. Quando è scoppiato lo scandalo di San Patrignano, la comunità per tossicodipendenti di Muccioli, messo sotto accusa per violenze e strane morti, c'è stata una rivelazione improvvisa, spontanea, imprevedibile di tutti gli amici e protettori che la comunità aveva nella nuova destra sociale e politica, un accorrere di senatori, ministri, petrolieri, alti prelati, funzionari della RAI, signore della buona società. Nell'occasione abbiamo saputo che la comunità di San Patrignano è diventata un'azienda multiforme il cui direttore, il Muccioli, va a Roma ad assistere a piazza di Siena ai concorsi dei suoi cavalli e dirige abilmente società vinicole, edili, di falegnameria, allevamenti ovini. E in ciò c'è qualcosa che alla destra piace: che la carità si trasformi in buone intraprese e in buoni esempi, che qualcuno non solo si prenda la briga di sollevarli dai loro parenti drogati ma di insegnargli che l'unica via di salvezza è la libera iniziativa.
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Questa borghesia non riesce poi a celare la sua simpatia per i grandi ladri, i suoi giornali, anche quelli progressisti, non riescono a nascondere nelle loro persistenti interviste a Bettino Craxi e a Sergio Cusani la loro ammirazione per come hanno abilmente trasferito denaro pubblico in tasche private, regalando un alloggio anche ad Anja Pieroni, amica dell'ex segretario del Partito socialista. Non può mancare sulla nostra stampa l'asta dei quadri di Cusani, roba di prima qualità, De Chirico e Picasso, anche se forse sarebbe più interessante sapere dove sono finiti gli oltre centocinquanta miliardi della Montedison passati per le sue mani, la famosa «provvista» di cui Gardini si serviva per corrompere politici e manager. Aveva quattro miliardi e duecento milioni in quadri Cusani. Che bravo! Il fatto è che una buona parte di questa borghesia perbenista che sventola bandiere tricolori e si appella a Dio, patria, famiglia fa da anni i suoi affari più redditizi con la massoneria coperta e con la malavita organizzata... Nel modo magistralmente descritto da Piero Bassetti che, essendo il presidente di una delle più grandi camere di commercio d'Europa, è uno che se ne intende: una strana partita, da un lato i borghesi per bene iscritti al Rotary e al golf di Monza o di Courmayeur, dall'altro i mafiosi o i camorristi. Il gioco si svolge tutto a metà campo dove i mediatori massoni fanno da arbitri. Affari inconfessabili, come registrato dalle cronache giudiziarie, tra frequentatori della Scala e parenti di Joe Adonis.
La destra malavitosa Quattro anni fa ero a Bari, per un'inchiesta nel profondo Sud, sempre diverso, sempre eguale. Mi aspettava all'aeroporto il dottor Carlo Capone, un galantuomo che si era messo in testa di fondare una Lega Sud per la rinascita di Bari e del Mezzogiorno. Avevo una valigia e aspettavo che aprisse il bagagliaio della sua automobile, ma lui la prese e disse: «No, nel bagagliaio non teniamo neanche la gomma di scorta». Credevo esagerasse. Due ore dopo andammo a cercare un magistrato che aveva cose da raccontarmi. Non era in casa, tornammo all'auto di Capone giusto in tempo per vedere tre ragazzi che stavano scassinandola. Quattro anni fa Bari era la stessa città in cui oggi hanno mandato in galera o agli arresti domiciliari l'intero ceto dirigente e tutti lo sapevano nei particolari ma ne parlavano per allusioni o con l'intesa «qui lo dico e qui lo nego». Sembrava di essere in quei film in cui l'America del Midwest racconta i suoi incubi: l'onesto funzionario mandato per un'ispezione che appena arrivato si accorge che fanno il vuoto attorno a lui e a mano a mano scopre che sono tutti d'accordo a rubare e a nascondere, sindaco, giudici, poliziotti, banchieri, persino quelli dei diritti civili. Capone e un giudice onesto - ce ne sono, ce ne sono anche a Bari mi accompagnarono in visita al policlinico della città. Nelle cucine, sulle casse della pasta, c'erano dei topi enormi, l'infermiere che ci faceva strada si provò a farli scappare gridando ma non si muovevano, dovette prendere una ramazza per cacciarli. Il giudice diceva: «Ho rinviato a processo sanitari, amministratori, medici. Tutti assolti». Assolti dai giudici corrotti che tutti a Bari conoscevano per nome e cognome, oggi sotto inchiesta alla procura di Potenza. Tutti quattro anni fa a Bari sapevano le ragioni per cui i pubblici ospedali venivano lasciati in quello stato inverecondo. Per obbligare la borghesia «compradora» della città, media e alta, a mandare i suoi ammalati nelle cliniche private del professor Cavallari che come tutti gli onnipotenti non ha resistito al carcere e ha vuotato il sacco delle immondezze cittadine. Il professore era al centro dell'affare più redditizio: ricavava dalle sue cliniche fuori da ogni controllo centinaia di miliardi e l'establishment cittadino, la «gente» come la chiama Berlusconi, quelli che allora erano i maggiorenti della Democrazia 77
cristiana e del Partito socialista e ora sono passati a Forza Italia o ad Alleanza nazionale, gli aveva affidato il compito di fare da cerniera fra la politica, l'amministrazione e la malavita organizzata: ogni anno il professore metteva nei libri-paga delle sue cliniche alcune centinaia di giovanotti presi metà dalle famiglie bene e metà dalla Sacra corona o dalla Rosa dei Venti o dalla Nuova famiglia salentina. Così il gioco era fatto, c'era l'argent de poche per i figli di papà e c'era la protezione dei picciotti del boss Savino Parisi che poi si fece beccare a Milano mentre in tribuna d'onore assisteva alla partita Inter-Bari. Ma il buco nero di quella Bari oggi finalmente portata sul banco degli accusati era l'immenso buco nero del teatro Petruzzelli divorato da un incendio doloso nella notte del 27 ottobre 1991: cercai di capirci qualcosa dagli eredi Petruzzelli, dal procuratore De Marinis, da avvocati che mi informavano per enigmi, per sorrisi allusivi. Tutto era oscuro e tutto era chiarissimo. Una regia segreta dei padroni della città aveva organizzato sull'incendio del Petruzzelli una colossale speculazione in un giro enorme di complicità e di omertà, e così il municipio, appellandosi al vecchio atto di concessione, poneva condizioni molto restrittive agli eredi per la ricostruzione, mentre il ministro Formica faceva sapere da Roma che la riedificazione del Petruzzelli non poteva essere «una faccenda di famiglia» e assicurava che c'erano i fondi pubblici necessari. Intanto la «Gazzetta del Mezzogiorno» stranamente aveva aperto una sottoscrizione «per la rinascita del Petruzzelli, simbolo della città», ma dopo i duecento milioni del giornale nessuno aveva più scucito una lira, come se tutti sapessero i loschi affari retrostanti. Direttore-editore della «Gazzetta del Mezzogiorno» era il signor Gorjux di origine savoiarda che quando uscì la mia inchiesta pubblicò due o tre editoriali per dire che ero un mentitore, un diffamatore della città, un giornalista da strapazzo. Che cosa scriverà ora che gli hanno arrestato persino il direttore responsabile del giornale? L'Italia della politica e della cultura sta discutendo da mesi di par condicio, di trasparenza e pluralità dell'informazione. C'è da piangere, l'intera stampa d'informazione meridionale è legata a doppio filo alla borghesia mafiosa che ha già ricominciato a tessere la tela degli appalti, delle società con i mafiosi, delle sovvenzioni statali. Alcuni notabili della radiosa rivoluzione del 27 marzo sono stati mandati in galera, finalmente, ma chi sa per quanto, da quei giudici che per anni sono stati isolati, perseguitati, trasferiti per l'imperdonabile colpa