Alan Campbell
IL DIO DELLE ANIME
Traduzione di Gianluigi Zuddas
Le porte dell'Inferno sono state aperte e un esercit...
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Alan Campbell
IL DIO DELLE ANIME
Traduzione di Gianluigi Zuddas
Le porte dell'Inferno sono state aperte e un esercito di creature spaventose, guidate dal perfido Menoa, ha distrutto la città sospesa di Deepgate. Quando anche Coreollis cade sotto i colpi delle inarrestabili armate del Signore del Labirinto, l'esito della guerra tra gli dèi di Sabbiemorte sembra ormai segnato. Eppure l'ex assassina Rachel Hael è decisa a tentare tutto il possibile per rovesciare le sorti del conflitto e per questo coinvolge la maga Mina Greene e il dio Hasp in una missione disperata: raggiungere il dio degli orologi nella sua roccaforte e, col suo aiuto, convincere le forze del Paradiso a combattere al loro fianco. Tuttavia Rachel si ritroverà ben presto a doversi difendere non soltanto dai dodici arconiti di Menoa - enormi automi che le stanno dando la caccia ma persino dallo stesso Hasp, in cui è stato impiantato un parassita che lo obbliga a obbedire agli ordini del nemico. Schiacciata dal sospetto e dalla diffidenza, Rachel teme che sia giunto per lei il momento dell'estremo sacrificio, nella speranza che il gigante John Anchor riesca a trascinare la nave di Cospinol, il dio della nebbia, proprio là dove Menoa si sente più al sicuro: nell'abisso dell'inferno...
PROLOGO PREPARATIVI PER UN BANCHETTO ........................................5 1 TRE ORE PRIMA ................................................................................. 13 2 PARTENZA ......................................................................................... 23 3 IL PORTALE ........................................................................................ 41 4 I BOSCAIOLI ....................................................................................... 63 5 LA PRINCIPESSA................................................................................. 88 6 IL FIUME DEI DIFETTOSI .................................................................. 114 7 SOTTO L'INFERNO ........................................................................... 137 8 ACQUARDENTE ............................................................................... 156 9 IL CASTELLO DEL DIO DEGLI OROLOGI ............................................ 194 10 CAMBIAMENTO NEI PIANI ............................................................ 224 11 CARNIVAL E MENOA ..................................................................... 251 12 I SOMBRECUR ............................................................................... 287 EPILOGO............................................................................................... 321
Ringrazio Simon, Peter, Juliet e David A un ragazzo fu dato un enigma, e gli fu detto che, se avesse trovato la risposta, avrebbe compreso i segreti al cuore dell'universo e così conosciuto Dio. L'enigma era questo: Un uomo e la sua novella sposa si allontanano dall'altare della chiesa, tenendosi per mano nella navata centrale, e giungono alla porta nello stesso momento. Durante quel breve percorso, chi di loro ha camminato per la distanza maggiore? Scribacchiato dalla mano mozza di Polonius Codice Deepgate, cap. 339 Mentre agonizzavo su quel campo di battaglia, fui aggredito dalle zecche. Avevo ancora abbastanza forza da strapparmi via di dosso quei corpiciattoli, ma le loro teste rimasero nella mia carne, e sopravvissi, così le mie ferite si chiusero sopra quelle teste che ora sono parte di me per sempre. Il Racconto di Tom Granger Codice Deepgate, cap. 88322
PROLOGO PREPARATIVI PER UN BANCHETTO
Nella buia stiva della grande nave volante di Cospinol stavano bollendo una semidea. Le avevano spezzato le ali e le gambe col martello per farla entrare nel paiolo di ferro, una sfera delle streghe rafforzata per resistere all'alta pressione del vapore. Il contenitore era fissato in una grande morsa sopra un braciere. Un tubo di piombo introduceva acqua fenica da un'apertura nei pannelli del guscio. Un altro tubo convogliava lo spirito della semidea in un condensatore di vetro, dove sarebbe stato conservato. Per cinquanta giorni gli schiavi avevano pompato acqua e rifornito il braciere, mentre le loro ombre incombevano alte sopra di essi come in un infernale teatrino di marionette. Secoli di calore avevano annerito il pagliolato dietro il bollitore e i suoi tubi. Il vapore scaturiva dalle valvole corrodendo quelle paratie incatramate, ma i manovali non sudavano e non si lamentavano. Si muovevano con la muta efficienza di chi è abituato a quel lavoro da molto tempo. Tutt'intorno la Rotsward beccheggiava e cigolava, mentre le giunture venivano duramente messe alla prova dalla disperata fuga del suo comandante verso occidente. Gli schiavi scrutavano preoccupati lo sfavillante fluido che si radunava nella fiasca di condensazione come un estratto di luce stellare, ribolliva contro il vetro e ricadeva giù tra furiose vampe di scintille. Il fluido mormorava con voci venate di follia. Loro andavano a controllare la tenuta della vecchia morsa ogni volta che il paiolo sferico sussultava di tonfi. Il giorno addietro avevano riportato lì i martelli sistemandoli sul pagliolato, dove avrebbero potuto essere raggiunti in fretta e usati come armi, per quanto inefficaci. Poi avevano aggiunto altro carbone e ravvivato il braciere pompando aria coi mantici. I tonfi sordi si erano intensificati, mentre Carnival continuava a scalciare all'interno della sua prigione pressurizzata. Un ragazzo dalle dita uncinate osservava il processo di bollitura da un buco del soffitto presso una trave, dove la sua faccetta rossa si confondeva tra le ombre fumose. Perché la semidea non moriva? Lui non aveva mai visto i lavoranti di Cospinol darsi tanto da fare per bollire qualcosa. Solo dopo che tutta quella luce le fosse gorgogliata fuori del corpo avrebbero fatto 5
uscire l'acqua dalla sfera, e a lui sarebbe stato permesso di riempire la sua pentola. Quella piccola pentola annerita era una delle sei cose che ancora non gli erano state rubate, e lui la guardò con mestizia. Anche quel giorno era tristemente vuota. Il ragazzo rimase lassù ancora un poco, quindi incise un'altra linea verticale nel legno della trave e cancellò quell'ultima serie di sette linee con un lungo segno diagonale. Poi si voltò e scese di nuovo dall'apertura da cui era entrato. Il fumo della città in fiamme sotto la nave volante penetrava liberamente nel tartassato scafo di legno. Le correnti d'aria la sballottavano senza requie. Rullava e scricchiolava come se non le mancasse molto prima di sfasciarsi. Il ragazzo canticchiò il ritornello di una marcia militare che aveva udito una volta, ripetendo più volte le stesse note solo per non dover ascoltare quei rumori allarmanti. Sbatté le palpebre e si sfregò gli occhi con una manica. La sua camicia puzzava di zolfo. Continuò a strisciare avanti, inoltrandosi in un labirinto di sudici passaggi e condutture. Più verso prua due voci stavano parlando in tono pressante: il dio della salsedine e della nebbia e una donna dallo strano accento morbido. Il ragazzo dalle dita uncinate aggirò un angolo e trovò un posto da cui poteva guardare in basso attraverso uno dei molti squarci delle paratie. «... l'assassina ha visto tutto», stava dicendo Cospinol. «Coreollis è rasa al suolo. Il palazzo di Rys è stato ridotto in cenere da un cataclisma sconosciuto. E i miei fratelli sono morti o stanno semplicemente macchinando qualcosa?» Andava avanti e indietro lungo una fila di finestre sul lato più lontano della vasta cabina, e la sua armatura di gusci di granchio sferragliava a ogni passo. Lunghe ciocche di capelli color guano, scostate indietro dal suo nobile viso, ondeggiavano nello spazio vuoto tra le ali. Dietro di lui le finestre incorniciavano solo uno sfondo di nebbia, su cui si stagliavano i vaghi profili delle forche della Rotsward. «Ormai tutti gli uomini del Nord di Rys sono stati ammazzati, o sono fuggiti, persino i fuoricasta di Pollack. La guerra è finita quando re Menoa ha sguinzagliato i suoi arconiti.» La voce femminile rispose: «La guerra non è finita, nobile Cospinol. Abbiate fede nella provvidenza». Il ragazzo dalle dita uncinate cambiò posizione sul foro per vedere chi aveva parlato. Giusto sotto il suo nascondiglio sedeva una donna vestita di un abito grigio, col cappuccio, che si stringeva al petto un cagnolino ossuto 6
con le mani guantate di rosso. Ma, quando il ragazzo guardò meglio, si accorse che quelli non erano affatto guanti rossi: la donna aveva la pelle di scaglie vitree trasparenti. Una strega mesmerista? Cospinol smise di andare avanti e indietro e la sua smorfia espresse contrarietà per quella frustata verbale al suo orgoglio. «La provvidenza di chi? Quella di mia madre Ayen? O ti riferivi ai miei introvabili fratelli? Sono davvero crepati tutti, o ne stanno studiando una delle loro? Ma questo poco importa. Mirith è un pazzoide codardo che di guerra non capisce niente. Rys, Hafe e Sabor hanno qualche capacità sul campo di battaglia, ma erano tutti nel palazzo di Rys quand'è stato distrutto. Con ogni probabilità le loro anime ora stanno vagando nell'Inferno. E Hasp non ci serve a niente.» Guardò sulla destra della donna. «Lo dico senza offesa, Hasp.» Dalla sua posizione, il ragazzo non poteva vedere il terzo occupante della stanza, ma la sua risposta suonò ruvida e fiera. «Io so benissimo quello che valgo per te, Cospinol.» Anche la donna si voltò verso chi aveva parlato, poi riportò lo sguardo sul vecchio dio del mare. «Mi riferivo alla vostra provvidenza, nobile Cospinol. Voi dovete prendere il controllo di questa situazione troppo fluida. Molti uomini del Nord di Rys sono fuggiti dal campo di battaglia, a Larnaig. Le truppe di Hafe sono rimaste senza un capo e ci sono soldati sparsi ovunque. Decine di migliaia di uomini, armati e pronti a combattere.» Cospinol allargò le braccia. «A quale scopo? Gli arconiti di Menoa non possono essere uccisi. Questo abbiamo dovuto impararlo a Skirl.» «Se non li reclutate voi, lo farà certamente Menoa.» Lui sbuffò. «Menoa vuole soltanto disperderli o ammazzarli.» «Non è così sciocco. La scomparsa di Rys ha privato quei guerrieri del loro capo, del loro scopo e della loro paga. Come possono procurarsi i soldi per nutrire le loro famiglie?» «Credi davvero che quei soldati siano disposti a tradire per combattere al servizio del loro nemico giurato?» «Lo faranno, se non vogliono morire di fame.» Lei depose al suolo il cane, che pisciò e si voltò ad annusare la pozzanghera giallastra. «Menoa usa la menzogna e la persuasione sulla gente. All'Inferno ha usato la morte per i suoi scopi, e in questo mondo farà lo stesso. Nobile Cospinol, se non vi sbrigate a reclutare quegli uomini, il re degli arconiti presto ne farà un esercito appiedato ai suoi ordini. Noi non abbiamo bisogno di altri nemi7
ci.» Il re del mare scosse il capo. «Come ci si può aspettare che io mantenga un esercito? Quella gente divorerà le scorte della Rotsward come un'invasione di cavallette, e svuoterà i miei forzieri. E, quando avranno consumato l'ultimo torsolo di cavolo e l'ultima moneta d'oro, cominceranno a cercare le perle animate, credimi sulla parola.» Fece una breve risata amara. «E secondo te dovrei assoldare quei mangiapane a ufo solo per impedire che siano usati contro di me... legioni di combattenti del tutto inutili contro i miei veri nemici?» «Loro non sono in grado di sconfiggere gli arconiti, ma possono comunque battersi.» «Battersi contro chi?» esclamò lui. Il cane della strega guaì, strusciandosi contro le sue gambe. Lei lo riprese in braccio. «Visto che siamo sconfitti, mal equipaggiati e attualmente in fuga per salvarci la vita, io propongo di attaccare un nemico diverso.» Cospinol si limitò a fissarla con occhi inespressivi, ma dal fondo della cabina giunse una risata roca. Il ragazzo non poteva vedere il terzo occupante, Hasp, ma sentì la sua voce profonda muggire: «Penso di aver capito dove vuoi arrivare. Ah, Mina, tu ci offri una fine che passerà alla storia!» La conversazione proseguì, ma al ragazzo non interessava più. Aveva visto uno scarafaggio che zampettava lungo un'umida passerella di legno. Puntò intorno a esso le sue dita d'acciaio e lo chiuse in gabbia. Lo scarafaggio esaminò la prigione. Il ragazzo guardò le antenne che si muovevano e il frenetico movimento delle zampe. Lo raccolse e lo mangiò, poi tornò verso la parete del passaggio e cominciò a incidervi un labirinto. Infine, stanco anche di quello, si calò giù per una conduttura mezza marcia e nella penombra più fitta uscì da un foro irregolare il cui bordo gli procurò un altro strappo nelle braghe di tela da vele. Trovò Monk ad aspettarlo in una stretta intercapedine tra lo scafo interno e quello esterno della Rotsward, dilaniato dalle palle di cannone. Monk affermava di essere un astronomo, ma indossava una vecchia uniforme da moschettiere e aveva l'aspetto lugubre di un becchino. Strisciò in avanti sulle ginocchia rognose che sbucavano dagli strappi nelle braghe come teste di mummie appena disseppellite. Aveva occhi bulbosi e umidi come quelli di un rospo, e le pupille nere tremarono nel frugare tra le ombre. Tra le mani stringeva una ciotola e un cucchiaio di legno. «Chi è là?» disse. «Sei tu, ragazzo? Non nasconderti nel buio. Dov'è la mia zuppa?» 8
Il ragazzo scrollò le spalle. «Lei non è ancora bollita.» «Dopo venti giorni?» «Cinquanta giorni. Sta ancora scalciando dentro il calderone.» Monk si accigliò e depose ciotola e cucchiaio. «Potresti ammazzare un gabbiano per me», mugolò. «Qui non ci sono gabbiani. L'aria è troppo piena di fumo. C'è gente però, giù sul campo di battaglia e in città. Si sentono le loro voci dalla stiva inferiore.» «Non voglio scendere in quelle stive e non voglio sentire quel gracidio di uccelli», disse Monk. L'astronomo era stato morto per centocinquant'anni, o così diceva. Non aveva nessuna intenzione di tornare nelle stive della Rotsward, mai più. Non dopo tutto il tempo che era rimasto laggiù appeso a una forca accanto a quel piagnucoloso filibustiere di Cog. D'altra parte, se fosse uscito all'esterno, lo avrebbero messo ai ceppi. Era meglio che se ne stesse nascosto, zitto zitto e senza farsi notare, e che lui e il ragazzo si dividessero gli scarafaggi e le uova di uccelli che trovavano in giro. Ma Monk non trovava mai né uno scarafaggio né un uovo. Non si allontanava mai dal nascondiglio, fuorché per calarsi nel grosso squarcio dello scafo dove teneva il moschetto e un vecchio cannocchiale ammaccato. Monk seguì lo sguardo del ragazzo. «Non c'erano stelle la notte scorsa.» «Forse non c'è più nessuna stella», replicò lui. «Forse sono cadute tutte, come Cospinol. Cosa succederebbe se ora Pandemeria fosse piena di dèi, e il suo cielo fosse rimasto nero e vuoto?» «Io non credo che siamo ancora in Pandemeria. L'ultima volta che ho visto il mondo è stato quando mi hanno staccato dalla forca per mandarmi a combattere, a Skirl.» Il suo sguardo andò fuori fuoco, perdendosi tra i ricordi. «Avevano bisogno di noi veterani per affrontare il primo gigante del re del Labirinto. Libertà garantita per tutti quelli che avrebbero preso le armi contro quella cosa», continuò, imitando il tono saccente di chi lo aveva arruolato. «'Niente più frustate o impiccagioni, e questa è una promessa.'» Sputò in terra. «Per quello che è servito, poi! Non si può uccidere una cosa che non può essere uccisa. E in quella dannata nebbia non riuscivamo neppure a vederlo abbastanza da sparargli addosso.» Monk era stato in Pandemeria durante la rivolta, in forza ai Moschettieri di Shelag Benedict Cooper. Diceva di aver letto le stelle su richiesta della stessa Shelag, e anche di aver ammazzato parecchi mesmeristi. «Non ho mai più visto una so9
la stella, da allora. Dopo morti, nessuno di noi poteva uscire dalla nebbia senza finire nell'Inferno. Abbiamo cominciato a svanire non appena ci hanno calato giù dal ponte della Rotsward e, quando i nostri piedi hanno toccato terra, non eravamo altro che fantasmi sul campo di battaglia, spiriti che si trascinavano dietro moschetti troppo pesanti per le nostre mani. Intorno ai calcagni dell'arconita di Skirl eravamo meno efficaci di una scoreggia.» «Questo perché Cospinol aveva mangiato le vostre anime immortali?» Monk annuì. «Sì. E mi ha rubato perfino le stelle.» «Io però non voglio andare via. Mi piace, qui», disse il ragazzo. «Ti piace tormentare il dio della salsedine. Se ti prende, ti taglierà la testa.» Lui si limitò a sogghignare. «Allora mi farò crescere una testa nuova, una di metallo.» Monk sospirò. «Mutaforma! Voialtri credete di poter fare tutto quello che vi pare. Come riuscirai a farti crescere una testa nuova, se non avrai più la mente per immaginarne la forma, eh? Non è come farsi quelle buffe dita che ti sei fatto.» Mosse la mano come un'ascia che si abbatte sul ceppo. «Uno shnick tra capo e collo, e quella sarà la tua fine. Cospinol non si preoccupa di perdere un'anima nel Labirinto, quando ne ha già tante che penzolano dalle sue forche.» Il ragazzo si strinse nelle spalle. A quello non aveva pensato. «Non vedo perché non potresti cambiare te stesso in qualcosa di utile, per una volta. Qualcosa che aiuti il tuo vecchio amico Monk a passare il tempo.» L'astronomo strinse gli occhi, e le pupille s'indurirono come punte crudeli nel regno della notte. «In una spada, magari... o in qualcosa di morbido, come un bel materasso.» «Io non faccio la spada-mutaforma! Non sono come gli altri», gridò il ragazzo. Il vecchio si mordicchiò un labbro. «No, è vero, tu sei un bravo ragazzo che porterà al suo amico Monk una pentola di zuppa. Solo che qui non c'è nessuna zuppa, perché quell'angelo sfregiato non vuole morire dentro il paiolo. Cinquanta giorni? Cosa diavolo c'è che non va in lei?» Guardò il ragazzo. «Ehi... non è che mi stai prendendo in giro?» «No.» «Tu non mentiresti al tuo vecchio amico Monk, vero?» 10
«No.» «Allora non hai niente in contrario se andiamo là a dare un'occhiata insieme?» «Ma...» Al ragazzo occorse un momento per riordinare i pensieri aggrovigliati. «Tu non vai mai da nessuna parte.» «Ed era su questo che contavi?» Il vecchio lo afferrò per la collottola e lo trascinò dentro, sul pagliolato in pendenza dell'intercapedine tra gli scafi. I capelli grigi gli ondeggiavano intorno al viso come una selvaggia matassa di fil di ferro. In preda al panico, il ragazzo cominciò a cambiarsi in qualcos'altro, neppure sapeva cosa, ma sentì che le sue ossa facevano resistenza. Monk gli mollò un ceffone. «Non provarci. Tu terrai la dannata forma con cui sei nato, una volta tanto.» Lo shock di quell'ammonizione svuotò la mente del giovane mutaforma. Si aggrappò alla paratia interna, affondando nel legno le dita uncinate. Ma Monk gli impedì d'inerpicarsi e s'incamminò nella stretta intercapedine, spingendolo davanti a sé come un mucchio di stracci. «Da che parte, adesso? A babordo o a tribordo?» Non sapendo il significato di quelle parole il ragazzo girò a sinistra, e da lì si trascinarono avanti strisciando rumorosamente a quattro zampe. Quando giunsero sopra la cambusa, Monk spinse da parte il ragazzo e guardò giù attraverso un foro. I bottoni d'ottone sulle sue spalline luccicarono nei riflessi del braciere sottostante, e il suo naso a uncino si arrossò come il tappo di una botte illuminato da una torcia. Ciò che vide lo lasciò ammutolito. Il ragazzo guardò la pentola che aveva lasciato appesa a un chiodo, sopra il foro, e spostò di nuovo lo sguardo sull'astronomo. Monk corrugò le sopracciglia. «Una sfera delle streghe. E l'hanno rinforzata. Le sfere delle streghe non si possono aprire dall'interno, e non si rompono. Sono state fatte per contenere un mondo di tormenti.» Il suo cipiglio si accentuò. «Allora perché prendersi il disturbo di rinforzarla?» Dalla cambusa sotto di loro provennero tonfi violenti. Dal foro scaturì vapore. L'astronomo si ritrasse d'istinto. «Ecco perché l'hanno fatto», disse il ragazzo. Monk osò gettare un altro sguardo tra le ombre rossastre. «Quella continua a tirare calci, come un feto nell'utero.» «Te l'avevo detto.» 11
Il vecchio si asciugò la fronte bagnata dal vapore. Con espressione cupa si sporse a scrutare ancora l'insolito paiolo. «Le ganasce della morsa sono state chiuse intorno ai due pannelli forati, da cui passano i tubi, per tenerli a posto, ma vedo che le saldature intorno ai due fori toccano anche i pannelli superiori, e questo non va bene. Le sfere delle streghe non possono essere saldate. Quella ha un punto debole. Vieni qui, ragazzo, che ti faccio vedere.» Il ragazzo gli obbedì. Guardò la sfera delle streghe fissata nella grossa morsa sopra il braciere, le braci incandescenti, i volantini girevoli delle valvole e l'insieme di tubature di ferro che perdevano vapore da ogni giuntura. Gli schiavi di Cospinol stavano spalando carbone e pompando aria coi mantici di cuoio. Nella fiasca di condensazione ribolliva una luce bianca che creava lunghe ombre meccaniche sul pavimento. «Quelle piastre sono tenute insieme da bulloni passanti, e i dadi filettati sono saldati alle flange. Ma le teste dei bulloni sono libere, e con questo vapore le giunture stanno già facendo la ruggine. Un buon colpo di martello potrebbe spaccare quelle flange.» «Ma poi lei uscirebbe.» Monk guardò ancora la sfera delle streghe per un lungo momento, mordicchiandosi le labbra. «La sfera perderà liquido, abbastanza da permetterci di riempire la nostra pentola, prima che gli schiavi la rinforzino di nuovo. Non succederà altro.» Poi scrollò le spalle. «Ma, se quella uscirà, allora uscirà.» Fece un sogghigno. «In ogni caso, questo non sarà un problema nostro.»
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1 TRE ORE PRIMA
Dodici arconiti erano stati mandati nel mondo dalla Nona Cittadella dell'Inferno, e vi avrebbero fatto ritorno solo al seguito di tutta l'umanità. La terra tremava e s'irretiva di crepacci sotto l'ossatura di ferro dei loro piedi. Motori ruggivano nelle loro teste e dentro le loro gabbie toraciche corazzate, ancora fumanti di vapori dopo l'uscita da quel portale. Sul campo di battaglia, a Larnaig, essi avevano stritolato gli uomini del Nord di Rys, e poi si erano mossi verso Coreollis, per sfondare le porte di quella malridotta città. Angeli-ombra dalle gambe sottili li avevano seguiti sulle pianure ondulate di terra scura, cosparsa di sterpi, e avevano bruciato foreste e paludi cosparse di cadaveri. Le articolazioni delle ali si stagliavano nere sul cielo sanguigno del crepuscolo, e i raggi del sole morente balenavano attraverso le immense forme meccaniche come all'avvicinarsi dell'apocalisse. Sulle mura della città, i difensori rimasti fedeli a Rys caricarono le catapulte e spostarono più all'interno le loro macchine da guerra di legno. Proiettili infuocati colmi di zolfo volarono in lunghe parabole contro i giganti, solo per rimbalzare sui loro scudi e ricadere in una mortale pioggia di fiamme gialle sulle case dove si nascondeva la gente inerme. Ma la battaglia era già stata combattuta e persa a Larnaig, e quegli edifici condannati ora ospitavano solo orfani e vedove. Fu così che, in un oceano di bagliori rossastri e trascinandosi dietro catene di zolfo fumante nelle strade di Coreollis, i dodici conversero sul palazzo di un dio assediato. Le facciate delle case andavano in pezzi contro le loro tibie e i tetti esplodevano in vortici di travi. I camini precipitavano nei cortili, e cascate di tegole scivolavano giù a fracassarsi sul selciato, mentre nubi di polvere gialla e marrone si mescolavano ai fumi di zolfo. Mezza lega più a oriente della città, Rachel Hael era salita sul bastione di una fortezza abbandonata che troneggiava in cima a un dosso. Erano stati gli uomini di Rys a costruirla con tronchi d'albero e argilla un'eternità di tempo addietro, a sorveglianza della Strada Rossa, e le teste dei traditori pandemeriani e dei demoni mesmeristi ornavano ancora le cime appuntite 13
della palizzata intorno al cortile. Rachel aveva deposto la sua cena a base di pane, burro e frutta su una panca dietro la balaustra di legno. Con una mela stretta fra i denti, la bionda assassina alzò il cannocchiale per guardare nella direzione dove stavano guardando gli occhi morti di quelle macabre sentinelle fisse sulla cima dei pali. Scrutò la strada il cui suolo era diventato nero sotto gli stivali corazzati delle legioni di re Menoa, e poi girò le lenti sulle acque rosate del lago Larnaig. Boschetti di cipressi bianchi costellavano la frastagliata linea costiera come padiglioni d'argento. I loro antichi tronchi si affollavano in file di ombre rosse. A oriente le curve d'acciaio della ferrovia di Skirl luccicavano come mercurio sotto un cielo d'inchiostro. La ferrovia attraversava un assembramento di locande e casupole bruciate sulla riva settentrionale, e terminava al molo di Larnaig. Un tempo la nave a vapore Sally Broom aveva portato il trattato di pace di Menoa verso la stessa banchina di pietra. Ora il tartassato vascello giaceva all'estremità di un profondo crepaccio nei campi di Larnaig, a trecento passi dal punto dov'era stato scaraventato. Oltre il lago, il Massiccio di Moine era velato da fasce di foschia azzurrina, da cui emergevano sporgenze coniche e seghettate come torri di templi. Una nebulosità più vicina e meno naturale avvolgeva una distesa di boschi appena mezza lega a nord-ovest, a indicare la posizione della nave volante di Cospinol che stava fuggendo da Coreollis. Per un lungo momento Rachel guardò allontanarsi l'involucro stregato che avvolgeva la Rotsward, poi girò il cannocchiale verso occidente. Laggiù i campi di Larnaig erano costellati di cadaveri e innumerevoli pezzi di cadaveri, sia umani sia mesmeristi. Quelle povere cose bruciate coprivano il terreno riarso come fossili di uomini e bestie riportati alla luce da un improvviso cataclisma. Strisce di fango scuro collegavano un teatro di violenza all'altro, dando l'impressione che la superficie del mondo fosse diventata vecchia e sottile. Il vento trascinava la polvere attraverso raggi di ruote metalliche, spadoni, lance e alabarde, scudi, accette e mazze ferrate ancora strette in guanti di lamiera o artigli. E la polvere si depositava sulle orbite nude e sui denti scoperti, su gabbie di costole arrostite e resti di carne dura come il cuoio. Ovunque giacevano pezzi di motori: bulloni, catene, ingranaggi, flange e fil di ferro, il tutto incrostato dall'olio minerale scuro che impregnava il suolo. Resti di armature d'acciaio e cotte di maglia luccicavano appena tra elmi ornati di piume bianche e azzurre, mucchi di luridi stracci e ammassi di budella. Buona parte del campo di battaglia era costellata da carogne di cavallo, 14
cani da guerra macellati, sciacalli dalla lingua rosa e nera, frammenti di macchine da assedio corazzate e mucchi di guerrieri dalle labbra bluastre sui cui occhi incrostati di fango ronzavano le mosche. Rachel mangiò un boccone della sua mela. Il portale da cui Menoa era sbucato dall'Inferno era un cratere rossastro nel mezzo di quell'immenso cimitero, ma il suo perimetro stava già cominciando a disseccarsi e restringersi come una ferita in via di guarigione. Presto si sarebbe richiuso completamente. Oltre centomila guerrieri erano morti per aprire quel varco. Dodici arconiti avevano risucchiato fuori di lì tutta la loro potenza. Il fumo delle case bruciate di Coreollis fluttuava attraverso le ossa di quei terribili giganti, che avevano ormai raggiunto il palazzo. Il più grande di essi oltrepassò la scalinata alta sessanta piedi nel cortile anteriore, e abbassò lo sguardo sulle candide torri e sulle verande dal tetto rosa tra le mura della residenza assediata del dio. Gli altri restarono indietro, ignorando le fiamme che lambivano loro i polpacci e le estremità inferiori delle ali, sottili e luminose come una pioggia primaverile. Nugoli di scintille li tormentavano con l'insistenza di vespe. Il primo degli arconiti si chinò a raccogliere qualcosa dal cortile e lo esaminò. Rachel cercò di mettere a fuoco l'oggetto, ma il gigante l'aveva già schiacciato e lasciato cadere. L'arconita attese. Dodici sacerdoti guardavano attraverso gli occhi di quei dodici ambasciatori privi di mente forgiati nel Labirinto, proprio come Rachel guardava col suo cannocchiale. Lei si aspettava che Rys contrattasse per la sua anima. Ma cosa avrebbe potuto offrire il re dei fiori e dei coltelli che re Menoa non potesse prendersi con la forza? Sicuramente ciò che doveva succedere non sarebbe stato deciso lì, in quel mondo. L'assassina staccò un altro morso dalla sua mela, poi rimise a fuoco il cannocchiale ed esaminò le finestre del palazzo fortificato in cerca di qualche segno di vita. Il suo stretto campo visivo era pieno di fumo. Abbassò lo strumento in tempo per vedere a occhio nudo numerosi proiettili incendiari sorvolare i tetti di Coreollis in lunghe curve fumanti. Sulle mura della città i difensori rinnovavano i loro tentativi, col vigore di chi aveva ormai abbandonato ogni speranza di salvare le proprie case. I proiettili esplosero sugli arconiti. Ci fu una serie di vampe e poi giunse il rumore delle esplosioni come un rapido crepitio, cui seguì il silenzio. La brezza trascinò via gli sbuffi di fumo solforoso. 15
Rachel sputò un seme di mela. Uno degli arconiti stava bruciando. Il colosso restò dov'era, con le orbite cavernose fisse sul palazzo di Rys. Immobili intorno a lui, gli altri torreggiavano sull'edificio, minacciosi come spoglie fortezze metalliche. Rachel udì un nitrito e, voltandosi verso il cortile, vide che il suo cavallo tendeva la cavezza e scalpitava come un padrone spazientito che pretendesse attenzione. Lei si portò un dito alle labbra, poi lo abbassò con un gesto secco e scosse il capo. Cavalli. Quell'animale era appartenuto ai cavalieri Heshette, che l'avevano tenuto molto male riducendolo a un povero essere tutt'ossa con una lurida sella di stoffa, quando lei se l'era preso. Tuttavia, nonostante le sue misere origini, roteava ancora gli occhi con innato timore della Spina. Aveva riconosciuto in lei una degli assassini del tempio di Deepgate. A ogni passo sulla strada che li aveva condotti fino a quella fortificazione si era ribellato alle redini, e per due volte era quasi riuscito a disarcionarla. Lei masticò un ultimo boccone di mela, poi scagliò il torsolo verso la povera bestia. Un improvviso mutamento nella luce del sole riportò l'attenzione dell'assassina della Spina sul palazzo di Rys. Undici degli arconiti di Menoa stavano indietreggiando, e le loro ali ondeggiavano nel crepuscolo come larghe vele traslucide. Il primo e più grande di loro, invece, s'inginocchiò davanti alla fortezza del dio come in atto di supplica. Rachel puntò di nuovo il cannocchiale sull'edificio. Sul balcone più alto c'era una figura dalle ali bianche, chiusa in un'armatura di lucido acciaio. Portava un mantello di rose cresciute sui campi di battaglia, rosse come i fiori che crescevano nei vasi disposti lungo la balaustra intorno a lui. La porta alle sue spalle era spalancata, e i cristalli riflettevano mille barbagli azzurri. Rys era uscito a supplicare per la sua vita. Rachel vide che il dio gesticolava irritato, ma anche con l'ingrandimento al massimo le lenti non le permisero di leggergli le labbra. Qualunque cosa stesse dicendo al gigante inginocchiato, lei non ebbe modo di capirlo. Ma dopo un momento la risposta dell'arconita risuonò nel cielo, come un tuono che uscisse da tutte le tombe del mondo: «Re Menoa rifiuta la tua proposta, nobile Rys, perché sospetta che le anime dei tuoi fratelli non ti appartengano e tu non abbia facoltà di barattarle. Inoltre il re esige che essi si presentino dinanzi a questi dodici ambasciatori, come segno di buona 16
volontà. Il Signore del Labirinto è magnanimo. Lui non punirà avversari così meritevoli. Richiede soltanto che tutti i figli di Ayen entrino nell'Inferno prima che il portale scompaia. Come ospiti della Nona Cittadella vi saranno risparmiati gli orrori del Labirinto, e non vi sarà negato nessuno dei suoi piaceri». Il tono dell'arconita era un artificio, poiché esso non poteva parlare come gli uomini. La voce usciva da una laringe metallica, e comunque i pensieri che stavano dietro quelle parole venivano dalle profondità di una Cittadella costruita sotto un altro cielo. I fratelli di Rys cui si riferiva erano Mirith, Hafe e Sabor. Rachel non era affatto sorpresa che il dio dei fiori e dei coltelli avesse cercato di vendere i suoi consanguinei, né che re Menoa fosse disposto a offrirgli salva la vita. Se i figli di Ayen fossero stati uccisi in quel mondo, le loro anime sarebbero andate perdute nelle infinite distese dell'Inferno. Evidentemente il re li voleva molto più a portata di mano. Rys doveva aver riconosciuto quell'offerta per la menzogna che era. Voltò le spalle all'arconita e guardò la porta aperta del balcone. Rachel riuscì a vedere che nell'interno dell'edificio c'era un altro dio, una figura in armatura identica a quella di Rys. Ma avrebbe potuto essere soltanto il suo riflesso in uno dei battenti di vetro. Rys inclinò la testa. Il suo mantello di rose si sollevò, agitato dalla corrente d'aria surriscaldata che saliva dalla città in fiamme. All'improvviso lasciò il balcone e rientrò nei suoi appartamenti. Poi, non appena il bordo esterno del sole toccò l'orlo del mondo, il palazzo implose, trasformandosi in un vortice di polvere bianca dinanzi al grande osservatore inginocchiato. Le mura e le torri di guardia tremolarono come fantasmi prima di perdere la forma solida, e cominciarono a disperdersi nel vento. Rachel spalmò il burro su una fetta di pane. Quello che aveva visto era davvero l'ultima azione degli dèi nel mondo degli uomini? Quelle divinità, che gli ignoranti dicevano essere stelle cadute, a lei era parso che sacrificassero le loro anime troppo facilmente. Sentiva che lì c'era un trucco. Il riflesso di Rys da lei visto le aveva dato un'impressione... strana. Ciò la preoccupava, anche se non avrebbe saputo dire esattamente perché. Che Cospinol l'avesse mandata lì, dalla sua nave volante chiusa nella nebbia, proprio allo scopo di assistere a quella scena? L'arconita inginocchiato si alzò e raggiunse i suoi undici compagni. Fuochi di zolfo si erano appiccicati alle caviglie di due dei grandi automi, 17
che tuttavia non ne parvero affatto preoccupati, forse perché inconsapevoli di quelle fiamme. I dodici si voltarono a nord incamminandosi verso le mura di Coreollis, sopra le quali la nebbia di Cospinol raccoglieva gli ultimi raggi del sole. Re Menoa aveva finalmente deciso di occuparsi della Rotsward. Rachel si ficcò in bocca ciò che rimaneva della fetta di pane, mise nella borsa il resto del cibo, scese dalla palizzata lungo la scala di legno e un'altra rampa di scalini la portò nel cortile, dove tolse dal gancio le redini del suo cavallo. L'animale cercò di morderla, ma lei gli sgusciò accanto al collo, lo afferrò per la criniera, infilò un piede nella staffa di corda e montò in sella. Poi colpì coi talloni i fianchi della bestia, che nitrì e si spostò di lato. «Muoviti.» Il cavallo scalpitò con uno zoccolo, sbuffando. Lei lo frustò con le redini. «Muoviti.» Il quadrupede cominciò a spostarsi all'indietro. «Vai. Muoviti. Avanti, testardo di un Heshette...» Lo incitò ancora coi talloni, energicamente. «Tu capisci gli ordini che sto cercando di darti. Ha!» Il cavallo trotterellò verso il cancello della fortezza. Ma il tempo giocava contro di lei, perché gli arconiti avevano adesso la sua stessa destinazione e le vedette di Cospinol dovevano essersene accorte. Per raggiungere la Rotsward prima dei loro nemici lei avrebbe dovuto viaggiare in fretta. Spronò il cavallo al galoppo e si tenne salda, consapevole che stava rischiando la pelle. L'animale si precipitò giù lungo il fianco del dosso, scaraventando in aria con gli zoccoli zolle di erba fangosa, mentre Rachel faticava a tenere stretto fra le ginocchia il suo dorso spelacchiato. Il sentiero girava intorno a un monticello conico, ciò che restava di una vecchia fortificazione ora coperta di betulle e sterpi anneriti, e più avanti s'immergeva in un oscuro tunnel vegetale che attraversava la boscaglia, già invasa dalla nebbia. Nonostante i loro passi lunghi e lenti, gli arconiti si spostavano sul terreno sconvolto a una velocità che il cavallo di Rachel non poteva eguagliare, ma lei era partita con oltre mezza lega di vantaggio su di loro... e inoltre aveva l'aiuto di una taumaturga che la aspettava a bordo della Rotsward. O così sperava. Adesso è il momento che tu faccia qualcosa, Mina. 18
Dal campo di battaglia, a occidente, si alzò un altro genere di nebbia. Usciva dalle bocche di diecimila uomini e demoni uccisi, come un loro ultimo freddo respiro. In quei guerrieri restava ancora un po' di sangue e, a bordo della Rotsward, Mina Greene lo stava usando per i suoi scopi. Tentacoli di nebbia s'intrecciarono sopra i cadaveri fino a formare una vaga sfera grigiastra, che si gonfiò mollemente e poi dilagò sui campi di Larnaig come una marea coprendo i dossi, gli edifici della ferrovia, il lago e la costa con un mantello stregato. Spumeggiò contro le mura di Coreollis e andò a inondare la foresta, dove si fuse col bozzolo di nebbia che circondava la Rotsward. Nella boscaglia, Rachel si trovò immersa in un'oscura foschia. Il rumore degli zoccoli si fece ovattato mentre il cavallo galoppava nel passaggio tra gli alberi. Una vaga luminosità alle sue spalle indicava il punto in cui era entrata nella vegetazione, ma davanti a lei c'era soltanto un impenetrabile grigiore. Non riusciva a vedere neanche il sentiero, e cacciarsi in quel caos di ombre pericolose le diede l'impressione di precipitare nel delirio. A ogni istante spuntavano dalla nebbia rami neri, carichi di umide foglie marroncine, o fronde di vischio spinoso verde pallido. In alto incombevano le fitte chiome delle querce e degli olmi, i cui tronchi stringevano il sentiero come avversari ostili al suo passaggio. I ramoscelli che la frustavano di continuo rischiando di cavarle gli occhi le lasciavano fredde gocce d'acqua sul viso. Il cavallo cominciò ad ansimare e sbuffare; i suoi zoccoli non ferrati affondavano in un tappeto di detriti marci, facendo volar via foglie che puzzavano di ragni e vermi. Da qualche parte più indietro risuonò la lunga nota di un corno. Rachel spronò l'animale a una velocità ancora maggiore che, con sua sorpresa, rispose. Forse quel corno da caccia gli aveva finalmente dato lo stesso senso di urgenza della sua cavallerizza, perché si buttò avanti come l'autentico cavallo da guerra Heshette che una volta doveva essere stato. Quando l'animale superò con un salto un tronco coperto di funghi biancastri, simile alla corazza di un Icarate caduto dal cielo, Rachel fu sul punto di volare via dalla sella. Si aggrappò al collo sudato, e l'odore umido della criniera le riempì il naso. Il cavallo stava ansimando come un mantice nuvole di fiato caldo, ma invece di rompere il galoppo rallentò un poco, e ciò permise all'assassina di raddrizzarsi sulla sella. «Grazie», gli mormorò. Non aveva ancora finito di dirlo che l'animale saltò una buca, e il con19
traccolpo rischiò una seconda volta di sbalzarla via. Rachel strinse i denti. Il sentiero passava accanto a una grande roccia coperta di licheni e, quando l'ebbero superata, sbucarono in una larga radura sassosa pavimentata di felci color birra, erica e piccoli cespugli. Intorno a essa gli alberi si stagliavano neri come intrecci di ferro battuto sullo sfondo di nebbia. Rachel sentì la voce di un uomo che cantava e tirò le redini. Seduto su un masso al centro della radura, John Anchor stava appuntendo un bastone con una corta spada che, nelle sue grosse mani, sembrava appena un coltello. Tra le ombre della boscaglia avrebbe potuto essere scambiato per un orso bruno, massiccio com'era. Aveva intorno al torace una sorta d'imbracatura di legno, e l'enorme corda che lo legava alla nave volante del suo padrone spariva in alto verso il cielo, ma a parte quello nient'altro rivelava la presenza della Rotsward e dei molti passeggeri che respiravano nebbia più in alto. L'uomo era solo. Nel vederla un sogghigno gli deformò la barba. «Te la sei presa comoda, Rachel Hael.» «Credevo che tu detestassi le lame», disse lei, accennando a ciò che aveva in mano. «Solo quando sono usate in battaglia. Gli Heshette mi hanno dato questa come regalo d'addio. Apparteneva al padre di Ramnir, e prima di lui a suo nonno, e prima ancora al suo bisnonno e così via. È molto utile, come puoi vedere.» «Che stai facendo?» «Niente che avessi progettato di fare. Legna per il fuoco, magari.» Si alzò e scrutò la penombra dietro di lei. «I dodici ci stanno inseguendo, vero?» Lei annuì. Il colosso esitò un poco, tendendo le orecchie verso l'alto. La corda legata al torace vibrò all'improvviso. «Cospinol vuole sapere se il nobile Rys ha cercato di vendere i suoi fratelli.» «Sì, naturalmente.» «E cosa ne è stato di lui?» Rachel riferì che il palazzo del dio dei fiori e dei coltelli era andato in polvere. John Anchor ascoltò con attenzione, poi attese. Dopo un po' accennò col capo verso il cielo. «Ora stanno discutendo. Può richiedere un po' di tem20
po.» E ricominciò ad affilare il bastone. L'assassina scrollò le spalle. «Prenditi pure il tempo che vuoi, Cospinol. Dopotutto, ci sono soltanto dodici arconiti che stanno per arrivarci addosso.» Smontò da cavallo. L'animale borbottò e cominciò a brucare l'erba. Lei gli diede una pacca, perplessa, quindi scrutò nella nebbia alla ricerca di Dill. Nonostante le attuali enormi dimensioni di lui, in quel fosco grigiore non vide altro che semplici forme vegetali. La nebbia di Cospinol lo avvolgeva del tutto, così come avrebbe avvolto una montagna. A occidente suonò un corno; sembrava vicino. Rachel tolse un paio di mele dalla borsa e ne offrì una ad Anchor. «Quelli sono veloci», lo avvertì, prima di cominciare a mangiare. Il suo sguardo indugiò sull'imbracatura dell'uomo, sul massiccio torace fasciato di muscoli. La grossa corda sopra di lui si mosse ancora. Rachel si rimise la borsa a tracolla, gettò il torsolo della mela al cavallo e si pulì le mani sulle brache di cuoio. «Puoi risalire in fretta lungo questa corda?» «Dovrò tirarmi dietro la Rotsward, se Cospinol ha bisogno che io resti a terra», rispose lui, a bocca piena. «Ma ora la tua taumaturga di Deepgate ha fatto allargare la nebbia. Il territorio è completamente nascosto, vedi? Nebbia fitta dalla terra al cielo. Non c'è bisogno che io mi metta a correre per trascinare la nave, e con un po' di fortuna potremo raggiungere Coreollis spostandoci di soppiatto.» Lei lo fissò, stupita, poi si guardò intorno. «Coreollis? Cosa significa Coreollis? John, quelli stanno arrivando proprio di là.» John Anchor infilò la corta spada in un supporto dell'imbracatura di legno, esaminò il bastone che aveva appuntito e lo mise da parte. «Gli arconiti di Menoa non conoscono la stanchezza e non possono essere uccisi. Così dobbiamo andare all'Inferno e ammazzare i sacerdoti che li controllano, giusto?» Rachel si limitò a guardarlo. «È una fortuna che il portale conduca direttamente alla Cittadella di Menoa, così non dovremo camminare troppo», si rallegrò il grosso individuo. «Non avrete per caso l'intenzione di portare giù nell'Inferno la Rotsward e tutti quelli che ci sono a bordo?» «Non tutti. Alice guiderà Cospinol e me alla Nona Cittadella, poiché lei conosce intimamente l'Inferno, ma la tua taumaturga resterà qui con te.» Era stato sul campo di battaglia di Larnaig che Rachel aveva avuto occasione d'incontrare Alice Harper: una donna morta che aveva l'aria di es21
sere più a suo agio tra i cadaveri dei demoni mesmeristi che coi viventi. Da quel giorno la Harper era rimasta appartata in una cabina della Rotsward, evidentemente perché pensava che partecipare alle discussioni e alle decisioni non fosse affar suo. «Alice Harper ha accettato di tornare all'Inferno?» Anchor annuì. «Quella è morta. Il suo posto è laggiù.» Nei suoi occhi brillò una luce divertita. «Ma Mina Greene ha escogitato un'altra missione per quelli che dovranno restare qui. Cospinol è d'accordo - come potresti dire tu... di tutto cuore? - con l'idea della taumaturga. Dobbiamo dividere il nostro gruppo. Cospinol ha deciso di dichiarare guerra sia all'Inferno sia al Paradiso.»
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2 PARTENZA
Negli ultimi momenti del crepuscolo una cupa penombra dilagò sulla foresta. Un gufo chiurlò, e un altro gli rispose dalle lontane profondità della nebbia. Rachel, che accanto al gigantesco compagno aspettava gli eventi, non poteva vedere quasi niente di lui, a parte il bianco degli occhi. John Anchor era immobile e imponente come le querce intorno a loro. Si erano entrambi spostati un quarto di lega verso nord, per meglio rendersi conto della posizione di Dill. L'angelo di metallo e di ossa si trovava da qualche parte nelle vicinanze, ma Rachel non riusciva a capire esattamente dove. Avrebbe potuto essere anche a soli dieci passi da lì. Sentì il cigolio dell'elevatore della Rotsward ancor prima di vederlo materializzarsi fuori della nebbia, poco più in alto delle cime degli alberi. Era un semplice cesto appeso alle corde di un argano manovrato dagli schiavi, a metà del ponte della nave. Dentro c'erano due persone: Mina Greene e Hasp, che come ambasciatori del cielo avrebbero potuto essere una coppia piuttosto strana, entrambi con le mani coperte da scaglie vitree strette al bordo di vimini. Rachel si accorse che li stava fissando a occhi spalancati. Quei due sono così fragili che non sanno quello che rischiano. Distolse lo sguardo, imbarazzata. Il cesto atterrò con un tonfo appena udibile. Hasp ne saltò fuori, in apparenza per nulla preoccupato che una sola fessura nella sua epidermidearmatura, forgiata nel Labirinto, avrebbe potuto costargli tutto il sangue e rimandare la sua anima all'Inferno. Mina depose al suolo il suo cagnolino demoniaco, Basilis, prima di uscire cautamente accanto a Hasp. Il cucciolo annusò i piedi di Anchor e sparì tra le ombre. «Gli schiavi di Cospinol hanno sbarcato dalla Rotsward rifornimenti e oro», disse Mina. «Il nostro amico arconita è un ottimo cavallo da soma. Hanno immagazzinato tra le sue costole tonnellate di grano e pesce secco, e scrigni di monete nella sua bocca.» Sorrise. «Cospinol non è stato felice di veder andare via tutto quell'oro. Il suo umore adesso è ancor più cupo della mia nebbia stregata.» 23
Rachel guardò Hasp. Il Signore della Prima Cittadella si accigliò, alzò una mano all'interno del cappuccio e la premette su un lato del cranio di vetro, come se gli fosse venuto un improvviso mal di capo. I suoi occhi rossi si erano velati, e aveva i denti stretti. «Hasp?» osò sondarlo Rachel. Lui la ignorò. La sofferenza di Hasp era continuamente peggiorata da quando re Menoa gli aveva impiantato un parassita nel cranio. Quel piccolo demone di carne e d'ottone costringeva il Signore della Prima Cittadella a obbedire agli ordini dei mesmeristi, e il poveretto, che un tempo si era opposto da solo alle armate dell'Inferno, subiva così abusi perfino dal più inetto dei servi di Menoa. Le sue labbra si strinsero, e imprecò sottovoce tra sé. Che punizione crudele. Menoa aveva strappato a Hasp tutto ciò che era. Rachel si chiedeva se non sarebbe stato più pietoso lasciar semplicemente morire quel dio. Guardò verso l'alto, ma non riuscì a vedere né udire niente del lavoro che stavano facendo lassù. «E i dodici di Menoa? Puoi vedere dove si trovano?» domandò a Mina. La taumaturga aspirò una lunga boccata d'aria umida, poi esitò. «Finché restano nella mia nebbia posso vederli, sì. Quattro stanno aspettando sul bordo occidentale della foresta, e due sono nei campi di Larnaig a sud di Coreollis, di guardia al portale. Ma gli altri sei vengono verso nord. Ci seguono.» «Chi seguono, di preciso? Dill o Cospinol?» «Entrambi, suppongo.» «Per quanto tempo puoi mantenere questa nebbia?» Lei si strinse nelle spalle. «Questo dipende da Basilis.» Raccolse il cucciolo e lo cullò tra le braccia, baciandogli un orecchio. «Non è così, dolcezza?» Il cane grugnì. Anchor aveva l'aria raggiante. «Ora io dovrei già essere in cammino per l'Inferno. I sacerdoti che controllano quei golem non si ammazzeranno da soli, no? Buona fortuna con Ayen, Mina Greene.» Rachel li guardò entrambi. «L'Inferno è una cosa, ma il Paradiso è un'altra, del tutto diversa. Neanche i figli di Ayen s'illudono di essere abbastan24
za potenti da entrare nel regno della loro madre. La dea della luce e della vita ci farà tutti quanti a pezzi.» Miriadi di minute scaglie vitree intorno al viso di Mina si corrugarono. «Ma ucciderà anche il nemico.» La giovane taumaturga voleva usare Dill per attaccare i cancelli del Paradiso, perché, se la dea della luce e della vita si fosse vista minacciata da un arconita, avrebbe potuto distruggere anche gli altri. Tuttavia neppure suo figlio Cospinol sapeva bene come trovare i cancelli del Paradiso, né come sfondarli per raggiungere la dea. Quelli della sua famiglia non erano tipi da condividere certe conoscenze tra loro, a quanto pareva. Il piano della taumaturga era dunque un vero salto nel buio. Ma era anche il migliore che avessero. «Cercheremo il palazzo di Sabor e poi quello di Mirith», spiegò Mina a Rachel. «Se qualcuno sa come raggiungere la dea, sono loro. Devono sapere qualcosa, se stavano progettando di conquistare il Paradiso stesso.» John Anchor si fece avanti. «Hasp, Mina, non posso stringere le vostre delicate mani di vetro, ma adesso devo andare. L'Inferno ci aspetta.» Mina corse ad abbracciarlo, e Rachel si limitò a salutarlo con un cenno del capo. Hasp lo guardò coi suoi occhi neri. «Porta i miei saluti a re Menoa.» Con una risata il massiccio individuo s'incamminò verso il lato meridionale della radura. L'enorme corda che scendeva dall'alto lo seguì, aprendosi la strada fra le chiome degli alberi, e il rumore dei rami che si spezzavano continuò a udirsi anche dopo che lui fu scomparso alla vista. Gli altri tre lo sentirono cantare. È questa la sua idea di spostarsi di soppiatto? Rachel scosse il capo. La nebbia nascondeva sia lui sia la nave volante, ma non poteva celare i rumori del suo passaggio. Come può sperare di aggirare chi lo sta cercando, e trainare quel vascello al portale dell'Inferno senza che nessuno se ne accorga? Rachel non credeva davvero che lui s'illudesse di riuscirci. Nel preciso momento in cui avrebbero violato il portale, re Menoa se ne sarebbe accorto; ma, da quello che lei aveva visto di John Anchor, al colosso piaceva la lotta. Fu così che Rachel si trovò a dover restare in una foresta di quella terra straniera con un dio la cui pelle era un'armatura di vetro, una taumaturga menomata nello stesso modo, e un cane. I corni da caccia suonarono ancora da qualche parte, più vicino. Hasp fece una smorfia e si guardò intorno 25
nervoso, ma non disse nulla. Incontrarono Dill parecchie centinaia di passi più a nord. O meglio, incontrarono le sue caviglie che indietreggiavano fra i tronchi degli olmi e delle querce. Il resto del suo corpo era nascosto dalla fitta nebbia grigia sopra di loro. Si fermarono accanto a uno dei piedi e alzarono lo sguardo. Dal cielo proveniva lo sferragliare di macchinari lontani. «Dill!» chiamò Rachel. Un pugno ossuto si abbassò sfondando rami e frasche, e si aprì a contatto del suolo. I tre salirono sul palmo della mano. Pochi momenti dopo quell'insolito ascensore li portò su, nell'aria fredda e umida. Rachel si aggrappò a un dito di Dill mentre attraversavano le fitte fronde, e in breve gli alberi scomparvero nella foschia sotto di loro. Poderose ossature coperte di tubi metallici passarono via sulla sua sinistra quando sfiorarono il fianco dell'arconita, e sulle superfici dipinte di giallo lei notò gli stessi ghirigori spiraliformi che aveva visto una volta sullo scafo del Dente di Deepgate. Dietro le costole del gigante vibrava una cittadella di macchinari fatti col metallo scuro forgiato nell'Inferno... forse i resti delle catene della città dove lei era nata. Si trattava di meccanismi enormi quanto sconosciuti. Lei sentì l'odore del lubrificante, misto a un puzzo che avrebbe potuto essere quello di carne macellata o dei cadaveri sul campo di battaglia di Larnaig, ma con qualcosa di chimico che non seppe identificare. Argilla? Le ricordò i veleni della Foresta delle Cortecce Ardenti. Aveva la sensazione di sentire la pressione delle tonnellate di sangue e fluido idraulico dentro quei pistoni, nei tubi e nei serbatoi. Alla fine fu in vista il cranio di Dill. Era nudo e possente, spaventoso, privo di qualunque cosa che potesse far pensare alla presenza di una mente nel suo interno. Nelle orbite cavernose non c'era niente fuorché echi e pozze d'acqua scura tra cui nidificavano pipistrelli e altri volatili. Le parti basse biancheggiavano di sterco di uccello. La mandibola semiaperta lasciava vedere denti giallastri, immobili e allineati come dolmen di pietra eretti nella preistoria. La parte inferiore della mascella era incrostata di muschio verde, mentre filamenti di vegetazione marroncina penzolavano incastrati fra un dente e l'altro. Rachel vide i barili e le casse che gli schiavi di Cospinol avevano accatastato nelle oscure profondità di quella bocca... abbastanza monete d'oro da equipaggiare un esercito. Fu a contatto della bocca che la mano si fermò, e Rachel capì che Dill intendeva farli entrare là dentro, accanto all'oro. I suoi occhi s'inumidirono 26
di lacrime, ma lei non avrebbe saputo dire esattamente perché. Scesero dalla mano e furono nella bocca del gigante. Mina depose il cane e s'incamminò verso l'interno dell'oscura caverna di metallo e ossa. I suoi piedi di vetro strappavano echi dalla pavimentazione metallica. Hasp si era fermato a guardare in su verso il palato di quel golem, e nell'ombra la sua espressione era illeggibile. Rachel annusò l'aria. Anche lì puzzava di campo di battaglia, di ferro e di sangue. «Dill?» mormorò. Per un attimo le parve che il pavimento reagisse con una vibrazione, ma l'unica risposta fu l'eco della sua voce. Mina fece un cenno verso l'alto. «L'ho avvertito di non dire niente. La sua voce è come il tuono, e potrebbe rivelare al nemico la nostra posizione.» Rachel la guardò. «Io ho bisogno di parlare con lui... Devo sapere se ha capito dove stiamo andando.» Mina le fece segno di seguirla e la prese per mano, poi la condusse sul fondo della cavità orale, dove uno stretto passaggio buio saliva verso altre zone. «Questo comunica con la vertebra superiore della colonna cervicale», le spiegò. «Da qui puoi arrampicarti fin dentro il cranio.» «Il cranio?» «Non è una creatura vivente», disse pazientemente Mina. «L'arconita è soltanto una macchina, un golem, il rozzo simulacro di un angelo. Re Menoa ha scelto questa forma soltanto per alleviare lo stress dell'anima intrappolata nel suo interno. In questo modo il subconscio di Dill può funzionare ancora. Può muovere le gambe senza avere un contatto troppo diretto con meccanismi estranei alla mente. È una specie di armatura per l'anima, odiosa e inquietante, ma funzionale.» Continuò a guardare il passaggio in salita, forse per evitare gli occhi di Rachel. «Risali nell'interno della macchina e potrai trovare l'anima del tuo amico. Lassù avrai modo di parlargli.» Abbassò lo sguardo sul pavimento. «Lui non avrà bisogno della laringe meccanica per risponderti.» Rachel s'inerpicò nello stretto passaggio, le cui pareti erano incrostate di cristalli simili a vetro rozzamente molato. Dopo una salita abbastanza ripida sbucò in uno spazio buio poco più largo delle sue spalle. A tentoni sentì la presenza di tubi verticali spessi quanto un braccio, altri cristalli e sporgenze metalliche esagonali. Per un lungo minuto restò immobile in quell'oscurità. Questo non sei tu. È solo una prigione... come l'abisso di Ulcis o la 27
nave di Cospinol. Mina aveva detto bene. Quella era un'armatura: un oggetto creato dal Signore del Labirinto per consentire ai suoi servi di camminare liberamente tra i mortali, e distruggerli. Quando i suoi occhi si abituarono alla penombra si accorse che dall'alto proveniva un barlume di luce. Il passaggio proseguiva ancora, direttamente sopra la sua testa. Si aggrappò ai tubi e si tirò su. Nel cranio dell'arconita era stata ricavata una camera. Non c'erano finestre. La luce che aveva visto era generata da una fonte del tutto diversa. Rachel si portò le mani alla bocca e cominciò a piangere. *** Re Menoa aveva collegato la Nona Cittadella al potere del Labirinto, e quindi dato alle mura e alle scalinate di quella fortezza vivente il permesso di nutrirsene. Erano trascorsi eoni da quando quelle costruzioni mesmeriste erano state esseri umani, ma le loro anime ricordavano la golosità, e avevano esultato della libertà di cui ora godevano. Esseri di carne nati dai pensieri subconsci sbocciavano e mutavano e si mescolavano con innumerevoli altri esseri, in una frenesia orgiastica che trascinava migliaia di anime oltre l'orlo della follia. Essi generavano prole intelligente che rafforzava la mente-alveare della fortezza, ma ogni tanto partorivano mutanti: frammenti di sogni e di ricordi che non potevano usare il raziocinio in nessun modo utile, e si limitavano a imitare le forme e le facce intorno a loro. E con quelle facce essi urlavano e abbaiavano, o si limitavano a guardare leccandosi i denti. Ogni volta che quei devianti venivano scoperti da esseri funzionali, venivano uccisi e riassorbiti dalla Cittadella. Cacciatori con le dita a coltello fluttuavano attraverso muri e soffitti in cerca di quelle creature imperfette. Ma le copule orgiastiche e infette proseguirono per un tempo incalcolabile finché la fortezza di Menoa non crebbe di almeno altri trenta livelli, e la Casa dei Volti alla sommità merlata dell'edificio non generò altre camere, e scale, e occhi. Quando quel processo ebbe termine, la Cittadella trasse un lungo respiro. La nebbia sanguigna vorticò fuori delle fessure delle fondamenta e dilagò via nel vasto e paludoso territorio del Labirinto. In piedi su un balcone appena germogliato, dall'alto della Casa dei Volti, Menoa guardò la nebbia che si allontanava. Nuove costolature di ossa e occhi di cristallo luccicavano sulla pavimentazione rendendone diseguale la superficie, ma per il momento lui era disposto a sopportare l'inconve28
niente. Il caos non aveva ancora finito di forgiare la balconata. Lui avrebbe atteso e osservato come maturava, prima di decidere la sua utilità. Molto più in basso una sfera delle streghe stava rotolando attraverso il Labirinto, diretta alla Cittadella. Nei canali più profondi galleggiavano pontoni carichi di gabbie piene di anime per il Processore, la grande piramide capovolta che continuava a urlare e a emettere flussi di vapore, ma i forni di plasmazione e i recinti degli arconiti erano in quel momento vuoti. I dodici enormi figli del re avevano ormai lasciato l'Inferno, ma l'artefatto che aveva permesso la loro partenza dominava ancora l'intero panorama. Il portale di Menoa vibrava sopra il Labirinto come un immenso vortice di mosche. Da una solida base di pietra bruciata e annerita si sollevava fino a impossibili altezze, facendosi sempre più stretto, finché la sua cima non svaniva all'interno di quel sole oscuro che occupava il centro del Labirinto. Entrambe le estremità restavano fisse al loro posto, ma l'intero tratto fra l'una e l'altra fremeva come una tromba d'aria. Aveva perso molta della sua sostanza da quando gli arconiti l'avevano attraversato, notò Menoa. Qua e là sembrava quasi trasparente. Una mosca si posò su uno dei neri guanti artigliati di Menoa. Lui abbassò lo sguardo sulla minuscola creatura e la trasformò da sostanza viva in vetro, poi la stritolò. A distoglierlo da quella piccola distrazione fu una domanda non verbale della Cittadella. La sfera delle streghe era giunta alla base della fortezza e desiderava parlare con lui. Falla entrare. Concedile di attraversare la Cittadella senza essere molestata. Poco più tardi la sfera delle streghe rotolò sul suo balcone. Menoa non aveva un nome per identificare quell'oggetto, ma lo riconobbe ugualmente. I suoi pannelli metallici ammaccati e corrosi testimoniavano che aveva trascorso molti anni nel mondo dei vivi. «Vi portiamo notizie dei Primi, signore», disse, con la voce di numerose streghe. «Essi hanno confermato le vostre previsioni. La taumaturga ha creato una nebbia per nascondere la nave della divinità traditrice. Una nebbia che ricopre quella di Cospinol e si estende sulle terre circostanti.» «Anche sul portale?» «Sì.» Menoa sentì che la sua maschera di vetro si contorceva per imitare la cupa smorfia con cui commentò quelle parole. «Non mi aspettavo questa nebbia, ma il tradimento sì. Cospinol non può uccidere i miei giganti, così i 29
suoi agenti vogliono tentare di uccidere chi li controlla.» I suoi dodici Primi Icarate erano al sicuro dentro il Bastione delle Voci, nelle profondità del Processore, e le loro menti osservavano il mondo dei vivi attraverso gli occhi degli arconiti, mentre col pensiero governavano le membra di ferro che avevano schiacciato Coreollis. Lui aveva già fatto i passi necessari per proteggerli. La nebbia della taumaturga era una protezione imbelle e dilettantesca. Davvero quelli si aspettavano che lui non avesse preso precauzioni per un attacco così ovvio? «Questa è una cortina fumogena per consentire a un loro assassino di entrare nel portale.» «Manderanno l'arconita Dill?» Il re scosse il capo. «Soltanto quel giovane angelo ha la forza necessaria per opporsi ai miei guerrieri. Cospinol ha bisogno di lui, se vuole restare sulla terra.» Si voltò verso il portale. Il grande vortice si torceva e fremeva, benché i dodici arconiti l'avessero svuotato del suo potere. Si stava indebolendo di più a ogni momento. «Cospinol ha un altro assassino, il barbaro della Costa Indomita che trascina la sua nave. È lui quello che dovrà mandare.» Il balcone non si era ancora fatto crescere una balaustra, ma la sfera delle streghe rotolò fin sull'orlo del precipizio. «Senza Anchor, Cospinol sarebbe immobilizzato e innocuo», obiettò. «Non può permettersi di restare immobile. Perciò il dio della salsedine e della nebbia accompagnerà il suo schiavo. Dopotutto, ha un intero esercito di uomini appesi alle forche della sua nave. Senza dubbio progetta di farli agire contro di noi, per creare una diversione.» «Devo dare istruzioni agli Icarate di accendere le fornaci?» «Sì, tutte le fornaci», disse Menoa. *** John Anchor trasse un profondo respiro. Gli piacevano gli odori di quell'antica boscaglia, le foglie umide, la pioggerellina fredda. Se non gli fosse stato ancora chiesto di procedere attraverso il letto di un oceano, quello era il genere d'aria con cui preferiva riempirsi i polmoni. Era un bel posto in cui marciare. Il morbido humus marrone si schiacciava sotto i suoi piedi e tornava a gonfiarsi dietro di lui. I rami continuavano a schiantarsi e precipitare alle sue spalle mentre la corda si apriva la strada fra le chiome degli alberi. Nel camminare tolse di tasca una manciata di perle animate e se le ficcò in bocca. Poi cominciò a mugolare una canzone. 30
La corda vibrò. Lui rise. «Voi vi preoccupate troppo, Cospinol. La mia voce non è più forte del rumore di questi rami spezzati, e non possiamo mettere a tacere la boscaglia, no?» Attraverso la corda gli giunse la voce del suo padrone. Gli arconiti sono più grossi di te, John. «Ma non più forti.» Adesso non è il momento di mettere alla prova questa teoria. Risparmia le energie per gli Icarate di Menoa, fammi il favore. «Ma io sono più svelto di quei golem, Cospinol. Come un topo intorno ai loro piedi, eh? Salterò dentro il portale e vi tirerò giù con me, mentre quei colossi incespicheranno dietro di noi. Facile come dribblare un cinghiale.» Tu sei un topo al guinzaglio, John. Non dimenticarlo. Anchor sogghignò. A dire la verità sperava di confrontarsi almeno con uno di quegli arconiti. Quel giorno si sentiva forte. Nel suo sangue urlavano un milione di anime, e le loro voci gli riempivano la testa come un grido di guerra, almeno finché non le ascoltava con troppa attenzione. Se si fosse concentrato troppo su di esse avrebbe sentito i loro gemiti e le suppliche, e ciò avrebbe rovinato il suo buonumore. Si chinò per passare sotto un ramo basso e lo sentì piegarsi e spezzarsi rumorosamente sotto la pressione della corda della Rotsward, dietro di lui. Un corno da caccia suonò ancora, a occidente. Anchor modificò leggermente la direzione di marcia, puntando da quella parte. Ti ho avvisato, John, disse Cospinol. Mina Greene ha creato questa nebbia per nascondere il nostro camuffamento. Non rovinare tutto cercando di affrontare una di quelle cose. Io voglio arrivare al portale senza incidenti. Torna a muoverti verso sud-ovest, lontano da quel corno. «Adesso voi mi leggete nei pensieri?» No, John. Ma so come sei fatto. Il grosso individuo sospirò e fece come aveva ordinato Cospinol. La nebbia limitava la sua visibilità a pochi passi, ma ciò gli bastò per notare che il territorio scendeva verso meridione. Qua e là scorgeva tra le querce muretti diroccati, i resti d'insediamenti ormai invasi dal muschio e dai cespugli. Tra gli alberi crescevano funghi 31
biancastri simili a ossa sbucate dalle tombe di quei coloni scomparsi. Non gli sembrava di essere mai passato prima da quelle parti, e si chiese quali rovesci di fortuna avessero travolto gli antichi abitanti. Come in risposta, nelle profondità della sua mente un'anima gemette. Anchor la ignorò, accigliato, per nulla desideroso di conoscere ciò che si era domandato. Per non pensarci ricominciò a canticchiare, mugolando a mezza voce: In un giorno di estate a Spiaggia dell'Araldo conobbi una donna che non aveva i denti. Io fui sedotto dal suo sguardo caldo e la baciai con labbra impazienti. Ma lei d'un tratto disse... La corda vibrò ancora. Fammi il favore di non distrarti, John. È tutto quello che ti chiedo. Anchor raccolse un bastone e lo agitò davanti a sé come una delle spade che tanto disprezzava. «Visto che voi mi negate una bella zuffa con gli arconiti, Cospinol, spero solo che tutte le anime dell'Inferno ci aspettino, sempre che Menoa abbia avuto il buonsenso di armarle.» Questo posso assicurartelo, disse Cospinol. Il Signore del Labirinto non ha buttato via le anime di tutti quelli che ha ammazzato. Il colosso uscì dalla boscaglia non lontano dal punto dove c'era entrato qualche ora addietro. La corda troncò un ultimo ramo e tornò libera. Con lo sguardo ormai abituato a quella grigia foschia, lui scorse una serie di monticelli di terreno smosso di fresco e una palizzata, a sud-est. Lavori di scavo eseguiti dagli uomini del Nord. Quelli che aveva davanti erano i campi di Larnaig. Scrutò i dintorni per quanto lo permetteva la nebbia e non vide nessun segno dei dodici di Menoa. Corrugò la fronte. «Perché mai Menoa lascia il suo portale incustodito? Qualcuno più intelligente di me potrebbe sospettare che il re voglia lasciarci entrare nell'Inferno.» Ci fu una pausa, poi Cospinol rispose: Suppongo che sia possibile... forse perfino probabile. Se io dovessi morire qui sulla terra, la mia anima andrebbe a perdersi chissà dove nel Labirinto. Le sue spie potrebbero doverla cercare per anni. Ma ammazzarmi davanti al suo Processore gli risparmierebbe questa noia. La Nona Cittadella è la sede del suo potere. 32
Non la troveremo certo indifesa. «Bene. Allora è inutile continuare a muoverci di soppiatto.» Ci stiamo muovendo di soppiatto? «Come topolini spaventati», annuì Anchor. E detto ciò cominciò a scendere il pendio verso i campi di Larnaig. Di lì a poco trovò i primi cadaveri. Corpi in armatura coprivano il terreno come un eterogeneo raccolto di ferro e carne, mietuto ma lasciato lì a marcire. Il metallo aveva assunto lo stesso colore della melma, e le armi non sembravano più troppo diverse dalle pietre. Il gas aveva gonfiato le pance dei caduti e ora sibilava fuori dei buchi della carne. I corvi gracchiavano e saltellavano nel putridume beccando labbra e occhi. Qua e là le piume azzurre e dorate degli elmi sembravano uccelli esotici che si fossero degnati di scendere a mangiare coi loro cugini poveri. C'erano anche molti mesmeristi: macchine di carne e ferro, bestie simili a sciacalli, e chiazze scure dove dei Non Morai si erano dissolti. Migliaia di corpi massacrati. Mentre li scavalcava in fretta, Anchor sentì che il suo buonumore se ne andava. I guerrieri di Rys erano stati uomini crudeli, ma non meritavano di morire in quel modo. Troppe anime sprecate. L'idea di doverle presto affrontare in battaglia non lo rallegrava affatto. Aveva percorso appena un centinaio di passi, quando vide Silister Trench. Il guerriero della Prima Cittadella che aveva posseduto il corpo di Dill era parzialmente sepolto alla sommità di un grosso mucchio di mesmeristi, con gli occhi morti sbarrati verso il cielo. Aveva perduto la maggior parte dei denti. Qualcosa di pesante gli aveva sfondato il cranio. Anchor salì sul mucchio di cadaveri, afferrò quello di Trench per le braccia e lo tirò fuori. Era incompleto, perché le gambe dovevano essergli state strappate via da qualcuno di quegli esseri parzialmente metallici. «Si è battuto bene», constatò. «Ci sono più resti di mesmeristi qui che altrove. Ha falciato un bel po' di loro, prima di cedere.» Prosegui, disse Cospinol. Il portale. E quasi subito Anchor lo vide. Era stato lasciato senza sorveglianza. *** Il cranio di Dill conteneva una larga camera, ma era occupata da tanti di quei macchinari che Rachel poteva muoversi a stento. Nella penombra vedeva file di congegni e ingranaggi che ticchettavano come fauci dai denti 33
neri. Ruote giravano dentro altre ruote, pistoni e bielle si alzavano e si abbassavano in un irregolare alternarsi di tonfi. Cristalli ronzanti emettevano lampi di luce bianca che crepitavano rapidi sulle superfici metalliche. L'aria puzzava di ferro surriscaldato di qualcos'altro... qualcosa di antisettico. Rachel notò tutto quello con una parte della mente, perché il suo sguardo era rimasto inchiodato sulla sfera di vetro al centro della camera. Quasi tutta la luce proveniva da lì, o dai fantasmi dentro di essa. Ma quanti sono? Le parve che in quella sfera ne fosse chiusa almeno una dozzina, uomini e donne di razza umana, tutti nudi, un groviglio di esseri schiacciati entro uno spazio che sarebbe bastato al massimo per uno o due. Ognuno di loro continuava a lottare contro le pareti di quella prigione e a spingere via gli altri, anche se avevano corpi gassosi in cui non c'era nessuna sostanza fisica. Le loro mani passavano con facilità attraverso le facce e i dorsi di chi avevano accanto. Le loro bocche pronunciavano grida o maledizioni senza suono. Ringhiavano, facevano smorfie e sputavano. Barbagli di luce saettavano dall'uno all'altro come manifestazioni visibili di quell'ostilità silenziosa. Lei fece in tempo a vedere la faccia contratta e torturata di Dill prima che sparisse in un groviglio di gomiti e gambe. Aveva la bocca aperta e sembrava che stesse supplicando qualcuno. Ma in quella stanza non c'erano voci umane, soltanto il continuo tonfare e ticchettare delle macchine, e il gelido ronzio dei cristalli. Per qualche istante la luce della sfera lampeggiò più viva, poi tornò a diminuire. Avvolti in quei brevi bagliori, i fantasmi continuarono la loro colluttazione silenziosa. Rachel aveva visto le perle animate, le sferette che John Anchor mangiava per ottenere la sua straordinaria forza, e sapeva che quelle coscienze eteree non avevano necessariamente bisogno di forme corporee per esistere. Con l'opportuna tecnologia, un'anima poteva abitare in quasi ogni cosa. Le apparecchiature mesmeriste di Alice Harper un tempo erano state vive, e ricordavano ancora la paura. Tuttavia Rachel sospettava che qualcosa di preciso fosse stato fatto allo scopo di tenere quelle figure umane in possesso della loro apparenza fisica. Scivolò avanti tra i banchi di macchinari scavalcando tubi e cavi per avvicinarsi alla sfera. D'un tratto si accorse che altre luci, molto più deboli, provenivano dai cristalli posti sul soffitto. Sembravano pieni di lucciole, e nell'agitarsi emettevano una vaga radiazione azzurra. 34
Appoggiò le mani sulla superficie vitrea della sfera... lo ha ucciso... andato in quel posto... no, io non posso farlo... la mia testa, smettila di gridarmi in faccia... no... io... e là era così buio... ti odio, ti odio... non voglio ricordare che... non sono io... sei tu, stammi lontano... niente coltelli... bugiardo, io le ho parlato... niente fuorché il buio... l'assassino... non parlare, non... ... e subito si ritrasse, stordita dalla cacofonia di voci che le avevano aggredito la mente. Trasse un profondo respiro. «Dill?» L'intera camera ruotò verso sinistra. Rachel rischiò di perdere l'equilibrio, sbilanciata. Dal basso venne un sibilo di vapore. Poi la camera ruotò di nuovo, stavolta più lentamente, in senso opposto. Debole e appena udibile, dalla sfera le giunse la voce del giovane angelo: Rachel? Ancora una volta, la camera ruotò a destra e a sinistra, mentre l'arconita si guardava intorno. «Dill, io non sono fuori. Sono qui... dentro la tua testa.» Ci fu una pausa, quindi Rachel udì la voce dell'amico sussurrare dall'interno della sfera: Puoi sentire i miei pensieri? Sembrava sfinito. La tua voce è... strana. «Tu puoi vedermi?» Io vedo nebbia, rispose lui. Alberi, sotto di me. Dentro la sfera le labbra dell'angelo si erano mosse, ma i suoi occhi erano fuori fuoco, inconsapevoli di lei e del resto della camera. Cautamente Rachel toccò di nuovo la liscia superficie vitrea, ma stavolta non ci furono voci estranee nella sua testa. «Io sono vicino alla tua anima. Posso vederla davanti a me. È chiusa in una sfera di vetro che sembra una grossa perla animata... Dill, ci sono altre anime qui dentro con te.» Le luci nella prigione vitrea lampeggiarono in una frenesia di scintille d'oro, poi la luce diminuì e tornò bianca. Altri dodici, le spiegò Dill. Sono le persone che erano contenute nell'elisir di Devon. Ce l'hanno con me perché si trovano qui senza averlo voluto, e ora cercano di farmi del male. Fece una pausa. Rachel, loro possono vederti. Rachel si accorse che tutte le altre figure nella sfera di vetro la stavano guardando. Le loro facce si muovevano l'una dentro l'altra, con espressioni diverse che si mescolavano e si confondevano. Una giovane donna premet35
te le mani contro l'interno del vetro. Rachel si ritrasse. La spettrale sconosciuta parve sorridere, ma nei suoi occhi c'era una luce di follia. «Loro non sono collegati a questo automa come lo sei tu», disse Rachel. «Tu puoi vedere attraverso i suoi occhi, e muovere le sue gambe, ma loro non possono fare nulla. Questa gente non ha niente se non l'interno della sfera.» Puoi liberarli? «Non lo so.» I pensieri di lei andarono in stallo mentre guardava quel guazzabuglio di figure in lotta. «Dill, io non posso rompere questo vetro. Non ancora, capisci?» Se tutti loro volevano una possibilità di sfuggire agli inseguitori, avevano bisogno che lui mantenesse la sua forma attuale. Rachel sentì la camera piegarsi e raddrizzarsi. L'automa aveva annuito. Dill tacque per qualche momento, poi domandò: Rachel, cosa sta succedendo alla foresta? «In che senso? Vuoi dire adesso?» No... Dill fece tremare la camera come se stesse per scuotere la testa, ma bloccò per tempo quel movimento. È successo subito dopo che abbiamo lasciato Coreollis. Gli alberi sono diventati di pietra. «Quali alberi? Dill, io non so di cosa stai parlando.» Anchor e Mina non avevano accennato a nessun fatto stregonesco avvenuto mentre lei scrutava Coreollis col cannocchiale. La nebbia si è dissolta e la foresta è diventata di pietra, continuò lui. Sembravano quegli alberi pietrificati che ci capitava di vedere sulle Sabbiemorte, quando le dune mobili li lasciavano allo scoperto. Ricordi? Da quando Rachel era stata nel deserto intorno a Deepgate era trascorsa un'eternità. Come adepta della Spina aveva viaggiato attraverso quelle foreste pietrificate vecchie migliaia di anni, nelle terre rimaste avvelenate dopo che la montagna di Trononero era caduta dal cielo. Ma lì la foresta era sempre verde e viva. Che Dill stesse confondendo i suoi ricordi con la realtà? Oppure la taumaturga aveva messo in atto qualche segreto espediente stregato dopo che lei l'aveva lasciata nella bocca dell'automa? Mina ti sta chiamando, disse all'improvviso Dill. Vuole che ce ne andiamo subito da qui. Abbiamo compagnia. «Un arconita?» La camera si piegò bruscamente in avanti. 36
*** Forme spezzate costellavano il campo di battaglia come strane escrescenze vulcaniche. Fermo tra esse sul bordo del portale, con le mani sui fianchi, John Anchor sospirò di delusione. «Se Menoa avesse voluto davvero attirarci in una trappola, avrebbe dovuto lasciare qui uno dei suoi dodici giganti come specchietto per le allodole.» Uno specchietto per le allodole? Cospinol sembrava stanco. «Per farci credere che vuole impedire l'ingresso agli estranei. Un bambino sarebbe stato più astuto!» Si guardò intorno, ma nel buio non poteva vedere niente, a parte la nebbia di Cospinol. «Avrebbe potuto cercare di farci sprecare energie prima del nostro attacco. Un'ultima battaglia sui campi di Larnaig!» Forse ha deciso che non saremmo caduti in un trucco come quello, eh? Anchor grugnì. «Questo re mi sta diventando antipatico. Un guerriero onorato non è mai imprevedibile: obbedisce alle antiche regole della guerra.» La grossa corda della Rotsward sembrò vibrare di una nota malinconica. Anchor abbassò lo sguardo nelle profondità del portale. Era stato in posti peggiori, ma non molti. La porta dell'Inferno sembrava un lago di catrame, e ne usciva un puzzo di morte che prendeva alla gola. Quante anime stavano nuotando in quelle ripugnanti acque? La nebbia si appoggiava sull'intera superficie del lago in uno strato che si spostava lento, come un sipario trascinato avanti e indietro su un palcoscenico vuoto. Sulle sue rive si era formata una crosta secca e ruvida, simile a pelle bruciacchiata sui bordi di un'ustione. Pallidi grumi indefinibili fluttuavano in quella superficie viscida. Faceva freddo. Il colosso stimò che il portale avesse un diametro di duecento passi, dunque alquanto più piccolo della nave volante di Cospinol. Ma la Rotsward era molto più robusta di quello che sembrava. Benché il sole di Ayen la rendesse vulnerabile, lì non c'era sole, e nelle tenebre il suo antico fasciame riceveva forza dalla volontà di Cospinol. Se il dio della salsedine e della nebbia avesse tenuto duro, neppure la sua nave avrebbe ceduto. Stai aspettando che uno degli arconiti si faccia vivo? Anchor scrollò le spalle massicce e si sfregò le mani. Poi fece un lungo respiro, chiuse gli occhi e si gettò in quel lago repellente. 37
Un gelo paralizzante lo avvolse. Sentì il gorgoglio dell'acqua di superficie che si chiudeva sopra la sua testa, e in breve la pressione del liquido contro i suoi timpani ridusse al silenzio ogni rumore. Subito però una vibrazione gli echeggiò nei seni frontali, e la voce di Cospinol disse: Avremo migliori possibilità di successo se tu troverai il cardine del portale, dove la taumaturgia di Menoa è più forte. Il suo aspetto dovrebbe essere più denso del liquido circostante, come un grosso canapo. Anchor aprì gli occhi, ma non osò parlare per timore che qualche anima vagante gli entrasse in bocca. In quel buio vedeva poco, a parte il vago bagliore rossastro emanato dalle profondità. Si girò e cominciò a nuotare verso il basso, remigando in quel liquido denso con le larghe mani. La corda, e quindi la nave di Cospinol, veniva trascinata in basso dietro di lui. I suoi polmoni si contrassero reagendo a quegli istinti che gli restavano dai giorni in cui era ancora un semplice umano, ma ignorò quella sensazione spiacevole. Continuò a nuotare verso il basso e dopo un poco sentì di aver trovato il ritmo giusto per proseguire in quell'impresa. Mentre scendeva lungo un percorso a spirale si rese conto che in certe zone il liquido era più denso. Piccole cose bianche, luminose, sfrecciavano intorno a lui, ma, quando allungò le mani per acchiapparne una, fuggirono più lontano. Lui modificò la rotta e si diresse verso la sezione più densa del portale, verso il centro. D'un tratto scorse una linea nera verticale giusto sul suo percorso, a una certa distanza. Fluttuava pigramente con le movenze sinuose di una lunga alga marina nella corrente. È quello. Il cardine del portale. Attento a non danneggiarlo. È già stato indebolito, ed è l'unico collegamento che abbiamo con l'Inferno. Era largo il doppio di uno dei tronchi d'albero della foresta che lui si era lasciato alle spalle, scivoloso e flessuoso come un cordone ombelicale. Ma quel cordone non esisteva in senso puramente fisico. Menoa lo aveva intrecciato con la magia delle anime e del sangue perché fosse il fulcro del canale vaginale tra l'Inferno e la terra. Anchor sentì un calore bruciante sulla pelle quando lo toccò... una reazione alla sua composizione del tutto soprannaturale. Lo afferrò con fermezza e lo usò per tirarsi più in fretta verso il basso. Di lì a non molto la corda della Rotsward si bloccò all'improvviso, costringendolo a fermarsi. La grande nave volante di Cospinol era arrivata a contatto del terreno 38
solido, intorno all'apertura del portale. Con gli occhi della mente Anchor vide le lunghe sovrastrutture che ospitavano le forche posate sul terreno dei campi di Larnaig, molto più in alto. Fluttuando in quella baluginante luce rossastra, il colosso radunò le forze per il lavoro che lo aspettava. Fletté le dita, aprendo e chiudendo le mani. Gli prudevano come se le avesse usate per stritolare degli alveari pieni di api. Ora avrebbe dovuto trascinare la nave volante abbastanza in basso, attraverso la terra e la roccia, da obbligare il portale a espandersi intorno a essa. La magia del sangue poteva acquistare forza dai morti appesi alle forche della Rotsward. In effetti si sarebbe nutrita di quegli individui condannati. Anchor sorrise al pensiero che l'antico esercito del suo padrone penzolava da quei patiboli, e che tutti loro guardando giù potevano vedere il destino che li aspettava. Quei miserabili buoni solo a lamentarsi non dovevano essere molto felici. La voce di Cospinol lo raggiunse lungo la corda. Alice sta captando un afflusso di quello che lei chiama «traffico d'anime», sul suo apparecchio pandemeriano. Anchor si fermò un momento. Aveva visto l'ex ingegnere metafisico di Menoa percorrere il campo di battaglia dopo che gli uomini del Nord di Rys avevano fatto a pezzi i loro nemici mesmeristi, estraendo potere dal terreno insanguinato. La donna poteva essere un cadavere, ma lui non dubitava delle sue capacità. Alice Harper era stata la prima a capire che il re avrebbe usato i suoi morti per aprire proprio quel portale, anche se era ormai troppo tardi per fare qualcosa in merito. Lei pensa che qualcosa si stia sollevando fuori del portale, verso di noi, continuò Cospinol. Qualcosa di grosso. Un altro arconita? Com'era possibile? Il colosso si tuffò più a fondo e diede un forte strappo alla Rotsward. Lui non aveva mai sentito, in tutta la storia, di una battaglia combattuta all'interno di un portale tra due mondi. Ciò che stava per accadere avrebbe potuto offrirgli uno scrigno di preziosi ricordi da assaporare nella vecchiaia. Il poderoso individuo preparò allo sforzo i muscoli delle spalle e del collo, e li sentì gonfiarsi. Poi afferrò il cardine del portale e si tirò ancora più verso il basso, facendo tendere la grossa corda attaccata alla sua bardatura toracica. La corda sembrò assottigliarsi, ma in quella tenebra particolare non poteva rompersi. Molto più in alto di lui, sui campi di Larnaig, le forche della Rotsward cigolavano e si piegavano premendo sul solido ter39
reno, ma neppure loro avrebbero ceduto. Tra la volontà divina di Cospinol e l'illimitata forza del suo schiavo, l'unica cosa a piegarsi sarebbe stata la natura stessa. Anchor fece forza sulla sua bardatura finché non sentì il terreno intorno al portale sgretolarsi sotto la terribile pressione. Lentamente e inesorabilmente trascinò la grande nave volante di Cospinol giù nelle profondità dell'Inferno.
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3 IL PORTALE
Rachel trascorse la notte nella bocca di Dill. Si era rannicchiata sotto una coperta con la schiena appoggiata a uno dei suoi molari, ma lì dentro non era possibile star comodi. L'aria che entrava dalle fessure tra i denti anteriori rendeva ancor più fredda e umida quella caverna buia. Mina aveva suggerito di accendere un fuoco, ma lei aveva scartato l'idea. Per qualche motivo non le sembrava giusta. Il pavimento continuava a oscillare mentre Dill camminava nella notte. Dal basso giungevano l'incessante brontolio dei macchinari e gli schianti degli alberi spezzati a ogni passo dell'arconita, che continuava ad avanzare sulla foresta. Quella foresta era viva. La visione di alberi pietrificati di cui aveva parlato Dill doveva essere soltanto un ricordo, o un sogno. Fin da quando aveva lasciato Deepgate, il giovane angelo era passato da un'orribile esperienza all'altra, dall'insondabile fossa sotto la città di catene ai corridoi dell'Inferno. Era un miracolo che fosse rimasto sano di mente. Gli altri tre avevano sistemato alla meglio i rifornimenti di Cospinol. I barili e le casse tendevano a rovesciarsi ogni volta che Dill girava la mostruosa testa, e ciò costringeva Mina e Hasp a scostarsi in fretta per evitare danni alla loro fragile epidermide. Ora sia la taumaturga sia il dio menomato sonnecchiavano, più lontani possibile dal mucchio dei rifornimenti. Hasp sembrava molto più stanco di Mina. Il parassita mesmerista nel suo cranio l'aveva tormentato per tutta la notte. Soltanto l'odioso cagnolino di Mina era riuscito a dormire bene. Dopo essere scomparso per un poco dietro i barili aveva fatto ritorno e si era accoccolato su un tappeto, sotto il tavolo al centro della chiostra di denti metallici di Dill, per nulla preoccupato dal puzzo di orina che adesso giungeva dal fondo di quel fosco antro di ossa. Cospinol aveva fornito loro qualche semplice arredo: tappeti, coperte, lanterne, oltre al vecchio tavolo e a tre sedie. Le sedie e le lanterne si erano rovesciate più volte, finché loro non le avevano piazzate contro un lato della mandibola, ma il tavolo restava lì in mezzo, un pesante oggetto di legno tarlato che emanava un sentore umido. 41
Il cielo si schiarì. Dalla loro posizione si vedeva soltanto una grigia foschia. Ogni tanto Mina respirava una profonda boccata di quella nebbia, e quindi annunciava la posizione degli arconiti che riusciva a localizzare. Basandosi su quelle sue visioni descriveva territori che Rachel non poteva vedere. Sei dei dodici golem di Menoa continuavano ad avanzare nella nebbia e li stavano inseguendo verso sud. Gli altri erano chissà dove, irraggiungibili dai sensi stregati di lei. Questo preoccupava Rachel. Che quei giganti stessero tenendo dietro a Cospinol e ad Anchor? Se erano riusciti a fermare la nave trainata dal grosso individuo prima che raggiungesse il portale, a loro non restava altra speranza che tentare un attacco al Paradiso, secondo il folle piano di Mina. Rachel si massaggiò il collo, poi si alzò e andò a guardare fuori della bocca di Dill. Il cielo continuava a essere velato da un mantello grigio, ma il terreno sottostante coperto di alberi centenari era più visibile. «Quanto è larga questa boscaglia?» domandò agli altri due. «Centoventi leghe», rispose Hasp. «Un tempo si estendeva per quasi tutta Pandemeria, ma la CFP ha fatto tagliare molti alberi durante i lavori di ricostruzione delle ferrovie. Ora restano soltanto le foreste a meridione di Coreollis. Gli uomini del Nord una volta erano boscaioli, come forse ricordi anche tu.» Rachel disse: «Durante la notte dobbiamo aver percorso almeno ottanta leghe. Cioè, se Dill ha mantenuto una linea retta. Ma non dovremmo essere già arrivati alla Valle di Rye?» Il giorno prima avevano deciso di dirigersi al Lago dei Fiori, una delle profonde riserve d'acqua che Rys aveva creato mettendo dighe su due dei fiumi settentrionali. I territori circostanti avevano fama di essere i giardini di Coreollis, e là essi speravano di seminare i loro inseguitori. Le tracce di Dill attraverso la foresta erano fin troppo facili da seguire, ma, se le orme dei suoi enormi piedi fossero state nascoste dall'acqua profonda, avrebbero potuto approfittare della fitta nebbia per sfuggire agli arconiti. Hasp scrollò le spalle. «Io non ho idea di dove siamo, né di come arrivare da qui al Lago dei Fiori.» Si toccò la testa, con una smorfia. «Ma non dubito che tu sappia orientarti meglio», disse a Mina. «Sembra che tu non abbia bisogno degli occhi, in questa dannata foschia.» Mina annuì. «Questo territorio si alza leggermente verso nord, e forma una catena di alture. Vedo una strada che taglia la foresta, mezza lega a nord-est. Sembra che di recente sia stata usata da un gran numero di perso42
ne: sfollati, forse, provenienti da un paese di boscaioli a sud-est. La strada attraversa un piccolo borgo presso una segheria, ma anche quel posto appare deserto. Sono soltanto poche casupole, dei magazzini e una locanda dalle finestre chiuse. C'è una macchina gialla... un trattore a vapore abbandonato, suppongo, ma tutto mi fa pensare che nessuno abbia lavorato lì negli ultimi tempi.» «E allora, dove ci troviamo?» Lei scosse il capo. «Non ne ho idea.» Hasp grugnì. «Vorrei che Cospinol avesse una carta geografica.» Sapevano che il regno di Sabor era una terra gelida e selvaggia, chiamata Herica fin dalla più lontana antichità. Cospinol aveva detto che là vivevano orsi bianchi e bestie a cinque zampe più grosse degli auroch. La fortezza di Sabor - per motivi ignoti chiamata «Obscura Redunda» - sorgeva alla sommità di uno sperone di vetro vulcanico nero, all'ombra delle Montagne del Tempio, una catena montuosa situata oltre Pandemeria e il Lago dei Fiori. Ma neppure Cospinol sapeva esattamente dove. Lui non aveva mai fatto visita al fratello. Niente di tutto ciò era di qualche utilità a Mina, che pur captando nei più minuti dettagli leghe e leghe di foresta coperte dalla nebbia non poteva dedurre in che rapporto fosse quella zona col mondo esterno. Senza sole né stelle a guidarli erano costretti a basarsi su ipotesi. Come risultato, adesso si erano perduti. Rachel guardò giù attraverso una fessura tra i denti di Dill. Da quell'altezza vedeva un uniforme tappeto di piante ad alto fusto. Acri e acri di foresta nebbiosa che passavano via sotto i piedi dell'arconita. «Potremmo fermarci a chiedere la strada», propose. Hasp rise. Era la prima volta che Rachel sentiva ridere il dio. Si voltò a guardarlo e notò che i suoi occhi non erano più velati dalla sofferenza. «Dico sul serio. In questo limbo grigio non possiamo neanche sapere se stiamo andando nella direzione giusta. Mina, quanto dista quel borgo?» Anche la taumaturga sorrideva. «Pochi minuti da qui. Non ho visto nessuno, ma non posso escludere che ci sia qualcuno chiuso in casa.» Guardò Hasp. «Perché no?» disse lui. Rachel alzò gli occhi al palato dell'arconita. «Dill? Hai sentito quello che abbiamo detto?» 43
La caverna di ossa si piegò bruscamente su e giù, facendo scivolare seggiole e lampade lungo la pavimentazione fin contro gli enormi denti di Dill. Mina e Hasp dovettero acquattarsi al suolo e aggrapparsi alla meglio a qualche sporgenza, per salvarsi la vita. Quando Hasp si rimise in piedi aveva il volto contratto dalla rabbia. «Vuoi per favore spiegare a questo idiota che deve smetterla di fare così?» ringhiò a Rachel. «Per le palle di Ayen, è già abbastanza brutto essere chiusi in questa dannata caverna, senza bisogno che lui rischi di ammazzarci ogni volta che annuisce.» Si prese la testa tra le mani con una smorfia di dolore, quindi si voltò e andò a sedersi in fondo alla camera. «Non è più se stesso. Non col parassita di Menoa che gli divora la mente», spiegò Mina sottovoce. Rachel appoggiò una mano sulla parete della mandibola di Dill, benché non sapesse se lui poteva avvertire il suo contatto fisico. «Vai verso quel borgo, Dill. Cerchiamo qualcuno che sappia dirci dove siamo.» Il villaggio sorgeva sul bordo di una vasta radura nella foresta. Alcuni ettari di terreno erano stati diboscati per il pascolo degli animali, ma sembrava che quasi tutto il legname fosse stato portato altrove dai carri che occupavano il cortile della segheria. Pile di tronchi appena tagliati attendevano nella nebbia presso una fila di casupole dal camino sottile. All'estremità opposta c'era la locanda, chiusa, e neppure lì Rachel vide segno di vita. La segheria era un edificio lungo e basso, con un voluminoso tetto di paglia, e un nastro trasportatore andava da un portone della segheria a un trattore a vapore dipinto di rosso posteggiato lì accanto. La bionda assassina guardò Mina. Non aveva forse detto che il trattore era giallo? Sembrava un'inesattezza strana da parte sua, ma certo non importante. Oppure lei aveva semplicemente capito male. «È un posto abbastanza sicuro, ma cerchiamo di non perdere troppo tempo», disse la taumaturga. Rachel scivolò tra i denti di Dill, saltò sulla sua mano e lui la abbassò fino a terra, chinando sopra di lei il poderoso corpo alto quasi quattrocento piedi, mentre le sue inutili ali fremevano nel cielo. Quel corpo grande come una collina la fece pensare a un'antica e misteriosa statua, scolpita e abbandonata lì da un popolo ormai scomparso, ma stranamente dava l'impressione di essere parte del panorama non meno di quel borgo solitario. Dal suo impossibile carapace coperto di ghirigori spiraliformi emanava un odore di olio lubrificante e altre sostanze chimiche. Nel chinarsi Dill aveva 44
avuto l'accortezza di mantenere la testa orizzontale, e i suoi occhi guardavano avanti verso il niente. Saltando giù dalla mano Rachel si trovò su una rustica strada, che dalle impronte impresse nel fango rivelava come da lì fosse passato di recente un gran numero di persone. Dall'altra parte della strada erano allineate le casupole, le cui finestre prive di vetri erano orbite scure aperte nella nebbia. Dietro di esse si stendeva una fitta parete di conifere i cui tronchi erano stati privati dei rami più bassi e dipinti di verde scuro. Rachel si avvicinò cautamente alle abitazioni. Guardò dentro tre di esse e non trovò niente. Ciascuna era composta da un unico locale contenente le cuccette per sei lavoranti. I materassi e la biancheria mancavano. Nella quarta capanna trovò un mucchietto di fascine per il focolare tagliate di fresco, una stufa panciuta e quattro teschi umani sul pavimento. Appoggiò una mano sulla piastra di cottura della stufa. Era ancora calda. La locanda era un grosso edificio a due piani, costruito con grossi tronchi interconnessi e dipinto di grigio. Sopra la porta un'insegna di legno recava scritto LA SEGA RUGGINOSA e sotto c'era una bella incisione raffigurante una sega da tronchi a due manici. Rachel girò intorno alla locanda e cercò di aprire entrambe le porte e le imposte di legno delle finestre, senza riuscirci. Tornata sulla facciata bussò energicamente alla porta principale. Niente. Allora prese la rincorsa e con un solido calcio la spalancò. Il pianterreno era occupato per la maggior parte da un salone di mescita. Dietro il bancone del bar c'era uno scaffale pieno di bottiglie di whisky, e un vecchio specchio sulla cui cornice si leggeva COMPAGNIA FERROVIARIA DI PANDEMERIA. Rachel s'incamminò tra i tavoli e le sedie, facendo cigolare le assi del pavimento sotto gli stivali. «C'è qualcuno?» chiamò. Nel locale stagnava l'odore di legno segato, ingannevolmente fresco ma risalente a chissà quante settimane addietro. Sul retro c'era la rampa di scale che portava al piano superiore. Le camere degli ospiti dovevano trovarsi tutte di sopra. «Ehi! C'è qualcuno lassù?» Nessuna risposta. D'un tratto sentì un fremito di gelo dietro il collo. Qualcosa era passato via ai limiti del suo campo visivo, rapido e vago come un'ombra. 45
Si voltò, col fiato mozzo. Niente. Dallo specchio scrostato della vecchia compagnia ferroviaria la guardava soltanto il suo riflesso. La camicetta di pelle da schiava che Cospinol le aveva dato era un po' troppo larga per il suo corpo snello. In quella penombra i suoi capelli apparivano più scuri, quasi color miele. L'elsa della spada pandemeriana che si era procurata di recente spuntava da un fodero più rozzo di quello che le sarebbe piaciuto. D'istinto abbassò una mano a impugnare l'arma. Nello specchio c'era una crepa verticale che tagliava in due il suo viso pallido, dando una piega sgradevole alla bocca. Pochi momenti prima quella crepa non c'era... oppure sì? Senza capire perché, Rachel si sentì nervosa. Da una delle due porte del salone prendeva inizio il corridoio diretto al cortile posteriore, dove c'erano il pozzo e il casotto di un cesso. A metà del corridoio un'altra porta, sulla sinistra, dava nella piccola cucina, contenente un otre d'acqua, scaffali di cibi non deperibili, insaccati, piccole giare e un vano pieno di verdure fresche. Lei tornò nel salone, andò ad aprire la seconda porta e mise dentro la testa. Quello doveva essere l'ufficio del proprietario: un armadio, una sedia imbottita davanti a una scrivania, cartelle piene di fogli, e un letto a una piazza a contatto del muro più lontano. Un grosso orologio a pendolo ticchettava contro la parete sinistra. Mentre lei stava per richiudere la porta, l'orologio emise due rintocchi bronzei. In quel momento udì dei passi alle sue spalle, e si voltò di scatto a guardare il salone. Non c'era nessuno. Dalla sua posizione, lì sulla porta dell'ufficio, sembrava che lei avesse due immagini riflesse, distinte e separate, nel vecchio specchio dietro il bar. Entrambe la stavano guardando, dai due lati della crepatura. Il vetro doveva essere corroso, perché ogni immagine aveva un'espressione sottilmente diversa. Quella di sinistra appariva... Più crudele? Rachel distolse lo sguardo. Devo essermi rimbecillita. Prima il riflesso di Rys, e ora questo. Ma aveva davvero visto un'altra immagine di Rys sulla porta del suo balcone, un attimo prima che il palazzo andasse in polvere? Tra quello che le era capitato di recente c'erano diverse cose che la preoccupavano; erano rimaste nel fondo della sua mente, inquietanti come estra46
nei che camminassero su un terreno di sua proprietà. Fece un sospiro. Come tutti i posti abbandonati, anche quello aveva qualcosa che stuzzicava l'immaginazione. Eppure i passi che aveva udito erano fin troppo reali, e avrebbero benissimo potuto provenire dal piano superiore. Lasciar perdere senza indagare meglio sarebbe stato un errore. Rachel tornò alle scale e salì, lentamente. Nel corridoio del primo piano c'erano quattro porte: tre aperte e una chiusa. Con una mano sull'elsa della spada, Rachel si fermò davanti alla prima, aperta. Era una camera da letto dalle pareti di tronchi, ammobiliata con semplicità: un letto, un cassettone, un tappeto, una piccola stufa, e tendine di pizzo grigio dietro cui si vedeva la nebbia. La seconda camera era ammobiliata nello stesso modo. La terza porta era quella chiusa. «Non ho intenzione di farti del male, voglio soltanto chiedere dove conduce questa strada.» Rachel attese qualche momento e girò la maniglia. Una giovane donna vestita con un abito a fiori uscì dalla quarta porta, sulla sinistra di Rachel, e si scaraventò contro di lei urlando come un'arpia sbucata dalla tana. In una mano impugnava un'accetta, sollevata sopra la testa. I suoi occhi vitrei e la sua bocca spalancata erano una maschera di terrore e di follia. Ma barcollava a destra e a sinistra in modo tale che lei non ebbe neppure bisogno di muoversi per lasciare che l'assalitrice le passasse accanto, mancando completamente il bersaglio. Poi la sconosciuta si fermò, scossa da tremiti e da singhiozzi, alzò di nuovo l'accetta e si voltò per portarle un secondo attacco. Rachel vide subito che non sapeva maneggiare un'arma. Alzò una mano a pochi pollici dal viso di lei. «Aspetta! Cosa credi di fare? C'è mancato poco che mi colpissi.» La donna si fermò, incerta, con l'accetta ancora sollevata nella mano tremante. Le sue labbra sembravano un sottile squarcio rosso nella faccia impiastricciata di cipria bianca. Il vestito era chiazzato di sudore sotto le ascelle e sul petto. Ciocche di capelli arancione sfuggivano da sotto il nastro che si era legata intorno alla fronte, ma nonostante quel grottesco trucco facciale doveva essere attraente. Guardò Rachel con un misto di terrore e disperazione... e forse una vaga ombra di speranza. «Metti giù quell'affare, prima di ferirmi», disse Rachel. 47
La donna abbassò subito l'accetta. «È stato Abner a dirmi di farlo», mormorò. «È stata una sua idea. Ha detto che se ti avessi soltanto spaventata saresti potuta tornare. Io non volevo colpirti. Abner ha detto che, se ti avessi ucciso, sarebbe stato meglio...» Deglutì e si ripiegò su se stessa. «Ma io non ho potuto farlo. Io volevo solo farti andare via.» Guardò l'accetta e la lasciò cadere sul pavimento. «Per favore, non ammazzarci. Nascoste nel pozzo ci sono quattrocento doppie di rame. Puoi prenderle tutte.» «Chi è questo Abner, tuo marito? Dove si trova?» Lo sguardo della donna saettò un attimo oltre l'assassina, verso la porta da cui era appena uscita, prima di tornare su di lei. «Mio marito? Sì. Lui... è scappato nel bosco quando abbiamo sentito arrivare il golem nella nebbia. È nascosto là, da qualche parte. Ma non vuole farti del male.» Rachel si era voltata con le spalle al muro. Non fu affatto sorpresa quando scorse un movimento nella stanza da cui era sbucata la sua improbabile assalitrice. Un individuo corpulento in calzoni verdi e camicia bianca apparve sulla soglia. Abner era grosso il doppio di sua moglie. I suoi piccoli occhi sospettosi erano fissi su Rachel come la canna del moschetto che le stava puntando alla testa. «Tu non avrai i miei soldi», disse. E premette il grilletto. *** John Anchor aveva già sentito sulla schiena il peso del mare, perciò capiva la pressione, ma in quello strano reame più lui scendeva e più il liquido diventava rarefatto e trasparente. Aveva l'impressione di fluttuare in un cielo rosso. Centinaia di punti luminosi erano stati attratti da lui, e l'intera costellazione scintillava e danzava tutto intorno come un firmamento vivo. Si trattava di anime intrappolate nel portale, e la loro attività non era di carattere cosciente come quella di Anchor. Lì stavano soltanto sognando un sogno comune. Ma il poderoso individuo non poteva permettersi quel lusso: il peso della Rotsward era reale. La grande nave di Cospinol stava scendendo in quelle stesse acque, da qualche parte più in alto. Lui continuava ad allungare le braccia, afferrare tratti successivi del cardine e tirarsi sempre più in basso. E nel fare ciò non distoglieva lo sguardo dalle profondità, attento alla comparsa della misteriosa entità che Alice Harper aveva captato col suo apparecchio mesmerista. 48
Poco più tardi cominciò a notare la presenza di oggetti nelle acque circostanti: oggetti fisici come lui, che dovevano essere caduti giù dalla terra, e altri più strani, detriti che sembravano provenire dal Labirinto, situato più in basso. Qualche passo alla sua sinistra fluttuava una quercia, completa di radici e coi rami gremiti di ghiande. Tre elmi d'acciaio erano sospesi nell'acqua come un terzetto di vecchi camerati contrari all'idea di separarsi. In distanza Anchor scorse una nave dallo scafo metallico che, a giudicare dalla forma della ciminiera, doveva essere un vaporetto pandemeriano. E ovunque c'erano cadaveri di esseri umani e di bestie: centinaia di uomini caduti a Larnaig, cavalli morti simili a feti sospesi nel liquido amniotico, sciacalli, cani da caccia, e innumerevoli pezzi smembrati meno identificabili. I resti dei mesmeristi erano ancora più strani: sfere piccole e grandi fatte di ossa umane, due figure fornite di lunghi trampoli neri, all'apparenza morte, assembramenti metallici dall'aria pericolosa, dozzine di guerrieri solo in parte umanoidi, ed essere umani spellati di colore rosso. Ma c'erano anche detriti che secondo Anchor non avevano mai visto la luce del sole: frammenti spezzati di lastre nere scolpite a bassorilievo, e arcate, e intere sezioni di chiese o di templi. I punti luminosi sembravano attratti da queste ultime, e orbitavano lentamente intorno a esse. L'apertura di quel portale, si rese conto Anchor, aveva causato un cataclisma non solo sulla terra ma anche nell'Inferno. Ora i detriti di universi differenti si mescolavano lì, in quel limbo tra di essi. D'un tratto vide qualcosa che si spostava tra quel materiale, alla sua destra: un'ombra lunga e snella col muso appuntito e con una coda a mezzaluna. Scomparve dietro i resti in muratura di un tempio. Uno squalo? Anchor interruppe la discesa. Avrebbe detto che sopravvivere lì fosse impossibile per qualsiasi normale creatura di carne e ossa. Lui e il suo padrone si erano nutriti di abbastanza anime, nel corso dei secoli, per piegare alla loro volontà ogni sostanza. Tutti i passeggeri a bordo della nave volante erano morti da secoli, con l'unica eccezione di Carnival. Morti erano gli schiavi, morti i marinai, morti i guerrieri appesi ai patiboli della Rotsward. Anche Alice Harper per sopravvivere non aveva bisogno d'aria, ma soltanto di un piccolo rifornimento di sangue. Era quella la creatura di cui Alice aveva captato la presenza? La corda della nave volante vibrò intorno al suo torace. Cosa c'è che non va, John? Perché ti sei fermato? C'è qualche difficoltà? 49
Anchor intrecciò le gambe intorno al cardine del portale e con un pugno batté tre colpi sulla corda, per comunicare la sua incertezza a Cospinol. Alice Harper non sta leggendo niente d'insolito sul suo localizzatore. Alcuni spiriti nei dintorni, ma niente che non sia stato umano in passato. Il traffico d'anime che lei ha captato prima è ancora molto più in basso rispetto a te. Temo che si tratti di una cosa più grossa di quanto avevamo creduto fino a poco fa. Le sue dimensioni hanno ingannato il detector di Alice. Ma, più ci avviciniamo, più dati possiamo avere. È certo che non si tratta di un arconita, John. Il colosso scrutò nelle fosche acque rossastre. Anime umane vagavano fra i detriti sospesi come fantasmi muniti di lanterne, illuminando i dettagli di quelle strane architetture sommerse. Cercò ancora lo squalo (si trattava davvero di uno squalo?) ma non lo vide. Senza dubbio era un artefatto mesmerista che per qualche motivo non era morto a Larnaig. Tuttavia lui non ricordava di aver visto creature del genere su quel campo di battaglia. Continuò a scendere. Più in basso la luce aumentò. Le acque si fecero più trasparenti, e poco dopo Anchor poté vedere quanto fosse vasta quella distesa di detriti. Si estendeva in ogni direzione a perdita d'occhio: uomini e bestie, macchinari e pezzi di muratura nera che fluttuavano in un fluido più sottile dell'aria. All'orizzonte stagnavano misteriose masse dorate e rossastre, simili a nuvole illuminate dal sole al tramonto, e quella sembrava l'origine del riflesso vermiglio che permeava tutto quanto. La pressione era diminuita al punto che Anchor era tentato di aprire la bocca per respirare. Respinse l'impulso. Quella non era aria. La corda vibrò ancora. John, il nostro ingegnere metafisico sta captando qualcosa di preoccupante sotto di te. Non è un oggetto solo, ma molti: un grande numero di anime. Cospinol fece una pausa. Non posso spiegarne la presenza, John, ma sembra che si tratti di un esercito in arrivo dal Labirinto. Un esercito? E di cosa? Re Menoa aveva massacrato tutta la sua armata mesmerista per aprire quel portale. Non gli era rimasto nient'altro, a parte gli arconiti in azione sulla terra. Ecco invece che adesso arrivava una seconda armata vasta come la prima. L'aveva segretamente tenuta di riserva? Oppure era già riuscito a utilizzare le anime degli uomini del Nord caduti a Larnaig, in così poco tempo dopo la battaglia? 50
Entrambe le cose sembravano improbabili. Allora di cosa era composto quel nuovo esercito? Il grosso individuo sogghignò. Re Menoa stava superando tutte le sue aspettative: davvero un valido nemico. Si batté una mano su una coscia, con una risata. La battaglia che lo aspettava sarebbe stata cantata per secoli dalla gente. John, quelli salgono in fretta. Tira giù la Rotsward fino a te. I miei impiccati sono ansiosi di sfogare la rabbia secolare che hanno in corpo. Anchor fu un po' deluso da quella prospettiva, ma non era così egoista da negare agli impiccati del suo padrone la loro parte di divertimento. Strinse fra le ginocchia il cardine del portale e cominciò a tirare il canapo della nave volante. Senza muoversi dalla sua posizione lavorò di braccia, lasciando penzolare sotto di sé la corda in una curva sempre più lunga. Dopo un poco notò che la fune scendeva anche senza il suo aiuto, e comprese di aver dato alla nave abbastanza inerzia da farla venir giù da sola. Alzò lo sguardo e vide incombere in quel cielo liquido una vasta luna scura, da cui sporgevano i supporti incrociati delle innumerevoli forche. Quando guardò di nuovo in basso si rese conto che i difensori messi insieme da Menoa li avevano raggiunti. E non erano guerrieri né mesmeristi, ma qualcosa di peggio. Il grido di disappunto di Cospinol echeggiò lungo la corda della nave volante fin dentro il cranio di Anchor. Come può aver preparato un'armata di questo genere in così poco tempo? Possibile che queste creature siano i caduti di Larnaig, tornati a minacciarci? Sono troppi! Dalle profondità del portale si stava alzando un immenso esercito di storpi. Quasi tutti apparivano umani, o parzialmente umani, ma le loro facce ricordarono ad Anchor gli scarabocchi di un drogato. Nuotavano nelle acque del portale agitando arti che sembravano essere stati fratturati e poi lasciati saldare in modo assurdo. Gli stracci che li coprivano sventolavano dietro di loro come bandiere insanguinate. Molti erano stati allungati, o contorti, o bucati, come se degli aguzzini avessero deformato i loro corpi su tavoli di tortura. Altri erano in parte bestie - cani, o scimmie - e aprivano bocche irte di denti bacati avidi di mordere, o mostravano espressioni che erano una grottesca parodia di ogni sentimento umano. Altri ancora erano appena dei bambini. Alice Harper conosce già queste creature, lo informò Cospinol in tono tra stanco e rassegnato. Dice che sono conosciute come i Difettosi, John. I 51
mesmeristi li hanno torturati con tale brutalità che le loro menti sono diventate inutili. Fece una pausa. Quei sacerdoti Icarate li hanno abbandonati, lasciando che le loro anime precipitassero nell'Inferno e formassero un fiume. Menoa non avrebbe dovuto essere in grado di tirarle fuori della tomba. Costoro non sopportano né gli uomini né gli dèi. Non possono più essere persuasi a fare niente. Il cuore di Anchor si riempì di paura. Smise di contare gli avversari. Lì non c'era onore né gloria. Quegli esseri pietosi nuotavano nelle correnti della follia. Attese, grande e solitaria figura stagliata su quella luce d'ambra, aggrappato al cardine del portale come a un salvagente. Provava l'impulso di arrampicarsi su quel cordone e fuggire. Cosa sperava di ottenere Menoa mandando quella moltitudine a morire di una morte così insensata? I Difettosi che risalivano attraverso la zona fitta di detriti agitavano le braccia e le gambe come fossero tentacoli di strani cefalopodi, e quella goffaggine faceva pensare che non avessero più molta familiarità coi loro stessi corpi. Alcuni indossavano inutili armature fatte di specchi rotti, o ramoscelli, o piume legate con nastri colorati, mentre altri impugnavano armi bianche tenendole per la lama, o sotto l'elsa, come se qualcuno avesse messo nelle loro incapaci mani oggetti non identificabili. Respiravano l'acqua del portale, tentavano selvaggiamente di agguantare i piccoli punti di luce intorno a loro, e non pochi lasciavano cadere le spade e i coltelli per riuscirci. Capivano il significato di una battaglia? La Rotsward era ormai proprio sopra di lui, e i supporti delle forche si allargavano in quel cielo d'acqua come lunghe grate di travi dal colore dorato in quella luce d'ambra. Anchor esaminò lo scafo con interesse. Era la prima volta che vedeva la nave volante di Cospinol senza il suo bozzolo di nebbia. Aveva immaginato che fosse più grande. Contro di essa era andato a incastrarsi un agglomerato di cadaveri e detriti, e gli impiccati avevano cominciato ad agitarsi e a scalciare per allontanarli. Altri schiavi si muovevano tra loro muniti di coltelli e stavano tagliando i nodi scorsoi per liberarli e mandarli a combattere. La corda che collegava Anchor alla nave, ripiegata in basso in una lunga curva, era stata intanto raggiunta dai Difettosi, che vi si aggrappavano, la mordevano, o cercavano di tagliarla con le spade. Evidentemente l'avevano identificata come qualcosa di alieno fra i detriti fluttuanti, e la loro reazione 52
ostile rivelava che erano mossi da uno scopo comune. Quando le forche più vicine della Rotsward erano ancora novecento piedi più in alto di Anchor, i primi Difettosi gli furono addosso e allungarono le mani per afferrarlo. Il grosso barbaro della Costa Indomita lasciò andare il cardine del portale. Prese per un braccio l'avversario più vicino, lo trasse a sé e gli spezzò il collo; poi lo spinse via senza degnarlo di un'occhiata. Per nulla scoraggiato da quella mossa, il Difettoso si voltò nell'acqua chiara e lo aggredì di nuovo. Si era morso la lingua, e la sua testa ciondolante rovesciata di lato si lasciava dietro una scia di sangue. Anchor era adesso circondato da sei o sette avversari. Scuro in viso, si mise all'opera con metodo, dapprima spaccando loro il cranio, poi spezzando costole e colonne vertebrali, e infine scaraventandoli da parte con la meccanica efficienza di un pescatore che sventra i pesci prima di gettarli nella salamoia. L'uomo col collo spezzato e col capo ciondolante cercò ancora di colpirlo. Anchor lo afferrò per la mandibola e gli girò la testa dalla parte opposta, poi gliela strappò via. Nonostante ciò l'individuo non ebbe il buonsenso di morire. Benché fosse privo della testa, si voltò e nuotò ancora una volta verso di lui. Ma Anchor era occupato con un'altra dozzina di avversari e lo perse di vista tra le braccia e i corpi che aveva intorno. Quelli già fatti a pezzi dalle sue mani continuavano a tornargli addosso, mentre altri ancora arrivavano dalle profondità per unirsi a loro. Lui li stritolava di nuovo l'uno dopo l'altro e li spingeva da parte, tuttavia essi rifiutavano di morire. Tre o quattro si rimisero a posto la testa sul collo e ripresero l'attacco, senza neppure la luce di un'emozione o di un pensiero negli occhi bovini. Dalle profondità ne arrivarono ancora, a migliaia. Anchor aveva sottovalutato Menoa. Quegli aggressori mancavano della più rudimentale capacità di combattere, tuttavia ciò non aveva nessuna importanza, se lui non poteva ucciderli o almeno toglierli di mezzo. Le acque intorno a lui erano piene di frammenti dei loro corpi, ma a ogni istante ne sopraggiungevano altri. Vedere qualcosa attraverso quell'enorme sciame era già impossibile. La battaglia non poteva concludersi che in un modo: alla fine i Difettosi lo avrebbero soffocato, affogato, sepolto in mezzo a loro. Il cuore gli si riempì di disperazione. Scalciando con forza, si spinse lontano dal cardine del portale. Dozzine di goffe mani si protesero in cerca 53
della sua pelle, afferrarono la sua bardatura, lo tirarono di nuovo giù. Lui chiuse gli occhi e colpì alla cieca, spingendosi via. Il liquido in cui si trovava era così rarefatto da dargli quasi l'impressione di essere aria, e per un attimo fu sul punto di gridare. Il bisogno di aprire la bocca e respirare diventò insopportabile. La voce di Cospinol vibrò lungo la corda della nave volante. Mantieni l'autocontrollo! E per quale scopo? Combattere? Fare a brandelli quell'esercito di corpi non serviva a niente. Cospinol non l'aveva ancora capito? Il dio del mare dovette accorgersi dello stato del suo servo, perché disse: Vieni quassù, John. Nuota sulla Rotsward. Dobbiamo riflettere meglio su questa situazione. Anchor si districò dal groviglio degli avversari e nuotò verso l'alto. Il suo grosso corpo attraversò un nugolo di detriti: schegge di vetro, dita staccate, ramoscelli e piume. In uno di quei pezzi di specchio roteanti vide il riflesso di centinaia di occhi vuoti che lo fissavano. Uno dei Difettosi cercò di tirarlo giù aggrappandosi alla corda della Rotsward, ma lui se ne accorse appena. Allontanò con un calcio dal suo percorso una sfera mesmerista di ossa e risalì tra quei resti, lasciandosi dietro innumerevoli mani protese verso i suoi piedi. La nave volante continuava a muoversi verso il basso, e lui non dovette nuotare ancora molto per raggiungere le forche inferiori. Non tutti i guerrieri morti del suo padrone erano stati liberati dal capestro, ma gli impiccati smisero di urlare quando videro il grosso individuo arrivare tra le loro file. La corda di Anchor urtò sui supporti lignei alle sue spalle, togliendo via un po' dei detriti che si erano accumulati contro di essi. Lui si affrettò ad aggrapparsi alle sporgenze per tirarsi più su, passando tra di esse con agilità nonostante la mole. Nel frattempo anche i Difettosi avevano raggiunto le forche di Cospinol, e la battaglia era già in corso. Gli aggressori non potevano essere fermati, mentre gli impiccati avevano la scelta tra combattere e fuggire, e in effetti molti stavano fuggendo. Altri, invece, rimasti bloccati tra le forche, si batterono validamente finché non furono sopraffatti e liberati delle loro anime. Arrivato allo scafo della Rotsward, Anchor si aggrappò alla murata e con una giravolta passò sul ponte. I Difettosi, più in basso, erano stati rallentati dagli impiccati e ancora non l'avevano raggiunto. Trascinandosi die54
tro la corda su tutta la coperta lui si diresse a un boccaporto presso la poppa del vascello. Lo aprì e scese nella penombra. Da che parte era la cabina di Cospinol? Cercò di ricordare la pianta della nave. Erano trascorsi trecento anni dall'ultima volta che aveva messo piede nel sottoponte. Quando finalmente aprì la porta giusta, trovò Alice che lo stava aspettando. L'ingegnere metafisico fluttuava a un palmo dal suolo, coi capelli rossi che le ondeggiavano intorno come un fuoco subacqueo. Piegò in un sorriso le labbra bluastre e gli indicò il soffitto. Era lassù che si trovava il dio della salsedine e della nebbia, con le grigie ali aperte per mantenersi stabile. Anchor e Alice salirono fino a lui. Negli otto o dodici pollici più elevati della cabina era rimasto imprigionato un cuscino d'aria. Anchor emerse dall'acqua in quello spazio angusto, sbatté la testa contro una trave del soffitto e vide il volto preoccupato di Cospinol. Subito dopo apparve con uno sciacquio anche Alice, coi capelli bagnati appiccicati alla testa. Il dio e lo schiavo si guardarono. Cospinol disse: «Potete respirare, se volete. L'aria sarà un po' rancida, ormai, ma credo che su questo possiate sorvolare. La cosa importante è che conduca i suoni». Anchor tossì e sputò l'acqua che aveva in gola, poi si guardò intorno. «Avete proprio lasciato andare in malora questo posto, eh?» Aspirò una lunga boccata d'aria e subito se ne pentì. Il vecchio dio del mare non aveva esagerato nel definirla «rancida». «La Rotsward continua a esistere perché noi vogliamo che esista. Se lei è vecchia e malridotta, allora cosa dire di noi?» Anchor rise. Cospinol sorrise. «È bello rivederti dopo tutti questi anni, John, anche se avrei voluto che le circostanze fossero diverse. Sembra proprio che questa battaglia non sia del genere che preferisci tu.» «Quegli sventurati non hanno abbastanza cervello per capire che quando uno li ammazza devono morire», grugnì lui. «Non è una battaglia, Cospinol. È soltanto macelleria.» «E senza scopo, anche. Io non credo che questo nemico possa essere distrutto, almeno non qui. Se loro fossero tutti qui, allora forse, ma queste poche migliaia...» Cospinol abbassò lo sguardo nell'acqua sotto di lui. 55
Anchor si accigliò. «Che volete dire con 'se loro fossero tutti qui'? Ce ne sono già migliaia. È proprio questo il problema, no? Troppi nemici.» Alice scosse il capo. «Non li si può uccidere, perché non sono individui. Condividono una volontà comune, forse perfino un'anima comune.» Anchor non capiva. «Sono come un formicaio», spiegò lei. «Lo scopo del gruppo è più grande delle sue parti. Ma in questo caso il formicaio è intelligente. I Difettosi non sono un esercito... sono una singola entità, un dio, se preferisci dire così. Questi guerrieri storpi non si rendono conto di essere parte di un'idea più grande e più complessa delle loro singole coscienze. Distruggere una manciata di formiche non influisce sulle operazioni del formicaio.» Il grosso individuo grugnì. «Allora dobbiamo ucciderli tutti?» «È questo il problema», disse Cospinol. «Loro non sono tutti qui. Gli Icarate di Menoa hanno torturato questi esseri finché le loro menti non si sono spezzate. Senza la mente, essi non hanno più potuto mantenere le loro forme individuali, nell'Inferno. I loro corpi fisici si sono sciolti e una volta precipitati nel Labirinto hanno formato un grande fiume sotterraneo. Ora però il Fiume dei Difettosi è diventato senziente. Sta entrando in azione: un nuovo dio con una mente singola capace di dare delle forme a questa legione di suoi componenti. Per distruggere i Difettosi dobbiamo distruggere l'intero fiume. Ma come si fa a distruggere un fiume?» Anchor provò un certo sollievo. Per quel giorno gli sembrava di aver sparso abbastanza sangue. «Allora cosa dobbiamo fare?» «Ragionare con lui», disse Alice. «Prima o dopo che lui avrà finito di macellare tutti gli impiccati di Cospinol?» borbottò Anchor. «Non mi sembra capace neanche di ascoltare, figuriamoci di ragionare.» «Qui c'è solo una piccola parte di quell'insieme», replicò lei. «Una manciata di formiche separata dal formicaio. Se noi raggiungiamo la sorgente, la mente, dovremmo riuscire a ficcarci dentro un po' di buonsenso. Dopotutto Menoa lo ha persuaso a combattere per lui.» Il dio della salsedine e della nebbia sembrava più vecchio e stanco che mai. «È questo che mi spaventa. Ciò che Menoa ha fatto qui l'avrei creduto impossibile. Il Signore del Labirinto non dovrebbe essere in grado d'influenzare i Difettosi. Per dirne una, a rovinare quella gente sono stati i suoi stessi Icarate. Quei sacerdoti li hanno torturati al punto che non riuscivano più a far loro un danno maggiore, e ora le loro tecniche mesmeriste sono 56
inutili. Se Menoa ha fatto un patto con questo nuovo dio, deve averlo ingannato in qualche modo.» «Voi pensate che il fiume abbia paura di Menoa?» domandò Anchor. «Forse. Se non sa che Menoa non è più una minaccia per lui, abbiamo una possibilità. Temo però che la cosa sia più complicata.» Cospinol scosse il capo. Alla superficie dell'acqua balenò un improvviso lampo di luce bianca. Alice tirò fuori un piccolo apparecchio d'argento e di cristallo, si tolse l'acqua dagli occhi e lesse un indicatore. «Sono arrivati sul ponte.» Anchor si volse a Cospinol, inarcando un sopracciglio. «Allora, che si fa? In un modo o nell'altro, tra poco questo portale diventerà una zuppa di carne.» Il dio della salsedine e della nebbia si grattò il naso, poi sbuffò. «Non voglio continuare a far del male a quelle sventurate creature senza una buona ragione. Se Menoa ha parlato con la loro sorgente ed è sopravvissuto, possiamo farlo anche noi.» La sua espressione si fece dura. «John,, spezza il cardine del portale. Ormai siamo scesi più che a mezza strada. Quando il portale collasserà, il colpo disperderà i Difettosi e ci scaraventerà tutti all'Inferno.» «Questo non potete saperlo, signore! Potremmo andare a finire di nuovo sulla terra, o...» - Alice agitò le mani prive di vita - «da qualche parte, ovunque, nell'Inferno. A un milione di leghe dalla Cittadella di Menoa! Nessuno ha mai spezzato un portale prima d'ora.» Cospinol guardò Anchor. Il grosso schiavo sorrise. «Non ho nessun desiderio di ammazzare altri di quegli storpi. Se c'è una possibilità di arrivare all'Inferno senza spargimenti di sangue, non m'importa di ritrovarmi nel suo angolo più lontano.» Cospinol annuì. Stavolta John Anchor non attaccò gli avversari. Ne incontrò dozzine nei passaggi interni della Rotsward e si limitò a gettarli da parte. Quando uscì sul ponte dì coperta, una ventina di loro fendette l'acqua ferocemente decisa a dargli addosso. Lui nuotò via. Il cardine del portale era già stato indebolito dal passaggio degli arconiti, e in ogni caso prima o poi avrebbe finito col cedere. Anchor non fece altro che accelerare quel processo. Con centinaia di Difettosi che gli si ag57
grappavano al robusto vestito, ai finimenti e alla corda di traino, afferrò la membrana surriscaldata con ambo le mani e tirò. Dal materiale lesionato scaturì una luce bianca. Anchor sentì l'acqua intorno a sé addensarsi, e un'improvvisa tremenda pressione gli attanagliò tutto il corpo, con una violenza che avrebbe schiacciato un uomo normale. Ma lui non era più un uomo normale da trenta secoli e, quando quell'implosione si rovesciò verso l'esterno, lui strinse i denti e chiuse gli occhi e, poiché non aveva altra scelta, ne sopportò l'impatto. Da tempo aveva deciso di non soccombere a una cosa stupida come la morte. In quel primo momento mille tonnellate di detriti e cadaveri animati gli erano piombate addosso. Poi sentì la corda della nave volante allentarsi dietro la sua schiena e tendersi di nuovo, con un contraccolpo che gli premette dolorosamente la bardatura contro le costole. Stava cadendo... E, quando alla fine aprì gli occhi, vide il cielo rosso dell'Inferno spumeggiare intorno a lui. Molto più in basso, il Labirinto si estendeva fino all'orizzonte: uno sterminato groviglio di canali rosso rubino e nere mura diroccate, punteggiato di templi e ziggurat che troneggiavano su rupi di pietra scura o spuntavano da verminose paludi. Quello scenario era offuscato da immensi sciami di mosche e nuvole di vapore bollente, però a quell'altezza il cielo restava freddo e rosso come sangue congelato. Lui si guardò intorno nella speranza di scorgere la Nona Cittadella, o il Processore da cui i Primi Icarate controllavano i loro giganti assassini. Ma quelle strutture non erano in vista. La fortezza di Menoa si trovava chissà dove. Sotto di lui c'erano soltanto milioni di leghe d'Inferno in ogni direzione. *** Dill udì il colpo di moschetto. La secca detonazione echeggiò sul deposito di tronchi e nella grigia nebbia intorno alle casupole. Il corpo che lui stava occupando non gli apparteneva, così seppe che quella stretta al cuore non poteva essere una reazione fisica all'improvviso sgomento. Ma gli fece male lo stesso. Cominciò a chinarsi verso la locanda, sulla strada di fronte a lui, ma esitò. Le sue mani non avrebbero potuto entrare nell'edificio senza fracassarlo da cima a fondo. «Dill, aspetta!» Il grido acuto di Mina, aggrappata ai suoi denti, lo fer58
mò. «Facci scendere.» Dill guardò il tetto di assicelle. All'Inferno, pensò. Allungò le mani, piantò le dita nel terreno ai lati opposti della locanda e sollevò l'intero edificio staccandolo di netto dal suolo, comprese le fondamenta. Il camino di pietra cedette al suo stesso peso, staccandosi dalla parete di tronchi, e si rovesciò contro uno dei suoi pollici, ma il tetto e i muri rimasero intatti. Dall'interno provennero urla di terrore. Dill tenne la locanda sul palmo delle mani. La sua parte inferiore posava su uno strato di terreno ancora compatto, parzialmente erboso. La alzò davanti alla faccia e sbirciò in una delle finestre. Una stanza vuota. Girò un poco l'edificio per guardare nelle altre. «Dill, apri la tua dannata bocca, e lasciaci uscire da qui!» gridò Mina. Lui fece come gli veniva chiesto e accostò alla mandibola lo strato di terreno solido su cui posava l'edificio. Mina e Hasp uscirono dalla chiostra dei denti, mentre una cascata di terriccio e sassi pioveva sulla strada, cento piedi più in basso. Hasp corse dentro la locanda dalla porta principale, e Mina lo seguì. Dill piegò leggermente l'edificio per poter guardare dentro il pianterreno. Il Signore della Prima Cittadella attraversò il salone di mescita e corse alle scale. Giunto qui, l'inclinazione dell'edificio lo fece sbandare di lato e dovette aggrapparsi alla ringhiera, con un grugnito. Mina scivolò sul pavimento in pendenza, e gridò: «Dill, per l'amor del cielo, cerca di tenere dritta questa casa. Io potrei spezzarmi fin troppo facilmente». Hasp era nel frattempo arrivato in cima alle scale e sparì alla vista. Dill girò l'edificio sulle sue mani, con cautela. Quasi tutte le finestre erano chiuse. Tra quelle aperte non ce n'era una che consentisse di vedere il corridoio del piano superiore, e con entrambe le mani così impegnate lui non aveva modo di aprire le imposte senza rischiare che la locanda precipitasse al suolo. La piccola insegna ondeggiava semistaccata sopra la porta. Per la frustrazione fu sul punto di ruggire come un animale. Nonostante la sua immensa forza lui era del tutto inutile. Sollevò ancora l'edificio, stavolta con molta attenzione, e guardò ancora attraverso la porta. Mina si era fermata a metà della scala, ma Hasp e Rachel non si vedevano. Quasi tutti i tavoli e le sedie erano scivolati ad ammucchiarsi contro il muro posteriore. Dozzine di bottiglie rotolavano qua e 59
là, spargendo il loro contenuto sul pavimento. Si sentiva odore di alcol. L'intera costruzione cigolava in modo allarmante. Dill non riuscì a trattenersi. «Dov'è Rachel?» ruggì. La sua voce metallica risuonò nel cielo, odiosamente alta anche per le sue stesse orecchie. Il cane della taumaturga prese a saltellargli tra i denti, abbaiando con frenesia. Mina si era coperta le orecchie con le mani. «Cerca di non parlare, Dill. La tua voce può sfondarci i timpani. Hasp è andato di sopra a cercarla. Aspetta, mi sembra di sentire...» In quel momento il Signore della Prima Cittadella scese le scale, col corpo inerte di Rachel sulle braccia. L'assassina sanguinava a profusione da una ferita su un lato della testa. *** Mentre la nave volante scendeva verso la superficie dell'Inferno, Alice sedette sul bordo della sua cuccetta. L'intera cabina cigolava e vibrava come se stesse per andare a pezzi. Lei evitò accuratamente di guardare fuori del piccolo oblò e si concentrò sugli apparecchi e sugli altri oggetti che aveva disposto sul materasso. Per tenersi occupata fece un inventario. Un urlatore. Un localizzatore. Alcuni cristalli mesmeristi e parassitici fumanti. Un rotolo di filo cercatore in tre stati di agitazione. Olio di anima. Tre fiale di sangue di assassinato per alimentare il localizzatore e l'urlatore. Un cacciavite d'argento con testa mutaforma a tre livelli. Pinze e altri piccoli oggetti da tortura per mantenere obbedienti i dispositivi. Un fischio adattivo di Collecavo. Lenti spirituali. E la sua perla animata. Immersa nella luce sanguigna che entrava dall'oblò, la piccola sfera di vetro sembrava emettere una luce propria, come se potesse sentire quel nuovo ambiente e stesse reagendo a esso. Ciò era impossibile, naturalmente. Soltanto l'urlatore, il localizzatore e il cacciavite erano senzienti. La perla, in realtà, era vuota. Alice Harper raccolse la perla animata, se la strinse al petto, poi chiuse gli occhi e ascoltò i venti dell'Inferno che sibilavano fuori della nave volante. Tra quel vascello e la grande fortezza viva di Menoa poteva esserci un milione di leghe di putride immensità, ma ciò non la faceva sentire più al sicuro. Il Signore del Labirinto aveva innumerevoli spie, tutte alla loro ricerca. 60
Alla sua ricerca? Lei non osava indugiare troppo su quel pensiero. Menoa aveva già dimostrato di avere un interesse personale nelle sue sofferenze e, benché le avesse promesso più volte di restituirle l'anima di suo marito, non aveva mai mantenuto la parola. Il localizzatore mandò una sottile nota di tromba. Alice Harper aprì gli occhi, raccolse l'apparecchio e guardò la danza della lancetta d'argento tra i glifi incisi sul pannello metallico. Gli aveva dato l'istruzione di cercare una particolare frequenza emozionale... e ora il localizzatore le annunciava di aver avuto successo. «Troppo presto. Non ti credo», disse. L'apparecchio crepitò. Alle orecchie di Alice quella suonò come una risatina metallica. Che quell'oggetto la stesse prendendo in giro? Lei non aveva mai sospettato che fosse capace di mentire. La lancetta si spostò da una parte e dall'altra come un dito ammonitore, poi si fermò su un glifo la cui forma era quella di una lacrima cadente da una falce di luna. Il localizzatore emise un gemito, poi ancora un suono di trombetta. «Tom non può essere qui», disse lei. «Le probabilità sono...» Ma cos' erano le probabilità? Alice aveva speso più del tempo di una vita cercando suo marito nei meandri dell'Inferno, e ogni suo sforzo era stato inutile. Captare la sua frequenza emozionale lì, proprio nel momento in cui lei faceva ritorno nel Labirinto, era una coincidenza troppo strana perché potesse accettarla. In ciò sentiva la mano di qualcun altro. Menoa? Scrollò con forza il localizzatore. «Quand'è che lui ti ha corrotto?» gridò. «È stato Menoa a ordinarti di fare questo? Non mentirmi!» Il piccolo apparecchio gemette ancora. Alice smise di scrollarlo. Con mani tremanti, si appoggiò l'oggetto a una guancia, e ne sentì il calore attraverso la sua fredda pelle morta. «Scusami. Non volevo farti male.» Accarezzò il localizzatore, poi tirò su col naso e guardò ancora il glifo. Possibile che Tom fosse davvero nelle vicinanze? Andò all'oblò e guardò fuori. La nebbia di Cospinol era scomparsa. Lì sotto non c'era nessun sole naturale a danneggiare il dio o il suo vascello, e quel cielo era rosso e ardente come una brace. Più in basso, il Labirinto si estendeva a perdita d'occhio, 61
nero e rossastro come una piaga di carne ustionata. Col localizzatore in una mano, Alice alzò l'altra e passò le sue fredde dita sull'oblò. I polpastrelli non lasciarono sul vetro né impronte digitali né aloni di umidità. I suoi occhi acuti, da tempo allenati a cercare Ioliti e altre spie trasparenti nei cieli dell'Inferno, individuarono qualcosa di strano: movimenti indistinti di quelle che sembravano vaghe ombre, attraverso l'atmosfera. Prese le tre lenti spirituali dalla cuccetta, le esaminò un momento e si mise davanti a un occhio la più scura. Visto attraverso il vetro colorato, il cielo vermiglio le apparve verde. Le forme vaghe che aveva intravisto poco prima diventarono all'istante più nitide e riconoscibili. «Merda», imprecò.
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4 I BOSCAIOLI
Figure d'ombra erano chine su di lei. Nel grigiore dell'incoscienza vide occhi, facce indistinte. Ebbe paura di essere in una cella della Spina sotto il tempio di Deepgate, perché sentiva l'odore del sangue e stava soffrendo, e ciò significava che dovevano esserci dei sacerdoti a benedire e somministrare la sua tortura. Perse i sensi. Quando si risvegliò, Rachel si accorse di essere distesa su una branda con un morbido cuscino sotto la nuca. Aveva le braccia e le gambe rigide come le travi del soffitto sopra di lei. Un improvviso dolore alla testa la fece gemere. Guardò il soffitto di legno e concluse di essere a bordo della Rotsward, perché l'intera camera sembrava ondeggiare e rullare a brevi intervalli. «Come ti senti?» Rachel si volse e vide che seduta presso la finestra c'era Mina. L'aspetto della camera in cui si trovavano le era però vagamente noto, e d'un tratto si sentì contrarre lo stomaco con tale forza che fu sul punto di vomitare. «Questa non è la nave volante?» «Cosa ti ricordi?» «Una locanda... Non possiamo restare qui, Mina. Gli arconiti...» Mina si alzò e andò accanto al letto. «Quelli sono ancora lontani da noi. Tu hai molto bisogno di riposo, così abbiamo deciso che qui saresti stata più comoda.» Rachel s'irrigidì quando un'altra fitta di dolore le attraversò la testa. «Quell'uomo mi ha colpita. Dio, Mina, ho visto che lo stava facendo. Io ho cercato di focalizzare, ma la piccola freccia è arrivata troppo in fretta. Non avevo mai...» Riprese fiato. «Non avevo mai visto usare una di quelle armi.» «Era un moschetto, un'arma da fuoco delle più semplici», spiegò Mina. «Una scintilla dà fuoco a una polvere particolare nella camera di scoppio, e l'esplosione fa schizzare una sferetta di piombo fuori della canna. A Deep63
gate costruivamo armi come quella più di trecento anni fa, prima che la Chiesa di Ulcis mettesse fine a quel genere d'innovazioni. Si usa dire che il proiettile viene sparato... e quell'Abner Hill voleva sparartelo dritto in faccia.» Rachel cercò di toccarsi la ferita alla testa, ma Mina la fermò. «La palla del moschetto ti ha sfiorato il cranio. O quell'idiota ha una pessima mira, o tu sei riuscita a focalizzare quel tanto che è bastato per salvarti. Hai solo uno squarcio nel cuoio capelluto, perciò lascia stare il bendaggio. Se la ferita non s'infetta, vivrai.» Prese un bicchiere d'acqua dal comodino. «Bevi.» Rachel sorseggiò il liquido. «Dov'è quello là?» «Hill? È di sopra, con sua moglie. Hasp voleva ammazzarlo, ma credo di averlo persuaso a non farlo. Quella gente conosce la regione molto meglio di noi. Ci hanno messo sulla buona strada.» «E Hasp dov'è?» Mina esitò, poi scosse il capo. «Per il momento vuole essere lasciato in pace. Ha delle cose di cui deve occuparsi da solo.» «E Dill?» «Lui è sempre lo stesso, grosso e brutto, ma è stato felice di sapere che non sei morta.» Rachel scostò la coperta e mise le gambe fuori della branda. Ma mentre si alzava a sedere gemette, stordita. La stanza le girava intorno. E le sue gambe erano pesanti come blocchi di ferro... anche quello un postumo della focalizzazione. Lei si era mossa con la velocità tipica degli assassini della Spina, ma non abbastanza da evitare del tutto la palla del moschetto. «Cerca di prenderla con calma.» «Sicuro, non appena avrò detto due parole a quel bastardo.» Mina la aiutò ad alzarsi e a uscire dal piccolo ufficio-camera da letto del pianterreno. Nel salone della locanda c'erano ancora bottiglie vuote sparse ovunque, e l'aria odorava di whisky. La maggior parte delle sedie e dei tavoli era accatastata contro il muro posteriore e alla base delle scale. Sembrava che lì dentro fosse passata una tromba d'aria. Salirono al primo piano e Mina sostenne Rachel fino a una delle camere. Aprì la porta. Abner Hill e sua moglie erano seduti sul letto. La giovane donna fissò Rachel a occhi spalancati, poi distolse lo sguardo e si portò una mano alla bocca per soffocare un singhiozzo. I lunghi capelli d'oro le ricadevano da64
vanti al viso, nascondendo gli occhi gonfi di pianto. Rachel corrugò le sopracciglia. La donna da cui era stata aggredita aveva capelli arancione. Lo ricordava bene. «Tu sei quella che voleva colpirmi con l'accetta?» domandò. Un'altra fitta di dolore alla testa le strappò una smorfia. «Quella eri tu, o no?» La donna tirò su col naso e non rispose. Suo marito invece si rivolse all'assassina con tono insolente. «Non potete tenerci prigionieri. Questa è casa mia, dannati briganti mesmeristi.» Aveva parlato con un accento pandemeriano così marcato che a Rachel occorse qualche momento per decifrare le parole. Tuttavia non le sembrava di ricordare che l'uomo avesse un accento di qualche genere, la prima volta che l'aveva sentito parlare. «Noi non siamo mesmeristi né ladri», disse infine. «Avresti almeno potuto domandarlo, prima di cercare di staccarmi la testa.» «Ah, sì? E suppongo che adesso mi dirai che quello qui fuori non è un arconita.» Lei capì cosa voleva dire. Abner la guardò con rabbia. «Voialtri siete arrivati a Farrel dentro la bocca di quel dannato mostro, poi avete sfondato la porta di casa mia, e tu sei salita qui con un'arma in mano come se volessi fare un massacro. Ecco perché ti sei presa una pallottola nella testa, donna.» I suoi denti giallastri si scoprirono in un ghigno aspro. «Adesso vieni a raccontarmi che non siete dei ladri, e intanto mi derubate senza pietà.» «E cos'è che ti stiamo rubando?» L'altro la guardò incredulo. «Quella pallottola deve averti proprio stordita, signora mia. Cosa mi state rubando? Mi avete portato via tutto quello che avevo. Le mie cose, la mia sola fonte di sostentamento, perfino la mia maledetta casa!» Rachel guardò Mina, che scrollò le spalle. Andò alla finestra. Fuori c'era nebbia, ma non tanta da non vedere che cento piedi più in basso le cime degli alberi passavano via come la superficie ondulata di un mare verde. Dill stava portando con sé l'intera locanda. «È più comodo che abitare dentro la sua bocca», disse Mina. L'ex assassina cercò di non muovere troppo la testa. «Mi dispiace», disse all'uomo che aveva cercato di ammazzarla. «È triste che le cose siano andate così.» Qualche ora dopo Rachel era distesa sul letto, quando Mina arrivò dalla 65
cucina con una tazza di tè, mentre Basilis le zampettava intorno ai piedi. Doveva essersi addormentata senza accorgersene, perché fuori c'era poca luce e gli angoli della stanza erano pozze d'ombra. Le restavano vaghi ricordi di un sogno nel quale aveva discusso con una donna dai capelli arancioni circa uno specchio rotto, ma i particolari erano imprecisi e stavano già svanendo. Le fitte di dolore alla testa avevano lasciato il posto a un continuo ma sopportabile mal di capo. «Hai notato qualcosa di strano, di recente?» domandò, voltandosi verso Mina. La giovane taumaturga la guardò. «Siamo in una casa trasportata da un golem alto quasi quattrocento piedi, con un'altra dozzina di questi giganti che ci inseguono. È abbastanza strano?» «La moglie di Abner si è cambiata il colore dei capelli? Voglio dire, mentre io ero in stato d'incoscienza?» Mina inarcò le sopracciglia. «Ah, tu intendevi cose davvero strane? Come il fatto di tingersi i capelli in questa situazione?» Si finse teatralmente pensierosa. «No, non credo che la signora Hill sia passata da un'estetista, da quando ci siamo incontrati.» Versò il tè in due bicchieri. «Si chiama Rosella, e ha una paura dannata di quel grosso idiota.» «Scusa. So che sembra ridicolo. La memoria mi sta giocando qualche scherzo.» Mina mugolò un assenso. «Strano. Non è per caso che qualcuno ti abbia sparato in testa, ultimamente?» Rachel sorrise. Mina le porse uno dei bicchieri e restò a guardare mentre l'altra beveva un sorso. Il tè era forte e amaro. Rachel aspirò il vapore che si alzava dal liquido caldo. «Abner non ha torto. Gli abbiamo rubato ogni mezzo di sostentamento.» «Consideralo un prestito. Non appena gli avremo salvato la vita, a lui e a tutti gli altri di questo mondo, gli restituiremo la sua locanda.» Mina appoggiò il bicchiere vuoto sul pavimento, accanto alla teiera. Rachel seguì quel gesto con lo sguardo. «Quando hai bevuto quel tè?» «Proprio adesso.» «Ma...» D'un tratto Rachel si sentì confusa, come se i suoi pensieri si fossero aggrovigliati. Lei non aveva neppure visto Mina portarsi il bicchiere alla bocca. Eppure non le aveva tolto gli occhi di dosso, mentre assaggiava il suo tè. Abbassò lo sguardo e si accorse di avere in mano un bic66
chiere vuoto. Ed era freddo. Aveva dei vuoti mentali? Mina continuò: «Inoltre Hasp ha detto che, se vorremo arruolare soldati tra i resti sbandati dell'esercito di Rys, avremo bisogno di una base di operazioni. Lui pensa di usare questo edificio per intrattenere i nostri futuri alleati». Rachel stava guardando il suo bicchiere vuoto. Evidentemente la ferita le aveva danneggiato la testa più di quello che era parso. Depose il bicchiere sul pavimento, presso il letto, e chiuse gli occhi. «Sono stanca. Credo di aver bisogno di dormire.» «Finisci il tuo tè. Ti farà bene», le suggerì Mina. Rachel sentì il calore del bicchiere che aveva in mano. L'aroma dolceamaro del tè accarezzò i suoi pensieri. Riaprì gli occhi. «Cosa? Scusa, Mina, devo essermi appisolata un momento.» Mina bevve un sorso dal proprio bicchiere. «Il parassita di Menoa non gli dà requie. L'ultima volta che l'ho visto era seduto sul pavimento della dispensa con una bottiglia di whisky tra le mani, ubriaco come più non si potrebbe essere.» «Stavamo parlando di Hasp?» «Me l'hai chiesto tu.» «Sì. Scusami. Vuoi che gli parli io?» La taumaturga si strinse nelle spalle. «Potresti provarci.» Rachel sospirò. Sembrava che si fosse persa una parte della conversazione. Faticava a ricordare di cosa stavano parlando. La testa continuava a farle male, ma ora si sentiva un poco più lucida. Il tè di Mina le aveva schiarito i pensieri. Si alzò a sedere contro il cuscino e spostò le gambe fuori del letto. «Grazie, Mina. Gli porterò un po' di questo tè.» Riempì di nuovo il bicchiere e si alzò, vacillando. «Ti senti bene? Sei molto pallida.» Rachel scrollò le spalle. «Io sono una Spina.» Nello specchio crepato della Compagnia Ferroviaria di Pandemeria, Rachel vide di nuovo il suo riflesso. Aveva l'aria più sciupata del solito, e in quella stanza oscura sembrava uno spettro, il relitto di una guerra lontana e ormai dimenticata. La benda che le avvolgeva la testa era stata ricavata da un panno bianco e azzurro. Alzò una mano a sfiorare la macchia di sangue sopra l'orecchio destro. Qualcuno aveva tolto di mezzo le bottiglie, riportato uno dei tavoli al centro della sala e messo lì due sedie. L'edificio ondeggiava lentamente da una parte e dall'altra, e lei sentì provenire dal basso un rumore di alberi 67
stritolati. Andò in cucina. Hasp sedeva sul pavimento della dispensa, con la schiena appoggiata allo stipite della porta. Quattro bottiglie di whisky vuote rotolavano avanti e indietro sulle tavole, vicino ai suoi piedi. Ne aveva in mano un'altra, mezza piena, e se la portò alla bocca. Poi si voltò a guardare Rachel con occhi arrossati. «C'è un dio che entra in un bar e va al banco», disse lei. «Ma il barista gli fa: 'Senti, amico, qui non serviamo gli dèi'. Il dio brontola: 'Ah, no? E perché diavolo non li servite?' E il barista risponde: 'Ho già il garzone che mi pulisce il pavimento, e lui non me lo pulisce col culo'.» Hasp si sbatté la bottiglia contro una tempia. «Sto cercando di... far ubriacare quella fottuta cosa, ma il bastardo... regge l'alcol meglio di me.» E versò altro whisky sulle tavole di legno. «Ti andrebbe un po' di tè?» La risposta del dio fu un grugnito sprezzante. Rachel posò il bicchiere su uno scaffale; poi ci ripensò, bevve metà del contenuto e lo depose dov'era meno probabile che si rovesciasse. Era freddo, dal sapore disgustoso, e lei si domandò perché si fosse presa il disturbo di portarlo lì. Il suo sguardo passò in rassegna una fila di barattoli polverosi, delle giare panciute e una cassetta dove c'erano vecchie patate, cavoli e carote. «Mina dice che stiamo seguendo una strada di qualche genere.» «Boscaioli», spiegò Hasp. «Teste dure che Rys pensava di usare come riserve. Nessuno di loro si è mai fatto vedere a Coreollis, benché lui li avesse convocati.» Si passò una mano sulla barba ispida e cercò di sputare, ma uno schizzo di saliva gli ricadde sul mento. «Quelli stanno andando tutti quanti a Herica, come noi... hanno abbandonato i loro villaggi, quando il trattato di pace ha cominciato a restargli scomodo. O la notizia della nostra fottutissima gloriosa disfatta li ha subito raggiunti, oppure avevano visto la battaglia di Larnaig dalla loro foresta. L'oro di Cospinol ci permetterà di arruolare solo un po' di codardi, i più lenti a filarsela quando ci vedranno arrivare.» «Le orme che abbiamo visto sulla strada erano fresche, perciò è probabile che li raggiungeremo presto.» Hasp sbuffò. «Tu mi preferisci più sobrio, eh?» «Più civile, diciamo.» Il dio mise da parte la bottiglia di whisky. «Io non sono...» Per qualche momento tacque, fissando con occhi vitrei un angolo della sala. «Non sono nulla di più del fottuto parassita dentro di me.» La guardò. «Capisci? È 68
questo che Menoa vi ha lasciato. Se mi avesse ucciso non vi sarebbe restato niente, ma ora sono meno di niente... un peso morto. Io sto per tradirvi su ordine di questo dannato... piccolo pezzo d'Inferno che ho nel cranio.» Scoprì i denti in un sogghigno e sbatté la bottiglia di whisky sul pavimento, che andò in pezzi, ma la sua mano rivestita di vetro rimase intatta. «Calmati!» Hasp alzò quel guanto trasparente e guardò il sangue che scorreva dentro di esso. «Più duro di quanto sembri, eh?» «Non metterlo alla prova, Hasp. Tu ci servi vivo.» Lui sbuffò e si asciugò il naso. «Vivo?» Borbottò qualcosa tra sé, poi fece un sospiro. «La mia testa...» «Domani ti farà anche più male.» «Bene. Questo punirà il fottuto che c'è dentro.» Ormai era quasi buio. Il dio seduto a gambe larghe sul pavimento puzzava di whisky, indossava un abito sporco e spiegazzato, e le sue orbite erano pozze d'ombra. Il collo e le braccia avevano un luccichio rosso scuro simile a quello del sangue fresco. Rachel guardò sugli scaffali, poi andò in cucina e rovistò nei cassetti finché non trovò alcune lunghe candele. L'acciarino a pietra focaia non c'era. «Abbiamo bisogno di luce. Vado a vedere se Mina ha qualcosa che si possa usare per accendere.» Ma il Signore della Prima Cittadella non rispose. Stava russando. *** La luna era già alta e brillava dentro un alone di nebbia quando Dill decise di fermarsi. Rachel e Mina erano sedute davanti alla stufa panciuta nel salone di mescita, e stavano mangiando ciò che restava dello stufato di cui avevano portato due piatti anche a Rosella e ad Abner Hill. D'un tratto si accorsero che l'edificio era del tutto immobile. Dalle finestre entravano soltanto il silenzio e il freddo vento della notte. Poi la locanda prese ad alzarsi rapida nel cielo. Rachel guardò la taumaturga. «Dill ha visto qualcosa.» Mina annusò l'aria. «Profughi», diagnosticò. Le due donne deposero i piatti sul pavimento, presero le candele e andarono alla porta della locanda. Fuori c'era la grande faccia metallica dell'arconita. Rachel uscì, e Mina le tenne dietro. 69
Due passi di terreno indurito circondavano l'edificio, come se quello fosse costruito su una minuscola isola circondata da un mare di nebbia. Le scheletriche dita di Dill, ricurve all'insù intorno ai bordi di quel precipizio, erano lunghe e grosse come tronchi d'albero. Aveva sollevato la locanda per guardarci dentro, e i suoi occhi artificiali la osservavano scuri e inespressivi come buchi nel cielo. Alle spalle di Rachel la locanda era ben visibile sullo sfondo della notte, poiché dalla porta e da ogni finestra usciva luce gialla. L'odore dei pini verdi che saliva dal basso si mescolava con quello delle infernali sostanze chimiche dell'arconita. Rachel udì il grido di una donna, in distanza. «Dill, mettici a terra.» Lui non si mosse. «Ho bisogno di parlare con quella gente, Dill.» Accanto a lei, Mina si era accigliata, e scosse il capo. «Stanno attaccando i piedi del nostro arconita con mazze e accette.» Rachel le rivolse uno sguardo interrogativo. «Non hanno la possibilità di danneggiarlo», disse la taumaturga. Rachel tornò a rivolgersi alla grande faccia davanti a loro. «Io posso cavarmela, con un gruppo di boscaioli.» Il grande cranio si piegò in avanti, facendo cadere fuori alcune monete d'oro. Poi Dill si chinò e abbassò l'edificio e la sua isoletta di terreno verso il suolo. Quando La sega Rugginosa fu alla portata dei boscaioli venne accolta da una selva di frecce che sbucarono dalla nebbia come vespe fruscianti. Rachel vide che i carri dei profughi erano posteggiati in fila sulla strada che tagliava la foresta, più avanti. Intorno a quella dozzina di pesanti veicoli coperti di tela, tra gli alberi ai lati della strada, c'erano molte tende coperte di pelli, abbastanza per alloggiare due o trecento persone. Nel sottobosco fangoso, tra mucchi di aghi di pino, brillavano numerosi fuochi da campo tra cui si muovevano ombre umane, e un po' ovunque c'erano cavalli e muli che si agitavano spaventati e lottavano contro le corde che li assicuravano agli alberi. Parecchi uomini stavano attaccando i piedi di Dill a colpi d'ascia, e le loro lame d'acciaio riflettevano in rapidi archi rossastri la luce dei fuochi. Erano individui robusti e corpulenti come gli uomini del Nord di Rys, ma indossavano semplici armature di assicelle di legno dipinto. Le loro donne si stavano disperdendo e tiravano fuori dei carri ogni oggetto che potessero trasportare a mano per fuggire nella boscaglia melmosa ai lati della pista. I bambini piangevano tra le loro braccia. I cani latravano e correvano tra le 70
gambe degli uomini in fuga. Qualcuno prese a calci uno dei fuochi e scaraventò tra i cespugli rami fiammeggianti e braci. L'assassina gonfiò d'aria i polmoni e gridò: «Fermatevi!» Un uomo dai lunghi capelli svolazzanti si precipitò verso di lei brandendo un'accetta. Lei gli spaccò gli incisivi con un pugno e lo gettò a terra. «Ho detto 'fermatevi'!» Mina si morse un labbro e indietreggiò verso la porta della locanda, mormorando ordini al cagnolino infernale. «Non farlo, Mina», gridò Rachel. «Non qui.» La taumaturga si fermò. Spalancò gli occhi e il suo sguardo si spostò su qualcosa alle spalle dell'altra. Rachel si voltò e afferrò per un polso un altro individuo che stava per colpirla, forzandolo ad abbassare il braccio così bruscamente che l'accetta si conficcò nel terreno. Poi gli affondò un gomito tra i pannelli di legno che gli proteggevano il petto, facendolo piegare in avanti, e lo stordì con una ginocchiata in fronte. Un terzo e un quarto aggressore saltarono sopra l'isola di terreno ancora posata sulla mano di Dill. Rachel alzò le braccia. «Non siamo qui per combattere.» Loro sogghignarono e andarono verso di lei, poi esitarono scambiandosi un'occhiata, come se avessero avuto un'idea migliore su come occuparsi di lei. Il più alto dei due srotolò un lazo che portava appeso alla cintura, mentre le piastre nere del suo pettorale riflettevano le luci della locanda. Il suo compagno si passò una mano tra la barba per togliersela dalla bocca, e poi alzò un coltellaccio. «Siamo qui per ordine di Cospinol», disse Rachel. «Reclutiamo gente ancora fedele a Rys, per combattere contro il Signore del Labirinto. Voglio parlare al vostro capo.» «Il comandante ha altro da fare», disse il boscaiolo barbuto. La sua armatura di legno rumoreggiò mentre andava verso di lei col coltello in mano. Nello stesso momento l'altro scagliò il lazo, mirando alla testa di Rachel. Lei afferrò la corda, ruotò la mano per arrotolarsela al polso e diede uno strattone, mentre si spostava di lato per evitare la goffa coltellata del barbuto. Con un calcio lo fece vacillare, e tirò ancora l'altro verso di sé. «Mi state facendo perdere tempo», disse. «Noi non siamo vostri nemici.» Il boscaiolo più alto esitò, incerto. 71
Ma in quel momento un feroce ruggito provenne dalla porta della locanda. Sulla soglia c'era Hasp, nudo a parte la sua epidermide-armatura infernale piena di sangue. Era ubriaco fradicio e brandiva una bottiglia di whisky. Nell'altra mano aveva la stessa accetta che Rosella Hill aveva cercato di usare contro Rachel. «Fottuti codardi traditori. Avevate troppa paura per combattere con noi a Larnaig!» Barcollò avanti sul terreno erboso e quasi cadde. Poi fece tre passi di lato, guardò gli avversari di Rachel e alzò ancora l'accetta. «Io sono Hasp della Prima Cittadella, e vi ammazzerò l'uno dopo l'altro, razza di bastardi.» Rachel guardò Mina. La taumaturga si limitò a stringersi nelle spalle. L'uomo che stringeva l'estremità del lazo si allontanò frettolosamente dal dio, con gli occhi spalancati per l'orrore. Lei mollò la corda per lasciarlo andare, e si voltò verso Hasp. Il dio vibrò l'accetta contro il niente e barcollò di nuovo avanti. «Hasp! Torna dentro, prima di uccidere qualcuno e mandare in malora tutte le nostre speranze», gridò Rachel. «Ammazziamoli tutti. Bastardi cafoni codardi.» Gli occhi arrossati di Hasp la misero meglio a fuoco. «Ti hanno ferito alla testa, eh? Ci penso io a proteggerti da questi... nemici, giovane signora.» «Proteggi te stesso, dannato sciocco. Hai la testa piena di whisky.» Lui le rivolse un sogghigno contorto che sembrava contrastare con l'amarezza del suo tono. «Sì, ho ubriacato l'insetto.» Si batté un dito su una tempia. «L'ho ubriacato e sottomesso. Il re dei mesmeristi non ha più nessun potere su di me.» «Questi non sono mesmeristi, Hasp. Sono uomini di Rys.» «Di Rys?» Lui vacillò di lato, poi si riprese e guardò il caos illuminato dai fuochi intorno a loro. «Avrebbero dovuto battersi con noi a Larnaig.» Sedette sull'erba e guardò l'accetta che aveva in mano. Sul terreno soprelevato della locanda erano saliti adesso quattro boscaioli. Portavano pettorali di legno legati insieme da fasce di cuoio, e coltellacci ricavati da semplici strisce d'acciaio rozzamente martellato. Si mossero minacciosi verso il dio. Uno di loro gridò: «Io sono un seguace del nobile Rys, e tu sei un fottuto demone». Rachel accorse a difesa di Hasp. «Lui è il fratello di Rys. È il Signore della Prima Cittadella, l'unico nemico di Menoa che sia vissuto all'Inferno negli ultimi trecento anni. Che intenzioni avete, voialtri boscaioli? Se osate 72
fargli del male, Coreollis vi chiamerà traditori, e io mi batterò contro di voi.» I quattro esitarono. «Lui ha una bocca capace solo di sputare veleno, ragazza.» «Questo non cambia il fatto che sia fratello di Rys.» L'uomo che aveva dichiarato di essere un seguace di Rys grugnì. Era più alto e più grosso della maggior parte dei compagni, ma di pelle scura come un Heshette. La sua armatura dipinta di verde era in legno finemente scolpito. Sulla fronte aveva una cicatrice orizzontale che sembrava causata dal bordo di un elmo colpito da una mazzata, occhi stretti come fessure, un gran naso a becco e capelli annodati in trecce sottili che gli ondeggiavano sulla schiena come fruste. Scrutò Hasp per un lungo momento, quindi si rivolse a Rachel. «Perché l'arconita non ci attacca?» domandò. «Non è Menoa che lo controlla.» Il boscaiolo alzò una mano e gridò agli uomini che si accanivano contro i piedi di Dill, gridando al di sopra del fracasso generale: «Fermatevi! Ricks, Nove Pollici, Pace, smettetela con questo dannato baccano, che io devo parlare». Il clangore delle asce che si abbattevano sul metallo cessò. I boscaioli interruppero il loro attacco e si riunirono intorno alla Sega Rugginosa. L'uomo con la cicatrice disse: «Io mi chiamo Oran, e questa carovana è sotto la mia protezione. Chi diavolo siete voialtri?» *** I boscaioli, spiegò Oran, provenivano da un'operosa cittadina di nome Ferris, quattro leghe più a meridione. Quel mattino presto erano passati da un borgo chiamato Farrel, quello stesso da cui Dill aveva prelevato La sega Rugginosa. Ora i suoi uomini erano molto divertiti nel trovarsi di fronte alla stessa locanda. «Credevamo di aver bevuto tutto il whisky che c'era qui dentro», spiegò Oran. «E ora scopriamo che misteriosamente ne è comparso dell'altro. Quel bastardo di Hill lo teneva nascosto da qualche parte.» Sedette al tavolo di fronte a Rachel e a Mina, e guardò pensosamente il suo bicchiere, mentre i boscaioli che si erano radunati davanti al bancone ridevano e bevevano. La luce arancione della stufa dava un'espressione preoccupata al suo volto rugoso. «Non hai ancora risposto alla mia domanda», disse Rachel. Oran guardò i suoi uomini. «Quanto siete disposti a pagare?» 73
«Abbastanza perché la tua gente eviti di morire di fame... e mantenervi dalla parte di chi combatte per la giustizia. La parte umana, voglio dire. Menoa potrebbe offrirvi più oro, ma in cambio si aspetta di avere le vostre anime.» Il cipiglio dell'uomo si scurì ancora mentre rimuginava su quelle parole, e la sua cicatrice frontale si contrasse. «Duecentosessanta uomini non sono abbastanza per ripararvi le spalle da quei colossi. Dubito che ne basterebbero diecimila. Nessuno ha mai ucciso un arconita.» Lei annuì. «Se così stanno le cose, noi non vi serviamo a niente.» «Vi pagheremo lo stesso. Meglio avere alleati contro eventuali imprevisti, che rischiare di vedervi arruolati tra i nostri nemici.» L'altro fece una smorfia. «Duecentosessanta uomini non sono abbastanza per ripararvi le spalle da quei colossi. Dubito che ne basterebbero diecimila...» Rachel avvertì una fastidiosa sensazione di prurito dietro il collo, come se una mano invisibile l'avesse sfiorata. «... nessuno ha mai ucciso un arconita», finì Oran. Rachel si mordicchiò un labbro, e per un momento lo guardò. Che fosse già ubriaco? O quella di parlare così era una sua abitudine? «Ti sei ripetuto, Oran?» L'altro si accigliò ancor di più. «Che vuoi dire?» «Io ho detto che sarete comunque pagati. Tutti devono mangiare.» Lui scrollò le spalle. «La tua carità non ci fa giustizia, ma io non posso rifiutarla.» Le porse la mano attraverso il tavolo. Rachel esitò. Cosa significava quella sua ripetizione, reale o apparente che fosse? Dopo un momento fece un sospiro e allungò la mano a stringere quella di lui. Prima di lasciarla, il boscaiolo aggiunse: «Dobbiamo anche essere pagati per i cavalli e i muli. I nostri animali non seguiranno questo mostro né altre creature che abbiano addosso l'odore del Labirinto. Dovremo lasciarli liberi, o alloggiarli nei recinti di Himmish in attesa del nostro ritorno». «Potreste anche farli macellare, no?» «I miei uomini si opporrebbero a questo. I muli... quelli sì, ma non i cavalli.» Lei annuì. «Compreremo noi i vostri cavalli. E voi ne farete quello che vorrete.» 74
«E i carri?» Gli occhi di lei si strinsero. «Non tirare troppo la corda, Oran.» «Questi carri sono tutto ciò che ci è rimasto. Non puoi aspettarti che le famiglie li abbandonino senza avere niente in cambio.» «Quelli che vogliono restare sui loro carri sono padroni di farlo, se pensano che gli arconiti di Menoa gli offriranno un affare migliore. Gli altri verranno con noi ai piedi delle Montagne del Tempio.» Oran parve avere dei dubbi. «Noi siamo uomini di Rys. E Sabor potrebbe non essere d'accordo nel vederci oltrepassare il confine di Herica. Quei due dèi hanno rispettato la sovranità dei loro territori per centinaia di anni. Sabor potrebbe vedere la nostra intrusione come un atto di guerra. Dopotutto voi vi state tirando dietro i Dodici di Menoa fin dentro il suo regno.» «I Dodici andranno comunque in Herica», disse Rachel. «Noi andiamo là per supplicare Sabor di darci il suo aiuto, finché abbiamo ancora una possibilità di realizzare qualcosa. Il dio degli orologi è stato alleato di Rys durante l'incursione dei mesmeristi. Se è ancora vivo, non credo che vedrà il nostro ingresso in Herica con...» scelse con cura le parole, per non offendere il capo dei boscaioli «... ostilità inflessibile.» Oran non parve del tutto convinto. Ciò nonostante accettò la sua proposta. «Non possiamo perdere altro tempo qui», disse Rachel. «Raduna i tuoi e i generi di prima necessità dentro questa locanda.» Si rivolse alla taumaturga. «Quanto tempo abbiamo?» Mina chiuse gli occhi e fece un respiro. Si accigliò e ne fece un altro, mentre i suoi bulbi oculari si muovevano rapidamente sotto le palpebre come quelli di chi sta sognando. «Oh, merda. Fate salire subito la gente a bordo. Lasciate qui tutto quanto, fuorché le armi.» I suoi occhi si aprirono di scatto. «Uno dei Dodici ha trovato le nostre tracce.» Contando anche le donne e i bambini, i profughi erano quasi quattrocento. Nonostante gli ordini gridati da Oran, non erano affatto disposti a lasciare nei carri tutte le loro cose. Gli uomini arraffavano tende, fagotti d'indumenti, rotoli di corda e casse contenenti attrezzi per la lavorazione del legno: accette, seghe, lame e ceselli. C'erano ragazzi giovani che slegavano gli animali e li sculacciavano per farli scappare, donne anziane che si caricavano sulle spalle sacchi di farina, barili di alimenti sotto sale e cesti di verdure. Alcune giovani donne dagli abiti vistosi arricchiti di pizzi e nastri, ben pettinate e incipriate, si tenevano in disparte sdegnosamente contrariate 75
dalla sola idea di trasportare oggetti che non fossero il necessario per il trucco facciale e cofanetti ingioiellati. «Prostitute?» domandò Rachel. Mina seguì lo sguardo dell'assassina. «Prostitute pandemeriane. Sono venute con la ferrovia da quella terra per lavorare nei villaggi dove ci sono le segherie di Rys.» «Le mogli dei boscaioli non hanno niente da obiettare?» «Le donne che hanno protestato sono state mandate da Rys nei bordelli di Coreollis e di Cog. Così la Compagnia Ferroviaria di Pandemeria ha tratto profitto anche dal loro lavoro.» Rachel era sbigottita. «E i boscaioli hanno lasciato che Rys facesse questo?» Mina scrollò le spalle. «Gli uomini seguono gli dèi ciecamente, come i cani seguono gli uomini. Un tempo il dio dei fiori e dei coltelli ha sommerso questa terra intera, e loro non hanno obiettato. Hasp ha parlato per un'ora e più di questa situazione mentre tu eri svenuta. Non credo che la approvi.» Le donne più anziane portarono anche pelli, otri d'acqua, pentole e attrezzi da cucina, e deposero il tutto sul terreno aperto intorno alla Sega Rugginosa prima di tornare di nuovo sulla strada. Le prostitute salirono sull'isoletta di terra strillando, inciampando, e chiacchierando tra loro. Tutti i bambini erano già dentro l'edificio, e molti di loro stavano piangendo come disperati. «Quanto manca, Mina?» «Pochi minuti.» Rachel afferrò Oran per un braccio. «Dobbiamo andarcene subito, con o senza la tua gente.» Il grosso boscaiolo saltò giù dalla piattaforma di terreno, passando dalla mano dell'arconita che la sosteneva alla strada di terra battuta. Afferrò una delle vecchie che si stavano allontanando dalla locanda, la fece girare e le ordinò di tornare indietro. Poi gridò agli altri: «Tutti quelli che vogliono vivere vadano in quella fottuta locanda, immediatamente». S'incamminò tra loro, fermando gli uomini e le donne che cercavano di tornare ai carri coperti, gettando a terra i loro fagotti e spingendo la gente verso La sega Rugginosa. Un gruppo di ragazzi s'incaricò di aiutarlo, finché Oran non ne acchiappò uno per la collottola e latrò a tutti quanti di andare dentro. Ma 76
era un compito ingrato. Rachel e Mina si scambiarono uno sguardo, poi lo seguirono in mezzo alla sua gente. Diedero una mano a portare tutto ciò che non poteva essere lasciato indietro, trascinando cesti di carne affumicata e otri d'acqua potabile su per il pendio tra le tende e la strada. Quando giunsero alla piattaforma di terreno intorno alla Sega Rugginosa, Mina si voltò a guardare nella direzione da cui erano arrivati. «L'arconita si sta avvicinando.» «Puoi fare qualcosa per rallentarlo?» «Non lo so. È Basilis che ha il potere reale. Io mi limito a incanalarlo. Bisogna che mi consulti con lui.» Cominciò ad allontanarsi tra la gente. «Purché questi boscaioli non se lo siano già mangiato.» «Fai presto.» Oran raggiunse gli ultimi dei suoi all'esterno della Sega Rugginosa. La ressa era tale che intorno al vecchio edificio c'era a malapena lo spazio per muoversi. Gridò a quelli più vicini all'orlo di andare dentro, ma la locanda era già piena di gente e vettovaglie. Dal piano superiore arrivavano proteste e maledizioni, e a urlare più di tutte era una voce che Rachel riconobbe. «Abner Hill», disse a Oran. L'uomo grugnì. «Di quel bastardo mi occuperò più tardi. Non sembra molto felice che voi abbiate preso il comando di questa bettola, eh?» «La mia preoccupazione per i suoi sentimenti è molto diminuita, dopo che mi ha sparato alla testa.» Il boscaiolo rise. Rachel non vedeva altri ritardatari sulla strada e nella boscaglia, così gridò: «Dill, portaci via da qui». L'enorme automa di ossa e metallo mosse le mani e sollevò verso il cielo l'edificio, la sua grande zolla di terra e tutti quelli che erano a bordo. Dai passeggeri spaventati si alzò un coro di grida in tutti i toni. Alcuni sacchi assicurati male rotolarono oltre il bordo delle mani dell'arconita e precipitarono al suolo. Le donne che si erano protese per cercare di salvarli non riuscirono a impedirlo. Di lì a poco si stavano muovendo, e in fretta. La Sega Rugginosa ondeggiò come una zattera tra le onde e si sollevò ancor di più nel cielo notturno. Sotto le sue fondamenta scorreva via un oceano di boscaglia oscura. Sulla sua facciata arrivavano folate di nebbia fredda. Le giunture fra i tronchi scricchiolavano, le imposte sbattevano 77
contro le intelaiature. Una finestra si spaccò in due con uno schianto simile a un colpo di moschetto. Rachel aveva l'impressione che fosse il cielo a ballare intorno a loro. La luna oscillava tra i banchi di nebbia come una lanterna al vento. Su quell'isoletta affollata era ancora troppo presto perché tra la gente così a stretto contatto scoppiassero gli inevitabili litigi e discussioni. I boscaioli che si trovavano sulla porta cercavano di far entrare tutti quelli che non se la sentivano di restare all'esterno, ma il salone del pianterreno stava già cedendo sotto la pressione di centinaia di esseri umani: guerrieri nelle loro armature di legno scolpito a mano, muniti di lame e di fionde. Gente che beveva tutto ciò che riusciva a bere e berciava o cantava canzoni che inneggiavano alle glorie passate; gruppetti che in qualche modo riuscivano a giocare a dadi o con gli ossicini; donne anziane e spose giovani coi pargoletti tra le braccia; prostitute che mollavano ceffoni agli uomini o ridevano e schiamazzavano con loro; ragazzini che s'infilavano tra gli adulti per recuperare un po' di whisky da portare ai loro padri o ai fratelli maggiori, oppure sedevano sotto i tavoli e sbirciavano sotto le gonne delle ragazze; bambini che strillavano, s'inerpicavano su per le scale, cercavano di entrare nelle camere tirando calci alle porte chiuse o fuggivano per evitare gli scappellotti delle loro madri. Rachel sentì un neonato vagire, ma subito i suoi strilletti furono sommersi da un ruggito di risate mascoline, canti da ubriachi, tintinnio di bottiglie che andavano a pezzi, strilli di prostitute, imprecazioni e tonfi di piedi sui pavimenti di assi. Le stufe erano state rifornite, ardevano un bel po' di candele e di lanterne e, viste dall'esterno, le finestre splendevano come gli sportelli aperti di una fornace. «Sto cominciando a capire perché Abner Hill aveva nascosto il liquore», mugolò Mina. Rachel tendeva le orecchie per cercare di sentire il rumore del nemico che li inseguiva, ma nel chiasso che usciva dal salone era una speranza inutile. Sulla parte anteriore la nebbia e il buio riducevano drasticamente la visibilità, e dietro di loro il grande torace di Dill nascondeva tutto il cielo. Le sue braccia erano poderose sporgenze infernali fatte di ossa. Mentre Oran guardava anch'egli nel buio cercando di vedere qualcosa, lei gli accennò di seguirlo tra la gente riunita all'esterno della locanda. Un gruppo di giovani passava sacchi di farina e rotoli di pelli a qualcuno, dentro una delle finestre, mentre altri trascinavano balle di sterpi per il fuoco sul retro dell'edificio. Rachel li oltrepassò, diretta a uno dei polsi di Dill. 78
Quattro prostitute che sedevano lì e bevevano da giare di terracotta si scostarono per lasciarla passare. «È necessario far andare dentro, al sicuro, il resto delle donne e dei bambini», disse Rachel. «E bisogna che qui fuori si appostino degli uomini validi, sobri e in grado di combattere.» Oran si grattò la cicatrice sulla fronte. «Che siano sobri o ubriachi non farà differenza. Non possono affrontare un arconita e sperare di sopravvivere. Ma, se dovranno combattere, lasciamo almeno che prima se la spassino un po'.» Giunsero all'estremità dell'isola, dove il pollice ossuto di Dill incombeva su di loro come un obelisco. Nel buio, più in alto, Rachel poteva vedere la massiccia mandibola dell'amico. Inclinò la testa e ascoltò... Tonfi e schianti a ritmo regolare segnavano l'avanzata di Dill nella foresta, mentre alberi e cespugli si schiacciavano sotto i suoi piedi. Ma adesso Rachel poteva udire altri rumori - come un'eco dei passi di Dill - che provenivano dalla notte nebbiosa intorno a loro. Mina andò a raggiungerli. Aveva il moschetto di Abner appoggiato a una spalla, con la canna puntata al cielo e il calcio su una delle sue snelle mani di vetro. «Guadagna terreno su di noi», li informò. «Cosa ti ha detto Basilis?» La taumaturga scosse il capo. «Questo particolare avversario è troppo per lui.» «Hasp sa cosa sta succedendo?» «Hasp dorme sul pavimento della dispensa. Ho chiuso la porta per impedire che gli altri vadano a curiosare. Per la loro sicurezza come per la sua.» Rachel guardò il moschetto dell'altra donna. «Cosa pensi di fare con quello?» Mina si strinse nelle spalle. «Non potevo lasciare il nostro solo cannone a mano in una sala piena di ubriachi.» Cambiò posizione alla pesante arma. «I nostri ospiti hanno lasciato uscire Hill e la moglie dalla camera. Lui ha protestato per il whisky finché qualcuno non gli ha parlato dell'oro che abbiamo promesso a tutti. E ora quell'onest'uomo è dietro il banco che serve da bere e tiene i conti segnando nomi sul suo quaderno.» Rachel sospirò. Non aveva intenzione di usare l'oro di Cospinol per tenere il loro supposto esercito in stato di ebbrezza, ma in quel momento non aveva il tempo di occuparsi di Abner Hill. «Dill è in grado di lasciarsi in79
dietro l'arconita di Menoa?» «No. Lui non è veloce come gli arconiti di quel genere.» Oran si grattò la barba ispida. «Allora combatteremo e moriremo, qui e stanotte», disse con uno sbadiglio. *** La volontà di Cospinol determinava la tenuta della sua grande nave volante di legno, e la volontà di Anchor era ciò che alimentava la sua impossibile forza. Durante le migliaia di anni della loro collaborazione, servo e padrone avevano trovato il modo di andare avanti in buona armonia. Più la Rotsward diventava pesante, e più Anchor trovava in sé la forza di tirarsela dietro. Nella confusione che seguì allo scoppio del portale, quando Anchor si accorse di precipitare verso l'Inferno, occorse qualche tempo prima che l'armonia tra lui e la nave tornasse quella di prima. La corda si tese dietro la schiena di Anchor a mezz'aria, fermando bruscamente la sua caduta e facendolo rimbalzare con violenza verso il cielo. Poco più in alto la grande massa della Rotsward, formata da alberi e sovrastrutture anomale interconnesse, si stava rovesciando in avanti. All'improvviso uomo e nave furono senza peso. La corda si tese e si allentò ancora. Anchor la sentì vibrare dietro di sé come una creatura viva. Il Labirinto gli saliva incontro a velocità impressionante: i canali simili a graffi sanguinanti, i templi in parte sommersi, arcate e scale spezzate, mentre il groviglio di parti in muratura nere precipitava in un abisso vermiglio. Non c'era un vero sole a illuminare il Labirinto, così la Rotsward non aveva bisogno del suo bozzolo di nebbia protettiva. Il vascello veniva giù dal cielo come una mostruosa arca preistorica rifiutata ed espulsa dal Paradiso. I guerrieri che non erano stati uccisi dai Difettosi ora si agitavano febbrilmente nel vasto groviglio delle forche. Esposti alla luce dell'Inferno apparivano più barbari che mai, un'orda di cenciosi selvaggi dal viso bluastro reduci da guerre dimenticate. Era stato John Anchor a ucciderli dal primo all'ultimo, e molte delle loro anime ora vagavano imprecando nelle sue vene. Non gli fu possibile tenere lo sguardo alzato verso di loro per più di pochi momenti, prima che una stretta al cuore lo costringesse a voltarsi. La superficie dell'Inferno ruotò nel suo campo visivo: finestre luccicanti nella curva superficie di un tumulo, porte spalancate in mura di ossidiana, contorti pilastri d'acciaio, facciate di mattoni rossi, crepacci gorgoglianti di melma, arcate, pietre, sangue. 80
E poi si schiantò contro quel caos. Lastre di muratura sanguigna esplosero sotto di lui. Il suo corpo attraversò una stanza e sfondò il pavimento sottostante. Un'altra stanza, un altro pavimento. Anchor si portò le ginocchia al petto e chiuse gli occhi. Aveva l'impressione di passare nell'interno di sacche d'aria separate da fragili membrane. Precipitò in basso e sempre più in basso, come una palla di cannone caduta su un castello di carte. Alla fine sbatté pesantemente contro una superficie più solida nelle profondità del sottosuolo e si fermò. Grugnì stanco e riaprì gli occhi. Era precipitato attraverso venti o più stanze sovrapposte. Proprio sopra di lui numerosi strati di pavimenti sfondati formavano una sorta di pozzo, all'estremità del quale si vedeva un circolo di cielo rosso. Ognuno di quei molti livelli sfondati aveva già cominciato a sanguinare. Le gocce rosse piovevano dai bordi irregolari, e di stanza in stanza arrivavano fino a lui, sulla pavimentazione ingombra di detriti. Dall'alto provenne un gemito. Anchor si alzò a sedere. La stanza in cui si trovava era un elegante salotto con finestre a sesto acuto e mobili in antico stile pandemeriano. Due donne anziane identiche come gemelle con la faccia bianca per la polvere e lo shock lo stavano fissando a occhi sbarrati. Avvolte in severi abiti azzurri a collo alto, coi capelli grigi raccolti in conci tondeggianti simili a piccoli teschi, ciascuna sembrava l'immagine riflessa dell'altra. «Signore», le salutò Anchor. Le anziane gemelle si scambiarono uno sguardo, portandosi le mani al petto, poi tornarono a guardare l'intruso. «Voi siete l'idraulico?» domandò una di loro. «Non credo che costui sia l'idraulico, Clarice», la corresse l'altra. «Voglio dire, ma guardalo!» Anchor si alzò, si spazzolò via di dosso polvere e detriti, quindi si tolse dalla verticale del pozzo per evitare la pioggia di gocce di sangue. Le due donne si tennero a distanza da lui facendo un passo indietro. Il grosso individuo sorrise. «Non dovete aver paura di John Anchor, signore. Io non ce l'ho con voi.» Si guardò intorno. «Così questo è l'Inferno, eh?» Cospinol gli aveva detto che le anime si facevano crescere intorno delle stanze come i molluschi coi loro gusci. La stanza in cui si trovava doveva 81
essere uno di quei posti. Accennò col capo verso le finestre. Oltre i vetri c'era un solido muro di mattoni. «Ai vostri vicini piace l'intimità, eh?» Una delle donne disse: «Vicini? Non siate assurdo, signore. Noi non abbiamo vicini. La Boschi Verdi non è un appartamento. Noi abbiamo novanta acri di terreno». La gemella intervenne. «Senza dubbio nella caduta il poveretto ha battuto la testa, Marjory.» Tutte e due lo guardarono accigliate. Anchor scrollò le spalle. Non gli importava molto di confermare o smentire la loro opinione. Una delle gemelle guardò il soffitto con aria di disapprovazione. «Qualcuno dovrà riparare questo danno, ve ne rendete conto?» «Le mie scuse, signore. Vedrò di occuparmene non appena possibile.» Con un balzo, Anchor si aggrappò all'orlo sanguinante del foro e si tirò su. La stanza sovrastante era occupata in buona parte da un grande letto. Semidistesa contro i cuscini c'era un'enorme donna con una massa di capelli grigiastri che le si allargavano intorno alla testa come le ife di una fungosità in putrefazione. In effetti l'intera camera mostrava gravi segni d'incuria, perché dai muri penzolavano lingue di carta da parati strappata, e i mobili erano incrostati di fango nero. Nell'aria stagnava un odore di aceto. «Sono stata ferita», disse la donna. «Qualcuno mi ha colpito alla testa mentre dormivo.» Anchor si alzò in piedi. «Mi spiace, signora, devo essere stato io. Sono caduto attraverso la sua abitazione. Portate pazienza, il mal di capo vi passerà.» «Lei ha visto Dory?» domandò la donna. Anchor scosse il capo. «No, signora.» Fece un balzo e si aggrappò al bordo del foro nel soffitto. «Dory ha detto che sarebbe venuta, ma sono secoli che non la vedo», insisté la donna. «Non so cosa ne sia stato di lei.» Con un grugnito Anchor s'issò al livello superiore. Guardando in basso vide che al piano di sotto le due gemelle continuavano a osservarlo. Rivolse loro un cenno di saluto. «Adesso non andate a frugare nel solaio, voi!» strillò una delle due. «Lassù ci sono i nostri costumi, e non devono essere tolti dalla naftalina. Sono molto delicati, sapete?» 82
«Chi ha parlato? Dory, sei tu?» domandò la donna sul letto. La terza camera era così gremita di piante in vaso che avrebbe potuto essere un giardino. Ai muri, di mattoni nudi, erano inchiodati telai che sostenevano rampicanti verdi. Alcuni cassettoni e tavoli di legno erano accostati agli angoli, ma ogni superficie, pavimento compreso, era coperta da vasi dì fiori gialli, rosa e scarlatti. Sulle prime ad Anchor parve che non ci fosse nessuno, ma poi vide un giovane accovacciato in un angolo. Aveva in mano un paio di forbici, e sembrava svenuto. Anchor si chinò per sentirgli le pulsazioni. Poi scosse il capo. Quelle persone erano tutte morte, naturalmente. Se avevano delle pulsazioni era perché ricordavano di averle avute, non perché nelle loro vene scorresse ancora del sangue. Nonostante ciò scosse il giovane per una spalla. «Tutto bene, ragazzo?» L'altro aprì gli occhi e lo guardò stordito. «Devo essere caduto. Dove sono?» «Non sai dove sei?» «No.» «Bene. Allora ti ho fatto un favore.» Anchor lo lasciò lì e tornò sotto lo squarcio del soffitto. Guardando in alto vide che alcuni dei fori sopra di lui si stavano chiudendo da soli, poiché i subconsci delle anime che abitavano in quel posto ricominciavano a influenzare l'ambiente che si erano creati intorno. In basso il salotto delle gemelle si era già in buona parte riassestato, sotto la camera da letto della donna grassa. Le due vecchie signore avevano evidentemente un forte istinto di protezione verso le loro proprietà. «John!» All'estremità superiore del pozzo era apparsa la testa di Alice Harper, che stava guardando giù verso di lui. «Stai bene?» «Questo è uno strano posto», gridò di rimando lui. «Sì, più strano di quello che credi. Ho bisogno di parlarti.» Lui s'inerpicò su da una camera all'altra senza far molto caso ai loro inquilini, e uscì all'aria aperta. Subito fu investito da un forte vento. Alice era andata ad aspettarlo dietro uno spuntone di roccia, da dove si poteva spaziare con lo sguardo sul Labirinto. I capelli rossi sventolavano intorno al suo volto pallido. Da lassù Anchor poté constatare che si trovavano alla sommità di un bizzarro agglomerato di anime. Era come se un'intera strada pandemeriana fosse stata pressata lì in un rozzo cumulo. Ma quella massa di abitazioni 83
cambiava forma di continuo e le facciate si stiracchiavano e si comprimevano contro i muri circostanti. L'intero mucchio strisciava attraverso la superficie dell'Inferno divorando altre opere in muratura sotto le sue fondamenta. Nella sua scia lasciava una fila di stanze sotterranee scoperchiate, dal tetto allo stesso livello della superficie paludosa del Labirinto. Torrenti di sangue si riversavano dentro quelle ferite aperte e gorgogliavano giù in altri spazi accessibili sotto quelle abitazioni danneggiate. Alice si voltò per riparare il viso dalla forza del vento. «Qui ci troviamo sul Letamaio delle Anime.» Indicò il cielo. «Riesci a sentirle?» «Sentire cosa?» «Le voci nel vento.» Anchor tese le orecchie. Dopo un momento udì quelle che sembravano voci umane - molto deboli - tra una raffica e l'altra, come se il vento le avesse raccolte a grande distanza. Non capiva quello che dicevano, né in che lingua stessero parlando. Alice estrasse una lente nera da una tasca della cintura. «Non Morai. Guarda tu stesso.» Anchor si portò la lente davanti a un occhio e gli parve di guardare dentro un mondo del tutto diverso. Attraverso quel disco scuro il territorio rosseggiante appariva verde. Il cielo era pieno di creature alate, figure simili a pipistrelli, con musi grinzosi e denti rossi. Volavano ai bordi di grossi sciami di luci gialle, piccole come vespe, e si davano da fare per tenerle unite e spingerle verso la superficie dell'Inferno. Anchor abbassò la lente e lo scenario tornò quello di prima: nient'altro che un cielo rosso e vuoto. Ma, quando guardò ancora attraverso la lente, gli esseri alati riapparvero, sparsi a migliaia sul panorama verdeggiante. «Li ho visti subito dopo l'uscita dal portale. Sembra che portino le anime qui, in questa particolare zona dell'Inferno», disse Alice. Anchor aveva già incontrato i Non Morai, ma mai in così gran numero. Sulla terra quei fantasmi fluttuavano spesso sulle scene di violenza, sui campi di battaglia e su altri posti dove gli esseri umani venivano ammazzati. Talvolta i taumaturghi umani li usavano per riunire le anime. «Perché lo fanno? C'è Menoa dietro tutto questo?» L'ingegnere si mostrò dubbiosa. «Menoa usa gli Iolite per i lavori aerei, e gli Icarate per procurarsi le anime. Tuttavia c'è da considerare quello», disse, indicando giù verso la superficie dell'Inferno. 84
Anchor abbassò lo sguardo. Dapprima non riuscì a vedere ciò che l'altra stava indicando, poi notò qualcosa. Il Letamaio su cui loro due si trovavano strisciava via come per allontanarsi da uno strano oggetto sulla superficie del Labirinto. Sembrava un tubo d'acciaio seminascosto tra un ammasso di rovine sanguigne. La sua enorme apertura, abbastanza larga da inghiottire una casa, si espandeva e contraeva di continuo come una bocca. Lui alzò di nuovo la lente spirituale di Alice e vide un fitto stormo di Non Morai intorno a quell'apertura, occupati a guidare le anime dentro di essa. «Mi chiedo perché si danno la pena di viaggiare attraverso tutto l'Inferno, quando ci sono innumerevoli anime intrappolate fra queste mura intorno a noi», mormorò Alice Harper. «Questi Non Morai hanno catturato spiriti appena arrivati... le anime di chi non è ancora diventato parte dell'Inferno.» Per un poco tacque, guardando la strana apertura che ingoiava sciami di piccole luci. «Quando Menoa vuole delle anime, i suoi Icarate si limitano a stritolare zone del Labirinto e le prendono. Quelli che hanno costruito questa apertura tubolare, chiunque siano, l'hanno nascosta là in mezzo. È come se non volessero attirare l'attenzione su di sé.» Anchor fece udire un grugnito. «Allora perché ci hanno attirato qui?» «Quando il portale si è spezzato, i Non Morai hanno dovuto accorrere per reclamare tutte le nuove anime liberate dal corpo. Il caso ha voluto che noi siamo stati presi nel turbine creato dal loro passaggio.» Il grosso individuo legato alla corda abbassò la lente spirituale con un sogghigno. Per quello che riguardava lui, quello poteva essere considerato un atto di aggressione alla Rotsward e di conseguenza bastava a giustificare una battaglia. Però dubitava che la Harper e Cospinol avrebbero accettato di dedicare tempo a una cosa del genere. Loro avevano selvaggina più grossa da mettere in pentola. «Non ci costerebbe molta fatica dare una sbirciatina dentro quell'enorme tubo», disse comunque. Lei distolse lo sguardo con una scrollata di spalle, ma Anchor ebbe l'impressione che quella sua indifferenza non fosse genuina. Che la Harper avesse un suo motivo personale per dare un'occhiata laggiù? Il Letamaio delle Anime tremò sotto i piedi di Anchor per poi strisciare all'indietro. Lui abbassò lo sguardo su quelle facciate in muratura e vide la base del grande conglomerato spettrale fluire sopra uno dei bassi muraglioni del Labirinto. Le pietre si accumularono e diedero forma al colonnato di un lungo portico. Le colonne che sorreggevano le arcate presero a muoversi come le zampe di un millepiedi, superarono l'ostacolo del muro e 85
una volta dall'altra parte ripresero l'aspetto di una facciata di mattoni. Il Letamaio divorò una parte consistente del muraglione e continuò a muoversi, sempre in allontanamento dallo strano tubo. Un improvviso fremito arrivò ad Anchor lungo la grossa corda della nave volante, e nei suoi pensieri s'intromise la voce di Cospinol. No, John. Per quanto io abbia fiducia nella tua capacità di difenderci, non vedo perché dovremmo andare a cercare guai. Non sappiamo cosa ci sia laggiù. Anchor grugnì. «Be', non possiamo cavalcare su questa cosa per tutta la strada da qui alla Nona Cittadella», disse, battendo un calcagno sul Letamaio. «Di questo passo ci vorrebbero secoli, anche se fossimo sicuri di andare nella direzione giusta.» «Il tempo scorre a diversa velocità, qui», disse Alice. «Un secolo qui potrebbe corrispondere a un giorno sulla terra, o a un milione di anni. Ma sul fatto di trovare la direzione giusta hai ragione.» Estrasse dalla cintura uno dei suoi numerosi dispositivi mesmeristi d'argento e di cristallo e lo studiò. Dopo un momento alzò lo sguardo e accennò col capo verso un punto dell'orizzonte, situato oltre interminabili forme di pietra nera, templi spezzati e ziggurat conici. «La Nona Cittadella è da quella parte.» Anchor si aggiustò meglio la bardatura della corda di traino. «Allora andiamo. Rompere il portale ci ha dato un buon vantaggio, eh? Re Menoa non può neanche essere sicuro che noi siamo nell'Inferno. Possiamo sorprenderlo con le brache calate.» S'incamminò sogghignando verso la discesa su un lato del Letamaio. Alice lo fermò e indicò dietro di loro. Anchor si voltò. La Rotsward riempiva tutto il cielo, come un'impossibile città di legno, un'immensa griglia di travi interconnesse, legname tarlato e sartiame, nel cui cuore marcivano passaggi e stive oscure. Gli impiccati di Cospinol, appesi lì a migliaia, erano un colorito assortimento di figure vestite nei modi più diversi sullo sfondo di quell'immutabile luce rossastra. Molti erano stati aggrediti dai Difettosi, e dalle loro forche penzolavano soltanto teste o toraci o pezzi di carne irriconoscibili. I pochi che dopo essere stati liberati erano sopravvissuti alla battaglia ora sostavano tra i supporti o si erano arrampicati tra i pennoni per non rischiare di essere sbalzati lontano dalla nave. Le ali dei Non Morai creavano un vortice intorno al montagnoso vascello, un forte torrente d'aria che sembrava pieno di ombre fluttuanti. «Non è quello che io chiamerei basarsi sull'elemento sorpresa», osservò 86
Alice. Anchor si piazzò le mani sui fianchi, accigliato. Aveva dimenticato che la nave poteva essere visibile da considerevole distanza. Menoa li avrebbe individuati assai prima del loro arrivo. Dopo un momento scrollò le spalle. «Ah... be', che il re prepari pure le sue difese in anticipo. Suppongo che sia giusto così.» La corda dietro di lui tremò, e la voce di Cospinol lo raggiunse ancora. Domanda alla Harper quanto potrebbe essere profondo quel pozzo. Potrebbe portarci giù sino al Fiume dei Difettosi? Lui passò la richiesta all'ingegnere. Alice evitò di guardarlo, forse perché non voleva che la sua espressione gli rivelasse qualcosa. «Il Fiume dei Difettosi scorre sotto l'Inferno e ogni cavità del suolo potrebbe portarci più vicini.» Allora è quello che faremo, decise Cospinol. John, porta la Rotsward sottoterra. Andremo a parlamentare con un fiume. Anchor guardò l'avida imboccatura del tubo. «Sarà dura entrare là dentro. Ci lasceremo dietro un bel po' di rottami.» Si sfregò le mani, illuminandosi in volto. Nella mente del suo servo, Cospinol sospirò. Alice si ficcò nella cintura degli attrezzi il dispositivo mesmerista e indicò con gesto iroso la superficie del Labirinto. «L'Inferno è vivo, John. Tu distruggerai migliaia di anime se cercherai di trascinare a forza la nave di Cospinol attraverso ingressi troppo stretti. Anche supponendo che un'impresa del genere sia possibile.» Anchor aggrottò la fronte. «Possibile? La forza è una questione di volontà. Qualsiasi cosa è possibile.» Annuì con un grugnito deciso. «E, se l'Inferno è vivo, allora può togliersi dalla mia strada.» Detto ciò cominciò a scendere dal Letamaio tirandosi dietro la grande nave del cielo in direzione del tubo e delle viventi e pensanti viscere dell'Inferno.