di rispettare la legge. Bei tempi quelli, la regione poteva far debiti per oltre millequattrocento miliardi per curare l'elettorato di uomini di rispetto come l'onorevole De Gennaro che spendeva quattordici miliardi per la campagna elettorale o l'altro che per avere il voto mafioso faceva distribuire gratis la droga ai mafiosi dello Japigia e della Bari vecchia, e la grande famiglia sportiva si faceva accompagnare al nuovo stadio dagli «spallacci», avanzi di galera spacciati per tifosi del Bari. «The old Nick», come a Oxford chiamavano Niccolò Machiavelli, aveva capito il problema Italia: «Perché un popolo dove in tutto è entrata la corruzione non può non che a piccol tempo, ma punto viver libero». La corruzione degli italiani, che viene spesso data per normale e quasi irrilevante dai medici che stanno al capezzale della nostra democrazia, è così diffusa e inestirpabile che a taluni sembra l'unica istituzione funzionante. Le minoranze puritane da noi appaiono afflitte da sublime moralismo o, come diceva Croce, «da moralismo antistorico». Non c'è uomo politico, studioso o cronista che metta in dubbio l'appartenenza di una città come Napoli alla democrazia, per una patriottica congiura tutti fingono che lo sia e che possa esserlo anche se è evidente che la democrazia non può essere dove la violazione della legge è vissuta come necessaria alla sopravvivenza. Di recente il procuratore generale Cordova ha tentato di fare quel che la gente chiama una pulizia di Pasqua, ha cercato di spazzar via l'anarchia più vistosa facendo arrestare contrabbandieri, vigili urbani e tranvieri ladri, si è provato a convincere i primi a non fare il contrabbando 78
anche nel palazzo di Giustizia, i secondi a non taglieggiare gli automobilisti ai posteggi, i terzi a non praticare un assenteismo selvaggio, ma il primo a insorgere è stato il sindaco rosso Bassolino, a dimostrazione che la corruzione è così penetrata nel tessuto sociale che anche la sinistra deve accettarla e persino difenderla. Povero sindaco che deve guidare un'amministrazione abituata per decenni al tira-a-campare e al parassitismo! A Napoli ma in molte altre città italiane, Milano compresa, il popolo ruba perché vede rubare il ceto dirigente, il proletariato è malavitoso perché è malavitosa la destra sovrastante, se a Napoli per decenni l'azienda dei trasporti è stata usata dai politici come un ufficio di collocamento nessuno si stupisce se i dipendenti l'hanno derubata assentandosi per i doppi lavori. A Milano i biglietti dei tram e degli autobus sono autentici, ma una trentina di vigili urbani sono stati denunciati per piccole tangenti che, in alcuni casi, venivano versate dai negozianti anche se non richieste. E non è una novità, le storie patrie ci ricordano che nell'Italia monarchica «non solo era legittimato il concorso di tutte le mafie e di tutte le sette segrete ma era inoltre consentito che l'apparato dei partiti governativi si rafforzasse con il mezzo della corruzione allo scopo di arrivare nelle migliori condizioni alla teatralizzazione del sistema democratico: le elezioni». Il crollo della partitocrazia e la confusa lotta per il potere che ne è seguita hanno sollevato il coperchio della corruzione generale, lo scandalo è continuo e già ci si fa l'abitudine: un giorno vengono denunciati cento alti magistrati che evadevano le tasse, quello dopo l'intero palazzo di Giustizia di Reggio Calabria, o arrestano anche l'onorevole socialista La Ganga che Norberto Bobbio e io, anni fa, raccomandammo all'elettorato come suo esimio rappresentante. Fa parte dell'illegalità anche la più potente delle sette segrete, la massoneria, che quando ero giovane sembrava una cosa da ridere e che ora vigoreggia. Nella sola città di Ancona, su centomila abitanti, i suoi iscritti sono settemila, a Firenze, Spoleto, Pesaro, Viterbo, in tutta l'Italia centrale è un partito trasversale più forte dei partiti, padrona delle amministrazioni, è a lei che bisogna rivolgersi se si è in cerca di un posto, di un lavoro. Ma non se ne parla. Se ne è parlato distrattamente nel 1990 quando i giornali sono stati costretti a seguire Cordova, quel cacciatore di farfalle un po' corpulento che sorridendo portava allo scoperto qua e là il letamaio: piombava in una città italiana, ora Firenze, ora Palermo, Torino, Roma, si chiudeva negli archivi per studiare le carte processuali che riguardavano i massoni, ricostruiva la rete che avvolge l'intero paese, trattato come un tipo strambo che si era messo in testa di perseguitare i massoni con stupore e quasi divertimento generale: «Ma che vuole questo? Chi è, un presenzialista? Ma tu lo conosci un massone?». Gli italiani non volevano credere che un magistrato serio potesse occuparsi di quei «quattro fessi che si trovano per mettersi un grembialino e giocano con la cazzuole e il compasso» e quando lui, il Cordova, faceva capire che avrebbe dovuto denunciarne a migliaia incominciavano a chiedersi se non fosse il caso di mettergli la camicia di forza. Quando gli italiani non vogliono vedere una loro malattia o un pericolo incombente non c'è forza al mondo che possa farli ragionare. Abbiamo avuto una commissione parlamentare di inchiesta sulla loggia massonica P2 che ha dato risultati terrificanti: si è scoperto che il venerabile Gelli, suo gran maestro, poteva convocare nel suo albergo a Roma o nella sua villa ad Arezzo generali dei carabinieri e dell'esercito, capi della polizia, senatori, deputati, uomini politici iscritti alla loggia con tanto di nomi e di data nei tabulati scoperti dai giudici milanesi fra cui il Colombo del pool di Mani pulite. Tutti interrogati, nessuno inibito dai pubblici uffici, tutti tornati ai loro posti. Da alcuni pentiti abbiamo saputo che la cupola della mafia ha deciso cinque anni fa di entrare nelle logge «coperte» della massoneria come nel luogo più indicato per fare in segreto buoni affari con la borghesia della destra malavitosa. La ricerca fatta da Agostino Cordova è andata in gran parte dispersa, in molte
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procure si sono disfatti delle carte, ispettori del ministero di Giustizia sono andati a Palmi, dove Cordova era stato procuratore, per cercare di incastrarlo. La destra malavitosa è venuta allo scoperto a Palermo dove hanno arrestato il commercialista massone che amministrava i beni del boss Riina e di altri grandi mafiosi. Orlando come sindaco aveva preso quasi trecentomila voti, ma in seguito La Rete è stata abbandonata in massa, perché i partiti del centro-destra offrono maggiori garanzie alla borghesia mafiosa dell'isola, alle migliaia di architetti, geometri, geologi, urbanisti, imprenditori edili che anche senza essere iscritti a una cosca spartiscono con la mafia buoni appalti e ottimi avanzamenti dei lavori. Aveva ragione Machiavelli: che buon governo, che democrazia sono mai possibili dove il delitto è diventato necessario come l'aria che respiri? Quando la mafia viene messa alle corde i consumi di Palermo e dell'isola cadono a piombo e dopo qualche giorno, qualche settimana sono i buoni borghesi, i notabili onesti a pregare lo stato di tornare alla normalità, cioè alla convivenza con l'organizzazione malavitosa. Accadde nei primi anni dell'unità quando i piemontesi si illusero di mettere un po' di ordine, di nuovo al tempo del prefetto Mori, e poi nei giorni del generale Dalla Chiesa e oggi con il procuratore Gian Carlo Caselli. Antonio Gramsci divenne celebre per il «patto storico» fra borghesia agraria del Sud e borghesia finanziaria e imprenditoriale del Nord. Si era dimenticato della mafia e della massoneria.
Il villaggio globale La televisione e la politica: un mezzo di informazione, di persuasione, di coinvolgimento di cui forse conosceremo gli effetti profondi nella politica e nella vita degli uomini fra cinquanta, fra cento anni come avvenne per l'invenzione della stampa di Gutenberg. La politica convive con la nuova arrivata senza sapere bene che pensarne: sa che è importante, ma non sa esattamente in che modi e in quali circostanze. Sa che il binomio politicatelevisione ha sostituito quello stampa-politica, comizi-politica, ma non sa quali regole dargli; sa che nel 1995 il problema televisione-politica è stato al centro dell'attenzione nazionale più che tutti gli altri problemi del paese ma non sa come risolverlo. Conta più la persuasione o il coinvolgimento televisivo? Dopo la vittoria elettorale di Berlusconi nel marzo '94 ci fu a sinistra chi disse che il merito, o la colpa, era stato del martellamento degli spot elettorali adatti a un partito di destra: non programmi ma sogni, non progetti seri ma promesse di occupazione, di ricchezza, di ordine. Poi un uomo di spettacolo e di politica come Giuliano Ferrara ha osservato che la campagna elettorale televisiva veniva dopo il coinvolgimento televisivo, che Berlusconi, spot o non spot, era di per sé da anni l'indiscusso signore della televisione, il re della cornucopia dei «consigli per gli acquisti», della perenne gioventù e della perenne bellezza, il re del teleschermo che sarà contagio ipnotico e rimbecillimento collettivo, ma che per milioni di persone è cibo quotidiano, consolazione di ogni giorno, unico mezzo di partecipazione. Che poi il teleutente medio sia uno che crede di essere autosufficiente e libero di scegliere mentre nel suo isolamento di fronte al teleschermo è impaurito, incerto, disinformato cambia poco o niente ai fini del consenso. La televisione come l'informatica, come l'automazione hanno dato un fiero colpo alla tesi della neutralità della scienza e del progresso tecnologico. La scienza e la tecnica, si è sostenuto per anni, non sono né di destra né di sinistra, dipende da chi ne fa uso. Ma sembra inconfutabile che se la scienza e la tecnica non sono di per sé né di destra né di sinistra appartengono per i capitali investiti ai ricchi e ai potenti, e questo possesso e il loro uso hanno allargato la forbice fra gli esperti e gli ignoranti, fra i ricchi e i poveri. È 80
sempre stato così? Può darsi, ma con la televisione e l'alta tecnica i divari si sono enormemente allargati. La televisione è strumento dei potenti per la semplice ragione che il suo possesso implica un'abbondanza di capitali e di strutture oligopolistiche alla portata di pochissimi e che, mirata com'è ai consumi di massa, deve rivolgersi a quella cultura popolare che è sempre stata e sempre sarà cultura degli istinti e degli appetiti elementari, cultura di destra, cultura di sudditi e non di governo. La televisione, sia la commerciale di Berlusconi sia la pubblica della RAI, non ha inventato una cultura bassa per incantare e dominare i sudditi, i clienti del grande mercato, ma l'ha adottata, seguita, interpretata come l'unica possibile e redditizia, giocando su due suoi filoni tipici: la rappresentazione del Bengodi per tutti e i piaceri sadomasochistici dell'uomo qualsiasi che si ripaga della sua irrilevanza vedendo fare a pezzi i personaggi famosi e fortunati, le star e i VIP, i giudici, i politici. Questo spiega la fortuna televisiva, altrimenti inspiegabile al perbenismo antetelevisivo, di provocatori, mascalzoni, pazzoidi, narcisi pronti a dichiarazioni apocalittiche e a massimi vituperi anche verso le grandi istituzioni, presidenza della repubblica, corte costituzionale, consiglio superiore della magistratura e Parlamento. Eredi della voglia di dissacrazione piccolo-borghese che è stata il vero filo nero del nostro autoritarismo. Così la politica e la sua conoscenza si sono adeguate a una concezione sportiva, circense per cui i politici «scendono in campo» dopo aver «composto la squadra» e come nel campionato di calcio battono gli avversari numericamente, ai punti nei sondaggi e nell'audience. Il che mi ha aiutato finalmente a capire la politica sportiva di Bisanzio dove i partiti degli azzurri e dei bianchi si contendevano le vittorie nella corsa dei cavalli e a corte. Tutto ne consegue, le interviste ai politici devono essere simili a quelle dei calciatori o dei piloti di Grand Prix, pochi luoghi comuni ma ottimisti come si conviene a un tempo di lobbies and hobbies, di persuasori e di clienti rincretiniti. La vecchia politica, i vecchi partiti si sono trovati improvvisamente di fronte a un vuoto di cultura pieno di vitalità e di inventiva pubblicitaria, consumistica, produttivistica e si sono stupiti, da ingenui o da estranei, che il partito della nuova destra, Forza Italia, venisse creato da Publitalia, l'organizzazione pubblicitaria della Fininvest berlusconiana secondo i suoi modi e criteri, selezionando i candidati come gli aspiranti a uno spettacolo di massa: bella presenza un po' sul volgare, buona telegenia, nessuna originalità o brillantezza politica, per carità, ma ripetizione pedissequa di alcuni appelli ai sentimenti e agli istinti, tipo l'anticomunismo senza comunismo o il liberismo senza tradizione e cultura liberale. Meglio se in un italiano approssimativo ma fitto di parole confidenziali e qualificanti come «guardi», «se me lo consente», «io non l'ho interrotta, la prego di lasciarmi parlare». La televisione, dicono i marxisti come i modernisti, è neutrale. Ma siccome in televisione comandano quelli che hanno i soldi e le strutture aziendali per metterle in piedi e le redazioni dove il prodotto televisivo viene manipolato, ne consegue che la usano a loro tornaconto. La televisione non è come la carta stampata in cui il comune mortale di una certa esperienza ha un potere di controllo, può rivedere il testo di un'intervista, può pretendere che sia pubblicato quello che ha detto e non altro, può smentire. No, in televisione il comune mortale anche se esperto può essere fatto a pezzi e non ha diritto di replica. Ho avuto due esperienze traumatizzanti in proposito, una riguardo le immagini l'altra per le parole. La prima fu un'intervista che feci a Bettino Craxi a Canale 5. In cabina di regia era venuto personalmente Silvio Berlusconi e regista era un tecnico degli effetti speciali poi andato a dirigere Telecinco in Spagna. Tutto filò liscio, Craxi era accattivante e cortese. A casa mi riguardai la registrazione: comparivo una volta di nuca e una di spalla destra, un intruso, un nessuno nella gloria del faccione di Craxi, del suo ditino pedagogico. Poi andai a una trasmissione sul Meridione alla RAI. Il conduttore era un vecchio charmeur. Più tardi vidi e sentii il risultato: il vecchio charmeur non si era accontentato di tagliare i 81
miei interventi ma aveva addirittura legato le mie risposte a domande fatte ad altri, su altri argomenti sicché sembrava un vaneggiare di ubriachi. Il giorno dopo mi giunse un bigliettino di ringraziamento dall'addetta alle relazioni pubbliche. Nelle campagne elettorali si è arrivati alle interviste truccate, manipolate o usando dei dipendenti dell'azienda o mandando in onda solo le testimonianze favorevoli. E sarà anche vero che nella società dei consumi la difesa della libertà e dell'intelligenza è direttamente proporzionale alla soddisfazione dei bisogni, vale a dire che più sono soddisfatti i secondi meno si difendono le prime, ma il troppo stroppia, vedi la manipolazione o addirittura l'invenzione dei sondaggi. È producente questo inganno sistematico? Ecco un'altra risposta difficile, un'altra delle incognite del mezzo televisivo. Può darsi che il metodo ripetitivo della pubblicità funzioni, che si riescano a vendere i voti così come si vendono le creme, gli elettrodomestici, i dadi per il brodo, come può darsi che prima o poi la gente si dica che la politica è un'altra cosa. La nuova destra, il nuovo partito di Forza Italia hanno certamente approfittato della televisione. Nella sua politica della divisione delle spoglie Silvio Berlusconi, appena nominato presidente del consiglio, oltre a mantenere le sue tre reti, ha praticamente messo le mani su altre due della RAI. E nella campagna per i referendum ha semplicemente usato le armi del più forte: ha trasmesso cinquecentotrentotto spot a suo favore contro i quarantadue degli avversari, politicamente degli imbecilli a non prevedere che tanto sarebbe avvenuto. Agli intellettuali e agli spiriti liberi questo binomio televisione-politica piace pochissimo, come la società moderna che su esso si basa piaceva poco a un conservatore come José Ortega y Gasset: «Siccome le masse non possono dirigere la loro esistenza e tanto meno governare la società vuol dire che l'Europa soffre la più grave crisi che possa toccare a popoli, nazioni, culture». E il filosofo francese Bernard Henri Lévy di fronte al gran rifiuto di Delors a candidarsi alla presidenza della repubblica si domandava: «Perché un uomo della speranza ha rinunciato a guidare il paese? Il suo gran rifiuto non deriva dalla sua serietà, dalla sua voglia di non ingannare né se stesso né gli altri?». Ma la sinistra non è da meno, tutti i suoi rappresentanti chiedono di poter partecipare ai teatrini televisivi, tutti reverenti, accomodanti, grati ai domatori che li governano a frustate e falsi complimenti. Anche il candidato della sinistra Romano Prodi «ha formato la sua squadra ed è sceso in campo». La televisione italiana, benché non sia più il dio parlante di alcuni anni fa, benché non sia più oracolo indiscutibile, conserva la sicurezza tautologica dell'editoriale che un autorevole giornale tedesco ha dedicato di recente ai suoi lettori critici: «Poiché il nostro giornale pubblica tutte le notizie essenziali, i lettori non possono avere divergenze su quanto pubblicato, le soppressioni di notizie essenziali non si praticano». I piemontesi fedeli lettori della «Stampa» la chiamavano affettuosamente la busiarda, ma se non la trovavano all'edicola cadevano in crisi acuta di astinenza.