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5 LA PRINCIPESSA
Oran ordinò alla sua milizia di uscire dalla Sega Rugginosa, ma molti erano già ubriachi, mentre altri erano andati in cerca delle prostitute e non fu possibile trovarli subito. Irritato, il capo dei boscaioli ripristinò l'ordine distribuendo calci e minacce. Andò a cercare personalmente i più recalcitranti, lottò con due di loro e ruppe il naso a un altro. Le sue grida rabbiose misero finalmente a tacere il baccano del salone. «È lo stesso nobile Rys che vi comanda di tenere duro e battervi, qui e stanotte», urlò. «Io faccio rispettare la sua autorità in questa e ogni altra cosa.» Rachel si accorse che i miliziani erano ostili. Tra loro passavano borbottii scontenti e imprecazioni. Avevano preso nota di quelle parole, ed era chiaro che non accettavano del tutto l'autorità di Oran. Per lei avevano ancora meno simpatia... e nessun rispetto. Le frecciate che le lanciavano erano fosche e invelenite. D'altra parte, dovette riconoscere Rachel, lei e i suoi compagni avevano portato loro addosso i Dodici di Menoa. Oran si voltò a parlarle sottovoce. «Questa gente sa che la battaglia non può essere vinta. Si aspettano di morire stanotte, così preferiscono spendere tutto ciò che gli resta in whisky e puttane.» Hanno paura, pensò Rachel, ma non volle dirlo a voce alta. I miliziani si trovavano sulla gelida e affollata striscia di terreno intorno all'edificio di tronchi. Erano tutti armati. Alcuni avevano rotoli di corda e uncini metallici buoni per scalare mura, palizzate e simili opere difensive, ma non sembravano molto convinti della loro utilità nell'impresa che li aspettava. Alcuni continuavano a bere dalla bottiglia, altri stavano fermi nella luce che usciva dalle finestre, guardandosi intorno con aria cupa. Poco dopo Mina uscì dalla locanda col cagnolino in braccio, accarezzandogli la testa. L'espressione del suo viso bastò a informare Rachel sul risultato della sua ultima consultazione con Basilis. «Nessuna idea utile, Mina?» 88
La taumaturga scosse il capo. «Basilis non ha nessun potere sull'arconita che si sta avvicinando. L'anima che lo guida è irraggiungibile per noi.» Esitò, poi mise il cane al suolo. «A Larnaig, Menoa ci ha ingannati. Noi abbiamo liberato Dill perché il Signore del Labirinto desiderava che lo facessimo... e ora dobbiamo affrontare le conseguenze delle nostre azioni. Il mio padrone non vuole essere imbrogliato ancora.» «E tu cosa pensi?» «Io penso che non abbiamo scelta. Se Menoa ha previsto e guidato le nostre azioni, qualunque cosa facciamo rischia di andare a suo vantaggio. Ma, se non faremo niente, saremo uccisi.» Dill continuava a portare avanti quella piccola isola di umanità sulle sue mani morte, come un dono che qualche freddo dio avrebbe accettato di vedere deposto sulla sua tomba. L'odore di ossa e metallo forgiato nel Labirinto riempiva la notte. I suoi passi scavalcavano ampi spazi di foresta, gli alberi si spezzavano crepitando sotto i suoi piedi. Il rumore di quegli stivali che calcavano la terra, distruggendo preziosa vegetazione, destava oscuri presagi nel cuore dei boscaioli. Crash, crash... morte, morte. Ora Rachel udiva anche i passi dell'arconita che li stava inseguendo. Si rivolse a Mina. «Conviene fermarci e prepararci allo scontro. Dirò a Dill di metterci giù.» Mina si morse un labbro. «Aspetta. Rachel, io penso che ci sia il modo di battere quella macchina. Mi basterebbe soltanto entrare nella sua testa.» «Entrare in che senso?» «Fisicamente!» Rachel capì cosa voleva dire. Se l'architettura interna degli arconiti di Menoa era analoga a quella di Dill, era possibile trovare dentro di essa una camera contenente l'anima intrappolata di un angelo. «Merda, Mina. Questo significa entrargli in bocca.» Ma ormai non c'era più tempo per discutere, perché l'arconita di Menoa era già su di loro. Il gigantesco automa uscì rumorosamente dalla nebbia. La sua armatura forgiata nel Labirinto era molto più robusta di quella di Dill. Le articolazioni delle braccia e delle gambe emanavano luci verdastre, come resti di qualche strana tempesta elettrica. I suoi movimenti erano rigidi, innaturali, ed emetteva sbuffi di vapore dalle giunture delle spalle. La copertura dei fianchi era ammaccata e segnata come quella di una nave da battaglia, e incrostata di lordume. Metà del suo cranio era stata annerita da un incendio o 89
da una corrosione chimica di qualche genere. In una delle enormi mani metalliche teneva una scure di dimensioni adeguate ad abbattere le mura di una città. Gli uomini di Oran indietreggiarono nel sentire il puzzo di quel mostro, un fetore di putrefazione proveniente dai corpi umani e mesmeristi da lui stritolati sul campo di battaglia a Larnaig. L'arconita portava con sé l'odore della guerra. «Dill, mettici giù», gridò Rachel. La luna sembrò muoversi come una lanterna nella nebbia mentre Dill si voltava e deponeva la locanda sulla pista che attraversava la foresta. Su quel terreno irregolare la struttura della Sega Rugginosa emise un allarmante gemito di protesta. Un angolo dell'edificio si abbassò di colpo nella sua isola di terreno, che a quel rude contatto si stava sgretolando. I miliziani di Oran saltarono giù, con le loro corde e le asce, dileguandosi subito tra gli alberi a destra e a sinistra. Dill si rialzò per affrontare l'altro arconita. L'avversario rallentò il passo e si fermò nell'aria nebbiosa. La sua armatura metallica incrostata di sangue secco, grasso e fanghiglia era avvolta da una fantomatica radiazione verde, come una fortezza illuminata da una luna maligna. Le sue inutili ali erano immobili dietro di lui, come grandi vele piene di squarci. Sotto la corazzatura pettorale e il teschio rombavano motori, clicchettavano bielle e ingranaggi. Il fumo che gli scaturiva da ogni giuntura risaliva intorno alle nude vertebre del collo. Con un assordante cigolio di lamiere metalliche, riprese a camminare e sollevò lateralmente la scure. Dill si mosse per intercettarlo. La terra vibrava sotto i loro passi. Dill bloccò la scure dell'altro automa col palmo della mano. Il rimbombo metallico di quel colpo sovrastò ogni altro suono nelle orecchie di Rachel, provocandole l'insorgere di un fischio monotono. Vide che alcuni uomini erano caduti in ginocchio con le mani premute ai lati della testa. Per alcuni battiti di cuore non sentì niente fuorché la vibrazione acuta che le riempiva le orecchie... Poi cominciò ad accorgersi che nella nebbia c'erano altri rumori: il frenetico crepitio di alberi e cespugli spezzati e clangori metallici. Da qualche parte nel buio i due arconiti stavano lottando. La luna scomparve dietro una massa scura e poi riapparve, mentre il grande automa di Menoa affer90
rava Dill per il collo e lo spingeva indietro. Dill cercò di resistere a quella spinta, scavando crateri nel terreno della strada coi calcagni, ai due lati della locanda. Dall'interno dell'edificio provennero grida di spavento, e le donne e i bambini rimasti lì nella speranza di avere un riparo si precipitarono fuori vacillando sul terreno irregolare. Nella foresta le ombre degli uomini di Oran cercavano di attaccare i piedi dell'arconita nemico. Mina prese Rachel per un braccio ed esclamò: «Digli di farlo cadere a terra». Rachel alzò lo sguardo. Tutto ciò che poteva vedere erano forme vaghe in movimento nella foschia, il balenare di lucori verdi intorno a una delle enormi figure e l'agitarsi della poderosa scure del nemico. Ci fu un altro colpo, così assordante da far tremare il suolo. Voci umane gridarono terrorizzate. «Dill! Fai lo sgambetto a quel bastardo. Devi buttarlo a terra!» gridò Rachel con tutto il fiato che aveva in corpo. Un piede mastodontico si abbatté sul terreno a dieci passi da Rachel. Mina inciampò e cadde. Rachel la afferrò per la casacca grigia e la trascinò via da lì, mentre su di loro cadeva una grandine di rami. L'assassina scivolò nel fango e batté dolorosamente un polso contro una pietra umida, ma continuò a tirarsi dietro Mina nel buio tra gli alberi, per allontanarsi il più possibile dalla grande forma scura che nascondeva il cielo. Dietro di lei un muro di metallo sporco di sangue secco si spostò. Poco distante da lì risuonarono i colpi di accetta dei boscaioli su uno di quei piedi, e poi ci furono altri poderosi tonfi, come se i due arconiti si stessero prendendo a pugni. La luce verdastra continuava a baluginare oltre le chiome degli alberi, maligna come una radiazione velenosa. La nebbia stregata di Mina si dilatò nei dintorni della locanda e sulla strada, riflettendo il pallido chiarore della luna come se fosse imbevuta anch'essa di energia spettrale. Rachel intravide parte di ciò che stava accadendo: le gambe ossute di Dill che si muovevano accanto a colonne di sudicio metallo rossastro, le radici di un albero capovolto che sbucavano da un mucchio di terriccio umido, alcuni corpi umani schiacciati e semisepolti tra la vegetazione distrutta, un ferito che si agitava intrappolato in una massa di cespugli. Da un varco nella nebbia vide un gruppo di boscaioli correre verso l'automa nemico srotolando corde, nel vano tentativo di legargli una caviglia a qualche grosso albero. Le poderose gambe di ossa e di metallo si mossero ancora, e lei sentì gemiti agonizzanti, grida di rabbia e 91
di dolore. «Cosa sta succedendo laggiù?» ansimò Mina. Rachel la aiutò ad alzarsi, nell'oscurità della foresta. «Non lo so. Ma abbiamo bisogno che...» Un improvviso clangore metallico sovrastò le sue parole. Si voltò, con le orecchie di nuovo stordite da quella vibrazione. I due giganti erano adesso abbracciati nella lotta, e si muovevano appena. Un piede di Dill scivolò all'indietro e sollevò un'ondata di fanghiglia da un acquitrino. La melma ricadde sulla locanda e sugli alberi dietro di essa. In distanza si udì la voce di Oran che gridava ordini ai suoi uomini. Una donna stava piangendo, da qualche parte nel buio. La luminosità verde si mosse all'improvviso, con violenza, e parve inclinarsi di lato. L'arconita di Menoa stava cadendo. Le grandi ali si agitarono, aperte verso il cielo, e la foresta fu attraversata da un vortice d'aria puzzolente. Poi l'automa si abbatté al suolo con un colpo così violento che la scossa fece perdere l'equilibrio a Rachel. Mise le mani avanti, ma ciò non le impedì di finire con la faccia in una pozzanghera, e il fango le entrò nel naso e in bocca. La benda che le avvolgeva la testa le fu quasi strappata via dagli sterpi. Sputò la melma e imprecò tirandosi in piedi. Mina era accovacciata presso il terreno della locanda e ansimava pesantemente. Gli uomini di Oran rimasti intorno all'edificio esplosero in un ruggito di trionfo. Attraverso gli alberi Rachel poteva vedere poco, a parte la vaga luce verdastra che pulsava nella foschia. Porse una mano alla taumaturga e la aiutò a rialzarsi. «Presto, potremmo avere solo pochi minuti. Non so per quanto tempo Dill riuscirà a tenere giù questo bastardo.» Una strana scena le attendeva quando uscirono dall'oscurità della boscaglia. L'arconita di Menoa era caduto in strada, un centinaio di passi più indietro della Sega Rugginosa, con un braccio imprigionato sotto la corazza e le larghe ali inclinate a contatto del suolo. La tremenda scure posava obliquamente sulla chioma di un albero. Dill s'inginocchiò sulla schiena dell'avversario spaccandogli una delle ali sotto un piede, per poi afferrargli il collo con entrambe le mani. In quella posizione l'automa aveva la testa schiacciata nel fango, e rimase immobile sotto il peso che gli gravava addosso, emettendo volute di fumo puzzolente dai suoi motori. Furibondi e resi baldanzosi dal whisky, numerosi uomini di Oran salirono sulla schiena del nemico e cominciarono a cercare punti deboli nella sua 92
armatura a colpi d'ascia. Mentre Rachel si affrettava sotto un'ala del gigante caduto e intorno alla sua spalla, notò i simboli spiraliformi incisi in quelle placche metalliche, disegni esoterici che di nuovo le ricordarono la superficie del Dente piombato attraverso le catene di Deepgate. Tuttavia quell'automa era stato costruito nell'Inferno. Mina notò il suo stupore. «Il Paradiso e l'Inferno hanno più cose in comune di quello che la gente possa sospettare. Non dimenticare che una volta Ayen e Iril erano amanti. Entrambi provenivano dallo stesso posto lontano e sconosciuto.» «E re Menoa?» Mina si strinse nelle spalle. «Questa è una domanda più difficile cui dare risposta. Menoa è stato nell'Inferno fin dall'inizio. Se un tempo fosse un umano oppure no, è cosa che ignoro, ma era abbastanza vicino a Iril da tradirlo. Sospetto che avessero dei rapporti di parentela di qualche genere.» Davanti alla testa dell'arconita, le due donne esitarono. Una chiostra di denti gialli sbarrava loro il passo come una muraglia impenetrabile. Gli occhi del colosso guardavano il niente. Avrebbe potuto sembrare morto, se non fosse stato per il brontolio e il ticchettio dei macchinari dentro il torace corazzato. Una delle grandi ali malconce fremette, ma Dill teneva saldamente l'avversario, incombendo sopra di lui come una fortezza cinta da mura nella nebbia. A cinquanta passi da lì, la grande scure scivolò giù dall'albero che l'aveva trattenuta e cadde rumorosamente al suolo. Rachel si tappò il naso. «Questo mostro puzza più delle Cucine dei Veleni di Deepgate. Neppure lo stesso Devon avrebbe potuto creare un odore più ripugnante.» Mina scrollò le spalle. «È soltanto sangue marcio.» «Consolante. E adesso? Vuoi ancora andare dentro?» domandò Rachel. «Nel cranio», confermò Mina. Esaminò il volto del colosso per un momento, notando com'erano state imbullonate le piastre metalliche alla base e ai lati della mandibola. I denti erano troppo ravvicinati per consentire di strisciare dentro fra l'uno e l'altro. «Dill, puoi aprirci una via d'ingresso con la forza?» Come tutta risposta Dill alzò la mano libera. Il suo pugno aleggiò nel cielo per qualche secondo, poi si abbassò come un macigno. Colpì l'automa di Menoa all'altezza del mento. L'impatto fece affondare di almeno due piedi l'estremità della mandibola nel terreno soffice, con un rumore di tuono che fece tremare la foresta. 93
Mina vacillò all'indietro. Con una smorfia Rachel si passò una mano sulla fronte, mentre gli echi del tonfo svanivano dall'interno della sua testa. La ferita di moschetto sopra l'orecchio destro le faceva più male di prima. «Tenebra, portami via con te!» mugolò. «Dannazione, Dill, avresti potuto avvisarci.» Ma nonostante la violenza del pugno l'arconita caduto non aveva riportato danni. Sia la mandibola sia i denti erano rimasti intatti. Rachel guardò il grande cranio annerito, poi disse: «Fagli aprire la bocca con la forza». Dill obbedì. Stavolta afferrò il mento dell'avversario e tirò, per fargli aprire la mandibola. Tra le due chiostre di denti apparve una fessura larga oltre quaranta pollici. Rachel e Mina si avvicinarono, poi esitarono e si scambiarono uno sguardo. L'assassina scrollò le spalle e si arrampicò nell'interno per prima. Era buio pesto. Rachel si fermò nella curva interna della mandibola dell'arconita e cercò di vedere qualcosa, qualunque cosa, in quell'oscurità odiosa. Dall'esterno entrava soltanto un vago riflesso di luce lunare. L'aria puzzava di chiuso, con un sentore marcio che faceva pensare al sanguinoso territorio mesmerista. Sentì il rumore di Mina che scendeva accanto a lei, e una mano scagliosa della taumaturga cercò una delle sue. «Nella parte posteriore della bocca dovrebbe esserci un passaggio in salita», disse Mina. «Sul lato sinistro. Da lì ci si può inerpicare fino alla stanza delle anime, nel cranio.» Tenendosi per mano, le due donne andarono avanti. Il pavimento di ossa ebbe uno scatto improvviso verso l'alto, poi si riabbassò. Nell'aria c'era odore di olio lubrificante e carne bruciata. I loro passi echeggiavano tra pareti invisibili nel buio. Rachel si accorse che stava stringendo troppo forte la mano di Mina, cosa forse pericolosa data la fragilità di lei. Allentò la presa. Dopo aver cercato a tentoni, trovarono lo stretto cunicolo. Dall'interno proveniva una lieve corrente d'aria dall'odore metallico. Rachel si chinò e allungò le mani nell'apertura ossea per valutarne la larghezza. Era sufficiente per consentirle il passaggio. Ma, mentre stava per entrare, l'arconita disse con voce tonante ma chiara e priva di accenti: «Queste sono le parole dei Primi di Menoa. Il Signore del Labirinto ordina a te, Hasp, di uccidere le due donne dentro l'arconita». 94
Rachel si fermò. «Merda.» Mina la spinse avanti. «Sbrigati.» «Fino a che punto era ubriaco Hasp?» «Non abbastanza.» Anche dall'interno di quell'insolita caverna di ossa Rachel udì le grida di Hasp. I suoi lamenti echeggiarono nella notte mentre il parassita che aveva nel cranio s'impadroniva della sua volontà. Incapace di resistere a quell'ordine, ora il Signore della Prima Cittadella sarebbe andato a cercarle. Rachel arrancò avanti nel buio, a tentoni. Dopo un poco scorse una debole luce provenire da oltre una svolta. La camera delle anime dell'arconita? Si affrettò, con Mina che le teneva dietro. La forma del locale era identica a quella che avevano trovato nel cranio di Dill. Tra quegli arcani macchinari, sotto un soffitto di cristallo a molte sfaccettature, stava una sfera di vetro. La luce proveniva dal suo interno, dove fluttuava l'anima di un angelo. Rachel ebbe un moto di ripugnanza. A differenza di Dill, quella creatura appariva vecchia, con le carni disseccate, le ali ridotte a misere sporgenze di ossa. Pezzi di armatura aderivano ancora ai suoi muscoli fibrosi, ma nient'altro copriva la sua decrepita nudità. Non sembrava consapevole della loro presenza; galleggiava al centro del globo e il suo sguardo era fuori fuoco, come se sognasse. Un altro terribile grido provenne dall'esterno, ora molto più vicino. «Qualunque danno tu possa fare a questa cosa fallo subito. Hasp sarà qui tra pochi minuti», disse Rachel. Mina posò le mani sulla sfera, poi si ritrasse bruscamente. «Dèi. Oh, dèi... oh, dèi.» «Cosa c'è?» La taumaturga si limitò a scuotere il capo. «Sorveglia l'ingresso di questa camera. Cerca di tenere Hasp fuori. Uccidilo, se non c'è altro modo.» Se ci riuscirò. Per quanto ubriaco e vulnerabile fosse in quel momento, Rachel dubitava di poterlo fermare per più di una manciata di secondi. E anche costringerlo a quel breve ritardo avrebbe potuto costarle la vita. Mentre tornava nel cunicolo, sentì che Mina mormorava una specie di cantilena. La voce suadente della taumaturga riempì la camera. Dall'esterno del cranio giunse un altro terribile urlo. Hasp stava arrivando. Rachel estrasse la spada, quella semplice lama che aveva preso dal ca95
davere di un soldato a Coreollis. Si accovacciò all'ingresso del passaggio e attese, tendendo le orecchie. Per un poco non accadde nulla. Dopo qualche altro secondo udì un lungo gemito nella notte. Sembrava più malinconico delle grida precedenti, ma Hasp non apparve. Lei lasciò il cunicolo e fece qualche passo nella cavernosa bocca dell'arconita. Nel buio poteva vedere a malapena il grigiore della fessura tra la mascella e la mandibola. Attese ancora una decina di battiti di cuore, poi andò avanti e sbirciò fuori. Il Signore della Prima Cittadella la guardò con occhi arrossati colmi di sofferenza. L'istinto di Rachel l'aveva preparata al combattimento ancor prima che lei facesse mente locale sulla scena che aveva davanti, ma il suo cuore riprese a battere. Hasp era in trappola, impossibilitato ad attaccarla. Dill aveva abbassato una mano sul dio, imprigionandolo nella gabbia delle sue dita rivolte verso il suolo. Rachel guardò l'enorme automa che conteneva l'anima del suo amico. Aveva cambiato posizione, manovrando in modo che le ginocchia premessero fermamente sulla schiena del guerriero di Menoa e spingendo di lato le grandi e inutili ali. Lo teneva ancora per il collo, ma con una sola mano, mentre l'altra formava la prigione in cui aveva chiuso Hasp. Il dio cadde in ginocchio. Raccolse una bottiglia di whisky che aveva lì accanto e si versò in gola un lungo sorso del pessimo liquore. Poi avanzò a quattro zampe e cercò di far passare la testa e le spalle attraverso le sbarre di quella gabbia improvvisata. La sua casacca si era aperta, lasciandogli il petto nudo, e l'epidermide di vetro rosseggiava nel buio come una fornace. Tentò di scavare il terreno intorno a un dito di Dill con guanti vitrei rossi del sangue interno. «Tienilo fermo lì, Dill», gridò Rachel, prima di voltarsi. «Grazie agli dèi hai ancora tutto il tuo buonsenso. Non lo mollare!» Tornata nella stanza delle anime, trovò Mina appoggiata alla sfera di vetro. La taumaturga aveva gli occhi chiusi e stava mormorando qualcosa in tono urgente allo spirito chiuso nel contenitore. Non si voltò neppure, mentre l'altra si avvicinava. «Hasp è momentaneamente indisposto», annunciò Rachel. Mina alzò una mano e disse ancora qualcosa sottovoce, poi trasse un lungo respiro e si scostò dalla sfera. «Non riesco a farcela. L'anima di quest'angelo è stata troppo corrotta. Condivide le folli idee di Menoa.» 96
«È possibile rompere questa sfera?» La taumaturga scosse il capo. «È materiale fabbricato nel Labirinto, e la sua robustezza non è limitata dalle leggi fisiche di questo mondo. Questa proprietà gli deriva dai frammenti di Iril che Menoa ha legato all'anima di ogni angelo. La materia, di conseguenza, dipende dalla forza di volontà, e Menoa ha soggiogato e rinforzato la volontà di quest'angelo.» Per un poco rifletté, accigliata. «Questa sfera non è di vetro. Non è neppure reale. L'anima dell'angelo è poco più di un contenitore di potere che Menoa ha piazzato qui. Per danneggiare un arconita bisogna convincere l'arconita che può essere danneggiato. E questo non può succedere, finché i tentacoli di Menoa sono nella mente di questo essere.» «Ma Dill non è così. Lui ha il libero arbitrio.» La taumaturga sbuffò. «Non andare a dire a Dill che potrebbe essere danneggiato. Se smette di credere di essere invincibile, allora saremo davvero in un guaio.» «Ma in teoria noi potremmo liberare Dill dalla sua prigione?» Le labbra di Mina si piegarono in un sorriso duro. «E perché tu vorresti fare una cosa del genere, Rachel Hael?» Rachel non disse niente. «Quand'eravamo all'Inferno, Hasp ha permesso a Dill di assorbire potere da un altro pezzo del dio frammentato. Menoa ha usato quel frammento per trasformare Dill nel suo tredicesimo arconita. Dill è molto più vulnerabile dei suoi guerrieri, ma è anche più forte. Il fatto che ora ci troviamo in questo cranio testimonia la superiorità del nostro amico.» «Questo perché lui crede in se stesso?» Mina scrollò le spalle. «E anche perché Hasp lo ha addestrato.» Rachel sospirò. «Be', non potrà tenere a terra questo mostro per sempre.» Dietro di loro ci fu un fruscio, come se qualcuno si stesse muovendo nel cunicolo che metteva la stanza delle anime in comunicazione con la bocca. Rachel si voltò di scatto, e allargò un braccio per avvertire Mina di stare indietro. Nella stanza sbucò Oran, che si alzò in piedi e osservò accigliato i complessi macchinari. Poi si rivolse a loro. «Cosa diavolo state facendo qui, voi due?» Notò la sfera e fece un fischio tra i denti. «Cos'è quell'affare?» «L'anima di questa macchina. Un angelo della Prima Cittadella», spiegò 97
Mina. Il boscaiolo si avvicinò. Esaminò la fantomatica figura che fluttuava oltre il vetro, quindi disse a Rachel: «I miei uomini stanno brindando alla vittoria. Ma questa è davvero una vittoria, come loro credono?» «È uno stallo, e durerà soltanto finché Dill riuscirà a tenere ferma questa cosa. Ma non sappiamo come distruggere quella sfera.» Oran sollevò il coltellaccio con un grugnito. «Fatevi da parte, e lasciate che ci provi io.» Rachel guardò Mina, che si limitò ad alzare gli occhi al cielo. Il corpulento boscaiolo si mise in posa davanti al globo trasparente. Alzò la rozza lama e lasciò andare un violento fendente sulla superficie di vetro. Il rimbalzo gli fece schizzare via di mano l'arma, che andò a sbattere tra le apparecchiature nella penombra. Il vetro rimase perfettamente intatto. Oran si massaggiò la mano indolenzita con una smorfia. «L'angelo sa di essere indistruttibile. Paradossalmente, è proprio questa sua certezza che lo rende tale.» Mina indicò la stanza con una mano di vetro. «Tutta questa... costruzione, i macchinari, i motori, dal punto di vista funzionale, sono senza significato. Essi esistono soltanto per creare l'illusione di potere e di forza nella mente di quest'anima. L'automa vede se stesso, sente che la sua forma fisica necessita di una fonte di energia, e solo per questo motivo Menoa gli ha messo nel corpo motori, pistoni, ingranaggi, e un sangue chimico che nutre i suoi muscoli meccanici. Niente di tutto ciò è necessario, e comunque niente di tutto ciò può essere fisicamente distrutto. Quest'intera creatura è un bizzarro insieme di fede funzionante e di forme inutili.» Oran la guardò accigliato. «I tuoi discorsi da strega non significano niente per me, donna. La mia gente è qui fuori, e adesso sta legando con le corde i piedi di questo essere.» «Una completa perdita di tempo.» «E allora tu cosa suggerisci? E cos'è che stai facendo qui, di preciso?» La taumaturga abbassò lo sguardo. «Io cercavo di insinuare il dubbio nella sua mente, per indebolire la sua fiducia in se stesso e di conseguenza indebolire il suo corpo. Volevo persuaderlo che può essere sconfitto.» Rialzò lo sguardo su di lui. «Ma ho fallito, perché il suo padrone ha corrotto la sua volontà.» «E i suoi istinti?» grugnì Oran. 98
«Cosa vuoi dire?» L'uomo sbuffò. «In battaglia un guerriero segue i suoi istinti, donna, e questi istinti nascono dalla paura e dalla rabbia, non dall'intelligenza e dalla volontà. Un auroch alla carica può travolgere gruppi di armati ognuno dei quali abbastanza forte da ucciderlo. La morte di un capo distrugge il morale e la speranza. Tutto nasce dalla paura. Molte battaglie non vengono vinte dalla sola capacità di battersi, ma dal controllo degli istinti degli uomini.» Sputò sulla sfera di vetro. «Hasp avrebbe potuto dirtelo, questo. Se vuoi sconfiggere questo coso, spaventalo a morte.» Rachel annuì. «Ha ragione, Mina. La sua anima è nuda davanti a noi, lì dentro, e questo la rende vulnerabile alla paura. Se percepirà il pericolo reagirà con l'istinto. Menoa può controllare il suo raziocinio, ma...» «Va bene, ho capito.» Mina guardò Oran. «Allora, tu cosa suggerisci?» Il boscaiolo si chinò a esaminare la curva inferiore del globo. Era sorretto da un piedistallo fatto di quattro cristalli. Si alzò, ci girò intorno, si accarezzò la barba ispida e disse: «Bruciamolo. Cuciniamo questa fottuta cosa nella sua pentola». I suoi uomini portarono giare di olio da lampada e sterco animale dal deposito della Sega Rugginosa, poi riempirono la bocca dell'arconita con legname raccolto dalla boscaglia circostante. Costruirono una pira sotto la sfera e la riempirono di olio da lampada e sterco secco. Poi appiccarono il fuoco. Le fiamme lambirono il vetro. Un fumo nero si accumulò sotto il soffitto e ben presto riempì l'intera camera. E dentro il globo vitreo la figura che dava forza all'arconita si agitò e aprì la bocca in silenziose grida di terrore. Rachel lo guardava, inorridita. «Può davvero sentire il calore attraverso il vetro?» domandò a Mina. «No. O meglio, lo sente solo se ha paura di poterlo sentire. E questo è abbastanza, per noi.» Si ritirarono attraverso il cunicolo prima che l'aria diventasse irrespirabile. Gli uomini di Oran misero ulteriore legna e olio nella stanza delle anime, prima di seguirle fuori. Di lì a poco il piccolo locale era come l'interno di una fornace ardente. Rachel andò a fermarsi con gli altri presso i denti e rimase a guardare l'imboccatura del cunicolo che conduceva nel cranio. Il fiero bagliore rosso che ne usciva era sufficiente a creare ombre nel vasto interno della bocca. Poco dopo decisero di uscire nella notte esterna. 99
Su richiesta di Rachel, Dill lasciò l'automa e si spostò accanto al torace, ma senza alzarsi, poiché con una mano teneva ancora prigioniero Hasp. Il gigante caduto non si mosse. «Sta funzionando», disse Mina. «Finché il fuoco continua a bruciare, il suo padrone Icarate non può guidarlo attraverso l'anima dell'angelo. L'arconita è fuori uso.» «Lo stiamo torturando», disse Rachel. «Tecnicamente è lui che tortura se stesso. Noi gli diamo solo il mezzo di mantenere la sua illusione.» Rachel si voltò, disgustata. «Non mi propinare questa merda, Mina.» La taumaturga le mise una mano su una spalla. «Dobbiamo tenere acceso quel fuoco, Rachel, almeno per il tempo che basta ad allontanarci da qui.» Si volse a Oran. «Due o tre volontari dovrebbero bastare per alimentarlo. Se lasciamo che il fuoco si spenga, quella cosa si alzerà e ricomincerà a inseguirci.» I boscaioli scelsero tre uomini fra quelli riuniti lì intorno. Sarebbero stati pagati in monete d'oro, e lasciati lì con viveri sufficienti per una settimana. Soltanto alla scadenza di quel periodo si sarebbero dispersi, abbandonando l'incarico. I tre chiesero del whisky, ma Oran rifiutò. «Finireste per ubriacarvi e addormentarvi, e lascereste spegnere il fuoco. Dovete tenerlo ben acceso finché noi non saremo lontani. Quando ci raggiungerete, ognuno di noi vi offrirà un bicchiere.» I volontari annuirono e Oran li lasciò davanti a quella caverna infernale, dove avevano promesso di torturare l'anima di un angelo per il bene dei loro compagni. Ora che la situazione era sotto controllo, e con la maggior parte della gente di Oran tornata alla Sega Rugginosa, l'assassina e la taumaturga poterono occuparsi di Hasp. Il dio sedeva nella gabbia ossea delle dita di Dill. La sua malconcia casacca era sporca di fango, e così anche i bracciali e i gambali di vetro. Aveva occhi rossi come braci e sembrava incapace di mettere a fuoco ciò che gli stava intorno, a parte la bottiglia vuota che teneva in mano. Rachel notò con ironia che aveva soltanto passato il liquore da un contenitore di vetro a un altro. Appariva vecchio e malato, pericolosamente vicino alla morte. In ogni modo, un bel po' della rabbia l'aveva abbandonato. «Hasp?» lo chiamò Rachel. 100
Lui chiuse gli occhi, e la sua testa ciondolò in avanti. «Fammi uscire da qui», mugolò. «Ancora non so se possiamo.» Lui guardò la bottiglia, poi si passò una mano sul viso, sbuffando. «Io non... non mi sento costretto a fare niente di violento.» «Come posso esserne sicura? L'ultimo ordine che hai...» Lui alzò la testa di scatto. «L'ultimo fottuto ordine mi chiedeva di uccidere due donne che stavano dentro l'arconita. Ma voi non siete più là dentro.» Fece un lungo respiro e si prese la testa tra le mani. «Tutto il whisky del mondo non ha allentato gli artigli di questa cazzo di cosa. Io vi avrei spezzato il collo.» Mosse vagamente le mani nell'aria, con un sospiro dolente. «E ci proverei ancora, se questo parassita fosse fornito di un cervello suo. Se aveste un minimo d'intelligenza, voi due dovreste ammazzarmi subito.» Mina corrugò le sopracciglia. Guardò Rachel. «Lascialo andare, Dill», disse l'assassina. Dill esitò. «Lascialo andare!» Dill sollevò la mano, e Hasp fu libero. Il dio rimase seduto a terra per un momento, poi si tirò in piedi. Non guardò nessuna delle due donne, ma s'incamminò verso la locanda a testa bassa. Le file degli uomini di Oran si aprirono in silenzio, lasciando passare il guerriero dalla pelle di vetro. *** Anchor corse sulla superficie dell'Inferno e si gettò nello strano tubo ingoiatore. Sentì una pressione sul torace quando l'imboccatura di ferro vivente gli si strinse intorno, ma essa lasciò subito la presa e lui precipitò a capofitto. Le anime che erano state condotte lì dai Non Morai reagirono con spavento alla presenza del grosso umano. Un vortice di vento lo investì, colmo dei loro fruscianti sussurri. Stille di luce dorata e curve pareti metalliche lampeggiavano via verso l'alto. Cadde lungo file di finestre oltre le quali scorse stanze illuminate, corridoi tappezzati in muschiosi pannelli di legno e scantinati oscuri pieni di ragnatele; una piccola cucina gialla dove un vecchio sedeva da solo a tavola fissando il niente; un magazzino di bare appena costruite; una fonderia in cui due nani martellavano su un'incudine, con le piccole facce da topo ar101
rossate nei bagliori della forgia. Quelle e altre immagini passarono via in un batter d'occhio, come ricordi improvvisi. Gli abitanti di quei quartieri vivevano dentro le loro stesse anime. Ciò che avevano intorno erano soltanto manifestazioni della loro volontà: gli appartamenti del loro subconscio mescolati insieme come una fitta distesa di quadri a olio sulle pareti di un museo. Anchor conobbe una brusca fermata quando la corda cui era legato si tese, con un colpo secco che gli fece schizzare fuori il fiato dai polmoni. Da qualche parte sopra di lui la Rotsward era stata bloccata nell'imboccatura del tunnel. Per un poco non poté far altro che oscillare lì avanti e indietro, mentre sotto di lui raggi di luce s'incrociavano nella penombra del pozzo. Non riusciva a vederne il fondo. Alzò la testa e vide uno spettacolo non diverso: la luce di molte finestre che tagliava il buio di quello spazio ristretto, illuminando la polvere tra le rugginose pareti. Poi cominciò a muovere le gambe per aumentare l'ampiezza delle sue oscillazioni e, quando raggiunse un lato del pozzo, mollò un pugno alla finestra più vicina. Si aggrappò al davanzale della finestra di una stanza che non era più larga di un armadio, piena di vecchi libri e ceste. Qualcuno gemette e imprecò tra le ombre, ma lui non gli prestò attenzione. Prese fiato e con quel primo punto di appoggio cominciò a tirarsi verso il basso, sfondando una finestra dopo l'altra per cercarne altri. Dall'alto provenne il fracasso di pietre spezzate, metallo che si squarciava e grida umane. Anchor gonfiò i muscoli e trascinò la Rotsward sempre più giù lungo il tessuto vivente dell'Inferno. Ciò che faceva resistenza sopra di lui si sarebbe allargato, o sarebbe stato distrutto. Non gli importava quale delle due cose. Dopo un po' cominciò a cantare una ballata che gli era stata insegnata da un pescatore pandemeriano della Costa Indomita. Ciò gli diede un buon ritmo di lavoro. «Salpa l'ancora, tirala su», cantava. «Spacca quella finestra e tirati giù.» Alla fine arrivò al fondo. Lì il pozzo si apriva in un largo locale, una sfera metallica larga cinquantadue o cinquantacinque piedi. Lui fece fermare la Rotsward dopo aver tirato giù abbastanza corda da calarsi in quello spazio ombroso. Atterrò sul mucchio dei detriti che gli erano piovuti accanto mentre la nave volante scendeva fracassando tutto. Quattro portelli circolari, uno a 102
ogni punto cardinale, si offrivano come potenziali uscite dalla camera, ma soltanto uno di essi era aperto. Sulla soglia c'era una bambina. Doveva avere otto anni, era pietosamente magra e indossava un rigido abito nero con sbuffi bianchi al colletto e ai polsi. I suoi grandi occhi azzurri guardavano Anchor da sotto una massa di riccioletti biondi. Nelle piccole mani ossute aveva una lancia dall'aspetto strano, con un cristallo chiaro sulla punta e un bulbo di vetro in fondo al manico. L'arma emetteva un crepitio intermittente, come quello di passi sulla ghiaia. «Tu non sei un fantasma», disse. Lui sorrise. «No, piccola. Sono John Anchor.» «Che stai facendo nella mia trappola per spiriti?» «La tua trappola per spiriti?» Lei assunse un'espressione imbarazzata. «La trappola per anime di Mr. D, volevo dire. Ma tu non dovresti neanche essere qui. Perché hai una corda legata alla schiena?» Indicò con la lancia il mucchio di detriti intorno a lui. «E cos'è tutta quella roba? A Mr. D questo non piacerà affatto.» «Dov'è Mr. D?» «Giù al cantiere, naturalmente», rispose lei. D'un tratto sbatté le palpebre. «Non sei mica qui a barattare per quegli Icarate, per caso?» Anchor inarcò le sopracciglia. La ragazzina voleva dire a barattare a nome degli Icarate, oppure si aspettava che lui offrisse qualcosa in cambio dei sacerdoti di Menoa? Possibile che quel Mr. D tenesse degli Icarate come ostaggi? Anchor era incuriosito. E cosa intendeva quella ragazzina col «cantiere»? C'era quasi da pensare che tutta quella faccenda non avesse niente a che fare con Menoa. «Gli Icarate? Sì, sono qui per contrattare.» Ma ora lei appariva incerta. «Forse io non ti credo.» Anchor si strinse nelle spalle. «Perché dovrei essere qui, altrimenti? Mr. D non sarà contento se lo facciamo aspettare, no?» Lei si morse il labbro inferiore e guardò ancora il mucchio di detriti. «Va bene. Allora andiamo. Ma è necessario che tu lasci qui quella corda, o io non potrò chiudere la porta della Principessa.» «La corda resta legata a me.» Lei guardò nervosamente dietro di sé. «Ma non preoccuparti, io chiuderò la porta.» La seguì fuori della camera, chinandosi per oltrepassare il portello, ma, quando vide cosa lo aspettava dall'altra parte, si fermò. 103
Sembrava quasi l'interno di un pallone di sostegno per navi volanti. Una serie di anelli sosteneva le pareti di un enorme scafo metallico che si rimpiccoliva come un cono a prua e a poppa. Lui si trovava a una di quelle strette estremità. Al centro di quell'enorme spazio, attorniato da intrecci di tubature, c'erano un motore che ticchettava e molti ingranaggi e parti meccaniche che si muovevano a ritmo regolare. Tra i tubi c'erano rastrelliere metalliche, ciascuna delle quali conteneva quelli che sembravano bulbi colorati. Anchor scosse il capo. Avrebbe quasi potuto essere un'aeronave. Tuttavia l'intero pavimento era coperto di erba. Lui ne raccolse uno stelo e lo annusò, poi lo sfregò tra il pollice e l'indice. Erba. Un nitrito proveniente dalla parte anteriore del vascello gli fece alzare lo sguardo. A duecentocinquanta passi da lì, nella zona più larga dello scafo, c'erano due pony, un pezzato bianco e nero, e un morello. Gli animali lo scrutavano insospettiti. «Come facciamo con questa corda?» All'improvviso la ragazzina spostò lo sguardo dietro di lui e spalancò gli occhi. «Lei chi è?» Anchor si voltò e vide Alice Harper che si chinava per oltrepassare il portello. L'ingegnere metafisico scavalcò la corda della Rotsward e osservò la bambina. «Salve. Io mi chiamo Alice. E tu?» «Isla.» Anchor sorrise all'amica. «Cospinol non mi ha detto che stavi scendendo.» «Da quando siamo entrati in questo tubo, tu non hai fatto che distrarti con un'anima o con l'altra. Credo che parlarti attraverso la corda gli sembrasse pericoloso. Troppo facile farsi sentire da qualcuno.» «Ringraziamo gli dèi per le loro premure, eh?» Anchor attese un momento per vedere se Cospinol avrebbe risposto alla sua battuta. Notando che il padrone restava in silenzio, sogghignò. Finalmente un po' di pace. Doveva andare all'Inferno per trovarla. La bambina aveva notato la cintura degli attrezzi di Alice. «Sei una mesmerista? Hai un localizzatore e un urlatore, e cos'è quel...» «E tu hai una lancia-fantasma», disse lei, accennando al bastone della piccola. «Dove l'hai avuta quella, Isla?» «È di Mr. D», rispose lei. «Mr. D? Sarebbe il...» Anchor la interruppe: «Stiamo andando al cantiere per parlare con lui di 104
questi Icarate. Isla ci porterà là, adesso». Alice annuì lentamente. «Bene.» Anchor passò accanto all'ingegnere e chiuse il portello dietro di lei. La corda non si ruppe... ma il montante del portello si deformò. Lui controllò che la corda potesse scorrere nella deformazione e abbassò la maniglia. Poi, sperando che Isla non avesse notato niente, disse: «Questa sembra una specie di vascello. È una nave, no?» «È la Principessa. E non è una nave.» Isla ridacchiò, poi corse fino al massiccio motore e cominciò a manovrare le leve. «Mr. D l'ha fatta per me. È un sommergibile.» Anchor guardò Alice. «Sapevo già di edifici che si muovono attraverso l'Inferno, ma cos'è un sommergibile?» Lei si strinse nelle spalle. «Non ne ho idea.» *** La Principessa era una nave, a quanto capì Alice, in grado di navigare attraverso il tessuto dell'Inferno. Si muoveva nella pietra vivente e nel ferro con la stessa facilità che nell'acqua, spingendo da parte la carne del Labirinto con lo scafo appuntito e consentendole di richiudersi nella sua scia. Il suo motore era di un genere che lei non aveva mai visto. Per carburante usava le anime dei defunti. Prima di mettere in funzione il macchinario Isla aveva collegato i bulbi di vetro contenenti fantasmi a quattro ingressi nella carrozzeria del motore. Il poderoso vascello aveva già risucchiato la prima di quelle anime, e in qualche modo la utilizzava per la propulsione. Il tubo di scarico era sul retro. Alice lo localizzò grazie alle grida di agonia che ne uscivano. Col motore che rombava energicamente, la Principessa si aprì la strada sotto la superficie dell'Inferno. Per quello che Alice poteva dire, nessuno badava alla rotta. O la nave stessa sapeva dove stava andando, o fuori del vascello c'era qualcuno che lo dirigeva. Isla non ne sembrava affatto preoccupata. Non appena il motore prese un ritmo regolare, lei corse nella zona anteriore del sottomarino per giocare coi suoi pony. I due animali si mossero sul pavimento erboso accanto a lei, pascolando. Anchor si era chinato davanti al motore e ne osservava i complicati meccanismi, dando le spalle ad Alice. «Avevi mai visto una nave come questa, John?» domandò lei. Lui non si voltò e non diede segno di averla udita. 105
«John?» Alice gli si avvicinò e vide che lui aveva afferrato la carrozzeria del motore con tale forza che i muscoli delle sue braccia sembravano duri come il marmo. Aveva gli occhi chiusi e il sudore gli imperlava la fronte. «Ti senti bene?» gli chiese. «John? Qual è il problema?» Si accorse che dal palmo delle sue mani un rivolo di sangue gli scorreva sugli avambracci. «John! Ti stai ferendo!» «No. Allontanati», grugnì lui. «Cosa...» Lui riaprì gli occhi, si voltò a mezzo e sibilò: «La Rotsward». All'improvviso Alice capì. La Principessa non aveva il potere di tirarsi dietro la nave di Cospinol, così Anchor stava alimentando il motore del sommergibile con la sua indomabile volontà. Guardò ancora le mani sanguinanti dell'uomo e si accorse che erano strette su uno degli ingressi del carburante. Quante anime stavano defluendo da lui per nutrire quel vascello? «Cosa c'è che non va in lui?» disse Isla, arrivando alle spalle di Alice. Era in groppa a uno dei pony. «È ammalato?» «Non gli piace viaggiare sulle navi», rispose lei. «Anche Mr. D la pensa così. Lui non lascia mai il cantiere. Non esce mai neppure dalla sua stupida scatola.» La bambina arrossì. «Non ditegli che io ho parlato così di lui. A volte si arrabbia di brutto.» Alice fece voltare il pony e lo condusse via. «Adesso lasciamo in pace John, d'accordo? Perché non mi parli un po' di Mr. D?» Nelle ore successive Alice tenne occupata Isla nella parte anteriore del vascello, mentre Anchor restava al motore per alimentare col suo tremendo potere quel macchinario arcano. La bambina non ebbe molto da dire su Mr. D, salvo che la incaricava di catturare anime per lui, ma non restava mai troppo soddisfatto, cosicché ogni volta la rimandava fuori a procurarsene altre. Isla era dell'opinione che lui cercasse un'anima in particolare, e che ciò fosse molto triste. E Alice Harper, stringendo in una mano la sua perla animata vuota, fu d'accordo con lei. Il sommergibile infine si fermò. Anchor lasciò la carrozzeria del motore, sedette sul pavimento, si asciugò il sangue contro una coscia e riprese fiato. Tra lui e il portello dello scafo, la corda era molto allentata, ma fuori del vascello doveva essere tesa come una sbarra d'acciaio fino alla Rotsward. 106
Per ore si erano tirati dietro la nave volante di Cospinol sotto la superficie dell'Inferno. Anchor si permise un sospiro di sollievo. Il suo cuore continuava a battere forte. Agendo da solo avrebbe potuto rimorchiare la Rotsward per giorni senza stancarsi, ma quello strano sommergibile gli aveva famelicamente risucchiato molto potere. Con dita tremanti estrasse da una tasca tre perle animate e le inghiottì. Il suo cuore rallentò a un ritmo più sostenibile. «Ci siamo», annunciò Isla. «Questo è il cantiere. Venite, ve lo faccio vedere. Mr. D tiene gli Icarate nella sua bottega.» Anchor aprì il portello del sommergibile aiutandosi con un colpo di spalla. La corda della nave volante schizzò via tra i suoi piedi quando il rimbalzo elastico con la Rotsward ne trascinò fuori un buon tratto. Uscendo, l'uomo si trovò in un corridoio di mattoni rossi. Il portello circolare della Principessa si era fuso con quella parete. A sinistra c'erano molti altri portelli simili, a dozzine, e la corda della Rotsward si allungava in quella direzione, dove il corridoio spariva nell'oscurità. Evidentemente quello era un molo dove potevano venire ad ancorarsi molti vascelli. Tuttavia la nave volante da lì non si vedeva. Sulla destra invece il corridoio sfociava in un vasto spazio illuminato da una luce verde. Attraverso l'apertura Anchor vide la cima di alcuni lampioni a gas, la fonte di quell'illuminazione, e la facciata di un edificio fatiscente. Un'insegna sopra la porta diceva: EMPORIO - DA MR. D CAMERE IN AFFITTO - COMPRO/VENDO ANIME «Non ci credo», esclamò Alice Harper. «Un affittacamere all'Inferno può essere soltanto una trappola per impossessarsi delle anime altrui.» Isla corse verso lo sbocco del corridoio. «È un'idea di Mr. D. Lui è il padrone dell'albergo e della bottega. È lì che sono gli Icarate.» Uno strano cicalino cominciò a suonare nella cintura di Alice. Uno dei suoi oggetti mesmeristi, suppose Anchor. L'ingegnere frugò in cerca del dispositivo, regolò qualcosa e lo fece tacere. Poi s'incamminò nel corridoio, dietro la bambina. «Avete visto tutto, Cospinol?» mormorò Anchor alla corda. «Un albergo all'Inferno. C'è da chiedersi quanto voglia Mr. D per una stanza, eh?» Si 107
aggiustò la bardatura sulle spalle e seguì le altre due, tirando energicamente la corda con sé. Da molto più indietro venne il fracasso di muri che crollavano. L'uomo arrivò in un vicolo cieco sotterraneo, dove i lampioni a gas illuminavano di quella maligna luce verde le facciate cadenti di una dozzina di vecchi edifici, su entrambi i lati. Molte porte e finestre erano chiuse da assi inchiodate. Soltanto l'emporio, all'estremità più lontana, aveva ancora l'aspetto di un posto abitato. La sua porta aperta fronteggiava il corridoio da cui erano usciti i tre viaggiatori. Alice si portò agli occhi una delle sue lenti spirituali. «Questo posto pullula di Non Morai. Ci stanno spiando dagli edifici in rovina.» «È un problema?» domandò Anchor. Lei scrollò le spalle. «Tu sei un semidio e io un cadavere. Non si possono biasimare i Non Morai se si tengono nascosti.» «E la bambina?» «Il piccolo demone? È lei quella che temono di più.» Mentre camminavano in quell'improbabile strada sotterranea, Anchor si accorse che dietro di loro c'era un rumore raspante. Rallentò il passo, voltandosi a mezzo. Gli edifici sui due lati della strada si erano scostati e dove poco prima avevano le fondamenta adesso c'era un piazzale, pavimentato in pietra. «Hanno paura», disse Alice Harper. «Non preoccupatevi di loro», li esortò la bambina. «Gli edifici vanno e vengono, come fanno sempre. Qui c'è molto spazio anche per altri, e Mr. D affitta gli spazi vuoti. Ha centinaia di clienti, sapete. Dice che Menoa... è stato avaro con loro.» «E questi altri edifici vengono qui per far visita a lui?» domandò Anchor. «Vengono a fare affari, ma stanno sempre a lamentarsi dei mesmeristi, specialmente di re Menoa. Almeno, la gente che ci abita dentro. Così vengono qui, comprano anime e diventano più forti, poi tornano nel Labirinto e talvolta non si fanno rivedere per secoli. Ma voi non avete il permesso di fargli del male, perché sono clienti speciali di Mr. D. Lui dice che ci sarà una rivoluzione, e che lui sarà il...» - ci pensò un momento - «... rappresentante eletto del libero Stato dell'Inferno.» Anchor scosse il capo. 108
Alice sogghignò. «L'Inferno è un'immensa città vivente, John.» «E Menoa l'ha spaventata a morte, eh?» «Da millenni lui la sta mungendo», disse lei, sempre sorridendo. «Non mi sorprende che ci sia un movimento di resistenza.» Ma una rivolta? Di edifici? Isla saltellò su per i tre scalini dell'emporio e sulla soglia gridò: «C'è gente che vuole vedervi, Mr. D! Sono venuti per gli Icarate». Proseguì nell'interno. «Mr. D! Dove siete?» Anchor e Alice la seguirono dentro. La corda della nave volante frusciò sugli scalini alle loro spalle. Il pianterreno dell'emporio di Mr. D era dedicato interamente alla compravendita di anime. Ogni stanza era ammobiliata con scaffalature da negozio piene fino al limite della capienza di spiriti in bottiglia. Per farsi un'idea di quel labirintico interno Anchor dovette mettere dentro la testa in molti passaggi laterali, mentre la corda della Rotsward lo seguiva staccando schegge dalle vecchie tavole di legno del pavimento. «Mr. D? Dove siete, Mr. D? Oh, siete qui!» Anchor udì un cigolio nel retro dell'emporio. Vide movimenti nell'ombra, poi un oggetto che dapprima aveva scambiato per un mobile si voltò e avanzò nel passaggio tra gli scaffali verso lui e Alice. Era una grossa scatola di legno montata su quattro ruote d'ottone. Intagliata sul pannello frontale c'era una fessura larga due dita, nel cui interno Anchor non vide altro che il buio. La scatola continuò ad avanzare finché non si fermò davanti a loro. Isla riapparve tra due scaffalature giusto dietro di essa. «Questo è Mr. D», annunciò. Anchor guardò lo scatolone. Gettò un'occhiata ad Alice. «Piacere di conoscerti», disse lei. Lo scatolone rimase immobile. Isla mollò un calcio a una delle ruote. «Dite qualcosa, Mr. D. Loro sono venuti qui per comprare gli Icarate.» Dall'interno del contenitore uscì una voce ronzante. «Sei stata ingannata, Isla, cara bambina. Questi non sono compratori di anime, rinnegati o altro. Sono vere forme fisiche, sostanza reale e non metasostanza.» Il discorso dell'invisibile occupante dello scatolone terminò con un morbido plop simile allo scoppio di una bolla in una pentola di zuppa calda. Ci fu un an109
sito. «Questi vengono dal mondo dei vivi.» «Come voi, Mr. D?» disse Isla. «Proprio così. Voi due non siete certo qui per comprare i miei Icarate, no? E di sicuro non siete agenti di Menoa. Dopotutto siete entrambi ancora umani.» «Non ci manda Menoa», disse Alice. «Siamo stati semplicemente trascinati in questa zona dal vortice provocato dai tuoi Non Morai.» «Capisco», disse Mr. D. «Tu chi sei?» volle sapere Anchor. Lo scatolone indietreggiò di un palmo e si girò a fronteggiare più direttamente Anchor. «Io ero uno scienziato. E ora sono un mercante di qualche genere. Affitto stanze e vendo personalità.» «Vuoi dire anime?» Lo scatolone restò immobile. «Cerchi anime e le vendi?» «Tu hai una moglie brontolona, caro signore?» lo interrogò Mr. D. «No? Un fratello rompiscatole, allora? Una sorella puttana? C'è qualcuno che ti dà fastidio? Una persona che conosci e che ti piacerebbe di più dopo un cambio di personalità?» Un altro rumore morbido uscì dal contenitore, stavolta come trippa sbattuta sul banco di un macellaio. Fu seguito da un sospiro catarroso. «Per favore, scusami, signore. Io non sono un uomo troppo sano. Temo di essere in una condizione... piuttosto insolita. Ma non lasciarti distrarre da questo. Nel mio emporio puoi trovare anime di ogni genere. Aprire una bottiglia e inserire una mente nel corpo fisico di qualcun altro è una procedura molto semplice.» Fece un rumore gorgogliante. «Scusami.» «Una procedura di che tipo? Cosa vuoi dire?» domandò Alice. Lo scatolone indietreggiò con un cigolio, poi le ruote si mossero di nuovo in avanti a un'angolazione diversa, in modo che la fessura fosse di fronte all'ingegnere. «Sto parlando di possessione. Tutto compreso nel prezzo. Isla, prendi uno degli speciali per questa donna. Sezione cinquantotto, la sezione rossa; bottiglia undici.» Dietro lo scatolone, Isla si guardò intorno, sbattendo le palpebre. Poi si allontanò a passi svelti, prelevò una bottiglia sul fondo della bottega e, quando fece ritorno, la consegnò ad Alice Harper per fargliela esaminare. Lei la prese. «Un'ottima annata», disse Mr. D. «Il gentiluomo in questa bottiglia era un grande aeronauta, gentile e intelligente. Trovò la morte in un terribile 110
incidente, durante una grande battaglia. Era un poco più anziano di te, e non particolarmente bello, lo ammetto, ma questo non significa niente. L'aspetto non fa parte della merce che io vendo. Spetta a te trovare un muscoloso idiota e persuaderlo a bere quest'anima.» Dallo scatolone provenne il rumore di uno schiaffo, seguito da un fruscio. «Sai quanto costerebbe una cosa del genere lassù... nel mondo dei vivi?» Anchor ne aveva abbastanza. Quel matto inscatolato non poteva aiutarli nella lotta contro Menoa. Era soltanto un mercante di schiavi. «Ora andiamocene da qui. Abbiamo molta strada da fare, eh?» Ma Alice Harper aveva altro per la mente. «Quanto vuoi? Quanto occorre per comprare un'anima?» «Ha!» disse Mr. D. «Quando ti ho vista entrare nella mia bottega ho capito subito che eri interessata. Vuoi l'aeronauta, allora? Posso farti fare un ottimo affare.» Lo scatolone cominciò a girarsi. «Non lui. Voglio... guardarmi un po' intorno.» Lo scatolone si fermò. La fessura si voltò di nuovo verso la donna. Dall'interno la voce di Mr. D chiese: «Cerchi qualcuno in particolare, vero?» Lei abbassò lo sguardo. Anchor corrugò le sopracciglia. Non aveva dimenticato il suono emesso dal dispositivo mesmerista poco dopo il loro arrivo. Che lei fosse da tempo alla ricerca di qualcuno? Guardò Mr. D. «Rispondile. Quanto vuoi per un'anima?» «Questo dipende dall'anima», rispose l'altro. «Che genere di pagamento vuoi? Oro?» «Che strano concetto», rispose Mr. D. «Cosa me ne farei di una sostanza fisicamente immutabile, qui?» Ebbe un altro improvviso colpo di tosse, e l'intero scatolone sussultò sulle ruote. «Vi prego ancora di scusarmi. No, io chiedo soltanto la firma di un contratto con la promessa di certi servigi, e un piccolo sovrappiù per questioni di sicurezza, a garanzia che l'acquirente non dimentichi il contratto.» Lo scatolone rotolò più avanti. «Vorrei che tu uccidessi per me alcune persone. Nessuno che tu conosca, solo certi miei vecchi amici. Dubito perfino che esistano ancora.» «In che città?» volle sapere Anchor. «In un posto chiamato Deepgate.» *** «Laggiù», disse Monk. Il ragazzo dalle dita uncinate puntò il cannocchiale nella direzione indi111
cata dal vecchio. Nugoli di scintille scaturivano nelle tenebre dai punti dove lo scafo esterno della Rotsward toccava la facciata di un enorme edificio. La nave volante era stata trascinata giù dritta nell'Inferno, e poi orizzontalmente per molte ore. Ora che John Anchor aveva interrotto la marcia, gli schiavi di Cospinol lavoravano insieme coi suoi impiccati con mazze e piedi di porco per spaccare mattoni e pietre allo scopo di creare un po' di spazio intorno alle sporgenze della nave. Facevano a pezzi finestre e tegole, strappavano via porte, infissi e travi, e passavano il materiale di scarto ad altri che lo gettavano via oltre la poppa della Rotsward. «Cercano di alleggerire la pressione sullo scafo», spiegò Monk. «Nel caso che l'Inferno decidesse di sputare fuori tutta quanta la nave.» Il ragazzo abbassò il cannocchiale. «Tu come lo sai?» domandò. Gli piaceva mettere in discussione le affermazioni di Monk. «Forse stanno solo immagazzinando quella roba... pezzi di anime e tutto quanto. Cospinol potrebbe bollirla e farci delle perle animate.» La faccia dell'astronomo diventò paonazza. Alzò una mano per colpirlo, ma poi sembrò ripensarci. «Non fare l'intelligentone con me, ragazzo. Stanno alleggerendo la pressione, ti ho detto. Il Labirinto è vivo. Tutte queste case potrebbero decidere che la cosa migliore è lavorare insieme. L'ho già visto succedere: interi letamai che strisciano sopra la superficie del Labirinto. Edifici in marcia. Sì, strane cose succedono quando un gruppo di anime ha la stessa idea.» «Forse potremmo rubare un po' di quei mattoni e bollirli», disse il ragazzo. Monk grugnì. Si sbottonò i calzoni e poi, aggrappato al bordo del foro nello scafo, orinò nel varco tra i patiboli. Dall'arco di liquido caldo si levò un po' di vapore. L'astronomo fece un sospiro, poi si sgocciolò. «Quei mattoni non ci darebbero molta sostanza. Sarebbe meglio rubare un'anima da una di quelle stanze. O sfruttare questa distrazione per liberare quell'angelo dal bollitore.» Abbottonò i calzoni e si voltò verso il ragazzo. «Scommetto che gli schiavi sono usciti e hanno lasciato la prigioniera senza sorveglianza.» «Non la lasciano mai senza sorveglianza. Tu hai soltanto paura che gli impiccati ti prendano, se osassi andare là tra i patiboli.» «Io non ho paura di niente. Sono soltanto prudente e astuto. Poche gocce dell'essenza di quell'angelo ti sazierebbero per un centinaio di anni.» Monk spinse il ragazzo nell'interno della Rotsward, Dall'ombra sotto una 112
delle cuccette tirò fuori un involto e lo aprì. Dentro c'erano una vecchia chiave per bulloni, un martello e uno scalpello d'acciaio. Monk soppesò il martello con una mano e poi lo consegnò al ragazzo. Lui lo prese. «E tu non vieni?» domandò. «Non ce n'è bisogno. Ti è già stato detto quali saldature spaccare e quali bulloni allentare. Ma soltanto quelli. Non vogliamo mica permettere che la puttana scappi, no?»