Il garantismo peloso A chi denunciava i rapporti del notabile siciliano Salvo Lima con la mafia la destra democristiana ha chiesto per anni: «Le prove, avete le prove? Se non avete le prove vi quereliamo, vi chiediamo miliardi di danni». Era un po' coprire uno con un foglio di carta, ma un foglio di carta che funzionava come una porta blindata. Tutti sapevano che con questo ricorso alle prove inquinate o cancellate la cassazione aveva annullato centinaia di processi di mafiosi ma non serviva denunciarlo. Una casistica impressionante: annullato il 82
sequestro dei beni e dei cantieri di Gioia Tauro, dove il clan dei Piromalli taglieggiava I'ENEL e altri enti statali, con il pretesto che c'era stato un difetto di forma nella nomina di due giudici, annullata a Milano la condanna dei finanzieri Virgilio e Monti, soci in affari del gangster Bono, perché «l'articolo 17 della costituzione riconosce il diritto di riunirsi pacificamente senza armi e di associarsi liberamente senza autorizzazioni. Le semplici frequentazioni per parentela, affetti, comune estrazione ambientale e sociale, amicizia, rapporti di affari non possono essere utilizzati come prova della organizzazione criminale». Poco prima di morire assassinato dalla mafia il giudice Borsellino mi disse: «Nel sangue dei magistrati c'è come un anticorpo per il magistrato diverso, super, troppo noto. Noi davamo fastidio con la nostra sola presenza e la corporazione appena ha potuto ha serrato i ranghi e forse con l'assenso dall'alto ha deciso di farci guerra aperta». Come una vecchia specialità della casa il garantismo peloso, ipocrita, da avvocati azzeccagarbugli, da processi combinati nei corridoi è stato subito adottato dalla nuova destra che ha immediatamente preso le difese dei grandi ladri della partitocrazia, Andreotti, De Lorenzo, lo stesso Craxi, e ora dei notabili corrotti di Bari o di Reggio Calabria, e subito ha mosso guerra ai magistrati onesti e coraggiosi. Presidente del consiglio Silvio Berlusconi, il ministro della Giustizia Biondi ha mandato degli ispettori nelle procure di Milano e di Palermo mettendo sotto indagine i giudici. Poi la cassazione, sempre lei puntualissima, ha tolto a Milano il processo delle guardie di finanza corrotte e lo ha trasferito a Brescia per legittima suspicione, la vecchia immancabile scusa per insabbiare un procedimento, per rimandarlo alle calende greche, per renderlo faticoso o impossibile all'accusa; decisione accolta dall'informazione della nuova destra con aperto giubilo. Il giurista Gustavo Zagrebelsky si è chiesto sulla «Stampa» come fosse possibile che deputati, senatori, ministri manifestassero gioia per il provvedimento. Salvi restando le opinioni garantiste e il diritto a credere alla buona fede del giudice della cassazione si domandava come fosse possibile che alti funzionari dello stato si compiacessero per una vicenda che di fatto umiliava dei magistrati onesti e metteva in crisi la giustizia. Domande retoriche. Zagrebelsky sapeva molto bene, come noi, che al potere costituito, alla nuova destra arrivata al potere faceva comodo che la «scheggia impazzita» della procura di Milano, la minoranza che si permetteva di accusare i potenti, venisse richiamata all'ordine. E la restaurazione continuava con la persecuzione al giudice Antonio Di Pietro. Una parte dello stato, carabinieri, ministri, guardie di finanza, agenti dei servizi segreti invece che dare la caccia ai ladri aveva indagato per mesi nella vita privata del magistrato, aveva scoperto le sue vecchie amicizie, un prestito di centoventi milioni. Questo prestito era la prova dell'onestà di un magistrato che aveva scoperto truffe per migliaia di miliardi, recuperato allo stato centinaia di miliardi, ma ora diventava un'accusa. A chi protestava per il trasferimento del processo dei finanzieri a Brescia la destra del garantismo peloso diceva con sussiego: «Aspettiamo le motivazioni della cassazione». In Italia si è sempre in attesa delle motivazioni, dei risultati delle autopsie e delle perizie, delle rivelazioni delle scatole nere dopo i disastri aerei o ferroviari. Dopo avere aspettato per mesi, per anni le conclusioni delle commissioni di inchiesta parlamentari gli italiani bene informati vengono a sapere che i partiti si sono messi d'accordo per coprire a vicenda le loro colpe, per nasconderle con gli omissis, e la maggioranza dei disinformati non ci fa nemmeno caso. E sì che gli italiani dovrebbero avere qualche sospetto sulla magistratura dei colletti di ermellino sempre al servizio del potere, pronta a coprire le repressioni dei moti operai e contadini, fosse quello delle campagne padane o dei fasci siciliani. Non è la stessa magistratura che ha tentato di invalidare il referendum da cui nasceva la repubblica, che ha mandato liberi i fascisti, che ha coperto le stragi di stato? A Napoli, a Bari, a Palermo la complicità di questa magistratura con i ladri della politica e delle imprese aveva raggiunto la perfezione, i soli danni allo stato procurati dal clan De Lorenzo, ministro della 83
Sanità, sono stati valutati in trentamila miliardi, quanto una manovra finanziaria per aggiustare il bilancio dello stato. Dicono che sta crescendo il popolo della destra. Se per esso si intende il popolo degli sdegni effimeri che finiscono in restaurazione, quello c'è sempre stato, l'opinione della gente comune è sempre svoltata come una grande corrente marina verso la conservazione del potere costituito. Anche l'italiano qualsiasi ha occhi per vedere che i reati perseguiti dalla magistratura coraggiosa sono la norma, sono il lubrificante che fa girare la macchina, sono i soli lasciapassare validi di un'amministrazione che è premeditatamente caotica e disastrata. La nuova destra non ha avuto bisogno di andare a scuola di garantismo peloso o di intrighi di potere, sapeva di averli a sua disposizione. Ciò che colpisce nelle parole e nei comportamenti di questa destra non sono tanto le ripetizioni, le menzogne, la quasi imbarazzante modestia degli argomenti quanto la sicurezza arrogante, il fatto che anche i personaggi minori sanno di avere alle spalle il potere combinato giudiziario, poliziesco, bancario, massonico, mafioso che li autorizza a insultare i giudici coraggiosi, le istituzioni, il papa no, quello è tabù anche per loro. Lo scrittore Manuel Vàzquez Montalbàn, questa nuova destra, la descrive così: «Una reazione termidoriana, un misto di integralismo, servizi segreti, P2, neofascismo, radicalismo anarcoide, qualche ballerino di tip tap con il tocco spirituale dell'Opus Dei». Fra i restauratori ce ne sono che peccano di zelo eccessivo come il ministro della Giustizia del governo Dini, Filippo Mancuso, il quale ha riaperto l'inchiesta sulla procura di Milano e, dopo aver rimproverato gli ispettori per non avere accertato gli abusi dei giudici di Mani pulite, ha affidato agli stessi il compito di insistere. Come chi mostra a un sottoposto un fazzoletto blu e lo esorta: ma non vede che è rosso? A un raduno della Lega a Pontida l'onorevole Pagliarini aveva detto fra grandi ovazioni: «Quando arriveremo al ministero degli Interni dovremo usare i TIR per portar via i cadaveri nascosti negli armadi». Al ministero è arrivato il leghista Maroni ma l'unico cadavere che ne è uscito è stato il suo, vittima delle lotte di potere all'interno della Lega. Il leader della quale, il senatore Bossi, che è uomo di vendette paesane, gli ha affidato ora il compito di mettere assieme un parlamento di leghisti meridionali. Dai lontani anni dello scandalo Montesi, della lotta per il potere democristiano fra Fanfani e De Gasperi non c'era stato più uno scontro così pesante, così cattivo. La posta in gioco è la sopravvivenza della politica e della intrapresa malavitosa e non si escludono colpi, si ricattano o pagano magistrati, testimoni, si diffondono voci false ma che compiono la loro funzione diffamatoria, si fruga nella vita privata degli avversari. Brutto, bruttissimo momento.
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VII IL LAVACRO DI FIUGGI
Il pianto dei camerati Negli anni fra il '91 e il '94 il neofascismo italiano naviga con il vento in poppa verso «una trasformazione», osserva lo storico Piero Ignazi, «che non si era nemmeno sognato di fare». Gli iscritti salgono da 150.000 a 220.000. Silvio Berlusconi apre una carta di credito a Fini sostenendolo alle elezioni amministrative di Roma, Forza Italia si allea al MSI per le politiche nel Meridione, bisogna tornare agli anni del Partito monarchico popolare di Lauro per trovare un partito democratico disposto a correre assieme al MSI, il cordone sanitario che lo isolava dal paese è stato tagliato, i media scoprono il simpatico, responsabile, civile Gianfranco Fini, i suffragi aumentano, non resta che compiere in modo ufficiale il passaggio alla democrazia al congresso di Fiuggi del gennaio 1995. Da allora il neofascismo italiano è un morto presunto, un fu Mattia Pascal, anche lui guadagnato alla semantofobia, cioè all'arte di cancellare le parole che evocano fantasmi e pregiudizi, sostituendole con dei sinonimi paravento come Alleanza nazionale. Ancora nel dicembre del '94 il Movimento sociale italiano affermava la sua fedeltà al fascismo perenne, a un progetto: fare in qualche modo rivivere il fascismo mussoliniano, la terza via, il superamento della democrazia corrotta e inetta, le giuste gerarchie, lo stato autoritario. Ma al congresso di Fiuggi sui «valori indiscutibili» è calata una cortina nebbiosa, si è parlato solo di democrazia, in termini ambigui ma comunque laceranti, eretici per i camerati vecchi e nuovi. In un crescendo, non sai se di sincera conversione o di crescente impostura, il segretario Gianfranco Fini dichiara che l'antifascismo «fu il movimento storico essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato». C'è una sottile distinzione a uso dei camerati, l'antifascismo «non è stato un valore in sé» ma è un gioco di parole: tutto ciò che è anti non può essere senza il suo contrario. E arriva a dire che «la vergogna incommensurabile delle leggi razziali brucerà sempre nella nostra coscienza di uomini e italiani» per concludere che «non esistono più nemici, ma avversari», che insomma è finita la negazione totale, ideologica e fisica, degli odiati seguaci dei «principi dell'89», illuministi e democratici. Morto e sepolto anche il corporativismo, uno dei pilastri della politica sociale del fascismo, il superamento della lotta di classe nell'interesse della nazione. Anche Alleanza nazionale dopo Fiuggi è per il liberismo e, con alcune cautele, per il federalismo. Va da sé che viene riconfermata la piena adesione al patto atlantico, all'alleanza con l'America. Già Enrico Berlinguer aveva avuto una tale audacia da saltafossi quando, ancora in piedi il colosso sovietico, aveva detto «di sentirsi più sicuro sotto l'ombrello della NATO» ma era una di quelle frasi da intervista in aeroporto, smentibili a piacere. Di fronte alle affermazioni democratiche di Fiuggi lo storico sospettoso potrebbe anche ricordare che nel 1933 nell'atto di assumere il governo Hitler aveva solennemente accettato le regole della repubblica democratica e che nel '36 Stalin aveva dato all'URSS la costituzione più liberale del mondo. Ma il caso di Fiuggi è diverso, Fini e i dirigenti del MSI 85
non hanno alcuna intenzione dittatoriale e sarà vero che questa trasformazione non se la erano neppure sognata, ma ora che gli è piovuta addosso ne apprezzano i vantaggi. Alleanza nazionale, come nuovo contenitore del neofascismo, ha ricevuto approvazioni anche dagli antifascisti, da quelli almeno che pensano che non si debba rifiutare a priori una conversione che potrebbe essere duratura. Certo la manovra è stata così rapida e semplicistica da lasciare qualche dubbio. Come è stato possibile un ripudio così totale del fascismo da parte di fascisti rimasti tali durante la guerra civile e nei cinquant'anni del ghetto? Gli oltre millecinquecento delegati di Fiuggi non erano gli stessi che due anni prima si erano ritrovati al ristorante Picar nel luna park dell'EUR a Roma, per celebrare la ricorrenza del 28 ottobre, marcia su Roma, presentì tutte le stelle del firmamento missino, il camerata Fini e signora, la vedova Almirante, il figlio del duce Vittorio Mussolini, la nipote del duce Alessandra, il presidente dei volontari di Salò Cesco Giulio Bagnino, il presidente dei reduci di Spagna Renzo Lodoli, per la grande festa organizzata dal camerata Gramazio detto «il Pinguino», una serata indimenticabile al canto degli inni fascisti, quello a Roma e il battagliero «All'armi siam fascisti, terror dei comunisti, e poi per far la pari, abbasso i popolari», che forse avrebbe dovuto fare una certa impressione a monsignor Ruini, fautore dell'alleanza di centrodestra, o al filosofo Rocco Buttiglione, il saltafossi cattolico, che ora chiama Alleanza nazionale «la destra democratica»? Non erano gli stessi che avevano come libri di chevet i saggi di Evola e i discorsi di Mussolini? E il camerata Fini non era un fascista per libera scelta, approdato al MSI nonostante l'ostilità della famiglia, per un'affinità elettiva colta dal fascista di borgata Teodoro Buontempo: «Fini? Non glielo ha ordinato il medico di venire con noi, qualcosa deve averlo attratto. Senza la Fiamma avrebbe fatto l'anonimo insegnante da qualche parte»? Un protagonista di Fiuggi, Altero Matteoli, uno dei cinque ministri missini nel governo Berlusconi, non è stato per anni il responsabile dell'organizzazione del MSI, dunque anche delle formazioni paramilitari? Come non credergli quando dice «i circoli di Alleanza nazionale sono pure apparenze, l'organizzazione si basa ancora sulle sezioni del MSI»? Tutti i diciassette missini andati al potere senza alcun merito «come in carrozza in paradiso» avevano subito un qualche esame democratico per far parte di un governo della repubblica democratica? No, nessun esame, ci erano andati senza cambiare minimamente le loro coordinate ideologiche. Insomma come dice Mirko Tremaglia, reduce da Salò: «Alleanza nazionale altro non è che la trasformazione e prosecuzione del MSI, delle battaglie fatte dal MSI con grande sacrificio e con la vittoria finale sulla partitocrazia». Ma un presunto funerale è pur sempre un funerale per cui ci vogliono l'accorato dolor e le fluenti lacrime del congresso. Piangono tutti a Fiuggi, Gianfranco Fini perché «è tempo di lasciare la casa del padre», la vedova Almirante per le care memorie, i camerati più duri all'apparizione su un teleschermo del compianto Giorgio. Ma perché piangono se davvero hanno capito che il fascismo era sbagliato? Per quanto ricordo del mio 8 settembre '43 e del mio definitivo addio al fascismo non avevo alcuna voglia di piangere anzi mi rideva in cuore l'idea di cominciare una vita libera. A Fiuggi invece una tristezza, un mortorio, quasi una sensazione di tradimento perché come fa un partito che ha sempre propugnato la continuità del fascismo ad assistere a una tale liquidazione? Ma è cambiata davvero la Alleanza nazionale di Fiuggi? Ma sì, è cambiata come è cambiato tante volte il fascismo, come cambia tutto a questo mondo, come è cambiato il Partito comunista che sembrava immutabile nella sua grande e un po' ottusa speranza, migliaia di dirigenti, milioni di militanti arrivati al congresso della Bolognina per rendersi conto che per continuare tutto o molto si doveva cambiare. I valori inalienabili, non storicizzabili, eterni del MSI sono come evaporati, volenti o nolenti i missini. Come essere ancora nazionalisti in un'Europa senza dogane, in pratica senza confini? Sì, ancora frontiere sulle carte ma in maniera così diversa. 86