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6 IL FIUME DEI DIFETTOSI
Dill approfittò dell'immobilità dell'arconita disteso al suolo per togliergli la lurida armatura, e la prese per sé. Come tutti gli attrezzi forgiati all'Inferno, le piastre metalliche intrise di sangue esibivano una primitiva autocoscienza. Erano molto riluttanti a distaccarsi dalle ossa dell'automa caduto. Dill le persuase con la forza bruta. Staccò via le varie sezioni mettendo allo scoperto file interne di ganci che fremevano come ciglia, e se le premette sulle braccia, sulle gambe e sul torace. Rachel lo osservava dalla zolla di terreno intorno alla locanda della Sega Rugginosa. Udì un rumore crepitante quando i ganci fecero presa sulle costolature di Dill. Il metallo stesso sembrava emettere gemiti. Pulsazioni di luce verde corsero lungo quei nuovi bracciali e intorno alla corazza pettorale, come uno sciame di lucciole nella nebbia. In pochi momenti l'arconita di Menoa era stato messo a nudo. Il suo corpo restò disteso dov'era: una scura isola di metallo e di ossa sulla strada che tagliava la foresta, puzzolente e fumante come qualcosa espulso dalle viscere di un vulcano. Dill raccolse la massiccia scure dell'avversario e scosse via il fango dal manico. Poi si chinò a raccogliere l'edificio, tenendolo in modo che le sue fondamenta posassero sulla larga lama. Rachel si aggrappò allo stipite della porta per non cadere, mentre i capelli le svolazzavano selvaggiamente intorno al viso. Un'altra buona parte del terreno esterno alla Sega Rugginosa si staccò e cadde al suolo con tonfi sordi. Dal salone al pianterreno venne un rumore di vetri rotti e grida quando l'edificio scivolò per quasi un passo sulla liscia superficie inclinata della lama. Rachel si sentì sollevare rapidamente verso il cielo, e il fianco corazzato di Dill le passò accanto come un muro punteggiato di stelle verdi. Poi furono di nuovo in viaggio, trasportati a lunghi passi verso nord. Rachel tornò dentro e si unì alla folla di boscaioli che riempiva fino al limite della capienza ogni spazio tra i tavoli, il corridoio e le scale. Ora le conversazioni avevano un tono molto diverso. Quasi tutti sembravano accontentarsi di rimuginare sui fatti accaduti, quella notte. Oran sedeva a un 114
tavolo d'angolo e beveva birra con una prostituta sulle ginocchia. Vide Rachel e la salutò con un cenno del capo. Con le mani posate al bancone del bar, Abner Hill lanciò un'occhiata ostile a quella sgradita cliente, mentre la sua giovane moglie s'insinuava nella ressa per servire ai tavoli. Mina si avvicinò, col suo cagnolino tra le braccia, e condusse Rachel in disparte. «Sono inferociti con Hasp. Tutti hanno visto come ha cercato di tradirci.» Si guardò intorno con cautela. «Qualcuno sta perfino dicendo che dovrebbero pensarci loro a prendere dei provvedimenti.» «Dèi, questo dobbiamo evitarlo, Mina. Dov'è Hasp, adesso?» «Si è barricato nella dispensa. È ancora più ubriaco di prima. È solo questione di tempo prima che gli uomini di Oran facciano qualche sciocchezza.» Rachel sospirò. «Parlerò con Oran. Abbiamo bisogno di più spazio. Qui dentro non si respira. E dobbiamo tenere occupata questa gente. Vieni con me?» Oran aveva già lo sguardo offuscato dall'alcol, ma fece spazio alle due donne ordinando ai suoi luogotenenti di alzarsi dal tavolo. Poi spinse via la prostituta e le chiese di ordinare un'altra giara. «Bevete un sorso di birra», disse, riempiendo due boccali di liquido schiumoso. Rachel accettò il boccale. Mina lo lasciò sul tavolo. Oran alzò il suo. «A Rys, l'artefice della nostra vittoria.» Alcuni uomini dei tavoli vicini si unirono al brindisi. Rachel esitò, poi bevve un sorso. «Devo essermi persa qualcosa. Che c'entra Rys con quello che abbiamo fatto?» «Il dio dei fiori e dei coltelli è sottile», spiegò Oran. «Ma la sua presenza è chiara in tutto ciò che accade. È come questa nebbia stregata che riempie lo Stato di Coreollis.» «Voialtri lo credete onnipotente, allora?» «Lui parla per la mia bocca!» A Rachel parve che quell'affermazione fosse una vanteria più che un atto di fede. Oran si piegò in avanti, scuro in volto. Aveva la pelle segnata dal vento e piena di capillari spezzati, e la cicatrice sulla fronte gli dava l'aria di chi ne ha passate di cotte e di crude. Scoprì i denti in un sogghigno duro. «Questa è la terra di Rys», disse ancora, a voce bassa, «e noi siamo i suoi rappresentanti, qui.» Rachel gettò uno sguardo a Mina. La taumaturga stava osservando 115
l'uomo con attenzione. Oran si appoggiò allo schienale della sedia e buttò giù un'altra lunga sorsata di birra. «Ho dei dubbi sulla nostra destinazione. Perché dovremmo cercare Sabor prima di aver localizzato il nobile Rys? Io penso che dovremmo tornare a Coreollis.» Rachel stava perdendo la pazienza con lui. Era sul punto di spiegargli che Rys - secondo ogni logica - aveva trovato la morte a Coreollis, quando Mina la precedette. «Cospinol ci ha detto che il nobile Rys è sicuro che Sabor e Mirith abbiano trovato il modo di ritornare in Paradiso», dichiarò la taumaturga. «Mentre Rys combatteva i mesmeristi in Pandemeria e a Skirl, i suoi fratelli hanno preferito delle scelte più... esoteriche. Se noi ammettiamo che sia stato Rys a distruggere il suo stesso palazzo, come trucco per farsi credere morto da re Menoa, allora è probabile che abbia lasciato Coreollis.» Una delle sue mani rivestite di vetro si chiuse intorno al boccale. «La battaglia non è più nella città dei fiori, Oran. Troveremo Rys al castello di Sabor, in Herica.» Il boscaiolo la guardò con indignazione. «Tu pensi di conoscere le intenzioni del nostro signore?» borbottò. Poi sputò al suolo e avvicinò il viso a quello di lei. «Ascoltami, strega. Rys vi ha mandati qui in risposta alle nostre preghiere. L'arconita vi ha portate qui dalla sua città. Credi che questa sia una semplice coincidenza? Ora, perché noi non dovremmo prendere il vostro oro e usarlo per eseguire la sua volontà?» Oran fece per dire qualcos'altro, ma fu interrotto dall'arrivo della moglie del locandiere. Rosella Hill mise una giara di birra sul tavolo. I suoi capelli biondi erano sfuggiti dal nastro, e aveva chiazze di cipria bianca sulla fronte e su un polso. Il suo abito a fiori era chiazzato di sudore sotto le ascelle e tra i seni. Evitando lo sguardo dei presenti, cominciò ad asciugare la superficie del tavolo con uno straccio. Oran la guardò con occhi arrossati. «Tutte le cose ci sono mandate da Rys», mugolò. Poi vuotò il boccale con un ultimo sorso, lo posò sul tavolo e prese Rosella per un polso. «Tu sai di cosa sto parlando?» Rosella non disse nulla. Non volle neppure guardarlo. Sui tavoli intorno a loro scese il silenzio. La tensione tra gli uomini di Oran era palpabile. Rachel si voltò verso il bar, dove Abner era occupato a pulire il bancone e non badava a nient'altro. Oran mantenne la presa sul polso della donna. Con la mano libera prese la giara e riempì di nuovo il boccale. «Se Rys desidera che tu mi serva o che tu sieda e beva con me, come possiamo discutere la sua volontà?» La 116
tirò verso di sé e strinse le palpebre. «Resta un po' qui. La strega ti darà la sua sedia.» Rachel s'irrigidì, ma sentì la pressione di un ginocchio di Mina sotto il tavolo: un moto d'avvertimento. La taumaturga si alzò dalla sedia e disse: «Grazie per il tuo tempo, Oran. Rachel, vuoi aiutarmi a cercare delle coperte? Dobbiamo procurare dei giacigli ai nostri civili ospiti». Oran accennò loro che potevano andarsene. Rachel si era sentita salire il sangue alla testa, ma attraversò con lei il salone affollato verso la porta posteriore. Gli uomini della milizia le seguirono con lo sguardo, mentre Abner Hill continuava a pulire furiosamente il bancone coi denti stretti per la rabbia. Quando furono nel corridoio del retro, Rachel sussurrò: «Potrei ammazzarlo». «Lui e i suoi duecento uomini?» L'assassina sbuffò. «So come farlo sembrare un incidente. Potrei sistemarlo stanotte.» «No.» «Stiamo perdendo il controllo, Mina. Oran vuole toglierci il comando e Hasp è così fragile che potrebbe spezzarsi da un momento all'altro.» Alzò la voce. «Abbiamo duecento uomini e un dio, tutti quanti ubriachi in questa fottuta locanda.» Mina le accennò di tacere, aprì la porta posteriore e la incitò a uscire. Il vento gelido raffreddò la faccia di Rachel, ma il puzzo di morte tornò a riempirle il naso. Mancavano sempre alcune ore all'alba, ma l'armatura rubata da Dill illuminava l'edificio, la sua isoletta di terreno e perfino la foresta circostante, con una tenue radiazione verde. Dal basso proveniva il ritmico tonfo dei grandi piedi che schiacciavano la vegetazione. Lo spazio non era molto. Fuori della locanda restavano appena due passi agibili, e sul retro erano occupati quasi completamente dalle fascine per il fuoco. Le dita meccaniche di Dill si curvavano all'insù intorno a quelle fondamenta fangose, simili a resti di arcate bianche. Il manico della gigantesca ascia si allargava orizzontalmente nell'aria notturna come un ponte interrotto. Mina mise al suolo Basilis, che zampettò via per orinare contro la pila del legname. «Gli altri arconiti ora sanno dove siamo. Ne percepisco nove 117
entro i confini della mia nebbia: sei a sud, uno a est e due a ovest di qui. Stanno convergendo su di noi.» Guardò nella notte, come se si aspettasse di vedere già dei segni di quell'avvicinamento. «I più vicini hanno rallentato e aspettano gli altri. Sembra che non vogliano attaccarci da soli. Lo faranno tutti insieme.» Rachel sentì che cominciava a venirle mal di capo. La ferita su un lato della testa le dava fastidio. Alzò lo sguardo verso la testa di Dill, vaga e quasi invisibile nella nebbia. Come poteva essere così vulnerabile un simile colosso? «Però noi ci stiamo avvicinando al Lago dei Fiori», continuò Mina. «Sento la presenza di un grosso centro commerciale a nord di qui, un paese con un buon porto sulla riva di un lago. Sembra che esportino legname e carbone. Ed è ben sorvegliato dalla milizia locale. C'è una cerchia di mura in tronchi di legno... e molte guardie armate.» «Pensi di assoldare altri elementi locali?» «Quei soldati sono molto più numerosi dei nostri attuali amici. Reclutare nuove forze diluirebbe l'influenza di Oran, e ci fornirebbe un piccolo esercito.» «Oppure scateneremmo una guerra tra due fazioni rivali. Inoltre dove metteremmo tutta quella gente?» Mina sorrise. «Sarà necessario rubare un edificio più grande.» «Non se ne parla neppure, Mina. Se stai pensando di...» D'un tratto la taumaturga impallidì. Si portò le mani alla testa con un gemito di dolore. «Cosa ti succede?» Rachel la prese per le spalle nel tentativo di confortarla, ma lei si scostò. «Non lo senti?» «Cos'è che non sento?» «C'è stato un... un terremoto? Dèi, non so cosa fosse. Come una spaccatura aperta nella nebbia, un crepaccio che andava da un lato all'altro del mondo. Tutto ha sussultato. Tutto...» Dalla locanda provenne un improvviso fracasso. Rachel sentì il rumore di vetri che andavano a pezzi e oggetti pesanti gettati sul pavimento, uomini che gridavano e imprecavano... e sopra tutto ciò la voce di Hasp che ruggiva: «Codardi!» «Oh, dèi», disse, avviandosi verso la porta. «Tu resta qui, Mina.» 118
All'interno c'era stata una rissa. Tavoli e sedie rovesciati. Uno degli uomini di Oran giaceva al suolo e perdeva sangue dall'addome. Altri due si stavano rialzando in piedi a qualche passo da lì, mentre tutti gli altri boscaioli si erano addossati alle pareti. Il Signore della Prima Cittadella aveva gettato via gli indumenti ed era nudo al centro del salone. Il suo sangue pulsava sotto le piastre trasparenti del suo corpo, e i monconi di ossa visibili sotto le protuberanze vitree dietro le sue spalle indicavano il punto dove i mesmeristi gli avevano amputato le ali. Nella mano destra impugnava un'accetta. Hasp girò su se stesso, si spostò di lato e sollevò l'accetta. Alcuni uomini di Oran risero. I due che si erano alzati dal suolo si spostarono sulla destra e sulla sinistra del dio dall'armatura di vetro. Uno di loro aveva una mazza rivestita di ferro, e l'altro un lungo coltello. Oran era ancora seduto al tavolo d'angolo, con un braccio nerboruto intorno alla vita della moglie del locandiere, in piedi accanto a lui. Rosella Hill era rossa in viso e discinta, con la gonna sollevata fino ai fianchi. D'un tratto si divincolò dalla presa del suo aggressore, e lui la lasciò andare. Rachel sfoderò la spada. Quella lama di Coreollis era più pesante di quelle della Spina cui era abituata, ma poteva squarciare la carne altrettanto bene. «Cosa sta succedendo qui?» domandò. Oran si voltò a guardarla seccato, senza nessun interesse. «Quell'abominio ha ucciso uno dei miei uomini.» «Lo avete provocato?» In quell'angolo poco illuminato del salone il boscaiolo appariva sporco e feroce come un selvaggio. Sui capelli e sull'armatura di legno e cuoio aveva chiazze di fango secco. Una luce febbrile gli brillava nelle pupille. La cicatrice sulla fronte sembrava pulsare. «Rys ha mandato Hasp all'Inferno per una buona ragione. Doveva avere la decenza di restarci.» L'attenzione di Hasp era adesso centrata su Oran. Il dio sogghignava come un imbecille, ignorando i due uomini che lo avevano accerchiato. Oran fece un cenno impercettibile col capo. Rachel udì i due uomini del boscaiolo inalare simultaneamente il fiato. Nello stesso istante lei focalizzò... ... e il mondo che la circondava si fermò. Nel salone cadde un silenzio totale. Le fiammelle delle candele e delle lampade a olio smisero di ondeggiare. La luce si fece più debole e nello 119
stesso tempo più intensa, bluastra. Le particelle di fumo in movimento nell'aria s'immobilizzarono. I due individui a destra e sinistra di Hasp dovevano ancora espellere il fiato, e Rachel notò in ciascuno di loro la tensione che preludeva a un'azione violenta: le palpebre che si stringevano, l'irrigidirsi delle labbra, e la comparsa dei tendini sul collo mentre i muscoli delle spalle cominciavano a contrarsi per sollevare le armi. Osservò meglio Oran. Anche il capo della milizia era in via di preparazione per uno scatto fisico, e il suo atteggiamento suggeriva che avrebbe lanciato il pesante coltello. Intorno a lui aveva parecchie altre armi con cui rimpiazzarlo subito dopo. Tre bersagli. Quaranta passi tra tutti. Rachel non sapeva se avrebbe potuto raggiungere la velocità necessaria mentre stava focalizzando. Ogni azione compiuta in quelle condizioni l'avrebbe pagata subito dopo con un collasso fisico che l'avrebbe resa vulnerabile all'attacco di ogni uomo d'arme presente nel salone. Ma l'assassina non aveva molta scelta. Si mosse. Dieci passi accurati verso il più vicino aggressore. Nel camminare mantenne il suo corpo più fluido possibile, considerando ogni muscolo, e la posizione delle braccia e delle spalle relativa alla mossa che intendeva fare. A quella velocità i movimenti bruschi potevano provocarle delle ferite, mentre fermarsi era pericoloso. Il suo bersaglio non aveva ancora sollevato del tutto il bastone ferrato. Era muscoloso e pesante, attrezzato con un'armatura di legno duro e cuoio. Lei gli premette un polpaccio sul lato di una gamba, afferrò il suo bastone e si girò, sollevando dolcemente l'arma mentre si appoggiava con una spalla su un lato del suo petto. L'uomo cominciò a cadere. Rachel lasciò il bastone. Non poteva sperare di usarlo a quella velocità. Le dita di lui persero la presa sull'arma. Il pesante bastone si alzò roteando nell'aria. Rachel lo toccò due volte col dorso di una mano, e alterò la sua traiettoria affinché gli spaccasse il cranio quando lui avrebbe finalmente toccato il suolo. L'uomo continuò a cadere. Il bastone si stava ancora sollevando e ruotava su se stesso. La sua estremità appesantita dal ferro attraversò uno strato di fumo e cominciò a scendere verso la testa del boscaiolo. Il cuore di Rachel portò a termine un lungo e lento battito. Lei non aveva smesso di muoversi. Il suo corpo fluttuò oltre l'avversario sconfitto e passò a poca distanza da Hasp. Il Signore della Prima Cittadella era in pie120
di come congelato al centro della sala, con gli occhi neri fissi su Oran. I suoi denti gialli erano incorniciati da labbra screpolate. Rachel notò le piccole vene di vetro entro il pettorale della sua impressionante pellearmatura, e la peluria della sua mandibola. Fece un altro passo e raggiunse il secondo bersaglio. Il boscaiolo era più snello e rapido del primo, e i suoi occhi brillavano di rabbia. Aveva già sollevato il coltello all'altezza della spalla, preparando i muscoli a colpire diagonalmente. L'acciaio luccicava bianco e giallastro sotto l'impugnatura. Un filo di saliva scendeva dalla bocca del boscaiolo, e i suoi polmoni si erano gonfiati in modo significativo. Rachel non avrebbe potuto deviare il corpo dell'uomo dalla sua linea di movimento senza un considerevole rischio per se stessa. Decise dunque di rompergli un braccio. Un colpo al polso destro spaccò le ossa del carpo. Poi l'assassina prese il coltello dell'uomo tra il pollice e l'indice e lo spinse nella direzione opposta al fendente. Sentì i tendini e i muscoli dell'uomo che si tranciavano. Il dolore gli sarebbe arrivato solo più tardi, quando avrebbe capito di aver mancato il colpo. L'assassina sentì che il suo cuore pulsava una seconda e una terza volta, e poi accelerava d'improvviso. Oran rappresentava ancora una minaccia, ma per Rachel l'intervallo di focalizzazione era finito. Le sue percezioni accelerate tornarono normali con un sussulto che le fece perdere il controllo delle gambe, e cadde. Un caos di rumori l'assalì: grida inarticolate, rantoli e il tonfo di stivali sull'assito. Oran urlava per mettere ordine. Da qualche parte una donna strillò. Rachel giaceva al suolo, col naso pieno dell'odore di legno e di polvere. Da lì vedeva il boscaiolo che aveva disarmato per primo. Il pesante bastone era atterrato precisamente dove voleva lei, spaccandogli il cranio. Ora sotto il corpo dell'uomo si allargava una pozza di sangue. Sentì delle mani che la toccavano. Una voce di donna gridò: «Lasciatela stare!» Mina? Ti avevo detto di restare fuori. Rachel sentì che qualcuno la girava supina. Nel suo campo visivo entrò un volto selvaggio, con le guance e il collo di vetro, gli occhi neri come abissi di tenebra. Hasp scoprì i denti in una smorfia e un alito puzzolente di whisky la investì. La sua espressione era disperata e miserevole. «Io non volevo il tuo fottuto aiuto», grugnì. E le sferrò un pugno nello stomaco. L'assassina si piegò in due per il dolore e ansimò, mentre l'aria le sfug121
giva dai polmoni. Mina stava gridando qualcosa lì vicino, e c'erano uomini che ridevano e gridavano. Con un ringhio Hasp la colpì all'addome una seconda e una terza volta, poi alzò il suo pugno di vetro sopra la faccia di lei, radunando tutta la sua forza per sferrare il colpo dall'alto in basso. Rachel chiuse gli occhi. *** «Noi non siamo sicari prezzolati», disse Anchor. Lo strano cassone a rotelle di Mr. D indietreggiò di un passo e urtò uno degli scaffali, pieno di anime in bottiglia. Il suo occupante disse, attraverso la fessura: «Credo che dovresti lasciar decidere alla tua amica. Dopotutto la persona interessata è lei». Anchor poteva vedere la mente di Alice Harper al lavoro. Un'espressione preoccupata le contraeva il viso; i suoi occhi frugavano il pavimento come se una risposta ai suoi dilemmi potesse apparire là. Stava davvero considerando la proposta indecente di Mr. D: una delle sue anime in bottiglia in cambio dell'assassinio di due sconosciuti. «Perché io sia garantito, il contratto dev'essere firmato col sangue», disse Mr. D. «Ho trovato che i clienti sono molto meno propensi a violare l'accordo quando un documento di questo genere resta nelle mani di un taumaturgo. La minaccia di una vendetta magica sul loro sangue tende a mantenere la gente attenta al suo lato dell'affare.» Alice mormorò: «Che gli dèi mi aiutino... lo farò». Anchor fu sconvolto nel vederla andare in pezzi in quel modo. Quella donna non era un'assassina. Non sapeva neppure chi Mr. D le avrebbe chiesto di uccidere. Lui sapeva riconoscere la disperazione, quando la vedeva. «Ottimo!» esclamò Mr. D. «Diavolo, no. Non permetterò che ti approfitti di lei», intervenne Anchor. «La signora ha accettato, egregio.» Anchor guardò Alice. «Quale anima vuoi comprare? Un parente? Un amante?» Dalla sua reazione vide di aver toccato una ferita aperta. «Tuo marito, eh?» Si voltò verso lo scaffale più vicino, spaccò lo sportello e tirò fuori alcune bottiglie di anime. «Questo è un furto con scasso, signore.» Lo scatolone di Mr. D rotolò 122
avanti in modo minaccioso. Dall'interno uscì uno strano rumore gelatinoso. «Tu non sai chi sono io!» Anchor porse la bottiglia ad Alice. «Usa i tuoi attrezzi mesmeristi. Trovalo.» Lei scosse debolmente il capo, con un singhiozzo. Il suo sguardo si spostò più volte da Anchor al proprietario dell'emporio. «Fallo», disse Anchor. Lei si frugò nella cintura. Tirò fuori uno di quegli strani marchingegni d'argento, sottile e punteggiato di cristalli, con un guscio fitto di glifi incisi. L'oggetto emise un rumore sottile e cominciò a gemere. Lei scosse il capo. «In queste bottiglie no. Ma è qui intorno, da qualche parte.» «Tuo marito?» «Tom. Si chiama Tom.» Anchor stappò una bottiglia e se la portò alle labbra. Una piccola quantità di liquido gli scivolò in gola... ... e i ricordi dell'anima contenuta in quel liquido fiottarono nella sua mente. Un palcoscenico... Luci a gas e applausi... Seduta sul bordo di un letto mentre guardava una donna morente... L'odore di sudore, il peso di un uomo sopra di lei... Filando giù per una collina su una pesante bicicletta di legno... Mr. D rise. «Ora l'hai fatto e sei sistemato. Hai appena inghiottito l'anima di un'altra persona.» Le ruote dello scatolone cigolarono quando si spostò avanti. «La tua mente, così com'è, sta per scomparire.» Anchor grugnì e bevve altre due bottiglie. Sentì la forza riversarsi in lui, mentre altri nuovi ricordi lo assalivano. Solo nel deserto, davanti a un fuoco da campo... Una donna piangente, col viso insanguinato per i suoi colpi... Vermi che si agitavano nelle viscere di un cane morto... Il grosso individuo scaraventò via le bottiglie vuote e ne afferrò altre dagli scaffali. «E queste?» Alice Harper le scandagliò e scosse il capo. «Lui non sta cambiando, Mr. D», disse Isla. ... tirando frecce ai gabbiani... una taverna rumorosa... l'abbraccio di un fratello... guardando una barchetta che si allontanava sulle acque neb123
biose... «Questo lo vedo, Isla. Per favore, apri le gabbie degli Icarate.» «Ma, Mr. D...» «Fallo, bambina.» Le bottiglie vuote rotolarono sul pavimento, Anchor le tolse di mezzo a calci e scardinò lo sportello di un altro scaffale. Lo scatolone di Mr. D si ritirò in fondo al passaggio, facendo cigolare le ruote. Isla evitò di esserne investita e scomparve oltre una tenda sul retro dell'emporio. Alice stava guardando il suo attrezzo. «È qui, John.» Anchor era ubriaco di potere e di ricordi che non gli appartenevano. I suoi pensieri erano un vortice... un molo in fiamme... un vecchio che piangeva... sbudellando un coniglio... Girò su se stesso, poi andò allo scaffale alle spalle di Alice e strappò via lo sportello dai cardini. La corda della Rotsward s'incastrò nello stipite della porta e lo staccò dal muro. Alice prelevò una delle bottiglie dallo scaffale. Anchor sbatté le palpebre e scosse il capo. L'emporio gli girava intorno... baciando una ragazza vestita d'acciaio... sesso in un gazebo verde di muschio... un coltello stretto fra le dita insanguinate... Prese la bottiglia dalle mani di Alice, tolse il tappo e la sollevò alle labbra. «John!» gridò lei. Lui si fermò con la bottiglia che gli toccava il labbro inferiore. Poté quasi sentire il sapore della prima goccia di liquido freddo. «Scusa.» Abbassò la bottiglia e gliela restituì. Alice Harper ci rimise il tappo. Dietro di te! Cospinol era rimasto zitto così a lungo che quell'intervento improvviso lo fece sussultare. Per un attimo pensò che l'avvertimento gli arrivasse da una delle anime che aveva appena ingoiato, poi riconobbe la voce profonda di Cospinol. Quel pazzoide ha sguinzagliato i suoi Icarate. Due degli infernali sacerdoti di Menoa stavano scostando la tenda che divideva l'emporio di Mr. D dal retrobottega. Indossavano bizzarre armature fatte con piastre bulbose di ceramica, simili a fungosità cosparse di marciume scuro. Dai bulbi scaturivano scintille verdi che rimbalzavano sul pavimento intorno ai loro stivali bianchi. Incomprensibili voci ronzanti uscivano dalle griglie di rame delle loro bocche. Le lenti nere dei loro occhi erano rotte, ma ciò nonostante fisse su Anchor. «Non è possibile che sia lui a controllarli, gli Icarate rispondono soltan124
to a Menoa.» Alice si fece indietro, puntando lo scanner verso gli avversari in avvicinamento, e aggiunse: «John, le loro menti sono state sostituite. Mr. D ha impiantato in loro delle anime nuove». Anchor si spostò davanti a lei e incrociò le braccia. «Tornate da dove siete venuti», disse agli Icarate. «Non sono dell'umore di combattere con altri storpi.» Da dietro la tenda giunse una risata maniacale. «Non sei dell'umore di combattere? Credi che queste anime vogliano parlamentare con te? In loro ci sono le menti di rapinatori e assassini, razza di grosso idiota... le peggiori che io abbia trovato da quando sono all'Inferno.» Anchor sorrise. «Ora sono dell'umore di combattere.» Avanzò verso gli Icarate e afferrò il primo per il collo e per l'inguine, poi rovesciò a testa in giù l'essere in armatura bulbosa e lo scaraventò fuori di una finestra dell'emporio. I pannelli di vetro andarono in pezzi, come anche molti mattoni del muro circostante. L'Icarate volò attraverso il vicolo cieco emettendo scintille e ruzzolò scompostamente al suolo per duecento passi prima di fermarsi. Il secondo Icarate esitò. Anchor lo afferrò per il collo con una mano e lo alzò dal suolo. I pallidi guanti dell'essere crepitarono afferrandogli selvaggiamente il braccio, ma lui non ci fece caso. Tenendo l'Icarate sollevato dinanzi a sé attraversò la soglia protetta dalla tenda ed entrò nel retrobottega. La stanza in cui venne a trovarsi era quasi buia, ma al suo ingresso fu bruscamente illuminata da un lampo di luce verde. Lo scatolone di Mr. D era di fronte a un semicerchio di venti gabbie larghe come bare, posate al suolo e chiuse da serrature metalliche. Due di esse erano aperte e vuote, mentre le altre contenevano esseri bipedi in armatura di ceramica. Dai bulbi di quelle protezioni rigonfie scaturivano vampe di scintille verdi, che illuminavano il locale privo di finestre. In quella luce spettrale Anchor vide le griglie delle loro bocche, incrostate di verderame e ruggine rossa, e i dischetti di vetro scuro che servivano loro da occhi. Isla si stava arrabattando con una chiave per aprire un'altra gabbia. «Lascia stare quella roba, piccola.» Lei guardò con aria incerta lo scatolone al centro della stanza. «Lascia stare, ti ho detto. Lui non ti farà del male.» Isla abbassò la chiave. Lo scatolone di Mr. D rimase completamente immobile, con la sottile fessura rivolta verso Anchor. Lui si ricordò di avere tra le mani l'Icarate, che seguitava a contorcersi, 125
e lo scaraventò contro il muro sul fondo del locale. La violenza del tonfo fece apparire delle crepe sui mattoni, e l'Icarate cadde al suolo dietro le gabbie, in una nuvola di polvere. Le scintille verdi della sua armatura si spensero. «Cosa sei, tu?» domandò Mr. D. «Sono John Anchor. Farò un affare con te, va bene? Tu consegnerai a Miss Harper suo marito. E la ragazzina. Allora, sei d'accordo?» «D'accordo? D'accordo su cosa? Qual è la mia parte di guadagno in questo affare?» Anchor corrugò le sopracciglia. Esaminò la stanza e le tavole del pavimento. «Ah», disse infine. Spaccò col piede una di quelle tavole e si chinò a staccarne via una lunga scheggia. «Tu ci guadagni questo pezzo di legno.» «È una battuta di spirito?» Anchor sogghignò. «È la mia offerta migliore.» Mr. D sbuffò. «Io non so quale sorta di demone tu sia, ma non puoi minacciare me. Il corpo dentro questa scatola non può essere ferito. Né puoi farmi soffrire più di quanto io non soffra già. Se te ne andrai, io ti perseguiterò. Metterò le spie di Menoa sulle tue tracce. Io ti...» Anchor prese lo scatolone, lo capovolse e lo posò di nuovo al suolo, con le ruote girate verso il soffitto. Mr. D gridò: «Cosa? Rimettimi diritto, altrimenti io...» «John.» Alice era andata sul punto dove lui aveva appena sfondato la pavimentazione, e lo stava scandagliando col suo dispositivo mesmerista. «Sto ricevendo lo stesso segnale che captavo al portale, ma qui è molto più forte. Siamo proprio sopra il Fiume dei Difettosi.» «Il tuo formicaio?» Lui guardò giù attraverso il buco, ma non vide niente fuorché il buio. Al naso gli giunse un vago odore di carne marcia. «Bene. Possiamo aprirci la strada verso il basso. Vuoi portare la bambina alla nave, Miss Harper?» «Meglio di no», disse Alice, accigliata. «Non posso venire con voi?» domandò Isla. Alice si chinò e la prese per le spalle. «È troppo pericoloso, dolcezza. Vieni...» Si rialzò e la prese per mano. «Perché non parliamo con la gente delle altre navi? Credo che all'Inferno ci siano posti migliori di questo, per te.» Isla guardò Anchor, che le sorrise con calore. Riluttante, la bambina 126
scavalcò la corda della Rotsward e seguì la donna fuori della stanza. Non appena le due furono uscite, Anchor disse: «La piccola è davvero potente, eh?» Dietro di lui la grande corda vibrò. Potente! Per le palle di Ayen, John, quella ragazzina ha riunito nel suo sommergibile più materiale di quanto ogni umano normale potrebbe fare. Ha opposto resistenza anche a te. Sospetto che perfino Hasp impallidisca al suo confronto. Mr. D sbuffò. «Lei è potente grazie alla sua vicinanza al Fiume dei Difettosi. Perché credi che noi stiamo qui? Se vuoi discutere dell'argomento con più concretezza, ti prego di girarmi a testa in su.» È comprensibile, disse Cospinol. Milioni di anime perdute, tutte dirette alle fogne dell'Inferno, convergono qui. Questo genere di potere potrebbe essere intrappolato e utilizzato da qualcuno con una forte volontà. In effetti, le anime disperate potrebbero trovare attraente questa forte volontà, e legarsi a essa. Quella demoniaca bambina dev'essere una specie di calamita per loro. «Vuoi ascoltarmi o no?» Mr. D sospirò, poi fece un tentativo di apparire ragionevole. «Senti, prometto di non perseguitarti se mi giri a testa in su.» Cosa vuoi farne di lui? «Niente. Per me, può marcire qui», rispose Anchor. «Con chi stai parlando?» volle sapere Mr. D. «Col mio padrone», rispose Anchor. «Il tuo padrone? Dov'è? Voglio parlare con lui.» Anchor grugnì. Si chinò sul foro nel pavimento e cominciò ad allargarlo strappando via altre tavole. Quando fu abbastanza largo per lui, si fermò e scrutò nelle sue oscure profondità. Da quell'abisso saliva un vento freddo. Non riuscì a capire quanto fosse profondo. «Anchor, chiedo un colloquio col tuo padrone», ribadì Mr. D. Il grosso individuo fece un sospiro e si calò nel foro. Là dentro era ancora più buio. A tentoni sentì che intorno a lui c'era una grata di sbarre cementate a un muro di mattoni, ma lo spazio era sufficiente per consentirgli di scendere. «Un colloquio?» disse rivolto all'apertura, mentre tirava la corda dietro di sé. «Non è un problema. Cospinol arriverà qui tra poco.» Poi si aggrappò a un'altra sporgenza metallica e cominciò a trascinare la corda giù nell'abisso. 127
*** Alla fine John Anchor uscì dal Labirinto. Le sporgenze e gli infissi metallici che aveva usato per tirarsi in basso terminarono. Sfondò una pavimentazione in muratura e non trovò altro che aria. Così tirò giù un altro miglio di corda, e poi saltò. Per un lungo momento cadde, ma quasi subito atterrò in un liquame denso dall'odore nauseabondo, profondo un miglio. La sua testa andò sotto e quando riemerse John sputacchiò e tossì, disgustato. Si asciugò gli occhi, ma per un poco non riuscì a vedere nient'altro che una foschia rossastra. Il puzzo di carne marcia gli riempiva la bocca e il naso, e sputò ancora più volte nel tentativo di scacciarlo. Il fondale su cui scorreva quel liquido sembrava liscio come una pavimentazione artificiale. I suoi colpi di tosse non avevano prodotto echi, e ciò gli rivelò che intorno a lui c'era un vasto spazio aperto, in cui si udiva soltanto un leggero gorgoglio. Non appena ebbe fatto mente locale si accorse che quel liquame scorreva con lentezza, e sembrava spingerlo in più direzioni diverse allo stesso tempo. Finì di togliersi quella roba dagli occhi e sbatté le palpebre. D'improvviso un raggio di luce bianca scese sul liquido giusto alla sua sinistra, illuminandone la superficie rossa per un istante prima di svanire. Poco dopo la stessa luce balenò di nuovo e rimase stabile. Proveniva dall'alto, e alzando lo sguardo lui vide Alice Harper che si calava giù lungo la corda della Rotsward. La donna scese attraverso lo squarcio del soffitto. Stretto fra i denti aveva un apparecchio di cristallo a forma di bacchetta, ed era quello la fonte della luce bianca. Si fermò un poco, restando penzoloni tre piedi più in basso del soffitto, e mosse la bacchetta per illuminare intorno. Si trovavano in uno spazio privo di muri, un'immensa caverna sotto lo strato di mattoni e sporgenze di ferro che costituiva la base dell'Inferno. Innumerevoli aperture in quel soffitto portavano al Labirinto sovrastante, e da esse emanava un chiarore che illuminava quel panorama sotterraneo come un crepuscolo nebbioso filtrato dalle chiome di una foresta. Il territorio che si estendeva sotto quel soffitto era diseguale e pericoloso. Corsi d'acqua rossa formavano stretti canali contorti e spiraliformi, che giravano fino a ricollegarsi a se stessi, senza inizio e senza fine. Sinuosi argini di viva carne vibrante di muscoli e vene separavano le vie d'acqua e, nella vaga luce che scendeva dalle finestre del soffitto, quell'immensa palude sembrava estendersi all'infinito. Dall'alto cadevano gocce fitte come pioggia che si mescolavano ai liquami dell'intreccio di canali. Ma lì accan128
to erano cadute anche le venti gabbie degli Icarate, che per la maggior parte giacevano rovesciate di lato, salvo quattro parzialmente conficcate nel terreno molle. Quando Alice Harper le illuminò col suo attrezzo, le loro ombre si allungarono sull'acquitrino. Le gabbie erano vuote, dalla prima all'ultima. Anchor si guardò intorno in cerca di Mr. D. Il padrone dell'emporio doveva essere caduto anch'egli da quelle parti. Del resto, quasi tutto il contenuto dei suoi locali si era sparso laggiù. Scaffali e bottiglie galleggiavano nell'acqua rossa. Pochi momenti dopo le sue labbra si piegarono in un sorriso, quando vide il bizzarro cassone di Mr. D che si muoveva sulle sue ruote lungo un tratto di terreno solido, allontanandosi nella semioscurità. L'ingegnere metafisico puntò il raggio del suo attrezzo a forma di bacchetta oltre le gabbie. Il circolo di luce strappò riflessi di rubino dalle polle colme d'acqua e dalle vene che percorrevano l'interno muscoloso di un argine di carne. Le gocce che cadevano dall'alto erano scintille chiare. Poi il raggio si fermò su qualcosa dietro le spalle di Anchor. Alice ansimò. «John, abbiamo trovato il nostro formicaio.» Lui si voltò a guardare. Loro stavano in piedi nell'acqua: rosse figure simili ad affrettate sculture di esseri umani, o creature fatte col liquido stesso, erano emerse dal fiume e ora li guardavano immobili, nella luce della bacchetta di Alice. Anchor stimò il loro numero a un centinaio o poco più. Non vide occhi sulle loro facce, ma notò che avevano la bocca e i denti. Dall'alto, Alice disse: «Queste sono acque senzienti. Le creature che vediamo non sono anime d'individui. Sono semplici estensioni del fiume, parti del dio dei Difettosi». Lui si rivolse alle figure. «Salve.» Le figure parlarono tutte insieme, in un fluido sussurro: «Tu sei un Icarate?» Quelle voci echeggiarono sotto il soffitto come una brezza, così vaghe che sembrò fosse stata l'aria stessa a parlare. «Ho l'aria di un Icarate?» replicò Anchor. Loro esitarono. «Cosa cerchi qui?» La corda dietro la schiena dell'uomo vibrò, mentre la voce del suo padrone gli risuonava nella testa. Non menzionare Menoa, lo avvertì Cospinol. Questo è un fiume pericoloso. Chiedigli di lasciarci passare sotto l'Inferno fino alla Nona Cittadel129
la. Digli che stiamo cercando l'origine dell'infestazione di Icarate. Anchor riferì la richiesta del padrone. Le figure restarono in silenzio per un poco. Infine dissero: «Tu ci porti del cibo». Anchor corrugò la fronte. Non aveva capito se quella fosse una domanda o una dichiarazione... né a quale cibo si riferissero. «Credo che stiano parlando degli impiccati», disse Alice. «Se possono sentire la presenza di tutte le anime a bordo della Rotsward, suppongo che le vedano come un alimento, un vero banchetto.» Tolse le gambe dalla corda e si calò più in basso. A un palmo dalla superficie dell'acqua esitò, e strinse meglio la bottiglia dell'anima che si teneva premuta sul petto. Poi si lasciò andare ed entrò nel fiume. Il liquido le arrivava ai seni. Con aria un po' spaurita, si accostò al colossale compagno. «Un fiume di morti non associati», mormorò. «John, questa cosa è molto più grossa di quello che avevo immaginato. Potrebbe diventare tutto.» Immerse nell'acqua una mano a coppa, si portò il liquido alle labbra e ne bevve un sorso. Quella scena strappò una smorfia ad Anchor. Attraverso la corda Cospinol disse: Questo fiume può avere tutti i miei impiccati, se ci lascia passare. Digli che voglio fare un'alleanza. Digli che siamo suoi amici. Dannazione, costui si è mangiato quei bastardi di Icarate che abbiamo trascinato giù. Dobbiamo restare un po' qui a parlare con lui. Anchor riferì il messaggio. Le figure attesero per un altro lungo momento. Infine dissero, tutte insieme: «Seguiteci». L'uomo vide le gelatinose creature immergersi lentamente e sparire nel Fiume dei Difettosi. «Seguirvi dove?» domandò, e in quella vasta penombra gli rispose soltanto l'eco della sua voce. Ma le correnti intorno a loro si mossero e acquistarono la forza di un torrente in piena. Il canale in cui si trovavano prese invece a fluire in senso opposto. Alice Harper inciampò, ma Anchor la prese per un polso e la tenne ferma. Lei si strinse la bottiglia al petto e alzò la bacchetta illuminante, mentre il liquido ribolliva e frusciava intorno alle sue spalle. Investite da quel nuovo flusso, le gabbie vuote degli Icarate scivolarono 130
via nel buio. Anchor tenne l'ingegnere vicino a sé. «Non mollare la tua bottiglia.» Lei rise. «Questa è la prima volta che ti sento fare una battuta di spirito.» «Quale battuta? L'acqua è molto alta. La tua bottiglia sparirebbe in un attimo.» Fece un gesto con una mano. «E tu perderesti per sempre l'anima di tuo marito.» «Non preoccuparti», disse lei. Anchor ricominciò a tirare la Rotsward giù verso quel fiume affamato. «Agli impiccati questa faccenda non piacerà. Nessuno gradisce essere mangiato. Io lo so per esperienza.» Ma Alice non lo stava ascoltando. Si stringeva al petto la bottiglia, e piangeva. *** Attesero per ore in quello scomodo e stretto spazio sopra la cucina, finché gli schiavi non terminarono il turno di lavoro al braciere, sotto la sfera di Carnival. E mugolarono di frustrazione quando videro arrivare altri schiavi a prendere il posto dei loro compagni. Monk si scostò dal foro e tirò il ragazzo accanto a sé, per potergli parlare in un orecchio. «È una stramaledetta perdita di tempo. Perché non mi hai detto che quei bastardi non la lasciano mai sola?» «Io non lo sapevo», rispose il ragazzo, indignato. Era un'ingiustizia che Monk desse la colpa a lui. Quella faccenda era tutta un'idea del vecchio, tanto per cominciare. L'astronomo si sgranchì le gambe e fece una smorfia. «Tu pensavi che fossero troppo indaffarati a spaccare via pezzi d'Inferno per lavorare al braciere.» Si passò una mano sulla mandibola ispida di barba. «Quello che ci serve è un diversivo di qualche genere.» «Per esempio quale?» «Non lo so! La nave non si sta muovendo, no? Questo può darti modo di scivolare fuori senza che ti vedano e fare qualcosa d'inaspettato. Sì... prendi un'accetta e comincia a menare colpi allo scafo. Questo farà accorrere i bastardi.» «Non è possibile danneggiare lo scafo», replicò il ragazzo. «Non importa quanto sia malridotto, non puoi romperlo, neppure con un'accetta. Io questo lo so.» 131
Monk si accigliò. Parve sul punto di discutere, ma in quel momento l'intero vascello ebbe uno scossone improvviso e cominciò a gemere e a scricchiolare. «Ci stiamo di nuovo muovendo. Hanno allentato la pressione sullo scafo. Scendiamo ancora più giù nell'Inferno.» Nella cucina sotto di loro, gli schiavi di Cospinol alimentavano il braciere, spalando carbone, lavorando ai mantici e controllando il contenuto della fiasca di condensazione. I lampi spettrali emessi da quel contenitore vitreo illuminavano a tratti gli angoli più lontani della stanza. Dalla sfera usata come bollitore continuavano a provenire tonfi rabbiosi, ogni volta che l'angelo sfregiato mollava calci alla sua prigione d'acciaio. Nascosti fuori del foro nel soffitto, i due cospiratori attendevano. Dopo un poco il ragazzo che aveva uncini al posto delle dita si accorse che il vecchio stava russando. Sdraiato lì su un fianco, in quell'esiguo spazio tra pareti di legno umido, sembrava qualcosa che sarebbe potuto appartenere all'interno di una bara. La sua fronte aveva il colore dell'osso invecchiato, e ciuffi di capelli biancastri gli spuntavano dal cranio come muschio secco. Il ragazzo pensò a quanto sarebbe stato divertente buttarlo giù nel buco. Gli schiavi l'avrebbero subito preso e messo in ceppi. Gli impiccati dovevano obbligatoriamente stare fuori della Rotsward. Ma Monk era un tipo interessante, a suo modo particolare. Al ragazzo piaceva sentirlo parlare di Pandemeria, della battaglia contro i mesmeristi e del primo grande automa. Decise di aspettare finché non avrebbe potuto bere un po' dell'essenza dell'angelo. Lasciò che il vecchio continuasse a dormire e tornò indietro, inerpicandosi nel dedalo di condutture della nave volante. Quand'ebbe raggiunto lo scafo esterno, s'introdusse in uno dei molti squarci e uscì sulle sovrastrutture che circondavano il vascello. Adesso che la nebbia se n'era andata poteva vedere chiaramente gli impiccati. Molti di essi si erano spostati sulle zone più esterne del telaio di legno, per essere pronti a spaccare via le facciate delle dimore infernali. Il ragazzo strisciò su un lungo traliccio e poi saltò su un altro. Le sue dita metalliche agguantarono uno dei nodi scorsoi rimasti vuoti. Oscillò sotto la forca e si lasciò andare accanto alla cima di un grosso albero verticale che fungeva da colonna di supporto. Numerose corde gli penzolavano intorno, ma quelle servivano per issare e spostare i detriti e non poteva rischiare di usarle. Così si calò lungo l'albero e continuò a scendere. La Rotsward si al132
lontanò sopra di lui. Ciò che voleva sapere con precisione era dove stava andando la nave. In breve tempo raggiunse la zona più bassa delle sovrastrutture. Il vascello posava su quello che sembrava un immenso labirinto fatto a pezzi. Tutto intorno c'era una distesa di stanze dal soffitto squarciato, e in quella penombra brillavano le torce degli impiccati al lavoro. La parte inferiore della Rotsward aveva spaccato quegli edifici, e gli uomini si muovevano da una stanza all'altra, asportando grandi pezzi di muratura, tegole, legname, caricando i detriti in cestoni che venivano issati su fino al ponte della nave. Evidentemente intendevano estrarre l'energia vivente di quei materiali per fabbricare perle animate, quelle di cui si nutriva il dio della salsedine e della nebbia. Crunch. La sovrastruttura oscillò e affondò ancora in quel caos. Il ragazzo sentì uomini e donne gridare. Scese ancor più vicino e vide che la maggior parte di quelle stanze era occupata, ma gli impiccati non caricavano la gente sui cestoni. Anzi, la stavano macellando. Crunch. Gli impiccati, protetti da corazze e pettorali, si spostavano su quel territorio devastato come uno sciame di strani insetti metallici, entrando nelle case dai corridoi e dalle finestre, o inerpicandosi sulle macerie dove i danni erano troppo gravi. Usavano le loro armi eterogenee contro ogni anima che si trovavano davanti. Una vecchia seduta a un telaio si voltò quando un uomo in armatura saltò giù accanto a lei. Sorrise, e quello fu tutto ciò che ebbe il tempo di fare prima che la spada la trafiggesse. L'uomo le appoggiò un piede sul petto e le tirò fuori l'arma dal corpo. Crunch. Due uomini si accorsero che un nuovo crepaccio si stava aprendo nella pavimentazione di un grande edificio. Un giovane riccamente vestito alzò lo sguardo in tempo per vedere le loro lance piombargli addosso, e il suo corpo rotolò sulle eleganti mattonelle sporcandole di rosso. Altri quattro uomini stavano trascinando una donna urlante fuori di una piccola cella di mattoni. Quegli uomini erano i morti appartenenti a mille eserciti, i cadaveri di quei guerrieri che Anchor aveva massacrato fin dal giorno in cui aveva per la prima volta attaccato alla sua bardatura la corda di rimorchio della Rotsward. Non ce n'erano due armati nello stesso modo. Indossavano cotte di 133
maglia rugginose, giubbotti rinforzati, pettorali finemente incisi, giubbe o mantelli verdi, o gialli, o blu. C'erano mercenari e boscaioli vestiti di pelle; arcieri con archi di osso o di frassino; cavalieri dall'armatura di ferro battuto e con caschi piumati; ladri, sicari incappucciati e tagliagole da strada. Alcuni combattevano come pugili con guantoni di ferro spinoso, altri usavano sottili fioretti compiendo esotiche mosse di scherma che il ragazzo non aveva mai visto. Bluastri in faccia, con corpi allungati dopo essere rimasti per secoli penzoloni appesi alle forche, quei macellai si muovevano come un'orda di cavallette sul dedalo di edifici che continuavano a crollare sotto la nave. Crunch. Perché mai ammazzavano la gente del Labirinto? Tutte quelle anime non avrebbero potuto essere utilizzate meglio da Cospinol? Il sangue di quelle uccisioni andava sprecato. La loro essenza si mescolava al sangue che usciva dalle mura e dai pavimenti, e colava giù verso le profondità del Labirinto. Verso dove? Gli schiavi recuperavano pezzi di pietra e legno viventi, ma non toccavano quei cadaveri. L'intera cruenta scena sembrava un gigantesco sacrificio. Crunch. La sovrastruttura affondò ancora. Ma stavolta accadde qualcosa di diverso. L'aria fu scossa da un rombo e una grande sezione di terreno si staccò e cadde in un baratro oscuro. Altri vasti squarci apparvero in quella rete di corridoi, stanze interconnesse e muri di mattoni. Sembrava che la Rotsward avesse sfondato il soffitto di un'immensa caverna. Il ragazzo non vedeva niente in quella tenebra impenetrabile, ma sentì che dal basso proveniva l'inconfondibile rumore dell'acqua corrente. Ci fu una pausa. Poi John Anchor ricominciò a tirare la corda. La Rotsward si aprì la strada attraverso la base dell'Inferno. La distesa di forche oscillò cigolando, e d'improvviso si abbassò di un bel pezzo. Poi la parte inferiore urtò in qualcosa di solido e l'intera nave volante si fermò. In quel momento, se il ragazzo non avesse dato alle sue dita la forma più adatta per aggrapparsi a tutto, avrebbe perso la presa sul legno e sareb134
be caduto. Gli impiccati di Cospinol non furono così fortunati. A dozzine scivolarono via dall'intelaiatura e caddero. Con sorpresa del ragazzo, quasi tutti finirono nell'acqua. Là sotto c'era uno sterminato dedalo di vie d'acqua, separate da basse strisce di terreno erboso. La loro forma gli ricordò gli arcani disegni a spirale che gli antichi abitanti di Brownslought avevano dipinto sulle rocce: una singola linea che torcendosi su se stessa innumerevoli volte formava un labirinto. Come le linee sul polpastrello di un dito, i canali non s'intersecavano. Erano tutti parte dello stesso fiume. Le macerie piovevano nel liquido con alti schizzi. In breve si formarono isole di detriti. Le vie d'acqua erano poco profonde, neppure quanto l'altezza di un uomo. Dalle sovrastrutture cadevano torce accese, che sfrigolavano e tornavano a galla, oppure rimbalzavano sul terreno asciutto e restavano lì a bruciare in quella vasta penombra. Alla luce di quelle torce il ragazzo vide che l'acqua era densa e rossa come il sangue. Un sacrificio? Dagli impiccati si levò un coro di voci allegre. Quelli rimasti sulle sovrastrutture della nave stavano ora scendendo verso il territorio sotterraneo. Anche gli schiavi abbandonavano i cestoni di detriti per unirsi a loro. I guerrieri che erano già caduti laggiù si schizzavano a vicenda, ridevano e bevevano quell'acqua. Alcuni di essi salirono sulle isole di terreno, inzuppati e sgocciolanti, per recuperare le torce accese. Si rallegravano, battevano le armi sulle loro armature per fare chiasso e s'inginocchiavano a bere sulla riva. Evidentemente Cospinol aveva promesso a quella gente un banchetto. Il ragazzo alzò lo sguardo. Alla luce delle torce, la base dell'Inferno appariva piena di buchi e di escrescenze come una boscaglia. Intorno al varco creato dalla nave si estendevano infissi di ferro contorto simili a nere radici sbucate fra le pietre. Anche là c'erano porte, finestre, e altre aperture che mandavano un po' di luce, come stelle in un cielo di muratura vivente. Lo scafo vero e proprio della Rotsward si trovava sotto quel cielo, ma la parte superiore delle sue vaste sovrastrutture era ancora incastrata lassù, nel Labirinto. Non c'era abbastanza spazio per contenere la sua grande mole. Torrenti di sangue continuavano a scivolare giù per gli alberi e il sartiame, e lungo le pareti del pozzo che John Anchor aveva creato nel trascinare la nave fin lì. 135
Il ragazzo si guardò intorno in cerca del colosso. Sulle isole e sulle acque e tra l'alberatura della nave volante c'erano molte torce, ma Anchor non si vedeva, così lui tentò di capire dove fosse la sua grande corda. Infine la vide. Si era attorcigliata intorno a una delle strutture più basse, a un centinaio di passi da lì, e si stava tendendo, evidentemente perché Anchor aveva ricominciato a tirare. Il ragazzo guardò in quella direzione e vide in distanza una vaga aura di luce bianca, che si allontanava. Presto la Rotsward avrebbe ricominciato a muoversi in orizzontale. Doveva dirlo a Monk. Quel banchetto poteva essere la diversione che il vecchio aspettava. Mentre Cospinol e i suoi impiccati festeggiavano, loro due avrebbero potuto penetrare nella cucina e avvicinarsi al bollitore sferico. *** Carnival stava affogando, ed era lì dentro ad affogare da mesi, o da anni, o forse addirittura da secoli. Non ricordava più da quanto tempo era prigioniera in quel maledetto posto. L'acqua bollente le riempiva gli occhi, la bocca e i polmoni. Le scorticava la pelle. Le sue ali e le sue gambe erano state spezzate al momento della cattura, ma adesso erano guarite, anche se le ossa si erano saldate in una posizione che non era quella di prima. Ciò le rendeva difficile scalciare contro l'interno di quella prigione. Ciò nonostante lei scalciava, visto che non aveva altro da fare. Il dolore le dava forza. Lei lo assaporava e lo usava, comprimendo l'agonia dentro di sé e poi lasciandola esplodere con un altro violento colpo sulla parete del contenitore. Ma sentiva che pian piano le sue forze s'indebolivano. Sembrava che l'acqua bollente avesse la capacità di risucchiarle la vita. Cominciava a chiedersi se sarebbe morta. Da una parte l'idea che la sua sofferenza trovasse fine era attraente, poiché le offriva una speranza di riposo e di pace. Dall'altra la faceva infuriare. Qualcuno l'aveva messa lì dentro. Così strinse i denti e scalciò ancora. Stavolta sentì che la parete del contenitore stava cedendo.
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7 SOTTO L'INFERNO
Il Fiume dei Difettosi era rapido, intelligente e carnivoro. Nelle sue molte e diverse zone fece a pezzi gli impiccati finiti dentro di esso. Gli aloni di luce gialla che scendevano dalle finestre sotto la base dell'Inferno illuminavano la scena. Rosse figure emersero dalle acque gorgoglianti e attaccarono i loro avversari senza altre armi che le loro mani appena costruite e i loro denti. Quelle figure di liquido indurito potevano essere infilzate e mutilate da lance e spade, ma i Difettosi restavano immuni dalla morte, poiché il fiume era la loro carne comune. Quando una delle figure cadeva, un'altra si alzava dallo stesso ripugnante liquido. Non erano individui, bensì aspetti-golem dello stesso fiume. Anchor volse le spalle al massacro e alle urla dei guerrieri di Cospinol che riempivano lo spazio sotto l'Inferno. Combattevano con ferocia e disperato coraggio, ma ogni loro sforzo era vano. Il fiume imparava dai suoi errori, e adottava nuove tattiche per ingannare i suoi nemici. Dove i golem più piccoli venivano distrutti s'innalzavano al loro posto colossi, poderosi bruti con pugni a forma di mazza che terrorizzavano gli impiccati e li facevano fuggire. Lunghe forme muscolose fornite di pinne e mandibole sfrecciavano nell'acqua. Rosse funi emergevano per arrotolarsi intorno alle armi degli impiccati, strappandole dalle loro mani. Gorghi feroci li strapazzavano fino a costringerli alla ritirata sul terreno emerso. Ma il rosso fiume girava intorno anche a chi ne usciva, costruendo muri che soffocavano le sue vittime, e gabbie dentro le quali potevano essere uccise con più efficienza. Al centro di quel campo di battaglia prese forma una grande figura alta e sottile, che s'inginocchiò goffamente e cominciò ad agitare come fruste i lunghi arti superiori. Poi collassò in un'ondata di liquido. Qualunque cosa il fiume avesse cercato di creare, era fallita. Si era allungata oltre le sue capacità di sostegno. Per un breve periodo piovve verso l'alto. Le piccole gocce erano intelligenti come la loro fonte, e investirono i guerrieri entrando loro nella bocca e negli occhi. Così aggredito, un cavaliere in armatura integrale vacillò alla 137
cieca in un canale gorgogliante, sfregandosi gli occhi e gridando: «Mi morde, mi morde!» Poco distante da lui un tagliagole da strada piccolo e magro agitava il suo inutile arco mentre lottava contro la rossa minaccia che cercava di trascinarlo sotto. Tre guerrieri dalle armature intarsiate e variopinte si erano piazzati schiena contro schiena su un'isola larga qualche passo, e affondavano le lance nel corpo delle figure che si arrampicavano sui detriti verso di loro. Di lì a non molto quel terzetto divenne l'unico punto di resistenza efficace che Anchor vedesse, forse perché lì il fiume sembrava evitare d'inasprire i suoi attacchi. Poi però le acque si ritrassero, s'innalzarono e si gettarono d'improvviso sulla loro isoletta, trascinandoli nel canale circostante. Allontanandosi da quella zona Anchor sentì il gelo scendere nel suo cuore. Passò una mano nell'acqua che scorreva intorno al suo corpo. Di certo nessun esercito avrebbe potuto sconfiggere un avversario così amorfo. Che quella fosse l'antitesi di Iril... una forza primordiale, priva di una struttura che si potesse sottomettere con la forza fisica? Come si poteva lottare contro il caos assoluto? Anchor stava tenendo Alice Harper per la vita impedendogli di affogare. «Il fiume si sarebbe preso gli impiccati in ogni caso. » gli disse lei, «Cospinol non aveva altra scelta che sacrificarli a lui. Facendo questo, ha guadagnato il suo favore.» «Per ora», disse Anchor, «noi siamo sempre alla sua mercé, credo. Se decidesse di mangiarci, non so come potremmo fermarlo.» «Allora cerchiamo di non fare niente che lo irriti.» «Che cosa può irritare un fiume?» «Il fiume è un dio, e questo dio è un bambino. Qualsiasi cosa potrebbe causargli una crisi di rabbia.» Poco più avanti la corda della Rotsward si tese contro l'imbracatura di Anchor, e lui sentì la familiare presenza della nave volante a rimorchio. Fece un profondo respiro e cominciò a tirarsela dietro. Il vascello gli parve molto più leggero di prima. Lui non si voltò neppure a guardare mentre lo scafo deviava e sobbalzava strisciando sul fondo di quel regno sotterraneo. La parte più elevata restava sepolta dentro la base del Labirinto, ma i suoi pennoni non sarebbero stati danneggiati dai semplici mattoni né dal ferro. Così, mentre Anchor la trascinava avanti, quelle sovrastrutture scavavano un profondo solco nell'immenso soffitto e ne staccavano via tonnellate di 138
materiale, che grandinava giù dietro la poppa. «Questo è un posto molto strano», commentò il colosso. «Ci si abitua», rispose Alice. «All'Inferno, voglio dire. Io non so se questo posto, qui sotto, può ancora essere chiamato Inferno. Il Labirinto finisce sopra di noi.» Si appoggiò la bacchetta luminosa sopra un orecchio, e accennò verso il soffitto. «Quella è stata casa mia per molto tempo.» Lui grugnì. «Il modo in cui ne parli... si direbbe che ti manchi.» «È così. La tua anima impone il tuo ordine a ciò che ti circonda. Tu diventi un mondo tra molti altri, ma tutti collegati. Se non fosse per il sovraffollamento e la minaccia dei mesmeristi, sarebbe un paradiso. E immagina il sesso.» Lui rise. «È quando gli altri ti impongono la loro volontà che le cose si fanno difficili.» Lei lo guardò pensosamente. «Non sei d'accordo?» «Io ho scelto di diventare uno schiavo.» «Ma ora te ne penti.» Lui preferì non rispondere. «Credi che il Paradiso sia come il Labirinto?» «Non mentre Ayen ne resta la dominatrice. Lei ha espulso i suoi stessi figli allo scopo di mantenere l'ordine. Il suo concetto di ordine. Se in Paradiso ci sono ancora delle anime, dubito che siano libere.» Guardò il soffitto. «No, il Paradiso è per le pecore, e l'Inferno è per...» «Le capre?» «I lupi, John. È per i lupi.» La forte corrente rendeva difficile camminare, ma Anchor reggeva saldamente Alice Harper, e la aiutava a riprendersi dagli scivoloni. Lei si teneva stretta al cuore la bottiglia con l'anima di Tom, e immaginava di sentirne il calore attraverso il vetro. In quello stato fisicamente innaturale, suo marito non era consapevole di ciò che gli accadeva intorno. Il suo spirito era prigioniero di una miscela di liquido esoterico, un elisir come quelli che si diceva fossero distillati in Pandemeria prima della guerra. In quella forma, lui si limitava a sognare. Togliere la sua anima da quel liquido non era un problema. Lei poteva trovare un uomo - vivo o morto -, fargli bere l'elisir, e il suo corpo avrebbe ospitato la personalità di suo marito. Certo, quella persona non sarebbe stata fisicamente Tom, non come lei lo ricordava. 139
Ciò nonostante, il ritorno in un corpo fisico era infinitamente meglio di un'eternità trascorsa dentro una perla animata. In tal modo lei non avrebbe soltanto posseduto l'anima di suo marito: lo avrebbe riavuto con sé, in carne e ossa. Prese una decisione. Avrebbe trovato un uomo adatto a fungere da ospite per lo spirito di Tom, e insieme sarebbero tornati a essere una coppia. A suo tempo avrebbero creato una casetta all'Inferno, a una certa distanza dalla Nona Cittadella e con una bella vista sul panorama. Ma chi sarebbe stato l'ospite di quell'anima? Il fiume rosso continuava a scorrere intorno a loro, spingendoli verso la meta. Dall'alto cadevano gocce che chiazzavano di sangue la pelle e gli abiti. Il percorso che seguivano era tortuoso e contorto come uno scarabocchio vergato sul letto di morte da un analfabeta, ma, ogni volta che cercavano di uscire dall'acqua per attraversare uno di quei mille argini, la corrente li risucchiava giù nel mezzo del canale. La bacchetta illuminante di Alice puntata in avanti traeva barbagli dall'acqua, mentre nelle tenebre dietro di loro, in lontananza, la nave volante posata al suolo scavava un vero e proprio canyon di distruzione nel soffitto di quel sottile reame. Trovare un corpo fisico decente in quel dannato posto non sarebbe stato facile, dovette dirsi Alice. Da quanto ne sapeva lei, in tutto l'Inferno c'era soltanto un corpo sano e forte disponibile. E John Anchor non era certo disposto a cederlo. Di lì a non molto i Difettosi riapparvero, emergendo dall'acqua come se fossero stati nascosti là fino a quel momento. Erano migliaia, in piedi nel canale principale e in quelli circostanti. Alice girò la luce intorno e ne vide altri, ovunque. Anchor notò che erano meglio definiti, adesso. Le loro facce avevano nasi oltre le bocche, ma nessuno aveva ancora sviluppato gli occhi. Molti somigliavano agli impiccati che avevano appena massacrato. Le loro epidermidi rosse avevano l'aspetto di armature, ed erano muniti di spade, fionde e lance. Anchor e Alice si fermarono. Quando i Difettosi parlarono, una sola voce uscì da molte bocche. «Cos'è l'oggetto che ti trascini dietro? C'è cibo dentro di esso.» «La Rotsward è la nave del mio padrone. Non c'è cibo a bordo», rispose Anchor. Una figura si avvicinò. Era più grande delle altre, e sembrava avere un'armatura rossa, tuttavia le sue piastre non si muovevano come avrebbe140
ro dovuto fare quelle metalliche. L'armatura era soltanto una forma esteriore. «Ci sono molte anime dentro la Rotsward», disse, e il gruppo fece coro a quelle parole. «Anime ovunque.» Inclinò la testa e sembrò studiare la borsa di perle animate appesa alla cintura dell'uomo. Poi allungò una mano verso di essa. Anchor indietreggiò. Sentì la mano di Alice stringersi più forte sul suo braccio. La voce di lei gli sibilò qualcosa all'orecchio in tono incalzante, ma lui non riuscì a capire cos'aveva detto. La figura si chinò nel canale, sgocciolando, e annusò l'aria. Poi una voce irosa gridò da ogni direzione: «Tu hai cibo». Alice gli parlò ancora, e stavolta Anchor udì chiaramente le sue parole. «Dagli tutto quello che chiede. Non possiamo combattere questa cosa.» Anchor esitò. Senza quelle perle animate avrebbe finito col perdere le forze. «Fallo», lo incitò Alice. Una vibrazione urgente corse attraverso la corda della nave. Alice ha ragione, lo avvertì la voce di Cospinol. Abbiamo necessità di costruire un rapporto di fiducia. Non possiamo irritarlo. Dagli le perle, John. Io ne ho molte altre. Anchor sbuffò. «Allora dovrete abituarvi ad andare a piedi, nobile Cospinol. Se il fiume prende queste, poi ne vorrà ancora altre. Quanto potere siete disposto a cedere?» Il fiume lo stava ascoltando, ma non poteva importargliene di meno. «Ha già calpestato un accordo. In lui non c'è onore, soltanto fame.» In questo momento la sua fame è l'unica parte di lui con la quale possiamo comunicare. La figura rossa inclinò ancora la testa. Mille voci domandarono: «Dov'è la persona che parla attraverso la corda?» «È nella nave», rispose Anchor. John! Qual è il problema? Se non ti conoscessi bene, direi che hai paura di questa cosa. Il colosso strinse i denti. «Paura? È il fiume che dovrebbe aver paura di me!» Staccò la borsa dalla cintura e si vuotò il contenuto sul palmo di una mano. In quella penombra, gli spiriti dentro le perle animate emettevano una debole luminosità. Anchor se le ficcò in bocca tutte quante e le inghiottì. 141
Poi sogghignò. «Ora me le sono mangiate tutte. Non ci sono più anime. Oggi ne avete già avute abbastanza.» I Difettosi rovesciarono la testa indietro e ulularono. L'aria si riempì delle loro grida furibonde. Le acque si alzarono e divennero un torrente impetuoso che investì Anchor e Alice. Intorno a loro vorticò spuma rossa, e per un attimo parve che la corrente riuscisse a trascinare via con sé l'ingegnere, ma il colosso la trattenne testardamente. «Basta così!» gridò. Le voci diventarono un coro di lamenti. «Ho detto basta!» I Difettosi tacquero. La corrente del fiume rallentò. Tutte le figure si erano adesso rivolte verso Anchor, e si agitavano a disagio. Lui si mise le mani sui fianchi e le fronteggiò. «Ora portateci alla Nona Cittadella, come avete promesso. Da me non avrete altro finché non saremo arrivati. Avete capito?» D'un tratto le figure si dissolsero nell'acqua, sparendo così com'erano apparse. Un attimo dopo non c'era più nessuna traccia di loro, né nessun rumore salvo l'incessante sgocciolio di sangue dal Labirinto, più in alto. Alice gli strinse il braccio. «John, questo è stato... Non so se sia stato stupido o geniale. Come ti è venuto in mente di farlo?» «È stato stupido, forse. Tu hai detto che questo dio è un bambino, e che si comporta come un bambino. Ma io ho avuto dei figli, un tempo, e so come reagiscono. Non bisogna viziarli, giusto?» Fece un grugnito. «La cosa peggiore è dargli tutto ciò che vogliono.» «Tu hai dei figli?» Lui la scostò da sé. «Li ho avuti. Ma non voglio parlarne.» Scrollò le spalle, afferrò la corda e riprese la marcia. In lontananza tornarono a udirsi gli schianti e i crolli dell'Inferno che veniva distrutto dal loro passaggio. *** Quante volte Rachel si era svegliata piena di dolori? Fin troppe volte, le sembrava, anche per un'assassina della Spina. Si sollevò su un gomito e le sfuggì un mugolio. I suoi muscoli erano rigidi come strisce di cuoio. Intorno a lei c'era solo buio, e non riuscì a capire dove diavolo fosse. Aveva l'impressione che la stanza beccheggiasse come su un mare in burrasca. «Vuoi prima le buone notizie o quelle cattive?» 142
Rachel riconobbe la voce di Mina, e poi riconobbe anche ciò che aveva intorno. Scrigni di monete, il vecchio tavolo, le sedie e il tappeto. Si trovava di nuovo dentro la bocca di Dill. Un muro di denti la separava dalla fosca luce del giorno, e da molto più in basso proveniva il crepitio dei grandi passi dell'arconita. Mina sedeva con le spalle posate all'incisivo inferiore sinistro. Il suo volto era sempre una maschera di scaglie rosse, ma si era cambiata la camicetta e stava accarezzando il suo demoniaco cucciolo, Basilis. Rachel non poté reprimere una smorfia sofferente, ma la mandibola le faceva male. Tastandosela con cautela localizzò due punti dolenti, leggermente gonfi. «Le buone notizie, per favore.» «Sei viva.» Dopo una breve attesa Rachel borbottò: «Le buone notizie sono tutte qui?» «Scusa. Ho cercato di pensare a qualcosa per almeno ritardare le brutte notizie, ma non mi è venuto in mente nulla di meglio.» «Quelle brutte preferisco non averle.» «Come vuoi.» Rachel sospirò. «Va bene. Di che si tratta?» «Hasp ha cercato di ammazzarti di botte. Poi, quando i boscaioli di Oran hanno capito cosa avevi fatto a quei due, hanno cercato di ammazzarti anche loro. Questo però ha irritato Hasp ancora di più. Siamo vive solo perché sono riuscita a trascinarti fuori mentre loro lottavano. Adesso questa misera caverna è l'unico posto sicuro che abbiamo. Oran ha minacciato di dare fuoco alla locanda se non scendiamo ad affrontare la loro giustizia. Non l'ha fatto, però, perché è l'unico posto che hanno. Ma probabilmente presto troverà qualche altro modo per piegarci alla sua volontà. La situazione potrebbe diventare antipatica.» «Come hai fatto a portarmi qui?» «Ho chiesto a Dill d'intervenire. Lui ha subito alzato l'edificio e io ho potuto approfittarne per uscire. La tua testa ha fatto dei rumori davvero sgradevoli sugli scalini della locanda, mentre ti trascinavo fuori.» «Grazie.» Mina si guardò le mani. «Temo di aver dovuto uccidere uno di loro... cioè, Basilis e io...» «Tu?» L'assassina scosse il capo, ma subito se ne pentì, perché una fitta 143
di dolore al collo la fece mugolare. «Non ho bisogno di saperlo. Inutile dire che anche tu sei stata messa fuorilegge, adesso, eh?» «Quei bastardi mi hanno tirato delle frecce.» Rachel si tirò in piedi e andò a guardare fuori, tra un dente e l'altro dell'arconita. In basso intravide le cime degli alberi che scorrevano via nella nebbia. La locanda era sempre posata sull'accetta che Dill aveva preso all'arconita caduto, ma le sue pareti apparivano più sconnesse e malconce di prima. Una era parzialmente crollata, e i tronchi staccati erano rotolati sul polso osseo dell'automa. L'isola di terreno su cui posava l'edificio si era quasi disintegrata. Un filo di fumo usciva dal soffitto malconcio. Fuori non c'era nessuno. Rachel si voltò verso la taumaturga. «Dici che presto Oran troverà qualche altro modo per piegarci alla sua volontà? Suppongo che ce l'abbia, se tu non hai ancora chiesto a Dill di abbandonare quei bastardi nella foresta. Non abbiamo tutto questo bisogno della locanda di Abner, dopotutto.» Mina annuì. «Hasp è ancora là dentro.» Ora Rachel capiva. I boscaioli potevano usare il dio della Prima Cittadella come ostaggio, non appena Oran avrebbe capito che Rachel non voleva affatto la morte di Hasp. Oppure la voleva? L'escoriazione sulla mandibola le faceva male. «Quel figlio di un cane merita di essere usato come ostaggio. Perché ha reagito in quel modo? Io cercavo solo di proteggerlo.» Mina lasciò che il cane saltasse giù dalle sue ginocchia. «Non è in sé. Hasp non riesce a adattarsi a ciò che Menoa gli ha fatto. Il parassita nella sua testa lo costringerà a tradire gli amici, e per un dio della Prima Cittadella non può esserci crimine più grave. Quando gli arconiti del re hanno attaccato Dill, per Hasp è stato brutalmente chiaro che non poteva resistere all'influenza di Menoa. Così ha perso il suo onore, e rivoltarsi contro di te è stato una reazione a quello shock. Credo che avesse deliberatamente provocato gli uomini di Oran, perché voleva morire. E col tuo intervento gli hai negato quella via di uscita. Ai suoi occhi, tu lo hai disonorato ancor di più.» Rachel sospirò. «Le Spine non sono mai state molto brave a capire la gente. Io sono capace soltanto di ammazzare qualcuno in un vicolo buio.» «Qui non ci sono vicoli bui.» L'assassina scosse il capo. «Credo che dovrei parlare con Dill...» mormorò, senza dare voce al resto dei suoi pensieri. Aveva bisogno di parlare con qualcuno che fosse umano e, assurdamente, la voce di Dill era la più umana che lei conoscesse. 144
Entrò nel passaggio sul fondo della bocca e salì nella parte superiore del cranio. Ma ancor prima di arrivare nella stanza delle anime si accorse con sorpresa che vi aleggiava una radiazione azzurra. I punti di luce chiusi nel cristallo fissato al soffitto erano insolitamente attivi. Col cuore in gola, lei ne comprese il motivo. Scivolò avanti tra i banchi di macchinari, appoggiandosi ai pannelli metallici mentre la stanza oscillava a ogni passo dell'arconita. Lo spirito di Dill condivideva ancora con altri tredici la sfera di vetro che campeggiava nel centro. Gli strani fantasmi fluttuavano gli uni attraverso gli altri, e si agitavano e gridavano nel silenzio più assoluto. Nel grosso contenitore palpitava una debole luce bianca, che ogni tanto lampeggiava con improvvisa intensità, forse in reazione ai conflitti di quei traslucidi prigionieri. Lei appoggiò le mani alla parete della sfera. ... tornata... lei è tornata... che possa crepare... non lasciarle vedere i tuoi pensieri... l'agonia... una volta io ero in una camera e... smettila di gridare!... tu chi sei?... in quel posto... uomini nel fiume... zitto... taci, taci, taci... chi... «Dill?» Le voci tacquero, poi lei udì quella del suo giovane amico. Scusami, Rachel. «Scusarti? Di cosa?» Per poco quella gente non ti ha ucciso. Lei finse di ridere, ma non riuscì a convincere neppure se stessa. Scosse il capo, pensando che la loro situazione era già abbastanza nera senza che Dill si facesse venire dei sensi di colpa. «Tu ci hai portate fuori di là, Dill. Adesso Oran e i suoi cosiddetti vendicatori sono sul palmo della tua mano. E io sono contenta che tu abbia saputo resistere all'impulso di schiacciarli.» Non ho resistito del tutto. Mina ha dovuto gridarmi di smetterla mentre stavo per farlo. Ho fracassato uno dei muri. Fece una pausa. Erano così fragili. Tutto mi sembra fragile, adesso. «Ma tu non lo sei.» Dillo agli altri undici arconiti. Quelli grossi. Stavolta lei rise, divertita. «Intanto ce n'è uno di meno, rispetto a due 145
giorni fa. Chi ti ha insegnato a lottare in quel modo?» Hasp. Hasp? Il figlio più giovane di Ayen restava un enigma per Rachel. Gli altri figli della dea avevano adottato titoli grandiosi per se stessi: il dio delle catene, il dio degli orologi... Ma non Hasp. Lo si conosceva solo come il dio della Prima Cittadella - il governatore di una semplice fortezza, una carica umana - e ora sembrava aver del tutto abbracciato il suo rango minore. In quel momento era un ubriaco con tendenze suicide, come un mortale qualsiasi. Ciò significava che aveva mollato. Una volta Mina aveva detto a Rachel che Hasp era andato a stabilirsi all'Inferno volontariamente. Mentre i suoi fratelli arruolavano eserciti e accumulavano potere nel mondo degli uomini, Hasp aveva accettato l'incarico di occuparsi dei morti. La Prima Cittadella era attualmente governata dagli arconti mortali, i discendenti bastardi di dèi e di umani. La voce di Dill interruppe i suoi pensieri. Rachel, io ho visto cose strane. Visioni o sogni a occhi aperti. Non so esattamente cosa fossero, ma ora stanno diventando più frequenti. Lei non aveva dimenticato l'incubo della foresta di pietra, di cui Dill aveva parlato dopo la partenza da Coreollis. «Che genere di cose strane?» gli domandò. Un crepaccio è apparso nel mondo, lungo da un orizzonte all'altro. Era pieno di... nulla. Non il buio ma il nulla, come se qualcosa di fondamentale mancasse dal mondo. Rachel corrugò le sopracciglia. Mina, ricordò, aveva avuto una visione simile. E lei stessa aveva visto un certo numero di cose strane dopo aver lasciato Coreollis: due versioni identiche di Rys dentro il suo palazzo prima della distruzione; l'inesplicabile cambiamento di colore del trattore e dei capelli di Rosella; le strane ripetizioni nella conversazione di Oran. Come incidenti isolati lei li aveva giudicati scherzi dei suoi nervi, della stanchezza, della confusione. Ma, ora che ci pensava, perché quelle anomalie non avrebbero potuto essere ricondotte alla presenza di una grande forza al lavoro? Taumaturgia? L'intera camera si piegò violentemente sulla sinistra, poi a destra, quindi ancora a sinistra. 146
Rachel udì un grido di protesta provenire dal cunicolo d'ingresso, dietro di lei. «Smettila di scuotere la testa, Dill. Mina è fatta di vetro.» Non credo che si tratti di taumaturgia, disse Dill. Sembra... una cosa più grossa. È come se camminassimo in un mondo fantasma, come se nell'intera creazione ci fosse qualcosa di sbagliato. Non so in che modo spiegarlo. Più ci avviciniamo al castello di Sabor, più forte diventa questa sensazione. Possibile che il responsabile fosse il dio degli orologi? Mina gridò ancora, non dalla cavità boccale ma più vicino. Rachel si voltò e vide la taumaturga che metteva la testa nella stanza. Il sangue dietro le scaglie vitree delle sue guance era più rosso per l'ira. «Dill, ti rendi conto che hai appena ucciso due uomini e un terzo è scampato per miracolo?» D'improvviso la camera smise di muoversi. Quali uomini? fu la risposta di Dill, che Rachel sentì attraverso il vetro. Ma Mina non la udì, naturalmente, poiché il giovane angelo non parlava a voce. L'assassina le ripeté la domanda dell'amico. Mina disse: «Ha appena abbattuto una torre di guardia». «Una torre di guardia con delle sentinelle? Dove?» La taumaturga annuì. «Un avamposto appartenente al paese di cui ti ho parlato, quello sulla riva del Lago dei Fiori. Non hanno avuto neppure il tempo di accendere il fuoco di segnalazione. Ci sono due cadaveri stritolati laggiù, e l'unico superstite sta cavalcando verso l'abitato.» Rachel fece un lungo sospiro. «Fra quanto raggiungerà la palizzata?» «Le gambe del suo cavallo non sono lunghe come quelle di Dill», rispose Mina. «Se il nostro gigantesco amico si affrettasse, potrebbe raggiungerlo e schiacciare anche lui.» La camera si piegò improvvisamente di lato. Mina si aggrappò alla parete del passaggio per non cadere. Vedo il cavallo, disse Dill. Il cavaliere... è soltanto un ragazzino. Rachel guardò Mina. «Un ragazzino? Questo non me l'hai detto.» L'altra donna scrollò le spalle. «Non me l'hai chiesto. Fa qualche differenza? Quando lui dirà alla sua gente ciò che testa d'osso ha fatto, il nostro progetto di accordarci con loro sarà morto prima di nascere.» Rachel alzò una mano. «Oh, no... Dill non ucciderà nessun altro, oggi. Certamente non un ragazzino.» 147
«Potrei pensarci io...» «No, Mina! Tu non farai niente. Lascia che il superstite faccia il suo rapporto. Affronteremo le conseguenze di questo incidente, se sarà necessario.» Si mordicchiò un labbro. «O eviteremo il posto, lasciando la popolazione in preda agli arconiti di Menoa, o cercheremo di allearci con questa gente. Parlando con loro non abbiamo nulla da perdere. Per Dill non sono una minaccia.» Le scaglie sanguigne sul viso di Mina diedero forma a un sorriso. «Bene. Ma delle trattative te ne occuperai tu. Sono sicura che la milizia della città ti ascolterà, visto che sei così brava a convincere la gente.» *** Il ragazzo dalle dita uncinate scese nelle intercapedini del fasciame della Rotsward. L'improvviso silenzio che c'era tra le forche lo intimoriva più di quanto si fosse aspettato, perché non aveva mai visto la nave volante senza il suo carico di impiccati. Quando giunse alla sua tana sopra lo scafo interno strisciò dentro scostando il cannocchiale di Monk sul suo tripode e per un poco esitò, senza saper cosa fare. Il vecchio astronomo probabilmente dormiva ancora presso il buco nel soffitto della cucina, e doveva essersi perso l'intera battaglia. Il ragazzo tornò indietro lungo quegli stretti passaggi, di nuovo verso la cambusa. Intorno a lui tutto scricchiolava, cigolava e gemeva. Quei rumori sembravano molto peggiorati da quando Anchor aveva cominciato a trascinare il vascello in orizzontale, e ora si sentiva chiaramente che le strutture in legno erano sottoposte a uno sforzo insostenibile. La Rotsward dava l'impressione di essere sul punto di schiantarsi. Ma ciò non sarebbe successo. La vecchia nave era indistruttibile, com'era sempre stata. Mentre girava l'ultimo angolo prima di strisciare nel ridotto spazio sopra la cambusa, il ragazzo esitò, allarmato. Qualcosa non andava. Qualcosa lui non avrebbe potuto esattamente puntare il dito su cosa - sembrava diverso. Si fermò, disteso bocconi sul fasciame muschioso, e tese le orecchie. I mantici avevano smesso di lavorare. Strisciò ancora avanti, in fretta, animato da una rabbia improvvisa. Che Monk avesse deciso di non aspettarlo? Che il vecchio avesse visto la possibilità di agire mentre gli impiccati venivano distrutti? Dov'erano gli 148
schiavi di Cospinol? «Hai cercato di bere un sorso del corpo di lei, senza di me?» mugolò. «Meglio che tu non ci abbia provato, vecchio, altrimenti io ti...» Ma, quando cominciò a risalire nell'intercapedine sopra il soffitto, il suo sospetto divenne certezza. Poco più avanti c'era il foro da cui usciva la luce giallastra del grosso braciere acceso più in basso, nella cucina. Monk non si vedeva da nessuna parte. «Bastardo, carogna...» Il ragazzo uncinò al legno le sue dita metalliche e si trascinò su fino al buco. Guardò dentro e rimase a bocca aperta, senza fiato. Lei era accovacciata e guardava in su, verso di lui, con occhi neri come la brace spenta. Il bollitore d'acciaio sferico era stato strappato via dalla morsa sopra il braciere e giaceva in un angolo, mezzo sfasciato. Anche il corpo dell'angelo era ridotto male, deforme e distorto, con le braccia e le gambe e le ali piegate ad angolature strane. L'armatura di cuoio che indossava era piena di squarci che lasciavano vedere la carne bianca, segnata da molte escoriazioni. C'era sangue sulla bocca, sulla mandibola e lungo il collo. Sottili linee rosse le segnavano tutto il resto del viso e risalivano intorno agli occhi e sulla fronte. Cicatrici. I pezzi del corpo di Monk erano sparsi intorno a lei insieme con schegge di vetro. Aveva rotto la fiasca di condensazione. Mentre lui la guardava, Carnival si contorse e rigurgitò un fiotto d'acqua bollente. Poi alzò la testa e urlò, con tale violenza e furia disperata che il ragazzo restò paralizzato. Nessuna creatura avrebbe dovuto essere capace di emettere un urlo come quello. Lui cercò di muoversi, ma la sua muscolatura non rispose. Poté soltanto fissarla a occhi sbarrati. L'urlo si spense. Gli occhi di lei trovarono di nuovo i suoi. Fece un passo avanti, ma le sue gambe si torsero in modo orribile sotto di lei. Una delle ali sbatté. Il braccio destro le penzolava inerte lungo il fianco; l'altro rimase piegato sul suo petto, contorto come una vecchia radice. Si mosse ancora, trascinando il suo corpo fino alla parete, direttamente sotto il foro, emise un gemito frustrato e alzò lo sguardo. «Tu, rompimi le ossa», ordinò. Il ragazzo continuò a fissarla, muto. «Rompimi le ossa.» Lui non disse niente. Il torace di lei si alzava e abbassava rapidamente. «Vieni giù ad aiutar149
mi, o ti sgozzo.» I suoi denti biancheggiarono un attimo sulla rossa maschera del viso. «Aiutami!» gridò, con voce stridula. «Aiutami!» Prima di capire cosa stava facendo, il ragazzo obbedì. Si aggrappò al bordo del foro e si tirò dentro, penzolando a testa in giù, poi si lasciò cadere e con un'agile capriola atterrò sul pavimento dinanzi a lei. Scivolò con un piede appena per pochi pollici sulle assi insanguinate, prima di recuperare l'equilibrio. Lo stanzone odorava di fuoco e di carne. La luce del braciere che ancora rosseggiava in quello spazio chiuso trasformava il corpo dell'angelo in una figura demoniaca. Le sue ali spezzate ebbero un fremito. «Il martello», disse lei. Il ragazzo vide l'utensile al suolo, tra grossi brandelli di carne. Stretta intorno al manico c'era ancora la mano mozzata del vecchio. Lui andò a raccoglierlo. Staccò la mano di Monk e la lasciò cadere. «Le braccia», disse lei. Il ragazzo esitò. «Io non so...» «Le braccia!» gridò lei, trascinandosi un passo più vicino. La sua ombra terribile incombeva su di lui. Sotto i resti dell'armatura di cuoio che aveva addosso si scorgevano altre cicatrici. «Spaccale all'altezza dei polsi, dei gomiti e delle spalle...» L'intero procedimento si svolse in fasi successive, così cruente che in seguito il ragazzo avrebbe stentato a ricordarne i dettagli. Ciò che gli sarebbe rimasto nella memoria sarebbero stati il peso del martello, il molle impatto dei colpi contro la carne... le pause dopo il rumore dell'osso che si spaccava, durante le quali lui si asciugava il sudore dalla fronte... e la voce di Carnival, sempre più ferma mentre il tempo passava. Le mani. Le ginocchia. Il piede. Le ali. La spina dorsale. Lei non gridò più. Spesso vacillò sotto i colpi. Una volta cadde. Le sue cicatrici rosseggiavano come quelle linee di fuoco intorno agli occhi. E gli occhi furono una delle cose che lui si sarebbe ricordato meglio, alla fine. Il ragazzo non avrebbe saputo dire quanto tempo trascorsero insieme in quella cucina, ma quando tutto fu finito lei restò seduta sul pavimento insanguinato, con la schiena contro una parete. I resti della corazza di cuoio penzolavano intorno al suo corpo magro, robusto e muscoloso, dai seni piccoli. Carnival era scalza, e per qualche ragione ciò sembrò strano al ragazzo. «Come ti chiami?» domandò lei. 150
Lui si strinse nelle spalle. «Non lo so... Forse John. Come mio padre.» «Va bene, allora. Forse John.» La voce di lei era appena un sussurro. «Vattene da qui, finché ancora puoi.» «Non vedo tornare gli schiavi di Cospinol.» «Vai fuori», disse lei a denti stretti. La rabbia tornava a incupirle lo sguardo. «Tu, stupido ignorante... vattene all'Inferno, fuori di qui!» Il ragazzo fuggì. Corse alla porta, la aprì e uscì in fretta, lasciandola sbattere dietro di sé. Adesso si trovava in uno dei compartimenti principali della nave, ma non lo riconobbe per ciò che era. Conosceva soltanto le scorciatoie tra le strutture secondarie dello scafo, i cunicoli e gli interstizi dove si avanzava strisciando insieme coi topi. Però lì non si vedeva nessuno che potesse scacciarlo o prenderlo a calci. Dov'erano finiti tutti quanti? Girò un angolo e andò a sbattere addosso a Cospinol. Il dio della salsedine e della nebbia bloccava completamente il corridoio. Le sue ali aperte si stendevano da una parete all'altra. I capelli sciolti pendevano dietro le spalline dell'armatura di gusci di granchio, quell'inutile e smozzicata protezione che odorava di oceani lontani. Con una mano brandiva un'accetta. «Tu!» esclamò il dio. Il ragazzo si voltò per scappare, ma Cospinol lo afferrò. D'istinto lui cominciò a cambiare forma. La sua pelle diventò scivolosa. Sentì che dai piedi gli emergevano artigli per dargli una maggior presa sulle assi del pavimento. Cospinol lo colpì con un pugno alla nuca. «Oh, no. Questo non lo farai. Tu terrai questa miserabile forma, piccolo demonio.» Lo girò, per guardarlo in faccia. «Cos'hai fatto?» Il ragazzo si accorse che le mani di Cospinol stavano tremando. «Cos'hai fatto? Piccola sudicia merda mesmerista. Io l'ho sentita gridare.» «Niente. Io non ho fatto niente.» «Lei è qui?» «Lasciatemi andare...» Cospinol lo scrollò rudemente. «L'hai fatta uscire? Dov'è andata?» «Sono qui», rispose una voce femminile. Carnival apparve in fondo al corridoio. Le sue ali erano più piccole di quelle di Cospinol, e nere come il carbone. Ma era più alta di prima. I suoi arti si erano raddrizzati e ora sembravano quasi normali al ragazzo. Il suo atteggiamento sprigionava potenza 151
e agilità. Solo i resti dell'armatura di cuoio e il pallore della sua carne parlavano dei mesi di tortura dentro il bollitore. Innumerevoli escoriazioni arrossavano quella pelle liscia. Il sangue intorno alla bocca si era seccato, e formò piccole scaglie mentre lei parlava. «Cospinol», disse, con voce bassa e velenosa. Lui lasciò andare il ragazzo, che cadde al suolo. «Io sono il figlio primogenito di Ayen», sbottò, in tono tra difensivo e indignato. «Appartengo alla stirpe del Paradiso. Sono il dio della salsedine e della nebbia...» Lei avanzò a passi lunghi. I suoi occhi erano scuri ovali privi di qualsiasi emozione, illeggibili come quelli di una bestia selvatica. Si fermò fuori della portata della sua accetta e lo guardò in silenzio per un lungo momento. Poi lo assalì. L'attacco fu così veloce che il ragazzo non lo vide neppure. Le ali di Carnival gli passarono accanto come un'ombra. Cospinol non ebbe il tempo di sollevare l'arma. Prima che i suoi istinti lo inducessero a scostarsi, l'angelo sfregiato gli aveva strappato via la mandibola. Lui la guardò smarrito, mentre lei lasciava cadere quell'osso sanguinante da cui pendevano brandelli di carne. Poi Carnival balzò avanti di nuovo. Al ragazzo parve che abbracciasse il dio, stringendolo a sé come un amante. Gli occorse qualche momento per rendersi conto che lo schianto che aveva udito era quello della colonna vertebrale di Cospinol. Carnival affondò i denti nel collo della sua vittima. Lui sussultò una volta, ma la vita aveva già abbandonato i suoi occhi. Lei restò così a lungo, bevendo il sangue. Quand'ebbe finito, lasciò rotolare al suolo il corpo del dio. Si voltò a guardare il ragazzo senza metterne a fuoco l'immagine, con occhi che non lo vedevano né lo riconoscevano. Il sangue le colava sul collo e sulle braccia. Le sue mani artigliate fremevano. «Tu hai ucciso un dio», disse lui. «Molto tempo fa.» «Cosa? No, io volevo dire Cospinol. Lui! Tu lo hai ucciso.» Lei abbassò lo sguardo sul cadavere, poi lo rialzò su di lui. Nei suoi occhi tornò la consapevolezza, quindi un improvviso sospetto. «Io ti conosco?» «Sì. Non ti ricordi di me?» 152
Lei continuò a fissarlo, mentre il suo petto insanguinato si alzava e si abbassava rapidamente. Il fiato le usciva in ansiti rochi. Per un momento apparve incerta. Le sue mani fremettero ancora. Una goccia di sangue le cadde da un'unghia. Infine disse: «Forse John». «Sì, è così.» «Dal nome di tuo padre.» «Per favore, lasciami andare.» L'angelo sfregiato alzò gli occhi e il suo sguardo si perse in distanza. Si leccò il palmo di una mano, e quindi le nocche. Poi si voltò e uscì, lasciando il ragazzo solo col cadavere del padrone della Rotsward, il dio la cui volontà aveva tenuto insieme l'intera nave... «Oh, no!» sussurrò Forse John, quando improvvisamente capì. La prima trave si spezzò prima che lui si fosse alzato in piedi. Da qualche parte più in alto ci fu un gran fracasso, e il soffitto del sottoponte si curvò come se un oggetto pesantissimo vi si fosse adagiato sopra. Una nuvola di polvere riempì il corridoio. Tossendo il ragazzo sgusciò via, sulle mani e sulle ginocchia, per allontanarsi il più possibile da quella zona. Una sezione del pavimento cedette sotto di lui, e ciò lo fece scivolare all'indietro e più in basso, contro una paratia molto inclinata. Rotolò giù in un'intercapedine tra alcune grosse travi, e fu quello a salvarlo, perché poco più in alto il soffitto crollò e una massa di legname spezzato riempì completamente il corridoio dove lui si trovava un momento prima. Intrappolato in quell'esiguo spazio in penombra Forse John si guardò intorno. I detriti lo bloccavano da ogni parte. Non c'era via di uscita. Cambiare forma non era mai stato un processo cosciente e facile per Forse John. Dentro di sé aveva sempre fatto resistenza a quell'impianto mesmerista, e i sacerdoti che gliel'avevano imposto erano stati più volte sul punto di lasciarlo perdere. Alla fine l'avevano minacciato di metterlo al lavoro nella Nona Cittadella sotto forma di semplice porta, prima che lui smettesse di opporsi. A lui non era piaciuta l'idea che la gente camminasse attraverso di lui. Si era detto che sarebbe stato meglio, dopotutto, essere una spada-mutaforma. E adesso quello era uno dei rari momenti in cui non ne provava rimorso. Unì le mani e protese le braccia, consentendo alla pelle, ai muscoli e alle ossa di diventare un nastro. Le sue dita metalliche s'intrecciarono e assunsero la forma di un cono. Costrinse il resto del suo corpo ad assotti153
gliarsi e indurirsi dietro quel cono, allungandosi come un serpente. Dopo averci pensato un momento si fece crescere addosso delle scaglie metalliche, per protezione. Così trasformato, Forse John scivolò via in un piccolo foro tra le macerie, e si lasciò alle spalle il corridoio bloccato. Dopo una curva trovò un secondo corridoio, anch'esso altrettanto ingombro di detriti, ma neppure quello fu un problema per la sua nuova forma. Nel frattempo, tuttavia, la nave volante stava continuando ad andare in pezzi intorno a lui. Tonfi e schianti apocalittici si susseguivano dentro lo scafo e fuori. In quanto alla sentina della Rotsward, dal basso risalivano sciami d'insetti disgustosi e un odore marcio, segno che laggiù le cose non stavano andando meglio. Il ragazzo vide un buco che sembrava portare nella direzione giusta, e si affrettò a entrarci. Scivolò in basso tra resti di stive irriconoscibili e raggiunse ciò che rimaneva dello scafo esterno. Lì dozzine di pesanti forche avevano sfondato la parete di legno come se fosse carta. Lui girò intorno a una di quelle travi e uscì dallo squarcio che aveva prodotto. Del vascello da lui conosciuto non restava nulla che ne ricordasse l'aspetto precedente. La debole luce emanata dalle finestre inferiori del Labirinto illuminava una marea di legname sfuso ammucchiato sul Fiume dei Difettosi. Anime curiose sbirciavano dalle aperture di quel soffitto sterminato, come dagli oblò di un vascello immensamente più grande di quello che era stata la Rotsward. Con la morte di Cospinol anche la sua nave aveva cessato di esistere, nel modo più completo. Privo della sua protezione, il legname si era disintegrato. Il ragazzo riprese la forma umana. Pochi passi alla sua sinistra una montagna di assi spezzate si mosse e crollò ancora più in basso. La grande corda di traino scivolò sopra uno degli argini tra le vie d'acqua, e poi si fermò. Molto più avanti di quella scena caotica c'era John Anchor, in compagnia di una donna dai capelli rossi. Lui aveva ancora la sua bardatura, ma la corda non lo collegava che a un mucchio di detriti. Il ragazzo vide che più vicino qualcun altro si muoveva. Una figura alata stava camminando nell'acqua in direzione del grosso individuo. *** Anchor non si accorse del disastro della nave volante, probabilmente perché era abituato al fracasso della distruzione che avveniva nella sua scia. E non diede subito un particolare significato all'allentarsi della corda, 154
perché il peso della Rotsward era così lieve che non ci faceva mai caso. Fu Alice Harper la prima a notare che il rumore non era più lo stesso. Lui stava cupamente risalendo una corrente calda quando la donna lo prese per un braccio e mormorò allarmata: «John!» «Che c'è?» Si voltò e corrugò le sopracciglia. La corda giaceva al suolo, allentata. La guardò per un lungo momento, poi alzò lo sguardo verso la scena più indietro. La Rotsward si era sbriciolata. I suoi resti coprivano il terreno per oltre una lega. Fette di scafo spuntavano dall'acqua dei canali rossi. Il sartiame era un intreccio di corde che collegavano pile di detriti, e ovunque si scorgevano oggetti rimasti interi: abiti, mobili, oblò, argani, ceramiche dipinte, materassi in crine di cavallo, un vassoio da tè d'argento e una miscellanea d'infissi metallici. L'aria era immobile, silenziosa. Niente si muoveva, laggiù. «È morto. Il mio padrone è morto», disse Anchor. Una sensazione di panico lo invase, senza che ne sapesse il perché. Guardò la corda sul terreno e poi ancora i detriti. Possibile che non fosse sopravvissuto nessuno? Scrutò l'orizzonte per quanto poteva in quella penombra. Non c'era niente fuorché rottami. «Cospinol è morto.» Si sentiva intorpidito da capo a piedi. Per la prima volta da secoli si accorse del peso della sua bardatura di legno. Aveva la bocca secca. «Io sono libero.» Ma quelle parole avevano qualcosa di freddo. Gli sembravano prive di significato. Alice si voltò. Stava guardando verso i resti della nave come se avesse visto qualcosa. La mano di lei gli strinse ancora il braccio. Allora anche il colosso la vide. Non ne fu sorpreso. L'aveva saputo fin da quando si era reso conto che la nave non c'era più. Lei camminava verso di loro nell'acqua sanguigna. «È un angelo», disse Alice. Lui annuì. «Si chiama Carnival.»