Come essere imperialisti nell'età della decolonizzazione e corporativi nel mercato mondiale? Non c'è scelta, è giocoforza essere democratici, questa volta è l'odiato sistema a imporre la democrazia o almeno qualche sua regola e apparenza. Dagli scritti ideologici di Adolfo Urso, uno dei delfini del segretario, par di vedere un adattamento mimetico alla democrazia, possibilista, giocato sulle regole e regolette apprese a Montecitorio, non dittatoriali ma ancora aperte ad autoritarismi morbidi, presidenzialisti. Poco del vecchio fascismo e poco di nuovo. Ma non è tutto così nella nostra politica, non è tutto un evaporare del vecchio in un nuovo che è una riedizione del vecchio? E allora perché anche i duri del MSI, anche i camerati con la Fiamma nel cuore hanno accettato la svolta? Credo per l'istinto di sopravvivenza che nel fascismo perenne è la forza portante. I dirigenti del MSI sanno che il loro elettorato non segue il partito per i suoi programmi, ma per un'affinità elettiva, per uno di quei sentimenti che non hanno bisogno di parole e di formule, ci sono e basta, sono un modo di essere e basta anche se il nome è cambiato. La seconda è che i dirigenti del movimento si sono resi conto, in questa conversione che nessuno di loro si era sognato di fare, che il sostegno vero del fascismo perenne è l'aver sposato la voglia piccolo-borghese di dissacrazione con la pratica e le sicurezze governative: dalle squadre ribalde alla marcia su Roma e dalla marcia su Roma ai ministeri, agli organismi statali, all'esercito, alla polizia. C'è una significativa memoria di Rauti: «Quando fui arrestato la porta della mia cella era sempre aperta e potevo vedere chi volevo. Le guardie di Regina Coeli erano tutte missine». Governativo nelle strutture nascoste e perciò tanto più solide, nella partecipazione a tutti i finti golpe progettati non per sovvertire lo stato ma per farlo più autoritario. Legami fra il MSI e ministri, generali, prefetti, questori, uscieri, marescialli, piantoni, fuori per decenni dall'arco costituzionale, dalla democrazia ufficiale, ma dentro la burocrazia, anche la sportiva, dentro i finanziamenti del comitato olimpico, dentro gli innumeri enti sopravvissuti al regime. Nei sette mesi del governo Berlusconi il MSI era penetrato nelle strutture governative di più e meglio del suo padrino Forza Italia o dei cattolici di Casini o della Lega. Sapeva quali erano i luoghi veri del potere e dei suoi scambi, sapeva dove mettere le mani, come far fronte alla disunità d'Italia: al Sud clientelare, a Roma ministeriale, al Nord anticomunista vicino ai padroncini. Dove il MSI ha lasciato ad Alleanza nazionale una magra eredità è nella cultura. Pietrangelo Buttafuoco, un giornalista del «Secolo» fuggito ai lidi più ospitali del «Giornale» berlusconiano, dice che «se la sinistra è piena di cretini la destra è piena di imbecilli. Non c'è stato un passaggio chiaro dal postfascismo al neoliberismo: siamo direttamente precipitati nel nulla». La buona volontà culturale non manca. «Il Secolo» è diventato leggibile, si prova nelle sue pagine culturali a rientrare nella grande cultura di destra, più vasta del fascismo, nel Kultur-pessimismus francese e tedesco, ma come per svolgere un compito, senza convinzione, tanto per seguire il consiglio un po' alla buona della nipote del duce Alessandra: «Le radici vanno annaffiate se no muoiono». Per la prima volta dalla fondazione della repubblica i partiti antifascisti hanno mandato i loro rappresentanti al congresso di Alleanza nazionale e i comunisti, secondo le antiche perfidie, ci hanno mandato il partigiano Ugo Pecchioli. Il grande vecchio della sinistra Vittorio Foa si è detto favorevole al superamento del fascismo: «Come Occhetto ha fatto la sua Bolognina diamo la possibilità a Fini di realizzare la sua Predappina». Persino il direttore della «Repubblica» Eugenio Scalfari ha avuto parole di approvazione per lo «sdoganamento» del MSI. Lo storico liberale Denis Mack Smith ha invitato a non discriminare Fini in occasione della sua visita londinese, i repubblicani americani lo hanno accolto amichevolmente negli Stati Uniti, Mary McGrory, la giornalista americana che aveva rifiutato l'invito del ministro degli Esteri Martino perché di un governo in cui c'erano 87
i fascisti, va in visita alla direzione del MSI in via della Scrofa e trova che il segretario «ha uno stile inglese». Il corrispondente della Reuter Paul Holmes assiste a un comizio del segretario e commenta: «Per noi inglesi fascista è sinonimo di nazista. Non è il caso di Fini. Lui pensa e parla come un conservatore inglese di destra». Pinuccio Tatarella, il fascista di Bari, dà una versione più alla buona della svolta: «Qui in Puglia non ci sono state la repubblica di Salò, l'occupazione nazista e la guerra civile. Qui il regime si è dissolto nel nulla e il duce è prima di tutto quello che aveva fatto le strade, portato le fogne, distribuito con la sua riforma agraria terra tre volte più di De Gasperi nel dopo guerra. E le case che aveva fatto costruire lui sono rimaste in piedi mentre quelle democristiane si sono sbriciolate. Per noi è ancora lo zio che ha portato l'Italia al disastro della guerra, ma dopo aver fatto cose buone che sono rimaste». Ma c'è un antifascismo rimasto nelle memorie e nel sangue che non si arrende. «C'è in giro» dice David Bidussa «una gran voglia di fingere che il fascismo sia scomparso evitando di capire la sua perennità.» Una sorta di tranquillante. E c'è chi come Norberto Bobbio riconosce con rabbia il volto del vecchio fascismo: «Perché penso che i fascisti non siano scomparsi? Perché li vedo, perché vedo la stessa mentalità, la stessa strafottenza, la stessa volgarità. Sono arrivati loro al governo ed è arrivata la rissa volgare. È una cosa così fascista, così spaventosamente fascista. Virilismo fascista. Oh perbacco, così tipico. Nessuna forza politica usa così espressioni che riguardano la sfora sessuale per insultare la gente: pederasta! masturbatore! impotente! La tipica triade degli insulti fascisti. Non si può andare oltre il fascismo se i fascisti restano tali. Il fascismo rappresenta l'altra Italia, l'Italia incivile». E qui forse bisognerebbe aggiungere: l'Italia incivile ma anche l'Italia popolare, anche «l'autobiografia della nazione» come diceva Gobetti. Chi ha seguito il processo al mostro di Firenze Pacciani o altri procedimenti di grande risonanza ha potuto rendersi conto che la volgarità che noi chiamiamo fascista è in realtà la volgarità popolare fatta di bestemmie, appetiti bestiali, virilismo, menzogne, odio verso chi sa parlare in lingua. Volgarità aggressiva a copertura dei vizi segreti per cui si può arrivare all'odio verso la cultura che è stato del fascismo ma anche di italiani che si credono democratici e di sinistra. Sì, conviene riflettere sul valore che hanno ancora certe differenze canoniche, non a caso il saggio di Bobbio Destra e sinistra ha avuto un enorme successo, i lettori vi hanno cercato le risposte che non sanno darsi. Serve a poco in questa confusa transizione ricorrere ai vecchi stereotipi, ai vecchi punti di riferimento: l'Italia incivile, contadina, bestiale c'era prima del fascismo e ci sarà dopo, perché l'Italia civile o incivile che fosse è stata dentro il fascismo. Non bisognerebbe mai dimenticare che quando parliamo del fascismo parliamo di noi. Bobbio ha anche polemizzato con «il manifesto» sostenendo che la vera ragione del fascismo perenne è la perenne contrapposizione fra neri e rossi, fra destra reazionaria e sinistra rivoluzionaria. Il fascismo, ha detto, nacque come reazione alla minaccia bolscevica e oggi gli eredi del comunismo non si sono ancora tolti quella fama. Sarà, il fatto che l'anticomunismo senza comunismo di Berlusconi abbia successo sembra confermare che quella paura opera ancora. Hanno lasciato Alleanza nazionale per fondare il Movimento sociale fiamma tricolore e far la pari, a destra, con Rifondazione comunista Pino Rauti, Giorgio Pisanò e altri estremisti. Pino Rauti lo si può capire, è uno che si professava nazista, e anche Pisanò che è sempre stato un eretico. C'è stato un primo raduno di fascisti indomabili che induceva in tentazioni lombrosiane, fascisti di pelle scura e di occhi spiritati come nelle Brigate nere di Salò. O almeno così ci è sembrato.