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8 ACQUARDENTE
Rachel aveva lasciato che il cavaliere della torre di guardia si allontanasse... decisione quella che avrebbe reso difficili i loro piani e messo tutti loro in grave pericolo. Dall'altezza della bocca di Dill vide il ragazzo in fuga sparire nella boscaglia immersa nella nebbia. L'assassina non ebbe però il tempo di riflettere sulle possibili conseguenze, perché d'un tratto nella loro situazione s'inserì un preoccupante imprevisto. «Fermate la marcia o uccideremo Hasp!» Alcuni boscaioli erano usciti dalla Sega Rugginosa sulla mano di Dill, e guardavano su verso di lei. Ad abbaiare quell'ordine era stato lo stesso Oran. Alla fine l'uomo aveva capito di avere la leva che gli serviva per piegare Rachel e Mina alla sua volontà. «Be', era solo questione di tempo. Suppongo che dovremmo chiedere a Dill di strappare via il tetto di quell'edificio», disse Mina. Rachel scosse il capo. «È troppo tardi. Avrei dovuto fare qualcosa prima, ma ormai non sappiamo cosa stia succedendo là dentro. Un colpo di Dill potrebbe rompere l'armatura di Hasp.» La mandibola le doleva ancora per il pugno che quel dio le aveva sferrato, e la ferita da moschetto sopra l'orecchio le dava il mal di capo. Se fosse stata in grado di pensare con chiarezza avrebbe detto a Dill di togliere Hasp dalle mani dei boscaioli prima che lo usassero come ostaggio, ma si era illusa che loro non avrebbero avuto l'intelligenza di studiare un piano. Dopotutto Hasp aveva cercato di uccidere Rachel e Mina, e chiunque avrebbe dovuto dedurne che le due donne lo consideravano un nemico. Si sporse fuori e gridò verso di loro: «Ammazzate pure quel bastardo, se volete. Lo farei io stessa, se non fosse un fratello di Rys». A quelle parole Oran rise. «Io conosco la volontà del mio signore. Ammazzandolo gli farò un favore.» Mina sospirò. «Buon tentativo, ma lui non ha torto. Il nostro amico di vetro è un peso per i suoi fratelli. Se Rys è sopravvissuto a Coreollis, è più probabile che dia un premio a chi elimina Hasp.» 156
Rachel si grattò la testa. Quella regione cominciava a irritarla. Sembrava ostile e piena d'insidie, e lei non sapeva più di chi fidarsi. Aveva ricevuto più colpi bassi dai suoi supposti alleati che dai nemici. Si scostò dal muro di denti e rifletté sulla situazione. Oran sapeva di non poter attaccare l'arconita, e la sua minaccia di bruciare La sega Rugginosa era soltanto aria smossa. Lei e Mina avevano l'oro, e un alleato abbastanza potente da schiacciare un esercito se soltanto lo avessero voluto. Tuttavia erano prigioniere lassù. Oran aveva Hasp. «Sono sorpresa di te, Mina. Non hai ancora suggerito di lasciare che ammazzino Hasp», disse Rachel. Mina mise il broncio, indignata. «A me piace Hasp.» L'assassina sospirò. «L'idea di reclutare alleati aveva soprattutto lo scopo d'impedire che fosse Menoa a reclutare la stessa gente per usarla contro di noi. Ma ora questi bastardi si sono rivoltati contro di noi. I mesmeristi non avrebbero potuto fare di meglio.» «Hasp ti ha messo in una posizione difficile.» «Ha messo se stesso in una posizione difficile. E, cercando di tirarlo fuori dei guai, io ci ho guadagnato un livido in faccia. Tra quanto arriveremo a questo paese sul lago?» «Pochi minuti, anche se la cosa più intelligente sarebbe di tirare dritto senza fermarci. Non sembra probabile trovare degli alleati lì.» Mina scrollò le spalle. «Devo ricordarti che nove arconiti ci stanno inseguendo? O questo confonderebbe troppo le cose?» Rachel si appoggiò all'interno di un incisivo di Dill e guardò fuori della fessura. L'aria era fresca e profumata. Il sole si era alzato dietro di loro, a sud-est, e più avanti filtrava tra la nebbia da cui emergevano rami spogli. La foresta era per lo più decidua, e negli ultimi anni era stata diradata. C'erano segni di un diboscamento recente: pile di tronchi ancora freschi e mucchi di fascine. Ampi sentieri tagliavano il territorio verdeggiante sotto l'affollata locanda. Sulla lama di ferro della scure di Dill uno dei boscaioli si mosse, e un riflesso metallico simile a una scintilla schizzò verso l'alto. Una freccia colpì di striscio l'orlo dell'incisivo, rimbalzò e andò a colpire il soffitto della grande bocca, ricadendo a poca distanza dalle due donne. Rachel aveva fatto un balzo indietro. Dal basso venne una risata, e la voce di Oran gridò: «Avete tempo finché non finiremo questa». Stava agitando una bottiglia di whisky. Dalla sua posizione, Rachel non riuscì a vedere quanto liquore ci fosse 157
ancora dentro. «Poi cominceremo a fare dei buchi nella pelle di vetro del vostro amico.» Il gruppo rientrò nella locanda. Una seconda freccia colpì l'incisivo e rimbalzò dentro. Ma stavolta non c'erano arcieri in vista. Tutti gli uomini di Oran erano andati al coperto. La freccia colpì il soffitto della bocca di Dill e cadde esattamente nello stesso posto dell'altra. Rachel la guardò, sbattendo le palpebre. Sulla pavimentazione c'era soltanto una freccia. «Mina, le frecce che hanno colpito il soffitto erano una oppure due?» La taumaturga si era seduta più all'interno, con la nuca appoggiata alla mandibola di Dill. Sbadigliò e stiracchiò le braccia. «Due? Perché due?» «Perché ora ce n'è una sola, qui.» «Che vuoi dire?» «Voglio dire che due frecce sono entrate dall'apertura, ma adesso qui ce n'è soltanto una. E non è solo questo. Sono diversi giorni che vedo cose strane... ho dei ricordi che non corrispondono alla realtà, ricordi di cose che si ripetono. Sono come dei difetti, quasi che la realtà... o forse il tempo avesse in qualche modo delle fratture.» Vide che l'altra donna si accigliava. «Dill ha avuto la tua stessa visione: il crepaccio che spaccava il mondo.» «Questo è... strano», ammise Mina. «Sta succedendo qualcosa d'insolito. Taumaturgia, oppure...» Rachel fece un gesto vago. «Non lo so. Qualcosa collegato a ciò che è successo al palazzo di Rys a Coreollis, oppure al dio degli orologi. Sabor non stava studiando il tempo?» «Lui osserva il tempo. Ma tu sospetti una manipolazione del tempo, e questo è impossibile.» «La stessa freccia è arrivata due volte. La stessa freccia. E, un attimo prima che il palazzo di Rys crollasse, io ho visto due versioni del dio dei fiori e dei coltelli. Un Rys sul balcone e un altro Rys dentro. Ora ne sono sicura.» Mina ci pensò per un lungo momento. Infine disse: «Anch'io ho avuto delle esperienze strane. Quando Dill ha gettato al suolo quell'arconita... per un istante mi è parso che ci fosse Dill disteso tra la vegetazione, e che l'automa di Menoa lo tenesse giù». 158
«Perché non hai detto niente?» Mina si alzò e andò accanto a Rachel. «A volte la nostra mente ci gioca qualche scherzo. Quando capita, io non ci faccio caso.» Raccolse la freccia e la esaminò da una parte e dall'altra. Poi scrollò le spalle e si sporse a guardare fuori. La Sega Rugginosa posava sull'ammaccata lama dell'ascia che Dill aveva preso all'arconita di Menoa. La piuma di fumo grigio prodotta da una delle stufe di ferro della locanda usciva dal lato danneggiato dell'edificio e risaliva lungo la corazza pettorale di Dill, mentre i suoi enormi piedi sporchi di sangue calpestavano la boscaglia. L'odore di fumo si mescolava col puzzo del Labirinto. «Che aspetto abbiamo?» domandò Rachel. «La milizia del paese ci attaccherà non appena ci faremo vedere.» Mina sorrise. «Sembriamo due sventurate. Non pare anche a te? Due donne inermi rinchiuse dentro la bocca di un automa infernale, mentre il nostro povero amico Hasp viene imprigionato e torturato da una banda di spietati mercenari.» «Spietati mercenari?» «È così che li vedo io. Non ti sembra? Voglio dire, guarda tutto quest'oro. I mesmeristi devono averli pagati bene.» Rachel socchiuse le palpebre. «Mi stai suggerendo di raccontare...» «La versione che ti suggerisco spiega perché questo terribile automa porta in giro quei bastardi con tanta cautela, e mostra di rispettarli. È chiaro che Oran e i suoi boscaioli stanno guidando l'assalto di Menoa contro questa terra.» Mina annuì, accigliata. «È così che la gente li vedrà, mercenari pagati dai conquistatori. Hanno ucciso le sentinelle della torre di guardia prima dell'attacco. E scommetto che questo arconita cercherà di tenere questi cani traditori fuori tiro, quando i difensori del paese cominceranno a usare gli archi.» «Questi cani traditori, eh?» «I Pirati del Mar Giallo usavano la stessa tattica. Durante l'assalto alle navi mercantili issavano la bandiera dei loro nemici. E i mercanti incolpavano di ogni nequizia i nemici dei pirati.» «Questo è un comportamento da terroristi.» Mina scrollò le spalle. «Abbiamo poca scelta. Oran ci conosce bene. Se uccidesse Hasp, pensi davvero che noi massacreremmo la sua gente per 159
vendetta? Tutte quelle donne e quei bambini? Lui sa di avere il coltello dalla parte del manico in ogni caso. Ma, se si trovasse in mezzo a gente furibonda, a migliaia di persone che non esiterebbero a ucciderlo per proteggere il loro paese... allora gli atti di violenza non sarebbero più una nostra responsabilità. La nostra posizione cambierebbe da potenziali nemiche a potenziali alleate. In una situazione di questo genere lui sarà molto più disposto a venire a patti.» Rachel sorrise. «Sei davvero diabolica, Mina.» «Devi esserlo, quando hai un diavolo come padrone.» *** Se quello era l'Inferno, come ormai le sembrava chiaro, allora c'era da credere che gli dèi avessero creato quel posto pensando a lei. Un fiume di sangue. Carnival avanzava in quella densa acqua rossa. La sua rabbia era dura come un pugno di ghiaccio. Era arrivata al punto che non poteva più restare in conflitto con la sua anima. L'odio, puro e semplice, era ciò che governava ogni suo pensiero. Sapeva solo che avrebbe ucciso molta gente, e nient'altro importava. Le parve di riconoscere il colosso dalla pelle scura che si trovava poco più avanti, ma non ricordava dove l'aveva visto. Indossava un ingombrante basto di legno cui era assicurata la corda che serpeggiava nel fiume e che doveva essere stata collegata al vascello ora ridotto in rottami su quel territorio sanguigno. Una donna pallida in uniforme grigia gli stava aggrappata a un braccio. Carnival la scrutò, ma nella sua memoria non emerse nulla. La donna aveva su un orecchio una bacchetta da cui scaturiva una fredda luce bianca, e teneva sotto braccio una bottiglia mentre manovrava un apparecchio argenteo con entrambe le mani. Nel camminare verso la coppia, Carnival sentiva strane correnti che le premevano sulle gambe. Era come se il fiume la stesse esaminando. Un improvviso sciabordio la fece voltare di scatto. Il ragazzo della nave volante la seguiva a breve distanza. Quando si accorse che lei l'aveva visto indietreggiò subito dietro un mucchio di legname spezzato. Carnival lo ignorò. Proseguì nell'acqua fino a uno dei bassi argini tra i canali e, dopo averlo superato, saltò giù dall'altra parte. Il fiume la abbracciò come un amante. 160
«Non voglio battermi con te. Prendi un'altra strada, angelo», gridò l'uomo dalla bardatura di legno. Carnival continuò ad andare dritta verso di lui. «Ti sei liberata della Rotsward», disse l'uomo con voce ferma. «Ma non ti sei liberata dell'Inferno, eh? Noi siamo qui per combattere il Signore del Labirinto... per salvare il nostro mondo... il tuo mondo. Vieni con noi. Ce ne andremo insieme da questo posto.» Carnival non rispose. Adesso era a venti passi da lui. «Io non ho paura di te. Tu mi detesti, vero? Ma io non ce l'ho con te. La violenza tra noi non ha senso.» Lei sentì il ragazzo saltare nel fiume alle sue spalle, ma stavolta non si voltò a guardare. Tutta la sua attenzione era per il gigantesco individuo. Lui stava esortando la donna dai capelli rossi a spostarsi a distanza di sicurezza. «Ti ho già sconfitto una volta, angelo», disse l'uomo. «E posso farlo ancora... ma tu non hai bisogno di batterti con me. Vuoi le mie scuse? Allora mi scuso. Il mio padrone mi aveva mandato a battermi con te, e io gli ho obbedito.» Carnival si fermò. In lei emerse un ricordo: una radura in una foresta di pietra, un posto dove ogni ramo spinoso era imbevuto di veleni colorati. Ricordava anche la nebbia. «Sei tu.» Lui annuì cupo. Lei sentì il sangue affluire nelle sue cicatrici. I suoi muscoli s'irrigidirono facendo crepitare la malconcia armatura di cuoio. D'istinto allargò le ali, mentre si preparava all'attacco. Il colosso si portò le mani dietro la schiena, dove la grande corda si suddivideva in trecce annodate alla bardatura. Ne afferrò una e la strappò via, poi ripeté quel gesto più volte. Si stava liberando. Carnival attese. Una treccia alla volta l'uomo finì di strappare la corda. Poi incassò la testa tra le spalle e si fece avanti. «Ora sono pronto», disse. Lei gli balzò addosso. Con notevole agilità lui si spostò di lato, e le sferrò un pugno grosso e duro come un macigno. Carnival si abbassò per evitare il colpo e gli passò una gamba dietro un ginocchio, afferrando il retro della sua bardatura di legno per spingerlo a terra. 161
Ma lui rimase in piedi. Le sarebbe stato più facile rovesciare una montagna. Il suo pugno era andato a vuoto, ma in quella posizione lui riuscì a passarle un braccio intorno al collo. Carnival si chinò in fretta per tirare via la testa prima che quella morsa si stringesse. Per qualche momento lottarono avvinghiati, facendo schizzare intorno quel liquido pieno di gorghi e di risucchi, finché lei non trovò un'apertura e sferrò un pugno velenoso al suo collo, con forza tale da uccidere un uomo normale. Lui la lasciò e fece un passo indietro. Si fronteggiarono di nuovo. Il colosso si massaggiò il collo, guardandola per un lungo momento. «Sei migliorata. Sei molto più svelta di prima, eh? Anche molto più forte. Questo è un bene.» La sua compagna dai capelli rossi era ancora occupata a studiare l'apparecchio argenteo che aveva tra le mani. «Questa non è un angelo. Non so cosa sia. Il localizzatore non vuole identificarla. È terrorizzato da lei.» Il colosso scoppiò in una risata tonante. «Straordinario. Se può terrorizzare l'argento mesmerista, allora può spaventare le stesse mura dell'Inferno.» Si sgranchì il collo e si piegò in avanti allargando le braccia, come se volesse afferrarla. «Adesso fammi ancora vedere quella mossa.» Lei gli volò dritta addosso. L'uomo la strinse fra le braccia. Carnival gli sferrò un selvaggio calcio a un ginocchio e con una torsione sfuggì al suo abbraccio, sbattendo le ali per portarsi più in alto. Lui grugnì di dolore. Lei volò ancora più su, si girò a mezz'aria e si tuffò in picchiata sull'avversario. Lui era pronto. Le sferrò un pugno. Lei spalancò le ali per fermare la discesa, lasciò che il pugno le passasse a un pollice dal viso e si girò, mollandogli un calcio alla mandibola con un calcagno. Il colpo arrivò a segno, ma lui girò la testa dalla parte opposta in tempo per ammortizzarlo, e impedì che gli spezzasse il collo. Grugnì e si voltò ancora a guardarla. «Sei più forte di quello che...» Sbattendo le ali per riprendere quota, l'angelo sfregiato scalciò ancora, mirando alla nuca. Il colosso si chinò, muovendosi a velocità incredibile per la sua mole. Tuttavia quello non gli bastò, e il piede di lei lo colpì su un lato della bocca, facendolo vacillare. 162
Il colosso ansimò, e il suo poderoso torace si gonfiò sotto la bardatura di legno. Il sudore che gli imperlava le guance scure si mescolò al sangue che gli colava da un angolo della bocca. Fece un passo indietro, premendosi due dita sul labbro gonfio. Poi guardò il liquido rosso che gli era rimasto sui polpastrelli. Le rivolse una smorfia sanguigna. «Sei la prima che sia riuscita a farmi sanguinare.» Batté l'una contro l'altra le enormi mani e grugnì: «Fatti sotto». Carnival gli volò ancora addosso. Non appena lei fu alla sua portata, l'avversario le diresse una feroce serie di pugni, mirando al viso, al petto e al collo. Lei li bloccò tutti. Lo vide allungare una mano verso la sua spalla, alla ricerca dell'ala, e lo colpì alla mandibola. Il colpo fu violento e lui grugnì, ma non ebbe altra reazione e riuscì ad afferrarle l'ala sinistra. I muscoli delle sue spalle si gonfiarono mentre la tirava verso di sé. Carnival gli affondò i denti nel collo. Sentì il sapore del sangue. «John!» gridò la donna dai capelli rossi. Erano di nuovo avvinghiati. Lui sbuffò e grugnì, e il suo grosso corpo carnoso la spinse di lato slogandole un'ala. Lei aveva nelle narici l'odore denso della sua pelle. I muscoli scivolarono sui muscoli sudati. La spalla destra di Carnival cedette con uno schianto improvviso, e lei sentì l'osso spaccato premerle la carne. Una fitta di dolore. La ignorò, azzannandogli il collo coi denti. Il sangue caldo le colò sulla mandibola. «Lascialo stare!» Quel grido era venuto da qualcun altro. Carnival riconobbe la voce del ragazzo. Per un battito di cuore esitò, allentando la presa sul colosso. Con un ruggito lui la respinse. Carnival barcollò all'indietro sollevando schizzi nell'acqua rossa, ma rimase in piedi. Un dolore sordo le si era radicato nella spalla fratturata. Anche il suo avversario sembrava malconcio. Fece un passo di Iato aspirando energicamente l'aria dal naso. Con una mano cercava di fermare il sangue che sgorgava dalla ferita sul collo. Il ragazzo era in piedi nel fiume, a una decina di passi sulla destra del colosso. Aveva il petto chiazzato d'acqua rossa e teneva le mani giunte in preghiera, con gli artigli metallici intrecciati. «Per favore, non ucciderlo.» Carnival si voltò di nuovo verso il grosso individuo. L'ala slogata le pendeva di traverso sulla schiena, con le penne inferiori immerse nell'ac163
qua. Strinse i denti, si tastò la schiena con una mano e spinse l'osso slogato di nuovo nell'articolazione. Notò appena il dolore. Senza muovere l'ala che già stava guarendo si mosse avanti per finire l'avversario. «No!» Il ragazzo corse a mettersi tra Carnival e l'uomo. «Stai fuori dai piedi, tu.» Il colosso lo prese per un braccio e fece per spingerlo da parte. Il ragazzo cambiò. Carnival si fermò nel vedere la pelle dell'intruso scorrere come uno sciroppo lungo le ossa. Lui chiuse gli occhi e la sua testa parve fondersi con le spalle. La carne si stava trasformando intorno al braccio sottile che l'uomo stringeva con una mano, e mutò colore. Le ossa crepitarono. Nel tempo di due battiti di cuore il corpo del ragazzo cambiò completamente forma, s'indurì e assunse un luccichio metallico. La sua forma umana aveva cessato di esistere. Invece di un ragazzo, la mano del grosso individuo stringeva ora una spada. Dall'apparecchio che la donna aveva in mano provenne una vibrazione acuta. Lei lo guardò. «È una spada-mutaforma, John. Il ragazzo è un demonio mesmerista.» John? Carnival guardò l'avversario. Qualcuno lo aveva chiamato con quel nome e anche un altro nella foresta velenosa, ora lo ricordava. Anchor. John Anchor guardò accigliato l'arma che impugnava. Mosse il braccio per gettarla via, ma l'elsa estruse tentacoli metallici che gli si avvolsero intorno al polso. Con un grugnito contrariato lui cercò di scrollarla via. I tentacoli non allentarono la presa. La spada rifiutava di lasciare la sua mano. «Per l'amor del cielo, John», esclamò la donna. «Metti da parte i tuoi dannati principi e usa quella dannata lama!» Il colosso la ignorò. Afferrò l'elsa dell'arma con la mano libera e tentò di strapparsela di dosso. «Lasciami andare! Non è questo il mio modo di combattere.» La spada-mutaforma si trasformò in una lancia. Anchor scrollò furiosamente la lunga arma. La sbatté nell'acqua e vi posò sopra un sandalo, facendo pressione per stroncare il manico. L'oggetto demoniaco gridò. Cambiò ancora forma e diventò una corta 164
mazza ferrata, con elaborate flange d'argento e un cordone d'oro avvolto intorno al polso di Anchor come un serpente. Anchor ruggì: «Non voglio spade, né lance, né mazze! Non so cosa farmene di te». Carnival lo guardava lottare con l'arma. Per quanto la sbattesse con forza da una parte e dall'altra, lei non lo lasciava. Mutò ancora forma più volte: un arco, un martello, un piccolo scudo-tirapugni, e ognuna delle forme era più elaborata e più bella dell'altra, ma lui non volle accettarne nessuna. Voltandosi verso la donna dai capelli rossi, Anchor gridò: «Perché si comporta così? Le spade-mutaforma sentono il dolore. Da quando in qua sono loro a decidere di combattere? Da quando in qua cercano d'imporsi agli altri con la forza?» «Probabilmente tu gli piaci, John.» Carnival pensò che lei capiva. Ricordava le parole del ragazzo, nella nave volante. Forse John, dal nome di mio padre. Il figlio non era come il padre, ma quel figlio era un mutaforma. L'arma cambiò ancora e divenne un largo scudo d'acciaio riccamente decorato e intarsiato di gemme verdi e azzurre, che luccicavano anche in quella penombra rossastra. Nel mondo degli uomini un simile oggetto sarebbe costato quanto il riscatto di un presbitero, ma Anchor lo prese a pugni ammaccandone il metallo finché esso non rinunciò e cedette. Lasciò la presa sul suo polso. Il colosso ruggì. Prese l'insistente oggetto e lo scaraventò lontano sul Fiume dei Difettosi. Lo scudo rimbalzò più volte sull'acqua, nella debole luce che scendeva dall'alto, prima di sparire in distanza. L'angelo sfregiato osservò l'uomo, quindi volse ancora lo sguardo nella direzione in cui lo scudo era scomparso. Si tastò l'ala ferita, la sbatté due o tre volte per collaudarla e si sollevò in volo. Poi volse le spalle all'uomo e alla sua compagna dai capelli rossi e si allontanò sopra il fiume rosso. Davanti a lei si stendeva l'Inferno. *** Evidentemente il cavaliere fuggito non aveva perso tempo a dare l'allarme, perché quando giunsero in vista del paese trovarono ad attenderli l'intero esercito locale. Dalla bocca del grande automa Rachel vedeva il confine settentrionale della foresta. Velato di foschia, il paese sulla riva del lago era un nastro di 165
edifici dal tetto marrone, protetto da palizzate sui tre lati di terra. Banchi di nebbia scivolavano sulle acque come fiocchi di cotone. Un centinaio di passi più al largo del porto c'era una fila di chiatte cariche di tronchi e mucchi di carbone. Ma molti marinai stavano salpando a bordo d'imbarcazioni vuote, mentre solo pochi pescherecci restavano ormeggiati ai moli. Evidentemente i mercanti e gli armatori erano già stati avvertiti di mettere al sicuro le loro piccole flotte. Sui camminamenti della palizzata di tronchi erano salite lunghe file di soldati, mentre altri osservavano l'entroterra dalle torri di guardia disposte a intervalli regolari lungo il perimetro. Erano per la maggior parte armati di arco, e sembrava che il paese fosse privo dei mezzi pesanti - le catapulte e gli scorpioni - che Rys aveva utilizzato a Coreollis. Dill si fermò, e ruotò lentamente la testa come se volesse aiutarle a osservare per intero lo scenario che avevano davanti. «Non sembrano molto disposti ad ascoltare», osservò Mina. «Ma con questi tipi di provinciali è difficile dirlo. Dill sa cosa deve fare?» «Sì.» «Sarà meglio che sia convincente.» «Lo capisce da solo!» Mina si strinse nelle spalle. «Allora speriamo che il nostro amico Oran non abbia già ammazzato Hasp.» «Con tutto il liquore che scorre nella locanda, non possono essere molto svelti di mente. Non si sono ancora accorti che siamo davanti a un centro abitato.» Mina annuì. «Non ci metteranno molto.» Dill aveva ripreso a camminare, e arrivò alla portata degli arcieri. Una selva di frecce partì dalla palizzata, e altri arcieri usarono gli archi dalla strada che correva parallela a essa nel suo interno. Rapide forme scure saettarono nell'aria nebbiosa. La maggior parte dei dardi impattò senza il minimo effetto sull'armatura di Dill, ma molti andarono invece a piantarsi nei tronchi della Sega Rugginosa. Ci fu una pausa. Uno degli uomini di Oran apparve sulla porta della locanda. Si appoggiò allo stipite, vacillò stordito per qualche istante e guardò il paese e i difensori assiepati sulle fortificazioni. Scosse il capo, come per schiarirsi la mente, e guardò ancora. Poi rientrò a precipizio. Mina sorrise. «Ora ci siamo.» Una nuova selva di frecce fu scagliata contro l'arconita. Dill prese la 166
scure con entrambe le mani - attento a non far cadere la locanda posata sulla lama - e la sollevò sopra la testa, come per proteggere l'edificio. E ruggì. «Buona idea. Immagino che laggiù possano trovare minaccioso questo atteggiamento», disse Mina a Rachel. Rachel gridò: «Non strafare, Dill». L'enorme automa di ossa e metallo raggiunse la palizzata. Rachel udì grida dal basso e altre urla provenienti dagli uomini di Oran, più in alto. Intravide alcuni boscaioli che si sporgevano tra le dita di Dill per guardare giù. Nel paese i difensori si allontanarono di corsa a destra e a sinistra, lasciando sgombra quella zona. Gruppi di uomini si stavano appostando nelle strade più interne. Dill alzò un piede e lo abbatté sulle fortificazioni. I tronchi appuntiti e parte del terrapieno in cui erano piantati collassarono, mentre contro la sua armatura rimbalzavano dozzine di frecce scagliate dai guerrieri sulla palizzata. Alzò il piede, lasciando una breccia di legname frantumato larga parecchi passi ed entrò nell'abitato. Era all'inizio di una lunga strada fangosa che terminava sulla riva del lago. Faceva freddo, e sottili spire di fumo si alzavano dai camini sui tetti di corteccia. Facce pallide sbirciavano dalle finestre su entrambi i lati della strada. La gente del paese non aveva avuto il tempo di fuggire? Non temevano per la loro vita? Dal basso giunsero voci irritate. Due gruppi conversero sull'arconita e attaccarono le sue caviglie con lunghi pali. Dill si voltò inclinando la testa per guardare il suolo, e Rachel cadde contro la parete interna dei suoi denti. La donna si aggrappò al bordo superiore di un grosso incisivo liscio, mentre l'automa abbassava la locanda all'altezza del petto. Una parete della Sega Rugginosa crepitò, e due finestre sbatterono. Dill alzò un piede come per schiacciare gli aggressori. Nel vedere sopra di loro l'enorme suola, gli uomini fuggirono, giusto prima che lui abbattesse il piede al suolo con violenza terribile. Rachel sentì vibrare il contraccolpo fin nelle ossa. La testa continuava a farle male. Restò a guardare mentre Dill alzava di nuovo il piede senza aver fatto altro che stampare a terra un'orma fangosa. Nessuno era rimasto ferito. «Bene. Ora al lago», gridò lei. Tenendo con cura la locanda e la grande accetta contro il torace, lui s'incamminò verso la riva. Gruppi di uomini di Oran si sporgevano dalle finestre della Sega Rugginosa per guardare quegli inaspettati avvenimenti. 167
La porta posteriore si aprì e il loro capo uscì all'aperto. Seguito da tre dei suoi sì avventurò sul bordo delle fondamenta dell'edificio e osservò le case sottostanti. Era troppo preso da quella scena per alzare lo sguardo. Rachel sentiva ancora i difensori che urlavano ordini e maledizioni dietro di loro, ma nella strada non c'era anima viva. Le case di legno, a uno o due piani, avevano finestre con ottimi pannelli di vetro e tegole di robusta corteccia. In una dozzina di passi Dill giunse al lago, sulle cui acque si allungavano bassi moli. Lungo la riva c'erano magazzini, rimesse coperte per barche e alcune monumentali gru ricavate da tronchi d'albero, con lunghe braccia dalle quali pendevano catene, ganci e reti per il carico delle merci pesanti. Tutte le imbarcazioni più grandi avevano preso il largo, ma intorno ai moli ne erano rimaste parecchie, di piccole dimensioni. Dill si chinò sulla riva per esaminarne una da vicino. Rachel ebbe un'improvvisa vertigine quando l'arconita piegò la testa in avanti. Con le mani premute sull'interno del dente, vide la barca avvicinarsi rapida e per un attimo ebbe timore di cadere nell'acqua. Proprio allora udì un rumore crepitante. Dill raccolse la barca con la mano libera, poi si voltò a guardare la strada alle sue spalle. Circa duemila uomini della milizia cittadina stavano marciando verso di loro. Erano armati di pali, archi e lance, ma adesso alcuni avevano anche delle torce accese. Guizzi di fiamma balenavano tra un lato e l'altro della strada, mentre il fumo grigio si disperdeva tra gli elmi di quanti seguivano i portatori di torce. Si udì il suono di un corno. Rachel guardò Mina. «Arrivano gli altri arconiti?» «No, credo che sia un segnale d'altro genere, un'adunata generale. Per gli altri arconiti abbiamo ancora tempo», rispose la taumaturga. Dill gettò la barca contro la truppa che avanzava. Era uno scafo lungo appena venti piedi, perciò avrebbe potuto scaraventarlo proprio in mezzo alle file dei difensori, o mezza lega fuori paese, se avesse voluto, ma andò a cadere alquanto più vicino, fuori bersaglio, e si fracassò completamente. Gli uomini gridarono soddisfatti e accelerarono il passo verso l'arconita. Dill ruggì ancora. I motori dentro il suo petto rombarono e dalle articolazioni dell'armatura scaturirono sbuffi di fumo nero. Indietreggiò nel lago, fracassando un molo e altre tre barche all'ormeggio. In pochi passi si portò dove l'acqua gli arrivava ai polpacci. Si chinò ad afferrare una zattera... e 168
restò immobile. Per un lungo momento rimase in quella posizione, chinato sul porto come se le sue giunture si fossero guastate. Poi tremò ed emise un gemito stridulo. Pian piano cadde in ginocchio, sollevando un'ondata così violenta che sollevò alcune barche e le depositò all'asciutto. L'acqua andò a investire le facciate dei magazzini e trascinò via barili e casse di merci, prima di defluire nel lago. Con agonizzante lentezza il grande automa si chinò ancor di più fino ad appoggiare i gomiti, sempre tenendo la locanda in equilibrio sulla scure come un ferito che cercasse di salvare un bambino... o come un'offerta di conciliazione alla milizia umana. Piegò il collo, abbassò la testa, e si fermò del tutto solo quando la sua mandibola fu a contatto del suolo fangoso della riva, giusto al termine della strada. «Questa però è una recita dilettantesca», disse Mina. «Dagli tempo, imparerà», mormorò Rachel. Quasi tutti i difensori della città si erano fermati, sospettando una trappola. Altri invece gridarono allegramente e corsero verso l'arconita caduto. I boscaioli di Oran erano ancora nella locanda, che le grandi mani tenevano sollevata a una cinquantina di piedi dal suolo. Rachel si augurò che avessero il buonsenso di restare dov'erano. «Fallo tu», disse a Mina. Lei sbuffò. «Nossignora. Io ho avuto l'idea. Fallo tu.» «Non ho intenzione di mettermi a strillare come una stupida.» «Be', neppure io.» L'assassina la guardò. «Mina, non voglio litigare. Ma sembrerà più convincente se lo fai tu. Io non sono abituata a...» La taumaturga spazzò via quell'obiezione con un gesto e s'incamminò verso il passaggio interno sul retro della bocca. Si chinò a tirare fuori di sotto il tappeto la spada di Rachel. «Io sarò dentro il suo cranio, a fare cose letali con un'arma da assassina. Ci vediamo dopo.» Basilis latrò e corse nel cunicolo dietro di lei. Rachel guardò fuori tra i denti di Dill. Vide che i difensori del paese si stavano radunando sul lato opposto della strada piena di pozzanghere, con le armi in mano e pronti a gettarsi all'assalto. «Che gli dèi ti puniscano, Mina», mugolò. Deglutì, e poi chiamò aiuto. 169
Non fu il grido drammatico che Mina aveva raccomandato con insistenza. Non le parve neppure che esprimesse una vaga disperazione. Ma fu abbastanza perché i difensori del paese si fermassero. Prostrato lì sulla riva del lago, con la locanda sollevata davanti a sé e il mento nel fango, Dill doveva apparire sconfitto. O così Rachel sperava. I difensori erano costretti a essere sospettosi: quel terribile gigante era caduto da solo, senza un motivo che si potesse capire. Tutto ciò che ora Rachel doveva fare era dargliene uno. «Sono qui dentro», chiamò. Vide degli stivali e dei pantaloni sporchi di melma muoversi all'esterno dei denti, e il luccichio metallico di spade e lance. Ci furono esclamazioni, parole soffocate, alcuni ordini secchi. Una faccia apparve tra due denti dell'arconita: un uomo giovane che la guardava, brandendo un coltello. «Aiutami a uscire. Per favore», disse lei. «Chi sei, tu?» la interrogò il soldato. «Una prigioniera. Per favore, aiutaci a uscire, prima che gli uomini di Menoa riprendano il controllo di questo mostro. Noi non possiamo tenere disabilitato a lungo un arconita.» Lui corrugò le sopracciglia. «In quanti siete, qui dentro?» «Due. Mina è sul retro.» Lei cercò di sembrare patetica. La aiutò il fatto che si sentiva patetica. «Gli uomini di quella locanda ci hanno costrette a stare qui. Hanno fatto da guida agli arconiti di Menoa fin dalla battaglia di Coreollis. Hanno perfino preso in ostaggio il fratello di Rys.» «Hai detto Rys?» Una voce profonda dietro il soldato intervenne: «Chi c'è?» «Una donna. Una prigioniera», rispose lui. Il giovane si fece da parte, e un soldato anziano guardò dentro. Questi aveva la barba e un tondo casco metallico dal quale sfuggivano due trecce. «Come diavolo sei finita lì? Cos'è successo a questo golem?» Rachel trasse un profondo respiro e ripeté la sua storia. Il soldato anziano ascoltò, ma non smise di scrutarla con evidente sospetto e, quando lei ebbe finito, chiese: «Mercenari? Vuoi dire quei boscaioli intrappolati lassù in quell'edificio?» «Re Menoa li paga in oro.» Lei raccolse una manciata delle monete rotolate ovunque e gliele gettò attraverso la fessura. «Ce ne sono delle casset170
te piene, qui dentro.» L'uomo guardò le monete ma le lasciò dov'erano cadute. «Li paga per fare da guida a questo mostro?» «Altri nove stanno per arrivare, ma noi sappiamo come fermarli. Per favore, fateci uscire. Non abbiamo molto tempo.» Lui si trasse da parte. Un terzo volto guardò dentro, un giovane dell'età del primo soldato. I suoi occhi si spalancarono per la sorpresa, poi anche lui si spostò. Rachel vide altri movimenti, la luce delle torce. Sentì i primi due conversare sottovoce. Infine il più anziano tornò alla fessura. Aveva tra le mani un lungo palo. «Stai indietro! Dovremo cercare di far leva.» Lei attese mentre l'uomo infilava il palo tra i denti di Dill e lo abbassava. Dill attendeva quel momento, e aprì la mascella. «Grazie.» Rachel fece per arrampicarsi fuori. «Resta dove sei», disse il soldato anziano. «Quello che hai detto non mi persuade molto. Scostati da questi denti.» Attese finché lei non fu indietreggiata di qualche passo, poi saltò dentro la bocca. Era un uomo di bassa statura, con braccia muscolose, spalle larghe e occhi bruni come la sua spessa armatura di cuoio. Il naso era rimasto storto in seguito a una frattura, e con quella cervelliera di ferro sembrava ancora più piccolo e largo. Alla cintura aveva il fodero di una spada corta, e dietro le spalle un enorme martello. Si guardò intorno nella camera di ossa per un lungo momento, prima di riportare la sua attenzione su di lei. «Altri nove di questi, hai detto?» Lei annuì. L'uomo indugiò con lo sguardo sulle cassette e sulle monete sparse al suolo. «Noi ne abbiamo visti due presso Legnoduro, poche ore fa, e non ci sono giunte notizie, oggi, dalle torri di guardia di Viastorta e Malerocce. Nessun piccione viaggiatore, niente. Ora sarà meglio che tu mi spieghi perché i giganti di Menoa sono venuti da queste parti. Quei boscaioli e le loro donne nella locanda lassù stanno chiedendo aiuto anche loro. Dicono di essere loro i prigionieri.» «Bugie. L'arconita li ha protetti per tutta la strada da Coreollis a qui», disse Rachel. «Questo è ciò che dici tu», mugolò lui con una completa mancanza di convinzione. I suoi occhi bruni la fissarono attentamente. «Alcuni di quei boscaioli ci sono noti. Oran Garstone lo conosco bene. Tu sei ancora viva solo perché io so che razza di uomo è... Ma non pensare che questo basti a renderci amici. Quella che non conosco sei tu, e io sono troppo bravo ad 171
annusare una bugia per credere a tutto quello che mi hai raccontato.» «Noi veniamo da Deepgate, la città di Ulcis. Cospinol ci ha portate qui per combattere con Rys a Coreollis. Noi abbiamo fatto a pezzi i mesmeristi, ma Menoa ha sguinzagliato i suoi arconiti. Rys ci ha ordinato...» «La tua amica è qui con te, adesso?» «È in una camera, di sopra.» Rachel indicò il cunicolo sul fondo della bocca. «Abbiamo trovato il modo di disabilitare l'arconita. Lascia che te lo mostri.» Gli accennò di seguirla verso il passaggio. Il soldato grugnì. «E, se mi arrampico lassù, cosa troverò? La tua amica che sta minacciando con un pugnale il cervello del gigante?» Rachel non disse niente. Quell'ipotesi era fin troppo vicina alla scena che lui avrebbe visto: Mina, con la spada puntata a un qualche supposto punto critico del macchinario, pronta a uccidere l'arconita se lui non avesse obbedito ai suoi ordini. «Qual è il tuo nome?» gli domandò. «Mi chiamano Testa di Ferro.» «Sei tu il capo di questa cittadina?» «Acquardente, è il suo nome. Io comando la milizia cittadina.» «Io sono Rachel. La donna che si trova sul retro è Mina.» In quel momento sentirono scoppiare un diverbio all'esterno, tra la milizia di Acquardente e un paio degli uomini di Oran bloccati sulla locanda. Gli insulti fioccarono da ambo le parti. I boscaioli gettarono zolle di terreno sui soldati sottostanti, ridendo e sfottendoli. Il capitano si sporse a gridare ordini, poi si voltò di nuovo verso di lei. «Allora qual è la verità, signora Hael? Perché avete ucciso due delle mie sentinelle e lasciato scappare la terza? Perché siete venuti proprio ad Acquardente? Perché il gigante ha fatto questa ridicola sceneggiata con le barche? E, innanzitutto, come mai vi trovate a viaggiare con mio fratello?» «Tuo fratello?» «Oran è mio fratello.» Rachel sospirò. Se Testa di Ferro non era disposto ad ascoltare, lei non vedeva motivo di continuare la recita. «Posso uscire da qui, adesso?» Lui le accennò di non aver fretta. Lei gli disse tutto: l'idea di andare al castello di Sabor; la decisione di reclutare un esercito di uomini lungo la strada; la lotta di Dill contro l'altro arconita nella foresta, e le conseguenze che ne erano derivate per Hasp. Ammise di aver ucciso i due uomini di Oran nel salone, per proteggere il 172
dio dalla pelle di vetro. E dopo un'esitazione gli disse anche la verità sulla torre di guardia che Dill aveva distrutto. «Avete fatto un sacco di errori», disse Testa di Ferro. «Questa è solo la mia prima guerra. Sto imparando.» L'anziano soldato si grattò la barba «Ho buone ragioni di credere che Sabor sia fuggito da Coreollis, illeso. Vi porteremo subito al suo castello.» «Quanto dista da qui?» «L'Obscura? Non più di un'ora di barca e altre due ore di marcia. Il regno di Herica prende inizio sull'altra riva di questo lago. La mia famiglia è originaria di quella terra.» L'uomo annuì, come se nella sua mente avesse preso forma un piano per affrontare gli eventi. «Il resto dei miei parenti lavora ancora per Sabor... ormai da decenni.» «Si direbbe una famiglia piuttosto grande.» Lui le rivolse un sorriso enigmatico. «Puoi dirlo. Grazie a Sabor, ho la fortuna di avere la famiglia più grande nella storia del mondo... È un peccato che tu abbia incontrato proprio Oran, di tutti i miei fratelli.» Guardò verso il retro della grande bocca. «Posso vedere coi miei occhi come funziona il gigante?» «Prima sarà meglio che io avverta Mina.» Ma la taumaturga gridò dall'interno: «Ho sentito tutto, Rachel. Avrò le orecchie coperte di vetro, ma non sono sorda. Aspetta, sto uscendo». Mina venne fuori del cunicolo, tenendo in braccio come al solito il suo cane demoniaco. Testa di Ferro inarcò le sopracciglia quando la vide, ma non fece commenti. Le passò accanto e sbirciò nel passaggio in salita. «Voi aspettate qui, per favore.» Si chinò sulle mani e sulle ginocchia ed entrò, col manico del martello che strisciava sul soffitto. Mina attese di vederlo sparire. «Gli farò pagare una doppia di rame, quando verrà fuori. Stare lassù a recitare la parte per suo uso e consumo mi ha fatto venire il mal di pancia.» «Tu non gli farai pagare niente.» «Dovrei. Perché diavolo ha voluto andare a curiosare là dentro? Questa gente di campagna può piacere solo a te, Rachel.» Andò dietro i denti di Dill e mise fuori la testa. «Be', cos'avete da guardare tanto, voialtri?» gridò alla milizia di Acquardente, all'esterno. «Non avete mai visto una strega mesmerista senza pelle?» I soldati sembravano sul punto di scappare, ma il giovane che Rachel aveva visto per primo venne avanti tra loro. «Dov'è il capitano?» 173
Rachel indicò col pollice dietro di sé. Il soldato mise la testa tra i denti giganteschi. «Guai in vista, capitano. Gli altri grossi bastardi sono arrivati.» *** Carnival non sapeva perché stesse seguendo il ragazzo mutaforma. Non provava niente per lui, e niente per suo padre. Non c'era la fame a tormentarla, lì nell'Inferno. Né si era chiesta per quale ragione John Anchor aveva scaraventato lontano, nel fiume sotterraneo, quell'arma cosi insistente. Non le interessava. Nonostante ciò, di tutte le direzioni che poteva scegliere il suo istinto la spingeva a seguire quel giovane. Altri avrebbero trovato troppo scuro quel territorio, ma gli occhi di Carnival erano da molto tempo abituati alla penombra. Proseguì il volo a una trentina di piedi sull'acqua torbida, attraversando ogni tanto gli aloni di luce che uscivano dalle aperture in quel cielo di mattoni e ferro. Ai suoi occhi socchiusi quello stretto panorama sembrava un acquitrino, spettrale e insensato, una distesa rossa e nera in cui allignavano strani cespugli dai riflessi aurei. L'acqua gorgogliava e scorreva lungo grandi masse di quella che sembrava carne. Le sue pupille ipersensibili trovavano sconcertante quella prospettiva, quel misto di luci e ombre schiacciate tra il fiume sotterraneo e l'immane peso dell'Inferno che incombeva su tutto. *** Il ragazzo che aveva detto di chiamarsi Forse John aveva ripreso la forma umana, e sedeva su una delle dighe carnose che separavano le vie d'acqua, coi gomiti sulle ginocchia. I suoi indumenti erano inzuppati di sangue. Quando sentì il battito delle ali di Carnival alzò lo sguardo. Lei atterrò a una decina di passi di distanza, in una pozza dove il liquido le arrivava alle caviglie, un po' a disagio alla sua presenza e del tutto all'oscuro delle ragioni che l'avevano spinta a cercarlo. Per un lungo momento lo guardò. Che a condurla lì fosse stata la curiosità? Dopotutto non aveva mai visto nessuno come lui. O forse la parte più insondabile del suo cuore aveva un motivo diverso? «Non ricordo qual era il mio aspetto. Forse è per questo che lui non mi ha riconosciuto.» Forse John alzò un dito davanti agli occhi, e lo osservò mentre l'unghia si trasformava in un sottile artiglio metallico. L'artiglio si piegò su se stesso come scarabocchio di un bambino. «Non dirmi che avrei 174
dovuto dirglielo. Era inutile farlo, prima di essere sicuro che lui fosse davvero il mio vecchio.» Carnival non disse niente. «Non ricordo molto di quello che è successo prima che mi prendessero gli Icarate. È così che fanno i mesmeristi. Ti convincono che sei sempre stato diverso, e tu gli credi.» Abbassò la mano e il suo sguardo si perse sulle acque. «Io non sono una spada-mutaforma, però. Sono stati loro a convincermi che lo ero.» Fece una pausa. «Dovevi proprio uccidere Monk?» L'angelo sfregiato non rispose. «Lui cercava solo di allentare i bulloni. Avevamo fame in quella nave, tutti quanti, però non avresti dovuto ucciderlo.» Mutaforma alzò gli occhi su di lei. «Ucciderai anche me, ora?» Lei non disse niente. «Oppure stai cercando una spada? Molta gente ha bisogno di una spada. È una cosa che s'impara presto. I mesmeristi mi hanno dato a un nobile di Cog, ma sua moglie è morta di tosse cattiva, e lui si è ucciso gettandosi sulla spada. Questo mi ha fatto arrabbiare con lui, mi ha fatto sentire come se avesse chiesto a me di ucciderlo.» All'improvviso tutte le dita del ragazzo diventarono lame affilate, che luccicavano in quella luce incerta. «Essere una buona spada è difficile. Fare il martello è più facile, ma si sente più dolore quando ti usano. Se tu hai bisogno di un'arma, qui, allora hai bisogno di me.» «No», disse infine lei. Era la verità. Laggiù la luna nera non le torturava i nervi. Qualunque fosse la vendetta che il suo cuore aveva preteso era stata compiuta. Non aveva più nessun desiderio di uccidere. Girò lo sguardo sulla sterminata distesa del Labirinto, sui milioni di anime intrappolate insieme, e sentì un freddo improvviso. Il fiume sembrava premere con insistenza contro le sue caviglie. Si chinò e prese un po' di liquido con una mano, portandoselo alla bocca. Sapeva di morte. Il ragazzo la guardò accigliato mentre lei gettava via il resto del liquido. «Non credo che fosse una buona idea. A lui questo non piace per niente.» Lei lo avvertì improvvisamente in bocca: una strana sensazione di pressione come se il liquido che aveva sorseggiato le risalisse in gola. Tossì e cercò di sputarlo, ma il liquido sembrava avere una volontà propria. Affluì nella cavità dietro il naso e le schizzò fuori delle narici con uno spasmo 175
asfissiante. Lei ansimò. Il ragazzo si alzò in piedi. «Loro stanno arrivando. Portami via da qui. Potrei esserti utile.» L'angelo aspirò una boccata d'aria. Notando dei movimenti con la coda dell'occhio si voltò. Stava succedendo qualcosa di strano. L'acqua gorgogliava e ribolliva. «Per favore, portami via di qui», supplicò il mutaforma. «Tu devi andartene subito, prima che sia troppo tardi. Portami con te.» Dalle miriadi di vie d'acqua intorno a loro si sollevò un esercito di guerrieri, migliaia di figure vestite con armature gelatinose che impugnavano armi gocciolanti. Carnival si voltò e ne vide altre ancora emergere alla superficie del fiume. Le loro facce erano rozzamente umane, ma prive di dettagli, come sculture non finite. Le loro armi però sembravano molto affilate. Il ragazzo allungò un braccio e le afferrò una mano. «Sono pericolosi! Vola!» Lei strappò via la mano dalla sua, ricordando i trucchi che lui aveva usato per attaccarsi ad Anchor. Allargò le ali e si alzò nell'aria. Il ragazzo le gridò qualcosa, ma le sue parole furono sommerse da una voce molto più forte che sembrava provenire da ogni direzione. «Torna giù!» Gli uomini del fiume avevano parlato all'unisono. Gli istinti di Carnival la indussero a volare più in alto. Il cuore le batteva forte. La sua pelle fremeva di sensazioni emanate da innumerevoli vecchie ferite, e all'improvviso ciò la riempì di rabbia e odio. Sessanta piedi sopra il fiume fece una pausa per guardare in basso. Qualcosa di massiccio stava prendendo forma in quelle acque dense. Dapprima le parve una grossa bolla, ma sotto i suoi occhi essa scoppiò e assunse un altro aspetto. Su due lati dell'estrusione iniziale apparvero due spalle, poi le braccia e infine le mani. Mentre Carnival batteva le ali per alzarsi ancora di quota, la cosa rossastra esplose all'insù come un geyser. Per alcuni secondi la gigantesca figura parzialmente formata oscillò come ubriaca nella penombra di fronte a lei, fatta di ossa e tendini e liquido gelatinoso. A Carnival parve che sarebbe collassata, invece si fermò e protese le mani per afferrarla. 176
Lei agitò le ali, ma non fu abbastanza rapida. Dita rosse le si strinsero intorno a una gamba, e la tirarono giù con violenza. Un attimo prima di piombare nell'acqua vide che la creatura aveva estruso un paio di ali, mentre il suo volto senza occhi era segnato da una rete di cicatrici. Poi dovette chiudere gli occhi e la bocca, quando il fiume si richiuse su di lei. Il fondale era basso; la sua schiena urtò in qualcosa di morbido e liscio. Si contorse e cercò di alzarsi, ma rimase intrappolata nella presa del gigante. Sto affogando... Carnival si divincolò con violenza, e usò le unghie per ferire la mano che la teneva sommersa. Sentì quella pelle acquosa lacerarsi e, sotto la carne, ossa di sostanza molto più dura. Le sue dita si chiusero intorno a qualcosa di solido e tondeggiante. Lo strappò di lato. Il gigante allentò la presa. Carnival emerse alla superficie. Aspirò una boccata d'aria e si alzò in piedi. La creatura aveva assunto rozzamente la forma di un angelo. Torreggiava sul fiume, e si stringeva la mano ferita con l'altra, come se soffrisse. Cicatrici viola scuro s'incrociavano sulle sue lucide braccia rosse. Vacillava sulle gambe, quasi che non avesse ancora imparato a usarle. Gli altri guerrieri nati dal fiume non avevano però quell'infermità. Si stavano avvicinando in fretta, brandendo minacciosamente le loro armi fatte di liquido. Il più vicino sollevò la lancia per scagliarla... Carnival sentì una piccola mano stringere una delle sue. Il ragazzo mutaforma era venuto accanto a lei, benché soltanto la sua testa emergesse dall'acqua ribollente. «Lasciami stare», gridò, ignorandolo orgogliosa. Una lancia le sorvolò la spalla. Si voltò e vide che un'altra arma identica cresceva nella mano dell'uomo acquatico che l'aveva scagliata. In lei esplose una fredda furia. Si piegò in avanti e fece per balzargli addosso. «Hai bisogno di un'arma!» Il ragazzo mutaforma le teneva ancora la mano, e voltandosi a mezzo lei vide che cominciava a trasformarsi. Il suo corpo si assottigliò e si restrinse, con un luccichio metallico. In quel momento il fiume parlò ancora, e la sua voce suonò liquida come la pioggia: «Unisciti a me». L'instabile gigante si chinò verso di lei e allungò le mani in cerca del suo collo. 177
Carnival vibrò la spada. Sentì che l'orlo affilato incontrava scarsa resistenza. Mozzò di netto due dita del gigante e sollevò l'arma per un altro colpo ancor prima che i monconi cadessero nell'acqua. Il suo secondo fendente spaccò in due il palmo della creatura, e in faccia le arrivarono delle gocce rosse. Subito si accorse che le gocce s'indurivano sulla sua pelle... e si muovevano. Una rabbia incontenibile la sopraffece. Si gettò di nuovo all'attacco, colpendo le mani del gigante e le braccia degli uomini del fiume che le si affollavano intorno. Spaccò un cranio gocciolante, balzò avanti verso un ginocchio del gigante e vi affondò profondamente la lama, torcendola più volte. L'enorme cosa collassò. Dal fiume si alzò un coro di urla. Ma i guerrieri rossi continuarono ad avanzare. Carnival si gettò tra loro sferrando fendenti con la sua spada demoniaca, in un vortice d'acciaio che faceva schizzare intorno una pioggia sanguigna. Gli avversari erano molti e, quando uno cadeva, altri sorgevano a prendere il suo posto. Carnival non poteva ucciderli tutti, ma neppure poteva smettere di colpirli. La spada danzava al ritmo della sua furia. L'acqua cercò di risucchiarla giù, e lei allargò saldamente i piedi sul fondale per resistere ai gorghi. Ogni tanto un'onda si alzava per travolgerla, e lei vi si tuffava dentro emergendo dalla parte opposta. Armi rosse la aggredivano da tutti i lati, e lei le troncava, e faceva a pezzi gli uomini del fiume finché non ricadevano nell'acqua che li aveva generati. Gli aggressori continuavano ad arrivare come una marea. Con le palpebre strette in due fessure lampeggianti, Carnival avanzò a guado nella corrente di sangue per affrontarli. Aveva rinunciato a ogni pensiero di fuga. La sua anima era un distillato di rabbia. Se il fiume aveva dei limiti, essi sarebbero stati messi alla prova in quel momento e da lei. *** John Anchor vide quell'agitazione da lontano, nella penombra. Dava l'impressione di una tempesta violacea che si muovesse sulla superficie dell'acquitrino. «Sembra che stia succedendo qualcosa nella zona dove ho scaraventato la spada-mutaforma», commentò. Alice Harper seguì la direzione del suo sguardo e consultò il dispositivo argenteo. «È Carnival. Il mio localizzatore ha troppa paura per cercare traf178
fico d'anime in quella direzione. Può indagare sul fiume, ma non su di lei. Io non saprei dire neppure cosa sia Carnival, John.» Il grosso individuo sorrise. «Devi insegnare un po' di disciplina ai tuoi attrezzi mesmeristi, eh? O gli dai un bacio, di tanto in tanto?» «Le smancerie li metterebbero solo in imbarazzo.» Lui rise, poi si piazzò i pugni sui fianchi e fece un lungo sospiro. «Siamo in un grosso pasticcio, eh? In questo momento il fiume rivolge la sua attenzione all'angelo.» Mosse un piede nell'acqua torbida. La corrente che li stava spingendo verso la Nona Cittadella si era fermata. «Ora non sappiamo da che parte andare. Il dio dei Difettosi ha altro cui pensare.» «Dall'aspetto di quel tafferuglio laggiù direi che questo è un bene per noi», osservò Alice. Anchor tornò a voltarsi verso i resti della Rotsward. Pochi si potevano ancora identificare come appartenenti a una nave. Non c'erano grossi pezzi di alberatura, né cadaveri. Neppure perle animate. Lui era rimasto senza la sua scorta e, se non ne avesse trovate altre, presto avrebbe cominciato a perdere le forze. «Un grosso pasticcio», mormorò ancora. Poi ritrovò il sorriso e si rivolse all'ingegnere. Il suo sguardo si fermò inconsciamente sulla bottiglia che lei si stringeva al petto, il contenitore dell'anima di suo marito. *** La strada che l'onda aveva riempito di pozzanghere era un caos. Per ordine di Testa di Ferro, Rachel chiese a Dill di smetterla di recitare e depositare La sega Rugginosa sulla riva del lago. Poi chiamò Mina, che la raggiunse all'esterno mentre i difensori del paese si raggruppavano in fretta agli ordini del loro capitano. I soldati di Acquardente la seguirono con sguardi ostili, ma lei non ci fece caso. «Dobbiamo evacuare il paese», gridò Testa di Ferro. «Mettete le donne e i bambini su tutte le imbarcazioni disponibili. Holden, segnala ai piloti di venire a riva. Spindle, prendi i tuoi uomini... sai già cosa fare. Voglio venti squadre, quattro a est e quattro a ovest di viale Hoggary. Il terzo gruppo prenda posizione allo sbocco di via della Cenere su piazza Darrow. Bernlow, Malk, Cooper, Geary, Wigg e un altro... tu, Thatcher: tenete gli aggressori divisi e lontani dalla riva. Ritiratevi lentamente in direzione opposta, ma non lasciate che quei bastardi vi calpestino.» Il cane di Mina, Basilis, cominciò ad abbaiare. Lei cercò di farlo star zit179
to, ma invano. Il piccolo animale ossuto lottava per sfuggirle dalle mani, con gli occhi fissi su qualcuno tra i presenti. «Cosa gli prende?» volle sapere Rachel. Mina si guardò intorno, poi si voltò verso l'altra donna. «Non ha niente. Sta solo abbaiando contro di te.» «Contro di me?» La taumaturga sembrava distratta, e rispose solo dopo qualche momento. «Cosa? No.» Si rivolse di nuovo a Rachel e scosse il capo. «Non lo so... credo che uno della milizia lo abbia irritato.» Furono interrotte dal tonfo della locanda che toccava il suolo. Oran uscì dalla porta, rosso in viso per la rabbia e deciso a far valere le sue ragioni, ma si fermò di colpo quando vide Testa di Ferro. «Non sarai per caso venuto a patti con queste due puttane, eh?» sbottò, con uno sprezzante cenno del capo verso Rachel e Mina. «Noi siamo stati...» «Taci, Oran. Guarda laggiù.» L'anziano capitano fece un cenno verso il confine meridionale del paese, poi si voltò verso un gruppo di soldati che arrivavano di corsa. «Date fuoco al carbone e alle balle di stoffa che sono nei magazzini. Versateci sopra del catrame, se avrete il tempo. Altre due squadre... Weatherman e Block, prendete delle torce e andate anche voi. Voglio tutte le case sulla riva del porto in fiamme, subito.» «Ma, capitano...» Un giovane caposquadra esitò. «Fumo, uomo, fumo. Quelli sono troppo grossi per poterli abbattere, perciò voglio fumo e confusione. La nebbia non è abbastanza fitta per nasconderci.» «Sì, signore.» Nel frattempo Oran aveva visto il nemico in avvicinamento oltre la palizzata, e guardava da quella parte con la bocca aperta. Sei arconiti incombevano sulla città, con le armature che pulsavano di bagliori verdi nella nebbia, mentre le loro grandi teste si voltavano lentamente a osservare le strade davanti ai loro enormi stivali di ferro. Dietro le loro schiene vaste ali traslucide si allargavano riflettendo i colori dell'aurora in quella luce vaga. Testa di Ferro prese il fratello per un braccio. «Le vostre donne devono salire sulle barche. I tuoi uomini combatteranno con noi. Restituisci Hasp a queste due, ma tienilo nascosto. Non voglio che gli arconiti lo vedano.» «Tu non hai il diritto...» 180
«Obbedisci, o ti farò impiccare.» Il capitano chiamò un altro dei suoi luogotenenti e gli ordinò di accertarsi che Oran eseguisse i suoi ordini. Il boscaiolo grugnì e tornò in fretta alla Sega Rugginosa, col luogotenente di Testa di Ferro alle costole. «Noi come possiamo essere d'aiuto?» domandò Rachel. «La fiducia genera fiducia», disse il capitano. «O almeno spero. Il vostro arconita può battere uno di questi altri?» «Non possono essere feriti né distrutti. Ma, se Dill riesce a farne cadere uno, potremo cercare di entrare nella sua testa e disabilitarlo col fuoco. Il guaio è che, se può farcela contro uno di loro, non può affrontarli tutti e sei.» «Allora ditegli di restare qui e aiutare con l'evacuazione. Può trasportare la gente e le masserizie sulle imbarcazioni, e difenderle se è il caso. Questo ci darà il tempo di portare le nostre famiglie nel lago.» L'uomo si voltò verso le truppe, ma Rachel lo fermò. «Capitano, abbiamo un altro problema.» «Quale?» «Hasp è costretto a obbedire agli ordini dei mesmeristi. E loro gli ordineranno di uccidere quanta più gente può.» «Allora confinatelo nella bocca del vostro arconita.» Il capitano diede loro le spalle e andò verso le tre squadre che aspettavano ancora ordini. In pochi minuti le spedì via, e dedicò la sua attenzione a un altro caposquadra che si stava avvicinando. Rachel rimase accanto a Mina, senza altro da fare che guardare gli uomini al lavoro. Sul paese di Acquardente risuonarono tre squilli di tromba brevi, seguiti da uno lungo. Il segnale dell'evacuazione, suppose lei. Alcune squadre erano già entrate nei magazzini, mentre altre correvano per le strade gridando e bussando alle porte. Vecchi, donne e bambini erano già in cammino verso i moli, carichi di vettovaglie. Anche la gente di Oran era uscita dalla Sega Rugginosa. Poco dopo una fiammata si levò dal più lontano dei magazzini, a oriente, con un ruggito. Altri soldati stavano facendo rotolare barili sulla banchina o portavano torce accese negli edifici. «Questi civili hanno l'aria di essere stati preparati all'evacuazione», notò Mina. «A meno che non siano incredibilmente veloci. Un attento osservatore potrebbe giudicarlo strano.» «Non ci avevo pensato», disse Rachel. 181
«A cosa?» «A rinchiudere Hasp nella bocca di Dill.» «Auguriamoci che Hasp sia d'accordo.» Mina indicò con un cenno la locanda della Sega Rugginosa: otto uomini di Oran stavano portando a braccia il dio dall'armatura di vetro giù per le fondamenta sgretolate dell'edificio. Dapprima Rachel pensò che Hasp fosse svenuto o morto, poi si accorse che aveva in mano una bottiglia vuota. Muoveva le braccia debolmente, come se cercasse di opporsi a chi lo trattava così. Rachel fece una smorfia, quando i boscaioli si liberarono del loro fardello gettandolo nel fango davanti a lei. Gli individui la guardarono con odio omicida, ma se ne andarono senza una parola. Del resto l'avevano vista combattere. Un primo controllo rivelò che l'armatura vitrea di Hasp era intatta. Rachel sentì l'intenso odore di alcol del suo fiato. Doveva aver bevuto più di quanto sarebbe bastato a uccidere un uomo normale e, sotto le palpebre trasparenti, gli occhi si muovevano selvaggiamente, come se fosse in preda a un incubo. D'un tratto lui li aprì e cercò di alzarsi, ma scivolò e ricadde nella melma. L'assassina e la taumaturga lo sostennero e lo aiutarono a camminare verso Dill, sul terreno diseguale. Rachel chiamò il gigantesco amico. Con un rombo di pistoni e un cigolio metallico lui si chinò per offrire loro il palmo di una mano e li fece salire a bordo. Trasportare il dio ubriaco fin dentro la bocca di Dill richiese gli sforzi congiunti di entrambe le donne. Del tutto inconsapevole di dove si trovava, durante l'operazione Hasp vomitò e sputacchiò e le maledisse col poco fiato che gli restava. Quando l'ebbero finalmente portato oltre i denti, lui si sdraiò sul tappeto tra le monete sparse, si girò su un fianco e vomitò ancora. «E pensare che la gente lo adorava», commentò Mina. «Quale gente?» «Non lo so. È un dio, perciò qualcuno deve averlo adorato. Altrimenti a cosa servirebbe?» «Sorveglialo, Dill», gridò Rachel. Lasciarono Hasp disteso nella bocca e guardarono fuori. Da quell'altez182
za Rachel vedeva con chiarezza gli arconiti di Menoa. I sei grandi simulacri di angeli torreggiavano sulla palizzata perimetrale, con le armature ancora chiazzate di nero, di bruciato e di sangue dopo la battaglia di Coreollis, emettendo fumo dalle articolazioni forgiate nel Labirinto. Le ali, coi loro bianchi supporti in continuo movimento, disturbavano la nebbia di cui era velata l'atmosfera. Lenti e inarrestabili, essi circondarono Acquardente sui tre lati di terra. Poi, con un rumore di metallo e di tronchi fracassati, sfondarono le inutili difese dell'abitato e le oltrepassarono. In quel momento le strade più vicine al lago erano intasate di gente che si affrettava verso i moli. Squadre di uomini della milizia si mossero in direzione opposta, verso il nemico che si avvicinava. La maggior parte dei difensori del paese aveva preso posizione agli incroci principali, ma, nonostante la loro baldanzosa organizzazione militare, Rachel fu certa che non avrebbero ottenuto nulla. «La nebbia si sta diradando», disse, mentre la mano le faceva scendere. Mina aveva stretto saldamente tra le braccia un pollice di Dill. «Non è facile mantenerla, per me», protestò. Poi tacque, e non disse altro finché non ebbero messo piede sul terreno solido. «Io sto facendo del mio meglio, Rachel.» «Non volevo insinuare che tu non lo facessi.» Rachel si rese conto solo allora che le scaglie di vetro del viso di Mina nascondevano la sua stanchezza. La taumaturga aveva continuato a creare la nebbia fin dalla battaglia di Coreollis. Non sarebbe riuscita a mantenerla ancora a lungo. Dal molo più vicino, dove una folla di soldati e civili aspettava l'avvicinamento di un'imbarcazione, provennero delle grida. Poi gruppi di uomini e donne cominciarono a salire a bordo del lungo scafo, mentre un caposquadra dava ordini all'equipaggio e altri facevano cenni ai comandanti di altri due vascelli più al largo. Il fuoco stava ora divampando nei magazzini, da cui si alzavano dense nuvole di fumo nero. Bambini spaventati si aggrappavano alle madri, e uomini della milizia si facevano strada nella ressa. Quattro scaricatori si affrettavano lungo la banchina facendo rotolare davanti a sé un grosso barile, mentre un vecchio sedeva su una bitta di ormeggio e fumava la pipa, guardando la scena con indifferenza. Altri correvano verso l'interno del paese muniti di torce, lunghi pali, archi e spade. Rachel cercò con lo sguardo Testa di Ferro, ma l'uomo non si vedeva da nessuna parte. In distanza udì un grido, poi una serie di pesanti tonfi che 183
provenivano dalla zona meridionale dell'abitato. Ciò significava che gli arconiti di Menoa stavano distruggendo le case all'interno della palizzata. Le loro grandi ali si muovevano nella nebbia, mandando aria fredda sulla riva. Una raffica di vento scarruffò i capelli di Rachel e increspò l'acqua del lago. L'assassina alzò lo sguardo e gridò per sovrastare il clamore circostante: «Non c'è abbastanza tempo! Dill, aiuta questa gente a salire sulle imbarcazioni». Il grande automa s'incamminò verso il lago, facendo tremare il suolo. Un altro passo lo portò nell'acqua, e continuò ad avanzare finché le enormi gambe non furono immerse fino alle ginocchia. Coi motori che rombavano, si chinò a prendere due imbarcazioni vuote, una con ogni mano, e le sollevò gocciolanti fuori del lago. Nel muoversi agitava nel cielo le immense ali. I profughi gridavano e fuggivano sgombrando lo spazio intorno a lui. Dill depose entrambi i vascelli sulla strada parallela alla riva. I loro scafi toccarono terra con un rumore appena udibile, e si piegarono di lato sulle chiglie ricurve. Lui tornò indietro a cercarne altri. In quella confusione la gente che aveva abbandonato le case non sapeva cosa fare. Molti corsero ai moli e tentarono di salire sui pescherecci e sui barconi ormeggiati là, ma erano già sovraccarichi. La folla che sopravvenne dietro di loro spinse in acqua parecchi sfortunati. Altri si aggrapparono alle murate delle imbarcazioni che salpavano e furono issati a bordo dai loro passeggeri. L'aria era piena di grida disperate, sopra le quali risuonavano gli schianti della distruzione che si abbatteva sulle strade più all'interno. Rachel cercò di gridare istruzioni, ma non servì a niente, perché la gente in preda al panico la ignorava. Vide tre uomini di Oran che portavano un gruppetto di prostitute verso i moli più occidentali, poi una squadra della milizia arrivò di corsa e le bloccò la vista. Lei fermò uno dei soldati di passaggio e indicò i due vascelli sulla strada. «Mandate la vostra gente in quelle imbarcazioni. Il nostro arconita le riporterà nell'acqua non appena le vedrà cariche.» Il soldato restò a bocca aperta, poi si voltò a guardare i due vascelli e subito richiamò i suoi colleghi. Pochi minuti dopo tutti erano occupati a rimandare i civili sulla banchina. In breve tempo gli uomini di Testa di Ferro riempirono di gente tutte le imbarcazioni ancora nelle vicinanze della riva, e Dill le riportò nell'acqua 184
l'una dopo l'altra. I magazzini stavano ormai bruciando furiosamente, e nuvole di fumo piene di scintille infuocate roteavano sopra la testa di quanti erano ancora sulla riva. Rachel prese Mina per mano, la portò con sé al riparo di una grande gru di legno e lì entrambe si chinarono a respirare vicino al suolo, dove l'aria era più pulita. Tonfi e boati continuavano a provenire dalle strade più lontane dal porto, dove l'incendio non era ancora arrivato. L'intero paese era sotto una cappa di cenere vorticante, e in quella foschia Rachel vide muoversi enormi forme sulle cui membra di metallo e ossa aleggiavano bagliori verdi. Quasi tutti i soldati erano ormai saliti a bordo delle imbarcazioni, che Dill stava spingendo verso l'acqua più profonda. Ma Rachel non vide segno degli uomini andati ad affrontare gli arconiti di Menoa. All'improvviso si rese conto che la manovra diversiva di Testa di Ferro era fallita: i sei giganti non si erano spostati tutti su un lato o sull'altro dell'abitato. Avevano mantenuto lo schieramento e formavano un semicerchio intorno a Dill, a non più di duecento passi dalla riva del lago. Uno di loro disse: «Dill, re Menoa vuole negoziare una tregua. Le sue condizioni sono generose e non ti sarà chiesto di unirti alla nostra causa. Il Signore del Labirinto vuole soltanto evitare altri spargimenti di sangue, e impedire che tu resti ferito. È la tua stessa libertà di giudizio a renderti vulnerabile ai nostri attacchi. Re Menoa vuole parlare con te, se sei disposto ad ascoltare». Rachel cercò di gridare un avvertimento all'amico, ma la sua voce si perse nel frastuono. La forza e l'invincibilità di Dill derivavano dalla sua fede nel fatto che gli arconiti non potevano essere distrutti. Così come la Rotsward era indistruttibile grazie alla forza di volontà di Cospinol e di Anchor, così Dill la otteneva dalle sue stesse convinzioni. Tuttavia, a differenza degli altri arconiti, Dill manteneva la sua libera volontà. Dubitare della sua invulnerabilità lo avrebbe subito reso vulnerabile. Nel lago, Dill fece un passo verso la terraferma. Si chinò e spinse cautamente al largo una delle imbarcazioni più lente. Una piccola flotta di pescherecci, zatteroni e tozzi mercantili si stava dirigendo al largo. L'arconita di Menoa continuò: «A questa gente non sarà fatto del male. Guardati intorno: i guerrieri del re hanno forse attaccato chi cerca di fuggire? Hanno forse impedito questa evacuazione? Hanno forse usato la loro 185
influenza su Hasp? Il re desidera la pace, Dill. Lui chiede solo che tu lo ascolti». Diede un rapido sguardo alla costa, poi rialzò la testa. «Tutto sarà perdonato, Dill. Ogni motivo di discordia sarà risolto. Ripareremo perfino i difetti nella tua costruzione, consentendoti di funzionare senza la paura di danni e corrosione. Non abbiamo nessun desiderio di farvi del male.» Dill recuperò la grande scure da sotto La sega Rugginosa. La lama di metallo martellato era più larga di una delle imbarcazioni. Sulla sua scabra superficie balenavano i riflessi delle fiamme. Lui se la passò minacciosamente da una mano all'altra. «Osserva i segni su quella lama», disse l'arconita di Menoa. «Quell'arma manca della volontà di mantenere pura la sua forma, un difetto evidente anche in te, Dill. Se ci combatterai, sarai distrutto.» Rachel gli gridò: «Non ascoltarlo! Sta cercando di confonderti le idee. Tu hai già sconfitto uno di quei bastardi». Con la coda dell'occhio scorse un movimento: sei uomini di Testa di Ferro stavano aggirando di corsa l'angolo della Sega Rugginosa. Dietro di loro apparve anche il capitano. Erano insanguinati, malconci, esausti, e correvano come se avessero la morte alle calcagna. Quando furono più vicini il capitano vide le due donne, e rivolse loro gesti frenetici. Rachel si alzò, allarmata. «Che succede?» «... laggiù! Sta per scoppiare», gridò lui. «Ma cosa...» Ci fu un rumore secco, poi una serie di tremende esplosioni. Una catena di fiammate arancione eruppe nelle strade intorno agli arconiti di Menoa. Tonnellate di detriti schizzarono intorno investendo i colossi in armatura, che per qualche momento furono avviluppati in una fitta nuvola di polvere grigia. Poi una seconda serie di esplosioni squarciò il cielo. Il pesante polverone che si levò nell'aria ricoprì del tutto Acquardente. Lo spostamento d'aria colpì Rachel come un pugno in testa e un fischio assordante si diffuse nell'aria. Sbalordita e incredula, l'assassina vide due dei sei arconiti cadere all'indietro, agitando le braccia, sopra una distesa di case. Un terzo gigante si piegò di lato, andò a cozzare contro un compagno ed entrambi caddero. Il tonfo fece sobbalzare il suolo sotto i piedi di Rachel. Testa di Ferro venne a fermarsi accanto a lei e si aggiustò meglio il martello sulla schiena. «Polvere di carbone e salnitro. Purtroppo non c'era abbastanza zolfo, ma abbiamo usato tutto quello che c'era.» Una pioggia di polvere investì i capelli di Rachel, che dovette proteg186
gersi il viso con le mani. «E quando avete preparato questa cosa? Dev'essere occorso...» «Dopo aver sentito di Coreollis, abbiamo installato le mine di polvere nera come precauzione. Non eravamo particolarmente ansiosi di usarle, bada, anzi l'idea era di farlo solo se avessimo dovuto fuggire... Il tuo amico Dill le ha evitate perché è entrato in paese lungo la strada, senza schiacciare le case, altrimenti avremmo potuto usarle anche contro di lui.» Si voltò a guardare la devastazione e scosse il capo. «Non erano abbastanza potenti da fargli del male, però. Quei bastardi sono robusti.» Aveva ragione. Benché investiti dalle esplosioni, due arconiti erano rimasti in piedi, e i quattro caduti si stavano già rialzando. Le armature e le massicce scuri che impugnavano erano sporche di fango, ma per il resto apparivano intatti. Testa di Ferro si voltò e agitò le braccia. «Spindle! Vieni qui!» Sulla strada dei moli apparvero altri soldati, che abbandonarono le strade piene di fumo e corsero verso di loro. Erano coperti di polvere grigia da capo a piedi e, quando il capitano li contò, vide che neppure la metà degli uomini mandati a far esplodere le mine aveva fatto ritorno. Spindle era ancora più basso di Testa di Ferro e, mentre si spazzolava via la polvere di dosso, starnutì, semisoffocato. «Non c'era abbastanza zolfo, capitano.» «Ce ne andiamo, e più svelti possibile. Sapete cosa fare», disse lui. «Sissignore.» Spindle si voltò ad abbaiare ordini ai suoi uomini. I soldati delle squadre rimaste a terra corsero ai moli portandosi dietro i feriti, e saltarono a bordo delle scialuppe lasciate lì per loro. Una dozzina di altri corse a un mucchio di barili presso una delle gru e li fece rotolare lungo il molo di legno. Testa di Ferro si rivolse a Rachel e a Mina. «Possiamo chiedere al vostro amico di coprirci la ritirata?» Accennò col capo verso Dill, ancora in piedi nell'acqua bassa. «L'ascia che ha in mano sembra capace di fare qualche danno.» «Non hai bisogno di chiederlo.» Evidentemente Dill aveva visto che gli ultimi soldati non sarebbero riusciti a fuggire senza aiuto, perché venne avanti per intercettare il nemico. Passò con cautela tra le barche occupate dagli uomini e salì sulla strada dei moli, con un sonoro clangore metallico. Torrenti d'acqua sporca uscirono dalle sue articolazioni e invasero il selciato, mentre girava la testa per stu187
diare i sei avversari. «Bravo, ragazzo», mormorò Testa di Ferro, poi condusse Rachel e Mina verso una barca ormeggiata a un molo. La maggior parte delle altre, cariche di soldati, si stava già allontanando a forza di remi nelle acque torbide e fangose. I tre attraversarono la passerella gettata tra il molo e la barca. Il cane della taumaturga annusò una bitta del molo per l'ultima volta e zampettò dietro di loro. La voce del più vicino tra gli arconiti di Menoa risuonò ancora: «Tu capisci la follia del tuo comportamento, vero, Dill? Perché vuoi morire qui, in difesa di questo borgo senza importanza? Guarda quanta distruzione è già costata la lotta. Il paese è in fiamme, e noi sei siamo ancora intatti». Gli arconiti erano di nuovo tutti in piedi, immobili tra le fiamme e le nuvole di fumo. «Noi non abbiamo attaccato nessun essere umano, qui», continuò il gigante. «Ma tu continui a rifiutare il negoziato. Dobbiamo schiacciarti le ossa, o resterai tra noi per ascoltare la proposta di re Menoa?» Dill fece due enormi passi avanti e affondò la possente ascia nel collo dell'automa. La violenza del colpo fece cadere il massiccio automa in ginocchio. I suoi polpacci corazzati stritolarono i resti brucianti di due case. Dill gli sferrò una ginocchiata in faccia, mandandolo a fracassare i resti di altre case dietro di lui. Mentre cadeva con la schiena al suolo polverizzando ogni cosa col suo peso, l'arconita allargò un braccio e l'enorme accetta che anche lui impugnava decapitò un edificio e andò a colpire la caviglia sinistra dell'arconita più vicino, con un clangore tremendo. La gamba del colosso ne fu spostata bruscamente di lato e anche lui cadde. La polvere e il fumo nascondevano quasi del tutto la battaglia. In mezzo a quel tumulto Rachel vide grandi ali in movimento, ombre mostruose e macerie che volavano da una parte e dall'altra. Mentre gli uomini di Testa di Ferro lavoravano ai remi e la barca si allontanava nella nebbia, lei udì tonfi apocalittici, schianti e clangori metallici così violenti da lasciare senza fiato. «Non può batterli», mormorò Rachel. Testa di Ferro alzò lo sguardo dalla barra del timone. «Che vuoi dire?» «I guerrieri di Menoa non possono essere distrutti. Non hanno una mente propria, così sono incapaci di perdere la convinzione di essere indistruttibili. Ma Dill è diverso.» Si voltò a guardare. «Lui può fallire, se perde la fiducia in se stesso.» 188
«Come tutti i soldati. La fiducia è una buona armatura.» Il capitano grugnì. «L'acciaio pandemeriano è meglio, naturalmente, ma chi può permetterselo, eh?» *** Rachel sedeva su una panca scricchiolante tra due miliziani, con le mani strette intorno alle ginocchia. Il piano di Mina era andato in pezzi. Dill avrebbe dovuto attaccare l'ingresso del Paradiso per provocare Ayen, affinché la dea distruggesse tutti gli arconiti. Ora invece non avevano altra scelta che abbandonarlo lì, sperando che lui riuscisse a dar loro un vantaggio sufficiente a raggiungere il castello di Sabor. Per quanto tempo Dill avrebbe potuto continuare a combattere? La milizia cittadina s'impegnava al massimo coi remi, e la piccola flotta d'imbarcazioni a vapore si stava dirigendo verso le acque profonde, dov'erano in attesa chiatte cariche di carbone. A bordo di quei vascelli i fuochisti alimentavano le camere di combustione dei motori aerei con palate di combustibile, e le eliche montate sui ponti giravano sempre più rapide, man mano che la temperatura aumentava. Il fumo nero che usciva dalle ciminiere vorticava via sopra le teste delle donne e dei bambini che sedevano sui ponti o si aggrappavano al sartiame. In un silenzio dove si udiva solo il rumore del carbone smosso dai badili e il mormorio delle eliche, i profughi guardavano bruciare i resti delle loro case. Gli scafi sotto i loro piedi ondeggiavano lenti sull'acqua scura, nella scia delle pinne di raffreddamento delle chiatte. Ormai Rachel alle sue spalle non vedeva altro che la nebbia stregata di Mina. Le imbarcazioni galleggiavano in un mondo grigio che sembrava improvvisamente lontano dalla terraferma. Perfino i rumori della battaglia sulla riva del lago sembravano ovattati, come in un sogno. Quando le due flotte furono più vicine, navi e chiatte si affiancarono nelle fredde acque sotto un cielo avvelenato dal fumo di carbone. Gli equipaggi gettarono cime per unire le imbarcazioni cariche di gente alle lunghe zattere da carico. Gli uomini di Testa di Ferro aiutarono parte dei profughi a passare dagli affollati vascelli alle chiatte, e tra quelli Rachel vide Rosella e suo marito Abner. I boscaioli di Oran e le prostitute erano invece a bordo di alcuni pescherecci, e lei fu grata ai soldati per averli tenuti separati dagli altri. Senza quel sovraccarico i motori poterono lavorare alla massima spinta, e le imbarcazioni a carbone ripartirono. Sulla barca di Testa di Ferro i re189
matori chinarono la schiena e le seguirono. L'intera flotta proseguì a buona velocità attraverso il lago. Nell'aria ci fu un fruscio sempre più forte e un grosso oggetto li oltrepassò volando nella nebbia sopra di loro. Rachel lo udì piombare rumorosamente nel lago davanti alle loro prue. Anelli concentrici di onde uscirono dalla nebbia grigia e fecero ballare le imbarcazioni. Voci allarmate si levarono un po' da tutte le parti. «Cos'è stato?» «Sembrava un pezzo del molo.» «Avete visto qualcos'altro?» «Nient'altro.» Tornò il silenzio. Gli uomini fecero di nuovo forza sui remi. Proseguirono così a lungo tra i banchi di nebbia, a volte senza vedere nessuna delle imbarcazioni intorno alla loro, a volte circondati da vaghe sagome scure. Gli unici rumori erano il tambureggiare attutito dei motori, lo sciacquio dei remi e qualche saltuario tonfo di legno contro legno. Le lunghe corde che collegavano un'imbarcazione all'altra si tendevano e si allentavano. Infine i rumori della battaglia alle loro spalle non si udirono più. Poi un uomo gridò, con voce stranamente calma e indifferente: «Hericani... ehilà. Chi siete? Vi stiamo venendo dritti addosso». Rachel rialzò la fronte dalle ginocchia e rivolse a Testa di Ferro uno sguardo interrogativo. Il capitano scrollò le spalle, facendo oscillare il martello appeso dietro la schiena. «Pescatori che vivono sull'altra riva. Mi sorprende che siano venuti ad aiutarci. Questi hericani non hanno mai contatti con noi, a parte qualche occasionale scambio di merci.» «È gente amichevole?» «È gente pacifica, ma non è che corrano subito a scambiare quattro chiacchiere quando ci vedono. Salvo che non ci sia da discutere sul confine delle zone di pesca. E anche in queste occasioni...» In quel momento la voce dell'uomo che aveva gridato nella nebbia si fece risentire: «Capitano, qui c'è qualcosa di strano». «Cos'hai visto?» «Zattere.» Giusto allora anche Rachel le vide, dapprima una che sbucava dalla foschia, poi un'altra. Erano davvero zattere, semplici galleggianti fatti di tronchi legati. Non si vedeva nessuno a bordo, niente fuorché un calderone 190
fumante che ciascuna aveva fissato al centro. Dentro quei contenitori era stato acceso un fuoco a base di catrame, a giudicare dai venefici vapori neri che emetteva. Basilis fece udire un grugnito. Mina se lo strinse al petto e lo accarezzò. «Ce ne sono altre tre a babordo», disse la voce di un marinaio, dalla nebbia. «Anch'esse hanno i fuochi. E un paio ancora, a nord-ovest, se ci vedo bene.» «Una trappola?» domandò Rachel. Testa di Ferro si era accigliato. «Sembra più una diversione. Si può supporre che gli hericani stiano cercando di aiutarci con l'espediente di nasconderci ai nostri inseguitori.» Il suo cipiglio si accentuò. «Comunque, non è gente che può darci dei guai.» Il marinaio invisibile gridò: «Ehi! Voi laggiù! Fatevi vedere». Dopo una pausa disse ancora: «Capitano, c'è una donna. Sta venendo verso di noi». «A bordo di cosa?» «Una barca a remi.» Ci fu un silenzio interminabile, poi il marinaio alzò ancora la voce: «Capitano, questa vuole parlare con Rachel Hael». Con me? Rachel si raddrizzò sul sedile. Nessuno poteva sapere che lei si trovava lì. Socchiuse le palpebre cercando di distinguere qualcosa nella nebbia. C'erano soltanto forme vaghe. «Mandala qui», rispose Testa di Ferro. Attesero ancora un poco. Poi la voce del marinaio si fece sentire di nuovo, stavolta in tono più rilassato: «È una della famiglia della signora Hael, capitano». Testa di Ferro si voltò verso Rachel e fece un sogghigno. «Ho una confessione da farti, signora Hael. Questo me lo aspettavo. C'è qui tua sorella.» Rachel lo guardò senza capire. «Io non ho sorelle. I miei familiari sono morti tutti.» Agitò una mano, frustrata. «Non ho mai avuto una sorella, capitano. Non fidarti di questa donna. Lei non è chi dichiara di essere.» Il capitano ridacchiò. «Ho ragione di credere che sia esattamente chi dice di essere. La sua presenza qui è buon segno per tutti noi. Tu, signora Hael, stai per incontrare qualcuno che cammina nei labirinti del tempo.» Indicò più avanti. «Sta arrivando. Vedrai tu stessa.» L'imbrogliona che dichiarava di essere la sorella dell'assassina stava 191
usando un remo per allontanarsi dalla prima imbarcazione della fila. Spinse la barca in una zona aperta, cambiò rotta e venne verso di loro. China sul remo, aveva la faccia girata, ma la sua armatura di cuoio era stranamente simile a quella di Rachel. Dietro di lei tre zattere mandavano nella nebbia nuvole di fumo nero. Poco dopo la barca dell'imbrogliona toccò la prua della loro. Testa di Ferro si alzò, porgendole una mano, e l'aiutò a salire a bordo. La donna si voltò verso Rachel. Lei si sentì gelare il cuore. Trascorsero alcuni secondi in cui nessuno parlò. «Vedo che ti somiglia», disse Mina. Rachel non poteva rispondere. Stava guardando un viso che conosceva intimamente. La donna che aveva dichiarato di essere sua sorella avrebbe potuto essere la sua gemella. Era identica: intensi occhi verdi, stesso viso magro, stessi capelli biondi annodati in una treccia severa dietro la nuca. L'armatura di cuoio della Spina non era del tutto identica, ma a prima vista era indistinguibile da quella di Rachel. Sopra l'orecchio destro aveva la linea rossa di una ferita quasi guarita... proprio nel punto dove la pallottola di Abner le era passata attraverso il cuoio capelluto. Anche la mandibola della gemella presentava un livido, quello lasciato dal pugno di Hasp. «Avevi ragione su Sabor, Rachel», disse Mina. «È chiaro che sta facendo qualcosa col tempo. Questa donna sei tu... tornata qui dal futuro.» Rachel poté vedere una sola differenza tra sé e quella donna: l'altra aveva un'escoriazione in più, un piccolo livido giallastro sotto l'occhio sinistro. Quel segno era l'unica cosa che le differenziava; senza di esso nessuno sarebbe riuscito a distinguere l'una dall'altra. «Tu sei me? Una me futura?» domandò, incredula. La gemella strinse le palpebre. «Non direi. Io sono l'originale. Tu, sorellina, sei la versione passata di me. Passata da dieci ore, per essere precisa. Dieci ore fa io ero lì dove sei tu adesso, e dicevo esattamente la stessa cosa che stai per dire.» «Ma questo non può essere...» «Sì, questo è proprio ciò che ho detto io.» Rachel aveva i pensieri in subbuglio. «No... io non voglio... tu non puoi essere me. Tu sei un'imbrogliona, è un tranello. Il livido che hai sullo zigomo...» La gemella sbuffò. «Mi hanno detto che è necessario per aiutarmi a ca192
pire. Si chiama 'paradosso', ed è così che è successo.» E sferrò un pugno a Rachel, colpendola con forza sotto l'occhio sinistro.
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9 IL CASTELLO DEL DIO DEGLI OROLOGI
Le zattere erano state costruite con l'aiuto degli hericani, spiegò la Rachel gemella, allo scopo di distrarre e confondere gli arconiti. Quell'idea gliel'aveva data Testa di Ferro, con ciò che aveva detto quel giorno subito dopo l'avvistamento delle prime zattere. Non che lei fosse in grado di spiegare quel paradosso, comunque. «Il castello di Sabor piega la logica. Lui dice che consente a due versioni temporali diverse della stessa persona di esistere nello stesso momento.» Sospirò. «Io non lo capisco bene, ma lui dice che ha a che fare col collasso degli universi. Tra non molto potrai chiederlo direttamente a lui.» «Siamo davvero così vicini?» domandò Rachel. L'altra indicò verso sud. «Non è lontano dalla riva, sorellina.» Dalla nebbia era apparsa una spiaggia grigia e sassosa. Più all'interno c'era una boscaglia di pini, così fitta da sembrare impenetrabile, mentre nel tratto erboso tra la spiaggia e la foresta spuntavano ancora i mozziconi scheletriti di un'altra varietà di alberi - forse i resti di una foresta più antica - morti da tempo. Dopo un po' Rachel scorse un sentiero immerso nell'ombra, che divideva la foresta di pini come se fosse tagliata da un coltello. Gli uomini di Testa di Ferro tirarono all'asciutto le barche sulla riva, una distesa di ghiaia che consentì alle chiglie degli scafi di scivolare avanti senza troppi sforzi, e in breve tempo tutti i profughi sbarcarono. C'erano più di quaranta imbarcazioni di ogni forma, e le più pesanti ormeggiarono a contatto del basso fondale. Rosella e Abner rimasero nelle vicinanze del capitano, con le due Rachel e con Mina, invece Oran condusse subito in disparte i suoi boscaioli, con l'evidente intenzione di mantenere su di loro una certa autorità. La taumaturga depose il suo cane sulla spiaggia, quindi s'incamminò verso la Rachel gemella, che si era voltata a guardare il lago coperto di nebbia. In alcuni punti la visibilità era ancor più ostacolata dal fumo nero prodotto dalle zattere, che andavano alla deriva. «Non avresti dovuto colpirla», disse. «Lei se l'è voluto, Mina.» 194
«Cosa vuoi dire?» La gemella scrollò le spalle. «È stata una versione futura di lei a mettermi in questo guaio. O forse era una versione passata, non lo so. Cercare di districare questo paradosso mi ha fatto venire il mal di testa. Non ho neppure dormito. Ho trascorso le ultime dieci ore immersa nell'acqua gelida di questo lago fino alle ginocchia, per legare i tronchi delle zattere con l'aiuto di quegli hericani.» Sbuffò. «Costruirle è stato una dannata fatica... e a cos'è servito? Hai forse visto degli arconiti all'inseguimento delle barche? Loro stanno ancora lottando sull'altra riva del lago. Tutti sforzi sprecati, e per colpa sua. O di un'altra versione di lei, altrettanto colpevole. Non c'era nessuna ragione perché io dovessi tornare qui a fare questo lavoro.» Guardò Mina e fece una smorfia. «Mi dispiace di averla colpita. Ero irritata con me stessa, suppongo. Ora tu dirai che questo livido me lo sono fatta da sola.» «Be', tu sei lei dieci ore dopo», disse Mina. «È lei a essere me dieci ore prima. Io sono la vera Rachel... quella definitiva. Mi sono separata da te meno di mezza giornata fa... o mi separerò. Dèi, c'è da confondersi. E ora tu mi guardi come se fossi una sconosciuta.» «Entrambe siete la stessa persona.» L'assassina scosse il capo, frustrata. «Non mi piace l'idea che ci siano due me. Mi dà i brividi. E lei ha un lavoro da fare. A quanto pare dovrà tornare nel passato e rompersi la schiena con tutto il lavoro che io ho appena fatto, e poi diventerà me.» Strinse i denti. «Almeno, credo... Vedi quanto è folle la situazione? Avrei dovuto ignorare del tutto Sabor.» «Io sono ansiosa di vedere questo suo castello.» «Non è quello che credi. Ti lascerà sorpresa e delusa... questo lo ricordo abbastanza bene. Il viaggio nel tempo è un lavoro più duro di quello che si può pensare, perché richiede che si cammini molto.» Sospirò, frustrata, e si voltò verso il terreno in salita. «Andiamo, il castello è da quella parte.» Si voltò per gettare uno sguardo su Rachel. «E non chiedermi come ho fatto io a trovare quel posto. Ho semplicemente seguito me stessa, dopo che quella me stessa mi aveva ammaccato uno zigomo... e questo non ha nessun senso. Paradossi! Solo a pensarci diventi matta. Lasciamo che sia il dio degli orologi a spiegare di nuovo tutto!» Mina fece per parlare, ma la Rachel gemella alzò una mano e, senza neppure guardarla, disse: «Sabor spiegherà anche questo, Mina. Possiamo tornare indietro nel tempo, ma ci sono altri problemi, come vedrai». 195
Rachel raggiunse la taumaturga mentre il gruppo saliva il pendio sassoso dietro la spiaggia. «Di cosa stavate parlando?» «Stavo per chiederti perché Sabor o un suo agente non poteva viaggiare indietro nel tempo e prevenire la battaglia di Coreollis. Se avessimo messo fine al massacro, il portale non avrebbe mai potuto aprirsi. E gli arconiti del re sarebbero ancora all'Inferno.» Rachel scosse il capo, confusa. Quella logica era del tutto insondabile per lei, e cominciava a capire l'umore fosco della futura se stessa. Ma lei avrebbe dovuto davvero tornare a confrontarsi con una se stessa passata? E se avesse deciso di non farlo? I profughi di Acquardente s'incamminarono in fila lungo il sottile sentiero. La boscaglia che li chiudeva su entrambi i lati era impenetrabile, e così silenziosa da sembrare priva di vita. Il percorso era in continua salita, costellato di macigni corrosi dal tempo. L'aria diventò più fredda, un'aria di montagna dall'odore di pioggia. Rosella e Abner Hill si tenevano vicini alla milizia di Testa di Ferro, mentre la gente di Oran seguiva a una certa distanza. I boscaioli si limitavano a borbottare sottovoce, ma le loro prostitute si lamentavano per le scomodità del viaggio. Nonostante la stretta parentela tra Testa di Ferro e Oran, i loro rispettivi gruppi non si parlavano e non avevano nessun contatto. Anche la gemella temporale di Rachel teneva la testa bassa e la bocca chiusa. Appena un quarto di lega più avanti, la foresta finì e il sentiero giunse su un'altra spiaggia, di aspetto quasi uguale a quella che si erano lasciati alle spalle. A quanto sembrava avevano attraversato una stretta penisola, dietro la quale c'era un piccolo golfo. L'acqua era liscia come uno specchio, e lì il Lago dei Fiori formava un porto naturale. Alcune imbarcazioni metalliche erano state tirate in secco sulla riva ghiaiosa dai riflessi argentei, oltre la quale sorgeva un insieme di case e capannoni di legno dall'aspetto semplice. Gli hericani li aspettavano lì, fuori del loro piccolo borgo. Erano gente di bassa statura e dall'aspetto duro, con facce arrossate dal vento, non dissimili dai loro vicini di Acquardente. Dovevano essere stati molto occupati ad abbattere e tagliare alberi, vista la quantità di rami e altri residui ammucchiati sulla riva. Testa di Ferro strinse la mano al loro capo. «Apprezzo il lavoro che avete fatto con quelle zattere, Kevin.» L'altro annuì con aria schiva. «La signora ha promesso che Sabor ci 196
avrebbe pagati. Lo stesso peso in rame di tutto il ferro che abbiamo usato per quei bruciatori. In tutto il villaggio non ci è rimasta nemmeno una pentola d'olio e abbiamo ancora milleseicento staia di pesci-candela da mettere in barile, prima che vadano a male. Così dovresti chiedere a tuo fratello Eli di ricordare al nobile Sabor quali hericani in quale linea temporale lui deve pagare, e di sistemare i suoi paradossi. Questa è una scusa che cominciamo a sentire troppo spesso.» «Parlerò io stesso a Eli. Hai la mia parola.» L'altro uomo annuì. Testa di Ferro guardò gli altri paesani e il piccolo assembramento di case alle loro spalle. «Avete un piano per evitare quegli arconiti? È probabile che finiscano per venire da questa parte.» Kevin sbadigliò. «Ci nasconderemo nella foresta, suppongo. Cosa dovrebbero venire a fare qui? Conquistare Molo Kevin per la gloria dell'Inferno?» «Ti capisco. Vi lasceremo in pace, allora.» Kevin sbadigliò ancora. «Ci nasconderemo nella foresta, suppongo. Cosa dovrebbero venire a fare qui? Conquistare Molo Kevin per la gloria dell'Inferno?» Testa di Ferro lo guardò, accigliato. «D'accordo, Kevin. Vi lasceremo in pace.» Rachel e Mina si scambiarono uno sguardo. Mina le sussurrò all'orecchio: «I viaggi nel tempo devono avere delle conseguenze. Probabilmente Sabor ha sconquassato questa zona dell'universo». «Grande.» Mina si piegò di nuovo a sussurrarle all'orecchio: «I viaggi nel tempo devono avere delle conseguenze...» «Mina!» La taumaturga sorrise. «Scusa. Non ho potuto resistere.» La gemella di Rachel guidò il gruppo attraverso il villaggio. Molo Kevin era un minuscolo insediamento le cui case, dai tetti di ardesia, erano in tronchi impermeabilizzati con l'olio di pesce. Tutto puzzava di quella sostanza. Il sentiero girava intorno alla stretta baia e poi si arrampicava su un promontorio. Prima di uscire dal villaggio, Rachel sentì due voci note alle sue spalle e voltandosi vide Rosella e suo marito Abner. «Noi due preferiamo restare qui», dichiarò la moglie del locandiere. «Gli hericani sono d'accordo. Ci nasconderemo con loro, se gli arconiti 197
verranno.» Scuro in viso, Abner non aggiunse nulla. «Mi spiace per tutto quello che è successo», disse Rachel. «Non avremmo mai dovuto coinvolgervi.» «No, non avreste dovuto», disse Rosella. «Sarebbe stato meglio se non aveste mai bussato alla nostra porta.» Esitò. «Abbiamo perso tutto. Il lavoro che ci dava da vivere, la nostra casa... perfino i risparmi che avevamo seppellito fuori della Sega Rugginosa.» Rachel non seppe cosa dire. «Abner pensa che forse... forse voi ci dovreste risarcire. Voi avete tutto quell'oro, dopotutto.» L'assassina sospirò. «Le monete sono rimaste nella bocca di Dill. Mi spiace, Rosella. Non abbiamo niente da darvi.» «Niente?» Rachel scosse il capo. La coppia si voltò e fece ritorno tra gli hericani. «Ehi, non lascerai che questo ti faccia cadere in depressione, eh?» Mina stava accarezzando Basilis con una mano vitrea. «Non ti ho mai vista così giù di morale. La guerra è così, Rachel. Certe cose succedono... E poi, scusa, quella tipa non ti ha aggredito con un'accetta? Quand'è stato, prima o dopo che suo marito ti sparasse in faccia?» «Stavano solo difendendo le loro proprietà.» «E tu esercitavi il tuo diritto di sequestrare le loro proprietà.» «Il mio 'diritto'?» «Per realizzare la grande visione di libertà di Cospinol, dio della salsedine e della nebbia. È stato lui stesso a darti quel diritto.» Rachel si sentì ancor più depressa. «E cosa dà tanta autorità a questo dio?» disse, aspramente. «Lui è più grande di noi, così può schiacciare i semplici mortali sotto le sue nobili scarpe. Ora rilassati. Questo è il lato positivo della guerra. L'assoluta obbedienza a un capo assolve il soldato dalle conseguenze delle sue azioni. Dimentica i sensi di colpa, Rachel. Ti aiuterà a dormire meglio la notte.» «Smettila. Tu stai dicendo che la verità può essere rivoltata come una frittella quando ci fa comodo. Sono stata io a decidere, non Cospinol. Io ho fottuto le cose, e di conseguenza ho rovinato la vita di quella donna. Sapere che siamo in guerra non mi aiuta.» 198
Basilis abbaiò all'improvviso. Mina guardò il cane e poi sorrise. «Lui pensa che tu sei un'infida assassina della Spina, ma una brava soldatessa. Non dimenticare che gli assassini della Spina di Deepgate creati tramite torture chimiche sono pesantemente limitati. Questi assassini non possono più sviluppare i loro talenti personali, dopo che la Spina ha finito di violentargli il cervello. Ma tu puoi. Pensa alla guerra come un procedimento simile alla tempra della Spina. Puoi lasciare che ti spezzi, oppure che ti faccia cambiare.» Grattò il cane tra le orecchie. «Lui è contento che tu non abbia fatto una brutta fine sotto gli aghi della Spina.» «Cosa vuoi che ne sappia lui? È soltanto un cane.» Rachel allungò il passo, lasciando indietro la taumaturga. Irritata e depressa, ciò che voleva era essere lasciata in pace. Le parole di Rosella le avevano gettato un'ombra sul cuore. Aveva parlato poche volte con lei, non sapeva neppure che genere di persona fosse, e fino a quel momento non glien'era importato niente. In quanto al marito, si erano mai rivolti la parola? La comparsa di Oran davanti a lei interruppe i suoi pensieri. Con lui c'era una decina dei suoi uomini. Era stata così distratta che non aveva notato il loro arrivo. «Tu ci devi dare le nostre paghe», disse il capo dei boscaioli in un sussurro rabbioso. «È il prezzo del sangue per i due che hai ucciso.» Rachel guardò indietro lungo il sentiero. Testa di Ferro e la sua gente stavano lasciando solo allora Molo Kevin e nessuno di loro si era accorto di quel confronto. «Le vostre paghe sono nella bocca di Dill. Andate a prendervele, se le volete.» Gli occhi dell'uomo si accesero di rabbia. «Guardatela. Le tremano ancora le gambe. Ora è troppo debole per fare un altro colpo di mano come quello nella locanda.» E fece per afferrarla. Rachel lo evitò senza sforzo e indietreggiò, mentre la sua malinconia si trasformava in furia. Oran e i suoi uomini si allargarono per circondarla, ma lei non aveva nessuna intenzione di lasciarsi intrappolare. Era all'erta, adesso, pronta per ogni mossa che loro avrebbero potuto fare. Una mano le toccò una spalla, facendola trasalire. Non aveva visto nessuno accostarsi dietro di lei. Si voltò... ... e i suoi occhi incontrarono quelli della gemella. 199
L'altra Rachel disse: «Le mie gambe non stanno tremando, Oran. Porta via i tuoi uomini. Tu hai visto cos'ho fatto nella Sega Rugginosa. Ora immagina cosa potrebbero fare due di noi qui e adesso». I boscaioli si fermarono, scambiandosi occhiate fosche. Oran stava per dire qualcosa, ma fu preceduto da un grido dietro di loro: «Che succede lì, fratello?» Testa di Ferro si stava avvicinando in fretta. «Non vorrai attaccare briga con delle donne, eh?» Rise. «Non è così che si comporta l'uomo che conosco.» «Bada agli affari tuoi, Reed», ringhiò Oran al capitano di Acquardente. «Due dei miei uomini sono morti per difendere l'onore del nobile Rys.» «L'onore di Rys?» replicò Testa di Ferro, sprezzante. «E da quando il dio dei fiori e dei coltelli ti ha nominato suo difensore? Mi sono forse perso la tua comparsa alla sua corte?» «Era uno scontro leale, finché lei non si è messa di mezzo.» Il capitano grugnì. «Ho sentito parlare del tuo ultimo scontro leale. Una famiglia sulla strada di Deepcut, eh? Avete frustato un ragazzo di diciassette anni e il suo vecchio nonno.» «Cacciatori di frodo. Il nobile Rys ci ha incaricato di far rispettare la legge nella sua foresta. Questa è la sua terra, e il bestiame e la cacciagione sono suoi... non tuoi, Reed. Chi lo deruba merita quello che gli capita.» Testa di Ferro era stato raggiunto dal suo gruppo. Nessuno di loro aveva ancora impugnato un'arma. «Sì, mi hanno già parlato di questo. Ma sentiamo un po', Oran, quanti passerotti avevano rubato a Rys quel ragazzo e suo nonno?» La cicatrice sulla fronte di Oran s'imporporò. Girò su se stesso, fece un gesto rabbioso ai suoi uomini e si allontanò con loro nella boscaglia. Testa di Ferro si volse alle due Rachel. «State alla larga da lui. Vi pianterà un coltello nella schiena non appena ne avrà la possibilità.» La Rachel gemella disse: «Noi siamo già arrivati al castello di Sabor senza danni, Testa di Ferro. Non l'ho dimenticato». Il capitano scosse il capo. «Non contarci, signora Hael. Questo può essere il passato che tu ricordi, ma può anche non esserlo. Negli ultimi tempi abbiamo visto un sacco di... cose insolite. Da queste parti la storia ha l'abitudine di cambiare quando meno te l'aspetti.» La Rachel gemella si limitò a grugnire e riprese il cammino. Più avanti il percorso saliva. Sgranato in una lunga fila, il gruppo seguì il sentiero su 200
per il versante di un'altura finché la foresta non lasciò il posto a un territorio cespuglioso cosparso di macigni. A disagio per la presenza della sua futura se stessa, Rachel rallentò il passo, lasciando che la gemella andasse avanti insieme con Testa di Ferro. Qualcosa in quella donna la innervosiva. Forse erano gli sguardi che si scambiavano, o forse la terribile intimità e comprensione che vedeva negli occhi della gemella, come se in ogni momento ciascuna conoscesse i pensieri dell'altra con assoluta certezza. Era come se le loro anime si toccassero in modo proibito. Due anime, oppure una sola? Rachel non volle pensare agli aspetti metafisici della situazione. Era abbastanza sapere che l'altra donna provava un disagio simile. Entrambe sentivano di essere la vera Rachel Hael, la sola Rachel Hael, e nessuna delle due tollerava che l'altra inquinasse quella certezza con l'ombra del dubbio. Mentre si voltava a cercare Mina, un raggio di sole illuminò il terreno alla sua sinistra e per un momento i licheni gialli presero vita sulle rocce grigie. Alzò lo sguardo e vide il sole in tutta la sua gloria. La nebbia che li aveva seguiti fin lì da Coreollis si era finalmente dissipata. Mina stava risalendo a fatica lungo il sentiero, più in basso. La sua figura incappucciata si muoveva lenta, fermandosi a riposare ogni pochi passi, mentre Basilis correva avanti tra le rocce e poi si voltava ad aspettare che lei lo raggiungesse. Da quell'altezza Rachel poteva vedere una vasta distesa d'acqua argentea e la curva della baia in fondo alla quale sorgeva Molo Kevin. La nebbia si era ritirata da buona parte del Lago dei Fiori e formava banchi in lontananza, mista al fumo nero e ocra che continuava a levarsi dalle zattere degli hericani. Il vento e la corrente avevano portato quei rozzi natanti molto più a est. Lei guardò verso la riva opposta in cerca di Acquardente, nella speranza di scorgere Dill, ma quella zona era ancora immersa in una fitta nebbia. Su di loro invece il cielo si stava schiarendo rapidamente. La luce calda del sole brillava sulla foresta e sulle spiagge sassose del lago. Gli uccelli cinguettavano e fischiavano tra gli alberi. Era la prima volta da molto tempo, rifletté Rachel, che lei vedeva i veri colori del territorio. Non c'era segno di Oran e dei suoi uomini, così sedette su un sasso e aspettò l'arrivo di Mina. «Se non altro è una bella giornata», disse la taumaturga quando la raggiunse. «Avevo quasi dimenticato cos'è il sole.» Si fermò, con una mano 201
appoggiata a una roccia, e riprese fiato. «C'era un limite alla mia capacità di mantenere la nebbia, e credo di averlo raggiunto.» «Hai fatto un ottimo lavoro. Siamo quasi arrivati», rispose Rachel. Mina accennò col capo alle nuvole di fumo che si alzavano dal lago. «Quelle zattere non potranno distrarre gli arconiti ancora a lungo. Ci metteranno poco a capire cosa sono.» «Non sono mai servite a distrarli. Tutta quella fatica per costruirle è stata una perdita di tempo. Non hanno facilitato la nostra fuga e non aiuteranno neppure Dill. Lei avrebbe dovuto attraversare il lago e avvertire Testa di Ferro del nostro prossimo arrivo. Se non avessimo perso tanto tempo ad Acquardente, saremmo già al castello di Sabor. E Dill e Hasp sarebbero al sicuro.» «Non lo so. Non è meglio evitare di alterare i fatti accaduti, finché possibile? La nostra situazione attuale potrebbe peggiorare.» Mina guardò la foschia che chiudeva l'orizzonte. «Io credo che tu faresti meglio a ripetere esattamente ciò che lei ha fatto, quando per te sarà il momento di tornare giù. Arruola gli hericani, costruisci quelle zattere...» - sorrise - «e non dimenticare di darti un pugno in faccia.» «Non farò niente di tutto questo», disse Rachel. «Se arriveremo sani e salvi al castello, resterò là finché non troveremo il modo di raggiungere il Paradiso. Abbiamo un lavoro da fare. Perché dovrei preoccuparmi di tornare indietro?» «Tu sei tornata indietro. In questo momento tu sei cento passi più avanti di qui, su questo sentiero.» «Lei non è me.» «Mi spiace contraddirti, Rachel, ma lei è assolutamente te.» L'assassina sbuffò. «Be', allora lei può tornare indietro nel tempo una seconda volta. Non vedo perché dovrei farlo io.» Mina le sorrise con aria comprensiva. «Forse lo farai, quando sarà il momento.» Oltre la sommità del promontorio il sentiero serpeggiava giù in una stretta valle, e più avanti ricominciava a salire. Per un'altra ora s'inerpicarono attraverso una fitta boscaglia di pini secolari, che spesso si allargava in vaste radure pavimentate con aghi di pino marroncini. Lì apparvero degli scalini scavati nella roccia, e il percorso si trasformò in una lunga rampa tra gli alberi sempre più radi. Rachel non trovava la salita particolarmente faticosa, ma Mina era molto provata, e accettò il suo braccio con gratitudine. 202
Benché il sole splendesse in tutto il suo fulgore, l'aria si era fatta più fredda. Alla fine superarono un'ultima cresta e furono investiti da un forte vento gelido. Lì la vegetazione arborea spariva del tutto, e prendeva inizio un piccolo altopiano di roccia vulcanica, un territorio frastagliato da cui emergevano spuntoni di roccia nera o vetrificata, su cui sembrava essersi abbattuto un terribile cataclisma. Mucchi di ossidiana sbriciolata luccicavano in tutte le cavità. E lì, sulla cima di un'altura dirupata al centro di quel pianoro lunare, sorgeva il castello del dio degli orologi. Era diverso da qualsiasi fortezza Rachel avesse mai visto: un caos di blocchi interconnessi, torri squadrate e sfere che si estendevano anche ai lati delle massicce fondamenta di roccia. Quelle bizzarre estrusioni sembravano edifici di qualche genere, ma sporgenti dalla massa principale a un'angolazione tale che l'insieme dava l'impressione di un bizzarro albero geometrico. Il castello era costruito con blocchi dell'ossidiana locale sparsa su tutto l'altipiano, con larghe cinturazioni e infissi metallici, e migliaia di lucide finestrelle di vetro a forma di losanga. Le sue dimensioni erano mostruose, e inoltre i limiti precisi risultavano difficili da definire, perché intorno a esso l'aria scintillava o vibrava di forme nebulose, come se la bufera di vento che ululava intorno a quelle strutture piegasse la luce stessa. Mentre cercava di mettere a fuoco con lo sguardo le varie parti del grande castello nero, che si sfocavano fin quasi a svanire per poi tornare nitide, Rachel sentì un brivido nella schiena. A tratti sembrava molto più grande e imponente di qualche momento prima, poi senza preavviso si riduceva a proporzioni assai più convenzionali. Intere torri e facciate esistevano e quindi cessavano di esistere. Improvvise strutture rosse, rosa o viola tremolavano intorno ai suoi angoli esterni. Il castello si contraeva, e subito dopo estrudeva forme massicce nel più assoluto silenzio. Nel complesso torreggiava dinanzi agli occhi umani, vaporoso e incerto come un miraggio, per nulla gradevole allo sguardo. La Rachel provvisoriamente fuori tempo fece una smorfia e si massaggiò lo stomaco, poi accelerò il passo verso un ingresso ad arco sulla parte anteriore del castello. Ma Rachel esitava a seguirla. Con tutti quei colori e riflessi che abbacinavano lo sguardo, la grande costruzione emanava un'aura che la metteva profondamente a disagio. Le sue impossibili facciate le davano le vertigini, e lo scintillio di quei riflessi baluginanti le irritava gli occhi. Perfino la sua 203
pelle reagiva con un senso di gelo come a contatto di un liquido etereo. L'aria aveva un odore innaturale, stranamente vetroso, come se fosse priva di un elemento la cui assenza le faceva dolere i polmoni. Anche i suoi sensi avevano qualcosa d'insolito, quasi che i nervi non convogliassero più le percezioni giuste. Incapace di osservare più a lungo quella rutilante fortezza, distolse lo sguardo. «Il disagio scompare quando sei dentro», disse Testa di Ferro. «Probabilmente lo senti più di noi per via della presenza di un'altra te stessa.» «Cosa origina questo effetto?» «I motori del castello piegano lo spazio circostante. Esso esiste simultaneamente in diverse tasche temporali, come a dire che l'edificio dovrebbe essere qui e altrove nello spazio, cosa che non può essere permessa. Sabor ha bisogno di un'energia enorme per tenerlo radicato a questa montagna.» L'uomo le accennò di muoversi. «Coraggio, signora Hael. Andiamo dentro.» I motori del castello? Rachel gettò un altro sguardo alle deliranti facciate dell'edificio. Quelle che avrebbero dovuto essere solide pietre ondeggiavano come migliaia di bandiere scosse dal vento, una selva di colori che si contraeva ed espandeva a tal punto da confondersi con le vette delle montagne circostanti. Il dio degli orologi che abitava là dentro si aspettava che lei entrasse nel suo regno e, con qualche trucco temporale, andasse indietro nel tempo di dieci ore per incontrare se stessa. E poi? Avrebbe dovuto costringere un'altra Rachel a tornare di nuovo lì? Per viaggiare ancora all'indietro di quelle stesse dieci ore? A rischio che una parte della sua anima restasse intrappolata nel circolo vizioso delle manipolazioni di Sabor? Rachel si sentiva girare la testa con le conseguenze delle conseguenze. Era irritata, stanca, e non stava affatto bene. Deglutì e seguì Testa di Ferro dentro l'enorme edificio. *** Il Fiume dei Difettosi rifiutava di lasciarsi vincere, ma lo rifiutava anche Carnival, che si trascinava dietro le ali nell'acqua sanguigna e usava la spada per abbattere tutto ciò che dal fiume si alzava ad attaccarla. Gli avversari non finivano mai. Venivano avanti a ondate, senza posa, migliaia e migliaia: simulacri de204
gli impiccati di Cospinol, guerrieri di continenti sconosciuti ed epoche passate, giganti vermigli, angeli fatti a sua immagine, strane forme bestiali partorite dalla fantasia del fiume. Stridevano e ululavano. La sfidavano e la insultavano. La colpivano con artigli e denti, e armi sanguigne fatte di quel liquido denso cristallizzato. Lei avrebbe dovuto alzarsi in volo sopra quelle schiere e aprirsi la strada per tornare all'Inferno. Ma non voleva farlo. Restava nel fiume perché la mattanza era lì, e non c'era altro modo di saziare la sua rabbia famelica. Combatteva senza stancarsi, senza sapere se danneggiava il fiume e senza che la cosa le importasse, perché tutto ciò che lei colpiva moriva urlando, per poi rialzarsi ad aggredirla in un'altra forma. Loro erano astuti e veloci, ma Carnival era ancor più veloce e molto più maligna. Uccideva con la terribile efficacia di chi sopravvive uccidendo da epoche immemorabili. Tuttavia il loro numero era immenso, e talvolta quelle lame acquose le colpivano la carne. L'angelo sfregiato era più che abituato a quel dolore, e restituiva decuplicate le ferite ricevute. Lottava soltanto per l'amore della battaglia, senza nessun motivo fuorché il disperato e insaziabile bisogno di colpire il mondo intorno a lei. La fredda rabbia rendeva salda la sua mano, ma non aveva in mente nessuno scopo finale. Nella morsa della mischia si spostava ovunque la corrente del fiume la spingesse, uccidendo tutto ciò che incontrava sul suo cammino. Sopra di lei incombeva l'Inferno, un cielo di mattoni, ferro e vetro, e da migliaia di finestre i dannati la guardavano passare sotto di loro. Lei li vedeva sussultare e stupirsi, ma per loro non provava niente. Quei maledetti idioti non erano fatti suoi. Da quanto tempo combatteva non avrebbe saputo dirlo. Le sembravano molti giorni, benché lì non esistesse il giorno. Il fiume era infinito, le creature nate da esso erano troppe per essere contate. Era un esercito senza limiti, come senza limiti era l'angelo che vi camminava in mezzo. Ma la spada demoniaca cominciò a cedere. Un lungo gemito scaturì dall'arma. Il mutaforma era stanco, la lama stava perdendo il filo. Carnival mise più forza in ogni colpo che sferrava. Non fece domande alla spada né le chiese più impegno; si limitò a battersi più duramente. La sua rabbia compensava l'indebolirsi della creatura mesmerista. E le rosse figure caddero in numero ancor maggiore di prima. Lei si nutrì delle loro urla mentre le faceva a pezzi. 205
Dopo qualche tempo notò un cambiamento nei suoi avversari. Ora la grande maggioranza di loro aveva assunto una forma alata. Lo facevano per deriderla? L'angelo sfregiato non conosceva le motivazioni del fiume, né le importavano. La sua brutalità superava ogni violenza che quelle cose scarlatte potessero infliggere, e le usava come il necessario bersaglio su cui scaricare la sua fame di distruzione. Giunse il momento in cui la spada perse completamente il filo. Il mutaforma aveva raggiunto i suoi limiti, e non riusciva più a mantenere la lama abbastanza tagliente da squarciare la carne. Nella stretta delle sue dita l'impugnatura metallica gemeva. In mano a un mortale una spada così ridotta avrebbe al massimo spezzato le ossa. Carnival non fece altro che mettere maggior forza nei suoi colpi. La spada gridò di dolore, ma lei la ignorò. Un milione di nemici aspettava ancora di essere macellato. Pian piano gli attacchi contro di lei persero intensità. I suoi avversari alati esitavano. Spesso indietreggiavano del tutto, riluttanti a incontrare la sua spada. Carnival ribollì di furia rinnovata, e si gettò in mezzo a loro. Se non volevano più portare la battaglia a lei, sarebbe stata lei a portarla a loro. Colpì e falciò e abbatté, facendo schizzare altro sangue. Trascinò avanti le ali nella corrente sempre più debole e continuò ad avanzare, ora con una smorfia di disperata delusione nel vedere la riluttanza dei nemici. Li aggredì per provocarli, ed essi collassarono nell'acqua sanguigna. Si voltò per gettarsi contro nuovi avversari, ma anche gli altri si erano sciolti nel nulla. «Battetevi con me», gridò. Ma loro non vollero. Le migliaia di figure intorno a lei erano tornate al fiume. Le acque si ritirarono, calando di livello intorno alle sue caviglie mentre defluivano nei canali circostanti. Di lì a poco Carnival era sola, in piedi sul fondale fangoso. «Combattete», insisté. Ma il Fiume dei Difettosi l'aveva rifiutata. Sentì la spada tremare. Con un sospiro l'arma demoniaca le scivolò via tra le dita e il mutaforma riassunse il suo aspetto umano. Era tornato a essere un ragazzo. Si accovacciò ai suoi piedi, incapace di tenersi eretto. Sembrava privo di ossatura, sul punto di svenire, e puntò le mani nella melma rossa del suolo per non afflosciarsi del tutto. Guardò Carnival. «Ti stava mettendo alla prova», disse. Lei lo guardò in silenzio. 206
«Perché credi che abbia continuato a combattere? Il fiume non può essere distrutto. Non gli si può neppure far male. Ti stava solo mettendo alla prova.» «Perché?» Il mutaforma scrollò le spalle, che si mossero in strane direzioni. «Cospinol ha detto che il fiume era un bambino. L'ho sentito io stesso. Ha detto che non sa cos'è, e sta ancora imparando cosa può diventare. Credo che sia per questo che dava forma a tutti quegli angeli. Cercava di copiare te.» Carnival volse lo sguardo su quel reame sotterraneo. A venti passi da lì l'acqua rossa fluiva tutto intorno, ma non si avvicinava. Isolata in quella depressione vuota, lei aveva l'impressione che il fiume stesse aspettando qualcosa. «Sono stanco. Voglio andare a casa.» Il ragazzo si distese al suolo e sospirò. L'angelo sfregiato fece un grugnito. Il suo cuore continuava a battere forte, e le cicatrici si contraevano e le prudevano. Il combattimento col fiume non le era bastato, aveva ancora voglia di lottare. Abbassò gli occhi scuri sul ragazzo demoniaco e un improvviso nodo di rabbia s'indurì nelle sue viscere. Le occorse uno sforzo di volontà per trattenere l'impulso di squarciargli la gola. Aveva disperatamente bisogno di una lama. Per fortuna il mutaforma non aveva notato la sua furia. Stava guardando in alto, a occhi spalancati, e il suo volto era impallidito. «No, no, no. Non qui», disse. Carnival alzò lo sguardo. Il cielo sopra di loro sembrava diverso. Invece del solito miscuglio di mattoni e ferro, una serie di tubature metalliche nere saliva da lì al Labirinto. La muratura intorno ai tubi era liscia e uniforme, evidentemente frutto di una progettazione precisa invece che del caotico istinto d'innumerevoli anime. Quella cosa era ordinata, come le fondamenta di una costruzione singola. «Non qui», gemette il ragazzo. «Io non voglio tornare indietro... non voglio!» «Che cos'è?» «La Nona Cittadella», pianse lui. «È lì che mi hanno fatto!» 207
«Chi ti ha fatto? Cosa c'è lassù?» Con un singhiozzo il ragazzo si asciugò le lacrime. «Lassù c'è re Menoa. Il Signore del Labirinto e delle sue armate e degli Icarate.» Tirò su col naso. «Il fiume ti ha portata qui per farti incontrare suo padre.» *** Testa di Ferro fece entrare il gruppo in un atrio in pietra dall'alto soffitto, disse alla sua gente di aspettare lì e condusse Rachel e Mina oltre una massiccia porta di rame, nel cuore del castello del dio degli orologi. Qualunque cosa Rachel si fosse aspettata, non era niente di simile. Testa di Ferro appoggiò una spalla alla porta metallica che avevano oltrepassato e la chiuse con tonfo risonante. Gli echi diedero l'impressione di una sala immensa, ma Rachel riusciva a vedere ben poco in quell'oscurità, a parte un singolo raggio di luce che cadeva su un tavolo circolare, cinquanta passi più avanti. Da ogni direzione proveniva il rumore di orologi in funzione: il ticchettio degli ingranaggi, esili ciangottii metallici, e l'ottuso rintocco di campanelle d'ottone. Oltre quell'orchestra di suoni Rachel udiva un vago fruscio, come sabbia cadente. La sua gemella futura era già lì, accanto al dio degli orologi. Sabor aveva capelli grigi, ali grigie e vestiva una lunga cotta di maglia che gli dava un aspetto rigidamente autoritario. Fissava con espressione accigliata il tavolo che aveva davanti, e non alzò gli occhi neppure un istante mentre i nuovi venuti si avvicinavano. Poi si chinò ad armeggiare con qualche meccanismo che si trovava sotto il tavolo. Rachel udì un clunc. «Garstone», ordinò il dio, «per favore, rifocalizza le lenti numero seicento e numero ventitre sul livello novantadue. La Stanza Buttercup dovrebbe essere situata diciassette minuti fa, ma sembra che qualcosa abbia causato una distorsione. Hai pulito quella finestra di vetro, Garstone? Hai controllato i sigilli delle lenti temporali?» Dal buio sopra di loro gli rispose un bizzarro coro di voci. «Le finestre sono pulite, signore... un me stesso andrà subito a controllare i sigilli delle lenti... tuttavia temo che sia già troppo tardi... La Stanza Buttercup sta per terminare il suo ciclo attuale.» Gli invisibili assistenti avevano fatto udire le loro parole in completa armonia. Testa di Ferro cominciò: «I miei rispetti, nobile Sabor. Qui...» «Un momento, Reed, per favore», lo interruppe Sabor. Tirò fuori un li208
bro da sotto il tavolo, sfogliò in fretta le pagine e ordinò ancora, a voce alta: «Aspetta che la stanza completi il suo ciclo prima di cambiare i sigilli, Garstone. Deve scivolare indietro di nove settimane, tre giorni, dieci ore e...» - voltò pagina - «tre minuti. Sarà notte.» «Sì, signore», risposero le voci dall'alto. Sabor chiuse il libro e tornò a osservare il tavolo circolare. Mentre Rachel si avvicinava riuscì a vedere più chiaramente l'oggetto dell'attenzione del dio. Il tavolo era in effetti una bassa vasca di ceramica bianca, e sulla sua superficie si muovevano delle piccole figure. Il dio degli orologi stava studiando una parte di territorio: una veduta a volo di uccello di strade e case avvolte nel fumo. Una camera obscura? Rachel aveva sentito parlare di quelle attrezzature. Si diceva che una famiglia nobile di Deepgate avesse commissionato una obscura per spiare i dintorni durante la Notte dello Sfregio, col risultato di provocare un gran disordine quando aveva smesso di funzionare correttamente nelle ore di buio completo. L'apparecchio era composto da una serie di lenti e specchi sistemati su un alto edificio, e proiettava un'immagine della zona circostante giù in una camera oscurata. Sabor rialzò lo sguardo sui nuovi venuti. Vide Testa di Ferro e disse, rivolto a chi si trovava in alto: «Garstone, tuo fratello Reed è qui. Suppongo che voglia parlare con te». «Me ne sono accorto, signore. Un me stesso si occuperà di lui», risposero molte voci. «Non c'è bisogno, Eli, vedo che sei molto occupato», rispose Testa di Ferro. «Un me stesso ha sempre tempo per te, fratello», rispose il molteplice individuo. Ci fu una pausa, quindi una voce solitaria disse: «Vengo giù subito». Il capitano sogghignò. Rachel guardò dentro la depressione di ceramica. L'immagine proiettata era confusa e sfocata sui bordi, ma lei riconobbe all'istante la località. Acquardente. L'incendio stava divorando tutta la zona lungo la riva, da cui si levavano montagne di fumo nero. I quartieri più interni erano annebbiati da un polverone, ma si vedeva che erano completamente distrutti. Qua e là c'erano 209
altri piccoli focolai d'incendio. Tutte le case rimaste in piedi erano state scoperchiate, col piano superiore ingombro dei rottami del tetto e con le mura più o meno pericolanti. Mucchi di macerie ingombravano ogni strada. Ma non c'era segno di Dill, né degli altri giganteschi automi. Il paese era stato del tutto abbandonato. Rachel afferrò l'orlo del tavolo. «Dov'è Dill?» Sabor eseguì una modifica su qualche meccanismo nascosto sotto il tavolo. Rachel sentì girare degli ingranaggi. L'immagine proiettata ebbe una scossa improvvisa, poi cominciò a scorrere via rapidamente. Rachel riconobbe il profilo dei moli, poi la scena si spostò sul lago. Per alcuni battiti di cuore non si vide altro che acqua, e infine nell'inquadratura entrò l'immagine dell'altra sponda: la sponda hericana del Lago dei Fiori. Rachel si sentì mozzare il fiato. Un arconita si stava trascinando fuori dell'acqua e su per la riva boscosa. Il cuore di Rachel le gridò che quello non era Dill, che non poteva essere Dill, che doveva essere uno dei colossi di Menoa. Ma i suoi occhi le stavano dicendo che quella cosa sconquassata era proprio il suo amico. Le ali erano state strappate via insieme con una parte dell'armatura, lasciando esposta al cielo la spina dorsale. Le vertebre danneggiate penzolavano dietro la nuca come una catena rotta, tenute insieme in modo precario solo da un assortimento di tubature contorte. Una gamba gli mancava del tutto. L'altra terminava al ginocchio. Il braccio sinistro era stato schiacciato in tre punti e ciondolava miseramente nella melma dietro di lui. La mandibola non c'era più, e nel suo cranio si apriva uno squarcio dentro il quale si scorgevano macchinari e cristalli luccicanti. Il sangue chimico che colava dai motori del torace aveva annerito l'acqua. Ma era ancora vivo. Col braccio buono Dill spinse il suo corpo spezzato tra gli alberi, oltre la spiaggia. Diciassette minuti fa? L'immagine scomparve, lasciando soltanto la liscia superficie bianca. «Cosa succede? Fatemi vedere ancora!» esclamò Rachel. Sabor alzò la testa e chiamò, nel buio soprastante: «Garstone?» Il coro di voci rispose: «Come temevo, signore. Il ciclo della stanza è finito. Ora si sta ricaricando». Il dio degli orologi annuì. Guardò Rachel e la sua futura gemella. «Que210
sta particolare scena ha cessato di esistere.» «Ed è successa diciassette minuti fa? Ma questo significa che adesso Dill è laggiù. Dobbiamo tornare sul lago.» Rachel si voltò verso il capitano di Acquardente. «Testa di Ferro, ho bisogno del tuo aiuto.» «Aspetta», disse Sabor. Rachel si fermò. «Non c'è tempo», continuò Sabor. «La stanza che ti riporterà a questa mattina completerà il suo ciclo tra poco. Devi tornare indietro ora, o perderai questa opportunità.» «No.» Lei si voltò per uscire. «Accendete le lampade», gridò Sabor. Sopra di loro brillò una luce, subito seguita da altre, e in pochi momenti l'intera sala fu illuminata. Rachel si sentì improvvisamente stordita. L'interno del castello somigliava a un cilindro o a un vortice in rotazione, come la spirale di una tromba d'aria. Era formato da centinaia di piani, ciascuno con una moltitudine di porte che si aprivano all'interno, lungo una balconata circolare. Scale di ferro battuto collegavano un piano all'altro, piegandosi in curve che seguivano le distorsioni delle pareti. La torreggiante sala terminava molto più su con un emisfero di vetro, dal cui centro pendeva una complicata attrezzatura ottica fatta di tubi d'ottone interconnessi, specchi, lenti e ingranaggi. Sopra le loro teste quelle colonne di metallo brunito formavano nel centro della sala una torreggiante spina dorsale, dalla quale molti tubi si estendevano lateralmente per scomparire nelle pareti. Il singolare marchingegno di vetro e metallo occupava la maggior parte dello spazio tra le balconate. L'immagine di Dill era stata proiettata dal suo tubo più basso, sospeso a pochi piedi sopra il tavolo visivo di Sabor. Il dio degli orologi raddrizzò le spalle e si rivolse a Rachel. «Ti prego di scusare la mia scortesia, ma semplicemente non abbiamo il tempo per le spiegazioni e le discussioni. Signora Hael, tu devi andare nel passato, affinché il resto di noi possa occuparsi della situazione del tuo gigantesco amico. Se rifiuti e decidi invece di lasciare il castello in questo momento, metterai in pericolo tutto ciò che abbiamo ottenuto e che in seguito otterremo.» Rachel guardò l'altra se stessa e fu stupita nel vedere la paura nei suoi occhi. 211
La gemella intercettò il suo sguardo interrogativo e disse: «Ascoltalo». «Ha ragione lei. Rachel, penseremo noi a Dill», disse Mina. «Non posso abbandonarlo», disse Rachel. «Non lo stai abbandonando», disse la futura se stessa. «Io sono qui, e io sono te. Per l'amor del cielo, vai e lasciaci fare questa cosa.» «Dove devo andare?» Sabor le accennò di seguirlo alla scala più vicina. «Da questa parte. Fai presto. Ti spiegherò strada facendo.» Rachel guardò Mina, che annuì. Tutti i presenti seguirono Sabor, che s'incamminò su per una scala metallica che curvava verso il primo piano del suo castello. Mentre saliva, Sabor spiegò: «Questa fortezza offre l'opportunità di esplorare i sentieri che attraversano il tempo». Indicò le molte porte sulle balconate sopra di loro. Gli scalini di ferro risuonavano sotto i suoi piedi. «Ognuna di queste porte conduce a una serratura temporale, e dietro ogni serratura c'è una stanza. E ognuna di queste stanze esiste in un momento diverso del passato, o un'ora fa o tre ore, o due giorni, o un anno, o un mese... tutto dipende dall'attuale ciclo della stanza. I motori dell'obscura mantengono il ticchettio dell'intera cosa.» Da una tasca della cotta di maglia tolse un foglio ripiegato più volte, che aprì e dispiegò del tutto. «La direzione temporale di ogni stanza cambia col passare del tempo. Il loro ciclo le conduce attraverso una serie di mutamenti. Il lavoro della mia vita è stato appunto quello di fare una mappa di tutte quante.» Puntò un dito sul largo foglio di carta. «In questo momento, per esempio, la Stanza Larollen al tredicesimo piano si apre sulla luna nuova di quattro mesi fa. Ma, quando essa finirà il suo ciclo, da qui a un anno, sarà appena in grado di portare il viaggiatore indietro di cinque giorni.» Raggiunsero la prima balconata. La sua balaustra di lucido legno scuro girava intorno al primo piano della vasta sala centrale, e da lì una seconda scala saliva alla balconata successiva. Le porte che conducevano all'esterno di quel piano erano una dozzina, e al centro di ciascuna c'era una finestrella romboidale simile all'oblò di una nave, oltre a un quadrante numerico che ricordava il meccanismo di una serratura a combinazione. Dietro alcuni oblò si vedeva solo il buio, ma da altri proveniva luce. Dal muro sporgevano i tubi orizzontali collegati alla camera obscura di Sabor. A quei muri, tra una porta e l'altra, erano appesi gli orologi che Rachel aveva sentito ticchettare dal basso, orologi di ogni sorta, dai più modesti ai 212
più pretenziosi. Le lancette scattavano a ritmo inarrestabile su quadranti numerici, e su altri che contenevano date, o diagrammi di mesi solari e lunari. Un grosso orologio a pendolo emise un rintocco bronzeo, cui rispose più volte una campanella situata sulla parete opposta. Mentre passavano accanto alla prima porta, Rachel si fermò a guardare dentro dall'oblò. Oltre la serratura temporale vide una comoda stanza contenente molti altri orologi, mobili eleganti, scaffali pieni di libri antichi, strumenti astrologici e un enorme apparecchio d'ottone sostenuto da un tripode presso la finestra esterna. La stanza, dunque, era una delle estensioni dell'obscura di Sabor, e in quel momento oltre la finestra si vedeva il buio e un cielo stellato. «Com'è possibile?» domandò. Sabor guardò il quadrante della porta e controllò la sua mappa. «Questa particolare stanza esiste quarant'anni nel passato da oggi. Il registro temporale sembra essere in sintonia con gli orologi interni. Dunque essa rimane parte della nostra corrente temporale, cioè della nostra storia attuale.» Alzò la testa. «Garstone? Dove sei, Garstone?» Rachel guardò l'oblò, intimorita. «Allora passando da questa porta si viene portati indietro di quarant'anni?» Per raggiungere gli altri dovette accelerare il passo. «Signore, perché non tornate indietro e cambiate il passato, per impedire che si apra il portale di Coreollis?» «È troppo tardi per questo», rispose Sabor. «Il mio castello è stato costruito per essere un osservatorio, non un veicolo per aspiranti viaggiatori temporali. Tu puoi anche tornare all'alba del tempo senza problemi, finché resti all'interno del castello. Ma nel momento in cui metti piede fuori di queste mura minacci l'ordine naturale del tempo. E allora ogni azione che tu compi, per quanto piccola, potrebbe alterare la storia e creare un universo parallelo. Il tempo si biforcherebbe, come un ramo d'albero, e questa stanza diventerebbe un bivio da cui partirebbero due realtà: quella che ti sei lasciata alle spalle e quella che hai creato tu stessa.» Controllò il suo orologio da tasca. «Svelti, il cambiamento del ciclo avverrà da un momento all'altro.» «Se è così pericoloso, perché io posso tornare indietro?» Sabor gettò le braccia in alto. «Perché la nostra linea temporale è già stata corrotta! Cade a pezzi, imputridisce. L'universo fuori di queste mura sta morendo di una morte lenta e, qualunque cosa facciamo, non potrà andare peggio di così. Forse resisteremo altri cent'anni, o dieci, o mille, ma il cancro è già fuori controllo. L'unico rimedio possibile è tagliare col bisturi, e procacciarci un 213
po' di tempo in più. In questo momento, quel bisturi sei tu.» Proprio mentre arrivavano alla seconda scala, una delle porte dello stesso piano si aprì e ne uscì un vecchio, vestito con un fantasioso abito a strisce rosse e marroni. Aveva il naso immerso in una mappa aperta, ma, quando si accorse del gruppo, salutò con un cenno del capo Sabor e poi Testa di Ferro, quindi entrò nella stanza adiacente e scomparve. Un battito di cuore più tardi una terza porta, sul Iato opposto della balconata circolare, si aprì e ne venne fuori lo stesso vecchio. Ora indossava un semplice completo azzurro, e stava scrivendo una nota sulla sua mappa. Vide il gruppo, annuì verso il capitano e il dio degli orologi, e quindi sparì dentro una stanza ancora diversa. «Chi è quel tipo?» volle sapere Rachel. Testa di Ferro grugnì. «È mio fratello Eli. Puoi chiamarlo anche Garstone. E l'unico di noi che usa ancora il cognome del nostro vecchio.» «Proprio così», aggiunse Sabor, consultando ancora il suo cipollone da tasca. «Ma non è la versione di Garstone che sto cercando. Per il lavoro che ci aspetta occorre un uomo molto più giovane.» «Ma come può avere due età diverse?» domandò Rachel. «Non soltanto due età», le rispose Testa di Ferro. «In questo posto, se viaggi all'indietro di dieci minuti, incontrerai te stessa prima che costei entri dalla porta temporale che hai appena usato. E, se non c'è più motivo per cui quella te stessa entri là, ecco che all'improvviso ci saranno due te stesse. Mio fratello ha tutte le età da oggi a quella della sua morte. Continua a raddoppiarsi così.» «Garstone carica gli orologi, ma tenere il conto di tutti i suoi doppioni sta diventando difficile», aggiunse Sabor. Poi li esortò a seguirlo sulla scala. La seconda balconata era uguale alla prima in ogni dettaglio, salvo per la maggior quantità di orologi appesi al muro. Garstone era all'opera anche lì, ma le sue copie erano più numerose. Rachel ne contò tre, occupate a caricare gli orologi dentro e fuori delle varie stanze. Andava in giro con la massima tranquillità, consultando con aria intenta la mappa che si portava dietro, ma sempre assai cortese con tutti, perché ogni sua copia salutava con un cenno Sabor, Testa di Ferro e anche i doppioni di se stesso che incrociava. «Quanti ce ne sono?» domandò Rachel. «Devono essere parecchi miliardi, ormai», rispose Sabor. «Lavora qui, in questo labirinto del tempo, da trenta dei suoi anni.» Diede un'altra occhiata al suo orologio da tasca e accelerò il passo. «Tre minuti prima che il 214
ciclo cambi.» Rachel lo guardò, più confusa che mai, ma Testa di Ferro la prese per un braccio e la incitò a muoversi. «È quanto ci resta prima che la particolare stanza di cui hai bisogno finisca nel passato. Tutte le stanze cambiano la loro posizione nel tempo. Si riordinano in base al movimento spaziale di questo pianeta.» Da qualche parte più in basso un orologio a pendolo cominciò a suonare, e i rintocchi echeggiarono nella grande sala. Parecchi orologi più piccoli gli risposero con un coro di note argentine, come uccelletti canori in una voliera. «Troppo stress nello spazio tempo spaccherebbe in due la fortezza», disse Sabor in quel chiasso, voltandosi a mezzo. «Così, per mantenere l'equilibrio nel cosmo, i motori dell'Obscura eseguono continui aggiustamenti temporali in certe stanze... e i cicli cambiano. Ehi, tu!» Si fermò e fece un gesto verso una delle balconate più in alto. «Vieni giù, sbrigati.» Una testa si sporse da una balaustra. Quella versione di Garstone sembrava molto più giovane delle altre. «Io, signore? Vengo subito.» «Due minuti», disse Sabor al gruppo. «Muoviamoci. Dobbiamo salire ancora di un piano.» Si chinò sotto un cannocchiale d'ottone e proseguì lungo la curva della balconata, sfiorando con l'estremità superiore di un'ala la fila di orologi ticchettanti appesi alla parete. Rachel si sentiva confusa e incerta, incapace di capire se stava facendo la cosa giusta. L'intero gruppo sembrava intenzionato a mandarla indietro nel passato senza una buona ragione. Per costruire zattere? Quelle zattere non avevano aiutato Dill a fuggire. Anche la Rachel futura lo aveva ammesso. Non sarebbe stato più ragionevole restare lì e aiutare Dill nel presente? Ma poi capì quanto stava diventando sciocca. Quella era un'opportunità da non lasciarsi sfuggire, una finestra di dieci ore durante le quali lei avrebbe potuto alterare il corso della storia recente. Forse aveva ancora la possibilità di salvare il suo amico. «Signore, c'è qualcos'altro che devo sapere?» domandò a Sabor. «Devi sapere come tagliare tronchi e legarli insieme», rispose il dio. «No, voglio dire sul tempo... su questo castello.» «Niente.» «Voi lo avete definito un labirinto nel tempo, e ciò significa che ci sono altre centinaia di porte nel passato. Se questo piano fallisse, non potremmo 215
cercarne un'altra?» «Tu non deviare dal piano attuale, è il modo migliore di limitare i danni già fatti. Ogni singola volta che noi mettiamo piede fuori dell'Obscura Redunda ci sono conseguenze, paradossi imprevisti e ulteriori tensioni dell'intero continuum.» Consultò ancora l'orologio e si accigliò. «Devi capire questo: l'Obscura è eterna e indistruttibile... non può esistere isolata in un solo punto del tempo. In ogni momento un gran numero di stanze è nel passato. Così, se il castello esiste in un tempo X, altre parti di esso esistono in un tempo X meno un'ora, o X meno dieci anni. E, poiché tali stanze comunicano all'interno con questa sala, l'intera fortezza porta tutta la storia della sua esistenza con sé ovunque vada.» «Lui sta dicendo che è più vecchia di quello che sembra», aggiunse Testa di Ferro. Sabor grugnì. Aveva raggiunto la terza rampa di scale, e stava salendo in fretta. «Vecchia? Qui ci sono sentieri che conducono indietro attraverso l'immenso vuoto del cosmo, a tempi anteriori alla nascita della galassia. Ci sono rotte impensabili per gli umani, percorse soltanto dagli dèi. Molte copie di me stesso stanno cercando di farne la mappa. E lo stesso fanno altri dèi, senza dubbio, provenienti da eoni passati. Innumerevoli miliardi di esploratori! E, poiché il castello esisteva alla nascita del multiverso, allora uno dovrebbe essere in grado di spostarlo, alla fine, in ogni punto dello spazio. Le mie osservazioni mi portano a credere che lo spazio stia collassando su se stesso, e che il multiverso rimpiccolisca. In un certo periodo potrebbe essere stato non più largo di questa fortezza, il che ci porta a domandare: tutti gli universi possibili sono stati creati dentro questo castello?» In cima alla rampa si guardò intorno. «Da questa parte!» «Ma, se questo è vero, allora chi ha creato il castello?» domandò Rachel. «È stata Ayen.» «Dopo che... il multiverso era già stato creato!» Sabor la guardò con un'espressione di vago disgusto. «Gli esseri di ordine inferiore hanno difficoltà a riflettere su questo paradosso. Ayen è, come tu dici, parte dell'universo, e tuttavia creando il castello può benissimo aver creato la realtà che ora lei stessa occupa. Questi pensieri non possono essere razionalizzati se tu insisti a credere che il tempo sia lineare. Questo castello è una singolarità. Sfortunatamente è questa verità che rende così difficile raggiungere il 216
Paradiso.» «Voi sapete perché noi siamo venuti qui, signore?» «Naturalmente, lo so. Me l'hai detto tu, prima. O dopo.» Fece un gesto frustrato. «Questo ora importa poco. Ecco, questa è la serratura temporale che cerchiamo, l'ingresso alla Stanza Greengage!» Il dio si fermò davanti alla porta più vicina ed esaminò il quadrante sotto la finestrella circolare. «Resta meno di un minuto. Ce l'abbiamo fatta per un pelo.» Abbassò una grossa maniglia d'ottone e aprì la porta. «Questa ti porterà indietro di dieci ore nel passato.» Rachel scosse il capo, perplessa. «Ancora non capisco. Voi dite che l'universo intorno a noi sta crollando, ma il castello è eterno e indistruttibile. Non possiamo usarlo per raggiungere un tempo precedente a quando Ayen sigillò i cancelli del Paradiso?» Sabor sospirò. «Quando Ayen spostò questo castello dal Paradiso e lo mise sulla terra, lei spostò con esso tutto il tempo. Il castello non può morire, ma il tempo sì. E questo che sta accadendo adesso.» «Il tempo sta morendo? Perché?» «Trentadue secondi», disse Sabor. «È necessario che tu vada.» I pensieri di Rachel erano più che mai confusi. Guardò Testa di Ferro e Mina, e poi la futura se stessa. All'improvviso aveva paura. «Cosa mi succederà?» chiese. «Ti troverai in questo stesso posto a cercare di persuadere la tua passata te stessa a oltrepassare questa dannata porta», rispose lei, battendole un dito sul petto. Sabor consultò ancora l'orologio. «Venti secondi.» Rachel guardò la stanza temporale. I locali erano due, in effetti: il primo era un piccolo compartimento cilindrico, con una porta e una finestrella anche sul lato opposto. Attraverso quel secondo oblò si poteva vedere una specie di biblioteca, alcuni prolungamenti tubolari dell'obscura di Sabor, e sul lato più lontano un altro oblò che dava su un territorio nebbioso. Dalla luce le parve che fosse mattina presto, invece che tardo pomeriggio come in quel momento. Mentre Rachel stava per entrare, la sua gemella futura disse: «Non ti offendere, sorellina, ma una di me è già abbastanza». Fece un passo avanti, tirando rudemente Rachel con sé nel compartimento stagno, e chiuse la porta dietro di loro. Ci fu un sibilo d'aria. Subito dopo la gemella aprì l'al217
tra porta e spinse Rachel nella biblioteca. Lei cadde a sedere sul pavimento, imprecando. Si rialzò di scatto e girò su se stessa. La gemella futura aveva già chiuso la porta tra loro. La salutò agitando una mano dietro l'oblò e indietreggiò fuori del compartimento. Pochi istanti dopo scomparve. Il piccolo compartimento intermedio era vuoto, e così l'oblò che dava sull'interno del castello. Mina, Sabor e la futura se stessa non c'erano più. La balconata era deserta. Poi una versione di Garstone passò davanti all'oblò, con la sua mappa in mano, e la salutò con un cenno del capo. Rachel andò alla finestrella esterna e posò le mani sul vetro. Era gelido. Fuori c'erano montagne velate di nebbia, un panorama a chiazze bianche e nere dirupato e poco invitante. Da lì non si poteva neanche vedere il lago. Il sole era basso, e luccicava come una moneta d'ottone. Volse le spalle a quell'oblò, irritata dall'iniziativa dell'altra se stessa che l'aveva privata del diritto di scegliere, e stabilì di trovare Sabor. Attraversò la biblioteca e aprì entrambe le porte del compartimento stagno. Sulla balconata la aspettava Garstone. «Buon mattino, signora Hael. Mi spiace di non avervi conosciuta più tardi, questo pomeriggio: Sabor voleva una versione di me più giovane dei vecchi me stessi che si trovavano là in quel momento.» E in effetti quella versione dell'assistente di Sabor era più giovane, benché non quanto la figura che aveva guardato giù da una balconata superiore un paio di minuti prima. Questo Garstone sembrava di mezz'età. Uno spiegazzato abito marrone gli pendeva dalle spalle magre. La catenella argentea di un orologio, fissata a un'asola, spariva nel taschino superiore della sua giacca. Dal suo atteggiamento fisico all'espressione degli occhi azzurri, un po' acquosi, tutto in lui escludeva un carattere servile. Stava lì sulla balconata, immerso nei ticchettii, ronzii, squilli e altri sottili rumori meccanici d'innumerevoli orologi. «E, tu, come sei arrivato qui?» lo interrogò Rachel. «Tu non eri nella stanza.» «No, signora. Mi sono perso la vostra partenza per pochi momenti, così sono stato costretto a viaggiare fin qui per un percorso alternativo.» «Un percorso 'alternativo'?» Rachel strinse i denti, irritata. Dunque c'era un'altra strada per arrivare lì. Tutto quell'affrettarsi intorno aveva avuto il 218
solo scopo di toglierla dai piedi alla svelta, per mandarla a perdere tempo con una sciocchezza che Sabor definiva «parte necessaria» del grande schema cui stava lavorando, qualunque fosse. Garstone spiegò: «Ho effettuato un salto iniziale di novantaquattro giorni attraverso la Stanza Lavender, poi sono tornato indietro di altri quattro giorni, e quindi di sei mesi, prima di ritrovare la giusta linea temporale. A quel punto non ho dovuto far altro che aspettare... un riposante soggiorno nella sala principale dell'Obscura. Infine ho potuto passare attraverso la Stanza Farthing». Le rivolse un inchino col capo. «L'intero viaggio mi ha portato quattordici anni nel passato.» «Quattordici anni?» Lui parve imbarazzato. «Ho perduto una coincidenza, e questo mi è costato undici giorni. Temo di non essere più la giovane versione di me stesso che Sabor ha incaricato della missione.» Rachel lo studiò. «Quante diverse linee temporali ci sono, oggi?» «È difficile dirlo, signora. Quelle principali sono due, in effetti, ma i cambiamenti fatti di recente a ciascuna di esse hanno creato molte piccole ramificazioni. Naturalmente il tempo dovrebbe supportare un singolo corso di eventi, cosicché la corruzione temporale è dilagata nell'intero continuum. Scusatemi, ma voi siete la signora Hael, vero?» Lei annuì. «E tu sei davvero fratello di Testa di Ferro?» «Il suo nome di battesimo è Reed, signora. Reed Garstone. Io disapprovo i soprannomi volgari usati dalla sua gente. Ma, sì, come voi avete detto, è mio fratello. Più anziano di un anno, tre mesi, nove giorni...» «D'accordo», tagliò corto lei, impaziente. «Come faccio per tornare ad Acquardente? Mi serve una barca per attraversare il Lago dei Fiori.» «Acquardente, signora? Ma noi non andremo più lontano di Molo Kevin. A quanto mi è dato di capire, tutto vi è già stato spiegato. Dopo il nostro arrivo là io negozierò con gli hericani un accordo per la costruzione di una piccola flotta di zattere. Dopodiché...» «Sì», disse a denti stretti lei. «Tutto questo lo so, ma non intendo farlo. Costruire quelle zattere è stato una perdita di tempo.» «Se devierete dal piano, voi cambierete la storia. I calcoli di Sabor sono stati abbastanza meticolosi. Noi dobbiamo costruire...» «È stato il suo piano originale a cambiare la storia e non ha concluso niente!» Non riusciva a cancellarsi dalla mente l'immagine di Dill che tra219
scinava il suo corpo devastato fuori del lago. Ora lei si trovava a disporre di una possibilità per prevenire la sua distruzione. «Ma... signora Hael, nel nostro futuro quegli avvenimenti sono già accaduti. Noi siamo qui per assicurarci che essi accadano, o che continuino a essere accaduti, se preferite esprimervi così. Se impediamo il verificarsi di questi eventi, il multiverso creerà un'altra diramazione per ospitare le conseguenze da noi create e, come risultato, l'intero continuum sarà ulteriormente indebolito.» «Dov'è Sabor?» domandò lei. «Io avrei alcuni disegni tecnici che illustrano la costruzione di zattere...» continuò Garstone, con evidente disagio. «Se noi... signora Hael, dove state andando?» La donna stava andando a cercare il dio degli orologi. Era abbastanza sgradevole che l'avessero indotta a tornare indietro senza che lei si dicesse d'accordo, ma ora si aspettavano che aderisse al loro ridicolo piano. Più ci pensava, più le sembrava che quella sgualdrina della sua gemella l'avesse spinta nella stanza temporale soltanto per levarsela dai piedi. Era il genere di cosa che lei stessa avrebbe potuto fare. Avrei dovuto prenderla a pugni... Rachel rallentò il passo e si palpeggiò il livido sotto l'occhio. Un aspro sorriso le piegò le labbra. Scommetto che stai ridendo di me, sorellina. Non si fermò finché non fu davanti al tavolo della camera obscura di Sabor. Il dio degli orologi non si vedeva da nessuna parte. Garstone si affrettò a raggiungerla. «Il padrone è indisposto, signora.» «Dove si trova?» «Non tanto dove, ma quando, signora.» «Quando?» «Sembra che questa sia una di quelle tasche del tempo che Sabor non ha ancora esaminato. Lui preferisce muoversi tra i momenti critici o interessanti. L'Obscura Redunda gli consente di evitare del tutto le zone del tempo più... banali.» «Allora sta evitando me?» Garstone abbassò lo sguardo. «Il mio padrone arriverà oggi pomeriggio, prima che voi ritorniate al castello. Deve fare così, altrimenti voi non lo avreste incontrato.» L'assassina grugnì e si allontanò a lunghi passi verso la porta. Non aveva voglia di gironzolare da quelle parti nell'attesa che Sabor si decidesse ad 220
apparire, e senza dubbio non intendeva occupare le dieci ore successive a spaccare legna per costruire zattere. Aveva il tempo di tornare ad Acquardente prima che Dill, Mina e l'altra se stessa arrivassero là. Ora ciò che lei doveva fare era escogitare un modo per impedire l'imminente battaglia, e salvarli tutti. *** John Anchor e Alice Harper si stavano aggirando tra i rottami della Rotsward alla ricerca di qualche perla animata. Restava poco dell'enorme nave volante. Il legame mentale tra Cospinol e il suo servo era stato la vera fonte dell'indistruttibilità del vascello, ma, con la morte del vecchio dio, la nave era tornata a essere soltanto legname. Alice passò il localizzatore su un cumulo di corde e tavole spezzate. L'argenteo attrezzò vibrò nella sua mano, con un suono acuto. Anchor si voltò. «Non è niente», disse lei. «Questo ambiente confonde il mio localizzatore... tutte queste anime allocate ovunque. È difficile trovare cose piccole come le perle animate tra tanta... spazzatura.» «Ma c'è meno acqua rossa di prima, no?» replicò allegramente Anchor. «E ce n'è sempre meno ogni minuto che passa. Perciò abbiamo ancora speranza.» Il Fiume dei Difettosi si era mosso. Le sue innumerevoli vie d'acqua si spostavano, a vista d'occhio, nella direzione presa da Carnival. Il fiume la stava seguendo. Dietro di sé lasciava un rosseggiante pantano di bassi argini, pozzanghere in cui si sprofondava fino alle caviglie e rifiuti. Il calare delle acque lasciava allo scoperto una quantità sempre maggiore di relitti. Anchor trovò pezzi di armature e di armi appartenute agli impiccati. Travi tarlate giacevano ovunque, ammucchiate come legna per falò. Vedeva infissi metallici piegati, cardini, chiodi, anche pezzi di mobili. Ma non c'erano corpi. La corrente che ora si ritirava li aveva divorati tutti. La corda con la quale lui aveva rimorchiato la Rotsward era distesa su quel panorama desolato, come un lunghissimo serpente morto. Si chinò a sollevarne una sezione, poi la lasciò ricadere. Strano che ora gli sembrasse così pesante. D'istinto mise una mano alla borsa di pelle appesa alla cintura, ma naturalmente non c'erano più perle animate. Ormai le aveva ingoiate fino all'ul221
tima. In lui sorse un inspiegabile moto di rabbia, e faticò per scacciarlo. Doveva arrangiarsi finché non ne avrebbe trovata qualcun'altra. «John, voltati.» Anchor seguì lo sguardo di Alice. Sopra di loro il Labirinto incombeva in tutta la sua mostruosa gloria. Raggi di luce cadevano da innumerevoli finestre in quella caotica distesa di mattoni. Un canyon irregolare segnava il percorso seguito dalla Rotsward, le cui sovrastrutture avevano squarciato il fondo dell'Inferno. Il crollo di quel materiale aveva lasciato esposto l'interno di migliaia di appartamenti, da cui penzolavano infissi metallici grondanti di sangue. Alcune figure si sporgevano da quelle macerie per sbirciare giù, nel fantomatico reame sottostante. «Sì, anch'io sarei curioso al loro posto», ammise Anchor. «All'Inferno non avevano mai visto niente del genere, suppongo.» Alice gli indicò qualcosa. «No, guarda laggiù.» Lui aguzzò lo sguardo. Stavolta notò un grande oggetto dalla punta conica che emergeva dalle camere squarciate su un lato di quella cicatrice. La strana cosa aveva un colore grigio scuro e sembrava fuori posto nella distesa di mattoni rossi e ferro nero. Su una sporgenza sotto di essa c'era una bambina. Stava facendo gesti di richiamo verso di loro. «Isla?» mormorò lui. «Quella sua nave potrebbe essere in grado di portarci fuori di qui», disse Alice. Anchor corrugò la fronte. «Ho bisogno di trovare la riserva di perle animate di Cospinol», disse. Alice spazzò via con un gesto quell'idea. «Dimenticale. Il fiume le ha mangiate tutte.» Agitò un braccio verso la figuretta lontana, poi alzò entrambe le mani per farle capire di non andarsene da lì. «No, senza di loro perderò la mia forza. Bisogna continuare a cercarle.» Anchor sollevò una pesante sezione di supporti delle forche e la gettò di lato. Sotto non c'era altro che rosso terreno carnoso. «Non avrai più bisogno della tua forza. Non possiamo restare qui, John. Dobbiamo tornare all'Inferno.» Lui si voltò a fronteggiarla, con rabbia improvvisa. «Non ascolti quello che dico? Ho bisogno di altre anime! Ora usa quel dannato localizzatore per trovarmene qualcuna, prima che io...» Mollò un calcio a un mucchio di rottami, facendoli rotolare in ogni direzione. 222
L'ingegnere lo guardò. «John, che cosa ti succede?» «Niente», borbottò lui. Si allontanò dalla donna e andò a frugare in un altro promettente cumulo di rottami. In verità non ricordava di essersi mai sentito così, in passato. Gli occorse un poco per capire cosa significava quel senso di vuoto allo stomaco. Fame. Chino sul mucchio di materiale fracassato cominciò a gettare da parte pezzi di legno e intrecci di cordame. Mezzo sepolto in quella roba c'era un grosso paiolo di ferro. Lì accanto trovò un elmo da guerriero, un tubo di piombo e un arco. Esaminò anche quegli oggetti e li scartò. Inutili rifiuti senza valore. D'istinto portò ancora una mano alla cintura, prima di ricordare che la borsa era vuota. Imprecò tra i denti e ricominciò a frugare con impazienza. Uno scaffale intarsiato, un vaso, assi spezzate, assi e ancora assi. Scostò un pesante insieme di travature e rimase lì ad ansimare per un lungo momento. Qualcosa di pesante cadde dal cielo e si fracassò al suolo, un centinaio di passi da lì. Era una lunga parete di mattoni. Dietro di essa venne giù una pioggia di sangue. Anchor alzò lo sguardo. La base del Labirinto si schiantava e si apriva sotto la pressione di un enorme oggetto metallico che stava venendo da quella parte, inclinato obliquamente. Grandi pezzi di muratura e infissi metallici cedevano e crollavano intorno a esso. Cascate di vetri rotti scintillavano come coriandoli nel polverone, accompagnati da grandini di mattoni e calcinacci. Lo scafo della nave di Isla sussultava, ma infine riuscì a emergere del tutto da quello sconquasso. Un fumo bianco uscì dagli scarichi posteriori dello scafo, dilagando come nebbia sul territorio circostante. Il sommergibile girò lentamente e cominciò a scendere verso di loro. Anchor trasse un profondo respiro, e poi un altro. Aveva i muscoli della mandibola tesi in modo insopportabile. Gli dolevano i denti. Immobile come una roccia rimase a guardare il vascello che scendeva dall'alto, chiedendosi cosa ci fosse - se ci fosse - da mangiare a bordo.
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10 CAMBIAMENTO NEI PIANI
Garstone si affrettò dietro di lei. «Signora Hael, Sabor ha dato istruzioni precise: le zattere che dobbiamo costruire serviranno a facilitare la vostra fuga da Acquardente, attraverso il Lago dei Fiori. Il mancato rispetto di questo piano comporterà conseguenze incalcolabili.» Rachel si strinse le braccia al petto, infreddolita. Tenne lo sguardo sul sentiero ed evitò di voltarsi verso l'etereo e caleidoscopico castello di Sabor. «Le zattere non erano necessarie. A tenere lontani da noi gli arconiti di Menoa è stato Dill, non la vostra patetica diversione.» «Ne siete davvero certa, signora Hael? Nella nebbia, voglio dire...» «Basta così, Garstone. Faremo a modo mio.» Era ancora furiosa coi compagni che l'avevano cacciata in quella situazione, ma aveva deciso di non lasciarsi guidare dall'ira. In quel momento un'altra versione di lei si trovava dentro la bocca di Dill insieme con Mina, e stava per arrivare ad Acquardente. Cosa poteva esserci di utile nel lasciare che gli eventi si svolgessero come si erano svolti? Sabor si aspettava che lei assoldasse gli hericani di Molo Kevin, mettesse in scena quella stupida diversione, poi remasse sul lago per andare incontro a se stessa e procurarle il livido sotto l'occhio che ancora le faceva male. Ma così facendo non avrebbe impedito agli arconiti di fare a pezzi Dill. Doveva esserci una strada migliore. Dopo un'ora di discesa sul sentiero nebbioso, lei e Garstone giunsero a Molo Kevin. Il fumo untuoso che spiraleggiava fuori di ogni camino offuscava l'aria intorno alle casupole e al vecchio molo. Tutto era permeato dell'odore stomachevole di pesce bollito. La strada melmosa che passava tra le abitazioni era deserta, a parte un gatto bianco spelacchiato. Rubare una barca, decise Rachel, non sarebbe stato difficile. Quella che scelse era una piccola ma robusta scialuppa a remi, tra quelle tirate in secco sulla spiaggia davanti al villaggio. Si chinò dietro la poppa e spinse. La chiglia strisciò per qualche piede verso l'acqua. Garstone controllò l'orologio da tasca e si voltò a scrutare le case, come se fosse incerto su ciò che gli conveniva fare. «Per favore, signora Hael... Sabor ha dedicato ore di studio agli sviluppi del suo piano originale. È si224
curo che quella sia la soluzione migliore per mantenere stabile la linea temporale.» «Aiutami con questa cosa.» «Riflettete sulle conseguenze di ciò che state facendo, signora Hael. Questa decisione irragionevole produrrà un'altra biforcazione nella linea temporale... voi state causando la nascita di un universo completamente nuovo, il cui futuro non possiamo prevedere.» «Non potrà essere peggiore dell'altro.» «Questo voi non lo sapete, signora Hael. Al momento della mia partenza, gli arconiti di Menoa non avevano ancora raggiunto l'Obscura Redunda. Il vostro amico Dill era ferito, ma vivo. Dunque ci resta ancora una speranza di trovare la strada per il Paradiso.» Rachel ansimò, spingendo ancora la poppa della barca. La chiglia grattò i sassi avvicinandosi al lago di un altro piede. «Quale speranza? Hai visto quello che gli arconiti hanno fatto a Dill? Come potrebbe sfondare i cancelli del Paradiso in quelle condizioni?» Garstone scrollò le spalle. «Io non credo che Sabor intenda usare il vostro amico in un assalto. Sta lavorando alla sua soluzione del problema mesmerista. Almeno...» «Almeno cosa!» «Niente, signora.» Tirò fuori l'orologio. «Abbiamo ancora diciannove minuti per cominciare la trattativa con gli hericani. Non è troppo tardi perché voi cambiate idea.» Dopo un altro sforzo la prua della barca entrò nell'acqua. Rachel continuò a spingere fino a lasciarsi la spiaggia alle spalle, poi salì a bordo, sulla poppa. «Allora, Garstone, vieni o no?» «Signora?» La barca cominciò a girarsi tra le piccole onde. Rachel puntò un remo sul basso fondale del lago per fermarla. «Se dovrò cambiare la storia, potrei utilizzarti per assicurarmi che la sto cambiando nel modo giusto.» L'assistente di Sabor diede un altro frettoloso sguardo al suo cipollone. «Temo che la storia voi l'abbiate già cambiata.» Poi si sfilò scarpe e calze, si arrotolò i calzoni e dopo qualche passo nell'acqua la raggiunse. Rachel non sapeva bene come trovare Acquardente in quella nebbia, ma ricordava che il lago non era troppo largo, e sapeva di avere circa otto ore prima che Dill arrivasse alla palizzata del paese. Allontanandosi dritta ver225
so il largo avrebbe avvistato la riva opposta in poco tempo. Poi le sarebbe bastato costeggiare fino a destinazione. Cominciò a remare con energia. Seduto a poppa Garstone continuava a studiare l'orologio. «Sono passati ventitre minuti da quando voi avreste dovuto contattare gli hericani. Anzi, quasi ventiquattro.» «Non vorrai continuare con questa lagna per tutto il viaggio da qui ad Acquardente, eh?» brontolò Rachel. Lui le lanciò un'occhiata di rimprovero. «Non siamo più nel nostro vecchio universo, signora Hael. Questa è ormai una nuova diramazione del multiverso, e l'avete creata voi stessa. Stiamo viaggiando alla cieca su una pista non cartografata. Se tornassimo subito all'Obscura, forse riusciremmo a prevedere alcuni degli eventi futuri che voi avete appena messo in moto.» Alzò di nuovo il coperchio del cipollone. «Ventiquattro minuti e dieci secondi.» «Tu vuoi tornare?» «È la cosa più ragionevole.» «Noi non torniamo.» Garstone abbassò ancora lo sguardo sull'orologio. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma Rachel lo precedette: «Non voglio sapere che ore sono!» gridò, facendo forza sui remi. A parte il leggero sciacquio su entrambi i lati dello scafo e il cigolio dei remi negli scalmi, il Lago dei Fiori era del tutto immobile e silenzioso. I veli grigi della nebbia che accarezzava la barca sembravano smorzare tutti gli altri suoni. Non si udiva cantare un uccello. Neppure il sospiro del vento sfiorava la superficie del lago. L'aria odorava di pini, e dall'acqua saliva un vago sentore metallico. I due viaggiarono a lungo, senza dir parola. Alla fine Rachel scorse il profilo degli alberi, e davanti a loro si materializzò una costa rocciosa. La foresta arrivava fino in riva al lago, una barriera di ombre fitte che si estendeva in entrambe le direzioni. Lei lasciò fermare la barca e annusò l'aria. L'odore di fumo di legna le avrebbe detto da che parte si trovava il paese, tuttavia non riuscì a sentire niente. Tese le orecchie, ma l'assenza di rumori era totale. «Destra o sinistra?» domandò a Garstone. «Io non lo so, signora Hael.» L'uomo controllò ancora l'orologio. «Abbiamo trascorso quaranta minuti e dieci secondi su questa barca. Potrebbe 226
essere troppo tardi per cambiare il corso degli eventi in questo universo, ma possiamo sempre abbandonarlo e tornare all'Obscura. Una volta là potremmo cercare una stanza del castello atta a portarci in un tempo precedente. Poi forse basterebbero pochi decenni di viaggio attraverso i labirinti del tempo per tornare a questa mattina presto. Per accelerare le cose voi potreste creare altre versioni di voi stessa...» «No. Di me ce ne sono già troppe.» «Un'altra Rachel potrebbe essere più disposta a lavorare con gli hericani. Il piano di Sabor potrebbe essere rimesso in movimento.» «Dimenticalo. Io vado a sinistra.» Aveva appena preso quella decisione che una voce gridò dalla riva: «La corrente vi ha portato a est di Acquardente. Devi prendere a destra, sorellina». Rachel si girò di scatto. Su un macigno sedeva una donna che indossava una camicetta bianca e pantaloni di robusta stoffa marrone. Era molto più anziana di lei, dieci anni o più, ma riconobbe subito quella faccia pallida e i luminosi occhi verdi. Ancora una volta si trovava di fronte una diversa versione temporale di se stessa. «Che gli dèi ti maledicano! Mi hai seguita fin qui!» sbottò Rachel. «No. Be', sì, ma non nel modo che pensi. Io non sono la donna che hai lasciato al castello.» Garstone alzò gli occhi al cielo e sospirò. «Le complicazioni dell'Obscura Redunda... Questo non è buon segno. Io sono venuto anche con voi, signora Hael?» La Rachel più anziana sorrise mestamente. «Non stavolta, Eli. Sono arrivata qui da sola.» «Per evitare un disastro, suppongo.» «Forse.» Seduta in barca Rachel guardò la nuova venuta. Non era invecchiata male, si disse. Le escoriazioni e i lividi erano spariti, ma notò che aveva piccole rughe intorno agli occhi e sulla fronte. I capelli non erano più quelli, la sua pelle appariva tirata, i suoi seni... Rachel sospirò. «Non essere arrabbiata con me, sorellina», disse con calma la più anziana. «Ho camminato molto a lungo per arrivare qui. Hai davvero bisogno che io sia con te, adesso.» 227
«Perché?» La più anziana scosse il capo. «Meno cose sai, più sono le nostre possibilità di successo. Ho bisogno che gli avvenimenti si svolgano quanto più vicini possibile a quelli del mio universo. Ci sarà un'occasione in cui io provocherò un cambiamento, ma non so di preciso quando. Però molte cose deriveranno da quello che farò. È tutto ciò che posso dirti.» «Ma qualcosa dev'essere andato male... molto male. Altrimenti tu non saresti qui.» La rabbia abbandonò Rachel. Sentiva un'aura di tristezza, perfino di disperazione, intorno a quella donna più anziana. Come se nascondesse in sé dei segreti dolorosi. «Ho rovinato tutto, vero? Cambiando la storia ho soltanto peggiorato le cose. Le zattere degli hericani erano davvero importanti.» L'altra donna non disse nulla. Rachel deglutì e disse: «D'accordo. Cosa dobbiamo fare per metterci una pezza?» L'altra salì a bordo senza rispondere, e per un poco Rachel remò in silenzio verso ovest. Ogni tanto alzava gli occhi e incontrava quelli della se stessa più anziana, ma subito entrambe distoglievano lo sguardo come timorose di parlarsi. Infine Rachel si decise a chiedere: «C'è almeno qualcosa che puoi dirmi?» L'altra si abbottonò meglio la camicetta bianca. «Vorrei dirti mille cose. Ma non posso rischiare. Non corrompiamo ancor di più questa linea temporale. Lasciami solo guardare quello che succede. Quando verrà il momento, lo saprò.» «Non puoi neppure dirmi se riusciremo a trovare il Paradiso e fermeremo gli arconiti di Menoa?» L'altra donna ci pensò per alcuni lunghi secondi. «Ci sono molti universi e molte possibilità in gioco. Ma in questo momento io mi preoccupo soltanto di questa, sorellina.» «Sorellina? Non so come, ma questa parola non sembra offensiva venendo da te. Ma perché t'interessa cosa ne sarà di questo mondo, se ce ne sono tanti altri dove le cose vanno meglio?» «Il perché lo sai.» E Rachel lo sapeva. Se la decisione che lei aveva preso fosse stata causa d'immense sofferenze per quel mondo, non era forse suo dovere tornare lì, 228
nel passato, per impedirlo? «Eccomi qui. L'unica assassina filantropa della Spina di questo mondo.» Questo mondo? Lei aveva già cominciato a pensare a quel posto come un semplice corridoio di un Labirinto molto più vasto: il «labirinto del tempo» lo avevano chiamato Garstone e Sabor. Si augurò che quel particolare corridoio non fosse un vicolo cieco. «Almeno dimmi come ha fatto Sabor per fuggire vivo da Coreollis», insisté Rachel. «Io non ho avuto la possibilità di chiederglielo.» La Rachel anziana parve incerta. Fu Garstone a rispondere. «Non è fuggito, signora Hael. Rys, Mirith, Hafe e Sabor sono tutti morti, quel giorno.» Rachel corrugò la fronte, ma poi capì. «Prima di morire avevano fatto una replica temporale di se stessi?» «Soltanto Rys e Sabor sono sempre esistiti come versioni multiple in uno stesso luogo. Mirith e Hafe credevano di essere dei doppioni dei loro veri se stessi. Fu Sabor a convincerli di questo, una sera a cena. In realtà quei due dèi erano unici: i soli due se stessi dell'intero universo. Loro sono morti come il loro fratello Rys, e resteranno morti, salvo che Sabor non ritorni nel passato per tirarli fuori della storia.» «Mi sorprende che quel Rys, pur essendo solo una copia, abbia accettato di sacrificarsi.» Garstone annuì. «Acuta osservazione, signora Hael. Un doppione temporale pensa di essere lui la persona vera, quella reale, e in un certo senso lo è. Tutti lo sono. Rys non era affatto un tipo generoso, e i suoi doppioni condividevano lo stesso carattere, perciò ognuno di loro era incapace di sacrificare la vita a beneficio di altri.» Fece per tirare fuori l'orologio da tasca, si fermò a metà del gesto e sorrise. «Il mio padrone, comunque, ha trovato il modo di aggirare il problema. Quel giorno fatale due doppioni di Rys erano nel suo palazzo di Coreollis. Ciascuno progettava d'ingannare l'altro e così assicurarsi la fuga. Purtroppo il crollo del palazzo li ha uccisi entrambi, mentre lottavano nel suo interno.» Rachel rise. «Mi sembrava, infatti, di aver visto due di loro, là dentro. Il tuo padrone, Sabor, è più sottile di quello che dà a vedere.» «Lui è abituato a pensare in termini di universi paralleli, signora Hael.» Poco più tardi Acquardente emerse dalla nebbia. Ormeggiarono la barca 229
al molo orientale e salirono sulla banchina fangosa, fiancheggiata da vecchi edifici di legno. La strada scorreva lungo la riva del lago fino ai magazzini, al centro del quartiere portuale. Rachel riconobbe gli edifici oltre i quali era avvenuta... o sarebbe avvenuta la battaglia. L'evacuazione di massa, l'incendio: niente di tutto ciò era ancora successo. «Tu hai un piano», disse la Rachel più anziana. «Ce l'ho, ma non so cosa fare. Qualunque mia iniziativa potrebbe distruggere il futuro.» «Porta avanti il tuo piano. Io aspetterò il momento in cui qualcosa potrebbe andare storto.» «Ma tu non sai qual è il mio piano.» «Hai intenzione di parlare con Testa di Ferro e metterlo in guardia su ciò che sta per accadere. Lo pregherai di non attaccare Dill... e di tenere tutto questo segreto alla versione di te stessa che ora si sta avvicinando. Poi gli dirai di passare un messaggio a Dill, in modo che il nostro gigantesco amico sappia come sfuggire ai suoi avversari.» Rachel restò a bocca aperta. «Come fai a sapere questo?» «Lo so perché è proprio ciò che io ho fatto.» «Ma... tu eri in Herica a costruire zattere fumogene. Non sei mai stata qui.» L'altra donna annuì. «Io ho messo gli hericani al lavoro sulle zattere, ma credi davvero che avrei potuto restare con loro a spaccare legna, mentre Acquardente era ad appena un'ora di barca oltre il lago?» Alzò l'orlo della camicetta ed estrasse un corto coltello nascosto sotto l'indumento. Controllò la lama e lo infilò di nuovo nella cintura. «No, sorellina. Mentre gli hericani lavoravano, io ho remato fin qui e fatto esattamente ciò che tu stai par fare adesso. Io ero qui ad Acquardente ad aspettare, mentre tu arrivavi in paese. Non hai trovato strano che Testa di Ferro abbia usato il tuo cognome quando ancora non poteva conoscerlo?» Allora qual è la verità, signora Hael? Rachel ricordava ancora le parole del capitano. «E non ti sei chiesta perché lui ha voluto entrare con te nel cranio di Dill?» aggiunse l'altra Rachel. «È salito a portargli lo stesso messaggio che tu stai per dargli. Ha detto a Dill come sfuggire agli arconiti di Menoa.» Fece una pausa, mentre lei digeriva quelle parole. «Quando tu mi hai incontrata sul lago io ero appena tornata di nuovo a Molo Kevin.» I pensieri di Rachel giravano a vuoto. Si sentiva in qualche modo tradita. «Allora adesso è il mio turno di fare ciò che hai fatto tu? Però c'è una 230
differenza, perché stavolta io non ho contattato gli hericani. Non ci sono zattere fumogene sul lago. Quando tu mi sei venuta incontro mentre approdavamo a Molo Kevin avresti potuto dirmi la verità. Perché non l'hai fatto?» La se stessa anziana non disse nulla. «Cosa mi stai nascondendo?» Lei scosse il capo. «Mi spiace, sorellina.» Garstone consultò il cipollone da tasca. «Signore, vi informo che...» «Lo so!» dissero insieme le due donne. Rachel trasse un profondo respiro. «Dove troviamo Testa di Ferro?» «Non posso dirtelo. Chissà cos'altro potrei cambiare, se te lo dicessi. Lo troverai, sorellina.» Così Rachel s'incamminò verso la casa più vicina e bussò alla porta. Dopo qualche momento una donna anziana aprì di una fessura e sbirciò fuori. «Dove posso trovare il capitano Testa di Ferro?» domandò Rachel. «Il capitano chi?» «Garstone», disse Rachel. «Reed Garstone, il capitano della milizia di Acquardente.» La vecchia strinse le palpebre. «Alla palizzata, si capisce. Dove potrebbe essere in un momento come questo? Chiedi al Quartier Generale. Là sapranno dirti dove con precisione.» Pochi minuti di cammino sulla via principale li portarono al Quartier Generale, presso la porta meridionale di Acquardente. Era una costruzione di tronchi bassa e squadrata, larga poco più di una stanza. A contatto di due dei muri esterni c'erano un pollaio e un recinto per i maiali. Nessuno sorvegliava l'ingresso, così Rachel si limitò a bussare ed entrò. La sua se stessa più anziana rimase fuori. «Per tutelare l'integrità della linea temporale», aveva spiegato. Ciò nonostante, quando Rachel aprì la porta, fu sollevata nel vedere che Testa di Ferro era lì, seduto al tavolo. L'uomo si era tolto il casco metallico, lasciando scoperti i capelli scuri, scarmigliati, e aveva appeso la spada e il martello a un gancio della parete, dietro di lui. Alzò gli occhi dalla mappa che stava studiando e la scrutò, accigliato. «Cosa posso fare per te?» Rachel fece per rispondere, ma si rese conto di non aver ancora pensato bene a ciò che le conveniva dire. In ogni modo doveva farlo, anche se riferite in quel modo le notizie sarebbero sembrate farneticazioni di una pazza. 231
Prima che cominciasse a parlare entrò Garstone. Testa di Ferro inarcò le sopracciglia. Il suo sguardo passò da lui a Rachel, poi di nuovo al fratello. «Eli! È un pezzo che non ci vediamo.» Garstone consultò l'orologio. «Tecnicamente, Reed, è meno di un giorno da quando...» Il capitano alzò una mano. «Lascia perdere, Eli. È sempre la stessa storia, ogni volta che ci incontriamo. E mi confonde sempre le idee sentirti parlare di conversazioni con me che non sono ancora avvenute.» Fece un sogghigno a Rachel. «Ma non si ricorda mai il mio compleanno.» Rachel provò un impeto di sollievo. «Devo dirti qualcosa che... ti sembrerà strano», cominciò. Testa di Ferro si appoggiò allo schienale della sedia e incrociò le mani dietro la nuca. «Non sarà la prima volta», rispose. *** Re Menoa era seduto nella biblioteca di recente formazione, alla sommità della Nona Cittadella, quando l'intera fortezza cominciò a ululare. Mise giù il libro che stava leggendo e ordinò: «Informami». Le pareti e i pavimenti dell'intera Cittadella, come gli stessi libri della biblioteca, erano stati costruiti coi morti dell'Inferno e programmati per eseguire qualunque servigio Menoa gli richiedesse. Ma, a differenza dei sacerdoti Icarate, quelle semplici conformazioni avevano un'intelligenza limitata. Incapace di definire l'esatta causa del disturbo, il pavimento si espresse in termini rozzi. «Notizia dalle fondamenta!» gridò con una singola bocca grigia dal centro della distesa di mattonelle. «Crolli e fuoco! Una presenza. La Cittadella è inondata. C'è stato un terremoto, mio signore. Fulmini hanno colpito la torre dell'orologio. La vostra preziosa biblioteca è ridotta in cenere.» «La biblioteca non sta bruciando. Una cosa simile è impossibile, qui», replicò re Menoa. Ma i libri continuarono a gemere e a tremare sugli scaffali. Menoa si domandò quanto del loro contenuto poteva essere cambiato in quell'istante di panico. La paura era fin troppo spesso una sorgente di conformazioni erronee, e i morti mentivano di frequente quanto i vivi. Lui approvava i cambiamenti - il caos si adattava alla sua natura - ma non fu affatto lieto che un evento sconosciuto causasse quel particolare cambiamento. Le sorprese lo irritavano. 232
«Una stella si è infilata nelle viscere della fortezza e ci ha lasciati vulnerabili agli intrusi», gemette il pavimento. Il re si alzò dalla poltrona. «Quali intrusi?» «Un grande esercito è entrato, mio signore.» «Nell'Inferno non c'è nessun esercito! La Nona Cittadella ha forse perduto la testa? Mandami una sfera delle streghe. Convoca i miei Icarate.» Forse aveva permesso a quell'edificio di crescere troppo, e troppo in fretta. Ora conteneva tremila piani, cosa che gli offriva uno splendido panorama dell'Inferno. Possibile che forzando una tale crescita lui avesse danneggiato le capacità razionali della costruzione? «Massacrati, tutti massacrati. Le loro menti vengono risucchiate fuori dell'acqua rossa», ululò il pavimento. L'acqua rossa? Un brivido improvviso strinse il cuore di Menoa. Che il Fiume dei Difettosi avesse sconfinato nella fortezza? Dove aveva trovato il coraggio e l'intelligenza di fare una cosa simile? «Scale, giù», ordinò. La superficie di mattonelle si rimescolò in fretta e prese forma una scala a spirale che scendeva fino al pianterreno della Nona Cittadella. Il re schioccò le dita e torce si accesero per tutta la profondità di quel pozzo, inondando di luce il soffitto della biblioteca. Si girò per gettare via il libro, ma d'un tratto esitò e guardò l'ultima pagina. ... si formò una scalinata che scendeva fino ai piani più bassi della magnifica fortezza del re. Sua Gloriosa maestà, il Signore e Governatore di tutto il Labirinto, fece per gettare il povero e spaurito - benché fedele - libro da parte, ma nella sua saggezza si fermò per osservare la pagina finale. Inutile oggetto. Ora stava cercando, nel suo modo untuoso, di descrivere gli eventi che gli accadevano intorno. Menoa scaraventò con violenza lo stupido oggetto contro il muro della biblioteca, poi si precipitò giù per la scala che aveva appena plasmato, chiedendosi come il libro avrebbe interpretato quella reazione. Tutte le stanze dei livelli sottostanti erano agitate nello stesso modo. Il re scese con decisione verso il cuore della Cittadella, oltrepassando pareti tremolanti di costrutti privi di occhi i quali sostenevano le lastre di pietra anche quelle fatte di costrutti - che lui usava come scalini. Altre di quelle conformazioni sollevavano lanterne gialle per illuminargli il cammino, op233
pure si protendevano verso di lui come mendicanti. Menoa spostava le forme che osavano accostarsi troppo. Creava porte dove gli sembrava che servissero porte, o arcate quando gli veniva il desiderio di guardare quello che c'era dietro certi muri. Gli scalini fremevano sotto i suoi stivali mentre le cieche creature dei muri mormoravano e gemevano. Quei costrutti erano terrorizzati, ma non da lui. Non da lui! La rabbia non era cosa di cui il re del Labirinto avesse molta esperienza. Pensava che annebbiasse il raziocinio. Lui preferiva distaccarsi dalle sue stesse emozioni, perché solo a tale patto era in grado di analizzarle e modificarle per facilitare i suoi scopi. Ma ora la sua maschera di vetro cambiava formando nuove e ferali espressioni, quasi contro la sua volontà. S'impegnò per trovare la calma. Possibile che il Fiume dei Difettosi fosse entrato nella più potente fortezza dell'Inferno? Certo aveva la forza di farlo, ma lui dubitava che ne avesse il desiderio. Nonostante il suo potere, il fiume era un bambino. Dal momento in cui il fiume aveva capito chi era suo padre, Menoa aveva subito fatto i passi necessari per insegnargli la disciplina. Lui non poteva danneggiare il fiume, però poteva far sì che il fiume lo rispettasse. Il re si fermò sulla scala, mentre in lui germogliava il seme di un dubbio. E se Cospinol fosse in qualche modo riuscito a mettere il fiume contro di lui? Dopotutto, la nave volante del dio del mare aveva fatto perdere le sue tracce fin da quand'era entrata nel portale. Possibile che la Rotsward avesse viaggiato nel sottosuolo? Menoa desiderò che i muri smettessero di gemere. Centinaia di voci tacquero, e i loro supporti tremarono pur continuando a porgere le lanterne. Per la prima volta da quando aveva preso il potere, il Signore del Labirinto conobbe la paura. Alzò lo sguardo nella vasta spirale da lui creata nel cuore dell'edificio, con le migliaia di stanze e porte da lui inconsciamente volute. Perché aveva fatto ciò? Guardò giù nelle nebulose profondità, dove un centinaio di piani lo separava dalle buie fondamenta della Cittadella. Dov'erano tutti i suoi Icarate? Essi avrebbero dovuto rispondere alle grida disperate dell'edificio. Si voltò verso il muro e fece un gesto. Il costrutto si aprì con un lacerante sussurro per consentire al re di passare oltre. Pochi passi lo portarono in un appartamento non sorvegliato dove vecchi mobili, lasciati lì da secoli o millenni senza una volontà a guidarli, si 234
erano ammucchiati in un angolo come cercando di fuggire. Con un cenno il re li fece tornare al loro giusto posto. Aprì un'altra arcata nel muro di fondo. Quella era la facciata della Nona Cittadella, e davanti a lui c'era il vuoto. Menoa volle che la muratura si gonfiasse a formare un balcone, e uscì. I suoi artigli di vetro afferrarono i tendini freschi e le ossa della balaustra da lui appena costruita. Da quell'altezza vedeva i canali dell'Inferno fino a grande distanza. I templi e gli ziggurat di pietre nere, corrose, emergevano da quel rossastro caos come grandi ragni morti. Pesanti chiatte trasportavano anime in ogni angolo del Labirinto. Il cielo era insolitamente pieno di Ioliti volanti, notò, senza farci troppo caso. Poi abbassò lo sguardo. I suoi Icarate stavano in effetti rispondendo alle suppliche della Cittadella. Si erano riuniti in gran numero intorno alla base del grande processore piramidale, spingendo davanti a sé accalappiacani, Non Morai e ogni altro genere di demoni e spettri. Migliaia di costrutti del re venivano spinte nella Cittadella. Un lampo di luce attrasse la sua attenzione sullo stesso piano dove si trovava lui. Una delle tante spie del re, uno Iolite a forma di lucertola alata, era atterrato sulla balaustra del balcone. Le sue piume trasparenti scintillavano tintinnando. Con voce calma e piacevole disse: «La Nona Cittadella è sotto attacco, mio signore». «Da parte di chi? E il fiume?» domandò Menoa. «Il fiume la accompagna, la segue come un cane, divorando i demoni e gli Icarate caduti sotto i colpi della spada che lei impugna.» «Lei?» «Lei è un angelo, mio signore.» La maschera vitrea di Menoa aggrottò la fronte come un viso umano. «Viene dalla Prima Cittadella?» «Lei non è morta, mio signore.» Quella notizia colpì Menoa. Una guerriera nascosta a bordo della nave volante di Cospinol? Forse lui aveva sottovalutato il vecchio dio. Ma chi poteva essere? Dove mai Cospinol aveva trovato una creatura abbastanza potente da attaccare la più grande fortezza del Labirinto... da sola? «Sei sicuro che lei non provenga dall'Inferno?» domandò. Lo Iolite sbatté il becco con impazienza. «Lei è viva.» 235
La maschera di Menoa cominciò a cambiare ancora, e gli angoli della bocca di vetro si piegarono in un freddo sorriso. Subito rientrò nella fortezza e scese lungo la scala centrale, senza un tremito di esitazione nei suoi passi, perché Cospinol gli aveva appena fatto un inaspettato e meraviglioso regalo. *** «Non abbiamo esplosivi», rispose Testa di Ferro, mettendosi l'elmetto. «Ma dovete averne», insisté Rachel. «Tu hai detto che erano pronti fin da quando avete saputo della battaglia di Coreollis. E che si trovavano sul posto prima che i nemici arrivassero.» «Evidentemente ti ho mentito. Quante ne hai viste?» «Quante mine?» Lei cercò di ricordare la sequenza di esplosioni che avevano distrutto mezzo paese. «Non lo so... almeno venti, suppongo.» Il capitano ci pensò per un momento, poi annuì. «Questo è possibile. Dovremmo essere in grado di mettere insieme abbastanza polvere nera, prima dell'arrivo degli automi del re Rosso. Il carbone e il salnitro non ci mancano, anche se siamo un po' a corto di zolfo.» Garstone chiuse con uno scatto secco il coperchio dell'orologio da tasca. «Se la signora Hael originale... cioè la versione che sta arrivando qui nella bocca dell'arconita... deve raggiungere l'Obscura Redunda in tempo per tornare a questo momento, bisogna evacuare Acquardente entro le tre e sedici minuti di oggi pomeriggio.» Testa di Ferro annuì. «Dunque abbiamo circa quattro ore.» Si alzò dalla sedia e prese il martello e il fodero della spada. «Farò i preparativi necessari. Signora Hael, vuoi mostrare a uno dei miei luogotenenti dove piazzare i barili di polvere? Vorrei che fossero più vicini possibile ai punti dove li hai visti esplodere.» Rachel assentì. Tornata fuori, non fu sorpresa nell'accorgersi che la se stessa anziana non si vedeva da nessuna parte. Scambiò uno sguardo con Garstone, e lui si premette un dito sulle labbra. Mantenere l'integrità della linea temporale. Senza dubbio l'altra Rachel stava osservando lo svolgersi degli avvenimenti da qualche posto, nelle vicinanze. Il capitano radunò un gruppo di uomini, diede ordini, e di lì a poco l'intero paese cominciò a prepararsi per la battaglia e l'evacuazione che sarebbe seguita. 236
Nelle due ore successive Acquardente diventò un campo di lavoro. Rachel percorse le strade con Garstone e uno dei soldati di Testa di Ferro, un giovane attento con una lavagnetta su cui scriveva note con un pezzo di gesso. Scelsero con la maggior precisione possibile i punti dove sistemare i barili di polvere nera, basandosi su ciò che lei ricordava delle esplosioni. Altri soldati stavano mettendo micce e materiale infiammabile nei magazzini. I marinai e i pescatori preparavano le imbarcazioni per una rapida partenza. Gli abitanti furono informati del piano di evacuazione e dell'ordine di portare con sé soltanto il minimo necessario, cibo e acqua. Più tardi, nel primo pomeriggio, la stessa vedetta cui Rachel aveva permesso di fuggire arrivò in paese. Lei era in attesa con Garstone e il capitano fuori del Quartier Generale, quando il ragazzo tirò le redini del suo cavallo. I luogotenenti di Testa di Ferro lo aiutarono a smontare di sella. Era poco più che un bambino, infagottato in una giacca di pelle che gli stava troppo larga, e parlò in ansiti sfiatati. «Un arconita... capitano, ha distrutto la nostra torre... ucciso Bennet e Simons. È grosso, capitano... armato con un'accetta larga come una chiatta. Viene da questa parte.» «Va bene, figliolo», disse il capitano. «Aspettavamo un attacco di questo genere fin da quando Coreollis è caduta. Vai ai moli e fai rapporto a Cooper. Lui ti metterà su una barca.» Si voltò. Poi, ripensandoci, guardò ancora il ragazzo. «Hai fatto il tuo dovere, figliolo. Ci hai avvertiti in tempo.» Quando il ragazzo se ne fu andato, Testa di Ferro disse a Rachel: «Ora gli uomini saliranno sulla palizzata, signora Hael, e se fossi in te resterei fuori vista. Ti suggerisco di tornare a bordo della tua barca e andare ad aspettarci sul lago, nella zona dove dovrai incontrare me e l'altra te stessa». «Non dirle niente di tutto questo. Dovrò essere io a spiegarle come stanno le cose.» E prenderla a pugni, pensò, con una smorfia. Ora si trovava esattamente nella posizione della gemella futura che aveva incontrato sul lago. Quasi esattamente. «Non preoccuparti, signora Hael. Io non ti conosco. Tireremo le nostre frecce sul mostro, ed eviteremo quello che lui ci getterà addosso.» Rachel annuì. Ora sentiva la necessità di parlare con la se stessa più anziana, anche se, con un po' di fortuna, non avrebbe più avuto bisogno del suo aiuto. I barilotti di polvere nera erano a posto, e la Rachel in arrivo sarebbe stata tenuta all'oscuro dei preparativi fatti quel giorno. L'intera situazione sembrava replicare gli eventi che lei ricordava. E forse Dill poteva ancora essere salvato. «Un'altra cosa, capitano. 237
Quant'è profondo il lago?» «Circa ottocento piedi. Perché?» Abbastanza profondo. Rachel sentì un impeto di speranza. «Subito dopo avermi incontrata, tu hai voluto entrare nella bocca dell'arconita. Cioè... tutto questo è successo nella battaglia che sta per arrivare. Mi hai detto che volevi vedere coi tuoi occhi dentro la testa dell'arconita. In quel momento io non mi spiegavo il perché, ma adesso ho capito. Tu dovevi dare a Dill un mio messaggio.» «Qual è il messaggio?» «In mezzo al fumo e alla confusione che ci saranno, lui dovrà trovare il modo di sfuggire ai giganti di Menoa...» «Immergendosi nell'acqua e camminando sul fondo del lago?» Rachel strinse le palpebre. «Ti ho già detto questa parte del mio piano?» Che lì ci fosse già stata ancora un'altra versione di se stessa? «No, signora Hael. Solo, mi sembra ovvio. Il tuo gigantesco amico non ha bisogno di respirare, del resto.» Il capitano si grattò la barba. «Se Dill fuggirà sotto la superficie del lago, il posto migliore per il tuo amico Hasp sarà nella sacca d'aria dentro il suo cranio.» Naturalmente. A Rachel parve giusto. Hasp doveva avere la possibilità di respirare, durante la fuga di Dill. Così avrebbero potuto salvarsi entrambi. Il capitano aggiunse: «Ti dirò di sistemare là Hasp, prima che arrivino gli arconiti del re. Fino a quel momento lascerò che tu cerchi di far funzionare il tuo piano per imbrogliare Oran». Un corno suonò su una delle torri di guardia della palizzata di Acquardente. Testa di Ferro fece per voltarsi, poi esitò. «Questi automi hanno dei motori, no?» domandò a Rachel. «I motori sono soltanto una finzione, un espediente per rafforzare il condizionamento mesmerista sull'anima che li manovra. In realtà non funzionano, perciò l'acqua non gli fa niente.» «No», rispose Testa di Ferro, «io volevo dire che producono fumo, e una scia di fumo che si alzasse dalle acque rivelerebbe ai nemici la posizione del tuo amico.» La sua fronte si aggrottò ancora. «Se avessimo più tempo, avrei messo in atto un espediente per nascondere questa traccia. Una diversione, magari.» 238
Dalla torre di guardia provenne un altro segnale. «È l'ora che io cominci la recita, signora Hael», disse il capitano. Mentre andava via in fretta si voltò a mezzo. «Mi aspetto di rivederti presto.» Rachel si sentiva come intorpidita. Le zattere degli hericani non erano state costruite per nascondere le imbarcazioni di Acquardente con una cortina fumogena. Al contrario, avevano avuto lo scopo di confondere le idee a chi cercasse di localizzare Dill tramite il fumo emesso dai suoi motori. Ma ora, senza quell'espediente, il suo amico sarebbe stato rintracciabile. Non sarebbe riuscito a fuggire nascondendosi sotto la superficie del lago. E la se stessa più anziana doveva averlo sempre saputo. Una voce dietro di lei disse: «So cosa stai pensando, ma ti sbagli, sorellina». La sua gemella temporale uscì dalla veranda della casa più vicina. Garstone le rivolse un sorriso. «Ah, siete qui, signora Hael anziana.» «Puoi anche fare a meno di chiamarmi 'anziana', Eli», replicò lei. «Scusate, signora Hael.» La Rachel anziana si avvicinò alla più giovane. «Non potremo mai essere certi che le zattere degli hericani abbiano qualche effetto sul destino dell'universo. Gli avvenimenti che Sabor ha visto verificarsi qui erano troppo... estremi perché noi potessimo correre qualunque rischio. Costruire quelle zattere avrebbe potuto alterare ciò che avevamo già visto, e confondere gli eventi a un punto tale che non avremmo saputo dove intervenire per risolvere il problema.» «Hai lasciato andare avanti le cose nel modo che tu avevi visto, perché sapevi in quale momento intervenire? Allora sai esattamente cosa dovrai fare?» La se stessa più anziana non disse niente. «E non puoi dirmelo?» «Non senza rischiare tutto.» Rachel allargò le braccia, esasperata. «Ma... se non erano soltanto le zattere... allora cos'ho fatto per mandare tutto a farsi fottere così di brutto?» L'altra se stessa accennò verso i moli. «È necessario che ti comporti secondo il piano. Io ti starò vicino, finché non giudicherò che la mia presenza potrà influire sullo sviluppo delle cose.» «Il piano prevede che io me ne vada da qui.» «In questo caso, muoviamoci.» 239
Erano appena arrivate sulla riva del lago quando Dill cominciò a fingere l'attacco ad Acquardente. Rachel udì una serie di tonfi, e voltandosi vide il gigantesco automa che si avvicinava alla palizzata. Le piastre della sua armatura, forgiate nel Labirinto, baluginavano di un verde ultraterreno nella nebbia, e le sue grandi ali sgualcite coprivano il cielo. Sulle mani teneva la locanda della Sega Rugginosa, malconcia e inclinata di lato. Esitò, emanando fumo nero dalle articolazioni, e i suoi occhi vuoti esaminarono l'abitato. Dill aveva fatto quella pausa, la volta precedente? Rachel non riusciva a ricordarlo. Nella sua mente roteavano vaghi ricordi e incontrollabili possibilità. C'era qualcosa che stava per andare storto, un avvenimento del quale lei aveva tutta la colpa. A denti stretti osservò l'automa dal cui cranio guardava fuori un'altra Rachel, la donna che era stata lei pochissimo tempo prima. I difensori del paese scagliarono verso l'alto uno sciame di frecce. Di lì a poco seguì una seconda salva. Dill alzò la locanda sopra la sua testa e ruggì. «Non esagerare, Dill», mormorò lei. Come ipnotizzata, assisté all'inizio della finta battaglia. Dill schiacciò un tratto della palizzata, ruggì ancora e stampò orme profonde sul terreno, attento a non ammazzare qualcuno mentre - a sua insaputa - anche la milizia di Acquardente recitava una scena. Gli uomini attaccarono con furia convincente, sprecando le frecce poiché Dill non poteva essere danneggiato. Gli avvenimenti, per quello che Rachel poteva ricordare, si svolsero proprio come avrebbero dovuto. Garstone le diede di gomito. «Signora Hael, non credo che sia saggio restare qui. L'automa potrebbe decidere di venire da questa parte.» «È quello che sta facendo, Garstone. Viene dritto verso di noi.» «Una ragione in più per andarcene.» Corsero al riparo in quello che risultò un vicolo cieco, proprio mentre Dill arrivava a passi tonanti giù per la strada principale. L'automa si fermò sulla riva, raccolse un'imbarcazione dal lago e la scagliò verso i soldati che lo inseguivano. «Sta succedendo tutto come io lo ricordo. Non ci sono differenze.» Rachel si era rivolta alla se stessa più anziana, ma lei era troppo intenta a guardare il lago per rispondere. Dill ruggì ancora e indietreggiò nell'acqua, coi massicci stivali di ferro 240
che schiacciavano barche e mandavano i moli in schegge. Poi si fermò, emise un gemito terribile e cadde lentamente sulle ginocchia. L'ondata che investì le imbarcazioni all'ormeggio ne trascinò alcune sulla terraferma. Gli schizzi arrivarono anche in faccia a Rachel, mentre gli uomini di Testa di Ferro gridavano con allegra ferocia nel precipitarsi avanti. Qualche momento dopo udì il grido d'aiuto dall'interno della bocca dell'arconita. Non le parve affatto convincente. Garstone fu del suo stesso parere. «Credo che quella voce disperata fosse la vostra, signora Hael. È stata una fortuna che voi non aveste nessun bisogno di sembrare autentica.» Testa di Ferro e i suoi uomini recitarono bene la loro parte. Si riunirono nervosamente di fronte alla mandibola di Dill, guardando il gigante caduto con genuino timore. In effetti doveva essere la prima volta che quella gente vedeva una simile creatura. Un minuto dopo fu Testa di Ferro a farsi avanti. Rachel non udì molto della conversazione che ebbe luogo tra il capitano e la ex se stessa, ma le parole che riuscì a distinguere le parvero più o meno quelle che ricordava. Un uomo arrivò di corsa tra le file della milizia di Acquardente, chiamando il capitano. Poco dopo si scatenò il caos. «Ecco», disse Rachel ai suoi due compagni. «Sono arrivati gli arconiti di Menoa. E adesso che la finta battaglia lascia il posto a quella vera.» Garstone gettò un'occhiata al suo orologio. «Forse è l'occasione buona per salire su una barca», disse. «Se volete incontrare voi stessa al momento giusto, non ci resta molto tempo.» Rachel dovette dargli ragione, ma era riluttante ad andarsene. La sua ex se stessa era uscita in strada. Mina la seguì quasi subito, con Basilis tra le braccia. Il cane cominciò immediatamente ad abbaiare. «Dobbiamo evacuare il paese», gridò Testa di Ferro. «Mettete le donne e i bambini su tutte le imbarcazioni disponibili. Holden, segnala ai piloti di venire a riva. Spindle, prendi i tuoi uomini... sai già cosa fare. Voglio venti squadre, quattro a est...» Rachel indietreggiò contro l'edificio. Il cane di Mina li aveva visti. Ora l'animale si agitava tra le braccia della donna, con gli occhietti fissi sui tre intrusi. «... Bernlow, Malk, Cooper, Geary, Wigg e qualcun altro... tu, Thatcher: tenete gli aggressori divisi, e lontani dalla riva. Ritiratevi lentamente in direzione opposta, ma non lasciate che quei bastardi vi calpestino.» 241
Rachel non sapeva cosa fare. Ricordava bene di aver sentito Basilis latrare in quel modo, dopo essere uscita all'aperto. Tuttavia niente d'importante era cambiato. Si voltò. Mina la stava guardando. I loro occhi s'incontrarono per un istante, poi la taumaturga distolse lo sguardo e disse qualcosa all'altra Rachel. Lei ricordava quelle parole: Non ha niente. Sta solo abbaiando contro di te. Mina! Tu hai sempre saputo che io ero qui. La scena continuò a svolgersi esattamente come Rachel la ricordava. Da sud giunse una serie di schianti. Sull'altro lato della via principale Dill depose al suolo la locanda della Sega Rugginosa. Oran venne fuori e cominciò a discutere con suo fratello. I soldati tornarono di corsa verso l'interno di Acquardente per fronteggiare la nuova minaccia. Tre squilli di tromba segnalarono l'inizio dell'evacuazione. E la cosa andò avanti. Come stordita, Rachel vide se stessa e Mina portare Hasp sul palmo aperto di Dill. Vide quest'ultimo sollevare la mano e, quando infine la riabbassò al suolo, Mina e l'altra Rachel ne saltarono giù. Nel vicolo, Rachel annuì. «Abbiamo sistemato Hasp nella bocca di Dill», spiegò a Garstone. L'uomo tossicchiò cortesemente. «Affascinante. Ora possiamo ritirarci su una barca, signora Hael?» «Io sono tenuta a fare ciò che mi sembra giusto, altrimenti potrei corrompere questa linea temporale. Be', io voglio vedere cosa succede qui.» Si voltò verso la versione più anziana di se stessa. «Anche tu devi essere rimasta qui, visto che è quello che voglio fare io. Ce ne andremo dopo le esplosioni. Mi resterà abbastanza tempo per attraversare il lago e incontrare me stessa.» «E va bene, signora», disse Garstone. Rachel fu colpita da un pensiero. «Tu non c'eri sulla barca», disse a Garstone. «Non c'ero?» «No. La me stessa che ho incontrato sul lago era sola.» Garstone fece un gesto di sorpresa. «Suppongo allora che quella versione di me fosse morta, signora. Dopotutto, questa è una situazione particolarmente pericolosa.» Lei lo guardò. «Morta, oppure avevi deciso di restare qui, eh?» «Non mi sembra probabile, signora. Io non ho nessuna intenzione di lasciarvi sola. Sabor non approverebbe.» «Forse sei rimasto ferito.» 242
«Questo è certo possibile, signora Hael. Anche se occorrerebbe una ferita grave per costringermi ad abbandonarvi. Se uno non può camminare, può nuotare, e se uno non...» «Be', e se tu fossi svenuto? Allora non potresti seguirmi. Non sarebbe necessario neppure che tu fossi gravemente ferito.» Garstone guardò l'orologio. «Sì, non c'è dubbio che possa essere successo questo, signora Hael», sbuffò. «Questo spiegherebbe alla perfezione la mia assenza dalla barca.» «Sì.» Rachel lo colpì con forza su un lato della testa, e il piccolo uomo dallo stinto vestito marrone rotolò a terra svenuto. Lo afferrò sotto le ascelle. «Aiutami a caricarlo su una di quelle barche», disse all'altra se stessa. «Tu sai che io non posso interferire, sorellina. Non ancora.» Rachel sospirò. «Quando io diventerò te, non aspettarti nessun aiuto.» Ci pensò un momento, poi scosse il capo. «Dimentica quello che ho detto.» Trascinò l'uomo privo di sensi sul lato opposto della strada, lontano da Dill e dalla Sega Rugginosa, e si guardò intorno. Tutti gli uomini di Oran e le loro prostitute erano usciti dalla locanda pericolante. Centinaia di profughi stavano già andando al porto. Vide Rosella e Abner Hill e sentì una fitta di rimorso. Sarebbe riuscita a recuperare un po' di oro per quei due, finché ne aveva ancora la possibilità? No, non poteva rischiare. Ogni decisione che modificasse il futuro, come lei sapeva, avrebbe potuto innescare conseguenze tali da condurre alla rovina quel mondo. La sua altra se stessa si teneva in disparte e osservava con attenzione. «Non può essere a questo punto che ho commesso lo sbaglio», decise Rachel. «Qualunque versione di me avrebbe fatto le stesse cose. Nessuna di noi avrebbe lasciato Dill a morire qui.» La gente si affollava sulla strada dei moli, mentre le imbarcazioni a vapore ormeggiate più al largo si avvicinavano a terra. Una squadra della milizia di Acquardente stava già portando la gente verso barche più piccole, ma la maggior parte dei soldati tornava nell'interno del paese o cominciava a portare torce accese nei magazzini del quartiere portuale. Il fuoco crepitò e si arrampicò su per le pareti dell'edificio più vicino. Rachel attese finché un gruppo di profughi non ebbe frettolosamente oltrepassato lo sbocco del vicolo sulla strada principale, quindi afferrò il corpo inerte di Garstone sotto le ascelle e lo trascinò dietro di loro verso i mo243
li. Una scarpa dell'uomo gli si sfilò dal piede. Ansimando lei raggiunse una passerella, dove la gente faceva la fila in attesa di salire a bordo. «Potete portarlo via per me?» domandò a un'anziana coppia, in cima alla fila. L'uomo, alto e magro, avrebbe potuto essere suo nonno, ma le parve abbastanza robusto da farcela. Aveva già con sé un grosso sacco. «Come dici?» «Prendetelo con voi. Io devo tornare indietro a cercare i miei figli.» La bugia funzionò come aveva sperato. Il vecchio gettò il sacco sulla barca in attesa, e si passò sulle spalle un braccio di Garstone. Con l'aiuto di una donna corpulenta che era già a bordo, l'uomo privo di sensi fu portato oltre la passerella. Ora tutti i magazzini dei dintorni stavano bruciando. Dill indietreggiò sul basso fondale e sollevò due imbarcazioni vuote sulla strada dei moli, per farle caricare di gente. Nell'interno, le immense ali degli arconiti di Menoa luccicavano tra la nebbia e il fumo. Le loro gambe corazzate erano piantate nelle strade come torri di ferro. Da sud venivano rumori di battaglia. Poi l'arconita di Menoa parlò. «Dill, re Menoa vuole negoziare una tregua...» Rachel tornò di corsa al vicolo cieco per riunirsi all'altra se stessa. «Cosa diavolo succede qui?» La voce apparteneva a uno degli uomini di Oran, un colosso barbuto apparso sull'imbocco del vicolo con due prostitute che gli si stringevano addosso. Erano tutti e tre mezzi spogliati e ubriachi. Gli occhi insospettiti del boscaiolo fissarono per un momento le due Rachel, poi si girarono a guardare la strada, dove la Rachel arrivata poco prima con Dill era ancora accanto a Mina. L'individuo fece scostare le prostitute ed estrasse la spada. «Sorelle, eh?» disse a Rachel. «Che razza d'imbrogli state facendo?» Spinse via una delle prostitute. «Vai a dire a Oran cos'ho preso qui.» La donna lo guardò storto, ma si tirò su l'orlo della gonna e corse in direzione della Sega Rugginosa. Nel frattempo la voce dell'arconita continuava a tuonare: «... I guerrieri del re hanno forse attaccato chi cerca di fuggire? Hanno forse impedito questa evacuazione? Hanno forse usato la loro influenza su Hasp?» La prostituta rimasta si portò una fiasca alla bocca e bevve un sorso. «Gemelle, direi. Questa più giovane è la sua immagine sputata. Guarda, ha perfino lo stesso taglio sopra l'orecchio.» 244
Il boscaiolo grugnì. «Questo è molto strano. Mi sembra proprio un tranello.» «Un tranello», gli fece eco la donna. Rachel scambiò uno sguardo con la se stessa più anziana. È questo il momento che stavi aspettando? È questo il momento in cui l'intera faccenda è andata storta? L'altra Rachel doveva aver capito quella muta domanda, perché abbassò gli occhi. I barili di polvere esplosero. Lo spostamento d'aria strappò via i tetti di due edifici sull'altro lato della strada. Rachel si accovacciò al suolo mentre un nuvolone di polvere piombava su di loro e grandini di detriti investivano le case circostanti. Qualcosa la colpì alla testa facendola cadere in avanti. Un suono acuto sommerse i suoi pensieri. Ma l'istinto ebbe la meglio. Fece per rialzarsi. «Stai giù», ringhiò il boscaiolo. Una mano l'afferrò per i capelli, spingendole la faccia sul terreno fangoso. Nelle narici le entrò polvere umida. Intravide la lama di una spada. Poi l'uomo la lasciò, all'improvviso. Rachel alzò lo sguardo e vide il boscaiolo sbattere contro la facciata di una casa. La se stessa più anziana era accanto a lei, e stava abbassando la gamba con cui gli aveva sferrato un calcio. «Sei stata tu?» ansimò Rachel. «Già.» «E il futuro?» «Lo sto cambiando.» L'altra afferrò Rachel e la tirò in piedi. «Ora dobbiamo scappare, prima che...» La sua voce si spense. Stava guardando oltre Rachel, verso l'imboccatura del vicolo. Oran e un gruppo numeroso dei suoi boscaioli bloccavano la loro unica via di fuga. Erano una cinquantina, armati, irritati, e coperti di polvere grigia. La prostituta che era andata a chiamarli sedeva su uno scalino lì accanto, e si guardava le unghie con faccia inespressiva. Il capo dei boscaioli venne verso Rachel, con aria sprezzante. «Sorelle?» Rise e scosse il capo. «No, io so la verità. L'altro doppione di te non sa neppure che tu sei qui, vero? Lei non è ancora stata al castello di Sabor per diventare te. Qual è la differenza di tempo tra te e lei... un paio di giorni? E 245
ci sono almeno vent'anni tra te e quest'altro doppione qui.» Indicò la Rachel più anziana con la punta della spada. Poi si rivolse ai suoi uomini. «Prendetele.» La Rachel più anziana indietreggiò, con gli occhi fissi sui boscaioli armati che si avvicinavano. Calcola le probabilità. Rachel non sapeva neppure se l'altra assassina della Spina era ancora in grado di focalizzare. Un attacco innaturalmente veloce le avrebbe permesso di uccidere cinque o sei avversari. Lasciandone altri quaranta per me. Anni addietro aveva fronteggiato probabilità peggiori. Ma l'altra se stessa non fece niente del genere. Si limitò ad abbassare la testa e fece un passo avanti, lasciando che gli uomini di Oran venissero a prenderle entrambe. Nel caos che c'era tutto intorno nessuno notò i boscaioli che si allontanavano dal porto con due prigioniere. Il gruppo si lasciò il lago alle spalle e girò in una traversa deserta, parallela alla strada dei moli. Tutte le case sul lato di terra erano state ridotte in macerie dall'esplosione delle mine di Testa di Ferro. Uno degli arconiti di Menoa incombeva quasi sopra di loro, stagliato contro il cielo polveroso, mentre dalla parte del lago torreggiava la mole di Dill. Oran gridò ordini, incitando il gruppo ad affrettarsi. Una voce muggiva nell'aria: «... continui a rifiutare il negoziato. Dobbiamo schiacciarti le ossa, o resterai tra noi per ascoltare la proposta di re Menoa?» Rachel sapeva cosa stava per succedere, ma il tonfo la fece sussultare ugualmente quando Dill affondò l'enorme accetta nel collo dell'altro automa, facendolo cadere in ginocchio. Le colossali tibie si abbatterono a pochi passi dal gruppo in fuga. Uno degli uomini di Oran gridò e scomparve, sepolto dal crollo di un muro. Gli altri si coprirono la testa con le mani per proteggersi dalla polvere. Prostrato sulle ginocchia ma enorme sopra di loro, il guerriero di Menoa caduto aveva notato gli esseri umani che gli passavano davanti. Le sue grandi orbite scure diedero a Rachel l'impressione di essere scrutata fino in fondo all'anima. Imprevedibilmente, Oran si fermò e agitò le braccia per richiamare su di sé l'attenzione del colosso. Poi gridò verso di lui: «Vogliamo allearci con Menoa. Digli che abbiamo...» In quel momento Dill colpì l'arconita con una ginocchiata in faccia e lo fece cadere all'indietro. L'altro vibrò orizzontalmente la sua possente ascia, 246
che tagliò l'aria pochi piedi sopra le teste degli umani e sparì verso est. La polvere sollevata dal colpo di vento che seguì quel gesto vorticò nella strada. L'ascia andò a colpire un bersaglio non voluto a qualche isolato di distanza, con un sonoro clang. «... parlare con lui», aveva finito di gridare Oran. Subito ordinò ai suoi uomini di seguirlo verso l'interno del paese semidistrutto. Rachel riuscì ad avvicinarsi all'altra se stessa. «Mi auguro che il tuo momento debba ancora venire, sorellina. I freni di questo universo si sono rotti. Stiamo correndo a rotta di collo sulla strada del precipizio.» «Lo so.» «Puoi ancora focalizzare?» «Sì.» «Bene, questo può servire. Forse io non sarò abbastanza svelta, ma sosterrò ogni mossa che tu...» Uno dei loro catturatori la spinse avanti. Quelli alle loro spalle erano una dozzina, malridotti e impolverati come i superstiti di un terremoto. Continuavano a tossire e sputacchiare e a passarsi sugli occhi le mani guantate. Refoli di scintille infuocate bruciavano il cielo dietro di loro. Il gruppo continuò ad andare a sud verso un altro incrocio, mentre la battaglia dei giganti proseguiva quasi sopra le loro teste. Rachel non avrebbe saputo dire dove si trovavano, perché di Acquardente non era rimasto niente di riconoscibile. Si domandò se la sua prima se stessa fosse già riuscita a imbarcarsi con Mina. Avrebbero attraversato il lago con la protezione della nebbia, ma presso la riva opposta non ci sarebbe stata nessun'altra Rachel ad aspettarle per condurle al castello di Sabor. Nessun'altra Rachel avrebbe colpito la sua versione precedente con un pugno in faccia. Alzò una mano a palpeggiarsi lo zigomo. Il livido c'era ancora, gonfio e dolente. Com'era possibile che lei avesse ricevuto il colpo, se non c'era più chi gliel'avrebbe dato? Ma naturalmente tutto ciò era accaduto in un universo differente da quello. Quello era il mondo in cui tutto era andato storto, e dove il futuro era diventato così insopportabile che un'altra Rachel sarebbe tornata indietro nel tempo per rimediare al suo errore. Si voltò verso l'altra se stessa e domandò: «Quali sono le conseguenze di ciò che sta succedendo? Importa qualcosa se me lo dici, adesso?» 247
L'altra esitò, poi rispose: «Dill ti ama. Farebbe qualsiasi cosa per te. Anche se significasse la morte per lui. Anche se significasse la fine di questo mondo». «Non capisco.» «Non lasciare che i mesmeristi ti prendano viva.» Rachel annuì. Ora, finalmente, capiva. Arrivò l'ordine di fermarsi, e il gruppo si radunò davanti a un ripido mucchio di macerie. Oran era salito alla sommità di quei resti, e con le mani unite intorno alla bocca stava gridando a squarciagola per farsi udire dagli arconiti di Menoa, tra gli schianti metallici che riempivano il cielo. Nuvole di fumo oscuravano quasi completamente i dintorni. D'un tratto però Rachel vide una grande forma metallica muoversi nell'aria dietro il capo dei boscaioli. I rumori della battaglia cessarono. Su di lei cadde un'ombra. La Rachel più anziana gridò un avvertimento e la spinse da parte con forza. Ma non era stata abbastanza svelta. Cinque mostruose dita ossee scesero dall'alto e si chiusero intorno alle due donne, scavando il terreno con le estremità che si stringevano verso di loro. Rachel perse l'equilibrio e cadde addosso all'altra se stessa. Si sentì sollevare rapidamente, in un polverone fitto e irrespirabile. Più in basso Oran continuava a gridare, ma le sue parole erano incomprensibili. «Dill! Dill, sei tu?» Ciò che udì fu invece una voce tonante, molto vicina. «Mi è stato detto che il nome Rachel Hael significa molto per te.» Una pausa, quindi l'arconita continuò, in tono più dolce: «È lei la donna che si trova nella mia mano, Dill... la vedi? Non le faremo del male. Il re ha sempre desiderato la pace tra noi». Il cuore di Rachel batteva come un tamburo. Cercò di respirare un po' d'aria. «Spero che tu non abbia mancato il tuo momento, sorellina», disse, asciugandosi le lacrime dagli occhi pieni di polvere. «Il futuro è ancora molto incerto.» Sentì una mano stringere una delle sue. «Molto incerto, sì.» Attraverso una schiarita nel polverone vide il volto scheletrico di Dill. Ma era davvero lui? Non riusciva più a capirlo. Ora gli arconiti erano tutt'intorno a lei. Sentiva i tonfi pesanti dei loro piedi, il rombo dei loro motori. Sentiva l'odore del Labirinto in ogni suo tremulo respiro. 248
«Inginocchiati», ordinò il guerriero di Menoa. Fu allora che lo vide. Dill non aveva nessuna espressione - quella faccia d'ossa non poteva assumerne nessuna - ma Rachel capì che era lui quando si lasciò cadere in ginocchio tra le rovine fumanti di Acquardente. «Deponi la tua arma», disse l'arconita. Dill mise l'accetta rubata sui tetti di un paio di case. Gli edifici, già in parte distrutti, crollarono sotto il suo peso. L'arconita disse: «Il re è compiaciuto. Ma rimane prudente. Come gesto di buona volontà e di sottomissione chiede che tu ci permetta di riportare il nobile Hasp nel Labirinto. Abbiamo bisogno della sua assistenza per sistemare una piccola questione laggiù. Fai questo per il re e avrai la sua parola che non sarà fatto del male a Rachel Hael». Rachel si gettò contro le dita dell'automa, e gridò: «No!» «Se accetti, devi soltanto chinare la testa», continuò il guerriero di Menoa. Rachel gridò ancora, ma non poté fermare ciò che accadde. Dill chinò la testa. L'arconita di Menoa sollevò l'accetta e gliela abbatté sul cranio con un tonfo terribile. Dill cadde in avanti sbattendo la mandibola al suolo. Nel cielo del paese si levò di nuovo un polverone vorticante. Inorridita, Rachel attese che l'aria si schiarisse. Il dubbio piantato nella sua anima all'inizio della battaglia dalle parole dell'arconita di Menoa era davvero riuscito a indebolirlo, perché lei vide che quel colpo lo aveva ferito. Il suo cranio era aperto fino alla mandibola da una profonda spaccatura. Dill cercò di alzare la testa. Tra i suoi denti e sul mento sgocciolava del sangue. «Hasp?» gemette Rachel. «Questo è il momento, sorellina.» Rachel sentì una mano su una spalla. Si voltò e vide l'altra se stessa estrarre il coltello dalla cintura. Appariva stanca, ora molto più anziana dei due decenni che le separavano. «Vuoi dire che noi due siamo di troppo?» domandò Rachel. L'altra annuì. «Cosa succederà se non... ce ne andiamo?» «Molta gente soffrirà.» Rachel fece un lungo sospiro. «Mi chiedo se abbiamo perso un'altra opportunità... forse, se io avessi fatto qualcosa di diverso...» 249
«Questo resta sempre l'unico modo per esserne sicuri. Per me e per te è ormai troppo pericoloso esistere qui.» L'altra guardò la lama che aveva in mano. «Farò in fretta. Nessuna di noi due soffrirà.» «Ma la Rachel sul lago riuscirà a fuggire, vero?» «Dill non fermerà più l'avanzata degli arconiti, ora. Lui non sa che quella Rachel è fuggita, perché tu sei qui. Finché Menoa ha una di noi in ostaggio, Dill dovrà obbedire al Signore del Labirinto. Questa linea temporale è un vicolo cieco per noi.» «Ma qualcosa di noi sopravvivrà altrove?» insisté Rachel. «L'universo dove io ho incontrato me stessa sul lago esiste ancora, non è così? Quella versione di me che ho lasciato nel castello di Sabor è sempre là.» L'altra Rachel annuì. «Lei è te. E lei sopravvivrà e invecchierà. E un giorno capirà che nessun mondo merita di soffrire, neppure uno condannato.» Sorrise mestamente. «Questo non rende la cosa più facile, vero?» Rachel si asciugò le lacrime dagli occhi. «No. Non la rende più facile.» «Addio, sorellina.» «Addio.»