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Trascinati e impauriti Più che di un pessimismo degli intellettuali si dovrebbe parlare di un loro disorientamento, che poi è lo stesso, perché cosa c'è di peggio per un intellettuale che non capire quello che sta accadendo? Molti hanno l'impressione che la situazione attuale ricordi gli anni della formazione del fascismo o comunque qualcosa del genere, rischioso e barbaro nella sua modernità: la società politica è in un continuo bollore, le sue molecole si spaccano e si ricompongono in modi assurdi come negli anni Venti. Che c'era allora di più contraddittorie delle due grandi passioni, la nazionalista e la socialista? Eppure da quell'impossibile connubio nacquero i nazionalsocialismi, i fascismi. La massa della società telematica è fluttuante: nel giro di poco più di un anno la stella di Berlusconi è passata dal trionfo nelle politiche nel marzo del '94 alla sconfitta delle amministrative nella primavera del '95, alla rivincita dei referendum nel giugno. I test di popolarità variano da un mese all'altro in misure forti: all'apparizione in politica del professor Romano Prodi i sondaggi hanno dato per possibili grandi trasferimenti di voti in elezioni di tipo americano basate sulle qualità «popolari» dei personaggi, sul loro modo di sorridere, di gestire, di parlare, di tenere buona famiglia assai più che sui loro programmi. Il professor Prodi è il primo a sapere che per l'elettorato non contano i buoni programmi, ma la recita che egli sa ricavarne di contadino dal cervello fino che tutto semplifica e tutto traduce in pratica. Le disquisizioni che si fanno sull'impossibilità di un ritorno al fascismo o a qualcosa di simile sono troppo semplici per essere davvero convincenti. Si dice: non c'è più la minaccia bolscevica, non c'è nazionalismo revanscista, il romanticismo è fuori moda, la voglia di dissacrazione si è addomesticata, si limita all'esibizione popolare del peggio, alle calzemaglie che mostrano gambe orrende, alle mutandine brasiliane, di seta, a colori violenti, a spacchi audaci per sederi strabordanti e ventri gonfi, una voglia di dissacrazione moltiplicata ma resa innocua dal consumismo. L'homo oeconomicus non fa sogni apocalittici, imperialistici, razzistici, appagato dalle sue birrette davanti alla TV e dai suoi gadget. Ma è poi così sicuro? Non sta formandosi una società «integrata» che unifica tutti e non tollera i diversi, ragion per cui i nuovi leader da Berlusconi a Chirac, da Tapie a Fini devono stare allo spettacolo più che alle idee? Dicono: ma non ci sono più gli spostati della prima guerra mondiale. Come non ci sono? Ogni giorno il progresso tecnologico fa crescere il popolo dei disoccupati e nessuno ha più il coraggio di fare previsioni ottimistiche, tutti, anche i fautori del modernismo, ammettono che le innovazioni faranno aumentare la produttività ma non i posti di lavoro? Dove sono finite le previsioni dei futurologi sulle nuove professioni create dall'informatica? Nella pratica sono cresciuti i lavori bassi e stupidi del terziario. L'economicismo malavitoso, la crescita esponenziale dell'economia malavitosa, il tramonto delle ideologie hanno fatto declinare e quasi scomparire i valori dell'onestà, del pubblico servizio. Ma quale democrazia può resistere dove la disobbedienza alle leggi è la regola generale? Violano sistematicamente le leggi gli amministratori, hanno fatto la loro fortuna ignorando le leggi i grandi imprenditori pubblici e privati e le ignorano gli italiani qualsiasi, il codice della strada cambia ogni anno nella totale indifferenza dei cittadini, le poche sanzioni esemplari a qualche VIP sorpreso a superare i limiti di velocità equivalgono agli accertamenti fiscali a qualche attore, i cittadini perseverano nella loro anarchia. Negli anni Venti l'anticomunismo aggregò italiani di varie credenze, cattolici, dannunziani, anarcosindacalisti, agrari. Ma non sta accadendo qualcosa del genere con il «tutti a destra» del falso liberismo che in buona sostanza è l'anarchia produttivistica, l'evasione fiscale, la dittatura del ceto medio? Ogni tanto si legge che è finita la politica, che è finita la storia. Sono dichiarazioni roboanti e tutto sommato idiote 89
perché fin che esisteranno gli uomini «animali sociali» esisteranno politica e storia. Ma quando Bernard-Henri Lévy dice che «è la prima volta dal Rinascimento che l'Europa ha perso la fiducia nell'avvenire» dice qualcosa di vero anche se tutto cambia e domani, chi sa, ci risveglieremo a nuove speranze, a nuove utopie, a nuove follie.