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11 CARNIVAL E MENOA
Rachel poté finalmente tirare un sospiro di sollievo. La stanza usata dalla sua ex se stessa, la Greengage, era tornata vuota. La linea temporale cui apparteneva se l'era portata via, e la sua porta esterna si apriva ora su un mondo diverso. Guardando dentro dalla finestrella lei vide un locale illuminato dalla luna. Sulla balconata sopraggiunse un'altra versione di Garstone, vestito con uno spiegazzato abito marrone. L'uomo salutò con un cenno del capo il fratello, poi si rivolse a Sabor. «Mi avete chiamato, signore?» «Arrivi in ritardo, Garstone», rispose il dio degli orologi. «Avevo bisogno che tu accompagnassi la signora Hael dieci ore nel passato, ma hai perduto questa opportunità. Lei è già andata via.» Il piccolo individuo estrasse una mappa da una tasca interna della giacca, e la aprì. «Dieci ore, signore? Mmm... questo ci presenta un piccolo problema, non è vero?» Si grattò la testa e sospirò. «Una strada c'è, ma temo che sarò quattordici anni più vecchio quando potrò incontrare la signora.» Sabor lo guardò con alterigia. «Quattordici anni non sono niente. Sarai ancora in buona salute quando la raggiungerai. Ah... grazie.» Si voltò a prendere una busta dalle mani di un altro Garstone, molto più anziano, che stava passando proprio allora, e la consegnò al doppione più giovane. «Queste sono le tue istruzioni, oltre alla regolazione degli apparati che dovremo effettuare per controllare rapidamente se l'arconita nostro amico ha eluso i suoi inseguitori. Hai quattordici anni per leggere il tutto, e meno di dieci ore per eseguire la missione.» «Quelle zattere erano una perdita di tempo, e qui ne stiamo perdendo altre ancora. Dill ha bisogno di essere aiutato subito», disse Rachel. Garstone prese i documenti che il suo padrone gli consegnava. «Grazie, signore. Ora, se volete scusarmi, sarà meglio che vada. La prima stanza partirà fra...» - consultò il cipollone da tasca - «... cinquantatre secondi.» Si allontanò in fretta e scomparve in una delle molte porte. Alcuni orologi a pendolo suonarono, come per festeggiare la sua parten251
za. «Adesso andiamo.» Rachel si voltò, senza guardare se gli altri la seguissero. Era già passato troppo tempo da quando, riuniti intorno al tavolo dell'obscura di Sabor, avevano visto Dill strisciare fuori del lago... un'immagine già vecchia di diciassette minuti. Da allora, al suo amico poteva essere successa qualsiasi cosa. Il gruppo si riunì ai piedi di uno spunzone di basalto vitreo, al limite esterno del pianoro in mezzo al quale sorgeva l'Obscura Redunda di Sabor. Un vento gelido li frustava con forti raffiche, mentre alle loro spalle il castello palpitava di vorticanti effetti visivi. Da quell'altezza Rachel poteva vedere per leghe e leghe in ogni direzione la riva settentrionale del Lago dei Fiori; promontori e spiaggette di sabbia argentea; il fumo dei camini di Molo Kevin; i colli verdeggianti che si susseguivano sempre più alti fino alle severe Montagne del Tempio e, sul pendio dove serpeggiava la pista, l'arconita Dill. Il poderoso automa usava l'unico braccio funzionante per trascinarsi su lungo il versante boscoso. Un ammasso di tubature, ossa e pezzi di macchinari uniti da cavi arava il terreno accanto al suo bacino squartato. Si stava lasciando alle spalle una scia di olio lubrificante e alberi stroncati. Rachel si allontanò verso il sentiero, ma, dietro di lei, Sabor gridò: «Non puoi fare niente per lui». «Devo aiutarlo», replicò lei. «È troppo grosso! Non puoi trasportarlo fin qui, e non puoi ripararlo. Deve farcela con le sue forze.» «Può darsi che sia vero, ma questo non significa che debba restare solo.» E continuò a correre giù lungo il sentiero sassoso. Aveva percorso sì e no duecento passi che fu raggiunta da Testa di Ferro. Udì dietro di sé i suoi passi e il crepitio della sua armatura di cuoio, e voltandosi lo vide sogghignare. «Hai dato a Sabor una lezione di compassione», disse l'uomo. «Non ho ancora conosciuto un dio che non ne avesse bisogno. A parte Hasp, che però ha cercato di ammazzarmi.» A una certa distanza dietro di loro, qualcuno gridò. Rachel guardò verso l'alto e si accorse che anche Mina la stava seguendo, coi piedi di vetro che scivolavano nella polvere, mentre il suo cagnolino le saltellava intorno. Non c'era segno di Sabor. Evidentemente aveva 252
deciso di non scomodarsi. Camminavano sul sentiero da un'ora quando Rachel sentì il rumore dell'enorme corpo dell'arconita che risaliva lungo la foresta. Deviò in quella direzione e precedette i due compagni nel folto della boscaglia. Tutto era silenzio, salvo gli schianti degli alberi stroncati e i ritmici colpi dell'ossatura sul terreno. Lui smise di muoversi quando li vide. Il suo braccio massiccio collassò al suolo con un ultimo tonfo, e il cranio privo di mandibola rimase posato sul versante, con le orbite rivolte verso di loro. Rachel scoppiò in lacrime. Vacillò fino al cranio e vi si appoggiò contro. L'ossatura inerte era dura e ruvida sotto le sue mani, fredda. Il grande scheletro dell'arconita disteso sulla vegetazione stritolata era una massa di metallo contorto, tubi e costolature. Rachel sentì una mano su una spalla, e voltandosi vide accanto a sé Mina. «Non può parlare», disse la taumaturga. «Cerchiamo la sua anima.» Lo stretto passaggio che portava nella camera dell'anima di Dill era sul fondo di una bocca ormai priva della mandibola, e non fu troppo difficile raggiungerlo e inerpicarsi nell'interno. La camera era ancora in penombra, benché da alcune spaccature sul cranio dell'arconita entrasse la luce del giorno. Al centro, la sfera di vetro contenente lo spirito dell'angelo era attorniata da macchinari danneggiati e azzurre schegge di cristallo. Accanto al globo era distesa una figura che stringeva in una mano una bottiglia, e che al loro ingresso alzò la testa con un grugnito. «Hasp!» gridò Mina, correndo verso di lui. Il Signore della Prima Cittadella si prese la testa tra le mani e grugnì ancora. «Stai lontana da me, taumaturga. Non so dove sono e cosa stia facendo qui. Sembra che ci sia stata una battaglia, ma non ne ricordo niente.» «Hai bevuto troppo», disse lei. «Anche questo, sì.» Hasp rovesciò la testa all'indietro e chiuse gli occhi. Rachel scavalcò i detriti e appoggiò le mani sulla sfera di vetro. I fantasmi nel suo interno fluttuavano l'uno dentro l'altro come sogni, attraversando quello di Dill. La mente di lei fu assalita dalle loro voci: Troppo tardi... troppo tardi... sta morendo... non avrebbe dovuto combattere, e ora... uccidendo noi... troppo tardi, il colpo dall'alto... tremante... tanto dolore, e polvere, e buio... lasciaci in pace... 253
«Dill?» La voce di lui rispose, debolmente: Stavo andando a cercarti al castello di Sabor. «Non è troppo lontano da qui.» Lui tacque un momento. Questa collina mi ha tolto le forze. «Senti dolore?» Un poco. Lei appoggiò la fronte sul vetro freddo. «Ma sei riuscito a fuggire da loro, e ad arrivare fin qui.» Ho perso l'accetta. «Non importa.» Una lacrima scese sulla liscia superficie della sfera e le bagnò una mano. Lei non sapeva cosa dirgli. Non era in grado di curare le sue ferite, né di portarlo dentro il castello di Sabor. Anche se fosse riuscito a inerpicarsi su per la montagna, avrebbe dovuto restare sul pianoro mentre tutti gli altri andavano dentro. Mina venne ad appoggiare una mano sul vetro, accanto al viso di Rachel. «Dill, tu capisci in che razza di guaio ti trovi? Loro ti hanno completamente distrutto.» Sei Mina? «Oh, Mina!» Rachel le diede un'occhiataccia. «Devi proprio essere sempre così fottutamente insensibile?» «Be', tu guardalo», disse la taumaturga. «Guarda com'è ridotto. Non ha più gambe, gli resta un braccio solo, e il resto di lui è un ammasso di rottami. Non riuscirà neppure a salire fino all'obscura.» «Ce la farà», disse Rachel. «E poi? Rimarrà là fuori ad arrugginire? Non resta niente di lui, Rachel. Qui non c'è niente che possiamo salvare.» Sopra di loro ci fu uno schianto, e un pezzo del cranio di Dill largo come un tavolo cadde a fracassarsi su un mucchio di cristalli rotti, in un angolo della camera. Hasp sussultò, tenendosi la testa. Rachel prese Mina per una spalla e la fece scostare dalla sfera per parlarle in privato. «Cos'è che stai facendo?» Mina sospirò, spazientita. Si piegò in avanti e le sussurrò in un orecchio: «Gli sto dicendo come stanno le cose, Rachel. Lui non può sopravvivere in 254
queste condizioni, e la cosa migliore è che se ne renda conto». Si raddrizzò, con un sorriso freddo. «Usa la testa, Spina.» E all'improvviso Rachel capì. I guerrieri di Menoa avevano indebolito Dill piantandogli dubbi nella mente. Quel grande corpo di ossa e metallo era invulnerabile solo nella misura in cui Dill lo credeva tale, così gli altri arconiti lo avevano reso vulnerabile semplicemente convincendolo che lo era. Adesso Mina stava cercando di finire il loro lavoro. Se lo avesse indebolito abbastanza, forse sarebbero riuscite a spaccare la sfera e farne uscire la sua anima. Rachel guardò negli occhi l'altra donna. «Cosa succederà alla sua anima, quando l'avremo tirata fuori di lì?» «La maggior parte degli spiriti può sopravvivere per un po' su questa terra, e Dill è molto più potente della media dei fantasmi. Quand'era all'Inferno ha mangiato un frammento di Iril, un pezzo dell'anima di Hasp, e...» sorrise - «... anche un piccolo pezzo di me.» «Per quanto tempo potrà esistere senza questa sfera?» Mina si strinse nelle spalle. «Anche per un angelo lui è molto fuori del comune. Perché non lo facciamo uscire e vediamo cosa succede?» *** «Sei sicura che funzionerà?» «No, ma tu fallo lo stesso», rispose Mina. Testa di Ferro vibrò il suo martello contro la sfera di vetro. Nella camera risuonò un vibrante clangore. L'uomo esaminò l'intaccatura che aveva prodotto nella superficie liscia, scosse il capo e sollevò di nuovo l'arma. Al secondo colpo il vetro si schiantò. Così liberati, gli spettri della sfera rotearono tra le pareti della camera in un vortice di mani vaporose, occhi e denti. Rachel vacillò mentre frusciavano davanti alla sua faccia, afferrandola per i capelli, dandole buffetti, e udì nella mente le loro grida. Non all'Inferno... rinfrescato... c'è vita, calore... guarda la luce... così fresco... tesori... Mina rimase su un lato della camera, con gli occhi chiusi. Stava accarezzando il suo cane, e mormorava qualcosa tra sé. Poi riaprì gli occhi e permise a Basilis di saltare giù dalle sue braccia. 255
L'animale corse avanti, ringhiando. «State lontani dai miei amici», disse Mina agli spettri. «Se cercherete di possedere uno chiunque di noi, il mio padrone vi trascinerà fuori del posseduto e vi manderà in un posto che non vi piacerà affatto. Sapete cosa può fare un demonio come lui a un'anima?» Sorrise. «Se pensavate che all'Inferno si stesse male, aspettate finché non vedrete la casa di Basilis.» Il vortice di spettri si alzò sibilando in una spirale di vaghe forme contorte, che affluirono verso un foro nel cranio dell'arconita. In un battito di cuore scomparvero all'esterno, e nella camera ne rimase soltanto uno. «Vedo che hai riavuto le ali», disse Rachel. Una specie. Le piume traslucide di Dill emanavano un'aura azzurrina nella penombra. Sembrava molto più alto e forte dell'angelo che Rachel aveva visto per l'ultima volta a Deepgate, tanto tempo prima, ma portava la stessa consunta cotta di maglia e i calzoni e la vecchia spada dei suoi antenati. Alcune rughe gli segnavano la fronte, ma i suoi occhi irradiavano calma e sicurezza. Alzò una mano e se la guardò, sorridendo. Sono anche più magro, disse. Hasp spalancò i pesanti battenti di bronzo dell'Obscura Redunda, e muggì: «Sabor! Dove sei? Ho fame, sono pieno di dolori e voglio bere qualcosa». Il dio degli orologi gratificò di uno sguardo sdegnoso il fratello più giovane. «Vedo che sei tornato dall'Inferno, Hasp. A quanto pare hai perso le ali. E anche la pelle.» Hasp grugnì. «Quel bastardo di Menoa mi ha ridotto male. In ogni modo mi ha mandato addosso un milione di demoni, ed è stata una settimana faticosa.» Sabor lo squadrò con altezzosa freddezza, socchiudendo le palpebre. «Sono sicuro che la battaglia sia stata terribile, certo.» I due continuarono a conversare, ma Rachel non li ascoltava più. Stava osservando attentamente Dill con la coda dell'occhio. Il giovane angelo era tra Mina e Testa di Ferro, e guardava con timore e meraviglia il grande apparato di tubi e lenti che pendeva sopra di loro, dall'altissimo soffitto della sala centrale. Il suo corpo si era fatto più trasparente, o era soltanto un'impressione? Le sembrava che nella luce viva tendesse a svanire, per tornare a essere più solido quando si trovava all'ombra. «Non credo che gli spettri mangino», disse Hasp, «ma noialtri stiamo 256
morendo di fame, fratello. Non abbiamo toccato cibo da quando Dill ha lasciato giù La sega Rugginosa.» Sabor sospirò. «Dirò a Garstone di prepararci la cena.» Rachel si voltò a fronteggiarlo. «Dove lo troviamo il tempo di cenare tranquillamente?» chiese. Indicò verso la porta. «Ci sono ancora undici arconiti là fuori, da qualche parte, e in questo momento non abbiamo nessun mezzo per difenderci da loro. Non abbiamo un piano, non abbiamo un'idea di dove sia il Paradiso, e nessun modo d'indurre Ayen ad agire, anche se potessimo raggiungerla.» Sabor inarcò le sopracciglia. «Tempo? Tu domandi a me dove troveremo il tempo?» Andarono a cena in una saletta sobriamente tappezzata in pannelli di legno scuro che, grazie al cielo, esisteva lì e in quel periodo. L'annessa cucina invece non faceva che spostarsi avanti e indietro nel tempo, e il risultato di ciò fu che la portata principale arrivò in tavola prima degli antipasti, mentre il budino fu servito tre minuti prima di essere stato ordinato. Dill si teneva in disparte, luccicando un poco e con un lieve sorriso sulle labbra, accontentandosi di guardare gli altri che mangiavano. Nessuno di loro ebbe comunque motivo di lamentarsi del servizio. Garstone cucinò e servì in tavola i quattro commensali simultaneamente, ricorrendo ad alcune versioni passate di se stesso che portavano piatti avanti e indietro. Continuava a passare attraverso il corpo di Dill, ma senza mancare mai di chiedergli scusa. Tra un boccone e l'altro di agnello arrosto, Sabor disse: «L'ingresso del Paradiso si trova in un tempio, alla sommità di questa stessa montagna». Rachel trasalì. «Qui?» Sabor annuì. «Conoscere la sua posizione fisica, tuttavia, non ci aiuterà. La porta non può essere aperta.» Masticò pensosamente la carne. «Ayen ha scacciato tutti noi, i suoi legittimi figli, dal Paradiso, dopo la nostra rivolta contro di lei. Ma ha espulso questo castello per un motivo assai diverso.» Testa di Ferro vuotò il boccale. Garstone si avvicinò con una caraffa di vino per riempirglielo ancora, ma l'altro gliela tolse di mano e si versò il vino da solo. «Non voglio che tu faccia il servitore con me, Eli. Non è giusto.» Poi si rivolse a Sabor. «Ayen non può permettere che questo castello esista nel Paradiso. Con tutte queste porte che conducono nel passato, e chissà quante versioni multiple di voi, signore, che ci vivono dentro, non si sentirebbe al sicuro, vero?» «Proprio così», disse Sabor. «Lei ha spostato l'Obscura Redunda in que257
sto mondo, e così facendo ha messo l'intera storia futura di questo castello fuori del suo regno. Esso non esiste più nel Paradiso, anzi non è mai esistito là.» Hasp si sporse sul tavolo, staccò un pezzo di carne da un osso usando i denti, poi asciugò una delle sue mani di vetro sulla tovaglia. «È occorso molto potere», borbottò. «Lo sforzo l'ha lasciata esausta», spiegò Sabor. «In quel momento di rabbia lei ha creato una porta all'interno del suo tempio terreno e attraverso di essa ha scacciato ogni traccia della nostra presenza dal Paradiso. Gli eserciti, le armi... tutto è stato allontanato dalla sua vista. Noi non avevamo nessun sospetto che lei potesse radunare tutta quella... furia.» «Ma perché? Cos'avete fatto per irritarla così?» volle sapere Rachel. Hasp sbuffò nel suo boccale di vino. Il dio degli orologi fece un sorriso sottile. «Noi siamo i suoi figli legittimi. Ulcis, Cospinol, Rys, Hafe, Mirith, Hasp e io, tutti nati da Ayen e da suo marito Iril. Per diritto di nascita avremmo dovuto ereditare il Paradiso.» Bevve un sorso di vino. «Ma lei non ci ha mai amato. Non ci ha mai trattati alla pari del suo figlio favorito.» «Ayen aveva un altro figlio?» domandò Rachel. Lui annuì. «Un bastardo, un ragazzo per metà umano, concepito dopo che Iril aveva preso in moglie nostra madre. Lei ha tradito nostro padre nel modo più insopportabile. Si è portata a letto un mortale, e potete immaginare come ha reagito Iril a questo.» Hasp fece udire un'altra sbuffata derisoria, e protese il boccale verso uno dei Garstone per farselo riempire. «Non bene, suppongo, eh?» Mina annusò il contenuto del suo boccale. «Questo vino è acido?» Due Garstone apparvero subito accanto a lei. «Sono terribilmente dispiaciuto, signora Greene. È così difficile seguire l'invecchiamento dei vini nella nostra cantina. Prego, lasciate che ve lo sostituisca.» Uno di loro le tolse il boccale di mano e lo portò via. L'altro sparì alla ricerca di un'altra bottiglia. «Decisamente no», confermò Sabor. «Iril ha ucciso l'amante mortale di nostra madre e se l'è mangiato. Avrebbe ucciso anche il figlio bastardo, se lei non l'avesse nascosto. Nostro padre ha preteso che Ayen glielo consegnasse, ma lei ha rifiutato. E così è iniziata la guerra in Paradiso.» 258
«Allora il bambino è sopravvissuto?» «Non per molto. Alla fine della guerra Ayen era molto più debole. Aveva usato fino all'ultima briciola del suo potere per espellerci. Per questo il suo figlio bastardo ha deciso di nascondersi meglio e si è ucciso, sacrificando la sua vita per impedire che noi andassimo a cercarlo in Paradiso. Ha condannato se stesso all'Inferno, e la sua anima si è rifugiata laggiù, anche per garantire la tranquillità di Ayen.» Testa di Ferro grugnì. «Qualcuno potrebbe considerarlo un nobile gesto.» Sabor e Hasp gli lanciarono un'occhiataccia. «Qualcuno», si affrettò a sottolineare Testa di Ferro. «Pazzoidi, traditori e gentaglia simile.» «Ma l'Inferno era governato da Iril», disse Rachel. «Cos'è successo al bastardo, quando è finito laggiù?» «Nostro padre non aveva mai visto il figlio illegittimo di Ayen», spiegò Sabor. «Nessuno di noi conosceva il suo nome né il suo viso. Quando abbiamo scoperto la sua identità era già troppo tardi. Nell'Inferno il bastardo era salito di rango tra i seguaci di Iril. Si era distinto, entrando a far parte dei suoi più stretti collaboratori. Ma per tutto quel tempo aveva continuato a progettare la caduta di Iril, e il suo piano è andato a buon fine.» Le labbra del dio si strinsero in una linea truce. «L'ottavo figlio di Ayen, e il suo favorito, è Alteus Menoa, l'individuo che ora si fa chiamare Signore del Labirinto.» Nella stanza cadde il silenzio. Solo qualche momento dopo fu rotto dai passi dei Garstone che tornavano dalla cucina. «Il budino!» annunciò l'ometto. «Non lo abbiamo chiesto», lo informò Mina. «Lo chiederete, signora Greene, non appena l'avrete assaggiato.» Per un poco mangiarono senza conversare, poi Rachel ebbe un pensiero. «Se la porta del Paradiso è raggiungibile, perché voi non tornate indietro nel tempo per impedire a Menoa di uccidersi?» Sabor non distolse lo sguardo cupo dal suo budino. Hasp grugnì qualcosa e bevve un altro sorso di vino. Dopo qualche secondo, Garstone intervenne: «Devo dirglielo, mio signore?» Il dio degli orologi annuì. Garstone si volse a Rachel. «Questo tentativo è già stato fatto. Il nobile Rys ha usato il labirinto del tempo per tornare al momento esatto in cui 259
Menoa ha lasciato il Paradiso. Ha cercato d'impedire che il bastardo si suicidasse nel tempio di sua madre.» «Ma Rys ha fallito», continuò Sabor. «E inoltre, nell'uscire da questo castello, Rys ha corrotto la nostra linea temporale e ha messo in pericolo l'intero cosmo. La sua manipolazione della storia ha dato origine a un secondo universo, parallelo a questo.» «E ora entrambi gli universi stanno crollando», aggiunse Garstone. «I sintomi sono ovunque... squarci e bolle nel tempo ovunque le due linee si sovrappongono.» Si strinse nelle spalle. «Abbiamo eseguito delle correzioni qua e là per impedire che la nostra linea temporale collassi del tutto, ma il danno è stato fatto tremila anni fa.» «Non si estingue il debito chiedendo in prestito altri soldi», borbottò Sabor. «Io ho cercato di spiegarlo a Rys, ma lui non ha voluto ascoltarmi. Lo sciocco è voluto tornare all'origine del problema una seconda volta, per cercare ancora di catturare Menoa.» «Così voi avete ucciso Rys?» domandò Rachel. Il dio degli orologi grugnì. «Più uno viaggia lontano nel passato, più sono ramificate le conseguenze delle sue azioni. Un terzo tentativo di eliminare Menoa avrebbe potuto distruggere l'intero cosmo.» Mina corrugò la fronte. «Il Signore del Labirinto è consapevole di tutto questo?» «Sì e no», disse Sabor. «In questa linea temporale Menoa non è stato avvicinato quando ha versato il suo stesso sangue nel tempo di nostra madre. Ma nell'altra linea temporale, quella creata da Rys, ha capito cosa stava succedendo. In quell'universo i suoi arconiti hanno già raggiunto l'Obscura Redunda. Se ci sconfiggerà là, avrà accesso al labirinto del tempo e questo lo metterà in grado di spostarsi in entrambi i suoi passati, e nei nostri.» D'improvviso Garstone alzò la testa. «Avete sentito anche voi?» Rachel l'aveva sentito: un tremito nel pavimento. Si era placato da pochi istanti quando ci fu un'altra vibrazione, più forte. Poi una terza. Sabor andò a togliere le mappe dell'Obscura dal tavolo e, voltandosi verso i molti Garstone delle balconate superiori, gridò: «Lenti a ingrandimento zero, per favore, e abbassa le luci. Mostraci cosa sta succedendo fuori in questo momento». Le luci si affievolirono. Nella penombra risaltò l'aura azzurra emanata 260
dalla forma vaporosa di Dill. Da qualche parte più in alto provenne una serie di ronzii seguiti da un clangore secco. Rachel, Mina e Testa di Ferro si riunirono intorno al tavolo bianco, su cui era visibile solo un'immagine confusa. Un po' in disparte dal gruppo, Hasp stava bevendo un altro boccale di vino, mentre suo fratello Sabor era chino sotto il tavolo a girare un volantino. L'immagine divenne improvvisamente nitida. Era una vista panoramica del castello, ripresa dall'alto. Nella sera, luci gialle illuminavano la montagna dirupata creando ombre nere quanto le rocce stesse. Una vasta distesa di foresta verde scendeva verso il Lago dei Fiori, dove un cielo scuro e tempestoso sovrastava le acque fino all'orizzonte. Il grande corpo squarciato di Dill giaceva alla sommità del solco che lui aveva scavato tra la vegetazione sconvolta. Qualcuno aveva acceso accanto al suo cranio un enorme falò da cui si alzava un fumo grigio, di legna secca. Rachel poté vedere alcuni uomini che lo alimentavano con rami e sterpi. «Oran ha fatto un fuoco di segnalazione!» esclamò Testa di Ferro, furioso. Per segnalare a chi? Domandò Dill. Rachel puntò un dito su un angolo dell'immagine. «A loro.» Nove arconiti stavano uscendo dalle acque schiumose del Lago dei Fiori, con pezzi di canne e vegetazione lacustre appesi alle ali. Quando avanzarono verso la riva si tennero bassi, chini in avanti, e si tennero dietro sul basso fondale le enormi accette, mentre torrenti d'acqua grondavano fuori delle loro armature fumanti. Poi, un centinaio di passi più al largo, la superficie si riempì di bolle e di fumo che usciva dalle profondità, ed emersero altre tre grandi teste metalliche. «Con questi fanno dodici», disse Rachel. Hasp aveva una smorfia di rabbia sul volto vitreo. Si voltò verso Sabor. «Dimmi che hai un piano, fratello!» Sabor continuò a guardare il tavolo dell'obscura per un lungo minuto, con le mani strette sul bordo. Gettò un'occhiata a Dill, che in piedi accanto a lui muoveva appena le ali baluginanti, poi riportò la sua attenzione sull'immagine che aveva davanti. «Fantasmi», mormorò. «Fantasmi...» D'un tratto si raddrizzò. «Torneremo indietro. Lo faremo subito. Torneremo al momento in cui il bastardo di Ayen è uscito dal Paradiso.» «Non avete detto che un altro tentativo di fermare Menoa distruggereb261
be l'universo?» gli fece osservare Rachel. Mina sbadigliò. «Anch'io ricordo che l'ha detto, sì.» «Non abbiamo più scelta», disse Sabor. Hasp ruggì, nella penombra: «Portatemi altro vino!» *** Per la maggior parte della sua struttura, la Nona Cittadella dell'Inferno sembrava fatta di esseri umani. Non c'erano porte o finestre, lì. Le bocche incorporate nei pavimenti e nei soffitti gridavano contro di lei, e i muri... da essi sporgevano orizzontalmente toraci e teste grigiastre, con facce prive di occhi. Quei mezzi-esseri digrignavano i denti, cercavano di afferrare le ali di Carnival, oppure ringhiavano o le sputavano addosso, finché a un certo punto, spazientita, lei non cominciò a ucciderli. A ciò essi reagirono urlando. Gemiti di terrore dilagarono nell'intera schizofrenica fortezza quando Carnival si aprì la strada macellando quelle figure sovreccitate. Con la sua spada demoniaca che lampeggiava in rabbiosi fendenti, squarciò un muro e attraversò una stanza, quindi entrò con la stessa violenza in una terza, e poi in una quarta... Le figure nude si aggrappavano l'una all'altra nei loro frenetici tentativi di fuggire, ma, essendo incorporate nei muri, ogni fuga era impossibile. Così strillarono e morirono sotto la spada dell'angelo sfregiato, che per aprirsi la strada mozzava teste e braccia, staccando via grossi pezzi di carne finché non otteneva un'apertura abbastanza larga da passare oltre. Fu in tal modo che giunse in un atrio molto più spazioso, dove le pareti, da cui sporgeva quel caos di figure brulicanti, erano sorprendentemente alte. Molte di esse reggevano lastre di pietra chiara a formare una rozza scala, una lunghissima spirale di gradini che saliva nell'interno vuoto di quella torre. Altre agitavano piccole lanterne, illuminando quel posto di luce giallastra. Era il centro della Cittadella? Carnival udì uno sciacquio e voltandosi vide che il Fiume dei Difettosi entrava da numerose spaccature del pavimento, alle sue spalle. L'acqua rossa riempì subito le stanze che lei aveva attraversato, ma non le si avvicinò. Benché di natura aggressiva, il muro di liquido tremò dinanzi alla rozza apertura di quell'atrio spazioso, come se aspettasse che fosse lei ad andare avanti. Carnival non avrebbe saputo spiegare perché era andata lì. Lei aveva 262
soltanto seguito la corrente del fiume. Ma che non ci fosse un motivo importava poco, perché il sangue nelle sue vene urlava dalla voglia di battersi. Intorno a lei tutto era diventato un nemico. Lei aveva bisogno di uccidere quel posto. Le figure che componevano i muri gemettero e piansero. Poi un tremendo rumore squarciò quei corpi ammassati, ed essi si aprirono in tre punti diversi, formando tre arcate in altrettante pareti ancora intatte dell'atrio. Carnival alzò la spada. La sentiva tremare di paura. Le creature che si precipitarono a frotte nell'interno della torre erano diverse da qualunque cosa l'angelo sfregiato avesse mai visto. Lei roteò la spada per sentirne il bilanciamento e si gettò contro di loro. ... guerrieri in pallide armature di ceramica che rumoreggiavano facendo schizzare al suolo getti di scintille, figure senza pelle con bocche piene di zanne, ombre alate che si potevano vedere solo con la coda dell'occhio, umani chiusi in carapaci d'ottone, ticchettanti ruote d'ossa dentate, macchine a vapore irte di lame vorticanti, sciacalli neri, auroch, sacerdoti urlanti su trampoli metallici, nani con occhi a specchio e gambe d'acciaio, e spade, lance, mazze, martelli, falci, fruste e alabarde... Carnival li macellò tutti. E nonostante ciò essi continuarono ad arrivare, finché lei non si trovò in cima a una collina di cadaveri e poté colpirli dall'alto. Le sue cicatrici bruciavano per il piacere della battaglia, e i capelli le si appiccicavano al viso come una rete lorda di sangue. Ringhiava e rideva e si muoveva in circolo dietro la sua spada demoniaca, sbudellando e tagliando, e facendo schizzare il sangue sulle pareti. Aspirava l'ultimo respiro dei morenti ed esultava per il suo sapore. E la spada che stringeva in pugno gemeva per il dolore. Poi l'orda si fermò. E una morbida voce mascolina domandò, dall'alto: «Quelle anime dentro le tue vene... sono tutte ancora intatte?» Carnival alzò lo sguardo. Un guerriero di statura imponente sedeva sugli scalini, quindici o sedici piedi più in alto di lei. Indossava un'armatura di vetro nero irta di spine e sporgenze irregolari. La sua maschera opaca era fatta a somiglianza di un giovane volto umano liscio e attraente, ma Carnival sentì che dietro di esso ce n'era uno ancora più bello. Occhi d'oro che guardano attraverso il vetro? C'era qualcosa di strano nella luce che lo illuminava, come se quell'armatura traslucida alterasse in modo sottile ogni riflesso. 263
«Io posso vedere dentro di te», disse lui. «I miei Icarate avrebbero dovuto fare di meglio che soddisfare i tuoi desideri di violenza. Tu sei venuta qui solo per cercare il massacro, non è così?» Carnival si limitò a guardarlo. «Non sei una che ama far conversazione, vero? Io sono Alteus Menoa, figlio di Ayen e distruttore di Iril, e... padre del fiume che ti ha portato qui.» Alzò una mano guantata a indicare la camera inondata sotto di lei. «Quella povera cosa mi ama come un cagnolino, ma vedo che è anche molto presa da te.» Si permise una risata brillante, musicale. «Tutto l'Inferno è mio e tu sei più che benvenuta qui. Vuoi venire con me sulla balconata della Cittadella? Il panorama è straordinario.» Carnival era immersa fino alle ginocchia nelle carni smembrate in cima alla montagnola delle sue vittime, col cuore che le batteva forte. Il puzzo di morte le riempiva il naso, e della sua armatura di cuoio non restavano che brandelli sanguinolenti. Non riusciva a distogliere lo sguardo da quella figura strana e interessante. Qualcosa in lui... All'improvviso divenne consapevole delle proprie cicatrici, e si mosse in un goffo quanto inutile tentativo di nascondergliele. La spada demoniaca tremò nella sua mano e pianse. «Hai usato troppo quella lama mutaforma», continuò cortesemente Menoa. «Dal modo in cui trema, direi che non è abituata allo sforzo che le hai imposto. Permettimi di forgiartene una migliore, una spada con veri ricordi di guerra.» «Questa taglia bene», disse Carnival, e provò un'immediata vergogna per la sua voce. Cosa c'era di sbagliato in lei? Il suo autodisgusto innescò un altro impeto di rabbia. Agitò le ali e disse, sprezzante: «Vieni giù, e ti mostrerò quanto taglia bene». La spada emise un terribile gemito. Alteus Menoa si alzò. Dall'elmo ai piedi la sua armatura si contorse e deformò, per poi plasmarsi di nuovo intorno a lui. Era diventato più alto? Sembrava ancora più imponente di prima. Si tolse la maschera e l'elmo. Il viso che aveva nascosto era straordinariamente bello. Gli zigomi alti e le sopracciglia arcuate incorniciavano occhi a mandorla luminosi come l'oro. La pelle era bianca, priva di difetti. Lui sollevò la testa e i capelli gli scivolarono come una lucida cascata d'argento sulle spalline vitree della corazza. Le sorrise. «Tutte le anime arrivano qui nude, libere delle costrizioni naturali che tanto le limitavano in vita. Nel tuo mondo esse esistono 264
soltanto per sopravvivere, ma in un sistema rozzo e animalesco. La natura non ha altro scopo che la perpetuazione di se stessa.» Indicò in un ampio gesto i demoni di ogni forma che ancora circondavano Carnival. «Osserva questi costrutti. A essi è stato dato uno scopo più elevato, uno scopo possibile solo perché la natura dell'Inferno è non-deterministica. La tua spada è più bella di te in ogni senso. Il suo scopo è determinato dalla volontà divina, mentre il tuo no.» Una delle sue mani guantate si alzò verso di lei. Carnival sentì un tremito nei muscoli delle braccia e delle gambe. Il suo cuore smise di battere. La mano con cui stringeva la spada si aprì, e l'arma cadde. Le sue cicatrici s'ispessirono e parvero dilatarsi nella carne. Crollò in ginocchio e il fiato le uscì dalla bocca. Ma i suoi polmoni non vollero aspirare altra aria. «Tutte quelle anime nel tuo sangue possono darti potere», disse Menoa, «ma non sono mai state in armonia con te. Sono intrappolate nell'inferno che sei tu, ma cosa puoi offrire loro se non rabbia e omicidio?» Scosse il capo. «Ora che sono qui, però, io posso dar loro molto di più.» Carnival cercò di respirare, cercò di gridare, cercò di muoversi. Ma il suo corpo rifiutò di obbedire a quei comandi. Le sue mani erano chiuse, rigide come artigli. Non fu capace di aprire le dita. Le antiche cicatrici si torcevano sui polsi e sulle dita come sottili vermi rossi. La sua carne sembrava diventare pallida e cristallizzarsi. Lei si stava trasformando in qualcos'altro. *** Sabor distese la mappa sul tavolo dell'obscura. La carta era vecchia, pesantemente segnata da molte spesse linee d'inchiostro, circoli, e minuscole tabelle contenenti numeri e date. «Su questa mappa sono dettagliate tutte le vie d'accesso che abbiamo trovato negli ultimi tre mesi. Ma la maggior parte di esse ora conduce nell'universo bastardo, così devono essere evitate il più possibile. Mentre procederemo verso la storia futura dovremo utilizzare altre mappe.» «Dove si trovano?» domandò Rachel. «Nello scantinato», rispose Sabor. «Ma sono troppe perché si possa portarle con noi. Le prenderemo quando e se ne avremo bisogno.» Rachel guardò preoccupata quello schema complesso: erano sul punto di viaggiare a ritroso nel tempo di tremila anni - fino al giorno in cui Ayen aveva espulso i suoi figli dal Paradiso - e ciò allo scopo di salvare la vita di 265
Alteus Menoa, il nemico che in quel momento stava cercando di distruggerli. Sabor aveva attraversato molti dei circoli della mappa che aveva davanti. Quei circoli, diceva lui, portavano a ciò che aveva chiamato l'universo «bastardo»: l'universo parallelo di cui Rys aveva inevitabilmente causato la nascita col suo tentativo di cambiare la storia, quand'era tornato indietro nel tempo per affrontare Menoa. All'improvviso l'aria si riempì dei rintocchi d'innumerevoli orologi a pendolo. «Questo è il cambiamento di ciclo del quale abbiamo bisogno», disse Sabor. «Dobbiamo andare. Garstone, mi servirà ogni doppione di te stesso di cui potrai fare a meno. Mentre viaggiamo, comunque, potremo generare altra manodopera. La milizia di Acquardente sa cosa fare?» «Testa di Ferro terrà chiusa la porta del castello finché potrà», rispose l'ometto. «Bene. Allora seguitemi.» Sabor prese la mappa e precedette Rachel, Mina, Hasp e Dill nell'interno del castello. Attraversarono balconate e salirono rampe di scale l'una dopo l'altra, portandosi sempre più in alto. Ogni versione di Garstone cui passarono accanto si univa al gruppo e, quando giunsero alla porta giusta, a uno dei piani più elevati, dietro di loro c'era una fila di venti assistenti. Nel guardare quel singolare miscuglio di gemelli, tutti vestiti diversamente, Rachel non poté fare a meno di restare perplessa. Si chiese chi avesse procurato i loro abiti. Al pianterreno lei aveva visto un bagno, una cucina e una cameretta, dove si era distesa a dormire con Mina un paio d'ore, ma non capiva come vivesse tutta quella gente. Ce n'era di ogni età, e ogni Garstone aveva lo stesso blando sorriso. Hasp li ignorava sprezzantemente. Sabor fece cenno di fermarsi davanti alla porta di una stanza, quindi controllò di nuovo la mappa. «Come mi aspettavo, la Stanza Granadier conduce a quindici giorni fa. È un buon inizio.» Aprì la serratura temporale e fece entrare tutti. Ci fu una difficoltà col compartimento stagno, ma per oltrepassarlo bastò che si dividessero in tre gruppi. La Stanza Granadier era piccola, con le pareti tappezzate di velluto verde. Un tubo d'ottone dell'obscura sbucava da un muro e terminava con una grossa lente convessa giusto all'interno della finestrella. All'esterno si vedeva un panorama grigio, piovigginoso. 266
Non appena l'ultimo dei Garstone fu entrato ed ebbe chiuso la porta dietro di sé, tutti e venti sincronizzarono i loro orologi da tasca. Poi un Garstone girò a mano le lancette dell'orologio a pendolo adiacente a una parete, e un altro aprì di nuovo la serratura temporale. «Cambiamo stanza», annunciò Sabor. Mentre uscivano sulla balconata interna, Mina diede di gomito a Rachel. «Tremila anni di questa noia? Dèi, non so se riuscirò a farcela. Quando credi che potremo fermarci a mangiare un boccone?» «Non lo so. Dov'è finito Basilis?» La taumaturga si aprì la camicetta. Il cagnolino li guardò da una tasca interna. «Sempre vicino a me», disse Mina. Basilis confermò con un grugnito. «Sarà meglio che quel coso non ti pisci addosso», la consigliò Hasp. «Già ora ti fa puzzare abbastanza.» Mina si limitò a sorridere e richiuse la camicetta. Ben presto Rachel perse il conto delle stanze attraverso cui passavano. La vista all'esterno delle finestrelle che davano sul pianoro del castello cambiava dalla notte al giorno o al crepuscolo senza nessuno schema particolare, e Sabor continuava a consultare la sua mappa con attenzione. Dopo sei ore di viaggio si fermarono a mangiare nella stessa saletta dove avevano già cenato, e lì il dio degli orologi annunciò che si trovavano due anni prima dell'inizio del loro viaggio. Hasp sedette un po' in disparte dal gruppo, e bevve più di tutti gli altri messi insieme. Quando Garstone si avvicinò a riempirgli il boccale per l'ennesima volta, lui gli strappò la caraffa di mano e spedì via l'ometto con una spinta, esclamando: «Lasciala qui, razza d'imbecille! Quante volte devo dirtelo?» Seduto a capotavola Sabor s'irrigidì. «Qualunque cosa Menoa ti abbia fatto all'Inferno, fratello, è niente confronto a quello che tu hai fatto a te stesso.» «Questo cosa dovrebbe significare?» «Non sei più il dio che ricordavo.» Hasp grugnì. «Allora ammazzami come hai fatto con gli altri, Sabor. Almeno io ho le mani pulite.» Alcuni Garstone si erano uniti al gruppo, mentre altri avevano deciso di fermarsi e aspettare che nuove stanze fossero disponibili. Così facendo il numero di quanti si stavano recando nel passato aumentava sempre più, e 267
sulle balconate del castello si vedevano più assistenti di prima. Dopo cena ripresero il viaggio a ritroso nel tempo. Stavolta Sabor ordinò a uno soltanto dei Garstone di accompagnarli, e lasciò indietro una piccola folla di altri doppioni con l'incarico di raggiungerli quanto prima lungo altri e più macchinosi percorsi. Poi disse a Rachel, Mina e Dill di seguirlo all'ultimo piano del castello, e dichiarò che sarebbero balzati indietro di quattro anni grazie a quella che chiamò la Stanza Tansy. Hasp si accodò a loro borbottando imprecazioni sottovoce. Non appena Rachel uscì dal compartimento stagno, si accorse che qualcosa non andava. La stanza era molto più sporca e mal tenuta delle altre. Dagli stucchi alle pareti pendevano festoni di ragnatele. I mobili tarlati e stinti parlavano di un lungo abbandono, e i chiodi delle assicelle del pavimento erano arrugginiti. Ma vi stagnava un puzzo che faceva pensare a qualcosa di più sinistro della scarsa manutenzione. Qui, Rachel. Dill era andato a guardare dietro un vecchio divano imbottito in crine di cavallo, con le ali che fluttuavano come pallide aurore azzurre, e stava indicando un corpo sul pavimento. Era una versione di Garstone che indossava i resti di un completo blu. Doveva essere morto da molto tempo, comprese Rachel, perché la carne si era quasi mummificata. I capelli erano una ragnatela secca. Ma le infossature sul cranio parlavano di una morte violenta. Il poveretto, pensò, doveva essere stato assassinato. Uno dei Garstone raccolse l'orologio da tasca del suo doppione morto, e lo esaminò. Poi alzò lo sguardo e disse: «Questo è molto insolito». Sabor corrugò le sopracciglia. «Quand'è stato ucciso?» Garstone confrontò l'orologio del morto col suo. «Le lancette del mese e dell'anno sono ferme a sei mesi nel nostro passato, tuttavia lo stato del corpo indica che è deceduto moltissimo tempo prima. O lo hanno portato qui perché noi lo trovassimo, oppure...» «Oppure aveva dimenticato di caricare l'orologio?» suggerì Mina. Garstone scosse il capo. «No», disse con assoluta convinzione. «Questo è impossibile. Io non me lo dimentico mai.» Rifletté un poco. «Credo che lui abbia fatto questo deliberatamente... per lasciarvi un messaggio.» «Un biglietto non sarebbe stato più semplice?» «Un biglietto avrebbe potuto essere rimosso dal suo corpo, signora 268
Greene. Ma chi si preoccuperebbe di ricaricare o solo di guardare un orologio?» Garstone annuì. «Se io mi trovassi di fronte a un nemico in questo castello, vorrei certo registrare il nostro incontro in qualche modo sottile. Inoltre, se pensassi che la mia vita è in pericolo... sì, ora che ci penso, farei esattamente questo.» Sabor guardò il cadavere con espressione cupa. «Stai dicendo che questa versione di te ha trovato un intruso sei mesi fa, ed è fuggita nel tempo per avvertirci?» «Credo di sì. Sfortunatamente chiunque io... cioè lui, abbia incontrato sembra averlo seguito.» «E ora l'assassino è più indietro nella storia rispetto a noi?» L'assistente annuì. «Questo implica che lui abbia preso una via più diretta, e più pericolosa. Vedete, per poter restare in anticipo su di noi questa versione di me stesso e il suo inseguitore devono aver viaggiato nell'universo bastardo.» Hasp sputò in terra. «Queste sono scempiaggini. Io non capisco una parola di quello che state farneticando. Se c'è una via più veloce per il passato, perché noi non l'abbiamo presa?» Sabor guardò il fratello per un lungo momento. Alla fine disse: «L'universo bastardo è pericoloso perché la versione di Menoa che lo abita è al corrente dei nostri piani. Nel suo mondo Rys è arrivato dal futuro e ha cercato di catturarlo. Poiché lui sa che l'Obscura Redunda è una minaccia, deve aver mandato i suoi arconiti e altri agenti direttamente là». Hasp strinse le palpebre. «Allora questo castello potrebbe essere già infestato dai mesmeristi?» domandò. «È possibile.» Il Signore della Prima Cittadella si gettò a sedere su una poltrona e scosse il capo. Allungò una mano e disse, con calma: «Datemi del whisky». «Questo non ti aiuterà», disse Mina. «Non ha mai aiutato nessuno.» «E tu cosa diavolo ne sai?» grugnì Hasp. Rachel si fece avanti. «La discussione è inutile. Noi non sappiamo chi ha ucciso questo particolare Garstone, e non sappiamo se finiremo per incontrare costui, ma sappiamo che l'aggressore è molto probabilmente umano. Un arconita non avrebbe potuto entrare in questo castello, e i mesmeristi hanno bisogno di un terreno insanguinato per sopravvivere.» «Ha detto una cosa giusta», disse Mina. 269
Hasp fece un sospiro stanco. «D'accordo.» Tornato nella sala centrale dell'Obscura, Sabor rimase per qualche minuto chino sul tavolo visivo in cerca di un percorso più sicuro per proseguire il viaggio. «Dobbiamo evitare le stanze che sono diventate punto di congiunzione tra i due universi, perché è da lì che il nostro nemico può trovare la strada per la sua linea temporale.» Garstone abbassò le luci, mentre il suo padrone manovrava il macchinario sotto il tavolo. Sabor tirò leve, girò volantini e fece scattare interruttori. Poi si voltò a gridare verso le balconate sovrastanti: «Lente 904... La Stanza Foster Verde... Passare da uno e sette... Due giorni indietro, Garstone... Abbiamo sicuramente perduto quel mattino, perciò chiudi la porta e sbarrala.» Nella penombra sopra di loro sembravano esserci milioni di uomini al lavoro. I Garstone correvano da una stanza all'altra, regolavano gli orologi, consultavano mappe, aprivano serrature temporali, leggevano quadranti e inserivano lenti nei tubi, mentre il loro padrone regolava il grande marchingegno ottico d'ottone. Le immagini sul tavolo circolare bianco si susseguivano rapidamente. Con suo orrore, nella maggior parte di esse Rachel vide scene di distruzione. Foreste in fiamme e arconiti; grandi armate che marciavano alla luce delle torce su un paesaggio rossastro; il paese di Acquardente raso al suolo, con le case ridotte a mucchi di spuntoni carbonizzati da cui fili di fumo si alzavano nel vento dell'ovest; grandi figure in cammino sotto un cielo nero e giallo, con armature infernali aureolate di bagliori verdi nei raggi del sole ormai basso; resti bruciati d'imbarcazioni alla deriva sul Lago dei Fiori. Sabor aveva un'espressione truce e determinata. «Queste non sono visioni del nostro mondo, ma dell'universo bastardo. Il doppione parallelo di Alteus Menoa ha conquistato il mio castello da qualche parte nel futuro, e ora sta usando il labirinto del tempo per tornare nel suo passato. Esegue dei cambiamenti, per consentire che i suoi arconiti raggiungano l'Obscura Redunda sempre più in anticipo. Si è spostato più indietro nel tempo del punto in cui siamo attualmente, perciò è in vantaggio su di noi. Dobbiamo affrettarci se vogliamo raggiungerlo.» Un rombo improvviso scosse l'edificio. L'immagine in movimento proiettata dalle lenti dell'obscura si spense, lasciando il castello nel buio più completo. Poco dopo dozzine di fiammelle brillarono sopra di loro, quando i doppioni al servizio di Sabor accesero candele sulle balconate. Il270
luminato da quelle deboli luci palpitanti il meccanismo ottico al centro della sala incombeva come un enorme scheletro d'ottone. Il terzo superiore della sua mole era avvolto nel fumo. «C'è qualcosa lassù», disse Sabor. «Mesmeristi?» ringhiò Hasp. «Non lo so, ma qualunque cosa sia non è di questo mondo.» *** «Mi piace pensare che in qualche altro mondo tutto questo sarebbe stato diverso.» L'eco della voce dell'uomo tacque e, nella nebbia che l'aveva avvolta, Carnival cominciò a scorgere bianche lenzuola di lino. Mentre i suoi occhi si abituavano alla luce, si accorse di giacere su un letto, morbido e pulito. Un raggio di luce rossa entrava dall'unica finestra formando una macchia di colore sulla pavimentazione di mattonelle bianche, ma a parte quello tutte le pareti erano di un uniforme candore, illuminate da una fonte invisibile. Vide che c'erano anche un comò, un alto specchio, una sedia e un tavolo, anch'essi bianchi. Ed era sola. La camera non aveva nessuna porta. Si alzò a sedere sul letto. Il suo corpo dava una sensazione strana, una maggiore leggerezza, come un vestito che non le stesse a misura come prima. E in effetti la sua vecchia armatura di cuoio non c'era più. Ciò che indossava era una semplice veste di lino, bianca e liscia come la pelle dei suoi polsi. Carnival dovette guardarsi il dorso delle mani per qualche momento prima di capire cosa c'era di sbagliato. Un torpore terribile le dilagò nel cuore. Non aveva più cicatrici. Si tirò su le maniche della veste e osservò le sue braccia, snelle e flessuose, prive di difetti. Nello stesso gesto notò i lunghi capelli che le si appoggiavano sulle spalle, lucidi come un manto di seta nera. «C'è un bel miglioramento, non ti sembra?» Carnival si voltò di scatto, ma non c'era nessuno. «Dove sei?» sbottò. Silenzio. Saltò giù dal letto, e i suoi piedi nudi furono a contatto delle fredde mattonelle bianche. All'improvviso si sentì strana, sbilanciata, e cercò di allargare le ali per mantenere l'equilibrio. Quel tentativo non le portò altro che un'acuta fitta di spavento. 271
Lei non aveva ali. Per un lungo minuto Carnival rimase lì, completamente disorientata e col cuore che le galoppava nel petto. Il suo sguardo si spostò sulla finestra e sul fulvo raggio che scendeva al suolo. Poi cercò l'alto specchio in un angolo della camera. Da lì non poteva vedere niente nel vetro, salvo il riflesso del muro opposto. La paura l'attanagliò ancor più intensa. «Tu sai che è solo questione di tempo.» Lei riconobbe il morbido tono lirico di Alteus Menoa. La sua voce sembrava uscire dall'angolo più lontano della stanza, da... Guardò di nuovo lo specchio. Cautamente si avvicinò a esso. Lui la stava attendendo dall'altra parte del vetro, dove lei si sarebbe aspettata di vedere il suo riflesso. Invece dell'armatura vitrea portava un paio di calzoni bianchi e una giubba imbottita sulle cui spalle posavano i lisci capelli argentei. Nei suoi occhi d'oro ci fu un lampo quando disse: «La maggior parte delle anime si adatta facilmente a una nuova forma. La tua però è molto più antica di loro. Lo shock di vedere il nuovo volto che ti ho dato potrebbe essere... traumatico». «Mostramela.» Il figlio di Ayen inarcò le sopracciglia. «Nessuna furibonda minaccia... soltanto una semplice richiesta?» Rise. «Tu continui a sorprendermi, Carnival. Tanto di te resta ancora nascosto, sepolto sotto un oceano di rabbia e di follia. Perfino le anime intrappolate nel tuo sangue sanno poco di te, oltre al tuo nome. E anche questo sospetto che sia una bugia. Chi sei, tu, in realtà?» Carnival non disse niente. Menoa scrollò le spalle. «Arriveremo alla verità per gradi.» Alzò una mano snella e nel vetro di fronte a lui prese forma un'immagine: una ragazza umana, con capelli neri come il carbone e luminosi occhi azzurri, alta e snella, vestita con una semplice tunichetta di lino. Era la più bella creatura che Carnival avesse mai visto, ma perché Menoa aveva proiettato quel fantasma se non per rendere ancor più dolorosa la rivelazione delle vere fattezze di lei? Quella giovane donna stava davanti al riflesso di Menoa, così delicata al suo confronto che non gli arrivava neppure al mento. Il Signore del Labirinto si piegò verso il fantasma avvicinando la bocca a un orecchio di lei. 272
Carnival sentì il suo respiro sul collo. E stavolta, quando lui parlò, seppe esattamente dov'era. «Approvi il tuo aspetto?» le mormorò lui all'orecchio. Tremila anni d'istinti attivarono i muscoli dell'angelo prima che a rispondere fosse il suo cuore o la sua mente. Girò su se stessa con uno scatto fulmineo, sferrandogli un pugno... Dietro di lei non c'era niente, fuorché l'aria. Si voltò verso lo specchio, sicura che il bellissimo riflesso avesse lasciato il posto alla sua vera faccia orridamente sfregiata, e che sulla liscia superficie del vetro avrebbe visto solo follia e dolore. Ma a restituirle lo sguardo fu ancora quel viso perfetto. Il Signore del Labirinto se n'era andato, lasciando nello specchio soltanto la snella fanciulla dagli occhi azzurri. E, arrossendo, il suo riflesso guardò Carnival, con espressione spaurita. La voce suadente di Menoa riempì la camera come una musica. «Non c'è niente che tu possa uccidere, qui, e nessuno che ti giudichi. Non c'è più nessun motivo per portare delle cicatrici.» Dalla gola di Carnival scaturì un singhiozzo. Con un calcio selvaggio colpì lo specchio, mandandolo in pezzi. Poi afferrò una delle schegge e se la passò freneticamente su un braccio, tagliando più volte. Il sangue uscì a fiotti da squarci lunghi e sottili. Il dolore fu uno shock per lei, ma lo accolse con una gioia che sconfinava nella feroce disperazione. Cadde in ginocchio, con la scheggia in pugno, poi la sollevò di nuovo e se la affondò in una coscia, gridando di dolore. Colpì con foga la carne, ancora e ancora. La voce di Menoa si fece udire, stavolta indurita dall'ira. «Quella che stai danneggiando non è una tua creazione. Mi capisci? Non è una cosa che tu possa distruggere a tuo capriccio.» Ma Carnival era perduta nella sofferenza e nel terrore, spinta da una compulsione che non poteva capire. Lei aveva bisogno delle sue cicatrici; le richiedeva la sua anima. E così usò quel coltello di vetro finché la sua veste non fu a pezzi e le pareti della camera di Menoa non furono dipinte col suo sangue. *** Il fumo roteava fuori di una delle stanze più elevate dell'Obscura. Un improvviso lampo illuminò l'alto soffitto con vampe di luce rossa e gialla. Uno dei Garstone si sporse gridando a quelli più in basso di portare su 273
dell'acqua, e aggiunse: «Sembra che ci sia stata un'esplosione nella Stanza Camomile». Gruppi di assistenti di Sabor corsero giù in cucina a cercare pentole, secchi e caraffe d'acqua, affrettandosi poi su verso la balconata immersa nel fumo. Hasp guardò con aria preoccupata le fiamme che si vedevano dal basso, e Sabor disse: «Le esplosioni sono opera di esseri umani, non di mesmeristi. È possibile che questo attacco venga dal nostro futuro? Che si tratti di quella polvere nera usata ad Acquardente?» «Non è rimasta polvere nera ad Acquardente», lo informò Rachel. «La milizia di Testa di Ferro l'ha usata tutta.» «Allora i nostri nemici ne hanno preso un barilotto prima che venisse usata», replicò seccamente Sabor. «Smettila di pensare che la causa debba sempre precedere l'effetto. Chissà quanti sono gli universi che si diramano da questo preciso istante. Le forze di Menoa sono ormai nel nostro futuro e nel nostro passato, e loro sanno dove ci troviamo noi. Dobbiamo lasciare subito questa zona del tempo.» Aprì in fretta la sua mappa e la esaminò. I massicci battenti della porta dell'atrio dell'Obscura rimbombarono sotto un colpo tremendo, che per poco non li staccò dai cardini. Il Garstone più vicino a Rachel sussultò. «Credo che si tratti di un ariete da assedio», disse, consultando il cipollone da tasca. «I nostri nemici devono essere qui fuori.» Rachel guardò la porta. Che razza di nemici? Senza la camera obscura non avevano modo di osservare l'esterno. La porta fu investita da un secondo assalto dell'ariete, e uno dei montanti si spaccò. Dill estrasse la sua spada fantasma e si piazzò davanti all'ingresso. Un'arma fantasma poteva davvero colpire i vivi? Sabor ripiegò la mappa e s'incamminò in fretta, accennando agli altri di seguirlo. Dill voltò le spalle alla porta e li raggiunse, salendo con loro al terzo piano fino alla quarta stanza sulla sinistra della balconata. I Garstone continuavano a darsi da fare sulle scale; avevano formato una lunga fila e si passavano contenitori di ogni genere pieni d'acqua, che poi venivano gettati giù dall'alto perché fossero di nuovo riempiti in cucina. Ci fu un altro tonfo, e un rumore di legno schiantato. Il dio degli orologi guardò all'interno della stanza temporale. «Un balzo di undici anni. Purtroppo sembra che questa stanza sia stata occupata di re274
cente.» Rachel unì le mani a coppa intorno agli occhi e guardò oltre il vetro. Nella penombra, oltre l'altra finestrella del compartimento stagno, vide un divano imbottito e i soliti vecchi mobili, appena illuminati dalla luce delle stelle. Poi si accorse che la tappezzeria era bruciacchiata, e così anche i pannelli di legno alle pareti e uno scaffale per libri. Qualcuno aveva cercato di dare fuoco alla stanza, ma senza troppo successo. «Non c'è un percorso migliore?» domandò. Da sotto provenne altro rumore di legno fracassato. «Nessuna stanza con un balzo così lungo attraverso il tempo», rispose Sabor. «Nessuna che sia più sicura, almeno. L'universo bastardo ha reclamato la maggior parte delle stanze, ma questa... dovrebbe essere ancora utilizzabile.» «Sbrighiamoci a entrare», grugnì Hasp. «La porta del castello sta cedendo. Tra un minuto quelli saranno qui.» Rachel si strinse accanto a Mina e a Hasp, mentre Sabor chiudeva la porta del compartimento dietro di loro. Dill aleggiava nell'aria davanti a lei, in parte compenetrato nel corpo di Mina. Sabor aprì la porta interna e il naso di Rachel fu assalito dal puzzo di fumo. Mina si coprì la bocca con una mano, affrettandosi avanti per guardare fuori della finestra. «Fuori sembra tutto tranquillo. Non c'è segno di... niente.» L'intero castello era immerso nel silenzio. Rachel non udiva più il chiasso che poco prima infuriava all'esterno. Erano in una stanza vuota dove c'erano soltanto il freddo e il puzzo di bruciato. Hasp guardò i mobili malconci. «Potremmo dar fuoco a questo posto come si deve, così impediremmo a quei bastardi di seguirci qui.» Tutti si trovarono subito d'accordo. Usciti dalla stanza guardarono giù nell'atrio dell'Obscura. Tutto adesso appariva normale, senza nessun segno dei danni che sarebbero avvenuti in futuro. Alzando lo sguardo alle balconate superiori, Rachel vide che le porte delle stanze sembravano intatte e non c'era fumo. Sabor chiamò i sei Garstone che stavano lavorando a quel piano e diede loro qualche istruzione. Pochi minuti dopo gli assistenti cosparsero l'interno della stanza con olio da lampada. Fuori della porta, Rachel assisteva con aria pensosa. «Non potrebbe essere proprio il fuoco che stiamo per accendere la causa dei danni che ab275
biamo trovato in questa stanza?» Sabor si era messo a studiare una mappa diversa, portata da uno dei Garstone. «No. La stanza proviene da un tempo che è il suo passato, e noi ci troviamo ora nel suo futuro.» Poi però parve ripensarci e alzò lo sguardo dalla mappa. «Garstone!» Due di loro accorsero subito. «Sì, signore?» «Trovate una stanza che vi porti indietro di qualche ora, e accendete il fuoco in questa stanza allora, invece di adesso. Cerchiamo di preservare la logica di questa linea temporale, finché possiamo.» «Giusto, signore.» I due si allontanarono in fretta. Rachel trovava ancora difficile raccapezzarsi in quei continui paradossi. I due assistenti sarebbero tornati in un tempo precedente per accendere un fuoco che si sarebbe spento prima del loro arrivo, e ciò allo scopo d'impedire che quell'universo si deteriorasse più in fretta di quanto già stava accadendo. Eppure Hasp aveva avuto quell'idea dopo aver visto le conseguenze di quel piccolo incendio. Il tempo, aveva detto Sabor, non doveva necessariamente essere lineare. Poco dopo dalla Stanza Camomile cominciò a uscire fumo, ma come frutto di quale incendio Rachel non lo sapeva. Il fuoco era stato acceso poco tempo prima, oppure molto tempo prima? In ogni modo il risultato fu quello desiderato. Nessun inseguitore arrivò da quella porta temporale, e tutto faceva pensare che almeno per il momento il castello fosse al sicuro. Le immagini mostrate dalla camera obscura erano invece allarmanti. Diciannove stanze ora guardavano sull'universo bastardo. Sul tavolo si videro giganteschi automi attraversare a grandi passi territori devastati dalla guerra; il Lago dei Fiori inquinato da sostanze che davano alle acque un colore ramato con larghe strisce ocra, mentre le sue rive erano incorniciate da monconi di alberi anneriti. Carovane di cercatori di anime e bande di scorritori umani percorrevano piste rosse come ferite attraverso pianure di cenere grigia. Mucchi di ossa costellavano le rovine bruciate di Acquardente, sotto un cielo giallo pallido. In ognuna di quelle silenziose immagini Rachel immaginò di udire grida di dolore. «L'universo fuori di queste mura non è più sconvolto di prima», dichiarò Sabor. «Tuttavia un numero sempre maggiore di finestre dell'Obscura 276
guarda su mondi paralleli, mentre il Signore del Labirinto continua a manomettere il passato. Ogni volta che esegue un cambiamento crea un altro universo, e i suoi agenti lo infiltrano.» Tamburellò con le dita sulla superficie del tavolo, poi eseguì qualche modifica nei meccanismi sottostanti. Davanti ai loro occhi prese luce una fredda alba azzurrina sulla foresta verdeggiante, coperta da banchi di nebbia. «La nostra linea temporale sembra al sicuro per ora. L'attacco di poco fa dev'essere giunto dal nostro normale futuro.» Ordinò ai suoi assistenti di portargli tutte le locali mappe del tempo di cui disponevano, e il gruppo, carico di quei documenti, ripartì verso il passato. Altri trecento anni furono coperti in numerose tappe prima che decidessero di fermarsi a riposare e mangiare un boccone. Il dio degli orologi ordinò di aprire la grande porta d'ingresso del castello, perché potessero godersi il tramonto mentre cenavano. La luce del sole assumeva una sfumatura verde attraversando il corpo di Dill, al punto che il giovane angelo sembrava brillare come uno smeraldo sullo sfondo d'ambra del cielo. Usciti sull'alto pianoro del castello poterono spaziare con lo sguardo fino al Lago dei Fiori. Molo Kevin non c'era. Sarebbe stato fondato soltanto duecentonovant'anni più tardi, spiegò Sabor. Anche la foresta era diversa. La marea di sempreverdi che in seguito sarebbero saliti a ricoprire i versanti fin quasi all'altezza dell'Obscura non esisteva. Al loro posto crescevano antichi alberi decidui. «L'ultimo angolo di natura selvatica», commentò Sabor. «Questo è un braccio della foresta di Stoopblack, o di quello che ne rimane. Si estendeva da qui fino a Brownslough, dove Hafe e io andavamo a caccia. Quegli alberi sono morti quando il mondo è diventato più freddo.» «È diventato più freddo?» domandò Rachel. «La nostra cacciata dal Paradiso ha avuto effetto sull'intero pianeta», spiegò Sabor. «Dal regno di Ayen sono fuggiti eteri estranei, forze nocive per questo mondo, cosicché le terre sono state avvelenate, i cieli sono bruciati, il livello dei mari si è innalzato e i continenti sono stati scossi da forti terremoti. Lo scontro di materie incompatibili ha danneggiato il tessuto stesso dell'universo. Noi ci siamo fatti forza per resistere, e siamo piombati qui come stelle cadenti.» Il suo sguardo si perse nei raggi dorati del tramonto. «Siamo arrivati deboli e nudi, molto vulnerabili. C'è stato un tempo 277
in cui questa luce aliena ci avrebbe uccisi tutti.» Gli dèi non appartenevano a questo mondo, comprese Rachel. Nessuno di essi. Era un mondo così alieno per quei sette esuli che la terra aveva rifiutato la loro presenza. «Ma vi siete acclimatati», disse. «Siamo diventati più umani.» Nutrendovi di anime umane. E ora noi stiamo tornando all'epoca del vostro battesimo... Rachel alzò la testa a guardare il grande edificio che si torceva come un sogno febbrile, aggrappato a quel punto dello spazio mentre allungava invisibili braccia a toccare innumerevoli altri momenti del tempo. Neppure il castello apparteneva a quella terra. Era un abominio, come gli stessi dèi. E adesso era la loro unica speranza. *** Carnival si svegliò nello stesso letto e nella stessa camera, bianca e pulita. Ancor prima di aprire gli occhi seppe che il Signore del Labirinto aveva di nuovo rimosso le sue cicatrici. Provava una completa assenza di dolore fisico, ma un mondo d'angoscia nel suo cuore. Stavolta lo specchio non c'era. La camera bianca era spoglia, a parte il letto e l'unica finestra rossa. Lei si alzò e andò a guardare fuori. Non c'erano vetri. All'esterno si stendeva a perdita d'occhio un guazzabuglio di paludi e canali, separati da argini bassi. Oscuri templi si acquattavano nella foschia lontana come fori bruciati nel tessuto dell'Inferno. Lente chiatte andavano avanti e indietro in un peregrinare all'apparenza insensato, mentre figure alate simili a pipistrelli brulicavano nel cielo. Carnival si sporse e guardò in basso. Si trovava presso la sommità di una torre impossibilmente alta, circondata da edifici di forma strana fatti della stessa ossidiana della parete verticale sotto di lei: piramidi rovesciate e vasti blocchi senza finestre da cui sbucavano file di ciminiere. Lungo le strade fra quelle costruzioni zoppicavano penosamente esseri giganteschi, tra folle di figure più piccole, e nugoli di scintille verdi dardeggiavano avanti e indietro come mosche. Carnival non aveva ali a ostacolarla quando salì in piedi sul davanzale della finestra. Sentiva sulla pelle l'irradiazione di un sole innaturale, freddo e poco piacevole. Una corrente ascensionale dall'odore bituminoso le agi278
tava i capelli, forse il fumo di qualche strana fabbrica migliaia di piedi più in basso. Saltò nel vuoto. *** «Questo è l'anno 442, secondo il calendario hericano», annunciò Sabor, aprendo la porta esterna della stanza temporale. «Oppure il 1603, secondo quello di Deepgate. Ci troviamo circa millecinquecento anni prima dell'inizio del nostro viaggio. Qui Rys si è liberato dal giogo terreno di nostra madre, e ora sta fiorendo la sua civiltà pandemeriana. Qui Ulcis alza il suo sguardo affamato dalla fossa sotto il suo tempio incatenato. Qui Hasp comanda le sue guarnigioni dell'Inferno, mentre Hafe ancora medita nel suo mondo, i tunnel di Brownslough. Mirith e Cospinol in questo periodo sono in viaggio: Cospinol sulla sua nave spettrale, e Mirith in una vasca da bagno sul Mare dei Relitti. E io...» Una voce ferma lo interruppe, dall'atrio dell'Obscura sotto la balconata: «Do il benvenuto a me stesso e ai miei nuovi compagni, in un castello demolito dalla guerra». Rachel si sporse dalla ringhiera della balconata per guardare giù, e vide un altro Sabor, al centro di un gruppo di selvaggi mezzi nudi. Erano uomini di pelle scura come John Anchor, altrettanto robusti e corpulenti, ma pitturati con spirali di tinta ocra. Indossavano gonnellini a strisce incrociate verdi e blu, con cinture da cui pendevano feticci d'ossa, e sembrava che fossero stati fino ad allora a colloquio col dio degli orologi, abbigliato con stivaloni neri e corazza ed elmo dello stesso colore. Questi non sembrava più vecchio né più giovane dell'altro se stesso, ma i suoi capelli erano sfumati di grigio. «Demolito dalla guerra?» gli domandò Sabor, dalla balconata. «Ora ci sono centinaia di nuovi universi intorno a noi e quasi tutti sono in fiamme. Perfino questo è sotto attacco. Siamo stati costretti a fare ripetute sortite per tenere il nemico lontano dalla nostra porta. Dimmi, fratello, cos'hai portato dietro di te attraverso il tempo?» Sabor batté una mano sulla balaustra. «Siamo noi a inseguire loro. Diamo la caccia alle forze di Alteus Menoa.» «I nostri nemici, qui, sono esseri umani», lo informò l'altro Sabor. Il dio degli orologi corrugò le sopracciglia e non disse altro finché tutti loro non furono scesi al pianterreno. Rachel e Mina si fecero strada fra i 279
colossi dalla pelle scura, seguite da oltre una quarantina di sguardi curiosi. Molti di quei guerrieri si batterono un pugno sul petto quando videro Dill. Hasp li guardò con approvazione. «Gente della Costa Indomita», disse al Sabor che stava tra loro. «Se io fossi assediato, vorrei uomini come loro al mio fianco.» Sabor si fermò davanti all'altro se stesso. Erano come due immagini speculari, a parte il colore dell'armatura che indossavano. «Sei certo che questi aggressori siano umani?» volle sapere. «Sono sombrecur», disse l'altro. «La stessa setta pandemeriana che ha razziato i templi di Rys a Lorn e a Logart nel 411. Non sanno per conto di chi stiano combattendo adesso. Sanno solo che questa battaglia è voluta da un'antica profezia della loro religione.» «Dunque queste terre non hanno ancora visto abbastanza sangue per i mesmeristi? Menoa ha seminato una menzogna nel passato dei sombrecur, e poi ha lasciato che gli avvenimenti si sviluppassero fino a oggi.» L'altro dio annuì. «Le terre non sono ancora inzuppate di sangue a sufficienza per consentire il passaggio delle orde del re. I miei indomitani non usano lame contro i sombrecur, ma il numero dei nemici è soverchiante, e i guerrieri di Hulfer devono combattere senza pausa. Io ho cercato di estinguere questa falsa profezia, ma senza nessun...» Giusto allora la porta si aprì. La banda d'indomitani che entrò nel castello fu accolta da un coro di saluti cui essi risposero con voci stanche. I nuovi arrivati rivelavano con ogni gesto di essere sull'orlo dell'esaurimento fisico. Sudati e senza fiato, vacillarono nell'atrio su gambe prive di forza, scambiando coi compagni strette di mano e pacche sulle spalle. Le ferite sanguinanti che avevano addosso parlavano di una battaglia recente molto dura. Nell'accorgersi della presenza di Hasp lo guardarono con timoroso rispetto. I guerrieri di Hulfer? Rachel ricordava la vicenda di una delle ballate che aveva sentito cantare da John Anchor. Un centinaio d'indomitani contro cinquemila sombrecur... Solo che quelli erano molto meno di cento. I guerrieri che si trovavano lì con Sabor scrutarono con ansia evidente i reduci dalla battaglia, come se cercassero tra loro degli amici. Ma poi Rachel comprese la drammatica verità. I due gruppi d'indomitani erano in realtà un solo gruppo: doppioni tornati dal passato. Ora le parole del Sabor più anziano - «ripetute sortite» - assumevano un altro e ben più tragico significato. I guerrieri che erano in compagnia del dio quando 280
noi siamo scesi nell'atrio... stanno per tornare nel passato con una delle stanze temporali, per combattere la battaglia da cui i loro doppioni sono appena rientrati? Sembrava che quello avesse un senso, in un modo distorto. Solo che non tutti i guerrieri erano tornati. Alcuni indomitani cercarono invano se stessi tra i sopravvissuti. La tragica realtà che avevano davanti fu visibile nelle loro espressioni. Oh, dèi, questi uomini sanno già che non torneranno vivi. «Garstone», chiamò il dio dall'elmo nero. «Cerchiamo di non perdere tempo.» Ad avvicinarsi fu una versione più anziana del molteplice assistente, che portava occhiali dalle lenti rotonde e un logoro completo verde. S'inchinò al padrone e condusse gli uomini della Costa Indomita su per le scale del castello, verso la stanza temporale che li avrebbe portati alla battaglia. Fra i guerrieri appena arrivati, uno seguì con lo sguardo quelli che si allontanavano e gridò qualche parola in una lingua che Rachel non conosceva. Dalla balconata gli altri indomitani si voltarono, ridendo. Uno rispose seccamente qualcosa che Rachel suppose fosse una battuta di spirito, perché i compagni reduci dalla battaglia si unirono alle risate dei loro se stessi in partenza. Quando questi ultimi se ne furono andati, nell'atrio rimase un'atmosfera silenziosa e triste. Per un poco il Sabor residente parlò sottovoce con uno degli indomitani, poi si volse al suo gemello temporale. «Hulfer è morto eroicamente. I suoi uomini hanno giurato di vendicarlo, non appena si saranno riposati.» «Quante volte sono già usciti a combattere?» domandò Rachel. «Dodici volte.» «Contro degli esseri umani?» grugnì Hasp. «Mi unirò a loro anch'io, e affronterò il rischio. Il parassita di Menoa non prende ordini da nemici di quel genere.» «Non puoi farlo», lo avvertì Mina. «Se uscirai a combattere con gli uomini che stanno partendo adesso, non farai ritorno. Guardati intorno. Tu non sei tornato indietro.» Hasp scartò con un gesto le sue parole. «Questo poco importa.» Mina lo guardò un momento ancora. «Se tu vai, allora vengo anch'io.» 281
Rachel si voltò a guardarla. «Mina!» «Non posso permetterlo», disse Hasp. «Usa la tua stessa logica, taumaturga. Vedi forse te stessa tra questi superstiti?» Uno degli indomitani disse qualcosa nella sua lingua al Sabor residente. «Dice che Hasp si è battuto come un dio dei vecchi tempi», tradusse quest'ultimo. «Ha ucciso molti sombrecur. Anche la donna e il fantasma hanno dimostrato le loro capacità in battaglia. Senza il loro aiuto l'Obscura sarebbe sicuramente caduta.» Rachel si sentì gelare il cuore. Non aveva mai pensato di rimettersi a combattere, e di certo non aveva intenzione di sacrificare la vita nelle ore successive. Il loro obiettivo era un altro. Lei aveva deciso di raggiungere il Paradiso a tutti i costi. L'uomo della Costa Indomita stava parlando ancora. Il Sabor residente tradusse: «Dice che voi siete rimasti sulla riva del lago, perché uno di quei devoti pandemeriani aveva notizie importanti per la vostra missione. Dice che le prime barche dei sombrecur che hanno tentato lo sbarco sono state respinte con successo, e che i nemici vanno raggruppandosi sull'altra riva del lago. Voi non eravate più in pericolo, e avete promesso di rientrare al castello prima di notte». «Visto?» disse Hasp. «Adesso è sera. Io tornerò qui da voi tra meno di un'ora.» «Torneremo tutti, se ho capito bene», disse Mina. «Rachel, tu cosa ne pensi?» Ma Hasp la fulminò con lo sguardo. «Voi due resterete qui. Io vado da solo.» «Ma la storia che quest'uomo ha raccontato...» «All'Inferno la storia», ringhiò lui. «Non ho bisogno di avere tra i piedi due ragazze spaventate. Non fareste altro che rallentarmi.» Si voltò, ruggendo: «Garstone! Uno di voi mi mostri da quale dannatissima porta devo passare». Mina si affrettò a seguirlo. Rachel scambiò uno sguardo con Dill ed entrambi li seguirono. Raggiunsero il Signore della Prima Cittadella giusto mentre stava per entrare nella stanza temporale. «Noi eravamo là, perciò tu sai che dobbiamo tornare indietro nel tempo con te», insisté Mina. 282
«Voi non andate da nessuna parte.» «Perché ti stai comportando così, Hasp?» Lui aprì la serratura. «Andatevene all'Inferno. Se cercherete di entrare qui con me, vi ammazzerò tutti e tre con le mie mani.» Detto ciò entrò nel compartimento stagno e sbatté la porta dietro di sé. Rachel guardò attraverso l'oblò. Vide Hasp passare oltre la porta interna e poi sparire più avanti. «Sta andando. Forse dovremmo limitarci ad aspettarlo giù.» «Senza di noi potrebbe anche non tornare al castello», disse Mina. «Noi eravamo là fuori, Rachel. Se non lo seguiamo adesso, cambieremo il passato. Potrebbe succedergli qualsiasi cosa.» Rachel fece un sospiro. «E va bene. Di quanto tempo dobbiamo tornare indietro?» Un Garstone di passaggio disse: «Sei ore, signora». I tre aprirono la porta ed entrarono nel compartimento stagno. La stanza al di là di esso non era diversa dalle altre del castello: un locale dall'odore muschioso arredato con vecchi mobili e dozzine di orologi. Hasp aveva già oltrepassato la porta all'estremità opposta. Rachel fece appena in tempo a vedere la sua nuca mentre chiudeva il battente dietro di sé. In fretta lo seguirono fuori della stanza temporale, sulla balconata interna, e lo raggiunsero di nuovo. Lui si voltò a fronteggiarli selvaggiamente. «Vi ho ordinato di restare.» «E noi ti abbiamo ignorato Non opporti», disse Mina. Il sangue affluì sotto le scaglie vitree che coprivano il viso del dio, dandogli un'espressione terribile. «Oggi voi morirete tutti, qui.» «Ma l'indomitano ha detto...» «L'indomitano non ha detto niente del genere. Io conosco la lingua di quella gente.» Hasp aspirò l'aria tra i denti, poi continuò in un sussurro roco: «Sabor non ha tradotto onestamente le parole di quel guerriero. Il dio degli orologi vi ha mentito. I sombrecur ci ammazzeranno. Soltanto Dill sopravvivrà, e questo perché è già morto». Rachel sentì una morsa allo stomaco. La sua mente galoppò in cerca di una soluzione. «Se restassimo nel castello...» «Non possiamo», disse stancamente Mina. «La nostra partecipazione alla battaglia può aver impedito ai sombrecur di prendere il castello e, se l'Obscura cade in mano al nemico, per noi non ci sarà nessun ritorno.» 283
Guardò l'orologio più vicino della balconata. «Dobbiamo trovare il modo di non contraddire la realtà che quegli indomitani hanno visto.» Ma Hasp si avviò verso le scale, voltandosi appena per dire: «È più semplice se moriamo in battaglia». *** Carnival si svegliò sdraiata sul pavimento della stessa stanza bianca. Stavolta, oltre all'assenza dello specchio, mancavano anche il letto e gli altri mobili. Non c'era neppure la finestra... niente, fuorché i muri nudi e il pavimento in mattonelle. Alteus Menoa era in piedi in un angolo e la guardava. Indossava una toga di tessuto bianco che gli lasciava nude le braccia muscolose e abbronzate. I suoi occhi d'oro erano illeggibili, ma non aveva un'espressione gentile. «Perché continui a distruggere te stessa?» la interrogò. Lei si alzò a sedere, guardò la gola dell'uomo e misurò la distanza che avrebbe dovuto attraversare per sgozzarlo. Poi distolse lo sguardo. Il Signore del Labirinto attese la sua risposta e, quando capì che non l'avrebbe avuta, disse: «I miei sacerdoti sono impazienti di torturarti». Lei rialzò gli occhi. «Ma temo che ti godresti i loro metodi primitivi.» Lui la studiò ancora un momento. «Allora, come posso fare in modo che tu apprezzi quanto ti è stato dato? Mostrandoti le alternative?» Alzò un dito. L'intero corpo di Carnival si solidificò. Abbassò lo sguardo e vide la sua carne e la veste indurirsi fino a diventare lucenti e solide come la porcellana. Non poteva respirare né muovere un sol muscolo, neppure una palpebra. I suoi occhi aridi restavano fissi sul ginocchio, anch'esso di un biancore vitreo. I passi di Menoa si avvicinarono sulle piastrelle del pavimento. «Cos'è l'autodistruzione per te, senza il dolore?» Le diede un calcio. Carnival non sentì niente, ma ci fu un rumore simile a terracotta spezzata, e il mondo le girò intorno. Quando la stanza tornò ferma, si trovò a guardare i cocci di un viso spezzato: labbra, un naso, una mezza mandibola, il tutto fatto di ceramica bianca. Il suo viso. I pezzi del suo corpo erano sparsi sul pavimento davanti a lei. Incapace di chiudere gli occhi o muoversi, non poté far altro che guardare. Sentì dei passi dietro di lei, e altri piccoli schianti. «Devo restituirti l'uso dei nervi e lasciare che tu provi come ci si sente 284
con un danno fisico di questo genere?» Continuò a camminare. «Oppure questo ti darebbe proprio ciò che tu desideri?» I suoi nervi cominciarono a fremere quando i frammenti spezzati del suo corpo persero il liscio biancore e si arrossarono. Il fremito s'intensificò e si acutizzò fino a diventare un milione di aghi che le affondavano nella carne. Menoa era in piedi sopra di lei e le premeva i tacchi nella muscolatura... Intorno a lei tutto diventò nebbia e scomparve. Carnival si trovò a quattro zampe sul pavimento. Il suo corpo era stato di nuovo ricostruito in carne e ossa, secondo l'ideale estetico di Menoa. Sbatté le palpebre e tirò il fiato, poi si voltò a guardare il suo aguzzino. «È più complicato di così», disse lui. «Il dolore è solo parte della risposta, non il vero obiettivo dei tuoi desideri. Non è soltanto un rifiuto della bellezza. Se io ti trasformassi in una strega laida, ti sarebbe più facile accettare te stessa?» Scosse il capo. «Allora, cosa posso fare per farti apprezzare questo dono?» «Dammi un coltello.» Lui sorrise. «Lo useresti su te stessa.» «Non subito.» Il Signore del Labirinto ignorò quelle parole. «Tu abbracci la sofferenza, ma non ogni sofferenza. Le tue agonie devono essere autoinflitte, perché tu vuoi punirti.» Si accarezzò il mento con aria pensosa. «Ma perché? All'inizio io supponevo che il tuo modo di fare fosse un semplice rifiuto delle leggi di natura. Tu sei per natura una predatrice, dunque a guidarti è la fame, e non potresti mai sperare di rivolgerti a scopi più elevati. La tua propensione all'autolesionismo e al suicidio mi era sembrata l'inevitabile sintomo di chi non vuole decidere il suo destino.» Smise di girarle intorno. «Ma ora non credo più che le cose stiano così. Tu sei un completo enigma, Rebecca.» Carnival s'irrigidì. «Tu parli nel sonno, perciò so che sei la figlia bastarda di Ulcis, e questo fa di te la nipote della dea Ayen.» Le sorrise di nuovo. «Tu e io condividiamo lo stesso sangue divino, Rebecca.» «Carnival.» Lui scrollò le spalle. «Come ti pare. Ma abbiamo in comune più della sola eredità divina, Carnival. Come te, io sono in parte umano, un bastardo 285
degli immortali.» Distolse da lei gli occhi d'oro. «Tu e io siamo i soli ad avere queste caratteristiche di nascita, così diverse da quelle di ogni altra creatura del mondo, eppure siamo molto diversi tra noi. Io non ti capisco.» Carnival scelse quel preciso momento per attaccarlo. Il suo corpo era cambiato, ma aveva ancora gli istinti e la volontà di prima, ed essi la fecero scattare con velocità e forza bruta. Gli balzò addosso cercandogli la gola con entrambe le mani, e lo fece sbattere duramente contro il muro. Lui ansimò stupito quando i denti di Carnival gli azzannarono le vene del collo. Lei sentì il sapore del sangue. Menoa scomparve nel muro. I denti di Carnival si chiusero furiosi sull'aria vuota. Le sue mani trovarono solo la nuda pietra bianca. Ringhiando, artigliò la superficie solida che lui aveva oltrepassato, ma senza nessun risultato. Il Signore del Labirinto l'aveva elusa di nuovo. Gridando di rabbia e di frustrazione, prese a pugni il muro fino a riempirsi le nocche di sangue. Ma d'improvviso si fermò. Le sue dita, le mani, i polsi e le braccia, notò in quel momento, recavano di nuovo il familiare intreccio di cicatrici.