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INDICE DEI NOMI Adonis, Joe Agello, Francesco Albertini, Luigi Alessandro il Grande Alighieri, Dante Almirante, Assunta Almirante, Giorgio Andreotti, Giulio Angelico, beato Annibale Aosta, famiglia Arendt, Hannah Arnaldo da Brescia Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano Azeglio, Massimo Taparelli d' Babeuf, François-Noèl (Gracchus) Babini, Giuliano Baccelli, Amalia Badoglio, Pietro Bagnino, Cesco Giulio Bakunin, Michail Aleksandrovic Balbo, Felice Balbo, Italo Balocco, colonnello Barbaroux, Giuseppe, conte Barzini, Luigi senior Bassetti, Piero Bassolino, Antonio Bidussa, David Belin, René Bellavista, boss mafioso Beltrametti, Edgardo Benda, Julien Berardi, antifascista Berlinguer, Enrico Berlusconi, Silvio Bernardo di Chiaravalle, san Bertinotti, Fausto Bertola, Valentino Beveridge, William H. Biondi, Alfredo Birindelli, Gino Bismarck-Schönhausen Bixio, Gerolamo (Nino) Bobbio, Norberto Bocca, Anna
Bocca, Carmela Bocca, Enrico Boccacci, Maurizio Bogolepov, Michail I. Bombacci, Nicola Bonatti, Walter Bonaventura da Bagnoregio, san Bonelli, Gino Bonfantini, Corrado Bonino, Antonio Bono, Giuseppe Borbone, famiglia Borgese, Giuseppe Antonio Borghese, famiglia Borghese, Junio Valerio Borgia, Cesare Borrelli, Francesco Saverio Borsellino, Paolo Bossi, Umberto Bottai, Giuseppe Brasillach, Robert Brecht, Bertolt Breznev, Leonid Ilic Brignole, Giuseppe Bruno, Giordano Buonarroti, Michelangelo Buontempo, Teodoro Buttafuoco, Pietrangelo Buttiglione, Rocco Cacciari, Massimo Cadorna, Luigi Calvino, Italo Campanella, Tommaso Cantamessa, Ercole Cantimori, Delio Capanna, Mario Capone, Carlo Caradonna, Giulio Carducci, Giosuè Carlo Alberto, re di Sardegna Caselli, Giancarlo Casini, Pier Ferdinando Cavallari, Francesco Cavalli Sforza, Luca Cavallo, tenente (Broc) Cavallo, Luigi 91
Cavour, Camillo Benso conte di Cederna, Camilla Céline Cella, Gianriccardo Cellini, Benvenuto Cesare, Gaio Giulio Chamberlain, Houston Stewart Chirac, Jacques Churchill, Winston Ciano, Edda Mussolini Ciano, Galeazzo Cioran, Emile Clark, Mark Wayne Cocteau, Jean Colletti, Lucio Colombo, Gherardo Colonna, famiglia Concutelli, Pier Luigi Confalonieri, Fedele Cordova, Agostino Corsaletti, Ines Costamagna, Giuseppe Craxi, Bettino Crespi, Giulia Maria Crispi, Francesco Croce, Benedetto Cuoco, Vincenzo Cusani, Sergio D'Annunzio, Gabriele Dalla Chiesa, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Emanuela Setti Carraro Dalmastro, Benedetto Darbesio, Giovanni De Ambris, Alceste De Amicis, Edmondo De Chirico, Giorgio De Felice, Renzo De Gasperi, Alcide De Gaulle, Charles De Gennaro, Giuseppe De Lorenzo, Francesco De Lorenzo, Giovanni De Maistre, Joseph De Man, Henri De Marchi, Emilio De Marinis, Michele De Vecchi, Cesare Maria, conte di Val
Dell'Utri, Marcello Delle Chiaie, Stefano (il Caccola) Delors, Jacques Depretis, Agostino Di Pietro, Antonio Dini, Lamberto Disraeli, Benjamin, conte di Beaconsfield Doriot, Jacques Dossetti, Giuseppe Drieu La Rochelle, Pierre Eichmann, Karl Adolf Einaudi, Giulio Einaudi, Luigi Eisenhower, Dwight David Elena di Savoia, regina d'Italia, Erasmo da Rotterdam Ermini, Giuseppe Eugenio di Savoia, principe Evola, Julius Fanali, Duilio Sergio Fanfani, Amintore Fanon, Frantz Fantino, Mario Farinacci, Roberto Faulhaber, Michael von Favagrossa, Carlo Fede, Emilio Federico II di Svevia Federzoni, Luigi Ferrara, Giuliano Ferreri, professore Fini, Daniela Fini, Gianfranco Fioravanti, Giulio Fioravanti, Giuseppe Valerio (Giusva) Firpo, Luigi Foa, Vittorio Foch, Ferdinand Formica, Rino Fortunato, Giustino Francesco d'Assisi, san Freda, Franco Fumagalli, Carlo Gadda, Carlo Emilio Galimberti, Duccio Galli, Giorgio Galmozzi, Enrico Gambetta, Léon Gandhi, Mohandas Karamchand
Cismon
Déat, Marcel 92
Gardini, Raul Garibaldi, Giuseppe Gasparri, Maurizio Garzanti, Aldo Gava, Silvio Gelli, Licio Gentile, Giovanni Gianì, Niccolo Gide, André Ginzburg, Natalia Gioberti, Vincenzo Giolitti, Giovanni Giordani, Francesco Girardengo, Costante Giuliano, Balbino Giuliotti, Domenico Giusti, Giuseppe Glarey, Serafino Gobetti, Piero Goebbels, Joseph Paul Göring, Hermann Goldoni, Carlo Gorjux, Giuseppe Gramazio, Domenico (il Pinguino) Gramsci, Antonio Grandi, Dino Grandi, Giuseppe Graziani, Clemente Graziani, Rodolfo Gualino, Riccardo Guicciardini, Francesco Guido da Verona Guisan, Enrico Gutenberg, Johann Haushofer, Karl Himmler, Heinrich Hitler, Adolf Holmes, Paul Ignari, Piero Imberti, Giovanni Battista Jacopone da Todi Jahier, Piero Jaspers, Karl Jünger, Ernst Korda, Alexander La Ganga, Giusi Lagardelle, Hubert Lauro, Achille Lawrence, David Herbert
Le Bon, Gustave Leccisi, Domenico Lenin, Nikolaj Leopardi, Giacomo Levi, Carlo Lévi-Strauss, Claude Lévy, Bemard-Henri Leyers, Hans Lima, Salvo Lodoli, Renzo Longo, Luigi Lorenz, Konrad Luigi XII, re di Francia Luigi XIV, re di Francia Luigi XVI, re di Francia Lussu, Emilio Machiavelli, Niccolo Mack Smith, Denis Magister, Sandro Mancuso, Filippo Mandalari, Piero Mami, Thomas Marchesi, Concetto Marconi, Guglielmo Marcuse, Herbert Marinetti, Filippo Tommaso Marinotti, Franco Maroni, Roberto Martini, Enrico (Mauri) Martino, Antonio Mattei, Enrico Mattei, Stefano Mattei, Virgilio Matteoli, Altero Maulnier, Thierry Mauri vedi Martini, Enrico Mazza, Gilberto Mazzantini, Carlo Mazzini, Giuseppe McGrory, Mary Medici del Vascello, Giacomo Menendez, Rosa Bonetti Mervic, tenente Michelini, Arturo Michelstaedter, Carlo Mila, Massimo Minotti, Attilio Mishima, Yukio Mieville, Roberto 93
Montagna, Renzo Montalbàn, Manuel Vàzquez Montesi, Wilma Montherlant, Henri de Monti, Luigi Mori, Cesare Moro, Aldo Morra, Gianfranco Morselli, Stefano Mosley, Oswald Ernald Muccioli, Vincenzo Musso, maestro Mussolini, Alessandra Mussolini, Alessandro Mussolini, Benito Mussolini, Rachele Guidi Mussolini, Vittorio Muti, Ettore Napoleone I Bonaparte Napoleone III Negri, Toni Nenni, Pietro Newton, Isaac Nietzsche, Friedrich Wilhelm Noce, Teresa Occhetto, Achille Occorsio, Vittorio Orazio Flacco, Quinto Oriani, Alfredo Orlando, Leoluca Ortega y Gasset Pacciani, Pietro Pagliarini, Giancarlo Paissan, Mauro Pallotta, Guido Pannella, Marco Paolone, Benito Papi, Giuseppe Ugo Papini, Giovanni Parea, famiglia Parenti, Tiziana Pareto, Vilfredo Parisi, Savino Pascoli, Giovanni Patton, George Smith Pavese, Cesare Pavolini, Alessandro Pecchioli, Ugo Pellico, Silvio
Pennino, Vincenzo Guglielmo Perdomi, Tommaso Perelli, famiglia Perelli, Luciano Perenni, Luigi Petacci, Claretta Pétain, Henri-Philippe-Homer Petrarca, Francesco Petruzzelli, famiglia Pettinato, Concetto Philips, D.F. Picasso, Palo Piero, Piero Pieroni, Anja Pietra, Italo Pignatelli, famiglia Pio XI, papa Achille Ratti Pirelli, Alberto Piromalli, clan Pisano, Giorgio Pisone, Marco Pivetti, Irene Plutarco Pollastri, Sante Pound, Ezra Previti, Cesare Preziosi, Giovanni Prezzolini, Giuseppe Primo de Rivera, José Antonio Prodi, Romano Putnam, Robert D. Rahn, Rudolf von Tremaglia, Mirko Trotskij, Lev Davidovic Tullio Altan, Francesco Turin, professore Tuti, Mario Umberto I di Savoia, re d'Italia, Umberto II di Savoia, re d'Italia, Urso, Adolfo Valletta, Vittorio Veneziani, Marcello Venturi, Franco Vico, Giambattista Vidussoni, Aldo Villaggio, Paolo Virgilio, Antonio Visconti Venosta, Emilio Vittorini, Elio 94
Vittorio Emanuele II di Savoia, re d'Italia Vittorio Emanuele III di Savoia, re d'Italia, Volpe, Gioacchino Wagner, Richard
Webb, Beatrice Webb, Sidney Weininger, Otto Zagrebeisky, Gustavo Zangrandi, Ruggero Zdanov, Andrej Aleksandrovic
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