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12 I SOMBRECUR
Sabor era intento a studiare un'immagine sul tavolo dell'obscura, ma alzò lo sguardo quando li sentì scendere nel grande atrio centrale. «Tu, bastardo ingannatore», cominciò Rachel. Il dio degli orologi si accigliò. «Chi siete, voialtri? E cosa state facendo nel mio castello?» «Non fingere di non saperlo. Ci hai persuasi tu a tornare nel passato per aiutare gli uomini della Costa Indomita, con le tue menzogne.» «Io non ho fatto niente del genere.» Mina le diede di gomito. «Ha ragione, lo sai. Lui non l'ha fatto... non ancora.» Rachel arrossì. Paradossi! Ora un altro di quei controsensi le impediva di trattare quell'individuo come meritava. «Be', lo farai.» Sabor inclinò la testa. «È un'idea intrigante, suppongo. E di preciso come ho ottenuto questo particolare miracolo?» Non dire una parola, la fermò la voce di Dill, un mormorio nella sua testa. Rachel imprecò tra i denti, frustrata, e con passi rabbiosi tenne dietro a Hasp, che si era subito diretto alla porta principale senza curarsi affatto che loro lo seguissero. Dill la affiancò camminando in silenzio coi suoi stivali fantasma sulle mattonelle, mentre Mina restava invece lì con Sabor. All'esterno erano le ultime ore di un mattino di estate. Rachel guardò il territorio. Quella zona era cambiata molto dall'ultima volta che l'aveva vista. I versanti delle alture che digradavano verso la riva del lago non erano ancora diventati una fitta foresta di sempreverdi, e in quota crescevano soltanto bassi cespugli, punteggiati qua e là da gruppetti di mimose dalle fronde coperte di fiorellini gialli. Strisce di nuvole dividevano il cielo azzurro come candide barriere coralline. Dopo un po' anche Mina uscì e li raggiunse. «Che stavi facendo là dentro?» domandò Rachel. «Ero sopraffatta dall'industriosità di Sabor», rispose Mina. «Lo sapevi che nel castello ha tredicimilacentotre orologi? C'è perfino un antico esemplare immerso in bagno d'alcol, col pendolo a forma 287
di ancora.» «Questo mi fa tornare in mente John Anchor», disse lei. «Chissà se è ancora vivo. L'Anchor che noi conoscevamo, voglio dire.» «È sicuramente vivo, da qualche parte, laggiù.» Mina indicò verso sud. «Ci farebbe comodo averlo qui, adesso.» Sull'immobile superficie del lago c'erano migliaia di piccole imbarcazioni. A quella distanza apparivano non più grosse di foglie cadute. I superstiti dei Cento di Hulfer stavano scendendo lungo le colline verso i boschi e il Lago dei Fiori, ad affrontare il nemico per la tredicesima volta. L'armatura vitrea di Hasp luccicava sotto i raggi del sole. «Sombrecur», borbottò, voltandosi verso di loro. «Rys li scacciò da Pandemeria dopo gli avvenimenti di Logarth. Tenaci piccoli bastardi... usano lance di legno e frecce intinte nel sudore dei rospi velenosi. A quel tempo combattevano per tenere fede a una diversa profezia, non ricordo più quale. Ne hanno troppe, con quei loro dèi pagani, corvi bianchi e altri dannati oracoli.» «Sabor li ha definiti 'devoti pandemeriani'», disse Rachel. Il dio grugnì. «Devoti, certo... devoti al massacro. I guerrieri di Hulfer, che sono disarmati, avranno dei guai contro quelle lance. Comunque la boscaglia laggiù presso il lago dovrebbe avvantaggiarci. Non è posto adatto per gli arcieri e i lancieri.» «Nella ballata che cantava Anchor, i Cento sconfissero i sombrecur in battaglia. Dunque perché preoccuparsi?» Mina si tolse il cagnolino dalla tasca interna della giacca e lo depose sull'erba. «Non c'è niente di garantito. Se vinceremo qui oggi, allora resteremo nella linea temporale in cui la ballata di Anchor dice il vero. In caso contrario il tempo si ramificherà ancora, e ci troveremo in un universo sottilmente diverso in cui quella ballata è un canto funebre.» Grattò le orecchie rognose di Basilis. «La cosa più difficile sarà vincere questa battaglia senza uno spargimento di sangue. Menoa conta sul fatto che qui ci sarà un carnaio. Vuole che noi stessi prepariamo questo territorio per i mesmeristi.» Rachel era consapevole del peso morto della sua spada contro una coscia. Senza spargimento di sangue? Si domandò se aveva ancora la forza di focalizzare. Non che le sue capacità potessero servire a qualcosa contro un tale numero di avversari. Al contrario, anzi, l'avrebbero resa più vulnerabile. Quasi del tutto trasparente nella luce solare, Dill si limitava a guardare 288
la lontana valle del lago, e non diceva una parola. Hasp scrollò le spalle, facendo ticchettare le scaglie di vetro. «Almeno sarà uno scontro leale. Niente demoni, ombre o cambiaforma. E laggiù non c'è nessuno che possa costringermi a rivoltarmi contro i miei compagni.» Rivolse loro un sogghigno e s'incamminò lungo il sentiero in fondo al quale stavano marciando gli indomitani. «È disarmato, solo contro migliaia di loro, e ha un'epidermide pericolosamente fragile», osservò Rachel. «E nonostante ciò pensa che questo sarà uno scontro leale?» In confronto al genere di battaglie che è abituato a combattere, disse Dill, questo è uno scontro leale. I sombrecur se la vedranno brutta. I tre continuarono a seguire Hasp attraverso il pianoro, che in quell'epoca era una distesa di erba verde punteggiata da ranuncoli gialli, boccioli di verbena e pimpinelle rosa. C'erano centinaia di varietà di erbe selvatiche sconosciute a Rachel. Il vento portava a valle il loro profumo insieme con impalpabili semi di cardo e ragni appesi ai loro fili vaganti. Quando si videro raggiungere, gli uomini di Hulfer accolsero con un secco cenno del capo i nuovi arrivati, ma non rallentarono la marcia. Più in basso si addentrarono nella foresta lungo una pista molto battuta, una sorta di tunnel tra la fitta vegetazione, e meno di un'ora dopo giunsero in vista del lago. Molo Kevin non sarebbe stato costruito prima di altri duecento anni, e quasi nulla rivelava che lì si fossero già fermati degli esseri umani. La boscaglia cresceva fino ai sassi della riva. Attraverso gli alberi, Rachel vide che le imbarcazioni dei sombrecur erano giunte a un centinaio di passi di distanza. Si trattava di strette canoe con un rematore a prua e un altro a poppa. Le loro lance erano appoggiate di traverso sui bordi. Gli uomini della Costa Indomita scivolarono avanti in silenzio nel sottobosco, tenendosi bassi. Dill baluginava nella penombra accanto a Rachel, con la sua spada fantasma in mano. Tuttavia era insostanziale quanto un raggio di luce. Lei aveva visto il suo corpo passare dentro quello di Mina, e dovette chiedersi quale danno avrebbe mai potuto fare ai nemici. Se non altro, forse, li spaventerà. Ora udiva il leggero sciacquio dei remi sul lago. I sombrecur portavano collane di pietre colorate e ornamenti di penne. Avevano una pelle olivastra, con tatuaggi a forma di archi concentrici sul petto nudo, e i loro capelli erano fermati da nastri di stoffa. Quasi 289
tutti avevano disegni geometrici ocra sulle guance. Rachel si sentì toccare una caviglia e abbassando gli occhi vide Basilis che le passava accanto, tra la scarpa e la punta della spada. Il cagnolino si fermò e annusò l'aria, con un ringhio cupo. Gli indomitani si stavano scambiando segnali a mano. Si erano allargati tra la vegetazione, a destra e a sinistra di Rachel. Poco distante da loro, Hasp si era chinato a raccogliere manciate di terriccio che si spalmava addosso, per nascondere il luccichio delle sue scaglie di vetro. Dill non aveva nessun modo di mimetizzare la sua luminosità, così si accovacciò dietro le radici sporgenti di un albero. Mina si accostò a Rachel e le sussurrò all'orecchio: «E se fingessimo di essere morti? Questo non renderebbe la linea temporale coerente con ciò che sappiamo?» «Non credo che potremmo fingere che siano morti anche loro», rispose Rachel, anche lei in un sussurro. «Ci sono cinquemila sombrecur su questo lago, forse perfino di più.» «Posso chiederti un favore?» «Quale?» «Ho bisogno che tu mi faccia avere un po' di sangue. Il loro sangue, preferibilmente.» Dunque la taumaturga si preparava a tentare qualcosa di magico? Un'altra coltre di nebbia, forse? Dopo il tremendo sforzo che le era costato creare quella, Rachel avrebbe pensato che non sarebbe riuscita a far altro. «Mi sembrava di aver capito che non ci fosse permesso versare sangue.» «Oh, non molto. Solo cinque o sei cuori dovrebbero bastare per questo trucco. Menoa non può usarne così poco per alimentare il suo esercito.» «Vedrò cosa posso fare.» Ma cosa potevano sperare di ottenere? Gli uomini della Costa Indomita erano appena una quarantina, e nessuno di loro forte come John Anchor. Hasp era parso capace di cavarsela contro un gruppo di boscaioli non addestrati all'uso delle armi, ma lei non credeva che avrebbe potuto far molto contro un'orda di quel genere. La flotta di canoe si era allargata parallelamente alla riva del lago, in una fila lunga a perdita d'occhio. I rematori stavano impugnando le lance e gli archi. Scesi a guado sul basso fondale, i sombrecur portarono le imbarcazioni all'asciutto, trascinandole senza difficoltà sulla ghiaia e sull'erba. Un uccello pigolò e si alzò in volo, scomparendo tra gli alberi. 290
I guerrieri di Hulfer si avvicinarono alla riva. Dill rimase nascosto dietro le radici dell'albero. Rachel sfoderò la spada. Solo cinque o sei cuori. Un assembramento di cespugli formava una barriera naturale tra la foresta e la spiaggia, e i sombrecur furono costretti a chinarsi per aprirsi la strada sotto i rami. Gli indomitani aspettavano proprio quel momento, poiché avevano già combattuto la stessa battaglia dodici volte. Quattro sombrecur caddero col collo spezzato dalle loro poderose braccia scure prima che fosse dato l'allarme. Uno di loro fece in tempo a emettere un gemito, e subito da quelli ancora sulla spiaggia si levò un grido di guerra. La battaglia era cominciata. Hasp corse avanti, così sporco di fango che soltanto il suo sogghigno feroce biancheggiava. L'avversario più vicino spalancò gli occhi e vibrò la lancia verso il dio, ma questi gliela strappò di mano. Poi afferrò l'individuo per la nuca e gli fece sbattere la fronte nel tronco di un albero. Senza voltarsi a guardare il corpo che cadeva a terra, Hasp spezzò in due la lancia e ne gettò una metà a Mina. L'altra metà fu spaccata in altre due parti. Armato di quei due bastoni il Signore della Prima Cittadella si gettò contro i nemici che sbucavano dai cespugli. Nel tempo di dieci battiti di cuore aveva ucciso altri tre uomini. Gli indomitani di Hulfer combattevano a mani nude. La tecnica che usavano era la stessa di Hasp: evitavano i colpi di lancia e strappavano le armi dalle mani degli avversari. Fatto ciò li colpivano a pugni in faccia o a calci, o spezzavano loro le gambe e la schiena. Le frecce che venivano scagliate tra la vegetazione erano del tutto inutili, e finivano incastrate o piantate nel folto dei rami. Un guerriero sbucò davanti a Rachel e le corse dritto addosso. Lei deviò la lancia con la spada e fece scorrere lungo il manico la lama dell'arma verso le mani dell'uomo. Costretto a lasciar cadere la lancia per salvarsi le dita, lui fu però svelto a estrarre un coltello e cercò di colpirla al fianco destro. Rachel lo precedette abbattendo la spada sul suo braccio nudo, con un fendente che gli tranciò il deltoide e il nervo ascellare. Lui indietreggiò con un ansito di dolore. Lei rialzò la spada e con un rapido affondo lo colpì alla gola, facendogli penetrare la punta sotto la mandibola. Mentre quello cadeva di schiena tra le piante lei lo colpì ancora allo sterno, squarciandogli il petto. 291
Un cuore. Rachel cominciò a trascinare il cadavere verso Mina, che si era accovacciata al suolo qualche passo dietro di lei. Dill si muoveva tra i cespugli, avvolto in un'aura di luce azzurrina che palpitava sulla sua spada nell'ombra degli alberi. Altri due sombrecur avevano sfondato i cespugli in quella zona, e nel vedere l'angelo fantasma di fermarono di colpo, alzando le lance. Cominciarono a girargli intorno cautamente, uno a destra e l'altro a sinistra. Dill puntò la spada contro uno di loro. Il guerriero reagì spostando la lancia per bloccare il fendente, ma la fantomatica lama attraversò la sua arma e gli penetrò nello stomaco. Per un momento l'individuo si guardò l'addome: un terzo della lama di Dill gli era apparentemente entrato nella carne, tuttavia non c'era sangue. Non si vedeva nessuna ferita. Il sombrecur sogghignò e fece un passo avanti. Dill vibrò ancora la spada, ma l'acciaio fantasma scomparve ancora nel corpo dell'avversario senza lasciar traccia. Era incapace di fare danno. Il sombrecur si limitò a camminare attraverso di lui. Una freccia sfiorò l'orecchio destro di Rachel e rimbalzò via tra gli arbusti. Lei si voltò di scatto e vide che l'arciere era stato raggiunto da Hasp, che lo afferrò per una coscia e per il collo sollevandolo di peso sopra la sua testa ignorando il suo forsennato divincolarsi. Con un ruggito il dio scaraventò l'uomo contro un macigno, poi si voltò ad affrontare un altro aggressore e lo uccise strangolandolo con furia. Intorno a quella rossa figura dall'epidermide di vetro c'erano già alcuni cadaveri. Soltanto uno sanguina. Rachel stava per portarlo accanto all'uomo colpito dalla sua spada, ma fu fermata dalla comparsa di due sombrecur che le arrivarono addosso da direzioni opposte. Un arciere, un lanciere. Affondò la spada nella faccia del primo giusto mentre le sue dita lasciavano la corda dell'arco. Lo strale andò a vuoto. Il lanciere fece per infilarle l'arma nel ventre, ma non fu abbastanza svelto. Lei si scostò e sostenne la sua carica colpendolo con una spallata nello stomaco. Mentre rimbalzava via, spinta dal peso superiore dell'avversario, gli sferrò un fendente che tagliò di netto le sue collane di pietre colorate lasciandogli anche una lunga incisione trasversale sul petto. Prima che l'altro potesse riaversi, Rachel gli trafisse il torace con un rapido affondo. Mancano due cuori. Prese per i piedi i due cadaveri sanguinanti e li trascinò accanto a Mina. 292
I sombrecur erano ormai sbarcati in gran numero e aggredivano da est e da ovest gli uomini di Hulfer, che furono costretti a raggrupparsi. Gli indomitani avevano però scelto la zona di sottobosco più fitta e impraticabile, già sapendo che lì si sarebbero difesi meglio, e i nemici dovettero rinunciare del tutto all'uso degli archi. I colossi dalla pelle scura affrontavano gli avversari con un'efficienza che stupì Rachel, finché non si accorse che evitavano le lance dalla punta avvelenata come se sapessero già perfettamente da che direzione sarebbero arrivati quei colpi. I sopravvissuti ricordano! Approfittando di un momento in cui nessuno la stava assalendo, Rachel portò altri due cadaveri accanto alla taumaturga e li colpì al petto con la spada per farli sanguinare. «Con questi fanno cinque», disse. Mina era in ginocchio, a occhi chiusi, e mormorava rapidamente. Rachel distinse soltanto la parola «foresta». Basilis girava intorno ai corpi senza vita, annusandoli, del tutto disinteressato al caos della battaglia intorno a loro. All'improvviso Hasp ruggì. Aveva rinunciato ai suoi bastoni in favore di un'arma più pesante: con una delle sue mani di vetro teneva per una caviglia uno dei sombrecur, e ne faceva roteare il corpo inerte intorno a sé come una clava. Gli avversari cadevano sotto i suoi colpi, e chi non restava privo di sensi si affrettava a trascinarsi fuori portata. Gli indomitani si erano nel frattempo riuniti in una formazione a cuneo, che si spingeva tra i sombrecur per aprirsi una strada. Tra le frecce che piovevano in mezzo alla vegetazione una colpì al collo uno dei colossi di pelle scura che stava lottando contro due avversari. L'uomo vacillò, con un rantolo, e afferrò l'asticella piumata. Prima che Rachel potesse gridargli un avvertimento un sombrecur affondò la lancia nel suo fianco destro. Voltandosi scoprì che Dill era circondato da quattro nemici, e prima di capire cosa stava succedendo lo vide sparire. Incapace di ferire in qualche modo quei guerrieri, il giovane angelo ora li impegnava usando una tattica strana quanto spettrale. Rachel ci mise qualche momento per capire che Dill era entrato nel corpo di uno dei sombrecur. D'un tratto il guerriero prese a saltellare qua e là come morso da uno scorpione, cacciando grida inarticolate e circondato da un'aura azzurrina. Poi si voltò e affondò la lancia nel ventre di uno dei suoi compagni. Dill aveva preso possesso del suo corpo. Gli altri due sombrecur si allontanarono dal guerriero posseduto. Dill si 293
scagliò furiosamente sul più vicino, alzando la lancia per colpirlo, ma questi reagì con un'abile schivata e affondò la punta dell'arma nel fianco sinistro del corpo usato dall'angelo. Lui abbandonò subito l'ospite ferito. Come una ventata azzurrina il suo spirito si scagliò sull'avversario che lo aveva appena colpito. Ora che possedeva il corpo dell'aggressore finì con un altro colpo di lancia quello da cui era uscito e si voltò ad affrontare il quarto. Basilis stava latrando. Rachel si voltò. Mina aveva riaperto gli occhi, ma il suo sguardo era spento. Appariva pallida ed esausta, e sotto la camicetta il suo petto si alzava e abbassava affannosamente. Sulle sue mani c'era del sangue fresco. «È fatta», disse. «Che cosa?» «Ho evocato una foresta.» Rachel corrugò la fronte. «Qui abbiamo già una foresta, Mina.» La taumaturga si alzò in piedi e girò lo sguardo intorno come se vedesse quel posto per la prima volta. L'aria era piena di tonfi e rumori di frasche, grugniti, imprecazioni, e i gemiti dei moribondi. «Per tutti gli dèi, guarda Dill!» esclamò. L'angelo fantasma balzava da un nemico all'altro come una vespa inferocita, impossessandosi dei guerrieri per i pochi secondi che bastavano a costringerli a usare le armi contro i loro compagni. Si lasciava dietro una scia di cadaveri. Ogni volta che uno di loro sferrava un colpo mortale, lui passava nel corpo del più vicino. E i sombrecur, incapaci di uccidere o fermare quello spirito impalpabile, si stavano semplicemente ammazzando tra loro. «Troppo sangue», si preoccupò Rachel. Agitò le braccia verso di lui e gridò: «Dill! Non devi...» Un rumore improvviso soverchiò la sua voce. A Rachel sembrò che uscisse dalla stessa terra: un suono basso e crepitante come quello dello scafo di una nave che protestasse tra le onde di una violenta burrasca. Anche i sombrecur l'avevano udito, perché guardavano il terreno con improvviso spavento. Gli uomini della Costa Indomita approfittarono di quella loro distrazione, e con un ruggito ruppero l'accerchiamento del nemico per correre più all'interno. Soltanto due di loro erano caduti, fino a quel momento. Rachel e i suoi tre compagni li seguirono in una piccola radura sgombra, 294
e lei si accorse che gli alberi sembravano scossi da tremiti. Un odore disgustoso le giunse al naso, come se lì vicino ci fossero delle carogne in putrefazione. Poi dal terreno della boscaglia cominciarono a sbucare grossi viticci bianchi. Radici? Intorno a quella radura stavano germogliando dal suolo strane escrescenze, che si allungavano con incredibile rapidità avvolgendosi a tutto ciò con cui entravano in contatto: agli alberi, ai cespugli, alle rocce, e anche ai corpi dei sombrecur in preda al panico, strappando loro le lance dalle mani e gettandoli a terra. I bianchi tentacoli si ramificarono e s'ispessirono, intrecciandosi tra loro come una vasta rete in continua crescita. I sombrecur ne furono completamente circondati, e l'aria si riempì delle loro urla mentre venivano avvolti e immobilizzati. Ma, nella piccola radura dov'erano andati a rifugiarsi, gli indomitani restarono miracolosamente intoccati da quelle diaboliche mostruosità. Pochi minuti erano bastati perché i tronchi e i rami fossero ricoperti dai tentacoli biancastri, che unendosi negli spazi vuoti tra le chiome degli alberi formavano già un pergolato così fitto da nascondere il cielo. Dai bozzoli che li stavano stritolando i sombrecur urlarono e invocarono i loro dèi, ma i viticci continuarono a ispessirsi e dopo un'orrida serie di piccoli rumori crepitanti nella zona cadde un silenzio funereo. Rachel aveva l'impressione che la foresta fosse stata aggredita da un'altra specie di vita, una boscaglia parassita che aveva divorato quella vegetale. Il fetore marcio le fece storcere ancora il naso. La foresta evocata da Mina era qualcosa di putrido e malato. «Dobbiamo andarcene subito», gridò la taumaturga. «Allontaniamoci da qui, finché i nuovi alberi sono ancora flessibili. Quando si saranno induriti non riusciremo più ad aprirci la strada.» «Alberi?» domandò Rachel. «Che razza di foresta è questa?» «Una foresta di ossa», rispose Mina. «È una costruzione di Basilis. L'idea l'ho avuta io, però, quando ho visto ciò che restava dell'antica foresta intorno al lago, quegli spuntoni bianchi. Una foresta così ci mette migliaia di anni per consumarsi e sparire.» «Aspetta un momento. Tu sapevi già che saremmo venuti qui?» Mina prese Rachel per mano e se la tirò dietro in fretta attraverso la strana boscaglia bianca. Hasp, Dill e gli uomini della Costa Indomita le seguirono senza perdere tempo. Poco più avanti Mina si voltò a guardare 295
Hasp e sussurrò all'assassina: «Senti, temo di essere stata io a... insomma, ho chiesto io a Sabor di mentire. Hasp doveva convincersi che qui sarebbe morto in battaglia, e che questa sarebbe stata la sua gloriosa fine». «Perché?» «Perché ritrovasse la voglia di vivere. Affrontare i sombrecur gli ha dato modo di combattere di nuovo come un uomo libero, dimenticando il parassita che ha nella testa.» Rachel si fermò bruscamente, costringendo Mina a fare altrettanto. «Tu ci hai fatto finire in questa situazione di merda deliberatamente?» Poi abbassò la voce. «Mi hai costretto a uccidere dei disgraziati, in modo che lui potesse ricordarsi delle sue glorie passate?» «Questo è già successo nel passato del nostro mondo», disse Mina. «Secondo le leggende della Costa Indomita, noi eravamo qui. Anche la ballata di John Anchor che hai detto di aver sentito nell'ultima strofa parla di un dio, di un fantasma, di una strega e di una donna.» Si strinse nelle spalle. «Non so perché pensassero che tu sia una strega, comunque il punto non è questo... se noi non avessimo vissuto questi avvenimenti, avremmo corrotto la linea temporale ancor più di quanto già lo era. Non capisci? Più andiamo indietro nel tempo, più le nostre azioni diventano pericolose.» «Quali altri fatti hai manomesso, Mina?» volle sapere Rachel, tenendola per una manica della giubba. «Fino a che punto nel passato sei andata a rimescolare le cose?» Mina si divincolò dalla sua mano. «Dobbiamo andarcene da qui!» la incitò. «Chi è stato ad aizzare il popolo dei sombrecur contro Sabor?» insisté Rachel. «Mina, chi ha mandato quella gente alla morte? E stato Menoa?» La taumaturga si affrettò via scivolando tra l'intreccio di rami bianchi. «È stato Menoa?» ripeté Rachel. Ma Mina non volle risponderle. *** Carnival non ebbe bisogno di uno specchio per valutare la completezza della sua ricostruzione fisica. Poteva sentire la familiare pressione delle ali contro la schiena e le spalle e, quando contrasse i potenti muscoli dorsali per allargarle, avvertì la resistenza dell'aria che le dava equilibrio. La ventata le fece ondeggiare intorno al collo i lunghi capelli neri, ora sporchi e scarmigliati come un tempo. Il suo cuore batté più rapido, eccitato. Alzò le 296
braccia ed esaminò le cicatrici sui polsi. La sua pelle fremette al ricordo delle vecchie ferite. Si sentiva rinnovata, furibonda. Pericolosa. Era come se quel breve assaggio del sangue del bastardo avesse agito come una chiave per aprire la gabbia che aveva imprigionato la sua mente. Lì all'Inferno tutte le forme erano un prodotto della volontà. Carnival aveva conquistato la libertà di esistere così come la sua volontà esigeva. Anche la sua armatura di cuoio e gli stivali erano tornati a essere quelli di un tempo. L'armatura era gloriosamente incrostata di sangue e di sporcizia, e lei aspirò con piacere quel fetore putrido. Ma c'era di più. Lei era mai stata così alta? Era mai stata così forte? I muscoli delle sue braccia e delle gambe sembravano più grossi e meglio definiti. Le protezioni di cuoio che indossava erano più spesse intorno alle spalle e ai fianchi. Si trattava semplicemente di vanità involontaria, o era una reazione all'istinto di aprirsi la strada a viva forza fuori di lì? Quattro pareti bianche la imprigionavano. Non le restava altro che la forza bruta. Sferrò un calcio al muro col tacco di uno stivale, consapevole che perfino la pietra era un amalgama di anime vive e senzienti. Quella barriera sarebbe stata forte quanto era convinta di esserlo, e lei sospettava che Menoa l'avesse convinta del tutto. Il suo tacco non aveva neppure segnato la superficie liscia. Fece un passo indietro per esaminare ogni angolo del muro, e concluse che conservando la sua attuale forma fisica non avrebbe potuto sconfiggere quell'ostacolo. Così si concentrò con intensità per assorbire una maggiore forza e resistenza da qualche fonte. Sentì le sue ali crescere, i muscoli ingrossarsi in modo innaturale, le sue stesse ossa diventare più dense e pesanti. L'armatura si dilatò e si spaccò intorno al corpo che aumentava di dimensioni. La sua pelle assunse un colore grigio come una patina d'acciaio. Tutta questione di volontà. L'angelo sfregiato sferrò un altro calcio selvaggio. Il muro vibrò. Si aprì una crepa dal pavimento al soffitto. Lei colpì ancora col tacco dello stivale e un pezzo di pietra bianca si staccò davanti ai suoi occhi. Il muro gemette. Lei sferrò un pugno violento e stavolta lo sfondò. Mattoni e calcinacci 297
caddero all'esterno, consentendole di vedere un turbolento cielo rosso e una vasta estensione di Labirinto. La sua prigione si trovava presso la sommità della Nona Cittadella. Carnival si affacciò allo squarcio aperto nel muro e guardò in basso. Canali di liquido denso avevano invaso la strana metropoli di Menoa, circondando le costruzioni di pietra nera, sommergendo le piazze quadrangolari e chiazzando di rosso ogni altra opera in muratura. Tuttavia lo scenario appariva più indaffarato che mai. Centinaia di creature in armature bulbose sfrecciavano qua e là, sollevando alti schizzi dal liquido che aveva invaso tutto, trascinando rozzi macchinari o facendoli rotolare davanti a loro. In quanto ai canali... c'era qualcosa di singolare anche dentro di essi. Dall'acqua emergevano figure rosse. Il Fiume dei Difettosi aveva circondato la fortezza di Menoa come il fossato di un castello, diramandosi in ogni strada. Anche in quel momento continuava a invadere il territorio ricoprendo acri e acri che prima erano all'asciutto. Lei ebbe l'impressione che volesse difendere la casa del suo padrone. Ma da cosa? E poi Carnival scorse l'esercito in arrivo... già così vicino alla Cittadella che fino ad allora il suo sguardo ne era rimasto ingannato. Dapprima le era sembrato parte del territorio circostante, al punto che lei non l'aveva identificato per ciò che era. Fu il movimento ad attirare la sua attenzione: non avrebbe mai immaginato, del resto, che intere città potessero muoversi attraverso il territorio. Un'avanguardia di bizzarre macchine formava la prima linea di quella singolare, ticchettante, brulicante armata. Avevano una forma che faceva pensare in qualche modo alle navi volanti, benché i loro scafi a punta conica sembrassero forgiati di metallo. Scivolavano sulla superficie dell'Inferno fracassando migliaia e migliaia di muri, e si lasciavano dietro un percorso agibile lungo il quale s'incanalava il resto dell'esercito. Carnival riuscì a distinguere due figure sopra il vascello di testa: una donna dai capelli rossi, e un colosso di pelle scura che si portava ancora addosso la sua bardatura di legno. *** Mentre i superstiti dei Cento di Hulfer rientravano a passi stanchi nell'Obscura Redunda, Mina domandò a Hasp e a Rachel di aspettare con lei fuori del castello e tenersi nascosti, finché non avrebbero visto i prece298
denti se stessi uscire per recarsi doverosamente alla battaglia. Rachel era molto tentata di entrare e spiattellare la verità all'altra se stessa, ma sapeva che Mina aveva la sua parte di ragione. Per evitare di confondere ancor di più gli avvenimenti di quella linea temporale, dovevano fare in modo che si svolgessero proprio come si sapeva che si erano svolti. Per rispettare la logica Hasp aveva inoltre chiesto agli indomitani di riferire a Sabor che lui era stato ucciso dai sombrecur, insieme con Rachel, Mina e Dill. Ciò non toglieva che la menzogna di Sabor fosse inspiegabile e sospetta. Tuttavia, se la battaglia era stata davvero voluta da Mina, il suo intervento si era risolto con la morte di almeno cinquemila esseri umani, e tutto ciò solo allo scopo d'ispirare Hasp a vincere l'angoscia causata dal suo demoniaco parassita. Ovviamente la cosa non turbava affatto la taumaturga, che dietro la sua rigorosa facciata raziocinante sembrava avere l'etica flessibile di un avvoltoio. D'altra parte, rifletté Rachel, se i sombrecur fossero in qualche modo riusciti a conquistare il castello di Sabor, lei si sarebbe trovata in una nuova ramificazione del multiverso, alle prese con un futuro ancora più incerto. Dunque vincere la battaglia era stato positivo, cercò di dirsi. Quando il sole ebbe trascinato i suoi ultimi lunghi raggi sotto l'orizzonte, entrarono nel castello e trovarono Sabor ad aspettarli nella sala dell'obscura. Rachel fu sollevata nel notare che quello era il Sabor originale con cui avevano viaggiato nel tempo, anche se non avrebbe saputo spiegarne il perché. Dopotutto ogni versione di quel dio era la stessa persona, e lei non poteva provare risentimento e sospetti per uno di loro senza provarlo anche per gli altri. Il dio degli orologi prese una mappa portata da uno dei molti Garstone al lavoro lì. Sulle balconate si vedevano dozzine di assistenti indaffarati, e porte temporali venivano aperte e chiuse a tutti i livelli. Il rumore dei loro passi era, una volta tanto, più intenso del ticchettio degli orologi. «Il mio doppione è partito per un tempo precedente», disse Sabor, sprecando appena un brevissimo sguardo verso Mina. «I nostri amici della Costa Indomita sono a cena nelle cucine.» Rachel gettò uno sguardo interrogativo a Mina, che però fece finta di niente. La taumaturga aveva già detto a Sabor di aizzare il popolo dei sombrecur? Quell'inutile battaglia era destinata a essere combattuta ancora e poi ancora? 299
D'altra parte bisognava riconoscere che le sue macchinazioni avevano avuto un buon effetto su Hasp, che si mostrava energico e su di morale. Ancora impiastrato di fango da capo a piedi il dio sorrise e disse: «Bene, il 442 è stato un buon anno, ma ce ne restano molti altri da attraversare. Muoviamoci, prima che quel re bastardo provochi altri inconvenienti». Inconvenienti? Rachel aveva un vuoto allo stomaco, tuttavia fu d'accordo che dovevano muoversi alla svelta, se non altro per impedire che Mina costruisse qualche altra macchinosa complicazione. Sabor consultò la mappa e trovò una stanza che li avrebbe portati sei anni prima della battaglia appena combattuta. Molti dei suoi assistenti erano scesi e stavano uscendo dalla porta del castello, presumibilmente per lasciare spazio agli altri in attesa che ci fossero stanze temporali libere per le loro prossime attività, e il dio degli orologi li seguì con lo sguardo, annuendo soddisfatto. «Stai mettendo insieme il tuo esercito qui, Sabor?» osservò Hasp. «No», rispose Sabor. «Questa ha smesso di essere una procedura di moltiplicazione. Ora la definirei piuttosto 'un'operazione di salvataggio', visto che l'universo bastardo di Menoa continua a espandersi intorno a noi. Il Signore del Labirinto ha creato migliaia di diramazioni a partire dalla sua linea temporale, e molte stanze dell'Obscura adesso conducono in quegli universi deformati. Garstone ha avuto l'ordine di trovare quanti più doppioni di se stesso possibile, e portarli in questa linea temporale. Il loro compito è di convergere sull'anno zero lungo ogni percorso disponibile. Così, più ci avviciniamo alla nostra destinazione e più Garstone vedrai.» «Il tuo castello finirà per essere molto affollato.» «Proprio così.» Ma ben presto, mentre il numero degli assistenti di Sabor aumentava, fu evidente che un'altra forza agiva per impedirlo. Nella stanza temporale in cui entrarono per proseguire il viaggio trovarono altri tre cadaveri. Erano anch'essi doppioni, dimessamente vestiti, dello stesso ometto. Tutti erano stati uccisi con una lama larga, e la posizione delle ferite faceva supporre che fossero stati colpiti mentre cercavano di fuggire. Chiunque fosse stato, li aveva poi gettati l'uno sull'altro nel mezzo della stanza. Non appena fatta quella macabra scoperta, Rachel corse alla porta e guardò fuori. Davanti all'oblò passavano avanti e indietro file di Garstone, tutti all'apparenza inconsapevoli che qualcosa non andava. Mina frugò uno dei cadaveri e prese il suo cipollone da tasca. «È regola300
to su quelli della stanza. Quest'uomo è morto da poche ore, e sembra che il suo corpo non sia stato più mosso.» Gli orologi degli altri due Garstone erano anch'essi sincronizzati, e la deduzione che si poteva trarne era una sola: chi li aveva uccisi aveva agito in quello stesso universo, mentre migliaia di doppioni delle due vittime transitavano fuori della porta. Tuttavia una rapida consultazione coi Garstone di passaggio rivelò che nessuno aveva visto niente. L'assassino aveva agito inosservato. Sabor aveva la fronte profondamente aggrottata. «O questo killer è invisibile», disse ad alta voce ai suoi assistenti, affollati alle balaustre di tutte le balconate, «oppure qualcuno di voi mi ha tradito... e così facendo ha tradito tutti voi.» Dopo un momento di stupefatto silenzio, da ogni piano del castello si levarono negazioni e proteste indignate. Nessuno poteva concepire una cosa simile. L'assassino doveva essere stato un'ombra, o un fantasma, o un cambiaforma. Un cambiaforma? Rachel vide l'espressione di Hasp incupirsi a quelle novità. Se nel castello c'era un cambiaforma, significava che i mesmeristi avevano avuto accesso a quella linea temporale. E il futuro che loro si erano lasciati alle spalle poteva essere già stato cambiato. Sabor chiese il silenzio, poi con voce cupa ordinò di abbassare le luci e attivare la camera obscura. Mentre migliaia di facce identiche guardavano dalle balconate sopra di lui, il dio degli orologi passò in rassegna le immagini mostrate dalle lenti di ogni stanza. Un pallido sole arancione in un nebuloso cielo porporino... ossa alla deriva sul Lago dei Fiori... un grande edificio nero al centro di un villaggio sull'altra riva del lago, irto di camini da cui usciva fumo rosso... tenebre, con le stelle offuscate da fumi oleosi... la luce dell'alba che sorgeva su una pianura di cenere... macchine in attesa nel sottobosco in riva al lago... un solitario gigante in piedi come un dio, sotto un cielo tempestoso... Tutte le lenti, salvo quattro, rivelavano la presenza di universi avvelenati, linee temporali dove Menoa aveva corrotto il passato trasformandole in luoghi dove lui poteva dominare. Il Labirinto si era allargato nel mondo degli uomini prima che il Paradiso fosse stato sigillato. «Come può esserci riuscito?» domandò Rachel. «Ha preso il controllo dell'Obscura Redunda nel suo universo bastardo. Ora i mesmeristi si sono sparsi nei labirinti del tempo come un'epidemia, 301
trasportando il caos nel passato. Ogni volta che lui cambia la storia crea un universo nuovo, e così facendo aumenta la pressione esterna sul nostro. Forse questa linea temporale è già collassata alle nostre spalle. La realtà che noi abbiamo lasciato potrebbe già aver cessato di essere come la ricordiamo.» Il dio afferrò la mappa e gridò: «Muoviamoci!» Corsero da una stanza temporale all'altra, seguendo un percorso disperatamente complicato a ritroso nei labirinti del tempo. Sei mesi qua, tre giorni là. Due ore. Vent'anni. Un solitario balzo di due minuti e mezzo, e subito corsero fuori tra la ressa dei Garstone per non perdere la coincidenza che li avrebbe portati altri sette anni più indietro. Rachel era esausta, Hasp stringeva i denti mentre la sua epidermide-armatura brillava di un rosso acceso. Mina si stringeva al petto Basilis correndo dietro di loro sulle balconate. Perfino Dill sembrava più rarefatto, a causa di quel continuo sforzo. Su e giù per le scale. L'interno dell'Obscura era sempre più affollato di assistenti. Raggiunsero la coincidenza con appena un secondo d'anticipo. Due giorni e mezzo furono attraversati in un battito di cuore. Si affrettarono al piano di sopra, poi di nuovo giù, tuffandosi nel passato con feroce abbandono. Sabor annunciava gli anni mancanti: «... trecentocinquanta- cinque... duecentonovantasei... centoquarantadue...» Anno novantanove. E qui trovarono una stanza piena di cadaveri. Quaranta Garstone uccisi, le pareti dipinte con archi di sangue. «Non c'è tempo», gridò Sabor. «Non abbiamo il tempo di cercare l'assassino. Lasciate stare i morti e andiamo.» Anno ottantuno. L'Obscura Redunda brulicava di umanità, tutte versioni del piccolo individuo che caricava gli orologi. E altri ancora sciamavano fuori di ogni stanza, provenienti dagli innumerevoli universi occupati dal loro nemico invisibile. Vacillavano giù nell'atrio dell'Obscura, feriti, o ustionati, o morenti. L'aria era appesantita dal puzzo di sudore, di fumo e di sangue. Anno cinquanta. Stavolta quasi tutte le stanze erano piene di morti. La porta del castello era stata spalancata, e i Garstone uscivano a migliaia sul pianoro montano, in attesa del loro turno per riprendere il viaggio verso l'anno zero. Rachel udì un grido provenire dall'alto. Clangori di armi metalliche? Non poté fermarsi a indagare. 302
Anno diciotto. Ora gli assistenti di Sabor si camminavano addosso lottando nella folla dei loro stessi corpi per raggiungere le giuste porte temporali. Altri portavano in spalla dei se stessi feriti. Il fumo entrava nel castello da molte stanze e ribolliva su per la colonna centrale dell'Obscura per accumularsi sotto il soffitto. All'esterno si udirono urla, gemiti che fecero abbaiare Basilis, e qualcuno gridò: «Siamo assaliti... ci sono degli uomini là fuori». Non mesmeristi? Rachel si chiese se fosse buon segno oppure no. Forse la terra non era abbastanza impregnata di sangue per consentire il passaggio alle creature di re Menoa. Hasp interruppe i suoi pensieri afferrandola per un braccio. «Muoviamoci.» Anno zero. Silenzio. La porta temporale si era chiusa dietro di loro con un rumore secco, mentre si riunivano in un'altra di quelle stanze dal nome inutilmente pretenzioso. Non c'erano cadaveri lì, né fumo, né danni. La finestrella sul fondo mostrava un cielo azzurro senza nuvole. Dall'angolazione del sole Rachel giudicò che fosse mattino inoltrato, tuttavia l'aurora danzava ancora sull'orizzonte trascinandosi dietro veli rosati e verdolini. Si avvicinò per guardare meglio. Le Montagne del Tempio alzavano vette di luccicante ossidiana, riflettendo i colori del cielo da ognuna delle mille sfaccettature vetrose dei versanti. Chiazze di neve stagnavano sulle zone più elevate, ma giù nelle valli la luce del sole nutriva dolci paesaggi agresti. Ogni traccia della foresta era scomparsa, e i fianchi delle colline scendevano fino al lago con morbide curve coperte di fiori selvatici. Rachel non aveva mai visto un tappeto di fiori così folto e lussureggiante: ampie chiazze rosse e dorate si alternavano con altre bianche, rosa e indaco, qua e là tagliate da fasce d'ambra o di rame. L'effetto complessivo era così surclassante per l'occhio da far pensare che l'arcobaleno si fosse disteso sulla terra e vibrasse di vita. Quando fu Dill a fermarsi davanti all'oblò, i fiori brillarono attraverso il suo corpo. È bello, mormorò. Hasp lo raggiunse. «Non avrei mai pensato di rivedere ancora questo posto.» 303
«Ma non può essere naturale», osservò Rachel. «Perché qui non ci sono alberi? Perché non si vedono cespugli o erbacce?» «È il giardino di Ayen», spiegò Sabor. Stava guardando la porta con apprensione, come se cercasse di capire se qualcosa non andava. «Il castello è molto silenzioso.» «Non ci sono Garstone», rispose Mina. «Dovrebbero essercene migliaia radunati qui intorno. Milioni.» Poi però qualcosa si mosse oltre la finestrella del lato interno. La porta fu aperta e apparve uno degli assistenti. Era un Garstone di mezz'età, vestito con uno spiegazzato completo marrone. «Lieto di vedervi, signore», disse a Sabor. Lo invitò a uscire con un gesto. «Se volete venire con me...» «Dove sono gli altri?» «Le porte temporali sono tutte bloccate, signore... a parte questa, naturalmente. Prego, seguitemi giù nell'atrio dell'Obscura. Avete ospiti.» Le balconate erano deserte, e le porte chiuse da sbarre di ferro incrociate. Al pianterreno del castello li attendevano otto uomini. Il loro capo era molto più anziano di quello che Rachel ricordava, ma la cicatrice sulla sua fronte non era cambiata. «Oran.» «Ora pagherai per ciò che hai fatto», ringhiò l'individuo. Gli altri boscaioli, armati di accette e coltellacci, risero. Rachel ricordava le loro facce per averli visti alla locanda della Sega Rugginosa, ma non i loro nomi. Erano corpulenti e barbuti, vestiti con le loro armature di legno dipinto. «Come siete arrivati qui?» La risposta di Oran fu interrotta da Sabor. «Questi non sono gli uomini che tu conoscevi, signora Hael. È gente che viene da un'altra realtà.» Oran sbuffò. «Così dice anche il re degli arconiti, ma per me non ci sono differenze.» Si rivolse a Rachel. «Tu mi sei costata molto denaro. Io non ho consegnato quel gigante a re Menoa perché hai voluto giocarmi quello sporco scherzo. Ho viaggiato a lungo per ritrovarti e restituirti il favore. Ora sei nelle nostre mani, e vedremo se Menoa vorrà accettare la mia offerta.» «Non so di cosa stai parlando», disse Rachel. Lei non aveva dato a quella gente la paga su cui si erano accordati, ma ciò era tutto. Non aveva mai sospettato che Oran avesse progettato di consegnare Dill a Menoa, e in quale modo. 304
«Loro hanno detto che tu non avresti ricordato. Adesso verrai con noi al tempio. Il re è curioso di conoscerti, dopo tutti questi anni.» «Sì, è là che andremo», ringhiò Hasp. «Ma non con voi. Togliti di mezzo, pezzente, o quella spada te la farò ingoiare.» Dill fece un sorrisetto e si spostò accanto al dio. Oran si scurì in viso, innervosito, e gettò un'occhiata a Garstone. «Tu non farai del male a nessuno, e obbedirai agli ordini», disse l'assistente di Sabor. «Terrai chiusa la bocca finché non saremo al tempio di Ayen.» Hasp vacillò, gridando di dolore, e si portò le mani alla testa. Sabor fece un passo verso il suo assistente. «Dunque il cambiaforma sei tu», lo accusò. «No, signore», rispose Garstone. «Io sono umano, e lo sono sempre stato. Ma come mio fratello, qui, ho giurato fedeltà alla causa mesmerista. Il parassita di costui ci obbedisce perché ha riconosciuto in noi l'odore dell'Inferno.» Oran scoppiò a ridere. «E sa far bene il suo lavoro. Coraggio, Hasp, inginocchiati davanti ai tuoi superiori.» Vedendo che il dio non rispondeva, latrò: «Inginocchiati!» Il Signore della Prima Cittadella ringhiò nello sforzo di resistere al parassita di Menoa, poi cedette e cadde in ginocchio, con un terribile gemito. Dill si fece avanti, ma Rachel alzò una mano per fermarlo. Si scambiarono un'occhiata, e lei scosse impercettibilmente il capo. Aspetta finché non saremo al tempio. Garstone avvertì suo fratello: «Sii più specifico, Oran. Hasp non ti riconosce come suo superiore. Non avrebbe mai eseguito quella parte dell'ordine». Il boscaiolo grugnì. «Allora proveremo questo. Prendi la spada dell'assassina. Uccidila se fa resistenza.» Hasp balzò verso Rachel. «No!» lo fermò Garstone. «Prendile la spada, ma non ucciderla. Non uccidere nessuno, se a ordinarlo non è il Signore del Labirinto.» Si grattò la testa. «Ma, per favore, uccidi Sabor se cerca di volare via.» Poi annuì. «Sì, questo dovrebbe coprire ogni eventualità.» Rachel non si sentiva comunque incline a fare resistenza. Lasciò che Hasp le sfilasse la spada dal fodero. 305
Garstone fece un sospiro di sollievo. «Non giocare con lui, Oran. Re Menoa è stato esplicito nel chiederci di catturarli vivi.» «Quando hai deciso di metterti contro di me?» gli domandò Sabor. «Molto lontano nel futuro rispetto a oggi, signore.» «Soltanto tu? O tutti voi?» L'ometto sorrise. «Ogni giorno qualcuno in più, signore. Sono molto indaffarato a reclutare anche adesso, mentre stiamo parlando.» «Allora alcuni mi sono sempre fedeli?» «È difficile credere che un tempo io fossi così ingenuo, signore.» I boscaioli armati scortarono i cinque prigionieri fuori del castello e su per la montagna, nella morbida luce dell'aurora che riempiva l'atmosfera. Il sentiero che serpeggiava tra i neri spuntoni di ossidiana era ripido, impervio, e i tratti di scalini scavati nella roccia così consumati da far pensare a Rachel che quel tempio esistesse da molto più tempo di quanto aveva immaginato. Era sempre stato dedicato ad Ayen? La porta del suo regno era sempre rimasta aperta durante tutto quel tempo? Lei trovava quel pensiero terribile e insieme esilarante, perché se era così significava che il mondo degli uomini non era mai stato separato del tutto dal Paradiso. Le anime dei buoni avevano dunque avuto il permesso di oltrepassare quella soglia? I fulgidi veli di luce che balenavano tra quei picchi neri lasciavano intuire la presenza di un altro mondo, più grande e migliore. «Ciò che vediamo è una delle conseguenze della Guerra tra gli dèi», disse Mina. «Rocce bruciate, un cielo avvelenato, mari che sommergono le terre... Sabor e i suoi fratelli sono appena stati scacciati dal Paradiso. I loro se stessi originali sono da qualche parte là fuori, in questo momento.» «E quel Sabor non dovrebbe essere nel suo castello?» «Io c'ero», rispose il dio degli orologi. «A non esserci erano questi traditori. Niente di tutto ciò è successo nel mio universo.» «Allora i mesmeristi hanno cambiato tutto?» Lui annuì. «Da questo momento si ramificano nel futuro innumerevoli universi, e temo che ormai siano tutti negativi. La nostra linea temporale è stata sopraffatta dal caos degli universi bastardi di Menoa. Quando lui si è suicidato è finito all'Inferno, ma ha lasciato i suoi mesmeristi al controllo del mio castello. Così loro avranno accesso a tutte le linee temporali, finché questo continuum imbarbarito esisterà.» 306
Quando il calore del sole si fece più intenso, gli uomini di Oran cominciarono a imprecare e lamentarsi. Sabor aprì le ali, come per lasciare che le piume si nutrissero di quella radiazione. Le rocce erano così lisce e lucide che Rachel poteva vedersi riflessa in ogni superficie cui passavano accanto. Aveva già visto formazioni geologiche di quel genere nell'oscuro abisso sotto Deepgate, molto tempo addietro: lei e Dill si erano guardati come se fossero gli unici esseri umani rimasti al mondo. Sarebbe mai esistita la città incatenata, nel futuro che ora si preparava? E lei stessa sarebbe mai nata? O Carnival, o Dill? Il fantasma di Dill che ora le camminava accanto su quel sentiero di montagna era morto tremila anni prima della sua nascita: un evento che adesso avrebbe potuto non verificarsi mai. Lui intercettò il suo sguardo e sorrise. Sotto di loro si estendevano le terre di Herica e di Pandemeria, colli verdi e pianure tagliate da fiumi argentei, ma senza nessun luogo abitato, niente strade, niente da cui si potesse capire che un giorno lì sarebbero esistiti esseri umani. Superata un'ultima cresta furono alla sommità della montagna. E lì c'era il tempio di Ayen. Era una modesta costruzione di pietra grigia, non più grande di un casolare di campagna. Due colonne di granito rozzamente scolpite fiancheggiavano un piccolo ingresso ad arco che si apriva su un interno oscuro. Il tetto era in semplici lastre di roccia. «Tutto qui?» disse Mina. «Gli dèi e le loro armate, l'antica tecnologia... e il frutto di tutto ciò è questo?» «Perché Ayen avrebbe dovuto attirare l'attenzione su questo luogo? Una costruzione più grande avrebbe potuto essere vista da lontano», spiegò Sabor. Hasp stava guardando quel portale oscuro col terrore negli occhi. Stringeva l'impugnatura della spada con tale forza che Rachel si chiese cosa impedisse alla sua mano vitrea di andare in schegge. Dava l'impressione di voler gridare qualcosa, ma tutto ciò che scaturì dai suoi denti serrati allo spasimo fu un mugolio. «Entrate, prego.» Garstone indicò l'arcata. Il gruppo lo seguì in un piccolo atrio dal soffitto conico, irregolare, fatto con pietre a secco. Di fronte a loro c'era una seconda arcata, quella sbarrata da una rudimentale porta di assi sconnesse, tenute insieme in qualche modo 307
da una malconcia corda vegetale. Dalle fessure tra le assi filtrava la luce del giorno. Accanto alla porta attendeva Alteus Menoa. Era straordinariamente bello, con occhi d'ambra e lunghi capelli sciolti dai riflessi argentei. Aveva una mandibola forte, ben delineata, e zigomi alti. Non portava scarpe. Indossava soltanto una camicia a maniche corte sui pantaloni di lino bianco. Mina scambiò uno sguardo con Rachel. Stretto contro una sua caviglia, Basilis fece udire un ringhio. Il corpo di Dill sembrava più scuro, ma i suoi occhi erano rimasti fermi e tranquilli. «Fra poco uno di voi mi ucciderà», disse Menoa. «Ma io non vi porterò nessun rancore. Dimmi, Sabor, quante volte è accaduto questo momento?» «Anche l'ultima volta mi hai fatto questa domanda», rispose lui. «Scusami se ti annoio. Mi vuoi rispondere?» «Questa è la seconda volta, a quanto ne so io, Alteus.» «Ma ora è diverso, vero? Ora ho degli alleati qui. Uomini che vengono da un futuro mio.» «Da molti futuri.» «Allora la caduta è l'ultimo destino di tutti gli dèi?» Il suo sguardo si fermò un momento su Hasp, prima di tornare a Sabor. «Non vorrai dirmi...?» «Gli altri sono morti, Alteus. I tuoi fratellastri, Rys, Hafe, Mirith, Ulcis e Cospinol, tutti morti.» Menoa annuì. «Capisco. Quanto dev'essere noioso per te continuare a spiegarmi ogni cosa. Questi miei agenti rimossi dal loro tempo sono stati molto utili, ma mancano della profonda conoscenza dei fatti reali.» Il suo sguardo tornò su Hasp, che si trovava giusto alle spalle del dio degli orologi. «Uccidi Sabor», gli ordinò. «Aspetta!» Sabor alzò le braccia. Hasp gridò di protesta, ma il suo braccio si mosse e la spada scattò in un affondo inferto con terribile forza. Dill era balzato addosso a Hasp per entrare in lui, ma il suo corpo fantasma passò attraverso quello del dio della Prima Cittadella senza trovare resistenza. Stupito si voltò, e ciò che vide fu l'arma di Hasp sfondare la cotta di maglia di Sabor e penetrargli a fondo nella schiena. Il dio degli orologi barcollò avanti sotto quella spinta, mentre la maglia 308
metallica si arrossava di sangue. Pallidissimo si girò a mezzo verso il fratello dalla pelle di vetro. Anche il traditore, Garstone, appariva sconvolto. II colpo successivo di Hasp si abbatté sul collo di Sabor. Il dio degli orologi cadde. Menoa disse: «Ora ammazza la taumaturga». Rachel aveva aspettato quel momento per tremila anni. Focalizzò. Il mondo intorno a lei rallentò al punto che perfino la luce sembrava esitare, spingendosi pian piano contro le particelle di polvere intrappolate nei raggi che entravano dalle fessure della porta. Il suo cuore e i suoi polmoni si fermarono. Vide le sopracciglia di Mina alzarsi di una frazione di pollice, e lo sguardo febbrile di Hasp voltarsi verso la taumaturga. I peli sul collo di Basilis si stavano rizzando con lentezza, mentre le sue piccole fauci si torcevano in un ringhio. Come posso spostare Mina fuori pericolo senza rompere la sua pelle di vetro? Rachel considerò Hasp. Anche la sua pelle poteva essere rotta in un istante, ma così facendo lei avrebbe sacrificato la vita del dio per salvare quella della sua amica. O forse le conveniva mettere a rischio quella di Mina ma cercare di salvarli entrambi... Una goccia di bava colò dalle fauci di Basilis. Il piccolo demonio poteva agire abbastanza in fretta per salvare la sua padrona? Rachel non aveva la risposta, e non conosceva la taumaturgia abbastanza da fidarsene. Hasp stava sollevando la spada un pollice dopo l'altro. Meglio cominciare col disarmare lui, e dare agli altri il tempo di reagire. Forse Mina avrebbe potuto evocare un'altra delle sue foreste. Oppure Dill... Ma perché Dill non era riuscito a possedere Hasp? Perché Hasp era un dio? Perché aveva mangiato già molte anime durante la sua lunga vita? O perché la sua armatura mesmerista lo proteggeva da un attacco incorporeo? Anche quella era una cosa che Rachel ignorava. Ma sapeva di non poter contare sul suo amico. Fece due passi avanti e premette il palmo di una mano sul piatto della spada. Con l'altra mano cominciò ad aprire le dita che cingevano l'impugnatura. La stretta di Hasp era feroce. Se lei avesse fatto troppa pressione gli avrebbe spaccato un dito. Si prese il tempo necessario. Mentre il fendente di Hasp era nel punto più alto della parabola lei riu309
scì a liberare la spada. L'impugnatura sgusciò via dalle dita di vetro e fluttuò nell'aria. Ora Mina. Basilis si era rannicchiato per balzare avanti, e Mina stava cominciando solo allora a muoversi per cercare di evitare il colpo. Hasp non si era ancora accorto che la spada aveva lasciato la sua mano. Rachel si voltò e spinse Mina indietro, applicando solo quel minimo di forza che osava. A velocità normale, calcolò, quello sarebbe equivalso a un duro spintone. Si girò di nuovo verso Hasp. La spada aveva cominciato a girare su se stessa nell'aria. Rachel la prese con fermezza per l'impugnatura e la tirò verso di sé, attenta a non muoversi così in fretta da spaccarsi le ossa. La guidò accanto a un orecchio di Mina e la fece proseguire fino al collo di Oran, che stava dietro di lei. Una carotide del boscaiolo fu tranciata. Il sangue avrebbe cominciato a schizzare entro pochi istanti. Ma Rachel aveva in mente un'altra destinazione per la spada. Le restava ancora così poco tempo di focalizzazione che non osò aspettare oltre. Strinse entrambe le mani sull'elsa, guidandola sulla destra di Menoa e ancora più avanti, quindi la abbassò sulla fragile porta alle sue spalle. Le corde e le assi cedettero senza opporre nessuna resistenza. Pezzi della porta cominciarono a scivolare al suolo. Rachel si spinse attraverso quei frammenti sconnessi e uscì dall'altra parte, nel Paradiso. *** Anchor aveva portato tutti i clienti di Mr. D, un'intera città di costoro, ad affrontare il Signore del Labirinto. Gli edifici della città ospitavano dei demoni, e nella loro avanzata sulla superficie dell'Inferno stritolavano muri e argini di canali sotto le loro fondamenta, spaccando le bizzarre strutture costruite da Menoa e facendole urlare di dolore. In piedi sopra il lungo scafo metallico del sommergibile di Isla, il colosso della Costa Indomita guardava la scena sogghignando. Alice Harper aveva trovato da qualche parte una sedia a sdraio, e accanto a lui era occupata a esaminare la bottiglia dell'anima prelevata dallo scaffale di Mr. D, servendosi di uno dei suoi infernali strumenti mesmeristi. Dozzine di altre bottiglie consimili rotolavano avanti e indietro nell'interno di un armadio rovesciato, che avevano trovato fra i resti dell'emporio. Non si trattava di 310
spiriti raffinati come quelli delle perle animate, ma erano comunque molto meglio di niente. «Scoperto qualcosa?» le domandò Anchor. Lei fece un gesto non impegnativo. «È intatto, e sta sognando. Ma il mio problema è ancora quello di trovare un ospite adatto per lui.» «Quella è la Nona Cittadella?» volle sapere Isla, appoggiata al retro della sedia a sdraio di Alice. «È proprio grande, vero?» «Sì, credo che sia questa», rispose Anchor. «Menoa mi sembra il genere di dio cui piace l'ostentazione.» Isla storse il naso, disgustata. Tutto intorno al sommergibile rombavano i vascelli di altri demoni che un tempo raccoglievano anime per venderle a Mr. D. Alice aveva detto che si trattava delle più antiche e potenti creature mai individuate dalla sua strumentazione, benché guardandoli non si sarebbe mai detto: vecchietti magri e curvi, bambini spensierati, pallidi studiosi e matrone dall'espressione vacua. Non sembravano certo le creature più adatte per portare le loro navi alla guerra. Anchor aveva brontolato che il loro aiuto non gli serviva, ma Alice Harper aveva insistito. Erano abbastanza astuti per fare dei danni a chiunque, e Anchor non poteva negarlo. I clienti di Mr. D erano invece di tutt'altro genere. Si trattava di demoni ingrassati dopo anni di frequentazione del suo strano emporio, esseri che si portavano dietro i loro castelli così come gli uomini indossavano abiti: torri e cinte murarie, palazzi di marmo e vetro di ogni forma. Avevano costruito le loro pretenziose dimore come monumenti a se stessi, e ora le muovevano con la sola forza di volontà. Il terreno tremava al loro passaggio. Gli Icarate e i raccoglitori di anime fuggivano sfruttando ogni passaggio, ma molti di loro restavano bloccati in vicoli ciechi e venivano stritolati da quell'onda di pietra. Anchor si voltò verso Alice. «Mi sarebbe piaciuto aver visto il castello di Hasp. Era grande come quello laggiù?» «Ancora più grande, e più pericoloso», rispose l'ingegnere. «Fuggì più lontano di quanto chiunque avrebbe creduto possibile, poi scatenò quell'edificio contro i cacciatori di Menoa. Non avevo mai visto niente di simile.» «Ha!» Anchor prese un'altra bottiglia dall'armadio, la stappò e bevve il contenuto. L'anima contenuta nel liquido saziò subito il suo appetito e gli restituì il vigore fisico. Si sentì di nuovo forte. 311
«Non dovresti bere tanto», lo rimproverò Isla. «Lo so, bambina.» Lui gettò via la bottiglia. «Questa è porcheria.» Ma era una porcheria forte, e in quel momento era tutto ciò che gli importava. L'avanguardia dell'eterogeneo e bizzarro esercito abbatté un altro muro, e il vascello metallico affondò la prua in un quartiere pieno di costruzioni a forma di ziggurat. Lì gli Icarate avevano organizzato una linea di resistenza. Uomini in armatura di bronzo scagliarono lance contro i costrutti intrusi. Erano gladiatori, almeno all'apparenza, in parte di carne e in parte di metallo. Anchor aveva visto le arene dove i raccoglitori di anime andavano a rifornirsi. Un folto gruppo di costoro corse intorno alla Principessa in cerca di qualche punto debole, o un modo per scalare lo scafo liscio. Il sommergibile scivolò avanti, salendo sopra uno ziggurat e ricadendo giù dall'altra parte con un gran tonfo. La sedia a sdraio di Alice rischiò di capovolgersi, ma lei si aggrappò all'armadio e riuscì a tenerla diritta. Anchor prese Isla per mano. «Non stavo rischiando di cadere», disse lei. «Tu no, ma io sì.» Lei sorrise e gli strinse la mano più forte. «Prendi questo.» Alice Harper porse al colosso uno dei suoi attrezzi mesmeristi. «Ho adattato questo urlatore per sintonizzarsi sull'anima di Menoa. Lui cercherà di cambiarti, e ci riuscirà se tu non sarai più svelto. Dovrai sbrigarti ad attivare l'apparecchio. Dovrebbe distruggere la sua capacità di concentrazione, abbastanza da consentirti di avvicinarti a lui.» «Quanto tempo avrò?» «Non lo so. Appena qualche battito di cuore. Ma non lo sorprenderai una seconda volta.» Il suo sguardo si spostò sul cielo. «Ioliti, John.» Un grande stormo di lucertole di vetro scintillava nell'atmosfera rosso sangue. Erano quasi invisibili: uno sciame di oscillazioni - un momento prima come riflessi di luce su un fiume, subito dopo come polvere da cannone in fiamme - e Anchor sentì l'improvviso tintinnio delle loro ali. Più vicini di quello che sembravano... Anchor trasse Isla dietro di sé e afferrò l'artiglio di cristallo che uno degli Ioliti aveva allungato verso la sua testa. La lucertola volante stridette, e con un rumore vetroso sbatté le ali contro le spalle del colosso. Lui si fece 312
roteare la bestia intorno alla testa e la scaraventò in mezzo allo sciame delle altre. Scintille di luce schizzarono intorno e, benché lui non riuscisse a vedere bene nessuna di quelle creature, sentì lo schianto dello Iolite che colpiva gli altri. Sulla Principessa caddero frammenti di vetro. «John!» Un altro demone alato stava artigliando la bardatura sulla schiena del colosso. Il legno sussultò sotto i colpi d'artiglio, ma era un costrutto di volontà e non si sarebbe rotto finché lui fosse rimasto in vita nel suo interno. Isla emise un gemito di avvertimento. Subito dopo un ululato stridulo surclassò il tintinnio musicale delle ali degli Ioliti, seguito da uno scoppio così violento da comprimere l'aria nelle orecchie di Anchor. Alice Harper aveva azionato un altro apparecchio, identico a quello dato al compagno, e sopra di loro gli Ioliti andarono in pezzi. Piume di vetro schizzarono ovunque, offuscando la luce del sole rosso come una pioggia di sangue. «Il mio secondo urlatore», spiegò Alice. «Anche quello usa e getta?» «No, ma entrambi hanno bisogno di qualche momento per ricaricarsi. Vanno bene per gli Ioliti e altri costrutti, però non possono funzionare due volte di seguito su Menoa e i suoi Icarate. I sacerdoti rossi riescono a dare un ordine mentale che piega la volontà degli urlatori, e il risultato è che questi ultimi diventano infidi e rifiutano di collaborare.» «Cosa che non si può dire dei miei pugni», si vantò lui. Tuttavia s'infilò nella cintura l'urlatore che lei gli aveva consegnato, perché qualche momento di vantaggio sul Signore del Labirinto era meglio di niente. La loro avanzata fatta di schianti e di crolli li aveva intanto portati alla periferia di quello che ad Anchor parve il quartiere industriale, al centro del quale sorgeva la Nona Cittadella. Le costruzioni che incombevano sulla nave metallica di Isla erano possenti e squadrate. A destra e a sinistra il resto dell'esercito continuava a procedere rombando in una formazione ad arco che stritolava ogni ostacolo. Ma lì si scontrarono col grosso delle forze di Menoa. Gli Icarate e le creature fatte per la guerra attendevano nelle strade inondate, intorno alla fortezza. Migliaia di umani, bestie, fantasmi e macchine. E altre cose ancora... Nello stesso momento Alice vide le figure rosse: imitazioni degli impic313
cati di Cospinol e di angeli snelli. «Per gli dèi, John, questo non lo avevamo messo in conto. Cosa sta facendo qui il Fiume dei Difettosi?» «Difende suo padre.» Lui bevve un'altra anima, gettò via la bottiglia e batté le mani. «È quello che ci vuole per una buona battaglia, no?» «Faranno a pezzi questa nave.» Non aveva ancora finito di parlare che le creature del re attaccarono. Gli Icarate fecero schioccare le fruste e incitarono ad avanzare gli auroch e gli umani, le ombre e i demoni guerrieri. Gli accalappiacani annusarono l'aria e digrignarono i denti, ansiosi di essere sguinzagliati. I Non Morai, così vaporosi che li si poteva vedere solo non fissandoli direttamente, dovettero essere costretti a muoversi dai loro padroni, ma poi ulularono con frenesia. Gli uomini d'acqua vennero avanti più lenti, quasi letargici nei bassi canali del loro dio, muniti di armi rosse e artigli gocciolanti. Alice Harper mormorò ordini al suo urlatore. Anchor gridò selvaggiamente, poi prese la rincorsa sullo scafo della Principessa e balzò giù ad affrontare il nemico. Atterrò su una strada sommersa dal liquido che gli arrivava alle ginocchia, e che subito cercò di ostacolarlo con risucchi e gorghi. Furono i Non Morai ad arrivargli addosso per primi, da destra e da sinistra. Anchor vibrò pugni terribili verso i nemici urlanti, ma non potendo vederli colpì soltanto l'aria. Le ombre si tenevano indietro, alzando cori di risa maniacali. Quando lui le guardava direttamente esse svanivano, per riapparire ai margini della sua visuale. Snelli uomini alati dal rosso sorriso strinsero le loro gelide dita sulle sue braccia, mandandogli folgori di dolore in tutto il corpo. «Dannati bastardi», grugnì Anchor. «Siete come grosse vespe.» D'intuito colpì l'acqua con le mani per schizzare quegli esseri invisibili, e il denso liquido rosso rivelò le loro forme come pittura, consentendogli di attaccarli e colpirli con efficacia. Fatti a pezzi dalle sue mani i Non Morai indietreggiarono, privi di ogni volontà di affrontarlo ancora. Accorgersi che i suoi occhi li vedevano bastò a farli fuggire, terrorizzati. Gli accalappiacani furono più difficili da respingere. Sei di quei diavoli senza pelle galopparono avanti lungo il canale sbattendo le fauci e avidi di azzannare il colosso umano. Ma erano esseri di solida carne, o di ciò che lì passava per carne, e Anchor sapeva come trattarli. Sollevò il primo per il collo, gli spezzò la schiena e scaraventò il corpo oltre il muro più vicino. Un altro gli balzò addosso, ma incontrò il suo pugno e cadde nel fiume col cranio spaccato. Il terzo e il quarto cercarono di morderlo e lui li sbudellò 314
entrambi a mani nude. Gli altri due si voltarono e fuggirono prima di fare la stessa fine. Un auroch corazzato lo caricò con rumore di tuono, mostruoso e cornuto come il dio di tutti i tori. Anchor si piegò in avanti a braccia spalancate, e affrontò quella carica con la sua, gettandosi a testa bassa contro l'auroch. L'impatto lo fece indietreggiare di tre passi, ringhiando, ma ora aveva le braccia strette intorno a quel collo poderoso. Rafforzò la presa e sollevò il bestione sopra la sua testa, poi lo rovesciò al suolo dietro di sé. L'auroch sollevò alti schizzi dall'acqua sanguigna, poi rimase lì a sbuffare, agitando le zampe spezzate nel vano tentativo di rialzarsi. Anchor si voltò a guardare cos'altro stesse arrivando. Fino a quel momento gli Icarate avevano tenuto indietro i loro schiavi umani e le macchine, con la chiara intenzione di mandare contro il colosso tutto ciò che avevano. Ora invece cambiarono idea, e lasciarono che ad attaccarlo fosse il Fiume dei Difettosi. L'entità liquida aveva adottato molte forme umanoidi assai simili ad angeli armati di spada, lezione quella imparata affrontando Carnival, e per la prima volta Anchor cominciò a preoccuparsi. Sapeva di non poter sconfiggere quell'avversario, e non era sicuro che avrebbe reagito a un suo ordine come qualche tempo prima. Si voltò verso il sommergibile e gridò ad Alice: «Tu hai qualcosa per fermare questa dannata cosa?» «Tutto ciò che posso fare probabilmente la irriterà ancora di più.» Anchor fronteggiò gli uomini del fiume che avanzavano verso di lui, e gridò: «Fermatevi là! Restate dove siete, o vi farò neri di botte». I Difettosi non rallentarono neppure il passo. Anchor indietreggiò, guardandosi intorno in cerca di un modo per evitarli. Sentì il rumore della nave di Isla rallentare fino a fermarsi dietro di lui. E poi qualcosa nel cielo attrasse il suo sguardo. Un'ombra volante. Carnival atterrò con un tonfo duro nel canale tra Anchor e i Difettosi in avvicinamento, facendo schizzare l'acqua sanguigna. Chiuse le ali e si raddrizzò. Fu allora che i Difettosi si fermarono. Lei li guardò per un lungo momento senza parlare, poi disse: «Tornate indietro». 315
Le rosse figure esitarono. Lei fece un passo avanti e sbottò: «Oppure restate». Anchor sentì il fiume scorrere via intorno ai suoi polpacci e ritirarsi verso la Cittadella del re. La superficie gorgogliò e spumeggiò ovunque mentre centinaia di guerrieri crollavano a mescolarsi nel liquido sotto di loro. Poi un'onda si sollevò nella strada lasciando scoperto il terreno dinanzi all'angelo sfregiato. Crescendo sempre più mentre si ritirava l'onda s'innalzò sopra le teste degli Icarate e dei loro schiavi umani. Carnival si mosse verso di loro. E i sacerdoti di Menoa volsero le spalle e fuggirono. *** La vetta della montagna sull'altro lato del tempio di Ayen non era quella che Rachel aveva lasciato dietro di sé. Il pianoro di roccia nera sembrava identico, e così anche la rustica costruzione alle sue spalle, ma ora un mare di nebbia nascondeva le valli mentre il cielo sopra gli alti picchi ribolliva di fiamme. Lampi di un viola maligno striato d'argento si allungavano in lente onde da un orizzonte all'altro, sullo sfondo di un vuoto nero e senza stelle. Lei si stava ancora muovendo a velocità innaturale, così non riuscì subito a capire la natura di quel fuoco ultraterreno. Ma i battiti del suo cuore sarebbero tornati normali in breve tempo. Al centro del pianoro una vecchia rinsecchita che indossava un sudicio abito in tela di sacco sedeva su uno sgabello a tre gambe. I suoi occhi infossati fissavano la nuova venuta con intensità. Rachel le si avvicinò a passi misurati, consapevole della tensione che stava imponendo ai suoi muscoli, ma disperatamente decisa a mantenere il più a lungo possibile la stazione eretta. Aveva ancora qualche secondo prima che il tempo rallentasse alla velocità consueta. La vecchia alzò una mano. «Non devi accelerare. Non intendo permettere trucchi umani. Non qui.» Impossibile. La donna non poteva aver parlato a quella velocità. Che la focalizzazione si fosse già conclusa? Allora perché lei era ancora in piedi? Rachel ascoltò i suoi battiti di cuore e non sentì niente. Aprì la bocca. «Ayen?» La sua voce suonava normale. «Credi davvero che potresti uccidere me?» Dietro di lei ci fu un rumore. Si voltò e vide Hasp uscire dalla porta del 316
tempio. Con gli occhi che mandavano fiamme, il dio si precipitò verso di lei. Rachel cercò di focalizzare, e non ci riuscì. «Aspetta», disse Ayen. Hasp si fermò. Gli mancavano tre passi per raggiungere Rachel. Guardò la dea con occhi simili a ferite in una vitrea maschera di sangue. «Un parassita nella tua testa?» osservò la dea. «Che bizzarria. Potrei estinguerlo, se tu volessi.» Le sue labbra grinzose si separarono rivelando denti gialli. «Devo farlo, demone?» Rachel attese la risposta di Hasp, che tacque. Ayen si alzò e guardò lei. «Il demone non può parlare?» «Lui non è un demone», disse Rachel. «Perché altrimenti Iril mi nasconderebbe la sua mente, se non per nascondere le sue intenzioni omicide?» «Lui è...» Il cielo fiammeggiò di furia improvvisa. Ayen gridò: «Lui è un demone e un assassino, e io sento l'odore del Labirinto nella sua carne». «No.» Il fuoco raggiunse il vuoto nero, inondando le montagne di vampe multicolori. La dea chiuse gli occhi e urlò, alzando le mani come per scacciare i due intrusi. «Tu sai chi è», disse Rachel. «Io non lo conosco.» Un'altra voce, più calma, parlò alle spalle di Hasp. «Madre?» Fuori della porta del tempio c'era Alteus Menoa. «Alteus?» Ayen riaprì gli occhi. «Torna a dormire, madre.» «Porta via questa gente, Alteus.» «Tu sai chi è lui», insisté Rachel. «La sua mente ti è nascosta, ma la mia no. Tu sai chi è.» Le fiamme nel cielo si placarono. Ayen sedette sullo sgabello e si guardò le mani a lungo. Infine disse: «Quanto è vecchio il mondo, ora?» Menoa esitò. «Il mondo è ancora giovane, madre.» «No», rispose lei con calma. «Dimmi la verità, Alteus. Io ho aspettato qui per un miliardo di anni, e ora ogni anima del Paradiso è morta.» Il suo tono si fece luttuoso. «Non lo vedi, questo?» «Torna a dormire, madre.» «Io non voglio aspettare ancora un'eternità.» 317
Menoa s'incamminò verso di lei. «Non è trascorso del tempo da quando tu hai ripulito il Paradiso. Non un solo giorno. Tu sei soltanto confusa. Torna a dormire, e io chiuderò la porta dietro di te.» «Non è trascorso del tempo?» Hasp disse: «Tu hai espulso il tempo dal Paradiso insieme con tutti noi. Ulcis... Cospinol... Rys... Sabor... Mirith... Hafe... e io». Lei lo guardò. «Hasp?» Lui annuì. Menoa cinse con un braccio le spalle della vecchia. «Ora io devo andare, madre. Il tempo...» «Il tempo?» disse lei, con voce dura. «Il tempo non esiste qui, Alteus. Io aspetto da sempre il vostro ritorno. Ho visto il Paradiso inaridirsi e morire. Io...» «Aspetta ancora un poco.» «No.» La dea scrollò via il suo braccio e si alzò. «Non posso aspettare più. Tu non sai cosa significa trascorrere l'eternità da sola... con tutti questi dolori e questi rimpianti.» «Rimpianti?» disse Menoa. «Loro ti hanno tradito.» «Io li perdono.» «No, madre.» «Io li perdono, Alteus. Non voglio più stare qui da sola.» Fece per incamminarsi, ma vacillò e quasi cadde. Rachel corse a sorreggerla. La dea era leggera come una piuma tra le sue braccia. Le dita sottili della vecchia tremarono sul braccio dell'assassina. Alzò occhi pieni di lacrime verso quelli di Rachel. «Tu mi aiuterai a uscire?» la supplicò. Rachel le passò un braccio intorno alle spalle. «Naturalmente, ti aiuterò.» La dea della luce e della vita tirò su col naso. Poi guardò di nuovo Hasp. «Ho estinto quel tuo stupido parassita, figlio mio», gli disse, dopo qualche istante. «E ora, andiamo a vedere cos'è diventato il mondo.» *** Rebecca si svegliò con la sensazione di essere di nuovo in un brutto guaio. I raggi del sole fiottavano dalla piccola finestra sporca della sua cel318
la. Ci volle qualche momento perché i suoi occhi appiccicosi mettessero a fuoco i resti del vetro. Su di esso era dipinta la bella veduta di un campo fiorito, prima che lei lo spaccasse. La polvere ora danzava davanti a quei resti di colore, passando dal rosa all'azzurro all'oro. Si alzò dal letto con uno sbadiglio e aprì e chiuse le ali. Il secchio dell'acqua era accanto al mucchietto dei suoi indumenti spiegazzati. Raccolse la giacca di pelle, i pantaloni, aprì con un calcio la porta del terrazzo e uscì. Un pomeriggio afoso. Le mattonelle erano calde sotto i suoi piedi nudi. Strinse le mani sulla ringhiera di ferro e girò lo sguardo sulla città incatenata. Si alzava fumo dalle macerie di Bridgeview, dove le incendiarie di Deepgate erano ancora al lavoro. Doveva esserci un cadavere laggiù, ne era sicura, bruciato per nascondere il modo in cui era stato ucciso. Non che i presbiteri della Chiesa di Ulcis avrebbero fatto molto per indagare sul delitto. Quelli sapevano molto più di quanto volessero ammettere. Le case di città si affastellavano tra le catene a Lilley e a Ivygarths, con le loro bianche facciate ombreggiate dagli alberi. Più lontano c'era la zona industriale, che circondava i quartieri più ricchi come un collare fumante, tutta ciminiere e tetti d'ardesia. Quel giorno, sembrava esserci una certa calma alla Lega dei Cordai, piena di squarci e buche e ancor più malridotta del solito. I razziatori non si erano neppure preoccupati di riparare i danni fatti nei mesi precedenti. Sul pianerottolo fuori della cella si avvicinò uno scalpiccio, e una mano bussò con forza alla porta che dava sulle scale. «Rebecca? Sei sveglia? Sai che giorno è oggi?» Era uno dei sacerdoti, naturalmente. Continuavano a chiederle di fare una cosa o l'altra per la Chiesa. Rebecca salì sulla ringhiera, spalancò le ali e balzò via nel cielo azzurro, coi capelli neri che svolazzavano dietro di lei. Non sapeva che giorno era, ma non le importava affatto. *** La dea sbatté le palpebre nella luce abbagliante e guardò giù lungo il fianco della montagna, dove il castello di Sabor palpitava come un caleidoscopio. Dunque era là che lei aveva lasciato il tempo! Il Paradiso le era sembrato vuoto senza di esso. E solitario, anche. L'eternità trascorsa lì aveva creato quei concetti in lei. I suoi due ragazzi la condussero avanti sorreggendola per le braccia, e lei finse di non notare come si guardavano. Alteus era giovane, e i giovani erano suscettibili. Il 319
ragazzo avrebbe imparato, a suo tempo. In quanto a Hasp... Lei gli strinse dolcemente una mano di vetro. Hasp era sempre stato forte. Gli sguardi, dopotutto, erano soltanto sguardi, ma la sofferenza era molto più difficile da curare. Ora lei aveva il tempo per capire come occuparsi di quello. Tutto poteva essere messo a posto col tempo, e l'assassina l'avrebbe aiutata, ne era sicura. Rachel Hael. Quel nome le stava a pennello. Quanto era strana quella gente! C'era il fantasma di un angelo, un bel ragazzo dall'aria risoluta anche se piuttosto immateriale nella luce del giorno. E un piccoletto dall'abito spiegazzato che sembrava stare in piedi a stento. I guerrieri armati non avevano neppure il coraggio di guardarla negli occhi. Poi c'era una ragazza con la pelle uguale a quella di Hasp, e un odioso cagnolino che le sembrava vagamente familiare. Il gruppo impiegò buona parte del mattino per scendere le rampe di scalini che portavano al castello di Sabor. Ayen si fermò spesso e sedette ad ammirare il panorama: il lago argenteo e più oltre la pianura illuminata dal sole. I suoi bei fiori non erano cambiati affatto. Lei fece un gesto per chiamare il vento da quei prati lontani, e subito l'aria si riempì di un profumo ubertoso. Un po' troppo intenso, decise. Forse lì ci sarebbe stata meglio una foresta? Mentre si avvicinavano alla porta del castello disse: «Tanti universi, nati da un unico errore. Dobbiamo lasciarli morire di morte naturale, naturalmente. Nel continuum c'è spazio per la sopravvivenza di uno solo». «Questo?» «Se vi piace.» Rachel alzò lo sguardo al castello. «Quanto ci metteranno a morire le altre linee temporali?» Ayen si strinse nelle spalle. «Dipende dai danni che hanno subito. Molti s'inaridiranno in fretta, ma altri potrebbero sopravvivere per millenni.» «Dunque tutto può ancora accadere, in quegli altri mondi?» «Per un poco, almeno.»
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EPILOGO
Alice Harper udiva le ruggenti risate di Anchor in fondo al salone, nonostante il chiasso degli avventori. Ormai si trovavano lì da tre o quattro mesi, secondo i suoi calcoli, ma lo scorrere del tempo era difficile da giudicare all'Inferno. Aveva appena ordinato un altro boccale quando una voce più forte la fece voltare verso la porta. «Ne abbiamo trovato un altro!» Sulla soglia della taverna c'era un ometto magro, con una barba di tre giorni. Alice lo riconobbe come il comandante di uno dei sommergibili che avevano partecipato alla battaglia della Nona Cittadella, ma non ne ricordava il nome. Gli avventori tutto intorno a lei si accalcarono verso la porta nella fretta di andare fuori, ma, prima di seguirli, l'ingegnere attese che fosse arrivata la sua birra. All'esterno, una larga terrazza sovrastava il panorama del Labirinto. L'edificio della taverna stava ancora scivolando avanti sopra una vasta zona che loro avevano cominciato a chiamare «la Scacchiera», per via del regolare allineamento di terreni quadrangolari. I muri perimetrali continuavano a crollare, sgretolati dalle fondamenta dell'edificio che si spostava da un quadrato all'altro lasciando un territorio appiattito nella sua scia. Una nebbia sanguigna, a mezza lega di distanza, celava alla vista le rovine del tempio degli Icarate. I clienti della taverna erano andati a riunirsi su un lato della terrazza e discutevano animatamente tra loro, ma Alice non riuscì a capire subito cosa stavano guardando e perché fossero così eccitati. Di recente avevano salvato i più strani tipi di profughi, tirandoli su dalla superficie dell'Inferno: esseri umani, demoni, angeli, fantasmi e macchine. Il barista, Tooks, e il suo nuovo apprendista dalle dita artigliate avevano organizzato tra i clienti una lotteria basata sul genere d'individui che avrebbero recuperato, ma lei non si era mai presa il disturbo di partecipare. Non ci teneva a vincere gli oggetti che loro mettevano nel pentolone delle scommesse. Stavolta si trattava soltanto di un uomo. La gente gli fece un po' di spazio quando si fu arrampicato sulla terrazza. Dall'armatura di bronzo che gli proteggeva il torace lei immaginò che fosse uno dei gladiatori fuggiti dalle arene dei raccoglitori di anime dopo la caduta della grande fortezza di Me321
noa. Aveva un fisico asciutto, muscoloso, e penetranti occhi azzurri. Uno degli avventori gli diede una pacca sulle spalle e lo condusse verso il bancone del bar, mentre gli altri continuavano a discutere su quello che ciascuno aveva vinto. Alice Harper tornò dentro. Il gladiatore era seduto su uno sgabello, al banco di mescita. Lei lo oltrepassò e gli si sedette accanto. Lui voltò la testa a guardarla, si grattò la barba e tornò a osservare le bottiglie sullo scaffale. «Posso offrirti da bere?» domandò lei. «Pagami un bicchiere di quella roba scura.» L'uomo indicò una caraffa della birra scadente che Tooks faceva tritando e bollendo le macerie del Labirinto. Chi la beveva poteva perdere la ragione. «Quella è porcheria», disse Alice Harper. «Ho io qualcosa che fa per te.» Tolse una bottiglia da una tasca interna della camicetta e la posò sul bancone del bar. «Che cos'è?» domandò l'uomo. Lei sorrise. «Questa è roba buona.»
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